Justice

di Vegeta_Sutcliffe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.1 ***
Capitolo 2: *** 2.2 ***
Capitolo 3: *** 3.3 ***
Capitolo 4: *** 4.4 ***
Capitolo 5: *** 5.5 ***
Capitolo 6: *** 6.6 ***
Capitolo 7: *** 7.7 ***
Capitolo 8: *** 8.8 ***
Capitolo 9: *** 9.9 ***
Capitolo 10: *** 10.10 ***
Capitolo 11: *** 11.11 ***
Capitolo 12: *** 12.12 ***
Capitolo 13: *** 13.13 ***
Capitolo 14: *** 14.14 ***
Capitolo 15: *** 15.15 ***
Capitolo 16: *** 16.16 ***
Capitolo 17: *** 17.17 ***
Capitolo 18: *** 18.18 ***
Capitolo 19: *** 19.19 ***
Capitolo 20: *** 20.20 ***
Capitolo 21: *** 21.21 ***
Capitolo 22: *** 22.22 ***
Capitolo 23: *** 23.23 ***
Capitolo 24: *** 24.24 ***



Capitolo 1
*** 1.1 ***


Justice


Diritto e rovescio.
Carl William Brown

Percorreva a passo fermo il lungo corridoio centrale della sua scuola.
Scorrevano davanti ai suoi occhi celesti le immagini di centinaia di studenti impegnati nelle più disparate discussioni. C’era chi acclamava la vittoria della squadra sportiva locale, c’era chi parlava dell’imminente periodo di saldi, c’era chi confidava all’amica l’ultima lite coi propri genitori, c’era chi annunciava l’ennesima lite con il proprio ragazzo, c’era chi si dilettava a intrattenere con divertenti barzellette un numeroso gruppo di coetani.
Era consentito affrontare liberamente tutti gli argomenti di cui si avesse voglia, basta che questi non comprendessero compiti in classe, interrogazioni e professori: vi era una legge, né detta né scritta, ma apprezzata e rispettata, che impediva a tutti gli alunni di parlare di noiose questioni scolastiche durante la pausa pranzo.
Era avvezza oramai a quella vista: da circa sei mesi era stata eletta presidente del corpo studentesco
e come tale si premurava ogni giorno di sorvegliare la pausa di ogni studente, attenta che non intraprendessero passatempi dannosi alla loro salute e non infrangessero le regole dello statuto scolastico.
Benché avesse a stento quindici anni e frequentasse quell’istituto da un paio d’anni, allorchè gli studenti erano stati chiamati alle urne per votare il loro nuovo rappresentate, nessuno aveva avuto dubbio alcuno a concederle fiducia, conoscendo il suo carattere pepato, la sua lingua biforcuta e salace, ma mai inopportuna e troppo istintiva e il suo solido senso della giustizia. Ciò le permetteva  di considerarsi la migliore nel far valere le innovative idee dei ragazzi in un consiglio scolastico costituito da professori ancorati ai rigidi sistemi del passato, ma la rendeva scomoda anche a quelli stessi ragazzi che miravano a combinare guai con il solo fine di divertirsi, giustificandosi con la giovane età.
‘Il mondo è vario e, se il mondo è costituito anche da gente, possiamo desumere che anche questa sia varia. E se la gente è formata da opinioni, per lo stesso ragionamento di poc’anzi, pure le opinioni saranno varie. C’è chi non avrà simpatia nei miei confronti, ma c’è anche chi avrà fiducia in me.’
Avvalendosi delle sue capacità oratorie, rispondeva così alle sue amiche che, avendo a cuore la sua persona e conoscendo la reputazione che ella aveva tra gli studenti, cercavano sempre di metterla in guardia.
In ragion del vero le sue parole non erano da considerarsi una stolta sentenza di una ragazza troppo presa dal suo incarico da non accorgersi della realtà circostante, bensì la summa dell’opinioni di una giovane attenta a tutto ciò che le stava attorno.
Impossibile era negare, infatti, che lei non avesse amici fidati e sostenitori che condividevano le sue stesse idee.
Inoltre capitava, non di rado, che diversi ragazzi, ammaliati dai suoi occhi marini e capelli color del cielo e colpiti da un fisico snello e asciutto, si invaghissero di lei.
Ma, in un mondo di stereotipi e luoghi comuni, le novità erano confuse con le stranezze e queste venivano considerate spaventevoli.
Potevano sciocchi e chiusi bambini fisicamente cresciuti apprezzare una giovane donna che oltre ad essere piacente era anche intelligente?
Mentre dispensava sorrisi a chi le sorrideva o la salutava e fronteggiava lo sguardo di chi la scrutava minacciosamente, affrettò il passo, non volendo che, nel breve tempo previsto per il pranzo, non riuscisse a fare quello che voleva fare.
Giunse finalmente alla sua meta: ‘III liceo Classico B’ recitava il cartello affisso alla porta dell’aula.
Varcò sicura l’ingresso della porta e lo vide seduto sulla sedia dell’insegnante, gambe divaricate, testa all’indietro e sigaretta alla bocca: mentre tutti gli altri erano fuori a godersi l’aria fresca e la compagnia dei compagni, lui stava da solo in classe.
Era diverso da tutti gli altri. Era un alito di vento che soffiava nella direzione apposta alla tempesta, un onda contro corrente, una nuvola nel cielo estivo, un fiore in mezzo alla terra bruciata.
“Vegeta, non puoi fumare qui dentro.” Disse meccanicamente, avviandosi a passo veloce verso il ragazzo e sedendosi sulla cattedra frontalmente a lui.
Ogni giorno diventavano attori, sceneggiando sempre la stessa recita da ormai diverse settimane.
Sapeva perfettamente che il moro era sordo a qualunque ordine impartito non dalla sua stessa persona e sapeva perfettamente che adorava infrangere le regole davanti a lei che ne era garante.
Lo vide aspirare lentamente il fumo dalla sigaretta, godendo del malsano piacere che ciò gli procurava e poi lo vide alzare la testa e rivolgerle un meraviglioso quanto falsamente dolce sorriso.
“Ciao pure a te.”
“Si si, spegni quella cosa.” Intimò, sbuffando annoiata.
Lui roteò gli occhi esasperato, portò nuovamente la cicca alla bocca e poi espirò in faccia alla ragazza quello che aveva conservato per brevi istanti nei suoi polmoni.
“Perché? Io sto bene così.”
“Perché è contro le regole, quindi tu ora la spegni e la butti, così non sarò costretta a farti rapporto.”
Per quanto la risata di scherno era già segno che il ragazzo non avrebbe prestato ascolto alle sue parole, vide che egli, per ribadire la sua libertà di azione, fece l’ennesimo tiro.
Non aveva ancora capito che quella sceneggiata giornaliera bruciava parecchi minuti che avrebbero potuto usare per stare assieme, parlare, baciarsi?
Rubò dalla leggera presa delle dita del ragazzo la sigaretta, oramai quasi consumata, e, mentre si avviava velocemente al banco del moro per spegnarla e buttarla nel sua tracolla, si apprestò essa stessa a finirla.
“Bulma, Bulma, Bulma- sporadicamente la chiamava per nome e, quando ciò avveniva, era per schernirla- posso sempre accendermene un’altra, sai?”
Le dichiarò, afferrandola per la mano e costringendola a sedersi sopra di sé.
“No, non lo farai se ti tengo la bocca occupata.” Esclamò sorridente e vittoriosa lei, prima di adagiare le sue carnose e morbide labbra su quelle sottili di lui che interruppe il bacio, vinto dall’irrefrenabile voglia di rivoltarle contro i suoi stessi principi.
“Lo statuto scolastico vieta l’effusioni negli spazi interni ed esterni dell’edificio. No?” Sciorinò saccentemente, beffandosi del tono e delle espressioni che solitamente aveva lei.
“Ma tu non pensare allo statuto studentesco, amore, pensa più in grande- percorreva le labbra del ragazzo col suo pollice, mentre l’altra mano carezzava la sua guancia- le regole scolastiche sono stilate apposta per gli studenti comuni che hanno bisogno di essere gestiti da un’imposizione più alta. Ma prima di essere studenti siamo persone e come tali dobbiamo prima ricorrere alla nostra carta dei diritti che in parole spicce dice che siamo liberi di fare ciò che vogliamo pur non intaccando la libertà degli altri. E noi non stiamo infastidendo nessuno, baciandoci."
Lui le regalò una sua oscura risata e fece scivolare le sue mani sopra le lisce cosce, nude per colpa della gonna della divisa, della ragazza.
“Senti, senti la mocciosa che mi vuole spiegare certe cose.”
“Essere tre anni più piccola di te non mi fa una mocciosa” gli ricordò infastidita dalla sua insinuazione, pizzicandogli la guancia per punirlo.
“Allora sei una marmocchia!” ghignò malefico e celere avvicinò nuovamente la sua bocca a quella della ragazza, impedendole di rispondere a tono come lei avrebbe voluto.
“Ti odio, ti odio.” Diceva lei, allorchè si staccavano per riprendere fiato.
Il suono della campanella destò preoccupazione nella ragazza che, veloce, si staccò dal ragazzo e scese dalle sue gambe.
“Devo scappare, ho compito in classe di matematica.”
“Calmati, pivella. Per fare le addizioni in colonna non ti servono mica due ore piene.”
“Vai a quel paese idiota, non sono una bambina.”




*************



Sedeva di fronte a quell’uomo dai lineamenti duri e l’austera bellezza e, ora che aveva le mani ammanettate e indossava una antiestetica tuta arancione evidenziatore, pensava che essere al suo cospetto metteva addosso terribile ansia e soggezione, molto più di quel che potesse ricordare.
Il tempo era trascorso inesorabile da quando era una adolescente col pallino della giusta giustizia e, sebbene era cambiata molto interiormente, l’aspetto non aveva subito particolari mutamenti.
Il viso le si era fatto più sfilato e gli occhi non avevano perso né la limpidezza né la vivacità della giovinezza.
Aveva acquisito centimetri in altezza e aveva perso qualche chilo: dunque risultava avere ora un fisico più asciutto e tonico che metteva in risalto le sue forme perfette.
I capelli, che era solita portare lunghi e fluenti lungo le spalle, erano ora acconciati in un corto, ma non per questo poco femminile, caschetto sbarazzino e disordinato.
Non una ruga solcava il suo pallido volto, ma in quel chiarore spiccavano profonde e scure occhiaie.
Il neon sopra la sua testa illuminava completamente il suo intero corpo, rendendo il colore acceso dei suoi abiti ancora più sgargiante e fastidioso.
A separarla dall’uomo in giacca e cravatta vi era un’asettica scrivania, su cui egli aveva appoggiato fogli e cartelle e un pacchetto di sigarette.
Le conosceva bene lei, quelle sigarette: erano state sue fedeli compagne di vita da quando era ragazzina fino a qualche mese prima.
Le mancava terribilmente stringerne una tra le dite, le mancava tenerla tra le labbra, le mancava aspirare quel dannoso piacere, le mancava pensare guardando quella coltre di fumo grigiastro.
Si guardò attorno nervosamente: tutti erano fuori, le avevano concesso di rimanere sola con l’uomo: nessuno poteva impedirle di fumare fintanto era lì.
Allungò le mani per aprire, faticando un po’ per via della costrizione delle manette, il pacchetto ed estrarre da questo una cicca. Notò con infantile felicità che vicino vi era uno zippo: le sarebbe stato più facile accendere e rilassarsi.
Non fu certo azione senza complicanze, ma alla fine, allorchè fu circondata da quel dolce fumo, si ritenne vincitrice.
Sorrise della sua vittoria all’uomo che la ricambiò con un sinistro sorriso.
E come il fratellone maggiore crudele fa vedere e toccare il suo nuovo gioco al più piccolo, promettendo di farlo giocare e poi, sotto i suoi occhi contenti, glielo leva, l’altro lasciò che la ragazza credesse di stringere tra le dita una fragile felicità caduca e poi, nel momento di maggior godimento, le prese la sigaretta tra le dita, adagiandosela poi lui stesso tra le labbra e deliziandosi
e del gusto del tabacco in bocca e della faccia stravolta e irata della ragazza.
“Bulma, non puoi fumare qui dentro.” Le impose dittatoriale, mostrandole una faccia seria e irremovibile.
“Ma perché?” urlò lei, prossima a un pianto isterico.
“Perché io ho deciso così.” La informò crudelmente e sorridendole sadicamente.
Si sentiva come una donna a dieta forzata che era costretta a guardare il suo uomo abbuffarsi dei suoi piatti preferiti.
Scosse velocemente la testa, bisbigliando a voce bassa ‘Ti odio, ti odio.’ e facendosi scappare di tanto in tanto qualche risolino nervoso per poi esplodere in una vera e propria risata.
“Fai così in tribunale e il giudice chiederà un referto psichiatrico. Forse, forse è possibile assolverti per insanità mentale.”
Queste parole parvero riscuotere la donna dalle sue elucubrazioni.
“Non c’è bisogno né che mi difenda né che mi dichiari pazza.”
“A me questa sembra proprio la frase di una pazza. Come conti di difenderti da sola? Rischi tutto e non vuoi nemmeno una persona competente che cerca di salvarti il culo?”
Sbottò sbalordito dall’assurdità di quella donna.
“Certo che desidero che una persona competente mi difenda, quindi capisci bene che non ti affiderò mai il caso. Farò l’arringa da sola. Come Socrate.”
"E' finito morto."
"No, si è suicidato per difendere la sua integrità di uomo giusto, anche quando gli proposero di fuggire."
Scoppiò in una sincera risata, o almeno così sembrava. Aveva un singolare senso dell'umorismo.
"Accusato di colpe mai commesse, condannato a morte poichè personaggio troppo irriverente e scomodo. Tu sei andata contro la legge, diverse volte, recidiva."
"Ma tu non pensare alla legge, pensa più in grande. Questa è fatta per gli uomini comuni troppo stolti per pensare e frenare istinti animali e scorretti con la propria testa. Io sono diversa. Sono andata contro la giustizia degli uomini, ma per conseguire un giusto fine."
Gli sorrise dolcemente, come farebbe una madre al figlio dopo avergli spiegato una cosa banale e ovvia.
La cicca di sigaretta era ormai consumata sopra la scrivania di metallo e entrambi riservarono la propria attenzione a quella.
Lei la prese e la buttò nella sua borsa da lavoro.
"Sono passati dieci anni ed è come se non fosse cambiato niente. Non è strano?"
Si alzò dalla sedia e con meticolosa cura sistemò le carte e le cartelle, infilò il pacchetto di sigarette in tasca e si riaggiustò la cravatta.
Le rivolse un raggiante sorriso e le ultime parole.
"Vorresti che non fosse cambiato nulla! Mocciosa è il momento di crescere, assumiti le conseguenze delle tue azioni. Ti direi di smetterla di vivere il passato, ma è l'ultima cosa che ti rimane. Ci vediamo all'inferno."
Le diede le spalle e si avviò alla porta, senza voltarsi indietro, senza mostrare minimamente interesse a lei.
Indugiò nell'aprire l'uscio, sentendola singhiozzare.
Che famigliari quelle lacrime, le sue ricapitolazioni e le richieste d'aiuto mai ammesse.
"Non mi lasciare, ti prego...Non voglio morire!"
Urlò disperata nella sua direzione.
"'Ma Socrate..."
"Non sono Socrate e non voglio bere del veleno."
Tentò di nascondere il volto nel suo stesso seno.
"Vegeta ti prego aiutami..."






Note autrice (Bella battuta):
Salve gente. =)
So che avevo giurato di rivisionare "Circa la confusione dei sentimenti", ma non è facile e comunque sto pensando a svolgimenti e situazioni più appropriati, quindi è in fase di rielaborazione ancora.
E poi all'ispirazione non si comanda. u_u
Domenica mattina io e la dolcissima LuNa_35 abbiamo avuto un ridicolo tenero ritorno all'infanzia e abbiamo fatto le giostrine. (La verità è che volevamo fare shopping, ma tutti i negozi sono chiusi e per ferie e quindi... T.T)
Mentre la carissima faceva girare il girotondo forte, molto forte, troppo forte, io chiudevo gli occhi per non vomitare e intanto pensavo "Sto morendo, sto morendo."
Alla fine non son morta e questa ideaa mi ha colpito come un fulmine. u_u
Bè, spero che vi piaccia e vi abbia intrigato questo primo capittolo.
Critiche e comemnti sono sempre ben accetti. =)
Alla prossima. :D
Sondaggio: Cosa avrà fatto Bulma per finire in prigione? o.O
Rispondete in numerosi, si vince...Bel dizionario di Greco! (Non so più che farmene oramai xD)

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Capitolo 2
*** 2.2 ***


E' molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell'uomo. 
Tagore


L’imponente struttura dell’Orange Star High School si ergeva davanti a loro in tutta la sua maestosità.
Una costruzione moderna che vantava la reputazione delle antiche scuole del paese: un preside intransigente, un ottimo corpo docenti e studenti scelti in base al merito, le avevano permesso di essere una tra gli istituti educativi più sospirati da genitori ambiziosi e studenti sognatori di un roseo e non banale futuro lavorativo.
Chi aveva seduto tra quei banchi, aveva poi frequentato prestigiose università e aveva coronato infine le proprie aspettative o i propri sogni che dir si volesse.
Frequentare quella scuola aveva il sapore della vittoria: essere riuscita dove molti altri avevano fallito, essere riconosciuta per le proprie doti intellettive. Ma, una volta averne assaporato il prelibato gusto, restava in bocca l’amaro retrogusto di una possibile umiliazione.
Suo padre era un famoso scienziato e presidente di un’importante azienda e conseguire un diploma con ottimi voti era un curriculum vitae sufficiente per aspirare ad essere l’erede del genitore.
Fin da quando era piccola tutti gli avevano inculcato in testa il desiderio di essere come suo padre, di essere suo padre.
E ora che stava lavorando per realizzare questo desiderio, si sentiva schiacciata dalla paura di deludere le aspettative.
“Eccoci qui allora…”
Disse, mandando giù un grosso groppo di saliva e stringendo maggiormente la mano dell’amica.
“Si, Bulma, ma non rompermi la mano.”
Guardò la ragazza al suo fianco.
Tremava impercettibilmente e i suoi occhi castani erano sbarrati e seguitavano a mirare il liceo.
Era nervosa, era agitata, era preoccupata di non essere all’altezza degli altri ragazzi.
Lei, ragazzina tenace e dalla dura tempra ma dai sentimenti fragili, era la sua migliore amica da una vita.
Era l’unica che non l’aveva derisa, quando, appena bambina di sei anni, dichiarò orgogliosamente alla classe di volere fare la  ‘Cambiatrice’ del mondo.
Troppo stolti i bambini per non prendersi gioco di lei, troppo disillusa la maestra per non elargirle  un sorriso rassegnato e parole di sconforto.
Complimentandosi per i bei vestitini che indossavano, avevano pian piano scoperto che, oltre la moda e le futilità piacevoli della vita, potevano parlare liberamente tra di loro di argomenti importanti, senza che una criticasse o ridesse dei pensieri dell’altra.
“Andiamo ChiChi, la nostra vita da liceali ci aspetta.”
Cercò di incoraggiare entrambe con un sorriso forzatamente spontaneo.
“E’ un peccato che alla fine hai scelto il liceo scientifico.”
Confessò la mora all’amica: dall’elementari non erano mai più state in classi separate.
“Sono contenta della mia scelta, dispiace solo di non poter stare in classe con te.”
“La vita separa…”
L’azzurra scoppiò in una risata sinceramente divertita.
“Basta con questi discorsi da casa di riposo. Siamo giovani e belle, godiamoci la vita.”
Disse e incominciò a correre, costringendo l’amica a seguirla.
“Non voglio essere rimproverata il primo giorno. Andiamo in aula magna a sentire il discorso del preside.”
Si sentivano grandi, stavano correndo verso il futuro e si sentivano grandi.
Appena varcato l’ingresso della scuola, girarono su se stesse, con espressione stupita, ispezionando tutto, anche il più minimo e infimo dettaglio di quella scuola.
I corridoi lunghi e larghi, le aule enormi, professori costretti in seri vestiti e ragazzi, tanti ragazzi.
Ragazzi loro coetani, ragazzi più grandi. Ragazzi con la faccia pulita e la divisa in ordine, ragazzi trasandati e smaliziati.
Si sentivano piccole, il loro futuro era arrivato, diventando presente, e si sentivano piccole, terribilmente piccole.
“Come facciamo a trovare l’aula magna?”
“Chiediamo in giro.”
Rispose ovvia e intraprendente l’azzurra.
I suoi occhi celesti, brillanti e intensi, scrutavano minuziosamente ogni volto, studiandone la fisionomia e cercando di intuire, con una prima occhiata, il carattere di ognuno, fin quando, curiosi e inconsciamente crudeli verso la sua stessa persona, si fermarono sulla soglia dell’ingresso.
Un giovane carismatico e affascinante stava entrando, attirando su di se gli occhi indiscreti di tutti i ragazzi.
Aveva capelli di pece, acconciati in una singolare pettinatura a fiamma, ossidiana incastonata in due occhi dal taglio crudele. Labbra sottili e naso adatto ai lineamenti severi e spigolosi del suo viso.
Ma ciò che più reclamava attenzione non era la bellezza perfetta di quel volto virile, quanto l’incedere lento e regale di quel corpo non troppo alto, ma muscoloso e ben proporzionato.
Postura dritta e portamento fiero, fisico snello e asciutto, sottratto agli occhi delle femmine dalla divisa scolastica.
Sulla spalla reggeva una tracolla di pelle nera, tra le dita una sigaretta accesa.
Si stupì di vedere la camicia bianca stirata e la giacca a doppiopetto abbottonata perfettamente e la cravatta annodata elegantemente.
Benchè tutti gli studenti fossero costretti a indossare quell’abbigliamento, vedere quel giovane sconosciuto, dallo sguardo misterioso e distaccato, vestito in tal maniera, le recava fastidio.
L’ostentata rigidezza del vestiario cozzava palesemente con la cicca fumante e gli occhi scuri e tempestosi di lui.
Si era diretto a passo cadenzato verso di lei e ora la fronteggiava in tutta la sua eleganza e compostezza.
La scrutava con occhi severi, contraddicendosi con un malizioso sorriso.
Il mondo si fermò per un istante interminabile. Il cuore le si fermò per un istante interminabile.
“Secondo te perché le matricole sono ogni anno sempre più stupide?”
“Come prego?”
Controbatté  risentita a quelle ironiche parole, colpevoli di aver interrotto bruscamente il suo personale sogno sul nuovo ragazzo.
“Ti sto dicendo che sei stupida.”
Rispose fermo e risoluto lui, senza mostrare intenzione di voler cancellare dal suo viso quel ghigno beffardo.
“E cosa te lo farebbe credere, scusa?”
Indagò curiosa.
“Il fatto che sei piantata lì ad osservarmi intensamente da dieci minuti e non ti sei minimamente accorta che sei davanti al mio armadietto. Evapora.”
Si voltò di scatto e notò, con somma vergogna, che si trovava esattamente dove lui aveva detto.
Si scostò veloce e cercò di giustificarsi.
“Scusa è che io… noi cercavamo l’aula magna e non sapevamo a chi chiedere.”
Si era diretto verso il suo armadietto, lo aveva aperto, noncurante degli sguardi femminili sulla sua schiena, e ne aveva estratto un pesante dizionario di greco.
“Guardare una cartina della struttura interna della scuola, affissa ogni dieci metri, ti sembrava un’idea troppo intelligente per te?”
Disse, aspirando dalla cicca e respirandole in faccia.
Bulma tossì di rimando. Non aveva mai fumato e respirare quel fumo dannoso le aveva infastidito i polmoni.
“Bambine” sbuffò indifferente e annoiato, per poi dileguarsi dalla sua vista.
La ragazza strinse i pugni nervosa e furibonda guardava il luogo vuoto, dove prima stava in piedi quell’arrogante.
I suoi allegri occhi azzurri erano diventati mare in tempesta.
Pensava alla maleducazione di quel ragazzo, vestita dalla più perfetta eleganza.
Chi diavolo era? Perché si permetteva di rivolgersi a lei, piccolo genio in erba, in quella rozza maniera?
“Su Bulma, calmati.”
Cercava di convincerla Chichi, sconcertata, ma non ugualmente furiosa, per i modi discutibili del giovane.
“Io lo ammazzo prima o poi.”
Giurò spontaneamente l’azzurra, destando un divertito timore nell’amica.





“Allora?”
Incalzò insistente e fastidioso.
“Io sto aspettando”.
Pronunciò queste parole col tono orgoglioso del vincitore che aspetta gli onori a lui dovuti dai vinti.
Se avesse potuto incrociare le braccia l’avrebbe fatto per palesargli la sua indisposizione. Se i suoi occhi avessero sputato fuoco, l’avrebbe incenerito.
“No, mai!”
“Ai ai, è proprio vero: l’orgoglio uccide.”
Lo guardo sbigottita e contrariata. “Proprio tu lo dici??” Ricordò acida.
Si alzò dalla sedia e gli si portò davanti. Le carezzò la guancia con estenuante lentezza. Saggiava col tatto la morbidezza di quella pelle, studiava con le dita ogni centimetro del suo volto.
“Che…che stai facendo?”
Si irrigidì all’istante al tocco inusualmente tenero dell’uomo.
La vita allontana, ma i ricordi uniscono. Non lo vedeva da anni, eppure le sue calde carezze non erano riuscite a cadere nell’oblio del tempo.
Erano state troppo sospirate per poter essere rinnegate, troppo combattute per poter essere dimenticate.
Eppure quel gentile tocco non era probabile per quell’uomo dal corpo e dal cuore di marmo.
Ieri come oggi Vegeta impersonava la contraddizione.
“Hai una pelle così delicata...”
Le guancie erano colorate di un leggero rossore.
“… Cosa preferisci l’orgoglio della morte senza resa, o la bellezza della vita coi compromessi?”
“Hai sempre la speciale dote di rompere le palle in momenti in cui nessuno potrebbe farlo.”
Cercava di mordergli il pollice, posato sulle sue labbra.
“Certo che sei tutta scema. Prima chiedi il mio aiuto e poi non fai niente per meritarlo. Pazienza aiuterò qualche altro poveretto che mi merita.”
“Non ti basta che ti sto chiedendo aiuto? Vuoi umiliarmi ancora? Perché questo sadico piacere?”
Le lacrime le pungevano gli occhi, quell’uomo faceva sempre vacillare il suo autocontrollo.
Lui incrociò le braccia al petto e la trafisse col suo sguardo glaciale.
“Se sono qui dentro è solo per colpa tua, brutto bastardo!”
Urlò nella sua direzione con le guancie bagnate dalla sua disperazione.
Avvicinò il suo volto a quella della ragazza e le parlò alitandole in bocca. Erano vicini, troppo vicini. Le loro labbra non si toccavano perché i nasi lo impedivano.
“Se sei qui dentro è perché sei una povera idiota che si crede intelligente. Se sei qui dentro è perché ti sei sopravvalutata e ti sei messa contro le persone sbagliate. E se sei qui dentro è solo perché sono stato così generoso da non spararti. E sai che io sono l’unico che ti può fare uscire da qui sana e salva.”
Gocce di sconfitta solcavano il suo viso e pensieri di resa schiacciavano il suo orgoglio.
Spostò  la bocca al suo orecchio.
“La tua vita è nelle mie mani. Ti consiglio di non rivolgerti a me in quel modo.”
Aveva ragione, era solo una bambina troppo cresciuta che aveva giocato in un mondo di grandi, ma se avesse avuto l’occasione di tornare indietro, avrebbe rifatto tutto e con più determinazione.
Tentava di mascherare i singhiozzi con una voce ferma.
“Scusa.”
Ma non poteva essere arrivata la sua ora, la sua vita sarebbe stata totalmente inutile se finiva in quel frangente.
“Perchè?”
Chiese mefistofelico, preparandosi a deliziarsi di una risposta che già conosceva.
“Perché io ho…”
Il suo stomaco era oppresso da un macigno tanto pesante quanto impossibile da dissolvere.
“Io non ce la faccio”.
“Devi.” Le ordinò.
Sospirò e sputò fuori la verità, non curandosi del suo orgoglio che urlava di vincere. Lottava per la vita, non per l’orgoglio.
“Scusa se ho cercato di ucciderti.”
La sua faccia si contrasse in un’espressione di godimento, appositamente mal celato.
“Che dolci, dolci parole che mi hai detto” le sorrise affabilmente.
Nessuna risata di scherno? Niente sguardo soddisfatto? Non scimmiottava le sue parole?
“Tutto qui? Ti bastano semplici scuse?”
Domandò perplessa, ma speranzosa.
“Hai un singolare senso dell’umorismo, cara.”
“Questa risposta non mi piace per niente.”
Le regalò un ghigno oscuro e impregnato di un sadico divertimento.
“Signor Ice, la detenuta deve tornare nella sua cella. Mi dispiace ma deve andarsene.”
Li interruppe una guardia dal volto serio e impassibile.
“Ok.”
Egli uscì dalla stanza, aspettando il momento in cui l’uomo avrebbe lasciato il locale.
“Si è fatto tardi, devo andare.”
“Hai promesso di farmi uscire da questo schifo.”
“Ti fidi di me?”
“No.”
“Bene. Stanotte avrai tutto il tempo che ti serve per pensare a quanto sei stata stupida ad affidarti a me. Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto con una splendida donna, quando invece dovrei pensare al tuo caso.”
“Io ti ammazzo prima o poi.”
Ringhiò nella direzione di lui, che già aveva imboccato l’uscita.


La sua macchina sportiva aveva raggiunto velocità folli nel percorrere la strada deserta che separava la prigione dal suo appartamento. Questo si trovava nella periferia della Città dell’Ovest. Era un luogo isolato e appartato, l’ideale per chi, come lui, detestava il caos della vita.
Entrò nel suo mondo personale, lasciando la porta aperta e si premurò subito di recuperare la propria libertà. Buttò la giacca nera in terra e allentò il nodo alla cravatta. La leggera camicia, sbottonata distrattamente, seguitava a coprirgli le ampie spalle. Le scarpe furono lanciate senza delicatezza e i calzini tolti con noncuranza.
Si versò dello scotch in un bicchiere di cristallo e si diresse in terrazza.
L’aria era fresca e pungente, ma non abbastanza da scalfire la sua pelle bronzea.
Appoggiato alla balaustra, mirava il cielo e le stelle che lo illuminavano.
Piccoli puntini lucenti in un vasto oceano di oscurità. Erano nulla in confronto all’immensità del cielo, eppure riuscivano a far lume.
Perdendo anche una sola stella, il cielo avrebbe perso un suo punto di forza. Un sua unica peculiarità.
Un ronzio proveniente dalla sua tasca, interruppe i suoi pensieri e la sua serenità. Odiava essere disturbato.
E non si capacitava del perché, benchè fosse l’unico abitante di un palazzo di cinque piani, non riuscisse mai a rilassarsi nel suo silenzio.
“Che vuoi?” esordì vagamente irritato.
“Vegeta, Vegeta, perché sei sempre così scontroso?”
“Che vuoi, Freezer?” ripeté, sorseggiando la bevanda alcolica.
“Come è andata?”
“Bene, ma domani devo tornare da lei. C’è stato poco tempo oggi.”
“Mi fido di te.” Dichiarò serio.
“Almeno tu.” disse sorridendo all’oscurità e riattaccando il telefono.
Non voleva sprecare tempo a cianciare inutilmente al telefono e la dose giornaliera di Bulma, quel giorno, era stata più che abbondante.
Si slacciò la cintura e sfilò i pantaloni neri del completo. Decise di sciogliere i muscoli sotto un potente getto d’acqua calda. Con  le donne ci voleva pazienza e una sana e strana predisposizione al martirio. E lui era certo di essere estraneo a queste due doti caratteriali.
Udì la porta di ingresso essere richiusa e dei leggeri passi dirigersi verso la sua camera.
“Vegeta, ti aspetto a letto.”
Bevve d’un sorso il suo drink e posò malamente il bicchiere sul banco d’appoggio più vicino a lui.
D’improvviso pensò che la doccia sarebbe stato meglio farla la mattina dopo e non per forza da solo.


Il sole entrava silenzioso, ma al contempo invadente, dalla finestra a barre della prigione,  la brandina sulla quale aveva trascorso la notte non era né particolarmente spaziosa né comoda, la schiena le doleva e un’emicrania insopportabile le martellava il cervello e la sua compagna l’aveva resa partecipe delle sue fantasie oniriche, urlando di tanto in tanto il nome di questa o quell’altra persona.
Si issò a sedere e accolse la testa dolorante tra le sue mani. Maledetto Ice!
Motivi per non chiudere occhio la notte ne aveva già abbastanza, non era assolutamente necessario che Vegeta le mischiasse il morbo dell’invidia.
‘Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto…’
Al diavolo lui e il suo comodo letto. Sperò ardentemente che anche lui non avesse dormito.
Una piccola soddisfazione personale che almeno l’avrebbe fatta stare meglio.
‘Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto con una splendida donna…’
Una donna. Una splendida donna. Digrignò i denti con rabbia, producendo un fastidioso rumore.
Perché aveva avuto cura di sottolineare quelle parole? Era un povero sciocco se pensava che bastava una semplice allusione per invadere i pensieri di lei.
Lei non era una di quelle donnine di cui si circondava Vegeta.
Quelle sensuali e sofisticate donnine intraprendenti e dal temperamento forte che diventavano cagnolini sottomessi al perverso piacere di un crudele padrone.
No lei non era loro. Lei non gli avrebbe mai concesso né il suo corpo né i suoi pensieri.
Il suo cervello era una tempio inviolabile, in cui lui non poteva assolutamente entrare.
Era un povero sciocco se pensava che lei potesse stare male per lui.
Era una povera sciocca se si era fatta irretire nuovamente nella sua rete.
“Bastardo Vegeta!” gridò stizzita.


*Toc toc*
Si rigirò nel letto, intrappolato nel piacevole torpore della dormiveglia.
Stirò le braccia e toccò un corpo caldo e nudo con il palmo della mano.
*Toc toc*
 Volse lo sguardo all’oggetto ancora non bene identificato che gli stava accanto e, dopo un tortuoso viaggio nelle memorie del giorno prima, si ricordò essere Irene.
Stava ancora dormendo placidamente, rannicchiata nell’angolo in basso del letto, ciucciandosi il pollice. Certo che quella donna assumeva certe posizioni davvero bizzarre per dormire.
*Toc Toc*
Sbadigliò, assonnato dal riposante sonno, e, nudo com’era, si diresse alla porta per aprire.
Appena sveglio vedere Freezer nervoso e incazzato non era il massimo, ma era famigliare. Molto famigliare. Troppo famigliare.
“Sono fuori da dieci minuti. Io odio aspettare.”
Vegeta aprì e richiuse la bocca impastata dal sonno.
“Cosa non odi?” Osò inopportuno.
Lo sorpassò veloce, entrando nello spazioso e male arredato soggiorno dell’appartamento, e si sedette sul divano. Sul pavimento erano ancora disseminati gli abiti del giorno precedente.
“Prego accomodati, fai pure.”
Sbatté violentemente l’uscio e lo raggiunse, sedendosi di fronte a lui, con le gambe incrociate.
“Che ci fai qui?” Domandò, ancora non troppo abituato alla realtà.
“Volevo vederti- rispose meccanico- con i vestiti addosso.”
“Pensa se ero Dodoria…” Insinuò maligno l’immagine dell’indecenza nella testa dell’altro.
Abbassò il suo sguardo, sciogliendo il contatto tra i loro occhi, e si soffermò a mirare il suo corpo statuario e nudo. L’attenzione era ferma, fissa sulla sua imponente virilità.
Un sorriso mellifluo curvò le labbra scure.
“Oggi verrò con te.” Palesò glaciale.
Risentito si alzò dal divano e lo puntò con i suoi occhi truci: “Ce la faccio da solo. Non ho bisogno di te.”
“Lo so. E non ti intralcerò in quello che farai, ma io vengo con te, che tu voglia o no.”
Ponderò attentamente sulle sue parole e scrutava il suo immobile volto, cercando di capire il motivo di quella decisione.
Aveva la chiarezza della’acqua fangosa, torbida e stagnante di una pozzanghera.
“Fa come vuoi. Basta che non rompi i coglioni.”
Voltò le spalle all’ospite e si diresse nella sua stanza per lavarsi e cambiarsi. “Oggi mi offri la colazione.” Urlò in direzione di quello, non curandosi della ragazza che, beata, occupava ancora il suo talamo. Sapeva perfettamente che non si sarebbe svegliata né per un terremoto né per una sparatoria. Strana donna quella!
“Come sempre, d’altronde.” Ricordò infastidito l’uomo sul divano. “Hai un quarto d’ora per fare tutto.”
In riposta alle sue parole sentì il rumore scrosciante dell’acqua.
Si accomodò meglio sul divano e appoggiò la testa allo schienale, chiudendo gli occhi: era stufo di volgere la vista a quell’immenso porcile che era l’appartamento di Vegeta!
Passarono i quindici minuti da lui concessi, e poi altri quindici.
La sua pazienza aveva un limite ben definito ed era consigliabile, a tutti quelli che intrattenevano una qualche sorta di relazione con lui, di non oltrepassarlo.
Ma con quell’uomo, ogni limite, ogni regola, ogni imposizione era totalmente vana e inutile.
Si alzò indisposto dal divano, deciso a sfondare la porta del bagno e trascinare il ragazzo per i capelli in qualunque circostanza si trovasse.
Ma, appena lasciatosi alle spalle il salone, vide Vegeta venirgli incontro e rivolgergli un ghignò derisorio.
“Già ti mancavo?” Disse, stirandosi con le mani tutte le pieghe del vestito.
Gli voltò le spalle e con passo veloce tornò indietro e incominciò a scendere le scale.
Ormai era sordo alle sue parole di scherno. “Seguimi, ora!”


Arrivarono sgommando nel parcheggio del carcere.
“Io ancora sto aspettando il mio caffè.”
“Quanto la fai lunga. Dopo ti offro il pranzo.”
“Sushi!”
“Sì sì.”
Gli faceva estremamente schifo il pesce crudo, ma pur di non sentirlo, gli avrebbe dato la luna.
Entrarono in quel cupo edificio e una sensazione malinconica colpì l’uomo più anziano.
“Quanti bei momenti passati qui.” Ricordò vago e allusivo, allargando quel ghigno beffardo, dipinto sul volto.
Si girò verso Vegeta che non mostrava nessuna emozione, se questa non era né il fastidio né la noia.

 
“Dejavuù.”
Era un suo intimo pensiero, ma lo disse ugualmente ad alta voce. Aveva un matto bisogno di parlare, di non perdere quella capacità unica del genere umano. Aveva bisogno in qualche modo di dimostrare che aveva ancora il lume della ragione.
La situazione, i suoi vestiti, i suoi capelli, le sue occhiaie, il suo malumore, tutto era uguale al giorno precedente.
Quella grigia monotonia le stava distruggendo la sanità mentale. Il giorno dopo magari si sarebbe svegliata, sicura che fosse il giorno prima. Ma che importanza aveva conoscere la data? Martedì o Mercoledì faceva differenza in un omogeneo miscuglio di noiosa abitudine?
“No. Stai esagerando.”
Gli venne spontaneo ricambiare le sue parole con uno sguardo totalmente perplesso.
“Ieri avevo i boxer neri, oggi li ho blu scuro. Non è tutto uguale a ieri…”
L’innocua curiosità subito mutò in un terribile smarrimento.
Le leggeva il pensiero, forse? Capiva i suoi pensieri guardandola negli occhi? O forse aveva gli analoghi pensieri.
“E poi oggi non saremo solo noi due.”
L’aveva sottoposta a qualche sonda o a qualche marchingegno che si insinuava tra le tortuose vie del suo cervello?
Continuava a guadarlo esterrefatta, ignorando inconsciamente le sue parole.
“Mi stai ascoltando?” Richiamò la sua attenzione. Essere ignorato lo mandava in bestia.
“Stanotte non ho dormito tanto e mi sento un po’ intronata.”
“Nemmeno io ho dormito tanto stanotte, eppure mi sento benissimo.” Insinuò malizioso e crudele.
“Spero ti venga l’Aids.” Gli augurò dolcemente crudele.
“Solo quando scoperò con te.”
“Chi ci sarà oggi con noi?”
Cambiare argomento non poteva essere che un bene. Continuare su quella linea significava finire a parlare del passato, di loro due, della sua scelta, dei loro errori. E come risultato finale lei sarebbe marcita in galera, se tutto andava bene…
“Oggi con noi ci sarà una persona che ti renderà particolarmente felice.” Disse falsamente emozionato e eccitato.
“E chi è?” domandò curiosa e ingenuamente felice.
Finalmente qualcuno di piacevole con cui parlare. Avrebbero dialogato di qualsiasi cosa: del tempo, della moda, di macchine, di trucco e capelli.
Distruggere quelle allegre e infantili aspettative sarebbe stato per lui un piacere ineffabile.
“Freezer.” Scandì quel nome con una lentezza estenuante, pronunciando ogni lettera chiara e forte.
Il suo largo sorriso era scemato gradualmente, diventando un’espressione irata e spaventata al contempo, man mano che il cervello recepiva quel messaggio.
Quel nome rimbombava nella sua testa, facendole battere all’impazzata anche il cuore.
“Sai avrà la sua età ma ancora sembra un giovincello. I medici dicono che avrà una vita longeva. Finché nessuno l’accoppa, avrà un’ esistenza pregna di significato.” Dichiarò, ostentando un coinvolgimento che non aveva realmente, ma la ragazza aveva dei repentini sbalzi d’umore che lo facevano stare bene. Passava dalla rabbia al terrore, dallo sconforto alla tristezza in un lasso di tempo oggettivamente brevissimo.
“Fortunato lui e fortunati noi. “ Disse totalmente distrutta.
“Fortunate te, più di tutti. Il mondo è un posto grande e pericoloso e affrontare tutto da soli può essere difficile. Devi stare attenta a dove ti muovi e a chi pesti i piedi.”
“Ogni riferimento a fatti, veramente accaduti, è puramente casuale. Immagino.”
Scherzava con le parole, ma moriva dentro.
“Non se ne trovano in giro persone come te. Sei intuitiva, sei sveglia, sei veloce nei ragionamenti. Hai una faccia pulita che non desta sospetti. Sei brillante, riesci facilmente a circondarti di gente. Di ottima gente.
Hai un fisico slanciato e sei agile, aggraziata nei movimenti. E ancora sei giovane. Troppo giovane e troppo speciale per consumarti qui.”
Quante stronzate riusciva a dire senza che rigurgitasse bile? Adulare le persone era un metodo subdolo, ma vedere l’ego delle persone ingrandirsi e poi sottomettersi era un qualcosa di impareggiabile.
“Non ci casco, Vegeta.”
Si dimenticava sempre che lei non era una persona, lei era Bulma. Sottometterla sarebbe stato arduo, ma lo sforzo sarebbe stato ben ricompensato dall’immagine che lei che piegava al testa a lui e lo spirito al sistema.
“Immaginavo. Poniamo in diversa maniera la questione allora. Hai ucciso 4 persone, tutti membri della malavita. Tutte persone che tu avevi pedinato, spiato, minacciato.
L’omicidio, benché di reietti della società, non è felicemente accolto da nessun tribunale e ora tu rischi di perdere la vita. Tu non vuoi morire.”
 Si irrigidì nella sedia. Sospettava dove l’uomo volesse andare a parare e non le piaceva per niente.
“No, Vegeta.”
“Ti sei già macchiata di un delitto per poterli vendicare, eppure non ci sei riuscita a pieno. La tua coscienza non è sporca, è macchiata. E quelli aloni nessuno potrà mai cancellarli.”
Sospirò prendendosi una pausa.
“I tuoi genitori sono morti e nessuno te li ridarà indietro. Ma loro vivono in te, in te solamente.”
Se non odiasse con tutto il cuore calde lacrime e sciocchi sentimentalismi, si sarebbe commosso alle sue stesse parole, tanto era stato convincente.
“Devi scegliere se morire e uccidere completamente loro con te, oppure continuare a vivere, vendicarli, riprenderti ciò che è tuo di diritto. Nessuno te lo impedirà, anzi ti aiuteremo, ti aiuterà.”
“Il perdono solitamente si paga.” Sussurrò.
“Mai niente è per niente. Però tu per poco, puoi avere tutto quello che vuoi.”
“Dovrei prima uscire da qui, incolume. Chi mi garantisce che succederà?”
Tentò l’estremo tentativo, prima di vendere la sua anima completamente al demonio.
Era ammaliante, era suadente. Quello era un ricatto in piena regola, eppure le sembrava l’unico salvagente in una mare, in cui non sapeva nuotare.
“Ti ricordi quando mi dicevi che la vera forza del mondo era l’amicizia?”
Annuì impercettibilmente e lui continuò: “Freezer ha tanti amici, e muove il mondo come più gli piace. Il giudice che dovrebbe presenziare al tuo processo è un suo amico. L’ha aiutato qualche tempo fa e lui non avrebbe inibizione alcuna a ricambiare il favore.”
“Che schifo! Un giudice dovrebbe essere imparziale. Dovrebbe amministrare la giustizia, farla rispettare.”
“La giustizia la fanno gli uomini. Gli uomini potenti. E Freezer lo è.”
“No, piuttosto la morte.”
Si appoggiò esasperato allo schienale della sedia. Era di coccio quella donna.
“Chi ti dice che la morte non sarà peggio? Hai la certezza di quello che c’è dopo? Sarai in un mondo di luce, retto dalla giustizia o in un’orgia di malvagità?”
“Non lo so.” Ammise.
“Secondo la giustizia divina, quella stessa giustizia che tu dici di seguire, saresti colpevole, perché nessun uomo può levare la vita ad un altro uomo.”
“Ma avevano sbagliato, meritavano di essere puniti.”
“Anche tu hai sbagliato, anche tu meriti di essere punita. Se non in questo mondo, nell’aldilà, se veramente esiste.”
“Sbaglierà anche chi mi uccide allora.”
“Esatto. Con la tua morte perpetueresti quello che nella tua vita hai cercato di fermare. Non farti togliere la vita dagli uomini.”
Se avesse potuto, si sarebbe rosicata tutte le unghia delle mani. Era nervosa, era indecisa, era esortata al male contro la sua volontà.
Pensava di avere le idee chiare, eppure quelle parole l’avevano confusa. Lui l’aveva confusa. Non sapeva se era più importante vivere o restare coerenti a se stessi.
“Collaborare con noi, non vuol dire tradire i tuoi ideali.”
Sì! Quell’uomo usava la magia per leggerle dentro.
“Vuoi la vendetta? Ti ho detto che l’avrai. Cercheremo in lungo e in largo quelli che hanno tramato contro i tuoi genitori e li uccideremo, nel modo più doloroso che esista o in quello più dolce. Li uccideremo come vuoi tu. E alla fine avrai ciò che è tuo. E’ per questo che uccidi, no?”
“Dove sta la fregatura? Freezer mi farà assolvere, ma io gli dovrei un favore, come glielo deve il giudice.”
“Di questo ne devi parlare con lui. Io ti propongo una scelta. E devo sapere quale farai.”
“Ma tu mi dovresti difendere comunque.” Gli ricordò schifata.
“Si, ma il giudice potrà decidere se assolverti o meno. E qualcosa mi dice che lui, spontaneamente opta per un no.”
Tirò un sospiro angoscioso. Non le toccava scendere a patti col demonio, doveva addirittura sottomettersi a lui.
“Ti piacciono i bei vestiti? Le feste di gala? I gioielli e le macchine sportive? Attici lussuosi? La scienza?”
“Si.” disse con la voce tremante e cedevole.
“Nell’aldilà forse non ci saranno.”
La morte era una rinuncia troppo grande per una giovane donna come lei. Aveva un passato da non vanificare e un futuro che l’aspettava a braccia aperte. In forti e robuste braccia. In viscide braccia.
“Mi prometti che uscirò da qui? E che avrò tutto quello che hai detto?”
Tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette e ne accese una. Si alzò e le si portò davanti, appoggiandole il filtro tra le labbra.
“Vuoi? E’ tua. Puoi fumare.”
Aspirò con affanno, come un assetato a cui viene portato un bicchiere d’acqua.
Nella foga, posò le labbra sulle sue dita.
Erano così le mani del diavolo? Morbide e calde e profumate?
“Puoi avere tutto quello che vuoi, se stai dalla mia parte.”
Forse non era tanto male come compromesso.
“Ci sto. Sono dalla vostra parte.” Disse distrattamente, troppo presa dal gusto del tabacco.
Un ghigno oscuro e malvagio le sovrastò il capo, ma lei non se ne accorse.
Quante buone cose si sarebbe persa, se non avesse accettato l’invito di Vegeta.
Piegata, sottomessa a lui e non se ne accorgeva. Ma finché il collare non stringe, non si accorge di essere in cattività.

Buonasera gente. :D
Questo capitlo mi ha portato via davvero molto tempo. Ho cercato di essere convincente nel descrivere i dubbi e la fragilità mentale di una condannata a morte. In quelle condizioni, un comune essere umono penso sia davvero molto volubile.
Il quadro si allarga e forse la situazione non risulterà ancora troppo chiara, ma promettò che già dal prossimo capitolo tutto sarà più chiaro.
Anche il rapporto Freezer/Vegeta. Un po' tutto insomma.
Ringrazio vivamente tutti quelli che hanno letto, recensito e seguito la storia in una delle tre liste.
Non mi aspettavo che foste così numerosi e questo mi fa molto, ma molto piacere. =3
Spero che vi sia piaciuto e, se vi va, sentitevi liberi di lasciarmi un commento o una critica. ^^
Grazie di tutto e buonaserata. =)

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Capitolo 3
*** 3.3 ***


"Il cambiamento è il risultato finale di tutto il percorso di apprendimento"
Leo Buscaglia




 

“Che le è preso Brief?” Inquisì la vecchia donna.
La ragazza non sapeva che rispondere. Guardava quell’infausto numero scritto in rosso su quel foglio di carta, esattamente sopra il suo nome.
Stentava a crederci, non riteneva possibile distrarre il suo genio, non riteneva possibile prendere un brutto voto a scuola.
Il foglio bianco, era appena stato abbellito da innumerevoli segni rossi.
“Questo compito era stato programmato da una settimana e avrebbe dovuto premurarsi di studiare, viste le sue carenze in materia. Perché non ha aperto libro?”
Non sapeva davvero che rispondere, davvero. Quella domanda aveva una risposta breve e semplice, e lei la conosceva, eppure dirla le avrebbe compromesso a vita la reputazione. Doveva inventarsi qualcosa, qualcosa di molto convincente e giustificatorio.
“Io non ho potuto perché…”
 ‘Due giorni solo per noi. Possiamo andare a mare in montagna o a fare shopping…’ gli aveva leccato la guancia e aveva saggiato delicatamente la sua pelle. Non capiva più niente se le parlava con quel tono e la stuzzicava così.
‘Mi dici sempre che odi le femmine impazzite che fanno compere.’
Sudava freddo e stringeva gli occhi. Si convinceva che lo faceva per pensare ad altro, per concentrare la sua mente su un pensiero che non fosse la lingua del ragazzo. Umiliante sarebbe stato ammettere che strizzava gli occhi per godere di quel clandestino e poco pudico tocco, ma le piaceva, le piaceva tanto.
‘Sì, ma non lo odierei tanto, se ti comprassi qualcosa di carino da mettere solo per me…’
La sua mano, benchè ostacolata dal tessuto liscio della gonna della divisa, godeva del piacevole contatto con il sedere di lei.
Succedeva sempre più spesso. Lui la toccava sempre più smaliziato, sempre più audace. E lei sempre più spesso lo lasciava indugiare sul suo corpo per poi levare la sua mano come scottata e stringerla nella propria.
‘Smettila, amore.’
Quelle parole erano state dette la prima volta, come fossero un perentorio ordine, per poi divenire delle sommesse suppliche.
‘Perché? Non dici di amarmi?’
Era un fottutissimo bastardo. Perché doveva usare i propri sentimenti per palesargli la stramba contraddizione tra le sue parole e i suoi fatti?
Era stata sempre una ragazza innocente e solare, innamorata dell’amore, dell’idea del principe azzurro, dal cuore nobile e dall’animo gentile. Era sempre stata pudica nei pensieri e innocente nelle azioni.
Ma, da quando aveva conosciuto Vegeta, tutto era cambiato, lei era cambiata.
Il bianco cavallo dei suoi sogni era stato rimpiazzato da una macchina sportiva e completamente nera, il principe perfetto dalla perfetta bellezza di un bastardo.
I suoi vestiti erano cambiati. I suoi capelli erano cambiati. I suoi atteggiamenti e i suoi vizi e le sue virtù erano cambiate.
Non avrebbe mai pensato di abbandonare quei graziosi vestitini rosa per indossare stretti jeans e scuri e magliette provocanti. Non avrebbe mai pensato di sciogliere la sua amata treccia o la infantile codina, per portare capelli lisci e fluenti sulla schiena. Non avrebbe mai pensato di ampliare il suo fine lessico con termini volgari e scurrili. Non avrebbe mai pensato di intraprendere una viziosa abitudine infruttuosa, dispendiosa e nociva, quale fumare, lei che per due anni era stata presidente dell’associazione antifumo della sua vecchia scuola.
Vegeta le aveva imposto tanti piccoli cambiamenti nella sua vita, anzi Vegeta si era imposto come cambiamento.
E non cedere alle sue esplicite richieste era un fragile appiglio al suo infantile passato. Era una protezione per non corrompere anche la Bulma pura e ingenua che prima era.
Ma questo appiglio era sempre più scivoloso e lei sempre meno intenzionata ad aggrapparvisi.
‘Si, ma ancora non mi sento pronta…’
Bugia anche quella. Si sentiva pronta, ma non era pronta ad ammetterlo.
Lui, allora, le aveva carezzato i capelli con la mano libera e aveva sottomesso la sua nuca a casti baci.
Lei si era svincolata a malincuore dalle sue braccia e aveva guardato lui, contrariato e quasi incazzato.
‘Scusa, ma devo tornare in classe.’ Fece per aprire la porta, ma lui, più lesto, la attirò nuovamente a se.
‘Tu non te ne vai finchè non lo dico io.’ Scordatosi del precedente rifiuto, si impossessò violentemente della bocca della ragazza, mentre con la mano le teneva il mento verso sé.
Sarebbe stata felice di passare l’ora nel bagno con Vegeta, ma l’insegnante non sarebbe stata dello stesso avviso.
Con poca forza e con poca voglia cercò di allontanarsi dal ragazzo, ma questo più forte, aumentava l’intensità della presa.
‘Ti lascio andare solo se accetti la proposta- l’aveva ricattata tra i baci- e non faremo niente, se non vuoi farlo.’ e lei si era dichiarata felicemente sconfitta.
‘E a i miei genitori che gli dico?’ Quel piccolo, detestabile dettaglio era apparso per rovinarle la felicità di un irrealizzabile progetto.
‘Gli dici che non possono più comandarti, perché ora ci sono io a farlo.’ Dichiarò impassibile e spaventosamente serio.
‘Ma tu ci credi davvero quando dici certe cose?’Domandò lei, più curiosa che offesa.
‘Vai in classe.’ Ordinò, sciogliendola dall’abbraccio e schioccando le dita.
Bulma si ricordò della spaventosa professoressa di letteratura italiana, meglio non farla alterare troppo.
Gli regalò un veloce bacio sulle labbra e corse fuori dal bagno, seguita dalle mordaci parole di lui.
‘Visto che ti comando io adesso?’
Girò la testa e gli offrì la visuale del suo dito medio alzato contro di lui e un’espressione molto irritata.

“…sono andata a trovare mia nonna, che sta male.”
Bugia,  bugia, bugia!
Ed era preoccupante che non era la sola nel corso di pochi giorni. Lei, che era sempre stata sincera, si era ritrovata a mentire parecchie volte.
Ma poteva confessare che Vegeta l’aveva sedotta, l’aveva coercizzata, fino a farle completamente perdere il senno della ragione e dimenticare il suo dovere di studio?
“Brief, gli insegnanti non credono mai alle scuse degli studenti. Ma apprezzano molto l’originalità di alcune e qualche volta in nome dello spirito salace del ragazzo lo perdonano.” Sciorinò veloce e poi riprese.
“Siamo quasi a fine anno e lei rischia il debito. I miei colleghi decantano spesso la sua intelligenza e voglio metterla alla prova.”
Bulma ingoiò un groppo si saliva. Maledetti insegnanti pettegoli.
“Domani la interrogo, si faccia trovare preparata e passerà l’estate tranquilla.”
La campanella era suonata provvidenziale, impedendo alla professoressa di continuare il suo monologo circa l’importanza della sua materia, le reputazione della scuola, il prestigio dei professori e la vergogna di alunni distratti.
Veloce sistemò le sue cose e corse fuori dalla classe fino ad arrivare all’aula di fronte, entrare trafelata e cercare nervosamente la sua amica.
“Chichi! Chichi! Dove sei?”
La vide mettere i libri nello zaino con cura e delicatezza, per timore di sgualcirli.
“Ehi Bulma.” La salutò cordiale e allegra. Nella sua voce tuttavia era palese una nota di stanchezza.
“Mi devi raccontare nei dettagli come è andata con Vegeta questo fine settimana. Me lo merito in fondo.”
La mora detestava Vegeta. Troppo spaccone. Troppo arrogante. Troppo montato. Troppo presuntuoso, eppure l’aveva coperta pur di farle passare del tempo sola con lui.
“Già te lo meriti. Perché non parlarne oggi? Tra un caffè e schifezze e tra le tue ripetizioni di latino.”
Aveva congiunto le mani e inumidito gli occhi, come un cucciolo. Era essenziale non farsi lasciare debiti, non voleva deludere i suoi genitori, non avrebbe potuto ferire così il proprio ego.
“Non posso. Oggi devo uscire con Goku. - Disse dispiaciuta, ma non troppo- perché non chiedi aiuto a Vegeta? Sarà molto più utile di me.”
Il volto di Bulma si illuminò istantaneamente “Si, sarebbe bello- per poi rabbuiarsi subito- peccato che non sia facile da convincere.”
Chichì le regalò un’amichevole pacca sulla spalla e le sorrise complice e divertita.
“La seduzione delle donne è un’arma eccezionale cara. Ci vediamo domani.”
Seduzione delle donne? Aveva forse voglia di scherzare?
Vegeta era lava bollente con lei, un tizzone ardente, piacevole per quanto doloroso nel suo ardore, ma lo era solo quando lui decideva di esserlo. Non si faceva facilmente addomesticare dalle lue lascive parole o almeno così lasciava credere.
Lo vide salire sulla macchina e sistemarsi la cravatta. Lo raggiunse silenziosa e si sedette al posto del passeggero senza che lui avesse il tempo di poterle dire qualcosa.
Quella macchina sapeva di buono, sapeva di lui, sapeva di loro due e della loro fuga.
Era completamente spaparanzata sul sedile e guardava lui che a sua volta la guardava contrariato.
“Mi sono perso il momento in cui ti ho detto di salire.”
Lei sorrise di circostanza e, audace, si coricò con la testa sulle ginocchia di lui e con la mano gli carezzava il basso ventre.
Lui le bloccò la mano e ringhiò feroce e sensuale. “Quando te lo dico io.” Abbassò la testa e , ubriacandosi del suo odore di femmina, le ficcò irruente la lingua in bocca.
Era un bacio impetuoso e violento. Lui decideva il ritmo, lui decideva la velocità.
Vorace le addentò le morbide labbra, affondando i denti e facendola gemere di voluto dolore. Era sceso sul collo, mordendolo e baciandolo. Il suo passaggio era reso noto da succhiotti viola e morsi dai contorni rossi. La foga di lui la faceva impazzire, ma in quella posizione si sentiva completamente indifesa e sottomessa. E non le piaceva per niente. E lui diventava sempre più veloce, sempre più violento, sempre più letale per lei.
La ragione stava incominciando a cedere all’estasi.  Doveva chiedergli aiuto per studiare, per non prendere un brutto voto in latino e invece si stava nuovamente distraendo. Era un circolo vizioso quella relazione.
“Vegeta, mi fai male.” Cercò di dire ferma, ma fu tradita da un suo stesso gemito d’approvazione.
“E ti piace.” Le sue mani si erano intrufolate sotto la camicia della divisa e avevano iniziato a stringerle il seno, sotto la stoffa del reggiseno.
“Ascoltami, ti devo parlare. E’ una cosa importante.” Gli afferrò il polso per bloccarlo e portò la mano del ragazzo all’altezza del loro viso.
“Ho preso tre nel compito di latino...”
“L’ho sempre detto che sei un’idiota.”  le sussurrò sulle labbra in un tono misto di nervosismo e derisione.
“Ehi!” Gli morse l’indice con quanta più forza potesse, ma lui non gli badò minimamente.
Tentò di alzarsi, ma la ributtava sulle sue ginocchia.
“Fammi alzare. Sento qualcosa di duro che mi preme e temo che non sia il cambio.” Ammise preoccupata. La situazione era degenerata davvero in fretta. Ma finchè era salvabile, doveva salvarla.
“Prima mi istighi e poi ti tiri indietro? Non ti facevo così codarda.”
Non era codarda e glielo avrebbe dimostrato. Lei non aveva paura di niente, nemmeno di lui.
“Amore mio, ho preso tre nel compito, perché questo fine settimana non ho potuto studiare. E tu sai benissimo perché non ho potuto farlo.”
“Non sei mai stata così contenta di prendere tre.” Insinuò.
“Anche se fosse, sarei ancora più contenta se non mi lasciassero la materia. Anzi saresti. Perché se io passo l’estate a studiare, tu ti dovrai dimentichi di me.”
“Bambina mia,  non ti posso infondere la scienza in quel buco cavo che è la tua scatola cranica- con le nocche le bussò sulla fronte- Sentito? E’ vuoto.”
“Tu sei bravo in latino, aiutami a studiare.”
“No!”
“Che ti costa?”
“Mi costa tanti sacrifici. Devo rinunciare a qualcosa che mi piace fare per occuparmi di un caso disperato.”
Lei sfoderò i suoi soliti occhioni dolci, occhi che avrebbero fatto tenerezza al più spietato dei tiranni e gli baciò la mano ancora stretta nella sua.
“Su andiamo fallo per me.”
“E tu che farai per me?” domandò allusivo.
Lei ponderò attentamente circa la risposta da dare a quella questione. Qualunque cosa avesse detto, lui l’avrebbe rigirata come più gli faceva comodo e poi non era tipo da lasciarsi comprare per pochi soldi.
“Che vuoi che faccia?”
Lui sorrise diabolico e infilò il dito medio nella sua bocca e, spostatosi al suo orecchio, le leccò il lobo.
Bulma infuriata e nervosa prese il dito e lo sfilò dalla sua cavità orale.
“No!” Aveva rifiutato decisa la sua proposta e lui ora si stava davvero alterando.
“Non ti sto chiedendo di fottere. Se non sei pronta io lo capisco, ma dici che mi ami e non vuoi avere manco un po’ di intimità con me? Sei una fottuta mocciosa bugiarda.”
“Non è vero, io ti amo. Se mi chiedi una cosa del genere non ti importa niente di me.” Doveva divincolarsi da quella discussione, troppo scomoda e imbarazzante per lei.
Vegeta le baciò dolcemente la bocca.
“Sai quanta voglia avevo di scoparti in questi due giorni?”
La ragazza non rispose e lui poté continuare il suo discorso.
“Davvero tanta. Tu giravi in mutande e reggiseno, ti buttavi addosso a me e poi pretendevi che io non facessi niente. E’ stato crudele da parte tua. Ma tu non volevi e io non ho mai insistito. Secondo te questo è non interessarmi a te e a tutte le tue stronzate paranoiche?”
Lei boccheggiava, in cerca di una risposta che non trovava, persa nell’eccitazione e nella brama di lui, ma l’esitazione e la paura rimanevano.
“E’ una cosa che fa schifo.”
“Non dire cazzate. Non hai mai provato.”
“Manco tu, se è per questo.”
“Certo che l’ho provato.”
Una fitta allo stomaco la colse d’improvviso. Un senso di fastidio e di disagio che non voleva riuscire a spiegare, che non voleva riuscire a chiamare con nessun nome che conoscesse.
Sapeva che aveva avuto altre prima di lei, ma non conosceva il numero.
“Non in quel senso, idiota. L’hai sempre ricevuto, ma mai l’hai fatto.”
Lui sospirò esasperato. Odiava i bambini e fare da baby-sitter lo stava indisponendo non poco.
Il suo respiro caldo le solleticava l’orecchio, procurandole piacevoli brividi di freddo.
“Ti piace la mia carne quando mi mordi? Ti piace l’odore della mia pelle quando mi annusi il collo?”
Sì, Sì! Le piaceva!
Nascose il volto di lato, per non farsi vedere con le guancie rosate per colpa sua, ma anche girata riusciva a percepire quel sorrisetto bastardo che mai lasciava il volto del ragazzo.
“E ti è piaciuto ieri quando mi hai visto nudo?” Ricordò con malizia.
Le era piaciuto? Rimembrava i suoi tentativi di girarsi, quando lui le aveva mostrato il suo essere maschio e ricordava la vanezza di tali tentativi, allorché lei, senza accorgersene, tornava a contemplarlo.
Non ne aveva mai visto uno prima di allora e, dopo il primo imbarazzo, si era ritrovata affascinata e calamitata dalla possanza di quel muscolo proibito.
“Bene è come unire due cose che ti piacciono, quindi non ti potrebbe mai fare schifo.”
Un sospiro rassegnato le uscì dalle labbra. Odiava perdere, ma in quel frangente non le importava minimamente vincere.
“Fai una prova. Se non ti piace…”
Se non le piaceva? La piantava? Continuava a stare con lei, scegliendo un’altra come trastullo sessuale?
“…non ti piace.”
Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, ma perché fasciarsi la testa prima del previsto? E perché prestare attenzione ad assurdi pensieri?
Era impossibile che non piacesse a una donna o a una ragazzina.
“Però qui non te lo voglio fare.” Gli aveva imposto, corrucciando le labbra, come una bambina “A casa tua!”
Lui la alzò contrariato dalle sue gambe. “Stai dando troppe cose per scontate, oggi. Prima la macchina e ora la casa. Tu sei fumata. Si va da te.”
“Cosa? Ci sono i miei genitori, che succede se entrano nella stanza o sentono strani rumori?”
“Cazzi tuoi saranno. ”
“Ok, allora io oggi mi cucio la bocca.” Dichiarò vittoriosa.
“Si entra dall’ingresso secondario, si sta solo nella mia stanza e non ti presenterò nessuno.” Cedette stanco di sentirla parlare.

“Prima cerchi il verbo principale per analizzarlo. Modo, tempo, diatesi, persona e numero.”
Le consigliò stranamente paziente. Avevano passato più di due ore, piegati sui libri e lei lo aveva fatto impazzire. Non lo ascoltava, non capiva ciò che le diceva, sbagliava declinazioni e coniugazioni di continuo.
Solitamente si sarebbe incazzato, ma gli aveva permesso di urlarle addosso qualunque genere di imprecazione, pur di non perdere quel prezioso aiuto, difficilmente comperato con la sua innocenza.
Lei si reggeva la testa con le mani e stringeva tra le labbra una matita. Era un’imbecille!
Aveva sbagliato tutto, doveva concentrarsi sul latino e non riusciva a non pensare a quello che sarebbe successo dopo. Aveva paura di fare una cosa che voleva fare. In quel preciso istante non capiva i labirinti tortuosi del suo cervello, figuriamoci il latino.
Forse se l’avesse fatto prima di studiare, si sarebbe potuta concentrare.
Sputò la matita e gli si sedette addosso, armeggiando con la fibbia della cintura e la cerniera dei pantaloni.
Lui la guardò compiaciuto, ma le bloccò le mani.
“Quando te lo dico io. Sono stufo di ripeterlo.”
“No, quando dico io. Devo sentirmi ispirata almeno.”
Sembrava una donna spartana. Una ferrea guerriera di un’altra epoca.
“Ispirata?”Scoppiò a ridere, di una risata maligna e irrisoria. “Se sei ispirata lo fai meglio?”
Alzò le spalle per palesargli la sua ignoranza a tal riguardo.
“E sia. In ginocchio.” Ordinò, schiavo lui stesso della sua perversa voglia di comandare e sottomettere.
Lei ci pensò un pochino e poi gli elargì un dolce sorriso.
“Non è che mi piaccia poi tanto quella posizione. E’ un po’…”
“Stasera ti vengono a prendere i tuoi genitori o te la fai a piedi? Perché io non ti accompagno, sicuramente.”
Minacciò subdolo e meschino.
“Bastardo!”
Il ragazzo allargò le gambe e lei scivolò ai suoi piedi. Sbottonò i pantaloni e uscì il suo membro.
Si posizionò meglio sulla poltrona e, notando il suo esitante tremore, gli parlò: “E’ come se fosse un leccalecca.”
Bulma si avvicinò titubante, ma prima di riuscire a prenderlo in bocca, sentì la porta aprirsi e una persona varcare la soglia della camera.
Si girò imbarazzata, intimorita. Le guancie bruciavano , ma mai quanto il suo orgoglio.
Un uomo di bassa statura e dalla carnagione chiarissima, quasi bianca, la stava squadrando con due occhi neri profondi, di una profondità agghiacciante e spaventevole. Il volto era una ferrea maschera d’apatia.
Guardava prima lui e poi Vegeta che ancora la sovrastava.
La perforava con quello sguardo tagliente e penetrante. Sembrava più arrabbiato con lei che con l’intruso.
“Ti avevo espressamente detto di chiudere la porta a chiave.”
Aveva sgranato gli occhi, si sentiva scrutata e accusata. E per quanto sapesse che quella posizione era davvero poco dignitosa, non riusciva a comandare al suo corpo di alzarsi.
Vide lui coprirsi le nudità, alzarsi e prenderla di peso per un braccio, costringendo anche lei in maniera eretta.
“Ti aspettavo di sotto. Mezz’ora fa. Dovevi esserci.” Parlava pacato e atono, non sembrava interessato a lei, e questo la sollevò.
“Le ho dato ripetizioni di latino.” Rispose asciutto.
L’uomo si voltò verso la ragazza, che stava giocando nervosamente con l’ultimo bottone della camicia.
“Mi sembra di aver capito che le lingue non sono il tuo forte.”
L’apostrofò crudele e allusivo.
Bulma sgranò gli occhi sbigottita e offesa. Come si permetteva uno sconosciuto di prendersi gioco di lei? E Vegeta non la difendeva?
Volle cercare conforto nel suo volto severo e nella sua espressione accigliata, ma quello che vide fu un ghigno sardonico.
Chi era quella persona? Non l’aveva mai vista e non riusciva a ricollegarla in alcuna maniera al moro al suo fianco.
“Chi cazzo sei tu per parlarmi così? E chi cazzo sei per non bussare?”
Domandò inviperita, mettendosi in posizione di guerra, con le mani sui fianchi.
L’uomo scrollò le spalle indifferente e curvò le labbra scure in un’espressione di divertita esperienza.
“Figlio mio, le donne migliori sono quelle che non usano la bocca per parlare. Tra tutte le troie che ti vanno dietro, la più impedita dovevi portare?”
Figlio mio? Figlio suo? Che stava dicendo quel pazzo?
“Vieni ti riaccompagno a casa.”
La situazione sarebbe diventata tesa in breve tempo. E non aveva intenzione di accentuare il suo malumore con le chiacchiere insensate di Bulma. Sapeva che quando aveva quell’espressione stralunata, nel suo cervello si affollavano un mucchio di domande e lui, secondo lei, avrebbe dovuto rispondere.
Raccattò i libri e, mesta, seguì il ragazzo.
“Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Sono il padre del ragazzo da cui ti fai sbattere.”
“Smettila, Freezer.” Ringhiò Vegeta nella sua direzione.
Quelle parole le gelarono il sangue e le inumidirono gli occhi.



Era sempre stato un tipo taciturno, poco propenso a conversare, ma il silenzio dell’abitacolo le metteva agitazione. Forse perché era pregno anche delle sue parole non dette?
Non aveva parlato. Non aveva scherzato. Non aveva acceso la radio e non aveva cantato.
Aveva un bruttissimo senso di nausea e le girava la testa. Arrivarono a casa sua in metà del tempo previsto. Vegeta alla guida era un folle.
“Scendi.”
“Mi dispiace.” Era turbata. Era curiosa. Era dispiaciuta. Si sentiva una stupida.
Essendo cresciuta in una famiglia amorevole, mai aveva pensato all’eventualità che Vegeta potesse avere quel carattere particolare, per via di una difficile situazione familiare.
“Ci saranno altre occasioni… spero!” L’ammonì col fuoco negli occhi.
“Cosa?” L’intuito le diceva che stavano parlando di argomenti totalmente diversi
“Io ti ho aiutato col latino. Sta a te mantenere fede al patto.”
Maschi! Pensavano sempre e solo a quello.
Voleva convincersi che era un lurido pervertito, eppure in quel momento le sembrò solo un cucciolo smarrito, che voleva dissimulare la sua tristezza con un’aria da duro.
Non aveva avuto l’affetto di una famiglia normale, ma nessuno gli avrebbe tolto il suo amore. Sorrise tenera nella sua direzione e gli si avvicinò sensuale.
“Aspetto solo che me lo dica tu.” Gli soffiò sulle labbra.
Ricambiava il suo sguardo accattivante con un’aria incredula. Si domandava insistentemente il motivo di quel repentino cambio d’opinione e quell’improvvisa voglia, nonché di quella strana accondiscendenza, che non le sembrava proprio da lei.
Mise in moto la macchina e si fermò in un vicolo abbandonato, il primo che aveva visto.
Tirò il sedile indietro e le fece segno di avvicinarsi.
Diversamente da come si era immaginato,  gli sorrise e, con agilità, si accomodò tra le sue gambe.
Il suo viso era troppo dolce e comprensivo, troppo accomodante e permissivo. Non era lei.
Ma cosa le era successo in dieci minuti per renderla in quella maniera?
La cintura era ormai lasciata e la cerniera stava lentamente scivolando. Reclinò la testa all’indietro pronto a godere delle attenzioni della ragazza, che non tardarono ad arrivare.
La sentiva agitata e vagamente preoccupata, ma per essere una mocciosa non se la cavava per niente male. Avrebbe potuto abituarsi a questo. Avrebbe potuto anche aspettare per avere di più.
L’afferrò per i capelli e la spinse di più verso lui. Peccato che quel momento sarebbe dovuto finire.
Odiava ammetterlo ma aveva ragione lui. Quel contatto non le dispiaceva, anzi l’aveva accesa di un desiderio che tentava di spegnere.
Ma al piacere si accostavano i sensi di colpa e dolorose fitte allo stomaco.
Pensava ai suoi genitori e alla reazione che avrebbero potuto avere, vedendola in quello stato.
Pensava a Chichi. A lei che era tanto perfetta, lei che non era così stupida da lasciarsi irretire da un bastardo con voglie assurde e lasciarsi plagiare da lui.
“Ingoia.” Ordinò, cercando di essere ferreo e controllato.
Tentò di liberarsi, di ribellarsi, ma quella mano era più forte e fu costretta a cedere alla sua insistente imposizione.
Finito, si alzò da terra, sbattendo contro lo sterzo, e si coricò sopra di lui; storceva ancora la bocca e lui sembrava trovarla divertente.
“Sarà la prima e ultima volta.”
Bulma gli riservò un’occhiata omicida, accompagnata da una smorfia schifata.
Non poté fare a meno di pensare che era splendido, quando sostituiva al suo ghigno bastardo quel sorriso sinceramente soddisfatto. Il suo volto sembrava essere più luminoso.
La ragazza scosse la testa e gli baciò il mento.
“Amore?” lo chiamò dolcemente, carezzandogli gli addominali.
“Mmh?”
“Se hai bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui sfogarti, io ci sono sempre per te, anche di notte. Potevi dirmelo che sono morti i tuoi genitori.”
La realtà lo colpì come uno schiaffo. Quella stupida stava vagando troppo con la testa. Aveva messo avanti parecchie ipotesi totalmente sbagliate.
Era davvero incazzato, odiava essere compatito.
“Tu mi hai tirato un pompino, perché ti faccio pena!”
La spinse via da sé e si alzò a guardarla. “Che cazzo ti sei sognata? Non sono un trovatello di strada che ha bisogno delle tue cure, né della tua pietà.”
“Non ho pietà di te. Mi dispiace che sei costretto a vivere con un figlio di puttana! Mi dispiace che non hai affianco i tuoi genitori. Volevo esserci io per te.”
Si giustificò ferita da quelle parole. Voleva affiancarlo e lui le inveiva contro? Era pazzo!
“Costretto? Sono maggiorenne e decido con la mia testa. Quando vorrò andarmene da quella casa, me ne andrò. E se non sbaglio prima Freezer ti ha detto di essere mio padre. Quindi non è vero che non ho genitori.”
Si stava incazzando. Quella bambina stava superando il limite. Stava facendo troppe domande e stava cercando di capire.
Non doveva capire!
“No, non puoi. Smettila di fingere pure con me. Io ti voglio solo rendere le cose più semplici. Voglio darti l’amore che quello non ti da.”
“Come puoi volermi rendere migliori le cose, se non sai manco di cosa stai parlando? Stai fantasticando sulle tue invenzioni. Io non ho bisogno dell’amore. Solo le bambine hanno bisogno dell’amore.”.
“Perché stai con me se non hai bisogno d’amore?” Domandò insistente e cieca della realtà
“Per divertirmi. Per scopare. Per avere un passatempo, quando mi annoio. Non mi risulta di averti mai chiesto amore.”
Le lacrime minacciavano di rigarle il viso, copiose e dolorose. Le parole di lui la stavano ferendo.
Venir messi di fronte alla cruda realtà, totalmente diversa dalle sue aspettative le faceva male.
“E tutte le volte che ti ho detto di amarti?”
Un groppo in gola non le permetteva di parlare liberamente e tranquillamente.
“Pensavi davvero che io ricambiassi?”
Tirò su col naso.
“E magari pensavi pure che non te lo dicessi perché sono timido?”
Singhiozzò ad alta voce.
“Tu non ricordi le declinazioni, perché la tua testa è piena di puttanate.”
La guardò nervoso e irritato dalle sue invadenti insinuazioni.
Perché voleva giocare alla buona samaritana? Perché doveva ficcare il naso nelle sue faccende?
“Scendi, non voglio che mi bagni i sedili.”
Il suo singhiozzare fu coperto dal rumore sordo di uno schiaffo che colpiva la carne di lui, dura come la roccia.
Il ragazzo sembrava indifferente a quanto successo, ma lei, oltre le ferite dell’anima, soffriva il dolore della sua mano.
Lui sorrise diabolico e sadico.
“Amore mio- calcò queste parole volutamente e crudelmente- non te la prendere con me se vivi nei tuoi sogni. L’unica colpa che ho avuto io è stata di aver creduto che tu fossi più matura.”
“Rimpiango di non avertelo strappato a morsi.” Ringhiò furiosa contro di lui.
“Puoi provarci ora se vuoi.” La sfidò sfacciatamente.
Scese dalla macchina, sbattendo violentemente la portiera, più volte.
Lui amava la sua macchina e ferire lei era ferire lui.
“Fallo di nuovo e ti ci chiudo la testa dentro.” Minacciò asciutto e spaventosamente serio.
“Fatti investire da un camion.”


Incassò malamente quel pugno nello stomaco.
Aveva sputato saliva e ora boccheggiava in cerca di ossigeno che sembrava non respirare.
Gli occhi erano sgranati, mostranti un’espressione di pura sofferenza.
Era arrivato improvviso e inaspettato, ma anche se gliel’avessero annunciato il dolore non sarebbe stato di meno.
Stringeva la pancia, per alleviare quella sofferenza che, credeva, non sarebbe mai stata placata.
“Perché?” Domandò, affaticata nel parlare.
“Mi servi viva, ma non illesa.”
“Perché?” Insistette, digrignando i denti.
“E’ un monito per il futuro. Da oggi in poi, se non vuoi morire, sei obbligata a obbedirmi e a non fare niente che io non voglia.”
“Figlio di puttana. Non ho fatto niente!” Urlò esasperata e lacrimante.
Le afferrò i capelli e la costrinse ad appoggiarsi malamente allo schienale della sedia.
“Hai cercato di ammazzarlo. Sembravi così coraggiosa con una pistola in mano. Invece sei solo una puttana che ha paura delle conseguenze.”
“E’ una cosa che riguarda me e lui. Gli ho già chiesto scusa, purtroppo. Con te non mi devo giustificare proprio di niente.”
Lui rise mefistofelico.
“Certo che sono affari miei, è mio figlio.”





