Con più d'un giuramento e d'uno stretto abbraccio

di n u m b
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***



Capitolo 1
*** Uno. ***


 

Salve a tutti. Beh allora, che dire? Questa è la mia prima fanfic, la primiiiissssima che scrivo. E' basata sul romanzo "Il giovane Holden" di Jerome David Salinger. Mh, vi prego di essere clementi con me se la storia non è di vostro gradimento, e se avete da criticare o anche semplicemente da dirmi che  la storia vi è piaciuta o come posso migliorare, vi sarei davvero grata se voi me la recensiste. Sappiate che gli aggiornamenti arriveranno il prima possibile. Grazie molte a chi leggerà ~

n u m b

Era dicembre. Si stava avvicinando quella festività schifa che tutti chiamano Natale, per la quale si torna a casa da scuola, le vie sembrano luccicanti come lampadari di cristallo, Cristo Santo, per la quale si finge di essere tutti più buoni e si deve andare a quelle schifo di cene che i parenti organizzano tanto per far vedere che siamo uniti, che ognuno è più buono e che saremmo pronti a buttarci giù da un dirupo per salvare la pellaccia del cugino o dello zio o vattelapesca che ci sta di seduto di fronte. Questo sopra il tavolo, sotto non facciamo altro che pestarci i piedi e appena quello che ci sta seduto accanto si gira, si è pronti a spettegolare e sparlare di lui al parente che abbiamo di fronte.
Bella famiglia. Davvero una bella famiglia.
Tanto per cominciare, uno, io avevo smesso di andare a quella schifo di scuola dall’inizio di dicembre, anche se i miei non lo sapevano. Se lo avessero saputo gli sarebbe venuto un’ulcera o una gastrite o che so io. E tutto questo per il fatto che sono donna e che è un privilegio per me istruirmi e quindi devo sfruttare al massimo la possibilità eccetera eccetera. Questi sono i discorsi cretini di mio padre. Mio padre non si è mai interessato veramente a me. E’ un banchiere e sta tredici ore su ventiquattro a sistemarsi il panciotto e le restanti undici a sproloquiare con i suoi illustri amiconi di quanto sia fiero di mio fratello e di quanto sia orgoglioso di me eccetera eccetera. Tutte stronzate inventate sul momento per far passare agli occhi degli altri la sua noiosa vita l’esistenza che tutti desidererebbero. Quanto lo odio quando fa così.  Non che in altri momenti lo odi di meno, si capisce, ma è quando fa in quel modo che sento la collera montarmi dento e mi viene voglia di strozzarlo. Oltre a mio padre nella mia famiglia ci siamo anche io, mia madre e Teo. Teo è mio fratello e ha diciotto anni. E’ una sorta di scienziato/atleta eccezionale o vattelapesca. A scuola è un cervellone e a dispetto di tutti gli altri cervelloni, è un asso anche negli sport. Non ho idea di come gli vada a genio tutto quel correre e sudare e di nuovo correre e sudare. Mi fa davvero rabbrividire.
E’ un buon fratello, questo sì, ma a volte è un po’ come mio padre: dato che sono femmina, Cristo Iddio, mi proteggono un po’ troppo. Vogliono sempre sapere dove vado, cosa faccio, con chi, quando e come. Ma questo è un problema superato, dato che riesco sempre a inventarmi un accidente di scusa o che so io. E alla fine faccio sempre quello che mi passa per questa maledetta testa.
E in ogni caso pensano che io sia una bambina e che io sia ancora  vergine, Cristo Santo, quando non lo sono. Ed è assolutamente buffo che mio fratello e mio padre pensino il contrario e ogni volta che esco si preoccupano di dirmi “non è un po’ troppo corta quella gonna?” oppure “i tacchi non sono troppo alti?”, come se cambiasse qualcosa. Mi fanno davvero crepare dal ridere quando fanno così.
Per quanto riguarda   mia madre invece, non c’è un granché da dire. E comunque ne riparlerò in seguito, se avrò voglia. Penso sia l’unica ad aver capito qualcosa sulla storia della verginità eccetera eccetera. Che tra l’altro l’ho persa in modo schifo. Praticamente successe che all’istituto femminile dove vado io c’era questo professore di storia. Questo professore, LaRey mi sembra si chiamasse, aveva un figlio. Questo figlio faceva di nome Edmund e aveva 19 anni. Spesso e volentieri il padre lo portava a vedere  i concerti di Natale, Pasqua o vattelapesca che l’istituto organizzava. Io suono il piano e quindi partecipavo a quei maledetti concerti e insomma questo Edmund mi aveva notata e via discorrendo.
