Achilles Last Stand

di Scandal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - So Lonely. ***
Capitolo 2: *** II - Jump In The Fire. ***
Capitolo 3: *** III - Comfortably Numb. ***



Capitolo 1
*** I - So Lonely. ***


 La storia è ambientata durante il primo periodo di spionaggio di Hidemi: Pisco è quindi ancora vivo. Irish è identificato come SEAN. [pronuncia “scion”]
 

I
So Lonely.

•~•~•~•

Speciale dedica ai Police, i miei musi (?),
e ad Aya_Brea,
l’unica persona innamorata di Irish
tanto quanto me.

 

 
 

No surprise no mystery 
In this theatre that I call my soul 
I always play the starring role”

 
Ormai non sopportava più quell’odore di anfetamina che velleggiava per la stanza. Tuttavia non si mosse dalla poltrona in pelle dov’era seduto. Tutto poteva aspettare, in quel momento: se ci fosse stato qualcosa d’importante, esso sarebbe mutato in un bisogno impellente e lui l’avrebbe notato. Ma dato che nulla s’era manifestato, non c’era nessuna vaga motivazione che lo potesse lontanamente distrarre dal suo lavoro. Sfogliò le ultime cartelle cliniche, per verificare che tutto fosse in ordine, e poi quel senso di stanchezza che ormai lo attanagliava da tempo lo invase nuovamente.
Accecato dal desiderio, si sfilò dalla tasca un piccolo portapillole. Dentro c’era quella tanto famosa sostanza dopante: l’anfetamina. Mando giù una capsula di quella leggera droga. Dopo qualche minuto si sentì meglio e proseguì a smistare le sue scartoffie.
Sean era un uomo di appena trent’anni, con i capelli castano mogano che gli fluivano in fronte morbidi e due occhi vispi e attenti. Di fatto aveva tutto ciò che un singolo individuo potesse desiderare: bell’aspetto, un acume non indifferente e un buon lavoro da cardiochirurgo che assorbiva le sue giornate. C’era un’unica pecca nella sua vita: lui era solo, e questa solitudine lo rendeva estremamente debole. Era arrivato perfino a doparsi, giusto per non cadere in quel grosso baratro che era la depressione.
Erano passati anni da quando aveva salutato Hidemi, primo e ultimo “amore”. Lei si era mostrata tutto ad un tratto bisognosa di compiere un lungo viaggio verso l’America, e da lì non l’aveva più vista, né sentita tramite cellulare. Come se fosse scomparsa nell’ombra. Come se si fosse annullata per poi ricomparire sotto altre spoglie.
Lui aveva inteso quell’avvenimento come un chiaro messaggio d’addio e, adirato, aveva perfino cancellato il numero della ragazza dalla sua rubrica.
Un grande sbaglio: quella donna forse, in quei giorni difficili, era l’unica degna di darle il conforto necessario ad andare avanti. La sua carriera proseguiva, certo, ma niente era più come prima. Il sentimento e le passioni sembravano come scomparse dalla sua vita, con l’ ”arrivederci” di Hidemi.
E la sua famiglia? Se ne stava nella periferia di Tokyo, e ogni tanto passava a trovare la madre. Il convoglio Tottori-Tokyo però era scomodo e lercio, e viaggiare fino alla metropoli si rivelava un’irrimediabile seccatura. Così le visite si erano ridotte fino a risultare quasi nulle.
La sua unica occupazione era stare seduto su quella poltrona di pelle, o al massimo in sala operatoria, e sanare tutti quei cuori malati che si presentavano allo stetoscopio in sala visite.
Al suo però, di cuore, non ci pensava nessuno.

 

***

 

Quella mattina aveva portato una ventata giovane e fresca nell’animo di Sean. Chiuse con uno scatto la sua ventiquattrore di pelle nera e uscì a passo spedito dalla sua villa di Tottori. S’infilò nella sua berlina blu pastello e raggiunse un bar nella periferia della città.

Qualche minuto dopo, era seduto su una sedia in pagliericcio di un locale molto di nicchia e dal sentore vagamente vintage. Controllava con cipiglio contrito le lancette dell’orologio. Quel ticchettare così perfettamente scandito e regolare lo infastidiva non poco. Di fronte a lui stava un posto vuoto, e protetto con cura quasi fosse il classico baule pieno di monete tintinnanti.
“Vuole ordinare, signore?” Una giovane donnicciola lo squadrò da capo a piedi con interesse. Si mordicchiò un labbro carnoso e puntò la sfera della biro sulla carta ancora tersa del suo blocchetto.
Quell’atmosfera carica di malizia e doppi fini innervosì Sean. Non gli erano mai piaciute le ragazze così sfrontate; le femme fatali per lui erano solo spazzatura: donne che non riuscivano ad addescare nessuno col proprio e naturale aspetto ed atteggiamento, e che perciò si tuffavano in quel mare denso di rossetti scarlatti, minigonne inguinali e calze a rete, convinte che tutto quel sex appeal avrebbe concretamente cambiato qualcosa. La verità era che quando le conoscevi a fondo si rivelavano come tutte le altre: scialbe, sciatte, morte e prive d’interessi.