Buongiorno carissime. :D
Sono stata vittima di un’ondata d’ispirazione e la cosa è stata abbastanza piacevole, se non fosse che, avendo scritto di getto, non credo ci sia troppo nesso logico tra passato e presente.
Ho gatto del mio meglio, cercando di non esagerare per volgarità nella scena erotica e cercando di risultare appropriata sia nel linguaggio sia nella descrizione di pensieri e azioni.
E’ abbastanza difficile. Spero di non aver reso le cose troppo frettolose e/o superficiali, ma ho scritto quella scena, tenendo conto che stiamo parlando pur sempre di una ragazza di quindici anni e della sua prima esperienza un po’ più seria.
Non sono troppo convinta di questo capitolo…
Per quanto il mio intento fosse mantenere i personaggi IC, forse non ci sono riuscita a pieno e magari Freezer e Vegeta sembreranno un po’ ambigui, ma è pur sempre un ‘What if’ e ancora ci sono circostanze da svelare, circostanze che daranno un senso a quanto scritto fin’ora.
Vorrei ringraziare di cuore tutti quelli che leggono questa storia, tutti quelli che la preferiscono e tutti quelli che la seguono e ricordano: siete parecchi e questo mi riempi di orgoglio personale e felicita. Grazie! :D
Mi auguro vi sia piaciuto e, se volete lasciare un commento, sentitevi liberi di farlo. ;D

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Capitolo 4
*** 4.4 ***


Una cattiva azione non ci tormenta appena compiuta, ma a distanza di molto tempo, quando la si ricorda, perché il ricordo non si spegne. Jean Jacques Rousseau

“Vodka liscia”.
Beveva alcol, come fosse stato acqua. Sperava, a lungo andare, che gli si annebbiasse la vista, gli tremassero le gambe e gli si confondessero i pensieri così da trovare quantomeno sopportabile quel noiosissimo rinfresco, ma questo desiderio era ormai vecchio otto bicchieri di veleno per il fegato e lui non vi credeva più di tanto.
La mondanità non l’avrebbe mai sopportata: dover partecipare ad eventi pubblici, dover intrattenere relazioni di pseudo amicizia, dover essere argomento del discorso di insopportabili e vecchie donne isteriche e sessualmente insoddisfatte.
Tracannò il nono bicchiere in un sorso e aspettò impaziente che il liquido gli rischiasse la gola col suo bruciore: sarebbe stata un ottima distrazione.
“Vegeta Ice che beve da solo ad una serata. Se me l’avessero raccontato, non ci avrei mai creduto.”
Un sorriso glaciale gli curvò le labbra umide.
Famigliare nei suoi ricordi, vantava lo stupore di una novità non prevista in quella realtà.
Quanti giorni si erano rincorsi da quando lui non sentiva più quella voce? Quanti soli erano tramontati dal loro ultimo incontro?
Il passato era un treno che cercava di investirlo e a lui non era concesso di scappare.
“La fiducia non è mai stata il tuo forte.”
“A volte si assumono certi atteggiamenti, propri di chi ti sta intorno.”
Appoggiò il bicchiere sul ripiano di marmo e si voltò verso la fonte di quelle parole.
Una giovane e bellissima donna lo scrutava, tagliente e fredda, con glaciali occhi color cielo, privi di quella luce e di quella vitalità che la sua mente, erroneamente, gli suggeriva.
Avanzava lenta e diabolica verso di lui, facendo ondeggiare la lunga gonna dell’abito nero ossidiana.
“Queste persone più cerchi di ignorarle, più ti infettano come un bastardissimo virus. Più cerchi di combatterle, più loro ti vincono. Più le fuggi, più ti braccano.”
Ascoltava quelle parole, ma non ne capiva il senso. Gli sembrava il vaneggio di una pazza. Un vaneggio fuori luogo e inopportuno.
Era in effetti un’amara costatazione di una più amara verità che avvelenava la sua esistenza.
Gli prese la mano e lo attirò a sé, facendolo finire sopra il suo esile corpo.
“Sono dieci anni che non ci vediamo e non voglio litigare fin da subito con te. Almeno per stasera facciamo finta che non sia successo niente?”
Gli astanti gli guardavano curiosi e pettegoli, cercando di capire, di motivare quei gesti. Il loro brusio era odioso. Era odioso tutto in quella sala. Erano odiosi tutti in quella sala.
Gli aveva allacciato un braccio attorno alla vita e aveva pronunciato quelle parole con un’ammirevole tentativo di risultare convincete, rendendosi colpevole di essere apparsa falsa e più insofferente del dovuto.
Si avvicinò al suo voltò e lo baciò meccanicamente. Per la prima volta aveva lasciato gli occhi aperti, pronta a nutrirsi di qualunque espressione di menefreghismo.
Lui era rimasto impassibile e non si sprecò di ricambiare il contatto. Non una smorfia di smarrimento, non un cipiglio di sorpresa aveva scorto in quel viso conosciuto.
“Eri sempre così coinvolto, quando ci baciavamo?”
Seccata, irritata e irrimediabilmente persa. Persa in quella realtà anacronistica che la faceva stare male. Ma qualunque emozione era la prova concreta che lei era ancora letteralmente viva. Qualunque emozione. Fosse stata questa dolore. O rabbia. O fredda soddisfazione.
“Bel modo per non litigare.” Ricordò scettico.
Non gli piaceva stare al centro dell’attenzione. Gliel’avrebbe fatta pagare per averlo fatto diventare protagonista di quel quadretto.
Lei serrò gli occhi e strinse la mascella, cercando di trattenere un’ambigua risata.
“Lo so, lo so. Mi devi scusare, ma non mi aspettavo di trovarti qui e mi hai spiazzato. Desideravo rivederti, ma ora che sei qui mi sento agitata.”
Si dichiarava agitata, ma non un tremito smuoveva il suo corpo, non un balbettio interrompeva il suo discorso, non un’incertezza le inibiva la parola. Quello era un atteggiamento strano per chi diceva di essere agitato.
“Perché spari sempre stronzate?” Domandò scocciato dalle ciance di quella donna e da quella donna.
Lei abbassò la testa e seguitava a fissare la sua pochette lucida. I capelli corti le coprivano il viso e i pensieri.
“Penso che sia connaturato al mio essere.” Osò una acuta risata e nervosa. “Però ci sono determinati momenti in cui non dico niente. E la mia compagnia è davvero piacevole certe volte.”
“E’ più facile credere che io stasera mi diverta.”
“Non è un’ipotesi così incredibile.” Alzò la testa e, incastrati i loro sguardi, gli leccò le labbra. Sapevano di Vodka  e tabacco. Le sapevano di vittoria e morte.
Quanto avrebbe voluto essere come lui. Una statua di elogio all’apatia e all’indifferenza. Una statua dall’espressione statica e immobile che toglieva ogni certezza, insinuando il tarlo del dubbio.
Lo scroscio prepotente di un circostanziale applauso risuonò sgradito alle orecchie dei due.
Un uomo, osceno e per aspetto e per atteggiamento, calamitò su  di sé e sul suo discorso l’attenzione di tutti.
Si avvicinò nuovamente a lui, con lo stesso gaudio di un condannato a morte mentre si dirige verso il patibolo, e ricercò un altro bacio. Più profondo, più incantevole, più convincente, ma la sua lingua trovò una dura barriera nelle labbra di lui.
“Andiamo via, prima che il barile inizi a parlare.” Sussurrò schifata sul suo viso. “Qui sotto c’è la mia macchina.”
Aveva uno sguardo carico di risentimento e un sorriso, ordinato da bacate aspettative, sensuale e spietato.
“Conosco tanti giochi e sono aperta a farmene insegnare altri.”
Si allontanò da lui, dirigendosi verso l’uscita della sala.
Scoccò la lingua nel palato per non urlare la sua prossima vittoria. La stava seguendo, attento a non perderla di vista.


Come aveva supposto, lei non lo portò alla sua vettura, ma nel boschetto retrostante l’antico palazzo.
Le fronde degli alberi, sebbene ben curate, erano rigogliose e la vegetazione fitta e abbondante. Si fermarono alla riva di un laghetto di acqua putrida e stagnante, ben lontano dagli edifici e dalle automobili della città.
Avevano camminato velocemente, attenti a mantenere tra loro una certa distanza. Era paradossale tutta quella staticità per un passionale incontro. Lesto e letale si avvicinò a lei e, afferrandole i capelli, la sbatté violentemente contro un alto albero, schiacciata sotto il peso del suo corpo.
“Mi auguro per te che tu abbia valutato perfettamente i pro e i contro di questa tua pensata. E mi auguro che tu abbia pensato a un modo per cavarti d’impiccio.”
Il suo alito caldo non arrivò a toccarle il collo, vinto e inglobato dalla fredda aria che si respirava in dicembre.
Per quanto l’impedimento di lui glielo consentisse, spinse maggiormente il fondoschiena sul suo sesso e iniziò a strusciarvisi meccanicamente, ghignando davvero poco sommessamente.
Era stato un’imbecille a tenerla contro l’albero di spalle, lui non avrebbe potuto vedere niente di quello che facevano le sue mani. Aprì con facilità la borsetta e silenziosamente impugnò la sua felicità.
Non aveva disprezzato quel contatto dal momento che non l’aveva né fermata né rimproverata.
Stolti e pervertiti uomini, che pensano solo al sesso. Quanto era vero: per il sesso si sarebbe potuti morire.
Approfittando della sua distrazione, non accorgendosi che risultasse strana e sbagliata, si divincolò da quella stretta, portandosi alla spalle di lui.
Sentì una punta metallica premere contro la sua nuca, stupendolo e interessandolo molto.
“Chi ti dice che sia io in impiccio?” Domandò divertita lei, mostrando per la prima volta nella serata un qualche tipo di trasporto.
Si girò lento, trovandosi la pistola, minacciosamente puntata sulla fronte totalmente scoperta. Non indietreggiò e non mostrò paura né turbamento, sembrava più compiaciuto e meno annoiato di quando erano al rinfresco.
“Se volevi terrorizzarmi ti conveniva farti vedere senza trucco, amore.”
Il suo orgoglio si risentì non poco, voleva vederlo tremare a implorare pietà. Perché stava sghignazzando copiosamente e la stava prendendo in giro?
“Figlio di puttana.” Ringhiò a denti stretti. Serrò maggiormente le sue dita sulla pistola e il dito bramava poter premere il grilletto. Ma lei esitava, serrava la mascella e faceva stridere fastidiosamente i suoi denti.
“Una pluriomicida che è terrorizzata e non riesce a spararmi? E’ un divertente paradosso, non trovi Bulma?”
Pluriomicida? Come cazzo faceva lui a saperlo? Era sempre stata attenta e meticolosa. Si era sempre curata di non lasciare nessuna traccia che riconducesse a lei, costringendo la polizia a brancolare cieca e persa, impotente e inconcludente.
“Tu…”
“Uno spacciatore, un allibratore, un rapinatore e un maniaco stupratore. Non pensare nemmeno per un secondo che sei stata brava ad ucciderli. Alla polizia non fotte un cazzo che gente del genere sia stata uccisa. Probabilmente manco se n’è accorta. Come non se n’è accorto il mondo.”
La sua faccia era una maschera di sgomento e incredulità. Freddezza e determinazione, sarebbero state appropriate, ma in quel momento credeva essere parole prive di vero riscontro nella realtà.
“Come fai tu… Se nessuno se n’è accorto…”
La rabbia la smoveva dentro e fuori. La pistola vistosamente tremolava.
Tirò un sospiro, poi un altro e un altro ancora. La risposta alla sua confusa domanda non era arrivata e non era più convinta di volerla sapere. Non avrebbe fatto differenza e non sarebbe stata importante. Lui doveva morire e con lui quella conoscenza. Non sarebbe stata in pericolo, finchè era sola.
“Pronto a morire, Vegeta?” Sicura impugnava quella pistola, pronta o quasi a sparare.
Era immobile e la guardava sornione. Si stava incazzando.
“Addio, Ice…”
Concentrata a sentirsi umiliata di quel sorriso, troppo lenta fu a compiere il gesto, perché lui le aveva già colpito la mano destra, facendo cadere a terra la pistola.
Si buttò a terra per afferrarla e nel momento il cui la prese, si sentì la mano schiacciata da un pesante piede.
Un urlò strozzato le morì in gola. Quella pressione sulla mano la stava distruggendo, non aveva tempo per sentire dolore, si dovere liberare. Ci doveva provare almeno.
Le afferrò nuovamente i capelli, con meno dolcezza e con più cattiveria e cercava di issarla di peso, nonostante non le lasciasse la mano, tirando tutti i muscoli del braccio e facendola sentire una bambola di pezza, pronta a strapparsi.
Le fitte alla nuca erano insopportabili e imparagonabili a qualunque dolore conoscesse o avesse provato.
“Lasciami, bastardo!” sbraitò agitata e confusa, cercando di colpire la gamba di lui con il gomito libero.
La liberò, spingendola a terra e calciando nel laghetto la pistola.
Si equivalsero per tempo il tonfo e nel suo cuore e nel laghetto, entrambi provocati dall’affondare della sua arma di potere.
Carponi a terra, con la faccia assorta a guardare la brulla terra, riusciva benissimo a percepire il sorriso mefistofelico sulle labbra dell’uomo. Lui d’altro canto non si premurava di celarlo, anzi ne era fiero e lo ostentava.
“Se mi vuoi fare ancora divertire ci sono dieci minuti, prima che venga la polizia.”
Gli si mostrò davanti, tendendole la mano. La guardava serioso e enigmatico.
“Oppure puoi scappare.” In quegli occhi, specchio di un’indole bastarda, lei scorgeva una nera caverna, pronta a nasconderla e proteggerla dalla luce della colpevolezza. Ma era tutto così assurdo. Come potevano coesistere in un solo corpo protezione e pericolo? Forza e debolezza? Intelligenza e stoltezza? Odio e amore? Stronzaggine e comprensione?
Si alzò, non aiutandosi con la sua mano e iniziò a correre a perdifiato.
Le falcate era lunghe e rapide. Non le importava avere i tacchi, non le importava avere un lungo vestito impaccioso, non le importava di avere la mano dolorante e non le importava di avere la faccia sporca.
Non le importava di respirare a fatica e di avere la gola arsa da freddo e fatica.
Doveva correre. Doveva scappare. Gli errori del passato non l’avrebbero raggiunta, non l’avrebbero irretita in una densa confusione incolore e dolorosa.



“Speriamo finisca presto.” Si alzò sulle punte e lo baciò sulla lingua con una delicata passione.
Lui ghignò triste, ma lei non comprese.
“Prima di quanto tu possa immaginare.”
Entrarono contemporaneamente in tribunale, ma le loro strade si differenziarono subito. Lei si sedette alla penultima fila e lui avanzò fino a portarsi davanti l’accusata.
Sembrava una statua di marmo, tanto era immobile e impettita su quella sedia. Sembrava una statua di marmo conservata in pietose condizioni.
“Lo so che ci hai visto, è inutile che fai finta di concentrarti su altro.”
“Quanto sei egocentrico. Io rischio la mia vita, che disgraziatamente ti ho affidato, e tu non ti fai vedere per una settimana.  Non vedo perché dovrei avere dell’interesse per te.”
Si sedette affianco a lei e si abbottonò la giacca di liscio lino nero.
“Si chiama Irene, ha trentadue anni e gestisce alcuni traffici illegali di sostanze stupefacenti per conto di Freezer. Spesso ci fornisce informazioni riservate su persone che potrebbero risultarci troppo scomode o molto comode. E’ discreta e molto agile. Capacità che la rende molto interessante anche in altre circostanze…”
Le alitò sul collo queste allusive parole, sperando di vederla sciogliere da quella posizione troppo nervosa e tesa.
“Ti fa simpatia?” La voleva solo fare arrabbiare, le voleva far perdere le staffe, la voleva sentire urlare la sua indifferenza a quella donnina, voleva che gli mostrasse che era ancora una stupida bambina gelosa.
“La odio.” Rispose essenziale lei.
“Meglio così.” Sorrise compiaciuto.


“In piedi. Entra il giudice Satan.”
Tutti si alzarono, attendendo l’entrata del magistrato. Si presentava come un uomo che aveva superato da qualche anno la mezza età, ma ciò nonostante aveva un fisico aitante e una invidiabile altezza. I duri e burberi lineamenti del suo volto risultavano grotteschi nell’insieme: bocca sigillata, aria seria e austera e occhi tremanti, codardi quasi.
Accomodatosi sulla sedia, permise silenziosamente agli altri di imitare il suo gesto.
Il suo processo si doveva essere preannunciato davvero interessante, considerando la gran moltitudine di persone che vi erano in tribunale.
Vecchietti impiccioni e senza pensieri che si interessavano a queste distrazioni per passare il tempo della vecchiaia, qualche giovane col pallino della giurisprudenza che voleva imparare qualcosa con l’esperienza diretta e per ultimi parecchie conoscenze di Vegeta. Pensò che servivano a intimorire il giudice, ma  se il loro obiettivo era il suddetto perché non venire direttamente Freezer?
Si guardò intorno, cercandolo con lo sguardo. Non poteva escludere l’ipotesi che lui fosse nascosto.
“Se fosse venuto lui, la risonanza mediatica sarebbe stata maggiore e tutto sarebbe stato più difficile. Un affare pubblico è soggetto alle varie interpretazioni di chiunque e chiunque potrebbe rivelare in qualche interpretazione un qualcosa che dovrebbe essere omesso. Non possiamo rischiare così tanto.” Mormorò impercettibile.
Era incredibile quanto fosse perspicace a capire e diretto nelle risposte. Non lasciava spazio per domanda alcuna. Le sue parole erano come un mantello impermeabile che non avrebbe fatto trapassare nessun dubbio o nessuna insinuazione. Vegeta avvocato. Era un binomio non associabile per lei. L’avvocato doveva confutare, dimostrare e questo implicava dover parlare e lui, da quel che lei conosceva, non aveva mai dato prova di essere un amante dei discorsi. Sagace nelle risposte, ma odiava parlare.
“Prima di parlare, bisogna saper ascoltare, studiare l’altro, capirlo.”
Erano diventati così scontati i suoi pensieri?
“Venerdì 17 Febbraio 2012. Presiede Giudice Mark Satan. Caso numero 5, imputata la signorina Bulma Brief.”
Un donnina bassa e dall’età molto avanzata, scriveva sul verbale tutto quello che la guardia annunciava.
Sudava freddo e tremava vistosamente. Non si era mai accorta fino a quel momento di essere nella merda fino al collo. Il cuore tamburellava il petto, dolendo a ogni battito, urlando la sua colpevolezza. Gli occhi erano lucidi e i respiri sempre più affannosi. Inspirava grandi boccate d’aria, tenendosela nei polmoni e espirandola, solo quando sentiva di soffocare. Lei non poteva sapere quando sarebbe stato il suo ultimo respiro. Poteva essere in quel momento o no, ma non le importava. Voleva imprimersi il non gusto dell’aria nella sua memoria prima che fosse stato troppo tardi. Sempre se esisteva una memoria da morto… Ma certo che esisteva! La memoria è immortale. Come si dovrebbe capire di essere morto, se non con il ricordo di quando si era in vita?
Le pupille erano dilatate, ma era cieca. Vedeva nero. Vedeva nera la sala, nero il futuro, nero il passato.
Urlare. Gridare. Da quanto tempo non si liberava, sfogandosi a voce alta?
“Calmati, sta tranquilla.” Tranquilla? Come poteva stare tranquilla? Lui era così composto e pacato da farla agitare maggiormente.
“Abo Aka, accusato di traffici di sostanze illegali. Appule Pula, accusato di controllare partite di squadre locali, ricavando soldi. Arbee Bear, colpevole di aver rapinato diversi negozi di alimentari. Bacterian Tarc, scagionato dall’accusa di aver stuprato due compagne d’università. Rispettivamente il 29 Gennaio, il 26 Febbraio, il 25 Marzo e il 29 Aprile dell’anno 2011,questi quattro malavitosi sono stati trovati morti, riversi in una pozza di sangue, uccisi da una sola pallottola nel cervello. Le circostanze di questi delitti sono pressoché identiche e ci spingono a pensare che l’artefice sia la stessa persona.”
Respirò pesantemente, prendendosi una pausa da quel corposo discorso.
“Kado Aka, fratello dell’ormai morto Abo Aka, ha dichiarato di aver trovato, a pochi metri di distanza dal corpo del defunto parente, la tessera sanitaria della signorina Bulma Brief.”
L’aveva ucciso con un colpo solo, stupendosi della sua formidabile mira. Era la prima persona che aveva ucciso e il sangue di quel corpo morto aveva macchiato l’asfalto di quel vicolo cieco e la sua coscienza.
La pallottola si era conficcata nel cervelletto. Aveva atteso che si girasse di spalle. Le pupille bianche di quegli occhi esamini l’avrebbero potuta portare alla pazzia. Era così scappata dalla parte opposta, cercando riparo dal male. Ma fuggire da sé stessa le risultava impossibile.
Ingoiò pesantemente il macigno dei sensi di colpa e cercò di sventolarsi con la mano. Era una fornace quell’aula o erano le fiamme dell’inferno che la chiamavano a sé?
“La signorina Brief, di anni 25, è stata arrestata, con l’accusa di omicidio. Alcuni specialisti e abili investigatori hanno perlustrato il suo appartamento in affitto, la sua auto, hanno interrogato i suoi conoscenti più stretti, non riuscendo a trovare nessuna prova della colpevolezza della suddetta. Per tanto in mancanza di prove certe e concrete che rimandino alla signorina, mi trovo costretto a rimandare il processo a data da destinarsi, dando ulteriore opportunità alla squadra investigativa di ripetere l’indagine. ”
Ripetere l’indagine? Se l’avessero ripetuta era probabile che avrebbero trovato qualcosa per incastrarla e lei sarebbe stata condannata. I patti non erano quelli. Lei doveva essere salva. Doveva essere viva.
Vegeta fissava il giudice glaciale, scrutando ogni sua espressione facciale e impedendo il suo libero pensiero.
“Per motivi di sicurezza non possiamo lasciare libera la nostra unica sospettata, ma, sempre a causa di prove incerte, ho trovato giusto accettare la richiesta avanzata dall’avvocato difensore della signorina Brief, Vegeta Ice. La suddetta, detenuta numero 3491 del carcere provinciale della Città dell’ovest, finchè non verrà completamente scagionata dai sospetti, è condannata alla libertà vigilata, sotto la custodia del suo avvocato difensore.”
Il magistrato osò una pausa nel discorso e guardò timoroso Vegeta che sorrise impercettibilmente nella sua direzione.
“La seduta è aggiornata. Comunicheremo la data della prossima udienza prima possibile sia all’avvocato difensore sia al procuratore e alla giuria popolare.”
Il colpo secco del martelletto, sbattuto sul tavolo di legno, e la scomparsa del giudice sancirono di fatto la fine di quell’estenuante processo e lungo.
Era finito. Per il momento, ma era finito. Aveva guadagnato sicuramente giorni preziosi di vita, ma nonostante questo si sentiva morta. Le avevano concesso di uscire di prigione, ma nonostante questo si sentiva schiava.
Arresti domiciliari a casa di Vegeta? Furbo e scaltro, quell’uomo aveva calcolato tutto con una precisione sorprendente. Non le aveva mai parlato di quell’eventualità. Che bastardo!
Quando avevano stretto quel patto non aveva specificato di volerla privare pure delle sue opinioni.
Due guardie penitenziarie le si accostarono, facendola sollevare con poco garbo e conducendola verso la propria cella. In aula non era rimasto più nessuno, anche Vegeta aveva preso la sua valigetta e l’aveva seguita.
Certo ormai lei era responsabilità sua, non l’avrebbe più lasciata, non sarebbe più stata sola. Non sarebbe più stata serena. Aveva preferito una non-vita alla morte.
A posteriori non sembrava una scelta intelligente, ma tornare indietro era impossibile e anche se fosse stato possibile, era sicura che Freezer avrebbe trovato il metodo per impedirglielo.
Scoppiò in una fragorosa risata, volendo esorcizzare quel triste pensiero. Le guardie la guardavano sconvolte e Vegeta divertito. Che motivo aveva lui per non divertirsi?


“Non lo conosco questo posto. Non è casa mia.”
Un moderno palazzo, non particolarmente alto, si ergeva davanti ai suoi occhi. Credeva di sapere di trovarsi alla periferia nord della città dell’ovest, ma non ne capiva il motivo. Quelle guardie avevano sbagliato sicuramente.
Vide l’uomo controllare l’indirizzo sul fascicolo e poi dissentire con la testa.
“Si invece. E’ questa casa sua, è scritto sul suo fascicolo personale.”


Salì gli ultimi gradine delle scale stizzita e ogni passo sembrava voler perforare le mattonelle. Che crollasse quel palazzo!
Vedeva, appoggiato allo stipite della porta, un Vegeta gongolante e sardonico che aspettava con impazienza il suo arrivo.
Entrò nell’antro infernale e notò che al nome non corrispondeva solo la sua distorta fantasia ma l’appartamento vero e proprio. Tra vestiti e perizomi riversi a terra, poteva scorgere il parquet di chiaro legno. Ogni mobile, rigorosamente scuro, dalla libreria al divano, era di taglio semplice e moderno.
Le guardie penitenziari stavano discutendo con Vegeta, spiegandogli ogni parametro della detenzioni in luoghi privati, ignorandola, quando porgeva domande, insultando così involontariamente il suo genio egocentrico e borioso.
Non credeva che guardare il candido cielo da una finestra senza grate e indossare una semplice canottiera bianca erano azioni, motivo di immensa felicità. Su quel piccolo terrazzino, con l’aria che le scompigliava i capelli e il freddo che le pungeva la pelle, si sentiva bene, felice. Niente avrebbe potuto rovinare quel momento, né la goccia di pioggia che l’aveva bagnata né Vegeta che l’aveva raggiunta.
Gli sorrise spontaneamente. Sentiva di doverlo ringraziare almeno un po’, dimenticandosi del cambio di domicilio, dei suoi ricatti, delle sue stronzaggini, sentiva di doverlo ringraziare per non averla fatta morire. Anche se a non farla morire non era stato certo lui, ma il suicidio della sua libertà.
La guardava pensieroso e palesava una strana delusione di cui non riusciva a spiegarsi la cagione. Quell’espressione l’agitò e l’allarmò. E se avesse sbagliato qualcosa? Non poteva ucciderla.
“Eppure…quell’arancione ti illuminava il volto.”
Gli sfiorò la spalla nuda e lei lo respinse con una violento manrovescio.
“Ho solo questi vestiti. Gli altri sono a casa MIA.” Calcò l’ultima parola con una rabbia e determinazione fuori dal comune e senza dubbio sprecata. “Mi serve tutto. Magliette, pantaloni, intimo.”
“Ci ho già pensato.”
Meraviglia! Vegeta che pensava ai bisogni di una persona che non era lui.
“Sono nella mia camera da letto.”
Le brillarono gli occhi e, sorpassandolo, si diresse velocemente verso il locale indicato, non risparmiandosi di sbagliare stanza un paio di volte.
“Sono da puttana.” Ringhiò frustata.
Il tutto, inteso da Vegeta, era costituito da striminziti top trasparenti, due minishorts di jeans e un numero infinito di completi intimi, davvero poco coprenti.
“Incredibile la velocità con cui li hai classificati. Devo dedurre una certa esperienza?” Indagò meschino.
“Fottiti stronzo.” Gli lanciò violentemente il primo perizoma che le capitò a tiro, ma lui fu più veloce e si abbassò, evitandolo.
“Non puoi uscire da casa, che differenza fa cosa indossi? O ti metti quelli o resti nuda. Io problemi non ne ho.”
“Ah, la tua idea è farmi andare al processo vestita da troia così il giudice si persuade a non condannarmi? Sei furbo, una faina direi quasi.”
Esasperato, sospirò aria annoiata. Si diresse al comò e ne uscì delle lenzuola di seta nera, che buttò addosso alla ragazza.
“Il divano ti sta aspettando.”



Era notte fonda. In quel vicolo cieco si sentivano le eco degli ululati dei cani, i miagolii spaventati dei gatti e le catene della sua condanna. Una condanna autoimpostasi.
Dalle sue stancanti ricerche, tra la malavita e i segreti di una giustizia incasinata, aveva dedotto che Ado Aka fosse colpevole.
Aveva fronteggiato quell’uomo tozzo con una inumana sicurezza, con una sicurezza spaventevole.
“Cinquanta di fumo. Puoi procurarmeli?” Domandò fredda e poco interessata.
Quello proruppe in una fragorosa e volgare risata.
“Certo, bambina. Ma sei sicura di volerti fare del male? Se hai bisogno di svagare, io ti scopo volentieri.”
Quell’ampio sorriso non voleva sapere di abbandonare il suo grassoccio volto. Sembrava ritenersi un comico nato, ma era solo di una tristezza commovente.
“Cinquanta di fumo. Puoi procurarmeli?” Ripeté, porgendogli il denaro.
Afferrò i soldi e controllò se fossero autentici. Più volte era stata imbrogliato con danaro falso.
“Sto tornando.”
Le diede le spalle, dirigendosi vero quella porticina che portava a uno stanzino sporco e disorganizzato dove tenevano la merce.
Fu istantaneo e fulmino, ma per lei fu come se fossero passati anni.
Prese la pistola e senza esitazione premette il grilletto. Il rumore dello sparo risuonò sordo, ma lui, evidentemente troppo fatto, non fu in grado di accorgersene. Nel momento stesso in cui la realtà dei fatti lo aveva colpito, una pallottola gli aveva perforato la testa pelata, portando con sé il dono di un destino triste e ineluttabile.
Il sangue colava da quel buco, addensandosi ai suoi piedi come un tappeto di velluto, pronto ad accogliere il suo corpo dal precario equilibrio. Cadde a terra facendo schizzare denso e vermiglio liquido.
Quella pozza innaturalmente non candida, quel corpo riverso al suolo privo di vita e innocenza la turbarono più di quanto volesse ammettere a sé stessa.
Vide Ado dissolversi, lasciando spazio ai corpi inanimati dei suoi genitori. Il freddo gelido di Gennaio le ghiacciava le lacrime, rendendole spine fastidiose e dolorose.
“Cos’è stato?” Urlarono alcuni da dentro l’edificio.
Riposò la pistola e scappò via dalla propria mostruosità, non accorgendosi di aver lasciato traccia di sé lungo la fuga.


Lacrimava copiosamente da ormai diversi minuti. Ogni notte lo stesso incubo.
Aveva imparato a considerarlo una punizione divina per quello che aveva commesso. La sua personale pena infinita da dover scontare.
Lì su quel divano di pelle nera si sentiva terribilmente sola e infreddolita e abbracciarsi le ginocchia le sembrava l’unico modo per alleviare la sofferenza.
Perché tutto quello doveva accadere a lei?
La sua vita era un inferno. I suoi sogni gliela facevano rimpiangere. Troppe cose perdute, troppi errori commessi e troppe persone andate.
Non si sapeva spiegare com’era successo, ma non si capacitava più a credere, a credere che un tempo non fosse stata sola come in quel momento. A credere che c’erano persone che la proteggevano e consolavano e la aiutavano con i piccoli problemi della vita.
Ma adesso che i problemi si erano ingigantiti lei non riusciva a contare più neanche su se stessa.
Il divano si affossò dalla parte sinistra e un braccio l’attirò su un caldo muro di muscoli.
Ansimava ancora affannosamente, affaticata dal lungo pianto. Poteva sentire il suo respiro fondersi con quella pelle profumata. Poteva sentire un cuore battere in quel petto, dove, secondo leggende, vi era solo il nulla.
Il sonno le tirava brutti scherzi. Il dormire poco e male l’aveva resa incredibilmente debole.
Si accucciò maggiormente al petto dell’uomo e chiuse gli occhi, ormai priva di energie.
Normalmente si sarebbe ribellata con tutte le forze a quell’involuto contatto, ma era troppo stanca per intraprendere una logorante battaglia personale contro un nemico non intenzionato a considerarla come tale, ma in quel frangente, minacciata da sogni e ricordi, quelle braccia sembravano un’ottima barriera e un perfetto giaciglio.
Normalmente si sarebbe ribellata con tutte le sue forze a quella stretta d’acciaio, dimenticandosi che un tempo lontano l’aveva desiderata con tutte le sue forze.
Normalmente si sarebbe ribellata a tutte le sue forze a quell’individuo, ma l’unico aggettivo non conciliabile con la sua persona era normale.


Salve gente. ;D
Chiedo venia per il ritardo, ma questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere.
Poi ho sempre il timore che scriva qualche cazzata (Timore fondatissimo u_U).
Sono stanchissima e nonostante tutto soddisfatta del capitolo, strano ma vero.
Ringrazio tutti quelli che leggono, preferiscono, seguono e recensiscono. Come farei senza di voi? :3
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, che non sia caduto nell'OOC dei personaggi e che non abbia fatto troppo schifo nella parte del processo. Mi affido alla claemenza della corte di voi lettori!
 Ps. Ultimante ho mille cose da fare e quando ho tempo libero il server di Efp non funziona. ^^"
Prometto che il prima possibile recupererò con la lettura di tutte le storie che segue e che recensisco e risponderò a tutti i messaggi, ma la mia priorità era quella di aggiornare visto il ritardo. ^^"

Grazie mille dell'attenzione e della cortesia. :3

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Capitolo 5
*** 5.5 ***


Nota: l’intero sistema giuridico, descritto nella mia storia, è una mia invenzione. Mi scuso se non ho specificato prima.

La ragione in sé stessa possiede la possibilità di sbagliare, e la sua fallacia può trovare posto nella nostra logica. 
Nicola Abbagnano



Due mani callose gli stringevano il collo, fino a rendergli difficoltoso il respiro.
Le pupille erano dilatate e la bocca avara di inalare quanto più ossigeno potesse.
Faceva male, tanto male la presa di quelle mani che avevano sempre tratto piacere nel percuotere quel corpicino piccolo e ancora delicato.
Scalciava e si dimenava con le gambe, ma lo sforzo lo rendeva più debole e sempre più vicino alla morte.
Tentava invano di allentare quell’agonia, toccando con le proprie manine quelle tenaglie di carne, ma la fatica era eccessiva e l’aria rara.
Perché gli stava facendo questo? La sua mente e la sua esperienza di bambino di cinque anni non riuscivano a trovare una risposta plausibile a quella domanda. Per quanto disprezzo si provasse per una certa persona a lui non pareva possibile una tale eventualità.
Versi strozzati e sofferenti uscivano dalla sua bocca, infrangendosi contro la maschera di goduto odio che lo stava osservando.
Gli occhi erano lucidi di lacrime, ma non voleva piangere.
“Basta.” Un ordine pronunciato con la voce tremante e il fiato spezzato da gemiti di dolore non incuteva timore, faceva solamente ridere. E in quel momento lui era stata la persona più divertente di quel mondo, peccato che il pubblico quella sera era esigente e sapeva che l’avrebbe visto ridere solo tirando le cuoia.
“Non viene nessuno a salvarti, piccolo bastardo?”
Sentiva tante piccoli aghi conficcarsi nei polmoni e la sua testa scoppiare.
Stessi capelli, stessa faccia, stessi occhi, stessa espressione, stesso sangue.
Un estraneo, ecco che cos’era!
Una maledetto bastardo estraneo che l’aveva usato finché aveva potuto, covando per lui sempre più odio, ogni volta che vedeva il suo turpe proposito rivoltarsi contro sé stesso.
“Se avessi saputo che figlio di merda avrei avuto, mi sarei fatto tagliare il cazzo.”
Che cosa gli sarebbe potuto importare di quelle parole nello stesso momento in cui stava lottando con il dolore contro la morte? Finché sentiva la gola bruciare e le ossa del colo scricchiolare, avrebbe saputo per certo di stare ancora lottando e, finché l’uomo sopra di sé non avesse esalato il suo ultimo respiro, lui non si concedeva di morire.
I due anni di arti marziali si erano rivelati relativamente inutili, allorché veniva schiacciato dalla massa di un corpo che era circa quattro volte quella sua.
Pensare che senza le arti marziali non avrebbe avuto quella straordinaria resistenza, pensare che senza le arti marziali non avrebbe mai conosciuto chi lo potesse allontanare da quel demonio, codardo quanto un coniglio.
‘Io sono tuo padre. Nelle tue vene scorre il mio sangue, non quello di quel figlio di puttana.’
Sempre glielo diceva. Eppure quando le sue orecchie percepivano quelle parole il suo sangue scorreva sul suo volto, sul suo petto.
Aveva senso stimare una persona solo perché il sangue era identico? L’affetto che si prova per una persona veniva misurato mediante il gruppo sanguineo o con i gesti e le intenzioni?
Si era ritrovato a chiamare ‘Papà’ un uomo che non aveva né il suo stesso sangue né lineamenti fenotipici simili e non si era mai biasimato per quello. Chi si vantava di avere in comune i suoi stessi globuli rossi si era rivelato un individuo ben peggiore.
“Svegliati, Vegeta. Lui non c’è, non gliene fotte niente di te.”
Si rifiutava di prestar fede a quelle parole. Non ci poteva credere. I fatti avevano sempre dimostrato il contrario e solo loro meritavano di essere idolatrati, non le semplici parole, perfide genitrici di bugie e inganni.
Abbandonò le mani lungo i fianchi, era stremato e il tarlo del dubbio gli aveva fatto perdere quella voglia di continuare a lottare.
Era un bambino. Poteva essere criticato se non sempre rincorreva pensieri razionali e logici?
Il suo corpo tornò libero e poté finalmente tossire convulsamente, sputando catarro e liquido vermiglio.
Chi voleva lo stesso sangue di quel bastardo? Se avesse potuto campare senza, se lo sarebbe tolto.
Un rumore metallico di cassonetti urtati attirò la sua attenzione. Vegeta senior vi era finito addosso, sbattendo la testa contro il muro retrostante. Sembrava opera di una forza sovrannaturale, di una giustizia divina, ma sapeva perfettamente di chi si trattava.
Si era avvicinato a lui e, alzatolo per il bavero della camicia, aveva colpito ripetutamente il suo volto con mille pugni. Le sue nocche si scontravano violentemente con lo zigomo, con il labbro, con il naso con il sopracciglio, partorendo infine un ammirevole scempio di violenza. Picchiava duro e puntava a far male, ma mentre lo faceva non abbandonava una certa eleganza e una certa raffinatezza, viva in ogni suo minimo gesto.
Stanco di tenere sollevato il braccio, lo rigettò a terra, schiacciando con il suo tozzo piede ogni costola del suo costato e infine il diaframma.
“Immagino che non sia bello non poter respirare.”
L’aveva sempre ammirato perché manteneva in ogni circostanza un atteggiamento impassibile e glaciale, ma vedere quegli occhi pece sfociare in un’oscurità inconcepibile da mente umana e i lineamenti del volto, atteggiati a un’espressione brutale di fastidio e ira, gli aveva fatto nascere dentro un sentimento di emulazione illimitato.
Lo lasciò contorcersi nel dolore e nell’umiliazione e si avvicinò al bambino. Era pancia in giù sul pavimento e ancora tremava, scosso da una forte tosse.
“Tutto apposto?” Gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma non vi badò. Era forte lui e voleva dimostrare di potersela cavare da solo, senza l’aiuto di nessuno. Fece forza sulle mani e si portò seduto e, dopo molta fatica, si alzò. Aveva un equilibrio instabile e precario e il tremore alle ginocchia lo costrinse a ricadere al suolo.
Si sentiva un insulso essere, incapace di provvedere a sé stesso, sempre bisognoso di qualcuno che l’aiutasse, ma lui non era così.
Ritentò un’altra volta e poi un’altra ancora, ma alzato gli faceva male respirare.
Si sentì sollevato da terra e portato all’altezza del viso dell’uomo.
“Come ti ha ridotto, figlio mio …” La guancia morbida era completamente livida e tumefatta e la faccia era abbellita da motivi casuali di color rosso scuro, quasi nero.
I suoi battiti non erano ancora tornati normali e il suo cuore in tumulto lo si sentiva da lontano.
Un bambino qualsiasi sarebbe morto, ma non lui.
Un bambino qualsiasi avrebbe pianto, ma non lui.
Un bambino qualsiasi non poteva essere suo figlio.
Si incamminò con lui verso la sua macchina. L’avrebbe portato da un medico, meglio non rischiare nessuna complicazione futura.
Silenzioso e discreto si mosse. Vegeta Senior Portò la mano all’interno della sua giacca e ne estrasse la sua fidata amica. Con quella sarebbe stato semplice uccidere i due bastardi.
La puntò sulla schiena di Freezer, ma il suo tremore, lo portò a sbagliare mira e colpì l’uomo sulla spalla.
Accecato dal dolore, lasciò cadere il bambino a terra e si voltò con occhi iniettati di sangue.
“Bastardo. Ti pentirai di non essere crepato prima.”
Imitò l’uomo riverso a terra e cercò di prendere la pistola, ma prima che ci riuscisse un altro proiettile si conficcò nella coscia sinistra.
L’arma cadde a terra, a piedi del bambino che guardava la scena senza realmente capirla. Girava tutto e vedeva sempre più sfocato. Voleva vomitare, rigurgitare, ma il suo corpo non sembrava collaborare.
Freezer era in ginocchio davanti a lui e riusciva a percepire la sua rabbia montare e la sua voglia di vendetta primeggiare.
Un altro sparo e un’altra pallottola nella spalla. Un urlo di dolore e poi un altro.
Allora anche lui era un uomo normale?
“T’amazzo Vegeta, t’ammazzo!!”
Quel verme lo stava uccidendo da lontano, usando una pistola. Non poteva perdere l’unica persona che a lui ci teneva.
Prese l’arma dal pavimento. L’avrebbe saputa usare o avrebbe solamente fatto divertire l’uomo?
Aveva paura, aveva paura di potersi fare del male da solo, ma vedere scorrere del sangue dalla spalla di chi considerava invulnerabile l’aveva scosso.
Vegeta l’aveva visto fare spesso. Impugnarla, prendere la mira e premere il grilletto. Lo facevano tutti, lui non era da meno. Era facile e indolore.
La teoria era totalmente diversa dalla pratica.
La pistola gli cadde in terra e veloce si portò la mano al petto, stringendolo, sperando che quel semplice rimedio avrebbe potuto fermare l’emorragia.
Gli doleva, gli doleva da impazzire. Era preda delle convulsioni su quella lurida strada.
La conoscenza dell’esperienza sembrava venir meno nei momenti di disperazione. Non avrebbe funzionato, lui lo sapeva. Era un idiozia tamponarsi il petto con la mano. Sarebbe morto. Rigurgitava sangue e bile. Odio e sconfitta.
Che schifo! Le ultime immagini della vita sarebbero stati gli occhi tremanti di quel figlio indesiderato e deludente e il sorriso di quel satanasso.
Il grilletto era stato duro da premere ma l’aveva fatto. La mira era stata difficile da calcolare, ma l’aveva fatto, sbagliando, ma non si poteva più tornare indietro.
Quante volte gli aveva urlato in faccia il suo disprezzo? Quante volte aveva sperato che quell’uomo morisse? Tante, troppe e ogni volta che l’aveva fatto si era sentito grande, anche se non conosceva appieno il significato della parola ‘morte’.
Imparare dall’esperienza era la cosa più devastante che gli potesse capitare.
Era diventato grande, senza manco volerlo. Era diventato grande, guardando per la prima volta due occhi completamente bianchi e un volto contratto dalla sofferenza e un corpo senza vita.
Era diventato grande, ma poi la vista e i sensi erano venuti meno.



“Smettila con queste minchiate e vatti a vestire.”
Un minuto prima la stringeva tra le braccia e il minuto dopo le rispondeva sgarbatamente.
Quell’uomo aveva sbalzi d’umore che neanche una donna in gravidanza, con tanto impegno, poteva raggiungere!


L’aroma inebriante del caffè le arrivò alle narici, stuzzicandole l’appetito.
Da quanto tempo non metteva sotto i denti qualcosa di quantomeno decente e che sapesse di cibo?
Se qualcuno gli avesse chiesto cosa avesse mangiato in carcere, non avrebbe saputo rispondere.
Che si trattasse di carne o pesce, pasta o verdura, tutte le pietanze sul piatto avevano lo stesso poco invitante aspetto e lo stesso sapore di segatura, impastata con acqua.
Spulciava i vestiti di Vegeta, cercando qualche maglietta o qualche pantalone che le potessero risultare comodi e decenti.
I capi colorati spiccavano in quell’armadio! Si passava da un tragico colore nero a un blu notte suggestivo e da un grigio topo a un bianco sporco.
Quanto avrebbe pagato per colori allegri e vivaci? Un azzurro, un rosso, un viola, un arancione …no, l’arancione no!
Indossò una felpa nera, larghissima per le sue esili forme femminili, e dei jeans scuri con una cintura in vita.
Sembrava ridicola, ma era coperta e soprattutto protetta dal freddo pungente di febbraio.
“Voglio caffè!”
Varcò la soglia della cucina e si raggelò all’istante. C’era qualcosa di più glaciale dell’inverno in quella stanza.
Seduti tranquillamente al tavolo a conversare delle cose più turpi, o almeno così immaginava, come se fossero argomenti di poco conto, stavano Vegeta, Freezer e il giudice Satan.
Possibile che fossero entrati in casa senza fare rumore?
“Vattene, stiamo lavorando.”  Il moro le dava le spalle e aveva pronunciato tutto con estrema calma e rilassatezza. Brividi sulla sua pelle per quell’uomo che riusciva a terrorizzare solo con l’idea e che assoggettava solo con la voce.
Svaccato sulla sedia, centellinava il suo caffè, imitando chi pensieri non ne aveva.
Il magistrato sembrava teso, stava impettito sulla sedia e non osava fissare qualcos’atro che non era il foglio davanti a sé.
“Ma ora io lavoro con voi.” Non aveva mai sopportato di essere esclusa, non aveva mai sopportato che qualcuno decidesse per lei, non aveva mai sopportato i segreti e le cospirazioni.
“No. Tu lavori per noi, non con noi.”
Maledetto Freezer!
Ottimo! Le era impedito pure di considerarsi socia, si doveva considerare schiava a tutti gli effetti. Per sconfiggere il demonio, non si poteva fare un patto col diavolo. Chi l’avrebbe aiutata? Era sicura che gli angeli non esistessero e in caso contrario, erano molto pigri e vili.
“Non ci sto a subire passivamente qualunque tua decisione. Voglio sapere, voglio fare qualcosa di concreto.”
Le dita delle mani si movevano nervosamente, scrocchiando a ogni parola pronunciata.
Quella faccia pallida e impassibile la faceva venire il disgusto e la rabbia. Come si era potuto dare tanta importanza a un individuo del genere?
Ci doveva essere stato un giorno in cui Freezer era il signor nessuno e non contava niente, un giorno in cui era lui a doversi piegare agli ordini.
“Versami dell’altro caffè, allora.” Vegeta le stava sventolando sotto il naso la rossa tazza vuota. Non si era degnato minimamente di voltarsi per guardarla, né di usare forme comuni di gentilezza tipo ‘per favore’ o ‘se non ti dispiace’. Ma lei chi era per privare un uomo del suo caffè?
Voleva il caffè, lei gliel’avrebbe dato. Prese dal ripiano della cucina la caffettiera e rovesciò interamente il contenuto sulla testa dell’uomo.
Se il giudice stava sforzandosi di trattenere le risate, Freezer era lontano dal celare il proprio divertimento e scoppiò in un ilare risata. Era la prima volta che lo vedeva ridere.
Doveva essere un’azione così umana, eppure su di lui risultava innaturale e spaventosa.
Inspirò profondamente aria, cercando di non esplodere, inveendo contro quella stupida donna e la sua stupida curiosità. Perché si impegnava con tutte le sue forze a disturbarlo e a fare la sovversiva? Serviva a qualcosa, quando sapeva benissimo che il risultato finale sarebbe stata lei depressa per la sua probabile condanna a morte?
Donna pazza e insensata.
“Te ne vai a fanculo?” le berciò contro, irritato.
“No! State parlando della mia sorte e non intendo restarne tagliata fuori.” I loro occhi si fronteggiavano in una silenziosa battaglia.
“Continua a fidarti di me.” La canzonò con un ghigno beffardo.
“Non puoi chiedermi questo.”
Non poteva assolutamente. Lui la fiducia non la riconosceva come valore. Per lui era una divertente barzelletta, che, quando stancava, andava scaricata nel cesso.
“Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando.”
“Non prendo ordine da te.”
“Vai di là. Ora.” Freezer si era intromesso nella disputa con la sua incontestabile autorità ed era stata costretta a calare la testa.
Era un dispotico tiranno glaciale e insensibile.
Lo stomaco ancora doleva al ricordo di quei pugni. E se per non averlo davanti, avesse dovuto recitare la parte della remissiva, l’avrebbe fatto, anche se per poco.
Ora lei abitava con Vegeta. Poteva stare con lui ventiquattro ore al giorno e sicuramente non sarebbero mancate occasioni per dimostrarsi forte.
Prima di abbandonare il locale il suo ultimo sguardo fu per Satan.
Pover’uomo, costretto a dover obbedire a entrambi quei mostri e omicidi dei valori umani. Ma chissà cosa aveva combinato per essere in debito con Freezer…

Aveva guardato la televisione per circa mezz’ora e loro ancora non erano usciti dalla cucina.
Spense l’apparecchio ormai annoiata; forse quella era stata l’unica cosa che non le era mancata. In carcere si poteva assistere ogni giorno a vari ed intensi squarci di esasperata vita quotidiana e lei non si ricordava un fiction o un film che l’aveva emozionata  più di una detenuta che si fingeva uomo per essere trasferita nella sezione maschile del carcere e poter incontrarsi carnalmente col suo amante.
Era ancora un immagine troppo vivida nella sua memoria per non strapparle un malinconico sorriso divertito.
“Allora io vado, ci vediamo Venerdì prossimo in tribunale”.
Dalla porta chiusa della cucina, uscì il giudice con in mano la sua borsa da lavoro. Aveva una voce così imponente e così profonda che risultava difficile immaginare potesse essere anche tremante.
Nessuno si degnò di accompagnarlo alla porta d’ingresso e lui ne sembrava rasserenato. La guardò imperscrutabile, salutandola con un cenno del capo, poi uscì immediatamente da quell’inferno di cemento.
Non aveva ricambiato il saluto e, benché fosse da maleducati, non poteva concepire l’idea di parlare con un uomo dall’integrità dubbia.
Il pensiero del brontolio del suo stomaco fu accolto con grande gaudio come diversivo per ingannare il tempo. Quella mattina non aveva fatto colazione e ora stava morendo di fame anche se erano appena le undici.
Vivere con Vegeta si era rivelato estremamente spossante. Tutti, ma proprio tutti si dovevano adeguare ai suoi ritmi e abitudini, non poco discutibili, nonché ai suoi… come si diceva? Scherzi? Ripicche? Divertenti passatempi?
E per altri sei giorni, sei lunghissimi giorni, era costretta tra quelle quattro mura con quel troglodita, vestito da uomo evoluto. Cosa avrebbe fatto? Con chi avrebbe parlato? Lei aveva bisogno di interagire, comunicare. In cella aveva discusso sempre con l’altra detenuta. Erano discorsi pressoché inutili e insensati, ma avrebbe pagato per poterne fare di nuovo uno.
Vegeta non era tipo da conversazioni informali, rilassate e rilassanti. Se gli chiedeva l’orario, era sicura che lui avrebbe trovato qualunque modo per darle una risposta infarcita di pessimismo.
“Vedo che hai una vita impegnata.” Il tono di voce di Freezer era difficile da non riconoscere e impossibile da non odiare.
L’aveva sorpresa grattarsi la pancia con una discrezione, invidiata da ogni camionista, e sbadigliare sonoramente. Un giorno le avrebbero impedito di respirare, se lo sentiva!
Stavano l’uno affianco l’altro, sorridendo con ironia nella sua direzione.
Eppure nelle espressioni si assomigliavano parecchio …

La compagnia di Vegeta era tutto tranne che soffocante.
Per ribadire il suo totale disinteresse per la sua causa, aveva passato l’intero pomeriggio a fare flessioni o altri esercizi ginnici sul pavimento e a giocare con la console.
Avvocato? A lei sembrava più un adolescente svogliato che non aveva voglia di fare i compiti; peccato che lei non era una noiosa versione di latino da abbandonare: lei doveva essere il suo primo pensiero la mattina, appena alzato dal letto, e il suo ultimo interrogativo la notte, quando si coricava.
Il pranzo? Era una parentesi che doveva essere assolutamente dimenticata!
Si era cimentata in cucina, per la prima volta in tutta la sua vita, così per passare tempo, e aveva bruciato un poggia-pentole e si era dimenticata di mettere il sale nell’acqua della pasta.
Gli aveva regalato un altro motivo per deriderla. Si, perché lui, spettatore del disastro culinario, non aveva mosso un dito. Si era goduto la scena dallo stipite della porta e poi, scemata la sua autostima, le aveva detto di aver chiamato il servizio a domicilio da prima che lei incominciasse a cucinare. Se non era quella stronzaggine, cos’altro poteva esserlo?
Se non era per schernirla, il solo altro motivo che lui contemplasse per rivolgerle parola era smontarle l’entusiasmo e farle rodere il fegato
“Stasera viene Irene per dormire.” Neanche lui era molto convinto di quello che aveva appena detto, ma finse di crederci per farvi credere lei.
Bene! Pure per scema ora la prendevano. Era abbastanza grande e smaliziata per sapere perfettamente che il verbo dormire era stato usato nel suo significato metaforico, non certo letterale.
In lei era nato il desiderio di non farli ‘dormire’. Non per qualcosa di specifico, solo perché la pensava fosse azione divertente e ricreativa o quanto meno potesse distrarla dall’ozio.
Quindi non c’era da trovare nella sua smania di saltare a ripetizione nel letto, allorchè Vegeta e Irene vi si fossero coricati sopra, nessun significato allegorico e nessun secondo fine: voleva solo concedersi svaghi puerili.
“Non mi interessa chi viene. Non mi interessa di te né della tua vita né delle tue donne.” Asserì ferma e decisa.
‘Stasera viene Irene per dormire.’ Lui non sapeva essere convincente quanto lei nelle menzogne e poi diceva di essere avvocato.
“Però se viene Irene, anche io voglio portare qualche mio amico per dormire.”
Sbatté i pugni contro il muro, intrappolandola tra le sue braccia.
Aveva un’ espressione da toro infuriato. Poteva vedere pure le pupille dilatate, le narici ingrossate e le vene pulsare.
Perché aveva reagito così?
“Geloso?” Insinuò, vittoriosa.
Perché aveva reagito così? Lui non poteva essere geloso.
“Non di chi non esiste.” Aveva cercato di dissimulare l’irritazione con un sorriso, ma dedicarsi alle apparenze, gli aveva fatto pronunciare parole sbagliate.
Il ghigno sul volto della ragazza si accentuò e i suoi occhi si illuminarono.
“Vuol dire che sei geloso di quelli che esistono. Sei geloso. Sei geloso.”
Era contenta. Era attonita.
Perché era contenta che lui fosse geloso di lei? Perché sentiva quel senso di rilassatezza in corpo e le membra leggere?
Infuocati dalla luce del crepuscolo, i suoi occhi celesti riflettevano le sue indecisioni e i suoi tormenti interiori.
Poteva distintamente percepire il suo battito accelerato per la vicinanza di Vegeta e i suoi sensi erano completamente inebriati dal suo profumo di uomo curato.
Le sue pupille erano un monumento all’imperscrutabilità del futuro. Quali pensieri celavano, quali azioni occultavano, non avrebbe mai saputo dirlo con certezza, ma le piaceva ipotizzare, tentare di indovinare.
Voleva che dietro quegli occhi color carbone vi fosse il suo stesso desiderio di una passione senza costrizioni, voleva che dietro i suoi occhi si fossero arrese le resistenze. Così si era ritrovata ad idealizzare un futuro impossibile per chi come loro viveva nel presente e viveva nell’orgoglio.
Si avventò sulle sue labbra come un disperato, come se non avesse mai conosciuto donna e da nessuna fosse apprezzato.
Si avventò su quelle labbra perché aveva il bisogno di dimostrare a sé stesso di essere ancora padrone delle sue sensazioni.
Figurarsi se era geloso, proprio di quella donna.
Rubarle un bacio contro voglia e poi staccarsi da lei, voltandole le spalle e rinchiudendo l’accaduto nel dimenticatoio.
Ma non succedeva. Non si staccava, non si voleva staccare da lei.
Si addossò alla parete e la premette col suo corpo. Lui non era coinvolto da quella donna. Lui dichiarava la sua supremazia. Farla cedere, farla illudere e farla godere e poi abbandonarla nel momento di massimo trasporto.
Solo un oggetto nelle sue mani, solo una cavia di un test infame.
Solo Bulma, niente più.





Note autrice (muahahah, è vecchia come battuta, ma non perde mai il suo fascino xD) :
Mi sa che è da un bel po’ di tempo che non aggiorno, mi sa…è una vaga sensazione…
Stranamente la parte iniziale di questo capitolo mi aveva colpito come un fulmine, ma poi mi sono bloccata sul resto. Non succede niente di che, però era tanto per arrivare al prossimo capitolo, spero che comunque vi piaccia. U_U
Potere dell’ OOC vieni a me!
Ho cercato di giustificare la relazione diversa tra Vegeta e Freezer, ma temo davvero di aver calpestato con poco gusto i veri caratteri dei personaggi. Bel problema, ma non sapevo proprio cosa fare! D:
La mia mente deviata ama così tanto il personaggio di Freezer che lo preferisce ovviamente al personaggio di Re Vegeta, benchè più o meno affascinante.
Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto, chi ha preferito, seguito o ricordato la storia, siete sempre di più e mi rendete so happy, e soprattutto grazie a chi recensisce, facendomi sapere le loro opinioni e i loro consigli.
Amore mio grandissimooooo! (tu sai che mi sto rivolgendo a te xD), un grazie speciale va a te, che non mi hai ancora mandato a fanculo e che sei sempre dolcissima. Questo capitolo è tutto per te. <3
Forse non è il massimo ma è fatto con affetto. ^^
Grazie di tutto e alla prossima. :3

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Capitolo 6
*** 6.6 ***


Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l'altro si allontana...
Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai...
Amore non muta in poche ore o settimane ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio...
Se questo è errore e mi sarà provato io non ho mai scritto...
E nessuno ha mai amato...
-- 
William Shakespeare 


Bulma Brief era una ragazza unica nel suo genere, così unica da essere incomprensibile a tutti gli altri, anche a chi si ostinava a capirla con pazienza e rassegnato affetto.
Appostata dietro un folto cespuglio, era concentrata nell’udire le voci provenienti dalla panchina al di là della siepe che la proteggeva.
Un’esasperata Chichi era stata trascinata in quella pazzia contro la sua volontà e stava ora sbuffando e innervosendosi.
“Riprovo a fare la domanda: che cosa stiamo facendo qui?”
Erano carponi sulla terra umida della piccola aiuola del parco cittadino. Le ginocchia stavano macchiandosi di quel marrone fangoso e incominciava a stancarsi di dover parlare sottovoce.
“Ti ho detto che mi sto interessando di botanica e mi piace osservare da vicino questo cespuglio di girasoli.”
Povera piccola ingenua e ignorante Bulma, gliel’avevano mai detto che non esistevano cespugli di girasoli?
“Fortuna che ci sei tu. E io che pensavo fossero margherite gialle.”
Fissò per un breve istante quell’ammasso verde e informe di natura. La sua amica aveva proprio ragione: erano margherite.
“Si studia per imparare, per conoscere.” Rispose ovvia in un sussurro tanto fastidioso e impercettibile.
Non l’aveva degnata neanche di una fugace occhiata. Era rimasta imperturbabile a cercare di intendere ciò che stava succedendo su quella panchina.
I suoi occhi turchesi avevano sfumature verdi gelosia e si stava torturando il labbro inferiore da ormai cinque minuti buoni.
Bulma era stata tante cose nel corso degli anni: la sua migliore amica, la sua peggiore nemica, la sua confidente più fidata, l’avversaria più temibile, il conforto più spontaneo, l’aiuto più utile; ma mai era stata una specie di ninfomane assetata di controllo maniacale.
Da quando erano entrate al liceo si comportava in maniera strana quella ragazza. Sempre più irascibile, sempre più nervosa, sempre più assurdamente agguerrita. Ma per cosa combatteva ancora non riusciva a spiegarselo.
Sapeva che il nemico era un ragazzo con i capelli e gli occhi scuri, ma non capiva il perché. Ai suoi occhi era sempre parso così inutile e antipatico e, benché Bulma diceva di essere d’accordo con lei, le sue azioni dimostravano il contrario.
“Quindi non stiamo spiando…”
Si ritrovò  una mano schiaffata contro la bocca e due occhi ardenti di collera. Quell’espressione attenta da toro imbufalito che punta la sua prossima vittima.
“Nessuno. Non stiamo spiando nessuno.” Comandò con voce convinta e ferma. Più risultava convincente più poteva esserne convinta.
“Strano come le apparenze ingannino. E se non state rompendo le palle a me, allora che fate col culo all’aria dietro un cespuglio?”
Il sangue gli si gelò nelle vene e al loro cuore mancò un battito. Sentire quella voce era stato più spaventevole che vedere un film horror.
Erano state colte in flagrante con le mani nel sacco e ora dovevano dare spiegazioni inopportune a chi giustamente le reclamava, poco importava se lui fosse la persona più ingiusta di quel mondo.
Si alzarono in piedi e Bulma si portò di fronte a lui, fronteggiandolo a testa alta e sguardo deciso.
L’ultima volta che si era avvicinata così tanto a quella bocca velenosa, le sue labbra erano state violate. E nessuno avrebbe potuto immaginare quanto l’avesse odiato per averle strappato quel frivolo piacere che non voleva provare.
Questa volta però era pronta a difendere le sue prepotenti convinzioni. Se l’avesse baciata, gli avrebbe staccato la lingua a morsi.
“Studio botanica. Mi piacciono le piante e l’erba.” Dichiarò, ostentando un presuntuoso sorrisino di vittoriosa sconfitta.
“Non lo dire davanti a qualche sbirro, mi raccomando.”
Le schiacciò l’occhiolino e rise sommessamente. Perché doveva travisare qualunque cosa lei dicesse?
Aveva provato ad aprirsi a lui, a farsi accettare e farsi capire e capirlo a sua volta, ma qualunque sua parola si trasformava in un ovvio doppio senso.
Quel ragazzo era impossibile e incomprensibile. E a lei gli sembrava di sbattere la testa contro un muro duro e incrollabile.
Non si faceva problemi a baciarla e poi scomparire per giorni, facendosi trovare poi in compagnia di un’altra ragazza.
Non gli importava niente di lui, gli dava solo fastidio il fatto che certe volte pareva scordarselo, troppe volte.
“Non ti sopporto. Non ti voglio più vedere.”
“Ne riparliamo la prossima volta che mi seguirai. Perché sai che succederà.”
Si divertiva a fare Cassandra? Profetizzare avvenimenti futuri che non erano né piacevoli né desiderati?
“Io non ne sarei così convinto, fossi in te, Ice. Non ho motivo di farlo.”
Si avvicinò maggiormente, ma lei non indietreggiò. Se pensava di incuterle timore si sbagliava. Sbagliava a pensare che lei si sarebbe ritratta, scottata dal suo sguardo penetrante. Preferiva piangere una sconfitta che una fuga.
Gli venne incontro fino a quando i loro nasi non si sfiorarono. Gli alitò direttamente sul volto.
“Tu mi vuoi Brief, non negartelo.”
Chichi osservava incredula quella scena. Si beccavano come bambini dell’asilo e si credevano già adulti.
Quel Vegeta era sempre più presuntuoso e sicuro di sé e lei non riusciva proprio a tollerarlo, ma sembrava essere anche molto sveglio e perspicace. Un ragazzo troppo poco disorientato.
Sapeva perfettamente come muoversi e cosa dire. Sicuramente l’esperienza con le donne non gli mancava.
Tutte le ragazze dell’istituto avevano pensieri poco pudichi su di lui e lei non voleva che Bulma passasse per una di quelle bambine, affascinate dalla bellezza e dall’atteggiamento da uomo vissuto.
Lei orgogliosamente si poteva dire immune al suo ascendente. Non vi era niente di bello in un ragazzo spocchioso con i modi d’adulto, non per lei che aveva appena quindici anni e voleva avere affianco un ragazzo con cui crescere assieme, passo dopo passo, problema dopo problema. Un tipo come Vegeta avrebbe affrettato i tempi e le avrebbe bruciato la giovinezza.
“Ice tu vuoi che io ti voglia, non negartelo.”
Le sfiorò le labbra con le sue e si allontanò. Lo sguardo tremante della ragazza e le guancie color porpora potevano considerarsi già dei trofei.
“E intanto sei tu che ti senti tradita, perché mi bacio con un’altra.”



Muoveva ritmicamente il piede su e giù, destra e sinistra. Abbandonata sul divano, come una coperta di lana in primavera, cercava di ingannare e il tempo e i pensieri mangiucchiandosi le unghia e strappandosi le pellicine.
Fatalità aveva voluto che, mentre stava esplorando con le mani il petto muscoloso di Vegeta, Irene avesse suonato alla porta, evitandole di commettere l’ennesimo errore della sua gioventù che sembrava infinita.
Si doveva per forza avere le rughe per essere sagge e assennate?
Quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che lei si accorgesse che quella sensazione che gli attanagliava lo stomaco non era attrazione ma solo una noia capricciosa?
Sicuramente un paio d’ore non sarebbero bastate, altrimenti lei non avrebbe perso ancora tempo a sceneggiare nella sua testa cosa probabilmente stesse accadendo in quella camera da letto.
Avrebbe tanto voluto addormentarsi, sopirsi. Ma poi inevitabilmente il risveglio l’avrebbe sorpresa, portando con sé i tormenti precedenti. Tormenti che sembravano voler andare in replica ogni giorno, senza speranza di distrazione.
Perché una volta riaperti gli occhi l’avrebbero accolta le stesse immagini del giorno prima. E allora perché non distorcerle almeno per un po’, quando, aiutata dal buio, bastava solo un bicchiere di rum?
Si alzò stanca di far niente e andò verso lo stipetto dei liquori.
Per chi, come lei, era abituato a bere birra in lattina dall’inconfondibile aroma di piscio, quell’ampia scelta di ottime e aromatizzate bevande alcoliche era un sogno impossibile.
‘El dorado 25 years old’. Ancora nella sua confezione originale con tanto di marchio di certificazione, quel gustoso rum faceva spettacolo di sé, ammaliandola come avrebbe potuto fare il canto di una sirena.
Sicuramente quella bevanda aveva un grande valore e sicuramente Vegeta ne era orgoglioso e geloso e sicuramente le sarebbe parso più gustoso il sapore se sapeva esserlo accompagnato da una giocosa vendetta.
Prese la confezione e l’aprì senza cura e senza delicatezza. Si abbeverò direttamente dal collo della bottiglia.
Quelle gocce di ambrosia ardevano la sua gola e infiammavano il suo stomaco digiuno. Aveva un sapore dolce e fruttato, leggero sul palato, e scivolava come se fosse acqua e non un super alcolico.


Il fastidioso rumore di un telefono occupato. Mille chiamate effettuate e nessuna risposta ricevuta.
Si sentiva disperatamente sola. Sola in una casa piccola e accogliente e estranea.
Da quando i suoi genitori si erano suicidati, di lei non era rimasto che il fantasma di un dolore troppo grande e incomprensibile.
Aveva dato per scontato che le sarebbero sempre stati accanto, non lasciandosi mai sfiorare dall’idea che sarebbero potuti venire a mancare. E anche se sapeva di assurdo, sperava di continuare a sognare fino il più tardi possibile.
Chichi dormiva serena, avvolta nel lenzuolo chiaro di fresco cotone. Aveva fatto molto per lei. L’aveva accolta a casa sua, le aveva dato una spalla su cui piangere, e aveva approfittato della sua ferma pazienza e dalla sua incrollabile figura. Svegliarla nel bel mezzo della notte, assillandola con gli stessi problemi con la quale la torturava durante il giorno le sembrava ingiusto e troppo pretenzioso.
Compose nuovamente quel numero e aspettò di sentire quella voce.
Una lacrima e poi due le solcarono il viso. Le aveva promesso che ci sarebbe stato sempre ogni volta che lei ne aveva bisogno, anche quando era notte e quando dormiva, ma ogni volta che provava a cercalo pareva scomparso nel nulla e di lui rimaneva solo la più amara della bugie.
“Pronto?”
Erano le quattro del mattino e la sua voce le era suonata sveglia e attenta, poco adatta a chi avrebbe dovuto essere sazio di sonno.
Tirò col naso e si strinse all’angolo del letto. Aveva risposto; aveva sentito la sua voce; ora che gli avrebbe dovuto dire?
“Vieni.” Sussurrava tra i singhiozzi.
“E’ tardi, ci vediamo domani. Prova un po’ a dormire.”
L’aiuto di Vegeta era stato provvidenziale. Erano giorni che bramava riposarsi ed erano giorni che non ci riusciva, se non prendendosi quei sonniferi che lo psichiatra le aveva prescritto.
Il suo corpo era smosso da forti tremori e parlava faticosamente. Ogni parola le moriva in gola, allorchè cercava di pronunciarla e un singhiozzo la vinceva.
“Non ce la faccio. Ti prego, vieni. Non voglio stare sola.”
Sospirò esasperato e cercò di mantenere un tono pacato, era così diverso dai suoi canoni.
“Vengo a fare cosa? Non ti lasciano uscire di casa nel cuore della notte.”
“Non mi lasciare per favore. Vegeta ti prego, vieni” Scoppiò in un pianto disperato e incontrollato.
Non si riconosceva neanche più. Quel concentrato di vitalità e sogni era ora un ammasso informe di depressione e farmaci, senza più un volto, se non era questo una maschera di sofferenza mal celata.
Non le importava più rendersi debole davanti a qualcuno. Se serviva questo per avere qualcuno accanto, lei si sarebbe abbassata a tanto. Non aveva senso avere l’orgoglio, quando non si avevano più i propri genitori.
“Resto al telefono, finchè non ti addormenti.”
“Ti ho detto che devi venire.” Urlò senza rabbia e con molta delusione.
Chichi entrò preoccupata dalla porta e la vide piccola e fragile, sopraffatta da quel mondo che lei voleva tanto cambiare.
Era orfana di madre e capiva il dolore di Bulma. Ognuno reagiva in maniera differente alle tragedie, ma lei come deterrenti per andare avanti aveva avuto la consapevolezza che sua mamma l’avesse lasciata non per propria volontà, ma per motivi più grandi di lei e l’affetto di suo padre che mai gli era mancato.
La sua amica ora si ritrovava sola e tutto l’amore che poteva dargli non era certo quello che gli avrebbero potuto dare i suoi genitori.
Si avvicinò e l’abbracciò, stringendola, facendola rimanere senza fiato, posandola sul suo giovane e acerbo petto.
Non era la prima volta che chiamava il suo ragazzo per avere conforto e ogni volta succedeva il medesimo copione: il tono tremante della sua speranza, il rumore sordo delle illusioni che si rompevano e gli strazianti pianti di delusione.
In cuor suo desiderava che Bulma si fosse già stancata di Vegeta e continuasse a stare con lui per non perdere un’altra persona della sua vita. In cuor suo desiderava che tutte le lacrime di Bulma fossero spese per la morte dei suoi genitori e non per il comportamento di quel bastardo.
“Ci sono io ora, fallo andare a dormire.”
Ricambiò la stretta e fece scivolare il cellulare dalle sue mani. Cadde sul pavimento, facendo rumore, ma nessuno se ne interessò.
Stettero in quell’abbraccio di consolazione per breve tempo. Gli occhi di Chichi si chiudevano autonomamente, senza il suo consenso, e lei non voleva trattenerla oltre. Si salutarono e si augurarono la buonanotte, sperando che potesse essere veramente tale.
Di nuovo sola con sé stessa, coricata prona sul letto, notò il telefono abbandonato a terra e la chiamata lasciata aperta.
Non l’avrebbe mai richiamato, cos’altro poteva dire per rendersi ridicola?, ma magari se era ancora in linea poteva augurargli la buonanotte e lui avrebbe potuto stupirla con qualche piccolo gesto molto apprezzabile.
Si avvicinò la cornetta all’orecchio e stette in attesa di sentire alcuni rumori per capire se fosse sveglio o meno.
Un urlo femminile, tanti sospiri, il suo nome pronunciato mille volte con voce sognante…



Tra un sorso e un ricordo non si accorse che e la bottiglia e la sua lucidità erano finite e si era ritrovata seduta sotto il tavolo del soggiorno a ridere sola, piangendo amare lacrime.
Quel Vegeta non sarebbe mai cambiato.
Se si aveva bisogno di stare tra le sue braccia, lo si trovava tra le gambe di una donna.
Dopo molti anni si era ritrovata nella situazione dalla quale era voluta scappare. Era stata quella più veloce o non ne era mai veramente venuta fuori?
Ieri come oggi sentiva di aver bisogno di qualcuno per andare avanti, anche dopo aver fatto tutto per allontanare il mondo.
Era diventata forte, aveva vissuto e aveva capito che bisognava contare solo su sé stessi e che nessuno sarebbe stato coinvolto nella sua stessa causa con l’ardore e la passione che poteva metterci lei, tranne il proprio nemico, l’unico che veramente viveva da protagonista la stessa lotta.
Accaldata e sudata, gattonò, andando in cucina. Il suo stomaco vuoto brontolava e si contraeva.
Aveva cercato di alzarsi, ma, se non si reggeva al muro, cadeva preda di un forte capogiro. Seduta a terra si liberò in una sguaiata ilarità e ingiustificata. Più batteva il sedere sul freddo pavimento più pareva divertirsi.
Era una prassi semplice e ormai istintiva: faceva forza con le braccia, rideva, barcollava, rideva, si appoggiava alla parete, rideva, la stanza incominciava a girare, rideva, cadeva in terra e in fine, per essere originale, rideva.
Ripetè il ludico passatempo un paio di volte e alla terza, quando si aspettava come giaciglio un duro e non confortante parquet di legno, si sentì afferrata da due forti e calde mani.
Era così piacevole essere fermata, prima di toccare il fondo del baratro. Era così piacevole reggersi in piedi e non affaticarsi per mantenere l’equilibrio.
“Possibile che non ti possa mai lasciare sola che combini casino?”
“E allora perché mi abbandoni sempre? Non te n’è mai fottuto un cazzo di me.”



“Sveglia mocciosetta, è già mezzogiorno.”
Strizzò gli occhi, importunati dalla luce, e gustandosi la bocca impastata si accorse di quel sapore amaro e disgustoso. Sapeva di acido e masticato.
Voltò la testa verso sinistre e si risolse a riprendere sonno. Non credeva possibile potersi alzare con quel dolore martellante alle tempie e quel rumoroso concerto nella sua testa.
“Non puoi dormire tutta la giornata.”
Una voce carezzevole le impediva di raggiungere la pace a cui tanto aspirava e la blandiva con un’allettante promessa di una tazza di caffè.
“Caffè brasiliano, tostato perfettamente, con poco zucchero e un cucchiaino di panna montata, proprio come piace a te”. Le sembrava di essere in una televendita.
“E’ mio?” Chiese con voce assonnata e speranzosa. Quel risveglio poteva anche considerarsi pseudo-piacevole.
Aprì gli occhi e lo vide annuire con la testa, rivolgendole un sorriso carico di…carico di?
Si alzò intronata, sedendosi sul materasso, e allungò il braccio per prendere la tazza che si mostrava così allettante.
La vide allontanarsi da lei, poggiarsi sulle labbra di Vegeta e rigettare il suo contenuto nella sua bocca.
Di bastardaggine. Un sorriso carico di bastardaggine. Era l’unica emozione che lui potesse provare senza limiti né condizionamenti.
Si imbronciò e incrociando le mani al petto lo guardò trucemente.
“Perché l’hai bevuto? Era mio!”
“Bizzarro! Ho pensato la stessa cosa quando ho visto l’ El dorado 25 years old  a terra.”
“Era buono sai?” Insinuò maligna con un tono scherzoso.
“Per questo l’hai vomitato su tutto il pavimento della cucina?”
Realizzò qualche secondo dopo il significato di quelle parole. Parlava di un’azione avvenuta quella notte e lei non si ricordava assolutamente niente. Si sentì battuta. Chissà cosa aveva fatto o detto o come ora lui si sarebbe sentito forte di quella sua debolezza.
“Irene dov’è?”
“Non sono affari tuoi.” Rispose lapidario, avviandosi in cucina e lasciandola sola nella stanza.
Si rigirò sul materasso e, guardandosi meglio intorno, si accorse di essere nella stanza di Vegeta, stesa sul suo letto e coperta dalle sue lenzuola.
Come mai era lì? Non avrebbe dovuto essere sul divano, accucciata a una triste coperta di pile?
Si alzò e vagò per la casa in cerca di lui e di lei.
In cucina non c’era. La finestra era aperta ed entrava un’aria pungente e l’odore di pulito e candeggina le colpiva il naso. Non gli aveva appena detto che aveva vomitato sul pavimento di quella stanza?
La casa sembrava vuota, disabitata. Era sicura che non fosse uscito, avrebbe sentito altrimenti la porta sbattere.
Di fronte al bagno principale c’era una porta. L’aveva notata già nei giorni precedenti, ma l’aveva sempre trovata chiusa a chiave e la sua curiosità era stata costretta a tacere.
L’insistenza era sua caratteristica. Abbassò la maniglia e, con suo sommo stupore, la vide muoversi in avanti: Vegeta stava seduto compostamente su una grossa poltrona di pelle e sfogliava un grosso libro dall’aspetto minaccioso.
Computer, libri, scrivania massiccia. Il suo ufficio.
Non aveva abiti eleganti, ma quell’aria concentrata l’aveva dipinto ai suoi occhi come un professionista affidabile e sicuro, come neanche la giacca e la cravatta avevano fatto.
“Bussare: battere su una superficie rigida le nocche. Provaci, è facile!”
Entrò dentro e si sedette sulla sedia di fronte la scrivania. Sorrise radiosamente nella sua direzione e incominciò a dondolare.
Indossava uno stretto e scuro pantalone della tuta che gli arrivava fin sotto i piedi e il petto era libero di farsi ammirare.
Si era creato tra loro un indifferente silenzio, pregno di imbarazzo. Non aveva scollato gli occhi da quel libro per guardarla e non aveva importunato la bocca per intimarle di lasciare il locale. Non aver recato fastidio a Vegeta la indisponeva più di quando era lui a infastidire lei.
“Poteva restare.”
“Grazie per il permesso.” Sbottò minacciosamente derisorio e ironico. Sul suo volto troneggiava quel ghigno beffardo di chi si diverte a sentire cazzate.
Un delirio di onnipotenza celato in ogni suo discorso. Sempre abituato a comandare, probabilmente ignorante del concetto di ubbidienza.
“Perché?”
Vegeta di limiti ne aveva tanti. Ed oltre a trincerarsi nella sua fortezza di superiorità e egocentrismo, era incapace di intendere il significato della parola aiutare.
“Ti ho già detto che non sono cazzi tuoi.” Non c’era agitazione nella sua voce, solo l’abitudine di una riservatezza odiosa e odiata.
Non era una coincidenza l’assenza di Irene, non era un caso né la cucina pulita né l’aver dormito nel suo letto. Quel diritto penale a cui si stava dedicando con tanta attenzione non era casuale. “Cos’è cambiato?”
“Il tempo. E’ più nuvoloso.” Non sarebbe riuscita a distrarla con discorsi insensati e inutili.
Se c’era una cosa del suo rapporto con Vegeta che l’atterriva, questa era la loro silenziosa intesa. Non c’era bisogno di discorsi precisi e articolati, con una semplice parola uno intuiva i più personali pensieri dell’altro.
“Non ti facevo così codardo.” Dare spiegazioni lo spaventava. Giustificare i suoi comportamenti lo agitava.
“A me non fotte niente di te e tu continui a crearti illusioni. Come vedi non è cambiato niente- chiarì freddo e serio- ed è stata Irene a pulire la cucina e ad insistere per farti dormire sul letto.”
Con una frase era riuscito a deluderla. Era bravo in quel gioco, quasi imbattibile.
Prese il pacco di sigarette e ne estrasse una, poi lo porse alla ragazza.
Con lo zippo infiammò l’estremità e poi lo lasciò sulla scrivania. Entrambi stavano guardandosi, senza parlare, nascondendosi da una poco visibile barriera di fumo cancerogeno.
Rivissero quel momento, quel piccolo attimo di rilassatezza che in passato si erano concessi molte volte.
Fumare assieme era un qualcosa di semplice e per quanto l’azione in sé fosse sbagliata, sembrava dannatamente giusta ed essenziale, quando col fumo, si sputavano fuori anche parole piacevoli da ascoltare.
Poteva dirsi che Vegeta avesse conosciuto Bulma in quella maniera. Era sempre stato diverso dagli altri ragazzi.
La prima volta che aveva scorto quella ragazza dal singolare colore di capelli e da un ingegno non comune ne era rimasto colpito. Gli altri sedavano la sua muta curiosità, dicendogli che era una bacchettona moralista, una pianta grane e sicuramente lui non avrebbe saputo sopportare una ragazza del genere.
La prima volta che aveva offerto a Bulma la prima sigaretta, vide in lei la volontà di spogliarsi della sua reputazione.
Col tempo aveva compreso che lei non mirava a essere una scassa coglioni a livello olimpionico. Era una ragazza che sentiva in maniera esagerata le pressioni della società e si mascherava da quello che gli altri gli ordinavano, perché erroneamente l’aveva confuso con il suo personale desiderio.
Era molto idealista e spesso si perdeva tra le vie di un’utopica città. Era molto idealista e questo non andava bene ai ragazzi che ovviamente volevano vivere il presente reale, che fosse fatto questo di merda o di oro.
La prima volta che aveva baciato Bulma, sapeva di essere la persona più superficiale del mondo. Non gli interessava niente del groviglio di pensieri nella testa della ragazza, lui voleva solo il suo corpo. Non si faceva condizionare dalle chiacchiere, però le ascoltava con piacere. Perché se si vinceva una convinzione generalizzata, si diventava un dio.
Amava la sfide e lei lo era.
‘Non dire stronzate. E’ una bambina convinta. Quella vuole renderti un giusto uomo del domani.’
‘Non sarà lei a cambiare me, ma io a cambiare lei.’