Quando tornai nella mia stanza due sere dopo, la mia compagna, allora era una certa Kate Lorqualcosa, mi disse che era passato a cercarmi uno di un metro e novantacinque, capelli castani e baffetti, occhialuto che aveva detto di chiamarsi Edmund LaRey. Io avevo sentito parlare di lui e quindi sapevo chi era. La sera dopo alla stessa ora bussò alla nostra stanza. Ci presentammo e tutto quanto e lui mi suppergiù una valanga di complimenti dicendo che ero carina, ero bravissima a suonare il piano e Dio solo sa cos’altro. Alla fine concludemmo con l’accordarci per uscire il giovedì sera della settimana prossima. Finì che andammo al cinema a vedere uno schifo di film durante il quale mi ritrovai a pomiciare con lui non si sa come. Il film era abbastanza noioso comunque. Dopo il film lui mi fece salire su quella maledetta Cadillac del diavolo e andammo a finire su una di quelle collinette da cui si vede la Luna. Lui praticamente disse di venirmi dietro e via discorrendo e così tanto per fare una cosa, iniziò a sbottonarmi la camicetta e poi il resto venne da sé.
Per carità, a me non è nemmeno mai interessato, poi era pure bruttino e solo per slacciarmi la camicetta ci aveva messo un’ora Cristo Santo, ma lo feci tanto per fare e alla fine successe. Non ci siamo mai più rivisti.
Ad ogni modo, stavo dicendo: in quel periodo era Natale eccetera eccetera e faceva un freddo cane. Erano circa le quattro del mattino e io stavo camminando vicino Central Park, con addosso solo quella sorta di tubino nero, i collant a rete e un paio di decolleté con un tacco abbastanza alto. Avevo il rossetto rosso sbafato dappertutto e la matita mi era colata sulle guance, Dio mio, sulle guance. E in più avevo i capelli bagnati. Ero reduce da una di quelle cene idiote di cui ho parlato prima e me n’ero andata furiosa, con le scatole girate e sbattendo la porta perché mio padre continuava a dire idiozie…Non ricordo nemmeno che idiozie, visto che dopo essere uscita da quel postaccio mi ero scolata mezza bottiglia di Jack Daniels. Ora la sbornia mi era più o meno passata, ma avevo un tremendo mal di testa e in più mi veniva da vomitare.
Tuttavia, nonostante i dolori e il freddo me la passavo abbastanza bene, lì per quelle vie deserte di New York. Ad un certo punto mi iniziarono a far male le scarpe e allora me le tolsi e le portai in mano. Notai che uno di quegli odiosi, odiosissimi collanti mi si era strappato su un ginocchio, pazienza.
Dunque, fu quella mattina che la mia vita cambiò radicalmente. Io stavo girando lì per i fatti miei quando vedo un giovanotto correre verso di me, guardandosi dietro le spalle con aria concitata. Fatto sta che io ero troppo stanca anche solo per vederlo o scansarlo, lui non mi vide, così mi venne addosso. Io urlai un “ehi!” e probabilmente gli perforai un timpano, ma ero furibonda.
Lui era stramazzato a terra e giaceva supino, con una delle mie scarpe sul petto e una delle sue gambe sulle mie. Mi misi a sedere di scatto e dissi di nuovo “ehi!” a volume più basso e lo guardai meglio. Ragazzo bianco, abbastanza alto, capelli biondi tagliati a spazzola, tutti arruffati. Poteva avere sedici anni o giù di lì. Comunque, aveva la camicia bianca sbottonata per metà, le scarpe slacciate come la cintura, la cravatta che gli pendeva lenta al collo. Il suo soprabito era accanto a me.
Nelle condizioni in cui qual era pensai stesse uscendo dalla casa di una prostituta o che ne so.
Lui grugnì e mi disse - Si può sapere che cosa diavolo stava guardando per venirmi addosso?! -, mi guardò negli occhi a metà tra lo stupito e il seccato. Io di rimando:
- Ma casomai dove stesse guardando lei! Dato che aveva la testa girata da tutt’altra parte rispetto a dove andava, e se proprio vuole saperlo, sembra stia  scappando da una prostituta, dato il modo in cui è vestito!
Lui si riguardò e poi ci alzammo barcollanti. Io mi detti una spolverata e poi tornai a fissarlo. Parlai in tono meno concitato:
- Si può sapere come si chiama?! Così posso sapere a chi devo fare denuncia per l’aggressione? -  
Lui mi guardò indignato e per tutta risposta mi mandò un’occhiataccia e raccolse il suo soprabito.
- Allora? - dissi io battendo il piede scalza con le braccia conserte.
- Holden - bofonchiò lui tra i denti, - Holden Caulfield - rincarò la dose intento a raccogliere portafogli e Dio solo sa cos’altro.