“No, grazie.” Esordì, secco. “Sto aspettando un amico.”
La ragazza lo guardò quasi come allibita, sorpresa: nessuno prima d’ora aveva mai resistito al suo fascino. Tutti la catalogavano come donna dalla bruciante lussuria, ma a lui sembrava soltanto una prostituta viziata.
“Per me un irish.” Intervenne brusca un’altra presenza. Un uomo sulla cinquantina, dai capelli candidi quanto canuti, s’accomodo sul quella preziosa sedia che Sean aveva gelosamente custodito. Presentava alcune piccole escoriazioni sulla pelle, bruciature mal curate, che non sfuggirono all’occhio allenato di Sean. Ne seguì la traccia: erano mediamente piccole e circolari. Andavano scemando sull’attaccatura dei baffi, dove non era possibile indagare a causa della loro foltezza.

“La mia vecchia pelle …” Sospirò l’uomo, intercettando lo sguardo critico dell’amico. Questi ridacchiò: l’altro stava mentendo, lo si vedeva palesemente.
“Come ti sei procurato tutte quelle ferite, Pisco?” Lo redarguì, inarcando verso l’alto le labbra. Non sorrideva: si era dipinto d’una smorfia di sfida.
Pisco lo ignorò. Era mutato tanto il loro rapporto, negli ultimi anni: da intimi confidenti erano diventati custodi di segreti. L’uno per le sue losche faccende, l’altro per la sua odierna sofferenza.
“Ho capito.” Disse a questo punto Sean, stizzito. “Cambiamo discorso. Che mi racconti?”

Pisco si prese un attimo per rispondere, d’un tratto solerte.
“La cameriera ti ha puntato.” Confessò.
Il tono con cui aveva parlato non piacque a Sean, che prese a sfogliare velocemente il menù dei liquori. Sherry, gin, vodka, vermouth. Quale avrebbe scelto?
“Oh, andiamo. Da quando Hidemi” –la sua voce tremò nel pronunciare quel nome- “ti ha lasciato, hai cominciato a chiuderti sempre di più verso le donne. Lasciati andare, per l’amor di Dio!”

“E pensi che una scopata aiuterebbe a sbloccarmi? Mi conosci davvero poco” Osservò il giovane con ferocia.
A quel punto Pisco affinò il suo sguardo, irritato, e gli rivolse un’occhiata perentoria. I suoi occhi brillavano alla luce del mattino. Il bianco attorno all’iride scura si fece rosato, in preda ad un sentimento travolgente.
“Hidemi” –ancora quel fremito- “te la devi scordare. Lei non tornerà! E se lo farà non sarà più quella di una volta.” Concluse, criptico. “Ti saluto.”
Bevve l’ultimo sorso di irish dal bicchiere di cristallo, lasciando sul fondo  piccole verità e grandi segreti.

***

 

Poggiò le mani ai bordi del lavello del bagno e rivolse gli occhi allo specchio. I suoi lineamenti, di solito dolci e sottili, erano carichi d’ansia e tensione. Quella che l’aspettava non era una missione di piccolo calibro, bensì qualcosa che comprometteva ogni suo principio, ogni principio che suo padre le aveva trasmesso con pazienza. Suo padre che era morto per salvarla.

“Non fare la sciocca, Hidemi” Si ripromise mentalmente, impugnando con presa salda l’astuccio dove riponeva i cosmetici. Ne tirò fuori un piccolo stick: burro cacao al cocco. Lo lasciò scivolare piano sulle sue labbra sottili, che poi strinse. Aspettò che la patina lucente aderisse. Si sentì immediatamente più rilassata: da quando era nel giro, aveva imparato ad apprezzare anche le più piccole azioni quotidiane. Solo quelle, ormai, riuscivano a darle un senso di profonda sicurezza.

Ripose il balsamo per la bocca ed estrasse successivamente un ombretto ceruleo: se c’era una cosa che odiava di quell’Organizzazione, era come la costringessero ad essere bella e provocante solo nel momento in cui avesse dovuto affrontare uno spargimento di sangue. Feste e festini erano aboliti, ma a quelle non ci pensava più. Le bastava sapere di essere arrivata sana e salva la notte nel suo letto.

