Hyperversum: il ruggito della Tigre.

di Disorientated Writer
(/viewuser.php?uid=138615)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Attento a cosa desideri, o potrebbe avverarsi. Desidera un panda, un alieno o un orso addomesticato … ma mai di andare nella Francia del XIII secolo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Lo sapevo che non dovevo mangiare il cibo di mio padre. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo: Quando riuscirò a pronunciare tutti questi strambi nomi, farò festa … beh, dopo che Ian avrà fatto la sua, ovviamente. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto: fra Teste di Rapa, maledizioni a tutto spiano e pavoni arrosto, riesco incredibilmente a sopravvivere all ‘settimana del ballo’. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: Attento a cosa desideri, o potrebbe avverarsi. Desidera un panda, un alieno o un orso addomesticato … ma mai di andare nella Francia del XIII secolo. ***


Capitolo I: Attento a cosa desideri, o potrebbe avverarsi. Desidera un panda, un alieno o un orso addomesticato … ma mai di andare nella Francia del XIII secolo.

 
 











 
Non pretendo che questa storia sia migliore delle altre.
Voglio dire, lo è, dal momento che io ne sono la protagonista, ma non voglio sembrare presuntuosa.
Il mio nome è Harley Aires Karjalainen, mia madre è finlandese e non bevo da ... Ops, scusate. 
-
Era una fredda giornata di febbraio e pioveva a catinelle quando tornai a casa bagnata fradicia, con i capelli impiastricciati del sugo proveniente dalla mensa scolastica e un gentile invito del preside Foster a non tornare lì l’anno seguente, dal momento che secondo lui la ‘Queen Anne’s Accademy of Phoenix’ non era fatta per me. Parliamoci chiaro: a chi piacerebbe trovarsi in una scuola dove ti costringono ad indossare un’uniforme rosa confetto e le tue uniche compagne sono delle figlie di papà che idolatrano Paris Hilton? … il surrogato di mio padre, il preside Foster e quelle piccole idiote sono esentati dal rispondere. 
Appena varcai la porta di casa, una modesta villetta a cinque piani con piscina interna, esterna e sul tetto (cosa ce ne facevamo noi di tre piscine, non l’ho mai capito), sentii odore di bruciato. Oh no. Era da qualche tempo che il mio patrigno si era messo in testa che dovevamo essere una famiglia esemplare, così aveva costretto me e mio fratello Andrew ad essere a casa per pranzo ogni santo giorno e ingurgitare i suoi piatti bruciacchiati.
Thomas Force era uno dei classici ricconi con millemila catene di negozi sparsi per il mondo. O meglio, lui non era assolutamente niente, ma mia madre, Tatjana Karjalainen, era una famosa stilista e quando lei morì per colpa di un tumore, beh … tutti i meriti del nostro successo economico passarono a lui, che per rispettare il lutto per la perdita di mia madre decise di farsi tutte le top model che gli passavano a tiro. Chissà perché io e mio fratello non gli rivolgevamo parola più del dovuto. Mah, i misteri della vita.
Guardai a destra e a sinistra, accertandomi che non ci fosse nessuno, e corsi in camera mia, al terzo piano.
Era strano agire come un ladro in casa mia, eppure non avevo alternative. Se Thomas avesse visto il sugo avrebbe dato di matto. E quando lui da di matto io inizio a urlargli contro. E quando queste due cose avvengono mentre siamo insieme, succede un putiferio e non ci parliamo per una settimana, giusto il tempo di sbollire una litigata e cominciarne un’altra.
Sospirai, entrando in camera mia e chiudendo la porta a chiave. Gettai la borsa con lo stemma della scuola sul letto (per il cestino non era ancora ora) e mi precipitai in bagno tentando di lavare via il sugo dai miei poveri capelli biondi. Dopodiché, mi fiondai nella Jacuzzi che Thomas aveva comprato e infilato a forza nel mio bagno.
Odiavo essere ricca. O meglio, non mi lamentavo, ma odiavo il fatto che il mio patrigno ritenesse di poter fare tutto solo perché era ricco. E il tentare di acquistarsi il mio affetto con una Jacuzzi non gli aveva fatto guadagnare alcun punto.
Rimasi chiusa in bagno per un’oretta buona, e, mentre le note di Boulevard of Broken Dreams volgevano al termine, Thomas mandò il nostro maggiordomo ad avvertirmi che la cena era pronta.
Se ‘cena’si può chiamare 'sta roba, pensai amaramente, guardando sconsolata il piatto di lasagne bruciacchiate e rotolate nel pan grattato.
Repressi conato di vomito alla sola idea di ingurgitare quella cosa e lanciai uno sguardo di sottecchi a mio fratello gemello, il quale aveva la mia stessa identica espressione dipinta in volto. Avevo sempre pensato che io e mio fratello fossimo stati fatti con lo stampino. Stessi capelli biondo miele, lucenti e ricci, stessi occhi verde-azzurri. Da piccola mi sembrava perfino di riuscire a capire quello che mio fratello provava, e viceversa. Ma quando la mamma morì, Andrew si chiuse in se stesso. In questo siamo molto diversi. Io sfogo il mio dolore su ciò che mi circonda. Urlo, rompo oggetti … al funerale di mia madre sono arrivata a prendere Thomas a pugni.
Il mio gemello, invece, proietta il suo dolore solo su se stesso.
Borbottai qualcosa di incomprensibile al piatto, sperando che si disintegrasse o si teletrasportasse da qualche altra parte, cedendo il posto a qualcosa di più commestibile. Purtroppo, quella stupida lasagna rimase lì dov’era.
« Non ho fame, stasera. » proclamai, perdendo la mia battaglia mentale con il cibo.
Thomas Force inarcò il sopracciglio.
« E da quando in qua non hai fame, Harley? » domandò, posando la forchetta sul piatto.
Io mi strinsi nelle spalle e Andrew ne approfittò per salvarsi lo stomaco.
« Io nemmeno. Oggi a mensa credo di aver esagerato con il riso alla cantonese. Sai, oggi era la giornata della cucina internazionale. » che bugiardo cronico. La sua scuola, il St. John’s, non faceva una giornata di cucina internazionale da … beh, in realtà non ce n’era mai stata una.
Ma, ovviamente, Thomas ci cascò. Lui crede a qualunque cosa Andrew racconti. Devo correggermi: tutti credono a qualunque cosa Andrew racconti. Sarà per la sua faccia d’angelo, i buoni voti a scuola e il modo di vestire impeccabile, non lo so. Fatto sta che se lui dicesse che il cielo è viola tutti sarebbero pronti a confermarlo.
Con me invece … beh, diciamo che io sono più quella che mette soggezione, che quella con cui ti puoi aprire liberamente. Vesto sempre di nero, con borchie e teschi, la matita nera che mi fa sembrare uno zombie non manca mai e le rare volte che sorrido è più per ironia che per felicità. Ah, dimenticavo il piccolo tatuaggio a forma di stella dietro al collo, ma quello non si vede quasi mai.
Il tutto sempre per colpa della morte di mia madre. Sì, direi che mi ha segnata parecchio, questa cosa.
Thomas appoggiò anche il coltello sul piatto. Brutto segno.
« Cos’è, non vi piacciono le mie lasagne? Io, che mi spacco la schiena ogni giorno per farvi avere un posto dove dormire! »
Questa, poi. Sbuffai, un po’ troppo sonoramente. E mio padre inziò a urlare.
« Harley Force, come osi! Io sono tuo padre … »
« Sì, ma io non sono Luke Skywalker e non ho intenzione di stare qui a sentire le tue inutili lamentele! » gridai, alzandomi in piedi e incrociando le braccia al petto. Andrew mi diede un colpetto di ammonimento, ma lo ignorai. 
Thomas aprì la bocca per dire qualcosa ma io diedi un calcio al tavolo e la richiuse, come un baccalà. 
« Vado in camera mia. Non ho fame. » borbottai, prima di poter saltare sul tavolo e chiudere le mani intorno alla gola del mio patrigno.
Salii in camera e per prima cosa accesi il pc con il maxischermo. Subito dopo, premetti il tasto 'on' dello stereo.
Infine, aprii la porta a mio fratello ancora prima che potesse bussare.
Era sempre così quando io e Thomas litigavamo. Tempo dieci minuti, e mio fratello era lì, pronto a farmi da spalla su cui piangere, punching-ball o compagno di avventure in Hyperversum.
E la terza era l’opzione che preferivo, come Andrew ben sapeva.
« Allora, lady Aires, vuole concedermi l’onore di batterla ancora una volta alla corsa dei cavalli? » mi domandò, sornione, mentre si sedeva sul divano e prendeva guanti e visore.
Sorrisi. Hyperversum era un gioco di ultima generazione, ormai al primo posto di tutte le classifiche mondiali e non. Permetteva di vivere avventure nelle diverse epoche storiche, soprattutto nel medioevo. Adoravo quel gioco. Infilai guanti e visore mentre mio fratello selezionava l'icona del gioco sul desktop.
« Allora, dove andiamo stavolta, lady? » mi domandò Andrew, attivando il proprio personaggio, un cavaliere.
Io mi strinsi nelle spalle e gli indicai  una data a casaccio: 16 aprile 1216, Francia.
Il mondo divenne nero, e davanti ai miei occhi apparve una scritta:
 

LOADING …

 
 
 
Sorrisi, emozionata. Volevo solo andarmene via da Phoenix. Lontano. Per sempre, aggiunse il mio subconscio.
La terra iniziò a ruotare e a cambiare. Persone, luoghi … tutto mutava alla velocità della luce.
Poi, infine, si fermò, e noi ci ritrovammo in mezzo ad una radura, nei pressi del confine con la Fiandra.
Sorrisi nuovamente e Andrew diede il segnale d’inizio al gioco.
Un gioco che, ahimé,  non avrebbe più avuto fine. 











