riot! riot! riot!

di londonici
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Non tutte le pessime giornate finiscono male ***
Capitolo 3: *** Azzerare ***
Capitolo 4: *** Asilo ***
Capitolo 5: *** Consiglio spassionato ***
Capitolo 6: *** Piacere di conoscerti ***
Capitolo 7: *** Nuvole ***
Capitolo 8: *** Vincolata ***
Capitolo 9: *** Scheletro nell'armadio ***
Capitolo 10: *** Le bugie, anche quelle piccole, hanno le gambe microscopiche ***
Capitolo 11: *** Ipocrita ***
Capitolo 12: *** Fantasma ***
Capitolo 13: *** Delirio ***
Capitolo 14: *** La cosa giusta da fare è sempre la più sbagliata ***
Capitolo 15: *** Bivio ***
Capitolo 16: *** Mostri ***
Capitolo 17: *** Vai, vattene pure ***
Capitolo 18: *** Sfida per masochisti ***
Capitolo 19: *** Eroina ***
Capitolo 20: *** Problemi ***
Capitolo 21: *** Principi Azzurri e pirati ***
Capitolo 22: *** Buco nero ***
Capitolo 23: *** Fratelli ***
Capitolo 24: *** Boom - tutto sbagliato ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Lo zapping quel pomeriggio fu davvero deludente. Niente di niente. Su MTV giravano sempre i soliti video super super commerciali – sapete quelli che li becchi su due o tre canali di fila, poi cambi canale dopo cinque minuti e, guarda-che-sorpresa, rieccolo che spunta come un fungo. E magari c'è chi, come me, spera nel ritorno del karma positivo: perciò guardo quel benedetto video anche se non mi va, pensando che così facendo Qualcuno Lassù me lo risparmierà per i trenta minuti a venire. Beh. Non funziona così il mondo di MTV o VH1. La legge è: più un video va, più te lo rifilo sotto ogni forma e remix possibile e immaginabile.

Era fine agosto, ed era patetico che una ragazza come me se ne stesse chiusa in camera a guardare la televisione, facendo finta che gli schiamazzi dei ragazzi nella casa a fianco fossero cinguettii quasi piacevoli.

Dana, la mia coetanea vicina di casa, aveva dato una festa di “addio all'estate”.

Okay, prima di proseguire mi sento in dovere di spiegarvi la situazione iniziale. Sapete, un po' come si fa nei film mediocri/discreti.

Ho sedici anni, mi chiamo Hayley Smithson e vivo con mio fratello e mia madre a Beverly Hills. Sì, quella del telefilm, proprio quella. Sapete, il CAP di Beverly Hills è 90210. Non lo sapevate, vero? Vedo che sto facendo la figura della rompipalle. Comunque. Io e la mia famiglia possiamo permetterci di vivere in un posto simile grazie al lavoro di mia madre (si chiama Jenna, mia mamma – e ve lo dico perché io proprio non ce la faccio a chiamarla “mamma”, perciò non crediate che Jenna sia una mia amica o altro: è solo mia mamma): lei fa la make up artist. E, diciamocela tutta, è abbastanza furba da ricavare somme di denaro immense dai suoi divorzi, che fino ad ora ammontano a tre. Con questo non voglio farla passare come una donna poco seria oppure ossessionata dal fisico e dai soldi (per intenderci, non è una Julie Cooper di The O.C.); lei è una okay. Ma non è una vera mamma, io la vedo più come una zia divertente. Cioè, io non ce la vedrei proprio a farmi una ramanzina. Ma è divertente; e bella, soprattutto. Alta, slanciata, abbronzata, bionda, occhi verdissimi. Una donna molto forte, tenetelo bene a mente. E non intendo fisicamente, ma psicologicamente.

Anche mio fratello Bryan contribuisce a tenere alto il nostro tenore di vita: è un manager abbastanza importante nel campo, ma siccome non vi interessa molto di lui – almeno così spero – passiamo oltre. Credo che organizzi i meeting per le società, o qualcosa del genere. Ma forse può interessarvi di più sapere che è abbastanza figo, dai. Biondiccio e occhi azzurri, tipico californiano. Comunque.

