How to save a life

di ehyjude
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Make the clock reverse. ***
Capitolo 2: *** Oh, sugar. ***
Capitolo 3: *** I can't do this. ***



Capitolo 1
*** Make the clock reverse. ***


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“Make the clock reverse.”


 
NY CITY, 30 OTTOBRE 2052.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo messo piede in soffitta. Probabilmente ci ero salito, per l’ultima volta, quando avevo traslocato, per collocare i cartoni della cristalleria che avrei utilizzato in situazioni alquanto improbabili. Avevo 65 anni, oramai, l’idea di organizzare pranzi sfarzosi con ventiquattro invitati, tavole imbandite e bicchieri di raffinato cristallo appartenevano ad un trascorso veramente molto lontano. Approfittando dell’assenza di mia figlia Esther e del suo grazioso figliolo dagli occhi color miele, che sicuramente non avrebbero apprezzato il fatto che gironzolassi per casa, salissi scalini, e compiessi ogni tipo di sforzi al posto di stare davanti alla TV come un pensionato qualunque, decisi di andare sul soppalco, magari per imbattermi in un cesto di palle da biliardo coperte dalla polvere. Tutte scoperte molto interessanti, insomma.
Ricordo che, nelle rare occasioni in cui ero riuscito a sgattaiolare lassù per riporvi qualcosa, la stanza mi era sembrata ogni volta diversa e sempre più ingombra, dei miei e degli oggetti che il precedente inquilino, più di quarant’anni prima, mi aveva lasciato in eredità. Presi cautamente il bastone, il mio fedele braccio, e mi sollevai dal divano di pelle panna, volgendo le spalle alla sala e dirigendomi a passo infermo verso il soggiorno. La porta ad arco era ampia, e immetteva su una camera tutto sommato spaziosa e ben organizzata: parte della stanza era ingombra da un tavolo abbastanza imponente in noce, con sedie bianche in pelle: sul fondo della camera, separata da una vetrata, c’era la zona cottura, con il piano in granito scuro, sgabellini che si reggevano su piedi sottili in metallo e un ricettario di cucina italiana che sembrava essere chiuso da chissà quanto tempo. C’era una piccola e stretta scala a chiocciola, vicino alla finestra, che saliva in cerchi sempre più vertiginosi verso una botola nascosta nel controsoffitto e mascherata dall’abile disposizione dei faretti. Con la mano destra, spinsi in alto, e, piano piano, affannato, riuscii ad issare il mio corpo sul parquet impolverato e roso dalle tarme di quel gigantesco ripostiglio.
Speravo non ci fossero topi, probabilmente il mio cuore non avrebbe retto alla vista di un ratto che scorrazzava per la soffitta, rosicchiando le carte e rifugiandosi tra le cataste di scatoloni e oggetti in disuso. “Umh.” Mormorai soddisfatto, con tono mite. Tirai il cordone attaccato alla botola e con un tonfo, mi ritrovai completamente solo, con i rumori del traffico della strada sottostante che giungevano ovattati in quel Purgatorio di luce e polvere.
La stanza era rettangolare,  poco estesa in profondità: su una della pareti più piccole vi era poggiato un cassettone alto circa due metri, decorato con fregi e ghirigori in oro: un attentato al buon gusto e alle mode architettoniche del momento. Uno dei cassetti era aperto, bloccato da una cornice d’argento. Il vetro era così impolverato ed incrinato che era impossibile definire se ci fosse ancora la foto o meno. Una serie di stracci consunti riempiva il resto dello spazio. Sulla parete opposta, appena vicino la finestra, c’erano delle stampe avvolte con uno spago ormai annerito. Fu proprio lì che iniziai a guardare: c’era un baule coperto di polvere. Mi avvicinai, cauto, con il bastone che poggiava sul legno, smorzando il rumore e lasciando delle tracce circolari sulla polvere. Con qualche difficoltà, incastrando il piede tra il cassettone e un pallone da calcio gonfio, riuscii a spingere in avanti quella pesantissima scatola laccata con la vernice rossa. Mi accovacciai, passandomi un fazzoletto di stoffa sulla fronte imperlata di sudore: soffiai sulla superficie di legno mentre mia figlia, da basso, chiamava il mio nome. Ma non avrebbe potuto trovarmi, io non le avrei certo risposto. Sul coperchio, c’erano incise poche parole. Due nomi adorni da un cuore. “Kurt e Blaine”: sembravano essere scalfite da un taglierino, in maniera abbastanza rude: feci scorrere il dito su quella parte di legno graffiata, poi la mano scivolò in automatico verso la serratura del baule.
Il tanfo di umidità e la puzza di vecchio e marcio, suggerivano che la scatola fosse stata chiusa per un lunghissimo periodo: era zeppa di quelle che, all’apparenza, sembravano cianfrusaglie: mi misi a rovistare, sentendomi un 65enne estraneo e invadente, che curiosava in un baule che conteneva le speranze giovanili di Kurt e Blaine. C’era un fascicolo dall’aria importante, racchiudeva una serie di fogli bianchi che associai a certificati medici: li misi da parte sul pavimento, proprio sotto il muro il cui intonaco cadeva in pezzi; nella scatola rossa c’erano cose molto più curiose ed interessanti di un paio di cartelle cliniche. C’era un DVD., ad esempio: “Vacanze in California-2012” c’era stilato con una grafia panciuta, che suggeriva l’immagine di un ragazzo goffo e sorridente; appena vicino c’erano tre rose, della quali rimanevano solo pochi  petali avvizziti fissati su bastoncini legnosi, legate da due corde di chitarra. C’era un’armonica a bocca, quasi arrugginita, una maglietta alquanto vistosa interamente coperta di pailettes grigio-argento; un profumo da uomo ormai fuori produzione, di quelli dolci e freschi al tempo stesso. C’era un guanto in lana, un braccialetto di legno ed un album di fotografie: lo aprii. Sulla prima pagina, con la stessa grafia panciuta dell’etichetta del DVD, c’era scritto: “A Kurt, dal suo amato Blaine”. Lo sfogliai: le prime pagine erano ricoperte di colla, come se le foto fossero state prima incollate e poi in seguito strappate; tutte le altre erano tinte da una sostanza rosso vino. Sangue. Come ci era finito del sangue su un album fotografico di due giovani ragazzi innamorati? Dove erano le altre foto?
La risposta sembrava emanare forse dal meno strano degli oggetti ritrovati in quel baule: un quaderno abbastanza doppio, che traboccava di fogli volanti, rilegati con un nastro di seta verde. “How you save my life” c’era scritto, con una calligrafia sottile e slanciata: una reinterpretazione di una canzone dei Fray in voga all’inzio degli anni 2000.
Mia figlia continuava a chiamare, dal soggiorno. Non le avrei risposto. Avrei rivissuto la storia attraverso quelle pagine di quel diario, abbandonato in una soffitta in uno dei quartieri meno chiassosi di New York. Quel quaderno, qualunque cosa contenesse, non era uno sfizio. Era il simbolo di qualcosa di importante: per colui che le aveva scritte, queste pagine rappresentavano la linfa della vita stessa. Slegai il nastrino verde, e davanti a me fu solo una cascata di pagine, zeppe di scritte. Un mulinello di parole su Kurt e Blaine al quale mi sarei aggrappato per un po’.




