A come Amicizia, B come Baci, C come caos!

di _Kenya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sopravvivere ***
Capitolo 2: *** Guerra col cibo ***



Capitolo 1
*** Sopravvivere ***


Sofia Sveva  Francesca Lopez de Santis aveva un aggettivo in particolare con cui amava definirsi: sofisticata. Era perfetto per lei, anzi, qualche volta credeva che quella parola fosse nata proprio in suo onore. Innanzi tutto perché la radice era uguale al suo soprannome, Sofi. E perché guardandosi allo specchio, non sapeva definirsi altrimenti. Elegante, raffinata, all’ultima moda, sempre pronta per un servizio fotografico da prima copertina, con i capelli freschi di parrucchiere e il trucco “c’è ma non si vede” che la valorizzava al massimo.  L’unico suo difetto consisteva nel fatto che era consapevole della sua sofisticatezza. E per questo, talvolta, tendeva ad essere un pochino snob. Per la verità, era insopportabile. Era tanto perfetta esteticamente quanto fredda, distaccata, vanitosa e arrogante, e fu proprio questo che pensarono i passanti quel caldo pomeriggio di settembre vedendola davanti all’ Antica Villa. Quello che pensò Sofia, invece, fu che avrebbe preferito impiccarsi con l’edera che ricopriva il cancello arrugginito piuttosto che trasferirsi in quel paesino dimenticato da Dio. Lei veniva da Milano, la bella, moderna, ricca, centro Milano, dove frequentava una costosissima scuola privata e faceva shopping tutti i pomeriggi con le amiche. Sarebbe già stato un miracolo se in quel posto ci fosse stato un supermercato, figurarsi un negozio di vestiti. Ma non doveva lasciarsi prendere dal panico, giusto? Aveva sedici anni. Solo due anni e l’immensa eredità dei suoi defunti genitori sarebbe stata sua. Allora sarebbe potuta scappare da quel posto, tornare a Milano, o andare a New York, chissà… Ma intanto, doveva cercare di sopravvivere. Ne aveva lette di storie, dove ragazze ricche e raffinate come lei si trasferivano in campagna e nel giro di qualche settimana iniziavano a indossare orribili camice e pantaloni larghi per andare a raccogliere i pomodori. No Sofia, si disse. Tu resterai Sofia Sveva Francesca Lopez de Santis, amante dello shopping ed ereditiera più sofisticata di Milano. Un po’ rassicurata, si decise a suonare il campanello. Per poco non cadde a terra dallo spavento. Un rumore assordante si era levato non appena aveva premuto il pulsante, come di mille mucche impazzite che sgroppano e agitano la testa. “Arrivo, cara!” Una voce squillante si udì non appena cessò quell’ inferno di rumore, e poco dopo un turbinio di capelli rossi, farina e grembiule da cucina a quadri, che probabilmente era sua zia Francesca, le si gettò addosso con gioia. “La mia Sofia! Com’è diventata splendida! Sei tutta tua madre, cara. Vieni, vieni dentro. E anche lei… Signore, sta bene?”. L’uomo dietro Sofia sembrava sul punto di avere un infarto. Rosso in faccia, col respiro ansimante, reggeva due enormi borse sulla schiena, e altrettante nelle mani. Al collo ne aveva appesa un’altra, e vicino a lui c’erano  due trolley che avrebbero potuto contenere una mucca ciascuno. “Posi subito le valigie, signore, o rischierà un infarto!” gli disse la donna, e lo aiutò a liberarsi del peso. Poi guardò Sofia con aria di rimprovero, ed esclamò: “Ma Sofia! Ti sei portata dietro la casa? Dove la metteremo tutta questa roba?”. Senza aspettare risposta, afferrò i due trolley e si diresse verso la porta. “Cara, prendi le altre borse, e non far portar nulla al signore, non vorrei che ci rimanesse secco.” La ragazza rimase impalata, senza avere ancora aperto bocca, travolta da quel ciclone dai capelli spettinati che le aveva ordinato di portare le sue valigie dentro casa. “Non ci penso neanche” mormorò tra i denti, e fece un cenno all’uomo, che si chiamava Ernesto ed era il suo autista, di seguirla. Percorsero il vialetto di ghiaia ombreggiato da altissimi pini, che formavano un enorme bosco ai lati del sentiero. La porta di casa era grande, di legno, e conferiva all’edificio un’aria austera, quasi minacciosa, che però svaniva non appena levato lo sguardo. Infatti la costruzione era come un ammasso pericolante di quadrati mal sovrapposti, alcuni leggermente inclinati e tutti di colori differenti, dal giallo acceso, al blu mare, al rosso, al verde scuro. Non appena varcò la soglia, fu investita da un odore di legna fresca, misto a torta al cioccolato e ad un profumo fortissimo di shampoo. Ernesto posò le valigie nel piccolo atrio, e si accasciò contro il muro ansimando. “Ma Sofia! Pover’uomo, è distrutto. Avresti dovuto portarli tu, i tuoi bagagli.” Sofia ignorò totalmente il rimprovero della zia, e le sorrise amabilmente. “Ciao zia” disse.

