Quello che vedono i tuoi occhi

di Eko1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** due anni dopo ***
Capitolo 3: *** Ritorno a casa ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Misi in terza, lasciando con scioltezza la frizione e accelerando, lasciavo che la strada scorresse sotto le ruote della mia renault. Aguzzai la vista per cercare di mettere a fuoco una zona della strada poco illuminata dai lampioni, prima che i fari la mettessero in luce. Girai appena lo sguardo verso la mia destra e incontrai il suo. Lo distolsi immediatamente, imbarazzata.

“Non mi guardare così, lo sai che mi da fastidio.” dissi, concentrandomi sulla strada. Lui sorrise appena, arricciando le labbra.

“Per questo lo faccio. Vedi, non c'è niente di meglio che metterti in imbarazzo.” mi rispose, senza smettere di sorridere. Si sentiva che non era italiano, arrotondava le v facendole diventare quasi b, gli accenti delle e erano diversi da quelli che usavo io. Le s sibilanti, quasi tutte, il suo modo di parlare raggruppando le parole e poi fare una pausa, per poi riprendere subito dopo. Lo trovavo irresistibile, anche se lui lo considerava un difetto. Frenai per evitare due ciclisti senza i fanalini e mi trattenni nel suonare il clacson ed insultarli.

“Non è carino essere divertiti dal mio imbarazzo.” gli dissi di rimando, mentre mi infilavo in un parcheggio. Spensi la macchina “Siamo arrivati, hai intenzione di rimanere in macchina?” lui scese senza rispondermi e sbattè la portiera, ed io repressi un moto di fastidio.

“Ti giuro, quando ti comporti così ho l'irrefrenabile impulso di schiaffeggiarti.” chiusi la mia portiera e chiusi la macchina. Mi ero ricordata di prendere la borsa, per fortuna.

“Scusa che ho fatto?” faceva il finto innocente, gli occhi neri che mi guardavano come se davvero non avesse fatto nulla “mm...hai intenzione di venire con quelle scarpe?” indicò le mie DC con un gesto del mento. Sospirai e riaprii la macchina.

“Ah per me puoi venire anche nuda...in tutti i sensi...” ridacchiò. Con lui i doppi sensi erano all'ordine del giorno, anzi, del minuto. Sbuffai e mi misi una mano sulla fronte, colta dalla disperazione. Aprii il bagagliaio e tirai fuori un paio di scarpe nere col tacco, che tenevo sempre in un sacchetto, per occasioni come queste in cui bisognava vestirsi in una certa maniera. Lui incredibilmente si era lasciato convincere a vestirsi elegante.

“Sistemati la camicia, il colletto...” lo rimbrottai infilandomi le scarpe. Ora ero alta quasi come lui, ma molto meno stabile. Chiusi il bagagliaio e feci un barcollante passo indietro. Lui mi prese per i fianchi, dolcemente. Appoggiò il mento sulla mia spalla, guardandomi di soppiatto. Lo guardai anch'io e gli diedi un bacio su una guancia. Odorava di dopobarba, per quanto un ragazzo di diciotto anni potesse avere una barba da farsi. Mi rimisi in una posizione stabile e chiusi la macchina.

“Grazie...” gli dissi “ ..so che l'hai fatto solo perchè sennò poi ti sarebbe toccato tirarmi su da terra mentre bestemmiavo!” sdrammatizzai subito la situazione e spezzai il filo di romanticismo che si era creato tra di noi. C'erano linee, grosse linee che non dovevano essere superate, per una serie infinita di motivi che non volevo nemmeno elencarmi in testa.

“Prego...andiamo?” mi porse il braccio, ma non potei non notare che aveva perso all'improvviso la spavalderia e l'arroganza che lo contraddistinguevano. Intrecciai il mio braccio al suo e cominciammo ad avvicinarci al ristorante.

“Senti...se chiedono qualcosa, io ti ho solo accompagnato qui...” misi, metaforicamente,le mani avanti, mentre cercavo di evitare di cadere e rompermi qualcosa.

“Perchè, ci dovrebbe essere qualcosa di più? Ti interessa così tanto che parlino?” mi chiese. Mi faceva sempre questo tipo di domande, che mi lasciavano spiazzata e confusa.