***
Mi chiamo Serena e vado per i sedici anni, attualmente frequento il liceo scientifico ma la scrittura rappresenta tutta la mia vita: è il mio primo assoluto tentativo di FF, l'ispirazione mi è venuta rielaborando un po' il trascorso di mia nonna. Spero vi piaccia: questo primo capitolo vi potrà sembrare tendenzialmente confuso, ma vi assicuro che poi, nel corso della storia, tutti i nodi verranno al pettine (e saranno sciolti! :P)
Per il resto, ringrazio anticipatamente coloro che leggerano i miei capitoli, commenteranno, criticheranno in maniera costruttiva e mi aiuteranno a crescere. Spero che questa storia vi possa piacere, e perchè no, vi emozioni anche. Un bacio! :*

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Capitolo 2
*** Oh, sugar. ***


“Oh, sugar.”
NY CITY, 5 MARZO 2012.
La sveglia suonava. Un’altra intensa giornata mi attendeva: con un gesto  brusco afferrai la sveglia, e, nel tentativo di metterla a tacere rimanendo comunque ancorato al mio materasso, la feci cadere a terra. Si spaccò con un fragore assordante e due pile ne vennero fuori rotolando: il quadrante rimase bloccato sulle 7:15. Mi rigirai in una posizione che ritenevo più comoda, scalciai il lenzuolo così che finisse ai piedi, e grugnii con gli occhi chiusi. Avrei dormito, per una volta tanto. Affanculo il lavoro. Affanculo le urla del capo. Affanculo gli studenti inferociti che si sarebbero dovuti accontentare, per l’intervallo, di ciò che era rimasto. Affanculo l’iperattività. Mi sarei concesso, almeno una volta, alla pigrizia. Dormire, dormire fino alle 7 della mattina dopo: russare ed eventualmente sognare i modelli di Abercrombie. Niente più, niente meno. Fancazzismo. Avrei dato il via alla ricerca di me stesso mentre dormivo: me lo riproponevo da mesi, probabilmente anni, ma sentivo che quel giorno sarebbe stata la giornata giusta. Farfugliai nel sonno piegando il ginocchio e facendo aderire meglio la guancia sulla stoffa del cuscino: Dio che pace, che tranquill…
La radio sveglia impostata sul telefono prese a trillare: era inutile, ero diventanto terribilmente prevedibile. Ogni sera impostavo cinque sveglie a tre minuti di distanza l’una dall’altra, fermamente convinto che, il mattino dopo, non sarei riuscito a mettere un piede fuori dal letto, se non con un immenso ritardo. Ero consapevole del fatto che ogni mattina mi destassi sempre più stanco e meno voglioso di andare a lavoro: del resto, ero un operaio. Lavoravo per la Fitz&Co, una nota impresa di New York, leader nella produzione e nel rifornimento di distributori. Sì, il mio compito era rifornire i distributori di patatine, m&m’s, e ogni sorta di schifezza; l’impresa colonizzava metà della Grande Mela: rifornivamo ospedali, licei, college, teatri e persino qualche cinema.
Non mi sarei mai immaginato, a ventiquattro anni, a trascorrere le mie giornate trascinando voluminosi pacchi di barrette ai cereali e salatini da impilare in uno stupido distributore automatico. Ma la vita non permette a tutti di diventare ricchi, famosi, o superstar: alla base della piramide c’è sempre qualcuno che si sbraccia e che fa un mestiere che non vorrebbe. Il mio vicino, per esempio, avrebbe voluto diventare avvocato civilista, e adesso invece si ritrova a distribuire volantini che pubblicizzano un fastfood di dubbia qualità. Va sempre a finire così. Ma non mi è andata così male, in fondo: guadagno abbastanza soldi per vivere una vita dignitosa, magari non abbastanza per metter su famiglia, ma posso ancora pagare l’affitto del mio trilocale, mangiare tutti i giorni e concedermi qualche sfizio. Come la mia nuova chitarra acustica, un nuovo, meraviglioso frutto dell’ingegneria spagnola: suonarla è un modo per mettermi in contatto con il Blaine più profondo e più vero: non quello che lavora alla Fitz, ma quello che avrebbe voluto sfondare nel mondo della musica. La mia chitarra appartiene al mondo del Blaine sognatore, quello che non considera niente un fallimento: appartiene al ragazzo sempre sorridente, a quegli occhi luminosi di miele; appartiene alla persona che prende tutto alla leggera ma non si dimentica di niente. Appartiene a tutto ciò che la società rifiuta: la mia chitarra è la chiave del mondo presso il quale mi rifugio poche ore. E’ un mondo ricavato da quello che gli altri definiscono “inutile”. Mi vestii lentamente, brontolando. Prima di rifugiarmi nella mia musica, però, un dolce momento a cui mi dedicavo, solitamente di sera, dovevo andare a lavoro.
