Preferisco il tuo profumo a quello di una sigaretta.

di damonslaugh
(/viewuser.php?uid=227179)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di tutto. ***
Capitolo 2: *** Un mostro. ***
Capitolo 3: *** Il tuo profumo. ***
Capitolo 4: *** Io contro il mio inconscio. ***
Capitolo 5: *** Sul filo del rasoio. ***



Capitolo 1
*** L'inizio di tutto. ***


Era passato un po'  di tempo dalla morte di mio fratello. Il mio nome è Roxanne, sono un'adolescente particolare. Ho i capelli neri come il carbone che sfiorano delicatamente le spalle, una carnagione notevolmente chiara, intensi occhi grigi, mani delicate, corporatura fine e sorriso sgretolatosi con il tempo. Non vado dietro ai ragazzi o mi vesto di rosa come le ragazze della mia età. Non so perchè mi odino tutti, io non faccio altro che starmene per i fatti miei. Non sono una una persona molto socievole, anzi non lo sono per niente. Prima non ero così, ero una ragazza allegra, piena di ambizioni ed amici. Il cambiamento tra quella che ero e quella che sono è avvenuto a causa del mio compleanno. Pochi giorni prima del mio compleanno a scuola non si faceva altro che parlare della serata in discoteca di qualche settimana prima, a me non importava niente ma le mie amiche continuavano a dipingere la discoteca come il paese delle meraviglie.  
<< Devi assolutamente fare la tua festa lì >> Mi diceva la mia amica Jennifer, detta Jen, quello era il suo nome. Aveva quei boccoli biondi che le scendevano fino alle spalle, capelli soffici come la neve, occhi magnetici di un color azzurro sbiadito con qualche sfumatura di bianco ed un sorriso splendente come tanti gioielli. Jen era una ragazza distratta e spensierata ma in compenso aveva voti molto alti ed un perfetto equilibrio, cose che a me scarseggiavano.
<< Rox, diventerai la regina delle feste >> aggiungeva sempre quando si tirava in ballo il problema del festeggiamento del mio compleanno imminente. Facevo finta di ascoltarla mentre parlava per ore sul fatto di essere popolari, a me sinceramente non importava neanche prima. Ero arrivata al limite di sopportazione e mi venne in mente solo una frase per farla smettere di blaterale 
<< Va bene Jen, chiederò ai miei genitori per questa maledettissima festa. Ora basta.. >>   credevo fossero semplici pensieri ma fu tutto il contrario, perchè lo dissi ad alta voce e gli occhi della ragazza luccicarono di felicità mentre mi abbracciò forte. Non potevo deluderla, non proprio quando avrei fatto l'unica cosa di carino da quando eravamo amiche. Avrei provato a chiedere ai miei genitori per la festa di compleanno. Le ore delle lezioni passarono troppo in fretta, in un'altra circostanza sarei stata felice ma sinceramente non avevo voglia di tornare a casa. Durante tutte le lezioni scrissi un ipotetico discorso che avrei potuto fare ai miei genitori per persuaderli all'idea della festa.  
<< Non sarebbe più semplice non dire niente e trovare una scusa con Jen? >> pensai.
 No, non volevo mentirle, anche se assumeva un atteggiamento strano a volte, era la mia migliore amica. La campanella suonò, ciò significava che le lezioni erano finite ed era il momento di andare a casa. Mi incamminai fuori dalla classe, percorrendo il lungo corridoio ed infine lasciai l'edificio. Improvvisamente comparve Jen al mio fianco con il suo quaderno rosa fluorescente, tutto ordinato e profumato.  
<< Tieni ho scritto qualche scusa e qualche bozza di discorso da dire ai tuoi genitori >> mi disse, porgendomi il quaderno.  Abbozzai un mezzo sorriso, non sapevo che dire 
<< Ehm.. grazie >> dalla mia bocca uscì solo questo. Salimmo sul pullman e ci dirigemmo verso i sedili dietro ma ovviamente erano occupati, perciò optammo per i primi due sedili.
<< Se tu fossi popolare il posto dietro è un tuo diritto >> iniziò Jen, assillandomi per tutto il tragitto sull'importanza dell'essere popolare e di come quella festa mi avrebbe aiutato.  
<< Vedrai sarà una festa da urlo! >>  ripeteva Jen
 << Di urli ce ne saranno parecchi.. da parte dei miei genitori..  >>  commentai con un filo di sarcasmo.
<< Oh, devo scendere >> si accorse dispiaciuta.
<< Non dimenticare il tuo.. >> non riuscì a finire la frase che rimasi immobile con il quaderno in mano mentre la ragazza mi guardava da fuori il finestrino.
 << Ti servirà, domani mi racconti >> mi salutò mentre il pullmino ripartiva faticosamente, io ricambiai con un lieve gesto della mano ed un mezzo sorrisetto amichevole. Sarei dovuta scendere alla prossima fermata, il panico iniziò a prevalere su tutto, sarei voluta restare dentro il pullman fino alla mattina seguente. L'autista si fermò e, aprendo le porte, io scesi goffamente. A passi lenti mi dirigevo verso casa, attraversai nervosamente il cortiletto, frugai nel mio zaino in cerca delle chiavi ed entrai in casa. Ad aspettarmi c'era la mia gatto, Summer, che saltò subito tra le mie braccia, la accarezzai dolcemente. Alzai lo sguardo lentamente e lo vidi, mio fratello Sam. Il ragazzo era più grande di me, aveva i capelli neri che gli calavano davanti al viso coprendo gli occhi castani contornati di verde, la carnagione leggermente più abbronzata rispetto alla mia, con un sorriso sincero e mani forti. Era un rapporto davvero speciale quello che si era creato tra noi, invidiabile direi, avremmo dato tutto per veder sorridere l'altro. Quando mi voltai lo vidi sorridere e, lasciando che il gatto svincolasse dalle mie mani, corsi lungo il corridoio fino alle sue braccia che mi strinsero forte. 
<< Ciao sorellina, qualche problema? >> Chiese mentre le mie braccia lo stringevano in un lungo e caloroso abbraccio, mi sentivo particolarmente protetta e al sicuro tra le sue braccia. Ci sedemmo sul divano e gli raccontai tutto, Sam riuscì a farmi tirar fuori emozioni che fino a poco prima tenevo nascoste. Ero impaurita, felice, rassicurata, infastidita e stranamente sollevata nello stesso tempo. Dopo una lunga chiaccherata fui pronta a parlare con i miei genitori, presi la mano di mio fratello e ci dirigemmo verso la cucina dove mia madre preparava il pranzo e mio padre era indaffarato con  il giornale. Mi schiarì la voce, attirando l'attenzione su di me, strinsi la mano di mio fratello ed iniziai.
 << Volevo chiedervi una cosa riguardo il mio compleanno >> dissi viccagliamente sottovoce 
<< Dicci cara, qualcosa non va? >>  chiese gentilmente mia madre 
<< Emh.. più o meno.. >> feci una pausa, presi un bel respiro e ricominciai << Vi volevo chiedere se potevo festeggiare il mio compleanno, in una discoteca>>  i loro occhi si sgranarono e le sopracciglia si infossarono 
<< Un paio di settimane fa c'è stato un evento e ha riscosso molto successo. Vi prego, lasciatemela organizzare >> fu tutto molto strano. Avevo passato la giornata ad organizzare un discorso di senso compiuto ed ora, presa dal panico, non riuscivo a spiccicare parola.
 << La porterò io e la andrò a riprendere! Starà con me! Ogni tanto passerò di lì e vi terrò informati su tutto.. >> promise Sam, ecco che un altra volta gli ero debitrice. I miei genitori si guardarono negli occhi, si creò un silenzio imbarazzante che fu rotto dalla voce melodica di mia madre 
<< Non è da te cara tuttavia, dato che Sam ci ha promesso di tenere d'occhio la situazione..>>  si fermò, il mondo e il tempo si fermarono, il mio cuore si fermò,  quando mio padre riprese il discorso
<< Allora puoi organizzare, ma niente cose fuori dai limiti signorina >> si raccomandò, riprendendo le parole di mia madre. Non sapevo se fare i salti di gioia, rimanere perplessa o dare capocciate alla porta, ringraziarli fu l'unica cosa che feci. Mia madre, Nicole, era una donna giovane, capelli biondi e morbidi come la seta, modi aggraziati, camminava impettita con un sorriso raggiante ed enormi occhi grigi. Mio padre, Michael, era invece un omone alto e massiccio, capelli neri come la notte, occhi verdi e con una goffaggine inaspettata.  Ci sedemmo a mangiare, fu un pranzo stranamente in silenzio e mi piaceva. Finito l'abbondanza di cibo cucinata io e Sam sistemammo i piatti ed andammo via dalla cucina. Percorremmo a lunghi passi il salone, dirigendoci verso il corridoio per poi salire le scale ed arrivare nella mia camera. Le pareti della stanza riprendevano il colore del cielo, appesi c'erano tantissimi quadri che ritraevano perlopiù me e mio fratello, a un angolo della stanza c'era la mia scrivania piena di oggetti inutili e tanta confusione, nell'altra estremità un grande letto con accanto una finestra che si affacciava sulla casetta sull'albero del giardino di casa e vicino alla porta tempestata di scritte c'era un dondolo ad ovetto. Entrammo nella camera e ci sistemammo sul letto.
