Ambivalenze

di Love_in_idleness
(/viewuser.php?uid=2759)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. ***
Capitolo 2: *** 02. ***
Capitolo 3: *** 03. ***
Capitolo 4: *** 04. ***
Capitolo 5: *** 05. ***
Capitolo 6: *** 06. ***
Capitolo 7: *** 07. ***
Capitolo 8: *** 08. ***
Capitolo 9: *** 09. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***



Capitolo 1
*** 01. ***


Credo siano passati due anni dall

NOTA DELL'AUTRICE: *Eh-ehm* Credo siano passati due anni dall'ultima long story shonen-ai che scrissi su questo sito. In realtà ho molta vergogna e molti dubbi su questa storia: a- perché ha poche paranoie rispetto alle precedenti; b- perché è molto romantica, e io non so scrivere cose romantiche; c- perché le mie storie mi sembrano sempre noiose Y____Y...

Devo dirvi un paio di cose. I capitoli sono ventidue, mi sembra, e sono già stati scritti tutti. Non so ogni quanto posterò, ma posterò, perché io odio quando non riesco a finire di leggere una storia. La vicenda si snoda su due coppie molto diverse tra loro, introdotte in due momenti diversi. Volevo inserire diverse visioni dell'amore, una più equilibrata, l'altra un po', come dire, angst... ma mi sa che ho caricato troppo sul melenso u____u. Ditemi voi.

Very Important Thing: Nel testo troverete ripetuta ossessivamente questa frase: Without Contrary is no Progression, ovvero Senza Contrasti non esiste Progresso, di un certo William Blake, e, come dice il titolo, è la chiave di lettura. Mi sembrava giusto puntualizzarlo. Per il resto, non fate caso a certi sproloqui sull'Arte. Ho molte idee mie. Saltatele, sono noiose. Non so nemmeno come ci sono finite nella testa di Lelio.

Buona Lettura ^_^

Giovedì sette Dicembre,

Una nevicata; un bigliettino; troppi caffè; una riflessione disarmonica e l’Equilibrio Cosmico spezzato in molte parti.

I.

La strada era immacolata ai suoi occhi. Un velo di neve copriva magicamente ogni dettaglio del parco sottostante la finestra contro cui Lelio era stancamente appoggiato, stendendo una sorta di letargo onirico sopra la terra. Lelio amava molto l’inverno – freddo, puro, distaccato, gelido. In molti versi si riconosceva nella sua intima solitudine e nella maniera in cui creava distanze tra le cose, sommergendole di contrasti tra la luce ed il buio delle notti precoci. Quella mattina stava per sorgere il sole. Di lontano, presumeva, sulla linea dell’orizzonte, l’alone lattiginoso delle mattine di Dicembre incendiava il paesaggio dei colori dell’aurora. Lui non li poteva vedere – scorgeva solo le sagome dei palazzi stagliati contro il cielo di una Metropoli che cominciava a svegliarsi dal lungo oblio notturno, e i riflessi di quei raggi fantasmagorici proiettati sul manto di neve compatta. Avrebbe desiderato uscire e stare al freddo il più presto possibile. Sospirò, scivolando ancora di più contro il vetro che si appannò del suo fiato formando una traccia di circonduzioni fantasiose e di disegni astratti particolarissimi.

“Cea. Siamo di nuovo in ritardo. Ti prego.” Sembrava distrutto.

“Cosa? Cosa, ti prego –“ Mircea rispose dal bagno.

Lelio sentì qualcosa di pesante cadere sul pavimento, o qualcuno, presumibilmente qualcuno, cioè Mircea, e pensò che quel sottilissimo filo che lo sospendeva ancora sopra un mare di pace e contemplazione della bellezza scintillante dell’inverno si fosse spezzato, e l'avesse fatto precipitare di nuovo nella sua piccola tragedia quotidiana. Erano le sette e mezza del mattino. Lui era stanco. Avrebbe solo voluto dormire, o per lo meno vagheggiare con la mente in quello stato che è simile al sonno, e che appanna la realtà di una certa quantità di incoscienza, di obnubilamento e di fantasia.

“Sono pronto, sono pronto, sono pronto, prontissimo e non siamo in ritardo e dov’è il mio caffè?” Cea entrò in cucina correndo. Davvero Lelio non si spiegava come anche di mattina, prestissimo, trovasse le forze per essere così disordinato.

“Il tuo caffè. È freddo.” Era sempre più rannicchiato contro il vetro.

“Oh, ti sei svegliato male?”

Ora Lelio si voltò. Pesantemente. Lo squadrò coi suoi occhi verdi e chiarissimi per l’albore della mattina e sibilò che doveva parlare piano. “Sveglierai la belva feroce.”

Mircea impiegava sorprendentemente venti minuti per alzarsi dal letto ma solo cinque per prepararsi. In realtà trascinò Lelio in ascensore e finì di rivestirsi mentre scendevano. Sul vialetto, di nuovo immerso nella sua beatitudine e nel silenzio delle desolazioni antelucane, a Lelio sembrò di riguadagnare calma e serenità. Il parco era spoglio e deserto, tranne per loro due, che camminando tracciavano una scia caotica sopra la coltre bianca uniforme.

“Ha nevicato questa notte. Che bello.”

“Cea, non lo devi necessariamente dire tutte le volte che nevica.”

“Sai cosa farò ora?” Lo guardò. “Ti ignorerò per tutta questa fantastica, meravigliosa, incredibile, entusiasmante giornata, e non permetterò al tuo pessimismo abissale di rovinare l’Equilibrio Cosmico della mia vita brillante.”

“Perfetto.” Lelio alzò le spalle. Si accese una sigaretta perdendosi con la mente nel nitore della camminata, mentre il vento gelido batteva sulla sua pelle scuotendolo di brividi e di strane sensazioni di libertà e leggerezza.

II.

Quando Mircea tornò in classe, trovò un bigliettino sopra la Linea-di-Demarcazione che aveva tracciato sul banco per ricordare a Lelio con precisione dove finisse il suo territorio, e fino a dove si potesse azzardare a guardare per non spezzare la precarietà dell’Equilibrio Cosmico. “Ha violato la Legge dell’Equilibrio Cosmico!” Esclamò guardando il foglietto ordinato invadere il suo spazio.

Il bigliettino diceva:

Data la tua insofferenza e le tue escatologiche previsioni di cedimento di qualche assurda membrana cosmica, poterò il mio potere altamente distruttivo altrove, e precisamente in qualche posto ombreggiato giù nel cortile, con qualche persona dolce e gentile dai capelli neri e dagli occhi verdi di sesso femminile e decisamente innamorata di me che non passi tutto il tempo a ricordarmi quanto instabile sia l’universo se io sono di cattivo umore.

Perdona il disagio, Cea, sacerdote della Suprema Armonia Universale.

Mircea ripiegò con cura il biglietto prima di cestinarlo, annotandosi mentalmente: e chi se ne frega. Due minuti dopo era in cortile. Scese di corsa tre rampe di scale e si guardò intorno cercando disperatamente con lo sguardo lei, la seduttrice, l’ammaliatrice, la strega dalle lunghe ciglia svolazzanti. “Giulia!” La fermò sorridendo – perché Mircea sorrideva sempre a chiunque dalle altezze vertiginose del suo buonumore perenne –.

Lei si voltò sbattendo vagamente le ciglia. “Sì, Cea?”

Cea si impose di chiarire a Lelio, quando l’avesse visto e quando il pericolo di collasso dell’universo fosse cessato, che Giulia non era affatto innamorata di lui, ma di qualsiasi ragazzo che fosse minimamente bello. “Hai visto Lelio?”

Lei sembrò un po’ delusa. “Non devi sempre rincorrerlo, sai.”

“E’ lui che semina le bricioline.”

Lei ci pensò un attimo. “E’ andato a prendersi un caffè.”

Era prevedibile, considerata la dipendenza di Lelio da nicotina e caffeina. La salutò gentilmente e ripercorse al contrario le solite tre rampe di scale fino alle macchinette di erogazione automatica. Cea lo poteva scorgere anche tra una folla di gente ammassata e rumorosa – alto, slanciato, i lunghi capelli neri raccolti ordinatamente dietro la schiena in una coda perfetta, bellissimo anche visto da quella posizione. Il suo fascino dark spandeva un’aura magnetica attorno alla sua persona. Arrivando fugacemente, Mircea si accorse che molti lo stavano guardando.

“Lelio!” Gridò dal pianerottolo. “Fine delle ostilità!” Dichiarò.

Lelio si voltò, - eccoli i suoi occhi verdi tanto penetranti! – Pensava lanciandosi su di lui. “Scusa-scusa-scusa!”

“Cea non c’è bisogno di saltarmi addosso in mezzo a tutte queste persone!”

“Non sei arrabbiato con me, vero?” Cea sbatté gli occhioni azzurri irresistibili.

Lelio lo abbracciò teneramente. Era una sensazione che non si spiegava, ma di cui non riusciva a vergognarsi. Lui era sempre grave e scostante, piuttosto di cattivo umore, riflessivo, distaccato, immerso in contemplazioni intelligibili e, genericamente serio. Serio con qualunque altra persona che non fosse lui. “No,” Gli sorrise.

III.

C’erano due persone che Lelio amava sopra ogni altro nella sua vita, ed erano Mircea e sua sorella Ottavia. Mircea, perché si conoscevano fin dal giorno in cui erano nati; Ottavia perché nonostante abitassero in due case differenti, in due quartieri differenti, e si dividessero i genitori in maniera equa, erano riusciti a mantenere un contatto strettissimo e affettuoso. In realtà Lelio si considerava molto vicino alla misantropia, e sicuramente un misogino. Se erano pochi i ragazzi che stimava, praticamente nulle erano le ragazze con cui aveva un dialogo che andasse oltre la provocazione.

Mircea era il suo esatto contrario, a volte pensava, la sua compenetrazione, la sua controparte, il bilanciamento del suo microcosmo. Gli sembrava impossibile che dopo tutto il tempo trascorso assieme, dopo diciotto anni di quasi-convivenza, avessero potuto sviluppare idee radicalmente opposte nei confronti del mondo. Se Cea era caotico, Lelio era ordinato fino a livelli maniacali. Se Cea era costantemente allegro e spensierato, lui si rabbuiava per cose da nulla e pensava tanto, troppo. Se Cea sorrideva sempre bonariamente e voleva bene a tutti senza farsi influenzare, lui non sopportava più della metà delle persone che conosceva e con cui doveva interagire. Se Cea era un equilibrio perfetto e solare, lui era gli estremi della passione portati allo sfinimento. Nonostante queste differenze abissali ed incolmabili, gli voleva bene con tutto il cuore. A volte pensava di amarlo come un secondo fratello. Non stava particolarmente bene. Non era felice perché non era soddisfatto. Questo Mircea lo vedeva, sentiva il suo movimento continuo, la sua spinta ed il suo slancio verso una situazione migliore, la tensione che scorgeva la Felicità, senza mai afferrarla, senza mai capirla. Proiettava timidamente i suoi limpidi raggi di sole.

“Sapevo che si sarebbe ingelosito. Sono andato da lei solo per dirle dove trovarmi. Ho lasciato una scia per essere seguito. È morboso, secondo te?”

“Dipende.” Lei guardò fuori dalla finestra con una certa preoccupazione.

“Lo adoro e basta, Ottavia.”

Un’altra pausa caffè. Lelio si nascondeva dietro l’armadio del corridoio per non essere trovato fuori classe dal suo professore di filosofia che continuava misteriosamente ad andare avanti e indietro.

“Sì! Lo sai come la penso. Siete fatti l’uno per l’altro e vi volete bene e vi amate e starete insieme tutta la vita felici e contenti, no?”

Lelio la trafisse con lo sguardo di ghiaccio. “No.” Ammise. Chinò il capo.

“O, come si dice, – without contrary is no progression. Voi siete la legge dell’ambivalenza. Tout court.”

Lelio sembrò assorbire per un secondo quelle parole. “Tu sei ossessionata.” Scosse la testa, appoggiandosi contro il muro del corridoio. Guardò il cielo che era rimasto bianco e che gli trasmetteva nell’animo solo una profonda sensazione di vuoto, un bisogno inconfessabile di qualche riempimento superiore. Si sentiva malinconico e triste. Non capiva nemmeno perché. L’ansia, quello strano senso di soffocamento interiore, lo colpiva di tanto in tanto quando, pensieroso e sconvolto, si perdeva nella sconfinata immensità dei suoi pensieri come in un naufragio dell’intelletto.

“E’ strano sai,” Gli disse lei. “Tu sei bello, intelligente e fortunato. Dovresti essere felice.”

“Dovrei.” Scosse la testa. “Ma c’è un’inquietudine che mi lacera dentro. Una paura di non so quale cambiamento.”

“Mm.” Lei scosse la testa. “Capisco.”

Veramente Ottavia capiva sempre tutto.

___

Martedì ho passato l'esame della patente! Ok, era solo teoria, ma ero gasatissima e ho deciso di postare questa cosa che giaceva ignorata da mesi tra i miei documenti.

Presentazioni: Io amo il nome Mircea. E' un nome sconosciutissimo, ne ho contati due in tutta la Storia, il fratello di Dracula (sì, si chiamava così) e un certo Mircea Eliade, uno studioso rumeno di religioni ed esoterismo. Infatti è un nome slavo, deriva da 'mir', che in russo vuol dire 'pace'. Mircea è qualcosa di biondo, chiaro, buono, scintillante, un po' tonto a volte, lento e incasinato in tutto ma tanto tanto dolce e carino, insomma, è il polo positivo. Lelio è più complesso e non ve lo sto a raccontare. E' un esteta, ed è quello che incarna di più il mio pensiero. Per quanto riguarda Ottavia... oddio, spero di non aver creato una Mary Sue! Lei sa tutte le poesie a memoria, e a volte bisogna interpretarla perché parla per citazioni. Come me conosce un sacco di ragazzi bellissimi a cui piacciono i ragazzi bellissimi, per questo è ossessionata dallo slash e cerca con tutte le sue forze di fare innamorare Mircea e Lelio. Ne è proprio convinta. Il Cerbiatto, detta Giulia, per quanto vi sembri strano è un personaggio vero, una mia compagna di classe che noi chiamiamo Piccolo Cervo perché sbatte le ciglia che sembra Bambi. E' una ragazza simpatica, ma a volte sbatte le ciglia un po' troppo... E la Belva... Beh, la Belva la incontrerete. E' il dio del tuono...

Commentate, grazie ^___^ Al prossimo capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 02. ***


02

Non so perché non vengono gli spazi. Scusatemi, non so usare il computer.

Sabato nove Dicembre,

Una retrospezione dalla parte di Lelio – una digressione temporale; un bigliettino; un sogno indefinito e alcune tragiche implicazioni trotterellanti di nome Vittorio

I.

Io e Mircea siamo nati lo stesso giorno per una strana coincidenza. In realtà siamo vicini di casa. Quando i miei genitori hanno divorziato, e mio padre se ne è andato portandosi via i miei tre fratelli, io sono rimasto in quell’appartamento del centro città, accanto al suo, riversando il vuoto di una perdita così grave e profonda interamente sulla sua fragile spalla. In un certo senso credo abbia preso il posto di tutti gli affetti che mi sono improvvisamente mancati.

La sera in cui per la prima volta dovevo dormire senza Ottavia, avevo nove anni, mi sentivo così solo e abbandonato che piansi per ore e ore nel cuscino. Ricordo che aprii la portafinestra sul balcone che comunicava con la stanza di Cea, in piena notte, e bussai delicatamente finché lui, un po’ assopito, non mi aprì. Mi addormentai nel suo lettino. Da allora dormiamo nella stessa stanza ogni notte da quasi dieci anni, e non ci è mai venuto in mente di interrompere questa abitudine. È una cosa dolce e allo stesso tempo devastante. Mi è capitato di dormire con altre persone, in modi decisamente più intimi, eppure in nessuna di quelle occasioni sono riuscito a ritrovare il calore affettuoso che mi trasmette Cea con la sua semplice vicinanza e col suo modo calmo di dormire soffiandomi sulla guancia mentre respira.

Quella notte non riuscivo a prendere sonno. Capita molto spesso alle persone ansiose come ero io. Osservavo il soffitto buio cercando di scorgere attraverso l’immaginazione dei disegni interessanti, delle luci fantasmagoriche o qualche passaggio verso un’altra dimensione. Cercai di alzarmi senza fare rumore ed uscii sul nostro balcone.

Mi accesi una sigaretta e sospirai sonoramente. I capelli mi ricadevano lunghi, forse troppo, sulle spalle. Mi guardai intorno e fui come catturato in un vortice che mi conduceva in basso, sempre più in basso, verso una caduta vertiginosa. La notte era placida e serena, una di quelle che sembrano fatte apposta per restare svegli a sognare ad occhi aperti, incantati in qualche immaginifica rêverie, o per sussurrare parole dolci che si perdono nel vento. Le stelle dipingevano bagliori lontani e siderali, quasi freddi nella loro distanza irraggiungibile.

Qualcuno aprì la porta dietro di me e mi appoggiò una coperta sulle spalle.

“Scemo, non puoi rimanere fuori sul balcone a congelare in queste lunghe notti d’inverno.” Cea aveva un tono melodrammatico. Si sedette accanto a me e si avvolse nella coperta che mi aveva portato. Lui non sa sopportare il freddo, e decisamente non lo sa apprezzare come me.

“Sai, tutto questo pallore – rischiara quasi la notte.”

“A me mette i brividi.”

“Trovi? Di solito sei felice per nulla. Sei felice anche per la neve, perché riesci a trovare una bellezza particolare dentro ogni cosa. Ma io sento solo un grande vuoto.”

“Puoi sentire un vuoto? Non ha molto senso.”

“Non c’è l’ha, sì.”

Cea appoggiò il capo contro la mia spalla. In fondo lui capiva che quella desolazione nottilucente non era altro che un ricordo terribile dei legami che erano stati spezzati nella mia vita.

“Non hai niente da dirmi?”

Scossi la testa. Non era veramente una bugia – io non dovevo dire nulla, perché fondamentalmente non capivo nulla. Provavo questo strano senso di sconforto nel mio petto, eppure non lo sapevo riconoscere, non lo sapevo delineare, non riuscivo a definirlo in una parola, in uno stato d’animo preciso.

Una stella brillava più delle altre. Fissai il mio sguardo dritto alla sua luminosità, e decisi che quella stella era Mircea. Tutte le volte che l’avessi guardata, mi sarei ricordato di lui, di quella notte, del mio vuoto nella maniera assurda e talvolta insensata in cui il flusso di coscienza e le associazioni di idee riescono a rievocare il ricordo vago di un particolare, di un momento, di un’emozione attraverso determinate percezioni.

II.

Cea cercava di nascondersi il più possibile dietro alla pila di libri posata sul suo banco – perché riusciva ad essere estremamente caotico anche a scuola. Si era appiattito contro la superficie di compensato e pregava rivolto verso il crocifisso mentre l’indice del professore di matematica scorreva perfidamente i nomi riportati sul registro. Purtroppo lui si chiama Vanni, ed è l’ultimo dell’elenco in ordine alfabetico. Questo facilita incredibilmente la sua estrazione senza per altro invogliarlo a studiare matematica.

Scribacchiava qualcosa.

“Vanni!” Si alzò come un condannato a morte e si trascinò verso la lavagna che per lui, presumibilmente, doveva possedere la stessa malvagia voracità un buco nero in espansione.

Lo guardai allontanarsi con aria afflitta e mi sentii improvvisamente molto solo e stretto nella mia malinconia da ultimo banco occultato contro il muro. Era un bene. In un certo senso, quando non ero particolarmente rattristato per Tutto-il-male-del-mondo, mi piaceva stare da solo per un po’ di tempo. Serviva per pensare e per analizzarmi con calma e tranquillità. In quei giorni pensavo di non riuscire più a sopportare la presenza costante di persone attorno a me che non fossero sulla mia lista buona, e questo mi indispettiva acuendo il mio proverbiale mal du siècle, come diceva Ottavia.

Io ho il mal du siècle! Pensavo, e più pensavo, più ci cadevo, sprofondando come nelle sabbie mobili.

In realtà continuavo a riflettere sul significato nascosto della mia dolce stellina risplendente sul capo delle notti insonni, mentre tutto il resto del mondo dormiva placido e tranquillo sotto una coperta di buio e di neve. Voltai la testa verso la finestra. Il cielo era livido e tumultuoso, prossimo ad una nuova nevicata, solcato da correnti invisibili e da nubi pesanti che rotolavano rocambolescamente sulla sua superficie bassa e dolente, come

Quand le ciel bas e lourd pèse comme un couvercle

Sur l’esprit gémissant en proie aux long ennuis,

Et que de l’horizon embrassant tout le cercle

Il nous verse un jour noire plus triste que les nuits ;

mi provocava solo un convulso senso di malessere ed un’agitazione inesprimibile. Avevo voglia di scappare. Appoggiai la testa contro il banco – c’era un bigliettino scritto da Mircea nella sua bella calligrafia, l’unica cosa in lui che fosse decentemente ordinata. Diceva:

Quando leggerai questo biglietto, per me sarà troppo tardi. Il tuo pessimismo, vedi, ha spezzato l’Equilibrio Cosmico che tentavo di preservare, e ora sarà la fine, la caduta, il collasso, il declino, il disfacimento, il clinamen, l’Ade, l’Averno, la Morte, la ghigliottina, l’ordalia, il Giorno del Giudizio. Non ti devi sentire in colpa.

Pensai che era un modo stupido per convincermi a sentirmi in colpa. Ritirai il biglietto e mi rimisi a scrutare laconicamente le nuvole in movimento nel cielo, così affaccendate e così ipnotiche nel loro vuoto sonnolento, nella dolce lentezza delle loro forme soffici eppure terribili.

III.

Vittorio era bellissimo, biondo, riccioluto con due occhioni azzurri come il mare, la pelle rosea, fresca, soffice di una pesca, i denti bianchi, il sorriso smagliante, le labbra rosse a forma di cuore e una risata squillante che ti faceva perdere la testa. Mircea lo amava alla follia, lo adorava, lo venerava quasi quanto la stabilità dell’universo. Era una creatura deliziosa che a volte mi ingelosiva nella sua meravigliosa purezza.

Noi lo chiamavamo affettuosamente Thor, come il dio del tuono, e siccome suo padre era morto poco dopo la sua nascita, e Mirca era diventato l’uomo di casa, si prendeva cura della sua graziosa fragilità. Oramai aveva quasi tre anni e cominciava a parlare. I bambini sono bellissimi quando cominciano a parlare e ti sussurrano cose dolci nell’orecchio. Dopo la nascita di Vittorio ho scoperto di odiare gli adulti ma di amare i bambini.

Quel pomeriggio stavamo facendo il riposino. Fuori nevicava. Io non avevo dormito tutta la notte così decisi di fargli compagnia, mentre Mircea provava a studiare. L’atmosfera di quella giornata lugubre e pesante mi spingeva soltanto nel lettuccio comodo. Presi in braccio Thor e ci infilammo insieme sotto le coperte.

Il suo corpicino tutto caldo e fremente di vitalità mi scaldava in una maniera tenera che non si sarebbe mai aspettato, mi accarezzava quasi di una consolazione straordinaria. Sbadigliando strinse i pugnetti morbidi tra i miei capelli lunghi.

“Buonanotte!” Disse sistemando la testolina contro il mio petto. Lo sentii tremare un po’ dal freddo.

“Thor –“ Gli sussurrai piano. “Tu pensi che io sia triste?”

“Tu sei sempre un po’ triste.”

“Sì?”

“Sì.” Annuì col capo.

“E secondo te perché sono triste?”

“Perché ti manca il tuo papà.” Rispose con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Pensai un attimo. “A te non manca?”

“Io ho Cea e te.”

“Non è come avere un papà.”

Non mi rispose. “Ti manca anche una come la mamma, secondo me.”

Poi si addormentò sulla mia spalla. Gli baciai la fronte e stringendolo forte mi addormentai anch’io in pochissimi minuti.

___

Commentate, per favore ^_^...

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 03. ***


Ho riavuto il mio piccy

Ho riavuto il mio piccy... che cosa meravigliosa Y___Y

 

Lunedì undici dicembre. Un viaggio in metropolitana; degli zuccherini colorati che affogano; alcune notizie buone, molte notizie cattive. Una lezione di estetica.

 

I.                                                   

A Mircea non interessavano molto la compostezza e la misura. Neanche quando era in metropolitana. Si sedeva occupando due sedili ed appoggiava la testa sul petto di Lelio lasciandosi cullare dagli scossoni del treno in marcia, a volte addormentandosi, a volte studiando, a volte semplicemente guardando il vuoto fisso delle luci artificiali.

Quella mattina, Lelio non sapeva perché, gli sembrava particolarmente bello. “Sei particolarmente bello, oggi.” Gli aveva detto mentre scendevano in ascensore. Qualcosa lo faceva risplendere di una radiosità raggiante. Probabilmente era solo un effetto della candida sciarpa di lana bianca che gli incorniciava il volto di una luminosità straordinaria, e che si rifletteva sui suoi capelli biondi e nei suoi occhi chiari. La frangetta gli ricadeva scompostamente sulla fronte donandogli un’aria sbarazzina, mentre i folti capelli scivolavano sulle sue spalle e sulla sua schiena in riccioli perfetti.

Anche in questo lui e Cea erano estremamente diversi. Mircea si vestiva in maniera molto svogliata e casuale, sempre disordinata, noncurante degli accostamenti cromatici e delle stoffe. Amava molto il rosso, specialmente l’amaranto, il bianco, il verde e l’azzurro che esaltava i suoi occhi cerulei. Lui, invece, vestiva solo di nero. Sempre nero. Ottavia diceva che il gotico era una cosa di famiglia, ma di certo lui esasperava questa tendenza – nella maniera in cui esasperava ogni cosa. Il suo guardaroba era un disastro inestricabile, un’immensa macchia monotona, scura e buia. Non solo preferiva uno stile dark molto appariscente, gli piaceva anche truccarsi. Aveva una collezione di accessori invidiabile, soprattutto orecchini pendenti e cinture. Portava i capelli decisamente lunghi, cosa che risaltava ancor di più il suo aspetto efebico, volutamente femmineo all’eccesso. I capelli di Mircea, invece, erano sempre spettinati, se nessuno li sistemava per lui.

- Forse, - Pensava, - Il mio Thor un giorno sarà splendido come te. – Perché oramai considerava Vittorio un po’ anche figlio suo.

Mircea si appoggiò contro la spalla di Lelio con la delicatezza che il suo fratellino aveva usato il pomeriggio precedente, e si addormentò respirando piano. Lelio lo abbracciò. Si sentiva vagamente infatuato, come se il suo profumo tanto dolce lo inebriasse. Gli sembrava normale stringerlo, quanto lo era stato stringere Thor. Nel suo petto batteva sempre la stessa sensazione di contentezza e di ansia inspiegabile.

Lelio intuiva chiaramente, in quel vagone freddo e deserto, che se da un lato Mircea emanava una luce candida e delicata, lui offuscava ogni cosa con la sua ombra oscura. Questo lo spaventò abbastanza. Era in momenti del genere, quando Cea non lo riportava a terra con la sua voce sincera, che si perdeva in certe fantasie deraglianti. Non era possibile, si disse, che fossero davvero così diversi, altrimenti se ne sarebbe accorto molto, molto prima.

                                                                     

II.

Tutte le volte che facevano colazione al bar, prima di entrare a scuola, Mircea ordinava “una cioccolata calda con panna e zuccherini colorati e una brioche al cioccolato gianduia con scagliette di mandorle e zucchero a velo”, mentre Lelio prendeva “il solito caffè dall’aromatica e fortissima miscela ecuadoriana”. Era una sorta di rito del buongiorno che si concedevano da sempre e che avevano imparato a prendere come una delle tante cose riservate per loro due, soli.

Il bar era vicino alla loro scuola, ma un po’ nascosto. Si chiamava ‘Ambra’ perché quella tinta dominava il suo interno. A Mircea era piaciuto dalla prima volta che c’era passato davanti perché aveva le vetrate colorate di rosso, di bordeaux, di giallo, d’oro, d’arancio, d’ocra in stile liberty. Pensò che doveva essere luminoso in una maniera molto particolare all’interno. Era uno spazio piccolo e raccolto, i pochi tavolini erano bassi, di lacca nera con particolarissime decorazioni floreali rosa, azzurre e arancioni, tutti coperti da tovaglie rettangolari di stoffa simile al taffettà ricamate a disegni geometrici, sfilacciate ai bordi. I tantissimi cuscini sparsi sulle sedie, sulle poltrone e sui divanetti erano foderati della stessa stoffa. Su ognuno di questi tavoli erano poste piccole lampade a forma di campanula rovesciata, stile Tiffany e decisamente retrò. Le pareti erano tappezzate da carta da parati color avorio, oro e rosso, molto rosso, ed ospitavano gli oggetti etnici più particolari e suggestivi. Il locale profumava di incensi buonissimi. La specialità dell’Ambra era una brioche al miele e cannella e scagliette di cioccolato bianco che persino Mircea trovava troppo dolce. Era un posto ricercato e particolare anche nella carta – “Ma se par chance volessi un banalissimo espresso?” Aveva detto Lelio la prima volta. Poi aveva assaggiato il caffè dell’Ecuador e ogni cosa aveva ritrovato il suo posto nel complesso disegno dell’Equilibrio Cosmico.

Così si sedettero nel loro solito tavolino appartato, e Mircea tirò fuori il libro di letteratura italiana.

“La notizia buona,” Disse Lelio quando arrivarono le ordinazioni, “E’ che mentre tu eri colpevolmente in giro per i corridoi, la prof. ha detto che la verifica sarebbe stata rimandata alla settimana prossima.”

“La notizia cattiva,” Rispose Mircea, “E’ che è entrata la Giulia.”

Lelio si nascose dietro lo schienale del divanetto reprimendo un brivido di terrore, mentre Mircea scompariva con la sua solita abilità dietro una carta, mescolando la cioccolata con aria preoccupata.

“Lelio!” Sussurrò. “Ho un’altra brutta notizia. Ho affogato i miei zuccherini nel mare di cioccolata.”

“Ci sente, Cea, il Cervo capta tutto. Zitto. Nasconditi meglio.”

“La bella notizia è che ho ancora altri zuccherini colorati. Quelli rosa affondano più in fretta. C’è una spiegazione fisica per questo?”

“Non guardare gli zuccherini! Tieni d’occhio il Nemico!” Lelio si abbassò ancora di più.

“Non è il nostro Ne – cattiva notizia. Mi ha visto.”

“Ti odio. Odio te e i tuoi zuccherini. Specialmente quelli rosa.”

Giulia si avvicinò perplessa al tavolo. “Che fai?” Esclamò.

Lelio, che era scivolato così in basso da essere finito sotto il tavolo, rispose: “Oh, ho perso il mio orecchino, che sorpresa, toh, guarda, l’ho trovato!”

“Io non vedo niente!”

Lelio urtò il tavolo con la testa mentre cercava di alzarsi. Imprecò mentalmente contro la perversione dell’Equilibrio Cosmico che faceva scontrare il suo Pianeta con l’Asteroide-Femmine.

Mircea era comunque allegro per i suoi zuccherini salvi. E poi lui era il buonumore, voleva bene a chiunque, anche al Piccolo Cervo dalle ciglia svolazzanti.

Lelio si rassegnò appiattendosi contro lo schienale del divanetto, preparandosi per una interessantissima ora di conversazione.

 

III.

Un’altra pausa caffè. Lelio non poteva resistere per molto tempo senza caffè, o senza pause caffè. E poi, ultimamente, le lezioni di letteratura inglese erano noiose. Si era nascosto dietro la siepe del cortile, esposto al freddo dicembrino, con la sua sigaretta in mano e il bicchierino vuoto del caffè. Pensava. Di nuovo. E forse, questa volta, faceva un po’ di chiarezza nella sua testa.

Il suo problema fondamentale, in quel momento provava ad analizzare, era la sua mania dell’ordine, un bisogno compulsivo di avere tutte le cose perfettamente a posto e a portata di mano, ogni dettaglio nel suo quadro speciale – anche i pensieri – anche i sentimenti. Questo provocava grandi scompensi nel suo animo, perché, lo capiva, le emozioni non sono una cosa ben definita e schematizzabile razionalmente. La sua parte precisa gravava fortemente sul suo lato passionale, e questo scontro lo faceva impazzire ogni volta che si trovava di fronte a un problema che il primo livello di se stesso non fosse in grado di risolvere. Affezioni, legami emotivi, sentimenti, tormenti, dolori, tutto questo gli scivolava via dalle dita facendolo soffrire di quella sua strana, romantica malinconia, di quel suo impulso all’isolamento e al percorso interiore, di quella noia e di quella sopraffazione che lo destabilizzavano.

In momenti simili, Lelio costruiva per sé una barriera che nemmeno Mircea sarebbe stato in grado di scalfire – si limitava a perdersi nella contemplazione di qualche dettaglio e a lasciarsi trascinare da un flusso di pensieri invincibile, per svegliarsi mille miglia più in là rispetto al punto di partenza.

Davanti al suo sguardo basso, rattristato, freddo, si stagliava un albero morto nel grigiore dell’inverno. Lelio pensò che un albero è comunque fortunato a morire in questa maniera ciclica, perché la rigenerazione rende splendidi nel momento della rinascita. Pensò anche che l’ordine e la precisione che lui cercava così tanto, e che in natura si trovavano dentro ogni proporzione, in ogni segmento, in ogni traccia, fossero il fondamento di ogni credo, di ogni fede, di ogni aspirazione – la Bellezza – estetica, spirituale, ma pur sempre Bellezza. Lo intuiva quando Cea gli parlava scherzosamente della precarietà dell’Equilibrio Cosmico. L’Equilibrio Cosmico, per lui, era solo la Bellezza. Era la legge che regolava la nascita e lo sviluppo di tutto ciò che è bello, fino alla sua morte, fino alla sua rinascita nella primavera dei sensi e della vita.

Lelio si considerava sotto molti punti di vista un esteta. Amava la Bellezza e si circondava di cose belle, di persone belle. Di questo poteva essere sicuro. In ogni opera d’arte scorgeva quel disegno imprescindibile dell’universo, la mano creatrice di Dio, l’armonia. La Bellezza. Questo era il suo punto di riferimento. In esso trovava una piccola consolazione a Tutto-il-male-del-mondo, una compensazione della bruttura di certi momenti umani. La Bellezza era sublime e divina, trascendente e sacra. Per lui era una filosofia, uno stile di vita che nella sua smania si avvicinava all’edonismo. In fin dei conti, si diceva, la Bellezza suprema era il suo unico approdo, il punto in cui l’ordine e la passione, i due poli opposti del suo essere, si incontravano toccandosi e coincidendo perfettamente, salvandolo dalla sua dicotomia lacerante: - C’è ordine nella bellezza del caos di Kandinskij, e c’è passione nella bellezza ordinata di Michelangelo. La poesia è dirompente, eppure metrica. Una chiesa è meravigliosa per la solidità rigorosa della sua pianta, e tutta protesa verso Dio in una foga appassionata. –

Quella mattina Lelio risolse uno dei tanti interrogativi che balenavano nella sua testa da qualche tempo – e precisamente per cosa consacrare la sua vita alla fine di quell’ultimo anno di scuola superiore. Doveva solo dirlo a Mircea.

 

___

Grazie Cipolla che mi ha commentato. Molko Grazie (Molko *ç*). In realtà è una citazione che sono sicura di aver già fatto almeno una volta. La uso sempre perché l'ho veramente interiorizzata. Ma io amo la poesia francese, ecco...