Il cellulare suonò mentre mi abbottonavo i jeans, i più comodi, nonché i più aderenti disponibili nel mio guardaroba. Lanciai un’occhiata all’orario sullo schermo, maledicendo il quarto d’ora di ritardo che avevo creato.
“Blaine, Blaine, dove cazzo sei?” Richard, il capo del mio dipartimento, parlava furioso dal suo ufficio. Strabuzzai gli occhi mentre mi infilavo le converse e cercavo di allacciarle alla bene e meglio, il telefono bloccato tra la testa e la spalla.
“Sono… sono quasi alla metro. Cinque minuti e sono da te.” Evidentemente non ero così bravo a dire bugie, a quell’epoca: sentii Richard emettere uno sbuffo divertito dall’altra parte. “Sei incorreggibile, sei. Ti perdonerei solo se mi dicessi che hai passato la notte ad amoreggiare con una bella ragazza, ma conoscendoti, direi che il massimo che tu abbia potuto fare sia stato incantare davanti alla Tv una squadra poco popolare dell’Ohio, rimpiangendo il fatto di essere alto quanto un piffero, rinunciando così alla carriera di muscoloso play-maker…”
“Mi hai chiamato solo per ricordarmi quanto sia basso?”, proseguii, acido, la testa ancora inclinata, afferrando dal tavolo in soggiorno una busta di carta che conteneva il mio pranzo ed un voluminoso mazzo di chiavi.
“No, zucchero, ti volevo avvisare che per oggi si cambia programma. Devi andare a rifornire uno degli auditorium di Broadway. E sì, lo so che è a più di un’ora da casa tua…” aggiunse, non concedendomi così il tempo per ribattere “… Solitamente se ne occupa Greg, ma ha mandato la malattia solo stamane, a quanto pare è inciampato in uno dei trattori giocattolo di suo figlio Micheal e credo si sia spezzato la rotula. O il femore..” concluse in maniera incerta. “O comunque qualcosa di molto doloroso che t’invito a non provare. Comunque Blaine, ti aspettano tra una mezz’ora abbondante ai teatri di Broadway, quindi muoviti ad arrivare in centrale, prendere gli scatoloni e caricarli sul furgone. Buona giornata, zuccherino.”
Riagganciò, con una punta d’ironia nella voce: afferrai il cappotto, una sciarpa, e mi sbattei la porta alle spalle, infilando il telefono nella tasca posteriore dei jeans.
Broadway. Broadway. Mi sentivo ridicolo a pensare che avrei messo piede a Broadway di lì a qualche ora. A 19 anni mi era immaginato a lavorare lì come attore, cantante, factotum.. ma non come eventuale operaio. Avrei passato la mattinata a rifornire distributori nel tempio dell’arte, che cosa grandiosa.
Con un sorriso amaro scesi le scale, dirigendomi a passo svelto verso la mia frustrante vita da uomo del ceto medio.
 ***


 
Allora, prima di tutto vorrei ringraziare di cuore le persone che hanno inserito la storia da le seguite e ricordate! Spero che possiate aumentare sempre di più **
Anzi, spero che con questo nuovo capitolo sbuchi anche qualche piccola recensione: a proposito del capitolo. Questa ‘scena’ è tratta già dal diario che l’uomo ‘misterioso’ ha trovato su in cantina… Vi starete chiedendo dove sia Kurt, eh beh, tutto a tempo debito, gente! ;D
Penso che dal prossimo capitolo inizierete a farvi delle idee più precise..nel frattempo ribadisco quanto mi piacerebbe che qualcuno mi dicesse cosa pensa di questi primi capitoli… ^^
Un bacio,
-Serena.

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Capitolo 3
*** I can't do this. ***


“I can’t do this.”
NY CITY, 5 MARZO 2012.
 