L’auricolare che aveva nell’orecchio vibrò. Hidemi la premette d’istinto, d’un tratto di nuovo angosciata.
“Buongiorno, mia cara Kir” Proferì la solita voce glaciale, fredda, mascherata da uno spesso strato di zucchero.
“Gin. Che vuoi?” Ringhiò di tutta risposta. In quell’ istituzione gerarchica era in atto la selezione naturale: se ti dimostravi dolce e fragile, potevi ben scordarti di sopravvivere.
“La missione di oggi è all’Ospedale di Tottori. Un medico ci sta dando delle rogne. Tutto quello che devi fare è far finta di consegnarli la somma promessa… e poi…zac!” Hidemi rabbrividì. “Gli pianti una pallottola in testa. Tutto chiaro? Vedi di non fare errori, sai come potrebbe andare a finire.”
“Non sono stupida, Gin.”
Tottori era la città dov’era vissuta da ragazza: sarebbe stato relativamente facile orientarsi ed eseguire gli ordini.
Tottori era la città dov’era vissuta da ragazza…
….da ragazza…
…. da ragazza…

“Come si chiama la vittima?” Chiese, aspra per recita. L’unica cosa che avrebbe voluto fare non era lontana dal piangere.
“Haru Tutseda. Ti segni tutti quelli che uccidi, per caso?”
“No. Curiosità. Ora chiudo, Gin. Ho di meglio da fare”
“Immagino.” Ghignò l’altro.
Chiuse la comunicazione e si lasciò andare ad un sospiro liberatorio. La verità non era tragica come si aspettava: la vittima non era Sean.


***

Orario di visite.

Indossò il solito camice bianco, lungo fino a metà ginocchia. Ripose una penna nel taschino destro e aprì il suo registro da medico curante.

La sua mente si annebbiò per un secondo, ripensando a fatti del passato come se si stessero succedendo in quell’istante. Gli capitava spesso, troppo spesso. Batté la punta della stilografica sul foglio, che per errore schizzò un lungo e corposo getto di inchiostro nero.

Con stizza, ripulì quel piccolo libro con un fazzolettino di carta e attese pazientemente che il campanello suonasse, annunciandogli un nuovo caso da studiare.

E, finalmente, udì quello scampanellio famigliare e il sollievo lo avvolse: non era più solo.

Quando il paziente entrò, Sean ebbe un piccolo tumulto: quell’uomo indossava una divisa da poliziotto. Che fosse lì per accertamenti giudiziari?

Ricompose la sua solita fredezza che si era sgretolata in un millisecondo e si alzò in piedi, stringendogli una mano. L’uomo portava una cinta attorno alla vita, equipaggiata di pistola e manette. Che strano. Perché non se le era tolte prima di entrare in ambulatorio?

“Sta sudando” Lo avvisò. Era vero: quel signore, più o meno intorno alla mezza età, presentava una fronte piuttosto lucida sulla quale sembrava essersi formata della condensa, che alla fine non era che uno spesso strato di sudore.

“Dottore! Mi deve aiutare!” Esclamò il poliziotto, visibilmente sotto shock.

“Sono qua per questo. Si sieda, innanzitutto”

Egli si accomodò sulla poltroncina un po’ rigida e iniziò tartagliando il suo racconto.

“Come avrà intuito,faccio parte delle forze dell’ordine. Oggi ho fatto la solita visita periodica di idoneità e il giovane specializzando, dopo avermi auscultato, mi ha diagnosticato un grave disturbo al cuore. Mi ha consigliato di farmi vedere da un chirurgo perché con tutta probabilità dovevo essere operato.”

Oh. Sean cominciava a comprendere il motivo di tutta quell’ agitazione, ma non si scompose. Estrasse lo stetoscopio dalla sua fidata ventiquattrore e si mise le due estremità apposite appena poggiate sul condotto auricolare.

“Per prima cosa verifichiamo se tutto ciò che le è stato diagnosticato sia effettivamente vero. Dopodiché, procederemo con un elettrocardiogramma per ulteriori accertamenti.”

Il dottore seguì le sue solite procedure, e dopo aver auscultato diverse volte l’organo del signore, sorrise sardonico.

“Gli specializzandi il più delle volte non sono affidabili. Ha un normalissimo soffio al cuore, non si preoccupi.”

Ringraziato Dio e tutti i Santi, il paziente finalmente si decise a seguire il dottore, che a passo spedito lo conduceva verso la stanza dell’elettrocardiogramma.

Passarono numerosi corridoi, stanze buie e depositi d’oggetti di uso pubblico: la camera adibita a quel tipo di visite si trovava piuttosto isolata dal resto dell’ospedale, per evitare interferenze d’ogni tipo con i vari macchinari.

