A Stargirl In A Norwegian Wood

di Eko1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno 1, giorno 2 ***
Capitolo 2: *** Giorno 7, giorno 15 ***
Capitolo 3: *** giorno 20, giorno 35 ***
Capitolo 4: *** giorno 42,giorno70 ***
Capitolo 5: *** Giorno 77, giorno 81 ***
Capitolo 6: *** Giorno 94, Giorno 100 ***



Capitolo 1
*** Giorno 1, giorno 2 ***


Giorno 1

 

“Scusami...posso?” Mi chiede. Appoggia la mano sullo schienale della sedia, in attesa di una risposta. Alzo lo sguardo su di lei, e arrossisco. Con un cenno di assenso le faccio capire che è libero, ma sento il rossore sulle mie guance farsi più forte. Porto la destra al viso e faccio finta di massaggiarmi le palpebre, in modo da coprirmi la faccia con la mano. Lei sembra non accorgersi di nulla, appoggia sul tavolo la pila di libri che aveva sottobraccio e comincia a rovistare nella borsa bianca e nera che tiene accanto alla sedia. Ne approfitto per sbirciare i titoli dei volumi. Uno è “Norwegian Wood”, probabilmente un libro sui Beatles. Il secondo è un altro libro che non conosco, ha un titolo in inglese, ma non riesco a leggerlo tutto. Del terzo, scorgo solo le ultime lettere del titolo, “irl.” Cerco di capire che libro è, e allungo il collo, cercando di vedere meglio.

Incontro i suoi occhi castani e rimango fermo, come un tacchino. A collo teso, con il mento verso l'alto, una posizione veramente idiota. Lei mi osserva, probabilmente cerca di capire cosa sto facendo. Sembra decidere che dopotutto non sono così interessante da guardare, e torna al suo libro. Prende “Norwegian Wood” e ci toglie il segnalibro. Dalla borsa ha tirato fuori una matita mordicchiata, che tiene nella mano sinistra, e con cui sottolinea qualche frase nel testo. Ora riesco a leggere anche il titolo dell'altro libro. Oliver Twist, di Dickens, probabilmente in lingua originale. Ci siamo solo noi due nell'aula studio. Ha voluto mettersi vicino a me apposta? Il silenzio è quasi totale per una ventina di minuti. A romperlo c'è solo il rumore di qualche macchina lontana. Il suo cellulare vibra più volte. L'ha appoggiato vicino ai libri, ma sembra non curarsi del fatto che stia suonando.

“Ehm..il telefono..” Indico l'apparecchio vicino a lei, che senza nemmeno alzare lo sguardo lo prende in mano e lo spegne. Poi solleva il viso dal libro e con un piccolo sorriso si scusa.

“Mi sono dimenticata di spegnerlo, mi dispiace.”Si giustifica. Io subito scuoto la testa e le dico che non c'è problema, ma mi impappino e balbetto. Come un idiota. Lei annuisce, evidentemente non le importa molto del fatto che io l'abbia scusata. Non riesco a concentrarmi su quello che sto leggendo, perchè continuo a spiarla, di sottecchi. Analisi non è mai stata meno interessante, ora che ho lei da guardare.

Appoggia il gomito sul tavolo, e il mento sulla mano. Le unghie sono tutte mangiate, un peccato, perchè ha delle mani affusolate e belle. Ogni tanto, mentre legge, sospira in maniera triste, senza smettere di sottolineare. Avrà sottolineato due pagine intere, quando alza di nuovo gli occhi su di me, e mi trova a fissarla. Alza le sopracciglia come a chiedermi perchè la sto fissando.

“Ti sembra..interessante?”Chiedo, mentre vorrei spaccarmi la sedia sulla testa. Lei sbuffa, e intreccia le mani davanti a sé, sul libro.

“Cosa?” mi chiede di rimando.

Alzo il mento e con un movimento della testa indico il libro sotto le sue mani. Cerco di darmi un tono, ma ci riesco molto poco. Lei rilassa le spalle e mi sorride.

“Si. Uno dei miei libri preferiti, in realtà. Lo sto rileggendo per la cinquantesima volta, penso. Di questo passo lo sottolineerò tutto.” Ride e si passa una mano tra i capelli, togliendoseli dalla fronte. “Riusciresti a leggerlo in una settimana?” Mi domanda poi.

Io aspetto qualche secondo, non sono sicuro di aver capito quello che mi ha chiesto, ma non posso chiederle di ripetere quello che ha detto, non posso fare un'altra figuraccia.

“Certo.. mi piace molto leggere.” Lei si alza, chiudendo il libro. Ripone gli altri nella borsa e mi tende Norwegian Wood. Io lo prendo tra le mani. Ha l'aria di un libro usato, letto e riletto centinaia di volte. Ha un paio di pagine sgualcite, ma la copertina è intatta.

“Guarda che lo rivoglio. Ci vediamo qui tra una settimana, più o meno a quest'ora. Cerca di esserci.” La guardo ed è serissima. Ha due piccole cicatrici sotto al labbro inferiore, una a destra e una a sinistra, forse i buchi dei piercing. Pensando, a ragione, che probabilmente non ho capito quello che mi ha detto, me lo ripete.

“Quattro e mezza. Qui. Ricevuto.” Dico, e tendo la mano verso di lei, che sposta il busto indietro, come se il mio gesto le facesse schifo.

“Bene. Bella.”Si volta e se ne va, sbattendo la porta dell'aula. Dieci minuti dopo sono ancora in piedi a fissare la porta, con il libro in mano, sperando che torni indietro a riprenderselo per poterla rivedere di nuovo.

 

Giorno 2

 

“E quanti anni ha?” Mi chiede Marco, cercando di trattenere le risate.

“Non lo so.” ammetto. “Potrebbe avere boh..diciassette..diciotto..anche vent'anni! Non sono bravo a riconoscere l'età della gente dalla faccia! E poi l'ho vista per venti minuti!”

“C'è gente che in venti minuti si sposa eh!” si gratta una guancia, pensoso.

“Quindi..non sai come si chiama,non sai quanti anni ha, non sai che scuola fa, sai solo che le piace questo qui” indica il libro che mi ha dato lei “che forse è mancina e ha i capelli corti e castani?” annuisco. Lui continua, per fare il punto della situazione.

“Ma quindi..lei ti ha dato il libro ed è andata via? Dicendoti..bella?” Mio fratello ride, senza pietà.<

“No. Sei tu quello esperto del linguaggio..”

“E non solo di quello!”Mi interrompe lui, dandomi una gomitata. “Dio mio Matteo, come fai ad avere ventun anni ed essere così...”So che non vuole ferirmi ma ci riesce lo stesso.

“Non lo faccio apposta, cristo!”Sbotto alzandomi dal divano. “Non ci riesco! Non so come comportarmi. Cosa fare. Come trattarle. Sono cose che non ho mai capito. Non sono un puttaniere come te. Una ne ho avuta e tale deve rimanere! Ho avuto la mia occasione e l'ho mandata in vacca!” Mi risiedo, nascondendo la faccia tra le mani.

Mio fratello mi abbraccia, in silenzio. L'ha fatto pochissime volte, prima d'ora. Una volta quando è morto Pallino, il gatto, e l'altra è stata quando mi sono lasciato con Martina. Se mio fratello mi abbraccia, vuol dire che la situazione è grave.

“Senti Matteo..non è che adesso non esiste nessuna donna al mondo se non Martina!Quanto siete stati insieme? Quattro anni? Cinque?” Io apro un palmo, e poi alzo un pollice. Sei anni.

Lui reprime un moto di sorpresa ma riesce a racimolare abbastanza serietà per non rovinare il momento.

“Cazzo, la vita ti ha dato una seconda possibilità. Sotto forma di una tipa che presta libri alla gente. Che ha prestato un libro a te. Poi, può anche non essere niente no? Una cazzata...così...” Mi da una pacca sulla spalla, sorridendo. Io sospiro.

“Grazie, Marco, così mi aiuti!” gli rispondo, sarcastico.

“Non posso credere di avere i tuoi stessi geni. Siamo gemelli errozigoti...” Ammicca, sapendo benissimo che non si dice errozigoti, però pensa che sia più azzeccato, soprattutto nel nostro caso “...e tu come al solito sembri venuto fuori da un altro mondo.” Sentiamo la porta di casa sbattere, e gli ululati dei cani che annunciano l'arrivo di nostra sorella. Mi alzo per andare a salutarla, ma Marco mi tiene per un braccio.

“Fermo un attimo.”Si alza anche lui, uscendo dalla mia stanza. Sento mia sorella che singhiozza e piange, ma non faccio nulla. Marco è sempre stato più bravo di me a consolare le persone. Anzi, è sempre stato più bravo di me in tutto. L'unica cosa che so fare meglio di lui è studiare. E lui mi invidia per questo, nel tempo che gli rimane tra una ragazza e la partita di calcio, e il volontariato al canile e il gruppo e non so cos'altro.

Mi stendo sul letto, lascio a Marco il compito di consolare Alessandra. Bob Dylan mi guarda dal soffitto, con la sigaretta in bocca. Penso alla ragazza dell'aula studio, e non riesco a capire. Le mie compagne di corso e le poche amiche che ho non mi hanno mai fatto quell'effetto. Il gesto che fa quando si toglie i capelli dalla fronte, me lo ritrovo davanti qualsiasi cosa io cerchi di pensare. Non voglio pensare a lei, ma prendo il libro che mi ha prestato. Tra una settimana, ha detto. Alle quattro e mezza, al centro universitario. Apro il libro e c'è la sua scrittura.

“Non c'è amore che si sprechi, signore.” Cervantes. Scritto sulla prima pagina di un libro sui Beatles scritto da un giapponese, in matita, con una scrittura spigolosa e quasi illeggibile.