Probabilmente mi sarei seppellito dalla vergogna pur di ammettere che il ragazzo con i jeans aderenti-un certo Blaine Anderson- con la passione per la musica, era a Broadway, trascinandosi dietro, al posto di una chitarra ed uno stuolo di fans, tre grossi scatoloni pieni per lo più di marshmellow scadenti e patatine al curry decisamente poco piccanti.
“Ciao, sono della Fitz&co, dovrei…” la mia testa spuntò da un lato, il resto del corpo coperto dagli scatoloni, caricati su un carrello che reggevo saldamente con le mani, come se dovesse scivolare via da un momento all’altro.
“Fitz&co, eh?” disse interrompendomi l’uomo seduto dietro al bancone di noce presso il quale mi ero fermato; alzò per un attimo i suoi occhi nocciola, indugiando con sguardo curioso sul mio volto. “Non ti ho mai visto prima.” Sorrise affabile, mentre  il viso si stendeva dando spazio ad un sorriso di cortesia, un po’ giallognolo e adorno da un paio di cespugliosi baffi grigi. Si grattò il mento con una smorfia curiosa. “Hai più l’aria del fotomodello, ad essere sincero. Buon per te, amico, hai scelto un lavoro serio. Non per niente, odio i modelli: passano tutta la vita a mangiare sedani sconditi e a posare nudi per i calendari Pirelli.” Mi diede una pacca sulla spalla, in un’eccessiva dimostrazione di approvazione e confidenza. Mi sentivo come se mio nonno mi stesse radiografando. “…Poi l’80% si sa, che son dell’altra sponda…” continuò, vago, con il sorriso compiaciuto dalla sua stessa battuta.
Pessima, squallida e tendenzialmente omofoba.
Arrossii leggermente, tossicchiai e indicai gli scatoloni, cercando di mettere su una frase logicamente e grammaticalmente corretta. Invano.
“Io, emh, ecco… credo, non mi potrebbe- la strada sa?”
L’uomo si accigliò, e con uno sbuffo, si apprestò a sfilarsi gli occhiali e a sporgersi oltre il bancone per indicare il corridoio. “Bene, vedi quel corridoio? Bene, la seconda porta a destra, ti immetterà in un altro atrio. E’ abbastanza affollato, credo stiano facendo i provini per una serie televisiva. Si chiama Glee, l’hai mai vista?Bene.” non aspettò la mia risposta: il suo continuo ripetere di ‘bene’ mi stava snervando. Avevo visto la prima serie di Glee di sfuggita, quando in Tv, di sera, non trasmettevano altro. C’era un attore decisamente carino: interpretava la parte di Grant, uno stupendo studente dagli occhi verdi e lingua biforcuta: mia nipote Allie, la figlia di Cooper, mio fratello maggiore,  aveva un paio di suoi poster in camera, e ad ogni mia visita, mi costringeva all’ascolto di lunghi monologhi secondo i quali Sebastian Smythe “è-un-attore-da-oscar-peccato-che-sia-gay-ma-in-tal-caso-sarebbe-perfetto-per-lo-zio-Blaine-a-cui-la-‘patata’-non-è-mai-piaciuta.”