E in uno di questi piccoli corridoi, la vide. Prima sotto shock, placò i suoi passi di colpo, nonostante le proteste del poliziotto. Poi, iniziò a chiedersi perché avesse una valigetta sottobraccio e una Calibro 40 puntata verso il primario di geriatria, Haru Tutseda.

Hidemi era lì. Ma Pisco aveva avuto ragione: Hidemi era tornata, ma non era più quella di una volta. Era un’assassina, non la giovane e spensierata ragazza d’un tempo.

IL suo cervello iniziò a valutare le possibilità su come cercare di fermare quel crimine. Al suo fianco aveva un poliziotto, ma era un paziente, e come tale non doveva essere messo in pericolo.

Con una mossa rapida del braccio destro sfilò la pistola dalla cinta che quell’uomo portava in vita, correndo con rapidi movimenti dei polpacci verso Haru.

Puntò la canna della pistola dinnanzi Hidemi, che lo fissava ad occhi spalancati, quasi immobilizzata. La manina gracile di lei tremava sotto il peso della sorpresa: non avrebbe mai potuto sparare. Quello doveva essere un lavoro silenzioso e di precisione, non una mera sparatoria.

“Metti giù quella pistola, chiunque tu sia” Sputò con rabbia Sean. Come aveva potuto ridursi così? Quella non era più la ragazza che amava.

Hidemi lasciò cadere l'arma terra, e con un balzo corse via, diretta all'uscita.

Lei era salva, sì. Ma il crimine non era stato portato a termine: Haru era vivo.

Chissà cosa le avrebbe fatto Gin.

Sean si accertò delle condizioni del collega, bruciando dentro.

Per quanto non fosse stata più lei, e lui ne fosse consapevole,

non aveva avuto il coraggio di fermarla.

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Capitolo 2
*** II - Jump In The Fire. ***


II
Jump In The Fire.
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With hell in my eyes
and with death in my veins 

The end is closing in”


L’aria trasudava paura. Ne era carica e la lasciava spandere pian piano per l’ambiente; quando essa pizzicò l’animo di Hidemi, quasi come volesse avvertirla di un pericolo, era troppo tardi.
La schiena di lei sbatté contro il muro freddo, dal quale caddero piccole croste di vernice grigia. Le fece male, certo, ma nulla in confronto a ciò che sarebbe potuto succedere nell’immediato futuro, da lì a pochi minuti. Ne era consapevole. Lasciò che il suo busto strisciasse sulla parete sporca, fino a trovarsi accucciata sulle piastrelle lucide.
Il suo gracile corpicino era oscurato dall’ombra di un imponente figura dinnanzi a lei, giusto qualche metro più in là. Avrebbe potuto coprire quella distanza con pochi passi, cosa che fece lui, arrivando infine ai suoi piedi.
Era avvolto nel suo solito cappotto scuro, incurante del soffocante caldo che avvolgeva la stanza. Hidemi, giorni fa, aveva appositamente alzato il riscaldamento al massimo, convinta che il tepore circostante avrebbe toccato anche il suo cuore.
Ella alzò il capo ma non proferì parola, limitandosi a delineare i tratti dell’uomo. La bocca era stirata nel suo solito sorrisetto, e fra i denti appariva l’immancabile sigaretta. Respirava regolarmente, tranquillo. Uccidere rientrava nella sua normale routine, non costituiva nulla di nuovo. Anzi: per lui sarebbe stato noioso toglierle la vita, ne era sicura.
Negli occhi si notava quella solita arguzia, che brillava incontrastata nella penombra dell’appartamento. Ma Hidemi, nei suoi occhi, non ci vedeva altro che l’inferno. Era così ormai da tempo: quelle iridi la corrodevano dentro. La stavano lentamente carbonizzando, sottopendola ad uno stress psicologico non indifferente.
Nelle vene di Gin scorreva la morte, perché era ciò che lo teneva in vita. La vista del sangue altrui lo eccitava, ed era probabilmente l’unica cosa che scatenasse vere emozioni in lui. Appariva sempre così distaccato, freddo, indifferente. S’animava soltanto quando gli veniva comunicato un nuovo incarico. Non era più umano: era la peggior razza di demone che potesse esistere.
Sputò la cicca e la pestò con il tacco, incurante d’essere in casa, e non all’ aperto su un marciapiede.
“Kir, ti avevo avvertito” Già, l’aveva fatto. Quell’ingiustificata pretesa della perfezione da parte sua era assurda e logorroica. Ma, non essendo umano, evidentemente non poteva capire…
Gin calciò con determinazione le costole di Hidemi. Questa tossì sangue, in uno spasmo momentaneo di dolore. Alla vista della sostanza vermiglia, il respiro di Gin si fece più rapido.
“Ho ottenuto dal capo il permesso di divertirmi un po’ con te, sai? Prima di farla finita, ovviamente.” Ridacchiò.
Hidemi sbarrò gli occhi: l’aspettava la peggiore delle morti. Quella sotto tortura. Che sciocca era stata: pensare di andarsene in pace ora le sembrava solamente un’eresia.
“Che ne dici di provare la personale punizione di Pisco?” Propose, come se ci fosse stata davvero scelta. Hidemi mugolò, incapace di fare altro.
Un lampo di compiacimento attraversò le verdi iridi Gin. Estrasse dalla tasca del pastrano un pacchetto di quelle sue sottili sigarette. Ne scelse una, rigirandosela abilmente fra le dita. La fiammella dell’accendino bruciò parte del tabacco posto anteriormente. Gin tirò. Esalò una boccata di fumo e guardò con un ghigno Kir.
“Non vorrai sprecare una sigaretta, mi auguro” Ironizzò la ragazza.
“Non ne sarà sprecata nemmeno una particella, carissima” Proferì, iniziando a spingere quella carica di nicotina sulla pelle di Hidemi.

