Over the rainbow.

di Nevannah_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Prologo II ***
Capitolo 3: *** Giorno I ***
Capitolo 4: *** Giorno II ***
Capitolo 5: *** Giorno III ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***




«Mi spiace signora, ma sua figlia ha la leucemia.»
Il mondo mi cadde addosso all'improvviso. Io, la leucemia? No, non era possibile. Non era minimamente concepibile il fatto che io avessi la leucemia. Il dottore aveva sicuramente sbagliato. Errare è umano, no?
Vidi con la coda dell'occhio mia madre sedersi di colpo sulla soffice poltrona dello studio, in silenzio.
Il dottore continuava a guardarmi con uno sguardo triste. Chissà a quante persone aveva detto una cosa del genere. Quanti sogni aveva infranto. Quanti progetti distrutto. Quante persone fatto piangere. Così, con una frase. Chissà se era veramente dispiaciuto o era solo la sua solita frase, che accompagnava con la sua solita maschera che metteva quando doveva dire qualcosa di spiacevole.
«Si può curare, non è vero?» chiese mia madre, speranzosa, con le lacrime che le pungevano ai lati degli occhi.
Il dottore fece cenno di no con la testa «È una leucemia acuta, è troppo tardi per fare una chemioterapia o un trapianto...» disse «Mi dispiace.» aggiunse, come se questo potesse essere d'aiuto.
Mamma cominciò a piangere silenziosamente, io decisi di uscire fuori da quella stanza. Avevo bisogno di stare un po' sola. Dovevo pensare.
Avevo appena passato la porta quando sentii mia madre chiedere: «Quanto tempo...?»
«Venticinque giorni, un mese se siamo fortunati...»
Chiusi la porta alle mie spalle con un sospiro. La mia vita era giunta al capolinea e io non sapevo cosa fare.




 

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Capitolo 2
*** Prologo II ***





Dopo qualche altro minuto uscimmo da quel luogo che odiavo tanto, e ci dirigemmo verso il parcheggio. La nostra auto ci aspettava lì, insieme alle altre, di altre persone, che magari erano lì per veder nascere il loro primo bambino, o per fare una visita di routine, e non come me, che andavo lì per farmi dire che sarei vissuta al massimo un mese, se fossi stata abbastanza fortunata. Mamma mise in moto e l'auto si accese, ignara di tutto, rombando allegramente e cacciando un sottile filo di fumo grigio, contribuendo, così, ad allargare il buco nell'ozono. Lasciammo lentamente il parcheggio, il parcheggio di quel luogo che avrei odiato per tutto il resto della mia vita, cioè un mese, o un paio di settimane, o solo qualche giorno, tutto dipendeva da cosa avesse deciso il fato.
La radio si accese automaticamente, e partì una delle mie canzoni preferite:


 

If someone said three years from now
You'd be long gone
I'd stand up and punch them up
Cause they're all wrong
I know better
Cause you said forever
And ever
...Who knew?



Già, chi sapeva? Chi avrebbe immaginato tre anni fa che io, Emily Johnson, avrei avuto la leucemia? Io, che ero sempre stata buona con tutti e tutto, che ero una ragazza diligente, educata, rispettosa... la leucemia?
Il suono di una chitarra pose fine alla canzone e io spensi la radio.
Il resto del viaggio fu silenzioso. Non una parola fu pronunciata. D'altronde, cosa dire? Entrambe pensavamo. Io a come trascorrere i miei ultimi giorni di vita, lei a immaginare il "dopo".

Mamma mise una mano sulla mia gamba e la strinse forte. Mi sarebbe mancata quella donna. Già, mi sarebbe mancata un casino. Era sempre lì, vicino a me, quando ne avevo bisogno. Come avrei fatto senza di lei?

Parcheggiammo nel vialetto ghiaioso di casa nostra. Io salii in camera mia e mi buttai sul letto, triste e pensierosa. Sentivo i miei parlare al piano di sotto, e mamma che armeggiava in cucina. Quand'era triste o arrabbiata, o voleva solamente riflettere, mia madre era in cucina che si rifugiava.
Io invece rimasi sul letto, vestita e immobile, come una statua, a pensare a cosa fare. Non volevo sprecare quei pochi giorni che mi restavano. Diciassette anni buttati al vento erano stati troppi, e sarebbe stato un gran peccato buttare al vento anche quell'ultimo mese che mi sarebbe rimasto. Volevo fare qualcosa.