Questo capitolo è stupido, ma per favore commentatelo! Mi scuso per l'ultimo paragrafo, ma Lelio sono io, e dovevo dire a qualcuno o a qualcosa queste elecubrazioni... il computer mi odia, ora.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 04. ***


Mercoledì tredici Dicembre

Mercoledì tredici Dicembre;

 

Una conversazione introspettiva che inneggia alla notte; un post-it fosforescente. I fratelli mancanti.

 

I.

 

La sua sola presenza manifesta

Il meraviglioso splendore

Dei reami del mondo.

(Novalis; Primo Inno alla Notte)

 

E mentre questo mondo si addormentava freddo, mentre gli occhi delle persone si chiudevano dolcemente accarezzati dal velo delle tenebre dischiuse nel cielo, mentre le percezioni si perdevano in riverberi onirici e sfumature indistinte; due ragazzi rimanevano sveglie nel cuore della notte scintillante. O meglio, uno era sveglio, mentre l’altro tentava di non assopirsi sui cuscini soffici.

Lelio continuava a leggere dal suo libro con una certa scintilla negli occhi. Mircea, sdraiato sul letto a testa in giù per evitare di chiudere le palpebre, cercava di essere di compagnia il più possibile.

Non un rumore usciva dalla loro camera – parlavano in sussurri. La loro piccola stanza segreta era una bolla di vetro imperturbabile preservata dall’oblio precipitato sul mondo-di-fuori. Tra le quattro mura calde e intime dimoravano parole sospese e l’Equilibrio Cosmico.

Hymnes an die Nacht!” Disse Lelio all’improvviso, trascinando di nuovo Mircea nella sua realtà. “Lo sai cos’hanno di speciale, e di così straordinariamente commovente?”

Mircea era troppo stanco per riflettere.

“La Notte! Non è così stupido, se ci pensi- è il senso di tutto il romanticismo. Dicono qualcosa di utile, i romantici? Forse sì e forse no. Dicono qualcosa di vero? Non lo sappiamo. Dicono qualcosa di bello. Di esaltante, di evocativo. Questo li pone, sotto un certo punto di vista, ad un livello artistico superiore. La loro fantasia è trascendente. Combinano le stagioni col cuore umano. Io mi posso innamorare di un verso qualsiasi, di una pagina qualsiasi di Schiller, di Coleridge, Di Hugo – non tanto perché esprimono idee giuste, ma perché dipingono immagini più sconvolgenti di molti quadri.”

“Già.” Rispose Mircea. “Hai intenzione di leggerlo tutto questa notte?”

“E’ una notte bianca.”

“La notte è fatta per dormire, Lelio.”

“La notte è fatta per amare.”

“Amare un libro?”

“Per amare quello che c’è dentro. Non sono parole, sono qualcosa che supera lo schema delle parole, è la loro metafisica, è il significato che si portano dietro, ed è sempre la stessa straordinaria teoria dell’associazione di idee. Mi posso appassionare fino a dimenticare il sonno in certe visioni.”

“Lelio?”

“Sì?”

“Leggi nella tua mente ed assimila ogni emozione che il tuo cuoricino ti suggerisce, poi, se vuoi, se senti la tua anima grandiosa traboccare del sacro fuoco dell’Arte e della Bellezza, non tentare di svegliarmi, ma aspetta domani mattina per raccontarmi ogni cosa. Grazie, Buonanotte, Ciao.” Mircea si girò nel letto e decise finalmente di volersi addormentare.

“Oh, no, Endimione! Non dimenticare la tua Luna!”

“Zitto.”

Mircea era illuminato fiocamente dalla lampada bassa che faceva luce a Lelio. I suoi capelli splendevano nel buio della stanza e della Città; la sua figura trasmetteva una tranquillità e una dolcezza meravigliose.

Lelio lesse tutti gli Inni alla Notte. Fino all’ultima riga. Si sentiva pieno di una passione riverberante e di quel senso notturno che Novalis gli aveva mostrato. Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire un solo istante, almeno fino a che non avesse albeggiato. Cioè quando si sarebbe dovuto svegliare. Coprì bene Mircea che sognava placidamente e rimase seduto ai piedi del letto fino al mattino. Per un po’ di tempo rimase incantato a guardarlo come se appartenesse a una di quelle visioni romantiche e tutte indefinite. Nel suo petto volava sempre quello strano senso di inquietudine ed ansia.

 

Aspirami in te,

amato, con forza,

perché mi addormenti

e impari ad amare.

(Novalis; Quarto Inno alla Notte)

 

II.

Mircea si risvegliò da solo nel letto, tardissimo alla mattina. Sulla porta era attaccato un post-it giallo.

“Ossignore, prende gli occhi!” Annunciò sbadigliando. Il chiarore del giorno investita la stanza. La macchia fosforescente concentrava tutta la sua attenzione. Diceva:

 

            Sono andato a trovare i miei fratelli. Impegno imprevisto. Mi dispiace abbandonarti senza averti fatto un minuzioso resoconto delle mie follie notturne. È tutto vero. Non so verso che ora tornerò, e non so come potrai vivere senza la mia abbagliante presenza. Eventualmente, prenditela con Ottavia, grazie. Lelio.

 

III.

Quella mattina Lelio usciva di casa da solo sentendosi quasi scoperto su un fianco. La mancanza fisica di Mircea cominciava a preoccuparlo. Camminò lentamente e rabbuiato anche all’inizio di quella bella giornata tersa di sole. Ultimamente il clima era stato grigio, fosco, cupo, invernale. Dicembre avanzava, passava la metà del mese e si avvicinava a Natale.

Arrivò al locale dell’appuntamento in perfetto orario – perché lui era puntuale, solo, Mircea lo ritardava sempre. Entrò nell’elegante pasticceria. Ottavia era già seduta al suo solito tavolino vicino alla finestra illuminata, tra Die e Nikita. Il granito nero del tavolo e il tessuto scuro dei divanetti contrastavano nella loro eleganza con il chiarore proveniente dall’esterno. A Mircea quel posto non piaceva – “troppo formale, troppo scolorito.” Aveva detto una volta. Ma era perfetto per lui, o, almeno, per quella parte di lui precisa, ordinata, pulita, nitida.

Die e Nikita non erano veramente suoi fratelli, erano figli di primo letto di suo padre, quindi, rispetto a lui ed Ottavia, erano soltanto fratellastri. Dopo il divorzio dei suoi genitori si erano trasferiti col papà e con la sua piccola sorellina. Non avevano una grande differenza d’età, ma non avevano nemmeno lo stesso sangue. Questo distacco e questa lontananza forzata, avevano scalfito ed parzialmente inaridito i loro rapporti. C’era stato un tempo in cui, presumibilmente, li aveva amati molto. Quell’affetto si era conservato intatto soltanto verso Ottavia.

Die e Nikita erano tutto quello che si può considerare Perfezione. Die stava per Diego, ma lui odiava il suo nome. Ventitré anni e una prossima laurea in ingegneria genetica, intelligentissimo, bellissimo, simpaticissimo, gentilissimo, perfettissimo. Lavorava come modello per non pesare troppo sulle spalle di papà, che doveva già sostenere parecchie spese. Ora la sua faccia stava sul retro di tutti i giornali vagamente glamour. Alto, fisico scolpito, i suoi stessi lineamenti molto femminili, due labbra splendide, grandi occhi blu, capelli scurissimi lunghi fino alle spalle. La sua aura di perfezione luccicava fino a chilometri di distanza. Peccato che l’unica cosa che avrebbe voluto fare nella sua vita era suonare progressiv metal.

Nikita stava per Nicola, e nessun aveva idea di come si fosse potuto trasformare in quel modo. Secondo Ottavia, Nikita aveva una punta di fascino in più e un punta di intelligenza in meno rispetto a Die, ma rimaneva comunque eccezionale. Studiava medicina ed era in pari con gli esami, si sarebbe laureato entro due anni. Anche lui lavorava come modello, era appena ritornato da New York. E anche lui, ovviamente, era tutta quella serie di perfezioni encomiabili. Nikita era un po’ più alto di Die, un po’ meno alto di Lelio e aveva la loro stessa faccia splendida. Occhi azzurri, capelli lunghi fino a metà schiena e liscissimi, ultimamente tinti di blu, che era il suo colore preferito. La frangia perfetta completava la cornice del suo viso meraviglioso e sensuale. Al contrario di Die, che vestiva molto simile a Lelio, era esasperato dalla moda e dalle firme. Non usciva di casa se non era assolutamente in ordine e perfetto, ma soprattutto se non aveva i suoi occhiali da sole, di cui aveva una collezione vastissima e milionaria. Nikita sembrava all’apparenza inscalfibile nella sua totale superiorità rispetto ai comuni mortali, ma, come Die sapeva, i figli non sono mai perfetti.

“Sono arrivato.” Lelio li salutò sedendosi al tavolo.

“Ciao!” Ottavia saltò sul divanetto. “Stavo loro dicendo che quella cosa.”

“Cosa?”

“Sì, che ti avevo detto quella cosa. O avevo detto a Cea di dirti quella cosa. O cosa?” Guardò il vuoto inclinando la testolina.

“Cosa?” Ripeté Lelio. Nikita rise.

“Cioè, volevo dire che per Natale papà mi ha chiesto di andare con lui a Parigi. Deve presenziare a qualche riunione non-so-cosa il ventitré, e allora coglie l’occasione per un bel week-end. Te l’avrei detto se non fossi stato impegnato a sfuggirmi.”

“Non sfuggivo a te, sfuggivo al Cervo. È diverso. Tu non sbatti le ciglia con quella potenza impressionante.”

“Non ti farai scoraggiare da un battito di ciglia, vero?”

“E’ mortale! Tu non ti rendi conto del pericolo, quella può ipnotizzare.”

“Oh, la dovreste conoscere!” Ottavia si rivolse ai due fratellastri. “Si chiama Giulia, ma noi la chiamiamo Piccolo Cervo perché ha le ciglia come Bambi e continua a sbatterle pensando di essere seducente.”

“E’ carina…” Disse Lelio timidamente.

Ottavia lo fulminò.

“Solo perché non hai le sue ciglia non significa che sia sbagliato sbatterle in continuazione.”

“Sai, Lelio, credo che le dirò che trovi le sue lunghe ciglia flessuose molto attraenti.”

Lelio sbuffò. Andò al banco per ordinare qualcosa di dolce e guardò di lontano il modo affettuoso in cui Ottavia chiacchierava con Nikita di qualche trucco miracoloso per esaltare le ciglia – perché stava facendo le imitazioni del Cervo. Die era soprappensiero.

“Divertente?”

“Le mie imitazioni sono uno spasso.”

“Hai davvero intenzione di lasciarmi solo per Natale?”

“Oh, no!” Rispose lei. “Tu stai con Mircea. Lo sai, prima o poi papà lo chiederà anche a te, ma tu rifiuterai come al solito, perché non passeresti mai Natale lontano dal tuo amore.” Sbatté un po’ le ciglia.

“Chi? Chi è il tuo amore?” Chiese Nikita.

“Nikita! Ma è Mircea!”

“Ah! Il nostro fratellino si è innamorato.” Disse Die.

“Bella cosa,” Aggiunse Nikita. “Si vede che sei più bello.”

“Io l’ho sempre detto…” Puntualizzò Ottavia.

“Già, era evidente.” Riprese Die.

“E poi l’amore è meraviglioso e la vita è meravigliosa e tutto canta.” Nikita si portò una mano sulla fronte con aria teatrale.

“Sì, Giulietta!” Die rideva di nuovo.

“Cea è una persona di cui ognuno si potrebbe innamorare.” Terminò Ottavia.

Lelio li guardava sconvolto con la bocca aperta. Riuscì solo a dire – “Cosa?”

Definitivamente sentiva il rumore dell’Equilibrio Cosmico che si squarciava sopra la sua testa. Si limitò a guardare il suo caffè con insistenza.

 

___

Die e Nikita avranno un ruolo importante tra qualche capitolo. Die soprattutto. Io lo amo. Ma questo non vi interessa, no? Commentate ^_^

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 05. ***


Sabato sedici Dicembre

Sabato sedici Dicembre,

 

Una retrospezione dalla parte di Mircea – un sogno assurdo in costume vittoriano; un’ubriacatura magistrale e prevedibili effetti collaterali del mischiare la birra con molto altro.

 

I.

Ricordo di aver guardato i riflessi colorati dei bicchieri per molto tempo. O forse erano solo minuti. O forse me lo sono solo immaginato, perché dovevo essere proprio ubriaco. Mi ricordo questo: era sabato sera, faceva freddo, fuori le strade erano ghiacciate e Lelio era di cattivissimo umore perché doveva guidare e non poteva bere, così io avevo consumato anche la sua parte di alcol, perché, gli avevo detto, non si spreca nulla. Avevo mischiato un po’ di cose, avevo fumato un paio di volte, e questo era bastato a distruggermi entro le tre e mezza del mattino.

Marino era accanto a me, nelle mie stesse condizioni. Parlava di cose che non capivo e che mi scivolavano addosso senza che me ne rendessi conto. Dovevo partire dall’inizio? La mia percezione temporale era totalmente distorta. In effetti non sapevo più dove trovare l’inizio, o la fine. Vedevo i bicchierini e le bottiglie scintillare davanti ai miei occhi di verde scuro e giallo e rosso e blu e di tutte le luci che di tanto in tanto fendevano il buio dell’ambiente. La musica mi assordava e mi stordiva ancora di più. Pensai che quei riflessi fossero particolari e quasi belli, ipnotizzanti. Mi catturavano gli occhi, brillavano e mi incantavano.

“Dov’è Lelio?” Chiesi a Marino.

“Non lo so,” Rispose. “Se n’era andato con quella ragazza, quella là mora.”

“Mm? Quella che sbatteva le ciglia con frequenza?”

“Sì”

Ottavia arrivò e si sedette al tavolo ridendo. Mi guardò coi suoi occhioni castani e cominciò a prendermi in giro per la mia situazione tragica. Io ero ancora riverso sul tavolo, distrutto. “Cosa c’è, stella?” Mi chiese.

“Mi gira la testa…”

“Oh!” Si spostò accanto a me e mi scostò i capelli dal viso. “Sembri triste. Di solito sei allegro da sobrio ed euforico da ubriaco. È successo qualcosa?”

Non so perché nella mia mente le emozioni si facevano sempre così intense quando ero fuori della mia persona. Sentivo una certa voglia di piangere e un senso di sconforto nel petto. Dovevo avere gli occhi lucidi. “Lelio mi ha abbandonato nel momento del bisogno!”

“Oh, no –“

“Se ne è andato via col Cervo a fare cose che non voglio conoscere e mi ha lasciato qui da solo col tuo amico chiacchierone.”

Lei si voltò verso Marino, che scoppiò a ridere e, intravedendo di lontano qualche conoscenza, si alzò barcollando e se ne andò. “Non dire così, Cea, gli ho detto di venire perché eri riverso sul tavolo e lui stava per cadere a terra. Marino è molto simpatico. Ha lavorato con Die un sacco di volte e suona la batteria davvero splendidamente. È molto simile a te nell’atteggiamento. Peccato che foste entrambi un po’, come dire, alticci – avreste fatto amicizia.”

“Sì?”

“Ma si. Mi sembri un po’ svampito. Non piangere per quel cretino di mio fratello. Ora torna.”

“Sicura? Se ne è andato col Cervo.”

Ottavia fece una smorfia spaventosa e mormorò qualcosa che suonava molto come I’m gonna kill him and I’m gonna squeeze him like an orange and I’m gonna chop him in pieces so small and I’m gonna make a lemonade of his blood –

“L’ho già detto che è un cretino?”

“Sì, Ottavia.”

“Poi lo sai che ti ama. E che tu lo ami e che vivrete felici e contenti tutta la vita eccetera, io l’ho sempre sostenuto.”

“Ma io non voglio che stia col Piccolo Cervo. Cos’ha il Piccolo Cervo che io non ho? Le ciglia? Posso sbatterle anch’io, guarda –“

“No-no, Cea, non è il caso. Stai male. Appoggia la tua testolina leggera sul tavolo e fatti passare un po’ la sbornia.”

“Ottavia, dov’è Lelio? Vai a cercare Lelio? Per favore.”

Ottavia mi guardò con uno sguardo che voleva rimproverare, ma che era molto dolce. “D’accordo,” Disse. “Ma tu non muoverti da qui, eh. Ti mando Marino?”

“No, no.” La sentii vagamente ripetere:

O toi dont je reste interdit,

j’ai donc le mot de ton abîme. ”

Ottavia conosceva a memoria un numero impressionante di poesie.

Mi sdraiai sul divanetto coperto da uno strano senso di malessere esteso a tutto il corpo, e mi addormentai.

 

II.

Il cielo era pesante e scuro, il bosco che stavo attraversando pareva incantato da qualche strano sortilegio contorto che rattristava gli alberi dai colori violenti ed acidi – viola, verde marcio, marrone scuro.

E io ero vestito con un abitino turchese, un grembiulino di pizzo, calzette di seta e scarpe di vernice. Cosa? Avevo anche un cerchietto tra i capelli.

“Questo non  è possibile.” Mormorai, continuando a seguire le tracce sul sentiero, mentre dietro di me le mie orme venivano inghiottite e cancellate dalle tenebre.

Le sottogonne di tulle erano fastidiose. “Non indosserò mica quelle mutandone enormi?” Mi domandai. Poi scossi la testa. Stavo decisamente impazzendo.

Ricordavo in qualche misura di essere precipitato per un buco stretto in un luogo che non era un luogo, ma un incubo delle meraviglie, e di essere passato per una porticina piccola con una chiave smisurata, di aver pianto fino a riempire un mare, e di essermi arenato su una spiaggia dove avevo corso la Caucus Race con un Dodo. E mi chiamavo Alice.

“Io non mi chiamo Alice!” Esclamai sconcertato in mezzo al nulla della foresta.

“Un nome, cos’è un nome? Alice, il tuo essere Alice non vincola la tua essenza di Mircea.”

“Lelio!” Era stato Lelio a parlare. Era sdraiato in una maniera intricata ed impossibile sul ramo di un albero, ed era completamente vestito in pelle nera. Rimasi un po’ perplesso.

“No, io sono lo Stregatto.”

“E’ tutto così misterioso,” Protestai sistemandomi la manica a sbuffo del mio vestitino. “Tu sei Lelio. Ne sono certo.”

“Ne sei certo? Puoi essere certo di dire di essere certo di qualcosa? E poi, lo sai, Alice, i nomi sono solo suoni senza senso. Quello che conta è la logica.”

“Ma io non sono Alice.”

Lo Stregatto soffiò.

Stregattino,” Cominciai timidamente. “Mi potresti dire verso che direzione incamminarmi per uscire da qui?

Questo dipende in buona misura da dove tu vorresti andare.” Replicò Lelio.

Non mi interessa molto dove –

Allora non importa la direzione.”

– finché andrò da qualche parte.” Terminai.

 “Oh, sicuramente lo farai, se camminerai abbastanza.

Alla fine domandai: “Che razza di gente vive qui?

In questa direzione,” Disse. “vive un Cappellaio: e in quella direzione vive un Leprotto Bisestile. Visitali entrambi se ti và. Sono matti.

Ma non voglio stare in mezzo ai matti!” Ripresi.

Ah, non puoi evitarlo. Siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matto.

E poi Lelio cominciò a scomparire. Dal fondo del bosco una voce mi chiamò. Era il Cappellaio Matto? Sembrava Marino vestito da Cappellaio Matto.

Mi svegliai improvvisamente in mezzo a una discoteca. E non avevo nessun vestitino di raso blu.

 

III.

Il freddo della notte invernale mi stava risvegliando dalla stanchezza, dallo stordimento, e dall’assurdità del mio sogno nel Paese delle Meraviglie. Ero uscito nonostante Ottavia mi avesse chiesto di rimanere fermo – non me lo ricordai prima di essere fuori, comunque.

Il cielo notturno era limpido e puntellato di stelle luminose, la luna abbagliava di certi chiarori soprannaturali. Se ci fosse stato Lelio, pensai, si sarebbe sicuramente perso ad ammirare il cielo, perché lui può passare ore a fissare certi dettagli, incantandosi nella contemplazione e viaggiando nel suo intricato mondo interiore di riflessioni.

A volte pensavo di non riuscire a capirlo.

Il locale era situato sopra un piano rialzato da molte scale, centinaia di scale, che col freddo e con la neve erano coperte di ghiaccio scivoloso. Non era una bella cosa alle quattro del mattino, quando l’equilibrio è già compromesso da altri fattori. Scesi qualche rampa e mi fermai dietro ad una siepe, in un angolino nascosto. Allora sospirai. Quel gelo mi permetteva di tornare cosciente di me e consapevole delle mie azioni, anche se mi sentivo ancora immerso in quel mondo metafisico di Alice. Ancora volevo vedere Lelio.

 

___

 

Perdonate l'idiozia di questo capitolo. Sì, Mircea è nel Paese delle Meraviglie, io amo Carroll. Lo amo appassionatamente. Mi fa ridere e inquietare nello stesso istante, il che è parecchio strano. Le parti in corsivo sono prese pari pari dal libro, il resto è la mia rivisitazione sul tema. E quella cosa sul ti schiaccio ti trituro e farò una limonata col tuo sangue non viene dalla mia mente malata e sadica e macabra eccetera eccetera eccetera, ma era la frase del mio (sigh) ex prof di inglese, Mr. Rota, che noi amorevolmente chiamavamo Dio per la sua aura di santità e onnipotenza (essendo vicepreside, sapete...).  Mi mancherà, Oh, Rota. La vita senza Rota è come una banana senza buccia. Su commentate... By ^_^

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 06. ***


06

Susy lo faccio per te. Lo giuro. Ogni tanto mi ci vogliono anche delle soddisfazioni, e sono contenta e posterò il nuovo capitolo e ho un sacco di cose da dire ma lo farò alla fine perché - prima la storia.

 

Domenica diciassette Dicembre,

 

Una svolta di primo mattino; un Momento Giusto; un Cervo sconvolto e la realizzazione del Piano Diabolico

 

I.

Lelio non riusciva a staccarsela di dosso, o a proteggersi dalle sferzate delle sue ciglia sbattenti. Era misterioso il modo in cui Giulia poteva attaccarsi a un ragazzo senza riuscire ad andarsene. Ed era pure misteriosa l’inimicizia che correva tra lei e Ottavia, o gli sguardi colmi d’odio femminile che si erano scambiate quando lei era venuta ad avvertirlo che Mircea si sarebbe suicidato per la sua defezione.

“Ma è colpa di questa qua!” Gli sussurrò all’orecchio.

“E allora torna.”

Naturalmente, anche il Cervo era tornato assieme a lui. Che poi Mircea non ci fosse e che sarebbero dovuti uscire per recuperarlo non era un motivo sufficiente per abbandonare la presa. Lelio sospirò infilandosi il cappotto e uscì sperando che cadesse dalle scale.

Invece non successe così. Trovarono Mircea rannicchiato in un gomito della scala ghiacciata, immerso in meditazioni sovrannaturali, che fumava una sigaretta.

“Ehi, Cea!”

Lui rialzò lo sguardo su quello di Lelio e sorrise, dicendo: “Per questa volta ti perdono.”

“Ti sono venuto a cercare.”

“E la Giulia?”

“Oh, ignorala.” Lelio scrollò le spalle sedendosi accanto lui.

“Cosa?” Giulia cercò di piegarsi per inserirsi nella loro conversazione bisbigliata. Mircea stava raccontando la sua allucinazione e lei capì solo vestitino azzurro con maniche a sbuffo.

Ormai era troppo tardi. Lelio e Mircea si guardavano negli occhi, sussurravano per capirsi solo tra di loro nel modo impenetrabile in cui i compagni di una vita si raccontano segreti.

Mircea gli chiedeva: “Perché te ne sei andato?”

"Mi ha trascinato via. Scusami. Non pensavo che ti dispiacesse così tanto.”

“Non farlo più quando sono così ubriaco ed emotivo.”

“Ora lo so. Sei ancora ubriaco?”

“Non abbastanza. Ma sono ancora emotivo.”

Lelio lo abbracciò. Gli sfiorò i capelli con una mano delicata, come avevano fatto tante volte. Ma capì subito che in quell’abbraccio c’era qualcosa di totalmente differente, e sconvolgente – non riusciva a slegare gli occhi dai suoi, si sentiva una strana, dolce sensazione crescere nel petto. Mircea arrossiva e continuava a sfiorarlo con lo sguardo chiaro. Finché qualcosa si mosse. Qualcuno, forse. Magari tutti e due, insieme, perché dovevano aver capito che quello era il loro momento.

“Che sensazione particolare,” Si diceva. “Non starò sognando di nuovo?” Lelio credette di impazzire. Pensava, fino a un momento prima, che non sarebbe mai riuscito a fare quello che stava facendo, mentre invece era stato così semplice, così perfettamente naturale, che non se ne vergognava nemmeno. Era bastato inclinare la testa, sfiorargli le labbra con le sue, lentamente, gentilmente, con tenerezza, come voleva Cea, far scivolare il braccio meglio dietro la sua schiena di modo che lui potesse salire sulle sue ginocchia, e poi rimanere così, sospeso, tra una carezza e l’altra, tra un calore e l’altro, tra un mormorio e l’altro, mentre il mondo, fuori dalla loro piccola intimità, perdeva ogni importanza, ogni definizione, ogni sussistenza.

 

II.

Quella mattina un Piccolo Cervo troppo sconvolto per sbattere le ciglia mostrava la sua tessera all’entrata del locale precipitandovisi dentro con furia. Cercò i soliti tavolini e vide Ottavia di lontano, sul divanetto blu. Era arrivato anche Nikita. Si avvicinò collerica. Non disse niente. Si voltò e se ne andò. Davvero.

Ottavia ridacchiò. “Il piano funziona!”

“Quale piano?”

Ottavia guardò Nikita. Nikita guardò Ottavia.

“Piano? Ho detto piano? Non intendevo piano, ma –“

Ottavia –“ Nikita pronunciò il suo nome con un accento marcato. “Non avrai istigato di nuovo Mircea a buttarsi tra le braccia di Lelio?”

“Chi, io?” Lo fissò teneramente. “Perché dici così? Ho fatto molto di più.”

Prese Nikita per il polsino della camicia e lo trascinò fuori a spiare gli esiti del piano.

 

III.

Ora veniva il momento dell’imbarazzo. Lelio evitava di guardare Cea, e Cea evitava di guardare Lelio.

“Sono ancora seduto sulle tue ginocchia.” Disse timidamente Mircea tentando di divincolarsi.

“Non fa nulla.”

“No?”

“No.”

Mircea lo abbracciò un po’ stordito, appoggiando la testa sulla sua spalla.

Lelio sospirò. Non si era mai sentito così confuso in tutta la sua vita, così insicuro, così indeciso sul cosa fare. Sapeva solo che per un momento il suo strano e profondo vuoto era stato riempito da una grande soddisfazione, e che quella soddisfazione era seduta a cavalcioni si di lui, aveva i capelli biondi e, presumibilmente, si stava domandando che cosa sarebbe successo. Poi il bacio era finito, l’apnea era finita, ed avevano sentito come il rumore di uno schianto, di qualcosa che si infrangeva contro quelle scale ghiacciate.

“Stai bene?” Gli chiese.

“Così-così. Mi gira un po’ la testa.”

“Sei ubriaco. Questo è sbagliato.”

“Non sono abbastanza ubriaco da dimenticarmi domani mattina cosa è successo.”

“Cosa è successo Cea?”

Mircea sembrò soppesare nella sua testa questo pensiero, senza sapere da che parte cominciare a districarlo. Era un’idea lineare che per lui assumeva una forma contorta, e diventava indecifrabile.

“Io – credo di aver pensato che fosse arrivato il nostro momento. Non lo so se –“

“Magari avevi ragione.”

A questo, proprio, Mircea non sapeva rispondere. Non aveva nemmeno ragione di cosa contenesse un ‘Nostro Momento’, se fosse importante come un momento di inizio verso qualcosa di diverso, o se fosse solo un momento bloccato, cristallizzato, isolato dagli altri momenti, e dovesse rimanere circoscritto ad un particolare segmento temporale irripetibile. Per questo ancora non capiva se avesse avuto ragione o no. Era un senso di smarrimento totale. Pensava fosse molto più facile, da una parte, anche se non se lo sarebbe mai aspettato. In quell’istante, seduto in quella posizione, avrebbe benissimo potuto dire – è solo un bacio e non significa nulla; eppure dentro di sé, in una parte segreta della sua coscienza, aveva perfettamente afferrato che quel Suo Momento aveva una valenza spropositata e cambiava molte cose. Se fosse stato in vena di scherzi avrebbe detto qualcosa circa la rottura dell’Equilibrio Cosmico, ma allora non se la sentiva decisamente.

Lelio lo scosse dolcemente. “Vuoi andare a casa?”

Lui annuì.

 

IV.

Condividere il letto non era mai stato drastico come quella maledetta mattina. Lelio si era spostato verso la parete e Mircea era sdraiato quasi sull’orlo del materasso. Si sforzavano entrambi a stare il più distante possibile l’uno dall’altro, pensando razionalmente che fosse meglio così e credendo inconsciamente di comportarsi in maniera davvero stupida.

Alle sei del mattino Lelio aprì gli occhi e si sporse verso Mircea, quasi fino a sfiorarlo.

“Ah!” Mircea alzò di scatto la testa.

“Sei sveglio?”

“Non riesco a dormire.”

“Neanch’io.” Lelio ci pensò un secondo. “Vuoi che vada in camera mia?”

“No! No, scusami, sono stupido. E poi perché tu stai dalla mia parte del letto?”

Lo scavalcò un po’ assonnato mentre Lelio si spostava verso il margine. “Scusa,” Gli disse, e si coricò contro il suo petto. “Non c’è bisogno di prendere le distanze.”

Le abitudini sono qualcosa che è impossibile spezzare senza conseguenze. Si radicano nella personalità di una persona fino a condizionare molte propensioni. Dopo dieci anni, Mircea si poteva addormentare solo se si sdraiava in un certo modo, da una certa parte del letto, sfiorato da una certa persona. E fu così anche quella mattina.

 

___

Ok, non so come tu faccia sempre a scrivere delle recensioni del genere, Susy, ma è bello sapere che c'è qualcuno che sviscera i tuoi personaggi in questa maniera così... fine. E hai ragione, Lelio e Cea sono simili a Giulio ed Henka, fondamentalmente perché sono partiti dallo stesso modello (e ora rivelerò un segreto, ma mi sembra che questo sito, non solo le mie fic, sia pieno di personaggi Anne Rice variazione sul tema, ma magari mi sbaglio...). In un certo senso sono anche diversi, perché sono trasformati in una sorta di estremizzazione. Sono diventati *ho rovesciato il caffé è____é* sono diventati caratteri quasi puri, bianco e nero, nessuna sfumatura, e questo era necessario. La costruzione della storia non è casuale - fin dal titolo -. Ogni tanto mi dico, sono troppo surreali. Ma andavano fatti così, perché la storia ha questo significato (che è venuto fuori da sé). Gli altri due protagonisti sono più passionali e meno aulici, diciamo così...

Ah, e poi - graziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie(...)grazie. mille. E farei volentieri un sacco di cose per te tra cui commentare Tale of my algid love ma sono pigra e questo è il periodo più incasinato di diciott'anni di vita e c'è mancato tanto così che lasciassi perdere troppe cose. Non avrei nemmeno aggiornato prima di boh... un mese? Grazie. Tu studi lettere, vero? Anch'io volevo iscrivermi a lettere. Sto straparlando, non darmi retta. Comunque per leggere leggo, lo giuro. E Nicholas mi fa pensare. Molko più di quanto dovrebbe far pensare un character. Oh, grazie.

Alla prossima, su richiesta (scherzo ^_^)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 07. ***


Lunedì diciotto Dicembre

Lunedì diciotto Dicembre,

 

Un Lunedì mattina travagliato; una lezione di francese con M.me Marisa; una desolazione segreta e qualcosa-di-molto-importante taciuto

 

I.

Il Lunedì mattina è sempre il momento più difficile. Presuppone una forza emotiva ed una volontà impressionanti. Di Lunedì mattina Lelio impiegava più sforzi degli altri giorni per svegliare Mircea, doveva preparare il doppio del caffè e doveva aspettare più tempo perché fosse pronto. Anche se il Lunedì aveva una sua dolcezza particolare. Cea si addormentava sempre sulla sua spalla, in metropolitana, e poi arrivava a scuola ancora assopito.

La prima lezione del Lunedì era per lui un abisso denso ed imperscrutabile, qualche complesso dogmatico che si perdeva tra le nebbie dell’incoscienza e si ritrovava soltanto negli appunti di Lelio. Si limitava ad appoggiare la testa sul banco e a dormire, oppure a riposarsi chiudendo gli occhi, dimenticandosi la geografia economica e tutti i problemi dell’umanità che disquisiti alle otto del primo giorno della settimana erano parecchio sconfortanti persino per uno come lui.

La sveglia suonava solo alle dieci. L’ora di francese non era un’ora come tutte le altre – era un’ora divertente. Raramente facevano lezione. Di solito trovavano di meglio. La professoressa di francese si chiamava Marisa ed era pazza nel senso più stretto della parola. Entrava salutando in spagnolo –anche se non conosceva lo spagnolo-, poi cantava la Marsigliese, poi faceva l’appello con l’accento parigino ed infine imitava il professore di filosofia che parlava per suoni nasali e assurdi gargarismi. Una volta Ottavia li aveva chiamati davanti alla Marisa ‘Narciso e Boccadoro’. Da quel giorno, nelle ore di francese, Lelio era Narciso e Mircea era Boccadoro. In particolare, l’ora di francese del Lunedì combaciava con l’ora di informatica per Ottavia, e Ottavia, perfettamente letterata e perfettamente umanista, non seguiva mai le ore di  informatica, così era sempre nella classe di suo fratello.

Quel Lunedì di due giorni dopo l’Atto Sconfessato, non faceva eccezione. Lelio non aveva solo paura, era in preda al panico più disperato, pensando a cosa sua sorella e la Marisa potessero cavare fuori dalla precaria situazione. Quando sentì bussare delicatamente alla porta e vide la testolina di Ottavia infilarsi sorridente dallo stipite, chiedendo – “Puis-je Marisà?”, desiderò ardentemente di essere inghiottito dal disordine in espansione sul banco di Mircea.

Mais oui, Ottavià!”

E Ottavià entrò.

“Hai qualche idea?” Lelio sgomitò a Mircea. Mircea sgranò gli occhi davanti alla scena.

“Prof, abbiamo notizie! Di un mariage! Dans la classe.”  

“Cosa?” La Marisa si alzò in piedi facendo oscillare i suoi preziosi monili etnici e la sua lunga gonna di velluto bordeaux.

Lelio si abbassò velocemente sotto il banco.

“Chi si sposa?”

“Ma Boccadoro! Con –“

Mircea si alzò e guardò la Marisa con occhioni dolci. “Prof,” Disse. “Ho sempre desiderato confessarle il mio amore, mon amour, ma sono sempre stato schiavo dei pregiudizi più squallidi!” Si slanciò verso di lei, raggiungendola e prendendole la mano tra le sue con fare melodrammatico. “Lei lo sa, ma chère, che l’ho sempre adorata nella sua bellezza, ma, vede, l’età che ci separa e le istituzioni che ci dividono non sono indifferenti. Ora non posso più nasconderlo, mon coeur! Io la amo!” Si inginocchio, sospirando. “Marisa – mi vuole sposare?”

En français, s’il te plait !”

Voulez-vou m’-

“Con chi ti sposi Boccadoro? Che segreto stai coprendo?”

“Non confida nel mio vrai amour, prof? Potrei renderla felice, se me lo concedesse. Mi dia un bacio!”

“E’ mio fratello.” Intervenne Ottavia.

Lelio ebbe un fremito omicida da sotto il suo banco.

“Narciso e Boccadoro, sì,” Ammise la Marisa. “Lo sapevamo già tutti. Dov’è Narciso?”