***

 
Più tardi, vistosissimi segni circolari ricoprivano l’epidermide lattea della ragazza. Il dolore la stava attanagliando, ma non aveva mai urlato. Non voleva dare soddisfazione a quel lurido bastardo, ecco tutto. Illurido bastardo in questione non sembrava nemmeno divertito. Come previsto, per lui quella faccenda stava diventando fonte di un’immensa noia.
“Siamo arrivati al capolinea, Kir” Disse, glaciale come suo solito.
La canna della Beretta era puntata sulla fronte di Hidemi, l’indice avrebbe premuto da lì a poco il grilletto.
Era il momento di elucubrare i suoi ultimi pensieri. E a chi dedicarli, se non al padre perduto a causa del medesimo Gin e al fratello Eisuke, disperso in qualche parte del mondo? Ma subito la sua mente corse a Sean.
In fondo, era pur sempre un testimone. E adesso, che gli avrebbero fatto? Lo avrebbero ucciso?
Rabbrividì, aspettando che il bossolo le trapassasse le cervella; aspettando quel “click” che avrebbe deciso le sue sorti. Ma questo non avvenne, sostituito dal famigliare suono del campanello. Gin strinse la sigaretta fra le labbra, stizzito. Ora, a Hidemi non interessava minimamente chi ci fosse dall’altro lato della porta, ma fu grata a questi per averle dato un minuto di pausa.
“Vai ad aprire.” Gracchiò Gin, a metà fra l’esaltato e l’annoiato. Un ossimoro in sé. “Ucciderò anche lui”
Con fatica si alzò dalla sua posizione accucciata, per raggiungere l’ingresso a piccole falcate. Girò la chiave nella serratura, preoccupata per il povero malcapitato che le stava facendo visita.
Quando i suoi occhi le mostrarono una chioma bionda e ondulata, una bocca rossa come il fuoco sotto l’effetto del rossetto, e delle gambe snelle strette in un tubino nero, Hidemi tirò un sospiro di sollievo. Gin non avrebbe mai potuto uccidere Vermouth. Era la preferita del capo.
“Hai un aspetto orribile, dolcezza” Proferì questa, additando le sue ferite.
Kir non rispose e la condusse in salotto, con un sorrisino irrisorio stampato in faccia. Voleva vedere la faccia che Gin avrebbe fatto nel sapere che non una, ma ben due prede gli erano sfuggite dalla rete.
Perché se Vermouth era passata in quel preciso istante, e non dopo la sua uccisione, ciò voleva dire che in qualche modo la donna desiderasse salvarla dalla Morte.
“Ho interrotto qualcosa d’importante, Gin?” Disse, divertita, ben sapendo la risposta. Gin non rispose.
“Cosa vuoi, Vermouth?”
“Sono venuta per parlare con Kir. Il Capo vuole qualche informazione in più sul suo amichetto di ieri. Vuole reclutarlo, e ha dato a me il compito di decidere se fosse idoneo o meno.”  Spiegò.
Hidemi assunse un’espressione sorpresa. Volevano reclutare Sean? E a che scopo?
“Perché?” Domandò la giovane. “Perché lo volete?”
“Il Capo è rimasto sorpreso dal sangue freddo che ha dimostrato. Rubare un Revolver ad un poliziotto e puntarlo senza esito contro di te… strabiliante.”
Vermouth si avvicinò all’angolo bar. Prese il collo di una bottiglia contenente calvados, e iniziò a versarne il contenuto in un bicchiere di cristallo. Ne bevve qualche sorso, e adocchiò nuovamente Gin, che sembrava esterno alla questione.
“Ascolta, Kir: questo è un ultimatum. O ci porti il tuo amico, o sei morta.” Concluse Vermouth, decisa.
Gin, che fino a quel momento sembrava indifferente, espose un ghigno soddisfatto.
“Quello sciocco merita una punizione, in ogni caso. Ci penserò io.” Disse, spegnendo l’ennesima sigaretta sul parquet, prima di lasciare l’appartamento.