Madamoiselle Nina's corner: 
HEEILA', GENTE! C: questa è la mia prima long su questo Fandom, e spero che come prologo non faccia schifo O:
Ah, ho cambiato il nome della protagonista, o meglio ... ho aggiunto 'Harley', come sarà principalmente chiamata d'ora in poi *o*
Vorrei dedicarla ad "Alice". Ti voglio bene, chica! :) 
Essendo questo il primo capitolo, non ho molto da dire, se non: hope you enjoy it! ;)  
Ah, dimenticavo: questo prologo è stato piuttosto cortino, ma i capitoli veri e propri saranno moolto più lunghi! c:
With love,
Madamoiselle Nina /Daniel Freehugs AHAHAHAHAHA.(?)

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II: Lo sapevo che non dovevo mangiare il cibo di mio padre. ***


Capitolo II: Lo sapevo che non dovevo mangiare il cibo di mio padre.

 
 













Giocatori, siete nel confine tra la Francia e la Fiandra.
Nei pressi del feudo dei Montmayeur si nasconde un gruppo di briganti, che hanno rapito e imprigionato una nobile francese.
Il vostro compito è quello di salvarla e impedire che il re di Francia paghi il riscatto.
[ … ]
Se porterete a termine la vostra missione, i vostri personaggi avranno 1200 punti e sbloccherete nuove armi. Se fallite, vi verranno tolti 1000 punti.
Buona fortuna, giocatori.
 
La Terra smise di girare e una metallica voce femminile ci spiegò la nostra missione, che io trovai piuttosto deludente: salvare una nobile dalle mani dei briganti. Hyperversum iniziava a diventare quasi banale. 
Andrew si stiracchiò, borbottando qualcosa.
« Bene, bene, bene. Andiamo a cercare questo accampamento allora! Prima finiamo, prima iniziamo una partita più interessante. » proclamò, senza neanche chiedere il mio parere. Sbuffai. Quando iniziavamo a giocare, lui diventava improvvisamente Ser Ondrej Iosonoilpiùfigoditutti.
Ser Ondrej era il suo personaggio, un cavaliere di prima classe (come spesso gli piaceva urlare ai quattro venti) e bravo in tutto. Il solito megalomane. Io invece, era Lady Aires. E no, non ero una nobile, ma una ladra/assassina. E quel ruolo mi divertiva da morire.
Guardai Andrew. In fondo, non mi dispiaceva affidargli l’esito della partita: se fallivamo, la colpa ricadeva solo su di lui.
Ad un tratto mi venne un'idea e mi sfregai le mani, sorridendo malefica.
« E se anziché salvare questa suddetta nobile ci andassimo ad unire ai briganti? Sai che figata? » dissi ad Andrew, che mi guardò con il sopracciglio inarcato.
« Stai scherzando spero! Se guadagno questi 1200 punti, il mio personaggio avrà come premio un cavalierato per la corte di Carlo Magno! Il che vuol dire 5000 punti bonus! » esclamò, con le mani tra i capelli.
Io sbuffai. Mai che mi facesse divertire.
« Non sia mai che ti perda il cavalierato! » borbottai ironica, con le mani sui fianchi e piuttosto seccata.
Diedi un’occhiata intorno. Eravamo sul limitare di un bosco, e davanti a noi una collinetta che sembrava perfetta per localizzare il campo dei banditi. Grazie, Hyperversum! pensai, mentre ci avvicinavamo. 
Purtroppo, quando arrivammo in cima alla collina non notammo assolutamente nulla di strano, a parte un'infinita distesa di verde che avrebbe fatto contento ogni ambientalista del XXI° secolo. Non notando niente di strano chiamai la mela, il simbolo del gioco nonché valida alleata in momenti come quello.
Ovvero, quando eri troppo pigro per fare un giro nei boschi. La mela apparve e iniziò a brillare, spostandosi sempre più avanti per segnare il cammino da seguire. Guardai Andrew e contemporaneamente corremmo dietro alla mela. 
Per tutto il percorso segnato dalla freccetta rossa di Hyperversum  mio fratello non smise un secondo di blaterare sui pregi del cavalierato, dei punti bonus, di quanto questo funzionasse con le ragazze nerd della sua scuola e altre cavolate del genere. Io sorridevo e annuivo … come sempre, del resto.
Ad un tratto, vedemmo del fumo alzarsi da quello che doveva essere l’accampamento.
Sbuffai. Se fossimo stati veramente nella Francia del 1216, non avremmo visto niente del genere. Almeno, non pensavo che i briganti fossero così stupidi.
Tolsi l’arco dalla faretra e incoccai una freccia.
Il mio personaggio se la cavava con l’arco, i coltelli, la spada e le arti marziali, ma io avevo una vera e propria passione per queste cose, e così mi ero iscritta a corsi di tutti i tipi.
« Pronta, Stella della Sera? » mi domandò Andrew, usando il mio nome da supereroina.
Una volta, durante il primo anno di medie, mi costrinsero a fare la parte della Bella Addormentata nella recita scolastica: un incubo. Dovevo andare in giro con un lungo vestito rosa e una tiara che pesava più del mio gatto. Avevo sempre odiato quel ruolo. Così, il giorno della recita, al momento della mia apparizione, entrai in scena vestita di nero e urlando che “io ero la Stella della Sera.” Gli spettatori la presero come una simpatica variazione della storia, ma la mia professoressa svenne.   
Scossi la testa, torando al presente.
In quel momento non ero la Stella della Sera, ma Lady Aires, e stavo per salvare una nobile dalle meschine mani di stolti briganti. Sì, ogni tanto anche io me ne uscivo con pensieri altisonanti come quelli. Con uno sguardo d’intesa, io e mio fratello avanzammo lentamente tra gli alberi.
E lui, da bravo Ser Ondrej Iosonoilpiùfigoditutti, schiacciò un legnetto. A meno di tre metri dalla sentinella del campo, un uomo nerboruto con la faccia piena di bruciature.
« Andry, posso dirtelo? Ti odio. » borbottai, mentre il tipo dava l’allarme e si lanciava contro di noi.
Bene bene, questi sì che sono livelli che mi piacciono! Chissà quanto valeva il tipo …
Con una finta, calamitai la sua attezione, distraendolo da mio fratello.
E Andrew seguì il nostro solito schema. Appena l’uomo si concentrò su di me, lui scattò di lato e andò a salvare la DID (ovvero, Donzella In Difficoltà).
Il ciccione fece un salto in avanti, ma io schivai all’ultimo minuto, raggirandolo e colpendolo alla testa con il manico dell’elsa estratta sì e no due secondi prima.
Perché, perché tutti i nemici di Hyperversum erano così stupidi? Non ci si poteva divertire, pensai amaramente, mente scavalcavo il tipo svenuto e mi avventuravo nell’accampamento.
Non avevo alcuna paura di venire uccisa. In fondo, avevo altre quattro vite a disposizione prima di dover ricominciare il gioco. Con un po’ di fortuna, avrei trovato un cuore o un fiore di loto in qualche barile.
Mi ripromisi di cercarci dopo aver sistemato la faccenda.
In giro non si vedeva nessuno. Beh? Che ne era stato dell’allarme? E di mio fratello? Pff, stupido Hyperversum.
Diedi un’occhiata in giro. Capanne sparse, qualche barile, una capra (dai, sul serio, una capra!), un carretto circondato da barre di metallo dove sicuramente non tenevano nascosta la nobile.
Santa Zucca, a volte Hyperversum perdeva davvero colpi.
Un uomo mi venne incontro urlando e brandendo quella che sembrava un’ascia.
Più scocciata che impaurita, mi abbassai e lo colpì al ginocchio con un calcio. Se fosse stato in carne ed ossa e non computerizzato, probabilmente gliel’avrei spaccato.
Sentii le grida di un altro uomo, ma più che foga sembravano di dolore.
Ondrej? Impossibile, avevo appena scorto la tenuta di mio fratello dietro il carretto.
E allora …
Mi nascosi dietro un barile nero appena prima che tutti gli “abitanti” del campo uscissero dalle loro tende in quello che sembrava essere un pigiama. Ma per l’amor del cielo, erano le sette di sera, come segnava l’orologio apparso dal nulla che avvertiva il passare di ogni ora nell’universo di Hyperversum.
Mi scostai i capelli dalla fronte.
I suoni che venivano dalle cuffie mi giungevano ovattati, ma in lontananza, nel mondo reale, mi sembrò di sentire qualcuno urlare.
E non mi sbagliavo, affatto.
Nella realtà presi le cuffie tra le mani e feci per togliermele, quando una scossa di dolore mi attraversò il corpo, mandandomi lunga distesa per terra.
E sentii la terra bagnata sotto le dita.
Era accaduto tutto così in fretta che non me n’ero quasi accorta.
Lentamente mi rialzai a sedere.
« Andrew … » sussurrai.
A quel punto, dal cielo plumbeo iniziò a scendere la pioggia.
Che mi bagnò.
Teoricamente, noi possiamo solo vedere quello che i nostri personaggi fanno. Immaginarci l’odore della pioggia, la sensazione di bagnato …
Ma io tutte quelle cose le provavo.
Con un brivido, tentai di togliermi il visore.
Niente.
Provai a strapparmi i guanti dalle mani ma, per quanto io tirassi, le gocce di pioggia continuavano a bagnare la mano. Non quella di Lady Aires. La mia mano.
Mi tastai gli occhi per cercare il visore, ma si era come smaterializzato.
No. Non era possibile.
Qualcuno urlò, e una freccia si conficcò a poca distanza dal mio nascondiglio.
Ma io quasi non lo notai, shockata.
Ero finita lì. Per qualche strana ragione, c’ero davvero.
Sentii le lacrime scendere, ma le asciugai con la manica.
Sicuramente era solo un sogno. Mi sarei svegliata nel mio letto a baldacchino circondata dai miei adorati peluches.
Rincuorata da questa speranza, mi alzai in piedi.
E guardai stupita la scena che avevo davanti.
Degli uomini a cavallo apparsi dal nulla avevano attaccato l’accampamento, e i briganti fuggivano, combattevano … morivano.
Iniziai a tremare.
Non era un gioco; era la realtà.
Forse.
« Harley! »
La voce di mio fratello mi riscosse dal coma.
Aveva uno sguardo terrorizzato e gridava il mio nome, senza rendersi conto di essere in mezzo ad una battaglia.
« Andrew … » sussurrai, avanzando verso di lui. Dal coma, ero caduta nella trance, e lui non sembrava messo meglio di me.
Noi due, in Francia. Per davvero, stavolta.
Impossibile.
Allucinazioni provocate dal cibo di papà, disse una vocina nella mia testa.
Realtà, disse un’altra.
Non ebbi modo di sentire altre opinioni, perché qualcosa mi colpì alla testa.
E persi conoscenza.
 