Lelio si rialzò timidamente.

“Congratulazioni, sciocchini. C’est magnifique! Vive la France, la grande et noble France!

“Ma io-“

“Quindi, Marisa, sta rifiutando il mio giovane amore appassionato? Il mio ardore, il fiore dei miei anni, la mia –“ Chiese Mircea.

“Oh, caro, il tuo cuore appartiene già ad un uomo che ti renderà felice!”

“Marisa, mi sta prendendo in giro?”

“Chi, moi? Ora vi faccio vedere come muore Gavroche.”

 

II.

“La morte di Gavroche aveva lasciato un vuoto incolmabile nella mia vita. Era la morte della libertà, come la morte di Enjolras era la morte della speranza e della giustizia. Ho pianto per Enjolras. Lui e i suoi amici rappresentavano la passione estrema di un’epoca turbolenta, il progresso e le conquiste sociali, la ricerca di un mondo migliore, loro erano il sacrificio disinteressato, il patriottismo, l’amore radicale, l’ideale –“

“Puoi smetterla di cambiare discorso?”

“Lelio, sei arrabbiato con me?”

Lelio la squadrò con una cattiveria impensabile nello sguardo che diceva: cosa te lo farà pensare?

“Guarda che non l’ho baciato io. Non puoi pensare che la colpa sia –“

“Ma tu non stai mai zitta?”

“Ora,” Si fermò lei in mezzo al corridoio, socchiudendo gli occhi come quando pensava ai suoi Piani Diabolici, “Stai esagerando. Lo sai cosa penso? Che tu sia frustrato. E sai anche perché? Perché finalmente avevi trovato il coraggio di dichiarare il tuo amore sacro, perpetuo e profondissimo a Mircea, ma sei stato abbastanza stupido da sprecare la tua possibilità. E un po’ perché ti da fastidio il modo in cui lui glissa l’argomento, cosa che non dovrebbe sussistere, dato che sei stato tu il primo a cercare di cancellare il fatto.”

“Scusa?”

“Evidentemente sono l’unica che ha conservato un po’ di oggettività.”

“Tu – tu non hai mai avuto una briciola di oggettività. Tu vai avanti con questa storia del mio amore sacro, perpetuo e profondissimo da anni, e non riesci a metterti il cuore in pace – tu stai cercando di fare di me quello che non puoi essere, cioè la ragazza di Mircea!”

“Non dirlo neanche per scherzo.” Ottavia si rabbuiò, e per un attimo sembrò soppesare attentamente le sue parole. Fece un gesto con la mano per invitarlo a proseguire. “Allora spiegami perché seppellire tutto sotto una pesante coltre di imbarazzo.”

“Non ho seppellito tutto – è lui che non vuole.”

Ottavia si fermò per la seconda volta in mezzo al corridoio, il braccio che reggeva il caffè sospeso a mezz’aria vicino alla bocca.

“Allora siete due cretini! Ti sembra normale?”

“Mi sembra più normale che baciare Mircea.”

“Qual è il tuo problema? Che è un ragazzo? o che –“

“E’ Mircea! Non – non posso neanche pensarci, è quasi un incesto nella mia mente.”

Ottavia sbuffò, soffiando nel bicchierino del caffè. “Senti, non importa. Mi licenzio. È una cosa che non riuscirete mai a risolvere, se la prendete così. Ascolta un’ultima cosa però. Prova ad immaginarti un’altra persona accanto a te che progressivamente ti conquisti e ti monopolizzi, momento dopo momento, allontanandoti da lui. E prova a pensare lo stesso per Cea. E ora convincimi che non ti potrebbe dispiacere.”

Anche Lelio si fermò per un istante. Improvvisamente sentiva di nuovo quel panico, e stavolta se lo spiegava.

 

III.

Sua sorella aveva ragione, forse solo in una piccola parte. In quel momento di fragilità emotiva e di sospensione, accompagnato dalle desolazioni del silenzio, Lelio si accorgeva di essersi addentrato per un cammino incredibilmente irto e difficile, e di essere giunto a camminare sulla scintillante lama del rasoio. Una sfera perfetta che collideva col suo destino.

Sorrise a se stesso. Forse il senso di quel malessere era uno completamente diverso da ciò che aveva scorto Ottavia nella sua sensibilità, e da ciò che lui aveva creduto di intuire. Forse non era davvero la mancanza di qualcosa, uno stordimento confuso, un vortice che risucchiava dentro di sé il senso di nullità e di negatività. Non c’era niente. Non c’era, necessariamente, nemmeno l’abisso.

L’abisso, pensava Lelio, era qualcosa di spaventoso che l’aveva sempre soggiogato nella sua idea di buio, di infinito dilatarsi della solitudine, di espansione del male, del freddo, della morte. In quel momento non riusciva più a vederlo sotto questa prospettiva – la prospettiva di uno che lo guarda dall’alto, appeso alla superficie del mondo. Lui non era più appeso sulla superficie del mondo. Non si rendeva neanche conto di come avesse potuto non accorgersi di scivolare lentamente dall’orlo del baratro, e precipitare. Ma vi era entrato, e ne era stato inglobato.

Sua sorella gli aveva mostrato uno spiraglio di luce – gli aveva detto: stai in guardia, sei fragile. Se non ti sforzerai, finirai per perdere tutto l’affetto che ti rimane. E lui aveva sofferto, perché, in fondo lo sapeva, aveva combattuto ogni giorno per quella scintilla di felicità che chiamava Mircea. Ma ora se la vedeva sfuggire tra le dita, ed era lui stesso ad allontanarsene.

Non era Lelio che perdeva Mircea. Era Lelio che non voleva Mircea, era Lelio che non voleva nessuno, perché non aveva bisogno di nessuno. Questa solitudine gli pareva molto triste.

Lelio era uscito quel pomeriggio già così buio, così addormentato sotto la volta scura e nebbiosa di un cielo coperto di notte prematura, ed aveva trovato un deserto esteriore riflesso nel suo deserto interiore. Si riconosceva in quel silenzio metafisico che sussurrava mille parole svincolate dal suono, eppure così pregne di significato. I suoi pensieri si modellavano con la stessa essenza intelligibile. Ad un tratto, aveva creduto di scorgere questo senso, di afferrare questa idea – il silenzio puro, sacro, cristallino. Stava bene nel silenzio, da solo, tra il nulla e le desolazioni incantevoli. Si sentiva sicuramente meglio nel suo mondo quieto, muto, isolato, languente, che tra gli affanni e le ricerche smodate della gente insensibile, incapace di comprendere la purezza di molte cose e la bellezza insita nei dettagli più piccoli del creato. Forse voleva davvero stare da solo. Forse stava inconsciamente scappando da un legame più vincolante, più intimo. Forse anche Mircea apparteneva al Mondo di Fuori, e non alla sua piccola realtà fatta di invisibile ed inconoscibile. Forse una persona radiosa e solare come lui doveva trovare calore, non desolazioni. Per questo, si disse amaramente, Mircea avrebbe presto o tardi riconosciuto qualcuno di affine a lui, e non lontano a distanze siderali, e freddo.

Lelio non si sentiva fatto per vivere tra le strade del mondo. Così decise, mentre battevano le sei di sera, mentre il vento gelido si rafforzava tagliando la sua faccia con mille cristalli di ghiaccio, mentre qualcuno si avvicinava alla sua panchina e si sedeva delicatamente accanto a lui, senza mormorare una parola.

 

___

Oggi accendo la tv per sbaglio e vedo quel gran gnocco di Valo che parla con Cattelan. Mah, come va il mondo... Poi Cattelan lo vedo ad Alessandria è____é. Se sapevo che a TRL andava Valo lo fermavo al pub e lo imploravo di invitarmi! Tanto ne incrocerà di pazzi per strada, no? Torniamo alle cose serie (sono sbalordita di quanto ultimamente la mia natura fangirl stia surclassando il mio fantastico prog, ma vabbé...). Devo anche andare dal dottore, povera me.

La Marisa, proprio come il Cervo, non è inventata neanche un po'. Era la mia prof di francese e adorava la morte di Gavroche (adorava tutte le scene di morte, veramente,) - Les Misèrables. A perfect sphere colliding with our fate - 

beh, indovinate di chi è la canzone. Sono così prevedibile.

 

Ringraziamenti!

Diana V - Grazie tantissimo! Sono contenta che la mia storia faccia passare le ore a qualcuno. La noia è una brutta cosa... Per il resto spero che continuerai a leggere & commentare & a farti piacere la storia, anche perché il finale tra Cea e Lelio è piuttosto scontato. Ma stiamo per incontrare delle new entries...

Susy - Beh, io non ho più parole, a parte awwwwwwwwwwwww, che non è proprio una parola ma rende più o meno l'idea. Grazie millissime per il commento, non so cosa dire... tutto azzeccato... ah, sì, una cosa - tu adori questi personaggi insopportabili come il Cervo. Io l'ho sopportata. Con quelle ciglia che danzavano alla minima opportunità. Ma è acqua passata perché è quasi Ottobre e oggi piove e domani comincerà per me una nuova vita e sono veramente contenta per tutto questo. Ora ho anche un po' di tempo in più per dedicarmi al sito. E per quanto riguarda Molko, è sempre nel ramo fan girl delle mie propensioni musicali, perché se non si fosse capito IO AMO I DREAM THEATER e tutto ciò che è vagamente progressiv dai King Crimson in poi, ma questo non centra una cippa lippa. Lo dico perché a volte mi vergogno. Un po' come per Bill Kaulitz o Valo o Jared Leto, insomma, anche se dei Placebo mi piacciono -davvero- una decina di canzoni. Ciò non toglie che nel mio vocabolario molto è diventato molko perché sono stupida. Continua a commentare, neh... e continua a scrivere Tale che sono così curiosa... Spero che la storia continui a prenderti. Non lo so, sono sempre così scettica sui miei lavori.  *Continua Taleeeeee of my Algid Loooooove*

 

Baci a tutti,

Martina

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 08. ***


Questo capitolo è dedicato a tutte le persone che pensano

Questo capitolo è dedicato a tutte le persone che pensano, pensano, pensano, e pensano così tanto che finiscono per perdere di vista il punto oggettivo del problema. A me capita spesso. Anche a Lelio. A volte basterebbe un po' più di echissenefrega. Ah, e poi alle mie due commentatrici, luv.

 

Lunedì diciotto Dicembre,

 

Una telefonata in mezzo alla notte; un Secondo Momento Giusto e molte diverse complicazioni

 

I.

Ottavia dormiva difficilmente col cellulare acceso. A volte se lo dimenticava sul comodino. Quella notte, venne svegliata dal rumore della suoneria alle tre e trentacinque.

“Pronto?” Assonnata e stordita com’era, non aveva neanche guardato il nome del Disturbatore Notturno.

“Otta!” Era Die. E Die non la chiamava Otta da quando aveva tredici anni.

“Sì, Disturbatore Notturno?”

“Credo di avere un problema, e sono in preda al panico, per cui niente feroce ironia e niente sarcasmo e  niente di niente dei tuoi commenti stupidi. Solo conforto, d’accordo?”

“Hai ammazzato qualcuno? E come fai a essere così sveglio alle tre e –“

“Ottavia, ti prego.”

“Sì?”

“Te lo ricordi Hansi? –“

 

II.

 

Mircea guardava fuori dalla finestra con una certa preoccupazione. Appoggiò la fronte contro il vetro freddo e non poté fare a meno di rabbrividire scrutando al di là delle tenebre, verso un punto imprecisato del parco. In quei momenti di quei giorni densi di freddo e di ghiaccio pensava molto più di quanto la sua imperturbabilità lo sospingesse a fare – e pensava a Lelio. In un certo senso era perfettamente conscio della delicatezza della sua situazione. Anche se non lo voleva ammettere. Anche se Lelio non lo voleva ammettere. Facevano finta di non vedere certi sguardi e di non sentire certi fremiti nell’imbarazzo di poche parole. Questo lo infastidiva incredibilmente, perché, pensava, era anche per metà colpa sua, e dentro di sé capiva benissimo lo sbaglio. Era semplicemente un comportamento stupido, e non aveva voglia, non aveva la minima intenzione di compromettere un rapporto così saldo ed importante per la pigrizia di poche semplici dichiarazioni. Aveva visto uscire Lelio da casa sua e scendere le scale verso il parco, nel freddo buio dei pomeriggi dicembrini, e gli si era stretto il cuore, quasi come se potesse intuire il filo dei suoi pensieri o la gravità delle constatazioni che passavano sulla sua testa. Nel momento in cui se ne era andato, Cea aveva potuto scorgere qualcosa spezzato irrimediabilmente. Era rimasto un’ora ad interrogarsi sull’assurdità della situazione, finché non aveva deciso di avere troppa paura per stare zitto e rischiare tutto. Allora si era alzato. Si era vestito ed era uscito guidato dal caso, dall’intuito, dalla sensibilità, aveva cercato Lelio fino a quando non l’aveva ritrovato seduto su una panchina, immerso in meditazioni imperscrutabili. Non avrebbe nemmeno voluto disturbarlo in quei momenti, così si sedette accanto a lui, silenziosamente, stringendosi nella sciarpa, aspettando che la concentrazione dipinta sul suo volto scivolasse via nell’oblio della notte. Sentiva il cuore battere fortemente per l’emozione. Guardando in alto vedeva il cielo buio e denso – non limpido come quella notte, ma scuro, coperto, nebbioso, indistinto. Forse stava per nevicare di nuovo.

Non sapeva quanto tempo era passato. Il vento gli sferzava il viso e gli attimi si congelavano nei suoi brividi di freddo, uno dopo l’altro. Sarebbe potuta essere trascorsa un’eternità, che Mircea, nell’apparenza dilatata della notte buia, indistinguibile, protratta, se ne sarebbe facilmente dimenticato.

Lelio si voltò nella sua direzione. Lelio trasfigurato da qualche nuova, appassionata scoperta, perché il suo volto riluceva della consapevolezza sofferta, notò Mircea, soffiandosi tra le mani per scaldarsele.

“Non puoi stare al freddo per così tanto tempo.” Gli disse.

“Neanche tu.”

“Oh, no, io sono fatto per il freddo.”

Mircea guardò verso il basso la neve che si era concretata in un blocco di ghiaccio scivoloso e uniforme. Luccicava vagamente illuminato da un lampione distante. Per il resto, tutto era oscuro e silenzioso.

“Lelio, io ho pensato e ho realizzato che dobbiamo parlare.”

“Dobbiamo parlare, è vero.”

“Io –“ Gli prese le mani tra le sue e Lelio scoprì che erano fredde, gelide. Mircea non aveva mai le mani fredde. Erano sempre soffici come quelle di una ragazza, e molto delicate.

“Non lo so perché ci comportiamo da stupidi. È una cosa che è successa e che in quel momento ci andava bene, perché era il Nostro Momento. Io non credo che tu voglia dimenticarlo, come non lo voglio io, solo, ci sono molti dubbi nella mia testa. Troppi dubbi. Per avere il coraggio anche solo di pensarlo ad alta voce.”

“E’ questo che vuoi chiarire? Devo dirti un’altra cosa –“

“Aspetta. Hai una faccia sconvolta. Tu sei distante, e io sono distante, e non va bene. Non mi interessa se per te quel momento deve rimanere un momento, e non proseguire in altri momenti così e sto dicendo una marea di parole senza senso, scusa.”

“Non ti devi scusare.”

“Sono - confuso.” Mircea lo guardò negli occhi. E Lelio pensò che con quello sguardo avrebbe potuto sciogliere tutto il ghiaccio e tutta la neve caduta sulla Città. Forse anche il suo impenetrabile Distacco.

A volte Lelio si fa prendere dal flusso di coscienza. E ragiona quasi per inerzia. Arriva così lontano che nemmeno si ricorda da che strada è passato. - Ho pensato davvero di lasciarlo? Sono un idiota. - Improvvisamente aveva dimenticato tutti i suoi proponimenti di solitudine, tutta la sua condizione desolata, tutto il suo piccolo mondo segreto e deserto; perché si rese conto che voleva solo baciarlo di nuovo. Una volta, due volte, dieci, cento, mille, fino a quando non l’avesse consumato. Mircea era troppo bello velato da quella sottile tristezza che non doveva possedere e che lui non doveva trasmettergli. Aveva freddo. Lo prese tra le braccia un’altra volta, gli sfiorò il collo con le labbra, lo baciò sulle guance screpolate dall'inverno. Non disse niente. Nessuno disse niente. Le parole, era probabile, avrebbero rovinato un istante così perfetto, un nuovo Momento Giusto, e questa volta definitivo. Mircea non sentiva neanche più il freddo, o l’agitazione. Il cuore batteva per altri motivi. Socchiuse gli occhi solo per essere sicuro di non avere un’altra allucinazione. Lelio gli soffiava sul collo, sotto la sciarpa, e lui rabbrividiva a quel tocco delicato. Sentiva le sue labbra posarglisi ovunque sul viso come per accarezzarlo, sulle guance, sull’arco del sopracciglio – gli diceva: non curarti più di niente. In effetti non aveva la forza di interessarsi al resto del mondo. Poteva concentrarsi su quelle splendide sensazioni inaspettate, su quel calore interno, su quello stordimento dolcissimo. Lo stava baciando di nuovo. Sentiva la sua lingua sfiorare quella di Lelio e scivolare su di essa in mille modi differenti. Quando aveva cominciato? Non se ne era nemmeno accorto. Non si era accorto dei movimenti delle sue mani, o delle sue labbra, non si era accorto di niente – solo del piacere. E allora gettò al vento tutte le indecisioni e le paure.

 

III.

Lelio si stava domandando perché si trovasse lì in quel momento. Non si era mai sentito più in colpa verso una persona in tutta la sua vita. Quella sera cenare da Mircea, con la madre di Mircea, era una cosa che lo faceva sentire male per molti motivi. Franca era brava e gentile esattamente come il suo bambino, sempre affettuosa e disponibile e piena di positività. Anche allora gli sorrideva domandandogli con la sua voce dolce e calma se volesse ancora tagliatelle.

“No, Franca, grazie.”

“Sicuro?” Franca lo guardò. “Stasera voi due avete qualcosa che non va.”

Mircea si nascondeva dietro ad un tovagliolo. Lelio avrebbe voluto scomparire. “Sai, la scuola… questo è un periodo pessimo.”

“Oh, capisco.” Si sedette di nuovo al tavolo.

Mircea prese in braccio Vittorio. “Mi vuoi bene?” Gli chiese.

“Sì!” Thor lo guardava coi suoi occhioni blu.

“Mi vorrai bene per sempre?”

“Sì!”

“Ricordatelo quando sarai grande.”

“Promesso.” Gli diede un bacino sulla guancia.

Lelio pensava di essere una persona orribile, di aver rovinato a Franca il suo figlio grande, e di non meritarsi di stare a tavola con lei e quelle due creature tutte bionde, allegre e deliziose. Prima si approfittava della sua disponibilità, mangiava le sue tagliatelle e poi circuiva suo figlio come ringraziamento. Anche Mircea sembrava scosso. Doveva esserlo per forza. Aveva lasciato entrare in casa sua e sedere alla sua tavola, davanti a sua madre, il ragazzo che l’aveva baciato. Non era giusto. Ma l’idea più pesante di tutte, era che Franca non sapeva nulla, e li trattava di conseguenza come persone normali. Almeno, così credeva Lelio. Perché si sentiva anormale.

– Chissà, se glielo dicesse mai, cosa succederebbe -, si chiese.        

 

IV.

Lelio chiuse il libro, troppo distratto per leggere. Si alzò e scostò le coperte dal letto. Mircea non si spostava. “Vuoi che dorma sul pavimento? O devo occupare la tua parte di letto?”

“Non ce n’è bisogno.”

Lelio alzò gli occhi verso il soffitto. Cercava di stemperare la tensione, ma in realtà avvertiva perfettamente quella costrizione sul fondo dello stomaco che cercava di mantenere nascosta e contenuta. Spostò di peso Mircea e si sdraiò accanto a lui.

“Perché hai aspettato così tanto per venire a dormire?”

“Avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere se fossimo stati abbastanza svegli. Ma ora temo che siamo comunque abbastanza svegli.”

“Già.” Mircea scivolò di nuovo accanto a lui. “Vuoi dormire?” Gli sussurrò nell’orecchio.

“Non lo so.”

Spense la luce. Ritornò al suo posto. Non parlò per dieci minuti, non si mosse nemmeno impercettibilmente. “Sei sveglio?” Chiese, alla fine, riaccendendo la lampada sul comodino.

“Certo.”

“Forse non vuoi dormire.”

“Una parte di me non lo vorrebbe davvero. È una parte molto convincente.”

“Capisco. Mi spaventa.”

“Io ti spavento?”

Mircea scosse la testa. “Non lo so, non ho bisogno di conferme da parte tua. O di tempo. Questa sicurezza mi rende paradossalmente indeciso.”

Lelio lo baciò sulla guancia. “Dai, allora dormiamo.”

Cea spense di nuovo la luce. Era inquieto. Anche se era ritornato alla sua parte di letto, e si era deciso a dormire, sentiva ancora quel senso incontenibile. – Stupido. – Si disse. – Respira. Chiudi gli occhi. Buonanotte. –

Cinque minuti dopo riaccendeva la luce.

“Cea –“ Mormorò Lelio da sotto il piumone.

“Scusa, non ce la faccio. Scusa. Ho capito. Lo voglio fare. Dovevi solo saperlo.”

“Ah.”

Mircea non si coricò per la terza volta. Rimase a cavalcioni su Lelio finché lui si mise a sedere e lo guardò negli occhi.

“Ma non lo so fare.”

Lelio rise. “Neanch’io.”

Scivolò sotto le coperte, e i vestiti scivolarono giù dalle coperte, sul pavimento così distante.

 

____

I LOVE YOU BAAAAAAAAAAAAAAABY(IES) - avete presente la versione di Can't take my eyes of you di Matthew Bellamy? Ok, questa è per voi, mie dolci commentatrici del cuore. Perché oggi sono al settimo cielo, alla 9th cloud! Perché da oggi - da ieri cioè, - io ho una macchina. Mia. Coi miei cd, i miei tappetini, il mio arbre magique e il sedile che non lo devo spostare ogni volta che guido su e giù per cinque minuti per arrivare alla frizione. Tutto questo è meraviglioso. Oh, il mio disordine. Lo amo. Tutti dovrebbero avere una piccola Kassandra, anche sè è una Ka di sette anni con 90000 km, e non fa più di 120 all'ora. Echissenefrega, come dicevo prima. E' mia.

Eh, beh, a parte questo, che dovevo dire a tutto il mondo e verso l'infinito & oltre (scusate, è l'entusiasmo del primo pieno pagato ancora da papà), veniamo alle cose importanti -

 

DianaV - Eccoti le new entries. Hansi e Die. Non leggerlo all'inglese che sembra muori, am racumandi. Di Die ne abbiamo già parlato, mentre Hansi... Hansi è un cretino. Hansi è il mio lato intellettualoide barra militante barra spirito libero portato all'eccesso, cioè: io sono così, vivo di arte e lasciatemi in pace, preferisco morire di fame. Più o meno la fine che mi aspetta. Hai presente il fidanzato di Rory, Logan? Fisicamente sono partita da lui. Non chiedermi perché. Logan è un figo e basta.

 

Susy - Beh, io non... non... non commenterò mai più un tuo capitolo. Non posso farlo. Ho un blocco psicologico. Tu sei bravissima e dici delle cose a cui nemmeno avevo pensato esplicitamente e - a te va bene anche se scrivessi solo WAAAAAAH TI ADORO!, no? In caso contrario non commenterò più Tale, quando posterai, perché mi vergogno troppo della mia incapacità recensitoria o come cavolo si dice. Non ho idea se Hansi e Die ti piaceranno come questi due sfigati qua sopra. Anche loro sono due estremi, seppur meno aulici, diciamo così. E per quanto riguarda Narziss und Goldmund, pure io sono rimasta al mio filmino mentale che prendeva una piega decisamente diversa dalla storia di Hesse. Ma l'hai detto tu (tanto per cambiare è___é), io sono Ottavia, tu sei Ottavia, siamo tutte Ottavia. Ottavia è la quintessenza della fangirl shonen-aista, quella che non può fare a meno di vedere un bel ragazzo e accoppiarlo con un'altro bel ragazzo e rivisitare tutte le varie storie di bei ragazzi in chiave yaoi. Funzioniamo così, noi. Ottavia, tieni alto l'onore delle fangirl.

 

NB- La Roadrunner Record, nuova casa discografica dei Dream Theater,  mi paga ingenti quote mensili per i messaggi subliminali su Portnoy & Co. La verità è che vi sto facendo il lavaggio del cervello. Dream Theaaaaaaateeeeeeeeer.   

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 09. ***


Ok

Ok, comincia ad esserci un po' di ritardo  è___é. Pardon. Ho così tante cose da fare che non riesco a trovare nemmeno il tempo per scrivere, e questo sta uccidendo la mia autostima. Dedicato a Manzelli, il superuomo. WE ALL LOVE MANZELLI.

 

Martedì diciannove Dicembre,

 

Un risveglio imbarazzante; un ascensore comprensivo; il Vettore-Mircea; un colloquio ambiguo e una stanza tutta per loro

 

I.

Lelio si svegliò per primo, come tutti i giorni. Si alzò dal letto ù e cercò si scivolare in bagno facendo il meno rumore possibile. Dopo la doccia, doveva svegliare Mircea. Era un compito difficile, perché Cea era refrattario alle mattine e si riaddormentava sempre almeno tre volte, prima di alzarsi. Rimase a spiarlo per qualche minuto, colpito ed illuminato dalla luce del sole che, riflessa dalle lenzuola bianche, lo avvolgeva di una certa parvenza eterea.

“Cea?” Lo sfiorò scostandogli i capelli dalla fronte.

“Mm…”

“Svegliati, sono le otto.”

“Sono solo le otto.”

“Vado a fare il caffè. Tu, intanto, alzati.”

Per la prima volta nella sua vita, Mirca si alzò subito. Aprì gli occhi sulla bella giornata di Dicembre e si ricordò improvvisamente del motivo per cui nemmeno l’essere più preciso della Terra –cioè Lelio- aveva sentito la sveglia. Si sdraiò sulla schiena e finse di ammirare il soffitto per un secondo. Decisamente sentiva una specie di ansia e un dolcissimo stordimento. Una mattina normale si sarebbe girato dall’altra parte e addormentato di nuovo, tanto, pensava sempre, era già in ritardo. Ma quel giorno era mosso da un’emozione concitata ed incontenibile che rubava i canonici quindici minuti di indolenza e pigrizia di inizio mattinata. Era completamente sveglio. E voleva vederlo. Sorrise. – Buongiorno, - Si disse. – E’ davvero un ottimo, ottimo inizio. -

Quando entrò in cucina il caffè era appena stato versato nelle tazze. La caffettiera fumava ancora. Lelio lo osservò con circospezione, come se stesse guardando qualcosa di nuovo e sorprendente. “Cosa ci fai già qui?”

“Cerco di recuperare un po’ di tempo.”

Mircea non poteva vedere il suo volto sorridente nascosto dalla tazza di caffè. Si spiarono muti e imbarazzati per qualche minuto.

“Dormito bene?”

“Sì. Bene. Profondamente. Non ho neanche sentito la sveglia.”

Lelio studiò il suo caffè con l’attenzione e la concentrazione di un chiromante che stia leggendo il futuro.

“Secondo te sarà così tutte le mattine?”

“No,” Disse, scegliendo i libri da portare a scuola per le lezioni. “Credo. È solo la prima.”

“Perché sei rosso, sai.”

Lelio lo trafisse. “E tu sei indisponente.”

“Io? Non sono io quello che si lamenta sempre di tutto. Io rispetto l’Equilibrio Cosmico, sono contento della mia vita e accetto le conseguenze delle mie azioni, compreso il fatto che probabilmente non riuscirò a sedermi per due giorni senza soffrire.”

 

II.

Lelio non aveva mai amato la lentezza degli ascensori come quel giorno. E Mircea era perfettamente d’accordo con lui.

 

III.

- Pray, sir – have you not forgot to wind up the clock? - Mircea era immerso in un nugolo di pensieri metafisici dalla cadenza molto simile agli orologi flosci di Dalì. Quel reticolato di impressioni suscitato dalla sua fantasia fervida e in pieno stato di evasione si condensava in filamenti tutti dilatati e molli, in un certo senso incontenibili come una macchia che dilaga invadendo una superficie ed aumentando il suo diametro pur mantenendo la stessa quantità di materia. Così pendeva in un universo tutto suo in cui Spazio e Tempo perdevano le loro oggettivazioni e si modellavano in mere unità individuali molto malleabili e flaccide. Questo lo capiva, appoggiato contro il banco e pieno di sonno. Lo intuiva nella ferocia inaspettata dei minuti che non erano più semplicemente sessanta secondi, ma nella sua anima, nella sua coscienza, subivano la stessa liquefazione degli orologi surrealisti.

Cea non sapeva perché, ma in quella prospettiva distorta e soggettiva si sentiva molto Tristram Shandy. Guardava le linee arricciate del libro e le pagine bianche, sentendosi un po’ linea arricciata e un po’ pagina bianca. Guardava anche il pendolo in copertina riconoscendosi oscillante, decentrato, cinetico, spostato, confuso, insicuro, controbilanciato. - Stupida intuizione, - Si diceva. – Non viaggiare. Non – sei – un – pendolo. Non sono un pendolo. Non mi devo sentire un pendolo solo perché sono confuso. Ah, questo è meravigliosamente flusso di coscienza. Peccato sia così stupido. -

“Lelio?”

Lelio si voltò verso di lui. “Sì?” Chiese.

“E’ stupido pensare di essere un pendolo?”

Lelio lo guardò perplesso. “Sì. Forse –“ Ci rifletté un istante. “Sì. È stupido. A meno che tu non pensi di essere come un pendolo.

Mircea disegnò una linea sul banco.

                                                                                                              

“Questo non è molto positivo.”

“Sono le oscillazioni, Lelio. Le incredibili, pericolose, destabilizzanti fluttuazioni dell’Equilibrio Cosmico.”

Mentre Mircea trasmigrava in pochi secondi attraverso le idee più diverse e i caos più totalizzanti, Lelio si chiese se quell’improvviso senso di perdita e di confusione non fosse opera sua, e si rispose: decisamente sì. Questo lo rattristò finché Mircea non gli rivolse di nuovo la parola.

 

IV.

Lelio fermò sua sorella che vagava tra i corridoi della scuola silente e cauta per una nuova pausa caffè. Ottavia notò subito uno sguardo accigliato, e lo ricollegò a qualche strano accadimento tra lui e Mircea, forse a una litigata, forse a un’incomprensione, forse alla verità taciuta.

“Parla, dunque.”

Lelio la guardò imbarazzato appoggiandosi alla macchinetta. “Ottavia –“ Cominciò timidamente. “Ho fatto sesso con Mircea –“

“Anche tu!”

“Hai fatto sesso con Mircea!” La prese per le braccia con furia senza sapere se essere più geloso per lei o per Mircea.

“Non io, cretinetto. Die.”

“Die ha fatto sesso con Mircea? Lo uccido.”

“Non con Mircea! Come avrebbe fatto, dato che ora è a Roma? Eh?”

“Tu hai detto –“

“Io mi riferivo al verbo. Né soggetto, né complemento di compagnia. I verbi sono più interessanti.”

“Quindi il soggetto è Die e il complemento non è Mircea.”

Ottavia scrollò la testolina ritirando il suo caffè. “No, infatti, è Hansi, sai. E siccome la tua idilliaca situazione non richiede l’intervento provvidenziale del Deus ex Machina, che per inciso sarei io, vi lascerò al vostro destino felice e pieno di soffici nuvole rosa. C’è qualcuno che ha più bisogno.”

“Non è idilliaco.”

“Oh, no. Oggi sei più simpatico per via dell’assestamento dell’Equilibrio Cosmico, allora. È una cosa che sorge spontanea dal tuo buonumore costante.”

“Mircea si sente un pendolo. E perché non si può fare un discorso intelligente, con te?”

“Queste cose, Lelio, sono entrambe perfettamente naturali.”

 

V.

Lelio non era mai stato meglio da solo, in casa, nell’ozio più totale di un pomeriggio languente. Dov’era sua madre? Non lo sapeva. Non gli interessava. Non riconosceva più niente, perché ogni dettaglio del mondo, della Città, del suo appartamento, della sua stanza chiusa a chiave e colma di sospiri segreti, era come trasfigurato da quel meraviglioso, luccicante e delirante sentimento che lo faceva palpitare, distraendolo da mille pensieri pragmatici e trascinandolo in un universo pervaso dalla perfezione e dalla bellezzasistematica . E dal piacere, certo.

Una notte invernale suggerisce solo certi pensieri di pigrizia indolente. Scorreva le mani sul corpo tiepido di Mircea e si stupiva di quanto potesse essere morbido. La sera precedente era stato troppo impegnato ad imbarazzarsi per scoprire la fisionomia del suo ragazzo – la pelle liscia e delicata, la sottigliezza del collo, la sua curva quando si ricongiungeva alla spalla, il piccolo solco che si produceva nello spazio lasciato dalla scapola, la perfezione del disegno dello sterno, la dirittezza della colonna vertebrale, i piccoli incavi in corrispondenza dell’osso sacro, la piattezza dello stomaco, la circonferenza sottile del busto, la perfezione di tutti muscoli, il calore dell’inguine, la peluria bionda e soffice sotto l’ombelico e sul pube, la rotondità dei fianchi quasi femminile, la linea delicata delle gambe glabre, l’inclinazione del ginocchio, la fessura dell’articolazione; e poi tutti i punti in cui sembrava provare maggiore piacere – sotto il mento, attorno alle anche, sopra i glutei, sulle cosce, tra le cosce, in quelle zone così intime. Ora lo esplorava con una curiosità tranquilla e soddisfatta, accarezzandolo, sfiorandolo, toccandolo fuggevolmente con la punta delle dita. Avrebbe voluto conoscere ogni particolare di quel corpo splendido inarcato dal piacere sotto il suo peso, avrebbe desiderato scolpire ognuna di quelle sensazioni e di quelle percezioni nella sua mente, e conservarle per sempre accanto alle immagini delle opere d’arte più encomiabili. Osservando la sua espressione di rapimento e il modo armonioso in cui i suoi lunghi riccioli biondi si spandevano sul cuscino, pensò che forse quello sarebbe stato il soggetto ideale del Quadro Perfetto, quello che avrebbe rappresentato in un unico insieme Bellezza, Natura, Ordine, Sentimento, Passione, Superamento e Sogno. Potrei dipingerlo.

 

___

 

Tristram Shandy. Ecco, è una delle mie innumerevoli ispirazioni. Io adoro Sterne senza un motivo particolare, solo mi ha fatto davvero ridere. Un genio. E pure la cosa della lineetta in realtà è una sua idea, ma tanto non mi chiederà i diritti di copiright, no? Sono un pochino depressed. Avrei voluto dedicare questo capitolo ad un'altra persona, ma non lo farò. Per ora, almeno. E non capisco linguistica. Non ci riesco, è più forte di me, in Cantina alle nove di mattina con la voce monotona che ti spiega morfologia e sintagmi e il sonno arretrato perché ti sei alzata alle sei perché c'è nebbia e i trattori cosa diavolo ci fanno in giro quando è ancora buio e i treni hanno sempre orari improponibili - come faccio a non addormentarmi?

 

Thanks:

 

DianaV - Vedi, ho questo potere magico coi computer. Scrivo cose così belle che il picci non regge e si riavvia da solo. Perdita di dati. Pomeriggi interi buttati via. Un giorno ucciderò il mio computer. Comunque questo dovrebbe essere l'ultimo capitolo della prima parte - non che ci sia una vera prima parte, ma ora i due sfigati come li chiamo amorevolmente sono sistemati per tutta la vita & oltre, quindi mi concentro su Die e il falso Logan. Enjoy it.