“No, non dovrebbe esserci, e se permetti mi da fastidio che parlino di noi...” dissi.

“Ah quindi c'è un noi?” era sempre più divertito. Gli lasciai il braccio, stizzita.

“No, non c'è nessun noi, c'è un me stessa che non vuole che si spettegolino cazzate sul suo conto, tu fai quello che vuoi, hai capito?” sibilai, cominciando a camminare più svelta verso la porta del locale. Lui mi raggiunse senza fatica, ridendo sguaiatamente. Entrammo quasi insieme e lui si mise subito di nuovo accanto a me.

“Buonasera.” salutò il maitre, ossequioso “Siete qui per il diciannovesimo? “ ci chiese. Annuimmo.

“Io sono Emma Mazzucco e lui è...”

“Il suo cavaliere, suppongo.” il maitre mi precedette, regalandomi un lungo sguardo pieno di sottintesi. Sbuffai.

“No guardi, lui è un amico di mio fratello, che è il festeggiato, e io l'ho portato qui solo perchè...”

“Oh mi amor, l'ha capito anche il signore, querida, che io e te siamo insieme...non ti imbarazzare dai...” Santiago mi abbracciò da dietro, mentre io ero sempre più confusa e imbarazzata.

“No guardi veramente...e tu finiscila...c'è un grosso errore in tutto questo...” cercai di divincolarmi ma non volevo nemmeno cadere rovinosamente a terra trascinando con me lui e il vaso da fiori vicino a noi. Il maitre sorrise ancora di più.

“Vado a chiamare il festeggiato, un momento prego...” l'uomo si girò e Santiago mi lasciò i fianchi.

“Sei scemo?” mi girai verso di lui, furibonda “sei deficiente? Ti ho appena detto che non voglio che parlino...” fu una cosa fulminea, imprevista. Mi cinse di nuovo i fianchi e appoggiò le labbra alle mie, delicatamente. Non avevo mai sentito delle labbra così piene e morbide, mai, in nessun uomo.

“Emma...?” sentii il mio nome e il cuore mi finì nello stomaco. Mi staccai da Santiago più veloce che potevo, mentre lui sorrideva sempre di più.

“Marco, davvero...è stata colpa sua.” cercai di giustificarmi con mio fratello che mi guardava come se avessi tre teste. Santiago sorrise anche a Marco, che si limitò ad accennare un saluto con la mano.

“Vero...colpa mia...ma tua sorella è troppo bella stasera, non ho resistito...” gli arrivò un ceffone a piena mano sulla guancia sinistra. Non se l'aspettava assolutamente, ma mi ero ripresa abbastanza da capire la situazione di merda in cui mi ero cacciata. Frugai in borsa in cerca delle chiavi della macchina e non appena le trovai, scesi dai tacchi.

“Marco, scusami ma io me ne vado. Non ho intenzione di restare qui a farmi prendere per il culo dai tuoi amici arroganti e coglioni “scoccai uno sguardo al ragazzo di fianco a me, che si stava ancora massaggiando la guancia “quindi ci vediamo un giorno di questi, va bene? Magari pranziamo insieme?” domandai e mio fratello annuì, poco convinto. Lo salutai con la mano e raccolsi i bordi del vestito da terra, stringendoli in una mano. Ora potevo camminare più velocemente, sopratutto a piedi nudi.

“Arrivederci signore e se la prossima volta può evitare di fare inutili supposizioni le sarei davvero, ma davvero molto grata” dissi al maitre che era rientrato da poco nell'atrio.

“Buona serata Marco e tanti auguri!” spalancai la porta ed uscii dal locale. La mia respirazione tornò normale mentre camminavo verso la macchina. Premetti il pulsante e le luci lampeggiarono due volte, segno che la macchina si era aperta.

“Santiago, vai fuori dalle palle. Vai dentro, goditi la festa, sbattiti qualcuna della tua età ma smettila di darmi fastidio.” mi sentivo proprio una stupida.

“Ma dopo chi mi riporta a casa se non lo fai tu?” aveva la voce lamentosa, quasi da bambino triste.

Chiusi la portiera dietro di me e abbassai il finestrino. Il suo viso olivastro, incorniciato da una massa fittissima di riccioli neri, era a pochi centimetri dal mio.