Il signore dagli occhi nocciola passò una mano davanti ai miei occhi, per ridestarmi dallo stato di trance in cui ero caduto, sorridendo appena. “Giovane? Dicevo, ci sarà più gente di quanta tu te ne aspetti, ma cerca il responsabile, Frank. Bene. Ha una divisa blu da operaio metalmeccanico- santo cielo, la porta dagli anni ’80- e ha la strana abitudine di credere di vivere in un’altra epoca: quindi probabilmente ti chiederà se tutta questa confusione sia dovuta all’arrivo della regina Vittoria, o se ti dovesse andare bene, di Freddy Mercury. Ad ogni modo,  dopo i convenevoli lui ti saprà-o almeno spero- indicare quali sono le macchinette da rifornire. Bene. Tutto chiaro?” Annuii, ancora spiazzato dalla descrizione alquanto particolare del personale impiegato negli auditori di Broadway.
“In gamba, uomo-scampato-alla-ruminazione-di-sedani!” Mi congedò, stirando la bocca in un altro dei suoi sorrisi compiaciuti e ritornando comodo sulla sua sedia in  pelle, dedicandosi alla lettura del suo quotidiano.
Mi incamminai svelto, seguendo le istruzioni che quell’uomo-alquanto bizzarro anche lui, c’era da ammettere- mi aveva dato: effettivamente l’atrio che mi era stato indicato era gremito di gente. Mi diedi un’occhiata intorno per constatare che era una sala abbastanza ampia, con file di sedie che costeggiavano i muri, ai quali erano appesi dei lunghi manifesti pubblicitari. Recavano tutti uno sfondo rosso, contro il quale era stagliata una sagoma bianca, con un punto interrogativo nero stampato sul petto. “Chi sarà il nuovo Cory?” recitava lo slogan sottostante, al quale era affiancato il marchio della serie televisiva e gli orari delle audizioni, divise in 4 giorni differenti.
Cielo mi ritrovai a pensare, disarmato, quanti ragazzi si presenteranno ai provini? A quanti dovranno dire di no, anche se dotati di talento? Quanti fiaschi andranno alle selezioni finali, solo perché raccomandati? Nella sala c’erano almeno trecento persone pronte ad affrontare il primo turno mattutino. Ce ne sarebbero stati altri quattro durante tutta la giornata, poi, la stessa affluenza di persone si sarebbe ripresentata nei tre giorni seguenti. Secondo dei brevi calcoli, il nuovo, talentuosissimo Cory avrebbe dovuto battere almeno altre 3600 persone. Almeno.
Rabbrividii al solo pensiero di quanto fosse alta la concorrenza, mettendomi alla ricerca di Frank, il responsabile della sala. La gente convogliava verso una porta davanti alla quale erano sedute cinque persone, uno delle quali- potei notare con un sorriso- indossava un tutone blu alquanto sformato e sbiadito. Mi avvicinai, facendo ondeggiare paurosamente i cartoni sul carrello, e pestando i piedi alle centinaia di giovani accalcati e sovraeccitati. “Sono per i distributori, niente provino” mormoravo a quelli che mi rivolgevano occhiate stranite, come se fossi un attore che aveva inventato un nuovo stratagemma per passare davanti alla fila ed ottenere gli adesivi con i primi numeri che si sarebbero esibiti quel giorno. Ansante, e con l’unghia del mignolo dei piede decisamente maciullata, giunsi in cima alla fila.
“S-salve.” Esibii il badge della mia azienda “Sono della Fitz&co e dovrei parlare con Frank, che a quanto pare dovrebbe indicarmi cosa far…”
“…Baldo giovine!” Il signore dalla tuta blu si alzò dalla sedia, con uno scatto e mi prese sottobraccio. Evidentemente credeva di essere nel Medioevo, o qualcosa giù di lì. Le mie sopracciglia scattarono verso l’attaccatura dei capelli, il viso contorto in una smorfia a metà tra il divertito e lo scettico. Mi trascinò via dalla folla, per condurmi in una nicchia decisamente più tranquilla “Mio dottissimo menestrello dalle sopracciglia triangolari!”
Ok, non faceva decisamente ridere: le mie sopracciglia avevano una forma alquanto bizzarra, era da ammettere, ma l’idea di sfoltirle con una pinzetta mi aveva fatto mancare qualsiasi tipo di coraggio. Era stato più facile fare coming-out con la mia famiglia riguardo al mio orientamento sessuale, che utilizzare la ceretta.
Arrossii di botto, ma Frank parve non essersi accorto della sua totale ed inappropriata mancanza di tatto: mi mostrò con un gesto teatrale sette distributori completamente vuoti, mi fece l’occhiolino e sussurrò: “Queste sono le macchine dell’inferno, mio giovane prode. Buon lavoro!”
Si allontanò con tono mistico e la camminata da fatina sculettante sulle uova.
 
 
Rifornire i distributori, quella mattina, si stava rivelando come una delle imprese più difficili ed epocali della storia: nonostante intimassi a chiunque di non avvicinarsi prima che il mio lavoro fosse terminato, tutti si fiondavano sulle macchinette ricaricate, svuotandole di merce in meno di cinque minuti. Rifornirle si era trasformato in un cerchio senza fine.
Sbuffai, mentre un ragazzo dagli occhi azzurri e la pelle caramellata si allontanava stringendo al petto una bustina di patatine. Infilai la testa nella macchinetta centrale, sporgendomi appena per impilare i Fonzies, quando iniziai distrattamente a cantare. Cantare era l’unico modo per tenermi allegro, e –in un certo senso- distratto dalle operazioni meccaniche che ripetevo ogni giorno. E zia Katy Perry mi avrebbe, come sempre, aiutato: era l’unica cantante, insieme a Pink, della quale sapevo tutti i testi e conoscevo tutte le melodie, accordi compresi. E mi sarei indubbiamente dato fuoco pur di assistere ad un suo concerto, in primissima fila.
You make me 
Feel like I'm living a 
Teenage dream 
The way you turn me on 
I can't sleep 
Let's run away and 
Don't ever look back 
Don't ever look back 
My heart stops 
When you look at me 
Just one touch 
Now baby I believe 
This is re