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Capitolo 2
*** Due. ***


Ebbene sì, questo è il secondo capitolo. Ho deciso di metterlo per vedere un po' come va. Se vedo che la mia storia è apprezzata, pubblicherò anche il terzo (che devo riscrivere per colpa di word che non mi ha salvato nulla *disperata*), se invece non piace a molti non vale la pena. Grazie per l'attenzione, e recensite recensite recensite!

n u m b 

Rimasi lì imperterrita a guardarlo un altro po’ mentre si rassettava: si abbottonò la camicia, si aggiustò la cintura e si strinse la cravatta. Dopodiché si appoggiò il soprabito al gomito e, con un sopracciglio inarcato, mi domandò: - Adesso sono più presentabile? Soddisfo maggiormente i suoi gusti? - evidentemente si stava riferendo a quando poco prima gli avevo detto che sembrava appena uscito dalla casa di una prostituta.
Schioccò la lingua e mi riscossi da quella sorta di trance, durante la quale ero rimasta a fissarlo imbambolata.
Era un individuo buffo nei suoi modi di fare. Era alto più o meno un metro e ottantacinque, capelli biondi tagliati a spazzola, che in quel momento erano tutti arruffati e pareva non vedessero un pettine da un bel po’ di tempo. Era mingherlino, tant’è che la camicia gli stava un po’ larga. Aveva gli occhi marroni, che però viravano al verde; un naso greco e ben proporzionato, bocca piccola. Quello che mi colpì però, furono senz’altro le mani e la voce. Aveva mani grandi con dita lunghe e affusolate che si muovevano freneticamente nell’aria, come a sottolineare ciò che diceva. Aveva una voce non troppo bassa, suadente e un poco arrochita dal fumo.
In ogni caso, appena mi riscossi dalla trance e via discorrendo, gli risposi: - Se non altro adesso non sembra aver passato la notte  con una sgualdrina.
Lui grugnì e si girò camminandomi avanti. Io non so bene perché lo feci ma mi affrettai e lo raggiunsi, mi portai davanti a lui proclamando: - Ad ogni modo, io mi chiamo Nancie.
Lui parve sorpreso di vedere che io gli porgevo la mano e mi pentii subito di averlo fatto; Cristo santo, che cosa mi era venuto in mente, di mettermi a fare conoscenza con degli sciagurati che si aggirano la notte verso Central Park?
Dopo un po’ mi strinse la mano e restammo lì a fissarci non so per che motivo e lui bofonchiò: - Non sono solo io quello strano qui, comunque, perché nemmeno lei è nelle migliori condizioni, dato che ha i collant o vattelapesca come si chiamano quella sorta di reti che le fasciano le gambe strappati, cammina scalza, ho una tale quantità di roba impiastricciata sul viso e con questo freddo, lei va in giro con quel pezzo di stoffa che non le copre nemmeno le spalle e a malapena le arriva alle ginocchia.
Io mi riguardai con un’espressione sul viso che era a metà tra l’arrabbiata e lo stupita e dovrò essergli sembrata totalmente ridicola in quel momento, Cristo santo; a disagio mi tirai giù il vestito e prontamente gli gridai di rimando: - Se proprio vuole saperlo, non sono fatti suoi i motivi per i quali sono in queste condizioni. E’ solo un pervertito che, per giunta, mi si è anche buttato addosso! Bel modo di fare conoscenza eh! Complimenti!
La mia voce riecheggiava per la strada e appena lui ebbe compreso ciò che avevo detto, mi puntò un dito accusatorio contro e, sempre gridando, rispose: - Beh mi scusi tanto se lei è così ubriaca o insonnolita o Dio sa cos’altro che non ha manco provato a scansarmi!
-Oh andiamo, la finisca! Dica semplicemente che voleva finirmi addosso per placare i suoi schifo di istinti da pervertito!
Sorrisi con aria compiaciuta per poi passarmi una mano tra i capelli. Era a pochi metri di distanza da me, vedevo chiaramente come stava cominciando ad odiarmi: lo vedevo dai suoi occhi che guizzavano da una parte all’altra. Si avvicinò a me, sempre con quel dito puntatomi contro. Era così alto che per riuscire a guardarlo negli occhi dovevo alzare la testa come se stessi guardando le stelle. Notai che gli occhi gli si schiarivano notevolmente quando si arrabbiava: gli erano diventati quasi verde chiaro intorno alle iridi.
Devo ammettere che ci trovavo un sadico piacere a stuzzicarlo, e avevo un sorriso serafico stampato sulle labbra e negli occhi una luce quasi malefica.
Holden balbettava furioso senza riuscire ad articolare mezza parola schifa, allora io gli misi una mano sulla spalla e con tono di falsa consolazione puntualizzai: - Sarò molto franca: a guardarlo sembra pazzo e a giudicare dal rossore che le dipinge la faccia dà l’idea di essere sul punto di ammalarsi. Le consiglio di andare nel suo alloggio e mettersi subito al letto, provvisto di coperte pesanti, dopo aver preso due o tre aspirine. Ah, e se devo proprio dirle la verità sembra più ubriaco io che… - non mi lasciò nemmeno finire che si scrollò velocemente le mie mani dalle spalle ed esplose urlando come un dannato dapprima suoni inarticolati, poi farneticò che non potevo permettermi di parlargli così eccetera eccetera. Io rimasi lì ad ascoltarlo con pazienza, e quando ebbe finito la sua tiritera di parole senza senso, aveva il fiatone.