 

Susy - I can no more. Da Hopkins, per fare le fighe e tirarcela. yeah. Non posso dire più una parola. Lo sai, ho letto ogni singolo capitolo uscito dal tuo account a parte le storie dove c'è malinconico barra drammatico tra le indicazioni perché non mi va di deprimermi ulteriormente, sono una persona così sensibile Y____Y. Beh, forse non ho commentato tutto. Beh, forse dovrei farlo. Ma ho i complessi di inferiorità. Tu sei Eccelsa. Emh... che altro ti posso dire... Ogni tuo commento è un incentivo a continuare. Grazie grazie grazie. Sai vedere delle cesellature che io nemmeno mi accorgo di creare. Forse non ci penso, mi vengono semplicemente naturali. Ma stai convincendo pure me XP.

 

Lara - Ti avrei volentieri mandato una mail di risposta, ma la mia casella di posta a volte ragiona da sola e non sono mai sicura di quanto si affidabile, e poi meglio mettere i commenti tutti insieme così, per non scontentare nessuno. Don't worry, i commenti belli non stressando mai è___é. Sono felicissima che ti piacciano come piacciano a me. Peccato non esistano. Noi fan dello shonen-ai abbiamo quest'abilità innata di creare personaggi oh così belli & simpatici... dev'essere una cosa da trauma per innamoramento da ragazzo gay, non so se ti è mai successo. Auguri ai fratelli. Tifo per lo yaoi.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10. ***


Nuovo capitolo

Nuovo capitolo, prima descrizione di Die e Hansi. A questa velocità è probabile che vada in pari con le date del racconto è___é

Enjoy -

 

Mercoledì venti Dicembre,

 

Due biglietti per il teatro; uno specchio bivalente; un ponte silenzioso e qualche colpevole dispetto di Thor

 

I.

Die guardava l’immagine di Ottavia riflessa nello specchio dalla cornice cesellata e pensava che fosse già troppo tardi.

“Che cosa ci trovi di bello, poi –“

Ottavia lo freddò. “Sai come si dice? Guardare ma non toccare. Lui è l’étoile. Lui è la grazia, la leggerezza, la bellezza, l’eleganza, la musica, l’arte, e tutto nello stesso istante. È – è – guarda, non trovo neanche le parole per spiegarlo.”

“E perché ti devo accompagnare io? Odio le cose formali. E odio i balletti.”

Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Chi è venuto con te all’ultimo concerto dei Tool, caro?”

“Cosa c’entra, tu ci volevi andare! Mi riempi la testa di confusione.”

Ottavia gli fece cenno con la mano di stare zitto. Canticchiava –  “I sit down with my son set to see the crimson sunset –“ Era il suo pezzo preferito di A Change of Seasons, e Die non gliel’avrebbe rovinato con stupide considerazioni e critiche invidiose rivolte alla sua étoile preferita.

Lasciò che la melodia finisse in quello strano modo – come era cominciata. A Change of Seasons le metteva sempre I brividi per la sua lucida bellezza e per la sua affascinante circolarità. Le ricordava molte poesie e molti pensieri che conosceva a memoria, a furia di leggerli e rielaborarli nella sua testolina distratta.

“Die –“ Questa volta sembrava seria, mentre si voltava con una sfumatura di apprensione dipinta sul volto. “Ma ora tu – cosa vuoi fare?”

Die abbassò lo sguardo. “Lo sai che amo la mia chitarra. Io – non lo so. Devo dirlo a papà?”

“Prima devi dirlo a te stesso. Riflettici bene. È una decisione che ti toccherà molto, molto profondamente.”

Die ci stava già riflettendo. Si chiedeva come ci fosse arrivato. Che cosa gli restava? Era come preso e trascinato in due diverse direzioni, e tendeva dolorosamente sia verso l’una, sia verso l’altra. Stava mettendo in gioco tutte le sue certezze e le sue decisioni per un incontro così effimero. Hansi gli aveva inculcato un’idea – lasciare l’ingegneria e ritornare a fare la cosa che gli riusciva meglio, e che amava di più, la musica. Una parte di se stesso, lo sapeva, avrebbe voluto rimanere sulla via che si era faticosamente costruito in tanti anni di sacrifici – nella normalità rasente la perfezione: ottimo studio, possibilità professionali, buona carriera, vita esemplare. L’altra metà di se stesso, quella appassionata, quella avventata, quella nutrita di ideali, era stata rievocata in una sola notte, e ora lo disturbava col suo fascino attraente. Lui l’aveva cancellata, l’aveva seppellita assieme alle sue passioni infrante, l’aveva posata delicatamente in un punto dell’anima che pensava non potesse più essere raggiunto dalla vibrante energia vitale. Eppure, in una volta, in una breve, intensa, odiosa notte, aveva riscoperto quella faccia della sua personalità, forse la più sincera e la più vivida, ma anche la più pericolosa. In un momento rivedeva quello per cui aveva combattuto per anni, e a cui aveva deciso di rinunciare – per cosa? – per comodità, per convenienza, per convenzione. La riscoperta era sconvolgente, vertiginosa – emozionante. Aveva risvegliato dentro di lui un istinto sopito, e l’aveva reso di nuovo potente.

Hansi era stato suo compagno di liceo. Avevano studiato insieme, e insieme si erano avvicinati alla musica. Condividevano molte esperienze in quel periodo fresco, anche, sporadicamente, il letto. Era un equilibrio instabile, molto lontano da quello tra Mircea e Lelio, decisamente meno intimo e più amichevole, meno innamorato e più stoico. Alla fine delle superiori avevano preso strade diverse. Die ricordava di essersi separato da lui con un grande, enorme rimpianto, e di non essere riuscito a sistemare le cose. Una sera, poco prima della fine della scuola, gli aveva confidato che avrebbe lasciato perdere la chitarra. L’avrebbe ritirata in qualche armadio chiuso, e avrebbe dimenticato l’esaltazione delle note della sua musica. Non importava. La musica non viveva. E lui doveva pensare a qualcosa di più concreto per sé, a un futuro fattibile. Hansi si era arrabbiato. Gli aveva rinfacciato cinque anni di menzogne e di illusioni, gli aveva urlato che era solo un meschino, una persona come tutte le altre – questo aveva ferito Die maggiormente – e che stava spezzando un sogno coltivato per tanto tempo, distruggendo due persone senza accorgersene. “Sei solo un’idealista.” Gli aveva risposto. “A diciotto anni si può vivere di ideali, di rincorse, di desideri e di ribellione. Ma a quaranta ci si guarda indietro e ci si accorge di aver sbagliato tutto, di aver sprecato ogni possibilità.”

La domanda secca di Hansi gli era rimasta nel cuore. Non era passato giorno della sua vita che non se la fosse ripetuta svegliandosi, o prima di addormentarsi – “E allora un’esistenza stretta non ha senso. Di che cosa potrai essere fiero, a quarant’anni? Chi guarderai nello specchio, a quarant’anni?” Chi guardava nello specchio, anche a venticinque?  Aveva sempre segretamente pensato che Hansi avesse ragione.

Quella volta Hansi si era voltato ed era uscito sbattendo la porta. Non si erano più parlati. Si erano detti silenziosamente addio, e poi nulla. Finché un sabato sera non si erano rincontrati per caso. Hansi era stato felice di vederlo, e Die era euforico. Credeva fosse arrivato il momento per riparare all’errore più doloroso della sua vita– avevano bevuto molto, troppo. Si era risvegliato alle tre di notte in un letto che non era il suo e che profumava incredibilmente di un odore dolce, presente nella sua memoria in un ricordo sfocato, e che evocava in lui sensazioni abbandonate e piacevoli. Anche Hansi si era svegliato. Avevano parlato fino al mattino come facevano anni prima, nel fiore della loro amicizia e nel momento più scintillante di tutta la loro giovinezza – si erano confidati, riavvicinandosi, quel segreto tanto vincolante da unirli, quell’amore che solo loro potevano comprendere e di cui erano gli unici custodi. Die era ancora stordito dall’alcol. Tra i baci gli aveva chiesto scusa mille volte, gli aveva detto che gli dispiaceva, gli aveva rivelato quanto si sentisse male ogni giorno per le sue ultime parole, per quella consapevolezza lacerante che lo faceva impazzire. “Vieni con me!” Aveva riso Hansi accarezzandogli la testa. “Sì, prendi questa stupida laurea e nascondila, poi dimenticati la matematica. Devi imparare di nuovo solo le note.”

“Quelle non me le sono mai scordate.”

Per Die era come tornare indietro nel tempo e tuffarsi in un’epoca della sua vita che era stata felice, meravigliosa. Ricordarsi come stesse bene. “Sai, mi sono mancate molte cose di questo rapporto strano.”

Un bacio. Un’altro ancora. Hansi gli diceva con gli occhi, dolcemente – hai deciso tu la tua strada. Ma puoi tornare indietro e godere di questo fino alla fine, fino all’orlo.

Poi era arrivata la mattina. Le porte di quella notte buia si chiudevano e sbattevano violentemente urtando le pareti del sole assieme ai suoi desideri riscoperti. Se n’era andato di nuovo, ma questa volta nessuno provava rabbia, odio, rimorso. Questa volta c’era stato un bacio a fior di labbra, una carezza, un saluto delicato e un senso sospeso di ritorno. Ricominciavano? Die avrebbe voluto capirlo. Era confuso, stordito, felice. Forse sarebbe rientrato in quella stanza e avrebbe di nuovo assaggiato il sapore speciale delle loro notti, quel profumo persistente, quel senso di completezza; forse avrebbe chiuso, definitivamente, un capitolo difficile della sua vita.

Per il momento si guardava nello specchio, accanto ad Ottavia, e pensava a se stesso – alla sua essenza, ai suoi vincoli, e a come, nella sua prospettiva contorta, desiderasse vedersi. Un po’ cominciava a saperlo.

 

II.

“Questo film è noioso.” Mircea si girò prono sul letto premendo il pulsante di pausa del telecomando. “Tua sorella questa sera va alla Scala. Che fortuna.”

Ma Lelio dormiva, la testa poggiata sul cuscino, gli occhi chiusi e le labbra distese in un candido sorriso. Mircea si stupiva sempre del modo in cui Lelio si poteva addormentare, così sereno, così rilassato, così estraneo dalla sua personalità in continuo movimento. Credeva che Lelio facesse sogni complicati, possibilmente filosofici, qualcosa che aveva a che vedere con la sua allucinazione vestita da Alice, ma molto più serio. “Stai sveglio tutta la notte, vedi? Poi ti addormenti sul nostro film.”

Lelio sognava un ponte scintillante. Era a Venezia, o almeno credeva, ma non capiva né come ci fosse arrivato, né cosa ci facesse. Il ponte fatto d’oro e drappeggiato elegantemente in velluto cremisi si modellava sul canale, ed era sospeso nella nebbia di una notte indefinita, confusa. Di lontano, vagamente, si scorgeva la sagoma di una cupola maestosa, si vedevano i contorni dei pinnacoli preziosi che svettavano contro il cielo e dovevano rilucere di meraviglia, illuminati dal chiarore del giorno. Sulla Città era calato un velo di silenzio e quiescenza. Probabilmente tutti dormivano, lui era l’unico essere sveglio, cosciente, vigile come una sentinella sul confine impalpabile tra la realtà e il sogno. Sotto di lui l’acqua scompariva inghiottita dalla foschia umida. Era come essere sollevati sul nulla. Un senso di freddo, di gelo interno, lo pervadeva e lo faceva rabbrividire assieme ad una sottile inquietudine. Nelle mani stringeva una maschera. Se ne accorse solo dopo molti minuti che scrutava, immobile come una statua, l’orizzonte celato. Non si ricordava se l’avesse sempre avuta, o se improvvisamente se la fosse trovata tra le mani. Non si ricordava nemmeno se la coscienza di stringerla l’avesse fatta apparire e concretizzata in un oggetto, plasmandola materialmente dalla semplice idea astratta, o se fosse sempre stata lì. Anche la maschera era ricca e opulenta come quella città circondata dal fumo e probabilmente rialzata sul limite del mondo – la sua porcellana era lucida e liscia, attorno alle fessure degli occhi si dipingevano sofisticate linee blu e oro e viola, l’interno era delicato, rivestito in velluto cremisi, ogni dettaglio era cesellato, preciso, perfetto, modellato nella piena consapevolezza da mani artiste.

Dove si trovava, davvero? quel ponte sospeso ed immobile, quello scenario altrettanto sospeso ed immobile non erano che la rappresentazione onirica, una sfocata visione metafisica che entrava in un’altra dimensione di torpore. E se lui era l’unico ad essere sveglio, e ogni altra cosa era avvolta nella nebbia Questo significava che la sua coscienza e la sua immagine interna erano ciò che rimaneva di un potere superiore in un mondo di fantasmi opalescenti.

Quello che non capiva era perché –

“Lelio!” Thor si gettò sulla sua pancia. “Svelia, svelia, è presto!” Thor non sapeva ancora pronunciare la ‘gl’.

Lelio socchiuse gli occhi senza capire molto bene cosa stesse succedendo. Guardò Vittorio abbracciato a lui sul letto e Mircea che ridacchiava dietro lo stipite della porta.

“Sei stato tu! Tu gli hai detto di svegliarmi! È molto crudele.”

“Trovi?”                                                                                                                                                   

“Stavo facendo un sogno così surreale –“

“Thor, vai dalla mamma.”

Vittorio scese dal letto trotterellando verso la cucina. “Buonanotte!” Rise.

“Buonanotte amore! Lelio, sei arrabbiato con me?”

“Molto. Moltissimo. Per la prima volta mi addormento e sono in pace con me stesso e tu –“

“Quindi sei arrabbiato con me?” Ripeté Mircea sbattendo un po’ gli occhi.

“Oh, certo. Ma forse potrei perdonarti. Forse. Dovrai sforzarti.”

Mircea sospirò. Un’altra notte insonne.

 

 ___

Mi diverto a prendere in giro il lato intellettualoide di Lelio. In fondo sono un po' così anch'io, a tratti presa da tutto il mio orgoglio intellettuale, a tratti molko poco seria, come avrete notato. E' che penso, e penso, e alla fine non ricordo mai come ci sono arrivata. Boh. In realtà quando leggete queste parti "sofisticate" sono la sottile ironia dei miei viaggi mentali, nient'altro. Sono così autoironica...

Punto uno - L'étoile è l'unico, meraviglioso, inimitabile Roberto Bolle. I Tool sono un gruppo che non so come definire - ma se amate le cose oscure e complesse ascoltateli - e A Change of Seasons non lo dico neanche, beh... Devo aver infilato pure un pizzico di Catullo, somewhere.

Punto due - Sapete, sono andata al concerto dei Dream Theater. E' stato esaltante e doloroso (il giorno dopo) e volevo saltare sul palco e fare altre cose molko stupide, di tutte le volte che li ho visti, questa è stata senza dubbio la performance migliore. Li amo. Li amo. Li amo. Oh, sono così depressa ora che sono lontani...

 

* THANKS *

 

DianaV - Sono contenta che ti piaccia Ottavia, ho sempre paura di disegnarle troppo Mary Sue, le famale characers. In effetti lei è insopportabile in senso buono. E' molko me, solo con tre fratelli gnocchi. Per il resto, spero che il background della relazione tra Die e finto-Logan ti sia piaciuta. In effetti tutta la loro relazione è basata su quest'ambiguità di Die, che è come sospeso tra la "carriera" e la "musica", tra la vita pragmatica e l'idealismo della sua adolescenza. Ma hai visto che hanno sospeso Una Mamma per Amica! E io che aspettavo così tanto di godermi il vero-Logan ç____ç! Depressioooon...

 

Susy - Non ti preoccupare per il corto commento. Breve e intenso. Anche a me piaceva lo scorso capitolo, pure se oggettivamente non lo dovrei dire ^///^. Tralaltro è la cosa più graphic che abbia mai scritto, figurati. Non sono portata per le lemon (al contrario di qualcuno che è splendido in certe scene *emh emh*). Una volta ho letto da qualche parte, una frase di Eco, credo, che diceva una cosa tipo - Che altro potrebbe desiderare uno scrittore, se non essere un avverbio? - C'ho riflettuto parecchio, e gli do ragione. Gli avverbi non sono indispensabili, ma sono precisi, definiscono, cesellano, in un certo senso sono la parte più puramente estetica, ma non vana come gli aggettivi. Non so se rendo l'idea. La linguistica mi rende confusa. Comunque non c'erano avverbi nella frase di Ottavia, mi sembra di ricordare, quindi scelgo i verbi.

 

Lara - Sono felicissima di aver ricevuto un altro tuo commento (ho appena scritto un'altro con l'apostrofo!!! OMG!!!)

Per tutto quello che mi hai detto, perché sei felice che Lelio e Cea siano felici e questa è una cosa fondamentale, visto che in quanto scrittrice la massima realizzazione è creare una sorta di legame empatico con il lettore. Lelio, in realtà, si è sempre accorto della bellezza di Mircea. Solo non l'ha mai vista da quella prospettiva, come se ci fosse "dentro". Era sempre stata la bellezza oggettiva di qualcosa di esterno, ora, e più avanti diventa chiaro, la bellezza di Cea diventa intima, coivolgente, al punto che tarattatta non vi anticipo le ultime righe della fic.

 

Ringrazio anche tutti i lettori! Baci, al prossimo capitolo,

Martina.

   

 

     

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11. ***


Questo capitolo è decisamente stupido

Questo capitolo è decisamente stupido. E' nato un giorno che il mio lato stupido ha preso il completo sopravvento sulla mia personalità. Si ringrazia gentilmente la Francia per aver alimentato il fuoco dentro me. Sapete, avevo appena litigato con una ragazza, e io odio litigare, lo odio. Per cui per esorcizzare la voglia di fracassarle la vuota scatola cranica, ho scritto una lista dei suoi difetti mettendo un tic di fianco a quelli sopportabili e/o superabili nel tempo, e nel giro di due giorni tutti i punti avevano il tic perché sono troppo buona -___-'''... Anche i difetti della lista di Cea sono sopportabili.

 

 

Venerdì ventidue Dicembre,

 

Una retrospezione dalla parte di Mircea – Una mattina movimentata; una lista nera, una lista dorata

 

I.

L’ultimo giorno di scuola non è il primo di vacanza. Questo lo sapevo bene, benissimo. Solo, non mi andava di alzarmi dal letto perché era ancora buio, perché fuori faceva freddo, perché avevo sonno, perché dovevo fare la verifica di filosofia e non ne avevo voglia, perché probabilmente Lelio era di cattivo umore, perché sarei inciampato in qualcosa non appena fossi uscito dal bagno, perché dovevo scegliere i vestiti, e per mille altri motivi che nello stordimento seguente la sveglia precoce mi ero dimenticato.

- Aggiungere alla mia lista: distruttore di quieti sacrosante. – Dissi tra me e me. Poi mi alzai desolato, impacciato, già stanco, e mi diressi verso la doccia.

L’acqua calda di prima mattina aveva un impatto rilassante e delicato sulla mia pelle infreddolita dal gelo della notte. – Se Lelio mi dicesse: se ti alzi subito puoi fare la doccia con me, invece che strapparmi le coperte, le cose funzionerebbero molto meglio di quanto non vadano ora. –

Quella mattina ero in preda a speculazioni mistiche e sconvolgenti. Capitemi bene: la mia ricerca inane deve contenere le rotture dell’Equilibrio Cosmico, così mi sono preposto da una vita intera, e questo moto accidentale, questo processo storico che fa tendere il mondo e la mia persona profumata di docciaschiuma al cioccolato fondente, parte dalle piccole cose quotidiane, come il docciaschiuma al cioccolato fondente che non sa di cioccolato fondente, come le brioches alla marmellata che hanno dentro pochissima marmellata, come i capelli ricci che con l’umidità si increspano, come le mattine invernali, le mattine in generale e Tutte le Cose che Odio in Lelio. In particolare Tutte le Cose che Odio in Lelio. Negli ultimi giorni avevo fatto una lista dei suoi difetti. Prima o poi gliel’avrei fatta leggere.

Uscii dalla doccia avvolgendomi velocemente nell’accappatoio. Il mio corpo era stato scosso da brividi di gelo non appena avevo messo piede fuori dal vaporoso calore del bagno. Guardai la sveglia – le sette.

Lelio, tesoro, per quale assurda ragione mi hai svegliato mezz’ora prima del dovuto?” Urlai dalla sua camera. Cioè dalla nostra. Quella notte avevamo dormito in casa sua. Lo facevamo spesso perché sua madre comincia a lavorare molto presto in ospedale, e la mattina avevamo la casa tutta per noi, mentre da me bisogna fare attenzione a non svegliare la bestia feroce.

- Aggiungere alla mia lista: perturbatore insensato di altrui sonno. -. Tirai fuori la lista e annotai frettolosamente i punti 25 e 26. Sentivo rumore di passi nella mia direzione.

“Cosa c’è?” Lelio entrò nella stanza. Nascosi la lista dietro la schiena e sorrisi falsissimo. “Sono solo le sette. Che bisogno c’era di essere così perversi?”

“Come che bisogno c’era? Ero già sveglio.”    

“Questo non è un buon motivo per svegliare me.”

“Cea, pensavo che potessimo trascorrere questa mezz’oretta in più in maniera divertente. Mi annoiavo.”

Perché quando mi guardava con quegli occhi io mi scioglievo e annullavo la mia volontà e mi facevo fare tutto quello che voleva? Lelio si avvicinò a me, sedendosi sul bordo del letto.

“Solo se non sei troppo assonnato.” Sussurrò al mio orecchio.

“Mm, oramai credo di essermi svegliato completamente.”

“Bene.”

Scostò i capelli dalla mia spalla e fece scivolare l’accappatoio per baciarmi sul collo. Gli presi la testa tra le mani mentre saliva sempre un po’ di più per arrivare alla mia bocca.

- D’accordo cervello, questo perdona decisamente tutti i suoi innumerevoli difetti. -

Alla fine ero comunque nel letto. Mi sdraiai sulle coperte disfatte mentre le sue mani cominciavano a viaggiare su tutto il mio corpo e ad accarezzarmi nei punti che aveva ormai imparato alla perfezione con quelle sue dita affusolate, delicate, gentili. Mi sfilò l’accappatoio. Ero di nuovo così impotente ed inerme sotto di lui, eppure così euforico, così perso, così soddisfatto. Mi piaceva fare l’amore con lui in ogni posto, ma preferivo di più farlo in casa sua, perché potevo urlare dal piacere quanto volevo. Ero perso in un mondo solo mio e suo, e respiravo a fatica tra un gemito e un’invocazione. Ricominciò di nuovo tutto, le mani, la bocca, i corpi che si sfioravano sempre più accaldati, sempre più affannati, sempre più eccitati, fino all’apice meraviglioso, quando mi inarcavo contro il suo corpo e ricadevo esausto sulle lenzuola.

Lui sciolse l’abbraccio delicatamente, e mi guardò per qualche secondo prima di chinarsi di nuovo verso di me e sfiorarmi sorridendo. Dovevo essere arrossato, il petto si muoveva velocemente e cominciavo a sentire il freddo. Il mio corpo si stava rilassando di nuovo per tornare ad una situazione normale. – Chissà cosa pensa di me, in questo momento, - Mi chiedevo sempre quando, appena dopo avermi lasciato andare, si incantava a fissarmi con quello sguardo stranito.

“Credo che dovremo farci un’altra doccia,” Mi bisbigliò all’orecchio, mentre percorreva le coperte e le scostava per coprirmi.

“Magari potremmo farla insieme. Solo per risparmiare tempo.”

“Sì –“

Un fruscio di carta. Lelio sembrava incuriosito. Fermai la sua mano. “Aspetta, aspetta, aspetta!” Mi misi a sedere sul letto.

“Cosa?”

Presi un lembo del foglio che aveva tra le mani e lo tirai dalla mia parte.

“Che c’è?”

“Niente.”

“E’ tuo questo foglio?”

“Sì.”

“Perché non me lo vuoi far leggere?”

“Perché –“ Una scusa, Cea, una scusa! “Perché ho scritto i regali di Natale, tra cui il tuo, per cui, evidentemente, non puoi vederlo.”

“Non sei capace a dirmi le bugie, Mircea.”

“No, no!”

Me lo strappò dalle mani. Lo lesse velocemente. O, credo, lesse solo il titolo. Mi guardò con uno sguardo stupito. “Ah, è così!” Sibilò.

“Ma io –“

“Hai scritto una lista dei miei difetti! Come hai potuto scrivere una lista dei miei difetti?”

“E’ perché hai un sacco di difetti, una marea, e poi l’ho detto che non avresti dovuto vederla.”

“Grazie, la lasci lì sulle lenzuola! Non posso credere di aver fatto l’amore sopra la lista dei miei difetti.”

“Non è così tragico.”

“E’ un colpo basso!”

“Perché non mi chiedi la cosa che dovresti, e cioè: ‘pensi davvero questo di me?’. E’ fatto apposta per riflettere su questo.”

“Pensi davvero questo di me?”

“Ma no!”

“E allora che bisogno c’era?”

“E solo che – era un promemoria, d’accordo? Sei arrabbiato con me?”

“Potevi fare un promemoria delle mie qualità.”

“Veramente è scritto dietro.”

Lelio girò il foglio. “Oh.” Si sedette di nuovo.

“E poi non ho bisogno di ricordarmi i tuoi pregi, li ho sempre in mente.”

“Se questo è un subdolo tentativo di recuperare la situazione, hai fallito miserevolmente. E niente doccia insieme.” Si alzò, si rimise i pantaloni e se ne andò in bagno, portandosi dietro la mia simpaticissima lista.

 

II.

Tutte le Cose che Odio in Lelio:

 

1-       Maniaco compulsivo dell’ordine

2-       Costantemente affetto da: mal du siècle, spleen, anguish, ennui, depressione, Weltschmerz e tutte quelle cose disfattiste

3-       Perturbatore dell’Equilibrio Cosmico

4-       Perturbatore del Mio Equilibrio Interno

5-       Amante più dei suoi libri che di me

6-       Amante più di Thor che di me

7-       Estremamente scostante nei periodi di Voragine Mentale

8-       Fratello di tre complessati cronici

9-       Fisimatore professionista del prossimo felice

10-   Distruttore di armonie quotidiane & Buongiorno

11-   Sottilizzatore logico in ogni questione

12-   Utilizzatore di tutta l’acqua calda della doccia

13-   Maniaco compulsivo dell’ordine ANCHE per le cose altrui

14-   Caffeinomane inguaribile

15-   Misogino, misantropo, nemico del genere umano

16-   Misterioso pensatore insondabile

17-   Mai, MAI!!!, contento di nulla

18-    Puntiglioso, studioso, coscienzioso fino a farmi venire profondi sensi di colpa

19-   Sfacciatamente amato dalle ragazze, il che mi fa ingelosire a dismisura

20-   Polemizzatore per ogni minima cosa

21-   Troppo veloce a camminare

22-   Fumatore prima di baciarmi –ok, questo non è un vero difetto-

23-   Scostante, lunatico, di umore mutevole a velocità stellari

24-   Salutista sfrenato

25-   Distruttore di quieti sacrosante

26-   Perturbatore insensato di altrui sonno

 

Tutte le Cose che Amo in Lelio:

 

1-       E’ il mio ragazzo!

2-       E’ il ragazzo più bello del mondo

3-       E’ il ragazzo più intelligente del mondo

4-       E’ il ragazzo più dolce del mondo (con me)

5-       Ha degli occhi che mi fanno impazzire

6-       Ha un nasino meraviglioso

7-       Mi canta le canzoni dolci

8-       Non ha più segreti per il sottoscritto

9-       Si diverte a torturarmi

10-   Si diverte anche in altri modi con me…

11-   Ha un profumo buonissimo (Farenheit) Acqua di Giò)

12-   Capisce sempre cosa ho in mente

13-   Mi fa le verifiche di tedesco, di matematica, di storia, di geografia economica, di statistica eccetera

14-   Mi preferisce a tutte le ragazze del mondo

15-   Vuole molto bene a mio fratello

16-   Fa il caffè più buono del pianeta

17-   Non si stanca mai di stare con me

18-   Mi sistema sempre la camera

19-   Non si stanca mai di ascoltare le mie idee stupide

20-   E’ PERFETTO E MERAVIGLIOSO E LO AMO DA MORIRE

21-   Gli piace la stessa musica che ascolto io

22-   Gli piacciono gli stessi film che piacciono a me

23-   Odia il Piccolo Cervo

24-   Adora ME!!!

25-   Sopporta i miei scatti di isteria felice

26-   Non mi dice mai di stare zitto quando parlo di assurde situazioni dell’Equilibrio Cosmico

 

 

___

Seriamente, non so cosa sia questo. Non è un capitolo serio. Non è un capitolo. Il prossimo è consistente, invece. Contenti? Sto studiando come una pazza in questi giorni . Sto sviscerando la Waste Land, sapete...

 

Sto considerando l'idea di scrivere un'altra long fic -shonen-ai, of course...-. Cioé, ne ho scritti nove capitoli di getto e sono piena di idee, ma è una cosa talmente strana, e veloce, e senza forma, che --- non lo so. E' scritta di getto, l'ho già detto? Per me è un dramma... Boh. Boh. Boh. Tanto devo finirla, prima. Un giorno la vedrete e mi saprete dire se è meglio questo stile (non precisamente quello di questo stupido capitolo), quello di Bénédiction o quello di fic-per-ora-senza-nome.

 

Non ho altro da dichiarare ---

 

*** THANKS***

 

DianaV - Noooooo! Il prossimo concerto dei Dream Theater contattatami, vengo a prenderti con la mia fantastica Kassy e andiamo a distruggerci all togheter! Sono aperte le iscrizioni! Non potete perdervi tanto entusiasmo e meraviglia *___*. Trovi davvero che Ottavia sia una persona fantastica? Non mi conosci. E' insopportabile. In senso buono, ok, ma è insopportabile perché io sono insopportabile se divento sarcastica. E capita spesso. Così dicono i miei amici. Però mi sa che hai ragione, il fatto di avere i fratelli gnocchi è uno svantaggio... ma tanto, guarda, se anche non fossero parenti, sarebbero occupati, o ordinati, o gay, quindi... Grazie mille come sempre per il commento ^_^

 

Manny_chan -  Una nuova commentatrice uahuahuah. Non sai che gioia provi dentro di me per i tuoi commenti. Non preoccuparti di quello che scrivi, hai visto quello che scrivo io? Ti ringrazio per aver letto tutto e commentato tutto. Eh, lo so, Cea è un rubacuori. Per aver fatto innamorare uno come Lelio (quanto mi diverto a prendere in giro Lelio, non avete idea XP)... Insomma, quando l'ho partorito, ho infilato nella sua testolina tutto quello che di positivo vorrei trovare nelle persone, non solo nel mio uomo ideale. Lelio è fortunato. Cea è semplicemente perfetto. Grazie per aver commentato questo progressivo delirio.

 

Susy - *Awwwwwwwwwwwwwwwwww* - Dopo aver letto il tuo commento ho sentito una strana sensazione di onnipotenza durata cinque meravigliosi minuti. Ma andiamo con ordine. Perché Die ha smesso di suonare? - C'è una ragione pratica, una psicologica e una simbolica. La ragione pratica è che finto-Logan ci lavora, con la musica 24h on 24. Il che esclude la carriera di Die, e lui ha fatto una scelta in questo senso. La ragione psicologica è che la chitarra ormai gli lascia un insopportabile senso di colpa verso finto-Logan. Ho pensato, se io litigo con una persona per me importante non sono così autolesionista da rifare le cose che facevo con lui/lei. La ragione simbolica è quella che ho adottato anche per Lelio e Cea, e cioè, questi personaggi sono dicotomici, sono bianco e nero senza sfumature, sono mondi separati che lentamente imparano a compenetrarsi e a sfumarsi l'uno con l'altro [La ragione vera è che avrei dovuto approfondire meglio la cosa *emh emh*]. Ecco... ti ringrazio infinitissimissimamente per quelle cose stupende che hai scritto alla fine del commento. Tutti vorrebbero sentirsi dire questo, immagino. Pubblicare è il mio sogno da anni. Prima o poi succederà, spero. Sto facendo leggere cose un po' alle persone che forse mi torneranno utili - non sono le fic che pubblico, ma cose più serie e rifinite... sto cercando concorsi eccetera. Se conosci un editore raccomandami. Se lo conosco prima io ti raccomando XP. Scherzi a parte... spenderesti venti euro per un mio romanzo? Sono molko fiera di me. Grazie infinitamente. Ti dedicherò un libro.

 

 

Mi sono dilungata troppo... beh... alla prossima! Baci a tutti,

Martina

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12. ***


Che stanchezza

Che stanchezza. Lavoro come una stacanovista. Ehi, siamo a metà storia! Quindi comincio già a deprimermi per il fatto che un giorno o l'altro finirò... Capitolo piuttosto cospicuo.

 

Domenica ventitre Dicembre,

 

Un Piccolo Cervo che potrebbe diventare Renna di Babbo Natale; molti incontri sulla stessa strada; qualcuno di non troppo felice e un finale con sorpresa

 

I.

Lelio era uscito di casa di primo pomeriggio, ma tra le strade affollate della Città era già calato il buio denso. Gli dispiaceva che Mircea non fosse con lui. Si sentiva solo ed immensamente amareggiato, camminando tra tutte quelle persone allegre, spensierate, ridenti. La sera era quasi magica, ammantata dell’incredibile profezia della neve e dallo scintillio degli addobbi e delle luci che decoravano ogni angolo di strada. L’atmosfera aveva un suono tintinnante ed un profumo dolce, come di cannella, di zenzero, di spezie, di qualcosa di lontano, rievocato nella purezza dell’infanzia. Quei bagliori chiari emanavano un’aura che nella sua più intima valenza sapeva veramente scaldare il freddo della stagione ed illuminare di una certa patina dorata il buio fitto. Solo stringersi nella sua sciarpa, per Lelio era un gesto di inappagabile serenità. Era tutto così tranquillo, così speciale, così sospeso come in un incanto – la via decorata a festa per il Natale gli ricordava quelle boccette di vetro in cui era costruito un castello fatato in miniatura, e che facevano la neve candida, delicata, magica, meravigliosa. Così era anche ammantata della stessa grazia sussurrata delle favole dei bambini. Ma nel luccichio del suo oro, del suo vermiglio, dei suoi velluti, dei suoi cristalli, coltivava segretamente pure quel lato oscuro, che è la precarietà e la fragilità. Le bolle di vetro si infrangono facilmente.

Voleva Mircea. Perché non era con Mircea? si chiedeva, scaldandosi le mani col suo caffè. Erano le cinque di pomeriggio dell’Antivigilia e lui percorreva le strade più affollate del centro da solo, senza uno scopo ben preciso, senza una meta. I regali li aveva già comprati. Era uscito perché non poteva stare in casa con lui, semplicemente. Eppure allora cominciava a pentirsene.

Entrò in una profumeria – amava molto i profumi, avrebbe potuto trascorrere giornate in quelle boutiques così sofisticate e raffinate. Le boccette lo incuriosivano sempre coi loro colori e le loro forme strane. Lelio aveva una particolare memoria olfattiva che gli permetteva di ricordare ogni essenza e di riconoscerla non appena sentita, si accorgeva immediatamente quando uno cambiava profumo, e aveva un ottimo intuito nell’abbinare le fragranze alle persone, tanto che i suoi fratelli, anche Ottavia, gli chiedevano sempre consiglio.

Allora la profumeria era immersa di gente indaffarata a comprare gli ultimi regali. Si avvicinò allo scaffale maschile e cercò quei profumi che non aveva ancora assaggiato, gliene restavano molti. Passò da una boccetta all’altra, senza sapere perché, semplicemente inebriato da quegli odori. Finché qualcuno toccò la sua spalla.