Quando riaprii gli occhi, doveva essere pomeriggio inoltrato.
Ero stesa su un comodo letto, avvolta nelle coperte.
Per un secondo pensai che ero ancora a casa mia, e allungai la mano per cercare Puffs, il mio cucciolo di drago. Ma al suo posto, trovai una mano.
« AAAAAAAAAH! » urlai, saltando a sedere.
Poi mi accorsi che la mano era attaccata ad un braccio. E quel braccio era parte integrante di un corpo. Il ragazzo davanti a me doveva essere più vicino ai trenta che ai vent’anni, con i capelli neri e gli occhi troppo azzurri per essere veri.
Mi chiese qualcosa in quello che doveva essere francese, e io lo guardai inarcando il sopracciglio. Ho sempre odiato quella lingua, e mi sono sempre rifiutata di studiarla.
Lui mi fissò.
Io lo fissai.
E me ne uscii con un “Che cacchio hai detto?” piuttosto poco educato in inglese.
Ma, hei, avevo appena subito uno shock. E le buone maniere non erano mai state il mio forte.
Lui impallidì, quasi avesse visto un fantasma.
« Tu … non sei di quest’epoca, vero? » mi domandò, in inglese perfetto. No, aspetta, non era inglese: era americano.
Sgranai gli occhi, stupita. Come faceva un nobile francese a parlare americano? Hyperversum stava impazzendo, pensai. E in quel preciso istante, i ricordi dell'accampamento dei briganti mi colpirono come uno schiaffo in piena faccia. Degludii. 
« Io … sono del 2012. Voglio dire, questo è il 2012, no? Sono ancora in America. A Phoenix. E questo è un brutto sogno, vero? » gli domandai, in tono quasi di supplica.
Lui scosse la testa, incredulo.
« Ho paura che questo non sia un sogno, ragazza. »
Quando le mie orecchie realizzarono la frase, svenni.
 
Quando rinvenni, si era fatta notte.
Il ragazzo era ancora accanto a me, solo che stavolta era accompagnato da un quarantenne e una ragazza dai biondi boccoli dorati.
Riccioli d’Oro mi porse una tazza di quello che doveva essere tè e il ragazzo mi aiutò a mettermi seduta.
« Io sono Jean Marc de Ponthieu … ma tu puoi chiamarmi Ian. » si presentò, lanciando uno sguardo all’altro uomo.
« E questi sono il conte Guillaume de Ponthieu, mio fratello, e mia moglie Isabeau de Montmayeur. » continuò, presentando gli altri due.
Io li guardai a bocca aperta. Avevo capito che Jean/Ian fosse della mia epoca. E allora che ci faceva sposato a una nobile?
Perché bastava guardarla per capire che l’unico ‘2000’ che conosceva era quello avanti Cristo.
I tre mi guardarono, in attesa.
« Oh, eh, sì, hum, piacere … io sono Harley Aires Karjalainen. » borbottai, impacciata.
Ancora non riuscivo a credere a tutta la storia. Se solo Andrew fosse stato lì con me …
« Andrew! » esclamai, impallidendo e facendo prendere un colpo al terzetto.
Come potevo essermi dimenticata di lui? Mi guardai intorno, sperando di vederlo apparire da chissà dove, incolume, che mi diceva "Hei sorellina, buon compleanno!".
Ian mi guardò, in cerca di spiegazioni.
« Mio fratello gemello, lui era con me nell' … un secondo, ma voi come avete fatto a trovarmi? E dove mi avete portata? » domandai, pallida, realizzando solo in quel momento dove mi trovavo. 
Isabeau fece un sorriso dolce.
« Sei a Chatȇl-Argent, la nostra dimora. E Ian ti ha trovata svenuta nell’accampamento dei Briganti dell’Ovest. »
« Chatechecosa? I Briganti di che? » chiesi, estremamente confusa.
Lei guardò Ian, che guardò Guillqualcosa. Che guardò me.
Che a mia volta guardavo loro.
« Aires, tu vieni davvero dal ... futuro? » mi domandò nuovamente Ian, deglutendo.
Io annuii e mi guardai le mani. Tremavano. 
« E come avete fatto ad arrivare qui? » chiese, anche se gli si leggeva in faccia che già conosceva la risposta.
« Beh, stavo giocando ad Hyperversum … aspetta! » esclamai, folgorata da un’illuminazione.« Anche tu sei arrivato qui con quel cavolo di gioco maledetto?! »
Lui annuì.
Oh santo dio del Ketchup.
Tanto perché ve lo stiate chiedendo no, non sono credente. Ma devo pur trovare qualcosa da pregare, in situazioni come questa.
« Ero convinto che non  avrebbe più spedito nessuno qui giù … a quanto pare mi sbagliavo. Il portale per il passato deve essersi riaperto. » disse, più a se stesso che a me.
Inarcai il sopracciglio e sbuffai, completamente dimentica delle buone maniere.
« Non mi importa un accidente del portale, io voglio sapere dov’è mio fratello! » esclamai, inviperita.
Solitamente non mi capitava di cambiare umore così spesso, ma direi che una volta finiti nel medioevo tramite un gioco di ruolo tutte le abitudini saltano.
Ian assunse un’espressione grave.
« Mi dispiace, Harley. Non abbiamo trovato tuo fratello. »
E fu così che svenni per la seconda volta nel giro di cinque ore.    













Madamoiselle's Corner:
OCCHEEEI, CHE CAPITOLO STRANUCCIO CHE E' USCITO FUORI °^°
Non doveva succedere questo, accidenti. 
Ma si sa, gli scrittori sono sempre soggetti all'umore dei personaggi çwç 
Ringrazio tuuutti quelli che leggeranno, recensiranno. metteranno la storia tra le seguite/preferite (sì, sogna Nina, sogna!) e anche i "lettori silenziosi" :3 
XoXo,

Madamoiselle Nina. 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Terzo: Quando riuscirò a pronunciare tutti questi strambi nomi, farò festa … beh, dopo che Ian avrà fatto la sua, ovviamente. ***


Capitolo Terzo: Quando riuscirò a pronunciare tutti questi strambi nomi, farò festa … beh, dopo che Ian avrà fatto la sua, ovviamente.