***



Sean si ritrovava ancora una volta a viaggiare sullo sporco convoglio Tottori-Tokyo. Aprì senza fatica la porta dell’area fumatori,  e si accomodò su uno dei numerosi sedili di stoffa messi a disposizione dalla compagnia. I piccoli divisori fra una cabina e l’altra erano opachi di polvere. Appoggiò il gomito su un bracciolo lucido ed unto. Sfilò dalla tasca il suo sigaro e lo accese con noncuranza, soffocato dall’area carica di nicotina che riempiva il vagone.
Con il sigaro in bocca, si ritrovò a pensare. Pensare, certo. La sua mente vagava, limpida e razionale al solito, sui motivi di quel fastidioso viaggio verso Tokyo.
Come sua abitudine, nelle ultime ore aveva chiamato la famiglia, ovvero i genitori, ma i due non avevano risposto; in passato non se ne sarebbe preoccupato, e avrebbe lasciato loro qualche ora di margine per ricontattarlo. Ma, essendo i suoi affetti da gravi disturbi dovuti alla vecchiaia che precocemente si stava verificando in loro, non aveva esitato un attimo a viaggiare verso Tokyo.
Era quasi mezzanotte, e fuori dal finestrino vedeva, quasi in lontananza, le luci della metropoli nipponca. Tutto ciò offuscava il cielo stellato, che appariva ancor più confuso sotto la nube fumosa dello smog,
Portò nuovamente il sigaro alla bocca, ripensando ai fatti avvenuti quella mattina. Possibile che Hidemi fosse mutata tanto? Eppure se la ricordava perfettamente come una dolce piccola donna, insicura ma testarda.
Un’ombra nera gli avvolgeva il cuore, e si era fatta più scura nelle ultime ore.
Era certo che non si sarebbe mai più innamorato di lei, di Hidemi. Era ora di vivere alla giornata, come una volta, e non di rinchiudersi in sé stesso per una stupida ragazzina. Era ora di bere, di essere attratto dalle belle donne e trascorrere delle notti brave, Hidemi o non Hidemi.
“Al diavolo” Pensò.
Scese a capolinea e si diresse a piedi verso la casa dei suoi,  immerso nella frizzante aria notturna. Il suo profilo si delineava delicato nell’oscurità.
I passi risuonavano come un eco per la via deserta, che pareva volersi dedicare solo a lui. Sarebbe sembrato l’Uomo Nero agli occhi luminosi e ingenui di un bambino, se non fosse stato che l’Uomo Nero di lì c’era già passato.
E poi lo udì. Un altro suono si era unito a quello delle suole delle scarpe che battevano l’asfalto. In lontananza riecheggiava un crepitio roco, ma quasi altisonante. Aguzzò la vista: percepì un puntino più luminoso, in fondo al corso.
Iniziò a correre a perdifiato, muovendo ritmicamente le mani chiuse in un pugno. Quando raggiunse il luogo d’interesse, si fermò un attimo a riposare.
Piegò il busto sulle ginocchia e inalò quanto più ossigeno possibile.
Si riscosse, e osservò la situazione davanti a sé.
La casa dei suoi era stata devastata dalle fiamme. Ne rimanevano le ceneri e le fondamenta, ancora intatte. L’ultima fiammella si stava spegnendo al piano inferiore, nel salotto.
Suo padre e sua madre erano morti.
Riusciva ancora a scorgere il genitore, seduto sulla poltrona e con in mano un libro. Sua madre, invece, doveva essere già andata a letto.
Ma perché nessuno aveva chiamato i pompieri, perché?
Nessuno si era accorto che una villetta stava bruciando?
Quel giorno, però, c’era una particolare ricorrenza e, molto probabilmente, gli abitanti del rione si erano recati da qualche parte a festeggiare. In un tempio, forse. I suoi erano sempre stati estranei a quel tipo di party, perché piuttosto asociali e riservati, oltre che poco religiosi.
Chi aveva appiccato il fuoco doveva essere stato molto astuto nel sfruttare le coincidenze che si erano verificate. Bastardo.
Sean escludeva l’ipotesi di un incendio domestico. I due signori erano sempre stati molto attenti a quel genere di cose.
Si stupì della sua freddezza e razionalità con la quale stava ragionando, nonostante avesse appena subito un grandissimo lutto. Si sentiva sporco, perché lui sarebbe dovuto cadere in ginocchio sull’erba secca del prato, e avrebbe dovuto versare lacrime amare e gonfie di disperazione; sicuramente non avrebbe dovuto fermarsi nelle vicinanze dell’incidente, aggirandosi per le strade, cercando quel bastardo…
…con un’ irrefrenabile voglia di ucciderlo.