Si voltò improvvisamente – “Die, mi hai spaventato. Potevo lasciarlo cadere.”

Die rise. “Che ci fai qui tutto solo, fratellino?”

“Stavo scappando da Mircea.”

“Oh. Avete litigato?”

“E’ una storia stupida. Ma non posso stare con lui.”

“Così affoghi il tuo dispiacere ubriacandoti coi profumi?”

Lelio ripose la boccetta e ne prese un’altra. “Voglio comprare un profumo.”

“Per te o per chi?”

“Non lo so. Dipende dal profumo.”

“Capisco.” Die fece una piccola pausa, inclinando la testa, anche se non capiva affatto. “Secondo te un profumo è un regalo troppo scontato?”

Lelio si voltò di nuovo verso di lui. “Un profumo,” Lo freddò. “Non è mai un regalo troppo scontato. È prezioso, elegante, molto difficile ed affascinante, perché viene scoperto mille volte. I profumi sono i regali più complicati da fare. Richiedono una grande conoscenza della persona a cui li si vuole donare perché l’olfatto è un senso molto delicato. Sono ambigui. Sono vellutati. Sono eterei. E se vuoi un consiglio per Hansi, io gli prenderei Hugo.”

Die lo guardava incuriosito mentre gli porgeva la boccetta dal liquido blu per fargliela annusare. “E poi sono io che lavoro nella moda –“

“I profumi sono solo una forma di propensione. Bisogna essere bravi ad interpretarli, tutto qui. Sono sulla pelle. Sono una seconda pelle.”

“Dici che va bene?”

“Certo.” Lelio lo fissò per un secondo. “E’ davvero per Hansi?”

Die scrollò la testa.

“Allora – va tutto bene.”

“La verità è che io e Hansi non siamo due persone molto sentimentali.”

“Ma gli compri un regalo.”

“Lo vedrò a Natale. E mi va di farlo, perché in fondo gli devo molto, anche se mi sta sconvolgendo la vita.”

“Die, io non avrei dubbi se fossi al tuo posto. Starei con lui. Anche platonicamente, capisci? Solo, farei quello che amo. È quello che lui significa, che ti dovrebbe muovere.”

Die lo osservò muoversi davanti alla vetrina ancora per un paio di minuti, finché soddisfatto esclamò: “Ecco, ci sono. Il profumo per Cea.”

 

II.

Il soffitto della caffetteria era luminoso, inondato dal chiarore che quell’enorme lampadario emanava dall’altezza del soffitto. Le pareti erano rivestite da carta da parati color oro, e su tutti i tavolini ardeva una piccola bugia decorata da ghirlande di abete ed agrifoglio. Tutta quella ricchezza opulenta e quello scintillio consumistico, immerso nel calore soffocante della sala, non gli facevano lo stesso effetto dell’alone natalizio che incontrava per le strade. Quelle piccole luci erano molto più intime, perché erano avvolte dal freddo e dalla gente che passava regalandosi un pensiero rivolto a qualcun altro.

E poi era affollatissimo. Lui e Nikita avevano faticato per sedersi e riuscire ad avere le loro ordinazioni. Questo faceva girare la testa a Lelio, che odiava la confusione, il brusio di sottofondo, e soprattutto le risate futili delle persone stupide. Ma per principio non si rifiuta mai una cioccolata in galleria. E suo fratello l’aveva invitato.

“Allora, fammi vedere.” Gli porse la borsa con la confezione.

“In realtà gli avevo già comprato il regalo. Ma non resisto alla tentazione dei profumi. Hanno quelle boccette tutte luccicanti e-“

“Molto buono.” Nikita ripose la confezione accanto a Lelio. “Allora cosa fai per Natale?”

“Sto con Cea. Sono domande?”

“No, ma – perché non è qui adesso?”

“Oh. È meglio che per un po’ stiamo distanti. Non lo posso vedere, ora come ora.”

“Avete litigato?”

“Lascia stare.”

Nikita si strinse nelle spalle. “Io e Federica ci siamo lasciati. Pensavo che sarei stato con lei a Natale, ma ora credo che andrò a Parigi con Ottavia. A meno che non trovi un’altra ragazza entro i prossimi due giorni. Sally, forse. Era un po’ che le avevo promesso un appuntamento. Fratellino, dovresti imparare da me!” Gli scoccò un’occhiata eloquente. “Dovresti goderti le ragazze nei loro momenti migliori, senza curarti del domani, non legarti a qualcuno che alla lunga, sicuramente, ti deteriorerà. I fidanzamenti sono inutili. Rubano quello che c’è di bello in un rapporto perché diventano banali.”

“Invece fare come te paga.”

“Io lo chiamo edonismo. E morirò così – felice, facendo quello che amo.”

“Sarà.” Lelio si alzò dalla sedia. “Visto che ti piace godere e spendere, pagami il conto.”

“Vai già?”

“Sì, è tardi, mi spiace. E tu hai bisogno di tempo per conquistare.”

Nikita sorrise, mentre suo fratello se ne andava. Lo guardò uscire dalla caffetteria inghiottito da una marea di gente. Lelio, si disse, aveva qualcosa di più bello in quei giorni. Aveva una lucina particolare che diceva lui: sono felice! Si chiese se fosse merito dell’amore, o semplicemente dell’atmosfera. Gli faceva molta tenerezza. Sotto certi punti di vista invidiava quella sua nuova perfetta armonia, anche se continuava a non capirla.

 

III.

Una voce lo richiamò dalla sua strada, mentre era intento a pensare fittamente. Si girò e vide il Piccolo Cervo che gli faceva cenno di raggiungerla.

“Cosa c’è, Giulia?”

“Ciao Lelio. Come sta il tuo fidanzato? Non è con te?” Pronunciò quel fidanzato con un particolare accento.

“Evidentemente no.”

“Avete litigato?”

Lelio alzò gli occhi al cielo. “Ce l’hai ancora con me perché l’ho baciato mentre tu eri lì? Oppure perché avresti voluto farlo tu? Oppure – qual è il tuo problema?”

“Per me puoi anche fare quello che vuoi –“. Scrollò le spalle. “Ma è un vero spreco. Comunque guarda – volevo regalare quel libro di foto al Fabio. A lui piace molto la fotografia. Secondo te è un buon regalo?”

“Io non lo conosco, Giulia.”

Nella sua mente, Lelio pensava a come il Piccolo Cervo si evolveva in Renna di Babbo Natale e consegnava i regali la notte del Ventiquattro Dicembre.

“Tu che cosa hai comprato a Mircea? un vestitino di raso blu come quello di cui parlavate quella volta?”

Lelio la guardò per un attimo senza capire. “Oh, no, un profumo e un -”

“Ah. Beh, io gli compro questo libro.” Detto ciò si voltò entrando dalla piccola porticina della libreria.

Lelio osservò la vetrina ancora per qualche istante, in preda a molte considerazioni. Non gli piaceva il modo in cui Giulia gli parlava. Non gli era mai piaciuto, in effetti, ma allora era cambiato, era diverso, e si era trasformato nel momento in cui li aveva visti insieme in quel contatto così intimo.

-Avrei dovuto pensarci. – In realtà odiava molte cose di quella gente senza originalità e senza spunti. Odiava il modo in cui alcuni si voltavano a guardarlo se abbracciava Cea in mezzo alla strada, o se gli sfiorava la mano. A Mircea non importava mai, lui era perso. Per ciò non voleva negarglielo, o non voleva nascondersi, svelandogli tacitamente che si vergognava del loro rapporto. Questo non cambiava di nulla la sua insofferenza. Avrebbe volentieri preso le teste di quelle persone e le avrebbe sbattute l’una contro l’altra fino a far entrar loro il concetto che aveva in mente.

Il tintinnio della porta che si apriva lo ridestò dai suoi pensieri. Qualcuno prendeva il libro di fotografie dalla vetrina e lo sostituiva con un altro molto più bello, un libro vecchio, dalla copertina rigida in cuoio blu rilegata a listelli dorati, e con la scritta elegante dorata – Kinder und Hausmärchen.

“Questo lo devo comprare a Mircea!”

Pazienza se era il terzo regalo. Lui meritava tutto il bene del mondo.

 

IV.

Mircea era ancora a letto, gli occhi arrossati, la testa che pulsava, un senso di stordimento e di malessere insopportabile. Odiava ammalarsi. Odiava la sua salute cagionevole, per cui stava male con sconcertante facilità. E odiava anche come Lelio odiasse le malattie per le sue manie compulsive di ordine e precisione. Quella mattina gli aveva sentito la fronte bollente e gli aveva misurato la febbre che era salita a trentotto e tre. “Non posso stare qui!” Aveva detto. “Sei malato!”

“E’ solo un raffreddore, Lelio.”

“Non importa, sei infetto.”

“Ma cosa?”

“Quarantena!” Aveva cominciato a spruzzare qualcosa di sterilizzante nell’aria cercando di respirare il meno possibile. “Io vado a farmi un giro. Non uscire dalla stanza per alcun motivo e non fare entrare nessuno.” Prese la giacca con molta fretta. “Mi dispiace, ci vediamo quando sarai guarito.”

“Ma io sto male! Devi rimanere al mio capezzale!”

“Sei malato!”

“Dammi un bacino, almeno.”

Lelio lo guardò con compassione ed uscì dalla stanza.

- Ormai, rifletté Mircea sbirciando l’orologio, - Sono quasi tre ore che è uscito. Mi manca da morire. -

Ed in effetti era così. Gli succedeva talmente di rado di non vederlo, che si sentiva come in preda a mille solitudini interiori. Il silenzio aveva molti pregi. Lelio lo amava immensamente, lo cercava, ma mai per periodi così lunghi da separarli. Rigirandosi per l’ennesima volta nel letto sentì fitte percorrerlo per tutto il corpo. La testa era talmente pesante che articolare idee coerenti era diventato estremamente difficile.

La porta si socchiuse lentamente lasciando entrare un piccolo spiraglio di luce nell’oscurità pesante della camera. Mircea accese l'abatjour del comodino sperando fosse Lelio.

“Come stai Cea?” La vocina squillante di Thor lo consolò enormemente.

“Oh, tesoro, vattene dalla stanza. Posso attaccarti la febbre.”

“La mamma ha detto che posso stare un po’ con te. Sei triste? Tu non sei mai triste. Mi spiace che stai male.”

“Sì lo so. Mi fa male ovunque. Ecco, vieni su!” Lo sollevò sul letto accanto a sé.

“Perché non sei con Lelio?”

“Lui ha detto che non poteva stare qui. Perché io sono malato.”

“E allora?”

“E allora non voleva prendersi la febbre per Natale. Sai che brutto?”

“Che stupido che è.” Vittorio sbuffò corrucciando la fronte e incrociando le sue piccole braccia sul petto. “Non ti vuole bene.”

“Sì che me ne vuole. Tantissimo. Tantissimissimo. È solo paranoico.”

“E che cosa vuol dire?”

Mircea lo baciò sulla tempia perché era troppo, troppo bello. Con quei riccioli d’oro e quegli occhioni curiosi lo faceva innamorare e lo riempiva di una tenerezza invincibile. “Ascolta, Thor. Io e Lelio ci amiamo moltissimo. Che è ancora meglio di volersi bene.”

“Uao.”

“Sì, davvero. È una sensazione meravigliosa che ti fa battere forte forte il cuore e ti fa tremare un po’ le gambe e ti fa mancare le parole. E poi ti gira la testa e ti senti bene solo a guardare di lontano quella persona speciale. Poi, all’inizio, tutto ti sembra come avvolto in una nuvoletta rosa. Questo si chiama innamoramento. È quello che ti capita quando vedi la tua compagna all’asilo. Come si chiama?”

“Stefania.”

“Non è carina?”

“Sì!” Vittorio rise.

“Ma questo sentimento, che è una specie di palloncino nella pancia che si gonfia, e si gonfia, e si gonfia, finisce per occupare tutto lo spazio. Alla fine diventa indispensabile per vivere, perché uno si abitua alla sua presenza che fa il solletico. È bellissimo quando si arriva a questo punto e si scopre di non averne ancora abbastanza. A me è successo così con Lelio. Magari, quando sarai fidanzato con la Stefania, potrai capire quello che ti dico.”

“Sono già fidanzato con la Stefania.”

“Ah. Perché non me l’hai detto?”

Thor alzò le spallucce. “Ma allora se ti ama tanto doveva stare con te –“

“Lui è fatto così. Odia le cose disordinate, o le cose sporche, o le malattie.”

“Ma a te ti ama.”

“Vedrai che torna.”

Thor si appoggiò con la sua testolina riccioluta contro il petto di Mircea, che si era seduto contro la testiera del letto. “Lo sai che mi manca da impazzire? È un legame strano. Siamo così abituati a stare vicini, che non sopporto le lontananze anche più brevi.”

“Non capisco.”

“E’ come se quel palloncino che ho nello stomaco si sgonfiasse un po’.”

“Non sgonfiarti palloncino!”

“Thor, non toccarmi la pancia.”

Mircea abbracciò suo fratello stretto a sé. Lo adorava. In quel momento avrebbe potuto soffocarlo di baci, se non fosse stato pieno di raffreddore. Lo guardò mentre si addormentava tra le sue braccia, nel buio e nel caldo della camera da letto. Pensò a Lelio, a dove fosse in quel momento, a cosa stesse facendo, con chi lo stesse facendo. Sentiva come una stretta al cuore, o una contrazione al palloncino. Gli dispiaceva. Non era veramente triste, deluso, avvilito per come lui si era comportato – per il fatto di essersene andato mentre stava così male. Semplicemente, si sentiva solo e molto, molto geloso.

Anche se aveva provato a spiegarlo a Thor, non capiva la natura quasi morbosa di quell’attaccamento. L’aveva preso, quando era venuto, come qualcosa di perfettamente naturale, come un sentiero che stavano già percorrendo in quella direzione, e che procedeva sempre dritto. Molte volte si era soffermato a pensare se fosse giusto o no, se stessero sbagliando, se si stessero illudendo – se quella era la loro strada, se si erano solamente fatti trascinare dalla passione giovanile. Quello che non capiva Mircea era il futuro, perché era convinto che non ci fosse niente di male nel suo presente con lui. Ma aveva paura per ciò che sarebbe potuto succedere. Aveva paura che se un giorno si fossero mai lasciati per qualche motivo che andava oltre la sua comprensione, lui si sarebbe sentito proprio così, come quel pomeriggio buio, tra i cuscini della sua camera, solo, triste, abbandonato, inerme, malato, con un palloncino che si sgonfiava nella sua pancia. Solo, mille volte più acuito.

Questo non avrebbe potuto sopportarlo. Non poteva nemmeno pensare che un giorno lo avrebbe perso di vista, che si sarebbero allontanati, magari litigando, magari odiandosi e rinfacciandosi le cose come succede a molte coppie. Cosa avrebbe fatto a quel punto? Si sarebbe lasciato andare? Avrebbe ricominciato con qualcuno che, sapeva dal principio, non avrebbe mai potuto sostituire Lelio nella sua vita? E non era per questo che avevano deciso di stare insieme, nonostante le convenzioni, il buonsenso, i pregiudizi – perché si amavano, perché si piacevano, perché non volevano doversi separare, prima o poi? Decisamente si era trovato dentro ad un amore che era più grosso di lui e del suo buonumore perenne. Ma stava così bene –

La porta si aprì di nuovo. E questa volta era Lelio.

“Ciao, amore.” Sussurrò piano, entrando nella penombra, nel caso in cui Mircea fosse addormentato.

“Ciao!” Cea gli fece cenno di fare piano perché Thor stava riposando.

Lelio si avvicinò a lui con cautela, inginocchiandosi davanti al letto. “Mi sei mancato!”

“Ma se sono passate appena tre ore.”

“Sht –“ Lo baciò delicatamente sulle labbra. “Mi sento in colpa.”

“Mm-“ Thor socchiuse gli occhietti e stirò la schiena.

“L’hai svegliato, guarda.”

“Ciao Thor!”

“Sei tornato Lelio. Cea si sentiva solo–“

“Lo so. E mi dispiace.”

“Vai un momento dalla mamma, Thor.”

“Perché mi mandi sempre dalla mamma?”

“Thor –“

Vittorio si alzò tutto assonnato e se ne andò trotterellando verso la cucina.

Cea guardò Lelio. Lelio guardò Mircea.

“Mentre eri via ho pensato a Thor, sai.”

“Non a me?”

“A tutti e due. Tutti e tre. È un po’ come se fosse il mio bambino, no? Non ha il papà. Ma è anche un po’ il tuo bambino.”

“Sei ancora malato?”

“Sì.”

Lelio gli sfiorò la fronte calda. “Non importa.” Un bacio leggero nel silenzio e nell’ermetico isolamento di quella piccola camera preclusa al resto del mondo.

 

___

Perché mi mandi sempre dalla mamma? - che gioia che sei, Thor. Sei il mio amore. Vittorio è il mio personaggio preferito. E ho provato a far spiegare a Cea la natura del suo amore almeno un milione di volte - a se stesso, a Ottavia, a Lelio, a Die... Mi è riuscita solo con Thor. Perché ai bambini puoi parlare con quell'esattezza delle immagini che un adulto non capisce. E' il mistero delle cose dei bambini. I sentimenti li sentono e punto. A proposito... Hugo è per Hansi solo perché l'anno scorso la pubblicità la faceva Jonathan Ryhs-Meyers *ç*. Poi immaginate voi... Il libro è la raccolta delle fiabe dei Grimm... Cea ha un legame particolare col mondo della fiaba.

Ditemi che vi ho sorpreso, con la febbre! Please! 

 

Ghghgh. L'altra sera sono andata a vedere i Gamma Ray... alle due entriamo in autogrill -avevo una fame che stavo per collassare-, e penso ora ci insultano perché stanno riposando tutti. E invece... trenta persone vestite con la felpa degli Helloween & un'altra decina con la maglia di Sprengsteen (perché al Datch c'era pure il suo concerto) tra panini e brioches. Sto spendendo troppo in concerti. Non posso più permettermene fino a quello degli HIM u___u.

 

By the way...

ANGOLO DEI RINGRAZIAMENTI:

 

Manny_chan: I commenti sono sempre commenti. Io amo i commenti *quasi* quanto amo i Dream Theater, che è davvero molko. Non ti scusare mai per un commento ^_^ (a meno che non mi insulti). Davvero ti (vi) ha fatto ridere la scena Oh-mio-dio-abbiamo-fatto-quella-cosa-sulla-lista-dei-miei-difetti? Ha fatto un po' ridere anche me mentre la scrivevo, ma pensavo di essere l'unica a trovare vagamente divertente una scena così idiota. Perché, ammettetelo, è una scena idiota. Carina, ma profondamente stupida.

 

_Susy_: Don't worry. Ovviamente finirà tutto meravigliosamente - cioè, non meravigliosamente e vissero tutti felici e contenti. Ma è la Teoria del Compromesso. La impareranno a loro spese. Vedrete... Anche a te ha fatto ridere la scena della lista! Ti pensavo una persona seria. Sto scherzando XD. A quanto pare non sono la sola pazza. Parto sempre con l'intenzione di scrivere qualcosa di serio, significativo & magari utile al genere umano, poi purtroppo questa mia vena prende il sopravvento. Cioè, sono i personaggi stessi che me lo chiedono. E' Lelio, è colpa sua. Ha troppi difetti fastidiosi... mi diverto a prenderlo in giro, è come prendere in giro una parte di me stessa! Mi sento divertita da tutto ciò. Che altro dire --- aggiorna aggiorna aggiorna!

 

DianaV: Il faccino di Mircea io me lo sono immaginato, solo che non mi piace soffermarmi troppo sulle descrizioni - diventa tutto un po' pesante. A volte un gesto dice di più che un'interna moviola anatomica, comunque, per onor di cronaca, Cea si morde il labbro inferiore e guarda a desta e a sinistra. Immaginate che Cea si morda sempre il labbro, è un suo tic quando è imbarazzato. E' una cosa tenera, io la adoro. Ti capisco per la questione ironia. Anch'io ho un carattere del genere (tanti caratteri, veramente, ma uno in particolare così), tranne per l'autostima che è a livelli piuttosto normali, né troppo alta, né troppo bassa.

 

Ps - andate a leggere la mia nuova one-shot!

 

Au revoire, cari lettori & commentatori,

Baci <3 <3 <3

 

Love-in-idleness

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13. ***


AVVISO ALLA GENTILE CLIENTELA

AVVISO ALLA GENTILE CLIENTELA:

 

Mi scuso estremamente, umilmente & febbrilmente (eh?) per il ritardo enorme, il gap temporale, l'attesa inane eccetera eccetera eccetera, ma, sapete, ho seri problemi di connessione (oltre che una time table da suicidio titanico). Praticamente quando il mio piccy è acceso a casa mia salta la connessione. E' uno strano fenomeno di interferenza elettromagnetica che nemmeno fior fior di tecnici sanno spiegarsi. Chiamerò Striscia la Notizia, ma nel frattempo dovrete accontentarvi delle sporadiche volte in cui tempo & brother permettendo riesco a mettere le mani su un computer funzionante. Scusate ancora.

 

Giovedì diciotto Gennaio,

 

Una prospettiva tra Die e la finestra; un mare di blu; un esame; molti litigi; l’ambivalenza di un rapporto strano

 

I.

Die stava seduto sulla mensola della finestra, il libro tra le gambe. Studiava, forse. Nella sua mente, a tratti, scorrevano molte idee e molte situazioni che non riusciva a cogliere così velocemente ed efficacemente. Dietro a quel vetro appannato dall’umore della pioggia scrosciante che si schiantava e che disegnava sulla superficie traslucida motivi insensati e precipitosi, vedeva defluire un intero complesso di pensieri devastanti. Non riusciva a concentrarsi. La giornata era fredda nella maniera pregnante in cui sono fredde le giornate di temporale, e lo scuoteva in mille brividi inarrestabili. Appoggiò la fronte contro il vetro.

Era Gennaio. Era passato un mese esatto dal giorno in cui aveva rivisto Hansi, eppure quei momenti erano stati trascinati via dalla corrente delle ore con lo stesso fluido precipitare delle gocce contro le pareti. Aveva così voglia di uscire, di gettare via il suo stupido libro e di concentrarsi sulle belle sensazioni di freschezza, di pulizia e di sconfinamento che quel giorno buio, coperto, ovattato da una coltre spessa di nuvole pesanti e quasi oniriche nei loro colori plumbei, grigi, foschi, trasmetteva alla spossatezza della sua anima. Non una sola fibra di lui stesso poteva essere quieta. Tutto tendeva verso una voragine, che è l’abisso della coscienza, che è l’abbandono, che è il sonno, ed il sonno, talvolta, è morte interiore. Die si sentiva arido, e contemporaneamente rinvigorito dalla dolcezza della pioggia. E sentiva anche che quella pioggia non era pioggia, ma semplicemente – aspettativa.

Era casa di Hansi. Casa sua.

Come c’era arrivato?

Aveva pensato intensamente a lui, e a quello che c’era dentro di lui, che poi combaciava con quello che nascondeva dentro se stesso con tanto accanimento. Per due settimane si era come ritrovato immerso in un limbo incomprensibile, nella penombra, sul confine, entro la linea di demarcazione che separa gli opposti, ma che non è né l’uno, né l’altro, semplicemente il mezzo. Aveva cercato di fare chiarezza nel cataclisma del suo sconvolgimento morale, e si era deciso a vedere Hansi. La vigilia di Natale.

Hansi viveva da solo nel suo appartamento moderno e perfettamente arredato che era finanziato dal padre ad Anversa, e che quindi, nello scintillio dei suoi mobili e delle sue finiture, era fatto tutto per lui. Die aveva sempre pensato che Hansi fosse una persona estremamente lontana dalla passione, e, interiormente, piuttosto fredda. Almeno, aveva sempre pensato così anche di se stesso. Allora non capiva molte cose – non capiva cosa significasse quell’improvvisa felicità nel vederlo e nello sfiorare la sua mano mentre gli porgeva il regalo impacchettato in una carta argentea col nastro dal fiocco blu, non capiva la strana sensazione di contentezza nel salire in ascensore accanto a lui, anche senza dirsi una parola, anche senza toccarsi, anche senza guardarsi, non capiva nemmeno quella piccola, accidentale assenza momentanea che aveva trasformato la sua Notte Santa in un piccolo, luccicante momento di serenità. Hansi era danese, aveva i capelli biondissimi e corti, la carnagione rosea, gli occhi sottili di un azzurro quasi trasparente, le fattezze delicate, e Die lo associava spesso alla luce dei neon, abbagliante e chiara, perché possedeva una sorta di aura traslucida ed opalescente che creava attorno alla sua persona una forte dimensione magnetica ed abbagliante. Anche la sua casa era così, possedeva quella luminosità subitanea e  fulgida, ma bianca e vacua. Tutto era moderno, ottimizzato, squadrato, preciso, rigoroso, funzionale, abbacinante – acciaio, tanto acciaio, e pareti bianche e azzurrine, e tende blu, e tappeti blu, e divani blu, e lenzuola blu bordate di argento. Più ci pensava, più Die si convinceva che la maniera maggiormente efficace per descrivere Hansi fosse dire – blu elettrico. Ed era strano accostarsi al blu elettrico, perché lui era un nero profondo e scuro, e blu e nero non si combinano splendidamente.

Così aveva scoperto quella casa blu e aveva imparato ad apprezzare la sua freddezza e la sua muta volumetria, tanto vicina alla personalità più superficiale di Hansi. Si era fermato per la cena, e per il dopo cena, ed aveva dormito tra le lenzuola blu, profumate della sensazione remota e sfocata di anni passati, la testa di Hansi poggiata sulla sua spalla e il suo respiro lento che gli accarezzava il collo, si era svegliato lì ed era il Venticinque Dicembre – Hansi l’aveva lasciato dormire fino alle nove di mattina, poi l’aveva svegliato saltandogli addosso perché era tardi e bisognava aprire i regali, ed era incontenibile -, aveva trascorso con lui tutto il giorno, e di nuovo la notte, e di nuovo un altro giorno, e di nuovo un’altra notte, e di nuovo un altro giorno, ed ormai erano venti giorni che tornava.

- Mi sta succedendo qualcosa – Si disse.

Soprattutto non capiva perché si stesse comportando in quel modo. Hansi soffriva di sbalzi d’umore incomprensibili. Un momento litigavano ferocemente perché Die continuava a studiare la sua matematica e a comportarsi come se non fosse in casa sua, come se la sua vita si fosse mantenuta identica a se stessa; il momento dopo gli chiedeva scusa, e gli diceva che lo adorava, che non voleva più doverlo perdere, che aveva paura a chiudere di nuovo quella porta.

Riflettendoci, Die capiva che si trattava di una situazione paradossale. Viveva in casa di una persona che era stata molto intima, ma che aveva perso per anni, e che conosceva di nuovo da un mese appena. Rincontrare qualcuno dopo così tanto tempo, significa trovare un estraneo. Ed in parte era vero. In parte stava accanto a lui, che gli era completamente sconosciuto, ma che lo incatenava a sé follemente, con una passione innegabile. Si sentiva pazzo. Litigavano troppo. Litigavano sempre ed un secondo dopo facevano l’amore, e Die pensava di odiarlo e di amarlo, intervallando questi stati d’animo ad una velocità frenetica. Cosa gli sembrava?

Anche allora, mentre Hansi dormiva quietamente nel suo letto comodo, Die aveva l’impressione di amarlo e di dovergli delle cose così grandi da sconvolgerlo, di volerlo toccare, di volerlo svegliare affettuosamente per riempirlo di baci e ringraziarlo; ed immediatamente sapeva che nel momento in cui lui si fosse alzato avrebbero cominciato ad urlare l’uno contro l’altro. Sapeva che sarebbe uscito sbattendo la porta e che sarebbe rientrato entro l’ora di cena, perché oramai si rendeva conto di non aver altro luogo dove andare. C’aveva provato ogni giorno, ed era stato un fallimento. Non aveva più nemmeno la voglia di tentare. Perché Hansi lo metteva di fronte ad un tale dissidio? Perché lo amava, ma odiava le sue decisioni? Perché non poteva fare a meno di lui.

Non voleva scegliere. La sua situazione lo esasperava, era consapevole del fatto che la sua pesantezza lo avrebbe logorato fino a porlo davanti ad una scelta. Non voleva scegliere. Non voleva più rinunciare a qualcosa. 

Hansi si mosse sotto le coperte come un gatto. Il torpore del sonno lo avvolgeva ancora assieme al caldo confortevole del letto che abbandonava. La stanza era immersa nel buio delle sette di mattina di una notte piovosa che si stava sciogliendo nella luce del giorno nascente, ma che ancora veniva soggiogata da luminose coltri blu iridescenti e scrosci rumorosi. Nello stordimento del risveglio non vide subito Die, seduto sul davanzale contro la finestra nel tentativo di sfruttare la minima luce per leggere il suo libro. Si accese una sigaretta.

“Die –“ Lo richiamò.

“Ti sei svegliato? È presto, puoi tornare a dormire. Oggi il tempo è triste.”

“Die –“

“Sì?”

Si sedette a cavalcioni su Hansi. Gli sfilò la sigaretta appena accesa dalle mani affusolate di bassista e tirò una volta, per poi spegnerla nel portacenere sul comodino.

“Cosa stavi facendo Die?”

“Cosa vuoi da me?”

“Nulla.” Hansi lo afferrò per il bavero della camicia cominciando a baciarlo sul collo.

“E allora perché continui a chiamarmi per nome?”

“Stavi aspettando che mi svegliassi?”

“Ripassavo.”

Hansi lasciò la presa facendo ricadere le braccia sul materasso. Lo guardò con occhi sgranati in cui, Die si accorse, si dipinse subitamente il fuoco dell’ira alla quale era così propenso. Alla quale erano così propensi.

“Ripassavi. Ripassavi. Ti ho detto un milione di volte che odio questi maledetti libri di matematica, e che odio la tua maledetta facoltà, che non la sopporto, e che nulla di tutto ciò deve entrare in casa mia!”

“Ma io ho un esame, oggi.”

“A me non interessa!” Hansi stava già gridando. Il suo bel volto delicato era contratto in un’espressione di rabbia violenta e contrita. “Non – mi – interessa! Lo odio. Smettila!” Prese il libro e lo sbatté con forza contro il pavimento, il più lontano possibile da lui.

“Non puoi. Non puoi fare così. Non puoi decidere cosa sia giusto o sbagliato per me e non puoi sbattere il mio futuro sul pavimento!”

“Il mio futuro. Il mio futuro! Stai dicendo un sacco di idiozie! Il tuo futuro non è in nessuno di quegli stupidi libri, è con me, con me, hai capito? Ti odio, scendi dal mio letto immediatamente!”

“No, tu mi ami, Hansi.” Ribatté Die con tono calmo.

“Ti odio!” Hansi spinse Die, che era ancora accovacciato sopra le sue gambe, giù dal letto. “Non voglio più vederti, mi fa schifo il tuo mondo e il tuo modo di pensare e tutto quello che sei voluto essere, e mi fa schifo averti tenuto in casa nonostante questa consapevolezza!”

“Mi stai sbattendo fuori?”

“Ti odio!”

“Non gridare così amore –“

“Ti – odio, e voglio che tu te ne vada coi tuoi maledetti esami!”

“Come puoi pensare di odiarmi solo per questo? Sei un idiota. È quello che penso di te. Un idiota che non capisce la direzione in cui gira il mondo e che vive sospeso su ideali a fantasticherie che presto si scontreranno con la realtà.”

“Tu non pensi questo di me.”

“E tu non mi odii, bastardo.”

“Ti ho detto di andartene.” Hansi si alzò e lo raggiunse. Gli parlava a fior di labbra. “Sei solo un fallito e passerai la tua vita in un mondo grigio. Non voglio grigio in casa mia.”

“E tu sei solo un illuso che vive sui soldi del suo papà molto ricco.”

“Vat-te-ne.”

Hansi lo baciò con foga. Anche se avrebbe dovuto spingerlo via. Adorava maltrattarlo, adorava litigare, adorava avere ragione fino a farlo piegare sotto di sé, per poi farsi coccolare. Gli morse il labbro fino a farlo sanguinare. Sentì nella sua bocca il sapore metallico di Die e lo morse ancora più forte, eccitato da quell’improvvisa crudeltà carnale. Die sospirò un altro insulto nel bacio. “Ti ho rotto il labbro.”

“Non importa.”

“Ti amo.”

“Lo vedi come sei incostante?”

“Ti amo. Mi dispiace.”

Lo baciò sulla guancia, facendolo appoggiare contro il suo petto. In quei momenti lo sentiva davvero debole, fragile, incerto, e si vergognava per il modo in cui aveva infierito su di lui.

Lo lasciò riposare così per molto tempo. Non sapeva se stesse dormendo o se avesse solo gli occhi chiusi. Sentiva il suo respiro che si regolarizzava e il suo corpo che veniva scosso da tremori. Lo abbracciò fortemente per un tempo che non avrebbe saputo quantificare.

“Hansi, ti fa male?” Ogni tanto provava a parlare per non cadere nella tentazione di addormentarsi.

“No.”

Era una bugia – “Bene.” Rispose.

“Ti amo, lo sai.”

“Anch’io, da morire.”

“E’ che mi fai paura. Mi faccio paura. A volte penso che l’unica cosa che davvero possiamo fare insieme è il sesso.”

“A volte lo penso anch’io, ma poi mi convinco che non è neanche vero questo, perché uno di noi sta sempre male.”

“Die, ti prego, lascia stare la matematica. Sei un genio, è vero. Ma non è il tuo spirito. Sei un musicista.”

Die aspettò qualche minuto in silenzio pensando a quanto fosse difficile essere posti davanti a quella scelta, e a quanto fosse assurdo per lui essere così vincolato a una persona, a un ragazzo, da mettere in forse tutte le sue certezze.

Si alzò dal letto e andò in bagno. Hansi avvertì il rumore dell’acqua scrosciante della doccia e si sentì improvvisamente di nuovo invaso dalla collera. Si costrinse a respirare profondamente finché Die riemerse dalla porta e cominciò a vestirsi.

Was machst du?” Un sibilo tagliente come una lama di rasoio.

“Hansi devo andare in Università. Questo non significa che non ti ami.” 

“Die –“ Si sollevò sul materasso avvolto dal lenzuolo e lo guardò dritto negli occhi – “Dovresti rimanere con me."

“Hansi, il colore della tua pelle crea un contrasto meraviglioso con queste lenzuola. Ma è meglio senza.”

“Allora –“

“Hansi, devo categoricamente andare.”

“Devi andare! E vattene – non capisci niente di quello che ti dico. Vattene in università!” Prese i vestiti che aveva gettato a terra e li lanciò oltre la porta della camera.

“Lo sai, signorino-troppo-viziato? Questa volta me ne vado davvero!” Uscì sbattendo la porta della loro camera da letto.

“Certo è proprio quello che voglio! Sei un idiota!”

“Non sono io l’idiota!”

“Vai via!”

Die si rivestì in fretta e furia in cucina.

“Sappi che se uscirai da quella porta ora non ti lascerò più entrare, hai capito?”

“Certo! Addio!”

Die uscì sbattendo di nuovo la porta d’ingresso, la camicia abbottonata male, i pantaloni aperti, i capelli spettinati, libri, cappotto, sciarpa, borsa in mano. Si sistemò in ascensore.

Era già arrabbiato col mondo di prima mattina. Da quando stava con Hansi gli capitavano molti sbalzi d’umore dai picchi più disparati – un momento si sentiva in paradiso, un momento avrebbe desiderato spaccare il mondo.

Ma in fondo era una rabbia passeggera. Die sapeva, sapevano entrambi, che sarebbe tornato a casa per l’ora di cena.