Perciò, stavo sentendo le grida semi isteriche dei miei più o meno compagni di scuola. Non pensate a me come una sfigata: anche io ero stata invitata alla festa di Dana, ma solo per educazione, ecco. E io non mi abbasso a finti sorrisini e prese per il culo continue, così avevo optato per un malsano zapping totalmente improduttivo.

Il bello del lavoro di Bryan è che lo tiene sempre fuori casa. Ovvio, un po' mi dispiace ma... Andiamo, è bello stare soli a casa. E poi Jenna quando non gioca a truccare le star (cosa che ormai si può fare anche su internet, solo che lì nessuno ti paga per farlo), se ne sta in giro a fare spese pazze, o su Rodeo Drive o sul Walk Of Style. E io me la spasso a casa, mangiando gelato a tutte le ore e come voglio.

Ora, io e Dana non frequentiamo proprio la stessa gente. Pensate a lei come una piccola clone di Paris Hilton e a me come... non saprei, se vi dicessi Hayley Williams probabilmente molti di voi tirerebbero a indovinare sul suo lavoro. Questo vi spiega un po' la differenza tra me e Dana. Hayley Williams non è una modella, non è un'attrice, non è una fattona (almeno, non che io sappia), non è una che fa soldi anche scorreggiando, anche se potrebbe – e dovrebbe. È semplicemente un idolo per me, tanto che tutte le volte che mi ricordo di avere il suo stesso nome ringrazio il subconscio di Jenna. A volte mi chiedo se non fossi una fan predestinata.

Hayley Williams è la cantante dei Paramore (adesso qualcuno farà una faccia tipo: “ah, sì, ora forse mi ricordo”); quella che cambia colore di capelli come una ragazza cambia vestiti. Per me, è un genio. Ma non solo lei, sia ben chiaro. I Paramore non sono solo Hayley Williams, ma anche Josh e Zac Farro, Jeremy Davis e Taylor York. Beh, siccome non ve ne frega, vi dirò solo che per me Hayley è il punto di riferimento per ogni cosa. E sapete quando parlavo dell'essere una fan predestinata? Beh, oltre ad avere il suo stesso nome io sono anche rossa di capelli. Naturale. Rossa naturale. Certo, in questo preciso istante Hayley (quella famosa, non io) non ha più i capelli arancioni/rossi/biondi/viola/neri/castani. Ma la sua testa fumante e geniale è stata spesso di toni caldi e tendenti al rosso, perciò mi sento davvero una predestinata.

Ma se da una parte ho cose in comune con lei, dall'altra ci sono anche delle differenze: per esempio, non sono affatto pallida. Sono abbronzatissima, in qualità di vera californiana, anche se non mi metto mai al sole (dato che ho paura dei tumori alla pelle). Quindi, più che abbronzata sono di carnagione scura. E poi non ho gli occhi verdi di Hayley, purtroppo. Io ce li ho azzurri, e al contrario di molta gente che mi caverebbe gli occhi per usarli come soprammobili, a me non piacciono molto. Sono troppo azzurri, davvero. Se qualcuno accende e spegne la luce velocemente la mia pupilla si rimpicciolisce e si dilata in un modo troppo... vistoso. Sembro un mutante. Ho gli occhi praticamente trasparenti, diamine.

Quindi vedete anche voi che i miei caratteri somatici non sono molto classificabili. Di solito, le rosse hanno la carnagione chiara e gli occhi verdi, no? Io no. Sono una strana californiana. Pensate a me come a una specie di Avril Lavigne, solo un po' più scura di pelle e con i capelli rossi (scuri: rosso scuro, non semi arancione, perciò non chiamatemi “pel di carota” o cose simili. Chiaro? Rosso scuro).

Per adesso non credo ci sia altro di me che dobbiate sapere; almeno, non subito.

