Does this darkness have a name?

di ElizabethAudi
(/viewuser.php?uid=116867)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


Questo intro è importante da leggere, perdeteci qualche minuto in più.
Per far capire quanto sia maledettamente importante questa fanfiction, scrivo le note dell'autore qui sopra, in bella vista.
Incominciai a pensare si scrivere qualcosa su '71 into the fire' già qualche mese fa, che lo vidi per la prima volta.
Non potrò mai dimenticarmi quel giorno, poiché piansi ininterrottamente per qualche ora.
Può essere strano, potrete prendermi per strana, ma a me ha avuto quest'effetto.
Diversamente dal Titanic, Ghost o qualsiasi film strappalacrime, questo mi fa piangere ogni volta che lo vedo.
Di buono o di cattivo umore. Nervosa o rilassata.
Quindi ho deciso di scrivere una fanfiction completamente ispirata al film.
Infatti questa fanfiction non è che una revisione dei passaggi del film visti da uno studente-soldato piuttosto particolare.
Sì, magari ci sarà del romanticismo, non lo so ancora, ma il punto è che è importante immedesimarsi in questo tipo di situazioni,
per poter capire qualcosa in più sulla guerra e sulle conseguenze che lascia. E' importante anche solo per non farci dire cretinate sulla stessa.
Comunque se non avete voglia di una lettura pesante, personale e direi anche noiosa, non vi consiglio di proseguire.
E soprattutto, per chi non ha visto il film, beh, sarebbe carino che lo vedesse, per potersi gustare al meglio la fanfiction.
Oltre che il film merita tantissimo. Non posso far altro che spronarvi a vederlo.
Comunque il titolo della fanfiction deriva da un famoso monologo, ma l'ho usato soprattutto grazie a questo video:
http://www.youtube.com/watch?v=zLdN4pm4oU0&playnext=1&list=PLC2E9FA608FB22100&feature=results_video.
C'è da dire che non ho scritto nessuna riga a scopo di lucro, anzi, vorrei ricordare il coraggio di quei 71 ragazzi che hanno avuto un coraggio esemplare.
Mi commuove come siano stati così abili, così...impavidi, nonostante la loro giovane età.
Che vengano ricordati, come l'intera guerra tra l'altro. Nessuno ne tiene conto, ricordano solo la Guerra Mondiale precedente e la Guerra del Vietnam immediatamente successiva. 
Ricordiamo soprattutto come la Corea del Sud, differentemente da molti altri stati colpiti dalla guerra, si sia ripresa subito.
Con lo stesso coraggio con il quale ha combattuto la sua nemica e la colonizzazione. Ha combattuto contro la violazione dei loro diritti.
Ed hanno vinto. 

Ora vi lascio finalmente alla lettura. Ero molto indecisa se pubblicarla qui o su ' a l i v e ', ma alla fine ha vinto questo.
Buona lettura, vi prego di farmi sapere.
Come ho detto, ci tengo molto a questa storia.
Ed ecco a voi, 'does this darkness have a name?'.
Ellie

 

 

 

Does this darkness have a name?

 

Il 15 agosto 1945, la Corea venne liberata dall’occupazione Giapponese.
Il Trentottesimo Parallelo eresse una barriera fra il nord comunista e il sud degli americani.
Il 25 giugno 1950 segna l’inizio della guerra coreana.
Fu il primo grande conflitto dopo la Seconda Guerra Mondiale
e la regione intorno al Ponhang vide feroci scontri fra la terza divisione di fanteria della Corea del Sud e le forze della Corea del Nord.
Durante gli scorsi 40 giorni, le forze della Corea del Sud non hanno fatto altro che ritirarsi.
Non c’è nessun posto in cui tornare, adesso possono solo aspettare l’arrivo degli alleati sul fiume Nakdong.




Prologue.

Nuove reclute HDB, in numero di 68. A
l momento 3 reclute, per un totale di 71.
Fine di questo gruppo.

Il generale incominciò a camminare avanti e indietro, squadrandoci uno per uno, guardandoci negli occhi e infondendoci coraggio solo con la sua presenza.
Sapeva benissimo che eravamo pochi. Sapeva benissimo che eravamo giovani.
Eppure i suoi occhi fermi e il suo volto sicuro nascondeva la preoccupazione in una maniera esemplare. In fondo era questo che un soldato valido doveva essere. Una macchina da guerra priva di emozioni e paure. Quelli che lo avrebbero dato a vedere, quelli che avrebbero avuto paura, sarebbero morti ben presto schiacciati dall'imperturbabile guerra.
E io ero lì, tra quelle file, ad aspettare il mio momento. Il petto in fuori e lo sguardo dritto, è così che il generale mi vide. Come un semplice e giovane soldato costretto dallo stato alla guerra. Ma nei suoi occhi scorsi una scintilla, che ci passavamo in quello sguardo che sembrò durare in eterno.
Mi chiesi se mi avesse scoperta. Mi chiesi se mi avrebbe mandata via, o addirittura fucilata. E invece no, tutt'altro, passò avanti, finché non chiamò avanti le tre reclute, che fecero come saluto un piccolo inchino.