 

 ___

Oh-oh-oh! Ho una marea di cose da raccontare in questo random corner. First of All: BUON NATALE, nel caso posti prima di Natale, sennò BUON RESTO DELLE FESTE! In mezzo c'è anche il mio compleanno, quindi Auguri  Marto!

 

Illo tempore, misi il mio profilo nell'account. E andava tutto bene, sul mio piccy. Ma a quanto pare il mio piccy ha delle disfunzioni rispetto agli altri computer del mondo, quindi non mi stupirei se qualcosa fosse andato storto. Accendendo il computer del mio bro, ho notato che è scritto in oh-così-minuscolo. Sareste così gentili da dirmi se lo visualizzate ad una grandezza dignitosa? Grazie Mille. Io odio il mio computer.

 

Ed ecco la mia nuova passione - che sta quasi per battere i Dream Theater (incredibile!): ovvero i Led Zeppelin. Sono letteralmente folgorata. Cioé, la cosa sarebbe finita lì, se non fosse che il cantante, all'epoca del suo splendore, oltre a essere gnocco nel vero senso della parola è pure UGUALE alla mia immagine mentale di Mircea. E' incredibile. Io ero a bocca aperta. Biondo, riccioli d'oro, occhi azzurri, alto, slanciato, pancino piatto, sexy, modo accentauto di gesticolare e toccarsi i capelli e fumare e ridere sempre e dire cosmic energy (ebbene sì) e sguardo malizioso. Ok, Cea non è malizioso e non ha peli sul petto, ma è praticamente Robert Plant! Io ho un dono di preveggenza wahahahah! Per non dire che lui e Jimmy Page erano terribilmente slashy togheter. Oh, andatevi a documentare. Ne vale la pena. Soprattutto musicalmente, visto che i suddetti hanno recentemente passato la sessantina, ahimé.

 

In ultimo, ho una notizia devastante. Almeno, io sono rimasta devastata. Ho conosciuto una ragazza romena e le ho chiesto dell'origine del nome Mircea. Lei mi ha sorriso gentilmente e mi ha detto: "Si dice Mircia." MIRCIA? MIRCIA! Avevo davvero intenzione di chiamare mio figlio MIRCIA? Sono una donna disperata...

 

*

 

RINGRAZIAMENTI (MOLKO DI CORSA; SCUSATE):

 

_Susy_: Oh, My love. Aspettavo trepidante la tua recensione. Ti rifaccio gli auguri di buone feste, e beh, sì. La tua analisi è azzeccata. Lelio soffre di manie compulsive, ed il fatto che sia tornato da Cea è qualcosa di veramente speciale per lui. Ha già fatto molko. E io AMO Johnny (o Ugo, come lo chiamo per semplicità). Specialmente nei panni di Ziggy Stardust.

 

Diana V: non preoccuparti dei paciughi con le recensioni. Mi capita spesso è___é. E' proprio come hai detto te. Non importa perché a Lelio di solito importa. Perché è un rompiballe, fondamentalmente. E' più forte di lui. Eppure Amor vincit omnia o qualcosa del genere. Qualcuno conosce il latino? Ia gavariù ruskii iisik... Grazie un milione per il commento ad Aubade, mi ha fatto morire di piacere.

 

Manny chan: Grazie di tutto. Grazie per il commento di Aubade, per il commento all'altra long shot di cui non ricordo il titolo definitivo e per questo. Ti adoro. I love you. Ia tebia lubliu. Chissà quando avrò una tastiera per il cirillico, uffa... Scusa la fretta convulsa ma la linea potrebbe saltare da un momento all'altro. Grazie, grazie, grazie.

 

Vi adoro! TUTTI! Alla prossima

 

Love-in-idleness

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14. ***


Well

Well, lo so che è passata un'eternità dall'ultimo aggiornamento. E so anche che è poco piacevole centellinare una storia con questa esasperante lentezza, perché uno vuole anche sapere come va a finire... mi spiace davvero, ma sfrutto ogni singolo ritaglio di tempo che ho. Se vi può consolare, ho terminato di scrivere questa storia un anno fa, quindi comunque, prima o poi, leggerete la fine. Patience!

 

 

Domenica venticinque Febbraio,

 

Una scatola magica piena di vecchie fotografie; una letterina; alcuni raggi di sole e molte, molte riflessioni sull’oggi, sul domani, sulla Primavera

 

I.

 

            Ho trovato una scatola magica mentre sistemavo i tuoi armadi. Forse te la ricordi, probabilmente l’hai dimenticata, perché la tua memoria è quanto di più pessimo ci sia su questa terra. La scatola è rettangolare e tutta azzurra e bianca,  di cartone spesso. Emana ancora un incredibile odore di lavanda, tua mamma deve averci messo dentro un sacchettino profumato quando l’ha ritirata, di quelli ricamati che si chiudono col cordoncino–

Era la scatola delle nostre fotografie. Di quando eravamo piccoli e dolci e puri e non pensavamo a Tutti-i-Mali-del-Mondo, o a queste cose qui, e la nostra vita scorreva nella pienezza incosciente e meravigliosa dell’avere cinque anni. Eravamo molto belli e molto simili a come siamo adesso. Soprattutto tu. Ho chiesto a tua madre di poterle vedere e lei mi ha lasciato la scatola con tutti i nostri ricordi – sorpresa! Ho trovato i lavoretti che facevamo all’asilo. Hai disegnato noi due coi piedi a forma di ruota. Non eri un granché in disegno. Io, invece, ero bravissimo.

Volevo farle vedere a Vittorio. E  volevo farle vedere a te. Sai, in questi giorni penso molto al nostro tempo, al nostro presente, al nostro futuro. Rivivere per un momento il passato non può che infondermi un po’ di consolazione.

Scusa le macchie di caffè. Mi è scivolata la tazza mentre parlavo al telefono con Ottavia e mi faceva ridere.

Ah, sì, per quando ti sveglierai: – buongiorno Mircea.

 

II.

Mircea si era seduto sul tavolino, illuminato dai raggi di sole. Mentre Lelio mostrava a suo fratello le foto di quando erano piccoli, lui si perdeva guardando lontano fuori dalla finestra. Tutta quella luce doveva avere un suo scopo, pensava, nel disegnare il mondo. Doveva viaggiare un milione di chilometri ed attraversare le galassie, e l’universo, per precipitarsi proprio sulla Terra, sulla Città. Era forse un luogo più bello che gli altri? Un luogo più meritevole? A volte credeva che quel percorso fosse pura follia. Se lui fosse stato un raggio di sole, una luce qualsiasi, e avesse potuto scegliere una sola direzione in cui viaggiare, un solo vettore per cui muoversi, avrebbe deciso di tendere verso un luogo felice, bello, meraviglioso. Magari nell’intero cosmo non esisteva un luogo migliore della Terra, perché, ammetteva Cea, vista da fuori sembra una palla scintillante di verde e di blu, ed è molto più suggestiva che la desolazione degli altri pianeti. O magari i raggi di sole non possiedono libero arbitrio, e non decidono della loro direzione, solo, sono sospinti da imprescindibili leggi matematiche e fisiche che vincolano la loro inclinazione a seconda delle sorgenti di luce da cui scaturiscono.

Mircea capiva un’altra cosa, e si chiedeva come ci fosse arrivato, perché quel genere di pensieri era tipicamente di Lelio, mentre lui si limitava ad assorbire le cose del mondo e a pensare che tutto andasse comunque bene. Osservava la luce rigogliosa profondersi in cascate sui vetri della Città, attraversando deserti siderali, portandosi dietro la scienza ed il sapere eterno di un Dio esteso ovunque, unilateralmente, compressa in un viaggio durato millenni ed immagazzinata in semplici impulsi fotonici – non conteneva in sé un mondo? Non aveva vissuto un miliardo di vite e di saggezze, assorbendo ogni cosa e rendendosi sempre più viva, più sacra? Ora scendeva nel declino della sua parabola sconfinata e precipitava come lance sul confine del mondo. Rimaneva sospesi per un attimo negli occhi di chiunque avesse alzato lo sguardo e l'avesse ammirata, accecandosi, poi si schiantava, deflagrava e nell’impatto si spezzava in mille frammenti, in mille scintille. I riflessi battevano sulle porte delle case ed annunciavano l’avvento di una nuova, magnifica giornata. Si rifrangevano contro il vetro della sua finestra e penetravano come un fiume dorato fino a colpire il tavolino di cristallo, e a baluginare nel chiuso spazio volumetrico della stanza. Allora la riempivano del loro calore.

“Lelio, sai, sei io fossi un raggio di sole vorrei rotolare in questa stanza, in questo momento, e morire felice affogato nei visi delle persone che la abitano.”

“Scusa?”

Mircea gli sorrise gentilmente. “Nulla. I raggi di sole hanno qualcosa di commovente per via del loro suicidio quotidiano.”

Vittorio scrollò le spallucce senza capire a cosa suo fratello si riferisse. Aveva steso le foto che gli piacevano di più sul pavimento, e si era messo a giocare.

Lelio scattò una fotografia. A Mircea, mentre assorto, preso da mille pensieri leggerissimi e dirompenti fissava con insistenza qualcosa oltre la finestra.

“Vorrei farti un ritratto.”

“Mm?”

“Intendo, mi piacerebbe esserne in grado. Sarebbe una rappresentazione grandiosa, e sacrificherei in esso la passione intera della mia vita, perché sarebbe la realizzazione del mio obbiettivo più grande – la rappresentazione della Bellezza, e di tutto ciò che la Bellezza, con le sue ambivalenze, comporta. Sarebbe come completare l’opera della mia esistenza. Ci penso da molto, vedi. Penso ad un soggetto ideale per contenere in sé tutti i sentimenti del mondo nel medesimo istante, in equilibrio. Il giorno che l’avrò realizzato sarà come dire che ho dato un senso alle mie cose, a me stesso, sarà come ammettere che avrò raggiunto quell’armonia che sento sfuggirmi da una vita e che tu, ogni tanto, riesci a farmi provare. Per questo credo che sia tu il mio modello. Forse un giorno avrò il coraggio di farlo. Terminare un lavoro del genere mi spaventa – significherebbe aver compiuto il proprio percorso e non avere nient’altro di nuovo da scoprire, da assaporare, da amare. Nient’altro in più. E il quadro diventerebbe improvvisamente la rappresentazione della mia anima. Allora ho paura di farlo. Credo che aspetterò. Prima o poi verrà il momento. Prima o poi la mia campana suonerà. Sarà quando avrò definitivamente raggiunto quella pace che è perfetta combinazione tra Ordine e Caos. In un certo senso sarà il mio momento migliore, il mio ultimo bene, quello supremo, eppure sarà anche perdita del mio sfrenato movimento e di questa ricerca che, in fondo, mi ha regalato davvero tanto. Arriverà comunque per forza di cose. Non posso girare per tutta la vita. Se per quel giorno tu sarai ancora qui accanto a me, avrai un posto nel mio quadro migliore. Per ora guarderò la tua fotografia e penserò a questa luce suicida attorno al tuo viso.”

“Certo che sarò ancora qui con te!”

“Ho deciso che è a questo che voglio votare la mia vita. All’Arte. È definitivo. Mi iscrivo all’Accademia.”

“Così non saremo più insieme.”

“Cea, non mi iscriverei mai e poi mai a Filosofia. Rassegnati. È destino. Ed è naturale come lo è stato tutto nella nostra storia – le persone vanno e vengono, nell’arco di una vita si avvicinano, si sfiorano, se ne vanno.”

“E’ proprio questo che temevi.”

Lelio rise. “Sono solo separazioni inutilmente brevi! Hai ragione,” Disse. “E’ vero. Ho avuto paura che un giorno ci saremo potuti allontanare fino a non conoscerci più. Ma non sarai mai questo il nostro caso. Ormai siamo legati da un vincolo troppo forte. E poi ritornerò qui per forza di cose ogni pomeriggio, e ogni sera. Alla fine saranno minime le ore che dovremmo trascorrere separati.”

“Saranno estenuanti lo stesso.”

“E’ solo questione di abitudine.”

“Appunto.” Mircea si zittì per un secondo, dimenticandosi delle inclinazioni dei raggi solari e sedendosi tra le gambe di Lelio. Guardò Thor che giocava senza preoccupazioni.

“Io credevo che dopo la morte di mio padre la mia vita fosse cambiata radicalmente, ed avesse preso una svolta insostituibile. Mi sono trovato a sedici anni con una madre depressa ed un bambino che aveva me come unico modello di riferimento. Invece oggi mi sveglio e penso che tra pochi mesi succederà una rivoluzione della stessa portata nella mia vita. Non dolorosa come la perdita di un genitore. Anzi, per certi versi addirittura attesa. Forse ce ne andremo da qui, no? Avremo una casa nostra e studieremo solo quello che ci piace. Per la prima volta sarà immergersi nel mondo che abbiamo sempre guardato attraverso la finestra della nostra cameretta sicura. Ed è abbastanza sconvolgente se ci pensi. Due giorni dopo aver preso la patente ho realizzato – Mio Dio, ho la patente! E questo non vuol dire solo che suo guidare, ma implica un milione di altre cose, tra cui il fatto che sono in mezzo al traffico, e sono responsabile, e se domani volessi partire per Berlino potrei salire in macchina, andare, e non tornare più. Nessuno potrebbe dirmi nulla.”

“Io potrei dirti un sacco di cose.”

“Ma alla fine posso decidere per me stesso quello che mi sembra il meglio. Sta tranquillo non voglio fuggire in Germania. Era un esempio stupido.”

“Ed è di questo che hai paura?”

“Del cambiamento. L’ho affrontato una volta. I cambiamenti radicali sono devastanti. Ho le mie abitudini e le mie giustificazioni. Poi il mondo cambia per me e crolla la terra sotto i miei piedi.”

“E’ quello che anch’io, prima, volevo dire.”

“L’avevo capito.”

Lelio soffiò sulla spalla di Mircea. Un raggio di sole più fitto illuminò tutta la camera. Thor aveva smesso di giocare e li guardava sorridendo.

“Cosa c’è, amore?”

“Sei tutto rosso! Volio andare a fare un giro nel parco. Fa caldo oggi.”

Faceva caldo. L’aria diventava più fresca e più sottile mentre la Primavera si depositava gentilmente su un mondo che si svegliava pian piano dal letargo invernale. Mentre Mircea prendeva Thor per mano e gli infilava il cappottino con la sua bella sciarpetta rossa, Lelio pensava che fosse un episodio stupefacente di una giornata qualsiasi di fine Febbraio, sovrastata da uno splendido cielo sereno, e che anche in quella nuova stagione entrava qualcosa di reiterato, di propagato all’infinito in un ciclo continuo ed eterno che recuperava la speranza dalle proprie ceneri. Il tempo, gli sembrava, poteva affrontare spensieratamente le implicazioni del Cambiamento senza mai una briciola della paura mortale. Perché alla fine era un moto universale, ma era soprattutto un moto umano. Perché anche tutto ciò, nel suo movimento perpetuo e nella sua dialettica inarrestabile, possiede una certa quantità di bellezza per ogni cosa che è nuova, e fresca, e ordinata dalle leggi della natura, e pulsante di vita e di passione.

 

 

___

 

Sono tanto stanca e depressa e quindi per oggi niente commenti stupidi. Devo finire di studiare quel maledetto Lermontov. Maledetto... Maledetto lumicino piagnucoloso! Scusate. Oggi sono fan di Pirandello. Comunque siete andate a cercare la foto del bellissimo Roby ai tempi d'oro dei Led Zeppelin? Vabbé... Ho in tasca il biglietto per gli Him e sono contenta, sono innamorata e sono infelice perché lui è davvero tonto, non so più come farglielo capire. E poi ho il maledetto Lermontov e tutti gli autori russi dell'Ottocento che sono quasi Byron versione più enfatica e piena di sospiri... mm...

Lo scorso capitolo non mi piaceva, lo ammetto. Andava scritto, ma non me lo sono mai sentito dentro. Qui invece c'è una grande parte di me stessa, me stessa l'anno scorso in preda al terrore del cambiamento - me stessa dopo l'esame della patente XP -, quindi è come se in un certo senso fosse vivo e contenesse tutto quel sole, non so se sono stata chiara. Non so neanche se vi potrà piacere o vi annoierà, ma c'è dentro qualcosa di molko vero e sentito.

 

SI RINGRAZIA -  Manny-chan che ancora pazientemente attende gli aggiornamenti. Il capitolo è tutto per te. Sono fiera di averti fatto conoscere i Dream Theater. Sono contenta che ti piaccia lo sfondo sentimentale dietro Die e Hansi, perché io a volte mi ritrovo a dire - boh... Questi personaggi sono nati teste di *** sulla carta, quindi fanno quello che vogliono senza rispetto per l'autorità indiscussa (cioè io). Presto si comporteranno meglio (e poi ancora peggio). Comunque tutta la vicenda cerca di tendere verso un equilibrio, alla fine. E poi odio le traggggedie!

 

Baci, alla prossima (spero presto)!

Marto

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15. ***


Ok

Lo so, sono una bestia! Ci ho messo così tanto ad aggiornare! Perono! Spero di essere più rapida, per i prossimi...

 

Ok, questo è il mio capitolo preferito. Lo ammetto. There you are. Dadicato a Manny-chan che coi suoi casini nei commenti mi fa davvero ridere (in senso buono!!!).

 

Martedì ventisette Febbraio,

 

Una retrospezione dalla parte di Die – La cometa; la coperta; il mare; la natura e molte altre cose.

 

[Stars]

 

I.

Wish upon a star –

 

Ho posato il mio desiderio su una stella. Una notte fredda ho definito così il mio destino, senza nemmeno saperlo. Il bagliore lontano della mia stella avrebbe dovuto sussurrarmi la dolcezza della sua realizzazione, le vibrazioni della sua luce, proiettate a distanza siderale nel mio cuore, avrebbero dovuto ricordarmi la speranza di vedere sempre una parte di me stesso illuminata, felice.

La stella non è né un ombra né un abisso. Appesa alla volta blu della galassia sembra sorridere verso la terra e consolare l’anima asciugandone via le lacrime con la brezza della notte abbagliante. Le stelle sorridono, brillano, costantemente. A volte muoiono, perché, in fondo, nemmeno la loro luce è eterna. Ma esse non sono solo un’illusione destinata ad implodere in una gigantesca voragine di nero denso, non sono solo la parvenza benigna di una ferita crudele e di un paradosso scontato.

A volte, guardando il cielo, guardando la bellezza di questo mondo e del mondo intelligibile sopra la mia testa, ho come l’impressione che nulla, neanche il ricordo più sentito, permarrà per sempre, e che ogni molecola di questo universo sia destinata a dissolversi nella consunzione. La vita è un cerchio perfetto. Una stella si spegne mentre un’altra riprende a battere, a pulsare nel suo splendido scintillio rincuorante. Anche l’Amore funziona in questo modo. Per qualcosa che si ottiene c’è qualcosa che va necessariamente perduto. Prima o poi un amore diventa un buco nero e risucchia tutto ciò che lo circonda. Un amore sfiorisce e un’altro rinasce. Una rosa appassisce, una rosa sboccia. E questo contrasto manda avanti il mondo, lo trascina nel cambiamento, nella progressione. Nella Rinascita. Un’altra notte, se starò attento, potrò scorgere le avvisaglie della catastrofe, ed accarezzando la stella con sguardo dolce e comprensivo potrò vederla brillare più intensamente per poi morire in una deflagrazione grandiosa. Potrò prendere il mio desiderio e posarlo su un’altra stella appena nata, ancora candida, ancora piccola ed incerta, coltivando la sua luce con amore, e pensando: un giorno anche questa favilla sarà una guida abbacinante, un monito irresistibile. Brucerà nel cielo alimentano il desiderio cresciuto sulla sua materia immacolata.

Il desiderio che ho poggiato sulla mia stella, la Felicità.

 

II.

Mi domando se le stelle siano illuminate

perché ognuno possa un giorno trovare la sua –

 

[A. de Saint Exupery, Il Piccolo Principe]

 

“Sei come una specie di rosa con le spine, ma, sai, le spine non servono a niente, perché i fiori sono deboli.” Dissi. Non sapevo perché. Quel pomeriggio ero andato a trovare mio fratello, e Vittorio mi aveva chiesto di leggergli una delle sue fiabe per bambini. Il libretto breve tutto pieno di stelle, di rose, di pianeti e di malinconia mi aveva riversato nel cuore una certa delicata, intangibile tristezza. Con questa prospettiva scintillante e molto semplice, molto delicata, avrei guardato le cose e le avrei studiate per un po’, perché una parte di tali parole era riuscita a penetrare in me e a farmi pensare che, forse, quelle avventure spaziali non erano solo fantasticherie di bambini, ma un mondo di concetti importantissimi spiegati nella maniera più ingenua e toccante.

Mentre leggevo ad alta voce della rosa del Piccolo Principe, avevo pensato che Hansi fosse un po’ rosa, ed io fossi un po’ il Piccolo Principe. Avevamo una storia ed un legame molto simile, in fondo.

Abitavamo su una stella. Una stella che era tutta nostra, ma che era anche l’ideale, una stella minacciata da mille avversità, una stella su cui potevo vedere cento albe e cento tramonti in un giorno, una stella dalla quale fuggivo per non doverlo più ascoltare. E Hansi aveva quelle spine commoventi – quelle spine che i fiori credono paurose, per sentirsi forti, e che feriscono senza mai proteggerli davvero. La rosa era vanitosa e pretenziosa. Voleva tutto per sé, ogni attenzione, ogni pensiero, ogni gesto. Così io avevo lasciato la mia stella, e avevo cercato un posto migliore. Nel transitare attraverso un percorso infinito di pianeti avevo incontrato le situazioni e i tipi umani più disparati, e alla fine mi ero reso conto di voler solo ritornare alla mia stella. Alla mia rosa. Anche abbandonando tutto il resto. Non c’era nulla di più triste e suggestivo.

“Cosa?” Mi rispose Hansi.

“Niente,” Risi scuotendo la testa. “Pensavo che sei come una rosa vanitosa, e che tenti di farmi credere che sei forte, mentre sappiamo entrambi che hai bisogno di me.”

“In questo momento potrei anche dirti che hai ragione.”

“Sai cosa diceva il Piccolo Principe della sua rosa malaticcia? Diceva che non avrebbe mai dovuto ascoltarla. Avrebbe dovuto annusarla, e guardarla come tutti i fiori. La rosa era tenera, ma mostrava solo quella sua stupida vanità. Il Piccolo Principe non poteva capirlo subito, perché era troppo giovane per realizzare tutto quell’amore. Dopo essere partito, però, pensava sempre alla solitudine e alla dolcezza nascosta della sua rosa.”

“Dove vuoi arrivare con questo?”

"Tu sei vanitoso ed egoista, ma lo sei solo in superficie, e nascondi sotto il tuo sprezzo, e sotto la maschera di ira un mare di tenerezza. Ti vergogni a dirlo.”

“Non è vero.”

Mi chinai per baciarlo e lui mi lasciò fare, proprio come se non avesse appena negato l’evidente verità delle mie parole. In quel momento mi sembrava di vivere un idillio . Capitemi bene, sapevo che non sarebbe durato, e che presto ci saremo rimessi a litigare scagliandoci addosso insulti e cattiverie. Non eravamo aulici come il Piccolo Principe e la sua rosa, ma comprendevamo la stessa difficoltà che è l’accettazione l’uno dell’altro. Allora credevo che avremmo avuto ancora molta strada da fare per arrivare al nostro traguardo di aurea mediocritas. Per il momento gustavo l’attimo che mi si presentava, lo afferravo senza cercare in quelle stelle il mio futuro, senza scrutare le cabale babilonesi.

Un altro inverno finiva per me. Quell’ultima notte della stagione era avvolta dall’alone luminoso del buio opalescente, brillante – non del buio denso e scuro delle sere di tempesta. Era un blu che poteva penetrare la vista, ed era proprio il colore di Hansi. Tra i rami degli alberi si cristallizzavano gocce di pioggia caduta ore prima e sfumata nell’alone del tramonto, ghiacciata nel gelo della notte, su cui si rifrangevano i nastri argentei della luna, cadenti come mercurio sulla nostra faccia. Sentivo il rumore del mare ancora agitato per l’acquazzone del pomeriggio. Anche il terreno era bagnato per la pioggia, e dall’erba si alzava una sorta di nebbiolina perlacea ed umida. Il mare ululava infrangendosi contro la costa di alti scogli, e rotolava scrosciante e terribile nella sua furia ordinaria.

Non so perché Hansi avesse voluto portarmi lì, ma capivo fin d’allora che aveva avuto ragione, e che nella pace desolata di quel prato incuneato sul mare avremmo potuto ritagliarci uno spiraglio di paradiso dove tacere e dove trasformare la nostra rabbia in semplice contemplazione. Tutto questo mi stupiva. Mi aveva trascinato in macchina senza nemmeno dirmi cosa voleva fare, dopo che ore prima mi aveva intimato di non farmi vedere mai più, e, tutto sorridente, tutto contento, mi aveva mostrato un piccolo luogo da sogno, da fantasia di Lelio – una costa a strapiombo su cui la vegetazione cresceva quasi ai limiti della battigia. Quel luogo doveva essere meraviglioso d’estate. Doveva caricarsi di fiori dalle tinte più disparate, rosa, viola, lilla, giallo, magenta, arancio, rosso, azzurro, bianco, verde,  e mille altre sfumature screziate e meravigliose. I loro petali si sarebbero aperti un po’ per volta durante la giornata, dischiudendosi alla luce del sole o nell’ombra della notte, sprigionando mille inebrianti profumi.

Per il momento era ancora tutto spoglio, e morto. Ma potevo intuire la rinascita in quel ciclo eterno e continuo delle stagioni che non sentono sulle loro spalle il Cambiamento del mondo, il mio Cambiamento.

Hansi mi abbracciò sotto la coperta che aveva portato. Faceva freddo, ma non incredibilmente. Forse perché lui si stringeva a me e mi scaldava col suo corpo, forse perché pensavo alle mie fantasie e non mi accorgevo della realtà attorno a me.

“Ehi, ti stai addormentando? Non mi avrai fatto fare tutta questa strada per niente –“

“Perché mi hai portato qui?”

“Volevo fare pace. E volevo legare questo posto ad un ricordo bellissimo, quindi dovevi venire con me. Ogni volta che tornerò qui penserò a questa notte e a come siamo finalmente riusciti a capirci nel silenzio quieto delle stelle.”  

“Ti basta questo?”

“No.”

Lo so che era romantico al punto che, se ci avessi pensato un’ora prima, non l’avrei mai accettato – mi sarei messo a ridere, avrei detto: è il desiderio di una ragazzina. Avrei pensato che fosse stupido. Ma ero lì, ed ero in quel momento. Non avevo riflettuto espressamente sulle conseguenze, così come non vi aveva riflettuto Hansi. Capivo che non era come le altre volte, e che non sarebbe mai più stato così, almeno per molto tempo. Lo guardavo come la rosa del Piccolo Principe, così fragile, precaria, delicata, e nella sua debolezza bellissima. Lo toccavo come se non avesse spine e non avesse vanità, solo un disperato bisogno di riempire un senso di straniamento e di incomprensione. La sua pelle chiara era colpita dalla luce della luna e splendeva di una certa opalescenza, sembrava marmo, ma era morbida e soffice come un petalo.

- E’ così che si ama spassionatamente? – Mi chiesi. – Vorrei che ne fossimo capaci in ogni momento, e che non ci sbranassimo l’uno con l’altro. -

Dimenticai ancora per un po’ le nostre crisi. Era tra le mie braccia come sotto una campana di vetro. Dovevo preservalo? Proteggo la mia rosa e prometto di non abbandonarla mai, anche se non riuscirò a capirla.

Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e mi guardò come se non capisse.

- Ricominciamo, - Pensai.

Invece non ricominciammo subito. Si aggrappò a me trascinandomi giù, sopra di lui, e rimase in quella posizione, tremante, stanco, pensoso, per molti minuti. Forse, scrutando il cielo, cercava la sua stella.

 

___

Conosco quasi il Piccolo Principe a memoria, sapete. E' stato il libro col quale ho imparato a leggere e ancora oggi, ogni tanto, me lo ripasso per bene. Riesce a commuovermi tutte le volte, sempre. C'è una certa vibrazione in quel libro, non lo so spiegare... abbiamo un rapporto speciale, di totale comprensione. E' come se lo avessi assorbito. Ma non voglio tediarvi per questo. Ho finito con gli esami, due giorni di vacanza! Uao! E un sacco di nuovi cd da ascoltare, tipo... mentre rivisitavo il chappy ho messo su Elements of Persuasion e Ommioddio, ci credete che ancora non l'avevo sentito? Io?!? La più grande fan al mondo dei Dream Theater! La verità è che mi sto appassionando al glam metal, sleaze metal, hair metal come lo devo chiamare? Boh... Merito di un tributo visto due settimane fa... Motley Crue... E la cosa positiva è che sono quasi sempre gnocchi, i musicisti glam XD.

 

Ringrazio tantissimissimo Manny-chan... tesoro, non importa se sbagli a fare copia incolla. Ho letto il tuo commento e mi son detta: però anche tu Lermontov? Strano... Poi mi sono accorta che era il mio "off topic" e ho cominciato a ridere, per cui grazie! Non te la prendere, 'ridere' in senso positivo... io faccio sempre ridere così la gente, a detta dei miei amici. Piaciuto il capitolo? Questo è il mio capitolo preferito.

 

See you soon, guys ^^

 

Martina 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16. ***


Sabato diciassette Marzo

Bonjour! E' passato un anno (e siamo qua) dall'inizio della pubblicazione di Ambivalenze. Non avrei mai previsto di essere così lenta, quindi vi chiedo di nuovo scusa. Comunque il capitolo è per Susy, perché, anche se lei non lo sa, mi ha tirata davvero su, su, su di morale.

 

 

Capitolo 16.

 

Sabato diciassette Marzo,

 

Una retrospezione dalla parte di Nikita – un concerto; alcuni versi di Yeats e una Bisanzio molto, molto più vicina di quanto ci si aspetti

 

I.

Non ricordavo di essere entrato all’Eterea per più di un anno, forse per due. E non ricordavo nemmeno il motivo per cui me ne ero tenuto così lontano. Mi venne in mente quella notte dal sapore strano e dal cielo spalancato, quando rientrai tra le sue mura antiche quasi come se stessi oltrepassando la soglia di un incubo e di una visione, contemporaneamente. Mi ricordai, invece, com’era fatto, e che mi piaceva molto all’epoca in cui ero più libero e più ribelle, ed amavo la musica ossessionante fino ai primi albori del giorno. Era un locale molto strano e sicuramente inaccessibile al di fuori di un ristretto gruppo di persone. Quando lo frequentavo, era sempre popolato da strani individui convinti di essere vampiri – erano necessari alcuni requisiti per entrare: essere bellissimi, essere scintillanti, essere affascinanti. Si ascoltava solo metal, qualsiasi genere di metal. Non c’era ressa, non c’era bolgia, ma una massa di gente accaldata che scuoteva la testa sotto il palco ed un pubblico elegante accomodato sui divanetti. Non c’era uno sprazzo di colore, ma profumi sempre meravigliosi emanati dalle fragranti candele che bruciavano nelle nicchie della parete e dai fiori.

L’Eterea era conosciuto quasi come una leggenda in tutta la Città. Apriva solo il sabato a mezzanotte, e chiudeva appena prima dell’alba. Era una casa vittoriana ancora immacolata come un gioiello nel cuore pulsante della modernità del centro, circondata da un vasto giardino curatissimo sbarrato da un elaborato cancello in ferro battuto, fuori dal quale bisognava parcheggiare. Si entrava rigorosamente a piedi in qualsiasi condizione, si salivano le scale della terrazza morta d’inverno e fiorita d’estate di petali chiari sui quali si rifrangeva l’alone lunare nelle notte terse. Il profumo era etereo. Percorrendo quella sorta di giardino incantato si arrivava davanti ad un portone sul quale era intarsiato un albero stilizzato d’argento, dal cui tronco si dipartivano sette rami, carichi di frutti. Colpito dal riflesso della notte, l’albero luccicava del pallore del metallo prezioso, avvolgendo il visitatore in un’aura ancora più spettrale.

Anche l’interno era particolarissimo – a differenza del giardino calmo, sereno, soffuso, le stanze erano state ristrutturate in uno stile decadente, ricco, opulento, ostentante magnificenza – – drappi neri, cremisi, d’oro, di broccato, damascati, tappeti etnici, divanetti in velluto scarlatto e nero, tavolini bassi di legno laccato nero ad intarsi oro e rosso. Un particolare che mi si affacciò allora in mente fu la grande quantità di fiori che ricadevano in cascate da mille vasi posti su colonnette, nello spazio tra una grande finestra e l’altra, in piena luce notturna – rose, camelie, grandi mazzi di tulipani sgargianti, di orchidee, di narcisi, di gardenie, di begonie, di magnolie, di giacinti. Sul tavolo che occupai quella notte, una candela nera dalla forma rotonda e dal lumicino fioco ardeva tra una corona di gigli candidi. Alle pareti ancora rivestite di carta da parati erano conservati ritratti di dame dagli abiti sfarzosi e dal volto triste, candelabri finemente sbalzati, scudi araldici, arazzi , statue nivee.

Oltrepassando l’ingresso ci si trovava in una sala scarsamente illuminata. Un lampadario di cristallo acceso in un riverbero fatuo rimaneva sospeso al centro del soffitto conchiuso da due scalee che si aprivano come forbici e si ricongiungevano nella piattaforma che dava accesso alle stanze superiori.

Il locale aveva interamente conservato la parvenza di villa – tetra, oscura, maledetta -, e su questa leggenda ricuciva i suoi introiti e scovava la sua particolare clientela notturna. Soltanto le stanze dell’ala est erano riservate alla cucina e al bar vero e proprio, mentre tutto il lato destro era stato dedicato al palco per i concerti. Il piano superiore era occupato da tavolini, saloni, salotti, piccole sale più intime.

Come ogni dettaglio al suo interno, il palco dell’Eterea aveva qualcosa di teatrale, un gusto spiccatamente ardito e decadente, ma intriso della sua bellezza piena di fascino. Era poco sopraelevato rispetto al pubblico, ancora costruito in legno, ed era sormontato da un tendaggio rosso a balze, sfrangiato in oro alle estremità, che si apriva come i sipari dei teatri antichi. La cornice delle pareti era realizzata in grotteschi, forse erano originali, ed il pavimento era ancora in pietra viva. Delle tre stanze adiacenti, anche le pareti ed il soffitto erano ricavate in pietra.

Quella notte aprii la pesante porta d’ingresso, e dalla luce fantasmagorica, evanescente, eterea del giardino onirico, fui sbalzato all’improvviso nell’oscurità più densa dell’interno, pulsante come un nucleo segreto delle sue mille sensazioni da scoprire. Respirando quei profumi delicati e fragranti, immerso nelle impressioni della musica fortissima, cercai mio fratello.

 

II.