Mettetevi comodi, perché sarà piuttosto lungo, ndr.
Non sapete che soddisfazione è per me postare il capitolo. Questa storia sta dando i frutti sperati ed è solamente un piacere scriverne il continuo. 
Ieri sera, alle undici, dopo aver passato veramente una giornata LUUUNGA, ho fatto gli schemini dei capitoli. Dovrebbero essere dodici. Non so se si aggiungeranno poi degli altri aggiornamenti, perché voglio rendere Irish al massimo e per far ciò ho bisogno di inserire veramente molte digressioni. In questi capitoli non si nota, anzi, sembrano quasi sintetici, ma più avanti …
Avrete notato che si racconta anche delle vicissitudini di Hidemi: sono parte chiave del passato di Irish, e alcune volte sono indispensabili. Spero che la cosa non vi disturbi, comunque, ma queste piccole porzioni di racconto si ridurranno più avanti. Anzi, credo che questo fosse l’ultimo capitolo con alto tasso di Hidemi External POV.
Detto questo, vi lancio un ‘coming soon’: dopo aver eliminato MBFW, ‘my best friend’s wedding’, posterò nei prossimi giorni [o alla conclusione di questa fic] ‘Fil di ferro’, una Shiho x AKAI. Se adesso qualcuno mi ciula idea è morto, sappiatelo <.<
Kisses and good things :3
bow_

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Capitolo 3
*** III - Comfortably Numb. ***


III
Comfortably Numb
•~•~•~•~•

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I can't explain you would not understand

This is not how I am

I have become comfortably numb

 

 

 




Richiuse la ventiquattrore piena di scartoffie. Il piccolo contenitore era tanto colmo che dovette sfilare qualche foglio per allacciare i gancetti di metallo del sistema di chiusura.
Diede un rapido sguardo per controllare che tutto fosse in ordine nell'ufficio e uscì a passo svelto, misurando bene ogni falcata. Pensava, in quei giorni; non faceva altro fin dall'alba o forse anche da prima, dato che il sonno era venuto a mancare dal giorno dell'incendio. L'aveva lasciato come lo avevano lasciato i suoi genitori. E si sentiva più bambino che mai, nonostante dovesse accettare il fatto che fosse rimasto solo. Solo, nel mondo. La sua famiglia erano i suoi genitori e se n'erano andati, loro. Per sempre. Era finalmente libero, indipendente: una cosa che aveva sempre sognato fin da adolescente … la totale anarchia.
Ed ora, la cosa non gli faceva neanche tanto effetto. La morte dei suoi era solo un puntino all'orizzonte. Non provava nulla: il cuore pareva congelato, ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio. Non era felice, certo, ma la sua vita gli appariva come qualcosa di straordinariamente banale, qualcosa di fumoso e incerto, qualcosa di cui doversi sbarazzare il prima possibile.
Percorse tutta la corsia, fino a raggiungere l'uscita del grosso ospedale. Non c'era paragone col piccolo edificio di Tottori.
Da quando aveva subito il lutto, si era trasferito a Tokyo. Aveva pensato che in qualche modo sarebbe risultato più pratico per lui vivere nella capitale, a causa delle numerose pratiche funerarie da sbrigare. E in effetti era stato così.
“Buona serata, dottore.” Lo salutò placidamente un'infermiera dall'aspetto florido, con lunghe ciocche di capelli bianchi che le contornavano il viso.
“Anche a lei, Cikako.” Ribatté annoiato, stirando le labbra in modo parecchio tirato ed innaturale. Per fortuna l'anziana non se ne accorse e continuò a distribuire la cena ai malati, camera per camera.
Fuori pioveva e trovò insopportabile il ticchettio delle gocce d'acqua che s'infragenvano sull'asfalto ormai bagnato.
Il cielo era quello scuro delle nove di sera, lugubre nel suo nero torbido, a causa delle nuvole pesanti che dondolavano imperturbabili a ritmo del vento. Corse leggero fino alla sua automobile, inumidendosi il lupetto grigio che aveva pescato la mattina stessa da tutti i vestiti sgualciti in valigia.
Una fitta di mal di testa lo colse a pochi centimetri dallo sportello, impedendogli di muoversi per qualche istante, le dita a stringere la tempie. Il dolore era tanto acuto che udì un debole fischio nelle orecchie. Strizzò gli occhi e li serrò con forza, cadendo poi in ginocchio in una pozzanghera, che gli infangò le ginocchia ed i polpacci muscolosi.
Si rialzò di scatto e con un balzo s'infilò in auto. Partì sgommando.
Il dolore era sparito tanto velocemente quanto era arrivato. Sentendosi improvvisamente meglio, tirò fuori dal cruscotto un CD un po' usurato, che conservava sin dal 1992. Era un album di quella musica che piaceva a lui, che i suoi genitori avevano sempre disprezzato e non gli avevano mai permesso di ascoltare. Di quella musica che lo aveva temprato nel carattere e forse lo aveva reso un poco asociale, che aveva consolidato i suoi ideali che aveva scoperto condividere con milioni di persone al mondo.
Si chiamava 
Fear Of The Dark. Paura del buio.
Ma lui la paura del buio non ce l'aveva mai avuta, considerò, mentre fuori dal finestrino si susseguivano miriadi di chiazze luminose e vivide. I lampioni nella notte.