Date fucili M1 da 250 proiettili ciascuno alle nuove reclute.


Si misero tutti in un'ordinata fila, aspettando il proprio turno per prendere tra le mani il loro primo fucile. Quello che sarà il loro compagno, il loro migliore amico e la loro salvezza. Quello che potrà salvarli o privarli della loro vita. C'era un gran trambusto intorno a me, tra persone che tremavano e altre che erano quasi felici. Quando fu il mio turno e quando lo toccai per la prima volta capii cosa volesse dire la parola "guerra".
Un fremito misto di adrenalina e paura mi percorse il corpo, mentre lo stringevo al petto e camminavo avanti per far passare gli altri soldati. Mi appoggiai al palo che teneva in piedi il capanno fissando l'arma. Non mi resi conto che vicino a me una delle reclute mi stava osservando con sguardo serio.

Uomini, d'ora in avanti fate tutti parte delle truppe HDB.

Sorrisi istintivamente, guardandolo in faccia.
Avrei dovuto sentirmi fiera di ciò che stavo per fare, poiché avrei combattuto per la mia patria, per la mia famiglia e per il mio popolo. E in parte era così. Ma dall'altro lato c'era il disgusto che provavo verso la guerra e verso lo spargimento di sangue.
Saremmo morti tutti, noi, i nemici e gli innocenti. Che senso avrebbe avuto combattere allora?
Scossi la testa, mentre il discorso del generale mi riempiva le orecchie. Ero solo una mocciosa costretta alla guerra che si faceva passare per maschio. Ero ridicola, ma avevo dovuto farlo.
E così da studenti, eravamo diventati parte delle truppe HDB.
Avremmo avuto un capo e delle direttive da rispettare e dai piani alti non sarebbe arrivato alcuno aiuto. Queste erano le uniche cose di cui eravamo convinti.

Il vostro comandante sarà Oh Jung Beom.

Ed ecco svelato il primo mistero, ovvero chi sarebbe stato il nostro comandante.
Si trattava della recluta che fino a qualche secondo fa mi stava guardando, poiché lo vidi spalancare gli occhi. Ah, non lo invidiavo affatto, in effetti. Essere il capo voleva dire assumersi le responsabilità del campo, del risultato di un possibile attacco e soprattutto, della sicurezza di ognuno di noi.
Non biasimavo la sua insicurezza. Alla fine, eravamo tutti giovani inesperti.
Gli altri intanto quasi non mi fecero scoppiare in un’ironica risata. Come potevano voler votare per quel posto?
A parte la loro sfacciataggine nel contraddire una cosa così importante come quella che aveva detto il capo, ma anche perché, beh, non si rendevano conto di cos’era mantenere quel compito?
Distrutte le speranze di una votazione, il generale ci spiegò la dinamica della nostra missione con poche parole, dritte e concise. Era detto tutto fin troppo banalmente per trattarsi di un compito che rasentava la morte.
Sentii il ragazzo, ora mio comandante, fremere. Lo sentivo attraverso la mia spalla, a stretto contatto con la sua. Avrei voluto mettergli una mano su essa e dirgli che darebbe andato tutto bene e che doveva farsi coraggio, ma non potevo. Era un’azione troppo sentimentale per un maschio probabilmente. E poi mi ero ripromessa di parlare il meno possibile per evitare qualsiasi tipo di problema.

Sta dicendo che vuole che difendiamo questo posto? Solo noi?

La seconda risoluzione del mistero mi sconvolse più di quanto potessi immaginare.
Ci avrebbero davvero lasciati lì? A sorvegliare quella maledetta scuola che-ah!
Trattenni un urlo. Se dovevo morire avrei preferito farlo subito, combattendo tra le prime file per la mia patria. Ma rimanere lì … ad aspettare chissà cosa … con una continua ansia sulle spalle, oh, quello sì che era come una pugnalata in pieno petto.
Arricciai il naso, sperando -come d’altronde stavano facendo tutti gli altri- che v’era una valida motivazione per quella scelta. 

Ponhang è una base minore da un punto di vista strategico.

Si guardarono tutti negli occhi, confabulando fra di loro. Io abbassai semplicemente lo sguardo.
Saremmo rimasti a sorvegliare una base superficiale, a quanto sembrava. Quando alzai lo sguardo notai che tutti guardavano il generale con occhi confusi, mentre quel tipo dietro, quel ganzo che era andato contro alla scelta del nostro comandante, sbuffava e imprecava a vuoto. Ah, eccome se avrei voluto mollargli un cazzotto in pieno stomaco in quel momento.