 
 
 








Il pomeriggio seguente, una volta che i medici si furono assicurati della mia salute, Guillaume de Ponthieu mi mandò a chiamare.
Mentre attraversavo i corridoi del castello di Chatȇl-Argent mi sentii incredibilmente a disagio. E piuttosto piena di paura, devo dirlo. Insomma, cosa voleva da me un Signor Conte, imparentato con il Re di Francia e blablabla?
Tanto per la cronaca, Isabeau si era divertita a illustrarmi tutti i possibili legami della famiglia Montmayeur-Ponthieu, quella mattina.
E io, ovviamente, costretta a letto com’ero, non avevo potuto sottrarmi alla tortura.
Non che la presenza di Isabeau fosse sgradevole, per carità, ma sentirla blaterare di tutti i morti, vivi, cani, gatti e pappagalli di ogni singola famiglia era stato estenuante.
Mi lisciai le pieghe dell’abito azzurro, che la sopracitata Riccioli d’Oro mi aveva prestato.
Non mi trovavo per niente bene in quelle vesti medioevali, con la gonna, il sottogonna, il cinturone in vita e compagnia bella. L’unica cosa positiva di quelle vesti antiquate- molto, antiquate- erano i mocassini, come voleva la moda dell’epoca.
Quella stessa mattina era venuto anche Ian a trovarmi. Mi aveva preannunciato una possibile richiesta del Conte di parlarmi in privato, così mi aveva dato qualche dritta su cosa dire e cosa no, ad esempio tutti i vari costumi dell’era moderna, le armi e compagnia bella. l
Pensandoci bene, non era stato granché d’aiuto. L’unico consiglio utile fu: ‘rispondi sempre con sincerità, qualunque cosa ti chieda.’
Ad un tratto, il servo che mi aveva guidata in giro per il castello si fermò davanti ad una massiccia porta di legno scuro.
Borbottando qualcosa in francese, si allontanò, non prima di avermi fatto il solito inchino.
Era da quella mattina che i servi, i medici e tutti gli altri si apprestavano a farmi un inchino dopo l’altro, biascicando qualcosa di piuttosto rispettoso in francese.
Feci un respiro profondo e bussai alla porta.
« Come in, mademoiselle. »
Tossicchiando, aprii la porta, e mi ritrovai in un ampio studio dalle pareti di pietra chiara, con una spaziosa scrivania al centro e alcune poltroncine sparse lì davanti. I muri erano tappezzati di libri, soprattutto in latino, da quello che potei notare.
Guardai il conte de Ponthieu. Era un uomo vicino ai cinquanta, con i capelli scuri leggermente brizzolati e le sopracciglia leggermente arcuate.
Feci il qualcosa molto simile ad un inchino che meglio mi riuscì e aspettai, lì impalata, che Guillaume dicesse qualcosa.
Invece, rimase in silenzio per cinque minuti buoni, mentre sistemava delle carte e non mi degnava di uno sguardo.
Stavo per urlargli qualcosa quando alzò gli occhi dai fogli e mi fece un sorriso piuttosto glaciale.
Rabbrividii. Quell’uomo iniziava seriamente a farmi paura, con tutta la sua aura da ‘I-Do-What-I-Fuckin-Want-Whenever-I-Want’.
« Sedetevi, prego. »
Obbedii, cercando di infilarmi in testa che dovevo usare anche io il ‘voi’.
« Immagino che sappiate perché vi trovate qui, mademoiselle. » mi disse ancora Guillaume, fissandomi negli occhi.
« Perché voi possiate decidere cosa fare di me, monsieur? » risposi, sulle spine, agitandomi nella poltroncina azzurra che il conte mi aveva indicato.
Lui annuì, pensieroso.
« Innanzitutto, voglio sapere una cosa: siete una persona affidabile? »
Rimasi piuttosto spiazzata dalla notizia e lo osservai con il sopracciglio inarcato, senza riuscire ad impedirmi di rispondere: « Beh, se anche non lo fossi, non glielo direi certo, no? »
Mi morsi il labbro immediatamente. Cacchio. Non dovevo essere così precipitosa con le risposte, Ian me l’aveva detto.
Invece di arrabbiarsi, il conte fece quello che sperai di interpretare come un sorriso.
« E ditemi, venite dallo stesso luogo remoto, oltre le Colonne d’Ercole, dello scudiero di mio fratello? »
Non avevo la più pallida idea di chi fosse lo scudiero di Ian, ma evidentemente Guillaume non voleva parlare chiaro. Comprensibile, visto che la porta di legno scuro non sembrava capace di contenere tutte le conversazioni.
« Oh, sì. » risposi, stringendomi nelle spalle e senza sbilanciarmi troppo.
Lui annuì nuovamente e iniziò a pormi domande dopo domande, mettendomi sempre più alle strette: chi sono i miei genitori? Il mio nome completo? Facevo qualche lavoro nella mia terra d’origine? Come c’ero arrivata in Francia?
L’ultima domanda mi mise un po’ a disagio. Come lo spiegavo un computer ad un uomo del XIII secolo?
« Oh,beh, ecco, io … » prima che potessi formulare una frase di senso compiuto, Ian e Isabeau fecero il loro ingresso trionfale nello studio di Ponthieu, salvandomi in extremis. Per il momento.
« Ben arrivati. Stava giusto per raccontarci come è arrivata qui. » disse il conte ai nuovi arrivati, ma senza staccarmi gli occhi di dosso per un secondo.
Ian fece un segno d’assenso con la testa e mi guardò, in attesa.
Okay, ora sì che ero a disagio.
« Beh, ecco … diciamo che ho litigato con mio padre. Sì, insomma, noi due ci odiamo a vicenda e compagnia bella. Mio fratello e io abbiamo, hum, deciso di venire qui per … beh … evitare di vederlo per un po’, ecco. Siamo capitati in mezzo alla banda di briganti e … basta. » terminai, velocemente.
Detta così non era niente di particolarmente degno di nota. Anzi, probabilmente alle orecchie del conte suonava anche piuttosto ridicola come storia.
« E riesci a richiamare la mela? » mi domandò Ian, con la fronte corrugata.
Io scossi la testa, stupita del fatto che nominasse la mela di Hyperversum con tranquillità davanti a quei due medioevali. Non ero molto ferrata in storia, ma sapevo per certo che la stregoneria non era molto ben vista, a quei tempi.
Ian annuì, cupo, ma non disse altro.
Fu invece il conte di Ponthieu a rivolgermi l’ennesima domanda.
« Conoscete il francese, dama Harley? » mi domandò, scrutandomi.
Io scrollai le spalle.
« Conosco solo qualche parola, monsieur. » dissi, passandomi una mano dietro il collo, a disagio. Non mi piaceva il modo in cui quell’uomo mi guardava, per niente.
« E quali? »
« Oh, beh … Bonjour, Je t’aime e … omelette au formage. » snocciolai, probabilmente con un pessimo accento e arrossendo all’ultima frase. Forse quella era il caso di ometterla, anche se Guillaume, Ian e Isabeau sembrarono trovarla piuttosto divertente.
Bene, ora mi avrebbero messa a fare il giullare di corte.Yeeeah.
Ponthieu mi guardò pensieroso, con le braccia conserte strette al petto.
Io rimasi in silenzio, aspettando non so quale verdetto.
« Bene, bene, Harley. Credo di aver trovato il mondo di rendervi utile ai miei scopi. » esclamò d’un tratto, facendomi trasalire.
« E cioè? » domandai, visto che Ponthieu non sembrava voler dare altre spiegazioni.
« Dama Isabeau ha dei lontani parenti nelle terre dell’estremo Nord, in Finlandia. Vostra madre era finlandese, o sbaglio? Bene, voi siete venuta qui a trovare la vostra adorata cugina, dopo che avete perso i genitori in un terribile incendio e perso vostro fratello in un’imboscata dei briganti. Per venire qui siete partita da Turku e avete attraversato il mare su una nave Inglese e per giungere qui in Francia avete dovuto attraversare l'intera Inghilterra. Questo spiegherebbe perché sapete bene lo svedese e l’inglese ma nemmeno una parola di francese, a meno che qualcuno non voglia ordinare un omelette al formaggio. » proclamò, rendendoci partecipi di una storia probabilmente inventata al momento.
Lo osservai. Poi guardai Isabeau e suo marito, che sembravano stupiti quanto me, poi scrollai le spalle.
Andiamo, ero finita nel medioevo, avevo perso mio fratello, stavo indossando un sottogonna e mi ritrovavo a parlare con un vero conte di Francia del XIII secolo.
C’era altro che poteva stupirmi?
« Trovo che sia un buon piano, fratello. Abbiamo bisogno di lei. » disse Ian, pensieroso.
Anche Isabeau annuì, e io mi ritrovai in meno di dieci secondi catapultata nella famiglia dei Montmayeur.
« In fondo, Harley e Isabeau hanno i capelli dello stesso colore, e alcuni lineamenti del viso potrebbero assomigliarsi, se non contiamo gli occhi azzurri della prima e castano chiari dell’altra. » continuò Ponthieu.
Tutti mi guardarono, e io feci cenno di sì con la testa.
Ero ufficialmente diventata Harley Aires Karjalainen Cugina dei Montmayeur.
Povera me, come se avessi bisogno di aggiungere qualcos’altro al mio già chilometrico nome.
 