Dopodiché, sempre con quel tono serafico, aggiunsi: - Oh suvvia si calmi adesso, non si dovrebbe vergognare di ammettere la verità! Mi dica l’indirizzo del suo alloggio e io lo accompagnerò, va bene? - detto questo lo presi sottobraccio come se fossimo amici per la pelle. Probabilmente era solo un pazzo che aveva bisogno d’assistenza.
Lui mi intimò di starmi zitta altrimenti mi avrebbe strangolata e, all’apice del furore, mi spinse all’indietro facendomi cadere un’altra volta, solo che io poco prima di toccare terra avevo afferrato la sua cravatta, cos’ che mi ero trascinata dietro nella mia caduta anche lui. Io finii distesa supina, con la testa di Holden  nell’incavo del mio collo e il suo corpo schifo sopra il mio.
- Ecco, glielo dicevo io che era un pervertito! Si levi di dosso! - tuonai abbastanza furiosa scansandolo energicamente e buttandolo accanto a me. Mi rialzai di scatto indignata, portando istintivamente le mani a coprirmi il petto. - Devo chiamare la polizia per molestie sessuali? - urlai un’altra ennesima volta.
Iniziai a pensare che forse era veramente un pervertito e mi allontanai di qualche passo.
Lui si mise a sedere, con un’espressione imbarazzata in faccia.
- Senta, chiariamo le cose<. È lei che si è aggrappata alla mia cravatta e io non sono riuscito a rimanere in piedi e quindi mi è stato impossibile non finirle addosso! Non ho affatto intenzione di violentarla né niente e non sono un maniaco sessuale!
Si rialzò. Si rimise il soprabito che gli era di nuovo caduto e aggiunse: - E non ho idea del perché siamo finiti in questa situazione, quindi la saluto.
Detto questo si avviò a passo svelto davanti a me dandomi le spalle. Io non volevo che andasse via; maniaco sessuale o no, uno, avevo bisogno di compagnia, due, mi divertivo troppo a stuzzicarlo.
Mi misi a corrergli dietro e mormorai affannata: - Non ha…paura…che mi possa succedere qualcosa?
Holden si fermò un attimo e mi guardò con aria sbieca mentre riprendevo fiato.
- E che cosa le dovrebbe succedere? E io come potrei impedirlo in ogni caso?! Se ne torni a casa e non le accadrà nulla!
Mi misi una mano su un fianco.
- Uno, non ho affatto intenzione di tornarmene a casa, preferirei essere squartata viva; due, lei è un uomo e io una donna, sicuramente riuscirebbe a proteggermi un minimo in più di quanto potrei fare io da sola!
- Dimentica che io non ho il dovere di proteggerla.
Sorrisi con aria di sfida.
- Cos’ha intenzione di fare allora? Lasciarmi qui?
Il ragazzo mi guardò confuso.
A dire la verità non sapevo nemmeno io che cosa avevo intenzione di fare. Certe volte cerco compagnia dovunque e se sono sola mi sento come un pesce fuor d’acqua. Altre invece odio anche solo se qualcuno prova a parlarmi. Non riesco a capirmi nemmeno io, probabilmente sono malata nella testa o giù di lì.
In ogni caso, me ne stavo su qame="title" If a body catch ael ragazzo che aveva detto di chiamarsi Holden e via discorrendo.
-  Beh mi spieghi lei cos’altro dovrei fare! Portarla con me? Portarla con un maniaco sessuale, come dice lei?!
- Senta un po’. Lo sa che se lei mi lascia qui da sola e questa notte mi accadesse qualcosa e io rimanessi ancora viva per raccontare ciò che è successo metterei la polizia sulle sue tracce dicendo che non mi ha protetto?
Holden si grattò la testa e grugnì a disagio.
- Quindi? Che fa, viene con me?
E io, come se me l’avesse proposto, anche se sapevo benissimo che non mi aveva invitato a rimanere, risposi: - Accetto con piacere la sua proposta.
Ci incamminammo lungo il marciapiede in silenzio.
Ammetto che si stava rivelando un individuo abbastanza simpatico, anche se non ho idea di come pensassi che fosse simpatico, visto che fino ad allora non ci eravamo nemmeno scambiati cinque parole di fila senza litigare. Tuttavia, avere compagnia mi aveva messo di buon umore, e già quella era un grande cosa.
Dunque, stavamo camminando sul marciapiede, faceva un freddo cane ed erano quasi le cinque di mattina.
- Comunque, dato che staremo insieme per un po’ di tempo, mi sembra ridicolo continuare a darci del lei. Non sono una vecchia bacucca.
- Il carattere è quello - mormorò lui di rimando.
Io lo spinsi di lato guardandolo di traverso.
- Si può sapere dove stiamo andando? Io voglio andare a Central Park!