FINALMENTE, DOPO QUASI DUE SETTIMANE HO AGGIORNATO U.U
Meglio tardi che mai.
Quindi, consideratelo una specie di "continuazione del prologo" e, boh, recensite! 
Alla prossima :3






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Capitolo 3
*** Giorno I ***


GIORNO I
 
Mi svegliai di soprassalto; ero sudata. Avevo appena finito di fare un incubo. Ero al mio funerale, e non c'era nessuno, solo mia madre. Nemmeno un fiore era posato sulla mia bara color ciliegio. Anche se era solo un sogno, il pensiero che al mio funerale non ci sarebbe stato nessuno mi tormentò per un altro paio di giorni, fino a quando non mi auto-convinsi che, quando le persone sentono 'ragazza' e 'leucemia', diventano tutte più buone e permissive. È per questo che mi auto-concessidi far tardi a scuola, anche se ancora nessuno sapeva della leucemia. Infatti mi presi tutto il tempo per fare colazione, vestirmi e incamminarmi verso il grigio edificio.
 
Arrivata in classe, non feci parola con nessuno della mia malattia. A che scopo poi, per impietosire la gente? No, non mi piaceva come idea.
Rimasi lì, sul banco, a pensare al mio futuro, se così si poteva chiamare, fino a quando la professoressa Moore, quella di scienze, non mi chiamò all'interrogazione.
«Emily e uhm, vieni tu, Sophie.»
Io e l'altra ragazza ci alzammo all'unisono. Lei era la 'secchiona' della classe, era sicuramente preparata su tutto l'argomento, se non su tutto il programma, anche quello ancora da svolgere.
«Sophie, vediamo... Parlami del Sole»
Appena la Moore finì la frase, la giovane cominciò un noioso monologo su quanto idrogeno avesse il Sole, su quanto gli rimanesse di vita, su quante tempeste solari ci fossero in un anno, e tanti altri piccoli dettagli e particolari che nemmeno il più esperto astrologo avrebbe saputo. Tutto d'un fiato, naturalmente. La professoressa annuì contenta.
«Emily, tu invece parlami di Nettuno»
Cominciai a dire qualche cavolata che sapevo su quell'insulso pianeta, argomento di tre mesi fa, ma come fare a spiegarlo alla prof? Cominciai ad annaspare, visto che avevo un vuoto di memoria a dir poco incolmabile.
La Moore, vedendomi in una grande difficoltà, mi chiese la lezione del giorno, che io, naturalmente, non sapevo, visto che avevo passato le ultime ventiquattr'ore tra ospedale e pensieri tristi vari.
Ci furono alcuni momenti di silenzio assoluto, colmati da qualche risata e qualche colpo di tosse dal fondo dell'aula.
 
«Emily, perché non studi?» chiese d'improvviso.
«C'è qualche motivo in particolare per cui io dovrei stare seduta ore e ore a perdere tempo su dei fottuti libri?» Oh, Emily che risponde ad un professore. Quale eresia è mai questa?
La professoressa fece uno sguardo che avrebbe vinto sicuramente il primo premio ad un concorso per la migliore interpretazione dell' “Urlo” di Munch. «Emily!» mi guardò torva «Se vuoi sapere qualcosa di concreto in futuro, DEVI stare seduta ore e ore a perdere tempo su dei fottuti libri» disse in una stentata imitazione della mia voce.
«Beh, allora non studierò mai...» Risposi mentre un groppo alla gola mi impediva di continuare, e gli occhi cominciarono a pungermi. Deglutii e cercai di proseguire «...visto che un futuro io non ce l'avrò.»
Prima che le lacrime uscissero furtive dall'interno del mio corpo, io feci in tempo a scappare dalla mia classe.
 