La settimana seguente fu un susseguirsi di … assolutamente niente, in effetti.
Chatȇl-Argent era un castello tranquillo, e il feudo dei Montmayeur – Ponthieu ancora di più.
Ancora non avevo capito perché al conte servisse una cugina di Isabeau  e non potesse semplicemente presentarmi per quello che realmente ero, ma okay. Ian mi aveva detto che Guillaume era solito usare delle persone come pedine dei suoi misteriosi giochi e che non dovevo darci troppo peso.
Ceerto.
Quando me l’aveva detto, avevo resistito alla voglia di urlargli ‘Non sono solo una pedina dei vostri giochi’ alla Peeta Mellark, ma mi ero trattenuta.
Isabeau si era presa il compito di istruirmi su tutto ciò di cui c’era bisogno, compresa la pronuncia dei nomi che proprio non mi riusciva, nonostante avesse già due figli a cui badare.
Quando appresi la notizia, ridacchiai. Certo che Ian si era dato da fare, una volta arrivato nel medioevo.
Avevo preso in simpatia quel ragazzo- anche se proprio di ragazzo non si può parlare, dal momento che aveva quasi dieci anni in più di me.
Quella mattina, Riccioli d’Oro mi stava raccontando della Crociata albigese e di tutto ciò che ne era seguito – Gant l’Imbecille, gli Occitani e l’attentano alla vita di Ian e del cavaliere di Roquemar – quando una serva venne ad avvertirci dell’arrivo di alcuni ospiti che avevo sentito nominare nei racconti di Isabeau.
Seguimmo la domestica fino al cortile del castello, dove trovammo Ian e Guillaume impegnati a salutare i nuovi arrivati, che si rivelarono un ragazzino di quindici anni, una donna dai capelli rosso fuoco che doveva essere la madre e un uomo alto e imponente, dai capelli castano scuri e lo sguardo piuttosto gelido e inquietante.
Ma nel medioevo erano tutti così o solo io avevo la fortuna di beccarli tutti nel giro di una settimana i Signori Sorriso Smagliante, mi domandai scendendo le scale.
Dopo che Isabeau ebbe salutato tutti, mi invitò ad avvicinarmi con un gesto della mano.
« E lei è mia cugina, Harley Karjalainen. È venuta qui dalla lontana Finlandia. » mi presentò, lanciandomi la sua speciale occhiata che avevo imparato ad interpretare come ‘inchinati’.
Feci una riverenza e osservai meglio gli ospiti.
Quello che Ian presentò come Geoffrey Martewall stava per dire qualcosa quando venne interrotto da uno dei suoi soldati che portava una bambina bionda in braccio.
I castellani sembrarono piuttosto sorpresi dall’arrivo della piccola e Martewall lanciò loro uno sguardo di scuse.
« Lei è Alice, la figlia di mio fratello Peter ... la madre è morta e nessuno poteva prendersi cura di lei, perdonatemi. » disse, a mo’ di scuse, mentre la bambina sorrideva a tutti i presenti.
Io la osservai, curiosa. Che c’era di male nel portare la nipote a zonzo per la Francia?
« Ah. La figlia bastarda di ser Peter Martewall. » borbottò Ponthieu, guardando la bambina.
Tutti sembravano piuttosto imbarazzati dall’inconveniente, e ancora non riuscivo a capire perché. Insomma, nella mia scuola precedente, molti genitori non erano sposati, eppure nessuno guardava male i loro figli.
Sì, ma qui stiamo parlando di ottocento anni fa’, dove le donne sono ancora considerate inferiori e devono indossare mille strati di gonna,pensai subito dopo.
Persa com’ero nei miei pensieri, non mi accorsi che la piccola Alice era scesa a terra e mi si era avvicinata, sorridente.
Mi resi conto di essere ancora lì in Francia solo quando la piccola iniziò a tirarmi la gonna dell’abito.
« Alice, lascia immediatamente la signorina! » esclamò la tata al suo seguito.
Io scrollai le spalle e presi in braccio la bimba, sotto gli occhi esterrefatti dei presenti.
« Be’? Non avete mai visto qualcuno prendere in braccio una bambina? » domandai, già stufa marcia del pensiero medioevale.
Martewall ridacchiò, scambiandosi un’occhiata con Ian, mentre Beau, il ragazzino dai capelli rossi, mi osservava stupito.
Ah, bene. Avevo di nuovo detto qualcosa di troppo. Accidenti ad Hyperversum che non era lì ad aiutarmi.
 
Quella sera, cenammo tutti insieme intorno al grande tavolo di legno della Sala Grande, come l’avevo mentalmente rinominata.
Nonostante fossi lì da una settimana, ancora non riuscivo ad abituarmi al fatto che la forchetta non fosse ancora stata inventata e che dovevo mangiare la carne munita solo di cucchiaio e coltello.
« Be’? Non avete mai mangiato della carne, mademoiselle? » mi domandò ironico Martewall, seduto accanto a me.
Io feci una smorfia e continuai imperterrita a mangiare, o meglio, a provarci.
Isabeau, seduta alla mia sinistra, mi prese il pugnale-coltello-quellocheè e affettò il tutto. La ringraziai con un cenno della testa.
Mi guardai intorno. Teoricamente avrei dovuto sentirmi fuori posto, addirittura sotto shock, nel mangiare con dei veri feudatari del XIII secolo, ma la cosa sembrava risultarmi normale.
Dopo le crisi nervose dei primi giorni, avevo finalmente realizzato che mi trovavo là per davvero e non era un’allucinazione. E ora, seduta a tavola, mi sembrava una cosa perfino normale il mio viaggio nel passato.
No, la mia sanità mentale non era al massimo della sua forma, lo so.
« Com’è andato il viaggio, ser? » chiese Ponthieu, quando i servi portarono a tavola l’insalata. Che dovevo mangiare con il cucchiaio. Repressi l’istinto di sbattere la testa contro il tavolo.
« Molto bene. Non abbiamo avuto contrattempi. » rispose educatamente Martewall, spezzando il pane ed intingendolo in quella che doveva essere zuppa di qualcosa non meglio identificato.
Bleah. Sospirai, sentendo fortemente la mancanza dei cari vecchi cheeseburger.
« Quando siete arrivata, dama Harley? » mi domandò Brianna d’un tratto, facendomi trasalire.
« Oh, ehm … la settimana scorsa, madame. » risposi, in un borbottio indistinto.
Lei annuì e tornò ad occuparsi del suo piatto.
Sulla tavolata scese il silenzio per una decina di minuti buoni, fino a che Ian non decise di dare una bella notizia al resto del mondo e orribile alla sottoscritta.
« Tra due settimane terremo qui un ballo in onore dell’arrivo della cugina di mia moglie. Che ne dite, Geoffrey, rimarrete fino ad allora? » domandò con fare casuale, lanciandomi un’occhiata di ammonimento, che poteva voler dire solo: ‘non provare a dire niente o ti stacco la testa’.
I nuovi arrivati sembrarono sorpresi dalla notizia, ma il cavaliere accettò di restare per la festa in mio onore.
Chissà se faranno una torta con la mia faccia sopra, pensai, ironica.
« Con la scusa, verranno molti feudatari. Così potremmo discutere della situazione inglese. » aggiunse, scambiandosi uno sguardo con Ponthieu.
Ah. Quindi la famosa cugina finlandese serviva solo per una festa? E bastava dirlo subito!
« Verranno anche i vostri compagni d’arme, immagino. » domandò Brianna, rivolta a Ian.
Da quando il signor Conte Cadetto (come mi aveva spiegato Isabeau) aveva dato la notizia del ballo, Ponthieu Senior era diventato quasi invisibile. Beh, un ballo è pur sempre un ballo.
« Certo. E, naturalmente, Etienne de Sancerre si porterà dietro sua moglie Donna. »
Oh santo Jack, e questi ora chi erano? Silenziosamente, provai a ripetere il nome del tipo che Ian aveva nominato prima.
Niente. Perché non potevano chiamarsi Gino, Pino e Tino, questi conti francesi? Erano nomi così facili da pronunciare!
Dopo cena, Isabeau mi trascinò nei suoi appartamenti, con la scusa di dover dare un’occhiata ai piccoli Marc e Michel.
« Sai cucire, Harley? » mi domandò, una volta che la porta si chiuse dietro di noi.
Io annuii, non riuscendo a capire dove voleva andare a parare.
« Sì, beh, me la cavo. Perché? » okay, lo ammetto: da grande sarei voluta diventare una stilista. Adoravo creare e cucire personalmente i miei abiti. Bene, addio alla maschera della dura.
Lei sorrise, maliziosa.
« Che ne diresti di farmi un abito originale? Potresti prendere spunto da quelli che indossi nella tua terra natia. »
La osservai, stupita. E con terra natia ero certa che non intendesse la Finlandia.
Mi limitai ad annuire, pensando che tanto Isabeau non poteva sapere cosa si indossasse normalmente in America, quindi avrei potuto tranquillamente modificare un normale vestito medioevale e spacciarlo per un vestito d’alta moda americana.
Lei sorrise, nuovamente.
« Oh, non dirlo a nessuno. Voglio che sia una sorpresa per Jean. » mi disse, con fare cospiratorio.
Io sospirai.
Ero arrivata da solo una settimana e già dovevo fare la cugina-servetta per Riccioli d’Oro. 










Madamoiselle's corner: 
Omelette au formage a tutti!(?)
Questo capitolo è un po', come dire ... inutile di transito. 
Ebbene sì: Andrew è scomparso e non ho intenzione di dirvi dov'è finito (
♥) e Harley è "ufficialmente" entrata nella famiglia Montmayeur. So che le cose sembrano confuse al momento (sembrano? Sono confusa anche io!), ma preesto chiarirò tutto uwu.
E per quanto riguarda la parte dell'abito ... COLPA DI ISABEAU, IO NON VOLEVO SCRIVERLO çuç 
Alice Martewall. Tenete d'occhio quella gnappetta ;)
Ps. 'Turku' era la capitale Finlandese dell'epoca, spero, visto che Wikipedia è un'essere inutile e io non sono ricoperta di libri di storia come il nostro Falchetto uwu. 
Se ci fosse una qualsiasi incongruenza storica, vi prego di farmelo sapere! C:

Bene, ho finito di sclerare :')
xoxo,
Madamoiselle Nina.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Quarto: fra Teste di Rapa, maledizioni a tutto spiano e pavoni arrosto, riesco incredibilmente a sopravvivere all ‘settimana del ballo’. ***


Capitolo Quarto: fra Teste di Rapa, maledizioni a tutto spiano e pavoni arrosto, riesco incredibilmente a sopravvivere all ‘settimana del ballo’.