“Allontanati Santiago. Veramente, questa puttanata non me la dovevi fare. Trovi qualcuno che ti accompagni, anzi qualcuna, così magari rimedi anche la scopatina giornaliera e ti senti meno solo.” alzai il finestrino e feci la retro. Partii, mentre davo un'occhiata al retrovisore. Lui era lì, immobile, in piedi che guardava la mia macchina sparire dal parcheggio. Quando feci la curva mi fermai in uno spiazzo sterrato e riaprii il finestrino. Mi accesi una sigaretta con l'accendisigari e guardai il fumo avvilupparsi nella notte. Speravo che con l'età sarei diventata più adulta e responsabile, più convinta che i ragazzi più piccoli di me non avevano nulla da offrirmi. Che poi, quattro anni non erano molti.

“Certo, non sono tanti se tu ne hai trentaquattro e lui trenta, ma se lui ne ha diciannove e tu ventitre, conta eccome.” mormorai, scenerando fuori dal finestrino. Non erano tutti gli amici di mio fratello a farmi quell'effetto. Era solo lui. Con gli occhi color petrolio e i capelli ricci, nero blu. Lui che sembrava molto più grande della sua età ma che mentalmente aveva quattordici anni. E io che mi ero fatta fregare come una ragazzina. Presi il telefono e chiamai Alex, per sapere se era già tornato a casa. 

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Capitolo 2
*** due anni dopo ***


“Si...no...no non oggi mamma...domani...si mamma, alle dieci...ma non lo so quando arrivo, parto alle dieci, per l'una sono a casa...ma si mamma, dio mio ormai sono più sugli aerei che a terra! No mamma, ci sono i controlli...mamma devo andare, davvero, mi si sta scuocendo la pasta e Alex non sopporta la pasta scotta lo sai! Si...” alzai gli occhi al cielo “ anche io mamma...ciao, ciao!” chiusi la conversazione e sbattei il cellulare sulla penisola della cucina. Andai ad alzare la radio e canticchiai per un po' una canzone di cui non ricordavo il titolo. Scolai la pasta ma non c'era nessun Alex a non sopportare che la pasta si scuocesse. Non c'era più da quasi due anni ormai. Sbattei la pasta nella padella con il sugo e la feci saltare un paio di volte, per amalgamare il tutto, poi la misi nel piatto. Presi una birra scusa dal frigo e la aprii, inumidendomi le mani con la condensa della bottiglia. Me ne versai un bicchiere e la bevvi d'un fiato. Alex. Guardai il calendario che sul frigo aveva preso il posto delle nostre foto. Segnava il tredici luglio. Il quindici luglio di due anni prima io e Alex ci eravamo lasciati. Anzi, io avevo lasciato lui. Mi misi a mangiare cercando di non pensarci, cercando di non pensare a cosa avrei detto a mia madre, di cosa avrei detto ai miei amici. Dopo due anni, non avevo ancora avuto il coraggio di dirglielo.Emma e Alex, la coppia perfetta. Certo, se lui non avesse avuto il piccolo vizio di scoparsi la sua segretaria al lavoro. Lanciai il piatto ancora mezzo pieno nella spazzatura, non avevo nemmeno più voglia di mangiare. In compenso mi accesi una sigaretta e aprii la finestra. Contemplai la Tourre Eiffel illuminata quasi a giorno e pensai che solo fino a pochi anni fa l'avevo vista soltanto da turista, ma Parigi mi aveva conquistata. Era il mio viaggio di maturità, io e la mia migliore amica eravamo partite da Venezia con lo zaino sulle spalle e le scarpe da camminata ai piedi. Avevamo girato tutta la Francia in treno, dormendo sulle panchine e negli ostelli, finchè non eravamo arrivate a Parigi. Quando tornammo a casa, io feci domanda alla scuola di cucina di Alain Ducasse. In Italia ci tornavo il meno possibile, ormai consideravo Parigi come casa mia. Ero diventata una chef principalmente per ripicca nei confronti dei miei, che mi volevano medico.