“Il processo andrà bene.” Le sorrise sghembo, trasmettendole una sicurezza che non aveva mai ricevuto neanche con i più insistenti incoraggiamenti.
La prima volta che aveva baciato Vegeta, si era sentita la ragazza più superficiale del mondo. Non le interessava niente se lui era un puttaniere conclamato e acclamato, non le importava niente che fosse un cattivo ragazzo, uno da cui si doveva stare lontane.
Vegeta voleva solo scopare e a lei non interessavano i suoi sporchi scopi. Si era dichiarato apertamente per quello che era in realtà. Non era falso come tutti gli altri. Non era debole come tutti gli altri. Non era pauroso come tutti gli altri.
La prima volta che Vegeta le aveva offerto una sigaretta, aveva accettato senza pensarci, poi aveva raccontato tutto a Chichi.
Amava le sfide e lui lo era.
‘Ma sei scema? Ti prego Bulma non diventare come lui, non farti cambiare.’
‘Non sarà lui a cambiare me, ma io a cambiare lui.’

“Grazie, Vegeta.” Sussurrò sommessamente, arrossendo.


Tutto aveva taciuto per dieci anni, ma nel silenzio dei loro rumorosi pensieri e tra le caotiche strade della città erano fuggiti l’uno dall’altra, per poi convenire di essersi rincorsi e non allontanati. Si erano ritrovati. E non era stata una casualità. Entrambi si cercavano involontariamente.
Tutto era cambiato nel corso di dieci anni. Non andavano più a scuola, ma solo ora stavano imparando una morale che avevano etichettato come inopportuna.





Buonasera mondo! :D
Un altro capitolo dove effettivamente succede poco e niente, però vi confesserò: è stato un parto. o.O
Sto cercando di svelare, a piccoli passi, troppo piccoli forse, il passato, legandolo al presente da un filo rosso indistruttibile; e non so se sto chiarendo le idee o sto mettendo solo confusioni, no perchè io a volte mi sento confusa...xD
Il numero di quelli che seguono la storia aumenta e a me viene il panico. Non vorrei deludere nessuno e cerco sempre di dare il meglio di me.
Vorrei ringraziare tutti quelli che seguono/preferiscono/ricordano la storia e chi ha speso un po' del suo tempo per farmi sapere cosa ne pensava, aiutandomi a migliore. <3
Anche questo capitolo lo dedico a PZZ20. <3 Un giorno te ne dedicherò uno bellissimo e intenso non temere. è.é
Spero che vi sia piacuto e non esitate a commentare se vi va. Acetto tutto, complimenti, insulti, maledizioni, prese in giro. xD Sono disponibile. u_U
A presto! :3




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Capitolo 7
*** 7.7 ***


Tutto l'apparato giudiziario qui descritto non trova riscontro nella realtà. E' inventato.

Ringraziono 22volteME per avermi consigliato questa soluzione.


Il solo fondamento della verità è la possibilità di negarla. 
Luigi Einuadi

Mentre premeva a tavoletta l’acceleratore, raggiungendo i 120 km orari, sentiva il cuore battere all’impazzata.
Per arrivare veloce alla macchina, aveva corso, aveva corso, come un disperato, aveva corso, come un leopardo in una scena di caccia e ora era affaticato.
Quel martellio nel suo petto era affaticamento, non era preoccupazione, non era apprensione.
Per cosa? Per chi poi? Nel suo mondo esisteva solo lui. Lui solo e unico oggetto dei propri sentimenti.
“Porca puttana.”
Maledetti semafori rossi e maledetti novellini che li rispettavano tutti.
Perché tutta quell’agitazione? Quella fottutissima frenesia di volere essere con lei?
Il verde scattò e, con lui, la sua macchina. Sapeva quella strada a memoria, riconosceva perfettamente ogni negozio, ogni palazzo, ogni villetta che passava sotto i suoi occhi.
Sapeva quella strada a memoria, ma non gli era mai sembrata così lunga.
Sapeva non esserla così lunga, eppure…
Arrivò sgommando alla sua abitazione e abbandonò celermente l’abitacolo appena la vide entrare nel cancello della villa.
Fortuna che l’aveva lasciata sola a qualche chilometro di distanza da quella casa e fortuna che lei avesse probabilmente urlato, imprecato contro di lui per diverso tempo.
Corse nella sua direzione e l’afferrò per un braccio, buttandosela sul suo petto.
Se la sua presa l’aveva colta impreparata e distratta, impedendole la ribellione, l’odio per quel contatto  non sarebbe stato taciuto.
“Ti sono mancato?” Voleva essere sicuro e tranquillo, ma quell’ignobile fiatone glielo impediva.
Scalciava, si dimenava, tirava pugni su quel petto che sembrava non volesse cedere, faceva forza sulla braccia per allontanare il viso da quel corpo e respirare aria pulita e priva di quel lezzo di falsità e cattiveria che emanava lui.
“Vattene stronzo.”
Gli colpì il volto con uno schiaffo, ma ne era rimasto indifferente. In compenso lei aveva una mano dolorante e la gola secca.
“Non ti voglio più vedere. Mi fa schifo!” Cercò di tirargli una ginocchiata nel basso ventre, ma lui la scansò, cercò di mordergli la spalla, ma non sembrò essere così dolorante.
Fottutissima mocciosa! Non bastava solo sorbirsi una crisi isterica da infima telenovela, doveva pure misurare le parole e contenere l’affronto di quello che stava per dire.
“Ti sopporto da due mesi. Non manderò tutto a puttane per una minchiata.”
Si avventò sulle sua labbra per divorare la sua risposta, ma lei voltò la testa, scappando da quel contatto.
“Tu mi hai detto chiaramente che mi consideri una zoccola, dopo due mesi. Non è una minchiata.
Non è una minchiata che tu mi urli addosso tutto lo schifo che ti viene in mente, perché hai i coglioni girati.”
“E sarei stato con te due mesi, se eri una delle solite?”
Aveva tentennato molto nel dire quella frase. Un po’ per l’inesperienza nel palesare sentimenti, dall’indubbia verità, un po’ per il suo ego immortale e incorruttibile che non voleva abbassarsi al livello delle emozioni.
Tremava di rabbia tra le sue braccia. Teneva ancora il volto fermo su un punto indefinito del giardino pur di non lasciarsi plagiare da lui e dalle sue false parole.
Aveva mentito per due mesi, non si sarebbe certo fermato in quel momento.
“Pensa a tutto quello che ti ho dimostrato con i fatti e non con le parole. Ho lasciato perdere tutte le altre ragazze.”
“Era scontato che lo dovessi fare. Non vuol dire niente.”
“Fanculo. Potevo benissimo continuare a scopare con altre, non era un mio problema. Se non l’ho fatto, è stato per te.”
“Perché stai facendo tutto questo”
Riuscì a sgusciare fuori dalle sue braccia e si voltò indietro.
Perché faceva quello? Perché si sentiva in dovere di recuperare quel loro rapporto? Perché non voleva farla piangere? Perché voleva esserci per lei?
Correndo, riuscì a raggiungere lei che già era scappata in direzione di casa sua.
La bloccò per il polso e la baciò istintivamente. Non doveva entrare in casa, non doveva sapere.
Ma per quanto l’avrebbe potuta proteggere dalla realtà? Ed era lui la persona più adatta a proteggerla, lui che era il primo pericolo da cui lei avrebbe dovuto difendersi?
Le cinse il fianco con la mano destra e l’avvicinò a sé. Stranamente, stupendolo non poco, non l’aveva scansato e non aveva opposto resistenza a quel contatto. Aveva chiuso gli occhi e aveva aperto la bocca per accogliere la sua lingua.
Gli posò una mano sulla guancia e l’accarezzò. Piano piano, su e giù.
La sua lingua lambiva quella di lei e si lasciava lambire a sua volta.
Perché faceva quello? Perché si sentiva in dovere di recuperare quel loro rapporto? Perché non voleva farla piangere? Perché voleva esserci per lei?
Un sapore ferruginoso gli invase la lingua e sentì un acuto e insopportabile dolore alla lingua.
Quella maledetta mocciosa l’aveva morso e poi, non contenta, gli aveva dato un altro schiaffo.
“Non ti facevo così coglione.”
Gli urlò addosso, fuggendo via..
Se non poteva vincere Vegeta in forza, era anche vero che il dolore della disillusione era più bruciante di quel piccolo taglio e quel lieve rossore sulla sua guancia.
Lo odiava. Non riusciva a pensare ad altro. Non era il suo gioco e, se credeva che lei avrebbe accettato i suoi cambi d’opinioni, e avrebbe perdonato le sue ferenti parole, si sbagliava di grosso. Parola di Bulma Brief, quel bastardo l’avrebbe pagata per tutto!
Le capsule corporation vantavano un giardino vasto come un piccolo boschetto rurale. Per arrivare all’ingresso dell’abitazione bisognava percorrere parecchi metri, tra piante e piccoli animaletti.
Uscì le chiavi dalla tasca della divisa e le inserì nella toppa.
“Non aprire.”
Si voltò e lo vide esattamente dietro di lei. Come aveva fatto a raggiungerla così celermente? Era un alieno o cosa? Tralasciò lo stupore e si concentrò sulla rabbia.
“Ok, chiariamoci. Io faccio quello che voglio, quando voglio, come voglio e perché voglio. Ora smetti di rompere.”
Maledetta mocciosa! Prima o poi l’avrebbe mandato al manicomio. Gli avrebbe fatto compiere gesti inopportuni.
“Non aprire.” Era ritto con la schiena, ma il respiro pesante tradiva fatica e stanchezza.
Girò la chiave nella toppa, anche se lui le teneva il braccio.
 “Sono stanca di te. Perché non mi lasci pace?” Urlò esasperata da quel suo strano comportamento.
Il suo volto era strano. Il suo volto era spaventosamente serio. Lui era serio, solo quando era incazzato, se no sfoggiava quell’odiabile sorrisino.
Era serio, ma non sembrava incollerito, sembrava preoccupato.
“Perché ti amo?”
Il suo tono era sembrato molto interrogativo e dubbioso, ma prima che lei potesse sommergerlo di domande, la baciò.
Maledetta mocciosa! Prima o poi l’avrebbe mandato al manicomio. Gli avrebbe fatto compiere gesti inopportuni: non pensava quel momento sarebbe arrivato tanto presto.
Lui non l’amava, ne era sicuro, ne doveva essere sicuro.
Non sapeva il perché, ma in quel momento più importante del suo orgoglio, era lei.
Lui non l’amava ne era sicuro, ne voleva essere sicuro.
Si staccò da lei, sperando di trovarla rabbonita e emozionata. Quanto si sbagliava, cazzo!
“Non ti impegnare troppo, tanto non te la do.”
Cocciuta. Cocciuta, testarda e insopportabile.
“Mamma, papà sono a casa!”
Aveva spalancato la porta sul silenzio dell’ingresso e entrò. Lui l’aveva seguita come un ombra, cercando sempre di afferrarla e distrarla.
“Perché li importuni? Andiamo a mangiare qualcosa fuori. Io e te.”
Non lo degnò di risposta e imperterrita continuò a chiamare a gran voce i suoi genitori e a cercarli.
Se Vegeta non si lasciava convincere dai suoi rifiuti, la parlantina e la dolcezza di sua madre l’avrebbero persuaso.
“Mamma dove sei?” Urlò a squarciagola, esasperata dall’indesiderata presenza.
La televisione parlava da sola. Accesa in cucina, continuava imperterrita a mostrare immagini a un pubblico che non c’era.
L’acqua scorreva copiosa dal lavandino, riempiendo il lavabo e accompagnando la stranezza di quel quadretto anomalo.
Chiuse la manopola e si affacciò alla finestra. Era buio, ma sperava di vedere sua madre innaffiare le piante e i fiori o suo padre nutrire gli animali.
Che erano vecchi e vagamente stonati lo sapeva perfettamente e non le sembrarono improbabili tutte quelle dimenticanze.
Dietro di lei Vegeta teneva le braccia conserte, ma si guardava intorno nervoso e guardingo. Era strano: troppo poco rilassato e troppo loquace e gentile per i suoi canoni. Cosa poteva essere successo in un’ora per farlo comportare in quella maniera? In cuor suo sperava che avesse sofferto, come aveva fatto soffrire lei.
Il piano di sotto era spettrale. Luci tutte accese e rumori del buio più profondo.
“Magari sono usciti. E’ una bella serata dopotutto, dovremmo approfittarne pure noi. Andiamo a fare una passeggiata.”
“Mi vorresti far credere che Vegeta Ice, avendo una casa libera a disposizione, preferirebbe camminare all’aria aperta, che scopare?” Chiese scettica e retorica e sempre più stranita. Chi era quella persona che la stava assillando per farla uscire di casa e per farsi perdonare?
“Io preferirei scopare, ma so che tu non vuoi.” Rispose falsamente angelico e altruista.
Lo guardò sbieco e poi gettò un’occhiata intorno. Le porte erano tutte aperte, l’unica era quella della stanza dei genitori.
“Mamma, posso entrare?” La porta si aprì dolcemente, appena lei aveva fatto per posare le nocche sulla sua superficie.
Il ragazzo la richiuse immediatamente: “Dagli un po’ di privacy.”
Non avrebbe dovuto vedere, ma era ineluttabile. Per quanto avesse provato a tapparle gli occhi, lui non poteva niente. Se anche avesse visto ciecamente alla vita, prima o poi ci sarebbe inciampata.
Da quando si era avvicinata a quella camera, Vegeta le aveva cinto la vita e lei non si era lamentata. Non perché quel gesto non le facesse rabbia, quanto perché sperava che suo padre, vedendolo, si sarebbe irritato…con lui. Stava sudando, poteva vedere delle goccioline scendere sul suo collo muscoloso. Vegeta non sentiva mai caldo, era sempre composto e indifferente.
Abbassò la maniglia e entrò.
“Mamma….Papà…”
Le parole le morirono in gola e il cuore le scoppiò nel petto. Si portò una mano alla bocca e chiuse gli occhi.
No, non era vero. Lei non aveva visto quello che aveva realmente visto. Era stato un errore di percezione. Si era sbagliata. Le lacrime le umettavano gli occhi, rendendo tutto sfocato. Per quel motivo aveva visto una realtà fallace.
Ma perché i suoi occhi si erano bagnati? Li riaprì, ma l’immagine non cambiò.
Urlando, si gettò su quei freddi corpi, che erano stati capace di darle tanto calore.
“Mamma…”
Una mano le carezzò la nuca e la spinse sopra un torace tonico e scolpito.
“Ci sono io.” Sussurrò pacato sopra la sua testa, stringendola di più a lui.




“Dov’è Irene? Aveva detto che sarebbe venuta.”
Il tribunale era gremito di gente, ma di lei non vi era traccia. L’ultima volta che l’aveva vista, quasi tre giorni prima, le era sembrato di capire che dovesse essere chiamata in aula, come testimone.
Non aveva gioito a quella notizia: era diventata davvero paranoica nell’ultimo periodo, ma pensava di stare affidando la sua testa nella mani di una boia. Della boia che scopava con Vegeta. Anche se, da quando era entrata nel suo ufficio, lui non l’aveva più menzionata e, anche quando l’aveva invitata per parlare del suo caso, non l’aveva invitata poi a dormire.
“Non temere, arriverà.”
Sempre facile parlare per chi non aveva nulla da perdere, ma tutto da guadagnare. Lei temeva, eccome se temeva.
Alla fine di quel giorno, sperava potesse passeggiare per le vie della città, andare a comprare vestiti e tornare a casa sua.
La settimana con Vegeta era passata e non le era parsa poi così traumatica, come si divertiva a temere.
Lui l’aveva stuzzicata il giusto necessario per non farla sentire invisibile e, talvolta, le aveva proposto qualche partita alla console.
Le piaceva pensare che lo facesse per passare del tempo assieme, per godersi la sua compagnia, ma sapeva perfettamente che seguitava a giocare con lei, perché era negata e il suo goliardico orgoglio si rimpinguava, allorchè lei, stizzita, buttava il joystick oppure quando, agguerrita, arrivava a fine partita. E perdeva.
D’altro canto lei si era ritrovata, scioccamente, ansiosa per questi piccoli momenti di compagnia.
Stava con lui senza dover combattere con gli spettri dei suoi sentimenti e non gli doveva dare spiegazioni, se gli rivolgeva la parola o gli regalava un piccolo pugnetto sul braccio.
Lui aveva evitato sapientemente situazioni equivocabili e preferibilmente scansabili. Da quando si era svegliata sul suo letto, quello era diventato il suo giaciglio e Vegeta aveva voluto dormire sul divano.
Più volte aveva provato a ribaltare la situazione, di tornare allo status quo, ma quell’uomo era cocciuto e testardo quanto lei.
Si allentò il foulard di seta che aveva al collo, maledicendosi per averlo indossato.
L’aria in quella stanza era asfissiante e pesante. Si asciugò discretamente la fronte dalle perle di sudore. Chissà se l’avrebbero arsa viva come pena.
Una grossa e calda mano afferrò le sue dita tremanti, appoggiate sulla coscia sinistra, e le strinse con sicurezza, ma senza dolore.
“Ci sono io.”
C’era lui. Lo sentiva, sentiva la sua mano e sentiva il suo profumo.
C’era lui. Lo sentiva, sentiva il suo cuore battere e non era per la paura.
C’era lui. Lo sentiva, sentiva il suo disagio per la vicinanza, sentiva il suo odio per la consapevolezza.
C’era lui. Lo sentiva e si sentiva calma.
“Entra il giudice Satan. In piedi.”
Ricambiò la stretta e sorrise raggiante. Ce l’avrebbe fatta.
Si alzò dalla sedia, seguita da tutta l’altra gente, e aspettò che la guardia desse il permesso di tornarsi a sedere.
La sistematicità di quelle azioni, che già aveva compiuto solo una settimana prima, le davano sicurezza. Se tutto si svolgeva uguale alla volta precedente, l’esito del processo sarebbe stato favorevole per lei.
“Venerdì 24 Febbraio 2012. Presiede Giudice Mark Satan. Caso numero 5, imputata la signorina Bulma Brief.” La stessa guardia della volte precedente.
Prima che il giudice potesse aprire bocca, entrò, trafelata e barcollante, una donna scarmigliata.
Corpo piccolo dalla bassa statura, quegli occhi muti e ingannevoli, quella voce sempre fastidiosa.
Irene. Ma che le era successo? Sempre così curata e discreta, aveva attirato su di sé e su due guardie che la stavano inseguendo l’attenzione di tutti, tranne che di Vegeta e Kado Aka.
Un uomo la prese di forza e la fece sedere nell’altro banco di fronte al giudice. Era ammanettata e aveva uno sguardo allucinato.
Satan non si fece sconcertare e iniziò il processo.
“Giorno 17 febbraio 2012 si è tenuta l’udienza preliminare del caso numero 5. La signorina Bulma Brief, come unica sospettata, è stata arrestata per gli omicidi di quattro malviventi, uccisi nelle medesime condizioni. Motivo dell’accusa: la sua tessera sanitaria trovata vicino al corpo morto della prima vittima: Abo Aka.”
In mancanza di prove certe che l’avrebbero potuta scagionare o condannare, il processo è stato rinviato, per permettere ai periti di svolgere altre indagini.”
La solita vecchia metteva tutto al verbale.
“Signorina Brief, lei come si dichiara?” domandò asettico il magistrato.
“Innocente.” Colpevole di omicidio e di bugia.
“Si accomodi a testimoniare.” Ordinò perentorio.
Finito tutto avrebbe urlato.
“Davanti al corpo di Abo Aka è stata trovata la sua tessera sanitaria. Nega?”
“No.”
Lei sapeva. Sapeva tutte le domande che le sarebbero state rivolte, conosceva già le risposte.
Gliel’aveva fatte avere Vegeta due giorni prima.
“Perché la sua tessera sanitaria si trovava sul luogo del delitto?”
“Obiezione.” La voce del paradossale avvocato si levò severa nella sala.
“Respinta.” Negò il giudice. Che motivo aveva quell’obiezione? Serviva a dare più veridicità a quella farsa? “Perché la sua tessera sanitaria si trovava nel luogo del delitto?”
“Io- tentennò un poco. Le avevano detto di comportarsi freddamente, ma non ci riusciva.- ero andata da Abo per un motivo ben preciso. Mi avevano detto che aveva un piccolo traffico di Marijuana e io ero andata da lui per comprarla.”
Stava facendo la figura della drogata davanti a tutti. Quel presente non era, certamente, una tra le sue più rosee aspettative, quando era bambina. Ma non poteva cambiare versione dei fatti, doveva attenersi al copione.
“Avevo comprato 50€ di fumo. Abo Aka mi aveva dato le spalle per andare a prendere ciò che gli avevo chiesto.”
Irene scoppiò a ridere, facendo trasalire tutti. Una risata così anomala, così artificiale e penosa.
Si bloccò e ingoiò saliva. “Poi ho sentito uno sparo, ho visto quell’uomo riversarsi a terra e vedevo il sangue uscire dalla sua testa.”
Un brivido la colse. I suoi occhi erano diventati lucidi. Aveva bisogno di sfogarsi, aveva bisogno di qualcuno che la supportasse.
Si voltò verso Vegeta. Era serio, composto, concentrato e la guardava intensamente negli occhi.
Non vi era scherno nel suo sguardo, solo determinazione e solidarietà, o così le piaceva illudersi.
“Ho avuto paura, le mie gambe tremavano e non riuscivo a ragionare. Avrei potuto dare soccorso a quell’uomo, ma ho preferito correre, fuggire da quello scempio. Correndo mi è caduta dalla tasca del cappotto la tessera.”
Un fondo di verità nelle sue parole c’era.
“Può tornare al proprio posto. La parola a lei avvocato Ice.”
Si incrociarono per strada. Entrambi camminavano col petto gonfio d’orgoglio e il volto alto. L’aveva fissato e lui aveva impercettibilmente annuito con la testa.
Era stata brava. Aveva fatto tutto quello che lui le aveva chiesto. Ora era salva?
“Chiamo al banco dei testimoni il signore Kado Aka.” Spiegò asciutto.
“C’è qualcuno che serbava rancori per suo fratello e che avrebbe avuto un qualche movente?”
“Si era inimicato molta gente nell’ultimo periodo. Il suo atteggiamento borioso e strafottente avevano infastidito molti dei nostri clienti abitudinali e alcuni dei grossi fornitori. In particolare, circa un mese prima della sua morte, l’ho sentito discutere con una donna. I toni erano alti e lei gli aveva detto di essere un incompetente e una pedina facilmente sacrificabile e che non ci avrebbe pensato due volte ad ucciderlo, se fosse servito agli affari.” Scandiva bene ogni parola e la accompagnava con movimenti delle mani.
Vegeta stava ritto davanti al banco dei testimoni. Non accennava a muoversi e anche la sua voce, sebbene severa, risultava molto professionale.
“Può identificare la donna dalla voce che ha sentito o non se la ricorda?”
“Io…” stava giocando ad intrecciare le dita tra di loro. Palesava titubanza e molte volte si poteva vedere il suo pomo d’Adamo percorrere la gola.
“Io conosco bene quella voce. Conosco bene la donna che ha quella voce. Era capitato spesso che intrattenesse rapporti d’affari anche con me.”
“E il nome di quella donna lo sa?”
Si toccò la fronte e l’asciugò alla meno peggio con la mano. Era calvo e con la luce forte dell’aula le gocce di sudore risplendevano. I suoi occhi erano sbarrati, guardavano Vegeta con un misto di terrore e speranza.
“Irene Culprit.” Pronunciò chiaramente, anche se a voce bassa, quel nome e con la testa la indicò.
Era accasciata sulla sedia e i capelli le ricadevano sul viso disordinati.
A quel nome spalancò gli occhi e incominciò a tremare.
“Lei ha visto la signorina Brief sparare?” Inquisì.
“No.” Risposte piattamente con la sua voce bassa.
“Ho finito.”
Si voltò e tornò a sedersi al suo posto. Non sembrava stanco né fremente. Era semplicemente atarassico, come suo solito. Più guardava le sue espressioni, più si credeva scevra di qualsiasi valore per lui.
Il giudice, che aveva ascoltato tutto con estrema attenzione, nascondendo la sua bocca dietro le mani congiunte, si risistemò sulla poltrona.
“Il proiettile che è stato ritrovato conficcato nella testa di ogni vittima, è un 357 Magnum. Abbiamo perquisito l’appartamento della signorina Brief- a Bulma sembrò che il cuore stesse scoppiando. Era salito fino in gola, era risceso e ora si preparava ad esplodere- ma non abbiamo trovato traccia né di armi da fuoco, né di cartucce.”
Tirò un sospiro di sollievo che la inquietò particolarmente.
Teneva a casa una cartuccia di riserva. Strano non l’avessero trovata. Era nascosta nell’armadietto dei medicinali. Era improbabile non l’avessero controllato.
“Signorina Culprit si appropinqui al banco dei testimoni.” Imperò il giudice.
Non si reggeva in piedi, era aiutata da quelle due guardie che non l’avevano abbandonata un secondo e che l’avevano sedata, quando minacciava di urlare o ridere sguaiatamente.
Trascinandola per le braccia la portarono a sedere al fianco del giudice. Si alzava e barcollava.
Sembrava sempre in procinto di cadere.
“Le sembra modo di presentarsi a un processo?”
Singhiozzò e si ravvivò più volte volgarmente la chioma. Guardava fisso davanti a sé e teneva in fuori le sue grosse labbra.
Un uomo si avvicinò al giudice e gli parlò all’orecchio. Satan tirò un sospiro esasperato e si rivolse nuovamente a Irene.
“Signorina lei è qui perché nel suo appartamento è stata ritrovata una S&W 686 in calibro 357 magnum e diverse cartucce.”
“Si lo so, avete messo tutto a soqquadro. Chi pulisce ora?”
Sbuffò a ridere in faccia al giudice e buttò la testa all’indietro.
“Non si affanni per questo. Piuttosto perché teneva una pistola a casa sua?”
“Ma che domande sono? Lei cosa ci fa con un pistola?” Si era portata una mano al petto e aveva fatto l’offesa. Tutto stava prendendo la forma di una farsa.
“Io non ho pistole a casa. E comunque risponda per cortesia.”
Uscì la lingua e la mostrò al giudice.
“Mi serve per lavoro, come a lei serve il martelletto.”
“E che lavoro fa?”
“Sono una donna altruista io. Do la felicità al prossimo in qualunque forma. Coca, prostitute. Non mi piace concentrarmi troppo su un settore.”
“Lei conosceva il signor Abo Aka?”
“Quello stronzo! Mi doveva un sacco di soldi.”
“Come l’ha conosciuto?”
“Eravamo colleghi.”
“Sa che è morto?”
“Stronzo due volte. Chi mi da ora i soldi?”
“Sa chi l’ha ucciso?”
“Si, ma non te lo dico.” Saltò birichina sulla sedia, avvicinandosi al volto attonito del giudice.
“Conosce direttamente la persona che ha ucciso il signore Abo Aka?”
“Si, da quando sono nata.” Si portò una mano alla bocca e poi sghignazzò.
“Signorina, contegno! Siamo in un tribunale, deve essere conveniente nell’atteggiamento. Stiamo parlando della morte di un suo conoscente e lei ride?” Urlò serioso il giudice.
A ogni parola la sua ilarità aumentava. “Chi cazzo se ne fotte se è morto? L’ho ucciso io. E’ una liberazione per la società. Era solo un parassita.”
Gli astanti mostrarono un volto sbigottito e resero manifesto il loro gelido turbamento.
Tra tutti, Bulma aveva dei forti capogiri e, tenendosi la testa, cercava di trovare un senso a tutta quella situazione.
Alla sua sinistra, Vegeta accennava un invisibile ghigno.
“Signorina non renda false testimonianze, non menta.”
“Gli unici che mentono siete voi. Io ho sempre detto la verità.”
Urlò aggressiva. Le sue pupille di erano dilatate, ma poi tornò a ridere.
“Eravamo in un vicolo cieco, la notte del 29 Gennaio dell’anno passato. Abo stava andando a prendere la marijuana per la signorina e io ho sparato da dietro i cassonetti.”
“La Brief era una sua complice?”
“Lavoro da sola. Le puttane le affitto per una sera, non le faccio diventare mie complici.”
Cinguettò pungente e offensiva.
Bulma scattò dalla sedia. Come si permetteva quella? Aveva confuso le parti!
Vegeta l’afferrò per un manica e la costrinse seduta.
“Non ora che sta finendo tutto.” Le sussurrò.
Stava finendo tutto…ma ad ogni fine corrisponde un inizio e non si sa mai se il futuro possa fare rimpiangere un passato orribile.
“Signorina Brief, considerando la confessione della signorina Culprit, mi ritrovo lietamente a considerare infondate le accuse sul suo conto. Da oggi si riconsideri libera.”
Da quel giorno si poteva considerare libera. Ma perché quando il giudice aveva pronunciato quella parola aveva sentito un cappio stringersi intorno al collo?




Che schifoo!
Non sono convinta nè persuasa di questo aggiornamento, ma non è una novità.
Se ci avete capitto poco consiglio di rileggere il precedente processo al capitolo 4, se non vi ricordasta certe cose. u_U
Avrà fatto venire un milione di altre domande questo capitolo, ma le svelerò al prossimo capitolo, non temete...xD
Oggi sono di fretta: ho un batuffolino nero di 36 giorni che è in crisi di abbandono! *_* <3
Ora gliele farò passare: parola mia!
Detto questo, ringrazio dal più profondo del mio cuore tutti quelli che leggono, inseriscono la storia in una delle liste e recensiscono.
Se avete consigli da darmi o critiche costruttive da muovermi io le accetto con grandissimo piacere! =)
Alla prossima! :3

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Capitolo 8
*** 8.8 ***


Sono tanto semplici li uomini e tanto obediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Niccolò Machiavelli




Era un’azione semplice e quotidiana che aveva compiuto così tante volte da risultare senza valore, eppure quella volta sembrava voler essere triste e sofferta. Lisciava quel tessuto con la sua mano, lo stendeva sul letto e poi lo ripiegava per costringere la maglietta in quella forma quadrata e poco ingombrante.
Chiudendo la cerniera di quel borsone sportivo, chiudeva nell’oblio la sua colpa e apriva la porta al pentimento.
Per quanto Irene potesse essere odiosamente perfetta, antipatica, falsamente pregevole, celatamente di buone maniere e ottimi propositi, l’avevano costretta ad  immolarsi per lei e questo l’aveva turbata e non poco.
Non aveva compreso bene come avessero potuto influire sulla sua psiche in una maniera tanto drastica e innaturale. Vegeta le aveva spiegato essere un connubio di minacce, una particolare forma d’ipnosi e qualche droga pesante e la paura di una conseguenza ancora più spaventevole della morte.
Freezer e i suoi occhi porcini e le intenzioni celate dietro questi non intimorivano solo lei, non piegavano solo lei, allora…
Ogni volta che l’aveva immaginata, stesasu quelle lenzuola morbide e coperta da una trapunta di muscoli tonici, aveva desiderato brandire un coltello e aprire quel petto florido, che, ritmato da sospiri e gemiti, si moveva su e giù. Ma ora che il suo desiderio di vederla morta non era più un solo un pensiero astratto, il senso di colpa faceva male, troppo male.
Era giusto che pagasse una persona che non aveva avuto responsabilità e si era sempre comportata affabilmente con lei, che non si impegnava a mascherare ironicamente quell’insofferenza nei suoi confronti?
Lanciò nuovamente una fugace occhiata alla stanza, per essere sicura di non stare dimenticando niente.
Per essere sinceri, niente, di quello che aveva deciso l’avrebbe accompagnata nel viaggio di ritorno alla sua vecchia vita, era suo.
Tuttavia si era premurata di raccattare tutti quei vestiti che aveva indossato e i suoi sentimenti integri e incorrotti.
Aggrapparsi disperatamente a un ricordo materiale di Vegeta e fuggire da lui per non essere nuovamente catturata dall’amore sapeva di un paradosso logicamente insensato.
“Te ne vai di già?”
Era appena uscito dalla doccia e aveva un morbido asciugamano legato in vita e i capelli bagnati, gocciolanti sul pavimento, che avevano perso la caratteristica forma. Si era avvicinato silente e furtivo a lei, fino a fronteggiarla con quello sguardo inquisitorio e quel sorriso subdolo.
“Non vedo un motivo per restare.” Li vedeva, li vedeva come un oasi in uno sterile deserto di solitudine, ma aveva reputato conveniente tapparsi gli occhi con le mani di una coscienziosa paura.
“E quello per andartene qual è?”
Lui. Lei. La fantasia sempre più incalzante di loro due. La morte di un’innocente sulla sua coscienza.
Aveva ucciso, ma sempre persone cattive, sempre persone che avevano sbagliato e si erano meritate quella sorte e anche in quel caso era morsicata dal rimorso.
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, avvocato.”
Gli rivolse un sorriso, ma non ricevette in risposta neanche un impercettibile movimento.
“E avresti il coraggio di lasciare solo un uomo che ha appena subito la perdita di una sua compagna?” Domandò con ironica afflizione.
Quello striminzito pezzo di cotone fu tolto con disprezzo e gettato a terra con noncuranza, per poi essere calpestato, una volta sulla strada per la cassettiera dell’intimo.
Un tempo sarebbe arrossita alla vista del suo membro. La nudità era un tabù e tale sarebbe dovuto rimanere, ma le esperienze l’avevano indotta a confonderla con la sincerità, con la trasparenza dell’uomo. Privo di coperture e protezioni, questo mostrava la sua vera faccia, la sua vera debolezza. Da un qualunque genere di imbarazzo o esitazione si sarebbe potuta evincere la menzogna celata dalla sicurezza del segreto. Nessuno era a proprio agio, quando si trattava di farsi dipingere nudo e vero nella mente degli altri, tutti tranne Vegeta.
O non aveva niente da nascondere, e le risultava difficile da credere, oppure lo esponeva in una maniera così nuova e disinibita da indurre gli altri, legati alle tradizioni, a credere che la verità ostentata fosse una menzogna.
“E avresti il coraggio di farmi credere che tu abbia solo una compagna?”
Non aveva abbassato gli occhi e non gli aveva dato la soddisfazione del tremito dell’impreparazione. Fisicamente Vegeta era un uomo come un altro, forse un po’ più dotato e un po’ più sicuro del suo charme, ma era pur sempre un uomo e a lei non facevano paura.
“Mi piace cambiare, fare nuove esperienze. Tra mille possibilità ci sarà senza dubbio la scelta giusta.”
Si infilò i boxer e si gettò sul letto, stiracchiandosi la schiena. Lo imitò e si distese accanto a lui. Si apriva sopra le loro teste la volta di un soffitto bianco e muto, difficile da interpretare e facile da inventare.
Il processo era finito, la sua fallace innocenza era stata riabilitata e ora era libera di tornare a sbagliare per non morire.
Aveva ucciso, aveva sbagliato e per questo stava per essere punita. Avrebbe dovuto uccidere, avrebbe dovuto sbagliare e se non lo faceva rischiava di essere punita.
Esistevano criteri incorruttibili di verità? Gli uomini erano lunatici, volubili, cambiavano e con loro il mondo, ma la giustizia erano loro o la giustizia trascendeva loro?
“Perché l’hai fatto?”
“Ti avevo promesso che saresti uscita di prigione, se non sbaglio.”
“E non c’era un altro modo?”
“Anche più di uno.”
“L’hanno condannata alla pena capitale inutilmente? Lei morirà inutilmente! Perché?” Sbraitò con enfasi, sovrastandolo col suo peso e mettendosi a cavalcioni sul suo addome, spintonando le spalle, poggiate sul materasso.
“Quando si muore, non si capisce che si è morti. Gli unici che vivono la morte sono i vivi. Il morto non piange la sua condizione, la piangono i vivi. Nella vita viene a mancare un qualcosa e l’unico modo per rimpiazzarla è la vendetta. Si cerca disperatamente un colpevole, o l’assassino crudele o il medico che non ha potuto salvare il malato, e non ci sarà una fine, finché non sarà versato altro sangue.”
Le poggiò la mano destra sul fianco sinistro, sotto il maglione di lana, e, con le dita dell’altra mano, percorreva la spina dorsale di quella schiena calda e liscia.
“Che stai dicendo?” Schiaffò la sua mano.
“Cercare un colpevole, un capro espiatorio è nella natura dell’uomo. La colpa di ogni disgrazia, di ogni avvenimento deve stare nelle mani di un unico individuo che scagioni la collettività e che la illuda circa il concetto di giustizia. La città sapeva che erano state uccise quattro persone, nessuno sarebbe stato tranquillo, fino a quando qualcuno non avrebbe pagato per queste quattro morti, capisci?”
Stavano parlando di morte e lui la blandiva, usando quel tono roco e caldo che suscitava brividi sulla sua pelle, come se si trattasse di una dichiarazione di libido.
“Irene non ne ha colpa. Non dovrebbe morire, non è giusto!”
“Irene conosceva Abo Aka, hanno lavorato assieme circa dieci anni fa. Avevano aperto un piccolo giro di droga per far soldi rapidamente. Ma Abo era così rozzo, così stolto, non aveva il senso degli affari e non sapeva destreggiarsi in quel mondo. Irene era di gran lunga più pratica e più promettente. Cercava un modo per liberarsi di Abo. Era ormai una palla al piede. Per andare avanti si devono cogliere le occasioni e così, quando incontrò una coppia anziana di miliardari, proprietari di una delle più grandi industrie elettroniche del paese e odiati da ogni rivale, decise di vendersi al miglior offerente. Le avevano promesso una cifra spropositata di soldi, se fosse riuscita ad ucciderli…”
Una lacrima gli cadde all’angolo della bocca e la leccò. Era salata, era unica ed era vitale. Lui si cibava del dolore delle persone.
“Come lo sai tu?”
“Si era innamorata la bambolina. Si fidava ciecamente di me.”
“Maledetta puttana.”
“E quindi? E’ giusto o sbagliato che debba morire?” Con uno scattò si issò a sedere e la bacio rude, ficcandole la lingua in gola.
Giusto o sbagliato? Contorta la mente umana, contorti i parametri necessari per comprenderla.
Giusto o sbagliato? Forse solo naturale, quell’attrazione animale, quella frenesia di vincere di dimostrare la propria supremazia e la propria superiorità sugli eventi e sui sentimenti.
Ogni sentimento si poteva razionalizzare. Si poteva provare qualunque genere di sentimento, premettendo a questo la sottomissione alla volontà.
Si staccò dalle sue labbra per toglierle il golfino di lana e gettarlo alle sue spalle.
Quei seni si mostravano a lui in tutta la loro perfezione e morbidezza; si avventò con le labbra su di loro. Quando si sarebbe annoiato di quel passatempo, quando avrebbe saziato la sua voglia di carne, le avrebbe dato la spalle e le avrebbe intimato di lasciarlo solo.
Le leccò lo sterno e pizzicò i rosei capezzoli. Fisicamente Bulma era una donna come un’altra, forse un po’ più prosperosa e un po’ più sicura della sua ragione, ma era pur sempre una donna e lui ci giocava con le donne.
Poggiò le mani sul suo petto, per darsi la spinta all’indietro e spezzare quelle catene di muscoli. Cadde sul freddo parchè, ai piedi del letto e di lui che le stava regalando tutta la sua perplessità, incartata in uno sguardo magnetico.
Sbagliato! Sbagliato lui e sbagliato il suo cedimento.
Sbagliato! semplicemente sbagliato quel gioco di seduzione e l’atteggiamento sicuro di chi era sicuro avrebbe vinto. Non era solo, c’era anche lei e lei non giocava, se non per vincere. E ci sarebbe riuscita.
“Mi hai stancato. Voglio tornarmene a casa mia.”


Era mezzanotte, ma alla fine ce l’aveva fatta.
Lui, ovviamente, non l’aveva riaccompagnata a casa; si era solo limitato ad urlarle l’orario dell’incontro di lunedì, seguito da un epiteto non troppo gentile.
Aveva aspettato, seduta sul marciapiede, che arrivasse il taxi, che aveva ritardato solo di centottanta minuti. Cos’erano diecimilaottocento secondi per chi aveva una vita davanti a sé? Tanti, erano indubbiamente tanti e noiosi ed erano bastati affinchè le si congelassero pure le unghia.
Si svestì rapidamente e entrò nella sua doccia che la tentava con l’acqua calda e quei bagnoschiumi afrodisiaci.
Pesca, albicocca, mandorla. Tutta quella varietà di odori e di sapori l’aveva sognata con viva nostalgia a casa di Vegeta, dove regnavano bagnoschiumi forti e prettamente maschili.
Poteva rilassarsi sotto mille gocce , senza l’assillante presenza di Vegeta che si divertiva ad aprire il rubinetto della cucina, per far diminuire la pressione dell’acqua.
Poteva cantare mentre si insaponava, senza la pressante preoccupazione di dover essere schernita, allorchè si dimenticava le parole della canzone e si arrabattava con frasi inventate.
Poteva sostare allo specchio a mirare il suo corpo perfetto, senza il rumore delle nocche di Vegeta che sbattevano sulla porta e senza il rumore della sua voce che, insistente, le domandava quando sarebbe uscita.
Poteva fare tutto quella che voleva, rinunciando alla compagnia di un altro essere umano, ma non era facile né felice, non ora che si trovava stretta nel vestito della solitudine.
Si asciugò i capelli e si vesti con il suo caldo pigiama di pile, accucciandosi tra le sue braccia per riscaldarsi da sola.
Quella sera non aveva cenato, ma non aveva fame. Si diresse al letto, affiancato ai fornelli, e si coricò sopra, coprendosi fino al collo. Le luci dei lampioni entravano prepotenti dall’avvolgibile sgangherata e le illuminavano le riflessioni sulla sua misera condizione; l’unico vantaggio di abitare in un monolocale disastrato e cadente era che la confusione e la mancanza di spazio le tenevano compagnia. Si rannicchiò sotto le coperte e si preparò ad essere presa dal sonno.
La carezzava con il suo leggero soffio, la tranquillizzava con dolci promesse, la stringeva con le sue forti braccia e le assopì i pensieri con il veleno della protezione. Fortuna che c’era Vegeta con lei.
Sbarrò gli occhi e li puntò, svegli, contro il muro. Era sola.


Bar di lusso, tavolo riservato e appartato, uno scoppiettante e vivace caminetto e caffè di importazione. Certa gente la discrezione e la fatica del lavoro non sapeva proprio cosa significasse.
Si sedette su una morbida poltrona, tra gli sguardi accusatori e indignati di tutti che le fissavano i jeans strappati e le scarpe da ginnastica.
Freezer la fronteggiava, vestito della sua superiorità e del suo completo firmato.
Perché Vegeta non era lì ad aspettarla? Le aveva imposto la massima puntualità ed era lui che ritardava?
“Ti sembra modo di venire vestita? Mi stai facendo sfigurare, sembri una stracciona.”
“Scusami davvero, ma gli ultimi due mesi sono stata piena di impegni e non sono potuta andare a fare shopping. Mi sentivo in gabbia.”
Sussultò, quando lui mise la mano nella giacca. Era sicura che avrebbe uscito una pistola e le avrebbe sparato dritta al cuore; con sua somma sorpresa invece estrasse il suo portafoglio e gli consegnò una carta platinata.
“Comprati qualcosa di decente, pago io.” Quanta falsa generosità! Ne era quasi commossa.
Aspettarono dieci minuti in rigoroso silenzio, attendendo l’arrivo di Vegeta.
Freezer non sembrava spazientito, anzi stava approfittando del tempo per sorseggiare il suo caffè; l’unica che dava segni di nervosismo e noia era lei che sbatteva il piede sulla gamba del tavolo.
“Non sta bene che le signorine calcino gli oggetti.” Vegeta l’aveva raggiunta e si era seduto sulla sedia affianco, mostrandole i suoi denti bianchi e perfetti.
Frugò tra i vari documenti e le cartacce della sua tracolla di pelle nera e ne estrasse una busta sigillata di una carta lavorata e ricercata, rifinita con ricchi ghirigori.
La rigirò tra le sue mani, si scambiò uno sguardo d’intesa con Freezer e gliela porse gentilmente, non abbandonando quell’insensata espressione di potere e vittoria.
“Aprila.” La incitò curioso e incoraggiante.
Strano. La sua mente non gli suggeriva nessun altro aggettivo che avrebbe potuto definire Vegeta in quel momento. Strano. Strana la sua voce, il suo comportamento, il suo sorriso e strano il fatto che si fosse già scordato del rifiuto del venerdì sera.
In soli due giorni l’orgoglio aveva digerito l’umiliazione? Stava migliorandosi.
Obbedì e, dopo poca esitazione, tolse il sigillo da quella raccomandata.
“No!” La sua voce acuta attirò tutta la clientela del locale. “Non lo faccio.”
“O muori tu o muore lui. Ti lascio libera scelta.” La minacciò Freezer, sussurrando e incenerendola con lo sguardo.
“Possibile che non sai ottenere niente, se non con le minacce e la soggezione? E’ una scelta sua.” Strano. Sempre più strano. Quasi folle.
“Non lasciarti spaventare, amore. Parla, parla ma non fa mai niente. Scegli con la tua testa e col tuo cuore.” Completamente folle. Vegeta era folle.
Una foto che ritraeva un anziano signore.
‘Dr. Willow.
Motel, sulla quarantaseiesima strada.
Giovedì 2 Marzo 2012, ore 00.45.
Morto.’
Telegrafici nella loro macabra semplicità. Diretti, essenziali, utili e arrivisti. Diavoli che aiutavano e poi ti imponevano tasse pesanti e impossibili per riscuotere il pagamento del debito.
Le avevano tolto anche la piccola libertà di decidere il giorno e l’ora, il posto. Le avevano tolto la curiosità della ricerca e dello spionaggio.
“E’ l’essenziale, non c’è bisogno che tu sappia altro. Ti volevamo semplificare il lavoro.”
Forse era diventava davvero prevedibile. Dubitava che Vegeta avesse qualche potere sensoriale, eppure avrebbe potuto benissimo farlo credere.
Dietro quel falso aiuto, c’era il crudele proposito di tenerla nell’ignoranza. Fino a che punto volevano fosse facile da gestire?
Odiava che volessero uccidere il suo genio, forse più di quanto aveva odiato che qualcuno avesse voluto uccidere il suo corpo.
“Non ho intenzione di farlo. Uccidere è un reato. Una volta mi hanno raccontato che si potrebbe pure finire in prigione.” Il suo profilo era basso. La gente non avrebbe gradito mangiare per colazione cornetti e congiure.
Forse quel sarcasmo le aveva fatto guadagnare l’appellativo di deficiente, ma meglio deficiente che pecora e schiava.
“Vuol dire che ti sei pentita di ciò che hai fatto? Io odio l’incoerenza.” Ringhiò Freezer.
“No, non dico questo. Ma quelle persone avevano un motivo per essere uccise. Non uccido innocenti solo perché ti infastidisce respirare la loro stessa aria.”
“Nessuno è innocente, tesoro. Il Dr. Willow è il presidente di una nota azienda elettronica. Penso ti ricorderai la Elettrofurya, spesso veniva superata in vendita dalle Capsule Corporation.” Le alitò Vegeta sull’orecchio.
Freezer li studiava compiaciuto e orgoglioso. Quello era suo figlio.
Le passò una mano sulla coscia e l’accarezzò. “Perdere non piace a nessuno. C’è gente che ucciderebbe per vincere.” Le sussurrò allusivo, strizzandole l’occhio.
Il cuore le si bloccò nel petto. La sorpresa era tanta. Quell’uomo era coinvolto nell’omicidio dei suoi genitori e l’avrebbe pagata.
“Io devo vincere.” Rispose meccanicamente.
“E ucciderai quell’uomo?”
“Si.”
C’era gente che avrebbe ucciso per vincere, ma non lui.
Non occorreva sporcarsi le mani, se si sapeva cucire la realtà. Non occorreva sporcarsi le mani, se si potevano sfruttare l’emozioni. Non occorreva sporcarsi le mani, se si conosceva la verità.


Salì frettolosamente le lunghe scale di marmo della villa e si diresse nell’ufficio.
“Che volevi prima?” Gli si rivolse scontroso, sbattendo violentemente la porta alle sue spalle.
Il ricordo di quella mocciosa l’aveva perseguitato da quando l’aveva abbandonata piangente sul ciglio della strada. E a niente era servito premere l’acceleratore, tanto la sua immagine era più veloce.
Non si ricordava di una volta che fosse stato colpito dal pianto di una donna, non si ricordava di una volta che avesse visto il pianto di una donna. Ne aveva fatte piangere tante. La sua aria da ragazzo serio e il suo carattere infame e meschino, più di quanto lo era l’apparenza, erano ottimi deterrenti per far scorrere gocce salate su di un viso femminile, ma non gli erano importate. Gli era importato solo sapersi la causa del pianto.
L’umore di una persona dipendeva da quello che faceva e da quello che decideva di fare. Una sorta di demiurgo e come tale si sentiva potente.
Vedeva la bocca di Freezer muoversi, ma non sentiva realmente cosa stesse dicendo. Era un ronzio fastidioso e insopportabile per chi come lui aveva assoluto bisogno di urlare e un orgoglio di ferro che gli impediva di farlo.
“Li abbiamo uccisi, facendola sembrare una morte naturale. Overdose, così almeno gettiamo un po’ di fango su quell’immagine perfetta che hanno.”
Aveva percepito solo le sue ultime parole, restandone totalmente indifferente. Non lo toccava minimamente quel gioco di potere e morte a cui Freezer piaceva tanto giocare. Decidere a tavolino sulla vita o sulla morte di estranei era per lui una cosa così naturale e scontata da sembrare giusta.
“Ucciso chi?” domandò davvero poco curioso, ma intenzionato a distrarsi dall’infausto pensiero di quella ragazza molesta.
“Come chi?”
Sbuffò contrariato dalla disattenzione del ragazzo. Odiava dover ripetere le cose più di una volta e odiava quello sguardo perso nel vuoto. Era da un po’ di tempo che, stupendolo profondamente, Vegeta pareva assente e estraneo alle solite vicende.
Né il suo atteggiamento indisponente né la sua impudicizia l’avevano mai infastidito, quanto la dimostrazione del suo più totale menefreghismo.
Ricollegò subito le nuove sensazioni a quella ragazza, vista nel pomeriggio.
“I proprietari delle Capsule Corporation.” 




Buonasera care lettrici e cari lettori, se mai ce ne fossero. =)
Quanto sonno, sembro una zombie, ma non potevo andare a dormire, finchè non avessi pubblicato questo capitolo: ho circa un ritardo di due settimane....ops xD
C'è tanto da fare ultimamente e io mi accorgo di essere mentalmente instabile certe volte. Passo dall'allegria alla tristezza in una frazione di secondo e io non so perchè lo sto dicendo...ah ,si: perchè non riesco a scrivere o non sono mai contenta di quello che scrivo.
Stranamente il capitolo mi potrebbe piacere, queste note lasciano un po' a desiderare, ma pazienza. xD
Spero che si siano chiariti un po' di dubbi, ma non temete ce ne saranno subito altri. xD
Meglio non umiliarmi ancora e concludere qui le note...
Ringrazio tutti quelli che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono la storia: non mi aspettavo tutto questo seguito e sono contentissima. Lo dico davvero grazie. <3
Un ringraziamento speciale e un saluto va a PZZ20 che è sempre molto disponibile e gentile con me. :3
Ora vi lascio, vi auguro una buonanotte e, se volte, recensite che a me fa sempre piacere! :DD
Dolce notte mondo! :3

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Capitolo 9
*** 9.9 ***


Capitolo dedicato a PZZ20!
Grazie mille di tutto!! <3




Nessun uomo si bagna nello stesso fiume due volte. 

Eraclito



La strinse al suo petto e le baciò la nuca, cercando di calmarla con il suo respiro regolare.
Era stanchissima e stremata. La denuncia, la polizia, i pianti, le false condoglianze. Una giornata da dimenticare che sarebbe vissuta per sempre.
Sentiva le palpebre pesanti e la testa scoppiare, ma non riusciva a dormire.
Perché? Perché si erano suicidati? Era colpa sua? I brutti voti a scuola, la sua relazione con un ragazzo più grande che l’aveva portata a mentire. Una delusione come figlia e anche come persona.
E ora lei era giustamente sola.
Rinforzò quelle amare lacrime e si strinse maggiormente a quel caldo pezzo di marmo.
Era buio e lei aveva di nuovo paura delle ombre, dei fantasmi, di tutte quelle fantasie infantili e spaventose.
“Perché non dormi?” Era incredibile come la stanchezza non fosse strettamente legata alla sonnolenza. La sentiva tremare tra le sue braccia e singhiozzare copiosamente.
“Ho paura.” Piccola, rannicchiata e scossa dai tremiti. In quel momento, più che mai, sembrava una bambina. Una bambina indifesa e lui l’avrebbe difesa a qualunque costo.
“Ti proteggo io.”


I suoi occhi azzurri erano risaltati da un prepotente contorno nero e le labbra erano sanguigne e invitanti.
Ai piedi tacchi vertiginosi, sul corpo un leggero velo chiaro, tenuto morbido da alcune spille.
Nella generosità di Freezer erano intesi anche gli abiti per il prossimo lavoro.
Fingersi una puttana, compiacere il dottore e ucciderlo con una drink di vino e cianuro.
La sua pistola non gliel’avevano più ridata. Doveva essere una donna innocua, capace di essere fatale solo in determinati momenti e con le persone che le indicavano.
Censura di idee e svendita del suo corpo. Lei doveva essere un oggetto. Gli oggetti non pensano e si vendono e sono utili.
Giovedì 2 Marzo, ore 00.30.
Aveva ancora un quarto d’ora per mirarsi allo specchio e schifarsi della sua condizione.
“Agitata? Sei vuoi provare certe parti della recita con me, io non mi tiro indietro.” La circondò da dietro, adagiando lo sguardo sull’immagine dei suoi seni nudi riflessa allo specchio.
Aveva un quarto d’ora per ignorare Vegeta!
“Perché sei voluto venire con me?” Disse, scappando da quei sospiri eccitati. I propri sospiri eccitati!
“Per prevenire i piccoli inconvenienti casuali.” Si gettò a peso morto sul letto. “E chissà che qualche puttanella non accontenti pure me stasera.”
“Cadi così in basso? Ti accontenti di qualche puttanella di uno squallido motel?” Insinuò insultante.
“Parlavo di te.” Si leccò le labbra e rise nella sua direzione. “Meglio che vai. So che al dottore piace trovare le donne già con le gambe aperte.”
Lo maledisse silenziosamente più di una volta e gli augurò i mali peggiori del mondo. Self controll, doveva solo restare calma: il lavoro sarebbe andato bene e lei, dopo, avrebbe avuto tutto il tempo per far ingoiare le scarpe col tacco a Vegeta.
Corse alla porta e girò il pomello. La notte era buia e rumorosa in quell’edificio. Sostava ferma sullo zerbino della porta e non aveva il coraggio di proseguire.
Aveva paura, aveva paura di non riuscire a proteggersi da un vecchio maniaco, aveva paura di non riuscire nel suo compito, senza compromettere la sua dignità di donna.
“Ti proteggo io.”

La bambina sapeva giocare bene a nascondino!
L’aveva ammesso a sé stesso, quando, cercandola per tutta la scuola, lei sembrava non esistere.
Non era neanche in cima alle scale d’emergenza ad aspettarlo, come succedeva da un paio di giorni.
Si diresse alla terrazza all’ultimo piano e camminò fino dietro il capannone degli attrezzi di manutenzione.
La trovò coricata a terra con la testa sulle gambe di Chichi e gli occhi coperti dai capelli spettinati.
Ad accoglierlo era stata un’espressione di puro disprezzo che non nascondeva la volontà di vederlo agonizzante in una pozza di sangue, il suo sangue.
Quella ragazza poteva essere carina. Aveva un seno prosperoso, certo non erano le tette di Bulma, ma un uomo comune che non poteva avere il meglio, si accontentava con piacere di lei.
“Vattene stronzo.”
Quella ragazza poteva essere carina, se non fosse stato per la sua lingua velenosa, la voce stridula, le maniere da dittatore e i pugni di un pugile professionista.
“Zitta rompicoglioni.” Non era conosciuto per la gentilezza.
“Io non mi sto zitta! Lei non ti vuole vedere e ha tutte le ragioni del mondo! Vattene o ti prendo a calci in culo.”
Quella ragazza poteva essere carina, se si comportava da ragazza!
“Non condivido la comune moralità che dice che le donne non si toccano neanche con un fiore. Stai attenta o ti potresti fare la bua.”
Scostò una Bulma assonnata e frastornata e si mise in piedi di fronte a lui, tenendo le mani sui fianchi e un’aria di sfida.
“Ma tutte le puttane che ti sbatti sono consenzienti o le minacci? Non ti facevo così disperato.”
Lui era impassibile e irritato, aveva promesso a Bulma che non avrebbe detto a nessuno che scopavano. Sorrise vittoriosa nella sua direzione. “Vattene, ora.”
Perché prestava fede a una stupida promessa?
“Non sono venuto qui per sentire i tuoi versi animali, voglio stare da solo con lei.” La scansò bruscamente col braccio, fingendo spettacoloso sdegno per quell’inusuale contatto.
“Con che coraggio avanzi pretese, dopo ieri sera?” Lo bloccò per la manica della giacca nera.
Lui roteò gli occhi esasperato e sbuffò sonoramente. “Ieri sera? Non mi vuole parlare perché non ho dormito in macchina? Perché non sono venuto a casa tua alle quattro del mattino?”
“Non ti vuole vedere, perché mentre lei sta male, tu le hai fatto le corna.” Al suo viso, assieme alle parole concitate, arrivarono anche gocce di saliva.
“Le corna? L’unica che ha le corna sei tu. Non credo nell’esistenza di un poveretto che ti sopporta, senza cercare supporto nelle altre.”
“Conserva quella poca dignità che hai e scusati almeno.” Lo spintonò nuovamente.
Lui ringhiò e poi esplose in una crudele risata.
“Tu sei pazza, una visionaria. Io non l’ho tradita e tu non hai le prove per dimostrare il contrario.”
“E tu hai le prove per dimostrare la tua innocenza?” Incalzò lei.
“Io non l’ho tradita. Bulma, ti devi fidare di me!”


Era svaccata in una maniera oscena sopra quel materasso scomodo e sporco e si accarezzava voluttuosamente l’interno coscia.
Il dottore era entrato e, proprio come aveva richiesto lui, la puttana era con la gambe aperte sul letto a sorridere ammiccante nella sua direzione.
Convegni, relazioni sociali, una famiglia perfetta e costosa. Per non comprometterne la reputazione si ritrovava costretto a scopare con delle estranee. Non che lo dispiacesse venire osannato e ubbidito da delle donnette allegre e schiavizzate.
Quella sera il Signor Freezer era stato davvero generoso con lui. Di solito gli rifilava bellezze scialbe e artificiali, ma quella sera l’aveva premiato per la sua cieca obbedienza.
Quella ragazza sul letto era splendida. Corpo d’avorio, curve divine, spregiudicatezza fatale.
“Divento triste, se mi lascia da sola su questo grande letto.”
Le indicò con la mano il lato sinistro del tavolo e trattenne un conato di vomito alla vista di quel sorriso sdentato. Almeno fosse stato bello!
Quell’uomo immorale, crudele, arrivista e approfittatore viveva, senza meritarselo.
Aveva ucciso i suoi genitori o aveva cospirato per ucciderli.
Si avvicinò con passo goffo al letto e si coricò a fianco della ragazza, toccandole il seno e levando quell’inutile pezzo di stoffa.
Le sue mani callose le palpavano maldestramente un seno, provocandole schifo.
“Dottore ho sete, beve un bicchiere di vino con me?” Propose lasciva, soffiandogli nell’orecchio.
“Perché un bicchiere di vino, quando hai una fonte da cui abbeverarti?”
Le tirò i capelli e la spinse verso il suo basso ventre.
Quella scalciava, si dimenava, urlava e faceva forza. Quell’uomo per essere un vecchietto decrepito era forte abbastanza da piegarle la volontà.
“Non mi piacciono le monelle, fai la brava.” Approfittò del momento in cui lui si sbottonò i pantaloni, per scendere dal letto e correre verso la porta. Quei tacchi erano scomodi e la rallentavano. Il dottore la bloccò per un braccio e la fece cadere a terra, sovrastandola col suo peso.
Cercò si levarselo di sopra, ma dovette ammettere che la sua forza fisica era insignificante e rimpianse di aver fatto danza e non arti marziali.
“Levati, mi fai schifo.” Aveva una prassi da seguire. Freezer l’aveva ordinato, ma non riusciva a spingersi a tanto.
“Basta, lasciami.” Gli tirò un pugno all’inguine e, buttando i tacchi all’aria, arrivò alla porta e l’aprì.
Fu sbattuta al muro adiacente da un corpo grinzoso e rachitico. Perché non aveva deciso di morire?
“Io non ti voglio fare male. Fai il tuo lavoro e non ti succederà niente.”
Si avventò sulle sue labbra semiaperte e le ficcò la lingua in gola, sporcando tutto il mento di saliva e rossetto sbavato.
Il rumore del nulla e poi un secco suono di ossa rotte.
Vegeta era dietro il Dottor Willow con le mani alzate e il viso incazzato. L’uomo cadde sul freddo pavimento con la testa innaturalmente piegata sotto il peso del suo corpo.
Era fermo. Non respirava. Ai suoi piedi un cadavere di un vecchio schifoso e colpevole.
Rubava l’aria dalla stanza e la custodiva gelosamente nei suoi polmoni. Gli occhi erano spalancati ma non vedevano realmente. Non le era successo niente, non era stata costretta ad avere rapporti con quell’uomo e non era stata costretta ad ucciderlo.
Non le era successo niente, Vegeta l’aveva protetta.
Lo guardò con degli occhi lucidi di gratitudine. Aveva mantenuto la sua parola.
“Ti devi fidare di me.”

Quella notte era meravigliosa. Le stelle, un lago, un intimo casolare.
A maggio i fiori nascevano e le rigide temperature diventavano più accomodanti verso la voglia di accaldato ozio degli studenti; ma tra le foglie e i rami di alberi secolari e in un paesaggio anacronistico, un soffio di fresco vento soffiava.
Era la prima volta che si mostrava nuda a un ragazzo e la cosa non l’aveva scossa, come si era sempre obbligata a pensare. Anche Vegeta era nudo. Nudo e rassicurante.
I bambini nascono nudi e i bambini sono segno di purezza e smalizia. Restando nudi, non avrebbero potuto commettere peccato verso la sua voglia di vivere ancora la sua spensierata fanciullezza.
Aveva la pelle d’oca e sentiva i brividi correre la sua pelle, ma non si sarebbe rivestita.
Si mise in braccio a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Le cinse i fianchi con le braccia e si impegnò a riscaldarla sfregando la sua pelle con le mani.
Calde le sue mani e morbide. Sembravano essere fatte apposta per accarezzare e per proteggere;
Quando una aveva imboccato la via dei suoi seni, la catturò e se la portò alla bocca.
La annusò, la baciò. Sapeva di buono, sapeva di dolce.


Le note rabbiose di una canzone suonavano nell’abitacolo, svalorizzando la tensione dei suoi pensieri.
La sua codarda dignità avrebbe avuto ripercussioni sulla sua incolumità? Un giorno, la sorte regalata al dottor Willow avrebbe omaggiato anche lei, e, quel giorno, il suo peccato non l’avrebbe protetta. Le mani di Vegeta sfioravano con delicatezza il volante dell’auto.
Quante volte quelle mani si erano lavate col sangue?
“Hai fame? Qui vicino c’è un bar che sforna sempre cornetti caldi.”
“Non ti senti in colpa per aver ucciso un uomo?”
Le sorrise paterno e parcheggiò la macchina in un viuzza secondaria e poco illuminata. “L’abitudine spegne i sensi di colpa.”
“Non è sbagliato uccidere la gente?”
“E’ peggio non essere convinti delle proprie azioni. Crema o marmellata?”
“E Freezer? Cosa gli dirai?” Se si dimostrava inutile, non avrebbe ponderato due volte ad ucciderla con le sue stesse mani, oppure l’avrebbero uccisa le mani di Vegeta. Sembravano pratiche.
“Che il dottore è morto. Interessa questo a lui.”
Si mise la sciarpa e aprì la portiera. Fuori era il freddo. Lei era ancora quasi completamente svestita.
Avrebbe voluto farsi mille docce per graffiare via dalla sua pelle il tocco di quell’uomo, per levarsi dalla testa la sua voce; ma sapeva che ogni sapone sarebbe stato inefficace e ogni spugna inutile.
Tornò, dopo pochi minuti, con un sacchetto pieno di cornetti e un’aria soddisfatta. Il gelo le accapponava la pelle e stringersi nella giacca non era più sufficiente.
Si sentì la faccia toccata da morbido e caldo velluto. “Avevi la matita sbavata.”
I brividi persistevano, ma non erano dovuti al freddo. Erano così perfette e ipocrite le mani di un assassino? Nascondevano nella loro delicatezza, una cattiveria amorale senza precedenti?
Addentò con gusto la soffice sfoglia del delizioso spuntino e notò con poco dispiacere che era senza ripieno cremoso. Si girò e gliene offrì uno a lei che non gli prestava attenzione. Fece spallucce e tornò a cibarsi di quella delizia.
“Sei sporco di crema.” Si mise a cavalcioni su di lui e gli leccò il labbro superiore totalmente pulito.
“Anche tu.” Le afferrò i capelli e le leccò il labbro inferiore, sporco di rossetto.
Inebetita dalle circostanze, seduta senza forma su quel sedile, la prese in braccio e la costrinse a guardarlo negli occhi. La baciò sulla bocca e poi sulla guancia. Le appoggiò la testa sul suo petto e le carezzò la chioma.
Si mordeva il labbro vogliosa, punendosi per le sue malsane voluttà. Era cresciuta e aveva imparato a saper discernere piacere fisico dai sentimenti dannosi e l’amore dal sesso.
Si morse il labbro, lottando tra il rimorso e rimpianto.
Spesso, se analizzata in un momento confuso e vulnerabile, una scopata poteva essere fraintesa con una dichiarazione d’amore. Ma l’amore era un sentimento così astratto, che non riusciva a spiegare a parole e non riusciva a delinearlo neanche con i pensieri.
L’amore era essenziale. Completava, aiutava, faceva vivere. L’amore era un sentimento di possesso, di affetto, di dipendenza verso una persona. Il sesso era il sesso: un atto puramente fisico e superficiale e per quanto piacevole, caduco.
Le piaceva provare piacere e non se l’era mai negato, visto che la nera solitudine veniva scolorita da questo.
Non sapeva se era pronta, sapeva che si sentiva bisognosa. Tutto era nuovo, ma non voleva che la novità l’eccitasse, voleva ricevere amore e sapeva che i fatti concludevano più delle parole.
Sorrise maliziosamente e si slacciò la cintura del cappotto, esibendo i suoi seni, rigidi e tesi per il freddo.“Mi riscaldi?”Prese le sue mani e se le portò al seno.
Strinse un capezzolo tra le dita e accolse l’altro nella sua bocca, lusingandolo con la lingua, succhiando la pelle e pizzicandola.
Abbassò la cerniera del cappotto e lo tolse e, dopo questo, la maglietta. Si strinse tra le sue braccia e cercò calore nella sua pelle. “Ho freddo.”
Le tolse il reggiseno e lo buttò sul sedile affianco. Prese a massaggiarle delicatamente i seni, non cessando di baciarle la nuca.

Sollevò la maglietta, scoprendo la perfezione del suo petto, desiderosa di sfregiarlo con graffi e lacerazioni. Affondò le sue unghia nella carne, ma lui non parve dissentire. Morse il collo, la spalla i suoi capezzoli, desiderosa di procurargli dolore. Voleva che lui capisse, anche in maniera minima, come si sentisse lei, come soffrisse lei.
Si sollevò la maglietta, scoprendo la perfezione del suo petto, scambiato per una scialuppa di salvataggio in un oceano naufragante. Lo carezzò con le mani e vi nascose la testa, desiderosa di perdersi in quella pelle calda e profumata. Una mano cadde mollemente e non trovò più la forza di risalire. Lui capiva, anche in maniera minima, come si sentiva lei, come soffriva lei.
La sua coscienziosa superiorità la portò a sorridere e a ricambiare con altrettanta enfasi il gesto. Le mordeva la spalla il collo, lacerando quella pelle e godendo del sangue scorrere su quella pelle troppo chiara per essere sporca.
Si strusciò contro la sua testa e la sollevò di peso. Le baciò il collo e poi la spalla. Stava attento ad essere gentile e delicato; almeno tra le sue braccia non le sarebbe dovuto succedere niente.
Posizionò  il sedile orizzontalmente. Si abbassò i pantaloni, ribaltò le posizioni con un colpo di reni e la bloccò col suo peso.
Si abbassò i boxer e con un colpo deciso entrò il lei che sgranò gli occhi per il doloroso piacere. Gli cinse la vita con la gambe e il collo con le braccia, seguendo col bacino il ritmo forsennato delle sue spinte.
Posizionò il sedile orizzontalmente. Lasciò che gli slacciasse i pantaloni e se li slacciasse a sua volta.
Si abbassò i boxer e delicatamente scostò le sue mutande. Allargò con due dita l’entrata, nutrendosi del celato piacere di lei e dei suoi occhi nuovamente vivi. Sentendola bagnata, la penetrò con una prima e poco vigorosa spinta, dandole il tempo di abituarsi all’estraneità di quel corpo.

“Fa male?” Domandò bastardo e andando più veloce, vedendola strizzare gli occhi e ossessionarsi il labbro con i denti. Si abbassò e le baciò gli occhi, sperando di  nutrirsi di qualche goccia perdente e umiliante di lei.
“Fa male?” Domandò premuroso e fermandosi, vedendola strizzare gli occhi e trattenere le lacrime.
Le asciugò gli occhi con il pollice e la baciò nella bocca, rassicurandola con carezze.

Inarcò la schiena per godere meglio.
Scosse il capo per invitarlo a continuare.
Continuava a spingere e lei si beava per quella splendida scopata. Si, quella era solo una scopata.
Continuava a spingere e lui si beava per quella splendida scopata. Si quella era solo una scopata.
Entrò tutto e lei soffrì, soffrì d’amore. Era la causa più nobile per la quale soffrire l’amore.
Bisognava difenderlo con ogni mezzo. Faceva male, ma era amore. Si, quello era amore.
“Ti amo.”
Entrò tutto e la vide soffrire, ma non si lamentò. Poteva vedere nei suoi occhi, anche se chiusi, quella ceca determinazione per difendere l’equivocità dei sentimenti. Le faceva male, ma lei lo amava. Per lei era amore.
Gli piaceva scopare, ma quella non era solo una scopata. Era amore? Era sesso?
Era confuso.


 

Le scene della nostra vita sono come rozzi mosaici. Guardate da vicino non producono nessun effetto, non ci si può vedere niente di bello finché non si guardano da lontano. 
Arthur Schopenhauer




Si, questo capitolo fa confondere c'è un minestrone di presente e passato che forse risulta indigeribile. xD
Vi state chiedendo il motivo di due frasi? Dopo un'attenta selezione, non ho saputo scegliere tra queste due e quindi...
Comunque spero vivamente che il capitolo non vi abbia fatto troppo schifo e che i caratteri sono buoni. I flash back sono collocati dopo la morte dei genitori di Bulma e lei è ovviamente scossa e Vegeta, stranamente, si sente in colpa. So che forse sono entrambi un po' OOC, ma spero non in maniera esagerata, fatemelo notare senza problemi se mi stessi sbagliando.
Spero che la collocazione precisa dei flash sia chiara, se non lo fosse, ditemelo e vedrò quel che posso fare. =)
Ringrazio vivamente tutti quelli che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono la storia: siete tanti e inaspettati, siete sempre in aumento e io sono sempre più grata e contenta. ^^
Vi lascio, buonatte a tutti e recensite se vi va (se trovate errori, ditelo)! :3

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Capitolo 10
*** 10.10 ***


Scendere a compromessi è un modo come un altro per salire.
Roberto Gervaso

 

Solitamente erano le donne che lo cercavano. Lui stava seduto a fumare, aspettando che qualcuna venisse per sollazzarlo un pochino.
Il suo potere stava in un branco di troie ripetutamente cornute che non smettevano di amarlo anche, quando le trattava come semplici buchi. Sempre.
Ultimamente il suo precario equilibrio, però, era stato stravolto da una convintissima moralista dagli occhi azzurri, dal culo perfetto e dal carattere odioso.
Sapeva di essere bello e sapeva che le donne in nome di quella bellezza gli avrebbero concesso le bastardate più bastarde.
Eppure si era ritrovato fradicio e incazzato nel tentativo di intrufolarsi clandestinamente alle Capsule corporation, per parlare con Bulma.
Parlare con una donna. Se qualcuno, qualche mese addietro, gli avesse detto che le donne erano dotate di un intelletto grazie al quale potevano mettere in ordine parole per formare un discorso di senso compiuto, non ci avrebbe mai creduto.
Dall’esperienza ricavava le sue conoscenze e la sua esperienza era stata Bulma.
Era stata la prima ragazza ad averlo rifiutato ed era stata la prima ragazza a urlargli contro perché lui si stava divertendo con un’altra, dopo che lei l’aveva rifiutato.
Cosa pretendeva quella pazza? Che facesse voto di castità, perché non era riuscito a scoparsela?
Scavalcò il cancello e atterrò su erba e fango, sporcandosi le scarpe bianche. Non trovava più una logica alle sue azioni. Lui che si sporcava per una ragazza: doveva essere ammattito.
La pioggia era forte e i suoi capelli erano un indicibile ammasso di peli senza forma. Corse verso l’ingresso della villa e si riparò sotto i balconi del piano di sopra.
Dalla vetrata si vedevano le luci accese e un sacco di bambocci che si divertivano a sentirsi grandi e poi c’era lei.
C’era lei senza trucco, con i capelli sciolti e con un vestito bianco che avrebbe tanto voluto che non ci fosse.
C’era lei con lui. Yamcha Pearson. Un deficiente montato e insignificante che la bambina, sicuramente, aveva voluto conoscere per adempiere al suo solito volontariato.
Si baciarono timidamente e poi lei si congedò momentaneamente correndo.
Fece il giro della villa e arrivò a un’altra finestra illuminata. La cucina era desolata e Bulma era appoggiata con le mani al bancone e aveva un’espressione pentita e colpevole.
Bussò alla finestra, distraendola dai suoi pensieri e facendola sobbalzare per l’inaspettato.
Si incamminò verso di lui, con passo militare e con l’espressione da omicida, e aprì l’infisso. “Che cazzo ci fai tu qui?” Urlò sottovoce.
Che cazzo ci faceva lì? Che cazzo ci faceva a girare in tondo come un coglione, facendosi la doccia sotto la pioggia?
Bulma l’aveva rifiutato e nessuna poteva rifiutarlo. Era lì per ricordarle il suo ruolo di donna e il suo ruolo di donna le imponeva di obbedire a lui sempre e comunque.
“Volevo vedere se diventavo più alto, innaffiandomi con la pioggia.”
Con l’ironia stava camuffando quel senso di fastidio che gli aveva invaso il cervello e il suo proposito di marchiarla come proprietà privata.
“Aspetta e spera.” Lo salutò con la manina e strizzò gli occhi in un saluto obbligato dal buon costume.
Le afferrò il polso e la trascinò di peso fuori con lui, buttandola sull’erba e buttandosi sopra lei.
La schiacciava con tutto il suo corpo per non farla muovere e, irruente, le violò le labbra aperte per la sorpresa.
Si muoveva come un anguilla bagnata sotto di lui, risvegliandolo e rendendolo bestia nei pensieri.
“Lascialo.” le sussurrò sul viso, guardando quegli occhi felici e sentendo le sue parole incazzate.
“Lasciami tu.” Era agitata come un’ossessa e ringhiava mentre parlava.
Quelli spilli d’acqua sulla sua schiena erano davvero fastidiosi, ma almeno il rumore copriva i suoi lamenti. “Lascialo.”
“Lasciare Yamcha? Per avere più tempo per guardati mentre stai con le altre? Per essere disponibile quando ti stanchi delle altre? Per stare con te, quando me lo chiedi tu?”
Il vestito bianco era diventato trasparente e comunque troppo leggero per la temperatura del tempo e per quella del suo corpo, sempre più calda, sempre più febbricitante.
“Lascialo.” Tentò di impossessarsi delle sue labbra, ma lei si girò e lo spinse dalle spalle.
“Perché devo lasciare Yamcha?” Ringhiò.
“Perché sei mia.” Scese sul collo e annusò quell’odore di pesca che lo confondeva.
“Perchè devo lasciare Yamcha?” Sbraitò esasperata.
“Perché vuoi me e non lui.” Gli tirò i capelli con forza. Le piaceva lui, ma le sue risposte no.
“Perché devo lasciare Yamcha?” Lo esortò.
“Perché io ho lasciato perdere le altre e perché se mi fai dire un’altra stronzata, ti ammazzo.”
Salì su e si fiondò sulle sue labbra aperte, giocando con la sua lingua consenziente.
Gli cinse il collo con le braccia e mischiò i loro respiri.
Era migliorato, ma non era il migliore. Sulla dolcezza di Vegeta avrebbero dovuto lavorare tanto, davvero tanto.
“Sono troppo essenziale in questo mondo.” Dichiarò con un sorriso spensierato.



L’aria nella stanza era opprimente e la luce aveva paura di filtrare attraverso le persiane chiuse.
Freezer muoveva nervosamente la gamba e picchiettava il tavolo con le dita. Il suo volto assecondava il suo malcontento e la sua rabbia.
Puntava prima, feroce, gli occhi su Bulma e poi, deluso, su Vegeta.
“Non sapevo che fossi capace di rompere l’osso del collo a un uomo.” Si alzò dalla sedia e le girò intorno, fomentando il fallimento fatale che pendeva sulla sua testa.
“Sapessi di cosa sono capace.” Rispose, erroneamente sfrontata.
“Tu lo vuoi sapere di cosa sono capace io?” Le afferrò la gola con le mani, togliendole il fiato e regalandole dolore.
“Sono capace di ammazzarti seduta stante o di farti rimpiangere l’inferno in ogni momento tu desideri.”
Annaspava alla ricerca di ossigeno, cercando di non pensare con disgusto e preoccupazione al colore della sua faccia che sarebbe potuto diventare tendente al viola.
Allentò la presa, ma non demorse. Sapeva che le sue parole accompagnate da una emozione forte, come la paura, sarebbero state un monito per sempre nella vita di quella donna. “O obbedisci o muori. Capito?”
Affondò le unghia nella sua carne e gli occhi in quel sublime e appagante spettacolo. Non riusciva a capire perché la gente si dovesse contrapporre alla naturale sottomissione che si doveva avere nei suoi confronti. Non sarebbe stato più proficuo per quella donnaccia non scatenare la sua collera?
“Basta, lasciala.” Si alzò dalla sedia e appoggiò serafico la mano sul suo completo firmato.
Era imperscrutabile e impertinente e non accennava preoccupazione per lei.
“Perché? Hai forse certi interessi per questa?” Alluse malizioso Freezer, scatenando un sorriso divertito nell’altro.
“Non vale la pena sporcarsi le mani.” Fece forza sulle sue dita per invitarlo ad allentare la pressione sulla gola della ragazza. “Morta non avrebbe utilità.”
La lasciò e, vedendola barcollare, la spinse a terra, facendola inginocchiare sul parquet. Le diede le spalle e tornò seduto sulla comoda poltrona di pelle.
“Manco da viva ha utilità.” Sospirò, incrociando le mani davanti alla bocca.
“Tu sottovaluti il sacro potere della coercizione e della paura, caro.”
Era carponi sul pavimento, cercando di riabituarsi al sapore vitale dell’aria e il suo cervello assorbiva con disgusto quelle parole, baluardo della crudeltà gratuita.
“Chi ti dice che io abbia paura di te? Di voi?” Si alzò, barcollando, e piantò saldamente i piedi al terreno, fronteggiando la figura autoritaria di Vegeta.
“Io vi servo e so per certo che non mi farete mai male.”
“Tu non servi più di quanto non serva una qualunque altra puttana…”
Lo odiava quando parlava. Lo odiava sempre. Caricò un man rovescio, ma lui le bloccò il polso e con poca forza glielo piegò in maniera innaturale verso dietro, facendola gemere di dolore e sprofondare nel baratro della sconfitta.
“…e non essere certa delle tue minchiate.”
Il dolore al polso era lancinante e faceva fatica a trattenere quelle lacrime amare che avevano voglia di rigarle il viso e di dichiararla debole.
Freezer sogghignava compiaciuto di quella violenza e sembrava aver goduto nel sentire il suono secco delle sue ossa spezzarsi.
Non erano umani quei due. Erano strani. Troppo sprezzanti, troppo crudeli, troppo arrivisti, troppo perfidi, troppo violenti, troppo inquietanti e troppo contorti e incontentabili.
Non aveva compreso quale fosse il loro obiettivo finale. Avevano una città piegata, soldi e potere. Freezer controllava tutti i traffici legali e non.
Dove volevano arrivare? Forse quella loro mostruosità era umana e la sbagliata era lei.
“Portala da Zarbon.”