“Benvenuta nella tua nuova casa, cara. Spero ti troverai bene. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza, che grazie a Dio è al primo piano.”

Sofia la seguì per uno stretto corridoio, trascinandosi dietro i bagagli che il povero Ernesto ormai non sarebbe più neanche riuscito a guardare.  La sua camera era circolare, e una parte di essa era costituita da una vetrata immensa che dava direttamente sul bosco. Sofia, suo malgrado, ammise che era davvero una stanza bellissima, nonostante l’arredamento rustico e semplice e l’armadio decisamente troppo piccolo per contenere tutti i suoi vestiti.  “Bene, ti lascio sola, tra un’ora mangiamo, così potrai conoscere tutti finalmente!” Detto questo, si smaterializzò da camera sua e chiuse la porta. Frastornata, Sofia si lasciò cadere sul letto a baldacchino, pensando che da quando era arrivata non era riuscita a spiaccicare più di due parole, ovvero quando la zia si era fermata a riprendere fiato. Almeno la casa era  grande, si disse cercando di sorridere e di non pensare che si trovava in un paesino che non esisteva quasi sulle carte geografiche e che non conosceva nessuno, a parte zia Francesca, di cui sapeva solo il nome e di cui sua madre le aveva parlato male fin da quando era bambina, definendo la sorella una “pazza sempliciotta con manie plebee e un look orrendo”. Non sapeva neanche se avesse dei figli, ma dal frastuono che aveva sentito non appena arrivata in casa, aveva dedotto che la zia teneva un allevamento di bambini. Ancora adesso, poteva sentire una musica rock sparata a palla, una televisione accesa e due voci, una maschile e una femminile, litigare, con sottofondo il canticchiare della zia che armeggiava con i fornelli. Addio calma e tranquillità, si disse. Altro che lo Zen e la pace interiore tanto amati da sua madre. Quella casa doveva essere un covo di matti. Ma evidentemente, solo questi matti l’avevano voluta, perché tutti i suoi ricchi e snob parenti che le facevano visita ogni tanto non ne avevano voluto sapere di lei appena ne aveva avuto bisogno. Era successo tutto talmente in fretta. Avevano dovuto trovarle una nuova casa, iscriverla ad una scuola, firmare tutte quelle carte, poi c’erano stati i funerali, e in quella tempesta di avvenimenti lei non aveva neanche avuto il tempo di fermarsi, di rendersi conto cosa stesse succedendo.

“E’ prontooooooo” urlò la zia con una voce possente, interrompendo i suoi pensieri, e al suo richiamo seguì una serie di rumori a catena: delle sedie si rovesciarono, una voce inveì in maniera poco ortodossa, qualcun altro gridò: “Due minuti!”. Sofia si alzò dal letto e si diresse verso la cucina, curiosa di conoscere la sua nuova famiglia. E anche abbastanza disperata, senza dubbio.  Fu la prima a sedersi a tavola, e dopo di lei arrivarono due gemelli, Marika e Luca, di dieci anni. Il maschio  si buttò senza tanti complimenti sul suo piatto, meritandosi così uno scappellotto della madre, mentre la ragazza guardò Sofia con occhi incantati. “Sembri la mia Barbie più bella” le disse poi.  “Mamma, per quanto resta qui Sofia?”  chiese poi a Francesca. “Viene a vivere con noi, ragazzi. E cercate di non farla scappare entro qualche giorno, per favore” rispose la donna, alzando gli occhi al cielo. “Sono due pesti”, aggiunse poi. “Questo odore terribile di shampoo e profumo è il risultato di una pozione magica che ha devastato il bagno.”  “Per forza mamma” commentò Luca. “Era la pozione distruttiva, e quindi ha funzionato, no?”  La donna sbuffò rassegnata e Sofia non riuscì a trattenere una risatina. In quell’istante entrò nella stanza un ragazzo a torso nudo, con un asciugamano legato in vita e i capelli neri ancora bagnati appiccicati alla fronte. Sofia rischiò di strozzarsi con un pezzo di carne, e l’unico pensiero di senso compiuto che riuscì a formulare fu: “Minchia santa!” Lei aveva un cugino del genere e nessuno glielo aveva mai detto?!  Il ragazzo si sedette davanti a lei con naturalezza, ma Francesca lo rimandò in camera sua a vestirsi: “Fabio! Non vorrai far scappare Sofia già il primo giorno. Vai a vestirsi, sciagurato.”  Scappare?! Ma quella donna non aveva avuto gli ormoni quando era giovane?