“Anche io salvo la vita alla gente, papà. Non hai idea di quanto possa nuocere alla vita di una persona un cibo cucinato da cani” gli ripetevo sempre, tanto che lui aveva scolpito questa frase su una tavola di legno che poi aveva appeso in cucina suscitando le proteste di mia madre, che pensava fosse rivolto a lei. Alex diceva sempre che ero la migliore del mondo a cucinare, anche una pasta al pomodoro. Scossi la testa inspirando l'aria estiva. Sette anni di relazione buttati nel cesso, letteralmente, visto che il solitario che portavo al dito era finito esattamente nella tazza. Il telefono squillò ma non avevo voglia di rispondere.

“Spiacente non sono in casa, se volete lasciate un messaggio.” la mia voce registrata in due lingue, italiano e francese, uscì meccanicamente dalla segreteria. I miei superiori si erano lamentati tamente tanto che alla fine mi ero decisa a comprare una stramaledetta segreteria telefonica, così potevo ascoltare messaggi di persone di cui non mi importava assolutamente nulla. Almeno con il cellulare guardavo il numero e ignoravo la chiamata, ma con la segreteria non era possibile. Maledetta lucetta rossa. Spensi la sigaretta nel posacenere ormai stracolmo e misi in borsa un maglioncino leggero accanto all'ombrello, perchè a Parigi il tempo cambiava in un battito di ciglia. Avevo sentito molti lamentarsi del tempo di Londra, ma evidentemente non avevano mai abitato a Parigi, Eppure a me non sarebbe mai venuto in mente di lamentarmi, non di Parigi almeno. Mandai un messaggio alla mia migliore amica e mi infilai in macchina prima di essere tirata sotto da una folla di ciclisti impazziti. Il cellulare squillò non appena appoggiai il sedere sul sedile, quindi decisi di rispondere.

“Si?” risposi, mentre cercavo le sigarette.

“Mi vieni a prendere direttamente davanti al centro? Ho finito tardi ma la doccia la faccio dopo, a casa...” la voce di Sara non mi sorprese. Annuii, poi mi ricordai che non poteva vedermi e decisi di tradurre il mio gesto in parole.

“Certo, tra dieci minuti se non becco il bus di Père-Lachaise che come al solito blocca tutto, se lo becco conta dieci minuti in più...oggi solito?” domandai, sapendo già la risposta.

“Certo che sì, mi sembra ovvio!” esclamò lei dall'altra parte. La salutai e misi in moto la macchina. Dovevo anche fare benzina, ma ci avrei pensato più tardi. Mi accesi una sigaretta e mi gettai tra le braccia del traffico parigino cercando di non uccidere nessuno.

Venti minuti dopo mi fermai accanto ad un marciapiede e tirai su Sara che si infilò velocemente in macchina.

“Come è andata oggi?” domandai mentre ricominciavo a guidare.

“Bene, più vado avanti più penso che fisioterapia sia proprio quello che voglio fare...stiamo sperimentando una nuova tecnica in acqua, una roba pazzesca...” mi spiegò la tecnica mentre si rifaceva la coda. Aveva i capelli lunghi fino a metà schiena, castani, appena ondulati. Parcheggiai davanti a quello che in questi anni era diventato il nostro bar, anche se io continuavo a sperare di non incontrare Alex. Aveva cambiato giro evidentemente, non lo vedevo quasi più. Sara mi fissò prima di aprire la portiera.

“Hai una faccia...o ti ha chiamata Alex o ti ha chiamata tua madre...”

“Mia madre, domani parto perchè tra due giorni è il compleanno di mio fratello e figuriamoci se posso mancare...” scesi dalla macchina e mi accesi una sigaretta poi controllai nel pacchetto “..è quasi vuoto poi mi ricordi che le devo comprare?” lei mi tese l'accendino, annuendo.

“Direi che ci mettiamo fuori, è una serata perfetta...” nascondemmo le sigarette accese con nonchalance, salutammo i baristi e salimmo la scala che portava al piano di sopra. Mi piaceva quel posto, con le sedie di legno e stoffa, il soffitto di legno scuro e il bancone lucido, ma sopratutto mi piaceva come facevano da mangiare. Sara spalacò la porta della terrazza e mi fece passare. Lì erano state messe alcune poltrone bianche ed alcuni tavolini di vetro, bassi e stondati. Presi un menù e lo richiusi. Sara lo scorse tutto, come quasi ogni sera, poi ordinò.