<< Dobbiamo pensare ai preparativi per la festa >> disse con uno strano entusiasmo mio fratello, sorridendo.
<< Non mi importa più di tanto>> confessai 
<< Lascia la scelta delle decorazioni alla tua amica e la prenotazione del locale a me. Tu occupati delle persone invitate>>  ribbattè mio fratello sorridendo e, facendomi l'occhiolino, si alzò, mi scoccò un bacio sulla fronte e uscì dalla mia camera. Mi sedetti sul dondolo ad ovetto, carta e penna in mano, feci mentalmente il punto della situazione ed iniziai a scrivere determinata  la lista degli invitati. Passarono ore e sulla pagina bianca risaltava solo un nome: "Nessuno". Strappai il foglio, lo accartocciai e lo buttai per terra. Ricominciai da capo, mi venne in mente il vero primo nome, avevo una scritture fine e delicata, scrissi in stampatello "Jen" e poi il vuoto più totale. Lasciai il foglio sulla scrivania, aprii la finestra e mi arrampicai su un ramo robusto fino alla casetta sull’ albero, entrai ed iniziai a pensare. Senza che io me ne accorgessi spuntò la luna e le stelle iniziarono a brillare alte in cielo, sprofondai nel sonno. Mi risvegliai la mattina seguente a causa di un gran fracasso proveniente dalla mia sveglia mezza rotta, ero in camera mia, ma come ci ero arrivata? La risposta era chiara: Un angelo custode chiamato Sam veglia su di me e mi protegge. Mi alzai subito dal letto, mi preparai, misi in spalla lo zaino, feci colazione, salutai il mio fratellone e mi incamminai fuori la porta, diretta a scuola. Arrivata al cancello intravisi Jen, mi feci posto tra qualche studente e mi avvicinai a lei
 << Rox, allora? Com'è andata? >> mi chiese impaziente, io le raccontai tutto aggiungendo infine un piccolo dettaglio che avevo dimenticato  << Devi pensare tu alle decorazioni ma..>> feci una pausa << ..non ho la minima idea di chi invitare >> spiegai  quando Jen rispose sorridente: << Penso a tutto io, la faremo il giorno del tuo compleanno >> strabuzzai gli occhi, guardandola sbigottita.
 << E' tra tre giorni! >> esclamai ansiosa.
<< Dov'è il problema? Dì a tuo fratello di prenotare ed al resto penso io >> ribattè con il tentativo di  rassicurarmi ma non mi aiutò affatto, avrei voluto obbiettare ma la campanella suonò e lei svanì insieme alla massa di studenti verso le aule. Le lezioni le passai a scarabocchiare sui quaderni come al solito, quando suonò la campanella di fine lezioni mi sentivo stranamente sollevata e mi diressi subito al pullman dritta verso casa. Non vidi Jen per tutto il giorno, nè a ricreazione nè all'uscita e non sapevo se essere felice o preoccupata,
<< Di sicuro starà organizzando mille cose come al suo solito >>  mi ripetevo. Scesi dal pullman ed entrai velocemente a casa raccontando dettagliatamente la conversazione di stamattina a mio fratello
 << Già sapevo tutto >> mi disse, per un secondo mi passò per la testa che Sam potesse essere un veggente 
<< Ma come.. >> non mi lasciò finire la frase che mi interruppe 
<< Mi ha chiamato Jen stamattina >>  ora si spiegava tutto, mi disse in oltre di aver già prenotato. Ero sbalordita. Gli sorrisi e iniziammo a parlare del più e del meno, delle lezioni e dei professori. Il legame con mio fratello era speciale, me ne rendevo conto, non era solo il mio fratellone ma anche il mio migliore amico. I giorni successivi passarono in un baleno e l'ansia per la festa saliva ancora di più. La mattina del grande giorno fu diversa da tutte le altre, arrivai a scuola e persone di cui non conoscevo l'esistenza mi salutarono, alle lezioni mi arrivarono continuamente bigliettini con scritto quanto aspettavano ansiosi la festa, come si sarebbero divertiti e che ero una "bomba". Questa volta sul pullman i posti in fondo furono riservati per me e Jen, mi sentivo continuamente osservata e scrutata da mille occhi.
<< Ho sempre ragione. >> ripetè Jen per tutta la mattina. 
Una cosa non sapevo, che quella popolarità sarebbe durata ben poco. Il pomeriggio andai a cercare un vestito adatto con mio fratello e  Jen, dato che il mio guardaroba era povero e mi era stato vietato di andare in jeans e maglietta. Girammo due ore prima di trovare il vestito adatto ed anche Jen se ne comprò uno bellissimo. Il mio vestito era nero, con una scollatura sul petto, mi scendeva fin sopra le ginocchia ed era contornato da luccichini grigi che facevano risaltare i miei occhi e naturalmente accompagnato da tacchi insopportabili neri e fini. Il vestito di Jen invece era rosa confetto, le scendeva giù fin sotto le ginocchia, era di velluto con una fascia di brillanti che le cingevano la vita. La grande sera arrivò; uscì di casa tutta truccata e acconciata, salutai i miei genitori ringraziandoli ancora, salì in macchina con Sam e ci dirigemmo al locale. Sam mi lasciò davanti l'entrata.
<< Divertiti, io sono qui intorno se hai bisogno di qualcosa, chiamami quando devo venire a riprenderti >> mi disse facendomi l'occhiolino, poi aggiunse << Mi fido di te, sei davvero bellissima. >>  e sgommò via, non feci in tempo a focalizzare la scena che Jen mi trascinò dentro. Volti mai visti mi fecero gli auguri, la musica alta, luci colorate e tante ragazze urlanti, questa era la discoteca e sinceramente non sembrava niente di speciale, decisi comunque di divertirmi e lasciarmi trascinare dalla musica. Ballai sopra quelli che venivano chiamati "cubi", scartai i regali, ringraziai tutti, tagliai la torta eccessivamente grande ed ammisi di essermi divertita abbastanza. Le persone iniziarono ad andare via ed io ne approfittai per chiamare mio fratello "Arrivo subito", rispose. Tutti erano andati via, persino Jen ed io mi ritrovai da sola lungo una strada buia e stavo morendo di freddo, chiamai più volte ma mio fratello non rispondeva, lasciai messaggi su messaggi ma niente. Le ore passarono e io finì per fare l'autostop ad una vecchia signora per tornare a casa, ero sfinita e appena aprì la porta di casa mi trovai schiaffata davanti la cruda realtà e tutto il divertimento di quella serata sfumò in pochi secondi. Mia madre piangeva, mio padre piangeva, il gatto era impazzito e il mio cuore cessò di battere. Era la fine, la fine di tutto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un mostro. ***


No, non era possibile. Non era vero. La scena a cui avevo assistito pochi secondi fa non era vera. Era un sogno, anzi, un incubo. Salì di corsa senza pensarci due volte, le scale mi sembravano lunghissime e la mia camera una meta lontana. Finalmente arrivai, chiusi la porta alle mie spalla e iniziai ad urlare come se nessuno esistesse. In quel momento c'ero io, mio fratello e il mio dolore. Iniziai a rompere tutto senza pensare alle conseguenze. Mi vidi attraverso lo specchio: Gli occhi gonfi, le labbra sanguinavano, il viso pallido, le mani avevano assunto uno strano colore tra il viola e il verde, il collo rosso e pieno di lividi. Uscì dalla finestra e mi rifugiai nella casetta sull'albero, quella sera non mangiai e non parlai con nessuno. Ero sola contro il mondo. Mi addormentai aspettando che il mio angelo mi riportasse in camera, tutto era freddo e buio. Nessuno arrivò. Mi svegliai la mattina che tremavo, senza voce, avevo passato la notte ad urlare e a cercare di cacciar via gli incubi. Rientrai in camera, rovistai il mio armadio, presi una vecchia maglietta nera, una mini-gonna di stoffa, delle calze a rete e un paio di stivaletti neri. Raccolsi il mio zaino da terra e scesi di sotto, non parlai con nessuno ma sentivo occhi freddi che mi scrutavano, uscì velocemente da casa e sbattei la porta con violenza. Ero in anticipo. Mi fermai sotto un pino per strada, guardai il cielo e iniziai a piangere. 'Perchè te lo sei portato via?' pensavo, ma senza accorgermene stavo urlando << Ti dovevi prendere me! Non lui! >> continuai 
<< Era troppo presto! >> .