“Vado, vado Fra.” Si alzò svogliatamente e si diresse verso camera sua.

“Fra?” chiese Sofia.

“Sì, quel disgraziato non è mio figlio, grazie a Dio. Suo padre mi ha sposata dopo che la madre è morta.”

“Già, grazie a Dio…”

“Cosa scusa?”

“No, niente, cioè… Buona la carne” si affrettò a riparare, arrossendo. Perfetto. Non erano cugini. Sarebbero vissuti sotto lo stesso tetto. Tutto sommato, la faccenda del trasferimento si stava rivelando più piacevole del previsto.  E poi, lo dicono tutti che l’aria di montagna fa bene alla pelle.

Poco dopo Fabio tornò- vestito- e in compagnia del padre e di un ragazza, che doveva avere circa quindici anni. Appena la vide, l’ uomo le rivolse un ampio sorriso: “Sofia! Finalmente sei arrivata! Siamo così contenti che tu sia qui. Allora, come stai?”

“Bene, grazie.”

“Io sono Michele, e lei è Sara, mia figlia”, disse.

Sara le strinse la mano sorridendo, e poi si sedette. Era una ragazza carina, dai capelli neri e ricci e gli occhi verdi.

“Non posso credere che le vacanze siano già finite. Non ce la posso fare, sul serio. Penso che mi suiciderò, piuttosto che tornare a scuola domani” disse poi, sbuffando. 

“Finalmente!” esclamò Fabio.

“Stai zitto, idiota.”

“Basta ragazzi!”. Il grido di Francesca pose fine alla litigata.

“Allora Sofia, domani è il tuo primo giorno di scuola qui. Devi andare in terza liceo, giusto?” chiese Michele, servendosi le patate.

Sofia annuì.

“Come Fabio! Spero per te che non sarete in classe insieme” aggiunse Sara.

“Io invece devo andare in quinta elementare” si intromise Marika, impedendo a Fabio di controbattere.  “E ho fatto tutti i compiti” disse, fiera.

“Ma che brava” disse Fabio alzando gli occhi al cielo. Marika lo guardò male, e poi si rivolse alla mamma: “Invece, ho sentito Fabio dire a un suo amico che non li aveva finiti.”

“Fatti i fatti tuoi” mugugnò Luca mentre addentava un pezzo di pane.

“Ragazzi, adesso smettetela davvero!” urlò nuovamente Francesca, rivolgendo uno sguardo di scuse a Sofia.

“Cos’hai fatto quest’estate, Sofia?” chiese Marika.

Tutti la fulminarono con lo sguardo. Avevano messo bene in chiaro che nessuno avrebbe dovuto nominare l’estate o i genitori o la vecchia vita di Sofia. Tuttavia la ragazza rispose tranquillamente: “Sono stata in Sardegna con dei miei amici, poi siamo andati a Capri con la barca e a metà agosto sarei dovuta andare a Londra, ma i miei genitori sono morti in un incidente d’auto qualche giorno prima di partire.” Aveva mantenuto la calma dicendolo, ma in realtà dentro stava tremando.

“Deve essere stato terribile” replicò Marika.

“ Ho avuto momenti migliori” rispose Sofia.

“Noi invece abbiamo girato la Francia” disse Sara, per cambiare argomento.

“Già, e papà ha avuto un incontro ravvicinato con un gigantesco toro, perché non lo racconti a Sofia?” aggiunse Fabio sogghignando.

Francesca scoppiò a ridere, seguita da Marika e da Sara. “Era andato ad aprire il cancello della fattoria dove avevamo affittato una camera, ed è corso indietro urlando: “Aiuto! C’è un toro davanti al cancello!” Allora Fabio è andato a  vedere e ha trovato un vitellino che dormiva.”

“Non smetteremo mai di prenderlo in giro” continuò Francesca.