Apro la prima pagina, appoggiando il libro sul cuscino e il viso sulla mano. Come fa lei. Le pagine prima che inizi il libro sono piene di scarabocchi e citazioni a caso. Scorro le pagine velocemente e le vedo sottolineate con matite di colori diversi, con parole cancellate e riscritte, frasi e pensieri accanto ai paragrafi. Reprimo un moto di fastidio e cerco di tener fermo l'impulso di prendere una gomma e cancellare ogni scarabocchio.

Comincio a leggere, ma mi risveglio quando suona la sveglia.

Sono disorientato, non capisco quando mi sono addormentato e quanto ho dormito, ma sedendomi sul letto riesco a riprendere coscienza e lucidità. Guardo la sveglia, che segna le sette e mezza. Ho dormito circa dodici ore, saltando anche la cena. Sono ancora vestito dalla sera prima, e lo stomaco manda brontolii affamati. Pagina 127 di “Norwegian Wood” è tutta sbavata. Mi ci sono addormentato sopra, e nemmeno me ne sono accorto.

Esco dalla mia stanza, e penso a quello che mi è successo ieri. La ragazza sconosciuta e il suo libro,che io ho sbavato perchè mi ci sono addormentato sopra. E nemmeno me ne sono accorto. Tolgo Duchessa dal tavolo e do da mangiare a Lilli e a Vagabondo. Se mia sorella avesse visto qualche altro cartone della Disney probabilmente i cani si chiamerebbero Eric e Ariel. E i gatti in qualsiasi altro stupido modo. Sbatto la tazza sul tavolo e ci verso dentro il latte, freddo di frigorifero. Apro un altro pacco di biscotti e, mentre mangio, Marco mi raggiunge in cucina.

Ha gli occhi gonfi di sonno e per salutarmi fa un sonoro sbadiglio.

“Alessandra...?” Chiedo, sottintendendo il perchè stesse piangendo ieri.

“Niente..lascia stare..non capiresti.”Mi liquida con un gesto della mano. Si siede, prendendo posto davanti a me. Sbadiglia di nuovo, ed io non dico niente. Odio che mi nascondano le cose, e odio il rapporto che Alessandra ha con Marco. Sono compatibili, uniti come una cosa sola. Si confidano, giocano, si fanno il solletico e si rotolano come due bambini, insieme ai cani e ai gatti. Io non posso farlo, non ne sono capace.

“Martina me lo diceva sempre. Non sono capace di esprimermi. Non parlo della proprietà di linguaggio, parlo di sentimenti. Non riesco a sfogarmi, non riesco a dire ti voglio bene. Ho sempre paura di essere giudicato, ferito o offeso.” Mi sfuggono di bocca le parole senza che io lo voglia.

Marco si gratta la testa, puntandomi addosso gli occhi, azzurri come i miei.

“E mica è colpa tua.”Si alza e prende quattro uova dal frigorifero. Cerca una padella nei cassetti,poi si volta verso di me.

“E poi, ti sei appena sfogato. Meno sei, fratello.”

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Capitolo 2
*** Giorno 7, giorno 15 ***


Giorno 7

 

Sono le quattro e mezza, la sto aspettando fuori dal centro universitario. Continuo a tirar fuori il libro dalla borsa e a rimettercelo dentro. L'ho letto, e la storia non mi è piaciuta per niente. Banale, sconclusionata. Lui è innamorato di due donne. Una praticamente morta che vive nel passato, una viva nonostante la morte attorno a lei. Una cagata, per conto mio. La vedo arrivare da in fondo alla strada. Cammina in modo strano, poco femminile, forse anche a causa delle enormi scarpe che porta ai piedi. Non è magra, per niente. Anzi è piuttosto grassa, ma nel complesso ha un'armonia. Non è come quelle ragazze che sembrano fatte con pezzi di altre, e nemmeno come certe obese del mio corso, con le cosce che strabordano dalle sedie e le pieghe di grasso che si mangiano pezzi di maglia. Ha una chitarra sulla spalla, e un enorme ombrello in mano. Due grosse cuffie le nascondono completamente le orecchie. Sembra quasi un'aliena, con quelle due enormi protuberanze che le escono dai lati della testa. Ogni tanto dà un tiro alla sigaretta che tiene tra l'indice e il medio, ed io stringo il libro tra le mani talmente forte che mi vengono le nocche bianche. Si toglie le cuffie, fermandosi davanti a me. La sua bocca si distende in un sorriso gioioso, ma forse è solo entusiasta di riavere il suo libro. Chiude l'ombrello e guarda il cielo grigio, stendendo un braccio in fuori, il palmo rivolto verso l'alto.

“Strano..ero convinta che piovesse..” mormora, più a sé stessa che a me. Poi, come se mi avesse messo a fuoco veramente solo in quel momento, mi si avvicina e mi sfila il libro dalle mani.

“Ciao! Allora, ti è piaciuto?” Mi chiede. Ha gli occhi brillanti e grandi, e mentre parla mette il libro nella borsa che le avevo visto la scorsa settimana. A giudicare dalla curvatura, quella sacca di stoffa deve pesare più o meno otto chili.

“No. Cioè non molto. Cioè è interessante..” Fa una smorfia, evidentemente la mia spiegazione non la convince abbastanza.

“Senti..lo vuoi un caffè?” Fa un cenno con la testa verso il bar lì vicino. Sto per dirle che io non bevo caffè perchè inibisce le sinapsi ma decido di lasciar perdere e di seguirla. Entra lei per prima, e mi tiene aperta la porta.

“Non dovrebbe essere il contrario?” Domando, cercando di essere simpatico, e forse ci riesco, visto che lei ride e scuote la testa, sedendosi ad un tavolo poco lontano dall'entrata.

Sistema la chitarra vicino a sé,sul divanetto, e appoggia la borsa dall'altra parte, tirandone fuori il pacchetto di Winston, l'accendino e il cellulare e disponendo tutto sul tavolo alla sua sinistra. Io la osservo, come ammaliato. Sembra che stia disponendo gli oggetti come si dispongono le posate ad una cena importante, con minuzia, quasi con amore.

“ Fai tutto questo trambusto ogni volta che vai in un bar?” Lei mi guarda, come se non avesse capito. Poi comincia a ridere, coprendosi la bocca con la mano sporca d'inchiostro.

“Hai detto trambusto?” Mi chiede, come se non avesse capito bene. Io annuisco, sconvolto dal suo comportamento.

“ Si..trambusto...casino insomma.”

Si schiarisce la voce un paio di volte, e torna seria.

“Si. Sempre. Perchè non ti è piaciuto, il libro?”

Cominciamo a chiacchierare tranquillamente, come se ci conoscessimo da anni e ci fossimo ritrovati lì, per caso. Come due vecchi amici delle elementari che si rivedono e decidono di prendersi un caffè, cercando di riallacciare i ricordi comuni a quelli troppo distanti.

Mentre parla, gioca con le collane che ha al collo. Una ha quattro sfere d'acciaio, l'altra ha un pendente enorme e azzurro.

“Me l'ha portata mio zio dalle Maldive. Si chiama Pietra di luna, non è stupenda?” Annuisco, anche se vorrei dire che è lei ad essere stupenda,non la pietra. Ma mi trattengo. Lei mi fissa per un secondo, probabilmente cercando di capire cosa mi passa per la testa, poi ci rinuncia.

“Fa il veterinario, sai? E io pure.” ha l'aria orgogliosa, trionfante “Io pure farò la veterinaria! Anche se” si sporge verso di me e abbassa la voce, che si fa all'improvviso più seria. “Io vorrei fare la fotografa. O la cantante. Ma ci sono troppi problemi, troppe menate..” liquida la questione con un gesto della mano. Si allontana, velocemente come si è avvicinata, e riprende a parlare con il solito tono gioioso.

Io mi rilasso e la lascio parlare. Come un fiume, ecco com'è. Una corrente in piena. Mentre parla risponde ai messaggi, gesticola, si guarda intorno, non sta ferma un secondo.

“Beh io ho parlato anche troppo.” Incrocia le braccia, appoggiandosi con la schiena al divanetto.

“Adesso tocca a te.” Mi sorride. I denti inferiori sono leggermente accavallati, ma non tolgono armonia al suo viso. Ha un viso che si emoziona. Quando ride, ridono anche gli occhi, e sulle guance le compaiono due fossette.

“Io..mi chiamo Matteo.” Dico, poi resto in silenzio. I suoi occhi si chiudono leggermente, come in attesa, o come se sospettasse uno scherzo.

“E poi?” Mi domanda.

“E poi cosa? Mi chiamo Matteo, mi piace la musica, studio ingegneria, mi fa schifo il tonno in scatola e colleziono soldatini.” So che si metterà a ridere. O peggio, se ne andrà. Ecco in cosa mi hai trasformato,Martina. In qualcuno incapace di relazionarsi con le altre persone. Chiusi al sicuro nel nostro bozzolo, avevamo lasciato fuori il mondo. O meglio, io avevo lasciato fuori il mondo. Tu ne avevi fatto entrare anche troppo.

Ma Paola è davanti a me. Ha ancora le braccia incrociate, e aspetta. Non riesco a dirle più niente.

“Fai collezione di farfalle?” Cita il Piccolo Principe. Le chiedo se ha preso la domanda dal libro di Saint-Exeupery e lei annuisce.

“Cosa vuol dire addomesticare?” dico, prendendo coraggio.

“Vuol dire che tu verrai qui ogni giorno alle quattro. Io per i primi giorni ti ignorerò ma poi comincerò ad aver voglia della tua compagnia.”

“Ma non posso venire ogni giorno quando voglio?”