 
“Peeerò” due voci- estremamente diverse- esclamarono all’unisono. Una era terribilmente sensuale, era un bisbiglio appena sussurrato, l’altra era squillante e fastidiosamente allegra: suggeriva l’immagine di un uomo dalla chioma sale e pepe con indosso una tuta sformata blu.
“Sentito che voce?” mormorò Frank a nessuno in particolare, con aria estasiata
“Beh, io mi riferivo a qualcosa di più equatoriale, oltre alla voce.” Bisbigliò l’altro con fare malizioso. Mi girai con un’espressione sconcertata, per fronteggiare un bellissimo ragazzo dagli occhi verdi intento a fissarmi le chiappe. Aveva un T-shirt aderente nera con al collo il pass riservato ai produttori delle selezioni, e stringeva nella mano destra una bottiglietta di acqua minerale.
Era Sebastian Smythe, l’attore dei poster di mia nipote. Era “l’uomo a cui non piaceva la patata come allo zio Blaine.” Era la voce da usignolo, la star non proclamata del telefilm. Era l’idolo di Allie. Ed era dannatamente sexy.
“Anche il davanti incanta” ammiccò come se niente fosse, poggiandosi meglio al muro e osservandomi dall’altra parte della nicchia; strinse per un attimo gli occhi, piegando la testa di lato. A grandi passi si avvicinò, all’improvviso, oltraggiosamente, mentre sentivo il suo profumo fresco invadermi le narici e indietreggiavo fino ad aderire con la schiena ad un dei distributori. I suoi occhi chiari sembravano radiografarmi, mentre si mordeva il labbro inferiore con piglio malizioso: fece aderire il suo corpo al mio, quasi fossero uno solo, poi, con due dita mi alzò il viso in modo da potermi scrutare meglio. “Tenta la parte” mi sussurrò semplicemente, mentre le sue dita mi sorreggevano forte il mento. La sua mano scivolò piano ad accarezzarmi il collo, i suoi occhi verdi ancora fissati dentro ai miei. Non riuscivo a muovermi, mentre sentivo il respiro farsi irregolare sotto il suo tocco. “Hai la voce…” mi disse con tono da tentatore. La sua mano scivolò sul torace “Hai il fisico…” disegnava cerchi stretti sul petto.
“Quanti ne avremo visti fino ad adesso? Duecento, o anche qualcosa in più: e io e Ryan non siamo convinti di nessuno. Sono tutti privi di ogni tipo di talento. Se ti proponi…beh, hai già il mio sì. Un voto positivo su tre giudici.” La sua mano sfiorò il mio ventre mentre continuava a sorridermi.
Non sapevo che dire, che fare: quel ragazzo mi spaventava –essere accarezzati da uno sconosciuto era un’esperienza rara- e mi lusingava, vista la quantità di avances ricevute nel giro di pochi minuti. Sorrisi mite, notando che, alle spalle di Sebastian, Frank aveva iniziato a parlare con una mosca posata sul suo braccio.
“Vede…” esordii piegando la testa di lato per non incontrare i suoi occhi.
“Ti prego, dammi del tu, Dio santo, nessuno mi ha mai dato del lei. Io sono Sebastian, comunque.” Sorrise appena.
“Blaine.” Mormorai. “Vedi, Sebastian, è che non credo di essere adatto per recitare in una serie televisiva di successo, considerando che ho una voce discreta, non so recitare e gli unici balli che abbia mai imparato sono quelli di gruppo. Tipo non so, a meno che non mi mettano a fare il ballo della casalinga non credo che potrei…”
Sebastian se n’era andato. Era entrato in una camera mediante una porta nascosta da un paravento, sbattendosi la porta alle spalle e ridendo..
“…Anche tu straparli?” Frank aveva smetto di discutere su Lady D con la mosca e mi fissava con gli occhi sgranati, come se avesse trovato la sua anima gemella.
 
***
Mi sentivo terribilmente, terribilmente in imbarazzo. Avevo un numero attaccato ad una delle mie T-shirt preferite, 38342. E con quel numero, di lì a pochi minuti, avrei varcato l’ingresso di quella camera dalla quale tutti entravano speranzosi ed uscivano con il broncio, maledicendo la rigidità di Ryan Murphy e dei suoi due collaboratori.
Presi a strapazzare il portachiavi a forma di caramella gommosa, abbandonandomi su una sedia di plastica. Era un orsetto bianco e arancione che strapazzavo in qualsiasi situazione complicata: era rovinato in più punti, segnato dalle unghiate, e in alcune parti la vernice arancione era stata grattata via. Dubitavo che mi portasse fortuna, ma si rivelava un buonissimo sfogo: scarico di tensione.