Quel pomeriggio faceva davvero caldo e sarei potuta andare a fare un tuffo in piscina, ma poi Dana o qualcuno degli invitati mi avrebbe vista e...

Okay, io ancora oggi non simpatizzo per Dana, ma siccome sono abbastanza educata mi sforzo di non darlo troppo a vedere. Lei fa la vipera apposta, ma non agisce mai direttamente. Sua madre è un'attrice relativamente famosa (sì, certo, negli anni di Cristo! Solo che sembra ancora giovane perché ha più plastica in corpo che vasi sanguigni; se la buttate in piscina, galleggia da sola); suo padre è un pezzo grosso che gira il mondo, ma davvero non ho la minima idea di cosa faccia. Questo la dice lunga sul mio interesse per le vite altrui. E poi ha una sorella, una di cui non si parla mai: è scappata a diciotto anni con il giardiniere e da allora non è più tornata e non si è fatta più sentire. Sinceramente, faccio il tifo per la sorella di Dana.

Dana è la ragazza popolare, quella che... Okay, il suo idolo credo che sia Paris. Forse l'ha addirittura conosciuta, ma... Chissene, accidenti.

Io, per quel che mi riguarda, ho poche conoscenze, ma buone.

La mia migliore amica, Lara, è una fanatica del punk. Gira con gonne di pelle e calze a rete straziate e borchie e trucco pesante e acconciature alla Amy Winehouse (tipo nidi di uccelli in testa). Occhi scuri, pelle pallida, capelli ancor più scuri. Punk è d'obbligo, in questo caso. Comunque è la persona più dolce e onesta che incontrerete mai. Un po' violenta e sboccata a volte, ma per me resta sempre Lara.

Poi ci sono Travis e Jamie, due fratelli gemelli assolutamente fantastici. Vivono di fronte a me e hanno la fissa per gli strumenti musicali. Tutti e due suonano la chitarra, la batteria e il basso. Sono dei veri fenomeni (e non sapete quante volte penso a loro come a Josh e Zac dei Paramore – solo perché sono fratelli e sono dei veri artisti). Il loro cugino, Chris, vive un paio di case più in là. Anche lui suona, ma solo il basso: il suo idolo è Adam Clayton e guai a chi di voi pensa anche solo lontanamente “chi è?”. Dirò solo una parola, che poi non è proprio una parola vera, comunque: U2. E adesso non osate dirmi cagate anche su di loro. Sulla loro storia del rock non accetto obiezioni. Spesso con Chris mi sono messa a parlare male di Naomi Campbell e ho difeso Adam riguardo a quella storiella della droga...

E poi c'è Jess. Ammetterò che è abbastanza figo per essere un emo. Cioè, non è proprio emo, ma ti dà quell'impressione. Non finge di tentare il suicidio, tutto qui; ed è socievole solo con chi se lo merita. Io me lo merito. Lara dice che Jess ha una cotta epica per me, ma io sinceramente non vedo tutta questa adorazione da parte sua nei miei confronti. È uno con cui, però, a volte ti trovi a disagio. Almeno, a me a volte capita di non sapere cosa dirgli.

Queste sono le persone che frequento quando decido di dare un taglio al mio ozio prolungato.

Sfortunatamente, quel giorno Lara era alle Bahamas con i genitori. Travis e Jamie erano in giro, non avevo voglia di raggiungerli ovunque fossero. Chris... boh. Mi affacciai a dare un'occhiata a casa sua (e la casa vuota di fianco stuzzicò la mia curiosità: non sarebbe rimasta deserta a lungo). La finestra di camera sua era chiusa. Jess, invece, non è il tipo che vai a cercare: se lo trovi in giro e ti saluta per primo e capisci che non ha la luna storta, allora ti fermi a fare due chiacchiere.

Perciò, tutto qui: non avevo niente da fare. Estate.

Scesi in salotto e presi una vaschetta di gelato. Guardai un po' in giro e poi mi arresi alla TV. Di nuovo.