Le persone che transitano in queste stanze mi hanno sempre dato l’impressione di essere trasformate in marionette, in immagini, in specchi di qualche luce superiore. Nella loro bellezza sfaccettata, colpita dalle candele e dai riflessi della notte che penetrano dalle finestre, acquistano per loro stessi un fascino morboso, sensuale, ammaliante, ed accanto a queste parvenze conservano qualcosa di più spirituale e puro, la loro bellezza ricercata. In questo modo danzano davanti ai miei occhi, le loro gonne di pizzi e valenciennes, i loro velluti e le loro sete, le camicie ricamate e i colletti finemente lavorati, i bottoni di madreperla, i pantaloni di pelle, i gioielli sfavillanti, le braccia bianche, le bocche dipinte di rosso, i capelli lunghi e fluttuanti, gli occhi dallo sguardo penetrante, colmi di una punta di luce che sottende un mondo pazzo e misterioso. Così si muovono, oscillando lievemente in movenze leggere. Così scorrono davanti al mio sguardo incatenato, facendomi pensare che, forse, anch’io appartengo a questa stessa dimensione, anch’io mi sposto nel medesimo modo, anch’io posseggo certi riflessi tra i capelli, negli occhi, nell’incarnato diafano, anch’io sono silenzioso e aristocratico, bello e oscuro. Forse anch’io faccio parte di questa schiera di fantasmi che sfila come un una danza macabra senza scheletri spogli, senza lutti e senza tristezze, solo, drappeggiata dello stesso scherno e della stessa fatalità. In un certo senso credo sia vero anche questo. I loro volti mi danno un’impressione strana di ambivalenza, di contrasto e di ambiguità. Lelio una volta mi disse che manifestavano in questa loro essenza, che manifestavamo, una duplicità contraddittoria – l’essere bellissimi in un modo che sembra più elevato e più spirituale, dolce, etereo, come angeli, ed essere bellissimi nel senso più carnale, diabolico e asfissiante del termine, come vampiri. Eravamo per lui affini a certi quadri medievali pieni di inquietudine, di angoscia e di tristezza combinati all’ascesi, alla ricerca, in molti versi alla mondanità, tavole ed affreschi che riflettevano nelle loro forme contorte, nelle loro allegorie complesse, tutta l’incertezza e l’ansia di un’epoca della storia assediata da grandi tragedie. Eravamo le figure di Boch, di Brugel, di Carnach. Questo lo intuivo guardando me stesso nei riflessi delle molteplici specchiere , domandando alla mia controimmagine come avesse mai potuto trovarmi una persona venuta da fuori, senza conoscere né la mia personalità, né la seduzione decadente dell’Eterea che andava rispettata per la sua peculiarità e per la magia silenziosa che la circondava come una barriera infrangibile.

Dietro di me si disegnò contro lo specchio il riflesso di Die. Il suo volto si avvicinava. Mi toccò sulla spalla, incerto, e io mi voltai. Non potevo parlare a causa del volume altissimo della musica, e allora gli sorrisi, seguendolo quando lui mi fece cenno di accompagnarlo. Mi stava portando nel giardino.

Mi accorsi che Die, quella notte, aveva qualcosa di diverso dal solito. Sul suo viso era come sospesa una certa contentezza e distensione, una sorta di sollievo che non mi sapevo spiegare , ma che ipotizzavo dipendesse dal fatto di trovarsi in quel luogo per lungo tempo dimenticato. Pensai che gli stesse succedendo quello che succedeva a me nel riscoprire lentamente le situazioni di cui mi ero innamorato, e che mi appassionavano, a partire dalla carta da parati color zafferano fino agli strani profumi inebrianti o lo sfarzo dell’interno.

Un’atmosfera intoccabile ed indicibile ci avvolgeva come una corolla, e non si sarebbe dischiusa fino al mattino.

Die non parlò nemmeno quando uscimmo. Ritirò la tessera per rientrare e camminò fino a raggiungere una panchina di pietra in qualche angolo remoto del giardino, sotto le fronde odorose della magnolia fiorita. La notte era calda, già afosa per la stagione. Anche se amavo il freddo, la quiete e l’immobilità perfetta dell’aria adamantina e l’aroma di fiori mi tranquillizzarono e mi misero a mio agio. Così fu per lui, immagino. Si sedette scompostamente di fianco a me, e, guardandomi, mi sorrise con una leggerezza che non gli leggevo sul volto da troppo, troppo tempo. Mi sembrava un sorriso meraviglioso, pensai: - Die è felice, davvero felice, in questo istante -, e allora ebbi lo sfrenato desiderio di poter raccogliere quel sorriso e custodirlo per sempre, mostrandolo ai suoi occhi ogni volta che si fosse dimenticato di questa felicità.

“Non volevo che venissi.”

“Lo volevi. Altrimenti non me l’avresti detto, no?”

“Forse lo voleva una parte di me che non ha ancora trovato il coraggio di ammetterlo.” Die chinò il capo. Con le dita affusolate giocava coi petali rosa della magnolia. Sembrava tutto sormontato da una patina di lucentezza e di sonno.

“Die, io sono molto contento per te. E un po’ anche per me. A volte si dimenticano le cose importanti. Ultimamente mi sono concentrato solo sullo studio e sul lavoro, e ho perso di vista quello che veramente piace a me. È bello, ogni tanto, recuperare le proprie affezioni. Per te, poi, è meraviglioso. Tu stai sacrificando la parte più eccezionale di te stesso. Forse hai ragione. Però vengono notti come queste, nelle quali ti puoi perdere e annegare, scordandoti per un istante tutto ciò che ti sei convinto di essere. Puoi spogliarti e rientrare nelle tue facoltà, nella tua vera dimensione. Sono felice per la maniera in cui riesci a sorridere qui, tra questa gente. Non è lo stesso modo di sorridere che hai fuori. Te ne sei accorto?”

Die mi strinse la mano con una certa delicatezza.

“Sotto un certo punto di vista ha ragione Hansi.”

“Nikita – io – è una cosa che voglio dire solo a te. Per provare. Perché non ho convinto nemmeno me stesso. Sai, ieri sera pensavo: tu sei l’unico col quale posso veramente provare tutto. Sei l’unico che ogni giorno della mia vita è venuto a farmi forza. Quando la mamma si è portata via Lelio è stato un po’ come essere spaccati. Tu ed io non abbiamo differenze di sesso, e solo nove mesi di età. Pensiamo allo stesso modo. Posso fidarmi di te?”

“Certo, stupido.”

“Io – credo di essermi – innamorato.”

Risi. Non perché mi divertisse ciò che mi aveva detto, ma per la singolarità della sua espressione. Innamorato era qualcosa che Die non aveva mai detto. Nemmeno quando era un ragazzino, nemmeno quando lui ed Hansi condividevano quella relazione di cui ero tanto diffidente, ma che in realtà non significava nulla. Ora, invece, aveva qualcosa di diverso tra le dita. Aveva un amore, ed un amore difficile.

Per un momento pensai a me stesso. Capitemi bene, non ero veramente dispiaciuto, solo, un po’ geloso di questo improvviso cambiamento delle sue attenzioni. Si era prevenuto nella sua introduzione, ma capivo, me ne accorgevo da giorni, da settimane, che aveva anche qualcun altro con cui condividere il suo tempo. Non riuscii a dispiacermi per la mia situazione. In fondo avevo notato il suo sorriso, la sua felicità, e dopo ventidue anni di amore spassionato per una persona la cosa più bella è sapere che questa persona è comunque felice.

“E’ Hansi che mi ha trascinato qui. Io non avrei mai immaginato che bastasse così poco – io e lui non ci comportavamo così anni fa.”

“Eravate più piccoli.”

“Appunto! Ci volevamo più bene, Nikita. Ora litighiamo sempre, e ci facciamo così male… non lo so. Non capisco nemmeno io.”

“Qual è il problema, Die? Ti sta mettendo con le spalle al muro? Lo sai che lentamente sposta l’ago della bilancia dalla sua parte. Ed io, vedi, se fossi in te, lo lascerei pendere di lì.”

“Dalla parte di Hansi.”

"Sì.”

Strinse la mia mano più forte. “Ieri mi ha sbattuto fuori di casa.”

“Ah.”

“Io sono tornato all’ora di cena, ed era come se non fosse successo nulla. Abbiamo certe crisi – cinque anni fa vivevamo in pace. Facevamo sesso ogni tanto. Stavamo bene. Ora è come se sapessimo che perderci sarebbe un addio definitivo. Un po’ ci odiamo per questa condizione. Un po’ abbiamo entrambi paura di un nuovo cambiamento, in qualsiasi direzione esso avvenga.”

“E Hansi?”

“Hansi è bello. Meraviglioso. Mi dice: ‘Ti prego, suona con me, sabato prossimo all’Eterea’ e io gli rispondo: ‘Non metto più piede in quel locale da due anni. Non voglio rimanere intrappolato nei suoi labirinti’. Lui me lo chiede ancora e io dico: ‘Sì’. Perché?”

“Non capisci le cose semplici!”

“Niki, e poi cosa faccio?”

Lo guardai con occhi un po’ materni ed amorevoli. “Non succederà nulla di sbagliato. A quel punto capirete da soli cosa fare. Tu non sarai più categorico sulle tue posizioni e lui non lo sarà più sulle sue, come in ogni rapporto.”

“Io non lo so. Hansi è così – orgoglioso, e fisso nelle sue idee. Mi spaventa.”

“Non ti preoccupare.”

Die mi scrutò per un secondo. “Parliamo sempre di me, ultimamente. Ma tu?”

“Io e Claudia ci siamo lasciati. Ma domani sera esco con quella ragazza dello stage, come si chiama… Lucrezia, Luciana, Lu –“

“Ludovica.”

“Quella lì.”

“Nikita,”

“Sì?”

“Dovresti cominciare a pensare seriamente all’amore, sai?”

“Certo Die. E poi se anch’io mi riduco come te, chi li raccoglie i nostri cocci?”

Die sospirò. “Vorrei avere anch’io un Mircea per essere sempre in pace con me stesso, col mondo e con tutti.”

“Dovresti essere Lelio.”

“Se Ottavia fosse qui snocciolerebbe una bella citazione. Ora è il momento giusto.”

“Credo di averla io la citazione, questa volta.”

“Cioé?”

 

III.

 

And therefore I have sailed the seas and come

To the holy city of Byzantium.

 

Bisanzio è molto più vicina di quanto ci immaginavamo.

Guardavo il palco, e sul palco guardavo suonare Die, finalmente, dopo un tempo lunghissimo lontano dalle scene. Quella notte eravamo stati soli, lui ed io. Mio fratello mi aveva confidato un segreto che doveva rimanere nella mia testa e risuonare con lo stesso silenzio di un sarcofago, per non spezzare qualcosa di importante, per non incenerire una situazione così precaria. Eppure mi sembrava di scorgere qualcosa in più, rispetto al vuoto e alla scelta. Cercando di spingermi oltre la corte di velluto del proscenio, immaginavo di trovare una città fatta d’oro e di mosaici, di cupole magnificenti, di sfarzi, di bellezza, di decadente eternità.

La nave che solca i mari si sta dirigendo verso la sacra città di Bisanzio, carica del suo splendore religioso e della sua potenza militare. Un tempo doveva essere stata tutto questo, e doveva essere stata lucente, meravigliosa, un vero capolavoro dell’uomo. Ora ne restano soltanto le immagini, le icone, i simulacri di una grandezza passata, scorta, ma pur sempre viva nel ricordo tremolante della poesia. È un destino così tragico e così auspicabile, perché transita direttamente in quel territorio sconosciuto – l’immortalità.

Come si rapportava Bisanzio a quella sera, la sacra Bisanzio? Pure la nostra notte era in un certo senso sacra. Intuivo che era l’inizio di un viaggio verso una meta fondamentale nel destino di mio fratello. Il suo percorso era vincolato ad approdare in una città dorata, o a terminare tra gli abissi. Questo non lo sapevo. Ma guardavo la sua figura muoversi sul palco, le sua mani correre sulla tastiera, il suo volto concentrato accarezzato da timidi raggi di luce, e mi era perfettamente chiaro che quello era il suo posto. La sua dimensione. La sua meta, l’essenza che ricercava tendendo una vita verso il sogno, e che sempre gli sfuggiva. Doveva rimanere lì, cristallizzato e preservato per sempre nel suo stato di perfezione. Invece tutto sarebbe sfumato con lo scemare del buio e con lo spuntare dei primi, timidi raggi di sole.

Speravo che Die capisse questo, che si ricordasse della sua passione, che si riconoscesse nella sagoma ombrosa ritagliata sul palco delle meraviglie, davanti alla platea acclamante, nel cuore di una notte fatta apposta per sussurrargli all’orecchio la strada migliore da percorrere.

“Tieniti stretta quest’illusione anche domani mattina, quando ti sveglierai e ti accorgerai di aver respirato l’aria di un paese fantastico.”

Sospirando, mi allontanai. Mostrai la carta all’ingresso e mi restituirono il soprabito. Fui sollevato quando rimisi piede nel giardino muto e socchiuso al confine del giorno, pronto ad esplodere nella purezza incantevole della Primavera. Da una parte mi sentivo felice. Dall’altra parte, un po’ per me stesso, un po’ per Die, ero inspiegabilmente dominato da una sensazione oscura, una sottile, incomprensibile e malinconica tristezza.

 

 

___

All - is - rite - coz we're - BREAKING THE CHAINZ!!! Oggi va così. Mi sono ripromessa di fare pubblicità ai Crashdiet, quindi faccio pubblicità ai Crashdiet. Chi sono, direte voi. Sono un gruppo sleaze metal svedese E che roba è, direte voi. Se non avete mai sentito parlare di Motley Crue, non vi siete persi nulla. In caso contrario, ascoltateli, e per tutte le fangirl come me, guardatevi le loro foto. Bene, compiuta la buona azione della giornata. Il fatto è che se diventano famosi magari vengono in Italy per un concerto headliner e io li posso vedere! Yeah!

 

Dunque, passiamo alle cose serie, visto che aspetto ospiti e poi non ho tempo. L'Eterea, non esiste. Vagamente ispirata a un posticino in Milano, ma non esiste. Esce direttamente dal mio periodo più dark, e oggi mi sembra una cosa così lontana, che rivedendo il capitolo mi è venuto da sorridere. E Nikita è un personaggio che purtroppo non ho analizzato molko, ma che mi piace davvero. Davvero-davvero. E' bello e di un'intelligenza pungente, come Otta. E' anche un cretino, fondamentalmente, uno che ama divertirsi quasi fino all'autolesionismo. Un pirla, come diremmo noi. E' simpatico!

 

Ringraziamenti:

 

Locke: Hai letto tutto in poche ore, seriamente? o_o. E io ci ho messo un anno ad arrivare a questo punto, che vergogna. Sono sempre contenta di avere nuovi commentatori, e nuovi lettori, per cui grazie mille. Grazie per le tue belle parole, per i complimenti (bla bla bla, lo so, non dovrei crogiolarmi così, ma è vero, sono come un gatto a cui grattano la pancina, come un cipollino innamorato...). Die e Hansi sono intensi, lo sono per forza. Loro sono pura passione, sono estrema conseguenza dell'orgoglio eccetera. Sono nati con questo fine. Ma sono sicura che risolveranno i loro problemi. E grazie soprattutto per quello che hai detto sul mio stile, perché è il complimento più bello che mi si possa fare. Merci!

 

Manny-chan: Come al solito, cara, grazie per la recensione. Sei una persona buffa è___é. Adoro le persone come te. Anch'io sono buffa e faccio cose incredibili, insomma. Ti ho davvero commossa? Ho scritto quel capitolo cercando proprio, anche a livello formale, una semplificazione e una nota fiabesca, una prospettiva infantile, che poi è la più semplice, la più immediata, e per certi versi la più giusta. E' questo il Piccolo Principe, per me. Un libro che è una lezione di vita e di convivenza, di amicizia. Brr, mi mette i brividi...

 

Alla prossima ^_^

Baci

 

Martolina

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17. ***


ambivalenze 18

Stavolta ci ho messo meno del previsto è___é. Sto migliorando, right? In realtà sono in vacanza fino al 28, che poi diventa il Primo Maggio e uao, A Week For One's Own. La settimana scorsa abbiamo dovuto formattare il picci (no, non è un plurale magestatis o come si chiama, eravamo in due sul serio perché io sono un'incapace), il che non ha risolto i suoi problemi di connessione, ma almeno ha eliminato il pericolo di collasso al quale, ahimé, stava seriamente andando incontro. Per fortuna sono una ragazza previdente e ho dicimila copie di backup di quello che scrivo. Sono previdente solo in quello, anyway, perché ho perso dei giga di musica... e sono triste.

Capitolo corto e non particolarmente significativo. Ma per la mia filosofia del cerchio comunque importante.

Domenica tre Giugno

Una retrospezione dalla parte di Lelio – alcuni ricordi dolorosi; un cerchio e la fine di un lungo percorso 

Era cominciata come una serata afosa. Era trascorsa dolcemente nell’ozio prolungato dell’estate quasi sopraggiunta col suo velo di trasparente freschezza e coi colori abbaglianti del suo abito leggero. Era finita in una maniera che mi aveva quasi commosso. 
Successe un episodio che mi ricordò l’inizio di tutta la nostra storia. Era l’una di notte, ed io non riuscivo a prendere sonno. Qualcosa ronzava insistentemente nella mia testa assieme alle immagini della nuova stagione. Quando mi succedeva, tornavo in camera mia e passavo la notte leggendo per non disturbare il sonno di Mircea.
Ma poi –
Sentii delicatamente bussare alla portafinestra del balcone comunicante tra le nostre due stanze. Scostai il tendaggio, aprii la porta e lo guardai fermo sulla soglia, gli occhi rivolti verso il basso, i capelli sciolti che gli ricadevano sulle spalle strette dalla fredda brezza notturna. Non entrò subito. Rimase qualche secondo a tremare e poi cominciò a parlarmi con una voce spezzata dal pianto.
“Mi sono svegliato e non ti ho più visto – ho pensato – un anno fa è morto mio padre. Proprio questa notte.” Qualcosa di pesantissimo mi colpì sulla testa. “Mi sento solo.”
“Me lo ricordo.” Ero senza parole. Lo fissai con la stessa intensità con cui si fissa un apparizione.
Gli presi la mano teneramente come un bambino e lo condussi all’interno.
“Scusami, sono un idiota. Dovevo ricordarmelo. Scusami, scusami, non voglio che tu ti senta solo.” Mi sentivo in colpa per non averci pensato, per averlo lasciato in balia di se stesso in un momento così delicato.
“Non ti preoccupare.” Sembrava ancora scosso.
Quando si sedette sul letto e mi chiese gentilmente: “Posso dormire con te?” mi sembrò di vederlo ringiovanito di dieci anni, di osservare ancora il bambino bellissimo che giocava con me e mi voleva un mondo di bene senza sapere niente, senza capire niente di quello strano legame contorto che ci univa. Dieci anni prima ero io che, piangendo, bussavo alla sua porta e venivo accolto da un calore familiare e buono. Allora, dopo tutto quel tempo, mi sembrò di assistere a una scena reiterata. Il suo sguardo un po’ perduto ed il suo corpo premuto stretto contro il mio nella disperazione dell’angoscia sembravano voler dire – questa è la chiusura di un cerchio, questo è il tornare al punto di partenza, nella maniera meravigliosa in cui tutto ha avuto inizio, questo è semplicemente mettere la parola fine ad ogni incertezza, ad ogni insicurezza, ad ogni dubbio. Avevamo concluso il nostro percorso circolare che ci aveva sostenuto per così tanto tempo, per così tante epoche della nostra vita. 
Mi baciò con la sua solita delicatezza, timido, un po’ sconfortato. Volevo succhiare via tutto il gelo che per un momento si era impadronito della sua splendida felicità. Non doveva sentirsi solo. La mia vicinanza, il nostro contatto, dovevano risvegliare dentro di lui la sicurezza che io gli sarei sempre stato accanto ed avrei asciugato le sue lacrime, come aveva fatto lui a partire da quella notte di tanti, tanti anni fa, ormai indistinta nella memoria ed ammantata da un alone onirico e soffuso.
Mentre Cea si addormentava tra le mie braccia, pensai che poteva succedere davvero così, che poteva essere terminato per noi quel periodo meraviglioso e dorato dell’adolescenza, e che le prime responsabilità di una vita matura, indipendente, lontana dalla prigione di cristallo che ci aveva sempre rivestiti, spezzata sotto il peso del Cambiamento, avrebbero cominciato ad arrivare. Non sapevo cosa ne sarebbe stato di noi mesi dopo, stagioni, anni dopo. Sicuramente saremmo rimasti insieme. Forse saremmo andati lontano, forse avremmo viaggiato in posti meravigliosi ed esotici, forse avremmo semplicemente condiviso un altro letto in un’altra stanza solo per noi. Qualunque cosa ci avesse riservato il futuro non potevo che incoraggiarla col sorriso che lui mi aveva insegnato.
Lo strinsi più forte a me, come per accertarmi che fosse davvero lì, sdraiato, addormentato, sereno anche dopo certi abissi. Desideravo abbracciarlo in quel modo per tutte le notti della nostra vita.
“Ti amo da morire,” Gli sussurrai all’orecchio, anche se lui era già addormentato tranquillamente. Non importava. Me l’aveva sentito pronunciare talmente tante volte da non aver nemmeno più bisogno di conferme.
Chiusi gli occhi. Vidi per l’ultima volta l’immagine del cerchio e mi convinsi ancora, definitivamente, che ogni cosa è destinata a tornare al punto di partenza, qualsiasi sia il percorso che compie sulla superficie del mondo, e che pure noi arrivavamo ad una compenetrazione perfetta.


___
We are the Youth Gone Wild!
Questa canzone ha conquistato la mia testa, oggi. Oltre a Tangerine e a tutte le canzoni acustiche degli Zep. L'altro ieri un mio amico mi ha portato i suoi sacri bootleg dei Led Zeppelin, i libi, il cofanetto e persino uno dei (tutti) vinili che ha, comprati da suo padre ai tempi in cui Jimmy Page aveva ancora i capelli neri da stregone. Uao. Roba da collezionista. Mi teneva d'occhio mentre sfogliavo il materiale e copiavo i bootleg. Continuava a dire: Martina, stai attenta. Ok, è più fissato di me. Ok, è davvero incredibile. Ma sto ascoltando quasi solo Zeppelin da tre giorni. Ma perché  dovrebbe interessarvi? Lunedì sono entrata nell'aula d'esame cantando l'ultima di Elio e le Storie Tese. Imbarazzante...

Credo di riuscire a  postare il prossimo capitolo non in tempi escatologici, ergo entro una quindicina di giorni. Ma non vorrei illudervi. Non prendetemi sul serio! Mai!

Ringraziamenti:

Chloe90 - Uuuuuuuu  una nuova lettrice! Sono così felice, sono così felice! Sono felice con poco, è vero, ma io lo faccio per voi! E voi apprezzate! Così dovrebbe funzionare il mondo, sempre. Peace & Love. Chiusa parentesi idiota, sono contenta sul serio, e - addirittura ti ha quasi ridotta in lacrime? Ma no... Kleenex... andrà tutto bene. Grazie, grazie, grazie. Ecco il seguito. Spero continuerai a leggere.

Manny-chan - Mia adorabile commentatrice fissa, non lo so se sei buffa o meno nella vita, ma lo sei qui, e va benissimo XD! Comnque è giusto immaginarsi le cose, intendo, è così che faccio di solito quando leggo... L'Eterea è proprio così anche nella mia mente, è eterea - nome scelto non a caso-, è inconsistente, è pareti di vetro e profumo, in fondo. Le persone che ci camminano lo sono altrettanto per suggestione, o per convinzione, non lo so. Niki è così, almeno, ed ovviamente ci restituisce il quadro filtrato dai  suoi occhi delicati... By the way l'Eterea è in sfitto ormai, mi sono evoluta verso Rainbow e Wiskey-a-go-go, ultimamente, LA Sunset  Strip, party e un sacco di casino. All'Eterea non ci sono casinisti, sono tutti poeti e pensatori... Sono tutti seri...  Die ringrazia per le coccole e ripete che con Hansi sistemerà tutto prima o poi. Lui è un po' Youth Gone Wild...

Baci  a tutti. Buon ponte del Primo Maggio!
Martolina

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18. ***


ambivalenze 19

Un po' più in ritardo di quel che pensavo, comunque ---


Mercoledì undici Aprile

Una retrospezione dalla parte di Hansi – un orologio che non funziona bene; una finestra sul cortile ed uno strano senso di agitazione. Una parola Fine molto perentoria.

I.

Erano quasi le due di mattina, e mi chiedevo dove potesse essere per ritardare così tanto rispetto alla sua solita ora. Non mi aveva nemmeno chiamato. Non mi aveva avvisato. Nulla di nulla. Mi aveva lasciato solo in balia della preoccupazione, della rabbia e di quello strano, pungente presentimento che diceva: ora non tornerà più, è stanco.
Guardavo l’orologio con insistenza ogni minuto, e mi sembrava che il tempo, in quell’assurda dilatazione non scorresse mai e non lo riportasse mai da me. I battiti scanditi e ripetuti ossessivamente mi facevano impazzire – un secondo, un secondo in meno e lui sarà da te - un secondo in più in cui lui sarà lontano da te.
Perché forse non sarebbe mai tornato.
Quell’orologio non funzionava correttamente, pensai ad un certo punto. C’era una frattura, una discrepanza netta tra il mio tempo interno che aveva vissuto una giornata intera e quello segnato nel quadrante rotondo che continuava a ticchettare con noncuranza i suoi secondi nervosi, spossanti, eterni. Doveva esserci uno sbaglio, una demarcazione tra la mia percezione interiore ed il mondo. O stavo diventando pazzo per colpa di Die.
Gliel’avevo detto io di non rincasare. Avevo gridato con la stessa ferocia di tutti i giorni che lo odiavo e che non volevo più vederlo, ed allora era perfettamente naturale che fosse ancora fuori. Non era nemmeno casa sua. Era una sensazione strana, essere gelosi di una persona che quotidianamente cercavo di convincermi valere poco per me, ma che sapevo essere fondamentale. Me ne stavo seduto sul divano grigio e guardavo l’orologio, e poi la finestra, e poi di nuovo l’orologio. Il cielo si era appena imbrunito, disperdendo le nuvole rosa e rosse in una pozza profonda di blu – quel colore che non è ancora il buio denso ed impenetrabile, ma una tinta che possiede una certa lucentezza elettrica, come sospesa al confine tra notte e giorno, punteggiata del chiarore di stelle.
Mi alzai, agitato. Scostai il tendaggio della finestra e osservai con attenzione il cortile illuminato dai lampioni. Non mi resi conto di quanto tempo stetti a meditare in quella posizione, né di cosa pensai, perché ogni mia immaginazione viaggiava per un verso inspiegabile. Ogni tanto, sulla via lastricata che conduceva alla strada, passava una persona. Io la studiavo attentamente cercando di distinguere nell’oscurità sempre più fitta i contorni confusi di Die che si stava avvicinando, che stava per aprire la porta e salire le scale e ritornare. Ma non era mai lui. Erano mille volti indefiniti e sconosciuti che si perdevano nella nebbia della mia memoria e nella tristezza della mia posizione vigile, nascosta, curva su se stessa in una sorta di muta colpevolezza.
Intanto era passata un’ora nella mia più completa confusione. Avevo provato a fare di tutto – a leggere, ad ascoltare musica, a rivedere i miei spartiti, a ritirare le cose che avevo lasciato in disordine, eppure ogni volta mi sentivo stanco, mi afflosciavo su una sedia e riprendevo il mio snervante percorso tra l’orologio e la finestra.
Odiavo sentirmi così male. Odiavo capire di essere preoccupato per lui. Odiavo questo senso di attesa indicibile, fremente, inspiegabile, e la debolezza nella quale mi faceva precipitare. Odiavo sprecare ore preziose della mia vita davanti ad una finestra, cercando di scorgere il volto di una persona che forse non sarebbe mai arrivata. Odiavo sentirmi sconfitto per aver perso il controllo. Ma sopra a tutto odiavo Die che mi faceva stare così male senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno preoccuparsene.
“Stupido orgoglio. Stupido, maledetto, impossibile orgoglio.” Parlavo da solo. “Se quell’idiota pensa che me ne starò qui tutta la sera a macerarmi per lui si sbaglia davvero.”
Presi il giubbotto ed uscii per le strade silenziose.

II.

Il viale era buio, e di tanto in tanto la luce artificiale di un lampione si apriva una breccia contro il mio viso. Anche se era ormai primavera inoltrata, quella stagione delicata come un sussurro e leggera, fresca, dipinta di colori tenui e soffusi, io non potevo che sentirmi nero e pieno di  rabbia. L’aria fredda della notte mi batteva sul volto. Non sapevo nemmeno dove stavo camminando. Erano le tre del mattino, la Città era addormentata sotto la sua coperta meravigliosa di stelle, e forse io ero l’unica anima inquieta che non riusciva a trovare uno spazio per sé, un luogo dove fermarsi a riposare.
Mi fermai su una panchina sospesa al centro di un paesaggio deserto. In quello spiazzo c’erano molti alberi ed un prato verde che probabilmente la mattina dopo si sarebbe risvegliato come tutti gli esseri sui quali la primavera posa il suo sguardo.
Quella scena di pace e quiete notturna mi riportò alla mente una sera che avevo trascorso con Die in riva al mare, in un posto che frequentavo da bambino e che conservavo nel mio cuore come un piccolo rifugio segreto. Non sapevo perché, ma un giorno avevo deciso di voler condividere quello spazio personalissimo ed intimo con lui. Forse era stato uno sbaglio. All’inizio mi era sembrato un momento  nel quale entrambi raggiungevamo uno stato superiore – nel quale non esistevano più le brutture del nostro rapporto. Sapevo cosa rischiavo conducendolo laggiù: gli mostravo il mio mondo e lasciavo che lui vi penetrasse. Avrebbe potuto schiantarlo, distruggerlo, bruciarlo, ed ero stato io a consegnargli la chiave, a mostrargli la porticina scavata nell’essenza più taciuta di me stesso. Una mia piccola follia romantica. Perché c’erano dei momenti in cui pensavo veramente di essere pazzo di lui, di amarlo, di volerlo alla follia. Ma allora – allora ero stanco anch’io, ero stremato dalle nostre lotte quotidiane, dalla vanità e dall’inconsistenza del nostro rapporto.
Quella notte lui mi aveva detto che ero la rosa del Piccolo Principe. Me lo ricordo ancora, e lo ricorderò per sempre come uno dei momenti più belli trascorsi assieme a lui, perché non posso negare di aver sfiorato, in certi istanti, il paradiso. Eppure anche quell’effimera illusione era sfocata con le luci del mattino, quando, tornando a casa, spezzando la magia del tempo che ci preservava in quell’aurea situazione, avevamo ripreso a litigare come prima.
Avrei voluto non averlo mai rincontrato. Avrei voluto, quella sera di molti mesi prima, ignorarlo, passargli oltre senza degnarlo di uno sguardo, dimenticarmi della sua presenza. Avevo già sbarrato quel sentiero. Perché ci ero ritornato? Per farmi del male? Avevo complicato una situazione perfetta, rendendola impossibile. Ora lui transitava nella mia vita e abusava della mia pazienza. Io l’avevo riportato a tanto. In fondo me l’ero cercata.
Ma stavo per cedere. La diga che conteneva i miei sentimenti, la mia rabbia, il mio dolore, la mia stanchezza, presto sarebbe stata distrutta da un colpo improvviso, ed avrebbe lasciato dilagare il me stesso angry young man senza poterlo fermare.
Allora, presupponevo, ci sarebbe stata una nuova parola Fine. Quella perentoria, decisiva, indiscutibile. Disperata.                                                       

 III.

Le luci erano accese quando tornai a casa. Die doveva essere appena arrivato, perché si stava ancora spogliando. Lo guardai in controluce mentre si sfilava la camicia macchiata di vino rosso e la lasciava cadere per terra con la sua solita fastidiosa noncuranza. Mi guardò dalla specchiera mentre entravo in camera da letto e non disse una parola. Nemmeno una singola sillaba di giustificazione. Eppure ero certo che leggesse molte domande sul mio volto. Mi avvicinai per primo e mi lasciai cadere sulla poltrona.
“Hansi, non dovresti andare in giro a quest’ora del mattino da solo.”
“Mi pare che non fossi l’unico.”
“Io non ero solo.” Me lo rinfacciò con un sorrisino pieno di sprezzo e di falsità. 
“E con chi eri, di grazia?”
“Con i miei amici. I miei compagni di corso. Festeggiavamo.” Sapeva quanto mi desse fastidio di parlare non solo del suo corso, ma anche dei suoi compagni di corso.
“Cosa festeggiavi?”
“Il mio ultimo esame.”
“Scusa?”
“Sì, l’ultimo esame!” Me lo diceva con una soddisfazione che mi lasciò spiazzato. “Prima della discussione della tesi.”
Sbattei gli occhi un paio di volte prima di ribattere. “Ah.” Non sapevo cosa rispondere. “Potevi dirmelo. Potevi dirmi dove andavi. O almeno, potevi dirmi che –“ Ero tremendamente dispiaciuto. Anzi, mi sentivo come calpestato, stracciato, disfatto. Mi aveva sfoderato un colpo in pieno stomaco. Sentivo ancora il bruciore di quelle parole taglienti proferite con tanta subdola meschinità.
“Hansi, ma tu odii che io ti parli di questi argomenti!”
Forse si aspettava una reazione. Non risposi nemmeno. Mi sentivo improvvisamente stanco e pervaso da un grande senso di vuoto. Voltai semplicemente le spalle ed uscii da quella camera improvvisamente buia e fredda.
Seduto sul divano della sala, pensai che era stato davvero, davvero crudele. Non solo aveva fatto una cosa che deprecavo, e questo, in fondo, nonostante tutte le mie urla ed i miei insulti, potevo anche lasciarlo passare. L’aveva fatto senza dirmi niente, tacendo con l’intento preciso di farmi del male. Il mio ragazzo si laureava, festeggiava coi suoi amici, e io nemmeno lo sapevo. Mi sembrava grottesco e terribile allo stesso tempo. Io mi sentivo completamente disarmato. Non avevo nemmeno l’intenzione di tornare in camera per vederlo lontano un milione di chilometri col suo sorriso di vittoria stampato sulla faccia.
- Che stupido, - Mi dissi. – Ti sei innamorato. Ma è troppo tardi. -
Passai tutto il resto della notte sveglio tra il divano e la finestra, mentre lui dormiva senza preoccuparsi di niente, chiedendomi perché dovesse essere così spietato e perché tutto andasse così stupidamente al contrario.

 

*

Buongiorno Signori Ascoltatori! Sono cautamente felice, oggi, forse ritornerà il sole e finalmente posseggo l'intera discografia di Hanoi Rocks. Ne sono in-na-mo-ra-ta. Mi dilungherei milioni di righe ma ho rotto il tasto spaziatura e separare le parole sta diventando una sofferenza... 

Ringraziamenti:

Manny-chan: Don't cry,Manny, don't cry [and dont'you cryyyyyyyyy tonight...]! Eccoti un capitolo dal finale assolutamente amaro per ripristinare l'Equilibrio Cosmico...

Chloe90: Scusa se ti ho tenuto sulle spine per così tanto, eccoti il nuovo capitolo, sperando[boh.non.va.più.del.tutto...scusa.il.disordine]dicevo,sperando.non.la.prendi.come.una.tragedia...

Scusate.l'inconveniente,Non.so.come.farò.d'ora.in.avanti.Sostituire.questo.pezzo.è.estremamente.difficile...

Kisses_
Martina


Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19. ***


19 Ok questo è per Silvia, se mai troverà il mio account... Mi scuso come sempre per il ritardo, sono ingiustificabile. Comunque siamo praticamente alla fine.
Enjoy!

Mercoledì 11 Aprile

Una mattina difficile che è anche il tramonto di un’epoca

I.