Mi rifugiai in bagno, e stavo piangendo silenziosamente quando sentii aprire la porta principale. Ero nell'ultimo bagno in fondo, e sentivo i passi avvicinarsi.
«Emily, sei qui?» Merda. Era la Moore. Ed era proprio dietro la porta. Come aveva fatto a trovarmi? Le mie lacrime non erano così silenziose come credevo?
«S-sì» Risposi. Che senso avrebbe avuto non rispondere? Avrebbe capito ugualmente che c'ero io dietro quella porta chiusa a chiave.
«Cos'hai, cara?» Avevo sentito bene? Mi aveva chiamata cara? Da quando lei era diventata buona?
Aprii la porta, ed uscii fuori, asciugandomi le lacrime con la manica della maglia. «Nien-te prof.»
«Non è vero, hai qualcosa, lo sento.»
Presi un lungo respiro: non volevo dirglielo, ma lei avrebbe insistito fino a farmi impazzire, o me lo avrebbe estorto con le tenaglie, quindi, glielo dissi. «Ho la LAP. Leucemia Acuta Promielocitica. È in uno stato molto avanzato e quindi un trapianto o una chemioterapia sarebbero inutili, oltre a far accelerare la mia “scadenza”, visto che mi indeboliranno.»
La Moore mi guardava con uno sguardo tra il traumatizzato, lo shockato e il dispiaciuto. Non mi disse niente. Si avvicinò a me e mi abbracciò forte, come per farmi capire che non fossi sola. Io, invece, ricominciai a piangere. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, di sfogarmi, e quelle poche parole dette alla professoressa mi aiutarono, mi alleggerirono, seppur di poco, il peso che avevo sul cuore.

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Capitolo 4
*** Giorno II ***


 

GIORNO II


La mattina mi svegliai con questa domanda nella testa: "Perché proprio io? Cos'ho fatto di così cattivo per essermi meritata questo?" 
Non ho mai fatto del male a nessuno, mai un insulto, mai una brutta parola. Sono sempre stata la ragazza gentile ed educata che tutti avrebbero voluto come figlia. Tutti i genitori vorrebbero una figlia come me, ma io pagherei per essere la maleducata, drogata, accanita fumatrice che loro si ritrovano ad avere. Esatto, preferirei infinite volte vivere una vita di merda, ma vivere, che salutare i vermi che mangeranno il mio corpo sotto terra.
Si ricorderanno di me, dopo che me ne sarò andata? O mi cancelleranno dalla loro vita come gesso sulla lavagna?


Mi alzai dal letto, controvoglia, e mi diressi verso la finestra. Aprii la tenda di scatto, e un sole abbagliante mi colpì il viso, facendomi chiudere gli occhi. Stetti così, con gli occhi chiusi, per qualche attimo, lasciando al sole il permesso di accarezzarmi il volto con i suoi raggi. Il sole, anche lui mi sarebbe mancato, quindi approfittai del suo calore per qualche altro secondo, perché non sapevo se ci sarebbe stata un'altra occasione. Lentamente riaprii gli occhi, e una Los Angeles tranquilla e verdeggiante mi apparve davanti. Mi sarebbe mancata quella città, i suoi rumori, i suoi profumi, il suo caos. Sì, mi sarebbe mancata.