“A furia di bistecca e patatine ci butteranno fuori...qui fanno un pollo meraviglioso ma tu no...bistecca e patatine...bistecca e patatine...però stasera la birra invece della coca cola, facciamo passi avanti!” Sara fece uno sberleffo al mio sarcasmo, tirando fuori la lingua. Io non avevo fame, ma ordinai lo stesso un soufflè al cioccolato e arancia. Soffiai in alto il fumo, che si disperse nel cielo ormai blu.

“L'unica pecca di Parigi è che non ci sono stelle...”mormorai. Sara sbuffò.

“Ultimamente sei così piagnona...ma a proposito di compleanni, hai più sentito Santiago?” mi domandò. Ci misi un paio di secondi a ricordare. Due occhi scuri, pelle piuttosto scura, capelli nerissimi riccioluti... scossi la testa.

“Sara, è stato un bacio dato da un ragazzetto, ormai sono passati due anni...” le dissi sorridendo. Lei alzò le spalle, ma quello che voleva dire fu interrotto dall'arrivo delle nostre cose. Affondai il cucchiaio nel soufflè. Perfetto, come tutte le volte.

“Comunque no, non lo sento più da...due anni, appunto. Spero che continui così, sono felice e soddisfatta della mia vita, non ho intenzione di andare ad infognarmi in cose che non portano da nessuna parte...” lei mi guardò, puntandomi contro la forchetta.

“Quando cerchi così tante giustificazioni, tu, vuol dire che hai qualcosa da nascondere...mi nascondi qualcosa, Emma?” io feci finta di essere spaventata dalla forchetta.

“Eh...si...in effetti...stamattina ho usato il tuo spazzolino, non so più dove sia il mio!” esclamai, con aria colpevole. Lei abbassò la forchetta ridacchiando e si rimise a mangiare, io raschiai fino in fondo il mio soufflè, guardandomi in giro. Il semaforo della strada accanto alla terrazza diventò rosso e io mi ricordai del messaggio in segreteria.

“Faccio una telefonata un secondo...” Sara nemmeno mi ascoltò, stava chiedendo al cameriere il dessert. Digitai il mio numero di casa insieme aa due codici che mi avevano dato i gestori. Per ascoltare la segreteria anche fuori di casa, che tradotto nella mia lingua suonava come una connessione continua ai rompicoglioni.

“Spiacente non sono in casa, se volete lasciate un messaggio!” questo lo sapevo già.

“Ehi ciao...tuo fratello mi ha detto che torni uno di questi giorni...ti va di vederci, bere un caffè, parlare un po'? Forse dovremmo, che ne pensi? Un bacio.” rimasi alcuni secondi in silenzio, poi riascoltai il messaggio. Quelle esse appena sibilate, le parole raggruppate...tornai al tavolo e vidi Sara attaccare la seconda vaschetta di profiteroles. Masticando mi rivolse uno sguardo interrogativo.

“Alex?” fu quello che riuscii a capire mentre deglutiva. Scossi la testa senza sapere se ero felice o scioccata. Tirai su un po' di crema che colava dalla scodella e mi infilai l'indice in bocca, scuotendo appena la testa.

“Indovina un po'? Parli del diavolo..” mi sfilai il dito di bocca e mi pulii sul tovagliolo “non era Alex...incredibilmente, inaspettatamente, improvvisamente....era Santiago.”

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Capitolo 3
*** Ritorno a casa ***


Sbuffai togliendomi dal viso i capelli, madidi di sudore, mentre trascinavo la valigia verso l'uscita dell'aeroporto, cercando di districare anche borsa e macchina fotografica. Vidi mia madre, impettita e perfetta che mi aspettava, le mani in grembo. Accanto a lei, l'immancabile autista.

“Ciao, mamma.” mi meravigliavo sempre di quanto fosse cambiata mia madre dopo il successo di mio fratello. Come il giorno e la notte, si era trasformata da donna di casa tuttofare in una vecchia snob.

“Tesoro, sei tutta arruffata...” disse, dandomi un leggero bacio su una guancia “...e puzzi.” mi guardò con condiscendenza mentre trascinavo fuori dall'aeroporto le valigie, inciampando e imprecando.

“Oh per favore, non ho bisogno di un tassista privato, guido io!” dissi quando il povero autista mi aprì la portiera. Ignorai le proteste di mia madre e lanciai la valigia nel bagagliaio mettendomi al posto di guida della mercedes. L'uomo, visibilmente imbarazzato, si sedette accanto a me, non osando proferire parola. Mia madre strinse le labbra, sedendosi impettita sulla punta del sedile.