Mi alzai, feci due o tre passi. Stritolai la testa dell’orsetto fino a gonfiarla. Mi sedetti. Scattai in piedi di nuovo, grattando con le unghie la parte superiore dell’orecchio destro. Lanciai un’occhiata in giro, tradendo un certo stato d’ansia, e poi ricaddi con la grazia di un bradipo morto sulla seduta nera.
“Il prossimo!” la voce di Frank- ancora fastidiosamente entusiasta- mi giunse all’orecchio. E il prossimo era un certo 38342, il mio turno era arrivato decisamente troppo, troppo in fretta. Mentre mi alzavo lentamente, realizzai che non ce l’avrei mai potuta fare. Ed ero ancora più sconcertato, perché in un certo senso quel provino per me non avrebbe dovuto significare nulla: avrei dovuto ascoltare il rifiuto di vedermi entrare nel mondo dello spettacolo e sarei dovuto tornare a riempire di Coca Cola le macchinette senza rimorsi. Al massimo mettendo su un’espressione divertita, perché era stata una follia, tentare quella parte.
Eppure, in realtà, era una follia che m’interessava eccome. E se non avessi dato il massimo, se non fossi riuscito a passare al turno della selezione precedente, mi sarei sentito un ventiquattrenne fallito per il resto dei miei giorni.
Mi morsi il labbro mentre mi avvicinavo alla porta che suggellava il mio fallimento. Meglio desistere che vedere tre persone famose e talentuose ridere delle proprie incapacità.
“Frank, non ce la posso fare.”
“Andiamo, giovine! Ce l’hai nel sangue il talento. Sei un bravissimo attore, lo sanno tutti!”
“Frank, io non sono un attore”
L’uomo mi rivolse un sorriso paterno stringendomi la spalla con una mano.
“Ma cooome.” Bisbigliò “Ti ho visto in TV in quella serie poliziesca.”
Tirai un sospiro sconcertato: provino o no, dentro o fuori, appena uscito di lì avrei mandato una lettera anonima alla direzione di quel posto per assicurarmi che Frank fosse spedito nel manicomio più vicino. O che fosse tenuto sotto controllo dai sedativi. O che ispezionassero casa sua- sempre se ce l’aveva- alla ricerca di eroina.
Sorrisi sconsolato, pensando che, se tutto fosse andato disastrosamente, sarei finito in uno di quegli show dove Oprah Winfrey mostrava i “talenti incompresi” di tutto lo Stato. E sarei diventato famoso comunque, a modo mio.
“Ciao.” Salutai imbarazzato entrando nella camera, passandomi una mano dietro la nuca. C’era un grande tavolo in legno chiaro occupato da tre uomini. Al centro c’era Ryan Murphy, polo turchese e aria stanca, alla sua destra il supervisore artistico, sorriso di circostanza e aria interessata, e alla sinistra Sebastian, uno degli attori, che mi salutò con un occhiolino ed un grande sorriso.
“Sei…?” disse l’uomo alla sua destra, Ian Brennan,  recitava il pezzo di cartoncino poggiato sul bancone davanti a lui.
“Blaine Anderson, 24 anni. Sono di Lima ma vivo qui da quattro anni e mezzo. E NY è fantastica. “ mi lasciai sfuggire dopo aver snocciolato persino il mio codice fiscale ai presenti. Uno dei tre prese a decantare la città come fulcro del successo mentre il mio sguardo veniva catturato dal solito manifesto con la sagoma bianca, appeso alle spalle dei giudici. E se sul quel manifesto presto ci fosse stata stampata la mia faccia?Nah, impossibile.
Concessi un sorriso mite mentre il panico mi rodeva le budella: cercai con lo sguardo Sebastian, che annuì impercettibilmente. “Allora, cosa ci fai sentire?” chiese, ponendo fine allo sproloquio di Ryan Murphy su i locali irlandesi presenti in città.
Per un attimo guardai alla mia destra, in cerca di un aiuto inaspettato. Ed inesistente. Speravo che uno stuntman mi saltasse addosso e mi trascinasse via, strisciandomi sul pavimento.
“One and Only di Adele.” Biasiciai in fretta, mentre il direttore artistico alzava le sopracciglia compiaciuto.
You’ve been on my mind,
I grow fonder every day,
Lose myself in time,
Just thinking of your face,
God only knows why it’s taken me so long to let my doubts go,
You’re the only one that I want,