Noi seguiamo gli ordini che ci vengono dati.

Quella frase mi fece sentire completa, facendomi dimenticare di tutto il resto. Seppure molti ordini nel corso dei secoli siano stati completamente sbagliati, io in quel momento avevo bisogno di una guida. Ma soprattutto, avrei fatto di tutto per riuscire a proteggere ciò che mi era caro. Era il mio unico orgoglio e volevo proteggerlo con cura. In tutta la mia vita non avevo avuto uno scopo, un motivo per continuare, e ora mi si era presentata davanti l’occasione di essere utile per qualcosa o per qualcuno. Tuttavia la mia scelta di fingermi uomo non era dovuto solo a motivi egoistici. Ma questa è un’altra storia.
Intanto intorno a me le voci si erano alzate. Parlavano di attacchi e di cosa dovevano fare se ne fosse arrivato uno. Alcuni prendevano sottogamba la situazione, altri proponevano di scappare. Le mie spalle si tesero. E io che avrei fatto?

Le truppe HDB sono soldati, non voi non siete soldati?

Quest’ultima frase pronunciata dal generale cancellò tutti i dubbi dalla mia mente.
In effetti, tutte le sue parole pronunciate fino a quel momento erano state importanti per, come dire, tranquillizzarmi. Era semplice ciò che dovevo fare: dare il mio meglio e non arrendermi.
E non lo avrei mai fatto.
Me lo promisi quel caldo giorno, sotto quel capanno di legno, insieme a quelli che sarebbero stati i miei -probabilmente ultimi- compagni di vita.

Voi siete la nazione.
Credete in voi stessi.



Agosto 1950.
71 studenti soldato vennero lasciati a sorvegliare la scuola media femminile di Ponhang.
Pieni di speranza. Pieni di illusioni. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Does this darkness have a name?

A desolate day, I receive a letter.Your circumstances make me tear.If my voice brightens your world,Farther and farther, I'll shout.Nananana Nananana Do you hear my heavy heart.Friend wipe your tears, I think you're prettier when you smile.- Oh Mom, T.O.P.




Capitolo uno.

«Yun Hee,» mi voltai di scatto, l’unica che poteva chiamarmi così era l’infermiera del campo, così al suo sussurro scattai e la raggiunsi. Mi prese le mani e se le portò alle labbra. «Oh, mi duole lasciarti qui, ti prego, cambia idea e seguimi!» Affermò lei, guardandomi negli occhi con aria preoccupatissima.
«Non faccia così, me la caverò, e poi sono un soldato come gli altri ora, non faccia favoritismi.» ridacchiai, sorridendole come meglio potevo. Aveva scoperto il mio segreto quando ero andata in infermeria per cercare qualche benda per nascondere le forme. Ero lì, nel buio, che provavo a bendarmi, quando lei entrò.
Provò più e più volte a fermarmi, ma quando arrivò il gruppo degli studenti soldato mi guardò negli occhi e capì che non sarebbe mai riuscita a farmi cambiare idea.
Rimase a guardarmi negli occhi per qualche secondo, prima che arrivasse il nostro comandante a salutare anch’egli.
«Abbi cura di te, Jung Hee.» Mi sorrise un’ultima volta, quale ricambiai anche io con tanto calore.
Mi aveva appena dato un nome. Mi aveva appena dato una nuova identità per il quale continuare a vivere. E così i miei occhi si riempirono di lacrime. Abbassai lo sguardo e mi allontanai, evitando quello del comandante, che stava posando le ultime cose nel furgone.