“Crispy News”. Decisi che poteva andare bene. Una vocina parlava di non so quale vip, avevo solo capito che si stava trasferendo. Qualcuno che aveva speso un trilione di dollari per cambiare casa... Per noia, prestai più attenzione. Si parlava di quell'imbecille di Hitch, un rapper diciannovenne che negli ultimi due o tre mesi mi aveva letteralmente fatto odiare MTV. Era ovunque, ma era solo un adolescente che aveva avuto i suoi quindici minuti di fama. Entro la fine dell'anno sarebbe scomparso con la stessa velocità con cui concatenava rime velocissime e volgarissime. Che bel personaggio costruito a tavolino.

Irritata, spensi la TV e presi in mano il cellulare. Composi il numero di Travis. Rispose al primo squillo.

«Hey, Hay!». Faceva sempre quel gioco di parole. Il mio soprannome diventava un'esclamazione ogni volta che mi salutava.

«Travis, ciao. Sono in crisi, non so che fare», ammisi rapida. Fece una risatina.

«Ti passiamo a prendere all'istante», disse subito disponibile.

«Se mi dite dove siete, arrivo io».

«Ma sta' zitta e preparati. Cinque minuti e siamo da te». Riagganciò senza darmi possibilità di controbattere. Mi strinsi nelle spalle e iniziai a darmi una sistemata.

Misi una canottiera blu con la S di Superman gialla e rossa che sfavillava sul petto: ero orgogliosa di quella maglietta. Infilai rapida dei bermuda di jeans e le Converse rosse, senza dimenticarmi della cintura con le borchie rosse e gialle. Presi al volo i miei anelli e li misi mentre prendevo gli occhiali da sole – Rayban rigorosamente anni ottanta, con montatura bianca e lenti nerissime. Stavo giusto scendendo le scale e prendendo le chiavi di casa e il cellulare quando sentii le voci di Jamie e Travis sovrastare le urla dei figli di papà che stavano tirando di coca in casa di Dana. Altro che cinque minuti! Dovevano essere proprio sotto casa mia, altroché.

«Hayley!», strillavano a intervalli regolari. Uscii sul vialetto e li salutai mentre chiudevo.

«Ma dove eravate?», chiesi camminando verso di loro. Poi vidi gli skate sotto i loro piedi. «Okay, capito», conclusi.

«Ti abbiamo salvato dalla noia casalinga: onoraci, Hay», dichiarò Jamie. Lo guardai da sopra gli occhiali con una faccia super scettica, finché non mi misi a ridere. Senza accorgercene, iniziammo a gironzolare. Parlammo delle solite cose, ovvero musica, musica e musica. Un po' monotoni, lo so, ma era così che passavamo il tempo.

Avevamo inventato un gioco quando eravamo poco più che dodicenni, e da allora non l'avevamo più mollato. Il gioco era semplice e stupido, come tutte le cose di successo che ci sono in circolazione. Non appena qualcuno di noi diceva una parola che poteva evocare il titolo o il testo di una canzone decente, faceva un punto. Ne faceva due se la canzone non era commerciale o, comunque, era uno di quei classici pazzeschi. Per intenderci, una canzone di Hitch avrebbe fatto meno cento punti. Okay, non esistevano canzoni che toglievano punti perché, alla fine, la diplomazia aveva deciso che non poteva esserci un soggettivo-oggettivo, non so se mi spiego. Insomma, non potevamo dire “questa fa proprio cagare e quindi ti tolgo tutti i punti per il resto della tua vita”, perché magari a me andava di dire qualcosa di Christina Aguilera o Britney Spears (assolutamente improbabile), e Travis avrebbe potuto dire di no perché era troppo... troppo... Britney-ano, capito? Quindi un punticino mi toccava. Se avessi detto qualcosa di più incisivo, avrei fatto due punti. Con Hitch, secondo me, non si faceva un bel niente, se non una figura di merda. Alla fine, avevamo chiamato questo gioco il “Link Game”, perché a una parola collegavamo una canzone. Travis era il numero uno, mio malgrado dovevo ammetterlo.