I don’t know why I’m scared,
I’ve been here before,
Every feeling, every word,
I’ve imagined it all,
You’ll never know if you never try,
To forgive your past and simply be mine

 
 
Al termine delle due strofe, Ryan Murphy applaudì di scatto, accigliato. Possibile che avesse trovato un promettente aspirante a quel posto in così –relativamente- poco tempo?
“Proprio un ragazzo da sposare” sentenziò Sebastian con un sorrisetto ambiguo, mentre si rilassava poggiando le spalle sullo schienale rosso della sua poltroncina.
“Che scuola hai frequentato?” chiesero. Avevo un chè di passionale, quando cantavo. E lo sapevo. Era come se le note mi entrassero dentro e le parole uscissero a fiotti dal cuore. Era come se mi mettessi a nudo, come se fossi trasparente. Come se fosse il mio unico giorno da vivere intensamente. Come se le note fossero ossigeno per il mio cervello, come se la musica fosse il sangue che scorresse nelle mie vene.
Gli spiegai che ero un autodidatta, che suonavo a quando avevo cinque anni sperando prima o poi di avere la possibilità –glissai sul piano economico-  di frequentare una vera e propria scuola di musica e canto.
Mi sorrisero miti e poi Ryan mi allungò un foglio bianco.”Il copione.” Spiegò alla mia muta richiesta di spiegazioni. “E’ una delle piccole parti più divertenti che dovrà interpretare Cory, quindi pensiamo che sia importante far provare agli aspiranti questo pezzo. So che alcuni di voi ci tengono a portare un brano già studiato da casa, ma preferiamo puntare sull’effetto sorpresa, anche per capire quanto sia alto il vostro livello di improvvisazione.” Si ridistese, tornando seduto, e piegò la testa di lato, la mano sotto il mento. “Quando vuoi.” Sentenziò.
Lessi velocemente il copione in preda al più totale panico: non ero un attore. Probabilmente avrei avuto difficoltà anche a metter su una qualsiasi scena con tre mesi di avviso, ma provarla così, e cercare di essere anche convincente… era qualcosa che non aveva messo in conto. Avvampai, sentendo una leggera sensazione di ansia che mi attanagliava lo stomaco, ma ehi, questo Cory fa le stesse cose che faccio io..
Dai, Blaine, non tutto è perduto.
Mi sedetti improvvisamente a terra, piegando le gambe al petto e incrociando i piedi: presi a dondolare avanti e dietro in maniera ritmica, sentendomi uno stupido che faceva l’imitazione di se stesso nei momenti peggiori. Presi a ridere come un pazzo, cercando di darmi un’aria convincente, finsi di ridere fino a quando il fatto che stessi ridendo come uno stupido spacciandomi per un ubriaco mi fece davvero ridere. E allora mi tenni la pancia e risi fino a quando i muscoli della faccia si contrassero e le prime lacrime scesero sulle guance. Rotolai su un fianco e mi misi una mano dietro la nuca: sbirciai il copione per capire quale fosse la battuta seguente. “Le steeeeeelle!” mormorai, vago, indicando il soffitto intonacato bianco con un’espressione vacua sul viso. Diedi un risolino, di quelli che solitamente faceva mia nonna, messa in imbarazzo davanti ad una dose di gossip del paese. “Leea!” mi girai verso il nulla, con un sorriso inebetito. “Le stell…Eh oh, oh, nooooon andiamo!” piagnucolai, come se quella ragazza del tutto invisibile stesse cercando di portarmi via.
“Voglio morir- hic- m-mori…” soffocai uno sbadiglio, mentre i tre giudici mi fissavano estasiati dal tavolo. Al direttore artistico brillavano gli occhi: lo presi come un complimento, e non come il fatto che potesse stare piangendo per la performance disastrosa. “VOOOOGLIO MORIIIIIRE QUIIII, SU QUESTO MARCIAPIEDE!” ululai infine, con quanto fiato avevo nei polmoni. Continuai a dondolarmi avanti ed indietro inframmentizzando ogni parola con una risata.
“…Basta così.” La voce del signor Murphy mi giunse chiara alle orecchie: mi sollevai preoccupato, pulendomi i pantaloni con dei colpi secchi della mano.
“Allora, Blaine…” esordii Sebastian “Ti ho trovato davvero molto bravo. Non ho altro da aggiungere, quindi per me è un sì. Sì, voglio vederti alla selezione finale. Sei stato indubbiamente il migliore fino ad ora.”
Sorrisi grato all’attore, ringraziandolo con un piccolo cenno della testa. Ero immensamente felice: non credevo di aver fatto così schifo, ed in più, almeno Sebastian, aveva mantenuto la sua promessa. Un sì sicuro. Non sapevo se andarne fiero o meno, visto il modo con cui l’avevo conquistato. Mi girai nervoso verso gli altri due.
Mr- Brennan, strizzò gli occhi. “Beh.” Esordii a voce bassa. “Indubbiamente, soprattutto nella parte recitativa c’è stato qualche problemino, la tua dizione non è il massimo e dovresti migliorare un po’ certe espressioni del corpo. Magari hai bisogno di qualche correzione prima di poter interagire con una telecamera.”
Il cuore perse un battito. Il direttore artistico stava forse cercando di dire in maniera gentile che aveva fatto schifo?
“…Tutto sommato” s’inserì Ryan Murphy, giocando con la biro che aveva in mano, evitando di guardarmi con cura. “Sei stato molto divertente. Hai un chè, Blaine. Che non ho mai saputo cosa significhi, ma hai un chè.” (*!) Sorrise impercettibilmente e alzò lo sguardo. “Per me sei nella squadra dei finalisti.”
 
Non ci potevo credere. Assolutamente, assolutamente, semplicemente non era possibile. Era chiedere troppo. Era stata tutta una botta di fortuna. Era perché mi ero ricordato-stranamente- tutto il testo di una canzone che non fosse né di Pink né di Katy Perry. Era perché, fortunatamente, avevo eseguito tutto senza sbavature. E sempre fortunatamente, quella scena di Cory era più simile alla mia realtà di quanto mi potessi mai immaginare. Strinsi le mani ai presenti, ancora incredulo, poi schizzai fuori dalla porta.
“Allora?” mi chiese Frank, con un tono che tradiva quanto fossero alte le sue aspettative.
“SONO NEI FINALISTI FRRAAAAAAAANK” ululai gioioso, saltando addosso all’uomo e cingendogli la vita con le gambe. No, non avrei mai chiamato i Servizi Sociali. Frank era terribilmente perfetto così. Con i suoi lunatici modi di fare e le sue tutine da metalmeccanico. Ed ero terribilmente felice. Così felice che afferrai il telefono, quasi aspettando di ricevere un messaggio di congratulazioni.
Peccato che non avrei potuto condividere l’emozione del momento con qualcuno.

 
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Wowoooooooo, gente! Vi sarete mica dimenticati di me?
Prima di tutto chiedo umilissimevolmente scusa per l’immenso ritardo nell’aggiornamento, ma ho la connessione a tratti, sono in vacanza e ho avuto parecchio da fare!
Allora, inizio col ringraziare le undici persone che mi seguono, ma spero –e spero non invano- che qualcuno recensisca. Pleeease! *fa occhioni dolci*
C’è un accenno di Seblaine, ma tranquille Klainers, la loro non sarà mai una storia d’amore! Kurt e Blaine tuuutta la vita!
(*!) Dal film School of rock, uno dei miei preferiti.
Detto questo, faccio qualche chiarimento sul capitolo. E’ un Glee coi personaggi del Glee, come abbiamo visto Cory (e anche Lea, pensandoci) è un nome tratto da uno degli attori veri, anche se è un personaggio completamente diverso da quello della vita reale! Spero di essere stata chiara!
E sperando che arrivi qualche ‘seguita’ in più e le primissime recensioni, vi lascio!
-Sere-
 
DLINDLOOOON. Lo sapevate che ho in programma un’altra FF?Si chiama Play a love game. E sì, mi piacerebbe se deste un’occhiata! ;D

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