Una semplice frattura. Sarebbe guarita nel giro di un paio di settimane, senza bisogno del gesso, solo una fitta fasciatura.
Zarbon, il medico, era amico di Freezer. L’aveva capito da quella confidenza che si permetteva con Vegeta e dalla sua più totale imperturbabilità, quando quello gli aveva detto che avrebbe dovuto fasciare il polso che le aveva rotto. Anzi a dirla tutta si era messo a ridere e l’aveva guardata con biasimo, come se avesse commesso lei l’errore.
Era un bell’uomo, esattamente come la sua giovinezza aveva profetizzato, ma gli mancava quella virilità che contrassegnava Vegeta.
Erano soli nell’ambulatorio. “Chiedi scusa a Freezer e Vegeta appena puoi.” Le aveva preso senza delicatezza il polso, facendola gemere, e aveva preso una lunga benda bianca.
“Per quale arcano motivo?” Chiese sconvolta dalla semplice e cieca fedeltà che quello dimostrava.
“Perché non hai obbedito ai loro ordini e non si fa questo.” Aveva iniziato ad arrotolare la fasciatura sull’osso rotto con una competenza di cui non l’avrebbe ritenuto mai capace. Le sue parole erano paghe e conte e il suo tono non accennava eccessi di nessuna sorta.
“Mi ha rotto un polso, l’amico tuo.” Non sapeva più dove sbattere la testa in quell’ambiente di malati e leccaculo.
“Allora ringraziali. Ti avrebbero potuto fare molto male.”
“Ancora di più di quanto già me ne hanno fatto?”
“Certamente.” Sorrise orgoglioso e si perse con occhi tristemente adoranti in quello che aveva fatto, in quello che faceva e in quello che avrebbe continuato a fare di turpe.
Zarbon era competente. Non si era distratto un attimo, neanche quando il suo cellulare era squillato, ed era stato attento a non farle troppo male. Zarbon era bello, era intelligente e sembrava sereno; lei invece era agitata e nervosa.
“Ti  senti usata, non è vero?”
Un uomo all’apparenza normale che non nascondeva dietro il chiaro dei suoi occhi il nero del sudiciume che lo abitava.
“Quando hai conosciuto Freezer?”
Lui alzò gli occhi e parve affogare nei ricordi per poi sorriderle contento.
“Avrò avuto circa ventidue anni, frequentavo Vegeta. Mi sembra che spacciassimo nel vostro liceo. E’ incredibile quanti figli di papà che hanno tutto nella vita, la buttino nel cesso.” Scrollò le spalle senza una risposta e non cessò di sorridere.
“Nessun motivo è valido per drogarsi.” Arricciò il naso disgustata dalla visione di milioni di adolescenti, burattini di un burattinaio che voleva il loro male e che glielo vendeva come bene.
“Tu ti facevi le canne.” Ricordò felice di sentirla contraddittoria e in conflitto con sé stessa.
Dalle menti più deboli si plasmavano le armi più potenti.
“Non ti senti mai oppresso da Freezer?” Tornare al discorso precedente, avrebbe allontanato l’ennesima sconfitta della giornata.
Inclinò la testa, enigmatico, non comprendendo il fine di quel discorso.
“Ti è mai venuto il desiderio di ribellarti a lui? Di smettere di essere quello che lui ti impone di essere e smettere di fare quello che lui ti impone di fare?”
“Perché credi che mi abbia costretto?”
“Non è così?”
“Freezer prometteva di farmi essere e di farmi avere quello che gli altri non potevano, quello che io da solo avrei avuto difficoltà a potere.”
“Questo perché magari venivi da una situazione difficile, ma se ti fossi trovato in una famigli agiata che ti avrebbe potuto garantire un futuro non saresti stato costretto a cedere a Freezer.”
“Mio padre faceva l’architetto, guadagnava bene e mi dava tutto quello di cui avevo bisogno. Solo che l’uomo non si accontenta del necessario, vuole il superfluo. Io ho scelto Freezer e sono medico, ho una bella casa, una macchina sportiva e tutti i soldi che voglio, pagando un prezzo insignificante, inferiore alla fatica che avrei usato per arrivare a questi traguardi con le mie sole forze.”
Scosse la testa schifata, negando tutte le parole che aveva sentito.
“Tu pensi che Freezer e Vegeta ti stiano usando, ma perché invece non provi tu a usare loro? Loro ti chiedono pochi favori e tu potresti farti pagare oro questi favori. Se tu ti rendessi disponibile e acconsenziente e affidabile, loro con te sarebbero disponibili e acconsenzienti e fiduciosi. E da questo rapporto di apparente sudditanza tu ricaverai tanti e tanti vantaggi.” Finì di fasciarle il polso e le sorrise cordiale.
Erano le parole di un venduto consapevole, convinto, contento. Non aveva pentimenti e non sembrava essere tormentato da incubi la notte.
Viveva male quello, agiva male e non gli succedeva niente, perché lui era forte, sapendosi fingere debole.
Vegeta irruppe nella stanza, irruento e annoiato. “Zarbon le hai fasciato un polso o le hai fatto una plastica facciale?”
“Penso di averla fatta guarire del tutto.” Scoppiò a ridere, strizzando l’occhiolino a Vegeta.

Erano in macchina, diretti verso l’appartamento del ragazzo. Freezer aveva espressamente ordinato di tenerla vicina e controllata e lui non aveva obiezioni in proposito, considerando il divertimento e le soddisfazioni che gli avrebbe potuto dare questa.
Salì le scale con vecchi pensieri e entrò nell’appartamento con nuovi obiettivi e diversi compromessi e premesse. Aveva prima sentito le parole di Zarbon e poi aveva deciso di ascoltarle. Provare, tentare un’altra strada equivaleva a non soffocare, oppressa da quei rovi di male.
Alle sue spalle c’era lui che, con nonchalance, aveva sbattuto la porta e aveva buttato il giubbotto a terra.
Gli balzò addosso, attorcigliando le sue gambe al suo bacino e leccandogli insistentemente l’incavo tra la spalla e il collo. Gli baciò l’orecchio e gli accarezzò la faccia. “Prima ho sbagliato. Prometto, ti prometto, che non lo faccio più.”
Gli piaceva quello che le aveva detto Zarbon. Ormai era da tempo che aveva messo davanti alla sua esistenza un cartellino con un prezzo, tanto valeva riscuotere il danaro.
“Non mi fido delle parole.”
“Fidati di me.”
“La fiducia si deve guadagnare.”
“Dammene l’occasione e io non ti deluderò.”
“Dovresti fare quello che ti dico io.” Le afferrò rude il polso rotto e se lo portò sopra la patta dei suoi pantaloni, stringendolo e facendo stringere a lei gli occhi per il dolore.
“Devo fare quello che mi dici tu.” Seguì il ritmo che lui le aveva imposto. Faceva male; le ossa scricchiolavano, i nervi vacillavano, la sicurezza era fomentata e le lacrime la minacciavano.
“Qualunque cosa ti abbia detto Zarbon, stai attenta. Stai attenta a quello che fai.” I suoi occhi erano neri e vuoti della loro pienezza. Poteva essere bravo a nascondere, a fingere, a usare, ma lei lo era di più. “Vegeta, non voglio morire. E’ così difficile da credere?”
“E’ difficile credere a te.”
“Ti ho detto che se c’è qualcosa che posso fare per avere la tua fiducia, qualunque cosa, io la farò.”
Levò la sua grossa mano, notando con piacere che lei eseguiva quel doloroso comando, senza costrizioni. Solo pura voglia di sottomissione e di redenzione?
“Potrebbe diventare un divertente giochino per me- trattenne un ringhio di soddisfazione- ma per te, potrebbe essere tanto brutto.”
“L’importante è che sta bene a te.” Si appoggiò al suo petto e nascose il volto tra i muscoli del suo collo. Buon odore, bel fisico, ottimo amante. Zarbon aveva ragione: non faceva così schifo fare la venduta.
Le accarezzò i capelli e la cullò col suo respiro eccitato. Con la mano libera frugò nelle tasche dei suoi pantaloni e estrasse il suo cellulare.
“Se questa è una farsa, dimmelo. E’ l’ultima occasione che hai per poter non voler morire.” Lei scosse convinta la testa e gli baciò la pelle.
Digitò, veloce, alcune cifre e se lo portò all’orecchio.
Dopo un paio di squilli, sentì, provenire dal telefono, la voce secca di Freezer.
“Ho una bella notizia. Bulma ha deciso che è completamente nostra.”
“Ha perso tempo.”
“E di questo è pentita. Mi chiedeva se c’è un modo per farsi perdonare.”
“Ne conosci tanti modi, non c’è bisogno che ti le suggerisca io, Vegeta.”
Sospirò estasiato e beato e prese tra due dita il mento di Bulma, per baciarle le labbra.
“Non sei il suggeritore, sei il modo.” Scoppiarono entrambi in una risata demoniaca, tra la voluta incomprensione di lei e i suoi ripensamenti. “Vieni qui che ce la scopiamo un poco.”
“Si fallo venire. Sperando che almeno lui sappia fare qualcosa.” Gli prese il mento tra due dita e baciò quelle labbra, inarcante da un fastidioso stupore.
Gli uomini e l’orgoglio. Se batteva l’uno, ricapitolava anche l’altro.
Chiuse il telefono stizzito e la sbatté al muro, intrappolando il suo collo tra le sue mani.
“Complimenti ci sei riuscita. Ti devi impegnare solo a far finta di sopportare me.” Sorrise soddisfatto e fiero.
“Io mi vogl…Io devo- se voleva vincere non poteva mostrare di avere voleri, solo doveri- impegnarmi solo a fare tutto quello che tu mi dici di fare. Perché non mi vuoi credere?”
“Perché devo crederti?” Gli mise una mano sul petto.
“Perché sono tua.” Fino a dove poteva, sapeva e voleva spingersi?
“Perché devo crederti?” Si avvicinò a lui, con il suo volto.
“Perché voglio te e nessun altro.” Ancora non era abbastanza. Ogni singola parola che stava dicendo, un domani, le sarebbe pesata come un macigno e lui voleva vederla morta sotto le sue stesse stronzate.
“Perché devo crederti.” Senza paura, senza titubanze, lo baciò.
“Puoi anche non credermi, ma io ti sono fedele. Solo a te. Solo tu puoi darmi ordini e solo ai tuoi ordini, obbedirò.”
Le lasciò il collo e l’attirò a sé, intrecciando i suoi capelli tra le sue dita. “Fammi fidare di te.”
Sorrise vittoriosa, gli slacciò i bottoni della camicia e si fiondò a baciare e carezzare il suo petto. “Come tu comandi.”
Si sottomise completamente. Si fece fare e fece tutto quello che lui voleva, quando voleva lui e come voleva lui. Il tutto non fu completamente spiacevole, anche a voler cogliere i vantaggi del presente.
Vegeta era un amante capace e mirava al piacere della compagna esattamente come mirava al suo. Egoismo. Egoismo nella più alta, pura e perfetta forma.
Che rilassatezza ci sarebbe stata a forzare una donna contraria?
Che nutrimento avrebbe avuto il suo ego, se accennava l’ipotesi, che lui potesse non essere piacente per qualcuna?
Che piacere avrebbe avuto nella non vittoria?
Erano nudi e ancora vicini. Lui sostava tra le sue gambe, appoggiando la testa sul suo ventre e i gomiti sulle sue cosce. Gli aveva acceso una sigaretta, gliel’aveva portata alla bocca e si era offerta di massaggiargli le spalle.
Era così sereno, così rilassato da non sembrare manco Vegeta.
“Ti fidi di me, adesso?”
Espirò annoiato e alzò gli occhi sul suo viso. Sorrideva la bambina, era contenta la bambina. Ricambiò il sorriso e annuì con la testa. Chiuse gli occhi e parlò piano.
“Quel monolocale dove vivi fa schifo, vieni a stare qui. L’appartamento di sotto è libero.”
“Poi la città mi verrebbe troppo distante.”
“Comprati la macchina che vuoi, pago io.”
Si chinò e gli baciò la fronte. “Grazie.”
Grazie Zarbon. Con una scopata aveva guadagnato un attico, una macchina e tre orgasmi. In effetti il guadagno era più della spesa e la spesa, se la spesa era farsi sbattere da Vegeta, era anche piacevole da fare.
Zarbon era una fottuto genio!
“Vuoi che faccio altro?” Quella notte non aveva dormito e si sentiva stanco. Voleva solo dormire e riposarsi, anche se era ora di pranzo.“Continua.”
“Come tu comandi.” Schioccò la lingua nel palato e eseguì l’ordine.
Aveva gli occhi chiusi, ma poteva intravedere benissimo il suo sorriso vittorioso e i suoi occhi lucenti.
Si usa, facendosi usare. Era comune, molti lo facevano, ma bisognava avere le doti per farlo.
Chi glielo diceva che non si sarebbe fatto abbindolare da una puttana, lui che poteva avere tutte quelle che voleva? Eppure doveva essere chiaro a lei, sempre così intelligente.
Spense la sigaretta e la diede in mano a lei affinché la buttasse. Credeva di aver vinto la bambina e lui non era mai stato così contento di fomentare le false speranze altrui.
In fondo ci aveva solo guadagnato.
Zarbon era un fottuto genio!



Questo capitolo è stato difficile!
Prima voleva essere un capitolo stupido, senza particolari avvenimenti, solo una panoramica su Bulma e Vegeta. Poi scrivendo mi è venuta questa ideuzza e ora sono affascinata da quello che ho scritto, anche se so che, quando lo rileggerò, mi farà schifo. Ma approfitto dell’attimo fuggente e lo pubblico adesso. xD
E’ un mio desiderio che il capitolo non vi infastidisca molto, perché potrebbe essere così…xD
So che ci sono molti dialoghi e forse potreste pensare che l’introspezione sia andata a fare un bel bagnetto, ma i filosofi dell’antica Grecia per spiegare la loro filosofia usavano o raccontare miti o dialogare, affinchè anche il meno sapiente capisse e apprezzasse e poi era più facile e più avvincente ecco…xD
So di non essere Platone, tranquille. xD
Ringrazio tutti coloro che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono la storia: siete meravigliosi, siete sempre di più e io sono sempre più contenta. Giuro!<3
Vegeta è un bastardo, subdolo e schifoso, ma io lo vedo così e ogni volta mi si riempe il cuore di gioia. E inoltre io ho una teoria alquanto particolare della relazione Bulma e Vegeta. Un giorno sono sicura che riuscirò a farla esporre a uno dei due.  U_U
Buonanotte :DD
Ps. Forse cambierò la frase che non mi convince.

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Capitolo 11
*** 11.11 ***


La ragione è la follia del più forte. La ragione del meno forte è follia. 
Eugène Ionesco



“Lucia o la monaca di Monza? Alla luce di quanto studiato, chi è il personaggio caratterialmente più forte?” La prof non aveva nemmeno bisogno di sistemarsi gli occhiali: il bitorzolo sopra il suo naso non permetteva a quelli di scivolare sulla punta.
Se avessero inventato una materia più inutile e inconcludente della letteratura, non riusciva a capirlo, ma certo era che nel suo futuro non ci sarebbero state né Lucia né Gertrude.
“La seconda. Non credo possa considerarsi forte chi piange sempre senza affrontare i suoi problemi.” Era sempre convinta di ciò che diceva, poi, quando la domanda era ovvia, la sua voce si coloriva di superiorità e strafottenza non dovuta.
“Brief sei superficiale. Lucia rappresenta la forza delle fede. Non cede mai al male, è forte abbastanza della sua fede per non scendere a compromessi e si salva.”
E la professoressa le faceva pagare caro il suo modo di porsi e atteggiarsi.
“Non è forte un burattino solo perché forte è il burattinaio che lo muove. E’ forte il burattino quando diventa uomo consapevole di scegliere e di sbagliare e di volere sbagliare.” Ma mai si era detto che lei non avesse tenuto testa a qualcuno e che non avesse ragione.
“Lucia resiste alla tentazione.”
“La tentazione di Gertrude era amare e volere essere donna? Non dovrebbe essere una tentazione questa, ma una costante naturale.”
“Lucia ama Dio.” La professoressa si divertiva ad angosciare gli studenti con la sua famosa penna stilografica, dall’inchiostro nero, che teneva sempre in bilico tra le dita e fingeva di lasciare cadere accidentalmente sul registro aperto.
“E’ un’esagerazione tutto il bene che le rende quest’amore a senso unico. Prega, si affida totalmente e ciecamente a Dio e si salva sempre: è un personaggio passivo e anche negativo, se l’esempio positivo è chi lotta per ottenere. Ed inoltre è un amore irrazionale in quanto Dio non è un ente che si può spiegare con la ragione.”
“Perché Brief, tu non ami irrazionalmente? O forse sei l’unica adolescente a razionalizzare l’amore?”
Bulma trattenne una risata isterica e si succhiò il labbro inferiore per inibire parole che non le sarebbe convenuto dire per mantenere la media alta.
Si convinse a pensare che quella domanda, totalmente disinteressata, fosse stata una pura casualità, indipendente dal fatto che la megera l’avesse sorpresa “fraternizzare con Ice nella toilette della scuola”, come aveva avuto la simpatica idea di nominare l’accaduto.
Strinse maggiormente le gambe: andare in bagno durante le ore di italiano sarebbe stato un bellissimo ricordo della sua violata privacy.
“L’amore è un sentimento e per tanto è irrazionale; ma prima di amare altri, amo me. E il rispetto e la consapevolezza di sé sono pregi dell’intelletto.”




Le strade della Città dell’Ovest erano sempre affollatissime, anche quando l’orario faceva presupporre un deserto di persone dovuto agli impegni lavorativi.
E invece scansafatiche ce n’erano davvero tanti. Le dava fastidio tutta quella calca, le sembrava le occludesse l’aria e si sentiva trafitta da mille sguardi.
La schiena era tesa, seppur la sua pelle era smossa da leggeri e impercettibili brividi.
Uscire non le poteva fare che bene: rimescolarsi a quelle ovvietà umane le avrebbe recato ausilio per estraniarsi da quelle stramberie diaboliche di cui, volente o nolente, era partecipe.
Una volta era molto estroversa ed espansiva. Che problemi ci sarebbero potuti essere a parlare con una nuova persona o a chiedere informazioni al primo passante?
E, teoricamente, non ce ne sarebbero dovuti essere neanche nell’immediato, ma aveva paura che se avesse domandato indicazioni ad un passante, quello avrebbe eluso la domanda e l’avrebbe giudicata.
Era uscita affinché l’aria fresca soffiasse via la polvere dalle sue vecchie abitudini.
Evitava accuratamente qualunque tipo di contatto accidentale con chi, inavvertitamente, minacciava di arrivarle addosso, spinto dalla fretta.
Tutti ridevano, scherzavano, parlavano al telefono e sembravano vivere serenamente senza crucciarsi di ciò che non avevano fatto loro. Sarebbe importato poi veramente a qualcuno che lei era un sicario assoldato?
Passeggiava tra le stracolme bancarelle alimentari del mercato cittadino ed osservava con nostalgia i ricordi che i suoi occhi vedevano. Un tempo quel posto lo aveva considerato un paradiso: l’unione della comunità umana e il lavoro come sviluppo dell’economia e quindi un benessere sociale.
Sacrificio, simbiosi, giusto profitto: sarebbero dovute essere queste le regole della pace e della vita, senza offese, tra gli uomini.
Un banco di frutta rapì all’economia la sua attenzione: in bella mostra, lucidi e invitanti, stavano dei pomodori. Così pieni e succosi, così rossi, essi nascondevano la loro natura acida con un sapore dolcissimo.
Gli venne subito desiderio di quelli. Una fresca insalata con poco olio, in sostituzione dei soliti cibi precotti, insoddisfacenti sotto molti punti di vista.
“Desidera, signorina?” Chiese cortese l’affabile vecchietta che si occupava di venderli. Era magra, bassa e curva; la faccia devastata da mille macchie e una bocca sdentata che non le impediva di curvare le labbra nella radiosità della spensieratezza.
Si sentiva rincuorata da quel sorriso poco estetico, ma l’angoscia non l’aveva ancora abbandonata del tutto. Chi c’era dietro di lei che le soffiava caldo sul collo. Chi le stava tirando i vestiti?
Si voltò di scatto con un’espressione di furente paura, ma vide la tranquillità della strafottenza di tutti. Non c’era nessuno vicino a lei.
“Si sente bene?”
“Vorrei dei pomodori.”
“Intende dei pomidoro?” La corresse la vecchietta con saccente saggezza.
Bulma non capì quella precisazione, quell’inutile precisazione. “Si, quelli.” L’assecondò, scettica e poco propensa alle relazioni sociali.
“Perché è così stranita, signorina? Perché si è abituata a pensare come tutti?”
Prese un sacchetto di carta e iniziò a riempirlo di pomodori sotto i suoi occhi diffidenti e curiosi al contempo.
“Sembra che gli antichi greci li considerassero frutti preziosi, dono del giardino delle Esperedi. Erano dorati e avevano un immenso valore, oltre che, come si rivelò in seguito, un terribile potere di sciagura.”
Chiuse il sacchetto con le mani e lo pesò su una vecchia bilancia a due piatti. Faceva difficoltà a leggere il peso, ma non chiese l’aiuto di nessuno.
“Per questo si chiamavano pomi d’oro, ma forse la fretta ha portato a disinteressarsi del vero e ad adeguarci alle imposizioni comuni. Ecco a lei i suoi pomodori.”
Quelle mani rugose le porgevano il sacchetto e lei lo prese facendo attenzione a non toccarle. La pagò in contanti e tornò per la strada.
Fissava il cielo estasiata e fiera nel pensare che quell’infinito era rinchiuso nei suoi occhi. Camminava, senza fretta per non tornare a casa e senza calma per non dover pensare: camminava, facendo lo slalom tra la gente e guardando tutto, senza mai osservare niente.
Dietro di lei sentiva nitidamente dei piedi toccare leggermente l’asfalto e calpestare le sue stesse orme. Il rumore delle gente era scomparso e l’aria era diventata ora un soffio caldo sul suo collo.
Si fermò e i passi si fermarono. Non era sola, in torno a lei c’era la gente e la gente camminava.
Immobile, mosse gli occhi e riprese a vagare senza meta. Era così che si viveva, no?
Andare avanti, senza sapere dove andare? Solo che più andava avanti, più sentiva che non sarebbe potuta tornare indietro, non sarebbe più potuta essere salva.
Il suo cuore le tamburellò il petto, infastidendola parecchio, perché tutto quel ticchettio la disorientava.
Tornò sui propri passi e pensò di terminare la sua passeggiata. Non aveva più niente da fare.
Due iridi verdi la fissavano da lontano e la minacciavano. Due occhi verdi splendidi, dal taglio particolare, ma conosciuto.
Sembravano smeraldi, incastonati in una cornice di boccoli biondo scuro.
Si mise una mano tra i capelli e scosse la testa e non la vide più. La sua coscienza era davvero spiritosa e giocava a farla impazzire.
Riaprì gli occhi e come regalo ricevette una smorfia di odio, tradotta in vendetta.
Quella alzò la mano e la mosse nella sua direzione, mimando il gesto di una pistola.
Sbarrò le palpebre e incominciò a correre, facendo cadere il pacco dei pomidoro, e tenendo la bocca aperta, per non lasciarsi sfuggire aria.
Aveva bisogno di aria per vivere, aveva bisogno di vivere. Girava la testa dietro di sé e poteva scorgerla ridere di gusto di quella sua ignobile fuga o forse per la paura irrazionale del suo volto.
Urtò parecchie persone e parecchie persone le imprecarono contro, ma l’importante era che giungesse alla macchina e scappasse da quel luogo di immaginazione.
Inciampò su una pietra sull’asfalto e cadde rovinosamente a terra ma trovava ancora la forza di scappare, strisciando  il sedere, perdendo quella minima dignità. La mascella non voleva sapere di smettere di tremare e le mani si chiudevano spasmodicamente senza motivo.
Voleva tornare a casa e basta.
Si alzò, ignorando i pantaloni bucati e le mani graffiate e continuò a scappare da chi non la stava inseguendo.
Prese le chiavi dalla borsa, salì nella vettura e l’accese senza titubanze.
Il polso pulsava ancora terribilmente e si maledisse per non essere rimasta un altro giorno nell’appartamento a guardare le bende stringerle la carne.
Sgommò verso la periferia della città: ormai considerava quella casa sua.

E anche se lui le aveva riservato l’appartamento di sotto, preferiva salire una rampa in più e attendere interminabili minuti dietro la porta per entrare in quella casa abitata e non vedere la desolazione dei suoi scarni mobili.
Più volte si era divorata, con grandi e nervose falcate, il pianerottolo, inciampando sullo zerbino e più volte aveva sbattuto l’intero palmo della sua mano contro il mogano dell’uscio.
Nessuno rispondeva e, accostando l’orecchio alla porta, non riusciva a sentire nulla se non il silenzio.
Era l’ora di pranzo, forse lui usava mangiare fuori o forse era andato a lavorare; in fondo l’unica che era stata licenziata, come cassiera di una self-service, era lei.
Abbassò, sconsolata le spalle e si abbracciò con le mani. Non voleva scendere, non voleva stare sola a immaginare, voleva qualcuno che potesse sentire e vedere quello che sentiva e vedeva lei.
“Hai sbagliato piano o ti sei dimenticata le chiavi?” A fermare il suo tremolio fu la voce di Vegeta che arrivò con la solita indifferente ironia.
Si fermò alla sue spalle, un gradino più in basso di lei e non si mosse. Teneva sulla spalla destra una borsa di pelle nera a tracolla e al collo una cravatta con un nodo perfetto. Tutti gli uomini si allentavano la cravatta appena finivano il loro dovere, perché era scomoda, perché la intendevano come un cappio di stoffa.
Si scostò per lasciarlo passare, senza dire niente, e, quando ebbe aperto la porta con le sue chiavi, si precipitò dentro senza invito, passandogli sotto il braccio teso.
“Mi casa es tu casa.” Ringhiò verso di lei, che aveva già comodamente colonizzato il divano.
“Mi fa piacere che la pensiamo alla stesso modo.” Si sistemò meglio, incrociando le gambe sopra il cuscino con tutte le scarpe, mostrando così il ginocchio sbucciato.
Uscì dal soggiorno e si perse nelle altre stanze. I cassetti sbattevano e delle serrature scattavano. Era strano considerando che non aveva mai visto chiavi inserite nelle toppe delle porte.
Tornò, reggendo una busta di carta gialla, che sistemò nella borsa.
“Che cos’è?” Si alzò dal divano e trottò verso di lui, cercando di afferrare quel segreto cartaceo.
Le piaceva ficcare il naso negli affari degli altri, voleva sapere tutto, scoprire tutto, non essere mai impreparata su niente.
“Cose che non ti interessano.”
“Cose che non mi interessano tipo chi dovrò uccidere o quando lo dovrò fare?” Se avesse coltivato solo gli interessi che loro dicevano dover essere i suoi interessi sarebbe stata una persona totalmente sterile.
“Cose che non ti interessano tipo cazzi miei.” Gliela strappò dalle mani e la rimise in borsa, chiudendola con le cinghie.
“Io torno a lavoro e tu te ne torni a casa tua, ok?” La spinse per le spalle verso la porta, nonostante facesse peso, per un qualche improbabile tentativo di opposizione.
“Dai fammi restare qui! Che fastidio posso dare quando non ci sei?”
La spintonò ancora più forte e lei aprì braccia e gambe per non passare dall’ingresso.
“Se non mi vuoi fare restare qui, vengo con te.” Si girò celere e gli si abbrancò al  braccio, sgualcendogli la giacca.
Era immobilizzato tra i suoi seni e non voleva liberarsi. Quanto le odiava le donne con tutti i loro sbalzi d’umori e insensatezze. “Tu vaneggi.”
Strofinò il naso umido sopra il tessuto e si asciugò anche la guancia.
“Vegeta, Irene è viva o morta?”
La odiava per avergli sporcato la giacca, ma la compativa per via della sua condizione di donna. Possibile che quel groviglio di mali interiori, che lei chiamava sentimenti o emozioni, la facesse diventare pazza?
“E’ viva, ancora.”
“E dov’è?”
“In una cella isolata, controllata giorno e notte da delle guardie. Smettila con i sensi di colpa e con tutte queste stronzate.” Perché aveva gli occhi umidi e persi?
“Non è vero!” Urlò con quanto fiato avesse in gola, facendolo indietreggiare per la sorpresa. “Oggi mi ha seguita, mi ha pedinata. Mi vuole uccidere.”
Scoppiò a ridere e se la scrollò di dosso. Le fece più pacche sulla testa a mo’ di presa in giro, facendola innervosire.
“Irene è in prigione, accusata di omicidio, di spaccio, di coercizione e di associazione a delinquere e tra un settimana verrà uccisa. Non ti può pedinare.” Il suo sorriso era freddo e la sua voce fastidiosamente enciclopedica e saccente.
“Perché non mi credi?” Si accucciò tra sé e sé e tremò.
“Perché l’ho vista ieri, in prigione, con una bellissima camicia di forza e con un piede legato con una catena e tutto questo non le ha impedito di sputarmi in faccia e di urlarmi vari ed eventuali improperi.”
Si accasciò a terra sulle ginocchia e appoggiò la testa allo stipite della porta, mordendosi le labbra.
“Non sono pazza io. Era in mezzo alla folla, gli occhi verdi, i capelli biondi. L’ho vista veramente…”
Sospirò stanco di quella situazione.
“Irene ha i capelli rossi.”
“Sono pazza.” Aveva ceduto in fretta all’evidenza.
Non sapeva come comportarsi e non ne voleva sapere il perché. Dirgli che era folle sarebbe stato facile e l’avrebbe fatta star male e lui ne avrebbe gioito. Sbatterla fuori di casa, sarebbe stato altrettanto soddisfacente e vederla pregarlo per non abbandonarla sarebbe stato il meglio. Ma non fece niente, non fece niente di quello che pensava volesse veramente fare.
Si piegò sulle gambe.“Io devo tornare a lavoro, ma se vuoi, puoi restare qui.” Le scompigliò i capelli e le portò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio, per scoprirle gli occhi bagnati. “Bevi e mangia qualcosa e poi cerca ti distrarti. Io dovrei tornare presto.” La baciò sulla nuca e se ne andò, lasciandola sola.

Sarebbe dovuto tornare presto, avrebbe potuto, ma tornò anche più tardi del solito.
Non desiderava particolarmente entrare in casa sua e vederla invasa dai piagnistei femminili e non desiderava calmare questi.
Doveva distrarsi!
Ma si sentiva masochista quando non riusciva a concentrarsi su quelle maledette pratica legali e pensava solo a lei, sola in casa sua, preda di chissà quale crisi ormonale.
Lasciò tutto senza ripensamenti e si risolse a raggiungerla nel suo appartamento. Non per forza doveva sentirla frignare né la doveva consolare, mandando a cacare la sua voglia di essere stronzo; poteva anche ignorarla e usarla come aveva sempre fatto, se non riusciva a tranquillizzarla con l’evidenza.
Girò la chiave nella serratura e aprì la porta. Trovò le imposte chiuse e le serrande totalmente abbassate e ogni luce era accesa.
Quando era uscito gli aveva chiesto di chiuderla dentro a chiave così che potesse essere sicura che rimanesse sola, ma la sua sicurezza sapeva tanto di paranoia.
L’aria sapeva di muschio bianco e sui vetri vi era umidità. Bussò sulla porta del bagno e, anziché un normale ‘è occupato’ o un più rozzo ‘fuori dai coglioni’, fu invitato a entrare. Assecondò questa sua richiesta e la trovò nella vasca da bagno, coperta e protetta da molta schiuma.
“Pensavo che Irene sarebbe venuta, ma io non ho paura di lei.” Frugò nell’acqua e estrasse un grosso coltello. Glielo mostrò, illuminato dalla luce dei led dello specchio.
Brillava il metallo e brillavano le goccioline.
Quella vista lo turbò parecchio. Sapeva che aveva ucciso e che volevano che lei uccidesse, ma non gliel’aveva mai visto fare né l’aveva vista così fredda e razionale nel parlare di morte. Aveva sempre dubbi, tentennamenti e paure.
Ma nascondere un coltello nella vasca da bagno non era logico. Cautamente glielo prese dalle mani e lo posò sulla mensola dei profumi sopra il lavabo.
“Ti ho già detto che Irene è in prigione.”
“Forse hai ragione tu.”  Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul ripiano in marmo della vasca. Non sembrava turbata eppure, non sembrava coinvolta.
L’acqua le circondava il corpo e si nascondeva tra i suoi seni. In mezzo a quel bianco riusciva a malapena a vedere i suoi capezzoli turgidi, forse per il freddo.
Fece per andarsene, ma sentiva i suoi pantaloni tirare leggermente e vide la mano di lei stringerli e i suoi occhi aperti.
Avrebbe tanto voluto che rimanesse, che la baciasse e che la confortasse, avrebbe tanto voluto che non la reputasse pazza e che cercasse di spaurirla. Ma i suoi desideri non valevano niente contrò l’ottusità di Vegeta in certe circostanze.
“Resti con me?” Si fece piccola, piccola e si schiacciò contro la parete destra della vasca.
Si spogliò lentamente, senza mai smettere di guardarla negli occhi, senza mai distrarsi.
Stare con Bulma, quando questa era in silenzio e si scordava di avere una voce capace di infastidire la pace, era anche passabile.
Immerse un piede nella vasca, trovando l’acqua congelata. Trattenne un brivido di freddo e si sedette affianco a lei, cercando di ignorare la poco piacevole temperatura.
Non si doveva fare vedere esitante né debole per qualcosa.
Piccole onde di acqua e sapone si buttarono sul pavimento e sui loro abiti.
“Non hai freddo?” Le chiese, sconvolto da quanta imperturbabilità mostrava lei.
“Nel mio monolocale non funzionava sempre la caldaia, sono abituata.”
Gli cinse la vita debolmente e l’avvicinò a sé, facendola poggiare sul suo petto.
Non erano stati i suoi occhi vuoti, né la sua espressione triste a esortarlo a comportarsi così, aveva solo freddo e pensava che il suo corpo freddo e nudo l’avrebbe potuto riscaldare.
La sua pelle era morbida i suoi sospiri gli solleticavano il collo e la sua mano gli strofinava il fianco; neanche l’acqua gelata ora lo avrebbe potuto tenere lontano da quel momento di pace. Stette interminabili minuti in silenzio, rapito dal suo respiro regolare e da quel silenzio, tanto spesso sognato.
“Oggi una signora mi ha detto che i pomodori non si chiamano così. Lei li chiamava pomidoro e poi ha accennato a una storia strana dei greci e poi ha detto che sono stati oggetto di sciagura.”
Peccato che non rompere la quiete con le sue cazzate le risultasse difficile, sennò avrebbe potuto voler passare altre ore lì in quella vasca con lei.
“E quindi?” L’avrebbe dovuta ignorare, l’avrebbe potuta ignorare, ma non volle farlo.
 “Perché portarono sciagura? Tu la storia la sai?” Lo stava guardando con occhi riempiti di infantile curiosità. Non aveva urlato e non era stata irriverente. Aveva solo fatto una domanda e a lui gli venne voglia di rispondere, per farla contenta.
“Si diceva nell’antica Grecia che, nel giorno del banchetto nuziale di Teti e Peleo, fu lanciata sul tavolo, dalle dea della discordia Eris, una mela su cui c’era scritto: alla dea più bella. Così Era, Atena e Afrodite si contesero la mela, ognuna convinta della propria bellezza, fin quando Zeus, stanco della lite, chiamò a giudicare la bellezza delle tre dee un giovane uomo. Ma la sua decisione non fu libera, bensì le tre dee cercarono di comprare il suo favore. Era gli promise ricchezza e potere, Atena l’invincibilità nella guerra e Afrodite l’amore della donna più bella della terra. Paride scelse l’offerta di quest’ultima e poi fu ricompensato con l’amore di Elena di troia per la quale, si dice, scoppiò la guerra.”
Si era appoggiata con il mento sul suo petto, affascinata dalla sua voce competente e sensuale, ancora di più che dal mito in sé.
In verità poco aveva voluto sentire della storia e se gli avesse domandato di riassumere le sue parole lei non avrebbe saputo dire nulla, ma avrebbe potuto raccontargli ogni minimo movimento delle sue labbra sottili.
Le avevano sempre detto che ogni racconto mitologico aveva un’importante morale e si poteva benissimo attualizzare nel presente, quindi, per non farsi trovare troppo distratta, gli chiese quale fosse il significato allegorico di quello, sempre più vogliosa di venir stordita dalla sua calda voce.
“Possono essere tanti, dipende da che interpretazione gli dai. Potrebbe significare che l’uomo è sempre condizionato, che le donne hanno valori davvero stupidi o che l’umano non si dovrebbe immischiare in faccende che non lo competono o che l’amore è una guerra e come ogni guerra termina nella morte. O forse significa che da un solo uomo può dipendere la storia di un’intera nazione.”
Perfetta la sua voce, perfetto il suo fisico, perfetta la sua bellezza e perfetto ogni suo movimento; ma la perfezione era lungi dall’essere reale e lungi da essere oggettiva.
La fantasia e l’interpretazione non erano delle scienze, non erano precise e non erano logiche, eppure…
Allungò il suo collo e fece unire le loro labbra in un fugace incontro che durò abbastanza da far stranire entrambi.
…eppure tutto in quell’istante sembrava davvero perfetto.





Buongiorno buongiornooooo!
Dopo più di un mese torno con un imbarazzante capitolo sui pomodori e sui promessi sposi e tanta perplessità circa il senso di questo aggiornamento.
Diciamo che nella mia testa avevo un'idea tutta partcolare ma qualcosa mi dice che non è poi riuscita così bene come credevo. xD
Io odio Lucia e amo i pomodori! <3
Cari lettori vi ringrazio infinitamentre per esserci, per seguire, per ricordare e per preferire questa storiella; grazie davvero! :3
Voi che recensite siete oltremodo amabili perchè, inutile negarlo, mi fa u n sacco di piacere ricevere recensioni e non mi fa proprio derprimere quando scrivo troppe cazzate. xD
Buona letura e buona domenica pomeriggio a tutti!^^

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Capitolo 12
*** 12.12 ***


L'amore comincia quando ci accorgiamo di avere sbagliato ancora una volta. 


C’erano volute fantasiose minacce e insulti pittoreschi, per depurare quel posto dalla presenza nefasta di Chichi, ma si poteva ritenere soddisfatto, quando la gallina, si era girata sdegnata, sbattendogli la coda di cavallo in faccia, imboccando la via della tattica dell’indifferenza che costeggiava il marciapiede della sconfitta. Però, a detta della mora, si era dimostrata civile e matura, perché l’aveva lasciato libero di perseverare nei suoi errori e nelle sue bambinate.
E lui era davvero orgoglioso dell’insofferenza che provocava negli altri, se questa riusciva ad essere repellente per le persone più detestabili.
Si accomodò accanto a lei, incrociando le gambe, e appoggiò la schiena alla parete. La campanella era suonata e, se non fosse stato per la sua ottima media da preservare e difendere per non abbassare il prestigio della scuola, sicuramente sarebbe stato giusto essere oggetto di un richiamo disciplinare, ma c’era certa gente immune ai provvedimenti, perché non era contemplato che potesse sbagliare, perché i loro errori erano solo cose fatte meno bene del normale.
C’era chi, invece, non eccelleva e l’unico profitto che poteva arrecare, e per il quale veniva usato, era partecipare all’apparenza di una scuola equa e giusta: dove non si facevano particolarismi e si puniva chi lo meritava.
Frugò tra le tasche della giacca e estrasse un pacchetto di sigarette appena comprato. Lo privò delle pellicola esterna, lo aprì e strappò la cartaccia d’alluminio che proteggeva quei buonissimi steli di malattie e denti gialli.
Se ne portò uno alle labbra e poi ne offrì a lei che accettò senza complimenti, si premurò pure ad accendere e poi si abbandonò tra quel fumo.
Perché aveva accettato? Non ne aveva voglia. Forse perché ormai era abituata, era assuefatta illogicamente e non voleva cambiare. Il mento era appoggiato sulle ginocchia e la sigaretta in equilibrio tra le sue dita a consumarsi lentamente: quella cicca che correva e si ingrandiva, investendo la carta bianca e bruciando tabacco.
Seduti sul tetto della scuola, immersi in quella nebbia odorosa e in una novità, dapprima non contemplata: la prima volta, sebbene scettica, aveva provato per non sentirsi inferiore, perché tutti lo facevano, tutti lo esaltavano e lei, aveva deciso, che non avrebbe mai potuto criticare quello che non conosceva; poi, passando i giorni, era diventata una dipendenza: si alzava dal letto con quello stesso tarlo; e in fine non ci pensava più, perché ormai lo viveva, perché il pensiero era cosa astratta e le sue dita ne stringevano l’essenza, le sue labbra ne conservavano il sapore.
La lasciò cadere al suolo, perché motivo di tenerla ancora con lei non c’era. Perché il filtro che bruciava faceva puzza. E poi quando una cosa finiva, era giusto buttarla.
Sotto il naso ci fu nuovamente il pacchetto di sigarette e lei, nuovamente, ne prese e se ne accese un’altra.
Ma le cose si possono anche sostituire e la fine potrebbe ritardare. Perché è dura dire addio anche alle cose che non interessano più, ma sono interessate per molto tempo.
Le abitudini erano confortanti, rimanevano pure tra mille cambiamenti e smuovere un'altra certezza non le sembrava il caso.
La strinse tra le labbra e fece un tiro, espirando immediatamente, perché non avrebbe permesso ai suoi polmoni e al suo cuore di marcire.
Però le abitudini a lungo andare uccidevano e alla fine bisognava operare una scelta: la certezza o il benessere?
Abbandonò il braccio lungo il fianco e si voltò nella direzione del ragazzo che tendeva il collo verso il cielo e ne era rapito.
Eppure certe abitudini erano così belle, da sembrare sempre novità.
La verità è che avrebbe potuto entrare nel tunnel di un’ abitudine ancora più dannosa e avrebbe rimpianto sicuramente quella che stava allontanando, ma tutte le cose iniziavano e poi finivano.
Quell’abitudine si era accesa, l’aveva dilettata, si era consumata e, se non la buttava, rischiava di bruciarla.
Si alzò, coprendo il sole con la sua esile figura: era pronta a dire addio.
“E’ meglio che ci lasciamo.” Disse calma, tirando un altro tiro dalla sigaretta.
Perché Vegeta ormai era un’abitudine, troppo scontata e troppo malefica per perpetuarla un secondo di più e lei non voleva far marcire i propri polmoni, respirando la sua stessa aria, e il cuore della sua mente, continuando a fingere e mentirsi.
Lui amava le sue abitudini, erano il suo equilibrio inalterabile, il paradigma del sereno vivere, una cosa normale, giusta!
Non era una sua abitudine farsi lasciare da una ragazza. Assolutamente no. Era una sua abitudine pensare che non lo sapessero e potessero neanche fare.
“Cosa?” Erano sempre così ostiche le novità, coltelli dalla punta avvelenata che infrangevano la barriera delle abitudini, mirando al cuore e ad uccidere.
“Non ha senso continuare questa storia senza interesse.”
Non l’aveva degnata di uno sguardo cattivo né di parole forti, solo aveva sospirato stanco e si era meglio sistemato a ridosso del muro.
“Non c’è più interesse? Perché ieri mi sono scopato un’altra?” E dopo dieci, o forse più, minuti ad ascoltarsi in silenzio e a scrutarsi ad occhi chiusi, si era voltato verso di lei, con una faccia impassibile, senza smorfie né emozioni. Tanto surreale.
Come poteva? Mentire senza vomitare? Tradire senza morire? Esistere senza schifarsi di sé?
“Un’altra? Quindi mi hai mentito? Mi sarei dovuta fidare di un bugiardo?”
Sbraitò incollerita, gettandogli addosso la sigaretta ancora accesa.
Perché l’amore era una pessima abitudine che aveva l’abitudine di palesarsi sempre come una costante novità e di condividerne gli stessi difetti.
Schivò quella cicca con disinvoltura e quella si accasciò al suolo: se gli fosse finita addosso, avrebbe potuto anche bruciacchiargli la giacca.
Si poteva abbandonare, sopra il pavimento, a consumarsi insipidamente e senza motivo oppure poteva infiammare, ardere l’animo e il corpo.
“Ti sei innamorata di un bugiardo, perché non ti saresti dovuta fidare?” Sorrise angelico e le mandò un bacio con la mano. Era un abitudine essere spocchioso con gli altri, essere senza sentimenti e senza freni inibitori. Ed era abituato a trattare tutti in egual maniera, perché tutti in egual maniera non si meritavano altro che non fosse la sua accondiscendenza o il suo disprezzo.
“E ho sbagliato. Tu sei uno sbaglio!” Gridò al cielo assente, stringendo con le mani i capelli.
Sereno, ceruleo, lontano, però di una vicinanza così pesante e onerosa.
Semplice atmosfera, investita del ruolo di dimora divina, di cassaforte per il principio di tutto.
Nei suoi occhi azzurri, c’era del rosso: il rosso della passione, del sangue che avrebbe tanto voluto spargere in certi momenti. Eppure non erano umidi e non erano tremanti, erano fermi e accesi.
No, non doveva piangere. Era sbagliato stare male per chi aveva sbagliato.
Nessuna tolleranza. Nessuna comprensione. Nessuna mano tesa in aiuto.
Perché comportarsi bene, quando tutti le regalavano del male?
“Perché cazzo l’hai fatto? Perché te ne sei andato da un’altra?”
“Perché è un’abitudine.”
Risposte inaccettabili e assurde nel loro semplice candore. Che schifo le abitudini: facevano sembrare giuste anche le aberrazioni in nome di una perpetuazione nel tempo, mai stata fermata.
E in effetti se nessuno mai gli aveva detto che tradire era sbagliato, come ci sarebbe potuto arrivare lui da solo?
Se solo chi sbagliava, fosse stato veramente punito, estirpato dal mondo, non ci sarebbero più stati sbagli e tutto sarebbe stato giusto…
“Vaffanculo. Vaffanculo.”
Gli diede le spalle, perché la voce aveva incominciato a cedere, ma non sarebbe state recidiva e non avrebbe errato nuovamente. Lui non sarebbe stato un baluardo di conforto, un paraocchi alla verità, un feticcio per farla sentire meglio.
“E tu perché te la prendi così, se avevi perso l’interesse?”
Perché era sua abitudine comportarsi da scema. Soffrire troppo per chi non lo meritava. Perché l’aveva amato e perché aveva avuto l’ennesimo tradimento.
Ma aveva deciso di dire stop, di terminare quel circolo autodistruttivo. La parola del futuro sarebbe stata cambiamento, radicale cambiamento.
Una ricerca spasmodica del giusto modo di essere, perché, guardando i fatti, aveva davvero sbagliato, altrimenti la legge del contrappasso non sarebbe stata così inesorabile.
Cambiamento era novità e la novità stracciava l’abitudine.
Senza essere fermata, si incamminò verso le scale, verso quella discesa, confusa con l’ascesa di un nuovo essere, e si voltò verso di lui.
“Grazie Vegeta! Se non fosse stato per te ora non saprei cosa siano i figli di puttana.” Gli strizzò l’occhiolino e poi sparì.
E sarebbe davvero potuto succedere, perché in quel momento stava patendo certi supplizi che aveva sempre schivato cautamente, perché l’immaginava e li dipingeva, e in quell’istante gli sembrava essere morto il solito lui.
Era abituato a mentire, a tradire, ma non a sentirsi male per averlo fatto; ed era abituato alla ragione e a comprendere, per distorcere e, se aveva detto una bugia, era perché la nuova verità gli si era mostrata chiara e nitida, ma le novità non gli piacevano e aveva preferito l’abitudine della solitudine e della sua vera essenza, all’amore nei confronti della ragazza.
Perché voglia di amore non ne aveva, aveva solo voluto provare l’ebbrezza d’innamorarsi.
Si alzò, pulendosi il di dietro dei pantaloni e, mani in tasca, pestò lo stesso tragitto della ragazza, stampandosi sul volto il sorriso della libertà.



“Vedi? Quella è Venere.”
Era successo tutto velocissimo, perché era abitudine delle cose belle durare poco oppure stare antipatiche al tempo.
Avevano approfondito quel disperato bacio,  nuotando nella palude del bisogno, ma poi, staccatisi per riprendere fiato, lui si era alzato dalla vasca da bagno, l’aveva presa in braccio e l’aveva condotta, grondante in salone. L’aveva adagiata sul divano, alzato le serrande e spalancato la finestra senza apparente motivo.
E  poi era andato ad appoggiarsi alla balaustra del balcone, nudo e bagnato e lontano dagli stimoli esterni, troppo preso dai pensieri.
Si era fermata sul ciglio della porta che conduceva all’esterno, perché fuori era buio, era freddo e lei era totalmente discinta, ma lo udì lo stesso.
Vedeva Venere? No, non la vedeva. Perché avrebbe dovuto distrarsi dalle spalle di lui, dalle goccioline che percorrevano la schiena, da capelli umidi mossi dal vento?
Non voleva vedere Venere. Non credeva a nessun dea della bellezza, ma forse poteva ricredersi sull’esistenza di un dio di sesso maschile.
“Perché non esci?”
Poiché non ricevette risposta, si voltò e la guardò dubbioso. Si teneva tra le braccia, vibrando per il freddo e cercava di non mettere troppo in evidenza il suo non decoro. La vide tentennare nell’aprire bocca e poi indietreggiare ancora.
“Ma sei scemo? Non sosto in balcone senza vestiti, io!” La sua voce, già acuta, toccò noto altissime, stridendo nel silenzio dell’appartamento.
Occorreva solamente che facesse bella mostra della sua intimità al cielo e alla natura e dalla gente non si sarebbe più nemmeno fatta guardare. Preferiva evitarlo, salvando quell’apparente integrazione sociale che faticosamente continuava a recitare, perché non ne voleva altri pretesti per amare la solitudine.
“Che problemi ci sono?” Chiese arrogante, stirandosi e esibendo maggiormente la sua virilità. Era abitudine che lui godesse nel mostrarsi diverso, sprezzante, sopraparte, Vegeta.
Perché lui, nella sua mente bacata, non solo poteva fare tutto, ma decideva cosa gli altri potessero e dovessero fare.
Chissà, forse la sua forza era la convinzione.
“Che fuori fa freddo, che io sono bagnata e, ultimo, per successione ma non per importanza, che sono nuda. E solitamente non si passeggia in balcone senza vestiti!”
“Ma io sono qui fuori, come vedi non sono problemi, sono scuse.”
Serrò gli occhi esasperata, pensando una risposta di semplice moralità comune e di facile comprendonio, visto che lui sembrava davvero straniero alle tradizioni terrestri.
“Ma così sei soggetto a un raffreddore, se non a una polmonite. I malanni sono problemi!” Sbottò ovvia e palesemente giusta.
“Le malattie si curano: non sono un problema.” Avanzò verso di lei e, senza varcare la soglia della finestra, le tese la mano.
“Se il problema sono i problemi che gli altri ti farebbero, fottitene. Io sono gli altri e non faccio problemi.”
Lui era gli altri? No, lui era lui. Se lui fosse stato altri, l’avrebbe chiuso fuori in balcone a congelare al gelo, per punire la sua tracotanza e boria di essere unico. Se lui fosse altri, non avrebbe davvero avuto fatica ad attingere alla ragione, quando egli le poneva domande spigolose.
E invece lui era lui e lei, per lui, si imbarazza, si coloriva di rosso e poi si sbiadiva completamente per non farsi notare, perché essere vista esitante e cedevole, significava perdere quella guerra.
Combattere guerre per lei era un’abitudine.
“Non si è esce in balcone nudi. Nessuno lo fa: è sbagliato.”
“Perché sono abituati così; ma, se tutti uscissero nudi in balconi, sarebbe un’ abitudine normale.”
“Le abitudini sono sbagliate.”
“Allora cambia l’abitudine che c’è di non uscire nudi in balcone.”
Il tempo continuò a scorrere e le loro funzioni vitali continuarono, i loro pensieri vagarono, il vento soffiò ancora: nulla era veramente fermo in quell’immobilità in cui lei si sentiva costretta.
Le catene del giusto, del vero, degli altri.
“Con me o come gli altri?” Sorrise felice e gli prese la mano. Con lui, come sé stessa.
Tornarono assieme, senza staccarsi, alla balaustra e, assieme, puntarono gli occhi al cielo.
“Quello è Venere che tutta la terra illumina di bellezza.” Spiegò solenne, indicandolo con un dito, poi volse lo sguardo nella direzione opposta e la sua voce si fece più bassa. “E lì ci sono le quattro stelle.”
Le indicò con un cenno del mento, ma dove puntavano l’attenzione il cielo era scuro e vuoto.
“Non le vedo.”
“Non si possono vedere. Prudenza, Temperanza, Forza, Giustizia. Le quattro stelle delle virtù cardinali.”
Era davvero concentrato, a vedere non con gli occhi, a scrutare il buio e a illuminarlo della ragione della vista, però si arrese quasi subito, iniziando a guardare lei.
“Perché non si possono vedere?”
“Alcuni dicono che siamo troppo viziosi per riconoscere le virtù. Io invece penso non esistano.”
Non era stata prudente ad uccidere, lasciando traccia di sé. Non era stato prudente lasciarsi comandare dalla vendetta. Ma era stato giusto!
Non era stata temperata nel vivere, a cedere a Vegeta e al suo corpo, al benessere dei soldi.
Non era stato temperato scopare in macchina, soggetti di chi sarebbe potuto passare. Ma era stato così bello!
Non era stata forte a scendere a compromessi con il demonio, a lavorare per lui. Non era stato forte assoggettarsi agli altri perché non era abbastanza forte. Ma era opportuno!
Le passò un bracciò intorno alla vita e la tirò a sé, e appoggio la sua guancia sulla sua testa, usandola come un appoggio. Il suo respiro era cauto, debole e lento: il giusto necessario affinché il cuore non si fermasse.
Non era stato giusto uscire in balcone nudi, assecondare Vegeta, ma Vegeta era quello giusto affinché tutto sembrasse tale.
“Io dico che esistono.”
“Crederci è un abitudine. Se l’uomo non le avesse inventate, tu non ci avresti creduto: un po’ come gli aerei o i satelliti artificiali.”
“Perché mi hai portato qui fuori, allora?”
Quello rubò l’aria e la conservò nel suo petto, poi la restituì, quando aveva finito di pensare.
Ogni suo gesto era motivo di attenzione, adulazione e, ultimamente, elogio alla perfezione.
Era rapita da lui e dai suoi modi da stronzo. Perché aveva compreso, con l’esperienza, che non mentiva spontaneamente, erano gli altri che volevano che mentisse, perché uno stronzo doveva non essere tale, ma se fosse stato libero, senza costrizioni di perbenismi e di fantasie stereotipate?
“Perché non lo so. Perché tutto potrebbe non essere come pensiamo e perché le convinzioni possono cambiare.”
La convinzione era una abitudine. Credere ciecamente, senza ragione, o forse con troppa ragionevole presunzione. La convinzione era uno specchio sulla realtà che rifletteva la fantasia.
Però potevano esserci nuove convinzioni, nuove fantasie e a quanto pareva nuove realtà.
Sempre se il concetto di nuovo si poteva applicare all’infinito: perché, benchè se ne volesse dire, benchè si volesse declassare la realtà nella finitezza di un mondo che non poteva raggiungere la meraviglia dell’infinita astrattezza, la realtà aveva infinite occasioni di essere. E non per forza era soggetta a cambiamento, forse solo a una rotazione, un moto che ne mostrava un’altra, tra le infinite facce.
Era abitudine truccare la faccia come più le aggradava, ma era abitudine illudersi, che non c’erano finzioni in quella maschera.
Eppure sbagliare era una sua abitudine.
Lui sciolse l’abbracciò e tornò in casa, buttandosi a peso morto sul divano, con una mano a coprirsi gli occhi.
“Perché sei rientrato?”
Quelle confessioni, quelle parole erano state davvero fuori luogo e tutto quello solo perché la pena della situazione di lei, l’aveva in qualche modo commosso.
Ma la commozione non era una sua abitudine. E non voleva cambiare.
Era un’abitudine non volere cambiare. E lei sue abitudini erano giuste, totalmente giuste.
Sbuffò sufficienza e insofferenza e non parlò insulti.
Era sua abitudine pensare che le persone fossero a lui inferiori, ma come si sbagliava, ma sbagliare era una nuova abitudine.
“Che problemi ci sono ad aprirsi a me? Se il problema e il giudizio degli altri, fottitene. Io sono gli altri e non faccio problemi.” Disse con un sorriso di radiosa vittoria.
Lei era gli altri? No, lei era lei. Se lei fosse stata altri, l’avrebbe chiusa fuori in balcone a congelare al gelo, per punire la sua tracotanza e boria di volere osare. Se lei fosse altri, non avrebbe davvero avuto fatica ad attingere alla ragione, quando ella le mostrava il suo corpo e le proprie debolezze.
E invece lei era lei e lui, per lei, si inibiva, si nascondeva per non farsi notare, perché essere visto diverso e cedevole, significava perdere quella guerra.
Combattere guerre per lui era un’abitudine.
“Non sono abituato a confidarmi con le puttane” Era un abitudine essere offensivo.
Sospirò rassegnata: quell’uomo non cambiava e nessuno l’avrebbe mai potuto cambiare, perché credeva di essere nel giusto e perché dovere cambiare il giusto?
Sospirò rassegnata perché Vegeta non si smentiva mai, perché aveva la sicurezza del conosciuto.
Sorrise felice, perché se non era abituato a confidarsi con le puttane, ma l’aveva fatto, non la considerava una puttana, era solo un’abitudine farlo.
“Non essere abituato è un’abitudine. Se tu cambiassi opinione, potresti riscoprire diverse cose che magari ti piace fare.”
Il cambiamento per lei era stato un’abitudine, un’allegra abitudine che le aveva riportato le belle novità delle abitudini passate.
Quel formicolio allo stomaco, quelle gote accaldate, quegli occhi lucidi di ammirazione, l’incontro con lui.
La verità è che le abitudini erano sbagliate: se avesse provato a non abituarsi a niente? A sorprendersi di ogni piccolo gesto e apprezzarlo? A non comportarsi secondo stereotipi, ma ad essere diversa nelle diverse occasioni? A essere quello che voleva essere e non quello che doveva?
La realtà era che non le interessava niente di abitudini e novità, di giusto e sbagliato, però era interessata a quell’idea di felicità che la mente del suo cuore le stava suggerendo.
Perché anche nella sofferenza dell’amore c’era la felicità, se il dolore era razionale.
Ed era razionale buttarsi tra le braccia di chi ti aveva fatto male e ti aveva immunizzato.
Gli strinse le guancie tra le sue mani e catturò quel labbro sporgente per la pressione.
La realtà era che faceva male e lei non se n’accorgeva e questa era superficialità
E la superficialità era una sua abitudine.
La verità, in fondo, era che le persone erano fatte da abitudini. Ma le abitudini erano sbagliate.
La realtà doveva essere diversa: doveva essere l’insapore convivenza di chi non si sarebbe dovuto avvicinare, causa il male.
Ma la verità della realtà era che non voleva essere diversa, da quella che stava vivendo.
Tra le gambe di lei era umido e tra quelle di lui duro.
La realtà era che si piacevano. Ma piacersi era un’abitudine.
Le pizzicò un capezzolo e massaggiò il seno: era perfetto al tocco il suo corpo.
La realtà era che si volevano. Ma volersi era un’abitudine.
Era così bello farsi toccare da lui, mangiare il suo respiro, bere la sua saliva. Era così bello lui.
Se guardava quei pozzi neri, aveva la consapevolezza degli errori di lui e dei suoi, aveva la consapevolezza dei propri errori e commetteva il malsano errore di essere fiera di quegli sbagli e di volerli rifare. D’altronde sbagliare era una sua abitudine.
La verità è che si amavano. Ma amarsi non doveva essere un’abitudine.
Ma, se le abitudini erano sbagliate, allora potersi amare doveva essere giusto…
“Andiamo avanti, non guardiamo indietro.” Gemette roca lei, quando le stava aprendo al femminilità.
Ma dagli errori del passato si imparava, nasconderli era uno sbaglio.
Sbagliare era un’abitudine e le abitudini erano sbagliate, ma sbagliare assieme era una novità e le novità erano giuste…




Buongiornooooo! :DD
Ritardare con gli aggiornamenti è una mia abitudini, così come essere confusa e confondente: o almeno io non ho più capito cosa volevo dire. xD
Spero che vi sia piaciuto anche se leggermente più corto dei precedenti: dovevo pur farli avvicinare in qualche modo contorto, come solo loro sanno fare. E poi ammettiamolo: tutti ci stavamo sperando in questo momento! xD
Probabilmente ci sarà un po’ di OCC, ma l’IC è un abitudine e le abitudini sono sbagliate…
Scherzo, sono io proprio scarsa! Muaahaha
Gente, grazie  davvero di cuore, perché mi sopportate, leggete, seguite, ricordate, preferite, recensite questa storia e fate contenta me! *-*
Grazie mille! Siete fantastici!
Buona domenica e spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto! ^^

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Capitolo 13
*** 13.13 ***


Bisogna far sì che chi ama non si senta mai sicuro nel suo amore per mancanza di rivali: senza sospetti e gelosie l'amore non dura a lungo. 

                                                                                                           Ovidio


Aria fetida. Igiene pessima. Lezzo di piscio. Macchie d’umidità sul tetto e intonaco cadente. Clienti abituali poco raccomandabili. Un ubriacone riverso nel suo stesso vomito. E tante, troppe puttane.
Piccole povere ingenue: non lo sapevano che avrebbero guadagnato, dandola a gente facoltosa?
Chissà con quale logica speravano di aprire il portafogli di chi, probabilmente, non ne possedeva neanche uno.
Uno schifo. Ogni volta che scrutava per l’ennesima volta ogni singolo dettaglio di quella bettola, le si gelavano le vene e, istintivamente, si portava la sciarpa sopra la bocca, perché riteneva ancora preferibile non respirare quel lerciume.
Uno schifo. Ogni volta che qualcuno sbatteva una troia a caso sul tavolo sporco di muffa e la scopava senza ritegno, guardava incuriosita perché voleva vedere fin dove potesse arrivare lo schifo umano.
Uno schifo ogni volta. Ma continuava a varcare quella tavola di legno scardinata, spacciata per porta; continuava a sedersi al bancone; continuava a ordinare assenzio.
Uno schifo, ma era l’unico bar che si potesse permettere e non si poteva permettere di stare senza.
Sopra la testa del barista una mensola con una televisione a tubo catodico, vecchissima e datata, ancora in bianco e nero, ma trasmetteva e lei non aveva il lusso della tv a casa.
Si accomodò su uno sgabello bucato, stando bene attenta a non impigliarsi nella molla che usciva dal rivestimento di finta pelle e ordinò da bere.
Il solito. Una zolletta di zucchero imbevuta d’assenzio bruciata in un inappropriato bicchierino di plastica.
A volte si domandava perché il suo fegato non l’avesse abbandonata anni addietro, quando aveva rubato in un supermercato due bottiglie di gin e le aveva bevute tutte d’un sorso, rannicchiata sotto il ponte della città.
Lei inaugurava una fila di disperati, appoggiati con i gomiti al bancone e con le mani tra i capelli sudaticci, ma spiccava per diversità.
Benchè l’umore fosse il medesimo, a frenare l’epifania di indecente squallore, era la sua stramaledettissima ossessione per l’igiene e la fobia di germi e batteri.
Un controsenso, se si pensava che quel bicchierino di plastica sembrava mangiucchiato da un lato.
Le sue ricerche non arrivavano a nessun risultato. Si stava incominciando ad arrendere all’evidenza: forse i suoi genitori si erano suicidati realmente.
Lo prese esitante tra le dita e lo osservò con circospezione, lo annusò, arricciò il naso e, dopo aver ignorato che poteva benissimo essere distillato di catrame, lo buttò giù tutto d’un fiato, strizzando gli occhi.
Un uomo basso e tarchiato, con la pelle scottata dal sole, si sedette accanto a lei e abbandonò la fronte sulle mani.
Certe volte si divertiva a fare l’amica, a voltarsi, a spingere gli altri a sfogarsi e poi li lasciava a sé stessi, quando si annoiava a sentire altre storie tristi, quando le mancavano le sue, quando realizzava che non era un aiuto, solo un fastidio.
Aveva fatto scalpore la notizia di quella segretaria che aveva ucciso il presidente della multinazionale per la quale lavorava e con il quale intratteneva una relazione sentimentale. Perché se lui fosse morto, lei avrebbe avuto il suo potere.
Bulma era veramente emozionata e invidiosa di quella donna così abile a non avere scrupoli, a farsi strada da sola, con i suoi mezzi, con la sua non forza. E ogni volta che i fotografi tentavano di rubarle una fotografia della faccia, non abbassava mai gli occhi, non c’era pentimento in lei.
Quanto era bella la convinzione!
Aveva fatto scalpore la notizia che lei avesse confessato di avere ucciso e non avesse cercato di dissimulare in alcuna maniera i fatti. Era anche coraggiosa e matura.
Bellissima nella sua elegante compostezza di chi sbagliava, ma riteneva avesse fatto la cosa giusta e credeva di non potere essere punita. Sicuramente era anche pazza.
Quella donna aveva stupito, nel bene o nel male, eppure  non aveva spiazzato nessuno, quanto l’esito del suo processo, e l’esito del suo processo non aveva spiazzato, quanto la dichiarazione del suo avvocato.
La tv promulgava le immagini in diretta dal tribunale della città.
Uno sciame di giornalisti aveva braccato il legale e la sua assistita e gli aveva sepolti di mille domande e molti flash delle cineprese, ma tra tante cose anche le accuse della gente.
“Avvocato, avvocato- un uomo aveva sgomitato tra la folla e con un microfono si era portato di fronte alle star della notizia- la signorina non incombe in nessuna pena, sebbene abbia ucciso un uomo. Com’è possibile?” Aveva il fiatone e si sistemava continuamente sopra il naso gli occhiali da vista, a cui si era rotta una stanghetta.
“Perché era giusto che uccidesse quell’uomo e nessun tribunale condanna la giustizia.”
Che charme quell’avvocato. Vestito completamente di nero, anche gli occhi, sotto le lenti da sole.
“La mia cliente stava subendo un abuso sessuale da parte del proprio datore di lavoro e per preservare la sua dignità, ha sacrificato i suoi obblighi morali e ha ucciso il suo aguzzino.”
Che risposte irritanti. Troppo altezzoso anche per sorridere all’obbiettivo, da cercare di scendere subito il gradino di quelle scale di marmo, ma il giornalista non sembrava persuaso.
“La signorina ha ucciso il presidente per aver il controllo dell’azienda. Questa è la versione esatta.”
Urlò inviperito il giornalista, gonfio sul petto. Le notizie che aveva dato non potevano essere disattese.
“Come scusi? Non mi risulta che la signorina abbia mai rilasciato una simile dichiarazione negli interrogatori, né che lei sia informato meglio di me. Ha mai sentito la mia cliente addurre a questa giustificazione?”
“No, ma…” Tentennò insicuro, sicuro che stesse cadendo in trappola.
“Allora lei si sta sbagliando.” Sorrise meraviglioso alla folla e dalla sua valigetta uscì il documento della confessione, porgendolo pacato al giornalista.
Le apparenti parole incise sulla carta confermavano la verità dell’avvocato.
“Ha commesso un omicidio. E’ pericolosa dovrebbe essere in galera.”
“Autodifesa. Ed è innocua e innocente.”
Schiaffò il microfono e con lo sguardo alto, imperterrito, proseguì la sua camminata, seguito dalla donna.
“Chi pensa che assumerà nuovamente la signorina? Si è compromessa la reputazione.”
“La reputazione è apparenza e l’apparenza è sempre falsa. L’assumo io la signorina. Ha un ottimo curriculum ed è estremamente professionale.”
Riprese il foglio di carta e lo riposò nella valigetta con eleganza.
“Io invece mi domando chi assumerà lei. Si è compromesso la reputazione. Un giornalista che dà notizie false è finito.”
Sembrava una figura eterea attraverso lo schermo della televisione. Inesistente e inconsistente.
Eppure era reale e tutti ne celebravano la bravura, nonostante la giovane età, ne cantavano il perfetto portamento, ma nessuno che si interessasse al carattere o ai suoi precedenti.
Apparentemente era perfetto. Ma le apparenze ingannavano.
E tutti sembravano essere nel giogo di quel sorriso assassino e perfetto.
“Un altro.” Bulma e il suo vicino di bevute parlarono all’unisono, ordinarono lo stesso veleno.
Entrambi auspicavano di vomitare alcol e non bile per quello show celebrativo appena veduto.
Chi doveva bruciare all’inferno, era circondato dalla luce degli angeli, e lei,  anche se non proprio santa, vagava per le vie dell’Ade e ne frequentava i locali.
“Figlio di puttana…” Un lamento.
“Cosa?” Affianco a lei, l’alcol aveva lavato il freno inibitore della lingua, e quell’uomo stava recitando una serie di improperi e maledizioni, scuotendo ritmicamente la testa.
“Figlio di puttana. Dicevo che quell’uomo è proprio un figlio di puttana…”
Ebbene sì, quell’uomo aveva detto una sacra verità. Pareva intelligente.
“Un bastardo. Però cazzo!, se è bravo nel suo lavoro. E’ giovanissimo, eppure non ha niente da invidiare a chi fa l’avvocato da anni e anni. In questo lavoro non serve avere morale. E’ bravo, maledizione, bravo! Perché non sono anche io bravo come lui?” Pareva un elogio.
“Se lo fossi, non sarei costretto ad affidarmi a lui. A dover dipendere da lui sempre e comunque. Ma il bastardo se n’approfitta.”
“In che senso?” Pareva sorpresa di quelle parole, pareva ingenua e interessata senza altro interesse.
“Che ogni volta finisco nei casini, per far quadrare gli affari. E lui mi tira fuori, però mi accolla condizioni impossibili e pericolose. E io sono costretto a ubbidire.”
Quell’uomo stava entrando nelle sue simpatie. Non solo sembrava mal sopportare Mr perfezione, dava a vedere di sapere su di lui. E quale migliore occasione di sapere qualcosa di compromettente.
“Mi sembra stanco e provato. Perché non ordina un altro bicchiere? Offro io.” Schioccò le dita e un sorriso comprensivo e il barista li servì nuovamente.
Senza complimenti accetto l’invito e sgraffignò il liquido dalle mani dell’inserviente. Avido, frettoloso, stolto forse.
“Un avvocato, difensore della giustizia non potrebbe fare questo. Perché non lo denuncia?”
“Un avvocato no, l’avvocato del demonio sì.” Si pulì col dorso della mano un rivolo di bava schiumosa all’angolo della bocca e la sbatté sulla superficie lignea.
“Lo spacciatore che denuncia l’avvocato di successo? E’ spiritosa lei.
“Allora lo uccidiamo.” Disse sussurrando impercettibilmente, sporgendosi verso l’uomo.
“E’ intoccabile quello.”
“Si fidi. Io ce la posso fare.”
Tentennò abbondantemente e ruttò. Le ruttò in faccia, ma lei non si scompose. Non poteva mandare a puttane quell’indizio per piccole porcherie da uomo.
“Mi dica solo dove posso trovarlo e io l’ammazzo per conto suo.”
“Non riesco io e ci riuscirà lei?”
“Io ho un culo perfetto e lei è un ammasso di lardo. Ho un arma in più di lei.”
L’alcool l’avrebbe reso rosso in volto, se non fosse che già era paonazzo di natura, ma l’alito puzzava, una puzza inconfondibile. Rise di gusto, come non faceva da tanto, come faceva solo quando era totalmente fatto.
“Lei è un idiota. Quello la torturerà.”
“Ma sono un tentativo. Mi dica dove posso trovarlo e cercherò di ammazzarlo. Se ci riesco meglio per entrambi, se fallisco peggio per me.”
“Lei mi fa simpatia e mi dispiacerebbe che morisse per quel bastardo.” Le lasciò mille pacche sulla spalla e la strinse a sé, facendola scendere controvoglia dallo sgabello. “Domani devo andare nel suo ufficio, perché non viene? Io lo distraggo, lei lo accoppa.”
Si ritrasse schifata e lo guardò con sufficienza e superiorità. Aveva un bellissimo sorriso la bambolina, peccato che le intenzioni che celava erano pessime.
“Assolutamente no. Vegeta è solo mio.”
Quella donna pareva odiarlo più di lui. Quella donna pareva volere farla finita definitivamente con lui. Quella donna sembrava quella giusta per fargli pagare i suoi sbagli. Quella donna pareva che l’avrebbe aiutato.
“Signorina, si accomodi. Stimo la sua determinazione e se vuole l’aiuterò. Parola di Abo Aka.”
Ma le apparenze ingannavano.


“Devi ritornare a vivere normalmente. Uscire, fare la spesa, trovarti un lavoro, pagare le tasse.”
Le aveva levato il caldo piumino da sopra il nudo corpo e aveva alzato le avvolgibili, producendo un sordo e fastidioso rumore nella sua mente ancora annebbiata dal sonno.
Si rannicchiò maggiormente su sé stessa, cercando di non interrompere quel bellissimo sogno in cui stava dormendo facendo un bellissimo sogno.
Non aveva voglia di alzarsi, di vestirsi. Si era abituata a poltrire fino all’ora di pranzo, le piaceva tanto essere mantenuta, non avere pensieri.
“Ti vuoi alzare?”
Non parlava quasi mai Vegeta, ma quando lo faceva sceglieva i momenti meno opportuni e faceva rimpiangere sempre quelli in cui sceglieva un ascetico mutismo.
Si inginocchiò sul materasso e schiacciò il petto sopra le ginocchia, nascondendo la testa sotto il soffice guanciale.
Quel letto era perfetto, caldo, accogliente, profumato, spazioso. Perché lasciarlo?
“Se non ti alzi entro tre secondi ti butto addosso un bicchiere d’acqua.”
Mugugnò decisa a persistere nella sua dormiveglia.
E poi la mattina, quando Vegeta andava a lavoro, il talamo non nuziale era tutto per lei e si poteva mettere in qualunque posizione, poteva prendersi tutti i cuscini e non si doveva preoccupare di non dover scalciare.
“Uno.”
Aveva sonno.
“Due.”
E il sole le avrebbe bruciato gli occhi.
“Tre.”
Un bicchiere d’acqua gelida le colpì la schiena, congelando il sonno alle nostalgiche memorie.
Scattò immediatamente sull’attenti, ancora seduta sul materasso.
“Che cazzo di problemi hai? A che cazzo mi serve un lavoro?”
“A essere come tutti gli altri.” Era completamente nuda, una mano a sopra il cuore, nervosa, ma lui guardava intensamente quella faccia, o quello che era rimasto della sua faccia, sotto colate nere di matita e mascara.
“Cosa stai dicendo? Non ti seguo.” Sbadigliò e si stropicciò gli occhi con le mani, espandendo quelle macchie scure anche sulla fronte.
“Nessuno sospetta della massa. E non voglio che tu attiri l’attenzione di nessuno.”
Si alzò pigramente e si stiracchiò rilassando le braccia sulle sue spalle e appoggiando il naso al suo.
“Genio sociale, che lavoro pensi possa trovare così?”
La prese dai glutei e le fece attorcigliare le sue gambe intorno alla sua vita.
“Potresti lavorare al circo, con questo trucco sembri un panda.”
“E facendo il panda dici che non darei alito a domande?”
Le annusò le labbra, sapevano di sonno, erano pallide, senza rossetto, screpolate e tagliate da denti, i suoi denti, turgide e gonfie.
Le sovrastò con le sue, soffiandovi sopra, per farle aprire e insinuò dolcemente la lingua; leccava la sua, cercava di avvicinarla ai suoi denti e morderla.
Gli piaceva morderla. Dappertutto. Aprirla. Bere gocce di sangue stillato. Tirargli la pelle, colorargliela di viola e poi baciarle le parti ferite.
E piaceva tanto pure a lei, che gli offriva il collo, che non gridava la perdita del liquido vitale, che si bagnava tra le cosce.
“Sei fortunata. C’è una persona che vorrebbe lavorare con te, averti sempre affianco. E gli serve una segretaria.”
Mugugnò soddisfatta quando senti un pizzico sul naso.
“Che sei cucciolo! Vuoi stare sempre con me, anche a lavoro.” Strusciò la sua faccia sul suo disappunto e gli impiastricciò le guance di nero. “Sarò perfetta come segretaria, vedrai.”
In fondo quell’idea non sembrava malvagia. Avrebbe potuto reinserirsi in un contesto sociale di degno rispetto. Avrebbe avuto modo di illudersi di aver un normale lavoro ben retribuito e avrebbe potuto fare finta di lamentarsi del rincaro dei prezzi. E avrebbe potuto avere addirittura dei colleghi con cui litigare.
“Meglio così, perché Freezer è uno scassa coglioni allucinante sul lavoro.”
“Freezer?” Ah, quanto sperava di aver sentito male! Di stare ancora facendo un sogno, anzi un incubo. Quanto sperava che era diventata paranoica!
Ma la sua mente era perfettamente funzionale, sebbene Vegeta puntasse a farle avere un crollo nervoso. “Forse ho frainteso.” Disse, sghignazzando tra sé e sé.
“No, no, hai capito benissimo. Meglio così, a Freezer piacciono le persone attente.”
“Ma a me non piace lui. Pensavo che mi volessi tu come segretaria.”
“Mi dispiace tesoro, già ne ho una ed è anche brava.”
Scese da lui e piantò saldamente i piedi al freddo pavimento. Stava combattendo. Stava decidendo, cercando di scegliere.
Incazzarsi perché l’aveva appioppata a quel mostro umano? Incazzarsi perché lui sorrideva irritantemente? Incazzarsi perché Vegeta aveva una segretaria? O sembrare forte e indifferente?
“Una? Hai detto di avere UNA segretaria?” Gli afferrò la cravatta e l’attirò a sé, facendo sbattere le fronti l’una con l’altra e mostrandogli i suoi denti acconciati in un ringhio minaccioso.
Quella ragazza era divertente. Un gioco sempre nuovo che non annoiava mai, almeno per quel momento. In fondo al cuore lui era un infantile bambino che si divertiva a giocare. A usare il nuovo trastullo fino all’usura.
“Si, mi serve un aiuto in ufficio.”
“E l’aiuto deve per forza essere femminile? Perché hai UNA segretaria e non UN segretario?”
Guai a chi diceva che non si ricordava gli articoli indeterminativi e la loro funzione nel linguaggio comune.
“Perché mi piace che, quando si piega a raccogliere i fogli caduti a terra, le si veda il culo. Uno splendido culo aggiungerei.”
“Io non l’avrei aggiunto, fossi in te.” Alzò un ginocchio per colpirgli la pancia, ma lui lo bloccò e lo trattenne in aria.
“Gelosa?” In quella posizione di equilibrio precario, fu facile farle perdere stabilità e la buttò sul letto, imprigionandola sotto il suo corpo.
“Assolutamente no. Sono solo infastidita dal fatto che tu sei sempre così superficiale.” Voltò lo sguardo all’indietro per non farsi studiare da lui. Vedeva tutto sottosopra, tutto distorto.
“Non intenderla come una minaccia. Intendila come un modo per migliorarti, per stupirmi. Un modo per non annoiarci mai.”
Però non era reale che i palazzi aveva il tetto in basso e le fondamenta in alto. Né che le fronde degli alberi andavano contrari alla legge della gravità.
“Licenziala o io l’ammazzo. Capito?”
“Nessuno te lo impedisce, dolcezza.” Le baciò  il timpano e vi soffiò dentro.
Tornò in posizione eretta e si sollevò la manica della giacca per controllare l’orologio.
Era tardi, terribilmente tardi e Freezer odiava il ritardo sul lavoro.
“Ti conviene vestirti se non vuoi essere ripresa il tuo primo giorno.”
“E’ tutto così terribilmente ingiusto.” Batté i pugni sul letto e i piedi sul pavimento, sbuffando come un infante e mettendo il broncio proprio come una bambina viziata.
E lui rise. Rise di gusto, senza scomporsi, ma rise. Ma non aveva capito se per la sua faccia o per le sue parole.