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Capitolo 3
*** Tre. ***


-Smettila di fare la capricciosa!
Mi intimò lui guardandomi male. Evidentemente non era proprio felice di portarmi con lui. Pazienza.
- Muoviti, non mi va di perdere tempo. Tra un po’ sarà l’ora in cui le prime persone si iniziano ad alzare per andare a lavoro o per tornare dopo una notte passata a sbronzarsi. Non mi va di incontrare qualcuno in queste condizioni.
Mi indicai. Cristo Iddio ero veramente in uno stato pietoso. Mi facevano anche male i piedi poi, oltre alla testa: camminare sull’asfalto scalza non è proprio l’ideale.
- Non sei una bambina di cinque anni, non comportarti come tale!
Rispose interrompendo il corso dei miei pensieri. Io sbuffai e me ne andai sul marciapiede opposto, in direzione di Central Park. Non era molto lontano.
New York quella notte era silenziosa più che mai. Forse era così quieta tutte le notti, non potevo saperlo, non ero mai stata fuori fino a quell’ora. Non si sentiva un fiato. Le uniche cose che facevano ‘rumore’, che non erano statiche come il resto del paesaggio artificiale, erano le luci intermittenti arrotolate lungo le ringhiere dei balconi. Luci colorate che a me mettevano una tristezza infinita. Era proprio Natale. Alcune case poi avevano nei loro cortili degli abeti, chi grande chi piccolo, tutti agghindati e brillanti. Sospirai e vedendo il cancello di Central Park mi affrettai. Sfortunatamente, era chiuso. Che rottura,  mi sono spezzata i piedi per trovare il cancello chiuso? Mi girai a cercare Holden, non lo vedevo da nessuna parte, quando sentii un tonfo dall’altra parte del cancello. Mi girai di scatto e lo scorsi di fronte a me, oltre le sbarre della cancellata, che mi sorrideva con aria furba.
- Allora? Ti decidi a venire?
Io grugnii per tutta risposta e provai ad arrampicarmi sul muretto lì vicino. Con quella sorta di tubino non era la cosa più semplice del mondo! Arrivata in cima all’alto recinto, mi sedetti per riprendere fiato. Holden mi porse la mano con aria di superiorità. Io mi buttai di sotto rifiutando il suo aiuto e, spolverandomi le ginocchia, lo guardai con aria di scherno.
- Posso farcela anche da sola eh.
Lui alzò le spalle e rimase a guardarmi. Io mi diressi verso la panchina e mi distesi, chiudendo gli occhi. Silenzio. Non sentivo nulla. Di giorno New York e specialmente Central Park erano caotici come un manicomio, di notte invece avevi la pace più completa. Central Park di giorno è popolato da mamme con i passeggini, bambini, adulti che passeggiano, vecchietti che si rilassano, piccioni. Di giorno si sentono mamme che rimproverano i loro pargoli, poppanti che piangono, il chiacchiericcio continuo degli adulti, gli schiamazzi dei bambini che giocano e il rumore della macchine che corrono veloci che arriva dalla strada…Quella notte non si sentiva nulla di tutto ciò. Si sentiva solo il mio respiro, il vento che frusciava tra le foglie e una cicala in lontananza. Ah, e il respiro dello sconosciuto che mi portavo dietro.
Sentii dei passi avvicinarsi a mee poi un “Nancie” mormorato.  
- Ehi, Nancie, sei sveglia? Mi senti?! Ou!
Delle mani mi presero le spalle e mi riscossero e io aprii gli occhi di scatto e mi misi seduta con una faccia sconvolta.
- Sta fermo, si può sapere che ti prende? Stavo solo ascoltando i rumori, uff.
- Se ti addormenti morirai assiderata, con il freddo che fa.
- Non stavo dormendo! E poi per te non dovrebbe essere una grande perdita la mia assenza!
- Infatti, ma sai com’è, preferisco avere un cadavere in meno sulla coscienza! - Fece sarcastico lui cercando qualcosa nel cappotto. Si frugò nelle tasche per poi ricacciare soddisfatto un pacchetto di sigarette e un accendino. Se ne mise una in bocca e se la accese. Quando ebbe fatto mi porse il pacchetto di sigarette offrendomene una.
- Non so fumare.
Lui parve sorpreso di sentirmi dire ciò. D’accordo, no non era vero che non sapevo fumare. Avevo imparato qualche mese fa, con i sigari di mio padre. Non so perché ma mi ritrovo a mentire le persone, l’ho detto, io sono malata nella testa.
- Insegnami, dai!
Lui scosse la testa contrariato.
- Sei pazza, no! Non sono un insegnante né ho la pazienza, quindi no.
- Eddaaaiii ti prego, imparo in fretta io! Daii!- iniziai a pregarlo tirandogli il cappotto.
- Sta ferma. No. Non ho voglia.
Io grugnii per tutta risposta e gli diedi le spalle alzandomi.
- E poi, è l’ultima sigaretta.
Come no, avevo visto il pacchetto pieno. Come no. E poi ne aveva sicuramente un altro da qualche parte nel cappotto.
Central Park è un parco abnorme diviso fondamentalmente in tre da tre grandi viali principali. C’è un lago in fondo, un lago abbastanza grande dove di solito ci sono delle anatre quando fa più caldo. I bambini ci scorrazzano sempre vicino, anche io lo facevo da piccola, dietro gli urli di mia mamma che mi diceva “Torna subito qui! Se corri finirai per cadere dentro l’acqua!”. Non l’ascoltavo mai. No, non ero la figlia che avevano sempre desiderato, quella buona che dà ascolto ai genitori, che sogna di sposarsi eccetera. Io sono la figlia sbagliata. Mio fratello no invece: è quello perfetto, quello ben voluto. Il perfetto equilibrio tra forza e intelligenza. Boh, probabilmente sogna di diventare presidente o qualcosa così. Ma, se devo dirla tutta, non me ne può fregar di meno.