Avrei sempre voluto fare pazzie nella mia vita, come scalare montagne o fare bungee jumping da una cascata, ma anche cose più “normali”, come andare ad una di quelle mega feste che si organizzano quando i genitori non sono in casa, diventare madre, andare ad un concerto rock, ubriacarmi, fumare, fare sesso, farmi un tatuaggio, un piercing all'ombelico, uscire con un ragazzo... Sì, esatto, non sono mai uscita con un ragazzo. Diciassette anni e nemmeno un caffè al bar all'angolo. Non che io fossi brutta, anzi, ero abbastanza carina, ma mai nessuno mi ha chiesto di uscire. Anche perché nel mio liceo non ero molto in vista, e non lo sono mai stata. Ovviamente non mi dispiaceva affatto non essere presa di mira dai bulli o non essere vista come la 'ragazza facile' della scuola.
Quella mattina, però, notai qualcosa di diverso. Mentre camminavo per i corridoi, sentivo gli occhi puntati su di me, seguiti da bisbigli e sussurri. Dunque sapevano? L'avevo detto solo alla Moore, era stata lei la causa di tutto? Sapevo che conosceva qualche ragazzo della scuola, come la mia amica Katherine, ma non credevo fosse stata lei, non poteva essere stata lei, o meglio, non volevo ammetterlo a me stessa. Così, nell'indecisione, andai direttamente da lei, Katherine, per chiederle cosa fosse successo.
La trovai vicino al suo armadietto che guardava il poster di un ragazzo, membro della band con la quale era fissata in quel periodo; si chiamava Niall Oran, o Haran, o Horan, non ricordo.
«Katie» la chiamai, con un tono forse un po' troppo freddo.
Lei si girò di scatto. Il tempo di mettere a fuoco il mio volto e le lacrime cominciarono a far capolino agli angoli degli occhi. Si tuffò su di me, abbracciandomi.
«Brutta stronza, perché non me l'hai detto?» disse lei allontanandosi di qualche centimetro e guardandomi interrogativa.
«Te l'avrei detto oggi, ieri non ero proprio dell'umore, scusa.» La guardai negli occhi, ma poi distolsi lo sguardo. Un altro secondo e sarei scoppiata a piangere, me lo sentivo.
«Dai, andiamo in classe o faremo tardi.» Disse lei, prendendomi per un braccio, con un piccolo sorriso velato di tristezza.
Io la seguii, sempre notando gli sguardi che gli altri mi rivolgevano. Quindi non ci pensai due volte, e glielo chiesi: «Chi te l'ha detto, Katie?»
Lei si fermò di colpo, ma poi, riprendendo a camminare, mi disse: «Dai, ne parliamo dopo, Emily.»
«NO! Voglio saperlo ora!» E mia liberai dalla sua presa. Quindi mi avvicinai a lei, per non permettere a quelle orecchie estranee di ascoltare. «Come lo sanno loro?» E con la testa accennai ad un gruppetto di ragazze che ci additava mentre parlottavano tra loro.
«Non lo so! A me l'ha detto la Moore, perché sa che siamo amiche, e voleva chiedermi qualche altra cosa, ma a quanto pare non ne sapevo nulla.» E mi fece un'occhiataccia. «Comunque, credo che la Moore l'abbia detto anche a Christine, quella del quarto anno, e lei l'avrà detto al suo ragazzo, Benjamin, e siccome lui è nella squadra di football, l'hanno scoperto. Dal football le voci sono passati alle cheerleader, da lì attraversiamo i vari club minori come quello delle mascotte, di canto coreografato, dei corsi avanzati di matematica, dell'orchestra, del club di scacchi, di economia domestica e quindi poi a tutta la scuola.» Disse, enumerando con le dita ogni gruppo che nominava.
«Okay, okay, ho capito. Ora andiamo, però. Non vorrei sentire il professor Carter nelle orecchie. L'ultima volta che ho fatto tardi alle sue lezioni, m'ha fatto fare cinquanta disequazioni di terzo grado, e fidati che non è stata una bella esperienza.» E le sorrisi, trascinandola per un braccio in direzione dell'aula.
Entrammo, e istintivamente tutti rivolsero gli sguardi verso di me, accompagnandoli con i soliti mormorii. Io feci finta di non notarli, e mi sedetti al solito posto con Katie, non troppo avanti, dove dominavano i secchioni, ma nemmeno troppo dietro, dov'eri preda dei bulli. Al centro, insomma, in un posto abbastanza coperto dalla vista dei prof e che ti permetteva grosso modo di fare quello che preferivi.
Il professor Carter entrò in classe, e come al solito l'intera classe si zittì di colpo. Era uno di quei professori che ti terrorizzavano al solo guardarli, ma in fondo era bravo, e sapeva fare il suo mestiere.
Cominciò a scrutare tutta la classe, alla ricerca di un minimo movimento sospetto per avere, così, la prima vittima di quel giorno.
Puntò i suoi occhi color ghiaccio su di me. Io stavo già cominciando a tremare e a sudare freddo perché, com'era ovvio, non avevo aperto libro, ma al contrario di tutte le aspettative, mi disse: «Come stai?»
Quindi sapeva anche lui? La Moore non aveva parlato solo con Katie e Christine, allora. Avrei potuto tranquillamente rispondere “Bene, grazie” ma non sarebbe servito a niente visto che già sapeva. Quindi mi limitai ad un: «Uno schifo, e lei?»
Lui mi guardò un po' perplesso. Non se l'aspettava, nessuno si sarebbe aspettato una risposta del genere da me, io che ero sempre così retta e corretta, ma non si arrabbiò. Anzi, mi disse che se non me la sentivo potevo tornare a casa. Io non me lo feci ripetere due volte. Avevo capito che, quando hai una malattia terribile all'interno del tuo organismo, sono tutti più buoni e gentili con te.