Michele sbuffò con aria risentita, ma poi aggiunse con un sorriso malizioso: “Vogliamo parlare del bosco dei maniaci?” Questa volta fu Francesca l’unica a non ridere, e Fabio raccontò a Sofia: “Avevamo affittato le bici per fare un giro nella foresta, e Francesca era rimasta un po’ indietro. A un certo punto, all’inizio del bosco, c’erano delle salite ripidissime. Abbiamo rallentato tutti, e ci siamo visti passare di fianco lei, veloce come un razzo. Alla fine del bosco l’abbiamo ritrovata, stesa sul prato col fiato corto. La prima cosa che ci ha detto è stata: “Quanto vorrei essere una mucca...” e quando noi le abbiamo chiesto perché fosse partita a duecento allora sulle salite lei ha risposto con aria terrorizzata: “Ci sono i maniaci nel bosco!”.  A quel punto nessuno di noi stava più in piedi dal ridere.”

Sofia guardò Francesca divertita, e la donna replicò, offesa: “Al giorno d’oggi c’è tanta gente malintenzionata in giro. E per quanto riguarda la mucca, pensateci: fanno unna vita eccezionale. Mangiano, dormono, brucano…”

“Finché qualcuno non mangia loro” precisò Fabio.

Francesca guardò l’ora: tra una cosa e l’altra si erano fatte le undici.   “Tutti a letto!” ordinò. “Domani vi voglio belli pimpanti per il primo giorno di scuola!”



 

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Capitolo 2
*** Guerra col cibo ***