Era un grattacielo infinito, che tendeva al divino, e per arrivarci c’era molta strada dai loro appartamenti. E il viaggio era stato una tortura. Un anticipazione del calvario che, immaginava, le sarebbe toccato.
Eppure quando l’ascensore portava in alto, sovrastando edifici, persone, vetture, poteva respirare un certo senso di libertà, voleva, o almeno le sembrava.
Tutto era ben arredato e l’abbigliamento di tutti impeccabile, come il suo.
Proprio non sapeva come Vegeta le avesse posto sotto il naso quel completo nuovo della sua misura ed estremamente elegante, né come avesse scelto quelle splendide, seppur scomode, decolleté con tacco a spillo.
Sembrava che avesse previsto quel momento. Faceva tanta paura pensare che quegli individui pianificavano totalmente la sua vita.
La scortò fino all’ufficio di Freezer, bussò alla porta, l’accompagnò dentro, si mise amabilmente a parlottare del più e del meno e poi la lasciò seduta su quella poltrona, senza manco salutarla.
Una volta tornati a casa, gliel’avrebbe fatta rimpiangere questa sua mossa abituale. E come se gliel’avrebbe fatta pagare.
Ma prima di tornare tra le mura domestiche, sempre se ci sarebbe tornata, doveva vincere quella giornata con Freezer, la prima di, aveva paura, tante, troppe.
Come le apparenze di un rispettabile presidente richiedevano, era seduto su una poltrona di pelle nera enorme che copriva un ampia e luminosa parete in vetro che possedeva tutta la città.
Non era un uomo affaccendato, o non avrebbe perso tempo a dondolare con lo schienale della sedia.
Zitto le poteva essere simpatico, se non fosse stato per il suo sguardo indagatore perennemente puntato su di lei.
“Quindi, dovrei essere la tua segretaria? Che mansioni svolgerei solitamente?” Era la prima volta, gli era costato fatica e sacrificio, che aveva tenuto un tono informale e colloquiale, che avrebbe tenuto con tutti.
Magari il suo proposito di iniziare una relazione lavorativa serena e rispettosa poteva diventare realtà, se si impegnava con stratagemmi veri per raggiungere la sua utopia e se lui l’avesse assecondata.
“Niente di particolare. Mi aiuteresti ad archiviare documenti, prenderesti le telefonate e me le passeresti sulla linea interna.”
“Sembra facile. Lo farò.” Sorrise carica. Si, un lavoro normale, come tutti gli altri. Pareva Bello.
“Anche uccidere il Dottor Willow era facile, eppure… Speriamo che stavolta svolga veramente le tue mansioni.” Ma le apparenze ingannavano, tranne quelle di Freezer. Che coerenza!
Lui si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulla scrivania, congiungendo le mani a mo’ di preghiera e vi appoggiò sopra il mento. Quel giorno doveva essere particolarmente bella, perché lui non le staccava gli occhi di dosso.
“Il tuo problema è che vivi ancorato al passato. Dammi qualcosa da fare e ti stupirò.” Sembrava sicura e baldanzosa. Ma la preoccupava essere serena e poco spaventata, anzi si sentiva a proprio agio. Che si fosse abituata?
“Mi piace il tuo spirito. Parliamo allora. Il tuo primo compito sarà parlare con me.”
“Parlare? Io e te? E di cosa?” Quel lavoro sembrava una triste barzelletta che faceva divertire lo stesso: del grottesco, non si poteva fare a meno per essere allegri: comicità e dolorosa paradossalità.
“Argomenti vari. Tanto per conoscerci un po’ di più.” Si ributtò sulla sedia, appoggiando la schiena allo schienale e scivolando un po’ giù col sedere. “Forse ci piaceremo vicendevolmente dopo.”
“Improbabile.”
“Anche tu e Vegeta sembravate improbabili e invece devo dire che mi avete spiazzato. Come mai ti sei interessata e ti interessi a lui?”
Diretto e conciso. Breve ed efficace. Sicuramente il dono della sintesi, compensava la mancanza di tatto. Non le piaceva per niente come la stava scrutando né il tono che aveva usato. Troppo autoritario, infastidito, quasi geloso.
E in quel momento lo stava davvero invidiando, in quel momento in cui non riusciva a parlare, non riusciva a pensare, perché di pensieri ne aveva troppi. Era sicura di non avere una risposta da ragazzina illusa e deludente ed era proprio quello il problema. Non essere il cliché dell’innamorata, ma amare e basta.
“Perchè non sono interessata a un altro.” Superficiale? Stupido? Poco esaustivo?
Sì. Sì. Sì. Vero. Perché se ci fosse stata un altro, non ci sarebbe stato Vegeta.
“Ed è ricambiato questo sentimento?”
Fare i bastardi era divertente e appagante. A volte era arrivata a presumere che Vegeta venisse perché le schiaffeggiava il culo, che perché era dentro di lei a muoversi.
“Se non c’è nessun’altra sì.”
Sorrise soddisfatto e armeggiò con i cassetti della scrivania e ne estrasse una cartellina gialla.
“Posa questa nella libreria in fondo e se vuoi sbircia pure l’interno.”
Si alzò dalla sedia e fece quanto richiestole, accettando quella stranamente gentile concessione, capendo poi che non era stato un gesto di carità né di amicizia.


Aveva spalancato la porta senza bussare, perché la gente cerca di salvarsi dall’ignoto. Cerca di prepararsi, da un segnale del suo arrivo perché non vuole trovare niente che non abbia trovato altre volte. Ma lei sapeva cosa avrebbe visto, aprendo quella porta, e non aveva paura ad affrontare quel passo. Anzi, lo desiderava.
“In cosa posso esserle utile?”
Era proprio bellissima quella donna, esattamente come quando l’aveva vista in televisione.
Splendida, con i bottoni della camicetta aperti fino allo sterno e la gonna che copriva a stento il culo.
Meravigliosa con quei capelli color della notte, raccolti in una crocchia alta e quegli occhi nocciola scintillanti.
“L’avvocato?” Si avvicinò con passo felino e sicuro. Perché quella donna poteva pure essere perfetta, ma lei era la migliore.
“Si è assentato per pochi minuti. Se vuole accomodarsi fuori la farò entrare, quando sarà di ritorno.”
Si avvicinò ala scrivania e carezzò il legno liscio, studiando ogni singolo dettaglio di quella donna.
Dalle gambe lunghe, alla labbra enormi e avvolgenti, da quella gentilezza a quegli occhi ammansiti.
“Mi stavo domandando per quale motivo lei si sia accontenta del ruolo da segretaria, quando sa benissimo che vale di più.”
Non scorreva buon sangue tra di loro. Troppo belle per essere amiche. Troppo bastardo l’uomo per farsi odiare da due donne.
“Potrebbe benissimo provare a ucciderlo, scalare i vertici almeno. Ma si accontenta a essere la segretaria di un avvocato e stare accovacciata sotto la sua scrivania, quando è seduto.”
Non si sarebbe scordata facilmente la foto che aveva visto.
Sistemò i fascicoli ordinatamente sulla scrivania, rimise la poltrona al proprio posto e si portò di fronte a Bulma.
Questa si appoggiò col sedere sul ripiano di legno di mogano e prese un tagliacarte e incominciò a giocarci, non alzando gli occhi da quella lama.
“Gelosa? Vuoi prendere il mio posto?”
Appoggiò la punta del coltello da ufficio sulla sua falangetta e fece pressione, fino a farsi uscire uno spillo di sangue. Era affilata quella lama.
“Perché insinui certe fesserie, senza conoscermi?”
“Non ti conosco, ma conosco la gelosia e l’invidia. Penso che siamo qui per lo stesso motivo.”
Si sporse su di lei e le appoggiò le mani sui fianchi, mettendosi tra le sue gambe.
“Abbiamo fatto una grandissima stronzata, siano finite nei casini e Vegeta ci ha tirato fuori.”
Le spostò una ciocca di capelli azzurri dietro l’orecchio.
“E ora stiamo cercando di accattivarci il suo favore, perché non vogliamo essere l’ultima ruota del carro.”
“Io non sono l’ultima ruota del carro.”
Le loro labbra si incrociarono in un saffico bacio.
“Non c’è bisogno che tu sia gelosa di me. Stiamo sulla stessa barca. Aiutiamoci.”
Bulma portò il gomito destro indietro, quello cui la mano stringeva il taglia carte, e pareva ascoltare quelle parole con interesse.
“Tra un poco Vegeta torna e possiamo anche fargli piacere assieme, senza bisogno di litigare tra di noi.”
Mise la testa di lato e si leccò le labbra.
Quella donna era ammaliante e non le era del tutto oscuro il perché Vegeta se la sopportasse, però aveva un difetto, un unico fatale difetto: non era lei.
Caricò il colpo e infilzò l’addome della segretaria con il tagliacarte.
Mentre lei annaspava alla ricerca d’aria, la bianca e pura camicetta si tingeva di rosso.
La mora cercò di aggrapparsi alle spalle di Bulma, di stringerle e di cercare conforto, ma poteva vedere solo un sadico sorriso e degli occhi pieni d’amore.
Com’era bella Bulma. Com’era bello l’amore.
“Assolutamente no. Vegeta è solo mio.”





Emmmmmh, manco tipo dal 15.18….anzi forse anche dal giorno prima…
E’ un periodo pienissimo, pienissimo di cose da fare e vuoto d’ispirazione: avete presente quei momenti in cui vi viene difficile esprimervi? Avreste tante cose da dire ma non ci riuscite perché entrate in paranoia?
Questo capitolo non mi convince per niente, ma ci ho perso 2 settimane a scriverlo e ho capito che mi devo arrendere. xD
Bulma è pur sempre un’ assassina! Facciamola uccidere, in fondo è fantasia, su! U_u
Ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, seguito, ricordato, preferito e recensito la storia: siete dolcissimi e sempre di più.
Ma un grazie speciale, stasera, va a chi non mi manderà a cacare dopo questo obbrobrio!
Gli errori, perché sarà pieno di errori il capitolo, li correggo domani mattina, ora la mia priorità era aggiornare. Ah, ho cambiato la frase del decimo capitolo xD
Notte popolo di Efp e alla prossima che, spero, sarà presto.
O forse preferite aspettare un po’ di più per avere qualcosa di più decente?
Ditemi voi.
Ninna nanna a tutti voi! <3

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Capitolo 14
*** 14.14 ***


Avvertenze prima dell’uso: In questo capitolo c’è una scena un po’ macabra, che forse potrebbe colpire qualcuno.
Non è da rating rosso, perché non è dettagliata però mi sembrava giusto avvisare.

Mi rimetto alla vostra coscienza e alla vostra facoltà di giudicare per sé stessi: se non volete leggere quel pezzo, che evidenzierò col colore blu,
andate pure avanti io a fine capitolo metterò un piccolo riassunto di quella parte così che la possiate capire lo stesso.
Buona lettura <3


Nelle avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace.
François de La Rochefoucauld

 
 Quello che non sapeva, non sospettava nemmeno, circa le relazioni era che, quando se ne intraprendeva una, entravano a far parte della propria vita due donne, due persone diverse, fuse nella stessa circostanza: la partner e la sua migliore amica.
Due entità inscindibili che, a detta sua, avevano sbagliato a legarsi: perché non si somigliavano, perché era inammissibile che lui si dovesse sopportare quella pazza sclerotica, racchia e zitella acida della migliore amica di Bulma: ChiChi Toro.
“Ma tu guidi sempre così male o sei emozionato perché ci sono io?” Aveva un tono saccente, arrogante, fastidioso e si atteggiava a maestrina onnisciente.
Da quando esistevano ragazze così? Quelle che conosceva lui erano così silenziose, stupide, facilmente manovrabili, fisicamente perfette e sue.
Sicuramente quella morettina era stata un grosso sbaglio della natura.
“Ora ti svelerò il segreto per cui esci con noi e non hai un fidanzato: sei una rompi coglioni!”
Quello che non sapeva, non sospettava nemmeno, circa le relazioni era che, nel caso in cui la donna si fosse trovata in mezzo tra moroso e amica, questa avrebbe scelto sempre e comunque l’amica.
E i dubbi nella sua testa aumentavano…
“Tu non mi puoi parlare in questa maniera!”
“Tu non le puoi parlare in questa maniera!” L’avevano detto all’unisono, concordandosi prima, secondo lui, sul tono e l’espressione da tenere: perché non era una coincidenza che aveva portato entrambe le mani sui fianchi e avevano sputato veleno dalla lingua.
Cosa gli toccava fare per Bulma? Sopportare quell’animale che sapeva parlare, purtroppo; sorbirsi la sua compagnia intere giornate perché non voleva lasciarla sola.
E tutto quello perché? Perché, si domandava!
Si girò verso la ragazza dai capelli azzurri per cercare risposta e la trovò nelle sue tette, perfette tette e sode che lo ammaliavano come il canto di una sirena.
Maledetta bambina! Doveva per forza incrociare le braccia al petto, sollevandosele?
“Per tua informazione Chichi è una splendida ragazza e non è ancora fidanzata perché non ha trovato nessuno degno di lei. Mica bisogna accontentarsi del primo deficiente che passa!”
Ridere o piangere? Quello era il dilemma: non sapeva se era meglio sfotterla o compatirla.
Sporse il labbro inferiore e ci pensò seriamente, con la testa che si muoveva a ritmo di quell’odiosa musica che Bulma aveva costretto ad ascoltare. Insopportabile musica che entrava nel cervello!
La scelta in fondo non era così ardua: dopo un millesimo di secondo, scoppiò a ridere, battendo le mani sul volante e strizzando gli occhi per non far uscire lacrime di divertimento.
La deficiente utopia della ragazza era grottesca, un grottesco che versava più sul tragico, ma a lui le tragedie mettevano allegria.
Abbassò il finestrino, senza smettere di ridere, e, con la mano, fece segno di scacciare mosche.
“Che fai, deficiente? Pensa a guidare!”
Quello squittio imperioso era quanto di più esilarante potesse immaginare, se detto con quella faccia di assoluta serietà.
“Faccio uscire un po’ di cazzate, prima che ci soffocano.”
“Sei rozzo, volgare e insopportabile.” Chichi si era seduta sull’angolino del sedile centrale posteriore e si era affacciata verso lui, urlando le demenze direttamente nel suo orecchio.
Oltre i coglioni, aveva anche i timpani rotti: bene!
“Già è il periodo delle zanzare?” Girò il braccio indietro, tentandola di dargli leggere pacche.
Per quanto avesse voluto, e voleva veramente tanto, farle del male o per lo meno tapparle quella bocca da cui uscivano troppe parole da lui non autorizzate, non poteva, perché se le avesse fatto male, Bulma avrebbe fatto male a lui, negandogli certe abitudini.
Si faceva comandare dagli angeli pur di scopare con quella ragazza!
“Chichi ti prometto che se ti insulta un’altra volta, lo lascio.” Promise l’azzurra tra i sorrisi portandosi una mano al petto e chiudendo solennemente gli occhi.
“Ah si?” Domandò scettico.
“Si! perché Chichi è speciale, è la mia migliore amica e non l’abbandonerò mai!”
Lui era una persona forte! Lo doveva essere: perché se non lo fosse stato, non avrebbe retto tutte quelle stronzate, andandosi a buttare sotto il tir fermo al semaforo.
“Oh Bulma, come farei senza di te?”
“Non faresti: ti prometto che staremo per sempre insieme e non ci divideremo mai.”
Che bei trilli gioiosi che si doveva subire per delle tette! Aveva anche sentito una tirata di naso: ci mancava solo che si mettevano a frignare…
Sospirò stancamente e guardò sconsolato e triste il tir che scappava via da lui: se le doveva sopportare per forza per tutto il pomeriggio. 


Quando c’era freddo, quando il cielo era grigio e l’aria pungente, quando era più  probabile che piovesse, piuttosto che un raggio di sole rischiarasse la giornata, amava andare a correre lungo il lungomare.
Gli piaceva l’acqua in subbuglio e incazzata che si infrangeva contro la risacca e gli piaceva essere bagnato da quelle lacrime salate, che lavavano il sudore.
E, sebbene ricercasse quella situazione perché non c’era nessuno che lo poteva importunare, non gli dispiaceva, anzi a volte la cercava, la compagnia silenziosa di Zarbon.
Era la persona che tra tutte avrebbe definito amico con meno falsità. Erano simili ed erano cresciuti assieme con le stesse convinzioni, dovute sia all’ambiente esterno, sia alla loro innata propensione al narcisismo e all’egocentrismo che li rendeva veramente insopportabili ad altri.
Erano belli e sapevano di esserlo, erano intelligenti e lo sfruttavano.
Entrambi con le cuffie nell’orecchie, bruciavano l’asfalto sotto le loro suole, affrontando una tacita lotta per la supremazia per vincere un caffè al bar.
Quel giorno però voglia di fatica ce n’era poca, si preferiva il formicolio della curiosità e il sollazzo dei pettegolezzi.
Era davvero incoerente criticare quella morbosa ossessione per la futile conoscenza del genere femminile, per poi rivelarsi peggiori delle facoltose scrofe, mogli di uomini d’affari, che riempivano il salotto con le loro chiacchiere, ma, allorché soli e indisturbati, avevano convenuto che si sarebbero potuti concedere una piccola debolezza.
Camminavano a passo lento, uno a fianco all’altro, facendo esercizi di respirazione, perché se qualcuno gli avesse visti, i gesti avrebbero mentito per loro.
“E’ proprio vero: l’amore uccide.” Disse in un mezzo ghigno Zarbon.
Lui era stato il medico che aveva dichiarato il decesso della giovane donna una volta arrivato nel suo appartamento, con assoluta professionalità, abbellita da un intenso e falso dispiacere per quella morte così precoce.
Lui era stato il medico che aveva scritto nel referto che la segretaria di Vegeta era morta nella propria abitazione, accoltellata, quando era tornata in anticipo dal lavoro. Licenziata in tronco. E a provare quella verità, la lettera di licenziamento, inviata dallo stesso avvocato.
Gli occhi neri di Vegeta ridettero sotto le lenti scure degli occhiali da sole.
Zarbon gli aveva aiutati a coprire Bulma e il suo omicidio e sapeva a grandi linee, perché tra le risate aveva chiesto alla ragazza il motivo di quel gesto, ma quella candida dichiarazione di gelosia lo aveva davvero stuzzicato.
Solitamente non si faceva i cazzi di Vegeta, anche perché era difficile che lui condividesse, ma quella volta, entrambi erano ben propensi a parlare: uno per ridere un po’ della stupidità femminile, uno perché voleva accontentare la spavalderia di un ego maschile ingigantito.
“Fattene una ragione. Le donne per me, fanno cose che nemmeno puoi immaginare.”
Vanitoso si ravvivò i capelli neri, scoppiando in una splendida risata appagata, una risata di quelle che faceva quando era veramente soddisfatto, una risata che faceva davvero di rado.
L’impulsività di quella stupida gli sarebbe potuta costare una denuncia e un processo e, anche se ne sarebbero potuti uscire tutti illesi, la sua immagine sarebbe stata notevolmente ridimensionata e non poteva permetterselo, eppure l’aveva apprezzata.
Aveva apprezzato quell’esasperazione del senso di possesso, della gelosia, perché le aveva intuite come una dichiarazione di assoluta fedeltà e a lui erano davvero utili i fedeli e la loro cieca devozione.
“No? Quindi ha superato Irene e le due puttane morte che ti ha fatto trovare nel cofano della macchina?”
Vegeta tirava fuori il peggio delle donne ed era il meglio che Zarbon potesse sperare per divertirsi a discapito degli altri.
Irene era una ragazza particolare, l’aveva sempre saputo. Sempre esuberante e così infantile, da volersi vendicare pure contro il tempo, quando lei decideva di volere andare a farsi un bagno e il cielo pioveva, e non si era scioccato più di tanto, quando il moro gli aveva raccontato quell’aneddoto, incazzato per l’auto sporca più che colpito dall’ossessione di Irene.
Irene era sempre stata attaccata a Vegeta, tanto da identificarsi, nell’ultimo periodo specialmente, da quando era iniziato il processo di Bulma, solo nei suoi ordini e nei suoi desideri.
L’avvocato si era morso il labbro inferiore per trattenere l’ennesimo sorriso soddisfatto e superbo.
Bulma aveva ampiamente superato Irene per cattiveria, pura e gratuita cattiveria.
Perché non si era limitata solo ad accoltellare la segretaria, l’aveva fatto in una maniera così precisa, da non regalarle una morte veloce, aveva optato per la sofferenza e la sofferenza non si era fermata all’addome squarciato e al bruciare del sangue; si era spinta nel suo sadico piacere per la vittoria e nella sublime ebbrezza dell’annientamento morale più che fisico.
“Più di Irene.” I suoi occhi gialli erano sgranati, un po’ per l’invidia, un po’ per l’incredulità.
Non riusciva a credere che quella ragazzina petulante dai capelli azzurri un giorno sarebbe stata quel genere di donna e non riusciva a credere fin dove potesse arrivare la perversione di una donna innamorata. “E cosa può aver mai fatto?” Domandò trepidante.
“Si è fatta inculare come una cagna, davanti a quella povera morente e…”
Si bloccò per far cuocere l’altro nell’ustionante fastidio dell’ignoranza e perché ogni volta gli piaceva ricordare quella scena, quel momento, gli occhi della sua segretaria lacrimanti e doloranti.
Aveva aspettato che rientrasse nel proprio ufficio, l’aveva aspettato seduta sulla sua poltrona, girata di spalle, nuda, indossando solo quei vertiginosi tacchi a spillo.
Una volta richiusa la porta, si era alzata e aveva camminato seducente verso di lui, calpestando quel corpo vivo e sofferente riverso a terra, e per placare lo stupore sul suo volto, si era giustificata dicendogli che era stata la volontà di Freezer e lei aveva obbedito come lui stesso le aveva più volte consigliato.
Gli si era buttata addosso, leccandogli l’orecchio, cercando di rompere quella sconcertante indifferenza davanti alla morte, cercando di attirare l’attenzione su di sé.
Era stata scaltra, aveva capito che non era facile che lui l’assecondasse, che l’accontentasse, perché non si doveva mai nemmeno pensare che Vegeta acconsentisse e non comandasse.
Gli aveva sussurrato con voce calda, lanciando occhiate esaustive alla sua segretaria, che era contenta di essere la sua schiava e di essere pronta a piegarsi a qualsiasi suo volere, come sempre.
Gli aveva dato le spalle e si era inginocchiata ai suoi piedi, spingendosi in avanti con il busto, rivolgendo alla segretaria un puro sorriso demoniaco.
Era stato tutto studiato. Le parole, la posizione. Le aveva detto di gradire il culo della donna e Bulma voleva privarla di quel complimento.
Era impazzita, quella mattina, sul loro letto, era impazzita di gelosia e a lui faceva morire quella follia, perché ne era autore. Cazzo se quella situazione l’aveva eccitato!
“E poi?” La voce spezzata e ammirata di Zarbon lo riportò al presente, voleva sapere, stava diventando matto, tutta quell’ansia lo stava facendo rincoglionire.
“Una volta finito le si è avvicinata, le ha detto che non serviva nemmeno come puttana e l’ha colpita di nuovo col tagliacarte.”
Quanto la faceva semplice Vegeta. Fin dove poteva arrivare la noia dell’abitudine per quell’uomo. Niente riusciva più a scuoterlo, neanche gesti estremi come quello.
L’aveva liquidato in due frasi, regalandogli la fantasia dell’accaduto. Non era necessario che sapesse che lei aveva camminato carponi, stirandosi come una pantera, sul parquet non vergine di sangue; che si fosse chinata maggiormente per leccarle le labbra e sporcarle con quelle parole che avevano condannato la sua nullità; che l’aveva nuovamente infilzata e poi aveva profanato quel corpo senza vita, ridendo di gusto allo scorrere del sangue.

Zarbon mostrò tutta la sua ilarità per l’accaduto, era felice di essere felicemente impegnato con la sua donna, felice di avere un rapporto stabile, senza quelle seghe mentali che il moro si sarebbe fatto di lì a poco, felice di essere maturo e ormai fuori da quel giro di ormoni e cuori impazziti.
Passò un braccio sopra le spalle di Vegeta e lo tirò a sé, strizzando gli occhi al cielo.
Quel medico da strapazzo era una delle poche persone che lo potesse toccare e arrogarsi il privilegio di qualche gesto amichevole, senza incorrere in una sfuriata ingiustificata, accettata solo per abitudine.
“Amico mio, da oggi in poi offrirai sempre tu il caffè, prevedo che avrai un grande bisogno di me.” Zarbon sembrava gaio e pimpante.
Quello che non sapeva, non sospettava nemmeno, circa le relazioni era che, talvolta, se ne intraprendeva una, anche senza il proprio consenso conscio.
Diventava un automatismo della gelosia, che era un automatismo del sesso.
Quello che non voleva sapere, fingeva di non sospettare nemmeno, circa le relazioni era che si sarebbero dovuti curare i vizi di un egoismo vantaggioso, per sopravvivere alle necessità di un dualismo complicato e dannoso. Perché si univano due persone che era meglio che stessero separate; perché il difetto di uno diventava la tortura dell’altro; perché le conseguenze delle azioni dell’altro diventavano le proprie condanne.
Quello che sapeva circa le relazioni era che erano pericolose per la propria individuale incolumità.
Quello che sapeva, ma avrebbe preferito ignorare, era che avere una relazione con lei l’appagava, lo divertiva, lo completava.
E pensava di essere abbastanza grande da non dover più temere l’influenza dell’altro, perché ormai abbastanza radicata la sua personalità nella sua persona, pensava di volerci provare, con tutto quello che sarebbe successo, perché era un egocentrico del cazzo, perché sarebbe riuscito pure a vincere il cuore e i suoi problemi.

“Dimmi la verità: ti basta così poco per divertirti?”
Prese l’ennesimo volume da terra e lo poggiò ordinatamente sullo scaffale con un sospiro di fatica.
Per l’ennesima volta, Freezer le aveva dato prova della propria malignità e della sua forza, per cui era giusto dover avere almeno un minimo di paura, ma in fin dei conti, lei risultava una persona fondamentalmente sbagliata.
Aveva gettato a terra tutti i libri della libreria e le aveva affidato come compito di raccoglierli e di metterli in ordine per colore.
Non bastava che il sabato fosse costretta ad andare a lavoro, perché era una stagista, stupida per di più, come Freezer le diceva sempre, e ancora non si era guadagnata il giorno libero, doveva pure essere costretta ai lavori più insignificanti, come un’inetta.
“E’ impagabile vedere la tua faccia scazzata.”
Lo scimmiottò un po’, potendoselo permettere, essendo di spalle, e poi sbadigliò sonoramente, non curandosi di coprirsi la bocca con la mano.
Era stanca e assonnata. Vegeta il sabato aveva il giorno libero e, legandole i polsi alla testiera del letto, l’aveva costretta, anche se non si era ribellata per nulla, a scopare tutta la notte, senza sosta e l’aveva lasciata andare, quando, ormai soddisfatto, il sole stava nascendo.
“Povera, povera tesoro mio che non può dormire.”
Stava giocando con la sedia girevole, ridendo di gusto di quella voluta e ovvia allusione.
Era sciupata in viso, con occhiaie e lividi su tutto il collo, eppure sorrideva tranquilla, sfidandolo con quello scintillio gongolante nelle iridi azzurre.
“Un giorno, quando arriverò alla tua età e nessuno vorrà più scopare con me, penserò a dormire.” Ingoiò l’ennesimo sbadiglio, ripensando alla notte appena trascorsa, pensando a quante altre ne avrebbe volute passare in quella maniera.
“Alla mia età? Alla mia età!” Freezer sorse in un ghigno crudele e sapiente, un ghigno di chi sapeva il fatto suo e anche quello degli altri. “Sei troppo lungimirante, Vegeta non ci metterà più di qualche settimana a stancarsi di te, qualche mese se  glielo succhi veramente bene.”
Poggiò l’ennesimo tono, di un color rosso tendente all’arancione, e si voltò a guardarlo in volto, leccandosi le labbra scarlatte.
 “Sono brava, ma non ho solo quello da offrire.”
“Sicuramente. Ogni persona ha mille e disparate cose da offrire, potessero essere queste l’allegria o la serietà, la bellezza o l’intelligenza. Ma l’importante non è l’offerta, è la domanda, amore mio.”
“Che vuoi dire, stronzo?” Si sedette sulla poltrona degli ospiti, con le gambe e le braccia incrociate ostilmente.
“Che magari Vegeta non vuole accettare niente di quello che tu hai da offrire. Perché tu e non un’altra? Cos’hai tu che lui cerca che le altre non hanno?”
Si sentiva la bocca impastata e le labbra sigillate dalla colla della cruda realtà. Non sapeva cosa rispondere, perché non si era mai posta quel quesito: arroganza? Illusione?
Convinzione, maledetta e fottutissima convinzione, ma nella sua convinzione lei stava bene, chi era quel bastardo per insinuarle il dubbio della ragione nella favola della sua logica?
Ma poi cosa le importava di non aver quello che Vegeta voleva che lei avesse?
Si era convinta di essere felice di stare con Vegeta, perché si era sentita desiderata, ma lei lo desiderava?
“Allora perché scopa con me e non con un’altra?” Sicuramente nella sua unicità c’era la risposta per zittire Freezer e si sentì veramente sollevata, quando riuscì a parlare, a far tacere quel silenzio.
“Sicura? Irene era bellissima ed è stata anche la sua storia più longeva, quasi otto mesi, ma sai quante corna le ha fatto? Una delle tante sei stata tu.”
Non era una delle tante lei, ne voleva essere sicura.
“Non mi interessa quello che pensi e che dici. Io sono migliore di Irene, ma non c’è nessuno che lo è più di me. Non c’è gara.”
Si scompigliò la chioma e sorrise con gli occhi scintillanti, accavallando sensualmente le gambe. “Se c’è qualcuno che si vuol fare avanti, lo faccia: l’ammazzerò.”
“Tu sei pazza, tesoro.”
“Sarà quello che Vegeta cerca, scommettiamo?” Si sporse in avanti sulla sedia, poggiando i gomiti sulla scrivania.
Freezer amava il gioco d’azzardo, perché amava vincere e amava le droghe che distoglievano dalla noia. Sapeva che non avrebbe mai perso, perché, a differenza della ragazza, aveva dalla sua parte il vantaggio di una sensata esperienza affianco a Vegeta e non distorceva vomitevolmente dei casuali e ultimi avvenimenti.
“E cosa vuoi scommettere bambolina? Che Vegeta non ti lascerà mai?”
“Troppo facile, bambolino. Di più, di più. Scommetto che riesco a fare innamorare Vegeta di me.” C’era troppa allegria in quell’azzurro, la stessa allegria che c’era nel rosso degli occhi di Freezer. L’amore allegro per il pericolo.
“Chi cerca l’amore vuol dire che è innamorato.” Ma lui amava la vittoria sul pericolo, perché ormai era arrivato ad essere suo schiavo e suo strumento.
“Sono innamorata delle sfide.”
“Cosa vuoi scommettere?”
“Se vinco io, ti farai uccidere da me.” Ansimava di piacere, mentre lo diceva.
Era simpatica e divertente quella ragazza. Aveva fatto bene a non ucciderla, si era rivelata una piacevole sorpresa e aveva quello che lui cercava in una donna: la sconsideratezza.
“Se vinco io diventerai il mio animaletto da compagnia.” Le tese la mano in segno di accordo, risoluto.
Mettere la sua vita in gioco non lo spaventava, perché se avesse vinto ne avrebbe avute due e lui non perdeva mai.
Afferrò la mano di lui e la strinse con vigore.
“Sei un uomo morto.”
“Sei una donna che bramerà la morte.”
Si somigliavano in quel momento. Aveva capito che comportarsi come Freezer risultava facile, più facile che naturale.
Scegliere il peggio era meglio per chi non voleva pensare, per chi voleva divertirsi.
Le loro labbra era acconciate nello stesso ghigno mefistofelico. Ma il demonio a chi avrebbe dato la vittoria?
Nonostante le leggende religiose narravano che si trovasse a bruciare tra le fiamme dell’inferno a punire i morti, Vegeta entrò nella stanza, con il suo profumo fresco di pulito e una felpa di un bianco etereo che risaltava l’ambra della sua pelle.
“Che state facendo voi due?” Era stranito. Stavano avendo un contatto fisico e per di più sorridevano tranquilli.
Aveva pensato di portarla fuori a pranzo, per allontanarla da Freezer, conscio dell’antipatia reciproca e avevano fatto amicizia? Quello era strano.
“Stavamo parlando di te.”
Bulma si ritrasse come scottata, sotto gli occhi accusatori e infastiditi di Vegeta dopo quella candida dichiarazione, che non sarebbe dovuta essere stata fatta.
“E cosa dicevate?”
Si alzò dalla sedia, si sentiva più tranquilla delle sue possibilità di fuga.
La stava rimproverando con lo sguardo, perché odiava che si parlasse di lui, quando era assente.
“Le stavo dicendo che si deve presentare sveglia ed efficiente a lavoro, quindi la notte deve preferire dormire che fottere come un coniglio. Vero Vegeta?” Sussurrò mellifluo e alludente.
La donna tirò un sospiro di sollievo. Si era preoccupata che Freezer volesse metterlo al corrente della loro scommessa. Se avesse saputo, non avrebbe mai ammesso di essersi innamorato di lei, l’avrebbe negato fino alla morte , ne era certa e lei non voleva finire a leccare la mano di quel mostro.
L’avvocato irruppe in un sorriso divertito e colpevole e afferrò per le guancie la ragazza, avvicinandola alla sua faccia e mordendole le labbra, voglioso.
“No. Prima il mio piacere e poi il suo dovere.”
“Fottiti coglione.” Lo spinse via con una manata sul petto e girò i tacchi avviandosi alla porta.
Aveva fame e gli occhi famelici di Freezer le facevano venire la nausea.
“Smettila di dire stronzate e andiamo a mangiare.” Prese stizzita la sua giacca di pelle dall’appendiabiti e se la mise rabbiosa.
Il peso della scommessa stava incominciando a farsi sentire nella sua paura. Perché Vegeta e la sua arroganza e il suo disprezzo avevano fenduto le sue illusioni.
Perché doveva volere giocare per quell’immeritevole stronzo?
Freezer la stava salutando con la manina e le parlava silenziosamente.
“Buona fortuna, Bulma.” L’aveva mimato con le labbra per non farsi sentire dall’altro, ma lei se ne sbatteva della discrezione.
“Muori.” Gli aveva dedicato il dito medio alzato ed era uscita dalla stanza, sbattendo l’imponente porta.
Vegeta uscì, dopo che ebbe sentito l’ultima sghignazzata, e l’afferrò per la vita, sbattendola su di sé.
Il sabato pomeriggio in ufficio non c’era nessuno.
“Mi sei mancata, dolcezza inacidita.” La baciò teneramente e poi si diresse all’ascensore, lasciandola di sasso.
Amava quello stronzo, ecco perché voleva giocare per lui.
Sorrise raggiante, le vittorie le mettevano allegria.


Erano andati a mangiare in un ristorante nel centro della città. Vegeta diceva che farsi vedere in giro era un modo per esorcizzare la credenza degli altri sul suo fantasma.
Perché un persona che si vedeva sempre alla luce del sole, non poteva agire nell’ombra.
E farsi vedere assieme era ancora più vantaggioso, perché quella normale abitudine di tutti era un alibi perfetto.
Una tragica alleanza, dietro una banale relazione di coppia, chi poteva sospettarlo?
Si sedettero in un tavolino all’aperto, sotto un grande gazebo, circondati da piante e fiori di stagione.
Quel locale era nuovo, l’avevano inaugurato da pochi giorni e loro avevano il bisogno di farsi vedere interessati alle novità delle città o per lo meno alle frivolezze della gente.
“Speriamo che si mangia bene.”
Si accomodò sulla sedia, appendendo la giacchetta allo schienale e la borsa al bracciolo. Non la ispirava particolarmente quel locale.
“Niente può essere peggio di quello che cucini tu.”
Si sistemò nella sedia di fronte a lei e con eleganza si tolse gli occhiali da sole e si portò una sigaretta alle labbra.
Gli altri lo vedevano impeccabile, ma chi lo osserva notava insofferenza.
Gli fece compagnia, prendendosi uno stelo di tabacco e accese per entrambi. Avrebbero aspettato silenziosamente l’arrivo di qualcuno per ordinare, come sempre.
“Quindi? E’ tanto male lavorare con Freezer?” Ma Vegeta stupiva sempre, era sempre tutto diverso.
Non si aspettava una conversazione, né quella conversazione. “C’è di meglio. Tu hai dormito bene stamattina?” Invidia, pura invidia. Voleva dormire anche lei.
“Sono andato a correre.” Tornò il silenzio e l’indifferenza reciproca. Si appoggiò allo schienale e chiuse le palpebre, era assonnato anche lui.
Anche se aveva sentito il richiamo del sonno, quella notte non riusciva a staccare le labbra dai suoi seni.
E ogni volta che finiva in piacere, tutto ricominciava in ansia spasmodica.
Una voce conosciuta, che non riuscì ad identificare: aveva il cervello annebbiato.
“Mi dispiace, ma qui non potete fumare, spegnete la sigaretta.” Tesa, nervosa.
Si sentì picchiettare la spalla e dopo poco fu costretto a tornare alla vista.
La prima cosa che vide furono gli occhi di Bulma ridotti a due fessure e la sua bocca tremare. Inalava aria dal naso come fosse stato un toro e aveva rotto la sigaretta tra le dita.
Gli piaceva, quando faceva l’animale feroce.
Si girò, ghignante, verso quell’interruzione e fu colpito dalla sorpresa. Tentennante, boccheggiò.
Capelli e occhi nero pece, fisico aggraziato e asciutto, faccia cadaverica.
Si riebbe subito e spense sul pavimento la sigaretta, mettendosela poi in tasca.
“Scusa, non avevo visto il cartello.” Nella vita, occorreva seguire le leggi comuni per passare inosservati. Se si pretendeva gentilezza, bisognava essere gentili.
Bulma gettò a terra lo stelo spezzato e se ne prese un altro dal pacchetto, accendendolo.
“E tu non le fai mai le cose che non puoi fare?” Era furiosa, calma e furiosa. Brutta situazione quella.
La cameriera sospirò. Aveva quel lavoro da poco e gli serviva per continuare mantenersi indipendente dalla famiglia, non poteva farsi licenziare per l’infantilità di un cliente.
“Se spegne la sigaretta, potrò portarvi il cibo che ordinate.” Avrebbe preferito senza dubbio tornare a lavare le stoviglie, come una sguattera.
Che strana la vita. Si ritrovava quel che si era voluto perdere e quello che si era strappato con forza, si perdeva nei ricordi.
Che strana la vita. Le persone, le amicizie, le coincidenze. Perché Bulma e Vegeta sedevano allo stesso tavolo a parlare amabilmente?
“Voglio fumare.” Le sputò in faccia fumo grigio. Sapeva che odiava il fumo.
“Ti ha detto di spegnere quella sigaretta. Fallo.”
Il  tono di Vegeta non ammetteva replica. Sulle bugie non transigeva, bisognava dirle bene e viverle come vere.
Tolse il filtro dalle sue labbra e spense la cicca sul dorso della mano della cameriera, facendole emettere un urlo strozzato di dolore.
“Ma ti sei rincoglionita del tutto, stupida?” Quella moretta era un vero peperino, aveva anche preceduto Vegeta nel suo rimprovero.
Classico. Era la madre che insegnava il giusto ai figli, la maestra dell’educazione e della vita.
Non tollerava essere giudicata. Lo odiava, la odiava, perché l’aveva sempre fatto e alla fine ogni sua scelta si era rivelata sbagliata, proprio come diceva lei.
Si alzò facendo cadere la sedia all’indietro e si avventò addosso all’inserviente. Le tirò i capelli con le dita, mentre l’altra le aveva schiaffeggiato uno zigomo.
Si ritrovarono stese e aggrovigliate a terra, tra spinte, pizzicotti e colpi imprecisi e rabbiosi.
Erano due furie e avevano attirato l’attenzione dei clienti e del gestore.
Tutti erano in piena apprensione, ma chi cercava di intervenire, si ritrovava con un occhio nero o una gomitata nello stomaco.
Nessuno le poteva fermare e chi ne era in grado si voleva godere fino all’ultimo quello spettacolo da due soldi.
Voleva vedere fino a dove arrivava la sconsideratezza di Bulma, voleva capire quale contromossa sarebbe stata efficace e appropriata per sedarla.
Che fosse gelosa quanto volesse, pazza e isterica, volgare e violenta, ma in pubblico doveva attenersi al copione.
Con flemma si alzò e la prese per un braccio, con una forza tale da lasciarle un ematoma violaceo sotto le maniche della camicia di lino. La sollevò dal corpo della mora, stesa a terra, con il labbro tumefatto e la bocca sporca di sangue e saliva.
“Chiedile scusa o per te finisce male.” Glielo sussurrò dolcemente nell’orecchio, perché amava quella sensazione contraddittoria della minaccia parlata da un angelo.
“No, mai.”
Cercò di divincolarsi, scalciando e sgomitando, ma lui era forte e ogni colpo andato a segno senza provocare male, era un dolore per lei.
“Comportati da persona matura. Dì quello che devi dire e poi andiamo.” Le scompigliò i capelli con un delicato tocco.
Le scelte erano personali. Le scelte erano conoscenza. Doveva scegliere se disubbidire e soffrire o ubbidire incondizionatamente per un suo vantaggio.
Non la voleva obbligare, voleva solo non essere costretto a castigarla, proprio quando meritava un elogio.
Tirò su col naso e alzò la testa. Era fiera, doveva essere fiera e risoluta.
“Mi dispiace di esserti saltata addosso e di averti fatto male. Stai tranquilla che la prossima volta che ci incontreremo, ti ammazzo certamente, Chichi, e non ci sarà nessuno a pararti il culo. Nemmeno il tuo caro Vegeta.”
Le sputò in voltò, con tutto il disgusto che aveva in corpo. La odiava, la odiava quella brutta puttana bugiarda e approfittatrice.


Avevano preso semplicemente strade diverse, anche se la sua non era stata un scelta, ma un obbligo.
Dopo la bocciatura era stata espulsa dal suo liceo privato e aveva dovuto frequentare una scuola pubblica. Una scuola dove l’eccellenze si potevano contare sulla punta della dita e i restanti erano normali.
Normali studenti senza nessuna dote, progetto, ambizione. E lei era rientrata a far parte di quella normalità che odiava, anzi era peggio della normalità.
Dopo il diploma, dovette accontentarsi di un pulcioso lavoro come barista, perché non poteva permettersi di continuare gli studi.
Ma ad ogni caffè o drink che serviva, pensava a Chichi, alla fortuna della sua borsa di studio e pensava di essere felice per lei. Almeno una delle due avrebbe fatto quello che realmente desiderava.
Preparò l’ennesima tazza di cioccolata calda, in quella mattina fredda e invernale, e, affacciandosi distrattamente dalla vetrata del locale, la vide dall’altra parte della strada.
Vide lei con in suo cappotto nero e i jeans chiari, vide quella sciarpa rosa e i capelli legati in un’alta coda di cavallo.
Era tornata dal campus, prima del previsto. Era tornata per lei, per farle una sorpresa, perché l’aveva tartassata di messaggi.
Si levò lo strofinaccio intorno alla vita e corse fuori. La gente affollava le strade per le compere stagionali e lei perse Chichi.
Solo quando avanzò un grosso camion lì parcheggiato, la vide di nuovo.
La vide tra le braccia di uno splendido ragazzo. La vide sorridere dolcemente ai suoi occhi color carbone e la vide buttarsi sulle sue labbra.
Solo quando la vide, si ruppero tutte le sue certezze, tutte quelle immagini di un passato sempre più scolorito.
Quando la vide, comprese il significato di bugiarda, di incoerente, di falsa e approfittatrice.
Quando vide Chichi baciare Vegeta, comprese che non aveva mai avuto una migliore amica, comprese di essere stata un’indicibile idiota.



Riassunto: In una bella giornata nuvolosa Vegeta e Zarbon vanno a correre sul lungo mare e Vegeta racconta a Zarbon, medico che ha falsificato il certificato di decesso della segretaria uccisa da Bulma, cosa è successo quando lui rientrò nell’ufficio.
Non sono brava con i riassunti. xD



Vi ho fatto penare con questo capitolo, eh?
Mi stavate dando per dispersa? Lo speravate almeno? E invece sono tornata!
Questo capitolo mi piace, ma non lo vedo troppo attinente con il resto della storia, ma dovevo reintrodurre quella povera Chichi.
Dubbi e dubbi e ancora dubbi, ma questa storia sta diventando una complicanza non indifferente. xD
Sapete che vi dico? Grazie! Perché aspettate i miei aggiornamenti, perché siete gentilissime a leggere, seguire, ricordare, preferire e recensire questa storia. U_U
Mi fa male la testolina ho pensato troppo. (Ahahahha)
Alla prossima gente e io spero più di voi che sia il più presto possibile. :3

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Capitolo 15
*** 15.15 ***


I piaceri sensuali passano e svaniscono in un batter d'occhio, ma l'amicizia tra noi, la reciproca confidenza, le delizie del cuore, l'incantesimo dell'anima, queste cose non periscono, non possono essere distrutte.
Ti amerò fino alla morte.
Voltaire




 “Sono a casa!”
Anche quella massacrante giornata scolastica era finita. Erano terminate le lezioni, le esercitazioni e i compiti in classe, erano sparite le richieste assurde degli studenti e le imposizioni dei professori, quello che non era sparito, forse vagamente coperto dalla stanchezza, ma non sparito, erano gli occhi neri di quella scimmia maleducata che tutti avevano accettato come uomo: Vegeta Ice.
Quel ragazzaccio con la giacca stirata e i denti bianchi, nonostante, ogni volta che lo vedesse, stringesse tra le labbra una sigaretta.
Quel teppista di buona famiglia, con la macchina sportiva e qualunque cosa che desiderasse, anche la media più alta di tutto l’istituto.
“Ciao tesoro, com’ è andata oggi?” Con che tempismo sua madre le chiedeva l’esito della giornata con quel sorriso serafico, mentre lei stava ribollendo di rabbia!
“Male! Va sempre male, se c’è in giro quel deficiente.” Buttò la cartella a terra e si sedette sulla sedia, sfogandosi con sua mamma che stava sminuzzando le carote per il minestrone della cena.
Oh se Vegeta fosse stato una carota: avrebbe affondato la lama con molta più violenza di quella che metteva Bunny Briefs, molta più decisione di quella donna che quasi si sentiva in colpa a tagliare un ortaggio.
“Oggi è uscito prima. Io ero di ronda nei corridoi e l’ho sentito parlottare con il suo compare che non reggeva più l’ora di greco e se ne voleva andare. Aveva voglia di un giro in città.”
E a Bulma Briefs avevano sempre insegnato che il volere veniva dopo il dovere, che non sempre si poteva fare ciò che andava, ma le regole di Bulma Briefs non erano niente per Vegeta Ice.
‘Ma perché? aveva regole quel ragazzo?’ A volte se lo chiedeva con un’insistenza martellante.
“Tesoro, non hai idea di come sia noioso il greco. Sono contenta che tu non lo faccia.”
Anche sua madre faceva parte di tutti gli adulti che giustificavano il comportamento di Vegeta!
Non c’era modo di sottoporre la condotta di quel ragazzo a un giusto giudizio, solo elogi e ancora elogi.
“Ma lui ha scelto di fare il classico e deve fare il greco. Io odio la letteratura, eppure la faccio. La devo fare!”
E alla carota seguì il pomodoro.
“Allora io mi sono messa di fronte a lui per dirgliene quattro. È un mio dovere rimproverare i suoi atteggiamenti sbagliati, ma mi ha detto che sono una bacchettona del cazzo e che non mi vorrà mai nessuno.”
“E tu gliel’hai detto che non ti interessa questo signor nessuno. Gli hai detto che tu hai Yamcha?”
Prese un gambo di sedano e lo spezzò con forza e rabbia. Yamcha.
Non aveva Yamcha. Yamcha cercava di averla, ma lei lo fuggiva, perché non aveva quello sguardo intelligente e splendido che aveva Vegeta.
“Sì, gli ho detto che io avevo Yamcha.”
“E lui? È impazzito di gelosia, immagino!”
Gelosia? Forse non era un sentimento che Vegeta fosse in grado di provare. Forse non ne provava se non la soddisfazione nello smerdare gli altri.
“No. Mi ha detto che lui ha più di un povero sfigato in tempesta ormonale. Lui ha chi vuole avere. ”
 E a un sospiro di nostalgia seguì un sorriso di scoperta.
Pure sua madre si metteva a sorridere alle bravate di quel mascalzone? No, non lo poteva più sopportare.
La sua scuola era l’harem di Vegeta. Si guardava intorno, adocchiava una ragazza abbastanza carina e poi la usava come voleva.
“Sai cosa? Gira voce che l’anno scorso, la sera del ballo studentesco l’hanno visto, nell’ufficio del preside, impegnato nel discorso, a fare sesso con quattro ragazze. Quello non sa cosa sono l’amore o il rispetto. Almeno Yamcha mi rispetta.”
Non si poteva andare in giro in corridoio, senza incontrare qualcuna che lui non si fosse portato a letto, e non per forza serviva un letto per farsela, andava bene anche un banco, un muro, un armadietto, il bagno, il ripostiglio del bidello.
“ La prossima volta lo trascino dal preside. Mi ha fatto veramente arrabbiare, non può fare quello che vuole. Deve fare il greco l’ultima ora del martedì.”
“Sai da quanto tempo amo tuo padre? Lo amo da ben trent’anni e per sposarlo ho dovuto aspettare quattordici anni di fidanzamento, anche se gliel’ho chiesto più volte di fare il grande passo, lui aveva altro per la testa.”
Sua madre non aveva concentrazione, né serietà. Aveva tanti pregi, come la dolcezza, il dono della comprensione, l’allegria, ma credeva non vivesse sul suo stesso pianeta.
Possibile che le aveva parlato di Vegeta per mezz’ora e le stava raccontando la storia del suo fidanzamento? Come se avesse attinenza!
“Cazzo c’entra col greco?”
“Che tuo padre ama la scienza. Ha prima voluto laurearsi, fondare l’azienda e poi mi ha sposato.”
“Non trovo similitudini col greco né con Vegeta.”
Mise tutte le verdure in pentola con un po’ d’acqua e girò col mestolo di legno.
Sospirò. “Sai che non vuoi parlare del greco.” Sua figlia era un genio, ma sembrava impedita a conoscere se stessa e gli altri.
“Tuo padre mi ama da morire, ma amava anche la scienza come me o forse più di me e le ha dedicato più tempo che a me. E’ sposato con la scienza, morirebbe per la scienza. È amore a tutti gli effetti, ma ama anche me.”
Quel discorso non aveva né capo né coda. Vegeta aveva il potere di far sviare il discorso, ecco perché non veniva punito. Il direttore magari iniziava a parlare del suo provvedimento disciplinare e come per magia si mettevano a discutere del baseball.
“Mamma che dici?
“Hai mai pensato che uno possa amare più di una persona contemporaneamente? Io amo tuo padre, amo te, amo tutti gli animali e vi do lo stesso valore. Forse Vegeta ama tutte le ragazze che si porta a letto. E sono sicura che con loro fa l’amore, non sesso.”
Guardò sua madre e poi la pentola e poi di nuovo sua madre.
“Eh?”
“Ricordati che bisogna amare il prossimo: e tutti sono il tuo prossimo.”



Di peso la buttò in macchina, dopo esserti detto dispiaciuto per l'accaduto, dopo aver pagato i danni al locale, dopo aver sussurrato qualcosa nell'orecchio a Chichi che non le era dato sentire.
Non aveva sentito, ma aveva visto il sorriso forzato di lei e poi la pacca sulla spalla di lui.
Un sottinteso invito a non preoccuparsi più del giusto, d'altronde quanto successo esulava dalla sua responsabilità, ma quanto si sbagliava la mora a pensare che Vegeta non avesse colpe.
Era colpa di Vegeta se lei aveva nuovamente la libertà di gironzolare in giro: tutte le altre erano ancora sotto chiave, ma prima o poi l’avrebbe trovata.
Mise in moto la macchina e imboccò subitamente l'autostrada, per tornare quanto prima a casa, per tornare quanto prima in quel palazzo enorme e disabitato eccetto che da loro, per tornare in quell'edificio collocato in mezzo al nulla, circondato da alberi, cespugli e cielo.
Credeva che al pranzo sarebbe seguito il cinema, ma aveva sbagliato: era stata una bimba cattiva, aveva disobbedito al paparino e ora l'aspettava la punizione.
"Mi manderai a letto senza cena o mi vieterai di uscire per una settimana? Mi potresti sequestrare il cellulare o ridurre la paghetta."
Domandò curiosamente divertita, girandogli lo specchietto retrovisore per sistemarsi il mascara; ci sarebbe stato anche quello del parasole, ma voleva giocare fino alla fine al gioco del fastidio e della pena.
Cosa mai avrebbe potuto fare per castigare una donna adulta, vaccinata e ex galeotta? Era davvero convinto che, dopo averla ricattata, usata, fisicamente menomata, potesse ancora provare paura per le sue idee?
L'unico timore reverenziale l'aveva per la morte, non perchè la vita le piacesse, solo perchè non sapeva se l'inferno fosse peggio, ma non la voleva morta lui: viva, ma non troppo incolume: un cane che mordeva l'estraneo, ma non il padrone.
"Perchè non mi sculacci? Così uniamo l'utile al dilettevole." Si leccò con malizia il rossetto, appena sistemato e poi disegnò, con quell'inchiostro rosso, dei cuoricini sul cruscotto, così non si sarebbe dimenticato di lei, nè che era una birichina.
"Mi fai morire." Rise dalle labbra e mandò messaggi pericolosi con quegli occhi che guardavano doloranti i segni rossi: la sua macchina era sacra.
"Fosse vero, cielo!"
Arrivarono al parcheggio di casa, ma lui non scese, anzi bloccò tutti gli sportelli.
Un topo in trappola avrebbe dovuto fuggire dal gatto, ma, inevitabilmente, gli si tuffava in bocca; lei invece gli si era buttata tra le braccia e aveva iniziato a lasciare il rossetto sbavato dalla saliva sul suo collo e sulla  felpa bianca.
Tutto era macchiato da Bulma e il suo rossetto, pure la sua fermezza e quel rossetto era corrosivo.
"Mi fai morire, quando fai la gelosa." Parlò all'aria, mentre schiaffeggiava il suo culo. L'aveva chiesto lei, perchè non accontentarla?
Vibrò il suo corpo dal dolore, perchè Vegeta non era delicato e sarebbe stato normale che il suo gluteo sinistro si sarebbe colorato di porpora. Vibrò dal piacere la sua femminilità, perchè il male fisico era bello, distraeva dai pensieri e in passato era stato il suo migliore amico, una delle sue fonti di sostentamento.
Aveva partecipato per qualche mese a delle lotte clandestine tra donne, spettacolo di vecchi arrapati e senza vita, che pagavano centinaia di verdoni per vederle sputare sangue e leccare il pavimento, in cerca di pietà, e lei aveva fatto della rabbia e della solitudine ottimi pugni e calci letali e, sebbene non vincesse sempre, riusciva a uscirne illesa, o solo con il labbro spaccato o qualche osso fratturato.
Aveva partecipato per qualche mese e quei mesi erano stati senza pensieri, perchè prima venivano le ecchimosi sulle gambe e poi il ricordo dei suoi genitori.
Aveva partecipato per qualche mese alle lotte clandestine, poi la polizia aveva arrestato l'organizzatore e per non avere guai si era trovata un lavoro, come lavapiatti a un self-service.
"Mi piace un casino..." Tono basso e roco.
Le aveva tirato i capelli e aveva inserito la lingua nel suo gemito di soffocato godimento, per quelle fitte alla testa.
Le aveva tirato i capelli e aveva inserito la lingua nella sua bocca e solo lui poteva decidere se baciarle le labbra o mordergliele, o ballare con la lingua di lei.
Bulma però poteva usare le mani e gli aveva slacciato la cintura e sbottonato i pantaloni e, o che giocasse con l'elastico dei suoi boxer o col suo sesso, a lui andava bene che si distraesse.
Aprì il cruscotto, quello con i cuori rossi, frugò tra le cartelle del lavoro, avrebbe mentito, dicendole che cercava il preservativo, se avesse chiesto, anche se lei sapeva che non usava protezioni, ma, quando avrebbe palesato il proprio dubbio su quell'affermazione insolita, sarebbe stato troppo tardi: già l'aveva impugnata, già stava toccando quella canna di metallo.
"M fai impazzire, quando sei gelosa di me..."
Le ficcò la pistola in bocca, la volata solleticava l'ugola.
Parole calde nelle orecchie e acciaio freddo sulla lingua: un binomio poco piacevole.
"... ma odio se lo fai, quando ti dico che non lo devi fare."
Si sarebbe potuta muovere, ma non era sicura che lui volesse e contraddirlo quella volta, significava avere un palato perforato da una pallottola.
Voleva deglutire, ma meglio rimanere immobili: pure le ciglia non si movevano all'aria e le palpebra si erano incantate a studiare le sue dita lusingare il grilletto.
Meglio il grilletto che gli occhi di Vegete senza umanità.
"Se ti dico che devi chiedere scusa, chiedi scusa. Se ti dico di spegnere la sigaretta, la spegni. Se ti dico uccidi, uccidi."
Bulma immobile non l'aveva vista nemmeno, quando era in manette, nè quando l'aveva legata al letto.
Si moveva come un'anguilla o per scappare o per creare l'eccitazione dell'inafferrabile.
Ferma però era una vera novità, ferma e predisposta si suoi insegnamenti e non era così stupido da non approfittarne.
"Perchè hai smesso di usare le mani? Non te l'ho detto."
Al bastardo piaceva quella situazione. Gli piaceva, o meglio lo eccitava, perchè gli si era indurito tra le dita, quando lui aveva iniziato a dettare le regole.
Perchè aveva smesso? Ma lei avrebbe continuato volentieri, l'avrebbe preso pure in bocca, peccato fosse occupata da una pistola.
"Ascoltami bene bambolina: parti dal presupposto che mi sei indifferente. - sarebbe andata proprio bene la scommessa con Freezer! - Parti dal presupposto che io non voglio farti del male, come non voglio farti del bene e arriverai alla conclusione che sono le tue azioni a decidere il mio comportamento nei tuoi confronti. Sei tu che decidi se avrai una promozione a lavoro o se sarai rimandata a calci in culo in prigione."
Meglio riprendere da dove aveva interrotto, magari compiacendolo, poteva tornare ad aprire e chiudere, secondo propria volontà le labbra, perchè le si stavano atrofizzando.
"E per tua informazione stasera non andrai a letto senza cena. Andremo a mangiare in un ristorante in centro: una bella serata romantica in quattro: tu, io, Chichi e il suo fidanzato. E tu chiederai scusa a ChiChi e ti divertirai a fare discorsi sull'ultimo vestito comprato o sull'assorbente che usate."
Simpatico. Uno dei difetti di Vegeta era la simpatia. Anzi era il suo più grande difetto.
"E sai perchè so che lo farai? Perchè se no la prossima volta la pistola te la ficco in culo e ti sparo nell'ano."
No: il più grande difetto era quella sua bravura nel raccontare storie lontane, ma non troppo, nel dipingere immagini false, come fossero vere e nitide.
L’avrebbe tanto voluto vedere difendere un colpevole in un’arringa. Voleva sentire che parole forbite avrebbe usato, voleva vedere che immagine sofisticata e pulita avrebbe dato di sé quel uomo che di pulito aveva solo il corpo, poi era marcio: marcio di testa, di pensieri nelle azioni ed era un marciume che si espandeva, che contagiava, che ammorbava tutto e tutti.
Piano, piano, con piccoli movimenti, indietreggiò con la testa fino a sputare fuori la pistola, chiuse le labbra e poi le riaprì e poi le richiuse, fin quando fu sicura di avere conservato la mobilità della mascella e non si fosse completamente atrofizzata.
E, quando seppe che funzionava come prima,  tornò volontariamente a leccare quell’arma letale, tornò a parlare.
“Quindi non ce la fai a farti valere da solo con una donna? Hai bisogno di una pistola per farti rispettare?”
Gliela levò dalle mani, stranamente fu facile, non la stringeva tra gli artigli e incominciò a giocarci lei, a rigirarsela tra le dita, a portarsela davanti gli occhi.
Era un oggetto carino, se non la si aveva conficcata fino in gola, carino e utile.
Con la volata si carezzò le gambe, premette sulle sua mutande già bagnate e tracciò il percorso sopra la sua camicetta, sotto lo sguardo eccitato e soddisfatto, ma poco soddisfacente di lui.
“Sarebbe brutto se, casualmente, l’agente immobiliare, incaricato di vendere il tuo appartamento, trovasse delle prove che ti incastrino circa l’uccisione di quelle quattro persone o la finta colpevolezza di Irene.”
Premette la pistola sul suo membro e lo stuzzicò.
“Sarebbe brutto se, casualmente, ti sparassi sul cazzo.”
Relativo sarebbe stato.
Era una bell’idea,  un bel espediente per far abbassare la cresta a Vegeta, un placebo per convincersi della sua audace libertà.
Era una brutta azione perché avrebbe privato entrambi di qualcosa che gli piaceva molto, un giocattolo che non si sarebbe potuto ricomprare in nessun momento.
“Spara se vuoi, non ci sono proiettili.” Gliela levò dalle mani e estrasse il caricatore, mostrandole che era vuoto.
Aveva solo bisogno dell’idea che gli altri avevano di lui per essere rispettato e adorato, perché, inevitabilmente, si finisce con l’adorare chi tiene sotto scacco gli altri, si finisce con l’adorare l’ebbrezza del potere senza responsabilità.
Lo temevano i nemici e gli invidiosi, non certo i sottoposti o Bulma. E se lei l’aveva divinizzato come male, perché volere il suo terrore?
Scoppiò a ridere gioiosa e abbandonò la testa all’indietro: un giorno, era sicurissima, un giorno anche lei non avrebbe avuto bisogno di niente per terrorizzare le sue vittime, un giorno le si sarebbero buttate ai piedi per supplicarla e non si sarebbero abbandonate all’ilarità di vedere una donna con un’arma da fuoco.
“Hai vinto tu. Per  il momento.” Gli cinse il collo con le braccia, stringendolo quanto più forte potesse.
Non gli avrebbe mai fatto male, né aveva speranza di soffocarlo, infatti lui la lasciava fare, ma era bello stringerlo e arpionarlo, toccare l’uomo e dimenticarsi della sua essenza.
“Devo comprare un bel vestito per stasera. Devo fare sfigurare quella puttanella.”
Perché era sicuro che il bel vestito serviva anche per sedurlo?
Perché sapeva che se l’avesse lasciata andare sola o l’avesse accompagnata, avrebbe scelto l’abito che più gli piaceva, quello con maggiore effetto di stupore e seduzione?
“Mi accompagni, amore mio?” Si strusciò contro su di lui con lente movenze. Improvvisamente aveva una disperata voglia di stare con Vegeta. Un bisogno più che una voglia.
Profumava di uomo e si comportava da uomo. Quell’uomo indomito che ha in mano il suo destino, la società e tutto quando volesse tenere in mano.
Era bella la bugia dell’amore. La verità era che Vegeta e il suo modo gli erano entrati nel cervello, più di quanto con il suo membro fosse entrato nella sua fica.
Ed era una malattia piacevole il male. O la malattia era il piacere?


Arrivava il momento, quel detestabile istante in cui si svelano le convinzioni errate e ingannevoli del proprio cervello.
Quel momento in cui le immagini false e distorte dei ricordi venivano cancellate dalla spugna del presente ed era un attimo, un semplice attimo, che montava le interiora e rivoltava le budella: l’attimo in cui i suoi occhi si posarono su una Chichi bellissima, una Chichi molto più bella della ragazzina acqua e sapone di sedici anni a cui era abituata o della giovane donna ventenne con poco charme e poca esperienza.
Quell’attimo in cui aveva urtato con la realtà che il suo tubino rosso e aderente non avrebbe battuto quella canotta nera che non copriva né lo scollo del seno, né la schiena della mora.
Ma era un attimo davvero, poi subito la malalingua, che era, tornava alla riscossa, sbaragliava lo stupore e si appropriava di tutta quella diplomatica ipocrisia che occorreva nei rapporti sociali.
Vegeta parlava professionalmente con il proprietario del locale. Un cliente che aveva cuore di tenerselo buono, ma non troppo stretto.
“Sei bellissima. Mentre io sono stata una stupida ad essermi comportata come una pazza questo pomeriggio.” Un bacio in guancia era molto confidenziale, troppo, preferiva una stretta di mano, che avrebbe disinfettato a casa, per porgerle delle false scuse di circostanza, con l’augurio che potessero cominciare nuovamente, senza rancori, senza interesse.
Era tesa la mano e anche Chichi che seguitava a rimanere con le braccia conserte. Non si fidava e faceva bene.
Ma doveva guadagnare la sua fiducia, mostrare l’umana donna che era in lei, quella che avrebbe apprezzato, quella che dava la garanzia all’altra, in caso di lite, di avere una possibilità di vittoria, di aver dei punti deboli da colpire.
“Sono mortificata, ma quando ti ho rivista non ho provato belle sensazioni. Ti sei fatta il mio ex ragazzo, quello che mi aveva psicologicamente distrutta, secondo te ti avrai baciata e abbracciata subito? Mi ha tradito la mia migliore amica.” Melodramma. Era quella la realtà. Emozioni esagerate, condivisione con estranei a cui non fregava nulla del proprio trambusto di sentimenti e pensieri, eppure li pretendevano perché erano normali, erano comuni e usuali e il contrario sarebbe stato da temere.
E quale donna avrebbe saputo resistere a quel concentrato di deluso amore e amorosa rabbia? Non poteva essere falsa la gelosia, né l’ira.
“Ovvio. Ero anche preparata alle tue ripicche, ma una minaccia di morte? Non ti sembra esagerata? E poi sbaglio o ti sei rimessa col ragazzo che ti aveva distrutto?”
Non sbagliava. Aveva perfettamente ragione: ma dopo che si era sparpagliata sul pavimento della vita in tanti piccoli pezzi, Vegeta era stata la colla che l’aveva rimessa assieme, con un’altra forma, ma dai cocci era tornata in vita.
“Molto esagerata e fuori luogo. Poi io e Vegeta abbiamo chiarito un po’. Mi ha convinto che è inutile star male per il passato, che bisogna guardare avanti.”
Le prudeva l’ascella e il braccio formicolava. Quanto ancora aveva intenzione di farla penare per un perdono, che avrebbe dovuto supplicare lei, quella stronza con le tette di fuori?
Non poco, perché il suo labbro aveva passato in rassegna tutte le smorfie di indecisione e dubbio che ci fossero.
“Non è stato facile. Mi sentivo sola e poi lo sono stata veramente e Vegeta è il mio ragazzo del liceo, il ragazzo di quando tutto andava perfettamente bene e l’unico problema era lui e le troie che mi sbatteva sotto il naso per farmi ingelosire.” Si fece colare anche una lacrima dall’occhio sinistra.
Nessuna donna aveva il cuore di respingere un’amica, o vecchia amica, quando l’offerta di pace era il sacrificio di uno splendido make-up.
Vegeta forse non era il suo uomo, non sapeva cosa fosse, ma era il Vegeta di quando si era confusa sul significato del bene e del male e uno dei tanti problemi, forse quello più pungente, era lui e le troie che si era sbattuto perché lei, per un periodo non era esistita più.
Non erano cambiate troppe cose.
Chichi cedette. La strinse forte a sé. Capezzolo contro capezzolo, ombelico contro ombelico.
Il mascara colato aveva vinto le resistenze. Ricambiò la stretta: si doveva mentire bene fino all’ultimo.
Ci fu un concerto all’unisono di tirata di naso.
“Mi dispiace. Per tutto.”
Ci fu anche uno spettacolo di abbracci, di pacche sulla spalla, di prese di mano e di lacrime asciugate: uno spettacolo disgustoso nel suo sentimentalismo che Vegeta apprezzò particolarmente, perché riusciva a cogliere lo stesso fastidio che provava quando assisteva a vere scene di perdono o di amici ritrovati.
Che brava attrice era Bulma!
“Basta con queste lagne. Sediamoci. Dobbiamo aspettare quel coglione del tuo fidanzato che posteggia la macchina.”
Sotto lo sguardo felice e piangente di Chichi, Vegeta passò un braccio attorno alla vita di Bulma, la baciò leggermente sulle labbra e assieme si incamminarono al loro posto.
Sembravano proprio innamorati quei due e lei fu tranquilla nel seguirli, attendendo con amorevole pazienza il suo di innamorato.
Arrivò dopo un po’ Goku, quando era iniziato l’acceso dibattito sulla qualità degli smalti rinforzanti, quando Vegeta ruotava la testa prima verso Bulma e poi verso Chichi e poi scrollava le spalle, perché non capiva come uno smalto potesse fortificare le unghia.
Arrivò dopo un po’ Goku, quando la farsa stava diventando piacevole, quasi reale e non c’erano più odori di astio e rancore, solo il fragrante profumo di pane appena sfornato.
“Buonasera a tutti. Vi sono mancato?” Salutò con quella simpatia che i suoi ricordi approvavano e fu felice che non si ricordasse solo di immagini inesistenti.
“Tantissimo, amore mio.”
“Nemmeno un po’, amore suo.”
L’avevano accolto tutti, tutti a modo loro. Tra l’amore cieco della mora e la presa per il culo del moro, Goku si era sentito benvenuto, ma non era una cosa nuova. Sembrava già qualcosa che si ripeteva nel tempo, un’azione con precedenti.
“Che antipatico che sei. Bulma come fai a reggerlo?”
Era estroverso ed espansivo quel tizio e non aveva avuto paura del tempo e dei cambiamenti che quello portava, quei cambiamenti che investivano e uccidevano.
Lei era terrorizzata dal tempo. Se lo ricordava giovane e aitante, un ragazzo carino che prometteva di diventare un bell’uomo e aveva mantenuto la promessa.
“Pazienza e abitudine.”
“In effetti, non esistono altri motivi.” Goku rise di gusto e lei gustò quelle risate, ma gustò ancora di più guastarle.
“Dovresti provare a chiedere a un’altra. Per esempio, Chichi, tu come facevi a reggerlo?”
Ci aveva provato. Si stava comportando bene, Vegeta gliene doveva dare atto, ma era lui stesso che diceva che le bugie dovevano sembrare vere. E cosa c’era di più vero di una donna gelosa, costretta ad accettare la rivale, ma che non abbandona mai quella punta di veleno?
Il cameriere riempì loro i bicchieri con ottimo vino bianco e lasciò la bottiglia aperta nel secchiello pieno di ghiaccio, accanto al loro tavolo.
Era lussuoso quel ristorante. Un posto per ricconi e grandi imprenditori che sicuramente adoravano i pettegolezzi. Vegeta non badava proprio a spese per l’apparenze.
Credeva che con quella domanda avrebbe acceso il silenzio di tutti, anche l’irascibilità di Goku, e invece accese solo le occhiate rassegnate di Chichi e Vegeta.
“Propongo un brindisi a noi. Quattro amici, due felici coppiette, che dopo tanto tempo che si conoscono, cenano per la prima volta assieme.” Goku alzò il calice e invitò gli altri a quel gesto, ma solo la sua fidanzata lo seguì.
Vegeta non era tipo da brindisi e lei non concordava sulla definizione che aveva dato di loro.
Coppiette felici. Ma Goku sarebbe stato sempre felice se avesse saputo che la sua ragazza, quella che frequentava dal secondo anno di liceo, aveva avuto una storia con quello che, con molta difficoltà, aveva intuito essere un suo buono amico?
Bulma alzò il flute e lo appoggiò a quello del ragazzo. “Io propongo un brindisi al vero amore. Perché ci vuole amore per perdonare il tradimento della proprio donna con un amico. Ma tu hai perdonato Chichi per essere stata con Vegeta. Ti ammiro.”
“Smettila Bulma, non funzionerà. Se cerchi di farlo incazzare, dicendogli che io e Chichi abbiamo scopato, non ci riuscirai.”
C’era qualcosa che non andava in tutta quella sincerità di Vegeta: cozzava con le regole del manuale del sereno vivere.
“Ogni uomo si incazzerebbe per un tradimento, lui non è diverso.” Era ovvio, naturale, normale.
La ragione era dalla sua parte.
“Rimarrei male solo se Chichi non mi amasse più.”
“Eravate al secondo anno di college, erano le vacanze di Natale, lei torna e la vedo baciarsi con Vegeta e voi stavate assieme in quel periodo, lo ricordo bene, me lo diceva sempre. In quel periodo ti amava?” Era logico e coerente.
La ragione ancora non l’aveva abbandonata, ma Goku la faceva apparire così inutile con quel suo sorriso allegro.
“Mi amava e sapevo che si baciava con Vegeta.”
“Che vuol dire?”
Si grattò la nuca, non era imbarazzato, stava cercando le parole adatte e gli altri commensali non erano infastiditi dalla piega che il discorso stava prendendo.
La verità sarebbe stata una liberazione, Bulma avrebbe archiviato quella storia con una pietra sopra, proprio come avevano fatto loro.
“Bè, ecco vedi, in quel periodo io e Chichi e Vegeta stavamo assieme. Avevamo una stabile relazione a tre e quindi era normale che Chichi si baciasse con Vegeta o che lo baciassi io.”
Non aveva capito. O forse aveva capito, ma aveva capito che era meglio per lei che non avesse capito. Perché se avesse capito, avrebbe capito che le era mancato un battito e la gelosia, che quel racconto doveva sedare, stava aumentando, stava crescendo in maniera esponenziale.
Relazione a tre? Goku, Vegeta e Chichi?
“Eh? Credo di non aver capito bene…”
Aveva creduto pure che quella sera sarebbe stata la più bella, invece gli sguardi di tutti erano per le tette di Chichi.
“… tu non amavi Chichi?”
Sì amore. Quel sentimento unico, esclusivo, quello che si prova per una sola persona.
“Sì, non ho mai smesso di farlo.”
Qualcosa non quadrava. Goku aveva affermato di provare amore solo per la sua fidanzata, eppure aveva avuto insieme a questa una relazione con un altro uomo.
Allora era un loro gioco, non era amore. Ma non riusciva a capire come Vegeta potesse essersi sottomesso al giogo di questo gioco con persone che, un tempo, si ricordava, aveva detestato.
Lui e Chichi si detestavano. Non c’era giorno in cui non si lanciassero battutine acide, sarcastiche, giorno in cui non le ricordassero quanto l’altro fosse insopportabile e fastidioso, un elemento inutile nel mondo e nella società.
Oh cazzo! Forse il tempo aveva scolorito le immagini o forse Bulma era completamente impazzita, ma poteva giurare che, nel film dei suoi ricordi, gli occhi e i capelli neri di Chichi stavano rimpiazzando i suoi e, a distanza di tempo, non riusciva a trovare differenza tra il rapporto tra lei e Vegeta e quello della mora con lo stesso ragazzo, eccetto per le effusioni o per le carezze lascive sul culo.
“Come cazzo è stato possibile?” Già com’era possibile quella stramaledetta analogia delle differenze?
“Come, dici? Non mi ricordo molto bene. Eravamo andati a uno dei soliti festini universitari, che si organizzano sempre, quelli con fiumi di alcol e qualche sostanza non proprio legale, quelli con la musica a palla e davvero poca luce. Ci eravamo andati, ma ci stavamo annoiando a morte e abbiamo iniziato a bere, prima una birra, poi della vodka, poi del gin, sai come vanno queste cose. Penso avessimo pure fumato, per com’eravamo ridotti, comunque non so come, non so perché, la mattina dopo ci ritrovammo tutti e tre nudi sul mio letto, con le lenzuola sgualcite e sporche di tu sai cosa. E la cosa non ci fece schifo, come molta gente ipotizza, anzi c’è piaciuto e abbiamo deciso di continuare quel rapporto che ci soddisfaceva e non infastidiva.”
Ubriachi fradici, proprio quando non capivano un cazzo, avevano scopato allegramente e il mattino seguente si erano fatti fieri del loro operato, che chiunque altro avrebbe criticato.
Faceva abbastanza schifo fare entrare una persona nella propria intimità di coppia, faceva schifo includere un amico nel proprio amore.
Baci, abbracci carezze, seghe, pompini. Non riusciva a guardare né Vegeta né Goku né Chichi: si era abbassata a fare da puttana a due porci?
Chichi odiava Vegeta. Gli doveva per forza fare schifo sentirselo dentro, mentre il proprio ragazzo guarda eccitato.
“Perché non vi faceva schifo?” Bulma stava vomitando. Aveva scopato con più di una persona in una volta, ma non aveva mai avuto coinvolgimenti sentimentali o non avrebbe mai potuto, mai.
Il sesso non comprendeva l’amore, ma l’amore comprendeva il sesso.
“Perché ci amiamo.” Goku stava rosicchiando un grissino. Non era turbato, stava facendo quello che tutti avrebbero fatto al ristorante, mentre si aspettava la prima portata.
Aveva parlato Chichi al suo posto. E aveva fatto molto male.
Usare quel maledetto tempo al presente. Come se mai si fossero veramente amati e come se quel sentimento ancora perdurasse.
“Che cazzo dici, sciacquetta? Puoi amare solo una persona o non è amore.” Ne era convinta.
Si poteva scopare con più persone, si poteva scopare con un’intera squadra di calcetto, ma si poteva amare una e una sola persona.
“Conosco Vegeta da un sacco di tempo. Ci frequentiamo da un sacco di tempo. Ormai provo per lui lo stesso affetto che si prova per un fratello o uno di famiglia. Lo amo come amo i miei genitori.”
“Ma non scopi con i tuoi genitori, né con tuo fratello!” Che discorsi stavano facendo. Mettevano assieme amore e affetto, amicizia e passione.
Non erano normali.
“Io con Freezer mi bacio in bocca, con la lingua. Non c’è niente di così scandaloso.”
C’erano tante cose di quella serata che avrebbe voluto dimenticare ed era sicura che con un po’ d’alcol alla lunga ci sarebbe riuscita, ma quella confessione così candida non se la sarebbe mai scordata.
Lo stomaco si stava rimescolando. Rigurgitare era prossimo: lo sentiva in gola.
Voleva sentire il vomito renderle brutta la bocca, ma non voleva sentire più una parola di quel discorso del cazzo.
Confusione, solo quella avevano in testa: amore, amicizia, affetto: sapeva che erano diversi.
“Ho bisogno di una boccata d’aria. Mangiate senza di me. Ci vediamo a casa, vengo in taxi.”
Baciò Vegeta sulla guancia. Credeva di non poter toccare la stessa bocca che usurpava Freezer. Gli avrebbe sboccato nel palato era certa.
Una donna omicida era strana, una donna smarrita, confusa e schifata molto normale: anche quella sera aveva mantenuto le apparenze.
Si mise il cappotto, prese la pochette e uscì senza più dire niente. Voleva solo andarsene lontano da loro e dal loro sbagliato amore. Folle amore.

Era quasi Maggio, eppure l’aria era ancora fresca e di sera quasi pungente. Si pentì di non essersi messa i pantaloni o i collant, si pentì anche della cortezza di quel vestito.
Era un locale che si trovava vicino al mare, proprio sul pontile e, se ci si affacciava dalla ringhiera in legno, si vedeva il riflesso della luna sull’acqua e le increspature dovute al nuotare dei pesci.
Si appoggiò stanca e si accese una sigaretta. Non aveva voglia di pensare, non aveva voglia di parlare con nessuno o quasi nessuno.
Rigirava il telefono tra le mani. Voleva smettere di preoccuparsi per una maledetta serata, ma sembrava impossibile; eppure lei conosceva chi problemi non se ne faceva mai o, sarebbe impazzito, tanti ne aveva e ne creava.
Freezer era l’unica persona capace di non far pensare: ci si concentrava sull’odio viscerale che incentivava negli altri, in quei suoi modi del cazzo e non si pensava.
Le mancavano le lotte clandestine in certi momenti, ma Freezer non era una lotta: era una guerra.
Compose il suo numero, si portò il cellulare all’orecchio e ascoltò tutti quei fastidiosi “tu-tu”, prima di spazientirsi per la segreteria telefonica.
Riprovò. Non se ne parlava nemmeno di non fare niente. Niente, di nuovo.
Richiamò e trovò occupato per la terza volta. E poi tentò una quarta, ma sembrava non voler rispondere.
Alla quinta però si palesava quella voce cattiva e, pareva, arrabbiata: “Se non ti rispondo per cinque volte ci sarà un motivo, no? Che cazzo vuoi?”
“Mi chiedevo se avessi da fare. Perché se sei sfaticato come me, avevo voglia di stare con te.”
Aveva addirittura finito di raschiare il fondo del barile.
“Eh?” si immaginò quelle labbra inarcarsi nella non comprensione, poi se le immaginò sopra quelle di Vegeta e rabbrividì. Non voleva stare da sola, quell’immagine l’avrebbe perseguitata.
“Non ti darò fastidio, voglio solo passare del tempo con te. Oggi non ti ho salutato bene. Ti offro da bere, se vuoi.”
Aveva la voce, la faccia, il corpo di Bulma Briefs la disperazione: ora lo sapeva.
“Non ti dirò mai dove abito, se ti interessava questo.”
“Allora ci vediamo tra mezz’ora a casa di Vegeta, tanto sai dov’è.” Riagganciò senza aspettare risposta.
Doveva arrivare presto all’appartamento o Freezer se ne sarebbe andato spazientito di aspettarla fuori dalla porta.