 Ormai non riuscivo a smettere di singhiozzare e tutto il mondo si fece grigio. Arrivai a scuola, mi guarardavano tutti con un'aria di superiorità, poi si giravano e continuavano a parlare per i fatti loro. Arrivò Jen, un attimo prima che la campanella suonasse, si fermò davanti a me  
<< Che diamine hai fatto? >>  mi disse in tono stridulo
<< Non è giornata, lasciami in pace >>  io risposi bruscamente, lei però continuò a criticare 
<< Essendo ormai popolare, devi curare la tua immagine ed essere più garbata. Non vestirti mai più come se fossi uscita da un film per fdepressi. >>  ripeteva, non  riuscì a calmarmi e le risposi ancora più infastidita << Non mi importa un fico secco di essere popolare! Non conosco neanche metà delle persone che mi salutano! E tu che ne sai che ho io? >>  volevo fermarmi ma ormai ero troppo arrabbiata << Mio fratello, è morto! Per colpa della tua stupida festa! Non sapete fare altro che giudicare una persona! Pensa a curare la tua immagine e tutti gli altri cavoli di cui non mi importa >> non feci in tempo ad accorgermi di quello che avevo appena detto che stavo già correndo dall'altra parte rispetto a lei, Jen era andata, ero sola. Sola per sempre. Ma il peggio doveva ancora venire. Le lezioni non passavano mai. Io occupavo il tempo disegnando angeli con lunghe ali, brillavano alti in cielo e vegliavano sulle persone. La pausa merenda la passai in classe, da sola, ad osservare il cielo. Finalmente la campanella di fine lezioni. Non andai in pullman, c'era troppa gente, quindi mi incamminai a piedi. Arrivai a casa, chiusi la porta e presi in braccio Summer dirigendomi in cucina per il pranzo, avevo tanta fame. I miei genitori erano seduti a tavola che mangiavano e mi guardavano con risentimento. Ne avevo abbastanza di tutti. 
<< Che succede? Ora che ho fatto? >>  vedevo il dolore negli occhi di mia madre e la delusione negli occhi di mio padre
 << Hai fatto una cosa veramente brutta lo sai? >> rispose mio padre
 <<  Non posso considerarti una figlia dopo ciò che è successo >>  era serio, io restai immobile come pietrificata
 << E' colpa tua se Sam non è qui, lo capisci? Te ne rendi conto? >>  sbottò mia madre, stava piangendo, si era alzata e mi scuoteva. Era fuori di se. Non capivo niente, tutto in torno a me girava e tante voci mi sovrappopolavano la testa. Mi mossi di scatto, scansai mia madre e corsi diretta in camera senza guardare indietro. 
<< Non scappare dalla realtà, cara >> era la voce di mio padre e fu l'ultima cosa che sentii. 
Mi rinchiusi in camera per tutta la serata, saltando la cena. I miei sogni erano popolati da incubi e così tutte le volte che mi addormentavo. La mattina mi svegliai a causa di un rumore che mi tartassava un orecchio, la mia sveglia. Mi alzai, mi lavai e mi inchiodai davanti all'armadio non sapendo cosa indossare per andare a scuola. Non ero dell'umore per indossare dei vestiti colorati, quindi optai per una maglietta nera con sopra disegnato un teschio che giocava a pocker e un paio di jeans strappati. Non feci colazione come tutte le mattine ma uscì direttamente dalla finestra, arrampicandomi sulla casetta e scendendo dalle scalette. Me la presi con comodo ed arrivai terribilmente in ritardo a scuola, mi fermai davanti al cancello immobile. Non avevo proprio voglia di entrare, di sentire i pettegolezzi, di far finta di ascoltare le lezioni e soprattutto di vedere Jen, perciò decisi di voltarmi e andare via. I giorni successivi passarono in fretta e senza accorgermene non ero più io, ero diversa. L'orecchio sinistro si riempì di pearcing così anche l'ombelico, il trucco nero, il viso pallido e spento. I miei vestiti, bruciati tutti. Avevo sostituito un intero armadio con magliette nere, jeans strappati, calze rete e minigonne nere di stoffa. Non parlavo e non interagivo con i miei genitori, li intravedo ogni tanto quando spizzicavo qualcosa. Non mangiavo, ero diventata una via di mezzo tra un'anoressica e una bulimica. Il solo pensiero di masticare qualcosa mi faceva salire il vomito, ogni volta che non mangiavo mi odiavo, ogni volta che mangiavo mi odiavo e con il passare dei giorni peggiorai sempre di più. La mia camera diventò un luogo spaventoso, buio e inquietante. Ogni mattina la stessa storia: Me la prendevo comoda, arrivavo in ritardo, mi fermavo davanti al cancello della scuola un paio di minuti e poi invece di entrare me ne andavo per i fatti miei. La mia media scolastica scese drasticamente, ricevevo ogni giorno una decina di chiamate dal preside e io ovviamente le ignoravo. I miei genitori se ne accorsero troppo tardi, ormai ero diventata un mostro. Fecero tutto il possibile per riallacciare i rapporti e mi segnarono da uno psicologo. Non fecero altro che peggiorare la situazione. Io puntualmente arrivavo in ritardo, mi sedevo e masticavo la mia gomma in silenzio per un paio d'ore, lo psicologo diceva che ero in una situazione disperata e che non collaboravo, i miei genitori si arrabbiavano e mi cambiavano psicologo. Tutti soldi sprecati a parer mio. Quello che mi serviva non era uno psicologo ma mio fratello che mi abbracciava e con la sua voce incoraggiante mi diceva 'Non ti preoccupare, andrà tutto bene. Ne usciremo insieme' . Ma lui non c'era e io mi ritrovai in un labirinto senza uscita. Mi chiusi in me stessa, ero io contro il mondo. Sembrava di essere in una camera insonorizzata, non sentivo nessuno ma vedevo tutti. Ogni giorno che passava era una martellata al cuore, io mi odiavo sempre di più e il mio fisico ne risentiva. Il dolore man mano si trasformò in odio verso chiunque respirava e camminava. Quando le persone mi guardavano io le incenerivo con lo sguardo e loro iniziavano a borbottare a bassa voce. Il mondo era cupo, il mio mondo. Quello che una volta era una vita che tutti desideravano ora si è trasformato nel peggior incubo di una persona. Una sera decisi di andare a fare una passeggiata, camminavo lentamente a testa bassa e scalciavo via i ciottoli che mi si presentavano davanti. Ad un tratto alzai la testa, qualcosa aveva attirato la mia attenzione. Entrai in un negozio un po' cupo, la scritta ' Tabacchi ' mezza illuminata e una puzza incredibile. Mi fermai davanti al bancone e scelsi attentamente il mio prossimo acquisto. Pagai con i soldi che avevo preso dal portafoglio di mia madre e mi diressi velocemente fuori, arrivai in un vasto prato e mi sedetti sotto un pino. Presi la prima sigaretta e la accesi. Era la prima volta che mi avvicinavo minimamente al concetto chiamato 'fumo' . Ispirai e mi colpì subito un colpo di tosse, così per la prima sigaretta. Passai alla seconda, alla terza e così facendo finchè non finì il primo pacchetto. I giorni passavano e la mia dose di sigarette aumentava, i soldi dal portafoglio dei miei genitori sparivano e le sedute dallo psicologo ormai erano giornaliere. E' interessante come una cosa che provoca malessere possa essere tanto confortante e necessaria per me. Quando tenevo in mano una sigaretta era come se il mondo sparisse e quando il fumo passava la gola era come se rinascessi, quando la sigaretta finiva ritornavo alla cruda realtà e ne prendevo un'altra. Fumavo cinque o sei pacchetti al giorno e più i miei genitori mi davano punizioni più non li ascoltavo. Una mattina mi svegliai di soprassalto inseguita dagli incubi e trovai i miei genitori seduti ai piedi del letto
 << Buongiorno principessa >>  iniziò mia madre 
<<  Cosa vuoi? >>  ribattei subito freddamente 