Die si era sdraiato tra le lenzuola blu con un pesantissimo senso di colpa sul cuore e non era riuscito a prendere sonno nemmeno per un secondo. Nella sala, poteva sentirlo dalla porta socchiusa, anche Hansi era sveglio. Ogni tanto avvertiva il rumore dei suoi passi  sul pavimento mentre presumibilmente si avvicinava alla finestra.
Gli dispiaceva in un modo incommensurabile nell’amarezza di quello stillicidio notturno. Pensava di aver davvero compiuto un’azione stupida.
Die era frustrato per molte cose – in realtà, inizialmente aveva pensato di non raccontargli di quell’esame per non farlo arrabbiare. Era stanco delle sue sfuriate e delle sue urla. Ma poi i suoi compagni di corso l’avevano trascinato a festeggiare in un bel ristorante, e allora si era per un secondo dimenticato di Hansi che lo aspettava a casa con la sua rabbia livida. Dopo averlo visto rientrare così tardi, in quello stato quasi sconvolto, non aveva resistito farsi scappare tali cattiverie. Ora rimaneva in quello stato languente, abbracciato al cuscino, il letto vuoto da una parte, sapendo di aver veramente esagerato. Aveva scorto qualcosa sul volto di Hansi, il momento in cui, con una tacita rassegnazione, invece che gridare come si sarebbe aspettato, aveva chinato il capo e si era voltato in silenzio, dandogli le spalle, uscendo dalla camera. Era qualche dettaglio della sua fisionomia che si rilassava in una vaga espressione di dolore, e che rievocandolo nella mente gli faceva male più di mille parole.
Si riscosse. Non era il momento di pensare al dispiacere. Hansi l’aveva fatto arrabbiare, lo infastidiva ogni giorno con le sue  pretese, e lui era arrivato quasi allo stremo delle forze. Davvero, era frustrato. E la frustrazione lo trasformava in un essere crudele.
Guardando il soffitto si accorse che entrava una luce evanescente, un barlume brillante di qualche lampione sospeso nella notte. Non si era nemmeno ricordato di chiudere le ante della finestra. Quei piccoli sprazzi di chiarore soffuso formavano come delle macchie, dei disegni intricati.
Cosa doveva fare? Poteva alzarsi, ed andare a parlare con Hansi che comunque, era certo, non sarebbe tornato in camera; oppure poteva rimanere fermo nella sua posizione, pretendendo di essere tranquillo, ed aspettare la mattina per un chiarimento che forse non sarebbe mai avvenuto.
Aveva la netta sensazione di essere arrivato al limite. Che entrambi fossero arrivati al limite. E che non ci sarebbero più state parole riparatrici.
Die si chiuse nel suo silenzio pensoso e pieno di dubbi e di dispiaceri, fino al mattino, quando dalle finestre dimenticate aperte un rivolo di luce solare scivolò nella camera trovandolo ancora sveglio, irritato, meditabondo.
- Che due idioti orgogliosi che siamo, - Si disse, alzandosi dal letto più stanco di quando si era coricato.
Entrò in sala. Non c’era nessuno.

II.

Hansi era uscito prestissimo, quasi all’alba, un orario che per lui era sempre stato impensabile. Aveva scorto i primi raggi del mattino illuminare le case, ed aveva pensato che, forse, avrebbero potuto illuminare anche lui. L’aria fresca gli puliva la faccia e attenuava il bruciore agli occhi che desideravano soltanto piangere. Guardava la strada e si sentiva un po’ perduto in mezzo a tanta vastità di cemento e a tutte le persone che incrociava, transitando loro accanto senza nemmeno conoscerle, senza vederle quasi, senza distinguerle dalla massa indiscreta che palpitava nei meandri della Città viva e florida.
Un tempo, invece, guardava il cielo. Un tempo era stato un’idealista, un giovane appassionato pieno di idee e di speranze per il futuro. Un tempo cercava per sé la vita, l’ebbrezza, la contentezza. Ora si trovava tra le mani soltanto cenere. Forse aveva ragione Die, ed allora una cosa gliel’aveva davvero insegnata, quando gli diceva che non doveva credere nelle favole, non poteva più permetterselo, e che il suo mondo era una bolla di sapone destinata a scoppiare scontrandosi con le situazioni concrete della realtà.
Anche se aveva odiato quelle parole con tutto il suo cuore, non poteva negare di cominciare a scorgere in esse un po’ di verità. In quella strada affollata, illuminata dal sole ed ombreggiata dalle alte cime dei palazzi, osservava le sue illusioni spezzate scintillare di un ultimo disperato abbaglio. Una cosa l’aveva certamente persa – tutto l’amore che provava per Die. Pensava di poterlo ancora trattenere nonostante tutto. Era quasi riuscito a convincersi ad accettare anche quel suo lato così estraneo, così deprecabile ai suoi occhi, pur di non doverlo perdere ancora, pur di non vederlo uscire dalla soglia e portarsi via il resto dei suoi sogni. Era bastata una parola, un sorriso crudele, ed era tutto, tutto sfumato in una nebbia indefinita di stupore, tristezza, vacuità. In quel momento Hansi aveva sentito qualcosa spezzarsi, ed aveva capito che non c’era più niente da fare, che non era più possibile riparare i cocci così minuti, così sfaccettati, così frammentati di quel loro rapporto. Aveva chinato la testa in segno di sconfitta ed era uscito dalla stanza senza fiatare.
Si sentiva deluso e prostrato per quella notte. Era rimasto sveglio ore ed ore ad aspettare un semplice cenno, una parola che non era arrivata. Che, ormai, non sarebbe più potuta arrivare.
- Mi dispiace tantissimo, - Si disse. – Abbiamo provato. E abbiamo visto che non ha funzionato. Anche se è così doloroso ammetterlo. -
Hansi poteva scegliere di rinunciare a lui e riconquistare la sua libertà, oppure di vivere ancora attaccato a quelle menzogne logoranti che lo uccidevano giorno dopo giorno. In fondo al cuore sapeva che mai, per nessuno, avrebbe rinunciato alla sua giovinezza.

____

RINGRAZIAMENTI  [brevi perché ancora non riesco a scrivere]:  

Manny-chan: o mia solita cara commentatrice del cuore, non posso comprare una nuova tastiera perché ho un portatile! Lo cambierò presto btw... Comunque questi due hanno capito tutto. Ancora non lo sanno, ma ci sono arrivati, meglio tardi che mai, niet?

Dicembre: Io sono in terribile debito con te di un ringraziamento come si deve per le tue splendide recensioni. Avevo cominciato a leggere Liberaci dal Male e mi era  molko piaciuta, ma volevo aspettare che ci fossero un po' di capitoli, e poi non ho mai tempo...

Lo so che sarete tutti in vacanza in questi giorni... Buone vacanze à tout le monde!

Baci!

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20. ***


ambivalenze 20

Terzultimo  capitolo, people! Commenti sempre graditi!

___

Venerdì otto Giugno,

 

Un biglietto di congratulazioni; una festa non molto allegra per qualcuno; una porta sempre spalancata sull’orizzonte delle Possibilità e un Piccolo Principe che torna al suo asteroide

 

I.
                       

Mi congratulo per il tuo successo accademico
e ti auguro di trovare in questa strada tutta la soddisfazione
e la felicità del mondo.

-
Hansi

 

 

 

II.

“Sono passati tre giorni da quella sera – davvero non te l’ho ancora raccontato?”

Nikita vedeva il sentimento morboso con cui suo fratello stringeva il cartoncino bianco che Hansi gli aveva spedito quella mattina.

Die proseguì. “In quel breve lasso di tempo mi  ha completamente ignorato. Ed io sono stato così stupido da non fermarlo, da lasciarlo andare in simili condizioni, quando avevo capito benissimo che sarebbe bastata una scusa sentita per sistemare il divario che ci separava. Usciva alla mattina col suo basso – andava a provare. Ritornava a casa con le dita screpolate per le sessioni interminabili. Fino a qualche giorno prima mi chiedeva sempre di accompagnarlo e di suonare con lui. Allora si alzava, mi salutava piano e usciva. Non provava più a chiedermi dell’Università.

Sai, avevo quasi ceduto alle sue pretese. Davvero. È strano – se mi avesse chiesto ancora un paio di volte di suonare ancora con lui, io avrei accettato.

Una mattina, prima di uscire, mi ha detto che me ne dovevo andare. Era casa sua, ed era giusto così, ma io non capivo, non realizzavo. Mi disse semplicemente che non c’era più niente da fare, che da tre giorni non ero più il suo ragazzo, e che non voleva più vedermi, sai perché? Ha detto – ha detto che non mi amava più. Il momento in cui l’avevo calpestato e deriso aveva realizzato che non gli bastavo più per la realizzazione dei suoi stupidi ideali, e che ero diventato completamente trasparente, uniforme alla realtà, ai suoi occhi. Mi ha detto anche che quel dolore sul suo volto era solo la frustrazione per la perdita di un vincolo che gli sembrava importante. Non per me, ma per il concetto stesso che aveva del nostro amore. Non lo so, Nikita. A questo non ho voluto credere fino in fondo. Una parte di me brucia ancora della piccola speranza che lui, segretamente, sia innamorato come lo sono io.”

“Ti ricordi quella sera all’Eterea?”

“Sì. È stato bellissimo. Guardando indietro a momenti come quello, mi chiedo cosa ci faccia qui.”

“Festeggi la tua laurea.”

“Sai, Nikita, io pensavo che sarebbe stato più facile da questo punto in poi. Da quando Hansi è rientrato nella mia vita con la sua meravigliosa follia, tutte le mie certezze sono crollate. Per mesi ho tenuto duro nello studio supportato soltanto dalla consapevolezza di dover portare a termine qualcosa che avevo iniziato. Per non buttare via quattro anni. Mi dicevo che dopo la laurea tutto sarebbe stato più facile, e da quell’istante sarei stato un ingegnere senza dubbi. Invece ora che sono qui con questo stupido attestato tra le mani mi accorgo che – che non mi interessa. Che non è il mio posto e che non voglio spendere tutta la mia vita in qualcosa che non amo, rimpiangendo l’immagine della persona che avrei potuto essere se solo avessi creduto un po’ di più nelle mie idee. È triste pensare che ormai non mi rimane altro. Ma è troppo tardi. È assurdo. Ho precluso l’altra via con le mie stesse mani, incatenandomi al presente. Mi sembra un incubo. Avrebbe dovuto migliorare tutto, e invece –“

Die venne interrotto da alcune persone che si avvicinarono a lui tendendogli la mano per le solite frasi di circostanza e brindando alla sua salute coi loro flutes pieni di vino dorato e spumeggiante.

 

II.

“Non sei felice. Cosa posso fare per renderti felice?”

Die lo adorava in quel momento. Se avesse potuto baciarlo, lo avrebbe fatto. Di certo, anche quando tutto gli andava storto, suo fratello, il suo vero fratello, sapeva stargli accanto con la solita delicatezza e con quella comprensione che nessuno aveva di lui. Era come un libro aperto tra le cui pagine Nikita sapeva leggere mille incisi più importanti che tutte le spiegazioni del mondo. Loro erano sempre stati perfetti ed in sintonia – non avevano mai sofferto di quella rivalità o di quell’odio sottile e competitivo che si instaura tra fratelli.

Die si lasciò andare contro il sedile dell’auto. “Non puoi fare nulla.”

- Com’è bello Nikita, coi suoi capelli blu - Pensò distrattamente guardandolo. - 

Per fortuna gli restava lui.

“Die, scommetti che invece so qualcosa di importante?”

 

III.

“Scendi.”

“Cosa?”

“Scendi.”

“No.”

“Scendi! Al massimo torno a prenderti. Non fare i capricci. Sono sicuro che stavi pensando a questo posto, e che il cartoncino che stai distruggendo tra le mani significa molto più che un augurio distante.”

Die aprì lo sportello della macchina, scese e rimase a guardare Nikita che faceva la sua inversione e ripartiva per essere inghiottito dal traffico delle dieci di sera.

Casa di Hansi era particolarmente incantevole, un piccolo gioiello del centro storico, ristrutturato all’esterno e completamente rimodernato negli interni. Le pareti che davano sul cortile e sui giardini pubblici si aprivano in gradi finestre e portefinestre mensolate o balconate, separate le une dalle altre da semicolonne in rilievo, i piani erano evidenziati da bordature in stucco ed il cornicione era estremamente lavorato, quasi barocco. L’effetto era suggestivo. Die si fermava sempre ad ammirare la bellezza estetica di quel palazzo antico, così diverso dagli appartamenti squadrati e razionali in cui era sempre stato abituato ad abitare. Era composta di tre piani più la soffitta. Hansi occupava la metà dell’ultimo piano e della mansarda. Nel cortile interno si apriva una scala che arrivava alle portefinestre dei balconi – forse era stata costruita come un antico sistema di sicurezza.

Die salì. Prese un respiro profondo. Bussò.

 

IV.

Fermo al semaforo rosso, Nikita inclinò la testa spingendosi sul volante e sospirò. Sperava vivamente di non dover tornare indietro a recuperare i frammenti spezzati di suo fratello. Ripensò a quella notte all’Eterea, quando gli era sembrato di scorgere così tanta luce per loro, e si disse che sì, in fondo aveva ragione lui. Era solo questione di convinzione.

 

V.

Hansi si avvicinò alla porta con un certo senso di ansia inspiegabile. Aveva appena mandato una cartolina a Die. In un certo senso aveva il vago presentimento che potesse essere lui, che fosse venuto per cercare di sistemare la situazione, magari chiedergli scusa. Quello che non sapeva era come avrebbe reagito. Gli ci erano voluti giorni solo per convincersi a mandare quel piccolo, banale augurio alla sua festa di laurea, di certo sarebbe impazzito a trovarselo davanti, avrebbe compiuto esattamente le cose che non si era riproposto di fare mentre, scrivendo il biglietto nella sua calligrafia più leggibile, si vergognava della sua stupida speranza di vederlo indietro. 

Socchiuse la porta.

Die indossava solo una leggera camicia nera di seta che risaltava particolarmente il suo incarnato diafano e i suoi occhi blu. Era tanto che non lo vedeva, e che non lo trovava così bello. Sospirando, chinò la testa in segno di sconfitta. La sua mano stringeva già la maniglia ma non si decideva ancora a lasciarla, preso nella sua mente tra le reti di una complessa battaglia interiore.

Die lo guardò attraverso quella sottile fessura. Pensò immediatamente al peggio – pensò, vedendo le sue attitudini e la lentezza stanca con cui compiva ogni singolo movimento, che fosse semplicemente esausto, e che l’ultima cosa che voleva fosse trovarselo di nuovo davanti, una sera tranquilla. In un istante fu riempito dei dubbi che aveva represso mentre saliva le scale – e se avesse trovato qualcun altro? E se si fosse innamorato? E se lo stesse odiando davvero? E se –

Hansi non apriva la porta perché sapeva che nel momento in cui avesse compiuto questa semplice, banale azione, avrebbe nuovamente deciso in un singolo istante di un nuovo capitolo della loro storia. Sapeva che allora Die non avrebbe nemmeno più avuto bisogno di parlare per rivolgergli le sue scuse, o per dire qualsiasi parola, qualsiasi frase. In quel momento la porta era diventata soltanto l’ingresso di una nuova, lunga serie di Possibilità. Scostandola, avrebbe lasciato penetrare nella stanza che era stata loro per tanto tempo una nuova ventata dal mondo, avrebbe ammesso che nessuno dei due aveva ragione, e che né la sua convinzione passionale, né l’orgoglio sfrenato di Die erano potuti sopravvivere da soli, su quel mare di speranza crudelmente infrante dai loro reciproci colpi di sfida.

In fin dei conti voleva stare di nuovo bene. Voleva ancora essere la sua Rosellina delicata, un po’ fiera e molto vanitosa, capricciosa, narcisista, sempre al centro dei suoi pensieri e protetta gentilmente dal suo paravento, perché le spine non erano artigli e non potevano preservarla dai Mali del mondo.

Dall’altra parte della soglia, Die aspettava tremando per il freddo e per l’eccitazione. Sarebbe potuto restare in quella posizione, immobile, immutabile, ieratico, per un milione di anni, per un’eternità.

- Aprimi, aprimi, aprimi, - Si diceva.

E Hansi chiuse gli occhi per un momento. Gli sorrise gentilmente. Con un movimento incredibilmente lento scostò l’uscio e gli fece cenno di entrare.

 

VI.

Era strano pensarsi di nuovo accanto a quel focolare così intimo, così conosciuto, eppure sempre un po’ distante. Ogni traccia di freddezza era scomparsa. Non sapeva nemmeno come fosse successo, ma si era ritrovato tra le sue braccia a frenarlo dall’impeto di chiedergli scusa troppe volte, giurandogli che non avrebbero litigato più, che aveva ragione, e che non voleva sprecare la sua vita in un ufficio, in un lavoro grigio, in un appartamento grigio, assieme a persone grigie ed uniformi, ma voleva restare con lui e con quella sua colorata pazzia molto artistica, molto bohémienne, molto piena di vita.

Era tutto piuttosto confuso nella sua testa. Un momento prima credeva che situazioni di questo genere non capitano nella vita reale, e che non si riaprono le porte già sbarrate due volte perché uno ti guarda con occhi pieni di disperazione attraverso un vetro sottilissimo eppure così spesso e pesante. Non lo faceva per Die. Lo faceva per se stesso. In un certo senso era egoista, ma capiva che da quel momento sarebbe stato tutto diverso e, magari, più semplice. Che quella volta erano finalmente cresciuti, che avevano imparato una regola fondamentale della convivenza, che ormai il loro male era stato sradicato alla radice dalla disperazione. 

Il Piccolo Principe doveva viaggiare per tutto l’Universo, incontrare ogni sorta di persone, stringere amicizia con pecore disegnate, piloti in panne, volpi, serpenti, ubriaconi e re, per poter finalmente tornare sulla sua stella, per apprezzare il valore della sua incantevole, fragile Rosa. E per compire questo salto era davvero necessario morire, una notte, nella quiete silenziosa del deserto.

Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 21. ***


ambivalenze21

Giovedì quattordici Giugno,

Due e-mail di racconti; una conversazione ironica nella caffetteria; alcuni progetti per il futuro decisamente a lungo termine; una canzone e il rumore degli Anni Sprecati infranti

I.

A: ottavia.---@---.it

Cc:

Oggetto: Piccolo week-end prima degli esami

Allega: Foto 01; Foto 03; Foto 04; Foto 10

Ciao Otta!

Mi sto divertendo da morire qui, anche se tuo fratello non sembra essere dello stesso parere. Il sole splende, il cielo è azzurro, ci sono io, non so cosa trovi ancora da lamentarsi. Questo ragazzo è un concentrato di negatività oscura e sensazionale che presto o tardi finirà per incrinare l’armonia perfetta del mio Equilibrio Cosmico. Un po’ c’è già riuscito. Capisco che sia agitato per gli esami, ma continua, continua a ripetermi che non avremmo dovuto prendere nemmeno un giorno di vacanza. È il quattordici Giugno, tra un mese è festa nazionale in Francia, io sono contento, e il mondo è fantastico, almeno così cerco di mettermi in testa. Cioè, non è che sia proprio convinto. Diciamo che il mio microcosmo è fantastico.

Adesso Lelio dorme, per fortuna. È uno sfigato, si addormenta sempre di pomeriggio e la notte si lamenta che non riesce a chiudere occhio. Ha i ritmi un po’ sfalsati, sai… è anche colpa mia.

Salutami Nikita che sarà sicuramente con te, e magari Die e quel gran gnocco del suo nuovo ragazzo. No, aspetta, io amo solo Lelio e troverò attraente solo Lelio. Lo giuro. Ieri sera si è ubriacato un po’ e ha improvvisato uno spogliarello cantando quella canzone stupida che fa I don’t feel like dancing – si chiama così?... Gli faccio sempre alzare un po’ il gomito perché diventa di buonumore, e io sono felice, e siamo felici insieme, e fine della storia.

Se fossi il re del mondo, saprei come sconfiggere il Male. L’acqua fa male, il vino fa cantare. Fais ce que tu voudras. Viva la Dive Bouteille. Sarei saggio e magnanimo come Pantagruel, solo, decisamente più affascinante.

Baci ^_^

Cea (e, spiritualmente, anche Lelio)

II.

A: ottavia.---@---.it

Cc:

Oggetto: Otta, lo so che sei invidiosa…

Otta, lo so che sei invidiosa, a- del mio magnifico ragazzo; b- del mio magnifico bilocale al mare con vista su scogliera e golfo. Ti inviterei qui, ma sai, volevo stare un po’ da solo, veramente da solo, con Hansi, che ultimamente sta perdendo la sua vena schizofrenica e si sta trasformando in un bravo ragazzo, in un lavoratore diligente, in un moroso perfetto, il che mi incoraggia. Ero un po’ demoralizzato prima di partire. E’ tanto che non suono. Giuro che appena torno a casa mi impegno a provare e a provare per ore tutto quello che mi viene in mente, dai Rush ai Tool. Prometto.

Per il momento voglio godere le meritate vacanze che seguono il casino degli ultimi mesi della mia vita, eccetera eccetera eccetera. Ti racconterò quando torno, se torno, un dì, della bellezza delicata e tutta profusa di luce, odori, suoni e sensazioni di questo piccolo paradiso terrestre. Io e Hansi eravamo venuti una volta in inverno, ma non rendeva in questo modo. Ricordo che c’erano un sacco di stelle, e che non volevo tornare nella frenesia della realtà, perché era tutto straordinariamente rallentato, come messo a giacere in una bolla di cristallo isolata dal resto del mondo. Ora è un po’ più caotico, ma ugualmente pittoresco e magico. I giardini sono meravigliosi. Devi venire, ti innamoreresti di questo posticino arroccato, lo so.

Per il resto salutami quel disgraziato del mio fratellastro, il suo santo ragazzo, e il mio dolce Nikita,

See you,

Die (Hansi è in giro, ma anche lui saluta, è___é)

III.

Nikita sorrise alzando gli occhi dai fogli che sua sorella gli aveva portato, mentre lei beveva il suo caffè abituale delle nove del mattino. Era una bella giornata di sole estivo, già molto afosa. Presto sarebbe partita per Londra, e Nikita sarebbe scappato dalla calura che cominciava ad addensarsi nei recessi della Città con instancabile precisione annuale. Avrebbe viaggiato verso mille metropoli di mille colorati paesi stranieri, posando per le più importanti macchine fotografiche, trovandosi ogni volta una fidanzata diversa.

Ottavia sospirò, appoggiando la tazzina sul piatto di ceramica. “E tu quando ti trovi seriamente una ragazza?”

“Quando tu ti sposi Jonathan Rhys-Meyers.” Rispose Nicola aprendo il giornale.

Ottavia sorrise con la sua imperturbabile malizia.

IV.

Carry me to the shoreline

Bury me in the sand

Walk me across the water

And maybe you’ll understand –

Verso il tramonto Die si portò alla terrazza sospesa su di un mare irreale di meraviglia. Gli scogli si ergevano davanti alla sua vista bagnati dalla schiuma delle onde cristalline sciabordanti e appena a pochi metri da essi si apriva il loro piccolo, curato giardino fiorito di ogni genere di fiori e piante mediterranee. L’estate aveva steso un velo profumato, sottile e frizzante su ogni cosa, cancellando la precarietà e quel senso di perdita protrattosi per tutto il lungo inverno. Il sole spandeva ancora il suo chiarore fulgido sulle macchie rosse, viola, blu, rosa, iridate delle dolci corolle, e sul verde brillante delle foglie e dell’edera arrampicata sopra ogni superficie. Gli pareva di godersi ogni singolo istante di luce di quella fantasmagorica ascesa. L’indomani se ne sarebbe tornato nel caos della Città ed avrebbe definitivamente cominciato un nuovo capitolo della sua esistenza con Hansi e, soprattutto, con la sua chitarra, dimenticandosi del fresco venticello che soffiava sul limitare della spiaggia. Si era sentito seppellire a poco a poco e ora si ridestava.

Rimase incantato in quello stato di contemplazione senza nemmeno accorgersi dell’arrivo di Hansi, seduto sui gradini marmorei del piccolo spiazzo deserto e silenzioso.

“Ehi,” Lo richiamò dal suo assopimento. “Che c’è?”

“Niente,” Si riscosse Die. “L’estate fa miracoli. Ho sentito il rumore come di uno schianto.”

“E cos’era?”

Die alzò le spalle. Era il suono dei suoi Anni Sprecati che precipitavano in mare.

“Posso prendere i bicchieri o hai ancora sete?”

“No, fa pure.”

Hansi prese il vassoio dei bicchieri vuoti e rientrò nell’appartamento, lasciando nuovamente Die immerso nei suoi pensieri rivolti verso l’orizzonte sempre più rosso, sempre più infuocato, sempre più carico di colori sanguinolenti, deflagranti, potentissimi allo sguardo un po’ assente, un po’ malinconico, un po’ pervaso di segreta dolcezza di colui che, un giorno qualsiasi di una stagione qualsiasi, si ferma a scrutare tra le sue pieghe un qualche vago presagio per il proprio futuro.

C’era un momento che Die amava particolarmente del crepuscolo, ed era l’ultimo, il più dilatato, il più invisibile, il più elettrico, e, di conseguenza, il più imperscrutabile – era l’attimo in cui il sole spariva definitivamente sotto la linea del mondo, trascinandosi dietro i barlumi iridescenti e le esplosioni cromatiche dei suoi ultimi minuti. Allora scomparivano il rosa, il cremisi, il viola, lo zaffiro, il magenta, l’ocra, l’arancio, il giallo, e rimaneva soltanto il buio appeso in cielo, ancora privo di stelle e di profondità, sul cui tessuto baluginante già si dipingeva la luna e contemporaneamente permanevano tracce del chiarore diurno. Era proprio l’istante brevissimo in cui la notte conviveva col giorno e l’oscurità si sposava con la luce, mescolandosi fino a dare vita ad un mistico abbaglio, ad un tono screziato più denso verso l’oriente, più evanescente e limpido verso Ovest, ancora trafitto da irrequiete scintille di sole ed illuminato dalla stella vespertina. “Quella è la nostra stella!” Esclamò. “La stella della Rosa e del Piccolo Principe.”

Rimase incantato alla balaustra finché non vide il sole affogare nella placida distesa del Mediterraneo caldo. Non aveva vere idee nella testa. Pensava più che altro al tramonto e al giorno dopo, e si ripeteva due versi antichi e quella canzone meravigliosa con particolare insistenza.

Taglia una corta speranza,

poiché la vita è breve

Non voleva tagliare una corta speranza. In effetti sarebbe stato meglio così, ma gli dispiaceva. Voleva tornare a sognare con la passionalità infantile di Hansi e pensare di poter conquistare il mondo assieme a lui. Tutto attorno alla sua rivoluzione, molte persone stavano cambiando, molte cose rimanevano statiche nella stessa incoerente contraddizione. Nikita partiva per l’ennesima volta, Ottavia si trasferiva per i canonici tre mesi in Inghilterra, ma, soprattutto, Lelio cominciava la sua nuova vita all’Accademia di Belle Arti.

Cosa gli restava ora? Una corta speranza? - La corta speranza è molto ragionevole, - Si disse. – Ma Hansi è un idealista.-

Erano molto, molto diversi. In un certo senso ambivalenti.

In questo modo chiudeva il suo cerchio. L’equilibrio è compenetrazione perfetta, sintesi degli opposti, finalmente l’aveva capito. Era quella sorta di rigenerazione spontanea che galvanizzava ogni istante il rapporto indissolubile tra Lelio e Mircea, quel vincolo che aveva sempre cercato di comprendere e che suo fratello gli aveva esemplificato nella lezione dell’Arte.

Era giunto il Vespro, col suo buio e la sua luce, insieme. Il blu fosforescente ed il nero.

- E’ strano, - Pensò. – Come tutto, anche in Natura, si fondi sulla legge delle proporzioni auree, e che queste non siano altro che matematica universale, e che la matematica universale sia il solo vero equilibrio sospendente ogni ambivalenza. -

Die lasciò il terrazzo, e, voltandosi verso casa, gettò in mare tutte le corte speranze, la paura dei contrasti, ogni traccia rimasta degli ultimi Anni Sprecati.

Once the stone

You’re crawling under

Is lifted off your shoulders

Once the cloud that’s raining

Over your head

Disappears

The noise that you hear,

Is the crashing down of Hollow Years

___

Portami sulla battigia

Seppelliscimi nella sabbia

Calpestami sul ciglio dell’acqua

E forse capirai –

Una volta che la pietra

Sotto la quale strisci

Sia scivolata via dalle tue spalle,

Una volta che la nuvola da cui piove

Sulla tua testa

Sparisca,

Il rumore che sentirai

Sarà lo schianto a terra degli Anni Sprecati

(Dream Theater, Hollow Years)

***

Buongiorno miei dolci lettori! Non so chi di voi sia rimasto sintonizzato, by the way eccovi il penultimo capitolo. L'ultmo a dire il vero, perché il prossimo è l'epilogo, una chiosa, anche se tecnicamente è stato il motivo per cui ne ho scritti altri venti. Ebbene sì, sono partita dalla fine...
Sapete, sono al mare - esattamente dove starebbe Die -, quindi non ho internet, devo ricorrere all'internet point e il tempo è quel che è. Non riesco ovviamente a leggere le fic che stavo seguendo, a commentare eccetera. Sono in astinenza da fic! Scusatemi. Chissà se Susy ha aggiornato. Se Dicembre - boh, mi sento fuori dal mondo.
Sto scrivendo una nuova long fic, per la cronaca. Lo dico perché siamo agli sgoccioli e perché sono già stati buttati giù venti capitoli, ma sui miei quaderni e fogli volanti,chissà quando la batterò al piccy.
Per il resto, buone vacanze a tutti, cercherò di aggiornare presto con la conclusione [anche se un po' mi dispiace].

SPECIAL THANKS TO:

Manny-chan: Che meraviglia, sei tornata... sono contentissima! E hai ragione, ho un po' ignorato Narciso e Boccadoro, ma volutamente... Intanto, sono sistemati felicemente per il resto della loro esistenza in salute e malattia in ricchezza e povertà e bla bla bla, e poi perché la storia è costruita da due blocchi e la seConda parte riguardava il blocco Die-Hansi, che come vedi s'è sbloccato (non è un gioco di parole, giuro, ma rende l'idea u___u). Se ti fa piacere la conclusione è tutta di Lelio.... Ti ringazio infinitamente e ti auguro buone vacanze.

Baci a tutti i lettori!
Martina

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 22. ***


ambivalenze epilogo

Vorrei mettere il commento all'inizio, così potrete terminare la pagina con l'ultimo, brevissimo capitolo. Ora che lo rileggo mi accorgo di quanto sia stato inconsistente eppure in un certo senso essenziale per tutta la storia... E' un capitolo che non dice niente, perché è tutto concluso, ma è forse il più introspettivo... non lo so. La poesia è di Keats, ed è una specie di Verità per me, nonché per Lelio. La parte in corsivo sono i miei veri appunti di inglese, ormai vecchi di tre anni quasi. Che dire... doveva finire così e basta. Il disegno di Cea. Il momento in cui Lelio lo vede come la cosa più bella del mondo. End.

Sono molko dispiaciuta di averci messo così tanto ad aggiornare. Ma questa volta non accamperò scuse tipo il computer, il tempo, la scuola e bla bla bla. La verità è che non avevo intenzione di finire Ambivalenze solo dopo aver terminato di scrivere la mia nuova fan fiction e così è stato. Presto la vedrete. E poi mi dispiaceva... l'ultimo capitolo è sempre un piccolo dispiacere, ecco.  

Per il resto ringrazio tutte le persone che hanno letto, e tutte le persone che hanno commentato. Ringrazio in particolare Manny-chan [voilà, l'ultimo, il decisivo capitolo. Grazie del supporto per tutti questi mesi, ti sono tantissimissimo riconoscente!]e Chloe 90 [qualsiasi cosa sia successa nella tua testa sono sicura che questo capitolo non causerà scompaginamenti... vale lo stesso ringraziamento di Manny-chan, grazie millissime per il tempo che hai sprecato con la fic] che mi hanno ricensito per ultime. Un grazie anche alle persone che volontariamente o no hanno ispirato questa fic, anche quelle che oggi, dopo tanti anni, non fanno più parte della mia vita.    

Una poesia malinconia; una chiosa di spiegazione; una contemplazione emozionante. Un’icona da incastonare 

 

I.

 

“Beauty is truth, truth beauty, - that is all

ye know on earth, and all ye need to know.”

 [Keats, Ode On A Grecian Urn]

Lelio aveva dormito per tutto il pomeriggio, e allora non riusciva a prendere sonno. Non si era nemmeno coricato. Era uscito sul balcone, aveva guardato il cielo coperto inclinando un po’ la testa, come faceva quando si compiaceva delle sue visioni, ed era tornato in camera pieno di freddo e di pensieri intangibili, soffusi, delicati. A volte si stupiva delle corrispondenze perfette che poteva scorgere tra le architetture della sua mente ed i caotici disegni delle stelle – e poi, il cielo rappresentava il più ampio teorema della sua dottrina estetica.

Lelio aveva avuto una sorta di illuminazione, quella mattina. Aveva letto delle righe che lo avevano fatto sussultare e l’avevano riempito di una certa contentezza. Aveva cercato Mircea e gli aveva detto con lo stesso tono di un bambino: “Ehi, guarda che cosa ho trovato!”, ma nella sua testa pensava: tutta questa poesia, senza nemmeno saperlo, e senza le rime o le assonanze, o la metrica, o le figure retoriche, era già incisa nella mia testa. Di questo si era stupito non poco. Era giunto alla conclusione che è molto difficile pensare originalmente, e che le idee, le fedi, i concetti e le meditazioni, funzionano un po’ come l’energia: sono regolate da una legge simile all’entropia – viaggiano nel vento, raggiungono ogni persona che sia predisposta a farnsene ricettacolo, si mantengono costanti nella loro quantità nei secoli, e, per qualche inspiegabile decadimento, degradano progressivamente e con lentezza perdendosi nel nulla irrisolto della materia morta.

In fondo la bellezza non l’aveva inventata lui, e non solo lui l’aveva vissuta. Quel poeta aveva ventidue anni, quando l’ispirazione, Adonai, sospinse la sua mano sulle sudate carte componendo la sua Ode più bella, il capolavoro dell’immortalità nell’Arte. Ma, forse, poteva capirla, poteva intuirla in una maniera più profonda di chiunque altro si approcciasse al suo scritto, perché l’aveva rivissuta e rielaborata nella sua stessa Immaginazione. Questo gli mostrava nuovi gradi di perfezione, nuove sfumature, nuovi splendidi risvolti in una teoria ambivalente, piena di luci e di ombre, di esaltazione e di dolore soffuso, steso delicatamente come lo sfondo nero delle urne greche.

Scrisse un appunto veloce sul libro –

 

Nuova dimensione dello spirito. Le figure incise sull’urna appartengono al mondo immortale. Nella loro immobilità cristallizzata contemplano un idillio. Il giovane suona un flauto/pipa (?). la sua musica è il suono dell’immaginazione, che è SEMPRE, ed è anche ogni volta nuovo e bellissimo, perché diviene ciò che noi vogliamo sentire. La Bellezza è ESTASI. “La Bellezza è verità, la verità è Bellezza – è tutto ciò che si sa del mondo, ed ogni cosa uno debba conoscere”

 

Chiuse il libro e lo ritirò. Guardava Mircea e sorrideva. Gli sembrava che quella bellezza delicata contenesse in sé una certa potenza di perfezione, e quindi un certo merito di eternità. Era la seconda volta che pensava a fare di lui un’opera d’arte, e consacrarlo per sempre all’immortalità, alla permanenza, alla memoria. Le curve lievi del suo corpo, appena accennate sotto le lenzuola, lo riempivano di tenerezza. – Probabilmente, - Si disse, - Questa è l’idea che ho sempre avuto di lui, ed è il movimento che mi ha fatto segretamente innamorare. –

Perché Lelio era sensibile alla Bellezza. E la Bellezza semplice ed appassionata generava nel suo animo soltanto una strana sorta di morbida felicità.

Sei felice quando osservi qualcosa di meraviglioso? Gli domandava la sua voce interiore. .

Avrebbe dipinto quell’icona e l’avrebbe conservata lucida e scintillante nel suo cuore. Per tutta la vita.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=121750