Stranamente, non ci sperava poi più di tanto, lui venne e puntuale anche!
Gli offrì del caffè e del liquore trovato nell’armadietto del salone: era più fornito di una distilleria di contrabbando e c’erano più bottiglie d’assenzio lì che tra i barboni che lo bevevano per non assiderarsi.
Ma Freezer era troppo sofisticato per lo svago mentale dei poveri. Anche quella volta fu costretta ad aprire la bottiglia di un vecchio e, sembrava, costoso vino; e quella volta Vegeta non le poteva dire niente: l’aveva fatto per Freezer.
Stappò il tappo, aprì la lavastoviglie e prese due bicchieri a caso, che dovette riposare subito, perché Freezer non beveva in quelle cianfrusaglie da plebe, le aveva precisato, se avesse aperto l’anta di destra, chiusa a chiave, avrebbe trovato dei calici adeguati a lui.
E l’aveva fatto e vi aveva trovato dentro bicchieri di cristallo, in vetro lavorato e tante altri inutili suppellettili che costavano più del suo vestito.
“Io il vino lo bevo nel bicchiere di plastica.” E si era sentita sulla schiena uno sguardo di condanna, di accusa, come se Freezer fosse l’inquisizione e lei l’eretica da bruciare al rogo.
“Mi raccomando poi non metterli in lavastoviglie, devi lavarli a mano con acqua fredda e bicarbonato.” Anche le istruzioni per l’uso avevano quei calici maledetti!
Ne riempì due, gliene porse uno e il suo lo tracannò in un sol sorso. Non era così buono come il prezzo voleva fare credere, meglio il suo povero assenzio. Non gli aveva manco bruciato la gola, né offuscato la mente.
“Questo vino è perfetto. Ha una gradazione media e ha un sapore né troppo blando, né troppo forte. È perfetto.” Lui lo faceva ondeggiare nella sua prigione di cristallo e poi bagnava dolcemente la lingua.
“O solo mediocre?”
“No tu sei mediocre, con i tuoi eccessi, con i tuoi gusti rozzi, con le tue particolarità; non questo vino che si adatterebbe a tutto.”
Perché anche quando si parlava di vino, si finiva con l’insultare lei? Ormai si era seccata anche a controbattere, tutti quei non complimenti se li faceva scivolare addosso con la doccia della sera.
Si sedette sul bancone da cucina, mentre lui era in seno alla sedia, come si fosse seduto sul suo trono, aveva sempre quell’aria regale e sbagliata in un paese democratico.
Freezer assaggiò di nuovo il vino e un po’ colorò le sue labbra di scarlatto. Non era sangue era vino, ma anche Vegeta aveva le labbra rosse, quando la mordeva e Freezer e Vegeta si baciavano e chissà se mai si erano sporcati del loro sangue.
Ma non poteva essere vero.
“Vegeta ha detto che vi baciate in bocca. Stava mentendo vero?”
“No.”
Quel giorno tutti si erano coalizzati per farla diventare pazza. Ancora insisteva a non voler capire, a negare quella ragione, diversa da quella comune, ma pur sempre logica.
“Perché lo fai?” Doveva capire o sarebbe ammattita. Anche se gli faceva schifo vedere nella sua testa quei due limonare.
“È mio figlio, lo amo. I tuoi genitori che tanto si amavano non si baciavano mai in bocca?”
“Sì, ma loro erano sposati. Erano marito e moglie, non padre e figlio.”
Perché prendere in ballo i suoi genitori? Erano l’esempio d’amore più forte che avesse mai conosciuto, erano addirittura morti assieme, non litigavano mai e si perdonavano tutto, anche se dicevano che non esisteva perdono tra loro, solo accettazione di tutto.
“Ebbene? Il sentimento d’amore che unisce marito o moglie e padre e figlio è lo stesso. Perché ti scandalizzi?”
“Perché non si fa.”
I suoi genitori erano persone giuste, gli avevano insegnato cos’era il bene e cosa il male. A scegliere il bene e non gli avevano mai parlato dell’eventualità della correttezza di quell’amore incestuoso.
“Chi te l’ha detto?”
“Nessuno lo fa.”
Chi lo faceva? A parte Freezer e Vegeta? Erano malati, l’aveva capito senza bisogno di spiegazione.
Eppure Chichi e Goku sembravano normali, si comportavano da persone normali: uscite a cena, esami universitari, litigate per banalità. Tutti facevano queste cose.
“Non per questo è giusto che non si faccia. L’amore è sempre lo stesso, se mai esiste, sono diverse le relazioni sociali che possono derivare da questo sentimento. E la diversificazione del rapporto d’amicizia o d’amore non è naturale, bensì artificiale, costruita dall’uomo. In natura gli animali si accappiano tra madre e figlio.”
E si ricordò di tutti i documentari che si vedeva con suo padre. Si ricordò che quando il leone più giovane, quella alfa, il capo voleva una femmina, sceglieva quella che più l’aggradava e, una volta, in uno di questi documentari, il piccolo, diventato grande, si era accoppiato con la madre. E suo padre, il dottor Briefs non aveva detto niente, nemmeno storto la bocca, schifato.
Erano le dodici di sera. Era stanca di sentire e di stare sveglia. Era stanca di pensare che fosse piacevole parlare con Freezer, quell’uomo che ne sapeva una più del diavolo, quell’uomo che aveva un singolare senso della giustizia, ma che sapeva riconoscere il giusto dallo sbagliato negli altri, ma come era possibile?
Erano le dodici di sera e la porta si aprì nuovamente. Entrò Vegeta che non mostrava particolari emozioni. Né rabbia, né sorpresa, niente, se non stanchezza.
Li aveva raggiunti in cucina, li aveva salutati con un cenno della mano e si era attaccato direttamente alla bottiglia di vino.
“Mi ha chiamato Satan. Dice che martedì nel primo pomeriggio ci sarà l’esecuzione d’Irene.”
Aveva esordito tranquillo, pacato, assonnato.
Finalmente sarebbe morta in diretta di pochi spettatori, ma qualcuno l’avrebbe vista agonizzante, fumante e poi senza vita e lei avrebbe avuto la prova della sua fervida fantasia.
Irene sarebbe morta dopo tre giorni e a lei non dispiaceva più così tanto che morisse per salvare lei.
Si sarebbe fatta compagnia con la segretaria pensò. E la loro unione era un problema a cui avrebbe pensato una volta giunta all’inferno.
“Posso venire anche io? La voglio vedere morire.”
Lo abbracciò da dietro e si strinse forte, forte alla sua vita. Che ci provasse Chichi a rifarlo, con lei nei paraggi. Che lo amasse da lontano.
“Sei diventata cattiva, bambolina.”
E  Vegeta l’amava.







Manco da ben 3 mesi! E’ una vita lo so, lo so, ma non sono stata con le mani in mano. U_U
Avevo avvisato che avrei concluso prima l’altra storia e una volta ripresa questa, dopo 3 mesi, mi ero un po’ persa col punto della situazione, ecco perché ci ho messo tanto.
Ho tutto il seguito di Justice in testa, serve solo scriverlo, ma è complicato.
Per chi ha letto circa: questo capitolo in qualche modo ci si allaccia, come ci si è allacciata, in maniera molto contorta tutta la storia: l’amore: esiste una sola risposta a questa domanda?
Le idee sono sempre quelle, sta nella bravura dello scrittore svilupparle in mille e più diverse, fino ad arrivare alla completezza del ragionamento.
Ringrazio tutti quelli che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono la storia! <3
Grazie mille, spero che non vi abbia deluso il capitolo e che sia valsa la pena dell’attesa. ^^
Gli errori li correggo stasera! ^^
Credo di cambiare la frase in un futuro prossimo…non mi convince più di tanto.

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Capitolo 16
*** 16.16 ***


Esiste un’idea per la mente da poter essere considerata vera anche nell’ipotesi che la mente sia sotto il controllo di un potere che la domini?
René Descartes

Starnutì.
Già, stare sotto la pioggia a pomiciare era poco salutare, ma Vegeta sembrava non accorgersene e continuava imperterrito a strizzarle il culo.
“Ahi! Mi fai male, sei un animale.”
Cercò di levare quella mano dalle sue natiche e, in effetti, ci riuscì, solo che lui non si diede per vinto e le palpò con insistenza un seno.
“Ma sei impazzito? Dentro ci sono i miei genitori.”
Si divincolò da lui e dalla sua bocca, rotolando sull’erba e sul fango: addio vestito bianco, l’avrebbe dovuto buttare e quello sarebbe stato complicato da spiegare ai suoi.
“Vieni andiamo in camera mia ad asciugarci, così io mi cambio.”
Lo fece entrare dalla finestra della cucina, quella che era rimasta aperta per tutto il tempo delle loro tenere effusioni e che aveva fatto bagnare il pavimento.
Salirono quatti, quatti le scale e si chiusero a chiave nella stanza di Bulma: avevano disseminato la casa di acqua e terra.
Prese un cambio dall’armadio e si diresse verso il bagno per indossarlo, solo che una mano le bloccò il polso e la buttò sul letto: perfetto!, avrebbe dovuto cambiare anche le lenzuola.
“Stai attenta,bambolina, mi raccomando: ora ti vesti, ti asciughi e ti sistemi e poi vai sotto, torni alla tua festa, fermi il tuo amichetto idiota e gli dici che non vuoi un coglione come lui. Gli dici che sei mia e nessuno ti deve toccare.”
La baciò rudemente, in un esperto tentativo di sancire il suo possesso. Ringraziò il cielo che non fossero cani e lui non le avesse pisciato addosso e che si fosse semplicemente limitato a morderle le labbra.
E sebbene le piacessero quelle mani che stringevano le sue cosce, ragionava ancora abbastanza bene, da staccarsi da quella pazzia, non del tutto, solo parzialmente.
“Sono tua, non mi farò toccare da nessun altro, ma Yamcha è un mio buon amico: non gli farei mai del male e ora gli spiegherò la situazione: sono sicura che non sarai tu a rovinare il nostro rapporto.”
Annuì convita. Così sarebbe stato: era la cosa giusta da fare.
Si rese presentabile e, abbandonando momentaneamente Vegeta in stanza, tornò al piano di sotto, cercando il suo ormai ex ragazzo con gli occhi.
Quando lo trovò lo prese per la mano e lo condusse in cucina, gli offrì da bere e incominciò a fare un giro di parole contorto e complesso, cercando di spiegare cosa volevano significare per lei l’amore e l’amicizia.
E quando pronunciò il nome di Vegeta, a Yamcha gli tremò la mascella.
Puntò le sue iridi scure in quegli scialbissimi occhi marroni e sospirò, non di pentimento, ma di stanchezza.
“Mi dispiace Yamcha, non volevo farti del male, non volevo per niente, ma sai com’ è?”
Lo guardò con una faccia felice, con un’espressione che chiedeva il perdono, con la certezza che, anche se non l’avesse avuto, lei sarebbe stata felice lo stesso.
Lui ingoiò bile.
“E’ che amo Vegeta.”
E in quell’istante sarebbe voluto essere morto.



La loro vicenda era stata una barzelletta di cui tuttavia era impossibile gioire assieme.
Perché le disgrazie di Bulma facevano divertire solo Irene e quelle di Irene solo Bulma; nemmeno Vegeta pareva essere partecipe poi più di tanto, con quella giacca perfettamente abbottonata, l’espressione seria e le strette di mano professionali.
Era uno spettacolo per pochi eletti, osava dire lei, perché non era da tutti assistere a una morte con l’animo sereno, quasi rincuorato.
Moriva un criminale, ma allo stesso tempo anche una persona: e chi poteva mai essere così impassibile e indifferente alla morte di un proprio simile? Gli avvocati, i medici, i carcerieri i giudici e i ministri della religione.
Altro che mostri e vampiri!, i veri romanzi dell’orrore erano da scrivere su certe figure tanto presenti nella vita comune da indurre paura solo per il pensiero che la loro essenza si rinforzava alla luce del giorno e la loro esistenza era analoga a quella del più comune degli uomini.
Irene era nella sua cella, legata alla parete con un catena, stretta al suo piede sinistro.
Era così sciupata, così con i capelli rossi, come le aveva detto Vegeta, che non c’entrava proprio niente con la sua fantasia bionda che l’aveva perseguitata nelle cogitazioni.
Era così spaventata e tremante da scuotere pure quello strato impermeabile di cattiveria che a Bulma sembrava avere indossato.
Così piccola e indifesa davanti a tutti quegli uomini che la circondavano e la tenevano ferma con fatica, che Bulma avrebbe tanto voluto avere la sua amata pistola per sparare e poterla liberare. E poi sarebbero fuggite assieme verso la libertà della colpevolezza. Una vita di esilio, di squallidi motel, di pasti stentati, di camuffamenti d’aspetto.
“Non lasciarmi morire, ti prego.” Riusciva ad urlare anche se due uomini nerboruti stavano cercando di occluderle la bocca con una lembo di stoffa.
“Vegeta ti scongiuro, fa qualcosa. Non ho fatto niente, salvami.” Gridava come se si volesse sbarazzare anzitempo di tutto l’ossigeno che aveva nei polmoni, come se quel forte rumore potesse far crollare le pareti e stordire tutti quanti, come se fosse la sua unica difesa contro quella forza virile contro la quale non poteva fare niente fisicamente.
E come piangeva! La morte faceva paura, anche a chi ci giocava, ci usciva e se ne serviva.
Non era più un viso il suo, era una maschera straziata dalla paura, bagnata di acqua e sale e contratta in smorfie di supplica.
Aveva fatica a respirare, perché si strozzava col pianto, ma quando doveva sciorinare la sua disperazione non c’erano attenuanti che bloccassero quelle preghiere di salvezza.
“Fermali, ti supplico. Falli fermare, Vegeta, ti prego.”
Peccato che il dio a cui si fosse votata non fosse così magnanimo come la circostanza la obbligava a credere.
Peccato che era tutt’altro che buono e che alle sue implorazioni aveva risposto con una scrollata di spalle e bugie: maledetto, lui poteva tutto.
“Sai che non posso fare niente, mi dispiace Irene.” E chissà quel dio, quanto si era costretto ad abbandonare la sua natura divina e far finta di provare sentimenti umani come il dispiacere.
“Giudice, procedo?”
Il medico legale era un uomo come tutti gli altri: dei capelli grigi e brizzolati degli occhiali a doppio fondo di bottiglia, con un doppio mento che lo faceva somigliare a un pellicano, con una siringa piena di un liquido color ebano che lo rendeva terribile e al contempo potente.
L’iniezione letale era un metodo veloce per uccidere, poco doloroso e poco problematico.
Satan era affianco a Vegeta, con le braccia incrociate dietro la schiena e il respiro lento e nervoso, perché aveva paura di quel giovane avvocato, ne aveva tanta.
Vegeta annuì impercettibilmente con la testa e il giudice pavido, dopo essere stato comandato, comandò l’inizio dell’esecuzione.
Le guardie la immobilizzarono sulla sua brandina: le tennero i polsi, le caviglie e il collo, eppure Irene non stava ferma, continuava a tremare e far muovere tutto il materasso sotto di sé.
“In accordo con la legge di questo stato e quelle umane che muovono a pietà ogni uomo, io, giudice Marc Satan, a causa dei reati da te commessi, ti condanno a morte per iniezione letale. Un composto di tiopental sodico, pancuronio e cloruro di potassio che paralizzeranno il tuo corpo e arresteranno le tue funzioni cardiache e respiratorie. Non soffrirai e la tua permanenza in vita sarà di non appena quindici minuti.”
La sentenza era già nota, ma Satan la ridisse, perché a modo suo voleva placare i pianti e le urla di Irene,ma potevano mai il profeta della morte e parole di accusa risollevare il morale a un condannato?
Bulma trovò quel gesto fuori luogo e triste, più di quanto lo era quell’esecuzione in una splendida giornata di inizio primavera.
Quante cose si sarebbe persa Irene! Tutte quelle cose che lei aveva ritrovato grazie a Vegeta.
Deglutì sonoramente. Al posto d’Irene ci sarebbe dovuta essere lei e, quando l’ago trovò la vena in quel braccio emaciato, l’azzurra si impose di pensare due, o anche tre volte, prima di disobbedire a Freezer o a Vegeta.
Fu il quarto d’ora più brutto della sua vita. Il quarto d’ora in cui vedette il film della sua vita recitato da un povera attrice.
I novecento secondi più dolorosi e intensi che avesse mai provato dalla morte dei suoi genitori, eppure passarono in fretta pure quelli, perché il tempo non aveva paura della morte e se ne fotteva degli uomini.
Quando il medico legale dichiarò il decesso, Bulma si sentì viva e morta, spaventata e rincuorata; quando il paramedico coprì quel corpo con un lenzuolo bianco, quando il giudice congiunse le mani a mo’ di preghiera, Vegeta le soffiò all’orecchio di essere in ritardo sul lavoro e di non avere né tempo, né voglia per quella gratuita rottura di coglioni, ma si congedò con grande garbo, tatto e rammarico per quella perdita così importante per lui.
Irene era pur sempre stata la sua donna e, in assenza di parenti, era Vegeta ad essersi preso le condoglianze e tutti i finti conforti per quella grave mancanza affettiva.
Bulma si sentì soffocare, d’un tratto, si sentì sotto una pressione troppo forte che non le permetteva di stare in posizione eretta.
Irene era stata la storia più longeva di Vegeta e lui scacciava il suo ricordo e il suo cadavere, come fossero una mosca noiosa.
Non voleva perdere, non con Freezer, non le voleva regalare né la sua vita né la sua dignità, eppure già si sentiva con un collare di chiodi, prostata ai suoi piedi ed era sempre più convinta di non voler morire nemmeno metaforicamente, non dopo aver visto Irene.
Tirò su col naso e cercò di asciugarsi una lacrime fuggitiva quanto prima, prima che tutti si accorgessero che stesse piangendo e che non volesse morire.
Si tappò la bocca con una mano e soffocò un singhiozzo che nondimeno non le morì in gola.
E tutti quegli sguardi, puntati su di lei, le fecero accapponare la pelle: bastava un semplice isterismo femminile per distrarre dalla morte? Il giorno che il suo corpo sarebbe stato freddo e senza vita nessuno avrebbe pensato a lei, tutti si sarebbero concentrati su chi rideva della sua morte.
Cercò di fuggire da quegli occhi indiscreti e curiosi, quasi divertiti, se li immaginava sorridenti di quella  debolezza che nessuno palesava oltre lei, ma una mano calda la fermò per un polso e la buttò su un possente e vigoroso corpo. Un massiccio corpo.
“Va tutto bene, dolcezza. Non è successo niente.”
Era bella la voce di Satan, quando non era interrotta da tremori di paura.
E quelle parole e quei peli ispidi della barba del giudice la tranquillizzarono.

Non che volesse ardentemente andare a lavoro ed essere trattata da inetta, non che desiderasse passare la giornata a fare il caffè e ricevere insulti perché lo faceva pure male, non che bramasse la compagnia di Freezer in generale, eppure andare a lavoro quel giorno sembrava una prospettiva piacevole, una distrazione, sebbene Vegeta le aveva concesso di poter restare a casa: d’altronde era stata così brava e vera in prigione, mettersi a piangere davanti a una morta era un’azione così umana che nessuno avrebbe potuto sospettare che lei nel profondo gioisse della dipartita di una delle sue rivali amorose, era stata così credibile da meritarsi un premio e che il vero motivo del pianto fosse la sua paura di diventare schiava era scomparso nel nulla.
Raggiunse l’ufficio, bussò alla porta, aspettò di avere il permesso d’entrata e camminò velocemente fino alla scrivania di Freezer, appoggiando sopra il caffè nero e amaro che ogni mattina, verso le undici voleva bere.
Una recita, doveva essere una recita: doveva apparir reale, anche se falso.
Obbedire senza avere ordini era la prova di una mente plagiata fino all’ultimo neurone: un automa che viveva solo per quei comandi soliti e abituali non era in grado di pensare.
“Non sei mai stata così efficiente. Ti senti male?” Stava scrivendo al computer e non la degnava di uno sguardo. Per una volta che aveva anche fatto l’inchino col capo, come pretendeva lui!
Doveva cogliere ogni attimo, probabile che il giorno successivo lei avrebbe potuto esorcizzare la paura e avrebbe mandato a fanculo i gesti di rispetto e sottomissione.
“Sono stata ad esecuzione stamattina, quella che doveva essere la mia. Ti vorrei esprimere la mia riconoscenza per essere ancora viva.”
Non mentiva una schiava, perché nella sua mente bacata e malata il padrone era onnipotente ed avrebbe anche potuto scoprire la verità.
Anche le donne libere erano sincere, perché non avevano paura delle ripercussioni.
A quale causa Freezer avrebbe ricondotto quella confessione? Schiavitù o libertà?
Schiavitù, perché la sua arroganza non permetteva alla sua persona di avere altro genere di rapporto con gli altri.
“Quindi hai capito in che modo rapido si possano uccidere le persone? Impara da tutti questi grandi uomini di giustizia, la prossima volta che devi ammazzare qualcuno.”
Che verità angosciante e stringente. Se faceva una rassegna dei grandi processi e si mettevano a confronto con gli omicidi, riconosceva alle autorità dello stato una maggiore praticità con la morte e un’assoluta indifferenza per quello stesso crimine che a modo loro tentano di pulire; e non potevano essere scusati nemmeno in seno a qualche seria malattia mentale, in seno a nessun raptus di follia, che spesso fungevano da scusanti per i serial killer.
La giustizia era perfettamente lucida e razionale quando uccideva un criminale e la loro ragione non vituperava come crudele l’omicidio,anzi lo esaltava.
C’era da domandarsi se era giustificabile un pazzo che uccideva senza cognizione di causa o con una cognizione falsa e ingannevole o una sana e intellegibile istituzione a cui tutti si votavano.
“Sì, certo ho capito.”
Stava capendo che molti dei suoi vecchi pensieri potessero essere sbagliati. Stava capendo che pure il torto aveva le sue ragioni.
Stava capendo che in fin dei conti aveva capito molto poco della vita.
Stava capendo che la sua palese ignoranza, che l’istruzione accademica e i luoghi comuni della società avevano fomentato, la stava curando la malattia di Freezer, con quella cultura pratica e vera, non quella dei libri e dei docenti, quella della vita e dell’esperienza, quella dei fatti.
E sarebbe stato bellissimo vivere in un manuale scolastico, rimpiangere le epoche passate e le grandi prosperità della storia, sarebbe stato bello vivere in un’utopia perfetta, eppure non era possibile né vero e diventava insensato ostinarsi a vivere una vita che non c’era.
Freezer stava diventando il suo maestro, la stava facendo diventare una persona diversa, non migliore, eppure adulta.
“Quindi immagino che ora, considerando che anche Irene è morta, Vegeta sia tuo, che ti ami, no?”
Si distrasse dallo schermo del pc e prese in mano la tazza di caffè non più bollente. Era un argomento amaro quello, forse più della sua bevanda senza zucchero.
“E’ inutile: sei impedita a fare un caffè. Ma c’è solo una cosa che tu sappia fare bene?”
“Fattelo da solo la prossima volta.” No, non c’era. E se c’era mai stata una speranza che diventasse brava in qualcosa, era stata l’opportunità negata di entrare all’accademia della tecnologia e della meccanica: con circuiti, cacciaviti era davvero brava.
“A Vegeta piace il mio caffè, lo ama, direi.”
Gettò la tazza nell’immondizia, non aveva voglia di finire quel veleno scuro. Arricciò le labbra, ora aveva sul palato quel retrogusto terribile che nemmeno le mentine potevano sciacquare.
La prossima volta l’avrebbe mandata al bar, almeno l’aria si sarebbe depurata da Bulma per qualche minuto.
“Vegeta ha sempre avuto gusti di merda. Mi ricordo di quando era ragazzo e stava con una certa scassa palle dai capelli azzurri, ti ricordi come si chiamava?”
Vegeta e Freezer si somigliavano. Avevano le stesse espressioni, gli stessi difetti e aveva confermato che le circostanze erano più forti della genetica a volte, dato che anche lei si ritrovava a ridere, come loro, dei loro ludici passatempi.
“Bulma Briefs o futura signora Ice.” Suonava così bene in fondo.
Le sembrava così bello un abito bianco e un ricevimento felice e con poca gente. Sembrava così bella una vita con un stronzo come Vegeta.
“Futura signora Ice, fossi in lei cercherei di arrivare viva almeno a fine settimana.” Pigiò velocemente dei tasti sulla tastiera e si attivò subito la stampante con quel suo infernale e stonato rumore.
“Mi raccomando, stavolta non fare casini o ti ammazzo seriamente. Uccidi velocemente e discretamente. Attenzione, perché stavolta non c’è il tuo immaginario consorte a salvarti il culo.”
Si diresse verso l’aggeggio e prese tra le mani il foglio che odorava di inchiostro fresco.
C’era a colori una foto di un uomo giovane. Aveva un’espressione seriosa e due cicatrici in volto ed era in divisa.
Tremò impercettibilmente.
“E’ un pesce piccolo, niente che farà scalpore o che sarà riconducibile al dottore Willow, però questo ragazzo mi sta infastidendo, sta intuendo cose che non dovrebbe capire.”
Non c’era preoccupazione nella sua voce, solo abitudine, chissà quanti altri poliziotti erano periti perché troppo svegli e attenti a quei piccoli dettagli che sarebbero dovuti passare inosservati, eppure ogni persona era unica e sapeva che, se uccideva Yamcha Pearson quella volta, lo uccideva per sempre.
“E come lo dovrei uccidere?” E che giustificazione personale poteva trovare per scusarsi dell’omicidio di Yamcha? Non le aveva fatto niente, il senso di colpa l’avrebbe divorata.
“C’è un’altra persona che dovresti far fuori: il fratello del tuo amichetto Abo Aka. Sta lavorando male, mi crea casini ed è giunto il momento che diventi concime.”
“Non capisco l’attinenza.”
“Come sei tarda! Yamcha è un poliziotto, Kado uno spacciatore, coinvolgili entrambi in una cazzo di sparatoria e fa che sembri che si siano uccisi vicendevolmente.”
“Ma non ce la farò mai. Non posso costringere due uomini ad ammazzarsi.”
Era facile premere un grilletto, facile iniettare del veleno, facile tranciare la gola con una lama, ma convincere un uomo, abbindolarlo, usarlo come un burattino era difficile, almeno per lei che non l’aveva mai fatto.
“Vedi che Irene sta cercando compagnia all’altro mondo. O muoiono solo loro, o muori anche tu.”
Le ringhiò divertito, perché per lui era un gioco e neanche impegnativo: come una partita a scacchi e lui doveva solo muovere le pedine che vincevano la partita.
“Non puoi farlo. Non puoi uccidermi.” Aveva la schiena ritta e lo fronteggiava negli occhi.
Sapeva di avere in mano un minimo di situazione, di avere quell’elemento di vantaggio, almeno uno, quello che sembrava però poter sconfiggere anche Freezer.
“Perché Vegeta mi fermerebbe?” Domandò fintamente curioso, perché già sapeva la risposta a quella domanda: era l’illusione della convinzione.
“Lascia che ti dica una cosa bambolina: se tu dovessi fallire, non sarò io a farti fuori, sarà Vegeta stesso, perché il tuo caro poliziotto ha degli indizi che riconducono a lui, non certo a me.”
Sgranò gli occhi e li accese di convinzione: aveva trovato il motivo personale per uccidere Yamcha: Vegeta.
“Ti do tre giorni. Venerdì sera li uccidi, sabato mattina voglio svegliarmi, leggendo i loro necrologi sul giornale.”

Tre giorni erano pochi per studiare e conoscere due persone e due personalità diverse, per scoprire le loro abitudini fino a prevedere le loro azioni che dipendevano anche dal lavoro e dalle circostanze.
Tre giorni erano pochi per ottenere qualche risultato utile che non la facesse finire col collo spezzato, quei tre giorni erano troppo pochi, quando Vegeta si ingegnava con ogni mezzo possibile per distrarla.
E no, anche se a malincuore, non aveva tempo per una partita alla console, non aveva tempo per mangiare cinese, non aveva tempo per giocare a biliardo o uscire a cazzeggiare senza meta.
Ma non faceva l’avvocato quel maledetto? Non lavorava anche lui?
Gli unici momenti di assoluta concentrazione erano all’ufficio di Freezer, anche se Vegeta trovava divertente anche chiamarla, pretendendo la risposta di una segretaria dolce e gentile, e poi riagganciare, lasciando come ultimo suono una risata solare.
Anche quella mattina il telefono squillò alla solita ora; sfortuna di quello stramaledettissimo avvocato senza lavoro, quel giorno Bulma era indisposta.
“Porco cazzo Vegeta, smettila di rompere sto lavorando.” Sarebbe stato più opportuno chiedere chi fosse e rispondere con un tono affabile, ma lei era tutt’altro che opportuna.
Sarebbe stato opportuno anche sentire una risolino di scherno, invece le arrivò all’orecchio un colpo di tosse e la voce compita di Zarbon.
“Signorina Briefs le sembra modo? Lei dovrebbe svolgere il suo compito con educazione e professionalità, non può rivolgersi a chi chiama come una scaricatrice di porto. Sarà mio volere e dovere riportare la sua inefficienza al suo superiore. E se anziché io, avesse chiamato un cliente, non crede che l’avremmo perso?”
Sbuffò annoiata. Certo che se l’avesse beccata Freezer sarebbero stati guai, ma lui era uscito.
“Signorina Briefs che sono questi toni? Sa cosa facciamo noi agli incompetenti?”
“Gli assumete? O non mi spiego il motivo per il quale tu e Vegeta abbiate un buon lavoro.”
“No, li condanniamo a un’ iniezione letale. Vuoi provare?” Figlio di puttana. Non era divertente, non le sembrava divertente, eppure dall’altro capo dell’apparecchio sentì l’ilarità scoppiare sia con la voce di Zarbon che con quella di Vegeta.
“Che sei spiritoso, eh.”
Non la finivano più di ridere sguaiatamente, pareva non prendessero manco aria per respirare, sentiva tutta via alcuni colpi, tipo pugni sul una superficie dura.
“Siete tristi.” E lo erano davvero!
“Vegeta hai ragione: è troppo bello prenderla per il culo.”
Tre giorni erano pochi e lei non aveva tempo né di sentirsi in colpa per Irene, né farsi prendere in giro. Riagganciò senza salutare e si rimise a lavoro.
“Fanculo! Devo pure salvare quell’idiota.” E l’amore non c’entrava, era più un egoistico spirito di conservazione: se a Vegeta fosse successo qualcosa, o fosse morto, lei schiattava.

Erano stati tre giorni intensi, pieni di fatica, ma alla fine poteva dire di esserci riuscita.
Era riuscita a trovare il modo per far accoppare vicendevolmente Yamcha e Kado.
Si sentiva una genia del male e quanto era fiera di lei.
Yamcha, quella sera, sarebbe stato di ronda in quel quartiere malfamato in cui Kado gestiva i traffici illegali di stupefacenti ed ultimamente si era messo troppo in mostra.
Eppure quell’omone grosso e strafatto era furbo ed era difficile che si buttasse tra le fauci di un poliziotto; sarebbe stato molto più facile si gettasse tra le gambe di una puttana e le meretrici e gli spacciatori non andavano d’accordo con gli sbirri.
Si era vestita da troia, truccata da zoccola e si era messa in una posizione languida sul marciapiede principale di quello squallido sobborgo e pensare che Vegeta aveva deciso di andare alle terme con Zarbon: maledetti bastardi!
Si sistemò il trucco: aveva un ottimo piano che si basava sull’eccitazione maschile: se si aveva il potere sul cazzo, si aveva in pugno un uomo.
Yamcha passeggiava per le strade del quartiere, con la pistola in cinta e un manganello alla mano, con gli occhi vigili e l’aria assonnata: era davvero stancante il turno di notte.
Non c’erano luci tra quei vicoli ma, quando girò l’angolo, la vide in tutto il suo squallore.
La vide dopo più di dieci anni, quasi nuda per la strada, con addosso un perizoma trasparente e dei copri capezzoli a forma di cuore.
La vide e la riconobbe, nonostante il trucco pesante, quel rossetto troppo scuro.
La vide e si ricordò di quando l’aveva lasciato, dopo solo un giorno, per quel bastardo di Vegeta Ice; si ricordò di quando stavano sempre assieme e non si potevano separare; si ricordò di quanto era felice con uno stronzo e si ricordò di tutti i sorrisi finti e smorti che c’erano per lui.
Si ricordò pure le sue disgrazie, ma non se ne sentì dispiaciuto in quel momento, come non gli erano importate, quando erano successe.
Accecato dalla rabbia dell’ego ferito, aveva sempre pensato che Bulma avesse ricevuto dalla sorte quel che meritava per essersi venduta a quel diavolo di Vegeta.
Quel diavolo che sembrava un angelo! Ma prima o poi l’avrebbe sbattuto dentro per occultamento di cadavere. Quello del Dottor Willow.
Accecato dai ricordi non si accorse che lei gli si era avvicinata e aveva messo la mano sopra la patta dei suoi pantaloni e la stava muovendo.
“Ciao bell’uomo.”
Gli soffiò all’orecchio così vicino da poter sentire il suo solito odore, quello che le era piaciuto, ma non l’aveva mai eccitata, quell’odore che aveva denigrato per il fresco profumo, mischiato a tabacco, di Vegeta.
“E’ così brutto lavorare di notte. Se hai qualche verdone, mi faccio dare tutte le bottarelle che mi vuoi dare.” Parlava con voce suadente e spedita, senza esitare.
Non aveva paura di Yamcha e del suo ruolo: se fosse andata male quella messa in scena, sarebbe finita in prigione e, male che andava, avrebbe preso qualche colpo di manganello sul ventre; ma, se si fosse rifiutata categoricamente di quell’azzardo, le sarebbe finita molto peggio.
Non aveva fantasia a sufficienza per immaginare in che cosa consistevano le punizioni di Freezer.
“Sai? Sono brava a fottere. Provare per credere.” Strizzò tra le dita il suo membro e gli baciò il collo.
E, solo quando solleticò quella pelle con le sue labbra, esitò. Si sentiva colpevole, sporca, traditrice.
Doveva essere solo di Vegeta.
Yamcha sospirava e deglutiva per trattenere il piacere. L’aveva duro, ma era pur sempre un poliziotto.
“Ti dichiaro in arresto per atti osceni in luogo…” Ma prima che potesse finire la frase lei era già schizzata via, correva come una lepre.
Era abituata a fuggire, dopo che aveva ucciso Abo aveva corso per quasi due kilometri senza fermarsi.
Quella sera si era messa appositamente gli stivaletti bassi e non i tacchi. Divorò il marciapiede a grandi falcate, stando bene attenta a non farsi prendere dal poliziotto, né a perderlo di vista.
“Se riesci a prendermi ti faccio una sega gratis.” Rise sorniona e accelerò il passo: Yamcha era veloce, ma non altrettanto agile.
Si addentrò in uno stretto cunicolo e svoltò a sinistra, in un vicolo cieco la cui unica attrazione era un casermone abbandonato e fatiscente.
Sembrava disabitato, eppure sapeva che a quell’ora della notte Kado stava controllando il carico di droga da vendere la settimana entrante; un vero spacciatore sapeva che la settimana non cominciava il lunedì, ma il sabato sera con i giovani e le discoteche psichedeliche.
“Aiuto, aiuto c’è un poliziotto che mi sta inseguendo. Cazzo!, ha scoperto che qui c’è un notevole traffico di droga.” Urlò a squarciagola, affinché quel trippone tatuato la potesse sentire.
Era affaticata e sfinita, voleva quanto prima finirla con quella stramaledetta pagliacciata.
“Kado ti prego fai qualcosa ora che è solo. Sta cercando di chiamare rinforzi.”
“Che cosa vuol dire un traffico di droga?” Yamcha era sconvolto.
Cosa significava quella faccenda? Quella puttana lo adescava, poi scappava come un coniglio e poi gridava ai quattro venti quella confessione che era meglio fosse taciuta.
Era ammattita?
Un uomo, completamente vestito di nero, si precipitò fuori dalla porta del capannone con in mano una pistola e lestamente, nonostante in faccia sembrasse un po’ svanito e distratto, sparò due proiettili nell’addome del poliziotto, che cadde a terra senza aver il tempo di fare nulla.
Provocò lo stesso rumore che avrebbe provocato la caduta di un sacco di patate di quasi settanta chili e sollevò parecchia polvere.
Aveva gli occhi rivolti al cielo e con una mano impugnava la pistola, l’altra si carezzava quella ferita sul petto, facendosi diventare le unghia rosse.
Si era distratto. Stava pensando a tutta quell’assurdità e l’avevano colpito appieno.
Moriva come un coglione, senza aver concluso un cazzo nella sua vita e la beffa dopo il danno era che la prova di colpevolezza di Vegeta che aveva trovato sarebbe morta con lui, perché era stato troppo stupido da non dirlo subito al suo superiore.
Si era voluto tenere tutto per sé, aveva voluto fare il poliziotto figo.
Tossì un fiotto di sangue e saliva, mentre le ultime immagini che vedeva erano le tette di Bulma che si alzavano per lo sforzo della corsa.
“Ma sei idiota? Come ti sei potuta far seguire da uno sbirro? Potevano essere guai.”
Kado si era avvicinato alla ragazza e le aveva mollato un ceffone, facendola cadere a terra, vicino a quel corpo morente.
Era furente e spaventato. Eppure mentre aveva sparato l’avrebbe definito calmo e glaciale.
“Hai ragione, scusa tanto.” Aveva parlato con tono afflitto, ma aveva un sorriso diabolico quella donna.
“Sei solo un’inutile puttana.” Le sputò saliva sul volto e si voltò, pronto per tornare dentro a svolgere i suoi compiti.
Bulma aveva preso la mano di Yamcha, la moveva come fosse un burattino e, usandola come un guanto, gli fece impugnare la pistola dalla sua cinta, stando ben attenta a non toccarla con le sue dita.
“Ehi aspetta, Kado.” Sussurrò estasiata e, il moribondo l’avrebbe potuto giurare, indemoniata.
“Che cazzo vuoi, eh?” Sbuffò annoiato.
E mentre quello si girava per darle corda, Bulma aveva spinto il dito di Yamcha sopra il grilletto e aveva fatto partire una pallottola che si era conficcata nel suo cervello.
Dritta sulla fronte e, dopo che le orbite di voltarono indietro, svenne a terra, già senza vita. “Salutami tuo fratello, idiota.”
Mollò la presa della mano e la lasciò abbandonarsi lungo il fianco, la lasciò gettare la pistola accanto al suo padrone.
Si stiracchiò la schiena, come se si fosse appena svegliata, e sbadigliò, come se non avesse mai dormito. Si pulì la guancia dalla saliva di quello schifoso.
Alla fine ce l’aveva fatta e non era stato nemmeno difficile.
Puntò le sue iridi scure in quegli scialbissimi occhi marroni e sospirò, non di pentimento, ma di stanchezza.
“Mi dispiace Yamcha, non volevo farti del male, non volevo per niente, ma sai com’ è?”
Lo guardò con una faccia felice, con un’espressione che chiedeva il perdono, con la certezza che, anche se non l’avesse avuto, lei sarebbe stata felice lo stesso.
Lui ingoiò bile.
“E’ che amo Vegeta.”
E in quell’istante sarebbe voluto già essere morto.


Rispondete pure a questa domanda di cartesio, che è bella, molto bella su! ^^
Mi ero dimenticato l'ebrezza nell'aggiornare veloce e devo dire che è una bella sensazione *-*
Anche voi ve l'eravate dimetnicato, vero?
Ha un senso questo capitolo e sono felice perchè ho ritrovato il punto della situazione che avevo un po' perso ecco...
Bè, ragazzuole, ho notato un calo delle recensioni e non vorrei fosse colpa mia, quindi vi invito, se dovesse esserci qualche problema con la mia storia, se dovessi esservi qualcosa che non va, ditemelo pure e vediamo di sistemare. u_U
Intanto ringrazio chi legge questa storia, chi la segue, chi la ricorda e chi la preferisce: potete non crederci ma esiste questa gente, davvero! 
E un grazie speciale a chi recensisce e continua a farlo! ^^
Alla prossima. <3

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Capitolo 17
*** 17.17 ***


ATTENZIONE: VEGETA STRONZO, MOLTO STRONZO!




La crudeltà non è altro che l'energia dell'uomo non ancora corrotta dalla civiltà; dunque è una virtù e non un vizio. Eliminate le vostre leggi, punizioni, usanze, e la crudeltà non avrà più effetti pericolosi poiché non agirà mai senza poter essere subito respinta per le stesse vie.
DONATIEN ALPHONSE FRANÇOIS

Cosa si aspettava? Vegeta era pur sempre un uomo, un essere cerebralmente inferiore alle donne e non poteva riuscire ad organizzare una serata piacevole e romantica.
Scosse la testa, rassegnata e caritatevole: era un bene che c’era lei: prima o poi quel maledetto panino in uno squallido carrettino si sarebbe trasformato in una dolce cena a lume di candela in un ristorante in riva al mare; nel frattempo, avendo fame, si sarebbe mangiata quell’hot dog e, anche se era buono, non gli avrebbe mai dato il sazio.
“Non è bene portare una signora in certi luoghi, sai?” Si pulì con l’angolo del tovagliolo le labbra fatte di maionese, guardando schifata quella massa informe di ubriaconi che si accalcavano al banco e una pozzanghera di vomito poco distante da lei.
Scorgeva, tra l’immondizia, anche un bagliore affascinante, ma dubitava fosse un brillante: credeva, con ragion di causa si trattasse di un ago dentro una siringa.
“Una signora non parlerebbe mai con la bocca piena.” Sì, poteva giurarci quella maledetta ragazzina: le aveva visto le tonsille e tutto quello che stava masticando.
“Vegeta andiamo. Credo mi stia venendo qualche male: la scabbia, l'aviaria. C’è troppa puzza: odore di topi in decomposizione.”
Stava facendo una telecronaca dettagliata di tutte le violazioni al codice sanitario, presenti in quel locale, gli stava mostrando a parole tutte le conseguenze di aver mangiato un panino preparato con alimenti scaduti o andati a male e gli stava davvero rompendo i coglioni.
“Io credo sarebbe un bene, se ti levassi dalle palle.” Odiava essere disturbato mentre mangiava, odiava quegli stupidi obblighi e, un giorno, ne era certo, avrebbe odiato lei.
“Affogati!” Gli voltò le spalle oltraggiata.
“Buon mesiversario, bambolina.” La canzonò in maniera provocatoria e irriverente: sicuramente aveva urtato la sua sensibilità, ma l’aveva costretto a festeggiare il trentesimo giorno da quando l’aveva ingabbiato, il trentesimo giorno da quando non vedeva una fica e solamente gli dei sapevano quanto gli era diventato duro il cazzo, quando lei aveva morso il wurstel.
“Sei insopportabile, non intendo stare un minuto in più con te.”
Aveva lasciato il panino su quella panchina su cui erano seduti e spolverandosi la gonna bianca, che si era poco previdentemente messa, girò i tacchi indignata e stufa di quel suo comportamento, quell’atteggiamento prezioso, come ogni cosa che facesse fosse un favore.
Con le mani sui fianchi si incamminò verso l’uscita di quella bettola, quando davanti a lei si posiziono il cuoco, brandendo un coltello da macellaio, sporco di salsa, ma le pareva tanto sangue.
Glielo puntò sul volto e avanzò e, assieme a lui, quel suo alito di fogna.
“Dolcezza tu non te ne vai, senza che prima abbia pagato, chiaro?”
Chiarissimo, quella lama sulla sua giugulare era chiara, splendente quasi.
“Non stavo andandomene, stavo solo sgranchendomi le gambe. Ma sa cosa? Torno seduta.”
Si allontanò, molto velocemente, da quell’uomo minaccioso e barbuto e corse verso Vegeta e il suo sorrisino amabilmente sardonico.
“Quasi, quasi ho cambiato idea. Sai com’è? Le mestruazioni.”
Gli si sedette nuovamente accanto, gli sollevo il braccio, quello che teneva la birra, e ci si mise sotto, accucciandosi al suo petto.
Rise isterica. Le sembrava di aver scampato la morte puttana.
“Sai perché ti amo? Perché sono sicura che non mi succederebbe mai niente di male con te.”
E poi sua madre glielo ripeteva sempre: non era bene girare da sole in certi postacci: sarebbe stato meglio avere la compagnia di un maschio.
Lo baciò di sfuggita sul ghigno e si strinse maggiormente a lui: non si sarebbe mai allontanata da quel corpo: lo giurava sull’uomo con la mannaia!



Poteva giurare su tutti i suoi ricordi e su tutte le sue fantasie che non c’era mai stato nella sua vita un risveglio migliore di quel mercoledì mattina, quando Freezer aveva mandato all’e-mail di Vegeta l’articolo sulla cremazione di Irene e quello sulla sparatoria che aveva visto coinvolti e morti Yamcha Pearson e Kado Aka.
Lo giurava, senza incrociare le dita e con la sincerità dipinta in volto, che non era mai stata così contenta di aver letto di corpi senza vita, quando lui l’abbracciò fino a toglierle il respiro e le disse, sorridendo, che era fiero di lei, baciandola dappertutto.
Purtroppo il verbo amore era ancora lontano dalla sua testa in putrefazione, ma non vi ci badò più di tanto, non quando dovette preoccuparsi di dover venire sulle dita di Vegeta.
Avrebbe giurato di essere felice in quel momento, ma avrebbe giurato anche di essere consapevole che l’attimo non era l’eternità e, quando non avrebbe mai voluto doversi staccare da quel corpo perfetto, si costrinse ad alzarsi dal letto, farsi la doccia e vestirsi per andare a lavoro.
Un’altra divertentissima e utilissima giornata con Freezer, le sue paturnie, i suoi leccaculo.
In quei giorni Zarbon era venuto a fare visita in ufficio più spesso del solito e la cosa sospetta era che non giungesse solo per accoppiarsi con Vegeta e interpretare il ruolo di comari acide e pettegole, ma anche per chiudersi dietro quella maledetta porta in mogano e stare ore e ore a ciarlare a voce trattenuta con Freezer e a chiuderla fuori dalla conoscenza.
Erano aumentate anche le uscite in orario anticipato di quest’ultimo, così come era aumentato il suo malumore.
Mentre si stava sistemando il foulard rosa intorno al collo, suonò il cellulare di Vegeta e lei decise di rispondere, essendo lui sotto la doccia.
Avrebbe giurato che Goku non conoscesse il rincoglionimento della mattina, quando si aprivano gli occhi per la prima volta, e avrebbe giurato che non l’avrebbe mai sentito con una voce seria.
“Ehi Bulma! Come va la vita? Tutto apposto?”
“Non c’è male.” Avrebbe giurato che non ce ne sarebbe stato in seguito, non quando quello che aveva scelto come amore l’aveva raggiunta da dietro, cingendole la vita e leccandogli la base del collo. “A te come va?” Poteva giurare di aver ricambiato per cortesia e non perché gli interessassero i cazzi di Goku, non se c’era Vegeta che le annusava i capelli come una fiera.
“Meravigliosamente bene ed ho chiamato per questo.” Che parlasse pure gioiosamente da solo, lei era impegnata ad avvilupparsi con quella splendida e troppo esperta lingua che le aveva leccato il lobo.
“Mi puoi passare la tua dolce metà che gli dovrei parlare?”
Tirò la testa all’indietro, quando lui stava scendendo con le labbra sul suo petto, aprendole i bottoni della camicetta.
“Mi dispiace, non può parlare al telefono: al momento è impegnato.”
E nessuno mai avrebbe potuto giurare che Bulma non mentisse per interesse personale, non quando dall’altro capo della cornetta si sentivano i suoi ansiti appagati.
“Tesoro mio passami l’amore tuo: è una cosa veloce e indolore. Ti giurò che tra un paio di minuti potrete tornare a fare i conigli.” Squittì divertito.
Avrebbe giurato che Goku non fosse così schietto e diretto, né così smaliziato e non avrebbe mai scommesso un soldo bucato sul fatto che Vegeta ridesse della spicciola battuta e preferisse una conversazione al telefono che il suo corpo.
“Scassi sempre, quando non devi. Giuro che cambio il numero di cellulare e non te lo do.”
Avrebbe giurato che quei due non avessero alchimia, né affiatamento, avrebbe giurato su tutto ciò che aveva di più prezioso che, secondo lei, quei due non si sarebbero mai cagati e invece si era dovuta ricrede, quando li sentiva passare le ore al telefono come due teenager con una cotta.
Si era ributtato sulle coperte sfatte del letto e lei si era buttata sopra il suo petto.
Poteva solo sentire la voce di Vegeta e capire qualcosa della discussione solo attraverso le sue risposte monosillabiche o le sue domande irriverenti.
“Hai trovato un lavoro? Impossibile, non ci credo.” Sghignazzò sonoramente.
“Così Chichi non ti lascia prima del tempo.”
Bulma divenne tesa. Meglio per Chichi che non si mettesse in testa di lasciare Goku, non ora che Vegeta era di così buon umore e così amorevole nei suoi confronti, non ora che la stava facendo sostare su di lui, accarezzandole i capelli.
“E che lavoro avresti trovato? Al circo?”
Avrebbe giurato, e gli altri avrebbero giurato che avesse ragione, che i muscoli del volto di Vegeta si potessero muovere in direzione dell’indifferenza, della rabbia, della noiosa soddisfazione, eppure, mentre sentiva il blaterare confuso di Goku, i suoi occhi si erano sgranati, come se avesse potuto provare paura e, se non era terrore, poteva benissimo essere confuso con lo stupore.
“Polizia? Come cazzo hai fatto a trovare lavoro in polizia? E’ impossibile…”
Era scattato come una molla, mettendosi seduto, gettandola in malo modo di lato, con la faccia spiaccicata sul guanciale.
Avrebbe detto che quella notizia avrebbe scosso Vegeta, che l’avrebbe impanicato, che l’avrebbe trovato con le mani nei capelli, tentando di strapparseli nel vano tentativo di tornare alla realtà che voleva, eppure, quando vide le sue spalle rilassarsi di nuovo, non ci capì più niente.
“Ringrazia che sia morto quel disgraziato, se no col cazzo che saresti entrato in polizia.”
Sghignazzò allegramente. Bulma si chiese cosa ne era del protocollo del come comportarsi da persona civile e sociale e far finta di fingere dispiacere.
“Come dici tu. A stasera.” E riagganciò.
Buttò gli occhi al cielo. No, un’altra serata con loro no: chissà cosa si sarebbero usciti quella volta per traumatizzarle l’esistenza.
Avrebbe giurato che avrebbe avuto una giornata intera per pensare a tentativi di suicidio, per evitare Chichi, quando Vegeta le disse che quella sera sarebbe rimasto fuori, che non sarebbe tornato a casa, nemmeno per dormire.
“E’ una serata tra maschietti, tesoro mio. So che morivi dalla voglia di vedere Chichi, però dovrai fartene una ragione.”
Gattonò sul letto e passò le braccia attorno alla sua vita. Avrebbe giurato che prima o poi avrebbe iniziato ad odiare Goku, ma forse prima sarebbe impazzita del tutto e l’avrebbero rinchiusa in un manicomio.
Non era assolutamente normale che augurasse la morte dell’uomo che voleva uscire con Vegeta a bersi qualche birra, eppure glielo stava togliendo e lei aveva paura che non l’avrebbe avuto indietro mai più, che lei non fosse quello che lui cercava.
“Preferisci Goku a me? Non ci credo.”
Annuì vistosamente, sorridendo alla porta. Non ci credeva, non ci voleva credere, ma era la realtà: nemmeno a metterla sul piano di pregi e difetti, presenze e assenze di qualità che a Vegeta potessero interessare, perché sapeva che avrebbe potuto perdere.
Chissà cosa interessava a quel maledetto uomo che l’aveva fatta ammattire: doveva scoprirlo senza farsi notare o addio scommessa.
La verità era che il bastardo aveva tutto, nulla gli mancava e tutto poteva avere, quando più lo desiderava: per lui non esistevano bisogni, solo capricci: ed era meglio che si impegnasse a risultare il più desiderabile dei capricci, finchè non scopriva le sue necessità.
Aveva sbadigliato, sembrando più umano di quanto non volesse essere.
“Vorrà dire che stasera troverò qualcun altro che apprezza le mie attenzioni.” La sua sottile mano scivolò verso la sua intimità, poi come scottata, risalì, fino a portargliela sulla guancia, in una sorta di maliziosa carezza.
“Vai in cerca di uomini bambolina: io non ti fermerò. Mi limiterò a umiliarti, quando tornerai strisciando da me, senza aver concluso niente, perché non vorrai tradirmi, non ce la farai.”
Era la sua prigioniera, legata al suo volere senza catene, solo volontà.
Libera di agire, ma non di pensare, perché aveva chi pensava per lei, chi la costringeva a non pensare e le era così piaciuto quel mondo senza problemi, che l’aveva felicemente scambiato con tutto lo schifo che si era lasciata alla spalle, da quando lavorava per loro.
Vegeta dubitava che Bulma non conoscesse la sua situazione, anzi ne era consapevole, solo che le stava bene, perché non provava male.
Gli graffiò la faccia. “Non esserne troppo sicuro amore mio. Gli uomini farebbero carte false per me, non sarà difficile metterti le corna.”
Se la scrollò di dosso e si vestì davanti a lei, con compostezza e calma.
“Mi dispiace tesoro, questa sera ho altro a cui pensare, non mi interessa giocare con una troia.”
Tutto era stato troppo bello per essere vero: la loro atipica relazione stava andando bene, ma il cielo non vedeva il motivo per far durare quel benessere. “Quanto sei stronzo!”
Qualcuno aveva deciso che loro dovessero stare male assieme, che in compagnia l’uno dell’altra, lei fosse destinata a soffrire. E vaffanculo a quel qualcuno.
“Si può sapere perché cazzo mi tratti così?”
Era in ritardo, aveva mal di pancia e le palle piene di tutto. Se ci ripensava le sembrava di impazzire: aveva ucciso un pover’uomo per salvare il culo a Vegeta, aveva fatto del male solo ed esclusivamente per il suo bene e lui non sapeva fare altro che comportarsi da figlio di puttana.
Che poi le diceva che era una donna facile ogni giorno e lei non si incazzava mai, sarebbe stato male dare a lui il sazio dell’offesa; solitamente lasciava correre, ma, da quando quella maledetta voce di Freezer gli era entrata in testa, da quando aveva fatto quella cazzo di scommessa, Vegeta si comportava sempre peggio con lei, sembrava farlo apposta.
Ogni giorno si sentiva male e l’unico sollievo era tra le braccia di chi sapeva farla sentire una merda.
Non andava bene.
“Goku è entrato in polizia, Chichi si è laureata in giurisprudenza e sta facendo il concorso per diventare magistrato, magari ho altro da fare che assecondare le tue stronzate, tipo cercare di non finire nei cazzi amari.”
Si fece il nodo alla cravatta e si abbottonò la giacca.
Poi le si avvicinò veloce e le divaricò le gambe con violenza, smagliandole le calze.
Si sarebbe potuta fare male, lui le avrebbe fatto male, lo poteva evincere da quegli occhi eccitati.
“E ricordati che se vai in giro di notte, vestita da puttana, attiri attenzioni indesiderate. Ricordati che i poliziotti non girano mai da soli e avrai pure ucciso Yamcha, ma il suo collega ti ha segnalato in centrale e ora il caso passa a Goku.”
Cazzo! Stava andando di male in peggio e lei tremava, perché non aveva nessun’altra voglia di finire in prigione. Di nuovo.
Deglutì, spaventata e non per quello che Vegeta le avrebbe potuto fare.
Si abbassò su di lei e le annusò il collo, fino ad avvicinarsi al suo orecchio.
“Esci stasera, vestiti da puttana, attira tutti gli uomini che puoi. Provaci, fatti offrire da bere, fatti corteggiare. Ma poi gli rifiuterai, penserai a me, e ti faranno schifo e non vedrai l’ora di tornare da me che ti tratto tanto male.”
Le mollò un ceffone. Aveva voglia di farle male.
“Io stasera esco, mi vesto da puttana, attirerò tutti gli uomini che voglio. Ci proveranno, mi offriranno da bere, mi farò corteggiare e io starò al gioco, farò tutto quello che vorrò, perché non sei tu a comandarmi.”
Ricambiò lo schiaffo e si fece male, ma sapeva che aveva fatto bene ad affrontarlo a testa alta.
Ma faceva male ogni volta che Bulma cercava di vincerlo e lui rideva di rimando da vittorioso.
Morsicò il suo interno coscia con le mani e le lasciò i segni delle dita, come fossero tenaglie: quello era doloroso e faceva ancora più male, se il carnefice affondava sempre di più con le unghia.
“Sono uno stronzo e ti posso trattare da puttana o semplicemente da oggetto e ti posso fare male. Posso farti tutto quello che voglio. Ti sta bene che io mi comporti da bastardo, perché o accetti questa situazione o sai che, se ti allontani, ti finirebbe peggio e non per causa mia. E se prima questa situazione non ti andava bene, adesso ti piace. Non è meglio essere usati che usare? Ci vuole meno fatica.”
“Tu sei pazzo Vegeta, non sai quello che stai dicendo.” Su alzò sui gomiti e si avvicinò al suo viso.
Era bellissimo quando si abbandonava ai deliri di onnipotenza e certe volte si era chiesta perché era nato uomo e non dio, poi si era risposta che se fosse nato dio non sarebbe mai esistito.
“Sto dicendo che, da quando hai liberamente deciso di succhiarmi il cazzo, il tuo unico problema è quello di non affogarti con il mio sperma e alla tua vita penso io o sbaglio?”
Non credeva che fosse così sveglio Vegeta; non credeva avrebbe fatto così bene quel quadro dei suoi pensieri. Bè poco male.
“E ti sembra così stupida come cosa? Faccio quello che voglio fare e tu ti accolli tutti i problemi. Alla fine credo che quello sfruttato sia proprio tu.” Stava comportandosi male, per farsi del bene.
Approfittò del suo sospiro soddisfatto e orgoglioso, per sgusciare da sotto il suo corpo e avviarsi verso la porta.
“E mentre tu stasera mi pari il culo, di nuovo, io esco a fare tutto quello che voglio. Che puttanella intelligente che sono, vero?”
La bloccò, tirandole i capelli. Si sentiva tutta la testa tirare e vedeva avvicinarsi al galoppo l’emicrania.
Vegeta tirava verso il basso e, per non vedersi le cervella di fuori, non più ricoperte di pelle, si inginocchiò.
“Non sei nessuno tu. Sei solo una cosa, quello che io decido che tu debba essere.” Le lasciò i capelli e la spinse in avanti, facendola barcollare e cadere in terra.
“Ma lo sai che mi sento proprio bene, quando ti faccio male?”
E lei sorrise.

Si ricordava che una volta aveva avuto degli amici con il quale uscire e sicuramente la ragazzina del liceo che era stata mai avrebbe pensato che un giorno, o meglio una sera, più di una sera a volere essere sincere, si sarebbe ritrovata sola in un pub a bere, come una spugna e cercare un uomo da abbordare.
Che poi non vedeva dove stava il problema: Chichi scopava con Vegeta, ma amava Goku; lei avrebbe potuto scopare con tutti ed amare solo quello stronzo, tanto lui sembrava entusiasta di quel sistema.
Era una bella donna, piacente e non c’erano mai stati problemi a trovare un maschio disponibile per accoppiarsi, uno che la desiderava e la lusingava con dolci attenzioni.
L’unico problema era Vegeta e se l’era dovuto sorbire lei!
Il barista la guardava scocciato e spazientito e, anche se le dispiaceva, non avrebbe ordinato: aspettava che qualche uomo le offrisse da bere e non solo perché si era scordata il portafoglio a casa.
L’attesa fu lunga o forse solo breve e noiosa, ma quando il barman stava chiamando la sicurezza, dopo che lei aveva finito le noccioline nel piattino, le si affiancò un uomo alto e distinto, stempiato e non giovanissimo e le sue elucubrazioni andarono verso la pedofilia.
Riusciva a rimorchiare solo vecchi bacucchi? O Vegeta gli aveva pagati tutti per fingere?
Maledetto figlio di puttana! Non doveva pensare a lui, doveva solo concentrarsi su chi le stava affianco, anche se quel lui aveva i peli che uscivano dal naso.
“Le posso offrire qualcosa signorina? Prego non faccia complimenti.” Almeno aveva una splendida voce, peccato che la cassa della musica incombeva sopra la sua testa.
“Stia tranquillo che non gliel’avrei mai fatti.” Tentò di adescarlo con una risata solare, sporgendosi verso di lui, per allungargli la mano e far vedere il suo bellissimo seno, quella sera senza reggiseno.
“Sono io che glieli faccio a lei: è bellissima.” Sacrosanta verità: pure i vecchi con la cataratta si accorgevano di quanto fosse appetibile, tutti tranne Vegeta.
Oh, di nuovo lui!
“Mi dia del tu. Io mi chiamo Bulma.”
Brindarono una volta che gli furono portati i bicchieri, brindarono a quel loro incontro e poi parlarono del più e del meno e lei riscoprì quanto era piacevole chiacchierare, senza progettare congiure, ricevere dei complimenti e non solo insulti, essere trattata da donna e non da oggetto.
Riscoprì il piacere di essere trattata con i guanti, di avere l’ascendente di una dea sui fedeli che pendevano dalle sue labbra e allora la sua mente e tutto il suo corpo tornarono da Vegeta: lui si sentiva così sempre, ogni giorno della sua vita e non per le attenzioni di un vecchio, ma per le sue e chissà di quante altre persone.
“Mi stai ascoltando?”
No, ma era giusto che lo facesse o sarebbe rincoglionita ad avere sempre e solo un unico tarlo.
“Scusa, c’è la musica troppo forte. Cosa dicevi?”
Aveva detto tante cose, tante e inutili. Aveva ciarlato del suo lavoro, le aveva proposto un giro in auto e poi vedendola sempre più restia era tornato alla carica con le leccate di culo e lei scoprì che quell’ossessione era veramente stancante.
Che preferiva mille volte fare l’impossibile per avere un sorriso di Vegeta, che non fare nulla ed essere lusingata da uno sconosciuto.
Preferiva semplicemente Vegeta a qualunque uomo in quel locale, fosse un aitante dj o un acciaccato nonnetto di sessant’anni.
Preferiva essere sua che non di sé stessa.
Era un male, ma le stava bene.
Si scolò l’ennesimo bicchiere e poi lo vide avvicinarsi, con una faccia sempre di colore diverso, per via del neon.
Aveva teso le labbra verso lei, si aspettava qualcosa.
Si aspettava che ricambiasse il bacio o che le accarezzasse con le dita: invece Bulma prese una nocciolina, caduta a terra, e fece forza per schiaffargliela in quella bocca, serrata dalle labbra.
Era comico con le ciglia dubbiose, gli occhi imploranti e un pistacchio tra i denti e la fece ridere e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: quell’uomo la fece cacciare fuori dalla discoteca e il barista fu ben felice di sbatterla fuori con violenza, di prenderla di peso e farla finire col culo sul retro della discoteca.
E lei non poté fare altro che tenersi la pancia, per non soffocare dalle risate: aveva del tragico quella situazione.
Frugò tra la borsa, in cerca della chiavi della macchina: sarebbe tornata a casa, avrebbe assalito la distilleria privata di Vegeta e l’avrebbe aspettato buona, buona a letto, anche a costo di stare sveglia tutta la notte.
Non era male quel rapporto malato, non era male sentire dolore, se significava essere ancora in vita.
Non era male decidere di farsi fare male, finchè dipendeva dalla propria volontà: un’autonomia simbolica e poi la temprava: arrivava addirittura a sanguinare e faticava, certe volte, a trattenere le lacrime per le pulsazioni del dolore, ma ne valeva la pena, quando si accorgeva di essere diventata più forte, meno indifesa.
Si sentiva bene e in pace e non guardava a Vegeta come oppressore, solo come insegnante di vita e poi l’amava.
Non era male Vegeta, manco un po’, anzi si era abituata alle sue maniere e le imitava pure; solo che, anche a morderlo, lui non si faceva niente: ci provava a farlo sanguinare, non gliel’aveva mai impedito, ma mai ci riusciva.
Aprì la macchina a distanza, la macchina di Vegeta: forse si sarebbe incazzato, se avesse scoperto che l’aveva presa senza permesso e forse lei l’avrebbe parcheggiata appositamente in un posto diverso, gli avrebbe fatto trovare cicche di sigarette sui sedile e casualmente gliel’avrebbe potuta graffiare.
Camminò a passo svelto, quando un corpo pesante ma non grosso le si buttò addosso, facendola finire con la faccia sulla strada.
L’ombra sconosciuta le aveva agguantato i capelli e le aveva sbattuto la fronte contro l’asfalto, mentre lei non riusciva a soffocare i lamenti, né a liberarsi.
Avrebbe dovuto avere paura e, fino a qualche tempo fa, ne avrebbe avuta tanta: solo che conosceva tutto quello che le stava succedendo: conosceva il rimbombo nella sua scatola cranica, quando la fronte impattava, conosceva il sapore del sangue in bocca e non ne aveva paura.
Vegeta l’aveva vaccinata a tutto, perché è forte chi non ha paura e ha paura solo l’ignorante e il saggio aveva l’esperienza.
E Bulma sapeva che per liberarsi, avrebbe dovuto fare forza sulle braccia e alzarsi, avrebbe spinto il tale lontano e poi ci si sarebbe messa a cavalcioni di sopra e l’avrebbe preso a pugni sul naso, ma sentì una voce al suo orecchio, prima che potesse pensare di agire.
Era una voce femminile e l’aveva terrorizzata.
“Mi sento lusingata: ho saputo che hai addirittura pianto alla mia morte.”
Era bene che avesse sentito male.
Era bene che tornasse a collegare le sinapsi, era bene che traesse un respiro e si mettesse a ragionare lucidamente, ma aveva paura che seduta sulla sua spina dorsale ci fosse Irene.
Era terrorizzata, sconvolta: non sapeva che i morti potessero tornare in vita: non lo sapeva e l’atterriva.
“Chi cazzo sei? Non sei Irene, non puoi essere lei.” Sbraitò singhiozzando.
Era inquietante quella situazione. Era inquietante che una sconosciuta, che la sua mente credeva essere una morta, le avesse stretto una cintura di pelle al collo, fino a farle mancare il respiro e le aveva piegato la testa indietro, per permetterle di vedere i suoi occhi verdi.
Verdi, come la speranza, piccoli e stretti come la vendetta, ma ciò che più la indusse al tremore erano quei capelli biondo ossigenato al posto di quella chioma rossa fuoco.
Si era alzata e la teneva in ginocchio con quel maledetto cappio improvvisato.
Bulma non aveva mai sentito Irene urlare: solitamente era pacata e remissiva.
“Ti senti soddisfatta per avermi fottuto l’uomo? Per avermi tolto la mia vita? Ti senti bene?”
Le diede un calcio sullo stomaco e si sentì morire: si sarebbe accasciata, se lei non gliel’avesse impedito.
“Non ho fatto niente io, lo sai. Volevo solo uscire di prigione, non uccidere te.”
Voleva pacarla e poi stava raccontando la verità.  Non l’avrebbe mai fatta fuori, se avesse avuto scelta.
Avrebbe voluto sedarla, ma lei si infiammò di rabbia. “Avevi ucciso della gente, dovevi marcirci in quella maledetta cella, non saresti dovuta uscire. Invece sei solo una ragazzina cogliona che non sa badare a sé e che non si assume le proprie responsabilità.”
Tremava e a ogni parola aveva stretto la cinghia della cintura e lei stava quasi non respirando più.
Erano in mezzo alla città e nessuno si accorgeva di loro: l’oscurità faceva vedere male, ma era bene non raccontarsi balle ed essere convinti dell’omertà della gente.
Non le arrivava più sangue al cervello.
“Ti senti male? Non sei abituata ad avere stretta una cintura intorno al collo?”
Tirò un altro po’ e Bulma vomitò: aveva fatto male a bere digiuno.
“Strano, a Vegeta piace questo gioco. Solitamente mentre mi strangolava con la cintura, mi ficcava il cazzo in bocca: sarei anche potuta morire per asfissia, ma chi cazzo se ne fotteva: l’importante è che piaceva a lui.”
Sì era un bastardo. Faceva del male, lo sapeva, ma le andava bene.
Non le fotteva niente che traesse piacere nel provocare dolore, in quel momento anziché appellarsi a un qualche dio, sperava in lui, lo pregava di venire a salvarla.
“E poi, con la gola, occlusa mi costringeva a inghiottire e faceva un cazzo di male che non puoi immaginare, ma non mi importava niente e tutto mi sembrava bello, quando la mattina mi svegliavo vicino a lui. Non avrei mai voluto che niente cambiasse: mi piaceva essere trattata senza rispetto e lo amavo e lo anteponevo a me stessa.”
Con l’estremità della cintura le frustò il culo e quando vide gli occhi bagnarsi, decise si allentare il laccio al collo: non la voleva morta così semplicemente.
“Poi sei arrivata tu, maledetta troia e sono dovuta morire per te, perché gli servivi.”
Aria. Aria. Anche lo smog non le era mai sembrato così buono.
“Infatti dovresti essere morta, perché non servivi più.”
Irene provava pena per quella donna troppo ingenua.
“Col senno di poi ti accorgi che a persone come Freezer e Vegeta non gli serve assolutamente nulla. Bastano loro due per fare quello che devono fare, ma per divertirsi illudono la gente, giocano con la loro vita, le sfruttano e poi le uccidono, perché in fondo a loro non frega un cazzo di niente. Ti accorgerai, un bruttissimo giorno, che tu non sei mai servita, se non per far trastullare momentaneamente Vegeta, ma quando te ne accorgerai, già lui ti avrà ammazzato.”
Bulma si alzò, proteggendosi il ventre. Aveva paura.
“Non farò i tuoi stessi errori, fidati: non finirò come te.”
“Che errori ho mai fatto? Non potevo fare errori, facevo solo quello che mi ordinavano.”
Le sembrò che il cuore uscisse dal petto.
“E non mi importava che mi potessero fare male. Mi ero donata a Vegeta e poteva fare di me quello che voleva, ma non sono mai cambiata per lui, non mi sono mai ripudiata.”
Aveva incrociato le braccia, iniziando ad andare avanti e indietro nella via. Sembrava in vena di chiacchiere e confidenze, ma Bulma si stava solo imbestialendo.
Si incazzava perché sapeva che ogni singolo ricordo di Irene sarebbe potuto corrispondere al suo futuro e poi le lanciava frecciatine, la giudicava, la condannava, mentre ammetteva di aver fatto i suoi stessi errori.
“Non fare la sibila con me, troia. Che vuoi dire?”
Si era rimessa in piedi e si sentiva più forte: dolorante, ma più forte.
“Cosa direbbero i tuoi genitori, sapendo quello che sei diventata? Che hai venduto la tua innocenza per vendicarli e poi hai brutalmente buttato il loro ricordo nel cesso: sono fieri di te?”
Si era avventata su di lei e le aveva colpito il mento con un pugno.
Aveva fatto male a menzionare i suoi genitori. Nessuno doveva osare.
“Vorrebbero che io fossi felice.” Prese una bottiglia di birra vuota e la spaccò contro il muro, impugnando, dal collo minaccioso, quell’ammasso di vetro appuntito e pericoloso.
La prese per il colletto e se la portò di fronte.
“Ora ti ammazzo io e puoi stare sicura che non fallirò come la giustizia.”
Maledetta giustizia! Aveva fatto evadere una pluriomicida e aveva ucciso male una criminale: ma che schifo!
“Uccidi e ucciderai l’unica che potrebbe dirti chi ha ucciso i tuoi genitori, perché Vegeta e Freezer lo sanno, ma non te lo diranno mai.”
Serrò la mascella e esitò, tentennò con quella mano alzata e puntata minacciosamente verso Irene.
I suoi genitori. Li aveva quasi scordati.
Si era fatta una vita, anche se sbagliata, era andata avanti e aveva accettato il passato e quello era un bene, ma l’ultima troia del bordello più squallido della città la stava provocando e lei si illudeva di essere cambiata, invece rimaneva sempre cogliona.
La lasciò libera. “Parla, bastarda.”
Irene barcollò. “Parla o ti uccido.”
Aveva le orbite di fuori e i capillari degli occhi spaccati: sembrava un animale.
Respirava affannosamente e il petto le si alzava velocemente e spaventosamente.
Irene si lasciò andare a un sorriso troppo bello e luminoso per essere sincero.
“Non c’è bisogno che te lo dica io.” Gli fregò il coccio di bottiglia dalla mano e le infilzò il basso ventre, sul lato sinistro.
“Tra un po’ li rivedi tanto.” Il vetro verde si colorò di rosso e la faccia di Bulma sbiancò lentamente.
Si accasciò a terra con il ventre spaccato da tagli troppo profondi per non fare male.
“Salutami i signori Briefs e digli  da parte mia che hanno cresciuto una merda di figlia.”


Chi trova un nesso logico tra la frase e il capitolo è bravo!
Ahi, ahi che stanchezza e che fatica.
Irene è viva! Ve l’aspettavate? Ma come ha fatto: bè io lo so! :P
Sì: Vegeta è uno stronzo, bastardo, deprecabile, ma credo sia una reazione allergica alla troppa bontà che spesso gli si appioppa. Voglio il Vegeta cattivo, voglio il Vegeta che nemmeno l’amore può sconfiggere ed essendo una dei pochi punti di forza di Bulma, la faccio partire molto in svantaggio. Anche perché la odio ultimamente! U_U
C’è qualcosa che non va in questa storia, c’è qualcosa che manca e che prima c’era e, sinceramente, non so cos’è: so solo che sto rovinando una storia che all’inizio non era troppo brutta; so che mi sono sfuggite dalle mani un paio di cosette e so che mi sono addentrata in argomenti che non riuscirò mai a trattare bene e quando rileggo tutto mi sembra idiota.
Non so che fare, sapete? Sono stata vivamente tentata dal cancellare questa storia, solo che poi mi hanno ricordato tutto il tempo che ho impiegato, mi hanno ricordato come mi rendeva felice scriverla e mi sono depressa ancora di più, perché ora mi viene solo pesante.
Che brutte note autrice ahahaha.
Non vorrei deludere proprio nessuno ed è questo l’unico motivo per cui vado avanti, penso.
Quindi ringrazio chi ancora la legge, chi la segue, chi la ricorda e chi la preferisce, grazie anche a quelli che recensiscono.
E sei avete trovato l’elemento mancante, quel qualcosa che manca in questa storia fatemelo sapere. ;)
Buona notte e buone cose! <3

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Capitolo 18
*** 18.18 ***


Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male.

Deuteronomio, Antico Testamento, VI-V sec a.c.

 


Fuori pericolo.
Freezer tirò, quando il medico si voltò, un sospiro di sollievo.
Era un bambino forte, a detta del dottore, e l’aria non gli era mancata per così tanto tempo da causare gravi danni a livello cerebrale; aveva solo una leggera febbre: forse il freddo pungente, forse lo stress e la paura.
La mattina seguente, il bambino sarebbe potuto tornare a casa e durante la notte l’avrebbe vegliato la miglior equipe di infermieri e specialisti, ma egli non aveva voluto sentire ragioni, né citazioni delle leggi del codice ospedaliero che impedivano le visite di notte: sarebbe rimasto accanto a Vegeta: il mondo era pieno di incompetenti e per regola non si fidava di nessuno.
Si sistemò i vestiti e si sedette sulla sedia accanto al letto, perché l’amava.

I cocci le si erano conficcati nel ventre, ma non così profondamente da ucciderla: aveva solo perso molto sangue ed era stata ancora più fortunata da riuscire a gridare straziata, prima di perdere i sensi; e lo stesso buttafuori, che l’aveva cacciata, aveva chiamato l’ambulanza, rovistato nella sua borsa e chiamato l’ultimo numero della rubrica.
E lui aveva dovuto abbandonare subitamente Goku e le prove a carico di Bulma, per correre in ospedale da lei, per aspettare fuori come un coglione, per parlare con medici addormentati e poco disponibili e  per accamparsi sopra una seggiola che gli rendeva il culo quadrato.
Lei si mosse impercettibilmente, già dava segni di ripresa.
Ed era eccezionale.
A soli tre anni, aveva sconfitto, in un incontro di arti marziali, un bambino di cinque anni, molto più grosso e più alto: ne era impressionato.
L’avevano dichiarato vincitore, gli avevano portato una piccola asciugamano e poi Vegeta era sceso dal ring con un balzo atletico ed elegante.
Ogni sua mossa, quel sorrisino sprezzate: avrebbe pagato per avere un figlio così, per farlo crescere come lui: ma il fato gli aveva voluto negare questa opportunità e lo reputò tremendamente ingiusto, quando Vegeta senior gli ammise di odiare quel bambino già troppo arrogante.
Le fortune capitavano tutti agli stolti e se ne dispiaceva.
“Complimenti, è bravo tuo figlio.”
“Se lo dici tu.” E quella voce era inclinata da paura e non da orgoglio, perché quel figlio indesiderato un giorno sarebbe potuto essere migliore di lui e surclassarlo.
Viveva nella sua testa il giorno in cui qualcuno gli avrebbe detto:
“Diventerai papà: la tua donna aspetta un bambino.”

E per poco non cascò dalla sedia.
Era difficile realizzare quelle parole, tremendamente difficile.
“E’ stata fortunata: poco più in fondo e avrebbe perso il feto: è a sei settimane.”
Vegeta non si vedeva con un frugoletto in mano, non si vedeva a cambiare pannolini, né a fare poppate notturne, non si vedeva a fare il discorso delle api e dei fiori.
Deglutì, minacciato da pupù infantile e pianti e strilli ingestibili.
“Allora il pistolino lì sotto funziona. Ma quanto sono fiero di te?”
Zarbon gli aveva dato la notizia, Zarbon gli aveva strizzato i coglioni: Zarbon era un maledetto!
Se lo scrollò di dosso, ringhiandogli contro, poi si voltò nuovamente verso la ricoverata.
“Un figlio tuo e di Bulma sarà un mostro. Che pensi di fare? Lo vuoi tenere?”
Un mostro? Ma se avesse preso tutto da lui, sarebbe stato un miracolo.
Un’altra persona intelligente ed educata secondo pensiero e non usanze, in un mare di caproni: guardava quell’alternativa come fosse un bene.
“Certo che lo voglio tenere.”
Vegeta senior avrebbe dovuto lasciare il paese per qualche mese, avrebbe dovuto sbrigare certi affari per conto suo ed era sorto il problema a cui lasciare suo figlio.
In verità il problema se l’era posto solo Freezer, Vegeta l’avrebbe abbandonato a casa come se nulla fosse, ma era davvero uno spreco.
Quel bambino sarebbe stata un’arma, quel bambino sarebbe stata la sua forza, quel bambino sarebbe stata la progenie che aveva sempre desiderato: era perfetto: freddo e crudele e di questo doveva ringraziare solo quello scellerato padre biologico che gli aveva inculcato tutto ciò che di sbagliato aveva coltivato lui.
E, mentre il piccolo Vegeta giocava in giardino, catturando e poi torturando piccoli animali, pensava che avrebbe ucciso Vegeta senior il più presto possibile e sarebbe stato libero di amare suo figlio.
L’uomo con la barba aveva scrollato le spalle davanti a Freezer, poi si era girato e aveva sorriso davanti al nulla.
Non capiva perché quello stronzo stravedeva per suo figlio, ma quel bambino era un’arma, era la sua forza.
Prese un taxi senza salutare suo figlio né Freezer e li lasciò soli, seduti sul prato, sentendo solo un’ultima e strana frase.
“Amore mio, credo sia arrivato il momento di dirti una cosa.”

Quella stanza era un porto di mare: tutti entravano e uscivano, ma la cosa più strana era che tutti sembravano avere dei grossi segreti.
“Diventerai nonno.” Anche lui aveva cosa importanti da dire.
Freezer aveva le mani incrociate dietro la schiena e la lingua morsa tra i denti.
Un nipotino? Tutto sarebbe continuato: Vegeta non sarebbe stato solo, avrebbe avuto terreno su cui coltivare, avrebbe avuto concime per accelerare quel processo di crescita.
Gli dispiaceva forse non avere l’occasione di conoscere il suo futuro.
“Bene. Congratulazioni.”
“Che mi dovevi dire?”
Inspirò profondamente aria: doveva saper calibrare le parole, scegliere quelle giuste.
“Vedi, figlio mio: la vita non è eterna e ,come inizia, finisce, si muore: ma non bisogna essere tristi alla morte: capita, è irreversibile e serve a chi è ancora in vita.”
Aveva cinque anni e aveva chiuso a forza gli occhi di suo padre, quegli occhi che l’avevano minacciato, rimproverato e incoraggiato a fare male: ma alla fine lui aveva obbedito agli ordini di Vegeta Senior: aveva dovuto avvicinare Freezer, aveva dovuto ammaliarlo con quel suo carattere che tanto amava; solo che poi avrebbe dovuto farlo innamorare così tanto di lui, da renderlo rincoglionito e debole: un individuo inutile che sarebbe stato facile uccidere e ancora più facile schiavizzare.
Invece le cose erano andate diversamente: il piccolo Vegeta non solo si era fatto amare, ma si era innamorato di quell’uomo cattivo, che si divertiva a bruciare lucertole con lui.
Si era innamorato perché, al contrario del suo genitore naturale, Freezer sembrava non essere soggiogato dal male che sapeva di fare, sembrava possederlo, sembrava conoscerlo e gestirlo.
Freezer comandava, suo padre gli ubbidiva e l’ammirazione fanciullesca e l’invidia per il potere, col tempo, aveva scoperto essere la stima incondizionata per la coscienziosa consapevolezza di Freezer circa i suoi pensieri e le sue azioni.
Vegeta senior era abituato a fare male e continuava a farlo perché gli stava bene, mentre l’altro, ogni giorno, sceglieva il peggio e le sue scelte avevano un perché.
Amava Freezer, la sua logica razionale, tutto quello che era riuscito a fare, tutto quello in cui Vegeta senior aveva fallito, e lì in quella stanza bianca d’ospedale si erano baciati.
Si erano mischiati le labbra e la saliva, si erano scambiati carezze con la lingua, ma non avevano mai chiuso gli occhi: non avevano nulla da che nascondere alla loro coscienza ed era tutto così bello, da non voler immaginare niente di migliore.
“Che vuol dire, Freezer?”

“Vuol dire che sto male.”
Enigmatico, caustico, ermetico addirittura.
Parlava poco e confusamente e non si capiva più niente di quel che voleva dire, ma non lasciava nemmeno il tempo di tentare ad indovinare il suo pensiero e la faccia mesta di Zarbon lo mandava ancora più in confusione.
Aveva la testa pesante, piena e gonfia e se la nascose tra le mani.
“So che farai la cosa giusta.”
E non aveva dubbi: avrebbe fatto la cosa migliore per Freezer e non poteva fare altrimenti perché alternativa ne aveva solo una: o gli dava suo figlio o Vegeta senior sarebbe diventato concime.
“Maledetto figlio di puttana.” E non si sapeva a chi era riferita quell’invettiva: se al piccolo Vegeta o a quel maledetto stronzo che lo pretendeva come figlio.
Freezer lasciò correre, che si sfogasse almeno quello stolto: lo abbandonò nella stanza, solo con la sua sconfitta, e andò in salone dal bambino.
Si sedette sul divano, affianco a lui e gli scompigliò i capelli corvini.
“Sarà difficile crescere un figlio.” E gli sorrise.