<< Io e la mamma abbiamo una splendida notizia da darti >> si intromise mio padre, io li guardai perplessa e loro continuarono 
<< Ieri sera tua madre e io abbiamo parlato e abbiamo preso una decisione >> continuò mio padre mentre mia madre si sedette accanto a me e iniziò ad accarezzarmi i capelli 
<< Sappiamo che è un momento difficile per te, cara >> disse mia madre facendo una pausa
 << E abbiamo concordato che stare qui ti fa solo peggiorare>> la scansai di botto e chiesi << Che c'è mi volete cacciare di casa? >> mia madre e mio padre si guardarono e dissero all'unisono 
<< Nono, andrai in un posto speciale >>  Io mi pietrificai. Sapevo cosa intendevano con 'Posto spelciale' e non potevano farlo. Non potevano rinchiudermi. Volevo obbiettare ma le parole non uscivano. Ero immobile, gli occhi spalancati e la bocca spalancata che cercava di tirar fuori almeno un 'No'. Ma niente. Tra poche ore mi sarebbe toccato salire in macchina e partire per il loro 'Posto Speciale'. Un centro psichiatrico.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il tuo profumo. ***


Salì in macchina senza parlare, ero completamente scioccata. Non ero mai stata di persona in un centro psichiatrico ma le persone non ne parlavano molto bene. La mia valigia conteneva qualche vestito nero e in una tasca nascosta una ventina di pacchetti di sigarette. Guardai per l'ultima volta la casetta sull'albero mentre mio padre girava la chiave e il motore si preparava per far ingranare la macchina. La casetta si allontanava sempre di più fino a sparire. Passammo davanti al Tabacchi, davanti la scuola e davanti la discoteca dove feci la festa. Un crampo mi colpì lo stomaco, il dolore mi penetrò il cuore e senza accorgermene stavo urlando. I miei genitori mi ignoravano guardando la strada, avevano il cuore freddo ed erano irremovibili sulla loro decisione. Le mie urla fecero premere nervosamente il piede di mio padre sul pedale, accellerammo. Palazzine, prati verdi e negozi passavano velocemente sulla strada, la fitta al cuore si faceva sempre più forte e le urla aumentavano sempre di più. Mio padre frenò bruscamente davanti a una palazzina grigia che aveva un'aria estremamente malinconica e buia. Io ero piegata dal dolore nel sedile posteriore quando mia madre scese e con aria indifferente mi aprì la portiera, prese la valigia e mi fece scendere. Pian piano il dolore si dissolse e le mie grida divennero irregolari respiri, i miei occhi diventarono gonfi e rossi mentre scrutavo l'ambiente. Non era un centro psichiatrico pieno di pazzi come mi aspettavo, anzi era come un centro anziani con ragazzi che avevano problemi. Le categorie andavano dai fumatori ai drogati oppure dai depressi gravi ai traumi psicologici. Presi la mia valigia mezza bruciacchiata ed estrassi una sigaretta dalla tasca, arrivammo alla porta e ci accolse una signora sui trentacinque anni, i riccioli biondi gli risaltavano il volto, corporatura fine e con un altezza nella norma. 
<< Benvenuti >> iniziò << Io sono Amelia >> fece una pausa e io accesi la mia sigaretta <<  Tu devi essere Rox? >>  chiese retoricamente facendo una pausa << Sai qui non si può fumare >> mi levò la sigaretta dalla mano e io iniziai ad urlare, le fitte di dolore mi penetravano lo stomaco e mi buttai a terra scalciando. Amelia si mise in ginocchio e mi accarezzò i capelli, cercando di rassicurarmi invanamente. Poi mi ridiede la sigaretta e mi aiutò ad alzare. 
<< Ci vorrà una terapia intensiva e tanto tempo, cara >>  mi spiegò, poi riprese << Ma non ti preoccupare, andrà tutto bene >> la sua voce era rassicurante e materna, mi tranquillizzai e continuai a fumare tranquillamente la mia sigaretta. Mia madre ringraziò Amelia e levò il disturbo. La signora mi fece accomodare e facemmo un giro di orientamento. Appena entrata vidi un lungo corridoio con quattro porte ai lati che portavano alla sala da pranzo, alla cucina, all'infermeria e al cortile. Ci dirigemmo verso il cortile, era enorme. Il sentiero pieno di ciottoli portava a una biforcazione di piccole casette che scoprì in seguito essere delle stanze. Amelia mi spiegò che se il bisogno di sigarette era incontrollabile non dovevo fumare in presenza di pazienti in terapia, quindi avrei dovuto fumare da sola. Mi scortò nella mia camera, anche essa immensa. Mi aiutò a disfare la valigia e cercò di aprire un dialogo con me ma io restai muta tutto il tempo. Mi portò il pranzo e poi la cena ma io non toccai cibo. Stetti seduta in un angolo tutto il tempo a fumare sigaretta dopo sigaretta, non mangiavo ne bevevo niente, non parlavo con nessuno. Amelie aspettò un paio d'ore sperando che mangiassi la mia cena, poi prese il piatto e si diresse alla porta della stanza 
<< Rox ti converrebbe andare a dormire, domani incontrerai il tuo infermiere e inizierai la terapia >>  si raccomandò mentre apriva la porta, poi uscì dalla stanza silenziosamente. Io finì la mia sigaretta e andai a sdraiarmi sul letto guardando il soffitto bianco. Le ore passavano e le palpebre si facevano sempre più pesanti finchè non si chiusero definitivamente. Quella notta fu piena di incubi come al solito. La mattina mi svegliai urlante, mi tappai la bocca e ansimando misi la testa sotto il cuscino trattenendo le grida. La porta si aprì e una persona entrò a grandi passi verso di me, mi levò il cuscino dalla faccia e disse ironicamente << Vuoi già suicidarti? >>  Io restai muta e mi girai, ritrovandomi davanti il mio infermiere. Era alto, capelli corti sbarazzini tendenti al castano, occhi verdi, mani forti e un sorriso puro. Io continuai a non parlare, mi diressi all'angolo della stanza e iniziai a fumare. Lui venne vicino a me e mi portò la colazione
 << Io sono Kyle, oggi valuteremo quanto disperato sia il tuo caso >> mi sorrise ironicamente e mi mise la colazione davanti. Io continuai a non spiccicare parola, non toccai il piatto e accesi le mie sigarette una dopo l'altra. La giornata passò così quando Kyle si sedette vicino a me e iniziò a illustrarmi il mio 'grado di disperazione'
 << Mi dispiace ma anche se non sei uno dei peggiori casi devo comunque stare con te tutto il giorno, tra poco aggiungeranno un  letto e inizieremo la terapia intensiva >> fece una pausa e mi scrutò attentamente << Io sono solo un infermiere, ma sto aspirando a diventare un dottore >>  mi spiegò, io restai muta. Montarono un altro letto ai piedi del mio e Kyle mi portò la cena, io rifiutai e andai a sdraiarmi nel letto. Mi addormentai subito e gli incubi mi sovrappopolarono la testa. Sognavo di incontrare mio fratello e lui mi puntava il dito assumendo la stessa aria rigida dei miei genitori dicendo le loro stesse parole, poi la scena si fece buia e apparvero i miei genitori che scuotevano il capo in segno di disapprovazione, poi il tabacchi e il viaggio in macchina verso il centro. Stavo urlando strappandomi i capelli quando sentì una presenza vicino a me che mi strinse, svegliandomi. Istintivamente mi strinsi a lui credendolo Sam, ma quando mi accorsi che non poteva essere lui mi staccai automaticamente. Soffocai la gola cercando di far cessare le urla e quando Kyle cercò di prendere le mie mani iniziai ad ansimare. Lui si mise accanto a me e mi lasciò le mani << E' il caso che io sappia cosa ti abbia ridotto così? >> mi chiese preoccupato, io non risposi ma lui insistette << Non credi che per aiutarti e dirti qualcosa di concreto dovrei sapere che ti succede? >> di solito non mi fidavo della gente ma con lui era diverso. Alzai lo sguardo verso il suo viso << Non mi fido. Di nessuno. Tanto