Mi ‘destai’ dai miei pensieri. O quella notte ero particolarmente andata di testa o l’alcool di qualche ora prima stava continuando ad agire. Holden aveva finito di fumare la sua sigaretta, aveva ancora del fumo che gli usciva dalla bocca. Fece l’ultimo tiro e si girò a guardarmi. Io tornai a sedermi, in silenzio. Dopo due/tre minuti, con la voce roca per il fumo, mi sussurrò un po’ imbarazzato: - Senti, hai presente il lago là in fondo? Sì quello dove ci stanno sempre i bambini, hai presente? Sai che ci sono le anitre no?
Annuii. Certo che lo sapevo, conoscevo Central Park come casa mia!
- Ecco, tu sai dove vanno a finire d’inverno? Cioè voglio dire: d’inverno non le vedo mai e da qualche parte devono essere andate no?
Io lo guardai scioccata. Sì, era decisamente matto nella testa.
- Cosa ne posso sapere io? Migrano forse, boh!
Mi alzai e lo presi per il polso, la prima volta che lo toccavo da quando ci eravamo conosciuti, senza che cadessimo addosso l’uno a l’altro.
- Andiamo a vedere.
Lui si lasciò trascinare senza troppa resistenza. Percorremmo il viale di sinistra, tra i faggi e i cipressi.
Quando arrivammo al lago, io mi sedetti sull’erba fredda e umida, bagnata di rugiada. Mi passò un brivido di freddo lungo la schiena. Amavo il freddo.
- Allora? Vedi le tue anitre?
Lui guardò il lago e non vide nulla.
- No. Boh. Vorrei proprio sapere dove vanno a finire quei maledetti animali.
Io rimasi in silenzio, contemplando il lago, che probabilmente con il freddo che tra qualche giorno sarebbe arrivato, sarebbe ghiacciato e le persone ne avrebbero approfittato per ricacciare pattini e attrezzature varie. Avrei potuto farci un giro anche io magari, domani o dopodomani.
- Senti, possiamo andare all’albergo? Io non ce la faccio più, ho un sonno della miseria.
Io mi alzai barcollando un po’ e constatai che iniziavo a sentire anche io la stanchezza. Ci dirigemmo fuori da Central Park in totale silenzio, percorrendo la strada che ci aveva portato fino a lì all’inverso e girando una volta a destra una volta a sinistra seguendo vari viottoli. Evidentemente mi stava portando in periferia. 
Io mi trascinavo sulle gambe malferme, non riuscendo nemmeno più a tenere le spalle dritte. Sentivo dolore dappertutto, credevo che mi sarei accasciata da qualche parte lì. Mi avvicinai un po’ a Holden, nel caso fossi svenuta avrei potuto aggrapparmi a lui.
Holden probabilmente aveva notato in che modo la stanchezza mi era piombata addosso e, forse per rassicurarmi, aveva detto:
- Non manca molto. E’ l’edificio grigio laggiù.
Indicò un edificio alto, sei o sette piani, grigio, macchiato dall’umidità. Entrammo nel motel: la hall era pervasa da un’atmosfera di squallore generale. Era stata arredata tentando di farla assomigliare a una di quelle hall dei grandi alberghi. Il pavimento era di legno, però c’era steso all’interno della stanza un tappetto arancione, ridotto malaccio: era macchiato e consumato a causa di tutte le persone che ci avevano camminato sopra. Al centro del tappeto c’era un tavolinetto basso, di legno, con appoggiati i principali quotidiani, come il Times eccetera eccetera. Non me ne intendevo molto di giornali. Disposte a cerchio attorno al tavolino c’erano delle poltroncine di finta pelle, strappata in alcuni punti. Appena entrata mi buttai su una di quelle poltroncine, riprendendo un po’ di colore. Nonostante l’albergo era di pessima qualità, là dentro c’era un bel calduccio, quindi a me andava bene. Le guance ripresero un po’ colore, il fiato non veniva più fuori sotto forma di condensa. Lanciai uno sguardo a Holden, che era fermo al bancone a chiedere la chiave al receptionist, un uomo mingherlino con le guance scavate e un buffo cappellino da facchino in testa, sulla trentina. Probabilmente in quel minuscolo albergo doveva fare tutto lui, e aveva pochi dipendenti. Quest’uomo mi lanciava ogni tanto sguardi straniti, sul momento non capii perché, poi però mi ricordai com’ero conciata.
Finalmente il semi-sconosciuto che aveva gentilmente accettato di ospitarmi, prese la chiave, io mi alzai e ci dirigemmo verso le scale e l’ascensore.
- Scale o ascensore?
- Ascensore - risposi io in un flebile sussurro. Quando arrivò, mi ci buttai letteralmente dentro, crollando a terra, seduta su quel pavimento lurido. Mi girava la testa, ero debole. Mi sentivo la fronte calda ma tremavo come avessi freddo,  non riuscivo a tenere gli occhi aperti. E anche se li aprivo, non vedevo nulla…Tutto nero. Mi abbandonai a me stessa sentendo da lontano Holden che mi chiamava, dicendo che l’ascensore era arrivato. Mi prese per un piede e una mano, mi trascinò fuori da quella cabina e, strusciandomi sulla moquette, mi fece arrivare alla sua porta. Sentii la chiave nella serratura, quest’ultima che scattava. Poi, persi il contatto con il  pavimento, due braccia forti mi cingevano e mi sollevavano, lasciandomi le gambe penzoloni e la testa abbandonata all’indietro. Sentii profumo di menta e di fumo, e un lieve odore di vodka. Era il profumo di Holden? Non riuscivo nemmeno più a capirlo. Fui poggiata su qualcosa di morbido e allora, la notte mi trascinò con sé nel baratro nero che viene definito sonno. 