“No. Se tu vieni ogni giorno, alle quattro, io dalle tre e mezza comincerò ad essere felice.” Batte appena le mani. Sembra felice davvero.

Continuiamo così per il resto del tempo, fino alle sette e mezza. Lei mi pone le domande più strane, e io le do le risposte più sincere e pensate possibili. Nessuno mi aveva mai chiesto tante cose in un pomeriggio. Nessuno mi aveva mai chiesto tante cose in assoluto. Guardo le gocce di pioggia che cadono e scivolano lungo il finestrino dell'autobus, pensando a lei con il suo vestito corto e le calze sempre bucate e un piercing all'orecchio con una pallina mancante.

Immagino quello che mi ha raccontato come se tirassi fuori dalla mia mente le scene di un film. Mi accorgo che mi ha raccontato solo cose belle. Tiro fuori il telefono dalla tasca, sta vibrando. Un nuovo messaggio.

“Sabato alle quattro?” è lei. Lei e vuole vedermi.

“Dalle tre e mezza comincerò ad essere felice.” scrivo. Rimango con quella risposta non inviata davanti per dieci minuti buoni. Poi la cancello. Ripiego su un “Va bene ;)” Glielo invio. Non era quello che volevo scriverle. E lo sa anche lei.

 

Giorno 15

 

Sabato arriva senza che nemmeno me ne accorga. E io sono felice dalle tre e mezza. Ho riletto “Il Piccolo Principe” in una serata, in modo da poterle dare nuovi spunti per le sue domande. Non avrò il coraggio di fargliene nemmeno una, ma almeno voglio fare un tentativo.

La aspetto alle quattro, davanti al centro. Sta arrivando, ma non è da sola. La vedo per mano con un tipo, un ragazzo dai capelli lunghi e con la barba, non tanto alto ma ben piazzato. Stanno ridendo, e vedo che lei lo guarda adorante, come se fosse la cosa più bella di questa terra. Quando lui la abbraccia io mi giro, facendo finta di essere interessato alla targa infissa sulla porta dell'aula studio.

“Ehi, Matteo!” Mi chiama. Ho un nodo allo stomaco e la bocca secca. Mi volto e vedo che lei sta venendo verso di me, quasi correndo, trascinandosi il tipo per mano.

“Matteo..ciao..” ha il fiatone e i capelli scompigliati e umidi di pioggia. Il mascara le è colato un po' su una guancia, i suoi occhi ridono, mentre si sposta la frangia dalla fronte con le dita.

Si volta verso il ragazzo e me lo presenta.

“Matteo, Denis..Denis..Matteo..” Ci stringiamo la mano e vorrei stritolargliela. Vorrei fargli del male, l'antipatia che provo per questo tipo è reciproca. Ci guardiamo negli occhi per un secondo, prima che lui si avvicini a lei, togliendole il nero dalla guancia. Lei lo guarda e gli fa una carezza su una guancia, prima di scarmigliargli i capelli con le mani, gli occhi rivolti verso di me.

“Sore, ti vengo a prendere stasera, va bene?” Le dice lui, assolutamente indifferente al fatto di avere i capelli scomposti. Lei annuisce, stampandogli un bacio sulla guancia e abbracciandolo.

“Fratellone, non combinare casino...”Lo ammonisce. Lui alza le spalle e comincia a camminare, allontanandosi da noi. “E ricordati che ti voglio bene!” Gli urla, quando sta per scomparire dietro l'angolo.

Poi rivolge tutta la sua attenzione a me, e con tutta la naturalezza del mondo si alza sulle punte dei piedi, avvicinandosi a me. Ci baciamo. Un bacio a stampo, quasi un bacio di saluto, ma è come se fosse spuntato il sole all'improvviso. Mi prende per mano. La sua è morbida e calda, al contrario della mia che è fredda e screpolata. Mi porta a conoscere “la sua famiglia” dice. Attraversiamo piazza del Bo, dove il comune si è dimenticato di tirar giù l'albero di natale, e lei scuote la testa. Ha cambiato orecchini, oggi. Ha un pendente colorato con una stella e un piercing con una punta metallica.

“Ma non ti fa male il piercing, con le cuffie?” Mi risponde di no, mentre da un'occhiata distratta alle vetrine.

Il contatto con lei mi lascia senza fiato. Non è solo per il fatto che è quasi un anno che non ho più nemmeno baciato una ragazza, ma per il fatto che sia lei. Mi ha trascinato via del tutto, nel giro di un appuntamento. Mi ha preso e ora mi tiene.

“Ehi..piccolo principe, sei tra noi? Non innaffiare le rose, stai qui!” Mi passa la mano libera davanti al viso, per distogliermi dai pensieri. Mentre camminiamo per via Roma canticchia una canzone che non conosco, ma non voglio interromperla. Il rumore della gente si mescola a quello della sua voce e della pioggia che cade.

“Allora, hai un gemello, no? Spero non sia svampito come te, perchè sennò andiamo bene...”Fa una smorfia e mi bacia di nuovo.

“Si, c'è mio fratello Marco e poi mia sorella Alessandra..” La vedo spalancare gli occhi, e tutto il suo corpo ha un fremito, che si propaga al mio attraverso la sua mano. “Che c'è?” le chiedo, preoccupato. Fa un cenno di assenso e agita una mano in aria.

“Un brivido di freddo, niente di preoccupante..” Arriviamo in un bar dove io non sono mai entrato.

“Non sono quasi più uscito da quando non sto più con Martina. Non ho amici, e neanche voglia di farmeli, in realtà.” le confesso, mentre lei mi guida tra i tavolini. Le suole delle scarpe bagnate scivolano sul pavimento di pietra lucida della galleria, ma cerco di tenermi in equilibrio mentre lei mi trascina. La luce giallognola dei neon si riflette sul pavimento e sui tavolini lustri. Lei individua un folto gruppo di persone e vi si avvicina,quasi saltellando. Ha le scarpe completamente fradice e la pelle d'oca. Mi viene voglia di abbracciarla, ma mi trattengo.

Vengo accolto da un coro di ciao e di benvenuto. Lei fa le presentazioni, preoccupandosi di dirmi nome, eventuale soprannome e almeno una caratteristica dei suoi amici che fosse compatibile con quello che mi piace. Mi siedo in mezzo a loro, alla sua “famiglia.” Ha una madre più grande di lei di un anno e mezzo, e un padre di due anni più grande. Sua zia ha la sua età ed è anche la sua migliore amica. Ha una massa di capelli ricci e biondo miele, che addolciscono il viso squadrato. Il tatuaggio che si intravede sul polso probabilmente è qualcosa di floreale, piuttosto grande.

“Matteo, dimmi, cosa studi?” a parlarmi è sua “mamma”, seduta vicino a me. Comincio a fare conversazione con lei, mentre Paola si accende una sigaretta. Scocca uno sguardo irritato al ragazzo davanti a lei, che scuote la testa come a formulare una domanda muta. Riporto la mia attenzione su Cristina e le spiego in cosa consiste la branca di ingegneria in cui ho scelto di laurearmi.

“Ma ti piace davvero quello che fai?” Mi stringo nelle spalle.

“ In realtà no. Io volevo fare tutt'altro, ma con questo posso essere sicuro di trovare un buon posto di lavoro, magari all'estero..e dimmi. Lei” le chiedo, indicando Paola “Ti sembra felice di quello che fa? Non voglio essere invadente, è che la conosco ancora molto poco..è la seconda volta che usciamo decentemente..” mi giustifico, ma Cristina non mi ascolta. Strabuzza un paio di volte gli occhi e butta fuori il fumo della marlboro dalla bocca.

“La seconda volta che uscite? E già ti porta a conoscere noi? Sei passi e passi avanti, ragazzo mio...” mi fa un sorriso complice, poi mi mette una mano sulla spalla “mamma approva. Comunque lei è sempre felice. Che piova o ci sia il sole, ha la felicità dentro. Lei illumina la vita della gente. Si, può sembrare una specie di Gesù Cristo che salva le anime di noi poveri dannati, ma la realtà è che la sua presenza infonde tranquillità. Ha sempre una risposta e un consiglio da dare a chiunque ne abbia bisogno.”mormora, in modo che possa sentirla solo io.

Vedo Paola alzarsi con Arrigo, il ragazzo davanti a lei, e andare lontano dal tavolo e dalla confusione. Non riesco a sentire quello che dicono, ma li vedo gesticolare, litigare forse. Lui ad un certo punto la abbraccia a lungo, e lei cerca di divincolarsi, scivolando quasi sul pavimento. Ma lui la tiene stretta, lei ad un certo punto smette di dibattersi e si arrende, abbracciandolo a sua volta. Ho un fremito di gelosia che mi blocca la gola, e il sorso di spritz che sto bevendo mi va di traverso, facendomi tossire. Lei torna, ha il viso teso, stranito. Non parla con nessuno, si limita a bere il suo spritz e a succhiare la fetta d'arancia che ha nel bicchiere, rispondendo a monosillabi. Ad un certo punto si alza, stiracchiandosi.

“Sai,lo facevo sempre, da piccola” indica i pezzi di buccia d'arancia che galleggiano nel ghiaccio sciolto. “Sempre. Anche con il limone della cocacola o dell'acqua frizzante di mia mamma. Poi facevo sempre questa faccia qui” strizza gli occhi e arriccia bocca e naso. “E lei rideva sempre.” Mi fa un sorriso storto, e le fossette compaiono solo sulla guancia destra. Si alza, e lascia tre euro sul tavolo, rivolgendosi a Cristina.

“Mamma, questi sono i soldi per me e Matteo, paghi tu così non devo andare dentro?” Faccio per protestare ma non me ne da il tempo. Saluta velocemente tutti e mi porta via.