“Mamma non fare così, per favore. Sembri la McGranitt.” esclamai mentre mi buttavo nel traffico dell'autostrada.

* * *

Parcheggiai, rischiando per un pelo di fare la fiancata alla mercedes. L'autista, pallido in volto, scese immediatamente per far scendere mia madre dall'auto.

“Faccio una telefonata, arrivo subito...” le dissi quando mi chiese se avevo intenzione di scendere dall'auto. La mia prima risposta sarebbe stata un no secco, ma optai per la telefonata. Uno, due, tre squilli.

“Pronto..?” rispose una voce assonnata.

“Zazza, aiuto...sono dei pazzi, sono due pazzi...più invecchiano più diventano pazzi...” strinsi la cornetta tra le dita e cominciai a parlare con la mia migliore amica.

“Novità?” le chiesi, dopo un po'.

“Si, ha richiamato Santiago, ho risposto io, gli ho detto che saresti stata a Padova oggi e gli ho dato il tuo numero di cellulare...e ha chiamato anche Alex. Ha detto che vuole parlarti, se lo richiami per favore, anche se lui adesso è alle Barbados o giù di lì...” la sentii sbadigliare. Io risi.

“Cioè...lui è alle Barbados e dovrei telefonargli io, spendendo un sacco di soldi per sentirlo blaterare sul vero amore e di quanto fossimo importanti l'uno per l'altra? Mi fai un favore? Se richiama digli che sono scappata con uno sguattero portoricano di nome Miguel?”

“Ah..pensavo si chiamasse Santiago...” lasciò la frase in sospeso, come se stesse ridacchiano dall'altro capo della linea.

“Giuro, quando torno ti butto nella Senna. Smettila di fare insinuazioni inutili!” esclamai, mettendo i piedi sul volante.

“Io? Sei tu che vedi insinuazioni, mica io che le faccio!” mi rispose lei. Il piede destro mi scivolò e suonò il clacson “ooh ma che cazzo fai? Dove sei?” mi chiese, preoccupata.

“Niente, sono in macchina e avevo i piedi sul volante e ho suonato...beh ti chiamo più tardi, e svegliati, fatti una doccia e vai a fare la spesa!” le ordinai. Lei mi fece uno sberleffo, poi chiudemmo la telefonata. Non avevo nessuna voglia di entrare in casa. Avrei preferito stare lì a fare la muffa, ma non potevo. Convenevoli su convenevoli, vestiti eleganti, un sacco di complimenti...mi veniva la nausea solo al pensiero. Cercai di fare meno rumore possibile, sia sulle scale che mentre entravo in casa. Salutai silenziosamente la cameriera, appoggiai le chiavi sulla mensola e alzai gli occhi sull'enorme fotografia di mio fratello che suonava la chitarra, in smoking. La grande promessa della chitarra classica si era trasformata in realtà. Guardai il suo viso ancora da bambino, concentrato sullo strumento. Aveva la stessa espressione di quando suonava i Beatles a nove anni. Non era cambiato, da quel punto di vista, l'unica cosa diversa era che ora c'erano compositori che facevano la fila per comporre un pezzo per lui, e che le sue schitarrate, come le chiamavo io, valevano circa tremila euro l'ora.

“Mamma? Ma quando torna Marco?” urlai, andando ad appoggiare la valigia in veranda.

“Stavate parlando di me?” mio fratello uscì dalla porta vicina, in pantaloncini e maglietta “lo so, lo so, ormai nessuno può fare a meno di sapere dove sono, cosa faccio, quando torno...” sorrise.

Lo abbracciai e gli sorrisi. Non era cambiato per niente, nonostante non lo vedessi dall'anno prima.

“Ciao, sorellona. Come va? Sempre a far da mangiare per i ricconi?” mi chiese mentre mi aiutava a disfare la valigia. Io tirai fuori un pacchetto e glielo porsi.

“Certo che si, e non potrei essere più felice...e tu? Sempre a schitarrare?” gli chiesi mentre prendeva il pacchetto “e non lo scartare prima di domani, ti uccido se lo fai!” esclamai, togliendoglielo dalle mani. Lui sbuffò ma non protestò.