 
All’epoca, non avevo ancora completamente realizzato quello che mi stava succedendo.
Insomma, al contrario delle avventure di Ian, tra fruste e fughe dalle prigioni, il mio arrivo nel medioevo era stato piuttosto tranquillo, a parte lo shock iniziale del ritrovarmi bagnata fradicia in meno di due secondi.
Più che nel tredicesimo secolo, mi sembrava di essere in villeggiatura da parenti lontani, con abitudini un po’ strambe e una passione ossessivo-compulsiva verso la religione (la domenica mattina mi avevano infatti costretta a sopportare ben quattro ore di messa, più, ovviamente, la preghiera collettiva del pomeriggio).
Guardai la mia immagine riflessa nel grande specchio della stanza che i castellani mi avevano messo a disposizione e osservai Janetta, l’anziana domestica di madrelingua inglese che Isabeau mi aveva rifilato, prendere uno spillo e appuntarmi un nastro azzurro chiaro alla gonna, per poi scambiare qualche parola veloce con la sarta del castello.
La donna, che si era presentata come Geneviéve Vattelappesca, si era piantata in camera mia da tre orette buone,e non la finiva più di prendere appunti, confrontare colori e roba varia.
In un primo momento ero rimasta affascinata dal suo lavoro ma poi, dopo un’ora di noia totale in piedi su uno sgabello per permetterle di usarmi come manichino, avevo rivalutato la mia opinione sul lavoro di sartoria dell’epoca: incredibilmente noioso.
Sospirai, mentre ripensavo alla sera prima. La castellana mi aveva praticamente costretta a prometterle di disegnarle un vestito, e io non sapevo proprio da dove bisognava cominciare.
In fondo, quelli non avevano macchine da cucire, ma solo ago e filo. Povera me.
« Ahi! » esclamai, quando la serve mi punse il fianco con uno spillo.
La donna mormorò qualche scusa e passò all’altro fianco, mentre la sarta mi diceva qualcosa in un francese così veloce che non capii neanche mezza parola.
Feci quello che voleva essere un sorriso e tornai a guardare vacua la mia immagine riflessa nello specchio. Cosa bisogna rispondere quando qualcuno ti parla alla velocità della luce in una lingua straniera che capisci a fatica?
La cosa iniziava seriamente a mettermi in difficoltà. Mi lisciai le pieghe della sottoveste bianco panna che mi avevano fatto indossare per comodità, sentendomi piuttosto a disagio. Mi mancavano le mie care vecchie tute.
Due ore e diciotto spilli piantati nella carne dopo, la sarta e la cameriera si congedarono, lasciandomi sola.
Quando le porte si chiusero, mi lanciai di peso sul letto di legno scuro, sospirando. Avrei dovuto iniziare a pensare all’abito per Isabeau, ma sinceramente non ne avevo la minima voglia. Un pensiero ben più cupo mi aleggiava per la testa: Andrew. Chissà che fine aveva fatto mio fratello.
Scrollai la testa, come a scacciare quel pensiero. Lui sapeva cavarsela.
Sicuramente nel bosco non aveva avuto problemi a sfuggire ai soldati di Ponthieu. Ma se invece l’avevano catturato i Briganti del Sud? Isabeau mi aveva spiegato che erano una banda di occitani piuttosto astiosi nei confronti dei francesi e degli inglesi. Andrew sarebbe riuscito a sopravvivere? … era vivo?
A quel pensiero, mi schiaffeggiai la faccia.
« Smettila, smettila! Andrew sta bene. Non devi preoccuparti per lui. » mi dissi, cercando di autoconvincermi.
Ecco perché detestavo rimanere da sola. I brutti pensieri non mi lasciavano mai. Decisa a fare qualsiasi cosa tranne piangermi addosso, aprii in fretta e furia il baule ai piedi del letto che conteneva tutti i miei scarsi vestiti.
Li tirai fuori uno ad uno, cercandone uno che fosse adatto ad essere spacciato per “americano”. Grazie al cielo, io e Isabeau avevamo più o meno la stessa taglia, e i vestiti che mi avevano regalato i due coniugi qualche giorno prima li aveva fatti la stessa sarta di quel giorno, basandosi sui tanti modelli che aveva creato per Dama de Montmayeur.
Ancora non riuscivo a capire perché Ian e Isabeau si preoccupassero tanto per me. In fondo, per loro ero una perfetta sconosciuta.
Poi però pensai che, del resto, dovevo fare la cugina lontana di Isabeau. E non credevo che le ‘cugine lontane’ andassero in giro con lo stesso vestito per due settimane. In ogni caso, tutte quelle attenzioni mi mettevano a disagio. Come potevo ripagarli, dal momento che ero un inutile peso morto?
Scacciai anche quei pensieri dalla mia testa. Dovevo occuparmi del vestito per Isabeau. Per ripagarli, avrei iniziato da quello. Presi l’abito azzurro cielo che mi avevano regalato il giorno prima. Se lo cambiavo abbastanza, Isabeau si sarebbe accorta che era quello che mi aveva donato? Sperai vivamente di no.
Andai a chiedere ago, filo e tutto il necessario alla serva che mi aveva assistito e trasformata in un portaspilli solo una mezz’oretta prima.
Con un inchino, la donna assicurò che mi avrebbe portato tutto il necessario nel giro di poco. Ottimo. Rientrai in stanza e decisi che per prima cosa dovevo scegliere come modificare l’abito.
Il vestito di per sé era piuttosto semplice. Lungo fino a terra, di un bel verde acqua e dai contorni leggermente merlettati. Inarcai il sopracciglio. E come glielo trasformavo in un abito ‘moderno’? Insomma, non potevo certo mandarla in giro con un miniabito ricoperto di strass. Ma, d’altro canto, non potevo neanche darle qualcosa che avrebbe potuto fare qualsiasi sarta medioevale.
Accidenti a te, Isabeau de Montmayeur!
Borbottando qualche altra maledizione mi sedetti sul letto, davanti al vestito, e lo fissai intensamente, quasi sperando che si trasformasse da solo. Nah, niente.
« Vedi? Se quello stupido di un gufo non avesse perso la mia lettera di ammissione ad Hogwarts, ora saprei trasformare questo vestito in un secondo! » dissi tra me e me, ironica, iniziando a camminare su e giù per la stanza, in cerca di ispirazione.
Per il resto della giornata non feci alcunché.
Il Progetto Vestito per Isabeau lo abbandonai quasi subito, e per sfuggire alla noia struggente di quei giorni mi rifugiai nella biblioteca del castello, alla ricerca di qualcosa da leggere. Non capivo quasi niente in francese, e difficilmente a Chatel-Argȇnt avrei trovato libri in inglese, ma dovevo sbrigarmi ad imparare decentemente la lingua comune, e i tomi della libreria mi avrebbero aiutata sicuramente nella mia disperata impresa.
Dopo parecchi minuti passati a gironzolare intorno agli scaffali, trovai l’Iliade in versione francese. Guardai dubbiosa la copertina rilegata, chiedendomi se fosse una buona idea. A scuola ci avevano praticamente costretti a impararla a memoria, dopo un anno intero passato su quel libro, il che era decisamente d’aiuto.
« Massì, dai. Male che va, lo uso come cuscino per addormentarmi sul tavolo. » borbottai, scrollando le spalle e uscendo con estrema calma dalla libreria.
Lì nel medioevo le giornate si ripetevano, monotone. Voi direte: “ma su,sei capitata ottocento anni indietro nel tempo, in un vero castello medioevale e blablabla”. Bene, passato il primo momento di eccitazione, inizi a sbattere la testa contro tutti i muri che incontri per la noia. Ian era sempre occupato con il suo feudo, Isabeau aveva gli affari suoi a cui pensare, Martewall non era la compagnia ideale per i pomeriggi tra amiche, Brianna era sempre con Isabeau e Beau … beh, quel ragazzino era sempre a scodinzolare dietro Ian.
Oh, sì. Ero piena di persone con cui relazionarmi.
Aprii il libro e subito lo richiusi. Non avevo certo fatto i conti non i caratteri gotici dell’epoca, assolutamente illeggibili.
Sospirai, riaprendo il libro e strizzando gli occhi. Con un po’ di allenamento sarei riuscita a leggere qualcosa, ma in quel momento era pressoché impossibile, così maledii nuovamente l’impossibilità di trovare qualcosa di interessante da fare. Ma che si inventava la gente a quei tempi per combattere la noia?
E poi i moderni si meravigliavano che nel medioevo le famiglie fossero così numerose.
Siccome l’opzione lettura era sfumata, uscii dalla biblioteca e mi diressi verso il giardino, dove mi stesi sulla prima panchina all’ombra che trovai.
Guardai il sole filtrare tra le foglie dell’albero che mi sovrastava e sospirai. Mi mancava il mondo moderno. Mi mancava da morire.
Sentii gli occhi inumidirsi, quando la risata di una bambina mi riscosse. Scattai in piedi e vidi Alice, la nipotina di Martewall, venirmi incontro.
Dietro di lei, un’affaticata balia cercava di fermarla, inutilmente. La bimba mi si avvicinò e iniziò a tirarmi l’abito.
« Hei, piccolina. » dissi, chinandomi su di lei e dandole un buffetto sulle guance paffute. Lei sorrise e mi tese le mani. Lanciai un’occhiata alla balia, che sembrava stupita dall’ increscioso comportamento della bambina. Come se avesse commesso chissà quale reato.
Sorrisi ad Alice e la presi in bracco, esibendomi nel mio miglior sorriso alla volta della balia, che mi osservava stupita.
« Mia signora, vi prego, non perdete il vostro tempo con questa bambina. » mi disse, allungando le braccia per prendere Alice, ma io scrollai le spalle, congedandola.
Una volta che la balia si fu allontanata, rivolsi un sorriso alla bambina.
« Ma com’è che fai disperare tutti quanti senza neanche aprire bocca, eh? » borbottai rivolta alla bambina, che sembrava divertirsi un mondo a giocare a ‘cerchiamo-di-accecare-Harley-con-le-dita-sporche-di-terra.’
« Gah! » mi disse in quel modo buffo in cui parlano i bambini, battendo le mani.
« … ‘Gah’ anche a te, Alice. » borbottai, ridacchiando.
Cercò di dirmi qualcos’altro, ma evidentemente nonostante i suoi cinque anni nessuno si era preso la briga di insegnarle bene a parlare, così non riuscii a capire una parola.
Mi limitai a rimetterla giù, guardando l’orlo sporco di fango del suo abitino azzurro e sorrisi. Qualcosa mi diceva che io e quella bambina saremmo andate molto d’accordo.
A quel punto lei iniziò a correre, e io fui costretta a seguirla, nonostante incespicassi costantemente nel mio lungo abito, maledicendo nuovamente la moda dell’epoca. Oh, ma chi me l’aveva fatto fare di congedare la balia?
« Alice! Torna qui, dai! » provai a chiamarla, ma lei aveva deciso di far disperare anche me oltre a tutto il resto del castello, così anziché darmi ascolto imboccò la strada per la cittadella.
Imprecai e continuai a rincorrerla, rendendomi conto di quanto fosse ridicola la situazione. Una diciottenne che continua ad inciampare e spiaccicarsi sul pavimento mentre cerca di rincorrere una bimba di cinque anni alta un tappo e mezzo.
Ah, la gente sì che mi avrebbe presa in giro!
Per mia immensa sfortuna, erano tutti troppo occupati ai preparativi per il Gran Ballo per prestare attenzione a Baby Martewall, così riuscii ad acchiappare la bambina per il braccio solo quando ci trovammo fuori dal castello di Chatel-Argent.
« Vieni qui, signorinella! » esclamai, prendendo in braccio il diavoletto che se la rideva come una matta. Ah-ah.
« Uak. Uak! » mi trillò Alice nell’orecchio, indicando la strada.
Inarcai il sopracciglio, poi compresi: ‘walk’, camminare. Lo scricciolo voleva fare un giro per la cittadella.
Scrollai le spalle e la accontentai, sempre tenendola ben salda tra le mie braccia. Non avevo intenzione di inseguirla su e giù per tutta la strada.
Mancava poco più di una settimana al ballo, e alcuni invitati avevano già iniziato ad arrivare, travolgendo la solita –a sentire Isabeau- tranquilla, monotona vita del posto, anche se a me sembrava la solita noia mortale. Voglio dire, cosa faceva la gente una volta tornata dal lavoro se non c’era nemmeno la televisione?
Stavo per scendere dal ponte levatoio quando sentii una voce chiamarmi da lontano. Mi voltai e vidi l’irritante balia di Alice correrci incontro. Lanciai uno sguardo alla bambina in braccio a me e notai che neanche lei era particolarmente felice di vederla. Poverina, chissà che noia avere una balia.
« Lady Harley, dove state portando la bambina?! » quasi mi urlò in faccia, isterica.
Io inarcai il sopracciglio, limitandomi a squadrare la donna dall’alto in basso –non che io fossi chissà quale stanga, ma la donna doveva sfiorare a malapena il metro e quarantacinque.
« A fare una passeggiata fuori dalle mura del castello, no? Se volete unirvi a noi, ne saremmo più che onorate. » le dissi, ostentando un falso sorriso e voltandomi senza neanche darle il tempo di rispondermi.
La donna, presentatasi come Catherine Booth, continuò a dirmi come dovevo tenere Alice, cosa dovevo farle fare e blablabla per almeno una mezz’ora buona.
Ogni volta che apriva bocca alzavo gli occhi al cielo e mi limitavo ad ignorare i suoi ‘suggerimenti.
Poco dopo, scoprimmo che a Chatel-Argent era giorno di mercato. No, dico, avvertimi Isabeau, mi raccomando!
Non mi ero portata dietro neanche uno spicciolo –anche se in realtà non ce li avevo a prescindere- perciò ci limitammo a dare un’occhiata alle bancarelle più interessanti. Ad un tratto, notai in lontananza un bancarella di stoffe pregiate.
« Le dispiace tenere Alice per un secondo, Madama Booth? Dovrei vedere una cosa … » dissi, lasciando la bambina nelle mani della sua isterica balia e allontanandomi, dopo che Catherine ebbe promesso che mi avrebbe aspettata lì.
Aguzzai la vista, e notai che in mezzo al gruppo c’era niente meno che Geoffrey Martewall, con il volto rosso e la mascella contratta, come se stesse usando tutto l’autocontrollo di cui disponeva per non saltare al collo ai tre uomini innanzi a lui.
La prima cosa che notai fu che erano vestiti di nero. Interamente. Perfino i loro capelli erano neri, così come gli occhi. Rabbrividii. Quegli uomini non mi piacevano, proprio per niente.
« Non provare a fermarci, Martewall! Dobbiamo parlare con il signore del castello. Ora! » urlò quello che sembrava il capo, non curante della folla che li accerchiava.
Geoffrey, per tutta risposta, si limitò a inarcare il sopracciglio e alzare il mento in segno di sfida.
Sperai vivamente che a Catherine non venisse l’insana idea di portare la piccola Alice a vedere lo spettacolino.
« Jean de Ponthieu ha cose più importanti da fare che stare a sentire i vostri problemi da topi di fogna. » la voce di Martewall era talmente gelida da mettere i brividi.
I tre uomini in nero sguainarono le spade, e così fece Geoffrey.
A quel punto feci la cosa più stupida che mi potesse venire in mente: mi lanciai in mezzo a loro con le braccia spalancate, per evitare una lotta nel mezzo della piazza cittadina.
« Ah, adesso intervengono anche le donne a salvarti la pelle, Martewall? Non ti ricordavo così vile! » l’uomo sputò per terra, lanciandomi un’occhiata derisoria.
Io mi limitai a osservarlo, indifferente.
« Ser Martewall, la prego, non perda tempo con questa gente. » esordii, notando con un certo piacere perverso la faccia del Capo farsi sempre più rossa dalla rabbia.
« Come osa?! »
« Oso, oso. Sapete chi sono, monsieur?  »
Con la coda dell’occhio vidi Martewall scuotere lentamente il capo, ma sembrava più divertito che altro, e così tutti i presenti. Sulle mie labbra si disegnò un sorriso.
L’uomo mi guardò stupito, borbottando qualcosa di molto poco carino sulla mia presunta vita sentimentale. Qualcosa che assomigliava molto alla parola ‘baracca’, tanto per capirci.
Inarcai il sopracciglio e abbozzai un inchino, senza smettere di sorridere gelidamente.
« Il mio nome è Harley Karjalainen, cugina della castellana Isabeau de Montmayeur. »
Il mio sorriso si allargò nel vedere la faccia dell’uomo farsi sempre più rossa. 1 a 0 per Harley!
Martewall iniziò a ridacchiare, avvicinandosi a me. Cosa che vorrei non avesse mai fatto, perché la sua presenza accentuava in modo imbarazzante il mio metro e sessantotto scarso.
L’uomo rinfoderò la spada senza smettere di guardarmi, e io sentii un brivido lungo la schiena. E non era certo colpa del freddo.
« Ci rivedremo, Lady Karjalainen. Martewall. » con un’ultima occhiata sprezzante, si voltò, facendo frusciare le vesti nere come la pece e si allontanò in tutta fretta seguito dai suoi compagni, che non avevano aperto bocca.
Martewall mi rivolse un sorriso triste.
« Temo, mia signora, che vi siete appena inimicata una delle persone più pericolose del momento. Ah, e penso che questo possa considerarsi un nostro segreto. Meglio non impensierire monsieur Jean. »
Io mi strinsi nelle spalle, trattenendo un sorriso. Quella sera stessa Isabeau avrebbe saputo ogni minimo dettagli del mio incontro con gli Uomini Neri.
 