“C'è un posto che voglio farti vedere.” Mi dice, mentre corriamo da un portico all'altro. Passiamo vicino al duomo, dove tutti i ragazzi di buona famiglia si riuniscono a non fare assolutamente un cazzo. Eccoli lì. Manichini umani, stanno tutti appollaiati come piccioni sul muretto coperto dalle arcate. Guardano la gente che passa, meditando, forse. O forse no. Lei ne riconosce uno, che saluta con un cenno distratto della mano, prima di proseguire.

“Non mi piace quella gente. E non sopporto che mio fratello ci vada in giro, gli mangiano anche il poco di cervello che ha. Sta crescendo senza opinioni, senza sentimenti. Si è comprato un giubbotto da 300 euro di cui non aveva bisogno, si è comprato la moto, si è comprato i jeans di Dolce e Gabbana ma se gli chiedi che ne pensa della situazione politica italiana ti dice “viva Berlusconi”, come tutti i suoi amichetti del cazzo.” Stizzita, calcia un po' d'acqua da una pozzanghera. Gli spruzzi brillano alla luce dei lampioni, e poi ricadono a terra,confondendosi con la pioggia. Camminiamo in silenzio sotto ai portici, il rumore dei suoi passi crea un rumore che sbatte contro i muri e che torna indietro, in un'eco.

“Non ho una camminata molto femminile eh?” Mi domanda, accorgendosi anche lei del rumore.

Scuoto la testa in un segno di diniego. Non ho voglia di parlare, ho voglia di tenerla per mano e basta. Lei sembra capire, e smette di parlare. Sotto al ponte ci sono dei neon, che rendono l'acqua blu. Il riflesso delle luci nell'acqua del fiume trafitto dalle gocce di pioggia mi rende ancora più triste. Penso a Martina, e poi guardo Paola negli occhi. Sono arrabbiato con lei. All'improvviso. Un'ondata di rabbia, perchè lei non è Martina. Mi accorgo di quanto siano irrazionali i miei pensieri, ma è come se un anno di dolore stesse tornando fuori, ed io dovessi difendermi attaccando lei, che è davanti a me e mi guarda.

“..Beh?” il mio tono è freddo, irritato. Lei aggrotta le sopracciglia, confusa.

“Beh cosa?” Tende un braccio, mostrandomi il ponte, le luci e l'acqua blu. Continua a piovere. “Non pensi che sia stupendo?” Si aspetta un si come risposta, e in realtà è stupendo. Ma perchè c'è lei a renderlo tale. Scuoto la testa e il cappuccio mi cade sulle spalle.

“No. Non è stupendo. Questo posto fa schifo.” Lei si irrigidisce, e raddrizza le spalle. Gli occhi, da confusi e disorientati, diventano freddi e ostili. La bocca si contrae, forse sta serrando i denti. Ha i capelli tutti bagnati, la pioggia le ha infradiciato anche il cappotto.

“Non fa schifo” mormora, guardando di nuovo il ponte, come per rassicurarsi che davvero sia come ha detto.

“Invece si. Fa freddo e piove e tu mi porti a vedere un ponte con delle luci blu? E ti aspetti che dica che è stupendo?” Voglio renderla triste. Triste e arrabbiata come sono io in questo momento. Voglio toglierle la felicità perchè non può essere come ha detto Cristina. Non può essere sempre felice. E non può avermi reso così felice nel giro di due settimane.

“Ma mangiati una merda” Rimango di sasso. Credo di aver capito male, distratto com'ero da una miriade di pensieri incazzati.

“Prego?” dico, cercando di concentrarmi.

“Mangiati una merda. Ti saluto.” Si incammina verso la strada da dove siamo venuti. Passa con il semaforo rosso e una macchina inchioda, evitandola per un pelo. La vedo alzare il braccio destro e poi il dito medio per ringraziare il conducente, ma non so come, penso che quell'insulto sia diretto a me.

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Capitolo 3
*** giorno 20, giorno 35 ***


Giorno 20

Batto i piedi e affondo la testa nel bavero del cappotto, per difendermi dal vendo gelido che mi taglia le labbra e il viso. Nonostante ci sia il sole, la giornata è decisamente fredda. Cerco di scaldarmi soffiando contro la stoffa e scaldandomi così il mento e le guance. Mi lacrimano gli occhi dal freddo, e la mia mano destra comincia a perdere sensibilità .Guardo le rose, rosse e bianche che ho comprato per lei. Me l'ha consigliato il fioraio. Se devi farti perdonare, prendi le rose bianche. Se vuoi conquistare, quelle rosse. Gli ho detto entrambe, e lui mi ha fatto un sorriso sdentato, battendosi una mano sporca di terra sulla pancia. Il suono della campanella mi fa quasi trasalire. Non sono più abituato a sentirlo, anche se sono solo due anni che ho finito il liceo. Io e mio fratello abbiamo avuto gli orali alla stessa ora e lo stesso giorno. Io uscito con 87,lui con 69. Ricordo ancora la sua espressione soddisfatta. Se gli avessero dato 70 non sarebbe stato così felice. Probabilmente sarà una cosa che racconterà ai suoi figli. Lei esce, sistemandosi i capelli come al solito. Il vento glieli scompiglia, ma lei continua imperterrita a passarci una mano dentro, tirandosi il ciuffo verso destra, via dalla fronte. Fruga nel cappotto tirando fuori una sigaretta e un accendino piccolo, blu. Dopo svariati tentativi riesce ad accendersi la Winston, e soddisfatta ne tira una boccata. Si gira verso il portone della scuola, evidentemente sta aspettando qualcuno. Attraverso la strada, con le rose in mano. Lei non si accorge di me, è girata di schiena, e solo ora vedo che ha gli auricolari addosso. Ho intenzione di circondarle le spalle con le braccia, e di baciarla sula testa. Lei si girerà e io la bacerò, scusandomi per il mio comportamento. Le arrivo praticamente addosso, e le passo le braccia attorno alle sue. Sto per stringerla, quando sento un colpo alla bocca dello stomaco, che mi leva il respiro. Comincio a tossire, accasciandomi a terra.

“Matteo!” Grida lei, sorpresa. Si copre la bocca con le mani. Ha gli occhi spalancati dallo stupore, mentre mi aiuta ad alzarmi. La vedo che sta per scoppiare a ridere, e quando incontra il mio sguardo non riesce più a trattenersi. Comincia a ridere, a bocca aperta, tenendosi la pancia. Le lacrimano gli occhi dal ridere. Alcuni dei suoi compagni stanno ridendo con lei. Si asciuga gli occhi, mentre gli ultimi scoppi di risa la scuotono appena.

“Scusami tesoro...” Mi dice, prendendomi il viso tra le mani. Mi da un bacio, che sa di fumo, e poi appoggia la testa contro la mia spalla, abbracciandomi “Non devi arrivarmi alle spalle in questo modo, lo sai che mi spavento!”

Sospiro, alzando le sopracciglia.

“All'una e un quarto infatti la città pullula di maniaci!” Le tendo le rose, non appena si stacca da me. Guarda i fiori, e mi ringrazia.

“E non si sa mai sai? Comunque” mi bacia di nuovo “preferisco i girasoli.”

 

Giorno 35

Il cane annusa tra l'erba alta, il naso incollato a terra. Lei gioca con alcuni sassi che ha raccolto dalla strada sterrata. Raccoglie anche un pezzo di vetro, e fa finta di incendiare alcune foglie umide sul lato della strada. Il fiume fangoso trasporta lentamente un ramo e alcune bottiglie. Lei tira fuori la reflex e scatta un'istantanea di quei pezzi di plastica in balìa della corrente. Il cane si sta allontanando troppo, inseguendo un topo.

“No,Jenny! Jenny vieni qui!” Lei la chiama, il tono alto e preoccupato. Il cane sembra non sentirla. “Tieni questa.” mi dice, lasciandomi in mano la reflex. Poi butta la borsa per terra e comincia a correre dietro al cane, urlandone il nome. Non credevo che una della sua stazza potesse essere così veloce. Ma è bellissima. Vedo il cane fermarsi e lei che lo placca, finendoci sopra. Ma né lei né il cane si fanno male, le vedo giocare insieme. Il cane ha evidentemente dimenticato il topo, che è sparito tra l'erba. Tornano, il cane mi corre incontro, lei cammina. Mi raggiunge e ha un po' di fiatone, l'erba tra i capelli. E' bellissima. Mi sorride cercando di prendere fiato. La sollevo e la bacio, mentre lei cerca di mettere i piedi a terra.

“Matteo no, pesi metà di me, ti spacchi in due!” Protesta, divincolandosi “E poi hai la mia reflex in mano sei matto?” Quando la rimetto a terra prende la macchina fotografica e al volo mi fa una foto. Scoppia a ridere guardandola, e rimette la reflex nella borsa. Poi si siede a terra, nell'erba ingiallita dal freddo. Controlla il cane, che ha capito di dover rimanere nei paraggi, e mi fa cenno di sedersi accanto a lei.

“Ma mi sporco tutto...” dico, cercando di non sedermi sulla terra umida e di non sporcarmi.

“Che palle che sei...” mi risponde, sbuffando. Dalla borsa tira fuori un giornale appallottolato e me lo tende. “Toh, siediti su questo, rompicoglioni....” lo dice con affetto, lo conferma il sorriso che ha sulle labbra. Mi siedo accanto a lei e le prendo una mano. Lei la ritira, dicendo che ha le unghie tutte mangiate. Si rabbuia, il suo sorriso si è spento. Mette le mani tra le gambe e le tiene lì, fuori dalla mia portata.

“Cos'hai..?”