Neanche da bambino si era intimidito di fronte ad un interrutore spento. Ricordava bene quando scendeva nello scantinato, immerso nel nero. Perché alla fine il buio non era che questo: nero. 
Ed è sciocco aver paura di un colore, pensò, oltrepassando una Porsche d'epoca affiancata ad un marciapiede.




*** 

Aveva organizzato il funerale quella domenica. Erano stati invitate solo le conoscenze più strette e Sean si era limitato a stringere ad ognuno la mano con indifferenza. Aveva visto delle lacrime solcare le guance delle migliori amiche delle madre, che fissavano con sguardo triste le bare vuote che avrebbero dovuto contenere corpi mezzi carbonizzati, ma non si era mostrato accondiscente nel consolarle.
Nella sala, però, c'era una donna che non aveva mia visto e non ricordava rientrasse fra le cerchie della madre. Era piccola, secca ma nonostante tutto graziosa. Doveva avere circa vent'anni, non di più. Aveva il viso coperto da un velo di pizzo onice, come facevano le donne dell'ottocento, da cui spiccavano solamente le labbra dipinte di un aggressivo rosso sgargiante.
Aveva attirato subito la sua attenzione. Sean rimase a guardarla per qualche minuto.
Non si era neanche presentata, non sapeva chi fosse. Così pensò di muovere un passo verso fino alla ragazza, nella speranza che potesse scoprire la sua identità. Ma la donna uscì di scatto appena lo vide indirizzarsi verso di lei, ed il portone della chiesa si chiuse con un tonfo. Il chiavistello sbatacchiò sul legno.

“Signori, esco a prendere una boccata d'aria.” Disse serafico ai presenti. 

Loro annuirono comprensivi, pensando che volesse in qualche modo riprendersi dalle emozioni forti delle ultime ore.
Uscito all'aria aperta, si mosse per il cortile cercando di ritrovare quella misteriosa figura. Ma non ce n'era traccia. Solo il verde contornava l'asfalto, senza nessuna figura in nero.
Nero. Ancora quel colore.
Se non ne aveva paura, ne era forse attratto?
Una mano gli arpionò la gola e Sean si dimenò, ma la presa era troppo salda e si arrese presto. Schiacciato dal peso della sconfitta, aspettò che l'assalitore decidesse le sue sorti.
“Se Kir non si sbriga, dovrò farlo io.” Sussurrò con voce suadente al suo orecchio, ficcandogli un lungo ago dentro lo strato cutaneo.
Il dolore acuto della sera prima lo colpì nuovamente e svenne senza indugi, dopo qualche battito di ciglia.
“Mmmh. Ah, e io sono Anisette, piacere.”
L'ultima cosa che vide? Il nero.

 

 




Quanto tempo? Quanto tempo? Non ci sono parole per descrivere il mio abominevole ritardo, ma tutto per una buona causa: avevo bisogno di una pausa, l'ispirazione era andata a farsi fottere e non volevo pubblicare capitoli noiosi. Spero che in qualche modo possiate perdornarmi. çç Mi scuso.
Ma passando alle cose “serie”:
• IRISH IS A METALHEAD *----*
(Fear Of The Dark è degli Iron Maiden, ndr)
• Anisette è un personaggio inventato, l'incrocio fra me ed @Aya_Brea, LOL. HAHA. Insomma, ci siamo contese Irish – ok, non fateci caso.
• Ripubblicazione MBFW! :) Non so se la seguivate, ma la ripubblicherò presto. Grazie ad @_izumi.

Ed è tutto.. come vi è sembrato il capitolo?
Un bacio,
-scandal (a.k.a. bow)

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