meno di uno che ho conosciuto oggi >> dissi bruscamente, lui mi passò una sigaretta e me l'accese << Con queste vedo che ti calmi, però dovremmo diminuire la dose >> mi spiegò e poi rimase in silenzio accanto a me scrutando la stanza. Era l'unica persona che ci aveva fatto caso e magari lui poteva capirmi, cercai di formulare un discorso ma scoppiai in lacrime tra le sue braccia. Non so il perchè della mia azione, mi venne d'impulso. Kyle mi accolse fra le sue braccia << Il fatto che tu stia parlando con me è un grande risultato >>  disse sorridendomi e continuando a stringermi tra le sue braccia, lasciandomi sfogare. Io crollai e gli raccontai tutto, senza descrivere le emozioni che provavo, anche se sembrava che lui le capisse benissimo. Parlammo tutta la notte, non solo di me, ma anche della sua ambizione di diventare dottore e come sia finito in un centro. Kyle aveva studiato per tre anni psicologia quando si accorse che la scuola non faceva per lui e andò a cercare lavoro come dottore o meglio, psicologo, ma nessuno lo prese e si ritrovò a fare l'infermiere. Io mi sdraiai accanto a lui, sempre stretta tra le sue braccia quando mi disse << Se vuoi riposati, domani sarà una giornata lunga >>  fece una pausa e continuò << Io sarò qui accanto a te e se i sogni si deformano diventando incubi puoi stringerti a me >> disse dolcemente, rimasi sbalordita. Nessuno lo aveva mai fatto per me tranne mio fratello, Sam. Mi addormentai cercando di cacciare gli incubi, ma invanamente. Il mattino seguente, quando mi svegliai, Kyle era stretto vicino a me che mi accarezzava i capelli. Io mi alzai e andai al solito angolino per fumare le mie sigarette, Kyle mi portò la colazione ma io la rifiutai e così iniziò a imboccarmi. Appena ingoiato il primo boccone misi in fretta la testa vicino alla finestra, rigettai tutto e svenni per terra. Al mio risveglio mi trovavo in una strana stanza bianca che doveva essere l'infermeria, avevo dei tubi attaccati al braccio e quando mi accorsi che mi stavano somministrando del cibo li strappai e cadendo dal lettino iniziai ad urlare. Non era volontario, il mio cervello ormai era programmato così e non riuscivo a smettere. Kyle mi prese di peso e mi portò nella mia stanza, mi adagiò sul letto e mi strinse forte, le mie urla si placarono dopo un'oretta e mi fermai a guardare i lunghi tagli che mi avevano provocato i tubi. Mi alzai per prendere una sigaretta ma Kyle mi fermò << Dobbiamo diminuire le dosi e cercare un altra cosa che ti faccia stare meglio >>  mi spiegò ma io cercai con tutte le mie forze di prendere quel dannato pacchetto, invanamente. I giorni seguenti passarono velocemente e la mia terapia era uno strazio. Pian piano riuscì a diminuire le dosi di sigarette, ogni tanto mangiavo dei Cracker e bevevo un po' d'acqua, le sere le passavo a chiaccherare con Kyle finchè non ero stanca e mi stringevo a lui, anche i miei incubi diminuirono. Una mattina Kyle mi fece provare a stare in mezzo alla gente, a persone come me e andai a ' pranzare ' nella sala con gli altri. Non potevo portare le sigarette nè tanto meno fumarne una. Tremai tutto il tempo ma nonostante ciò riuscì a chiaccherare un po' con qualche persona, non erano veri e propri discorsi ma era più tipo ' Mi passi il sale? ' e balbettavo sempre. Quando tutti se ne furono andati dalla sala mi diressi a grandi passi verso il cortile dove Kyle mi aspettava
 << Missione compiuta! >> mi disse scherzando e io gli sorrisi imbarazzata, lui continuò  <> mi prese il braccio e mi condusse dietro la struttura dove c'erano delle scalette, salimmo velocemente. Arrivammo in un balcone molto grande dove c'era una panoramica fantastica su dei campi di girasole che splendevano tra i prati.  Kyle mi porse un pacchetto di sigarette dicendo che me le ero meritate, parlammo dei miei progressi mentre passavo da una sigaretta all'altra. Il sole iniziò a calare creando un bellissimo tramonto sullo sfondo dei girasoli. Presi la mia ultima sigaretta e iniziai a fumarla 
<< E' arrivato il momento che io ti confessi una cosa >> mi disse dolcemente Kyle << Ho chiesto io di essere affidato a te >> continuò, gli occhi fissi sui miei
<< Quale sano di mente chiederebbe di avere a che fare con me? >>  ribattei scherzando mentre facevo un altro tiro di sigaretta 
<< Un innamorato. Dalla prima volta che sei entrata i tuoi occhi mi hanno catturato e conoscendoti mi sono innamorato di te, Roxanne >> . 
Non sapevo che dire, ero immobile, cercando le parole adatte: in effetti una sensazione strana mi invadeva quando stavo con lui ed è l'unico che avrei sempre voluto al mio fianco, l'unico che mi sia sempre stato vicino e l'unico di cui sia importato davvero qualcosa di me. I miei occhi sprofondarono nei suoi mentre cercavo di tirar fuori un discorso, ma non ce ne fu bisogno. Lui si sporse vicino a me e io feci lo stesso. Le nostre labbra si incontrarono nel tramonto, come in un film romantico. Avevo la mia ultima sigaretta in mano, ispirai profondamente e un odore si distinse. Non era quello del fumo, era dolce e mi rassicurava. Buttai la mia ultima sigaretta concentrandomi solo su quel profumo, il profumo di Kyle. Quello che ancora non sapevo era quanti progressi significasse quel piccolo gesto.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Io contro il mio inconscio. ***


Ricominciai una nuova vita. Studiai da privatista e Kyle mi diede una mano, me la cavavo abbastanza bene con quasi tutte le materie. Pian piano le quantità di sigarette diminuivano. Iniziai a fare amicizia nell’istituto e tutti si impegnavano nel farmi dimenticare i ricordi del passato. Sinceramente secondo me il loro sforzo era invano perché non bisogna vivere nella paura e nella negazione, anzi, bisogna ricordare per combattere le esperienze dolorose e solo quando avrai vinto con il tuo inconscio non sarai più in pericolo. Quando non ero impegnata nello studio o nelle mie terapie il mio tempo lo passavo con Kyle. La mattina mi portava fuori a fare colazione e quando rientravamo ci aspettava la nostra partita a scacchi quotidiana. Lui si prendeva cura di me, mi coccolava e mi stava accanto sempre. I rapporti tra noi cambiarono, i nostri destini si stavano man mano intrecciando l’uno all’altro senza che noi ce ne rendessimo conto. Non sono mai stata brava con le parole importanti, non so definire bene quello che provavamo l’un l’altro. Al mattino il primo pensiero era rivolto a lui e la consapevolezza di averlo stretto tra le braccia al mio risveglio mi rassicurava, sentivo che la cosa che mi teneva ancora in piedi era il fatto di averlo accanto, le mie braccia cercavano costantemente le sue e avevo un istinto possessivo con lui. Forse la parola giusta era amore. Sì, ero innamorata. Ci piaceva ogni tanto fare qualche partita a scacchi. Io non capivo mai realmente come si giocava, muovevo i pezzi a caso e perdevo sempre. Kyle invece amava impegnarsi in questo gioco, calcolava ogni singola mossa e arrivava con la logica a tutte le soluzioni. Ogni volta che facevamo una partita lui se ne usciva sempre con la solita frase ma non ne capivo mai il senso. Una mattina la giornata si svolse diversamente, mi svegliò Kyle dicendomi che i dottori pensavano che io potessi essere pronta per l’ultima e decisiva fase della terapia. Si sbagliavano. Uscì dall’istituto con Kyle che mi teneva per mano. Non ci fermammo a fare colazione questa volta ma andammo avanti per un bel pezzo di strada, eravamo mano nella mano finché non ci fermammo.