“Sei annoiata hai la luna girata io a inizio giornata non voglio nessuna menata femmina fino in fondo tu hai il problema e io sono lo stronzo dico che non ti ho dentro mento e penso...” Scoppia a ridere, perchè la sto fissando con gli occhi sbarrati. “Un pezzo di una canzone.. l'ho dedicata ad una persona importante per me...” guarda oltre il fiume, oltre l'argine opposto. Si vedono le montagne, vicino all'orizzonte.

“Chi era?” le domando. Mi guarda e sorride. In vita mia giuro, un sorriso così non l'ho mai visto. Ha la vita dentro, sgorga dalle profondità di un'anima che ama il mondo visceralmente.

“Una persona per cui ho speso mesi della mia vita. Una persona per cui forse non sono mai stata abbastanza. Una persona che mi ha cambiata profondamente, che mi ha cambiato pezzi di vita e di anima. Io sono così per colpa sua...” Abbassa gli occhi sulla formica che le cammina sulla scarpa.

“No sei così per merito suo.” Le rispondo. Lei si allunga verso di me, dandomi un bacio.

“Grazie.”

“Di cosa?” le chiedo, sorpreso.

“Di tutto questo. Ne avevo proprio bisogno.” Respira a fondo, come se l'aria inquinata della città si fosse purificata all'improvviso, solo perchè lei ne ha bisogno. O forse, perchè ci sono io. Due podisti passano dietro di noi, correndo a passo sostenuto. Lei si accende una sigaretta.

“Contro il sistema!” Grida, agitando la Winston contro i corridori ignari.

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Capitolo 4
*** giorno 42,giorno70 ***


Giorno 42

“Buongiorno signora. Io sono Paola, un'amica di suo figlio!” tende una mano a mia madre, che la stringe, sorpresa.

“Buongiorno a te, piacere di conoscerti!” Risponde mia madre, colpita. Paola sorride, un sorriso del tutto naturale, quasi fosse veramente entusiasta di conoscere i miei genitori. Si scosta i capelli dalla fronte, e nel giro di cinque minuti lei e mia madre stanno parlando di cucina.

“Ti aspetto in camera...” le dico, battendole una mano sulla spalla.

“Cosa? Oh, si, arrivo subito...” torna a parlare con mia madre di ricette. Entro nella mia stanza, e Marco è già lì.

“Ha fatto impressione su mamma, da quello che posso sentire. Non credevo ce l'avrebbe fatta...”

Mi siedo sul letto, in silenzio. Sto aspettando di calmarmi dal nervoso che mi sta assalendo.

Lei entra, bussando appena, ma non appena vede Marco si pietrifica sulla soglia.

“Ciao, Marco.” riprende subito il suo solito autocontrollo. Si toglie le scarpe, e come al solito ha i calzini spaiati. Uno verde e uno rosa e bianco, a righette. Anche mio fratello è innervosito. Si passa i polpastrelli della mano destra sulle nocche della sinistra, un gesto che fa sempre quando c'è qualcosa che non gli piace.

“Ciao, Paola.” Cade un silenzio teso, interrotto dal rumore della porta della stanza di mia sorella che sbatte. Marco fa uno scatto, arricciandomi il tappeto, e lei si scansa per farlo passare. Poi sospira.

“Posso chiudere la porta?” Mi chiede. La bocca e gli occhi hanno una piega triste, lo noto quando si siede vicino a me sul letto, facendo cigolare le molle. Non parla, forse aspetta che sia io a farlo.

“Com'è andata a scuola oggi?” Lei mi guarda, poi alza le spalle.

“Boh..bene.”Incrocia le braccia, come per impedirmi di avvicinarmi a lei. Si sposta sul bordo del letto, facendo cadere la borsa a terra. Pacchetti di sigarette vuoti, carte di caramella e scontrini escono come un fiume dalla sua sacca di tela. Lei non se ne cura. Mi sudano le mani, mentre cerco un argomento di conversazione.

“Allora..conosci mio fratello?Non lo sapevo...” Alza le spalle di nuovo, stavolta sembra fin troppo concentrata sulla libreria.

“E io non sapevo che fosse tuo fratello..ora che so chi è tuo fratello..so chi è...” la sua voce si perde in un mormorio sommesso, di cui non riesco a cogliere il significato intero. Sento il suo telefono vibrare. Mette la mano in tasca e legge il messaggio, rispondendo velocemente. Deve riscriverlo un paio di volte, perchè le saltano delle lettere. Non so il mittente, ma mi sporgo e vedo che c'è scritto “ok.Vengo subito.” Me l'ha fatto leggere di proposito, non vuole che chieda spiegazioni. Si alza dal letto e mi dà un bacio. Ha le labbra screpolate dal freddo.

“Dovresti coprirti un po'...” indico con la testa la sua gonna cortissima e i leggins neri “Quelli non ti coprono...” Ma lei nemmeno mi ascolta. Si mette il cappotto, abbottonandolo senza guardare. Ha gli occhi fissi su di me, due perle nere che non conosco. Che non riesco a capire.

“Senti..ci vediamo domani.” Afferra la borsa ed esce dalla mia stanza, senza più un saluto né un'occhiata. La sento salutare allegramente mia madre, e la porta di casa sbattere. Accendo lo stereo, tanto per non rimanere da solo a pensare. Vedo passare mio fratello, pronto per uscire.

“Ciao eh!” Gli dico, ma lui neanche mi sente. Passa davanti alla mia stanza come se fossi invisibile. Come se fossi? Io sono invisibile. Mia sorella dà problemi e mio fratello è bravo in tutto. In quasi tutto. Io sono quello che non esiste ma su cui tutti si appoggiano quando hanno un problema.

Tutti, tranne quelli che vorrei.

Vado a chiudere la porta della mia stanza, la porta di casa si apre e si chiude di nuovo. Premo l'interruttore e mi butto a peso morto sul letto, sul piumone appena cambiato. Sa di detersivo. Quando ero bambino andavo sempre ad annusare il detersivo. Probabilmente ora se una madre lasciasse i propri figli avvicinarsi al detersivo sarebbe bollata come degenere. Ma a mia madre non è mai importato. Faceva quello che si sentiva, e lo fa anche ora che ha quasi 50 anni. Una volta ha cominciato ad andare ad una scuola di ballo. Di quelli strani, fatti per chi non ha niente da fare. Ero piccolo, e volevo un bicchiere d'acqua. Lei non rispondeva, allora sono andato a prendermelo da solo. E c'era mia mamma in salotto che ballava con una tunica bianca addosso, che volteggiava e faceva delle lente piroette. Sembrava un fantasma.

Sento la porta di casa aprirsi di nuovo e sbattere. Riconosco i passi di mio fratello. Scambia due parole con mia madre e all'improvviso la porta della mia stanza si spalanca.

“Matteo...se non vuoi stare male, lasciala perdere. Se non vuoi trovarti nel mezzo di un gran casino, non vederla più. Non ti darò spiegazioni, ma fidati di me. Fidati.” chiude la porta prima di lasciarmi il tempo di replicare. Sospiro e sento un nodo stringermi la gola. Non chiedere, non fare, lascia stare. Il mio cervello comincia a mandarmi immagini sempre più chiare della situazione. Mi addormento con l'immagine di mia mamma che volteggia nel salotto e Paola che bacia mio fratello.

 

 

Giorno 70

 

Siamo distesi nel suo letto. Si gratta un sopracciglio con l'indice, pensosa. La stringo a me, respirando il profumo di talco che ha addosso. Mi da un bacio sul naso, ma quando cerco di farlo io si scosta.

“Lo sai che non lo sopporto.” Ripiego dandole un bacio sulla bocca, e lei mi morde un labbro, ridendo. Poi volta la testa verso il soffitto, imbiancato da poco. Sono rivolto verso di lei e mi appoggio al muro blu. La sua stanza color Facebook. Anche la sua stanza ha qualcosa di diverso da quella degli altri. Raskol'nikov si muove nella sua gabbietta, si sente la ruota girare. Accanto alla gabbia ci sono alcune bucce di semi di girasole, abbandonati lì. Lei stende il braccio e afferra l'involucro del preservativo, poi si alza per andare a buttarlo. Non ha niente addosso. Sono sorpreso dal sorriso che mi affiora alle labbra. Non sono abituato al vedere una ragazza che si muove con così tanta naturalezza quando è nuda. Al suo passaggio il legno del parquet scricchiola. Il criceto si ferma, come in ascolto.

Lei butta involucro e preservativo in un sacchettino di carta, poi apre la finestra e lo getta fuori, in strada.

“Ma sei matta? Ti metti a lanciare preservativi per strada?” Lei chiude la finestra e torna velocemente al caldo, nel letto.

“E cosa vuoi che li lasci nel cestino? Che poi li dimentico e quella ficcanaso di mia madre ci guarda dentro e infarta? Non riesce ad affrontare l'argomento sesso nemmeno se sono io a tirarlo fuori, figuriamoci arrivare da me col tuo preservativo usato in mano...” Facciamo entrambi una faccia schifata, immaginandoci la scena. Mi accarezza i capelli, che sono molto più lunghi dei suoi, e che ora sono sciolti sul cuscino. Ci passa le dita, come a sciogliere dei nodi inesistenti.

La guardo, sembra persa in pensieri irraggiungibili. Chissà che giro sta facendo il suo cervello. Chissà se sta pensando a qualcun altro. Mi accorgo che alla sola idea mi si sono drizzati i peli sulle braccia e sulla nuca, e sento gli occhi pizzicarmi, come se stessi per piangere. Sbuffo, cercando di togliermi questi pensieri dalla testa.