 

Eccomi di nuovo, dopo aver riscritto per la ventordicesima volta il terzo capitolo. Word non me l'aveva salvato e quindi ho dovuto riscriverlo più e più volte perché non mi convinceva, però adesso devo dire che mi piace e che mi è uscito abbastanza bene. Spero mi perdonerete vari errori di battitura ma non ho proprio vogli di ricontrollare *muore*
Il quarto capitolo arriverà presto, probabilmente domani se non stasera stessa. Più scrivo e più mi vengono idee! Beeene, fatemi sapere se vi è piaciuto, vi sarei davvero grata se mi lasciaste una recensione. Grazie mille per aver letto, a presto

n u m b

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Capitolo 4
*** Quattro. ***


Quella notte dormii profondamente. Feci sogni confusi e assurdi che l’alcool non mi permette di ricordare. Mi svegliai di soprassalto, con un dolore lacerante e invasivo alla testa. Un dolore preciso, netto, che non mi permetteva nemmeno di pensare perché anche solo pensare faceva troppo ‘rumore’. Aprii di scatto gli occhi, “perché la luce arriva da un parte diversa dal solito?” fu la prima cosa che mi chiesi. La luce argentea della Luna filtrava attraverso le tende beige di un tessuto semi-trasparente, creando giochi d’ombra sull’altra parete. Mi misi a sedere, mi grattai la testa con aria confusa e una faccia sofferente e stralunata. Non feci in tempo a rendermi conto che quella non era decisamente camera mia che all’improvviso anche il mio stomaco si risvegliò, mandandomi fitte dolorose che, come  lampi, andavano e tornavano. Mi alzai e in fretta e furia, barcollando, corsi verso la porta del bagno. Durante la mia corsa, urtai uno spigolo della scrivania graffiandomi le cosce e facendo cadere un quintale di cose: un pacchetto di sigarette, una cintura, un accendino…Cose non mie. Calpestai poi le stesse cose che avevo fatto cadere e a tastoni trovai la porta, girai la maniglia, entrai e cercai l’interruttore. Accesi la luce e rigettai piegata sulla tazza. Postumi della sbornia, meraviglioso. Qualche minuto più tardi, riemersi dal bagno reggendomi alle pareti per non cadere, quando notai una figura seduta sul letto. A vederla mi prese un colpo, tant’è che sgranai gli occhi e il mio battito cardiaco aumentò notevolmente.
- Si può sapere che ti piglia? Cristo santo la prossima volta che decidi di correre e distruggere tutte le mie cose passandoci sopra avvertimi. Fai rumore peggio di un elefante in un negozio di porcellana!
Lì per lì non capii, poi un pensiero chiaro e luminoso si fece spazio tra la mia mente e capii tutto: ero in un albergo, alla periferia di New York, con uno sconosciuto presunto maniaco sessuale che aveva detto di chiamarsi Holden Caulfield. Io mi ero sbronzata, non volevo tornare a casa mia e quindi avevo proposto, anzi l’avevo costretto a portarmi con lui. Non c’è male.
Non c’è male.
Dato che la finestra è opposta alla porta del bagno e che il ragazzo era seduto proprio sulla traiettoria dei raggi luminosi, faceva uno strano effetto vedere quella figura, che si stagliava contro la luce lunare, la quale creava intorno alla sagoma una sorta di aureola. Sembrava quasi un’apparizione divina.
- Allora? Hai intenzione di startene lì ancora per molto o magari te ne torni a dormire evitando di fare altri rumori? - mi apostrofò la voce con tono di rimprovero, spazientito.
- Sì sì ora vengo, sta’ buono - risposi, biascicando parole confuse. Tornai al letto sempre reggendomi alla parete, con lo stomaco un po’ più leggero ma la testa ugualmente pesante. Mi sedetti sullo spigolo. Non avevo più sonno. Ed ero lucida. Mi riguardai un po’: ero senza scarpe…che avevo mollato vicino Central Park se non sbaglio, il vestitino nero tutto sgualcito e impolverato, i capelli intrecciati e non osavo immaginare il trucco, i collant…dov’erano i miei collant? Assunsi un’espressione sconvolta e mi girai a guardare per la stanza. Chi me li aveva tolti i collant? Io no di sicuro, insomma, non ero nemmeno arrivata alla porta della nostra stanza, come potevo aver avuto la forza di spogliarmi?! Guardai il ragazzo che dormiva vicino a me e che mi dava la schiena. Aveva ripreso a dormire, lo capivo dal respiro che era tornato regolare e profondo e dal suo ritmico abbassarsi e sollevarsi della spalla. Forse era davvero un maniaco sessuale. Magari mi aveva pure violentata.
“Oh andiamo, che razza di pensieri ti vengono in mente”, rimbombò un eco nei recessi della mia mente.
“Non si sa mai! Altrimenti spiegami dove hai i collant”, rispose un altro eco.
“Avrò perso anche quelli!”
“O magari te li ha tolti lui, e poi ti ha tolto anche qualcos’altro…”
“Sta’ zitta, non sarebbe capace nemmeno di togliermi le scarpe!”
“Questo lo dici tu ma i maniaci non sembrano quasi mai maniaci”