<< Questa è solo una parte di questo piccolo test, pronta? >> mi chiese Kyle
<< Credo di sì >> dissi perplessa << Tu mi starai accanto, vero?  >>
<< Sempre >> mi rassicurò
Mi lasciò per un secondo la mano e mi fece voltare, dall’ altra parte del marciapiede un branco di persone con uno zaino in spalla si dimenava intorno a un edificio. Una scuola, anzi, la mia scuola. Rimasi subito impietrita quando focalizzai il paesaggio davanti a me. Non mi piegai per terra dolorante né emisi nessun genere di suono. Rimasi immobile. Il mio cuore veniva flagellato, ma era sopportabile e decisi di non far preoccupare Kyle che nel frattempo era accorso da me come se stessi per svenire.
<< Rox, tutto bene? >>  mi chiese preoccupato, io non risposi e lui iniziò a scuotermi
<< Sì, sto bene >>  dissi tremolante
<< Sicura? Non devi dimostrare niente >> mi chiese preoccupato
<< Sto bene. Ora te lo dimostro >>  dissi abbastanza sicura.
Lo presi per mano e attraversammo la strada in direzione del cancello della mia vecchia scuola. Ci fermammo non appena raggiunto l’altro marciapiede, sentivo già i mormorii degli studenti. << Ma quella è Rox? >>  vociferavano << Ma non aveva cambiato paese?>> . Falsità, solo falsità. Presi l’altra mano di Kyle e gli sorrisi e non appena arrivò Jen, la mia vecchia amica, gli stampai un grosso bacio che stava a significare che avevo ricominciato una vita felice con la persona che più amavo al mondo. Quella persona aveva le dita intrecciate nelle mie e le labbra che premevano delicatamente sulle mie. 
<< Sono pronta per la prossima frase >>  sorrisi
<< Sì ti credo. Ma non c’era bisogno di fare così >> obbiettò lui
<< Ora è tutto più ufficiale no? >> chiesi retoricamente
Kyle mi strinse stretta nelle sue braccia come segno di approvazione, io affondai la testa nel suo petto e bisbigliai un ‘ Ti amo ‘ che venne soffocato dai forti respiri del ragazzo che mi stringeva. Kyle però aveva capito e anche lui mormorò un lieve ‘ Anche io, tanto ‘. Nessuno dei due era bravo con le parole importanti e soprattutto con quelle troppo smielate. Passammo davanti a quella folla di studenti sbigottita e passammo alla prossima parte del test. Oltrepassammo il ‘ Tabacchi ‘ e non ci fu una minima reazione, oltrepassammo anche la discoteca e la testa iniziò a girarmi, mi ressi saldamente a Kyle e non dissi niente. Ci fermammo davanti a una schiera di case, io non le riconobbi al primo impatto. Attraversammo il marciapiede e Kyle aprì la porta di una di esse. Un gatto dal volto triste mi saltò in grembo e io guardai Kyle perplessa e lo rimisi a terra, lui mi prese la mano e mi fece fare il giro della casa. Nella mia testa un punto interrogativo, avevo rimosso tutto. Salimmo di sopra ed entrammo in camera di mio fratello Sam, subito un colpo al cuore, tutto mi ritornò a mente. Era tutto perfettamente in ordine, come se lui l’avesse appena messa in ordine. Il mio cuore veniva stritolato in una gabbia di metallo. Spinsi Kyle di fuori e chiusi la porta correndo a grandi passi verso quello che un tempo era la mia camera. Era tutto come lo avevo lasciato. Mobili spaccati e graffiati, cuscini rotti, dentro quella stanza regnava il caos. Dalla finestra si scorgeva una piccola struttura marrone, presa dal dolore spaccai il vetro con un pugno violento e sgattaiolai fuori arrampicandomi sulla vecchia casa sull’albero. Iniziai ad urlare. Il mio cuore veniva maciullato, la mano con cui avevo tirato il pugno presentava una brutta ferita sanguinante, ero piegata in due dal dolore, le lacrime bruciavano sul mio viso diventato pallido e le mie corde vocali stavano volgendo al termine. Nella mia testa stava tamburellando senza sosta un tamburo, o meglio, una banda di tamburi e le fitte al cuore si facevano sempre più forti e continue. Kyle si imbucò dentro la finestra rotta arrampicandosi sul ramo di un albero e mi raggiunse. Non disse niente, aprì le braccia e strinse forte. Proprio come la prima volta, quando ci siamo conosciuti. Mi strinsi tra le sue braccia tentando di urlare, ma lui mi mise una mano davanti alla bocca e mi baciò lentamente. Il calore che le sue labbra trasferivano sulle mie mi fece calmare abbastanza da farmi smettere di urlare. Kyle lasciò man mano la presa e mi accarezzò la guancia, era rassicurante sapere che qualcuno ti stava vicino qualunque cosa diventassi, anche se diventavo un mostro.
<< Andiamocene di qui, ti prego >> lo supplicai piangendo
<< Sì, mi dispiace. Non eri pronta. Lo avrei dovuto prevedere >> mi disse
<< No, non è colpa tua. Ma.. >> feci una pausa, non sapevo come spiegare il dolore e la frustrazione che mi provocava stare in quella casa, in quella camera. Presi un respiro e continuai la frase << Meglio andarsene >> dissi tremando. Kyle mi lasciò la sua felpa grigia scolorita e prendendomi per mano mi aiutò ad arrampicarmi fino a rientrare dentro. Uscimmo di corsa dalla mia camera, scendemmo le scale e ci avviammo verso l’uscita. Kyle cercò di prendermi anche l’altra mano ma io la ritrassi indietro con un rumoroso ‘Ahi’. Lui mi prese il gomito portandomi avanti il braccio e osservò la mano. Era tutta viola, delle scaglie di vetro erano affondate nella pelle e il sangue si stava infettando. 
<< E questo? >>  mi chiese sbalordito Kyle
<<  La finestra.. Non ho pensato ad aprirla >>  gli spiegai
<< Mossa davvero intelligente >> mormorò  << Ti porto subito all’ ospedale >> continuò
<< Sto bene, davvero >>  Cercai di rassicurarlo. Ma non stavo bene, non stavo bene per niente. Stavamo per aprire il portone di casa quando sentimmo il rumore delle chiavi dentro la serratura. La porta si aprì. Entrò una figura, una donna. Era elegante, mi ci volle un po’ per focalizzare bene il volto, quando capì chi era preferivo non focalizzarlo affatto. Svenni di colpo. L’ultima cosa che focalizzai fu il volto di Kyle e dietro quello della donna, che avevo scoperto essere mia madre. Mi risvegliai con un forte mal di testa. Ero stesa sul divano del salotto di quella che un tempo era casa mia, Kyle mi faceva da cuscino pigiandomi una pezza bagnata sulla fronte. Mi alzai lentamente, la mia attenzione ricadde sulla mano che ancora bruciava, era ricoperta da una fasciatura che serviva per fermare il deflusso del sangue. Kyle mi aiutò ad alzarmi, mi accolse tra le sue braccia e mi raccontò l’accaduto. L’ultima parte del test consisteva nel parlare con i miei genitori, ma visto le conseguenze catastrofiche della ‘ prova ‘ precedente non si sarebbe dovuto fare niente. Il problema si è creato quando mia madre, o quello che ne è stato, ha staccato prima da lavoro e ha pensato furbamente di venirsene a casa. Ero svenuta sul pavimento battendo la testa, mi disse, e lui non è riuscito ad afferrarmi prima che io cadessi a terra. Mi faceva malissimo la testa e la mia mano sembrava andasse a fuoco, le fitte al cuore si facevano sempre più strazianti e insopportabili. Mormorai un ‘ Andiamo a casa, ti prego ‘, Kyle mi fece un cenno con la testa aiutando a rimettermi in piedi con attenzione. Pian piano arrivammo alla porta ma prima che potessimo aprirla una voce maschile mi chiamò. Il suono proveniva dalla cucina. Con la mano intatta afferrai saldamente la mano di Kyle e tornammo indietro verso la cucina. Ad aspettarci c’era un uomo seduto a tavolino, era impettito e serio, lo riconobbi, era ciò che ne restava di mio padre; alla sua estremità era seduta mia madre e anche lei aveva un aria impettita e rigida. Quella visione di paesaggio mi riportò indietro nel tempo e la cosa non mi fece piacere a quei tempi.
<< Scusatemi signori ma è meglio non mettere in pratica l’ultima parte del test >> commentò Kyle 
<< Gentile ragazzo, ci lasci conversare con nostra figlia prego >> disse mio padre schiarendosi lentamente la voce. Seguì un periodo di pausa. Mi faceva venire i brividi. Io non ero più sua figlia e non lo sarei stata mai più, ci poteva unire un legame di sangue ma non significava assolutamente niente dal punto di vista affettivo. L’altra cosa che mi fece venire i brividi fu il modo freddo con il quale si era rivolto a Kyle. Lo scrutai. Il cuore mi batteva forte e le mani mi tremavano. Feci un respiro lasciando la mano di Kyle. Il ragazzo mi guardò sbigottito quando presi il coraggio di aprire bocca.