“Hai detto qualcosa?” Si riscuote all'improvviso, con un piccolo scatto nervoso che la attraversa in tutto il corpo. Così facendo serra le dita intorno ad una ciocca dei miei capelli, tirandomela. Strizzo gli occhi e tolgo i capelli dalle sue dita con un movimento del capo.

“Niente. Ho detto che ti amo.” Mi viene fuori spontaneo, ma mentre lo dico mi verrebbe da rimangiarmi tutto, da riprendermi le parole e ricacciarmele in bocca. Spalanca gli occhi, e ritira di colpo la mano, stringendo le spalle ed evitando il mio sguardo. Non si esprime, dalla sua bocca non esce nemmeno una sillaba. Aspetto cinque minuti, ma lei continua a non parlare, e questo è quello che avevo temuto più di tutto. La scavalco e mi alzo, ricominciando a vestirmi. Raccolgo maglione e boxer dal pavimento e li infilo, poi cerco i jeans, che sono buttati nell'armadio in un mucchio scomposto, sopra a strati e strati di roba sua, tutta nera. Un guardaroba variopinto, non c'è che dire.

“E'...è la prima volta che mi succede.”Mi dice. Io mi volto verso di lei, smettendo di infilarmi i pantaloni. Sono ridicolo, con i jeans alle ginocchia, infilato nell'armadio, che la ascolto con i singhiozzi che non vedono l'ora di venir fuori. A lei trema la voce, ma quando riprende è più sicura.

“E' la prima volta che mi succede. Che qualcuno mi ami senza che io lo ami. Cioè...”

“Cosa?” la interrompo “Tu hai fatto l'amore con me e non mi ami?” Domanda retorica. Ha appena risposto, idiota. Lei si stringe nelle spalle, e si circonda le ginocchia con le braccia.

“No, non ti amo. Sto bene con te. Mi piaci, e mi piace la tua compagnia. Con te ci sto bene. Ma non ti amo, no.” E' sincera e tranquilla, come se avesse fatto questo discorso mille volte, anche se mi ha detto che non è così. Forse, a furia di sentirselo ripetere, ha imparato le lezione. Si stiracchia, alzando le braccia in alto, ma subito si ritira, infreddolita.

“Allora io e te non stiamo insieme.”Cerco di ricattarla in qualche modo, ma lei si gratta la nuca, per nulla impaurita dalle mie parole.

“Scusa la schiettezza ma chi te l'ha chiesto? Non ti ho mai detto di metterci insieme, se ben ricordo.”Tranquilla si alza e comincia a rivestirsi anche lei. Sono quasi le sei, tra poco tornerà sua madre dal lavoro.

“Chi me l'ha chiesto? Scusami ma abbiamo fatto sesso! Questo per te non vuol dire niente? Credi che lo faccia con tutte? Credi che non voglia dire qualcosa?” La mitraglio di domande, dettate dalla frustrazione crescente che sento dentro allo stomaco. Lei mette le mani avanti, come per calmarmi.

“Non ho mica detto che non vuol dire niente o che lo fai con tutte. Mi dispiace Matteo, io non ti amo. E non voglio stare con una persona di cui non sono innamorata...”

“Però a letto con me ci sei venuta lo stesso!” Grido. Il criceto si nasconde nel cotone, spaventato. Lei continua a vestirsi, per nulla turbata dalle mie urla.

“Non mi sembra di averti obbligato a farlo, né di averti detto che non volevo o che mi stavi costringendo. Avevo voglia di venire a letto con te, di fare sesso con te. Come ho voglia di passare le mie giornate con te a camminare, a ridere e a parlare. Per me l'amore è un'altra cosa. Non c'entra con il sesso, o almeno non c'entra quanto pensi tu. E lo dico perchè ci sono passata. L'ho provato sulla mia pelle, quello che sto dicendo.” Si avvicina a me, a braccia aperte, come se volesse abbracciarmi. La spingo via e lei cade a terra. Non si fa male, per fortuna, ma io mi pento subito di quel gesto. Non l'aiuto ad alzarsi, e nemmeno lei si alza. Si sistema a gambe incrociate sul pavimento. Si passa la mano sinistra sul viso, poi sui capelli. Batte la destra a terra, come per invitarmi a sedermi. Io vorrei andarmene, ma la situazione è già abbastanza critica, non voglio peggiorarla ulteriormente. Sospira, quando mi vede accasciarmi contro l'armadio, rabbuiato.

“Per te cos'è l'amore, Matteo?” ha un tono di voce dolce, sereno. Come se stesse per raccontare una storia e questa risposta facesse poca differenza.

“L'amore? L'amore è stare insieme. Baciarsi, cose così. Capirsi, e stare bene. Anche dedicarsi delle canzoni, o fare dei viaggi insieme, scoprire cose dell'altro. Amare una persona fisicamente e anche dentro. Parlarsi. Volere una persona per com'è e non cercare di cambiarla. E ,che ne so, stare anche tutta la notte in macchina a parlare, o in spiaggia, o fare pazzie. E amare una persona anche fino a morire per lei.” Sospiro. Sono stanco, improvvisamente tutto il mio discorso mi sembra molto stupido, quasi recitato. Lei passa le dita nelle scanalature del legno del pavimento, a testa bassa. Quando la alza, vedo che ha gli occhi lucidi.

“Per me l'amore è un'altra cosa, Matteo. Per me non sono le rose. Per me non è stare tutta la notte abbracciati a dirci quanto ci amiamo. Non è fatto di rose, o pazzie, o notti in macchina a parlare. Non è fatto di essere disposti a morire per lei. Non so come spiegartelo, Matteo. Mi sono innamorata una volta sola, di una persona sola nella mia vita. E mi sono innamorata dei suoi silenzi. Della sua incapacità di aprire gli occhi davanti a quello che volevo offrirle. E ho portato pazienza. E sono cambiata per lei. E lei è cambiata per me. Ha rivoluzionato tutto quello che credevo sull'amore. Mi ha spalancato gli occhi. Per me l'amore è scegliere. Scegliere chi far star bene, cosa fare per far andare avanti una relazione in modo sicuro. Per me l'amore è sopportazione, scoperta, pazienza. Tanta pazienza. Le canzoni, i baci al chiaro di luna, i cazzi e i mazzi vengono dopo. Molto dopo. Sono un contorno. Non posso basare una relazione su quelli, non sono in un film.” Ha gli occhi rossi, coperti da un velo di lacrime, e il mento le trema un po'. Si copre il volto con le mani, aspettando di calmarsi, per non farsi vedere da me. Resto in silenzio anche io, non voglio turbare questo momento.

Poi comincio, lentamente, a parlare, ma parlo con me, non con lei. Come se pensassi ad alta voce, ma le parole mi bruciano.

“ Con Martina non è mai stato così. Lei mi ha insegnato come si ama, con lei ho fatto l'amore la prima volta, a lei ho dedicato la prima canzone e per lei ho pianto, e ho anche pensato di morire, per lei. Lei mi amava, quando l'abbiamo fatto.” Suona come un'accusa, e in fondo lo è. Voglio che lo senta, quanto sono arrabbiato e amareggiato. Quanto sono triste, quanto non la capisco. Quanto non voglio capirla. Lei sbuffa. I peli del cane le si sono attaccati alle calze e al vestito. Li toglie, senza fretta. Si prende il tempo per rispondermi, il tempo per pensare.

“Allora torna da lei. Perchè io non sono lei. E noi l'abbiamo fatto e io non ti amavo. E non ti amo nemmeno adesso. E probabilmente non ti amerò nemmeno domani. Non voglio impegnarmi in una relazione con te. Non voglio impegnarmi in una relazione con nessuno, neanche fosse la persona della mia vita. Non ne ho bisogno né voglia.” Si alza, spolverandosi definitivamente il vestito, ma i peli, imperterriti, rimangono lì. Mi sovrasta, e si piega per baciarmi. Giro il viso e mi alzo.

“Sei una deficiente! Sei una cretina! Stai mandando a puttane due mesi! Due mesi della mia vita a correre dietro ad una bambina che fa finta di essere adulta! E blablabla le rose vengono dopo, e le canzoni non sono importanti, e bisogna basarsi su altro, e l'amore è un'altra cosa.. Ma chi cazzo ti credi di essere? Ma chi cazzo sei?” La fronteggio, e lei si lascia fronteggiare. Non accetta lo scontro, semplicemente non le interessa. Non deve sfogarsi su di me come io con lei. Non ha la rabbia repressa di un tradimento alle spalle, né di un amore non corrisposto. Semplicemente non le importa. Prova ad abbracciarmi di nuovo, io faccio qualche passo di lato, portandomi sul tappeto. Mi infilo le scarpe, mentre lei mi fissa immobile. Squilla il cellulare, ovviamente il suo. Vibra sulla scrivania, e lei si distrae per un momento. Prendo la tracolla e mi sbatto la porta della sua stanza alle spalle. Premo il pulsante del cancello, e apro il portone di casa proprio mentre sta rientrando sua madre.

“Oh. Ciao...” Se non avesse le rughe, sarebbe la sua fotocopia. Forse Paola è ancora più bella. Ha gli occhi più grandi e più scuri, il sorriso più sicuro e spavaldo di sua madre. Ed è anche più alta.

“Dica a sua figlia che ci vediamo la prossima settimana. Alle quattro, giovedì, al centro universitario.” la madre, confusa, mi guarda e fa un sorriso imbarazzato.

Mi schiarisco la voce, e assumo un tono serio, professionale. Le tendo la mano e lei ricambia. Lei non si mangia le unghie.

“Sono il ragazzo che le fa ripetizioni di matematica.” Si illumina all'improvviso. Probabilmente vede in me l'ancora di salvezza contro il debito in matematica di sua figlia. Il suo sorriso si allarga sicuro, e mi lascia andare, tenendomi la porta di casa aperta. Andandomene,guardo verso la finestra di Paola.