“Pimpante” non era esattamente il termine corretto per definire l’atmosfera della casa la mattina seguente. Mentre Sofia si era alzata, lavata, vestita, truccata e profumata alla perfezione, tutti gli altri ronfavano alla grande. Alle 7.30 la ragazza uscì dal bagno, e vide Francesca in cucina. Era ancora in pigiama, aveva i capelli spettinati e gli occhi gonfi dal sonno. “Ciao Sofia” le disse sbadigliando. “Che brava, sei già pronta. Adesso vado a chiamare le pesti. Tu inizia pure a fare colazione. Puoi scaldare un po’ di latte nel microonde per favore?”  Si trascinò su per le scale, lasciando Sofia in cucina. Un errore terribile, pensò la ragazza. Lei non si era mai avvicinata ad un fornello ma forse poteva farcela. Prese la bottiglia del latte, e la infilò nel microonde, che tra parentesi riconobbe solo perché c’era scritto a caratteri cubitali sopra di esso la sua funzione.
“Ma cos’è questa puzza… Sofia!”
Francesca era tornata, e si era scaraventata contro il microonde, spegnendolo. Un odore tremendo aveva invaso la cucina, e la donna spalancò le finestre. “Non hai mai usato un microonde, vero?”
Sofia annuì imbarazzatissima, ma la donna le sorrise. “Tranquilla, ti insegnerò. Prima cosa: mai metterci dentro la plastica.”
In quel momento arrivarono tutti gli altri, ancora mezzi addormentati.
“Che cavolo è successo?” chiese Sara annusando schifata l’aria.
“Non lo so, cara. Adesso fate colazione che siamo in ritardo!” rispose Francesca, ammiccando verso Sofia.
Alle otto, finalmente, tutti erano pronti per uscire. “Dov’è Ernesto?” chiese Sofia.
 “E’ andato a casa” rispose Francesca. “Non ti serve l’autista qui. E’ un paesino talmente piccolo!”
“Vuoi dire che… dovrò andare a scuola a piedi?”. Questo era davvero troppo per lei, ma prima che potesse tirare fuori il cellulare e chiamare Ernesto, Francesca spinse i ragazzi sulla porta. “Buona giornata” trillò tutta allegra. La scuola era abbastanza vicina, ed era un edificio grigio e triste, circondato però da un bellissimo parco. Davanti all’ingresso c’erano ragazzi di tutte le età, che si  abbracciavano e si salutavano sorridendo. Sofia si appoggiò ad un albero lontano dalla folla. Non aveva certo intenzione di andare lì e presentarsi. Primo, perché odiava le presentazioni. Secondo, perché nessuno avrebbe potuto essere suo amico, in mezzo a quella folla di vestiti da quattro soldi e zaini sporchi. Sarebbe rimasta isolata, nessuno l’avrebbe notata e tante grazie. Tuttavia i suoi propositi svanirono quando una bicicletta la travolse in pieno dal dietro. Sofia cadde a terra in maniera molto poco aristocratica, e con lei il ciclista. Si rialzò subito in piedi, sistemandosi il suo Chanel e assicurandosi che i tacchi delle Jimmy Choo fossero ancora integri. Poi rivolse uno sguardo sprezzante a… Porca merda. Ma cosa c’era nell’aria di quel paesino? Il ragazzo davanti a lei aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi sparati in aria. Indossava una camicia enorme gialla e verde, un po’ stile semaforo, e dei pantaloni fin troppo aderenti rossi. Quando le sorrise, rivelò dei denti bianchissimi: “Mi spiace tantissimo di averti investita, non ti ho fatto male, vero?”
“No, sto bene” rispose lei.
“Comunque piacere, io sono Carlo.”
Sofia gli strinse la mano e sorrise. “Io mi chiamo Sofia Sveva  Francesca Lopez de Santis.”
“Cavolo, mi spiace. Deve essere scomodo avere un nome così lungo, non trovi?”
Sofia rimase a bocca aperta. Era una battuta o quel ragazzo era deficiente?
“Comunque, ci vediamo in giro! Scusa ancora!” e scomparve, lasciando Sofia frastornata. Qui la gente è pazza, si disse. Da quando era arrivata aveva sentito parlare di tori-vitelli, di zie che volevano essere mucche, aveva visto case storte e dai colori improbabili e le avevano espresso compassione per la lunghezza del suo nome. E non era finita lì. Mentre si dirigeva verso il cancello della scuola, una ragazza le si avvicinò con aria truce. Aveva capelli biondi tinti lunghi e piastrati, indossava un paio di jeans e una maglietta  viola molto scollata. “Così tu saresti la nuova arrivata” le sibilò in un orecchio. Sofia la guardò male, e rispose: “Sofia Sveva Francesca Lopez de Santis, piacere anche mio.”
“Non fare tanto la spiritosa, cocca.  Un consiglio da amica: stai alla larga da Carlo e da Fabio, altrimenti…”
Se c’era una cosa che Sofia detestava, erano le persone che tentavano di darle ordini o le si rivolgevano come se fossero superiori a lei.  “Carissima”, le disse alzando la voce, e facendo così girare verso di sé molti ragazzi. “Prima cosa, non ti permettere di chiamarmi cocca. Seconda cosa, io frequento chi mi pare e piace, considerato che vivo con Fabio e Carlo è un ragazzo adorabile. E comunque, anche se non gli rivolgessi mai più la parola, questo non alzerebbe le tue possibilità di farti notare da loro”, concluse guardandola con uno sguardo sprezzante. Poi si allontanò, lasciandola a bocca aperta, insieme a tutti i ragazzi che avevano seguito la discussione. Stava per entrare nella scuola, quando si voltò e disse alla ragazza: “E comunque, il viola non è più di moda da ben due anni.” Dopodiché, fece il suo ingresso trionfale nell’edificio.  