Li guardai partire seduta all’entrata dell’edificio. Da quel giorno fino al successivo mercoledì saremmo rimasti soli a fare i cani da guardia. Mille pensieri bazzicavano nella mia testa e non riuscivo a farli stare fermi, cosa che mi provocava un gran mal di testa. Premetti le tempie, mentre davanti a me scorrevano immagini di quando ero a casa, con mio fratello e con mio padre. Quando davo da mangiare alle galline. Quando venivo rincorsa dal cane.
«Perché te ne stai tutto solo?»
Alzai lo sguardo e notai un ragazzo piegato verso di me che mi sorrideva.
«Come ti chiami? Io mi chiamo Dal-yeong.» si presentò lui, porgendomi la mano con gentilezza.
Io di tutta risposta alzai un sopracciglio, ma mi sentii sollevata nel ricevere quell’attenzione così semplice.
«Jung Hee.» Risposi semplicemente, sorridendogli però dolcemente. Lui sembrò catturato da quello, poiché fissò le mie labbra per qualche secondo e poi sorrise anch’egli. In quel momento davanti a noi si pose un’ombra, ovvero quella del comandante Oh Jang-Beom. 
«Ci serve qualcuno che sappia cucinare.» Fissò entrambi per qualche secondo poi si concentrò sui miei occhi, poiché Dal-yeong era subito scampato a quello sguardo. Imprecai mentalmente, sapevo cucinare abbastanza bene, ma di mettermi a cucinare per tutti, beh …
«E tu?» Il mio pensiero venne interrotto dalla sua secca domanda, allora rialzai lo sguardo e annuii.
«Allora per favore prenditi cura del nostro nutrimento»
Detto questo piegò leggermente la testa e tornò al centro del campo, per parlare con altri due soldati.
Sospirai. Quel ragazzo non dava proprio l’idea del capo forte e deciso che avrebbe dovuto dare.
Lo fissavo intensamente, ogni suo movimento era incerto e nei suoi occhi vi era il vuoto. Aveva paura e non lo biasimavo.
«Dal-yeong, diamogli più coraggio che possiamo.» Affermai, continuando a guardarlo spostarsi.
Sentii lo sguardo del mio compagno su di me e poi lo vidi annuire con la coda nell’occhio.
«Mi sa che ad ognuno di noi serva coraggio, ma lui...» Non finì la frase, ma capii benissimo ciò che volesse dire. 





«Fa schifo questo brodo!»
«Concordo, è salatissimo e non sa di patate!»
Scossi la testa, non potevo aspettarmi altro dalla banda di Kap-Jo. Non alzai lo sguardo ma continuai a mangiare, sentendomi però profondamente in colpa. Non era colpa mia se per sostituire qualche ingrediente con un altro fosse diventato tutto più salato. Il mio vicino mi diede una pacca sulla spalla e mi sorrise, mentre ciò che fece calare il silenzio fu la parola inaspettata del nostro comandante.
«Io lo trovo buono invece.»
Strabuzzai gli occhi e lo guardai, stava appunto prendendo un boccone quando alzò lo sguardo e mi regalò un leggero sorriso, cosa che mi sorprese ancora di più. Nacque un sorriso anche sul mio viso e continuai a mangiare con iI doppio del gusto di prima. Lo stesso fecero gli altri, mentre Kap-Jo mi guardò con aria infastidita, ma non ci feci caso e mi concentrai sulle chiacchiere dei ragazzi.
Alla fine erano tutti piuttosto allegri e positivi, quasi fossero davvero in un istituto scolastico, e io mi beavo di quelle risate, ricordando i miei compagni di classe durante le pause. Mi strinsi nelle spalle, immaginandoli su un campo minato, mentre sparavano per conservare la loro vita.
Sospirai, alzandomi e iniziando a prendere qualche piatto da incominciare a portare in cucina per lavarlo, giusto così, per non rimanere con una faccia triste in quella tavolata di uomini così caldi e vivaci.
Posai i piatti vicino il lavello e mi piegai in avanti, tirando un grande sospiro. Come avrei fatto a vivere in quel modo per tutto quel tempo? Strizzai gli occhi e mi diedi coraggio mentalmente, voltandomi per ritornare a prendere altri piatti e bicchieri, ma davanti a me si parò Jang-Beom.
«Ti piace lavare i piatti?» chiese lui, anche se la sua sembrava più un’affermazione che richiesta.
Feci spallucce, prendendo i piatti dalle sue mani e posandoli sopra agli altri.
«Per niente, ma credo che qui serva collaborazione, e pensavo che almeno in questo avrei potuto evitare problemi per gli altri, nonché discussioni.» Affermai, annuendo convinta, cosa che però non lo fece sorridere come speravo. Invece lui rimaneva davanti a me fissandomi negli occhi.
«Credo tu abbia ragione.» Sentenziò alla fine, dandomi le spalle per allontanarsi.
Rimasi a guardarlo finché non girò l’angolo e scomparse dalla mia vista. Ripensai alle parole dette con Dal-yeong qualche ora fa e non potetti fare a meno di ripromettermi di fare il possibile per fargli acquisire fiducia in sé stesso. In caso contrario, saremmo stati tutti fregati.
Incominciai a lavare i piatti, quando un ragazzo, abbastanza corpulento si avvicinò, mi sorrise e dopo che avevo lavato un piatto lui lo asciugava.