“Ma per favo…”
Che cosa stavo facendo?! Parlavo da sola? Mio Dio, sto impazzendo oppure l’alcool non ha ancora terminato il suo effetto. Mi ridistesi sul letto. “Non deve essere per forza un maniaco o avermi violentato se mi ha sfilato i collant. Dopotutto è stato anche carino, mi ha portato in braccio fin qui…”. Mi rigirai verso Holden, osservando la sua schiena. Si era addormentato con tutta la camicia perché evidentemente non gli piaceva stare nudo davanti alle ragazze, come poteva violentarmi uno così?! Provai a chiudere gli occhi cercando di riaddormentarmi, ma non ci riuscivo. Ero
troppo lucida. E poi quel maledettissimo mal di testa continuava ad uccidermi. Mi alzai e andai verso l’armadio e lo aprii. Camicie, gilet, pantaloni, canottiere…Stavo incredibilmente scomoda in quel pezzo di stoffa, volevo cambiarmi. Presi una camicia, mi sfilai silenziosa il tubino e lo gettai in un angolo buio e remoto della stanza per poi infilarmi la camicia. Odorava di fumo, e menta, l’odore che avevo sentito quando Holden mi aveva preso in braccio. Inspirai a fondo per poi richiudere l’armadio. Facendo il minimo rumore possibile, aprii la finestra e mi affacciai. C’era un cornicione abbastanza ampio, tipo un metro. Rientrai dentro, mi chinai vicino alla scrivania e presi sigarette e accendino. Ritornai vicino alla finestra, posai ciò che avevo preso sul cornicione e mi issai sul davanzale. Mi sedetti poggiando la schiena sul vetro e le gambe sul freddo cemento inumidito dalla pioggia.
Rabbrividii, ma non mi dava tanto fastidio. Mi piace il freddo che ti pizzica la punta del naso, che ti fa arrossire le guance e screpolare le mani. Mi misi una sigaretta in bocca e la accesi. Tra qualche ora avrebbe sicuramente rincominciato a nevicare. Probabilmente erano le sei e mezza di mattina perché le prime auto avevano iniziato a scorrere lungo la strada. Ero assorta nei miei pensieri che sobbalzai quando sentii lo sbattersi di una porta. Mi girai di scatto facendo cadere la sigaretta, vidi Holden in camicia e boxer, sì
boxer, avete capito, che veniva verso la finestra con aria contrariata.
- Cos’hai addosso? Togliti la mia camicia. E quelle sono le mie sigarette? Poggiale, non ho abbastanza soldi per comprarle e dividerle con qualcuno, soprattutto se quel qualcuno mi ha dato del maniaco sessuale tutta la sera poi, Cristo.
- Smettila, lasciami stare. Non ti dirò più che sei un maniaco se ti dà tanto fastidio, va bene? Anche se è la verità - gesticolai con voce acuta.
- Vuoi anche la tua camicia schifa? Tieni, guarda me la tolgo subito, non sopporto l’idea di avere addosso… - mi stavo sbottonando il terzo bottone quando lui si copre con un avambraccio gli occhi e mi fa.
-N-non spogliarti. Togliti la camicia ma
dentro. - Sentii una nota di imbarazzo nella voce. Mi prese un gomito e provò a trascinarmi in stanza. Mi divincolai.
- Io rimango qui fuori. Tu torna a dormire se devi fare il petulante in questa maniera!
- Ti verrà una maledetta polmonite.
- Credi che me ne freghi qualcosa?
- Vai a quel paese, fa come ti pare. Spero che tu cada di sotto.
Sentii la rabbia dilaniarmi dentro, lui sbattè la finestra e la richiuse. Continuai a fissare gli edifici e il rosa dell'alba che iniziava a macchiare il cielo grigio e statico. Mi passo un brivido lungo la schiena, una goccia di pioggia scese e mi bagnò il piede. Chiusi gli occhi. Vento, passi per strada, le macchine in lontananza, se stavo abbastanza zitta anche con la mente riuscivo a sentire il respiro della città. Tornai dal mio viaggio mentale, rientrai in stanza e vidi che lui stava appoggiato con la schiena allo schienale del letto. Perfettamente sveglio. E luicido.
- Ti dispiacerebbe ridarmi la sigaretta che mi hai fatto cadere di sotto prima? - gli chiesi scorbutica.
- Preferirei non dover più fumare a vita.
Gli mostrai il dito medio e mi sedetti alla sedia davanti la scrivania, con le braccia conserte. Avevo i piedi freddi, gelidi, così come le mani. Mi sembrava di avere dei blocchi di ghiaccio al posto di essi.
- E poi tu avevi detto di non fumare – biascicò lui guardandomi fisso.
- E allora? Esistono cose chiamate 'bugie'.
- Ha ha ha. Davvero divertente. - sarcasmo nella voce.
Rabbrividii, mi alzai dalla sedia e andai in bagno. Accesi la luce e mi guardai allo specchio: rossetto sulle guance, aloni neri causati dalla matita e dal mascara dovunque, e in più avevo i capelli umidi e crespi. Ero lo scempio. Tornai in stanza, mi attorcigliai i capelli e mi ci infilai due penne trovate in giro e poi mi misi sul letto. Erano ormai le sette, ero frustrata, infreddolita e necessitavo nicotina. E il tizio che era con me non era nemmeno di buona compagnia. Fanculo.

 


 

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