Lei è lì,seduta sul cornicione, che fuma e mi guarda. Comincio a camminare all'indietro, senza staccare gli occhi da lei. Ovviamente non vedo una buca, e incespico. Per un soffio riesco a non cadere a terra. Non mi volto più verso di lei, ma sento l'agitazione e il senso di colpa divorarmi un punto non ben definito tra cuore e stomaco. Sono sicuro che lei mi stia ancora guardando.

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Capitolo 5
*** Giorno 77, giorno 81 ***


Giorno 77

“Sono sicuro che è stato lui la causa di tutto. Paola non mi ama perchè lui le ha spezzato il cuore, e lei non vuole più innamorarsi. La persona di cui parlava è lui, ne sono sicuro. Il comportamento quando si sono visti qui, lei che esce e mio fratello subito dopo. Marco che mi dice di lasciarla perdere. Lei che mi dice che non sapeva fosse mio fratello. Ovviamente nessuno dei due vuole dirmi niente, per non farmi soffrire, ma io sono furbo, io non mi faccio fottere così da una ragazzina e da un bastardo...” Do un calcio al tappeto, che si raggruma ai piedi del letto. Francesco, seduto sulla mia sedia girevole, si spinge lentamente con i piedi. Giovanni si toglie gli occhiali dal naso.

“Sembra “Il club delle babysitter” lo sai? E tu...” mi punta addosso la stanghetta degli occhiali “...tu sembri un invasato.” Se li rimette, e tira su col naso.

Francesco si ferma e mette i piedi sulla scrivania. Si piega in avanti, e prende la chitarra, tenendola stretta. L'ha già fatta cadere una volta, e la conseguenza è stata che è tornato a casa con un occhio nero. Comincia a strimpellare “Knockin'on heaven's door”, senza parlare.

“Oh e tu? Cosa mi dici?”Lui mi fulmina e continua nel suo silenzio. Giovanni sospira, stendendosi sul letto.

“Cazzo, Matteo..ma passi da un estremo all'altro però...” lui e Francesco si scambiano un'occhiata di intesa. Vado verso l'armadio e sistemo il tappeto, poi sposto i piedi di Francesco dalla scrivania. Butto nel cestino i residui di terra che le suole hanno lasciato sul piano, e gli porto via la chitarra dalle mani.

“Mi sembra di capire che voi sapete qualcosa che io non so. Ditemela. Ditemela adesso perchè io impazzisco. Schizzo male e vado fuori di testa. Mi ha fottuto il cervello, quella lì. Con i suoi cazzo di modi di fare. E contro il sistema, e amo il mondo, e preferisco i girasoli.”la scimmiotto, distorgo la sua immagine agli occhi dei miei amici, voglio che sappiano quanto stupida e falsa sia.

“Ecco cos'è. E' una falsa. Una che presta libri, che ama il mondo, che si rotola coi cani, che mi porta a vedere i ponti con le luci blu, che è sempre gentile con tutti. Falsa, impostata, stronza.”

Francesco sospira, come Giovanni.

“Matteo, adesso basta. Non volevamo dirtelo noi, ma stai evidentemente esagerando. Paola è innamorata di una persona. E lo sappiamo sia io che Giovanni...” Guardo Giovanni che ora è seduto sul mio letto, preoccupato. Una ruga gli attraversa la fronte e cerca di interromperlo schiarendosi la voce, ma Francesco prosegue imperterrito “ Si, è innamorata di una persona. Ma questa persona non è Marco, come puoi ragionevolmente pensare. E' tua sorella.” Espira, e i suoi occhi cercano i miei, ma io sono troppo impegnato a cercare di decifrare quello che mi ha appena detto per guardarlo e vedere davvero la tua faccia.

“No..no aspetta fammi capire. Paola è..l'ex di mia sorella? Io..mi sono innamorato..dell'ex di mia sorella? Io ho scopato con l'ex di mia sorella?!” Sto urlando, ma non riesco a farne a meno.

Mi accascio sul letto, e Giovanni mi batte una mano su una spalla, cercando di farmi forza.

“Coraggio Matteo...non è morto nessuno...coraggio...” mi volto verso Giovanni. Ho il cuore in gola, e un male indefinito allo sterno.

“Che cazzo vuol dire che non è morto nessuno? Che cazzo dici? Sono andato a letto..con l'ex ragazza di mia sorella! Ti rendi conto? Sono innamorato di una..che è innamorata di mia sorella!” Bussano alla porta della mia stanza. Entra Alessandra, e viene dritta verso di me. Gli occhi verdi brillano di determinazione e di affetto. Rivolge un cenno sbrigativo ai miei due amici, che si dileguano in fretta.

“Mi hai sentito...” alludo alle urla di poco prima. Lei annuisce, e i capelli rossi le ricadono davanti al viso. Si siede sul letto accanto a me, mettendosi le mani in grembo.

“...posso parlare?” Mi chiede, dolcemente. Fa un piccolo sorriso quando annuisco.

“Paola..è una ragazza strana. Sotto molti punti di vista può essere considerata una ragazza normale, ma non lo è. Ha più ombre di quante si possano immaginare per una come lei. L'hai vista no? Va in giro saltellando, sorride sempre, è sempre gentile con tutti. Ma ha un lato che cade completamente a pezzi. Un lato che pochi hanno avuto la sfortuna, o la fortuna di vedere. Io ho voluto farlo, lei mi ha accontentata e io l'ho distrutta. Non sapevo come comportarmi. Hai presente quando tu stai andando in macchina e all'improvviso ti si spegne per non so che cosa? Ecco. Lei mi ha mostrato il lato insicuro, quel pezzo di lei che nascondeva tutte le paranoie e i brutti pensieri. E io ho preso paura. Aveva perso tutta la sicurezza, tutto il sole che aveva. Non avevo capito che le bastava solo un po' di tempo.” Mi accarezza una guancia, togliendomi la lacrima di frustrazione che mi è scappata dagli occhi. “ Ehi, si fida di te. Accontentati di questo. Non potrà amarti, ma si fida di te. E ti vuole bene. Non è una che fa sesso col primo che capita. In generale, non fa sesso con gli uomini. Hai avuto la fortuna che si fidasse di te fino a questo punto, coso. Se l'è fatto il tatuaggio, alla fine?” mi chiede, prendendomi la mano. Sto battendo i denti dal tremore che mi ha assalito, ma riesco ad annuire lo stesso. Mi tocco sotto al lobo dell'orecchio, vicino all'attaccatura dei capelli.

“Ha..ha una A con un piccolo cuore...” mi aveva spiegato che quel tatuaggio era per una persona che non c'era più. Ora capisco cosa intendeva. Alessandra sorride appena, e mi abbraccia. Non so come, riesco a ricambiare quella stretta. Probabilmente questo è il primo abbraccio che ricevo da lei, in diciannove anni.

“Vuoi che ti lasci solo? Scusami..avrei dovuto dirtelo io. Quando Marco mi ha detto chi era lei non ce l'ho fatta. Non avercela con me per questo, per favore.” Annuisco un po' confusamente, ma al tempo stesso comincio a sentire il respiro farsi regolare, e il cuore tornare a battere a ritmo normale. Alessandra esce, spegnendo la luce. Sa le mie abitudini. Fa entrare nella mia stanza Vagabondo, che mi si distende a fianco, sul letto. Si addormenta subito dopo, e il suo russare regolare mi regala una tranquillità che non credevo di poter provare in un momento così. Gli accarezzo i peli del muso, e lui emette un piccolo sbuffo, che mi fa sorridere. Mi porto la destra al viso e le lacrime cominciano a scorrermi lungo le guance. Non ho mai pianto molto, possibile che una ragazza di diciott'anni che conosco da due mesi riesca a farmi versare lacrime? No, non è solo per lei. E' il tutto. Ha fatto sesso con me perchè si fidava. E del suo amore per il mondo. Lei che regala pezzi di pizza ai barboni. Lei che schizza male se non si fa quello che vuole lei. E che vuole sempre aver ragione. E che prende e va via o si chiude nel mutismo. E' questo che mi ha fregato, di lei.

 

Giorno 81

Arrivo al bar e la vedo. Sta leggendo un libro, questa volta non è in ritardo. Anzi. Io sono stato mezz'ora indeciso sul cosa risponderle, dopo il suo messaggio. Vediamoci, diceva. Parliamone. Sono qui per parlarne ma non voglio. Non voglio sentirmi dire che ama mia sorella. Mi siedo davanti a lei, serio. Lei mi fa un sorriso, un sorriso dei suoi, e si sposta i capelli con la mano destra. Appoggia il libro sul tavolo e io riesco a leggerne il titolo. Stargirl. Ecco cos'era quell' “irl”. Stargirl. Arriva il cameriere, e lei ordina per sé, i soliti due tramezzini e la coca cola.

“Per me un caffè.” Il cameriere prende le ordinazioni e si allontana, zoppicando leggermente.

“Ma a te non piace, il caffè!” esclama lei, mettendo il libro nella borsa. Non ha la sacca bianca e nera, oggi. Ha una borsa di pelle bordeaux, a forma di bauletto.

“Senti, io non ho voglia di parlare con te. Lo so, sono esagerato perchè ci conoscevamo da due mesi e io a dirti ti amo e adesso a stare così di merda per una stronzata veramente ma non ho voglia.” Sto per alzarmi, ma lei mi ferma afferrandomi per un braccio.

“Resta. Resta qui, per favore.” Mi chiede, senza togliere la mano dal mio polso. Mi risiedo, di malavoglia. Lei aspetta che io mi sia sistemato, poi comincia a parlare, piano.