<< Non sono tua figlia. Tu non sei più niente. Lo capisci? E non ti permetto di parlare così alla persona che amo. Non ne hai il diritto e mai lo avrai >> dissi. Lo avevo detto, ora era ufficiale, lo amavo. Mio padre tolse lo sguardo da me fissando mia madre con aria severa. Un altro lungo silenzio. Non ne potevo più. La mano mi faceva male e la rabbia stava prendendo il sopravvento. Mi girai tirando Kyle per una mano in direzione della porta e biascicai un ‘ Andiamo via ‘ ma mia madre si alzò tenendomi un gomito 
<< Non andare, prima facci parlare >> supplicò.
<< Non abbiamo niente da dirci. Io non ho niente da dirvi >> ribattei liberandomi dalla presa con uno strattone 
<< Noi.. >> iniziò mia madre, fece una pausa e continuò il discorso << Noi ti perdoniamo. Ti perdoniamo per aver causato la morte di nostro figlio e anche per quel brutto periodo che ci hai fatto passare >> disse.
<< Io cosa? Voi cosa? >> sbottai << Era mio fratello! Era.. >>stavo per rompere qualche altra finestra quando Kyle mi fermò. Iniziai ad urlare e lui mi strinse forte cercando di calmarmi.
<< Ma insomma, dove credi di essere? Devi controllarti bambina mia.. >> intervenne mio padre
<< Mi scusi signore, con tutto il rispetto, lei non ha il diritto di parlare così a Rox >>ribatté Kyle
<< E’ nostra figlia, ne abbiamo tutto il diritto >> continuò mio padre
<< Prima di tutto è una persona! Ed io non le permetto di parlare così >> sbottò Kyle
<< E chi saresti tu ragazzino? >> intervenne mia madre
<< Il suo fidanzato! >> urlò Kyle. Io stavo ancora ansimando e urlando, non riuscendo a spiccicare parola. Lui mi prese in braccio e mi portò fuori sbattendo la porta. Attraversammo la strada e mi poggiò delicatamente sul prato. Mi abbracciò forte. Io smisi di urlare ma ansimavo ancora mentre lui continuava a scusarsi. Cercavo di rassicurarlo ma la cosa non servì a molto. Cercavo di alzarmi ma Kyle non me lo permetteva, diceva che dovevo stare tranquilla e rilassarmi. Io non volevo. Stavo bene, o almeno sarei stata bene. Kyle si guardava intorno mentre io ero sdraiata sopra le sue gambe tentando di respirare e di tranquillizzarmi, all’improvviso qualcosa catturò l’attenzione di Kyle. Rimase con la bocca aperta per qualche secondo, mi iniziai a preoccupare. 
<< Tutto bene? >> dissi con fatica
<< Io si, tu piuttosto. La mano! >>indicò la mano poggiata sul mio petto che tremava. Io rimasi sbalordita, non mi ero accorta che tremava oppure che mi facesse cosi male. Kyle mi fece alzare di corsa e ci incamminammo verso l’ospedale con l’intenzione di far controllare la mano. Non avevamo idea di quanto quell’incontro potesse marchiare la mia vita. Camminammo fino all’ospedale stretti l’uno all’altro guardandoci negli occhi. Per poco non presi un palo dritto in testa. Entrammo in ospedale e aspettammo il nostro turno. La mano continuava a tremare e a bruciare ma cercavo di non farci troppo caso. L’infermiere ci chiamò e ci fece accomodare nella sala. La dottoressa era seduta su una sedia dall’altra parte della scrivania, ci accolse con un ‘ Prego, accomodatevi ‘ e iniziò a osservare la mia mano. Dovevano operarmi di urgenza per togliere le schegge di vetro che stavano infettando la mano e mi dovevano mettere dei punti interni. Prima dell’operazione però dovevo essere sottoposta ad una normale visita medica perché era un po’ che non ne facevo una. Tutto andò per il meglio fino al punto dell’ elettrocardiogramma dove risultava un battito non proprio irregolare, ma strano. C’era qualcosa che non andava. La dottoressa mi disse di tornare a fare delle analisi tra una settimana. Mi scortò in sala operatoria e mi fece l’anestesia parziale. Ero distesa sul lettino con tanti medici che mi giravano in torno. Il mio sguardo ricadde sulla mano dolorante. Lo squarcio lungo le nocche era più ampio e una dottoressa stava levando le schegge di vetro rimanenti che si erano infossate nel taglio mentre un altro medico cercava di ridurre l’infezione ed un altro cercava di ridurre il deflusso del sangue. Non mi impressionavo facilmente ma quella visione mi faceva abbastanza senso. La parte peggiore fu quando mi misero i punti. Quando finirono mi fecero alzare e mi fasciarono la mano. Sentivo un leggero formicolio, segno che l’anestetico stava svanendo. Kyle mi stava ansioso fuori dalla sala operatoria. Si assicurò che io stessi bene e mi fece mangiare qualcosa per far riacquistare colore alla mia pelle. Fuori era calata la sera. Passeggiammo al chiaro di luna fino ad arrivare all’istituto. Andammo in stanza e ci sdraiammo sul letto quando caddi addormentata tra le sue braccia. Quella notte non fu tranquilla, anzi sicuramente il contrario. Sognai il mio passato, poi il bacio con Kyle davanti la scuola, la scenata in camera, la discussione con i miei genitori, l’ospedale per poi tornare indietro nel tempo al mio primo bacio con Kyle. Fu una nottata parecchio piena di emozioni.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sul filo del rasoio. ***


Mi risvegliai di soprassalto, le braccia di Kyle che mi stringevano saldamente. Alzai lo sguardo in cerca del suo viso e notai il suo sguardo assonnato e preoccupato. Gli sorrisi nel tentativo invano di rassicurarlo. 
<< Che succede? >>  domandai 
<< Niente, non ho dormito bene.. >> mi rispose sereno
<< Ti senti bene? >> chiesi allarmata
<< Sì sto bene, piuttosto tu. Dormito tranquilla? >> chiese
Non volevo farlo preoccupare più di quanto fosse già ma sentivo che non potevo nascondergli il mio sogno. Decisi di raccontargli tutto sperando di non aumentare le sue preoccupazioni. Finita la mia storia iniziò a spiegarmi il motivo della sua stanchezza. Mi disse che le mie urla lo avevano svegliato nel cuore della notte. Gridavo il suo nome e poi quello di Sam ripetutamente finché Kyle non mi strinse a sé e quando lasciava la presa continuavo interrottamente. Io non ricordavo niente riguardo le mie reazioni al sogno di ieri sera. Ci guardammo negli occhi, nella stanza regnava il silenzio e i nostri corpi erano l’uno davanti all’altro. Lui avanzò lentamente verso di me finché le sue labbra non si premettero sulle mie, mi strinsi istintivamente a lui mentre mi sdraiavo delicatamente sul letto. Ci baciammo appassionatamente, io distesa sul letto e Kyle sopra di me, quando un brivido mi percosse la schiena. Iniziai a tremare. Kyle si alzò, frugò nel armadio e facendomi sedere mi cinse una coperta di lana attorno le spalle. Notai la finestra aperta. Mi alzai per chiuderla e rimasi immobile davanti a quello spettacolo. Fuori dalla finestra piccoli fiocchi di neve si formavano sciogliendosi al suolo, gli alberi completamente innevati e due bambini che cercavano di fare una battaglia con le palle di neve scarseggianti per la lieve nevicata. In quei bambini riconobbi il mio volto e quello di Sam durante gli inverni. Ci svegliavamo la mattina presto e appena avvistavamo un fiocco di neve schizzavamo fuori di casa in pigiama a sfidarci a pallate di neve; io perdevo sempre e per consolarmi Sam mi faceva fare le forme degli angeli sulla neve ripetendo sempre che il mio era più bello. Si scatenarono così una serie di ricordi dentro i miei pensieri. Una lacrima scese lentamente dal mio viso facendomi assumere un aria malinconica. Doveva essere un bel giorno, la prima nevicata dell’anno, ma come al solito io riuscivo a rovinare sempre i momenti più belli. Ritornai alla realtà e l’ondata di freddo mi travolse facendomi svenire. L’ultimo ricordo che ebbi prima di svenire fu la distesa di neve che si intravedeva dalla finestra aperta, un minuto dopo il buio. Mi risvegliai con un forte mal di testa in un posto a me ignoto. Le pareti erano di un bianco spento, attorno a me giravano persone con un camice lungo che dimenavano strani strumenti. Riconobbi il posto, era l’ospedale. I miei occhi cercavano quelli di Kyle ma senza grandi risultati. Mi diedi una leggera spinta con le mie mani per alzarmi ma mi accorsi che esse erano stranamente deboli. Mi dimenai nel letto facendo svariati tentativi per rimettermi in piedi ma appena il mio piede provò a toccare terra una figura balzò al mio fianco facendomi sdraiare di nuovo su quel lettino scomodo ma accogliente, mi rimboccò le coperte e mi disse di riposare. 