A casa stetti tutto il tempo sdraiata sul letto, cercando un modo per impiegare i miei ultimi giorni. Me ne mancavano all'incirca ventitré, e non volevo sprecarli.
Verso sera, cominciai a tossire e non riuscivo a smettere. Così andai in cucina, per bere un po' d'acqua. Mia madre si girò verso di me sorridente: «Che ti ser... Oh cazzo.» Il suo sorriso si trasformò in una smorfia di terrore.
«Che c'è?» dissi alzando un sopracciglio e seguendo il suo sguardo, che era puntato contro la mia maglietta. Abbassai gli occhi verso il mio petto. Subito notai degli schizzetti di un liquido rosso che fino a cinque minuti prima non c'erano. Istintivamente, alzai lo sguardo verso le mani: erano ricoperte di sangue.

 







Dopo quasi sei mesi ho aggiornato questa ff, siate fieri di me (?)
Anche se credo che dovreste leggere i capitoli di prima perché 
sicuramente non vi ricordate il prima (?) della storia ♥
Grazie a tutti quelli che la leggeranno/recensiranno
Okay, non so che altro dire çç 

Al prossimo aggiornamento, se ci sarà :3
Nevannah

 



 

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Capitolo 5
*** Giorno III ***


 

GIORNO III
 

Mi alzai di scatto la mattina dopo, ma una mano sul petto mi fece tornare nella posizione di prima.
«Stai giù, Emily»
Era mia madre. Ma dov'ero? Non era la mia camera quella, volevo dire, la mia aveva le pareti arancioni, mentre lì l'unico colore esistente era il bianco. Poi la nebbia dalla mia mente si dissipò, e ricordai tutto. La sera prima persi molto sangue, e mia madre mi portò di corsa all'ospedale. Riuscirono a fermare l'emorragia ma vollero comunque tenermi in osservazione fino al mattino dopo. Se tutto fosse andato bene, un'ultima analisi e poi sarei potuta tornare a casa.
Visto che la pressione e i battiti del mio cuore rimasero nella norma per tutta la notte, mi portarono in una stanza del reparto di oncologia, per farmi un'analisi un po' più accurata di quelle che si fanno di solito. Volevano rifare la conta dei granulociti, linfociti e quelle cose lì per accertarsi un'ultima, definitiva volta che avessi la LAP, perché chissà, magari si erano sbagliati o avevano scambiato le analisi con quelle di un povero sventurato.
Dopo avermi tirato il sangue mi lasciarono in una sala d'attesa. Era piena di persone con bandane oppure completamente calve. La perdita dei capelli era il segno distintivo della chemioterapia, che oltre a farti diventare completamente calvo, sterminava tutti gli anticorpi che avevi nell'organismo, il che ti lasciava completamente a disposizione dei virus che veleggiavano liberi per l'ospedale.
Qualcuno venne a sedersi accanto a me. Era un ragazzo, molto carino e con ancora tutti i capelli. Forse eravamo gli unici in quella stanza ad averli.
Si girò verso di me, e mi ritrovò a fissarlo. Io sorrisi come un'ebete.
«Ciao.» Mi disse sorridendo.
Oddio, mi aveva rivolto la parola. Ero nel panico più totale. Mai nessun ragazzo che si avvicinasse anche lontanamente alla categoria “carini” mi aveva parlato prima d'ora.
«C-ciao.» Dissi io, un po' impacciata.
Cavolo, era davvero un gran figo. Aveva dei capelli castani, e occhi color nocciola. Alto, non molto magro, ma con dei muscoli che si intravedevano sotto la stoffa dei suoi abiti.
«Carina la tua maglietta.» Disse sorridendo, accennando allo strano disegno tutto colorato che c'era sulla mia t-shirt.