Quando entrò nella sua classe, indicatagli dalla segretaria, Sofia cercò di sgattaiolare in fondo all’aula per non farsi notare. Tuttavia la notizia del suo “discorsetto” alla ragazza con la maglietta viola era trapelata alla velocità della luce, e tutti si voltarono a fissarla con un misto di timore reverenziale e ammirazione. Nella folle intravide Carlo, che le fece un cenno di saluto. Sofia ricambiò e poi prese posto in uno degli ultimi banchi. Immediatamente, una ragazza si sedette vicino a lei e le strinse la mano con trasporto. Era piccola di statura, con i capelli riccissimi biondi aggrovigliati sulla testa. “Ciao Sofia, io sono Caterina. Cavolo, sei appena arrivata e tutti ti conoscono! Ma come hai fatto a zittire quella vipera di Michela?” le chiese, spalancando gli occhioni azzurri. Allora si chiamava Michela, la ragazza con la maglietta viola.
“Io, ecco… Quella è totalmente pazza” borbottò Sofia.
“Pazza è un complimento. E’ considerata una delle ragazza più carine della scuola, ma è una vera stronza. Insomma, si crede chissà chi e tratta male tutti. Ma tu sei stata fantastica: dovevi vederla, quando ti ha vista arrivare con Fabio e pochi secondi dopo parlare con Carlo, ha avuto un travaso di bile. Cioè, lei si butterebbe sotto una macchina per attirare la loro attenzione, e tu… Poi le hai risposto in quel modo, l’hai finalmente azzittita! Oddio, posso abbracciarti?” disse tutto d’un fiato, e poi le si buttò addosso. Sofia rimase impalata, travolta da quella cascata di parole. Altro appunto: in quel paese erano tutti logorroici. In quel momento, cessarono il chiacchiericcio e le risate. Michela era entrata in classe, e dalla sue espressione si capiva che non era affatto di buon umore. Sarebbe stata capace di ammazzare un bisonte a mani nude, pensò Sofia. Peccato che l’obbiettivo di Michela non fossero i bisonti, ma lei. Prese posto in uno dei banchi davanti, e cominciò a parlare sommessamente con la vicina di banco.  “Quella è Federica, la più leccapiedi della fila di leccapiedi che lecca i piedi a Michela” disse Caterina. Poco dopo entrò la professoressa, che si presentò come signorina Frigerio, e iniziò a parlare del programma dell’anno e dell’importanza della costanza nello studio, e tutte quelle cose che gli insegnati ripetono il primo giorno di scuola.
“E in più, quest’anno, il nostro liceo organizza un corso di teatro, a cui potranno partecipare tutti i ragazzi interessati: c’è qualcuno che si vuole già iscrivere?”
Tutti tacquero, scambiandosi occhiate scettiche e ironiche, quando Michela disse con un sorriso: “Professoressa, la nostra nuova compagna Sofia mi stava giusto parlando della sua passione per la recitazione e della sua felicità nell’aver sentito che quest’anno si sarebbe tenuto un corso di teatro, ma a quanto pare è troppo timida per alzare la mano, quindi ho pensato di farlo io al posto suo.”
La professoressa sorrise raggiante, e Sofia aprì e richiuse la bocca un paio di volte. Capì immediatamente che non avrebbe potuto tirarsi indietro, ma se doveva andare a morire, perché non trascinare con sé il nemico?
“Naturale” disse, spiazzando Michela. “Anche Michela vorrebbe tanto iscriversi, ma è una ragazza riservata e si vergogna di esibirsi davanti ai compagni… Quale occasione migliore per lanciarla?” concluse, con un sorriso incoraggiante.
La professoressa sorrise ancora di più e poi disse: “Nessun altro?”
“Anch’io vorrei partecipare” disse una voce maschile. Carlo.
“Segni anche me!” esclamò Caterina.
“Anche me, professoressa”, disse Federica dopo aver ricevuto una gomitata nelle costole da parte di Michela.
“Ma che bello, ragazzi! Adoro il vostro entusiasmo! Ma adesso iniziamo la lezione,  e se qualcun altro deciderà di voler partecipare, non dovrà far altro che recarsi in segreteria e lasciare il proprio nome.”
“Stai scherzando, spero. Ti prego, dimmi che non è vero” disse Sofia con aria disgustata.
“Ti ho solo detto che adesso dobbiamo andare a mangiare in mensa, non capisco il problema” ribatté Caterina. Sofia si immaginò una sala grigia con i tavoli di plastica e le panche di legno, dove ti servono cemento spacciandolo per pasta. Perché, perché a lei? Rimpianse la sua sala da pranzo e i piatti preparatele da Julienne, il suo cuoco francese. Solo due anni, solo due anni, solo due anni, pensò per farsi forza. Poi seguì Caterina, che la condusse in una sala che corrispondeva precisamente ai suoi timori. Si misero in fila al
self-service e Sofia prese solo un’insalata, quando una voce maschile le chiese: “Qual è il tuo piano, morire di fame piuttosto che restare a vivere qui?”. Sofia si voltò e vide Fabio che la guardava sogghignando.
“Cosa intendi?” rispose lei.
“Anche un cieco noterebbe che ti fa schifo questo posto e la gente che ci vive, e non vedi l’ora di tornare a Milano.”
“Cavolo, sei perspicace. Comunque sei tu quello che rischia la vita. Non credo che il cemento sia commestibile” replicò lei indicando il blocco di pasta nel piatto di Fabio.
“Grazie per l’interesse ma credo che sopravvivrò”
“Io ti ho avvertito, quindi ho la coscienza pulita.”
Fabio alzò gli occhi al cielo e poi le disse: “Ho sentito della tua passione per il teatro. Non vedo l’ora di vederti sul palco nei panni di una contadinella indifesa, magari, o di un albero.”
Questo era davvero troppo. Sofia divenne rossa, e, senza pensare, gli rovesciò l’insalata in testa, lasciandolo a bocca aperta.
“Guerra col cibo!” proclamò una voce in mezzo alla folla. E si scatenò l’inferno.


 

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