<< Sei un dottore? >>  domandai
<< Riprova >> rispose l’uomo con voce delicata e soave, ero ancora stordita ma riuscì ad intravedere il suo sorriso. Lentamente riuscì a delinearli il volto. Era Kyle. Le mie braccia accorsero rapidamente al suo collo ma il ragazzo si scansò ripetendomi di riposare e dandomi un bacio sulla fronte. Io cercai di oppormi, stavo bene e non avevo bisogno di riposare. Volevo sapere cosa stava succedendo. Urlai il nome di Kyle più volte per richiamare la sua attenzione mentre si allontanava. Il ragazzo si girò scandendo silenziosamente un “ Ti amo “ e scomparve. Io rimasi sbalordita, c’era qualcosa che non andava. Mi adagiai lentamente sul letto scomodo dell’ospedale e fissai il soffitto aspettando che entrasse qualcuno. Non si vide nessuno per un paio d’ore. Sentì la porta sbattere delicatamente e intravisti una figura di un uomo. Era alto e snello, con i capelli bianca e una leggera barbetta, anch’essa bianca, portava un lungo camice bianco dove, dal taschino, spuntava una bic color blu. L’uomo teneva stretta una cartellina nella mano destra ed in volto era pallido e preoccupato. Dedussi che era un medico. Il dottore si avvicinò cautamente ai piedi del mio lettino per controllare se dormivo, chiusi gli occhi d’istinto. Mi rimase impresso il volto preoccupato dell’uomo; le dita strette nella cartellina, la fronte aggrottata e sudata, le folte sopracciglia inarcate, le labbra tremolanti e gli occhi sbarrati. 
<< Dovremmo cercare di esprimerci delicatamente quando si sveglierà >> disse una voce profonda
<< Ha qualche speranza? >> ribatté una voce più soave
<< E’ la speranza che ci tiene in vita signor Kyle >>
Dopo l’ultima affermazione espressa dalla voce che sembrava provenire dalla bocca del medico tutto tacque. Mi ritrovai in una modesta casa di campagna, attorno ad essa si estendeva un paesaggio verde illuminato dal sole avvolto da un velo azzurro con nuvole cotonate di bianco. Io ero seduta sotto un comodo pino a leggere con serenità le parole impresse di un libro che avevano attirato la mia attenzione. Ogni tanto mi perdevo nella vastità del verde o venivo ipnotizzata dal cielo sereno. Attorno a me trotterellava un bambino vivace e spensierato. Dimostrava di avere un paio d’anni circa. Quest’ultimo aveva dei capelli neri e ribelli, occhi verdi smeraldo ed un sorriso coinvolgente.
<< Mamma, mamma! >>  chiamò << Vieni a vedere cosa facciamo io e papà >>sorprendentemente il fanciullo si avvicinò e mi strinse il polso, trainandomi verso non so dove. Pensai che ci dovesse essere stato un equivoco. Ero una diciassettenne che si avvicinava alla maggiore età, troppo giovane per avere dei figli ed avere un impegno vincolante come moglie. Eppure c’era qualcosa che mi faceva scattare una sensazione di gioia nell’essere chiamata mamma. Il piccolo mi tirò per la manica del soffice maglioncino bianco che indossavo fino ad una piccola capanna sgangherata, lungo una breve ma scoscesa discesa, entrammo. L'interno della capanna era vuoto, c'era solo un tavolino di legno al centro. Ricurvo su di esso una presenza maschile era indaffarata con un modellino in legno di un aeroplanino, mio marito? No, impossibile.  Il ragazzo alzò il capo e lo riconobbi, Kyle.  I due mi trascinarono fuori dalla baracca con euforia e, appena fummo di nuovo alla luce del sole, l'aeroplanino si liberò alto tra le nuvole. Una chiazza rossa fuoco in mezzo al cielo sereno. Sembrava una scena di un vecchio film americano. Impossibile, continuavo a ripetere. C'è la possibilità che io sia entrata nel sogno di qualcun'altro; non avrei mai voluto costruire una famiglia così presto, o forse sì?. No, non avrei mai potuto lasciare tutto per costrire una famiglia. Iniziai a riflettere mentre guardavo il piccolo aeroplanino rosso svolazzare nel cielo. Il sole era alto e potente nel cielo finchè iniziò a prendere una strana forma, tutto si fece cupo e venni risucchiata dall'oscurità con in testa una domanda petulante " Cosa avevo da perdere, da abbandonare per costruire una famiglia? ". La risposta era semplice: avevo perso tutto ormai. Mi svegliali di soprassalto in uno scomodo lettino, intorno a me tutto era bianco e una massa di persone mi si accalcava vicino. Una persona particolare risaltava tra tutti, il giovane ed affascinante Kyle.
<< Rox? Mi senti? >>  disse con la sua solita voce soave, accarezzandomi delicatamente i capelli. Aprì lentamente le palpebre, cercando di focalizzare il più possibile. Ero in ospedale, coperta di flebo e volti preoccupati mi fissavano, enigmatici. 
<< Che succede? >> domandai accigliata. Ero incredibilmente debole e la mia voce suonava come un lamento. Il viso di Kyle si incupì ancora di più mentre un signore più anziano con un camice bianco faceva sgombrare la stanza, il medico presunsi. Quando tutta la folla ebbe lasciato la stanza Kyle si sedette vicino a me e mi strinse la mano. Cercai impacciosamente di mettermi seduta ma con scarsi risultati, i fili collegati al mio corpo si aggrovigliarono. Tutto ciò che avvenne dopo fu completamente scioccante. Il medico ticchettava nervosamente la penna su una cartella piena di fogli, sopra era scritto il mio nome con una calligrafia quasi illegibile. La mia mano strinse nervosamente quella di Kyle che mi guardò con i suoi occhi profondi, cercando di tranquillizarmi. Il cuore iniziò a battere irregolarmente. 
<< Non c'è un modo semplice per dirlo, ma cercherò di agevolare la negatività della notizia esprimendomi nel migliore dei modi.. >> iniziò l'uomo in camice bianco mentre girovagava per la stanza, lo sguardo fisso sulla cartellina << Che sensazione hai provato prima di svenire, cara? e come ti senti adesso? >> domandò.
<< Ho sentito molto freddo e adesso mi sento.. debole, estremamente debole. >> risposi confusa. In realtà mille emozioni si abbattevano nella mia testa. 
<< Sai a cosa è dovuta questa stanchezza? Al problema che il tuo organismo inizia a non funzionare bene e le tue forze si stanno esaurendo nel tentativo di sistemare le cose. E' una sottospecie di tumore, sei la prima a cui si verifica e hai bisogno di cure. Purtroppo è fatale ma potremmo cercare di rallentare il processo.. resterai qui per qualche mese sotto cure farmacologiche e non potrai ricevere visite per qualche tempo.  >> Il dottore si fermò, si esprimeva con una voce dolce ed apprensiva. Io ero immobile, tutto si era fermato. Ho perso tutto ormai, ripetevo. Assunsi un colorito pallido con occhi pietrificati ed il corpo non smetteva di tremare, dentro di me urlavo come una disperata. Il corpo prese a tremare più velocemente e le grida si esternarono sempre più acute mentre con le mani cercavo l'unica cosa che potesse rassicurarmi, una sigaretta. Ero completamente in preda al panico quando le mani di Kyle mi cinsero il viso e i suoi occhi penetrarono i miei, poi seguì un lungo bacio che mi tranquillizò prima di svenire nuovamente. Avevo contratto una sottospecie di sconosciuto tumore, i miei giorni erano contati.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1234957