«Comunque, io sono Thomas, leucemia linfoblastica acuta.» Mi porse la mano.
«Emily, leucemia promielocitica acuta.» Risposi con un sorriso, mentre gliela stringevo. Era calda e morbida.
«Sei in remissione?» Mi chiese, buttando uno sguardo ai miei capelli.
«In realtà no, me l'hanno diagnosticata tre giorni fa.» Risposi io, abbassando lo sguardo. «Tu, invece?»
«Sì, da quasi due anni. Sto aspettando i risultati delle analisi di routine.»
«Oh, capito.»
Momento di silenzio assoluto.
Ho sempre odiato questi tipi di momenti, in cui non sai cosa dire e pensi che la prossima cosa che uscirà dalla tua bocca sarà una cosa banale e senza senso.
«Ti va di andare a fare due passi fuori?» Chiese all'improvviso, rompendo il silenzio che si era creato.
Mi girai verso mia madre, che fece un cenno d'assenso. Quindi mi rivolsi di nuovo a lui: «Okay, andiamo» e mi alzai dalla scomoda sedia in plastica.
Prendemmo l'ascensore, ma con mia grande sorpresa, il tasto che premette non fu quello del piano terra, ma il ventitreesimo, l'ultimo.
Lo guardai alzando un sopracciglio.
«Tetto.» Rispose lui, accennando un sorriso.
Il resto dei secondi trascorsi nell'ascensore passarono in silenzio, anche perché stavo cercando di capire il motivo del tetto. Voglio dire, con tanti posti, proprio il tetto? E se avesse voluto buttarsi? Oddio, sarei stata testimone di un suicidio.
Le porte in acciaio si aprirono, e il tetto si rivelò essere un ampio spazio con un piccolo giardino.
«Giardino pensile. Non è una trovata magnifica?»
Io continuai a guardarmi attorno stupita. Non mi sarei mai immaginata un giardino sul tetto. Di un ospedale, poi.
«Me l'ha detto Janis questo posto.»
Mi voltai verso di lui «...Janis?»
«È un'infermiera di oncologia. Mi portò qui la prima volta che dovetti fare la chemio. Ebbi una crisi di pianto e non riuscivo a fermarmi. Venire qui riuscì a calmarmi.» Rispose sorridendo.
Non la conoscevo questa Janis, ed era più che comprensibile, visto che avevo “scoperto” il reparto soli tre giorni prima.
Mi incamminai fra le varie piante, sfiorando ogni foglia e ogni petalo che le mie mani riuscivano a raggiungere.
«Questo deve essere nuovo.»
Mi girai, e vidi che stava fissando un piccolo alberello.
«Non c'era l'ultima volta che sono stato qui.» Disse facendo spallucce mentre rispondeva alla mia muta domanda.
Quindi continuai ad aggirarmi tra le varie piante, fino a quando raggiunsi il muro, e mi sporsi oltre. Le persone non erano altro che un puntino, mentre le auto sembravano formiche.
Sentii che Thomas avvicinarsi.
«Che vista da quassù, eh?» Disse mettendosi di fianco a me, mentre appoggiava i gomiti sul freddo cemento. «Si vede persino casa mia.» E mi indico una zona di Los Angeles alla mia destra, quella delle villette che fanno vedere sempre nei film, a due piani, giardino spazioso, strada tranquilla con scarso passaggio di auto, feste periodiche con tutto il vicinato e un albero verde e rigoglioso ogni dieci metri. «Tu invece, dove abiti?»
«Oh, dall'altro lato della città» e indicai qualcosa alle mie spalle.
Dopo qualche secondo di silenzio in cui io contemplai il panorama, mi chiese: «Quando cominci la chemio?»
Presi un bel respiro, prima di parlare: «Mai». Quindi, dopo alcuni instanti di pausa, continuai: «È in uno stato troppo avanzato per fare la chemio, non risolverei nulla. Perderei tempo e basta. E non voglio sprecare gli ultimi ventidue giorni che mi rimangono.»