“Si, e non potrei essere più felice...ma Alex?”mi domandò, buttandosi sul divano letto. Io presi l'accappatoio e il beauty case, avviandomi verso il bagno.

“Eh, doveva lavorare...”tagliai corto mentre andavo a farmi una doccia. Il telefono vibrò quando ero già sotto l'acqua, ma mi asciugai una mano con l'accappatoio e lo presi, sbloccando la tastiera.

-Ehi so che sei tornata, non puoi sfuggirmi...ci vediamo domani al compleanno?- un numero che non conoscevo, ma potevo immaginare chi fosse. Salvai il numero sotto Santiago e gli risposi di si, nessun problema. Evitai di chiedergli se avesse bisogno di un passaggio, per evitare i ricordi. Ricordavo perfettamente il suo volto. Tornai sotto il getto dell'acqua, dopo aver lanciato il telefono sul tappeto. Vibrò ancora ma lo lasciai perdere. Uscii dalla doccia e mi vestii in fretta, infilandomi il cellulare in tasca e scordandomi completamente del messaggio che mi era arrivato.

“Mamma, come devo vestirmi domani?” le chiesi, entrando in cucina. Lei mi squadrò. Avevo addosso un paio di bermuda neri e una maglietta azzurra con delle palme.

“Sicuramente non così, Emma.” mi rimproverò. Lei era elegantissima anche in casa, con un taullier leggero azzurro chiaro.

“Ma tu non hai caldo con tutta quella roba addosso?” le chiesi, sedendomi sulla sedia impagliata. Cercai di mettere i piedi sul tavolo ma non ci riuscii, perchè mi fulminò con un'occhiataccia.

“Certo che no, questa stoffa è fresca e leggera...comunque che fine ha fatto il vestito dell'anno scorso?” mi chiese. Io balbettai qualcosa sul fatto che lo avevo lasciato a Parigi. In realtà ci avevo vomitato sopra la notte di capodanno e avevo rinunciato a grattar via il vomito incrostato dalle palliettes.

“Ma poi mamma lo sai come sono fatta...io vivo in grembiule e crocs, non puoi pretendere che mi vesta da signorina...e quando sono in casa sto sempre così!” mi giustificai sotto il suo sguardo glaciale.

“Emma, fai come dice tua madre, qualsiasi cosa dica..:” mio padre era entrato in cucina ed era già con la testa dentro al frigo.

“Ma papà io non ho roba elegante! Non ho niente!” esclamai, alzandomi.

“Bene. Vorrà dire che domani andrai a prendere un vestito. E in mancanza di Alex dovrai trovarti un accompagnatore.” mia madre si voltò verso mio padre, che annuì.

“Un...cosa? Mi spiegate perchè dovete fare tutte ste feste fastose e piene di invitati?” cominciavo ad essere nervosa a livelli indescrivibili, tanto che, alzandomi, rovesciai la bottiglia di succo d'arancia che la cameriera aveva appoggiato sul tavolo.

“Emma! Non ti permetto di usare questo tono con me!” esclamò lei di rimando. In risposta le feci una pernacchia. Più lei si irritava, più io diventavo pedante e immatura. Non ci potevo fare niente, faceva parte del mio pessimo carattere. In questi casi nessuno avrebbe detto che a venticinque anni tenevo tra le mani la direzione di uno dei migliori ristoranti di Parigi. In questi casi nessuno mi avrebbe dato venticinque anni. Lasciai la cucina, mia madre impietrita e mio padre che la guardava come se fosse uscita da un film horror. Evitai mio fratello che stava giocando alla playstation in salotto e mi rifugiai in veranda. Frugai nella borsa e tirai fuori le sigarette e senza farmi vedere sgattaiolai al piano di sopra. Aprii la finestra del bagno giallo, quello degli ospiti ed uscii sul tetto. Sentivo mia madre gridare e sbattere le porte. Mi accesi la prima sigaretta della giornata e mi ricordai del messaggio che mi era arrivato quando ero ancora in doccia. Sbloccai il telefono e sorrisi.

-Mi accompagni alla festa quest'anno?- Santiago. Digitai velocemente la risposta.

-Solo se mi accompagni a prendere il vestito.-

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