Una volta finito di lavare tutti i piatti io e quell ragazzone ci lanciammo uno sguardo di intesa, ma proprio in quel momento si alzò confusione da fuori il giardino. Ci affacciammo entrambi alla finestra, e vi era un cerchio intorno a chissà cosa. Buttai i guanti di plastica per terra e cosi verso l’uscita, saltellando degli scalini per far prima, seguita dall’ansimante aiutante. 
Una volta fuori notai che l’attenzione si era spostata. Per terra vi era un telo con cioccolata, pugnali e sigarette, ma nessuno gli dava importanza, quando ne davano a ciò che stava succedendo tra il comandante e il solito ganzo impertinente.
«… noi siamo qui per uccidere i comunisti, non per seppellire cadaveri!» Urlò Kap-Jo, incitando quei poveri ragazzi che alla fine non sapevano niente di moralità, o se l’erano dimenticati in quella situazione di tensione. Alla fine, era ovvio dar ragione alla persona che appoggiava la convenienza.
«Se non lo farai verrai fucilato.» Sentenziò il nostro comandate, talmente tanto freddamente che mi fece venire brividi.
«E qui nessuno ti seppellirà, per la miseria.» Aggiunsi io con tono ironico, che fece spazientire il ragazzo, andando a toccare il cappello del comandante con il coltellino che aveva tra le mani.
«E chi mi sparerà? Tu? Ma non farmi ridere!» Lo prese in giro lui, mentre tutti quanti li guardavano col fiato sospeso. Io però sapevo che quel ragazzo era tutto fumo e niente arrosto, lo sentivo. Non gli avrebbe torto un capello.
«O qualsiasi altra persona che sappia usare un fucile, Kap-Jo, contrariamente a te.» Sbuffai mettendomi tra i due, guardando quel prepotente negli occhi. In effetti la stavo rischiando brutta. Non si trattava di un conflitto tra donne, e nemmeno di un conflitto tra normali studenti, ma tra un omicida e una recluta. Ci potevo tranquillamente rimettere la pelle solo per aver stuzzicato il loro orgoglio, ma cercai di guardarlo il più duramente possibile, nascondendo le mie imprecazioni mentali. «Abbiamo tanto lavoro da fare, ti prego a te e al tuo amico di darci una mano.» 
«E’ arrivato il moccioso pacifista,» mi guardò negli occhi con aria minacciosa, ma si mise in tasca il coltellino «ci mancava solo questo qui dentro.» Si allontanò, dandomi una possente spallata, ma senza fare altre storie. Piuttosto io cercai di non smuovermi troppo sotto quel corpo, ehi, mi sentivo così debole rispetto a tutti quei ragazzi.
Lo guardai allontanarsi, seguito poi dagli altri, per poi incontrare lo sguardo delle reclute e poi del comandante.
«Volevo ringraziarti di avermi incoraggiato per il pranzo, tutto qui.» Alzai le spalle e gonfiai il petto, seguendo gli altri per mettermi al lavoro.

Vedere tutti quei corpi fu un vero colpo al cuore per me. 
Volti straziati dal dolore, arti tagliati, ferite e sangue ovunque, oltre al tanfo conseguente alla decomposizione di essi e dal vomito dei ragazzi. Mi guardai intorno e mi punsero gli occhi pensando che tutti quei corpi non erano altro che la millesima parte delle vittime che aveva e stava facendo quella guerra. Avrei voluto prendere a calci quel bastardo che capeggiava le armate dei vicini del nord. Avrei voluto buttarlo in una vasca piena di morti che lui aveva ucciso, e sì, anche direttamente.
Chiusi gli occhi, per poi riaprirli e tirare da sola un corpo verso la sua fossa, mentre le lacrime scendevano senza che volessi realmente.
Sentii degli sguardi su di me, ma non alzai gli occhi, magari non se ne sarebbero accorti di quelle goccioline che scendevano copiosamente. 
«Ti chiami Jung Hee, ragazzo?» Chiese ridendo l’amico di Kap-Jo, lanciandomi un gesto divertito, sentii poi una mano poggiarsi sulla mia spalla.
«Ah, lo sapevo, era tutta scena per far colpo sul comandante quella di prima, eh frocetto?» 
Quell’affermazione mi fece andare in tilt e in un millisecondo gli spostai la mano, dandogli una ginocchiata in pieno stomaco. Sentii l’impulso di correre e di scappare, ma sfuggii con tranquillità alla presa del ragazzo per poi allontanarmi a passo veloce, sotto gli occhi strabuzzati di tutti. Mi trattenni dallo sculettare soddisfatta, come facevo da piccola quando vincevo una scommessa. Ma era comprensibile la mia soddisfazione, no? Certe persone andavano messe in riga.