Tutto quello che mi riuscì a dire fu un «Oh». Era sorpreso anche lui, a quanto pare. Non si aspettava questa risposta. Poi mi abbracciò, e questa volta fui io a rimanere sorpresa. Non mi aspettavo questo gesto. Lo avevo appena conosciuto, e l'unica cosa che sapevo di lui era il suo nome.
Ricambiai l'abbraccio, e mentre ero così, stretta a lui, cominciai a piangere all'improvviso, pensando a tutto ciò che non avevo ancora fatto e che avrei voluto fare.
Cominciò a cullarmi. Mi fidavo di Thomas, forse perchè sapeva quello che stavo passando, o solo perchè avevo disperatamente bisogno di qualcuno.
«Scusa.» Mi allontanai da lui, asciugandomi una lacrima che stava scendendo lungo la mia guancia.
«Va tutto bene, tranquilla.» Rispose, con un timido sorriso.
«È solo che... Avrei voluto fare tante cose.» Gli dissi, come per giustificarmi.
«Tipo cosa?»
«Come andare...»
Il mio cellulare cominciò a squillare.
«Scusa, è mia madre» e accettai la chiamata. «Cosa c'è?»
«Vieni qui, tocca a noi fra poco» Rispose una voce dall'altro lato.
«Va bene, due minuti e sono lì.» Riposi il telefono in tasca. «Devo andare, perdonami.»
Stavo già per raggiungere la porta, quando Thomas mi urlò da dietro: «EHI, ASPETTA!»
Mi girai, e aspettai che mi raggiungesse.
«Dammi il tuo numero» mi disse con un sorriso.
Avevo sentito bene? Aveva chiesto il mio numero? O ero in coma e quello era soltanto un sogno?
«Sì, certo» risposi dopo alcuni attimi, ancora sotto shock. «555-8723»
Lui lo memorizzò sul cellulare. «Okay, domani ti chiamo.»
Io sorrisi, e scesi di sotto, al quarto piano, dove c'era mia madre ad attendermi impaziente.
«Ma dov'eri finita?!»
Stavo già per rispondere, quando la porta dello studio si aprì e ne uscì una signora che sprizzava felicità da tutti i pori. Le avevano dato un'ottima notizia, probabilmente.
«Dai, sbrigati.» Disse prendendomi per un braccio.
Entrammo, e ci sedemmo sulle soffici poltrone di pelle.
Già dalla faccia del dottore si capiva che quella che doveva darci non era una bella notizia. Non bella quanto quella della donna precedente, almeno.
«Salve signora Johnson, ciao Emily.» Ci disse alzando lo sguardo dalle sue carte.
«Salve dottore. Allora, come sono andati gli esami? C'è qualche miglioramento?»
«No, mi dispiace. Quello che ho detto qualche giorno fa non è cambiato. E i valori sono un po' peggiorati, segno che la leucemia sta avanzando verso lo stadio finale».
«Che sarebbe?» Chiese mia madre, anche se avevo il sospetto che sapeva la risposta, ma non voleva ammetterlo a se stessa.
Il medico prese un ampio respiro prima di parlare: «La... morte
Sentii il sangue gelarmi nelle vene, ma cercai di restare forte, di non far trapelare nulla all'esterno, visto che mia madre aveva cominciato a singhiozzare. Le presi una mano, e la strinsi, come per darle coraggio, quel coraggio che non avevo nemmeno io.





Ed eccomi qui, dopo quasi un mese, ad aggiornare **
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito, messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, e anche chi l'ha soltanto letta. Davvero, grazie mille.
Non so cos'altro dire, quindi boh, al prossimo aggiornamento c:
- Nevannah

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