Geoffrey andò da Alice e Catherine, e io finalmente riuscii a vedere la bancarella.
Non ero tanto sicura che la mia improvvisata fosse stata una buona idea. In realtà, non ne ero affatto sicura. Sperai solo che Ian non si sarebbe arrabbiato così tanto.
Dopo una decina di minuti in cui la proprietaria della bancarella non chiuse bocca un secondo –aveva visto la mia discussione con gli uomini in nero- tornai dagli altri, pronta a rimboccarmi le maniche e darmi da fare con quel maledetto vestito.
Ero talmente impegnata con i miei progetti per l’abito, che non mi accorsi di qualcuno che correva controcorrente. E che mi sbatté addosso con talmente tanta forza da farmi cadere per terra.
« Pardonnez-moi, madame! » disse un’inconfondibile francese.
Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti un mio coetaneo dai capelli castano scuro e l’aria estremamente mortificata.
« Levati dai piedi, Testa di Rapa! » borbottai con quel poco di francese che sapevo, rialzandomi e allontanandomi il più in fretta possibile, non prima di averlo maledetto in tutte le lingue da me conosciute.
Quando tornai da Catherine e Alice, mi ero già completamente dimenticata dell’incontro –o meglio, io me l’ero dimenticato, il mio fondoschiena dolorante per la caduta mica tanto.
Lady Booth lanciò uno sguardo di disappunto al mio vestito leggermente sgualcito, ma per una buona volta tenne la bocca chiusa, per permettere a me e alla bambina di goderci il ritorno al castello.
 