“Se ce l’hai fatta tu con me, non vedo perché non dovrei riuscirci io.”
Vegeta dava sempre le solite risposte del cazzo e il giorno che aveva deciso di voler fare l’avvocato, si era fatto una grossa risata.
Parlare lo annoiava e voleva fare il lavoro il cu i strumento era il verbo: senza contare che pensava che avrebbe fatto ammattire i giudici e non avrebbe vinto nemmeno una causa, ma era la sua decisione e Freezer non aveva imposto veti, né l’aveva ostacolato con le sue supposizioni.
Poi il tempo aveva fatto fallire il suo pensiero: Vegeta era diventato un bravo avvocato e non ci aveva pensato due volte a licenziare il suo vecchio legare per correre il rischio di dar troppa fiducia al futuro.
“Il problema non sei tu: è lei.”
E con tono sarcastico, mandò una frecciatina a Bulma, ancora incosciente.
La osservò a lungo, ma su quel corpo pallido non c’era il motivo per cui ogni volta si cacciasse nei guai: non che gli fregasse qualcosa di lei, ma avrebbe preferito che non si esponesse troppo per non esporre se stesso.
“In ogni caso: hai idea di chi sia il colpevole?”
Vegeta scosse la testa: se il movente era l’odio, sospetti potevano essercene tanti; se il movente era la dilagante follia, sospetti ce n’erano troppi.
“Bisogna stare attenti: il colpevole è qualcuno che voleva farle del male, ma non voleva ucciderla. La stanno usando come esca o come tramite.”
Zarbon gli aveva mostrato la cartella clinica: Bulma era svenuta per paura e per dolore, ma le infilzate al ventre, la stretta al collo e le botte alla testa non erano letali.
E se dormì per dodici ore filate era grazie agli antidolorifici.
Il pomeriggio quando si svegliò, Zarbon la sottopose a tutti quei noiosi esami di controllo, non lasciandole il tempo di metabolizzare che affianco a lei, a tenerle la mano, c’era Vegeta.
Con una scoppola sulla nuca la dichiarò fuori pericolo e la lasciò libera di guardarsi intorno, mentre lui usciva dalla stanza per prendersi un caffè.
Le girava la testa e i punti al basso addome le rendevano fastidioso il movimento, ma nonostante le fitte si voltò subito verso il suo uomo e si accorse che non fu mai così felice di vederlo, anche se Irene l’aveva vestito di dubbi.
“Belle borse sotto gli occhi: quando torniamo a casa ti presto la crema idratante.”
“Io sono bello lo stesso, tu sembri deficiente con quei segni sulla fronte.”
Si sentiva libero: si era svincolato il culo da quella sedia e si era stirato le ossa, come un gatto che faceva le fusa.
Poi era balzato sopra il letto, l’aveva ricoperta con il suo corpo, costringendola, tra gemiti e lamenti, a distendersi e le aveva divorato le labbra e tormentato la faccia con le sue carezze.
“Visto cosa succede a stare senza di me?”
Era stato davvero pericoloso: lasciarla libera per la strada, con la possibilità che, camminando, potesse succedere qualcosa di imprevisto, di irreparabile.
“Già: se tu fossi stato a casa con me, io non avrei mai scoperto che tu sai chi ha ucciso i miei genitori.”
Il mondo era un custode di gelosi segreti molto pettegolo; il mondo era fatale sia per gli uomini convinti d’essere onnipotenti, sia per le povere donne senza potere: ed era paradossale che il danno più grande era ricaduto sopra chi faceva dannare gli altri.
Si staccò da lei, cucendosi la bocca ed inspirando con le narici tremanti.
Le sorprese facevano paventare tutti, anche i demiurghi.
“E quindi?” Ma Vegeta non era un codardo e non si era tirato indietro nemmeno di fronte alla sconfitta della realtà.
“E quindi, amore mio, chi ha ucciso i miei genitori?”
L’ospedale era il posto migliore per restare incolumi: Vegeta avrebbe potuto incazzarsi, avrebbe potuto tentare di ucciderla, ma a Bulma non serviva altro che premere il pulsante d’emergenza sotto il letto, affinchè medici e infermieri venissero per difenderla.
Non si aspettava una risposta, ma non aveva niente da perdere e domandò lo stesso.
“Freezer ha ucciso i tuoi genitori.”
Medici? Dottori? Chirurghi? Infermieri? Inservienti?
Non gli fotteva di niente e di nessuno: che entrassero nella stanza e che la sedassero come un animale: non gli fotteva più un cazzo.
Con una forza che non sapeva di avere lo cacciò indietro e l’aggredì con tutto il suo corpo: e non c’erano punti dolorosi, né fitte, né nausee che la potessero fermare.
Gli sputò addosso e cercò di sbattergli la testa contro il sostegno in ferro battuto del letto.
Gliela voleva spaccare quella maledetta testa di cazzo. 
“E perché cazzo non me l’hai detto prima, bastardo? Lo sai quanto ho cercato di vendicarli, lo sai che mi sono mangiata il cervello per questo, pezzo di merda. Perché non me l’hai detto?”
“Perché non me l’hai mai chiesto prima.”
Era la prima volta che piangeva, ma non per spavento. Era incollerita e inferocita, sembrava un toro da corrida.
Aveva una voce nasale, finta ed esagerata. Da fuori l’avrebbero potuta definire invasata, ne avrebbero avuto ragione.
“Lo sai quanto era importante per me, figlio di puttana, non c’era bisogno che te lo chiedessi.”
Prese la cravatta e gliela girò intorno al collo, ma era troppo facile, se lui non reagiva.
“Importante? Ti ho messo a disposizione la libertà per fare le tue ricerche, per la tua vendetta, ma era così importante che non c’hai perso un minuto.”
Aveva sbagliato: Vegeta aveva ragione.
Si era distratta, la sua nuova occupazione l’aveva distratta: era stata rapita dal mondo dei complotti, degli omicidi e non aveva avuto più tempo per pensare ai suoi genitori.
Aveva ragione e avrebbe pagato per non aver avuto torto.
“Visto che sei così bravo a vedere dove gli altri sbagliano, perché non mi hai aiutato? Perché non mi hai fatto redimere dai miei errori. Brancolavo nel buio e a te stava bene, perché ti servivo così.”
Si avventò su di lui e cercò di mangiarlo con i denti: non quei soliti morsi maliziosi ed eccitanti: la mascella contratta, le fauci aperte e i denti appuntiti cercavano la carne e la trovavano e, trivellandola, usciva sangue, ma non dolore e pentimento.
Vegeta stava immobile.
“Se ti impedissi di sbagliare, ti toglierei la libertà. Hai la tua testa, usala.”
Non gli stava nemmeno vietando di ucciderlo: lui non aveva problemi a perdere la vita, ma ne avrebbe avuti lei: ne avrebbe avuti tanti.
“Freezer ha ucciso i miei genitori è giusto che paghi. Per una cosa giusta, puoi anche sbagliare maledizione. Ne commetti tante cazzate, ti sei abbacchiato per quella più importante?
Quegli occhi che non si chiudevano, quelle palpebre che non tremavano: avrebbe voluto avere una siringa e bucare quelle iridi nere e bellissime che la soggiogavano sempre.
Avrebbe voluto scavare il solco oculare con le unghia e cavargli le orbite.
“Se tuo padre avesse commesso qualche reato, l’avresti mai denunciato alla polizia?
Se avesse ucciso qualcuno l’avresti mai condannato?”
Le braccia le tremavano e lo stomaco le si stava mescolando.
“Freezer è mio padre, come avrei potuto farlo io?”
Stava dicendo cose giuste, tirava acqua al suo mulino e tra il torto sembrava avere una ragione schiacciante.
“Non è giusto. Non è giusto.”
“Per vendicare i tuoi genitori hai ucciso il dottor Willow, lasciando orfani i suoi figli: è giusto?”
“Lo voglio morto. Lo voglio morto. Deve morire. Lo uccido.”
Si accasciò su quel petto muscoloso, singhiozzando e lacrimando: lo odiava, lo amava e lo detestava, ma non lo voleva morto.
Ad un tratto non poté più trattenersi e sboccò addosso a Vegeta, sotto la sua bocca inarcata dal disgusto, sul suo completo da lavoro migliore.
Zarbon era entrato pimpante dalla porta con la tazza del caffè in una mano e un fiore nell’altro, ignaro di tutto quello che era successo, ma quando se n’accorse, non gli importò minimamente.
“Ah Bulma, mi sono scordato di dirti che sei incinta. Congratulazioni!”


La dimisero dopo un paio di giorni. Passò quel tempo completamente da sola.
Da quando aveva cacciato Vegeta, nessuno le aveva fatto visita, nemmeno lui, e aveva avuto tutto il tempo di covare odio, di accettarlo e di farlo convivere con l’amore.
Amava quel figlio di puttana che le aveva mentito, nonostante le avesse mentito.
Lo amava ma non si scordava, non se lo sarebbe scordato più, il suo bene, né il suo volere:  voleva uccidere Freezer e non l’avrebbe fermato nemmeno Vegeta.
Si vestì con i vestiti con la quale era arrivata in ospedale, chiamò un taxi per raggiungere quello che era diventato il loro appartamento, quello che tuttavia non avrebbe mai voluto lasciare.
Salì mogia, mogia le scale, non sapendo come sarebbe andata a finire, se sarebbe andata a finire quella relazione strana.
In ospedale aveva avuto modo di pensare al presente, di pensare a quanto Vegeta l’aveva distolta dai suoi genitori, nel bene o nel male avevano costruito una vita e non le aveva lasciato più tempo per il passato.
E si era sentita incredibilmente più leggera, da quando amava Vegeta, da quando si era scordata di provare rancore e di rimuginare.
Era crudele e insensibile, ma fottendosene della morte dei suoi genitori aveva ritrovato la sua vita; d’altronde anche se fosse riuscita a vendicarli, loro non sarebbero mai stati con lei.
L’unico che l’affiancava era Vegeta e non l’avrebbe perso per dei fantasmi.
Arrivò al pianerottolo e si toccò il ventre, carezzo il loro bambino: se l’immaginava con gli occhi azzurri e i capelli neri, si immaginava una femminuccia vestita di rosa; se l’aspettava bellissima e piena di ammiratori, mentre non serbava memoria della voce dei suoi genitori, non sapeva com’era stato il loro odore.
Girò la chiave nella toppa, sapendo che si sarebbe ritrovata un casino di cose buttate in terra, i posacenere pieni di cicche e il lavandino della cucina stracolmi di piatti, ma con tutta la buona volontà non ricordava il mobilio della casa dei suoi genitori.
Sentì lo scatto della serratura, spinse la porta in avanti e si annunciò.
Vegeta le venne incontro, salutandola con un bacio in bocca, mentre si puliva le mani nello strofinaccio della cucina.
Stava sporcando quel panno bianco immacolato di rosso vermiglio, tenacemente incollato a quelle mani curate, senza calli.
“Che hai combinato?” Lasciò cadere le valigie a terra e lo aiutò a pulirsi.
Un modo carino e poco vistoso di chiedere scusa, di dire che ci sarebbe stato, che non era una lite a far vacillare l’amore che aveva per lui.
“Ti sei tagliato per caso?”
Aveva aperto i palmi per farsi pulire meglio. Era tranquillo, come se all’ospedale non fosse successo niente.
“No, solo che ho ucciso Freezer.”




Che capitolo idiota!
So che vi siete confuse, ma lo dico ora: le ultime frasi dei Flashback sono le prime frasi del presente: si capisce? xD
Dev’essere triste avere aspettato un aggiornamento e ritrovarsi sta cacata colossale.
Diciamo che doveva avere un senso, diciamo che è tutto diverso da quello che mi ero costruita in mente: sarà meno sconvolgente e d’effetto di quel che pensavo, però potrebbe andare in fine: lo scopo è stato raggiunto lo stesso: Freezer è morto.
Ve l’aspettavate? Questa confessione, questo slancio d’amore?
No, bè: sembra strano, ma non lo è!
La verità è che ho intrapreso una storia un tanti nello difficile e me ne sto rendendo conto solo ora, ma credo di potercela fare.
Si parla di figli e genitori e di giustizia e quindi di bene e male…
Dette cose senza senso, ringrazio tutti: chi legge solamente, chi segue, chi ricorda, chi preferisce e chi recensisce: non smettete mai che mi fa un mucchio di piacere: specie quando credo di scrivere così tante scemenze. xD
Alla prossima e vi prometto che il prossimo capitolo spiegherà questo e lo compenserà pure. xD
Buona sera! <3

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Capitolo 19
*** 19.19 ***



C'è un solo bene: il sapere. E un solo male: l'ignoranza. Socrate
 


Non  sorrideva quasi mai e quasi mai si faceva scattare una foto, ma c’era un momento, quel momento, in cui adorava essere il soggetto della macchina fotografica e le regalava i suoi sorrisi migliori: le foto segnaletiche in prigione.
“La smetta di fare il cretino.” E, sempre, qualche poliziotto l’ammoniva per quella sua esuberanza fuori luogo, per quella sua allegria irriverente: come se si dovesse per forza piangere al momento dell’arresto.
“Si giri a destra.” Obbedì e mostrò all’agente la guancia livida: era l’unico segno visibile che quel maledetto Yamcha gli aveva inflitto.
“E’ il mio profilo migliore. Anzi no: sono tutto bello.”
L’unico sfregio sul suo volto, ma Vegeta gli aveva rotto il naso di rimando e ne era fiero.
“Accompagnate alla sua cella il signor Ice, che magari gli passa lo spirito.”
Un energumeno enorme lo prese sottobraccio e lo strattonò per il corridoio, fino a raggiungere quella lurida topaia in cui avrebbe dovuto passare la notte.
Quando si sedette su quella maledetta panca di legno, quando sentì la serratura chiudersi irreversibilmente, quando gli arrivò al naso l’odore fetido del suo compagno galeotto, maledisse il nome di Yamcha Pearson.
Pensare che, se non fosse stato per il deficiente e le sue inutili manie di protezione, lui quella sera avrebbe trovato qualche fica da riempire.
Ma lo stronzo l’aveva dovuto importunare, l’aveva dovuto stuzzicare con quelle sue maledette frecciatine su Bulma, facendogli girare i coglioni e perdere le staffe.
Si erano ritrovati in mezzo alla strada a darsi pugni e calci, a rotolare sull’asfalto e a cercare di strangolare l’altro con il braccio e proprio mentre stava riuscendo a fare perdere conoscenza all’idiota, aveva sentito una volante della polizia e un uomo avventarsi su di lui e mettergli a forza delle manette.
Maledetto Yamcha e la sua inutile gelosia che scaturiva in quel senso di eroismo vendicativo: sfortuna avesse scelto la persona sbagliata con cui fare il paladino.
Dubitava addirittura che fosse intervenuto per esplicita richiesta di Bulma, come aveva detto, mentre gli aveva piantato il piede nello stomaco. Ma ciò che più lo irritava era che quel coglione l’avesse fatta franca perché era minorenne e furbamente aveva dato tutta la colpa a lui: e tutti a credere all’incensurato ragazzino del liceo che accusava il bullo che aveva tra le mani la cartilagine del suo naso e che era finito in prigione già un’altra volta.
E gliel’avrebbe fatta pagare a quello stronzo: gli avrebbe tolto, di nuovo, quel che voleva, sebbene fosse mesi che non la rivedeva.
“Se ne ha la possibilità può chiamare un suo genitore che paghi la cauzione, così non deve rimanere qui.”
Perché quello che doveva essere un atto di pietosa gentilezza, sembrava una disperata preghiera affinché lui levasse le tende?
“È inutile. Mi lascerebbe a marcire qui.”
Freezer non avrebbe voluto sentire ragioni.
Aveva provato a insegnargli, senza forse riuscirci, cosa fosse bene e cosa fosse male e gli aveva sempre predicato la responsabilità, di rispondere sempre delle proprie azioni e riflettere prima di compierle.
Non gli aveva mai impedito di fare niente, né mai lo aveva invitato a qualcosa e, qualora Vegeta avesse fatto la scelta sbagliata, non l’aveva mai punito, perché non era detto che l’errore fosse assoluto.
Così era cresciuto libero e maturo per affrontare tutte quelle costrizioni e aveva avuto sempre benefici e mai paure.
“Provi: magari è mosso da compassione.”
“Ho sbagliato: è giusto che venga punito.”
E il poliziotto piegò la testa di lato, commosso da quella squisita e semplice frase che decantava il potere costituito.
Vegeta inghiottì nella penombra un ghigno sardonico di vittoria.
Le pestilenze, le carestie, le pandemie spaventavano gli uomini, anzi gli uomini erano spaventati da tutto ciò che potevano percepire come minaccia e la paura non era necessariamente un bene al potere, se poi portava alla forza incontrollata e alla follia della massa.
Chi voleva il potere doveva essere sagace abbastanza da non rendere irrazionale e priva di coscienza la folla, ma da farla ragionare secondo il modo di un unico pensiero.
Gli uomini andavano tranquillizzati con le stesse bugie che si andavano dicendo essi stessi, andavano uccisi con il loro veleno.
E per farlo bisognava conoscerli in ogni loro sfaccettatura e non imitarli mai.
“Sagge parole ragazzo, suo padre mi sembra un uomo intelligente.”
“E’ il migliore, non so come farei senza di lui.”


"Io l'ho ucciso, però tutto questo casino lo pulisci tu."
Importante. Se l’amore, che Vegeta aveva sempre provato per Freezer, si riversava in una grossa pozza di sangue in cucina che doveva tassativamente essere pulita, non credeva che quel rapporto pseudo parentale fosse stato infine così importante.
Quel che voleva si era avverato, ma, a fatto compiuto, le si agitava nello stomaco un senso di insoddisfazione non contenta.
Forse perché era stato una specie di miracolo venuto dall’alto e non credeva alla provvidenza: avrebbe voluto essere lei a dargli il colpo di grazia, lei a vedere l’ultimo sprazzo di vita in quegli occhi da sempre morti, lei a essere venerata in un giubileo di grida di dolore e di rimpianto.
Ma, dopo tutte le tribolazioni mentali, Freezer era morto lo stesso e per mano del suo adorato e falso figlio.
Prendeva forma, dentro il suo ventre, anche il suo bambino, il frutto delle scopate di due persone legate e da odio e da indifferenza e da opportunismo e da univoco amore, facendo così prendere forma nella sua testa il timore che la sua sorte potesse essere analoga a quella di Freezer che aveva sbagliato ed era stato giustiziato da chi aveva avuto tutta la sua fiducia.
Si erano spostati in cucina dove un corpo, ancora grondante di rosso, aveva occupato la sedia e il tavolo, dove solitamente mangiavano, e imbrattato il pavimento: però Bulma non riusciva a capire dove fosse il taglio, la genesi di quella cascata di sangue.
“Perché l’hai fatto?”
D’altronde le supposizioni, anche se giuste, non erano mai soddisfacenti come una confessione parlata e condita dalla lieve irritazione di una sconfitta.
“Per amore, bambolina.”
Era strano abbracciarla da dietro e posare delicatamente le mani su loro figlio, carezzarlo indirettamente.
Era strano che quel bambino sarebbe stato prensente a tante cattiverie e che non ne avrebbe ricordata nemmeno una.
“Volevo ucciderlo io.” Che bambina capricciosa, mentre lo diceva storcendo la bocca e battendo un piede a terra.
“Non ce l’avresti fatta mai: era troppo forte per te: si sarebbe difeso e avresti perso tu, dolcezza.”
Mugugnò qualcosa, ferita da come Vegeta avesse avuto ragione nel pronosticare quella realtà alternativa.
“L’unico modo che avevi di ucciderlo era vincere quella scommessa, ma io non mi sono innamorato di te, tesoro mio.”
Lo sapeva e stupidamente si era illusa che ne fosse ignorante.
In un modo o nell’altro quell’uomo riusciva sempre a stupire ed era la cosa che faceva più paura: non riuscire a conoscerlo mai del tutto, non sapere mai precisamente cosa aspettarsi, l’idea dell’infinito che faceva germogliare nelle teste degli altri.
Faceva paura come quasi fosse il mondo o come dio.
“Mi volevi salvare allora?”
“Assolutamente no.”
Vegeta sciolse quell’abbraccio e levò da sotto il sedere di Freezer la sedia, facendolo cadere nel suo stesso sangue che colorava tutte le mattonelle.
Bulma non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: faceva cose assurde, così affascinanti che col senno di poi risultavano anche sensate.
Con un pugnale nel cuore e il cuore nelle fiamme dell’inferno, quel corpo senza vita guardava il soffitto bianco con attenzione statica e immobile.
Freezer teneva la lama che l’aveva infilzato, la teneva stretta.
Vegeta, sospirando, gli si coricò sull’addome con occhi beati e stanchi.
Non faceva cose strane: faceva cose che lei non avrebbe mai fatto, perché convinta fossero sbagliate.
Ma Bulma con lui e per lui di errori ne aveva fatti tanti, ma era paradossale come li vedesse sotto una luce diversa.
Le fece segno con l’indice di avvicinarsi e di imitarlo e, aprendo le braccia, le lasciò un posto sul proprio petto.
Le carezzava lentamente i capelli azzurri con una mano, grattandole di tanto in tanto la nuca.
“Come lo vuoi chiamare?”
Cullata da calmi respiri, circondata da un fresco odore di pulito, non le importava nulla che stavano abbracciati a parlare di vita, sopra un corpo morto.
Quante persone aveva ucciso Freezer? Tante, ma la gente non avrebbe avuto lo stesso un minuto di sollievo.
Chi doveva morire sarebbe morto lo stesso, tutti sarebbero morti lo stesso, cambiava solo il momento ed era una consolazione illusoria e magra, considerando che il tempo era una convenzione dell’uomo.
Tutti morivano nel posto e all’orario in cui morivano: era quella l’assoluta sentenza di verità che trascendeva ogni morte.
E poi ad ogni cadavere corrispondeva un neonato.
“Voglio una femminuccia, voglio comprarle i vestitini rosa e voglio farle le codine nei capelli.”
Le si erano illuminati gli occhi di cattive intenzioni e le sue parole riflettevano immagini di fiocchi e farfalline e Vegeta tremò vistosamente.
“Maschio o femmina non mi interessa: mio figlio non crescerà deviato come te, chiaro?”
E faceva ridere come discussione: il difensore di un amore promiscuo e numeroso, un amore senza limiti, si credeva ortodosso al bene, ma si doveva aspettare che, in un mondo di pazzi che riposavano sopra il corpo del proprio genitore morto, le deviazioni erano i vezzi femminili.
“Allora appena fa due anni gli compriamo una pistola e lo mandiamo a spacciare, contento?”
“Che genitore di merda esorterebbe suo figlio a spacciare?”
Si sentiva tanto presa per il culo e lo dimostrò ridendogli in faccia.
Era una splendida domanda retorica che aveva una sola e unica risposta conosciuta: “Freezer!”
Di così depravato e cattivo c’era, c’era stato, che lei conoscesse, solo lui e dalla sua progenie non poteva nascere nulla di buono.
Si era chiesta mille volte cosa sarebbe successo se Vegeta fosse stato cresciuto da una famiglia ordinaria come la sua e credeva fermamente che sarebbe stato diverso, se per diverso si intendeva omologato alla moltitudine, se per diverso si intendeva come lei.
“Non mi ha mai obbligato a mettermi dei fiocchetti rosa in testa.” Rispose deciso.
“Ma prendi in giro?” Gli sbraitò addosso, piena di nervi.
Che risposte erano mai quelle e che faccia convinta che aveva!
“No! Lui mi avrebbe chiesto se mi piacessero i fiocchetti rosa e, se fosse stato così, me li avrebbe regalati, ma non me li imponeva.”
“I fiocchetti sono carini e stano bene sulle belle bambine.”
Sua madre glielo diceva sempre e lei era stata una bella bambina. Poi, crescendo, era diventata una bella ragazza, convita di esserlo, ma non era servito poi a molto: aveva incontrato Vegeta, si era fatta espellere da scuola ed era diventata una serial killer.
E ogni volta che uccideva sentiva una morsa allo stomaco, sentiva l’errore corroderle il fegato. Ma che colpa ne aveva lei?
Era una bella e brava bambina e le avevano detto che uccidere era sbagliato.
Si schiacciò ancora più su di lui e si baciarono dolcemente, leccandosi vicendevolmente.
E dopo un bacio, un graffio e una carezza, si ritrovarono a rotolare tra sangue rappreso e i loro umori ancora freschi; ebbero modo di sbattere le loro nudità sulla morte lì affianco e Bulma pensava che le piaceva sapere Freezer, senza vita, era bello.
Si rivestirono dopo poco, Vegeta sembrava avere fretta e agitazione.
Si alzarono e, seri, si guardarono in faccia. “Ti dispiace per Freezer?”
Doveva essere così, solo i mostri non provano tristezza nel sapere un uomo morto.
“Nemmeno un po’.” Ma le brave bambine non mentono.
“Immaginavo.” Le diede una paterna pacca in testa, poi le agguantò i capelli e glieli tirò verso l’alto.
Metteva tanta forza e la guardava con un sorriso rilassato, il sorriso di chi è tranquillo e non si aspetta gli possa succedere niente ed era la verità: cosa avrebbe mai potuto fare lei contro la sua forza bruta e cattiva.
Poteva solo urlare, e urlava tanto e dolorosamente, ma non poteva fare nulla, non poteva nemmeno capire il perché di quel che stava facendo e, quando l’orgoglio solo non fu abbastanza da reggere lo strazio, si mise a lacrimare dagli occhi e, allora, lui mollò la presa e le baciò la nuca.
“Ma sei impazzito del tutto?” Gli berciò contro, spingendolo lontano.
“No. Serviva che piangessi.”
“Cosa?”
“Non è normale che non sia dispiaciuta per la scomparsa di un’altra persona.” Le schiacciò l’occhiolino.
“Prendi il telefono, chiama il pronto soccorso e con la voce più lamentosa e dolorante che hai dirai che Freezer ha tentato il suicidio, che l’abbiamo trovato in cucina con un coltello nel petto. E poi piangerai. Devi piangere anche quando loro saranno qui, chiaro?”
“Tu sei un folle.” Ansimò pesantemente.
Aveva ucciso suo padre, cosa si poteva aspettare?
“Ora che Freezer non c’è, tocca a me gestire i media, i presunti amici, tutte le indiscrezioni: e non so, se sarò così bravo come lui. Dobbiamo fingere e farlo bene o rischiamo la pena capitale. Freezer era una persona influente, tutti penseranno ad un omicidio da chi gli era più vicino, dobbiamo spegnere tutti i sospetti.”
Non aveva torto, anzi aveva una schiacciante ragione pratica da invidiare.
“Chiamerei io all’ospedale, ma sono troppo scosso per parlare, giusto?”


Aveva riagganciato il telefono: poteva dire di aver fatto bene la parte della disperata.
O lo faceva o morivano: e loro non volevano morire.
Lui l’aveva tenuta tutto il tempo tra le sue forti braccia e la faceva dondolare.
Tutto sembrava un gioco, un brutto gioco che pareva bello, ma non voleva pensare a niente.
Gli ultimi giorni erano stati movimentati, troppo pieni e voleva solo riposare la mente, non ricevere più informazioni e godersi la sua nuova famiglia.
Ne avrebbe avuta un’altra e Vegeta aveva ragione: loro figlio non sarebbe cresciuto come loro.
Appena poggiò l’apparecchio sul comodino, qualcuno suonò il campanello.
“Continua a piangere e fa parlare me.” Lei annuì: non ne aveva né voglia né forza.
Vegeta andò mogio, mogio ad aprire e Bulma vide entrare nel loro appartamento un Goku e una Chichi completamente trafelati.
“Sei un maledetto: mi hai fatto fare l’intera città di corsa. Che mi devi dire di così importante?” Era stanco, ma aveva il solito sorriso radioso.
“Freezer è morto.” Vegeta aveva gli occhi bassi.
Goku si rabbuiò, inghiottì un grumo di singhiozzi e saliva e si armò di un tono serio e calmo che non gli aveva mai sentito.
“Morto? Freezer?” Era incredulo, completamente.
L’altro assentì, scatenando in Goku un’ilarità nervosa.
Emetteva strani risolini, molto inquietanti.
“Stai scherzando, vero? Papà non può essere morto.”



Avviso: io prendo, lascio tutto e parto: perché posso fare la sceneggiatrice di beautiful. xD
Che faticaccia!
Sembrava impossibile ma alla fine ho scritto pure questo, meraminchioso capitolo, senza senso: non è più una novità!
Nanananana!
E’ uno shock, una notizia sconvolgente, eh?
E chi se l’aspettava? Io nemmeno, diciamo che forse non è nemmeno un’idea è solo un colpo d’insolazione, perché quando l’ho pensata ero in terrazza sotto il picco del sole di mezzogiorno…
Tristezza!
Goku figlio di Freezer?
Può sembrare forzato e strano, ma aldilà del puro senso di stupore, c’è un motivo logico e importante che spero abbiate colto nel capitolo. ;)
Goku dice sempre: “Vegeta, io e te saremmo dovuti essere fratelli!”
Visto? L’ho accontentato.
Io ho una fretta mortale, ringrazio tutti: chi legge, chi segue, chi preferisce, chi ricorda chi recensisce!
Vi adoro! Alla prossima!

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Capitolo 20
*** 20.20 ***


Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare. Gandhi


Freezer era il padre anche di Goku?
Avrebbe tanto voluto non crederci o sperare di capire male, ma sembrava la realtà.
L’assurdo era diventato la regola e Bulma non sapeva se voleva più obbedirle.
Era convinta che a breve avrebbe mollato la presa, che sarebbe impazzita a causa di tutto quel manicomio normalizzato che era la vita di Vegeta e della sua, a quanto detto, famiglia.
E, se prima aveva pensato che Goku fosse normale, ora si ricredeva completamente.
Lei si era disperata alla morte dei suoi genitori, ma i due fratelli sembravano indifferenti alla vita del loro padre, nel peggiore dei modi inumani.
Non piangevano, non urlavano, non erano tristi: solo Chichi sembrava scossa dalla notizia e, cosa ancor più paradossale, era lei che cercava conforto nel suo uomo.
La testa le pulsava e le doleva, forse era stata la tirata di capelli, la stanchezza o la gravidanza, ma voleva solo andare a dormire e non sentire più neanche mezza parola che l’avrebbe potuta anche minimamente allarmare o sconvolgere in più sensi: d’altronde c’era solo un morto: nulla di nuovo.
“L’hai ucciso tu, vero?” E con che tranquilla certezza Goku aveva posto quella domanda.
Non sembrava sorpreso o adirato e nemmeno rassegnato, solo serio, voleva sapere.
Bulma si girò istintivamente verso Vegeta, curiosa di sapere se il grande uomo avrebbe fatto l’ipocrita anche con il suo stesso fratello: cosa veniva prima: le regole sociali o l’affetto?
“Sì, me l’ha chiesto lui. Cosa avrei potuto fare di diverso?”
Era stato così candido il suo tono e così spaventose le parole circa l’amorevole e triste verità, che nessuno vi ci badò più di tanto: Chichi continuava a singhiozzare piano tra le braccia di Goku e lui continuava a stringerla e non gli passava nemmeno per testa di guardare per l’ultima volta il suo amato padre o avventarsi sopra il suo assassino.
“Niente. Ne aveva parlato pure con me, aveva detto che voleva morire, ma non pensavo proprio oggi.” Si diedero una pacca sulla spalla e si scambiarono un sorriso d’intesa, più che di circostanza.
Gli osservava da lontano e vedeva due bellissimi uomini dai capelli e gli occhi color antracite, ma di umano non ci vedeva proprio nulla.
Bulma iniziava seriamente ad avere paura e si coprì la bocca con la mano, attirando l’attenzione di Vegeta.
“Nausea?”
Annuì con la testa: ne aveva così tanta nausea e disgusto, da non poterla descrivere, avrebbe vomitato da un momento all’altro, se lui non l’avesse baciata dolcemente.
“Siete due teneroni.” Goku era tornato allegro e spensierato come sempre e aveva iniziato a prenderli in giro, guadagnandosi occhiatacce agghiaccianti e gesti poco educati.
“Facciamo tre. Aspetta un bambino.”
“Congratulazioni, è una bellissima notizia.” Chichi corse ad abbracciarla: anche lei si era scordata di Freezer.
Fu un attimo e decisero che, finito tutto il trambusto del funerale e dei media, avrebbero festeggiato tutti assieme quel gioioso avvenimento.
Passò tutta la notte, tra paramedici e poliziotti che facevano domande ai due fratelli, a lei e a Chichi, tutti freddi e circospetti, come se non avessero creduto che si trattasse di suicidio.
Poi arrivarono anche i giornalisti, fecero foto,  pretesero dichiarazioni: era tutto un gran caos di flash e parole che nascondevano la verità e confondevano.
Bulma guardava il commissario annotare tutto su un taccuino, nella illusoria speranza di venire a capo di quella faccenda, e si riscoprì esattamente come lui: un’estranea che brancolava nel buio.
A cosa doveva credere? Poteva mai credere a qualcosa?
Credeva che l’omicidio fosse reato e azione riprovevole, ma perché Goku e Chichi l’avevano accolto così di buon cuore?
Si fecero le sei del mattino e l’appartamento fu svuotato: l’indomani ci sarebbero stati i funerali e la settimana seguente il processo ai due fratelli, indagati per presunto omicidio.
Bulma sapeva che Vegeta era colpevole, ma non sapeva come gli altri sarebbero stati convinti del contrario; e queste tecniche cominciavano a incuriosirla, piuttosto che schifarla.
Dopo aver bevuto un buon caffè e mangiato qualche biscotto, calò il silenzio della spossatezza, ma era un silenzio così solito e abituale che non pesava a nessuno: anzi Goku si era appisolato sul divano, come si sentisse a proprio agio in quel bordello.
Quella notte, Bulma aveva osservato, in maniera attenta e scrupolosa, il comportamento del nuovo poliziotto e si accorse di riconoscere ogni movimento, ogni gesto e ogni espressione: erano le stesse di Vegeta.
Passò dell’altro tempo e si convenne che era meglio uscire e svolgere le solite mansioni: il lavoro, la spesa, la pulizia della casa.
Goku prese il giubbotto e se lo mise sottobraccio e, prima di avviarsi verso la porta, sospirò svogliatamente.
“Immagino che, ora che Freezer è morto, sarai tu ad occuparti di tutti i suoi affari.”
“Immagini bene, fratellino.”
Erano così vicini, si guardavano negli occhi, senza segni né di guerra, né di pace.
“È mio dovere arrestare i criminali. Appena ho una minima prova contro di te, un indizio che ti possa incriminare, non esiterò a denunciarti e a darti la caccia.” Chichi lo affiancava e spalleggiava: non sembrava turbata dal discorso.
“E io ti condannerò a morte.”
Vegeta scrollò le spalle e sorrise tranquillo: “Mi sembra giusto.” Facevano il giusto a modo loro, a modo della società.
I criminali andavano catturati e uccisi: non c’era alternativa e Bulma lo sapeva, solo che non capiva perché non fosse già successo il fato.
“Quindi, fratellone, vedi di non dare troppo nell’occhio, come quando hai ucciso il dottor Willow, perché sarebbe troppo facile.”
Sapeva il bastardo, sapeva e Bulma non capiva.
Quale piacere infame e perverso si aveva a dichiarare battaglia a un conosciuto omicida, solo per orgoglio personale? Bisognava arrestare i farabutti, non giocarci, ma Goku era fratello di Vegeta.
“Non dovresti difendere la giustizia tu? Se sai che ha sbagliato, perché non lo sbatti in prigione subito?”
La disgustava un poliziotto che per amore di famiglia rinunciava al suo pensiero.
“Io ho sbagliato e non potrei mai giudicare gli sbagli di qualcun altro. Non è compito mio condannare, è compito della società.”
Parlava sempre con un sorriso bonario e parole semplici.
Era così sicuro di ciò che pensava che a lui andava bene anche se avesse detto la più grande delle stronzate.
Gli altri si accorgevano che quel discorso era permeato di un rispetto bigotto e scevro da qualsivoglia coscienza: Goku sbagliava, ma nessuno glielo diceva, perché?
“Anche la società sbaglia.” Bulma non era nessuno.
Non aveva nulla di male contro quell’ingenuo poliziotto e poteva anche iniziare a provare per lui del sincero affetto figliare, ma era compito suo correggere i suoi sbagli, se assieme camminavano verso la rettitudine, eppure quel viaggio sembrava non interessare altri oltre lei.
“No, è la società che decide ciò che è giusto o sbagliato e non può sbagliare, se è lei a stabilire i parametri.”
Ognuno era libero di pensarla come credeva meglio, ma quella frase era così triste e rasentava la realtà che non aveva mai potuto soffrire, che Bulma si lasciò andare alla rabbia e all’ingiustificato odio.
“Che stronzate stai dicendo?” E non riusciva a controllare più nemmeno il tono della sua voce.
“Sto dicendo, cara la mia pluriomicida, salvata dalla morte, che Goku non giudicherebbe mai suo fratello, ma un poliziotto ha il dovere di acciuffare il criminale.”
Bulma indietreggiò, spaventata: era presupposto di quella famiglia essere spaventevoli? Esseri così anormali o semplicemente diversi da sconvolgere e atterrire?
“Ricordati che io so tutto. So che hai ucciso la segretaria di Vegeta, so che hai ucciso Yamcha e Kado Aka. Spero, invece, tu sappia che la forca aspetta anche te.”
Quell’uomo aveva la faccia di Goku, il ragazzo spensierato che si ricordava, ma quelle parole, quelle conoscenze svelate sapevano tanto di mefistofelico.
No, non era Goku quell’uomo serio che conosceva, ma allora chi cazzo era?

Gelato o alette di pollo piccanti?
Il suo stomaco brontolava per la fame e lui non riusciva proprio a scegliere cosa mangiare per zittire quei seccanti rumori intestinali, anche se, ad essere sinceri, quella sera a disturbare la quiete c’erano ben altri frastuoni, come pianti e urla femminili, provenienti dalla camera di Vegeta: chissà cosa stava combinando suo fratello.
Scrollò le spalle e tornò a concentrarsi sul frigo e vide, con sua somma gioia, che c’era anche una torta con la panna e le fragoline.
Goku non era fatto per scegliere con la testa: lui seguiva l’istinto, il cuore e questo diceva di razziare l’intero frigo e, se non fosse bastato, anche il freezer.
Certo era che quella notte si sarebbe sentito male, ma pensò che ne valeva assolutamente la pena, quando intinse il pollo nella salsa piccante.
Chichi aveva ragione: mangiava quanto il porco e faceva schifo, ma sarebbero state veramente squisite quelle fragoline, se ci avesse aggiunto del cioccolato fuso.
L’ultima volta che aveva dovuto compiere una scelta, aveva scelto il liceo scientifico e se n’era pentito amaramente: troppi calcoli, troppi ragionamenti, troppe lettere che si sommavano, dividevano e moltiplicavano; e aveva infine perso un anno di scuola.
Aggiunse la granella di nocciole al gelato al tartufo: se doveva avere il mal di pancia, doveva averlo bene!
Mangiò con voracità e rischiò di affogarsi con un grumo di pan di spagna e panna che aveva deciso di non scendere per l’esofago: aveva bisogno di qualcosa per mandare giù quella massa o ci avrebbe rimesso le penne.
Aprì nuovamente il frigo e non si pose nemmeno il problema se bere del succo di frutta all’arancia o alla pesca, quando vide una lattina di birra.
La stappò e la tracannò avidamente.
Lui amava la birra: era così fresca, dal gusto così deciso e poco dolce che era un vero sollievo per la sua gola arsa.
Goku aveva appena diciassette anni e beveva alcolici più spesso dell’acqua: un giorno il suo fegato non l’avrebbe ringraziato di quello sbaglio, ma, cazzo!, quelle bollicine lo facevano impazzire.
Quella sarebbe stata l’ultima aletta di pollo, era una promessa: poi avrebbe posato tutto, o almeno tutto quello che rimaneva e sarebbe andato a letto.
E avrebbe veramente mantenuto fede ai suoi buoni propositi, se suo fratello non fosse sceso in cucina, non avesse aperto il frigo e non si fosse preparato un sandwich con il prosciutto, sbattendo tutte le ante della dispensa della cucina, tra l’altro.
Sembrava molto nervoso.
Vegeta non pensava fosse così traumatico perdere un genitore: quando aveva saputo che il suo padre biologico era cinque o sei metri sotto terra, aveva scrollato le spalle ed era tornato a storcere il naso per quella immonda schifezza gelatinosa che gli propinavano da mangiare all’ospedale.
La morte dei genitori di Bulma aveva traumatizzato anche lui, non perché non aveva mai visto due cadaveri con la bava alla bocca, riversi in una pozzanghera di vomito, ma la sua carissima, nuovamente, fidanzata pareva trovare pace solo piangendo disperatamente, senza mai prendere fiato e lui ne aveva i coglioni pieni.
Per lei era stato un bene crollare senza più forze sul suo letto o Freezer l’avrebbe ammazzata freddamente tagliandole le corde vocali; aveva detto che uccidere un orfano era facile: niente genitori che muovevano il mondo per avere vendetta.
Aveva bisogno di bere cose forti, non del vino qualunque, voleva abbandonarsi ai super alcolici.
Si sedette malamente sulla sedia e ringhiò, quando addentò il panino: o riservava su di lui la sua frustrazione o avrebbe ucciso Bulma.
“Vegeta, va tutto bene?” Chiese Goku divertito.
Vedere suo fratello dare in escandescenze era uno spettacolo quotidiano che non stancava mai o, per meglio dire, non stancava mai ridere delle sue crisi violente.
“Fatti i cazzi tuoi.”
“Sono cazzi miei. Nella tua stanza c’è  un disperata che urla come un soprano, mi ha svegliato e per colpa sua mi sono mangiato tante di quelle cose che ora rischio un’intossicazione alimentare.”
Pensava di avere dato una spiegazione valida, che servisse anche da permesso per conoscere i pensieri di Vegeta, ma quello gli alzò solo il dito medio in risposta.
“Non fare l’antipatico o salgo di sopra, la sveglio e me lo faccio dire da lei.”
Bulma stava dormendo o non sarebbe riuscito a giustificare in altro modo quel benedetto silenzio: non poteva correre il rischio di riportarla alla coscienza.
Vide un incazzato terrore negli occhi di suo fratello e ne sorrise provocatorio.
“Te lo dico, ma ricattami un’altra volta e ti faccio ingozzare di lassativi.”
Goku trasalì: non erano solo parole quelle, una volta quella minaccia si era concretizzata ed era stata tremenda.
“E’ Bulma: sta facendo come una pazza, perché Freezer le ha ucciso i genitori.”
“In che senso?”
“Hai presente i proprietari delle capsule corporation? Freezer aveva un qualche interesse ad ucciderli e così è stato. E lei ora è disperata e io non so cosa fare.”
In che situazione di merda si era ritrovato senza nemmeno volerlo!
La storia con la Briefs era arrivata al capolinea, lo sapevano entrambi, ma non sembrava il momento giusto per urlare la parola fine: serviva la loro relazione o era meglio servisse, o Vegeta si sarebbe maledetto a vita per quella cazzo di debolezza.
Era così preso dai suoi pensieri e dal suo futuro che non si accorse che Goku era sbiancato come un cencio e aveva una mano davanti alla bocca.
“Vegeta?”
Era un flebile sussurro il suo, detto quasi di getto, con voce tremante e impedita, come da un grosso groppo alla gola: che si sentisse male, dopo tutto quello che aveva combinato in cucina? Quel coglione non aveva il senso della misura!
“Che altro vuoi, maledizione?”
“Per caso i proprietari delle capsule corporation sono quelli ritrovati morti per overdose? Quelli di cui si dice che abbiano tentato il suicidio per problemi finanziari?”
No, non poteva essere. Tutto lo spuntino di mezzanotte stava risalendo dall’intestino.
“Sì.”
“Vegeta?”
“Chiamami un’altra volta e ti uccido. Cazzo c’è?”
C’era che si sentiva una merda!
C’era che aveva passato tutta la serata a maledire mentalmente tutti i piagnistei di quella ragazza, pensandoli azione da mocciose viziate.
C’era che, mentre una sua conoscente stava soffrendo come una disperata, lui mangiava allegramente e pensava all’appuntamento con Chichi di quel pomeriggio e a quanto fosse stato piacevole leccare quelle labbra al gusto di vaniglia.
C’era che era un mostro.
C’era che quella sera avrebbe dovuto dare un taglio agli sbagli.
Buttò la birra e la torta in terra e guardò seriamente suo fratello dritto negli occhi.
“Sono io.”
“Eh?”
“Sono io che ho dato le pillole ai genitori di Bulma, Briefs. Sono io che gli ho uccisi.”



E questo ve l’aspettavate?
Dite la verità, le stronzate nella mia testa sembrano non avere mai fine: ed è meglio sia così, perché questa storia pare infinita e più ho intenzione di concluderla con pochi capitoli, più allungo tutto con questi magici dettagli.
E vi sembrerà strano, ma Goku non è OOC manco sta volta: nell’anime dice, quando Crilin cerca di uccidere Vegeta con la spada: “No, ti prego, non ucciderlo! Mi vergogno per lui, di tutto il male che ha fatto, ma non ucciderlo: è mio fratello!”
E lì sì che mi si è sciolto il cuore e ho detto: “Che carini!”
Comunque, mi tappo la bocca…
Avevo detto che mi sarei presa una pausa, fortuna che è stata breve, fortuna che con la raccolta ho ripreso un po’ di fiducia, fortuna che c’è Sophya che dice di non ascoltare mia cugina che mi dice che scrivo stronzate e fortuna, per voi, che c’è sempre la suddetta cugina che mi ricorda, con un’insistenza che solo la morte può avere. “No, devi finire Justice! Smettila di guardarti i video stupidi su Youtube e concentrati, sennò ti tiro un pupazzo.”
Le avevo promesso che l’avrei ringraziata e visto che se lo merita una volta tanto…Ti voglio bene Ele <3
Che dire? Accontentiamoci di questi aggiornamenti saltuari, ma mai della qualità del capitolo: inutile negare che le recensioni sono calate in maniera notevole, quindi rifaccio la solita domanda: cosa c’è che non va? Cosa è successo a questa storia per far allontanare molti dei suoi fan?
Ditemelo, almeno così capisco.
Nonostante questo, ringrazio di cuore anche chi legge solamente, chi segue, chi ricorda, chi preferisce e continua a recensire questa storia! <3
Io vi aspetto alla prossima, ci spero e vi auguro tante buone cose!

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Capitolo 21
*** 21.21 ***


Non è oro tutto quello che luccica; ma bisognerebbe equamente aggiungere che neppure luccica tutto quel che è oro.
Friedrich Hebbel


Non era un bene quella gamba che si moveva velocemente e nervosamente, perché voleva dire che qualche cosa era andata male, molto male.
Sbatté il palmo sulla scrivania, solo per rompere quel silenzio fatto di respiri calmi.
“Immagino che oggi pomeriggio sia stato con la Briefs.”
Forse era bene non giocare troppo con le parole, non farsi troppi problemi sull’interlocutore che si aveva di fronte, perchè di fronte  alle idiozie tutti erano uguali, anche quel figlio che si era illuso di aver cresciuto bene.
“Già.”
Anzi quello stesso figlio era pure peggio degli altri, perché non aveva quello sguardo tremante segno della consapevolezza dell’errore commesso.
“Immagino anche che ti abbia chiesto di farle compagnia e di non lasciarla sola?”
E immaginava pure che poi si fossero presi un gelato, si fossero ficcati in macchina e avessero scopato e infine che fossero stati abbracciati, fermi e immobili, senza parlare, tutto nel vano tentativo di distrarre Bulma dalla morte dei suoi genitori.
E a quanto pare i perfetti coniugi Briefs non avevano mai saputo insegnare alla figlia il valore della vita, quello della morte e come a questa si reagisce giustamente.
Magari quando alla bambina era morto il pesce rosso, lo avevano sostituito senza mai dirglielo; d’altro canto lei non si era domandata mai perché quel pesce rosso potesse vivere per più di tre anni.
“Se devi dirmi qualcosa, fallo, senza fracassarmi le palle.”
Lo odiava quando faceva l’uomo arrogante e frettoloso, era solo un ragazzino, ma forse aveva ragione.
Non contava l’affare di droga che aveva fatto saltare quel pomeriggio, non contavano i soldi persi per colpa di quella ragazzina, contava solo che lui tornasse con la mente lucida.
“Ti stai facendo distrarre da quella mocciosa e per di più senza  motivo. Stai sempre con lei, corri appena ti chiama e ti ricordo che devi superare l’esame di maturità e non ti vedo toccare libri da settimane.”
Era normale che un genitore stesse in apprensione per un figlio. Era normale che cercasse di farlo rinsavire, ma non era giusto costringerlo a farlo.
Che si facesse bocciare! Lui di certo non l’avrebbe ripudiato, non l’aveva fatto con Goku, perché l’avrebbe dovuto fare con Vegeta?
Ma se voleva diventare avvocato era bene non perdere l’anno, né il senno per una stupida ragazzina.
Se Vegeta aveva deciso di affondare, chi era lui per impedirglielo? O forse aveva deciso, proprio come suo fratello, di intraprendere un’altra strada? Di diventare un uomo che gli altri avrebbero detto buono.
“Non mi dire che ti senti in colpa perché ho fatto uccidere i suoi genitori.” Lanciò quella frecciatina con voce cattiva. Odiava l’incoerenza.
“Nemmeno un po’. Ma non la voglio vedere stare così male.” Non era pietismo, forse solo amore per Bulma.
Freezer prese l’agenda sulla sua scrivania e se la rigirò tra le mani, giocandoci.
“La ami, per caso?”
“Non ti interessa.”
“Mi dispiace, perché se l’amassi, ti potrei dire che stai facendo il suo male. Che un conto è aiutarla, un altro abituarla alla tua presenza e al tuo costante ausilio. Arriverà il giorno in cui per forza di cose sarà sola, non ci sarai nemmeno tu, e quel giorno potrebbe non farcela contro un qualunque imprevisto della vita.”
Si stavano rovinando quei due. Erano ancora due bambini, non erano fatti per innamorarsi e vivere una favola, prima c’era la vita, quella vera.
E quel bambino ora sembrava ascoltare con interesse quei consigli da uomo vissuto, forse per il tuono suadente, forse perché parevano giusti.
“E quindi, grande uomo, che mi consigli di fare?”
Però era facile parlare da dietro la scrivania, senza essere lui stesso nella merda e nella confusione.
“Ti consiglio di decidere. Vuoi che sia una donna forte e indipendente o che non possa vivere senza la tua presenza? Vuoi che il giorno in cui avrà un problema lo affronterà o vuoi essere tu il problema per cui non ci riesce?”
Libertà o schiavismo? La difficoltà stava nell’altruismo: scegliere il bene per l’altro, dimenticandosi di sé e pensando come un altro.
Però Vegeta l’amava e non voleva il suo male
“Vegeta scegli: o la lasci o la lascerai morire.”
E Freezer lo disse con un tono così eloquente e malizioso, che non era difficile intuire di cosa sarebbe potuta morire.                                                                                                 ******
L’avrebbe lasciata vivere.
Lo faceva perché l’amava.
Ci aveva dovuto ponderare una notte intera, ma alla fine, alle quattro di mattina, aveva deciso cosa fare del domani e dell’avvenire futuro.
Tuttavia nel presente immediato aveva bisogno di un diversivo, di un respiro di libertà o solamente un sospiro di libera carnalità.
Non era mai stato difficile trovare una ragazza e non fu difficile convincere la puttanella di turno ad aprire le gambe e scopare davvero con poco ritegno.
Basta pensare a Bulma! In quel momento doveva pensare solo alla sua bocca sul seno della ragazza…e anche al telefono che squillava.
Rispose purtroppo con una voce troppo vispa: sicuramente gli avrebbe chiesto di andare da lei,perché non aveva spento il cellulare?
“Vieni.” Sussurrava tra i singhiozzi.
“E’ tardi, ci vediamo domani. Prova un po’ a dormire.”
Solo dopo si accorse di aver detto una stronzata! Erano giorni che Bulma bramava riposarsi ed erano giorni che non ci riusciva, se non prendendosi quei sonniferi che lo psichiatra le aveva prescritto.
Ogni parola le moriva in gola, allorchè cercava di pronunciarla e un singhiozzo la vinceva.
“Non ce la faccio. Ti prego, vieni. Non voglio stare sola.”
Sospirò esasperato e cercò di mantenere un tono pacato, così diverso dai suoi canoni.
Perché tergiversare ancora? Non era bene!
Perché prendere tempo? Non c’era motivo.
“Vengo a fare cosa? Non ti lasciano uscire di casa nel cuore della notte.”
“Non mi lasciare per favore. Vegeta ti prego, vieni” Scoppiò in un pianto disperato e incontrollato.
Stava facendo il suo male. Doveva lasciarla.
“Resto al telefono, finchè non ti addormenti.”
Era proprio una persona cattiva.
“Ti ho detto che devi venire.” Urlò senza rabbia e con molta delusione.
Quella situazione non poteva continuare.
Si leccò le labbra e ascoltava ogni insulto che Chichi gli stava rivolgendo, senza esserne offeso o risentito.
Non gli interessava il giudizio di una ragazzina che non capiva niente.
Cazzo, gli stava girando la testa e il pianto di Bulma non lo aiutava a rilassarsi, fortuna che la biondina sotto di lui gliel’aveva preso tra le mani e stava incominciando a muoverlo e, nonostante fosse brava, molto brava, Vegeta pensava solo che la Briefs si sarebbe incazzata se avesse saputo e che l’avrebbe lasciato immediatamente.
Sgranò gli occhi per il piacere. Non per quella troia che lo stava toccando, ma perché quella troia avrebbe toccato Bulma.
Lasciò il telefono aperto e se la scopò, cercando di essere il più rumoroso possibile, consapevole che quella ficcanaso avrebbe sentito quei rumori, avrebbe indagato su quei rumori e avrebbe riconosciuto quei rumori.
E sarebbe stato il suo bene.


Sul coltello, sporco del sangue di Freezer, non erano state trovate impronte digitali che non fossero state dello stesso morto.
Il suicidio pareva davvero essere vero.
Che poi, tra interrogatori, non si era trovato nessun movente per un presunto omicidio o semplicemente non si riusciva a pensare altro che non potesse essere la bramosia di ricchezze.
Goku e Vegeta non aveva motivo di uccidere il genitore per accaparrarsi una cospicua parte del testamento: Freezer era morto nulla tenente; tutto quello che aveva posseduto era sempre stato intestato ai suoi figli.
“Ci dispiace di avervi trattenuto così tanto e rinnoviamo le nostre condoglianze per la vostra perdita.”
“Grazie e buona giornata.”
Non vedevano l’ora di andarsene da quel posto che frequentavano già troppo spesso per lavoro.
Nelle ultime tre settimane erano stati costretti a passare tutto il loro tempo, circondati da poliziotti curiosi e da quelli inesperti che facevano cadere scartoffie e documenti a terra.
Ordinarono una pizza, si misero in macchina e guidarono verso la periferia delle città, per mangiare e passare del tempo da soli, lontani da occhi e orecchie indiscrete: Era la volta buona che cenassero assieme, solo loro due, senza accuse di presunto omicidio e senza diversità; era la volta buona che cenavano da bravi fratelli.
Erano esasperati, affamati e poco vogliosi di tornare a casa dalle loro carissime donne in preda a isterismi da gravidanza una e mestruazioni l’altra, anche se Vegeta sarebbe dovuto tornare a casa; e non c’entrava l’apprensione paterna o l’amore per Bulma: aveva paura di cosa quella donna potesse combinare, sola a casa e esaltata per le varie lettere minatorie scritte con il sangue che le erano state spedite anonimamente.
Bulma poteva rovinare tutto, poteva farli scoprire, poteva essere la loro morte.
Sputò nervosamente il fumo fuori dalla bocca: doveva tranquillizzarla. Trovare quel pazzo, che si divertiva a stuzzicarla, e ucciderlo. Doveva risolverle quel problema.
Goku addentò vorace una generosa fetta di pizza.
“Hai idee su chi possa aver aggredito Bulma? Magari qualcuno che ti odia.”
Aveva la faccia da tonto, ma il poliziotto conosceva bene suo fratello e poteva giurare che, dopo che si era fumato tre sigarette in cinque minuti, Vegeta fosse preoccupato per qualcosa.
“Sono tanti.” Sincerò con un riso tra il soddisfatto e il rassegnato, che fu contagioso.
“Qualcuno che odia lei?”
“Cambia discorso.”
Buttò la cicca fuori dal finestrino e si sistemò sul sedile, chiudendo gli occhi dalla stanchezza.
Da quando Freezer era morto si era dovuto occupare di far accoppare sei persone che speravano di sovvertire l’impero Ice, pensando di avere il compito facilitato non avendo più il padrone alle calcagna.
E non gli erano pesati i sensi di colpa o i rimorsi di coscienza, non sapeva nemmeno come si chiamavano i sei nuovi morti, quanto mantenere quell’aria di incolume innocenza e far ricadere la colpa sulla natura o su un incidente.
Trattare con la gente lo indisponeva parecchio e per far sembrare tutto pulito aveva avuto bisogno di parlare e venire a patti con troppa gente, più di quella che poteva sopportare.
I prezzi della corruzione salivano sempre di più e bisognava di denaro per pagare.
“Ok, come vuoi tu: parliamo di donne.” Il poliziotto sembrava tonto con quel sorriso da ebete.
Non che non fossero un problema, ma ci si poteva almeno ridere su e poi tutte quelle ultime manovre di Vegeta incuriosivano Goku.
Aveva lasciato Irene dopo tanto tempo e stava diventando padre.
Entrambi sorridevano quel sorriso diverso che voleva significare la stessa cosa: solare e sarcastico: in fondo non c’era un modo sbagliato di vivere lo scherzo.
“Mi dispiace, tesoro, non sei il mio tipo.”
“Lo so, lo so non posso competere con Bulma, nemmeno Irene c’ha potuto e sembra così perfetta.”
“Sembrava così perfetta.”
Già non era più. Ma, quando ancora non era ricoperta da vermi che cercavano di decomporle le membra, era davvero splendida, di poche parole e furba.
Peccato che fosse scema, troppo presa dall’amore e più di una volta si stava facendo scoprire per una delle sue famose scenate di gelosia.
Se fosse stata solo un po’ più cauta e razionale, non avrebbe mai avuto il bisogno di sbarazzarsi di lei, non avrebbe avuto il bisogno di incominciare a plagiare la Briefs né di sopportarla.
“Perché sembrava? Lo sembra ancora e poi è sempre più bella.”
Goku aveva finito la pizza, non una fetta, proprio tutta, anche la parte di Vegeta.
La verità era che era un pozzo senza fondo.
“E’ morta.” Confessò malinconico.
Goku scoppiò a ridere divertito e orgoglioso: chi l’avrebbe mai detto che quello sagace e intuito sarebbe stato infine lui e non il dottore in legge di suo fratello?
“E’ vero che è morta, come è vero che Bulma era la colpevole di quei quattro omicidi o è vero come è vero che tu non l’hai mai tradita o come era vero che i signori Briefs si fossero suicidati?”
Vegeta guardò suo fratello sconcertato.
“Giusto.”
“E’ vero.”


Se non avessi preso al balzo la palla dell’ispirazione, probabilmente avrei aggiornato tra mesi. xD
Questo capitolo si è scritto da solo e so che non ci sono i colpi di scena a cui vi avevo abituati, ma è il momento di dire basta, è il momento di incominciare a svelare gli altarini, è il momento di dirigersi verso quella fine che sembra, anzi è!, davvero così difficile.
So bene che ancora non avete capito il personaggio, il pensiero e la funzione di Goku, ma c’è tempo e poi che gusto c’è a svelare tutto ora?
Questo capitolo richiede una sforzo mnemonico un po’ difficile:
Vi ricordate il capitolo 9 in cui Vegeta diceva a Bulma di fidarsi di lui, di credere che lui non l’avesse tradita?
E vi ricordate invece qualche capitolo dopo, il 12 mi sembra, in cui confessa che l’ha tradita?
Bè, signori: dove starà mai la verità?
Ovviamente l’ha tradita fisicamente, ma a quanto pare non hai mai tradito l’amore che ha per lei, né il suo proposito di aiutarla e salvarla dal male che aveva quando voleva impedirle di vedere i genitori morti.
Col senno di poi il tradimento è stato bene o è stato male? Non tutto è come sembra possiamo quindi desumere. ;)
Sono mentalmente malata, la verità è questa. xD
Spero che apprezziate questo capitolo e tutta la fantasia e le seghe mentali che ci sono dietro. xD
Ringrazio tutti: chi legge, chi segue, chi ricorda, chi preferisce e specialmente chi recensisce! <3
Ho fretta gli errori li correggo stasera!
Alla prossima, sperando che sia a breve….<3


 

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Capitolo 22
*** 22.22 ***


Cara Sophya, ti avevo detto che avresti vinto un premio, no?
Non so fino a che punto Justice possa essere considerata un premio, ma ecco a te. xD

 
Solo gli imbecilli non si sbagliano mai. 
Charles De Gaulle


Aveva fatto riesumare la bara di Irene e l’aveva trovata vuota.
Goku si era rivelato più intelligente di quel che la sua poco brillante carriera scolastica aveva pronosticato.
Aveva iniziato a pensare come se Irene fosse viva e, visto che il mondo la sapeva morta, aveva senza dubbio avuto bisogno di qualcuno che vivesse per lei o che le fosse complice.
Irene aveva i capelli rossi, ma con una parrucca bionda avrebbe potuto fregare tutti quei popolani.
Restava da capire però come avesse fatto a non morire, Vegeta si rifiutava di credere fosse di stirpe divina, o perlomeno come fosse uscita dalla sua maledetta bara.
Irene era agile, era discreta, ma non era una mente: svolgeva bene il suo lavoro, ma aveva bisogno di qualcuno che gli comandasse di farlo.
Di quale organismo perverso era il braccio?
Vegeta non sapeva a chi pensare: nessuno tra gli uomini di Freezer avrebbe provato un tradimento affidandosi ad Irene.
Nessuno l’aveva mai voluto contraddire…

Forse stava dormendo, forse si stava facendo intrattenere da qualche zoccola, forse picchiando in quella maniera disperata sulla porta avrebbe potuto svegliare pure Bulma, ma poco gli fregava.
Doveva parlare con Freezer, doveva chiarire con Freezer e poco gli fotteva degli altri o dei luoghi comuni che volevano che alle due del mattino non fosse bene svegliare una persona con un bussare monotono e pesante.
“Freezer, cazzo apri!”
Non riusciva a trattenersi, si sentiva colpevole e pensava che un pentimento dichiarato accompagnato da una denuncia potesse salvarlo.
“Freezer, maledetto, fammi entrare.”
Entrò nella stanza, nella stanza di un uomo incazzato fino alla morte e assonnato, quando ormai era quasi senza voce e quando le nocche erano diventate rosse per l’attrito.
“Questa notte sembra proprio male dormire. Prima le urla della troietta di tuo fratello ora tu e i tuoi isterismi. Ma che cavolo vi è preso?”
Erano soli in una stanza buia: un ragazzo deluso e spaventato dallo sbaglio e un uomo disilluso e sbagliato.
Erano soli e si guardavano, uno perché non sapeva cosa dire, l’altro perché non sapeva come dire e se dire quel che aveva da dire.
“Mi devi dire qualcosa, figliolo? O mi hai svegliato per il puro gusto di farlo?”
E pretendeva una risposta intelligente o l’avrebbe potuto strozzare con quelle mani, ancora intorpidite dal sonno.
Non era giusto!
Non era giusto che in quella stanza, la stessa stanza in cui da bambino dormiva con suo padre, quando aveva la febbre, dovesse essere il luogo delle recriminazioni dello sbaglio.
“Uccidere è sbagliato!” Urlò sottovoce, con il labbro tremante.
“Lo so.”
“Come hai potuto farmi uccidere allora? Perché mi hai fatto uccidere i genitori di Bulma?”
“Io so che uccidere è sbagliato, ma tu non lo sapevi e infatti hai accettato.”
C’era bisogno di macchiarsi la coscienza per avere conoscenza? C’era bisogno di provare e sperimentare per capire?
Uccidere sarebbe dovuto essere sbagliato a priori, è sbagliata la limitazione della libertà degli altri.
“Perché non mi hai detto che uccidere è sbagliato?”
Freezer roteò gli occhi al cielo. Che momenti erano quelli per parlare di certe stronzate.
“Perché davvero non è mio compito dirti quello che devi pensare.” E santo cielo, che crescesse!
Che si prendesse le responsabilità delle proprie azioni, che sapesse quello che un giorno avrebbe voluto fare o pensare.
Era passata l’età in cui quel bambino aveva cinque anni e bisognava dirgli di non mettere la mano sul fuoco perché caldo, ma nonostante tutto, quella volta, si era bruciato.
“Crederesti che uccidere è giusto se io ti dicessi che farlo è tale? Cresci, Goku. Cresci.”
Il suo genitore gli stava voltando le spalle. Lo stava abbandonando. Gli stava facendo male, proprio quando ne aveva più bisogno, proprio quando aveva ucciso due persone per ignoranza.
E fare del male era sbagliato.
“Ok allora dico che uccidere non è giusto, che quello che fai tu non è giusto e che io non voglio averci più niente a che fare. Smetto di fare del male alla gente, smetto di uccidere. D’ora in avanti farò solo la cosa giusta.”
“Ah, sì?” Era scetticismo quello di Freezer.
Complotti, strategie, affari in losco.
No, non era quella l’infelicità che voleva vivere.
Avrebbe rinunciato ai soldi, agli agi e ai lussi che la speculazione di Freezer gli aveva concesso di diritto e avrebbe fatto solo la cosa giusta.
“Sì, farò il poliziotto e tu non me lo impedirai.”
“Non te lo impedirò certo io, anzi ti aiuterò, ti pagherò l’accademia più prestigiosa e sarò fiero dei tuoi successi, ma ricorda…”
Si avvicinò con passo cadenzato a lui, solleticando l’orecchia con la punta del naso gelido.
“…ricorda che i poliziotti, gli avvocati, i giudici, gli uomini di legge in generale non è detto che siano anche uomini di giustizia. Sai? Uccidono e ingannano pure loro…”


Satan!
Aveva convocato nel suo ufficio Satan, forse avrebbe saputo qualcosa, in fondo lui era l’unico che fosse andato al funerale di Irene.
“Non so perchè ma Irene potrebbe essere viva, anzi lo è.”
Quell’ufficio era molto soleggiato e troppa luce alla bugia dava fastidio.
“Impossibile.” Il giudice sudava, quel giorno era particolarmente caldo.
Il giudice aveva un colorito molto pallido, quel giorno sarebbe stato male.
Iniziò a balbettare e a tremare sulla poltrona.
“I morti sono morti, non possono tornare in vita.”
Il giudice rideva ogni parola che diceva e si grattava la fronte spaziosa.
“E poi mi ricordo benissimo quando hanno chiuso la barra con lei dentro e l’hanno seppellita. E’ morta, è sicuramente morta.”
“Ho motivo di pensare che sia viva.” Il giovane avvocato inquisì ulteriormente.
Cos’era quel forte rumore? Forse il cuore di Satan che batteva all’impazzata?
Forse il suo respiro corto e concitato?
“No, no, impossibile. E’ dentro una bara, c’ero solo io al funerale, chi mai potrebbe sapere qualcosa meglio di me? Fidati.”
Già, c’era solo lui…
Maledetto bastardo!
Vegeta si morse il labbro e andò indietro con la schiena sulla sua poltrona di pelle, avrebbe voluto che lo schienale lo risucchiasse.
“Hai ragione tu. Probabilmente sono solo suggestionato, dopo che la mia compagna è stata aggredita.”
Pareva un uomo distrutto, ma non lo era per la saluta precaria di Bulma, come credeva Satan.
Eppure quella banale e comune dimostrazione d’affetto tranquillizzarono l’uomo che non riconobbe nulla di strano in quell’apprensione per una donna che, se ci avesse pensato bene, non aveva così influenza su Vegeta, proprio come nessuno.
“Mi dispiace per lei. Sta bene ora?”
Cambiò discorso. Sentì l’esigenza di cambiare discorso.
Vegeta odiava la gente impicciona e curiosa.
“Vattene ora, ho da fare.”
Che freddezza, che sguardo penetrante e caustico.
Satan fu contento di andarsene; si congedo con garbo e rispetto, perché quell’uomo lo terrorizzava e lo terrorizzavano anche le sue minacce non dette.
Quando Vegeta lo vide attraversare la strada e entrare in macchina, quando ebbe la conferma che non era così vicino da sentire e vedere i suoi pensieri, tirò un calcio alla scrivania, rovesciò il computer e chiamò urlando Bulma che aveva l’ufficio accanto al suo.
Quel bastardo l’aveva tradito e lui era furioso, ma  non avrebbe permesso che la vendetta fosse pianificata dall’ira, avrebbe agito con ragione.
“E’ successo qualcosa?” Era preoccupata di vedere Vegeta nervoso, con la faccia deformata da una smorfia di non sapeva quale pensiero più che emozione.
“Intercetta ogni chiamata di Satan sia sul cellulare, sia sul telefono di casa. Dì a Dodoria di farlo pedinare. Voglio conoscere ogni suo minimo movimento, ogni sua parola.”
“Vegeta tutto bene?”
Picchiettava forte sulla scrivania e non sembrava preoccupato di stare rompendo una penna stilografica, né di macchiarsi la camicia bianca immacolata con l’inchiostro blu.
“Abbiamo sbagliato. Irene a quanto pare è viva e Satan l’ha aiutata. È giusto ucciderli.”

“La legge è la giustizia e gli uomini di legge non commetterebbero mai ingiustizie.” Goku si era alterato.
“Non ucciderebbero mai, loro. Perché uccidere è sbagliato.” Goku era alterato e convinto di quel che diceva.
“Visto che sai che uccidere è sbagliato, immagino che mi saprai anche spiegare il perché.”
Al diavolo! Quella notte non avrebbe più dormito, almeno con il piacere che anche Goku avrebbe passato una notte insonne.
Perché aveva sbagliato. Sì aveva sbagliato a non pensare prima di parlare, prima di agire, prima di tutto!
“Allora tesoro, perché uccidere è sbagliato?” Freezer si sedette sul bordo del letto e non si sarebbe mosso finché suo figlio non gli avesse dato una risposta pensata.


Uccidere era davvero sbagliato, perché si privava una persona della possibilità di sbaglio.
Eppure se uccidere era sbagliato e lo sbaglio era una cosa buona e giusta anche uccidere sembrava essere buono e giusto.
Una notte fredda, una città affollata: erano i presupposti ideali per commettere un omicidio.
Alla luce della notorietà pubblica, così che, tutti abbaiati, non riuscissero a capire chi fosse l’omicida.
Era utile anche la confusione, perché permetteva di uniformarsi alla massa e di passare quindi inosservato.
Quante coppiette passeggiavano mano nella mano, lungo il corso principale, scambiandosi di tanto in tanto sorrisi sinceri?
Quanti uomini portavano jeans scuri e un cardigan di lana durante un appuntamento di non vitale importanza?
Quante donne cercavano di apparire forti, reggendo una lunga camminata sopra tacchi vertiginosi?
Tanti. Troppi. Tutti.
Il conformismo era sbagliato, ma tra la moltitudine della moda e di quei comuni principi, come si sarebbe trovato il colpevole?
Vegeta camminava, tenendo stretta la vita di Bulma e per la prima volta quella di suo figlio.
Poteva avvertirlo da poco sotto quella pancia vagamente gonfia e prominente da fare quasi ridere confrontata con la magrezza quasi scheletrica di lei.
A lungo andare il serrato spionaggio su Satan aveva dato i frutti sperati e dopo cinque mesi, Vegeta aveva la certezza di dove recarsi per poter fottere quei due stronzi.
Che la paranoia dei messaggi minatori scritti col sangue finisse.
Che finissero le chiamate dal mittente sconosciuto.
E che Bulma vivesse la gravidanza senza tutto quello stress e non per la sua salute, tanto per quella del bambino: non voleva che il bambino fosse deviato e ansioso e emotivo come sua madre.
La strinse a sé e le baciò la nuca; più camminava, più non riusciva a motivare la sua scelta di portarla con sé e con Goku: suo fratello, non certo il poliziotto.
Si recarono discretamente alla vecchia casupola abbandonata della periferia, a quanto pare era lì che Irene aveva vissuto senza dare nell’occhio in quel tempo, e si nascosero tra i rami secchi e le fronde lussureggianti degli alberi.
Ingoiarono il loro respiro e si rilassarono, aspettando l’arrivo di Irene e Satan.
Quella sera sarebbero morti e stavolta non si sarebbero sbagliati.
Bulma si girò verso Goku e guardò i suoi occhi neri e allegri.
Era sbagliato che fosse in quel posto, tutto di quella persona era sbagliato.
“Tu sei un poliziotto. Non dovresti fare certe cose.”

Quello che aveva visto era stato schifoso.
Mazzette, bustarelle, corruzione e un disgustoso affarismo: sebbene Goku avesse intrapreso la carriera di poliziotto, non trovava differenza tra il suo presente e il suo passato del mondo di Freezer.
C’era del marcio nella legge, così come c’era nell’illegalità.
E allora cos’era cambiato?
Semplicemente che la legge era finta e religiosa.
Dopo l’ennesimo episodio di un poliziotto che abusava della sua autorità per aver privilegi, si sentì sconsolato e sentì il bisogno di tornare a casa, non nel suo pidocchioso appartamento, voleva tornare nella villa sontuosa di Freezer.
Era proprio deluso da quel mondo di legge, mentre Chichi ne sembrava innamorata e seguitava a voler terminare i suoi studi in giurisprudenza.
Chichi era ligia al dovere, alle regole e si sentiva soddisfatta nell’osservarle, eppure Goku aveva scorto nella legge le più grandi contraddizioni, il più finto perbenismo, le più immorali volontà: non voleva insinuare fossero un male assoluto, tuttavia non diceva che fossero il bene.
Non poteva essere diversamente o non sarebbe riuscito a spiegarsi il motivo per cui Vegeta avesse tanto voluto fare l’avvocato.
Già suo fratello. Forse più dello sguardo amorevolmente deviato di suo padre, aveva bisogno di quella freddezza che lo spingesse a lottare o perlomeno chiarirsi le idee.
Guidò fino a casa sua, salì le cinque rampe di scale, bussò alla porta.
“Disturbo?” Domandò speranzoso.
“Sì.” In effetti aveva i capelli spettinati, gli occhi un po’ arrossati e uno spinello tra le dita.
Dicevano che la droga era sbagliata e faceva male, annullava le facoltà intellettive e la volontà. Ma da che pulpito veniva la predica! Da tutti quelli che si lasciavano bombardare il cervello dalla tv e dalla pubblicità!
Invece per loro era un bene sapersi regolare e avere il controllo del piacere e non farsi schiavizzare.
Che male c’era a concedersi uno spinello? Non poteva essere equiparato a un bicchiere di assenzio?
Il problema era la dipendenza, ma sia Goku che Vegeta erano liberi.
“Va bene, allora entro.”
Lo spinse dentro e si richiuse la porta alle spalle.
“Ma che problemi hai?” Chiese l’avvocato infastidito.
Sicuramente Vegeta non era interessato ai suoi pensieri, ma voleva avere un ammissione imbarazzata della sua presunta insanità mentale.
“Non sono più sicuro di volere fare il poliziotto.”
Dopo tutto il casino che aveva fatto per volerlo diventare?
“Scherzi?” Vegeta ci sperava davvero perchè non era in grado di affrontare la crisi di mezza età di suo fratello di soli ventisette anni.
“No, non è quello che mi aspettavo e Freezer aveva ragione. Io volevo difendere la giustizia, ma certe leggi non sono mica giuste e i poliziotti non sono mica tutti giusti.” Non era libero di raggiungere il suo obiettivo ecco cosa.
C’era un impedimento non irrilevante che era le istituzioni costruite dagli uomini che erano sbagliati.
L’avvocato sospirò e si decise a parlare: se voleva presto tornare ad essere solo, o non proprio, doveva soddisfare Goku e placare il suo dubbio.
“Come la morale trascende le azioni dell’ uomo, pure l’uomo giusto dovrebbe poter trascendere l’umanità, non trovi?” In effetti la morale era superiore al buon senso comune e la giustizia era superiore alle leggi.
Quel mondo era totalmente sbagliato e lui non l’avrebbe mai potuto cambiare: l’unico modo per sconfiggere un nemico del calibro del luogo comune era non farsi plagiare e fottersene degli altri plagiati.
Il mondo era gli altri, era la società, era la convenzione, ma bisognava essere liberi di pensare, bisognava essere superiori.
Non bisognava essere il mondo, bisognava averlo in pugno.
“Se fai il poliziotto, nessuno ti impedirà di fare lo stesso la cosa giusta.”
Trovare la propria realizzazione in ruoli prefabbricati era difficile, se non impossibile ma non arrendersi alle pressioni era bello e felice, seppure non facile.
Goku sembrava ora persuaso e soddisfatto della risposta che probabilmente non avrebbe mai saputo trovare in giro, tra la gente.
La verità era che doveva essere superiore a tutti e a tutto.
“Alla libertà, fratellone.”
“Alla libertà.”
E entrambi si portarono lo spinello alla bocca.
Uno starnuto femminile li riportò alla realtà degli altri e non solo loro.
“Comunque chi è la fortunata che avrà l’onore di essere usata da te, stavolta?”
Vegeta sorrise innocentemente colpevole.
Solitamente agiva da figlio di puttana, ma quella volta aveva fatto una cosa buona e giusta.
“Si chiama Irene e stasera non me la scopo. E’ una che stavano cercando di violentare al porto. L’ho notata e l’ho salvata.”
Quella storia aveva del paradossale: Vegeta che si comportava da messia? Impossibile.
“E come l’avresti salvata?” Goku voleva continuare a ridere di quella storia.
“Ho atterrato il tizio con un pugno e poi gli ho sfracellato la testa al suolo. Un po’ cruento, ma la ragazza mi ha ringraziato.” Con quel pizzico di voluta violenza la storia del salvatore sembrava già più credibile.
Aveva salvato una vita, sacrificandone un’altra: la vita di un’innocente per quella di un lestofante?
La vincita era maggiore della perdita in termini utilitaristici, ma allora certe volte uccidere era giusto, anche se la società diceva no?


“No, io sono Goku e faccio il poliziotto.”
Sembrava trascorso un tempo infinito, tuttavia alla fine Irene era arrivata e con lei Satan.
Quei due erano stati puntuali con il loro appuntamento con la morte: erano encomiabili.
Bulma fremeva, Vegeta invece pareva esitare e osservava Irene e sentiva quello che diceva e la sua voce non gli era mancata mai così tanto.
Era bellissima, aggraziata e poco frivola, aveva solo un unico grande difetto: la stupidità.
Eppure quella volta, sebbene avesse agito contro i suoi interessi, Vegeta apprezzava l’iniziativa di quel piano per fotterlo.
E se non l’avesse uccisa? Non voleva ucciderla, ma per gli altri già era morta e, giusta o sbagliata la causa, era giusto che rimanesse morta e non turbasse l’ordine.
Maledetti gli altri e le loro paure, maledetta quella poca elasticità mentale.
Avrebbe ucciso Irene, anche se probabilmente l’amava.
“Aspetti che muoia di vecchiaia?” Bulma invece era insopportabile.
Chi con più chi con meno solerzia, si palesarono da dietro il cespuglio e si stagliavano imponenti in tutti i loro sbagliati fini e pensieri.
Vegeta, Bulma e Goku avrebbero ucciso
Obbligo. Vendetta. Giustizia: c’era un giustificazione valida per la morte?
Ma ogni giustificazione sembrava buona contro la casualità deterministica non intellegibile della natura all’uomo arrogante.
“Giudice Satan non è bene incontrarsi con i morti, non è bene complottare. Non è bene tradire.”
Aveva parlato Goku, sembrava essere l’unico ad aver mantenuto una certa lucidità.
“E chi lo dice?”
“La società.”
Il giudice tremava e Vegeta, Bulma e Irene erano i protagonisti di un mortale triangolo amoroso e si guardavano fissamente con pari intensità di diverse sensazioni.
Sembravano diventati estranei a tutto, sembravano voler conoscere solo loro stessi e i profondi rapporti che legavano i loro sentimenti.
Il poliziotto avanzò con passo tranquillo, verso la sua vittima.
Lo uccideva perché aveva sbagliato, perché aveva tradito i suoi ideali ancora prima di aver tradito gli altri, perché Goku non si capacitava di come un giudice potesse usare metodi ingiusti, perché non voleva che Bulma fosse condannata alla forca.
Non avrebbe potuto avere indietro i suoi genitori, ma perlomeno non sarebbe morta solo perché cercava di farsi giustizia, seppure sommariamente e ingiustamente.
Aveva sbagliato Goku e non era giusto che Bulma pagasse le condanne degli altri.
“No, no, non farmi del male.” Cadde a terra col sedere e cercò di indietreggiare, strofinandosi sul terriccio umido dalla notte.
Era paralizzato, era terrorizzato perché sapeva di aver sbagliato e non semplicemente quando aiutò Irene, ma quando si sottomise a Freezer rinnegandosi come persona.
Quello che Goku stava facendo era sbagliato e non sapeva, ma era proprio quello che gli uomini volevano: sbagliare e lui chi era per privare l’umanità dalla possibilità dello sbaglio?
Eppure era giusto anche punire lo sbaglio, così il suo gesto avrebbe assunto anche un connotazione divina.
Prese la pistola che aveva in tasca e la puntò contro Satan. Non puntò al cuore, né agli altri organi vitali: sparò nelle braccia e nelle gambe e ad ogni proiettile conficcato nella carne, corrispondeva un urlo virile e agghiacciante.
Ci furono cinque colpi di pistola, cinque strazianti fonti di dolore nel corpo del giudice.
La morte sembrava tanto bella in mezzo a tutto quello strazio.
“Io non ti ucciso, ti ho solo ferito. Sta a te riuscire a non morire.”
E Satan urlava e piangeva, si strappava i capelli a ciocche.
Non scherzavano quelli, no gli uomini erano sempre stramaledettissimamente convinti della giustizia delle loro azioni.
Irene si allarmò e indietreggio alle parole dell’altra donna.
“Mi dispiace è arrivata la morte.”