«A che punto sono?» Mi chiese una di quelle reclute che stavano sempre intorno al comandante, guardando avanti. Feci spallucce.
«Temo non finirà mai.» Risposi, guardando anche io avanti, sentendomi in colpa per averli lasciati a quel triste lavoro.
«Tutto ha una fine, anche questa guerra l’avrà.» Disse il ragazzo, cosciente della mia allusione.
«Sì, ma come finirà?» La mia domanda lo ammutolì, ma io non mi aspettavo una risposta, tanto che girai e mi allontanai, lanciando un’occhiata al comandante che guardava sperduto la scena. Evidentemente, anche lui aveva le mie stesse paure, poiché mi rivedevo in quei suoi scuri occhi, sperduti chissà dove.

«Tutto bene, comandante?»
Alla fine non avevo resistito all’impulso di avvicinarmi a lui e di parlargli. La sua presenza ispirava sicurezza, mentre i suoi occhi erano pieni di sensibilità. Un tipo curioso, insomma, a cui non potevo resistere. Come scusa per me stessa, pensai che alla fine eravamo tutti compagni e dovevamo sostenerci tutti, ma lealtà era che mi faceva leggermente intristire che se ne stesse sempre per fatti suoi.
In seguito al mio richiamo, lui scattò come una molla, quasi gli avessi interrotto il più bel sogno di tutti. Lo guardai negli occhi a mo’ di scusa, e lui stese le labbra, che erano incredibilmente arricciate. Così annuì semplicemente senza degnarmi di ascoltare la sua voce. Feci spallucce, non mi sarei arresa così facilmente.
«Volevo scusarmi per prima, mi sono intromesso quando non avrei dovuto,» Abbassai gli occhi a terra, trattenendo un sospiro di sollievo, poiché mi stava scappando un femminile di troppo, «oltre al fatto che adesso dovrei essere ad aiutare gli altri con, ecco, i cadaveri.»
«Quel ragazzo ha troppa fiducia in sé stesso, ho visto la scena di prima, non devi preoccuparti.»
Quelle parole uscirono secche dalle sue labbra, ovviamente sforzate, poiché dopo averle pronunciate sospirò. Allora sbuffai silenziosamente e guardai nella sua stessa direzione.
«Io credo piuttosto che nella sua vita si sia perso e nessuno lo abbia aiutato a trovare la strada di casa.» Affermai io, facendo spallucce. Vedevo in quel presuntuoso ragazzo lealtà, orgoglio e coraggio. Tutte doti straordinarie, sia per un soldato che per un delinquente. Avrei voluto non avergli dato quella ginocchiata nello stomaco, ora l’avrei pagata grossa. Ridacchiai al solo pensarci
«Sei stato coraggioso.» Affermò lui, guardandomi per la prima volta negli occhi. «Se dovesse darti noie fa un fischio, è compito del comandante tenere i propri soldati in riga.»
Esplorai il suo guardo, toccando molte sensazioni che probabilmente stava provando in quel momento, cosa che mi fece fremere. Avrei voluto buttargli le braccia al collo e stringerlo, dicendogli che andava tutto bene. Alla fine quel ragazzo aveva un pesante fardello sulle spalle, oltre a quello che avevamo noi tutti, e in più era completamente solo. E infatti di quello che aveva detto non credeva ad una parola. Però annuii e gli sorrisi meglio che potevo, alla fine dovevo mantenere la mia promessa.
«Allora, io vado a sistemare delle cose.» Sentenziò lui, dandomi le spalle per poi inizare a camminare.
«Posso darti una mano?» Feci qualche passo avanti, ma lui alzò una mano e io mi fermai, mettendo uno strano broncio. Feci spallucce e mi voltai anche io, raggiungendo un soldato che stava armeggiando con un fucile. Quando ci avrebbero insegnato ad usarle, quelle macchine di morte?

«Uno sparo vale 100!»
Ripetemmo tutti a gran voce, mentre il nostro insegnante andava avanti e indietro, guardandoci con occhi pieni di severità. Pensai che avrei fatto a meno di essere lì ad imparare come usare un’arma, ma sorrisi della mia stupidità, poiché tutti avrebbero voluto evitarlo.
Dopo una breve dimostrazione di come rischiavamo un dito caricando l’arma, alcuni di noi si misero a terra, per caricare. Spararono, ma mancarono tutti il bersaglio, come prevedibile che fosse.
Io invece non sparai, nemmeno quando incominciarono a farlo tutti. Sentivo uno sguardo su di me e ciò mi spronava a provare, ma lo shock provocato dal rumore degli altri spari era troppo forte.
I colpi cessarono. Tutti erano scocciati e frustrati.
«Cos’è, hai paura mocciosetto?»
E I nervi salirono completamente al cervello quando l’amico grasso di Kap-Jo mi mise una mano sulla spalla. Avevo paura di quel coso che tenevo tra le mani, e avevo paura di usarlo, ma a quel punto tutta la tensione si concentrò su quella pentola lì al centro, davanti ai miei occhi. Puntai improvvisamente il bersaglio, ferma in quell’azione così inaspettata, e premetti il grilletto.
Un coro di versetti stupiti intorno a me mi fece sorridere, pensando che, nonostante fosse al lato, avevo colpito quella vecchia pentola al mio primo colpo. Dopo l’iniziale entusiasmo, la mia mente cadde in un profondo vuoto. Quella pentola potrebbe essere stata una persona, e quella persona sarebbe potuta morire a causa sua.
Dopo di che, quella folla che mi osservava, si spostò su Kap-Jo, che aveva lanciato un pugnale proprio al centro della pentola. In effetti il talento lo aveva, e nemmeno poco.
Sbuffai. Se solo quel talento fosse riuscito a sfruttarlo al meglio.
«Com’è che ti chiamavi, Jung Hee?» Si avvicinò a me con un altro di quei suoi pugnali verso di me. «Per quel calcio, potrei colpire te la prossima volta.»
«E io per le tue parole, potrei sparare a te, la prossima volta.» 
Dopo queste battute, l’altra recluta mi prese per il braccio e mi tirò via, portandomi verso l’edificio.