“Io ho detto a tua sorella che la amavo dopo una settimana che eravamo insieme. Ci frequentavamo da circa un mese e gliel'ho detto. Perchè era vero. Era vero che la amavo. Lei è sempre stata incapace di dirmelo. Diceva che mi voleva bene. Diceva che ci teneva a me, ma io non ho mai sentito dalla sua bocca le parole “Ti amo.”. Ma si comportava come se fosse vero. Come se ci credesse e come se fosse così anche per lei. Ma non me l'ha mai detto. Matteo, mi hai detto ti amo perchè pensi che sia vero. Ma io non ti amo. Non sarò la prima né l'ultima a cui lo dirai e che ti risponderà così, e così per la ragazza che avrai davanti non sarai il primo che le risponderà di no. Penso che tu me l'abbia detto perchè ero la prima a provare un interesse per te, dopo Martina. Io non penso che tu mi ami davvero. Non penso nemmeno che tu sappia cosa sia, l'amore.” si stringe nelle spalle e distoglie lo sguardo da me “non lo so nemmeno io, per inciso. Ma so che l'amore non sei tu. Il mio, di amore, non sei tu.”

“Nick Hornby direbbe che quando pensiamo all'amore siamo abituati a pensare a qualcosa di astratto. In realtà l'amore è una persona. La persona a cui pensiamo quando pensiamo all'amore”

Lei batte le mani un paio di volte, ammirata.

” 'Tutta un'altra musica.' Un libro bellissimo, ma non uno dei miei preferiti. Il suo capolavoro per me è 'Alta fedeltà' L'ho amato dalla prima all'ultima pagina. E' questo il mio problema, forse. Amo troppo. Disperdo amore. Lo disperdo, e quando arriva la persona a cui voglio darlo tutto, non ne ho più.” Si morde l'unghia del pollice. Arriva il cameriere con il caffè per me, e i suoi due tramezzini con la coca cola.

“Ciccia, ciccia!”esclama lei, puntando un tramezzino verso il cielo e addentandolo subito dopo.

“Perchè non ti sei mai aperta con me?”Le chiedo. Ho una miriade di domande da farle, che mano a mano mi vengono in mente. Lei mastica, poi manda giù. Prende la coca cola in mano, versandola nel bicchiere. Osserva la schiuma che si forma, e mi risponde senza smettere di guardare le bollicine.

“Perchè tu non eri pronto. Né volevi vederlo. Mi fido di te, ma non volevo che vedessi l'altra parte di me. Ho sentito Alessandra ieri, mi ha detto del vostro discorso. Il lato che cade a pezzi è un lato precluso ai più. L'ha visto solo lei. E mi ha devastata. Per cui ho detto basta, che non deve vederlo più nessuno. Ho cercato di cambiare vita, di cambiare aria, di cambiare la parte sbagliata di me. Che c'è, te l'assicuro.”tira su col naso e beve, per poi continuare “ho cercato di innamorarmi di te. Non pensare che non ci abbia pensato. Ma non posso. Non ci riesco” lo dice quasi scusandosi, cercando forse di sdrammatizzare.

“Non ti capisco, Paola. Non ti capisco davvero. Sei venuta a...”

“Oddio si, sono venuta a letto con te, ma vedi? Tu stai basando tutto su quello. Per me il sesso non è importante, a me non me ne frega un cazzo di essere venuta a letto con te!”Sbatte le mani sul tavolo. La lattina cade e la coca cola si spande sul tavolo, allargandosi in una macchia scura.

“Tu non capisci, Matteo. Se non mi fossi affezionata a te, se non avessi voluto farti felice non sarei mai venuta a letto con te. Sapevo che ti avrebbe reso felice, e ho cercato di tirarti fuori dal letargo che ti eri creato, dal tuo stato di rana sotto al fango. Ho cercato di farti capire che boh, forse ogni tanto fa anche bene tornare a sperare. E se ti guardi intorno, e dico intorno bene, capirai che ho ragione. Lo so che adesso non riesci a perdonarmi. E che ti sembro solo una stronza, e lo sono. Ma tu non mi ami. Non ami me, ami il fatto che qualcuno si sia interessato a te dopo Martina. E quel qualcuno sono stata io. Adesso hai aperto gli occhi, ora svegliati, e muoviti.”Si alza senza lasciarmi il tempo di replicare, mettendosi il cappotto con gesti bruschi, nervosi.

“Dove vai?” Intuisco la risposta, ma spero che non sia quella che immagino. Lei mette sei euro sul tavolo, accanto alla lattina di coca, ancora di traverso.

“Dalla Ale. Dobbiamo parlare di un po' di cose, io e lei.” Si avvicina a me, dandomi un bacio su una guancia. Saluta il barista ed esce, la vedo camminare velocemente lungo la via e sparire tra la folla e il buio. La coca cola comincia a gocciolare giù dal tavolino, senza che nessuno faccia qualcosa per fermarla. Appoggio la testa nell'incavo della mano, cercando di racimolare le informazioni giuste per avere un quadro preciso. Ma non ce la faccio. La mia mentalità ordinata e scientifica ora come ora sta facendo cilecca. Non riesco a pensare, non riesco a concentrarmi su niente. Ha colpito nel segno, comincio ad ammetterlo anche io. Non l'amavo, amavo l'idea di lei come di qualcuno che si interessasse a me. Ma mi piaceva, lei. Mi piace da matti. Mi alzo, il caffè è ancora immacolato, fuma nella tazza. Prendo i soldi di Paola e pago anche il mio caffè. Come ogni volta, non si è fatta offrire niente.

 

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Capitolo 6
*** Giorno 94, Giorno 100 ***


Giorno 94

Cerco le chiavi di casa nelle tasche, ed infilo quella grossa e grigia nella serratura del portone. Apro la porta, che sbatte contro qualcosa.

“Ahia!” Paola si sposta, massaggiandosi la spalla. Spalanca gli occhi, sorpresa nel vedermi “Ehi..ciao Matteo..” mi dice. mia sorella le si avvicina, prendendole la mano. Lo so che è roba tua, l'ho sempre saputo. Non c'è nessuno in questa stanza che non lo sappia. Persino i cani lo sanno. Lei ha cappello e cappotto addosso, stava per uscire quando sono entrato io. Chissà se si ricorda di me. Di quello che abbiamo fatto in due mesi. Solo due mesi.

“Ciao..come stai?” le rispondo con un sorriso, il più sincero possibile. Annuisce e mi sorride a sua volta, come a dire che adesso va tutto bene. Già, adesso va tutto bene. Adesso che c'è lei di nuovo.

“Bene bene..tu?”

Le rispondo uno sbrigativo bene, non ho voglia di parlarle, non quando c'è anche mia sorella. La saluto e vado nella mia camera. Adesso oltre a Bob Dylan ci sono anche i Beatles, che camminano sulle strisce di Abbey Road. Prendo la chitarra, ma Alessandra apre la porta proprio mentre sono intento a suonare Norwegian Wood. Mi fermo e la guardo, senza parlare.

“Non ti da fastidio che la tua ragazza sia andata a letto con tuo fratello?” Le chiedo, incattivito. Lei ridacchia, divertita. Si siede sul letto e comincia a dondolarsi, come una bambina.

“E a te non da fastidio che la ragazza che ti piace stia con tua sorella?” scoppia a ridere, di gusto.

“Hai un orribile senso dell'umorismo. Che stronza.”

“Senti. Nemmeno io do al sesso il significato che gli dai tu. Lei da questo punto di vista lei è come me. E' successo, basta. Non eravamo più insieme quando l'ha fatto con te, non ho niente da rimproverarle. Se è per questo, posso solo ringraziarla. Da quello che ho capito, ti ha fatto felice. Ecco di cosa avevi bisogno, tu. Di un po' di Paola. Non ce ne sono tante, ma ci sono. E io” conclude, alzandosi dal letto “ io la mia ora me la tengo stretta.”

Non fa rumore mentre esce dalla stanza, mentre mi lascia da solo a pensare. Mi alzo anche io e spengo la luce. Mi distendo sul letto, mi viene voglia di leggere. Non il Piccolo Principe, e nemmeno Norwegian Wood. Domani vado a comprarmi Stargirl.

 

Giorno 100

Seduto al solito tavolo del centro universitario, ho abbandonato il libro di ingegneria per dedicarmi a Stargirl. Susan Julia Caraway, per la precisione. Ma lei si fa chiamare Stargirl, perchè Susan le sta troppo stretto. Dopo essersi fatta chiamare anche Topoletta. Mi mancano poche pagine e l'avrò finito, ma non voglio che finisca. E' come se in quel libro ci fosse un pezzo di lei, un pezzo di lei che non voglio far andare via. Come un puzzle, comincerò a mettere a posto i pezzi, e riuscirò finalmente a capirla.

“S...scusami..posso?” Una voce femminile mi richiama alla realtà. Alzo gli occhi e vedo due occhi chiari che mi fissano imbarazzati, e un viso spruzzato di lentiggini. Sento passare un'ambulanza, e la pioggia che continua a sbattere contro i vetri. Lei si arriccia una ciocca di capelli biondi sull'indice, e arrossisce, non sentendo una risposta da parte mia. Le faccio cenno di sedersi, non mi crea nessun disturbo. Ha un maglione giallo, extralarge. Le sta largo anche perchè è magrissima, quasi scheletrica. Mi sorride stringendosi nelle spalle, intimidita forse dal mio sguardo.

Posa gli occhi sul libro e ne legge il titolo.

“Stargirl..?” mi chiede, incuriosita. Decido di provare. Al massimo, mi prenderò una cantonata. Faccio un lungo respiro, la guardo a mia volta e sorrido, cercando di calmare il cuore che sta aumentando il battito.

“...sapresti leggerlo in una settimana?”

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