Anche quella sera era arrivata puntuale.
Era entrata in punta di piedi dalla porta semi aperta e l’aveva raggiunto in bagno.
Lui coperto da acqua, sdraiato nella vasca, con la testa appoggiata al bordo;
Lei alzata e vestita di tutto punto, con l’impaziente voglia di abbracciarlo.
Si spogliò in fretta, mantenendo una dignità sensuale, quando fece scendere le mutande in pizzo giù per gambe.
Entrò anche lei nella vasca, senza saggiare prima la temperatura dell’acqua, non le importava di certo di scottarsi o congelarsi.
Come sempre, si fece spazio tra le sue gambe e si coricò sul suo pube, senza salutarlo, senza rivolgergli parola, e, come sempre, lui le inserì una mano tra i capelli, cominciando a carezzarle distrattamente la nuca.
Vegeta era insofferente per le troppe parole e Irene parlava poco.
Vegeta era svogliato per fare sdolcinatezze e Irene si accontentava di quel contatto frettoloso e superficiale.
Irene era perfetta: riusciva a tollerare e a farsi piacere tutte le manie infantili di Vegeta, ma quella volta l’esperienza gli diceva che non avrebbe accettato di buon grado ciò che le stava per dire.
Vegeta amava Irene, ma certe volte era così infantilmente gelosa che l’avrebbe voluta uccidere con quelle stesse mani che si stavano facendo baciare dalle sue labbra.
“Domani sera devo andare con Freezer ad una cena d’affari.”
“Ti aspetto sveglia, se vuoi.”
Si girò su un fianco e si strinse alla sua gamba, come fosse stato un koala, e non gli spiacque per niente, quando Irene leccò l’inguine, ma farla incazzare, quando era così pericolosamente vicina con i denti ai suoi testicoli, non sembrava una buona idea, ma era giusto che sapesse e soprattutto era giusto che non si abbandonasse a quell’isterismo tipico della fallita.
“Non è questo il punto. Freezer è interessato a una persona e io la devo avvicinare, facendo qualche moina, illudendola un po’.”
Era stato innaturale quel repentino cambiamento: aveva sbarrato gli occhi che teneva socchiusi e serrato la mascella che aveva licenziosamente aperto.
Sperava che non desse di matto, ma gli occhi d’Irene erano verdi di gelosia.
“Perché non mi dici chiaramente che non vuoi stare con me?”
Aveva iniziato ad urlare e Vegeta odiava le sue grida.
“Non fare la melodrammatica. Ho detto che devo fare il carino con una ragazzina, non ho mai insinuato che non voglio stare con te.”
Si alzò in piedi e, con l’aria gelida dell’inverno, la pelle bagnata delle spalle si sentiva a disagio.
“Non lo dici, ma poi alla fine della storia sono sempre io la cornuta.”
Irene aveva un corpo minuto eppure perfetto, Vegeta adorava guardarlo e toccarlo, ma certe volte gli veniva a noia.
Era successo già troppe volte che lei lo trovava a letto o in ufficio a intrattenersi con un’altra donna e il copione era sempre uguale e usualmente triste.
Lui sbagliava, lei faceva una scenata, lui si innervosiva e, paradossalmente, era lei che si scusava con lui per il suo carattere puerile e troppo impulsivo.
Certo, sennò perché l’avrebbe mai tradita?
Vegeta sbagliava, ma Irene era sbagliata, totalmente sbagliata.
“Questa volta no invece. Non ti tradirò con lei.” Pareva sincero.
“Chi me l’assicura?”
“Io. Non ti fidi del tuo amore?” Era bastardo e le piaceva.
Tornò a stendersi su di lui, facendo sbattere i loro sessi.
“Chi sarebbe quest’ultima troietta?” Almeno avrebbe potuto ucciderla.
“Bulma Brief.” Disse con un sorriso allegro.


“Tu dovresti essere morta.”
Irene non si sarebbe fatta sopraffare da una ragazzina boriosa e infantile.
“Senti chi parla.” Bulma si portò le mani sui fianchi; non riusciva a crederci: era paradossale chi rinfacciasse le cose a chi!
“Una che non sembra si sia ingoiata un fischietto.”
Non erano due assassine pericolose in quel momento, solo due donne incazzate e isteriche e presumibilmente gelose, la situazione sarebbe sfociata in una zuffa con tirata di capelli e non in un omicidio, se non ci fosse stata la calcolata freddezza maschile.
“Smettetela di dire stronzate.” Vegeta era alterato, Goku ridacchiava, seduto su una roccia poco distante, pronto ad intervenire se ce ne fosse stato bisogno.
“Piuttosto come hai fatto a non morire?” Sapevano che l’aveva aiutata Satan, ma Vegeta non riusciva a capire come.
“Pensa. Non sei stupido…” Quella frase interrotta era sembrata proprio un insulto.
“Dimmelo.” Minaccioso il suo tono, ma forse lo era di più il sangue che colava dalle mani: inquietava vedere quel dinamismo su una persona apparentemente apatica.
“Sappi che hai appena ammesso di essere stupido.” Irene sperava di non morire, ma contro Vegeta, sola contro tre persone armate, aveva poche possibilità, lo sapeva, tanto valeva prendersi quelle piccole rivincite.
La morte non la spaventata: l’aveva quasi provata una volta.
“Parla.”
“Semplice, abbiamo sostituito l’iniezione letale, solamente con del curaro. Quando tu te ne sei andato, Satan mi ha fatto rianimare.”
Ingegnoso, ma semplice, perché non c’era arrivato?
Forse aveva fatto quei due troppo codardi o giustamente apprensivi per se stessi.
“Saresti potuta morire veramente.”
“Dovevo farlo lo stesso no? In fondo per un rischio minimo e inevitabile non sono morta come avresti voluto.”
Voluto? Non era più sicuro che il suo desiderio era quello di vederla morta.
Perché l’aveva sacrificata? Per gli affari, per il profitto, per ribadire la sua totale libertà dagli altri?
Aveva sbagliato ad usarla, aveva sbagliato a sacrificarla per un’altra.
Se avesse potuto tornare indietro nel tempo!...
Avrebbe rifatto le stesse identiche cose: avrebbe sbagliato per diventare quel che era.
“E ora? Se non vi avessimo scoperto, se foste riusciti ad ucciderci, cosa avreste fatto? Che speravate di fare?” Bulma si rifiutava di credere che avessero fatto tutto quello per stupida vendetta, per combattere contro i mulini a vento, contro la società.
Già: la vendetta era stupida, peccato che l’avesse capito solo toccata la morte con un dito.
“Sarei tornata alla mia vita.” Ma cosa si poteva pretendere da Irene se non una cosa stupida?
“E come? Satan ti ha condannato e per tutti sei morta, riapparire da viva avrebbe destabilizzato i più. Lui avrebbe perso il lavoro e tu saresti stata condannata di nuovo e saresti morta. Che senso avrebbe avuto tutto questo?”
Bulma aveva ragione e Vegeta fu sorpreso di quell’acume, si era scordato che potesse essere intelligente quella donna.
La guardava e poi guardava Irene e le trovava ambedue bellissime, ma quella notte aveva scelto: la uccise con un solo proiettile dritto al cuore. Prese la mira e non esitò, non si impegnò nemmeno di ucciderla in un modo più dignitoso che non l’accomunasse ad altre numerose sue vittime.
Quel corpo cadde a terra, facendo crollare anche tutto il passato che avevano edificato assieme.
Aveva amato Irene, davvero, ma doveva morire: la sua vita ora era con Bulma.



……Sono tornataaaaa!
Non sembrava vero, ma invece ho aggiornato e fidatevi sono più sorpresa io di voi!
Ho tante, tantissime cose da dire.
Voglio dire che ho creato un mostro che non sono in grado di controllare, nel senso che questa storia è diventata davvero tanto più complessa rispetto a quello che la mia mente inizialmente aveva elaborato e davvero mi sono venuti i complessi: riuscirò a portarla a termine dignitosamente?
Quanti fili ho fatto intrecciare, quanti colpi di scena ho usato per catturare il lettore?
Tanti, troppi, eppure mancano gli ultimi tre capitoli, forse anche due, e questa storia finirà. Sono la prima a non crederci e la prima a non capire come mi sento: da una parte sollevata e liberata, dall’altra delusa da me stessa: forse avrei potuto fare meglio? Sicuramente e allora perché non l’ho fatto?
Non lo so, so solo che ormai è così e spero vivamente di concluderla prima dell’anno nuovo: sarà il mio buon proposito. xD
Concentrandoci sul capitolo…
Spero che abbiate capito il significato intrinseco di Goku che è molto più vicino al Goku del manga di quel che si possa pensare a primo impatto, spero almeno di esserci riuscita: l’uomo giusto che non segue la giustizia del mondo ma quella personale, influenzata anche da un umano senso di colpa.
Giusto? Sbagliato?
Chi lo sa in fondo cosa sia veramente lo sbaglio…
Irene è morta in maniera più plateale quando non è morta che ora che è morta veramente: non volevo tirare il capitolo ancora per le lunghe, è già abbastanza corposo e strano, e poi non era più così importante.
Ma come aveva fatto Irene a non morire? Chi studia medicina sarà che la mia teoria è veritiera seppur abbastanza improbabile, ma fatemela passare perché sennò non sapevo proprio come fare. xD
Angolo superquark: il curaro è un estratto vegetale di piante esotiche, il cui derivato, il pancuronio serve per preparare la vera iniezione letale.
Il semplice curaro però causa solo un arresto respiratorio e se si rianima in tempo la persona non dovrebbe causare la morte, altrimenti si muore per asfissia.
Bello fantasioso eh? xD
Ho impiegato una settimana di ossessione per questo capitolo, spero che qualcuno lo apprezzi!
Ad ogni modo io vi ringrazio sempre moltissimo per il supporto che mi date: grazie a chi legge, a chi segue, a chi ricorda, a chi preferisce e a chi recensisce! <3
Alla prossima ragazzuole! ^^

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Capitolo 23
*** 23.23 ***


Il cambiamento è inevitabile, la crescita personale è una scelta
Bob Proctor

A lui non piaceva il volontariato; a lei gli sport violenti.
Peccato che Bulma passasse due pomeriggi a settimana con gli anziani e Vegeta praticasse lotta greco-romana.
A lui non piacevano il film d’amore; a lei gli horror.
Peccato non poter andare al cinema.
A lui non piacevano i dolci; a lei gli aperitivi alcolici.
Peccato che quel pomeriggio Vegeta si fosse presentato con una bottiglia di vodka e non con una torta al cioccolato.
Che rimaneva per poter parlare? Per potersi apprezzare?
“Che bel tramonto.” Provò a rompere il ghiaccio imbarazzante lei.
“Non mi piacciono i tramonti.” Si diceva che le ragazze fossero di gusti difficili: sicuramente quel tale non aveva mai conosciuto Vegeta.
“Ma guarda un po’…” Fece Bulma sarcastica.
Ma perché erano usciti assieme? Quanto era stato stupido uscire con un ragazzo qualsiasi pur di mettere a tacere le pressioni delle presunte amiche e pur di accontentare il suo ego narcisistico e provarci con il ragazzo che l’opinione pubblica aveva dipinto come irraggiungibile.
Era senza dubbio bello, come dicevano tutte, ma era troppo freddo per i suoi gusti e poi non pareva avere altro interesse per lei che non fossero le sue tette e si era vivamente pentita di aver messo quella camicia troppo provocante.
Non era teso quel loro appuntamento, solo noioso, ma nessuno dei due voleva che lo fosse: equivaleva a fallire le loro previsioni.
“Fumi?” Vegeta aveva tanto voglia di una sigaretta e gli domandò quel paradossale permesso solo per avere un minimo di conversazione, per salvare quella merda di appuntamento.
Non era abituato a trattare con verginelle restie.
“Fumare è sbagliato.”
Alzò gli occhi al cielo e mimò un’ imprecazione: quanto valeva finire quell’appuntamento e non scoprire un’altra delle innumerevoli fisime da salutista della Brief.
Gliel’avevano detto che quella ragazza era pedante, ma lui non aveva fatto troppo affidamento sugli altri, come sempre: li riteneva stupidi.
“Ma guarda un po’…” Le fece il verso.
A lui non piaceva il rigoroso virtuosismo che privava dei piaceri e degli sbagli; a lei non piaceva sbagliare e il piacere a quanto pareva.
“Senti caro scimmione, sono stata la presidentessa del comitato anti-fumo della mia scuola media e poi la salute è il bene più prezioso dell’uomo, bisogna preservarla.” Era convinta lei.
Vegeta la guardò sconcertato: non aveva mai visto nessuno mentire così spudoratamente, nessuno così senza coscienza e senza pensiero da far in maniera magistrale proprie le convinzioni di un altro.
“Anche mangiare frittura fa male. Che fa non mangi la frittura? Anche parlare al cellulare fa male. Che fa non parli al cellulare?”
Bulma conosceva, e nemmeno così bene, la retorica non la dialettica, invece quel ragazzo pareva essere l’avvocato del diavolo.
Che rispondere?
“Ma ti fai i cazzi tuoi?” Solitamente non diceva brutte parole, ma Vegeta le ispirava.
Però quell’atteggiamento inviperito e il non sapere addurre giustificazioni alla sua causa ideologica stavano dando vantaggio a lui.
Sorrise sghembo e prese il pacchetto di sigarette dalla tasca del giubbotto, mettendoglielo sotto il naso, facendole annusare l’inebriante odore di tabacco e di nicotina.
“Perché non provi a fumare? Si cambia idea nella vita.”
Bulma si morse il labro: la voleva quella sigaretta?
Cazzo sì! Quante cose stavano cambiando?



Voleva una sigaretta. Ne sentiva il bisogno.
Cucinare, o meglio aver provato a cucinare senza raggiungere l’obiettivo della commestibilità, l’aveva stressata e stancata.
Nervosamente, con le mani tremanti, se ne portò una alla bocca e inspirò con avida ingordigia.
Perché non sapeva cucinare? In tv sembrava così facile e invece finiva sempre con il mettere a soqquadro la cucina e a farsi prendere per il culo da Vegeta.
Non che fosse mai stato un problema, ma per una volta ci teneva a non farsi considerare una completa incapace e poi non poteva permettersi di ordinare ad ogni pasto una portata d’asporto.
Non poteva proprio permetterselo: tutti quei cibi gustosissimi erano anche super calorici e quasi sempre poco sani e lei non poteva permettersi di approvarli come giusti, non ora che era diventata madre.
Non si ricordava se sua figlia avesse mai mangiato un pasto sano in tutta la sua vita che non fosse pizza o la fettina di carne bruciacchiata e annerita.
Si spostò i capelli attaccati alla fronte sudata, aveva faticato sui fornelli!, e arrendendosi, decise che fosse meglio chiamare il ristorante, magari quella sera avrebbero mangiato cinese.
Avrebbe dovuto chiedere cosa volesse Vegeta, prima di ordinare, eppure non lo fece.
Era chiuso nel suo ufficio da due ore ormai e aveva detto abbastanza esplicitamente di non voler essere disturbato e Bulma non aveva nessun intenzione di contraddirlo per quella volta: che restasse solo, finchè non avesse sbollito il nervosismo!
Ultimamente era più intrattabile della norma, più silenzioso e paranoico e lei non ne aveva voluto sapere il motivo: aveva intuito ci potessero essere problemi lavorativi, se poi mai il lavoro di lestofante potesse essere senza rischi e pericoli, ma aveva scelto, ormai da cinque anni, di tirarsi fuori da tutta quella situazione.
Aveva dovuto e voluto: non era quello l’esempio che voleva dare a sua figlia, non era quella la vita che quando era figlia lei avrebbe voluto.
Non aveva sofferto per quella decisione alla fine: l’unica paura, ancora più tremenda dei sensi di colpa e dell’agitazione di essere scoperta, era stata la noia: aveva avuto paura che senza un lavoro, quando sua figlia sarebbe stata abbastanza grande da andare a scuola e non volere più essere totalmente dipendente da lei, non avrebbe avuto più niente da fare.
Aveva avuto paura di impazzire tra la monotonia, tra le mura di casa, tra l’ipocrisia di quelle cene d’affari in cui doveva fare sempre la parte della donna sofisticata e perfetta sotto la prepotente e totalitaria giurisdizione dell’uomo di potere, ma fortunatamente aveva avuto vicino Vegeta.
Benché sempre con la sua solita delicatezza, una mattina di puro ozio, interrotta solo dalla cambiate di pannolino, le aveva buttato sul letto tomi immensi di ingegneria e di meccanica, farciti di informazioni sulle varie università del paese.
Aveva abbandonato da adolescente gli studi senza volerlo: aveva dovuto sopravvivere e tra un problema e l’altro il suo ingegno non aveva mai trovato terreno fertile per crescere.
Era diventata una mamma studentessa ed era paradossalmente divertente venire corteggiata dai suoi colleghi di quasi dieci anni più giovani.
“Salve, sono la signorina Brief: vorrei ordinare il solito.” No, non c’era bisogno di ulteriori specificazioni: tutti i ristoranti della città conoscevano lei e le sue ordinazioni e il suo indirizzo.
Riagganciò dopo aver salutato cordialmente e decise di apparecchiare la tavola: almeno quello lo sapeva fare.
Sua figlia era la sua copia in tutto e per tutto e nei lineamenti fenotipici e nelle cattive abitudini: come era disordinata sua figlia, lo era solo lei.
“Bra, vieni subito a levare i colori dal tavolo della cucina!”
Mettendosi le mani sui fianchi, inclinò la testa per osservare meglio quei disegni: fosse stata almeno brava a disegnare, l’avrebbe incoraggiata nel perseguire e perfezionare il suo talento, invece era proprio negata o forse era la rappresentante di una forma di astrattismo particolare e di difficile comprensione.
La bambina arrivò correndo dalla sua stanza, facendo ondeggiare le codine e la gonnellina del vestito.
“Mamma ti piacciono i miei disegni?” Domandò speranzosa la bambina.
“Sei sicura di non volere fare danza o canto? Magari ti piacciono di più.” Ci sperava davvero, almeno non sarebbe inciampata sui colori a matita.
Bra si mise a ridere, divertita e abbracciò le gambe di sua madre.
Quella bambina aveva una serenità e un’allegria particolari, tanto da non far pensare di chi fosse figlia, eppure anche se a Bulma suonava strano e malinconico, era felice che sua figlia fosse diversa e sorridente.
Apparecchiarono la tavola assieme, rompendo un bicchiere di vetro e parlando della giornata, delle maestre isteriche della figlia e dei docenti decrepiti della madre.
Il cibo cinese era buono, peccato che il fattorino ogni volta perdesse tempo inutile a cercare la strada, facendo arrivare il cibo sempre freddo.
Vegeta entrò in cucina, ignorandole entrambe, come sempre, e prendendosi una bottiglia di birra fresca; ne stappò il tappo e incominciò a berla, centellinando ogni sorso, appoggiato al bancone della cucina.
Erano passati cinque anni e lui non era cambiato per nulla, proprio come quando lo rivide dopo dieci anni. Il tempo sembrava avere avuto effetto solamente su di lei, ma quella volta le aveva fatto solamente bene: le aveva ridato colorito al viso, il sorriso alle labbra, vitalità alla membra, maturità alla bellezza.
Quando aveva quindici anni guardava ai trent’anni come la soglia della vecchiaia, invece a trent’anni si sentiva meglio che a quindici.
“Stasera non ceno a casa.” Continuava a tenere fisso lo sguardo verso un punto indefinito della parete opposta e muoveva le labbra come fosse un automa.
Già non era particolarmente espansivo e reattivo agli stimoli esterni di solito, ma ultimamente stava toccando le soglie dell’apatia preoccupando la bambina.
A cinque anni si poteva mai ragionare sulla diversità delle persone? Sui problemi esterni oltre la famiglia? Sul mondo degli adulti?
Tutto quello che percepiva Bra era che il padre fosse distante e assente, quasi irriconoscibile.
“Ti giuro che non ho cucinato io, ci ho solamente provato.”
Il tempo aveva regalato a Bulma o la maturità di andare avanti in una vita banale o di tornare a ridere e a prendersi in giro: tutto pareva essere diventato perfetto.
“Non m’importa. Io devo uscire.” Buttò la bottiglia di birra nella pattumiera e scosse la testa come per svegliarsi.
“E dove dovresti andare?” Domandò inquisitoria.
All’università aveva imparato a domandare e voleva sempre avere una risposta che la soddisfacesse.
Era la convinzione di poter tutto che l’aveva fatta arrivare ad avere una media perfetta; facendo scienze aveva anche imparato i principi dell’analisi: ogni singolo sguardo, ogni gesto, ogni movimento lo passava al setaccio con quegli occhi curiosi.
“Ho un appuntamento di lavoro.” Rispose con astio mal celato per quella invadenza che non aveva mai sofferto.
Male, era stato un male farla studiare, ora era troppo serena e troppo forte per non dargli fastidio.
“Sono quasi le dieci di sera. E’ tardi.”
Vegeta morse aria e serrò i denti senza avere l’intenzione di volerli aprire.
Aveva tanta, tantissima voglia di sfogarsi, di urlare bestemmie e menare le mani, ma non avrebbe concluso assolutamente nulla: non prendendosela con Bulma, non facendo il pazzo davanti a sua figlia.
“Sta tranquilla. Vai a dormire senza problemi, non aspettarmi sveglia.”
“Papà mi avevi promesso che avremmo guardato i cartoni assieme.”
Spostò lo sguardo all’altezza delle sue ginocchia: poteva vedere Bra con la stessa espressione contrariata e delusa della madre, solo più innocente e meno colpevolizzante.
Non gli fotteva nulla dei cartoni, anzi perderli era una fortuna, ma anche se sarebbe voluto restare con la figlia, non poteva proprio e la cosa lo fece ancora più incazzare: non poter fare quello che voleva.
C’erano delle regole pure per disobbedire alla società e non se n’era mai curato finchè c’era stato Freezer.
Si pentiva ogni giorno di averlo ucciso!
“Lo faremo domani mattina che è sabato e non devo lavorare.” Lo sperava per lo meno.
“Me lo giuri?” Chiese imbronciata.
Chissà perché i bambini avevano un senso sacro della promessa. Forse non conoscevano ancora le casualità. Vegeta non sarebbe mai e poi mai voluto tornare bambino.
“Sì, sì.”
Scocciato si allontanò dalla cucina e si avviò verso l’uscita.
“Ciao papà, divertiti e non stancarti troppo che domani mattina i cartoni iniziano alle sei.”
Che male aveva fatto per meritarsi i cartoni per bambini idioti? Non lo sapeva, ma sorrise di un sorriso tragico e lo regalò a Bulma.
Sperava anche lui di non stancarsi troppo o di essere per lo meno a casa per le sei o Bra sarebbe stata una furia incontenibile.
Ma certe volte le speranze erano inutili: bastava impegnarsi e uccidere velocemente quei figli di puttana.

Non era stato un lavoro veloce, no proprio no.
Erano le cinque e mezza del mattino quando stava risalendo, piano, piano, barcollando, le scale di casa.
Non era stato nemmeno un lavoro facile.
Ma come mai era successo tutto quello? Non si stava bene come prima? Assolutamente no.
La paternità pareva averlo parzialmente ravveduto: basta morti, se non per lo stretto necessario; basta scontri con altre bande di trafficanti, se non quando fortemente minacciati; basta provocazione delle forze dell’ordine.
Quel sistema pacato aveva influito negativamente sull’economia dell’ex impero Ice e troppa gente era rimasta scontenta di non aver più soldi di quanti gliene servissero per condurre una vita tra sfarzo e lusso.
Molti si erano ribellati, molti miravano a farlo scoprire e Vegeta non era in grado di congiurare contro tutti questi fattori associati.
Preferiva fare il sicario che la mente: era una scelta pressoché da mente.
Sicuramente non era stato nemmeno un lavoro indolore.
Era stato attento a uccidere nel solito modo magistrale, ma qualche bastardo prima di spirare gli aveva conficcato un coltello nel fianco: niente di letale, solo fottutissimamente doloroso, sanguinante e purulento.
Cercò di aprire la porta, avendo la testa che girava vorticosamente e la vista annebbiata, ma non era facile.
Sarebbe stato più salutare farsi curare, ma con quale scusa andare all’ospedale a farsi curare una ferita d’arma da taglio a quell’ora del mattino?
L’opinione pubblica si stava insospettendo e non serviva dare alito a ulteriori sospetti; decise saggiamente e incoscientemente al tempo stesso di aspettare Zarbon, che sarebbe tornato di tutta fretta dal suo viaggio di piacere solo nel tardo pomeriggio, e farsi medicare da chi conosceva bene.
La serratura scattò per suo sommo piacere: voleva solo coricarsi a letto e addormentarsi nel caso quella ferita l’avesse ucciso.
Si diresse nella sua camera da letto, senza curarsi di aver lasciato una scia di sangue per tutto l’appartamento, e si distese sul materasso con cautela e per non svegliare Bulma e per non sforzare troppo la parte lesa.
Avrebbe voluto soffrire in silenzio e in solitudine, ma la paranoia di lei l’aveva portata ad avere un sonno estremamente leggero o forse quella notte, troppo apprensiva, non si era mai realmente addormentata.
Aprì gli occhi ancora socchiusi dal sonno e mise a fuoco la sagoma di Vegeta, senza prestare mente a quel colorito smunto e pallido.
“Ma che ore sono?” Aveva sonno, ma era più la voglia di dirgliene quattro per l’orario del suo rientro.
Solo che non ricevette risposta, se non respiri agitati e corti, quasi frenetici.
“Ma sei diventato sordo?” L’acidità l’aveva fatta tornare vispa, ma non attenta: era una donna pratica, ma praticamente certe volte viveva in un mondo suo.
Non sarebbe dovuto tornare a casa, questa era la verità! Ma dove andare mezzo morente?
Dopo l’ennesima insistenza per sentire la sua voce, il fastidio fu più del dolore.
“Porca puttana, devi stare zitta. Torna a dormire.” Però forse lo disse con una voce troppo tremante tanto da destare più curiosità che paura o, nel caso di Bulma, rimostranza.
Lei si stropicciò gli occhi e finalmente vide lucidamente. Guardò la sveglia sul suo comodino e si ritenne soddisfatta di aver conosciuto quel che voleva sapere.
“Sono quasi le sei, ora verrà tua figlia a rompere le palle. Spero per te non sia troppo assonnato per stare con lei.”
Si voltò nuovamente verso di lui con un sorriso cattivo di chi ricorda la punizione al dannato e notò quella chiazza di rosso che stava macchiando le lenzuola del letto e che sembrava uscire dal punto che la mano di Vegeta stava malamente tamponando.
“Che cazzo ti è successo?” Si poteva dire tutto di Bulma: che fosse egocentrica e superba e talvolta egoista e quasi sempre insopportabile, ma si levò subito la camicia da notte preferita per bloccare la perdita dalla ferita.
Ci si scordava di tutto, quando si temeva la perdita di una persona cara: pure di tutte le cose poco care e carine che quella persona aveva fatto contro gli altri e contro lei.
“Tutto bene?” Che domanda stupida!, eppure aveva bisogno di sapere che a Vegeta non sarebbe successo nulla perché nonostante tutto, anzi proprio per quel tutto, l’amava.
Si chinò e lo baciò sulle labbra anelanti; non si ricordava di averlo mai visto così malaticcio: solitamente era lei quella debole e cagionevole delle coppia.
Vegeta avrebbe voluto dire che stava bene, che certe piccolezze arrestavano solo i deboli, ma fino a prova contraria era steso a letto agonizzante, senza riuscire a pronunciare parola, se si escludevano i versi gutturali di dolore.
“Andiamo che ti porto in ospedale. Maledetti tu e i tuoi giochi strani.”
“No, l’ospedale no.” La bloccò per il polso e le impedì di alzarsi dal letto o meglio lei si sentì bloccata da quel tocco inaspettatamente debole e leggero.
“Vuoi morire come un coglione?” Domandò esasperata.
“Non voglio finire in prigione come un coglione.” Cazzo!, che fatica a parlare, ma senza un motivo che a lei sembrasse valido, se lo sarebbe caricato di peso sulle spalle e l’avrebbe mandato al patibolo e non in sala operatoria.
Bulma si rabbuiò e spense le sue espressioni.
Rischiava ogni giorno di perdere il suo uomo, perché quello continuava a fare cose sbagliate e illegali.
Non poteva nemmeno aiutarlo perché sarebbe stato subitamente condannato, non si poteva fare niente, perché lui doveva fare sbagliato altro.
“Sai che ti dico? Spero che muoia dissanguato.”
Quelle riflessioni le avevano preso la testa: vedeva Vegeta e non vedeva futuro, vedeva il futuro e non vedeva Vegeta: pareva essere inconciliabile quella personale felicità che aveva raggiunto.
Quelle riflessioni le avevano preso pure le sensazioni: rabbia, paura, preoccupazione; solo non sentiva più freddo, e aveva i capezzoli intorpiditi, né altro rumore esterno, come il respiro emesso da sua figlia.
“Bra…”
Quanto era triste che l’avesse vista prima Vegeta che era tanto dolorante da essere quasi incosciente che lei che pure era così sveglia.
Bulma si sentì una merda: era completamente assente, avulsa dalla realtà e non andava bene: c’era qualcosa di sbagliato.
E seppe cosa quando abbassò lo sguardo e vide sua figlia tremante che abbracciava disperatamente l’orsacchiotto con gli occhi lucidi e il labbro tremante.
Le bambine dovevano piangere per un brutto sogno non perché vedevano il proprio padre stillare copiosamente sangue; non avrebbero dovuto avere i piedi e l’orlo del pigiama bianco sporchi di rosso.
“Papà…” Disse tra i singhiozzi.
Bulma si inginocchiò alla sua altezza e la strinse al suo seno nudo, proprio come quando era bambina.
“Tranquilla amore, non è successo niente. Papà sta bene.”
Vegeta stringeva gli occhi dal dolore e solo di tanto in tanto li apriva per guardarle e la sua faccia non era mai stata così espressiva e umana come in quel momento.
Non stava bene e lei aveva mentito, ma l’aveva fatto per bene, per non fare preoccupare una bambina di cinque anni.
Eppure la stava illudendo e non era giusto, non era giusto negarle la realtà. Vegeta sarebbe potuto anche svenire o morire da un momento all’altro e lei non avrebbe capito il perché, perchè prima sua madre le aveva detto che stava bene.
Ed era così ogni volta che Vegeta andava a lavoro: le dicevano che suo padre faceva l’avvocato e tutti a lavoro lo rispettavano perché era bravo, ma Bulma sapeva che c’era il rischio che non tornasse più a casa, che tutto gli sfuggisse di mano, e quella coltellata ne era il sentore, e avesse svelato i loro inganni alla bambina.
Era stato sbagliato mentire a Bra e Vegeta l’aveva sempre detto, solo che lei non aveva voluto sentire ragioni:  non poteva corrompere una bambina.
“Mamma, che è successo a papà?”
Le si bloccò il cuore nel petto: dirgli la verità o mentire ancora?
Doveva scegliere.
Le accarezzò i capelli dolcemente. L’istinto era quello di mentire: forse sua figlia avrebbe accettato la verità che suo padre fosse un criminale, ma sarebbe stato anche probabile che l’avesse voluto emulare: Bra amava suo padre e Bulma era sempre stata contraria a parlare di bene e male e altre cazzate esistenziali a una bambina di cinque anni; si era sempre rifiutata di crescere sua figlia come Freezer aveva cresciuto Vegeta.
La testa di Bra profumava d’albicocca e Bulma si ricordava bene che in prigione non c’erano shampoo all’albicocca.
S’immaginò l’immagine di sua figlia in prigione e tremò dentro.
Non voleva che sua figlia andasse in prigione, non voleva che sua figlia sbagliasse, ma come fare?
D’un tratto fece la sua scelta: sarebbe stata dolorosa, ma era per il bene di Bra.

Bulma non era mai stata così contenta di vedere Zarbon, come in quel momento.
Aveva medicato alla bene e meglio Vegeta e aveva insistito nel portarlo a casa sua dove avrebbe potuto in una maniera abbastanza consona, ricucire la sua ferita.
Quella piccola stanzetta nella sua villa non era un ospedale e Zarbon avesva preteso di tenere l’avvocato in cura per una settimana, nel caso si fossero riaperti i punti, nel caso si fosse sentito male.
Bulma rise di nascosto, quando seppe che per una settimana avrebbe avuto la casa vuota.
La mattina Bra andava all’asilo e lei aveva deciso di non frequentare i corsi: aveva preferito mettere sottosopra la casa per cercare quella maledetta chiave dello studio di Vegeta e quando la trovò si sentì sporcamente felice.
Che stava per fare? Si sentiva una bastarda.
Per cinque giorni cercò, cercò dappertutto, cercò senza sosta e poi trovò: trovò quella che credeva essere la soluzione definitiva a tutti i suoi problemi e alle sue angosce di madre.
Sospirò stanca, ma si alzò ugualmente e rimise apposto tutta la casa: doveva non pensare per non pentirsi.

Quanto era stronza!
Eppure se doveva fare una bastardata, voleva farla bene.
Chiese un colloquio direttamente con Goku.
Faceva sempre strano vedere quella specie di cognato vestito da poliziotto, sarà che non l’aveva mai visto esercitare correttamente il suo lavoro, ma quella volta sarebbe stato costretto a farlo.
I sensi di colpa la divoravano, ma si consolava pensando a quella ulteriore rivincita postuma su Freezer: aveva sempre pensato che era una donna stupida e poi aveva sempre pensato che una donna fosse inutile: quanto si era sbagliato.
“A cosa devo questa piacevole visita?” Chiese Goku sorridendo sinceramente.
Sembrava contento quel giorno e Bulma si doleva leggermente di rovinarglielo.
“Sono venuta qui per far avanzare la tua carriera.”
“E come?” Domandò curioso.
“Ho pensato che se tu riuscissi a incastrare Vegeta, potresti fare il salto di qualità.”
A Goku pareva strano quel discorso, ma era mattina presto e ancora non aveva bevuto il suo caffè e, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto anche fraintendere il colore del cielo.
“Non è facile. Si sa nascondere bene.” Alzò le spalle e non smise di essere allegro: in fondo era orgoglioso di quel genio cattivo di suo fratello.
“Ma se ci fossero delle prove non ci sarebbero dubbi.” Dove voleva andare a parare?
“Non ho prove, ti ho detto.”
Bulma prese la borsa, poggiata sulla sedia accanto, e vi trafficò dentro. Ne estrasse dopo subito una cartella voluminosa e la porse a Goku.
Curioso l’aprì e quello che vide lo lasciò sorpreso e anche un po’ inquieto.
C’erano proiettili. Lettere minatorie. Messaggi in codice tra Vegeta e altri. Le fatture dei bordelli.
C’era tutto quello che avrebbe potuto condannarlo alla colpevolezza pubblica.
C’erano le prove di quasi tutto quello che sapeva suo fratello avesse fatto, ma adesso era un poliziotto, sebbene attonito per quello sviluppo inatteso.
Goku alzò gli occhi dalle prove e guardo quelli freddi e glaciali di Bulma: non la riteneva capace di tanto, né così incosciente.
“Perché?” Sussurrò.
“Ha fatto tante cose sbagliate, non può continuare così. Qualcuno lo deve fermare ed è giusto che sia la legge a farlo.” Si stava costringendo a pensare e a parlare così.
Lo pensava solo in minima parte, ma era giusto persuadersi di quell’idea.
“Le indagini potrebbero scoprire qualcosa anche su di te e sulle persone che hai ucciso tu. Non ci hai pensato?” Aveva sempre detto con fermezza che avrebbe arrestato Vegeta con le prove alla mano, perché esitava?
Cercava di temporeggiare, cercava di far rinsavire Bulma.
“Ho la fedina penale totalmente pulita. Quando hanno accollato ad Irene i miei omicidi, Freezer si è preoccupato di far sparire tutte le prove contro di me e ha falsificato quelle per far processare Irene. Per la giustizia io sono una persona giusta.” Anche se tradire così spudoratamente la persona amata era sbagliato. “Non troverete assolutamente nulla contro di me.”
Goku si passò una mano tra i capelli e poi se la schiaffò sul volto: non gli piaceva dover arrestare Vegeta, eppure doveva.
“Ci mobiliteremo al più presto per effettuare le opportune indagine. Grazie per la tua collaborazione.”
Goku era distrutto, Bulma si sforzava ad essere soddisfatta.
Lo salutò sorridendo, mandandogli un bacio con la mano: fino a prova contraria la loro era pur sempre una famiglia.
“Prego. Ci vediamo Domenica a pranzo.”



Ave popolo di Roma!
Come va la vita? =)
Io sto diventato bravina a giocare a pallavolo e mi sento soddisfatta. U_u
Cooomunque il terzultimo capitolo di questa storia, che ve ne pare?
Io lo trovo strano, ho cercato di fare un esperimento: parlando del cambiamento, ho provato a cambiare il tono della storia.
Teoricamente dovrebbe essere più leggero e meno tragico, ma non credo di esserci riuscita.
E poi so che non sarà nulla di particolarmente entusiasmante, non sarà come quei capitoli pieni di colpi di scena, però credo che verso la fine ci stia pure incominciare a svelare gli altarini…
Bra…vi chiederete il motivo, giusto?
Bè semplice: per un lieve e poco accennato complesso di Elettra e poi perché inevitabilmente la madre dall’infanzia infelice cercherà sempre di proiettare su sua figlia specialmente i progetti falliti.
Amo Trunks ma per una volta diamo un ruolo importante a Bra. xD
Per quanto riguarda la ferita di Vegeta: non so se con una coltellata nell’addome si muore o no, penso dipende anche dalla profondità della ferita…in ogni caso: non sono dottore, anche se probabilmente ho scritto stronzate, lasciatemele passare.
Facciamo finta che una coltellata nel fianco, non così profonda, abbia questo effetto. xD
Io ringrazio voi tutti!
Tutti quelli che leggono, che seguono, che ricordano, che preferiscono e specie che recensiscono la storia.
Grazie a PZZ20 e a Micky_Heidi che non si perdono un capitolo, quando io fossi in loro me ne sarei persa più di uno. <3
Buona notte e alla prossima! <3

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Capitolo 24
*** 24.24 ***


Quel giorno, quando il Signore diede a Israele la vittoria sugli Amorrei, Giosuè pregò il Signore e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti:
'Sole, fermati su Gabaon!
e tu, luna, sulla valle di Aialon!
 Il sole si fermò, 
la luna restò immobile, 
un popolo si vendicò
dei suoi nemici'.

 

Quando erano le quattro del mattino e si era già fumato un intero pacchetto di sigarette, non riusciva a non pensare che un giorno non troppo lontano sarebbe sicuramente morto di cancro ai polmoni, ma poi buttò giù un sorso generoso di whiskey e un tumore al fegato non sembrava più così improbabile come causa per lasciarci le penne.
Ma se ne fotteva! A breve si sarebbe tirato pure uno spinello, se fosse stato necessario, se il livello di rottura di coglioni che causava la Brief era impossibile da sopportare solo con la volontà.
Una settimana di relazione e già stava impazzendo, ma non mollava.
E alla domanda dei suoi amici del perché non avesse lasciato ancora quella fighetta tutta perfettina e non avesse scopato con l’ultima troia di turno, lui alzava le spalle, sorrideva sereno e rispondeva che prima o poi anche Bulma avrebbe sbagliato.



Non riusciva a spiegarsi come Bra si girasse e gli intimasse di prestare attenzione ai cartoni animati, ogni volta che lui di nascosto socchiudeva le palpebre per fuggire da quelle stronzate perbeniste che la tv nazionale aveva insistentemente iniziato a proporre a poveri bambini che le ritenevano piacevoli e giuste.
Vegeta non voleva che sua figlia diventasse scema come gli omini di quel cartone che si divertivano ad interagire con gli spettatori, facendo domande imbecilli ed aspettando per sessanta secondi in silenzio una risposta che non sarebbe mai arrivata alle loro orecchie.
“Papà non ti addormentare, ora cantiamo la canzone.”
Si schiaffò una mano sulla faccia, sconsolato: cosa avrebbe dato per allontanarsi da quei cartoni?
“Io non canto!” Ingiunse perentorio, anticipando le intenzioni della bambina che stava già preparando la solita espressione da cucciolo bastonato.
“Sei cattivo.”
“Tu sei cattiva che mi fai vedere queste stronzate.”
Bra si mise in piedi sul divano, arrivando all’altezza del viso di Vegeta e mostrando quella troppo odiosa mimica materna.
“La mamma mi ha detto che questa è una brutta parola ed è sbagliato dire le brutte parole.” Agitò il dito in senso di diniego.
“E perché mai è sbagliato? Sto facendo male a qualcuno?” Quella donna stava davvero iniziando a combinare un disastro nell’educazione di Bra, la stava facendo crescere deviata come tutti.
Si poteva facilmente confondere con un’altra sua coetanea di quanto erano omologati quei pensieri e lui odiava che sua figlia dovesse essere scema come tutti gli altri, perché sua madre era stata stupida e desiderava così.
Bra scosse la testa, dando ragione alla sue convinzioni: se la madre fosse stata lì si sarebbe incazzata, ma lei era all’università quel pomeriggio.
“Allora la mamma ha detto una cosa sbagliata.”
“Brava tesoro mio, hai capito tutto.” Le scompigliò i capelli che Bulma acconciava in maniere oscene impiegando così tanto tempo e poi la baciò sulle labbra.
Pure baciare la propria figlia per la Brief era sbagliato, eppure quel gesto era privo di malizia e di sensualità: stava insegnando a Bra a considerare le labbra come un qualsiasi altro pezzo di carne, sperando che un giorno avrebbe potuto capire, a differenza della madre, che non era con un bacio sulla bocca che si dimostrava l’amore o si raggiungeva l’intimità e poi non lo faceva contro il consenso della figlia: era lei a cercare quel contatto talvolta e quali pensieri impudichi potevano mai muovere le azioni di una bambina? Era solo natura, solo istinto, per tanto, fuori da ogni logica umana e artificiale, giusto.
Senza contare che lui amava sua figlia e viceversa.
“Ci siamo persi la canzoncina.” Bra dopo aver abbracciato il padre, tornò alla sua realtà di infante tutta dispiaciuta da quell’interruzione e si infastidì enormemente, sentendo suonare il campanello.
Vegeta approfittò di quella visita inaspettata per liberarsi da quello strazio e si alzò subitamente dal divano.
Si sistemò la maglietta, toccandosi il fianco che ancora doleva leggermente, sebbene fosse passato già un mese da quell’incidente.
Aprì la porta, mistificando quella contentezza, con un’espressione seria e formale che si tramutò in un ghigno appena vide la figura di Goku.
“Qual buon vento? Vuoi vedere anche tu i cartoni con tua nipote?” Ci sperava in un qualche tipo di compagnia in quell’istante, qualcuno che patisse e soffrisse con lui, anche se Goku sembrava già abbastanza provato.
“No.” Disse seccamente, mantenendo la schiena tesa, troppo tesa, come l’aria, come il suo volto.
“Allora che cazzo ci fai qui?”
Il poliziotto chiuse gli occhi per un istante, chiudendo lo sguardo sui suoi pensieri; poi gli riaprì aprendo l’attenzione a quelle che dovevano essere le sue azioni.
“Ti dichiaro in arresto.” Estrasse il distintivo dalla tasca della giacca dell’uniforme, eppure Vegeta non si era spaventato vedendolo arrivare solo, non sapendo che i suoi colleghi avevano voluto che fosse lui stesso ad arrestare il fratello.
“Che stai dicendo?”
“Ti dichiaro in arresto.” Irruppe nell’appartamento e, approfittando dello stupore dell’avvocato, lo sbatté sulla parete più vicina, tenendogli il volto rivolto a muro e le mani dietro le schiena.
“Che cosa vuol dire questo?” Voleva essere calmo, ma forse urlò, perché esortò sua figlia a venire e ad assistere la scena, dietro il pilastro.
“Che sei stato accusato di pluriomicidio, di associazione a delinquere, di traffico di stupefacenti, di frode e tutto quello che sai meglio di me.” Vegeta era visibilmente scosso, ma Goku lo era di più: aveva avuto tutto il tempo delle indagini per abituarsi all’idea di stare mandando suo fratello sulla forca, ma non ci riuscì.
“Come hai fatto? Non ho lasciato indizi. Non hai prove.” Era così ovvio pensare che un giorno l’avrebbe arrestato da essere quasi diventato falso e ridicolo.
Dovevano aspettarselo che sarebbe finita così.
Il poliziotto deglutì pesantemente. No, non aveva mai trovato prove e Vegeta era sempre stato bravissimo a pulire ogni traccia, entrambi erano sempre stati attenti a evitare quel che non volevano dovesse succedere.
E tutto sarebbe continuato per il suo corso, o per lo meno tutto sarebbe stato così lento da far abituare all’idea, se non ci fosse stata lei.
“E invece sì. Un testimone ha consegnato delle prove circa un mese fa.”
“No, no è impossibile. Nessuno potrebbe avere le prove: le tengo tutte io a casa, al sicuro.”
Goku sorrise intenerito da quella situazione. Suo fratello sembrava davvero spaventato di andare verso la morte, perché in condizioni normali avrebbe capito subito la normalità di quel che sembrava un’assurdità.
“Lo sai che non vivi più solo in questa casa…”
Erano all’ingresso e Vegeta aveva la faccia schiacciata al muro, ma su quel muro c’era appeso un quadro e lui non ne aveva mai appesi.
Gli abiti da donna, i trucchi in bagno, tutto si riconduceva a un’unica soluzione.
“Bulma…” Sussurrò deluso da se stesso.
Perché tradirlo? E perché non pensare che lei potesse farlo?
“Mi dispiace.”
“Troia maledetta.”
Tutto quello non poteva essere reale, no.
“Papà? Zio Goku? Che sta succedendo?” Aveva cinque anni e non capiva perché il suo adorato zio avesse messo dei cerchi di ferro ai polsi del suo amato padre.
“Bra…” Entrambi si scordarono delle loro maschere della società per un istante e pensarono a lei e a tutto il bene che le volevano.
“Bra, tesoro, tranquilla, non è successo nulla. Tuo padre deve venire con me in un posto.”
“Dove?”
Dirglielo o no? Era pur sempre una bambina e Goku non avrebbe mai voluto rispondere, ma Vegeta lo anticipò: “In prigione.”
“Perché?” Ma a cinque anni si sapeva cos’era una prigione? Capiva solo l’agitazione e la paura, ma faceva la dura, proprio come il padre, trattenendo le lacrime.
“Ho ucciso.” Vegeta era senza tatto e senza delicatezza.
“No, papà no. Non mi abbandonare.” Corse ad abbracciare le gambe del padre, appendendosi disperatamente ai pantaloni.
“Serena, non starai sola, ora chiamiamo la tua mamma e la facciamo venire subito.”
La mamma l’avrebbe potuta distrarre: aveva la fantasia adatta per rielaborare tutto quell’accaduto e farlo capire a una bambina.
“Non è stupida, falla venire con noi.”
“E’ piccola per vedere suo padre che viene trascinato in una cella fetida.”
Vegeta sorrise malinconico.
“Noi alla sua età avevamo visto molte più scempiaggini di lei. Almeno tu lasciala libera di crescere.”
Goku annuì per alcuni incosciente, ma Vegeta aveva detto una cosa maledettamente giusta per lui.

Era uno strano corteo quello: il poliziotto rancoroso, l’agitato poliziotto fratello del detenuto, il detenuto sempre sorridente, e la figlia del detenuto che singhiozzava con una compostezza da adulta e camminava impettita e altezzosa proprio come suo padre.
Se non sapeva cosa fosse il giusto e l’ingiusto, istintivamente aveva preso le distanze da tutti quegli uomini in uniforme così diversi dal suo papà che ai suoi occhi innocenti rappresentava solo il bene, ma ancora non sapeva si stesse sbagliando.
Per lei erano cattive tutte quelle persone che strattonavano il suo papà, era cattivo il poliziotto amico di un certo Yamcha che aveva piantato un pugno sul volto del genitore, facendogli uscire sangue dal labbro spaccato, era cattivo anche avergli promesso che l’avrebbero ammazzato di una morte lenta e dolorosa.
Eppure Vegeta non aveva fatto una piega né agli insulti, né agli sputi, né ai pugni e Bra lo stimava sempre di più, lo riteneva superiore a tutta quella marmaglia.
Poi non lo vide più. Stette seduta su una sedia, affiancata dalla zio Goku che gli carezzava la testa e non le aveva mai detto che tutto sarebbe andato bene.
Approssimativamente gli raccontò quello che aveva fatto suo padre.
Goku le disse che aveva ucciso, ma non le disse che era sbagliato. Le domandò se lei avrebbe mai ucciso la madre di una sua amichetta e le domandò se fosse giusto che la sua amichetta soffrisse per quella perdita. Bra rispose di no, avrebbe voluto che nessuno mai soffrisse.
Goku le disse che aveva costretto donne a prostituirsi, ma non le disse che era sbagliato. Le domandò se lei avrebbe voluto vedere suo madre essere costretta a baciare un uomo che non fosse suo padre, essere toccata da un uomo che non fosse suo padre. Bra rispose di no, solo il suo papà doveva poter baciare la sua mamma.
Goku le disse che suo padre aveva trafficato droga, ma non le disse che era sbagliato. Le domandò se lei avrebbe voluto offrirgli qualcosa che faceva puzza e che l’avrebbe fatto sentire male, gli avrebbe provocato un gran mal di pancia. Bra rispose di no, lei a zio Goku avrebbe portato solo tanti dolci buoni.
Goku le disse che probabilmente suo padre sarebbe morto, ma non le disse che era sbagliato. Le domandò se lei avrebbe mai ucciso qualcuno che avesse sbagliato, se avrebbe levato a un tale la possibilità di rimediare ai propri errori, se avrebbe corso il rischio di uccidere un innocente. Bra rispose di no, lei avrebbe punito la persona che aveva sbagliato non certo le persone che gli volevano bene.
Bulma arrivò trafelata, aveva corso tutto il tempo, e si era fermata alle spalle di Bra, riuscendo a vedere solo il volto dolce di Goku.
“Tuo padre ha fatto tante cose che tu non avresti mai fatto, cose sbagliate e per questo probabilmente morirà.”
Morire? Cosa significava morire per una bambina di cinque anni?
Sua madre le aveva raccontato di angeli e di un regno ultraterreno bellissimo dove tutto era rosa e facevano cartoni ad ogni ora del giorno.
Perché uccidere suo padre? L’avrebbero mandato in un luogo così bello.
“No impossibile. Papà deve essere punito. Se lui muore, puniscono solo me che non potrò rivederlo mai più.”
E solo quel pensiero la fece rabbuiare e tremare.
Lei avrebbe voluto avere sempre suo papà accanto, anche se era un bastardo: Vegeta le aveva insegnato quella parola.
“Non è giusto che muoia! Dovrebbe rimediare al male che ha fatto, non andare in paradiso.”
Bulma e Goku si guardarono e trattennero una risata triste: adesso chi le avrebbe detto che suo padre non sarebbe andato in quel posto bellissimo? Chi le spiegava che dopo la morte non si sapeva cosa ci fosse e che anche se fosse stata corretta la divisione manichea tra paradiso e inferno, suo padre aveva un posto d’onore accanto al diavolo?
“Lo so, lo so. Mi dispiace tanto.”
Quanta pressione per una bambina di cinque anni! Scoppiò a piangere disperatamente e Bulma le si buttò addosso per stringerla e rincuorarla con dieci, cento, mille baci.
Benedetta ingenuità che non conosceva un cazzo del mondo e nemmeno le ingiustizie!
Se Bulma le avesse conosciute, si sarebbe rassegnata e non avrebbe mai cercato di far valere un’effimera giustizia, non avrebbe mai provato ad uccidere.
“Non è giusto che una bambina cresca senza papà.”
Quella non era ingenuità, era ragione: sapeva che c’erano ingiustizie, ma non riusciva a capire perché.
Come faceva ad urlare tra quei singhiozzi esagerati?  Probabilmente era stato un semplice sussurro, ma Bulma lo sentì forte e chiaro.
Come sarebbe cresciuta Bra senza padre? Sarebbe stata come lei? Avrebbe cercato per sempre una vendetta inutile? Si sarebbe macchiata la coscienza? Era sbagliato, sbagliato, totalmente sbagliato!
Lei aveva sbagliato, di nuovo; forse più di Vegeta.
Quella giornata era stata devastante e sua figlia si addormentò piangendo.
“Dov’è adesso? Lo voglio vedere.” Era un’esigenza impellente.
Aveva sbagliato e voleva trovare conforto nell’unica cosa giusta della sua vita: l’amore con Vegeta e non aveva paura che lui la potesse odiare: aveva tutte le ragioni per farlo.
Ma quando si sistemò la felpa e prese la strada per andare da lui, quando erano in quel corridoio freddo e desolato, un uomo alto e con una folta e poco curata barba la fermò e chiamo la sua attenzione e quella di Goku.
Aveva un grosso distintivo, lo classificò come qualcuno di importante in quella caserma, perché il suo pseudo cognato si mise sull’attenti, finchè quello non aveva concesso il riposo.
“Sono allibito e costernato per lei agente Ice. Lei è una così brava persona, ma suo fratello è risultato essere un vero lestofante, un irreprensibile lestofante. La notizia ci ha sconvolti tutti: era un avvocato! Chi avrebbe mai potuto sospettare fosse un mostro di questo genere?”
Avrebbero dovuto difenderlo, sentirsi offesi per quell’epiteto, ma Vegeta aveva dato prova più volte di essere un mostro e non se la sentivano di mentire: non era giusto.
“Grazie alle prove che ha portato la signorina Brief abbiamo potuto finalmente capire l’artefice e la mente di una serie di omicidi e misfatti avvolti fino ad ora nel mistero e io, a nome della legge, la ringrazio per aver contribuito a rendere più sicura la vita di tutti noi.”
“E’ stato dovere. Quando ci sarà il processo?” Il dovere era un conto, ma la voglia di considerarlo ancora il suo compagno era maggiore, era maggiore l’angoscia che provava per quel destino ineluttabile.
L’uomo abbassò lo sguardo e fissò le sue scarpe griffate; non c’era quel coraggio di parlare con gli occhi di una persona emotivamente coinvolta in quel caso, con gli unici due famigliari di un condannato a morte.
Solitamente non c’era proprio coraggio di parlare di ingiustizie, ma tutti le commettevano: forse se ne si fosse parlato, il crimine sarebbe diminuito?
“Non ci sarà processo.” Disse rivolto al pavimento.
“Non ci sarà processo?” Confusi.
“Non ci sarà processo?” Consapevoli.
“Non ci sarà processo?” Incazzati. Totalmente incazzati.
“Che vuol dire?” Non avrebbero forse lasciato Vegeta libero dopo tutte quelle prove?
L’uomo incrociò le mani dietro la schiena e prese un bel profilo.
“Il signor Ice è colpevole ed è destinato a morire.” Bulma si sentì mancare, ma non si scompose, in fondo lo sapeva che l’aveva condannato.
“Ma un processo vuol dire indagini più approfondite e non ci possiamo permettere il lusso di queste ulteriori indagini. Quell’uomo era un genio della manipolazione e un cultore del ricatto, non potete nemmeno immaginare quanti alti magistrati e dirigenti di importanti aziende ha coinvolto nello schifo di cui è responsabile. Cosa succederebbe se la gente venisse a sapere che metà di questa città è stata gestita da un organizzazione criminale? Che molti posti di lavoro sono stati finanziati dal male? Al processo corrisponderebbe un’eco mediatico distruttivo, voi non immaginate quanto.”
“Non potete non processarlo. Dovete fare un processo!”
Bulma aveva preso il bavero dell’uniforme e aveva scosso quel coglione, rappresentante dell’istituzione, se la codardia e la viltà fossero state un’istituzione!
“Non deve dire lei agli uomini di legge come comportarsi. Le indagini non si concluderanno mai, l’impero Ice non verrà smantellato, bensì amministrato dalla giustizia. E tutto finirà per il meglio.”
“E Vegeta?” Goku e Bulma non volevano capire quel discorso: non aveva una logica.
“Morirà.” Secco e duro, non sembrava nemmeno più il tizio che studiava le stringhe.
“Come lo giustificherete? Morte naturale a trentatre anni?” La donna non voleva crederci, sembrava una triste barzelletta e aveva sentito tutto con un pizzico di ironia.
“Oggi è stata data la notizia della sparizione del suo compagno. Nessuno sa dov’è finito, nessuno lo trova, ma, inaspettatamente, tra una settimana lo troveremo nella discarica della città, picchiato a morte, non si sa da chi. La cronaca lo riporterà come l’ennesima lite finita in tragedia, ma nessuno riuscirà mai a scoprire il colpevole.”
“Non è giusto, non potete farlo! E’ illegale, deve essere processato, condannato dalla società, deve avere un’esecuzione pubblica e ci deve essere un rimedio a tutto il male che ha fatto.”
Non era una donna quella: era una furia; come non era un poliziotto quello, era un venduto.
“Così è deciso e lei non può fare niente.”
“No, no! Non potete ammazzare il mio uomo e buttarlo tra la spazzatura, perché avete paura che la baraonda successiva al suo processo vi tolga il lavoro. Dovreste essere giusti e invece siete dei criminali come Vegeta, con quale diritto lo giudicate, voi?”
“Con lo stesso diritto con cui l’avrebbe giudicato la sua cara società. Non è composta anche da me?”
Se Goku non l’avesse tenuta quella sera ci sarebbe stato un altro morto ne era certo.
Bulma digrignava i denti e aveva gli occhi di fuori; sapeva che aveva ucciso, ma non se l’era mai immaginata, mai fino a quel momento.
Le mani prudevano a pensare a quella faccia impassibile dell’uomo davanti a sé che aveva uno sguardo alquanto contento.

“Un giorno vi succederà qualcosa. Dovessi farvela succedere io.”
“Non si preoccupi di questo. Io terrei invece d’occhio l’incolumità di sua figlia, qui ce ne sono tanti che detestano il suo compagno e che potrebbero non trovare pace uccidendo solo lui. Dico bene?”
No! Vegeta aveva fatto sempre male, tutti l’avevano sempre saputo, ma nessuno aveva mai fatto niente per non compromettere il proprio bene.
Giustizia? Uomini buoni e uomini cattivi. Solo uomini.
Ma non conosceva un uomo buono che non aveva sbagliato: pure Goku aveva ucciso i suoi genitori!
Giustizia! Doveva ancora crederci? L’istituzione si comportava come il malvivente, anzi peggio, perché le azioni sbagliate dovevano per forza essere giuste.
Credere nella giustizia, nelle leggi, equivaleva a credere nell’uomo e lei ci credeva.
Credeva che molti erano teste di cazzo e schiavi di un sistema di uomini, gli altri erano pazzi, lei era pazza: Vegeta gliel’aveva sempre detto e non aveva mai compreso fosse un complimento.
“Fate schifo.”
“Ci dovremmo lasciare giudicare da chi non si è mai schifata di essere la troia di un assassino?”
Sapeva proprio tutto!
“E’ un uomo e ha sbagliato e pagherà per i suoi sbagli, ma non illudetevi che non vi toccherà la stessa sorte.”

L’avevano rinchiuso in una cella d’isolamento, ammanettato ai polsi e alle caviglie, buttato a faccia in giù sul pavimento, sporco di sangue, di urina e saliva.
Goku fece entrare Bulma e poi chiuse la porta: li voleva lasciare soli, lui avrebbe avuto tutta la notte per restare con suo fratello, avrebbe avuto solo quella notte.
La donna camminò a passi lenti, col cuore in gola e si inginocchiò vicino al suo corpo, se ne fotteva si stesse macchiando i suoi jeans preferiti.
Nascose una mano nei suoi capelli e gli grattò la nuca, proprio come piaceva a lui.
“Amore mio, mi senti? Sono io.” Era caldo e vivo, respirava molto piano.
Voleva abbracciarlo, voleva baciarlo. Si accoccolò sopra la sua schiena, ma lui rantolò dal dolore.
Si alzò, come scottata, e adagio cercò di girarlo, anche se se ne pentì subito.
Lui aveva sofferto tutto il tempo della sua malsana pensata e, quando ebbe il volto rivolto al cielo della cella, Bulma trattenne un conato di vomito e uno di stizza: giustizia? Dove?
Non in un corpo martoriato e infreddolito dal dolore, non dal volto rosso di sangue e con la carne all’aria, non negli occhi gonfi e viola, non in quelle labbra che non avrebbe mai riconosciuto come quelle che fino a quella mattina aveva leccato di come erano spaccate; ma la cosa più devastante era che Vegeta fosse ancora cosciente, per sentire quanto male potesse fare la punizione dello sbaglio.
E pensare che se avesse tenuto la bocca chiusa, se avesse permesso che Bra avesse un padre, non importava se poco buono, tutto quello non sarebbe mai successo.
Si chinò per far sfiorare le labbra, per accontentare un proprio capriccio e per non fare troppo male a lui.
“Ti amo e mi dispiace di vederti così, ma non mi pento di averti denunciato e consegnato alla polizia.”
Avrebbe scommesso tutto che Vegeta non avrebbe mai ricambiato o che si sarebbe sforzato solo per morderla o insultarla, invece corrispose il bacio, tese il collo per avvicinarsi a lei e dava l’impressione che non si sarebbe staccato mai, se solo avesse potuto.
Ricadde a terra, facendo il rumore di un sacco vuoto che viene buttato dal tetto di un grattacielo e ingoiò un urlò.
Faceva male, faceva tutto troppo male, ma lei aveva fatto bene: forse non era stata la decisione migliore, ma era felice che, nonostante ci avessero provato in tutte le maniere, Bulma aveva continuato a pensare in maniera sbagliata, per lo meno sua.
Non avrebbe agito come lei, eppure aveva la prova di essersi scopato una persona e non un foglio di carta sulla quale ci si poteva disegnare.
Aveva poco fiato. Le avrebbe potuto chiedere scusa per tutto quello che le aveva fatto.
“Ti amo pure io.” Ma quella era la cosa più giusta da dire.
Se agonizzante e tradito, riusciva a pensare solo a quel sentimento, non vedeva motivo più per non esprimerlo, ma lei non avrebbe mai pensato di sentirlo.
“Ti hanno battuto forte la testa, amore mio?” tutto era irreale.
Non era vero che sarebbe morto a breve, non era vero quello squallore ambientale, non era vero che lui si dichiarasse, proprio quando lei l’aveva tradito.
“Fottiti, stronza.” Era insaziabile quella donna.
Gli stava dando l’amore e la vita, nonostante non avesse fatto grosse cose per meritarlo, e ancora faceva la sarcastica?
Ma era giusta quella legge del contrappasso: lui si era comportato così per anni.
Tossì e fece male, sputò sangue e fece male, tremò per il freddo e fece male.
La temperatura era fredda, il pavimento gelido e la paura della morte agghiacciante; batté i denti e la dovette aver resa contenta più rendendosi agonizzante che quando le fece sapere fosse corrisposta.
Aveva gli occhi lucidi e il cuore pesante, ma sorrideva. Cosa poteva fare per lui? Non poteva salvarlo dalla morte, non poteva tornare indietro nel tempo.
Si levò la felpa, maledettamente non si era messa una maglietta di sotto, e la poggiò sul suo corpo muscoloso.
Era piccola e rosa, forse lui l’avrebbe detta ignominiosa, ma perlomeno teneva caldo o quasi.
Un agente si fece scorgere dalla porta e le indicò freneticamente l’orologio che aveva al polso.
Era bene che andasse, tornasse a casa, alla sua vita, lasciasse Vegeta. Per sempre.
“Morirà con il ricordo delle sue splendide tette, signorina.”
Fece finta di non vederlo nè sentirlo e tornò ad accarezzare il suo compagno.
“Lo sai che ti faranno?”
Lui annuì impercettibilmente e serrò gli occhi. Gli avrebbero fatto le cose che lui aveva fatto ad altre persone.
Ed era proprio vero che la morte distruggeva i vivi, perché Bulma scoppiò a piangere e si mise le mani nei capelli e paradossalmente cercò calore in quel corpo quasi morto.
Si strinse a lui, fanculo gli avrebbe fatto male, e nascose il viso nel suo petto sudato.
“Non doveva finire così, non volevo finisse così.”
“E come?” Ricambiare la stretta era impossibile, parlare solo difficile, ma per lei l’avrebbe fatto.
“Volevo un giudice, una giuria, gli avvocati, la difesa. Sarebbe stato tutto diverso.” Forse avrebbe chiesto di appellarsi a infermità mentale dell’accusato, forse l’avrebbe aiutato a fuggire, forse avrebbe avuto ancora un po’ di tempo per combinare altri casini.
Il problema era che sarebbe morto troppo presto.
“Morirò. Cosa è cambiato? ”
Giusto, ma anche se fosse stato sbagliato sarebbe successo lo stesso.
“Avrei voluto che l’azienda venisse chiusa, che i tuoi amici venissero messi in prigione, che ci potesse essere un po’ di giustizia. Invece tu morirai e io rimarrò senza di te e basta.”
Era proprio un’ingiustizia non poter sentire le braccia di Vegeta stringerla, ma la vera cattiveria era pretendere di avere supporto da chi l’avrebbe dovuto giustamente avere in un momento così delicato.
“Hai paura, amore mio?” Che domanda stupida: chi non aveva paura della morte? Era completamente umana la paura, ma forse se le avesse detto che lui era di natura divina lei si sarebbe tranquillizzata, l’avrebbe saputo eterno.
“Come tutti.” Eppure era stato molto più bello svestirlo dal ruolo di dio e farlo diventare solamente uomo: tutto quello che avevano vissuto pareva essere reale e non solamente immaginato.
Era bello considerarlo uomo con i suoi difetti e sarebbe stato ancora più bello che quei difetti rimanessero anche quando fosse stato morto.
Bulma si rifiutava di ricordarsi Vegeta come un santone, lo voleva ricordare da figlio di puttana e voleva ricordare che lo amava perché era un figlio di puttana.
Si asciugò una lacrima col dito, stranamente felice, e poi incollò la bocca a quella di Vegeta e non aveva intenzione di staccarla finchè non avesse rischiato di morire soffocata.
Niente lingua, niente unione; solo bocca, solo contatto: erano due persone diverse e complementari ed era tutto perfetto per quello.
“E’ proprio finito il tempo, signorina. Deve andarsene.”
Bulma sbuffò annoiata e poi si decise ad alzarsi, guardandolo per l’ultima volta dall’alto in basso.
“La felpa.” Vegeta sul letto di morte riusciva ancora a pensare alla gelosia e al fatto che non volesse che la sua donna facesse vedere il suo corpo agli altri e non aveva gli occhi minacciosi solo perché erano troppo lividi.
“Tienila tu, almeno ti fa caldo.” Gli strizzò l’occhiolino. “Io sto bene così.”
“Signorina si copra, non sta bene andare in giro mezza nuda.” Il poliziotto parlava  per dovere, non certo per piacere; lui l’avrebbe incitata a togliersi anche i pantaloni, ma non sarebbe stato professionale.
“E chi l’ha deciso? La società?” Bulma si mise le mani sui fianchi stizzita, facendo ondeggiare le tette.
“Bè, sì.” Balbettò quello scandalizzato.
“Ah,sì? Allora sa che le dico?” Domandò con sfida. “Le dico che è sbagliato.”
E con molta praticità si sciolse il reggiseno, fece scivolare le bretelle sulla braccia e poi lo buttò sulla faccia del poliziotto.
“Addio, Vegeta.”
Si voltò di nuovo, non avrebbe voluto fosse l’ultima, ma, vedendo Vegeta sorridere orgoglioso, si decise; l’ultima immagine che aveva del suo uomo sarebbe stata la sua felicità.

“Addio.”

Era tutto finito. Vegeta probabilmente era morto e Bra e Bulma camminavano per le strade della città tutte da sole e la giovane donna non sembrava nemmeno turbata dal fatto che avesse i capezzoli in bella mostra e che tutti la fissavano chi sconcertato, chi eccitato, chi accusatore.
Ma Bulma se ne fotteva di quel che pensava la gente: l’amava, ma amava ancora più se stessa, il suo pensiero e la convinzione che non ci fosse nulla di male a camminare senza maglietta e reggiseno alle undici di sera nessuno gliel’avrebbe mai potuta togliere.
Era stanca e spossata e decise che quella sera non avrebbe cucinato, non che fosse un’eccezione.
“Ti va la pizza, amore mio?”
Bra stava per parlare ma il commento di una signora acida che aveva chiamato la sua mamma zoccola aveva coperto la sua risposta affermativa.
Bulma sorrise alla signora e la salutò cordialmente, era inutile incominciare una lite perché contro il sistema non si poteva vincere, il mondo non si sarebbe potuto cambiare, l’unica vittoria era quella di non farsi cambiare e la potevano chiamare con i soprannomi più osceni, ma non c’era niente di male a camminare a petto nudo, d’altronde in televisione si vedevano solo donnine con le tette di fuori, no?
“Mamma?” Bra non era troppo triste. Era abbattuta, ma non inconsolabile.
Quando Bulma era andata a fare visita al suo papà, lei si svegliò sulle gambe di Goku che la teneva stretta, stretta.
“Dimmi tesoro.”
La notizia della morte di suo padre l’aveva scossa e avrebbe voluto piangere e l’avrebbe continuato a fare, se lo zio non le avesse dato uno, due, tre casti baci a fior di labbra.
Vegeta aveva sbagliato e avrebbe dovuto essere punito, ma Goku assicurò a Bra che non le sarebbe mai mancato un padre, le assicurò che lui ci sarebbe stato sempre e le ricordò che l’aveva sempre amata come una figlia, l’amava come sua moglie, l’amava come amava Bulma.
Bisognava amare tutti le aveva detto Goku e quell’insegnamento le piaceva.
“Ora che papà è morto, nel mondo non succederanno più cose brutte?”
La verità era che a cinque anni non si era ancora troppo presi e compresi dalle stronzate di tutti i giorni, si pensava lucidamente senza avere quel peso certe volte ingombrante dell’esperienze e delle delusioni degli adulti.
La verità era che quella bambina somigliava tragicamente a Vegeta e aveva ereditato quell’indole dell’avvocato che faceva domande difficili e retoriche per far cadere in fallo l’altro.
“No, amore, non è cambiato niente.” Rispose rassegnata, ma sempre ancora intimamente e fortunatamente contraria a tutto.
Quella sera era morto un uomo che aveva fatto cose cattive, non avevano di certo debellato il male.
“Cambierà mai qualcosa?”
Sarebbe mai cambiato qualcosa?
Erano gli uomini a fare le cose ed erano quindi gli uomini a dover cambiare. Nel presente l’unica soluzione che le sembrava giusta era lo sterminio di massa, ma lei era solo un uomo e gli uomini sbagliavano e la loro giustizia era sempre ingiusta.
“Quando tutti moriranno.”
“Stronzate, uccidere è sbagliato.”
Bulma la guardò orgogliosa: lei non era così intelligente a cinque anni, era solamente più educata e idealista.
Bra era così diversa da lei che le fece sperare che un giorno non troppo lontano qualcosa sarebbe potuto davvero essere diverso, senza che l’umanità sparisse.
La soluzione al problema dell’uomo era l’uomo.
“Mi sembra giusto.” Se poi lo era veramente nessuno l’avrebbe potuto mai dire: sbagliavano sempre gli uomini.

Non era un scuola, era un tribunale quello e gli arringatori sempre i soliti: Vegeta e Bulma.
Bulma era andata correndo da Vegeta, gli aveva levato la sigaretta dalle mani e l’aveva schiacciata sotto il suo piede, perché fumare era sbagliato.
“Chi sei tu per dirmi cosa è giusto e cosa è sbagliato?” Domandò curioso.
“Una persona giusta.” Risposte ovvia e convinta.
“Quindi tu non sbagli mai, giusto?” Perché Vegeta non capiva come si potesse dettare legge, sebbene lo affascinasse quel mondo oscuro di norme e diritti.
“Giusto.” Quanto era altezzosa quella ragazza!
“Allora sappi che privare della libertà di azione un individuo è sbagliato. È sbagliato impedirgli di sbagliare ed è sbagliato insegnare il giusto mediante preconcetti. Se davvero volevi fare una cosa buona mi avresti dovuto dire che non si fuma perché il fumo annerisce i polmoni, atrofizza le ciglia polmonari, causa una serie di problemi di salute, inquina l’ambiente ed è economicamente dispendioso e io forse avrei potuto ponderare sul problema, analizzare ogni singolo punto e poi sarei stato libero di decidere se continuare a rompermi il collo o fare qualcosa di buono per me.
E alla fine avrei potuto capire che fumare è sbagliato!
Le sbraitò contro incollerito e poi si accese un’altra sigaretta davanti alla sua faccia.
“Ma entrambi continuiamo a sbagliare.”
“No, qui l’unico coglione che sbaglia sei solo tu.” Gli pungolò il petto con il dito.
“Chiudersi nelle proprie convinzioni è sbagliato, anche tu sbagli.”
Erano pochi giorni che si conoscevano ed erano convinti di odiarsi alla follia, anche se si sbagliavano.
“No, io non sbaglio.” Si mise le mani sui fianchi sinuosi.
“Arrenditi Brief, siamo uomini e sbagliamo.” Vegeta ne approfittò per prenderla con le braccia dalla vita scoperta e attirarla a sé.
Cercò di baciarla: era una bambina idiota, ma se le avesse tappato la bocca sarebbe stato davvero bella.
“Allora il tuo giudizio sarà sbagliato e tu stai sbagliando.” Urlò spingendolo lontano.
“L’ho sempre detto che io sbaglio. Sei tu che sbagli a non capirlo.”
Fece dei versi di stizza e batté i piedi sul pavimento.
“Vaffanculo, Vegeta!”
Parlare con quel ragazzo era inutile, non si arrivava mai a una conclusione, si facevano discorsi vaghi, forse belli, ma davvero senza riscontro nel mondo o in quello che voleva fosse stato il mondo.
“Non si dicono le brutte parole. Hai sbagliato di nuovo.”
Bulma ringhiò, allontanandosi, pensando di avere ragione, ma non considerarsi un uomo che poteva sbagliare era sbagliato.
"Dillo che avresti voglia di ammazzarmi." 
"Io non ucciderei mai: è sbagliato e io non sbaglio."


Sorpresa!
Mi è venuto un flash e ho capito che la fine che pensavo dal lontano mese di giugno era banale o probabilmente troppo difficile da sviluppare in maniera originale e quindi ho colto al volo questa opportunità che il mio cervello mi stava suggerendo ed ecco qui: è tutto finito.
Ma forse nemmeno questa fine è bella, ma come altro poterla finire se non con uno sbaglio? xD
Sempre la solita cosa: quell’idea perfetta e inafferrabile che non riesco a scrivere. D:
E scrivere queste ultime note sarà più difficile di scrivere l’intero capitolo, perché non riesco ancora a dire di aver finito e non riesco a capacitarmi di esserci riuscita, nonostante tutto.
Volevo spendere due parole sulla frase che ho scelto e su quanto ho scritto.
Chi non conosce la celebre frase “Fermati, o sole!”? Io l’adoro!
E’ una frase che ha innumerevoli significati allegorici, giustificazioni religiose, che io non voglio trattare, ma è anche e soprattutto la più grande prova della fallibilità umana, circa tutto.
Fermati, o sole! Lo dice la bibbia, il libro di Dio, il libro della verità spirituale, eppure per quanto possano essere stati illuminati gli apostoli, o chiunque altro abbia scritto la bibbia, erano sempre uomini che pensavano che il solo si muovesse attorno alla terra: vero, gli uomini sbagliano, anche se appartengono a un’istituzione.
Fermati, o sole! Per non cadere nello sbaglio ci vuole la conoscenza, ma c’è stato qualcuno che per amor proprio, più che per amore degli altri, ha esaltato questo sbaglio, ha criticato la scienza, l’emblema della conoscenza, l’ha resa la giusta volontà di Dio.
Penso a Galilei, penso a Bruno, uomini giustiziati dagli uomini che hanno sbagliato, dagli uomini che potevano giudicarli perché erano la giustizia e tutto è stato totalmente sbagliato.
Ma la giustizia siamo noi e noi siamo tanti, siamo contraddittori, siamo sbagliati e lo sarà pure la giustizia che in forma assoluta e trascendentale sembra non esistere.
E la fine è di nuovo l’inizio e questa storia non ha voluto significare nulla, se non il meraviglioso paradosso della dialettica a cui io non ho davvero reso onore. xD
Eppure sebbene le conclusioni risultino le stesse delle premesse, pensiamo che per arrivarci le abbiamo pensate, le abbiamo analizzate, non le abbiamo subite in modo passivo e alla fine questo credo sia l’unica cosa bella che abbiamo al mondo: non poter cambiare nulla, ma almeno potere e dovere avere la libertà di cercare di capire e di esercitare la nostra natura pensante che pensa pure alla possibilità del cambiamento.
Sono sempre dell’opinione che ho scritto una storia troppo sopra le mie capacità, ma spero che apprezziate lo sforzo e l’impegno. =)
Ora passiamo ai ringraziamenti che saranno lunghini, forse.
Grazie a tutti quelli che hanno letto silenziosamente, se sapessi il vostro nome, vi ringrazierei a uno a uno, ma fate finta che l’abbia fatto! <3
Grazie a chi ha seguito:
1 - amand118 
2 - andry15 
3 - BALLA_X 
4 - Berri 927 
5 - cassandra76 
6 - claire24 
7 - coffy 
8 - flyvy 
9 - girasole1988 
10 - giudaballerino 
11 - Kappa007 
12 - LadyCissy 
13 - laulaury 
14 - LiAgIuZ 
15 - LottyRouge 
16 - LoveKath 
17 - MartinaSs 
18 - marty123XD 
19 - meghi_13 
20 - Micky_Heidi 
21 - Prince Vegeta 
22 - PZZ20 
23 - Sha_17 
24 - Shirley_99 
25 - Sveva99 
26 - vegeta4e 
27 - Veggi 
28 - Warrior Queen_ 
29 - yle92 
30 - _MangaGirl_ 
31 - _UnInvernoMuto_
Grazie a chi ha messo che la ricorderà, anche se spero che nessuno se la scordi <3
1 - angyp 
2 - yukinami
E anche se stenterete a crederlo, c’è qualcuno che la reputa una delle sue storie preferite, quindi grazie anche a voi. <3
1 - 22volteME 
2 - anne_black 
3 - buby91 
4 - coniglietto 94 
5 - ErinThe 
6 - federed 
7 - francyslytherin 
8 - ghiaccioomega 
9 - Helen_ 
10 - LilyGK 
11 - Margherita Dolcevita 
12 - marty123XD 
13 - Micky_Heidi 
14 - Moby9090 
15 - pastafrolla 
16 - Prince5 
17 - PZZ20 
18 - sofy_99 
19 - sweetgirl1993 
20 - vale 93 
21 - ve91 
22 - voyeuristic intentions 
23 - Warrior Queen_ 
24 - welcome to my life 
25 - Yura14

E poi ringrazio chi ha recensito, chi un capitolo, chi tutta la storia.
Mi dispiace aver visto questo calo delle recensioni, ma capisco gli impegni e spero davvero che la storia continui a esservi piaciuta anche silenziosamente! <3
1 - PZZ20
2 - Micky_Heidi
3 - KiddVegeta_99
4 - Venereth92
5 – Moby9090
6- Linx375
7- 22volteME
8- ErinThe
9- buby91
10- flyvy
11- anne_black
12- yukinami
13- Helen_
14- spaghettafunk
15- Magic_
16- Klaine_Blaine
17- welcome to my life
18- giudaballerino
19- Yura14
20- voyeuristic intentions
21- Claire24
Siete stati tutti fondamentali!
Un grazie speciale va a Sophya che non mi ha mai abbandonato e a Micky_Heidi che mi faceva sentire davvero capace. <3
Ho poca autostima D: Ah, domani correggo gli errori, so che ce ne saranno. xD
Detto tutto questo, meglio che pubblico subito, perché sto lottando con l’istinto di cancellare proprio tutto il capitolo che ovviamente non mi convince.
Grazie ancora di tutto è stata bella condividere quest’esperienza faticosa con tutti e adesso vi auguro buona notte! <3


L’ultima cosa e poi scompaio e vado a nanna pure io:
L’intera storia, tutta la storia è dedicata a un essere antipatico e talvolta irritante con il quale sto sempre insieme e che è stata l’unica a sopportare tutti i miei tormenti circa questa storia che le faceva altresì schifo. xD
Quindi Ele questa storia è per te e me ne frego che non ti piaccia. U_U
Ora ci dobbiamo prendere un calippo, me lo merito…


Buon tante cose e soprattutto non smettete mai di pensare! <3

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