«Hai avuto paura, mh?»
Quella domanda mi spiazzò, era così evidente? Eppure la sua risposta sembrava ferma, forse fin troppo.
«Quel Kap-Jo … sarebbe da dargli una sistemata.»
«Ti prego invece di ignorare, anzi, è un ordine.»
«Posso sostenerlo, ne ho il coraggio.»
«Sì ma non le facoltà fisiche, soldato.»

Lo sapevo benissimo, non c’era bisogno di ricordarmelo ogni volta. Sono una ragazza, mai stata portata per l’attività fisica e fondamentalmente molto pigra. Nonostante a casa facevo il bulletto, il maschiaccio, ciò che avevo era solo fegato di sostenere una cattiva situazione. Ma sì, ero costretta a battere in ritirata quando il mioo sfidante aveva il coraggio di contrastarmi. Il che era raro per il semplice fatto che mio fratello era uno dei ragazzi più alti e imponenti del suo paesino. Nessuno voleva metterselo contro.
Ed ecco che mi ritrovavo inaspettatamente sul tetto dell’edificio a guardare le stelle. Non toccava a me fare da sentinella quella notte, semplicemente volevo starmene da sola. Anche se faceva freddo e i compagni stavano ridendo al piano di sotto. Nel pomeriggio Kap-Jo e la sua banda avevano fatto esplodere l’edificio che fungeva come dispensa. Alzai gli occhi al cielo, con un sorriso in volto. Se quel gesto poteva sembrare idiota, a me faceva quasi ridere. Siamo tutti ragazzi e non possiamo far altro che stupidaggini. E invece ci tocca reprimere il nostro essere per crearne un altro adatto alla situazione. Ne avevamo di cose ancora da imparare.
In quel momento arrivarono i due ragazzi che avevano il turno di notte, che parlavano a bassa voce tra di loro. Riconobbi i loro volti solo quando furono vicini.
«Se volete, rimango io a tener d’occhio la situazione.» Mi proposi, ma il più giovane, tanto che mi chiamava ‘noona’, mi venne vicino e mi mise una mano sulla spalla, sorridendomi dolcemente.
«No, ora la Noona va a riposarsi, che ha gli occhi rossi.»
Gli sorrisi, non nascondendo le fossette che avevo ai lati della bocca. Gli volevo un gran bene a quel ragazzino, era così ingenuo che veniva quasi voglia di abbracciarlo e proteggerlo da tutto e da tutti.
Anche l’altro mi sorrise, facendo segno con la testa di filare via. Annuì leggermente con il volto e a passi lenti, mi diressi verso le scale, per scenderle. Mi fermai sulla rampa, crollando seduta. Avevo un brutto presentimento ed ero davvero stanca, tanto da farmi chiudere gli occhi per qualche secondo.
Quando li riaprii davanti a me c’era il viso del comandante. Sobbalzai, avendo un fremito. Non dovevo trovarmi lì, sarei già dovuta essere nella branda a riposare. Lo guardai tuttavia con occhi decisi, chiedendo scusa con rispetto.
«Dovresti riposare.» Disse soltanto, voltandosi per poi sedersi al mio fianco, guardando dritto in avanti. Mi sorpresi non poco della sua reazione così tranquilla. Avevo sentito qualcuno urlare di sotto, probabilmente per il comportamento dei ragazzi, e pensavo che lo stesso trattamento fosse riservato per me. Mi sbagliavo. Oh Jang-Beom è un ragazzo tranquillo e razionale, non si sarebbe messo ad urlare per niente. In effetti, non lo avevo mai sentito alzare la voce, nemmeno con Kap-Jo, nemmeno dopo l’esplosione della dispensa di patate.
«Dovrebbe riposare anche lei, comandante.» Affermai, voltando il capo per guardargli il volto. Fissava apaticamente un punto indefinito della stanza, immerso in chissà quali pensieri. I muscoli facciali erano tesi, come quelli di tutto il corpo. Provai un brivido e sentii dolore per lui. Tutti erano stati strappati alle loro famiglie per essere buttati tra le braccia della morte. Era ovvio sentirsi così, lo sapevo bene. No, forse meno di loro. Io lì non dovevo esserci, la scelta è stata mia.
«Non riesco ad addormentarmi.» Disse con voce roca. Alzai gli occhi, pensando ad un modo per aiutarlo, ma l’altro continuò a parlare. «Ogni volta che chiudo gli occhi, sento degli spari, tutto intorno a me.»
«Hyung, finirà. I proiettili finiranno e noi potremo avere la nostra occasione. Dobbiamo solo essere forti e andare avanti. Tutti sono con noi, vogliono tutti aiutarci, ma la fortuna sembra non essere dalla nostra parte al momento. Per questo serve che abbiamo il doppio della forza, per fare quel passo in più che non fa la fortuna per noi. Ma noi ce l’abbiamo un senso per combattere. Noi abbiamo chi ci ama, chi ci aspetta, dobbiamo farlo per loro, dobbiamo renderli orgogliosi e dare loro l’opportunità di vivere come vogliono la loro vita. Noi siamo soldati, che siamo giovani non conta. Giuriamo di proteggere la nostra patria a costo di morire e così faremo, perché noi ne abbiamo le capacità. Dobbiamo. Per loro …» Le parole uscivano fuori a raffica, senza farmi capire nemmeno ciò che stessi dicendo. Come non sapevo perché le mie guance si stavano bagnando e il mio respiro si faceva sempre più pesante. Ad un certo punto le parole mi morirono in gola e le mani andarono a coprirmi il volto. Sentii una mano sulla mia spalla, la stringeva, ma non avevo il coraggio di aprire gli occhi e guardarlo. Forse aveva apprezzato le mie parole, forse erano servite a qualcosa. Forse stava piangendo anche lui.