 
E infine, il giorno da me tanto temuto arrivò.
Chatel-Argent era stata addobbata, la sala del banchetto preparata, miracolosamente finito il vestito di Isabeau e la mia crisi da non-so-come-diamine-comportarmi quasi passata.
La castellana aveva continuato con le sue lezioni di francese, grazie alle quali ora potevo ordinare della carne senza ritrovarmi un cavallo intero in sala da pranzo.
Mi lisciai le pieghe ormai inesistenti dell’abito blu elettrico e sospirai. Janetta era dietro di me e mi sistemava i capelli in una crocchia dall’aria piuttosto complicata.
Sospirai. Perché, perché non potevo andare al ballo in jeans? 
Ero arrivata lì da due settimane e già non ne potevo più delle varie gonne, sottogonne, sottosottogonne, corpetti, veli e quant’altro.
Ripensai all’abito di Isabeau e a come me l’ero cavata con qualche drappo colorato qua e là. Fortuna che lei ne era rimasta estasiata.
Quando la serva finì di completare la sua opera, ebbi appena il tempo di passarmi una mano tra i capelli che subito Isabeau e Brianna si fiondarono in camera mia e mi trascinarono via di peso –non in senso letterale, ovviamente.
Scendendo le scale, lanciai un’occhiata al vestito multicolor di Isabeau (ma quanto sono brava?) e quello rosso cremisi di Brianna, che si intonava perfettamente ai capelli.
Chissà per chi si era fatta bella quella sera, mi chiesi. Ebbi risposta poco dopo, quando varcammo le soglie della Sala da Ballo-barra-banchetto-barra-quellocheè e si fiondò a parlare con Geoffrey Martewall senza nemmeno degnarci di un saluto.
Isabeau mi sorrise, complice, e si incamminò verso Ian.
O meglio, cercò di incamminarsi verso Ian, perché ad ogni passo veniva fermata da dame, cavalieri, conti e quant’altro che si complimentavano ora per la sala, ora per il vestito –modestamente-, ora per il cibo che passava tra gli invitati, ed erano ansiosi di fare la mia conoscenza.
Mentre mia “cugina” era impegnata a conversare amabilmente con una contessa dall’aria non snob, di più, vidi arrivarmi addosso un pavone arrosto, con tanto di coda.
Mi scostai appena prima che il paggio mi rovesciasse addosso l’intero animale.
Isabeau ridacchiò e salutò la dama con un inchino, per poi trascinarmi di gran carriera verso Ian, che in quel momento era circondato da un gruppo di altri cavalieri, Guillaume e una dama dai capelli ramati.
E insieme a loro c’era anche … oh, diamine.
« Messieurs, vi presento mia cugina, Harley. » esordì Isabeau con un inchino. Notai che aveva accuratamente omesso un qualsiasi cognome.
Feci un inchino e osservai i presenti.
« Harley, loro sono: monsieur Etienne de Sancerre, monsieur Henri de Bar, madame Donna de Sancerre e … »
« Testa di Rapa. » borbottai, troppo piano perché chiunque mi sentisse. Cacchio.
Sperai vivamente che il conte non mi avesse riconosciuta. Cacchio.
Speranza vana. Henri de Grandpré, così l’aveva presentato Ian, si esibì in un gran sorriso.
« Oh, noi ci siamo già incontrati, non è vero, mademoiselle? »
L’ho già detto “cacchio”?
Abbozzai un sorriso e mi limitai a stringermi nelle spalle.
Quello dal volto abbronzato e i capelli castani fece una specie di ghigno e disse qualcosa in francese, troppo piano e troppo velocemente perché io ne potessi cogliere il senso.
Ma a giudicare dall’occhiata ammonitrice della moglie, non doveva essere stato un commento molto lusinghiero.
Guardai Ian interrogativa e lui si limitò a scrollare le spalle.
In quel momento, decisi che avrei imparato il francese alla perfezione.
Guillaume de Ponthieu scosse la testa e si limitò a prendere congedo, diretto da non so quale conte dal nome impronunciabile.
« Allora, mademoiselle, vi trovate bene qui in Francia? » mi domandò la donna dai capelli ramati, in un inglese perfetto.
Io inarcai il sopracciglio, e Ian mi sussurrò un ‘Anche lei viene dal futuro.’ all’orecchio che mi lasciò basita.
C’era un’altra persona che veniva dal futuro e ne’ lui ne’ Isabeau  me l’avevano detto?
Mi costrinsi a fare un sorriso e le risposi educatamente, morendo dalla voglia di saperne di più su quella ragazza. Anche lei aveva scelto di rimanere lì come Ian o era stata costretta?
… anche io sarei stata costretta a rimanere lì, ottocento anni troppo indietro?
La voce di Ian mi riscosse dai miei pensieri non proprio allegri.
« Volete concedermi questo ballo, Isabeau? » domandò alla propria dama con un inchino, facendo un cenno verso quella che potrei definire ‘banda’.
Lei accettò con un sorriso e i due partirono verso la pista da ballo, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.
Etienne e Donna li seguirono subito dopo, e Henri de Bar si allontanò con una donna dall’aria ispanica, che classificai come sua moglie.
Così, rimasi da sola con Henri de Grandpré alias Testa di Rapa.
« Ehm … sono desolata per l’altro giorno. » borbottai. Non era affatto vero, ma non mi sembrava il caso di puntualizzare.
Lui mi guardò e fece un sorriso, come a dire ‘non ti preoccupare’.
E tra noi scese il silenzio.
Mi guardai i piedi, imbarazzata. Cosa dovevo dire? Potevo accusare un mal di testa, così da evitarmi l’ennesima brutta figura di parlare a vanvera? Meglio di no, probabilmente avrei solo allarmato inutilmente Ian e Isabeau, e non mi andava di disturbarli mentre piroettavano felici per la pista, con due sorrisi identici stampati sul volto.
Stavo pensando a qualche scusa per allontanarmi quando una nanerottola bionda mi si fiondò letteralmente addosso.
« Hei, Alice! Ma tu non dovevi rimanere con Marc e Michel? » le chiesi, poi guardai oltre la sua spalla e compresi la sua presenza lì. La piccolina doveva essersi intrufolata nella sala –cosa non molto difficile, dal momento che le porte erano tutte spalancate e la bambina era alta si e no un tappo e mezzo- e la povera vecchia Catherine Booth sgomitava per la sala alla ricerca della peste.
« Lei è la nipote bastarda di monsieur Martewall? Sembra molto affezionata a voi. » mi chiese in tono curioso Henri, della cui presenza mi ero totalmente dimenticata.
Io annuii, e Alice batté le mani.
« Forza, nanerottola, ti riporto a letto. Non devi intrufolarti nelle feste per grandi! » la sgridai. Lei sembrò rabbuiarsi, ma dal mio sorriso capì che scherzavo e ridacchiò, battendo nuovamente le mani.
Con un inchino salutai il conte di Grandpré e mi allontanai in tutta fretta con la bambina in braccio. Parecchie persone si voltarono a guardarmi, ma io mi limitai ad ignorarle. Ah, il pensiero medioevale.
Posai la bambina tra le braccia stremate di lady Booth e le accompagnai nella loro stanza, lieta di una scusa per saltare il ballo. 
Solo quando mi ritrovai stesa a letto, con il cuscino premuto sulle orecchie per non sentire la musica provenire dai piani inferiori, mi resi contro che non avevo scambiato una parola con Donna Barrat.












Madamoiselle's Corner: 
CI SONO RIUSCITA, PER IL SANTO PANINO, CI SONO RIUSCITA! *O* 
*intona canti di vittoria e improvvisa una conga.* 
Uaaaaau, che strano capitolo. Maccommé che mi sembrano tutti strani i miei capitoli? D: 
-
Vorrei dedicare tuutte le parti in cui appare Alice -praticamente l'intero capitolo- alla mia adorata Alice/Sil/Cam/Pecce/Blablabla :3 
I love you. E GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE per 'The Mark of Athena'. Ti amerò per il resto della mia miserabile vita.

-
Gli uomini in nero. Teneteli d'occhio. Spero di non avervi confuso ancora di più le idee e che questo capitolo vi sia piaciuto :3
Cercherò di pubblicare il prima possibile, ma non prometto nulla! çwç 
-
Ah, se trovate qualche incongruenza spazio-temporale-quellochevipare, ditemelo! non sono un granché in storia medioevale, e Google non è sempre molto utile ç__________ç

alla prossima! 
Madamoiselle Nina. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1216363