Quella notte ci ritrovammo a sparare contro uomini di fazione nemica. Li uccidemmo. Tutti. 
Mentre noi ritornavamo dentro, il nostro comandante fissava i corpi, sconvolto.
Aveva appena ucciso un uomo che chiamava la madre. Alla fine, non eravamo così diversi.
Mi ero dimenticata che avevamo a che fare con esseri umani, in fondo. Guardai scandalizzata la scena, quando un ragazzo mi tirò via dal posto, ordinandomi di seguirli di corsa dentro, perché era così che voleva il comandante. Lo guardai e iniziai a correre, a grandi passi, usando tutta la forza che avevo nelle gambe per sfogare le emozioni forti e scombussolate che avevo dentro. Sarei scoppiata, ne ero sicura.

La notte passò insonne un po’ per tutti. Nessuno aveva il coraggio di chiudere gli occhi per la paura dell’arrivo di rinforzi, o cose del genere. Eravamo tutti stesi, un po’ per non voler disubbidire agli ordini, un po’ perché rimanere stesi era l’unico modo per rimanere fermi e in silenzio.
Vicino a me un ragazzo singhiozzava. Voltai il capo e lo guardai con la coda nell’occhio, ma questo mi vide, ma non cessò di piangere. Presi la sua mano e la strinsi, guardandolo decisamente. Un comportamento un po’ insolito da parte di un maschio, ma era quello che andava fatto in quel momento. Sentii i suoi singhiozzi farsi più forti, ma ciò era un bene. Doveva sfogarsi, era la cosa più importante. Tornai a guardare il soffitto con gli occhi spalancati, sentendomi per la prima volta da settimane in una famiglia. Tutti sotto questo tetto, diretti verso la stessa meta, disperati per lo stesso motive, felici per essere ancora vivi.
E così chiusi gli occhi, senza però dormire, mentre il ragazzo al mio fianco, dopo un lungo pianto, cadde in un sonno profondo, con la mia mano ancora nella sua. 


Note dell'autore.
Beh, nessun commento e poche letture. Nessun inserimento nelle preferite e nelle seguite, ma che posso farci, io continuo lo stesso.
In effetti, chi conosce '71 into the fire'? Devo scrivere un ottima descrizione, così magari sono attratti almeno dalle trame.
Ringrazio le persone che mi supportano nel GDR. Un paio sono davvero care. #lanciacuori.
Spero che non ci siano particolari errori grammaticali, non ho controllato con molta attenzione.
Questa volta non ho niente da dire,
si spera in maggiori lettori. #sigh.
Ellie

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1206651