«Quando inizia la scuola?», chiese ad un certo punto Jamie. Lo fulminai.

«Non lo so e non lo voglio sapere», dissi schietta. La scuola era una specie di condanna all'ergastolo per me e non mi impegnavo per principio. Mi bastava la sufficienza. Punto.

«Due settimane esatte», annunciò triste e serio Travis, «e poi: fine della nostra libertà».

Calò il silenzio e l'aria si era fatta afosa. All'improvviso mi crollò tutto addosso: dovevo cambiare argomento.

«Siete stati alla festa di Dana, vero?», feci quasi accusatoria. Si strinsero nelle spalle. «Mica vi ucciderò per questo. Che si dice di bello?». Li lasciai di stucco con quell'ultima domanda: Travis e Jamie sapevano bene che io non ero una di quelle che assaporano i gossip e le dicerie del quartiere. Non appena sentivo qualcuno iniziare una frase con “Ma lo sai chi ha fatto/detto/visto...?”, io alzavo una mano e in segno di resa e annunciavo quanto poco me ne fregasse. Restava comunque il fatto che sapessi parecchie cose sul conto di tutti, o quasi tutti.

«Hayley? Sei tu che parli?». Soppressi una risatina.

«Ok, non mi va davvero di saperlo, è che mi annoio».

«Va bene. Allora stasera ti salviamo di nuovo dalla noia: ti sfidiamo a Guitar Hero. Accetti o scappi con la coda tra le gambe?».

«Jamie, non sono io quella che perde sempre. Ti stai confondendo con... te stesso!».

Iniziò una mini rissa di scappellotti e pizzicotti, e per fortuna non si arrivò allo spartichiappe. Ma per poco.

Quando tornai a casa erano quasi le sei e mezza. Fui sorpresa di vedere Jenna seduta a tavola con Dana (accidenti a lei) e sua madre, quella donna di plastica vagante. Da ora in poi la chiamerò Plastic-woman. Comunque, restai abbastanza di stucco.

«Ciao Hayley», mi salutò Dana, con quel suo tono petulante e più finto delle tette di sua madre. Sorrisi cinica e non risposi.

«Che succede qui?», chiesi rivolta a Jenna.

«Tesoro, la madre di Dana è venuta a chiedermi la disponibilità per la sfilata di Bree, ricordi?».

Bree è la “migliore amica” di Dana, ma in realtà sono come Lindsay Lohan e Hilary Duff, non so se mi spiego. Appena una si gira, l'altra pensa a come diventare la più popolare. Bree è la figlia di una specie di stilista (almeno credo), e da qualche mese ha la fissa della moda, ma in un senso ancora più raccapricciante: è lei che vuole fare i vestiti. È come mettere Paris Hilton al comando di un aereo carico di esplosivo, senza offesa per Paris Hilton.

Bree voleva organizzare una sfilata, a quanto pareva. Aspettai che Jenna continuasse.

«Dana parteciperà alla sfilata insieme ad altre tue compagne di scuola, e io mi sono resa disponibile per truccarle», annunciò trionfante.

Feci un sospiro di sollievo: per un attimo avevo creduto che fossero lì per chiedermi di partecipare alla sfilata di Miss Anoressia.

Dalla faccia sorridente delle tre donne che avevo davanti, intuii che non era ancora finita.

Oh, no.

«E poi...», continuò Jenna.

Oh, no. NO.

«... Sarebbe carino che tu...».

No, no, no.

«... partecipassi...».

Merda, no! NO!

«... alla sfilata. Sai, giusto per rientrare nel giro».

Ma quale giro?!

Feci una faccia perplessa e non risposi. Dana sapeva che non volevo (accidenti a lei se lo sapeva), ma aveva fatto lo stesso il mio nome. Brutta str...

Sorrisi e optai per la furbizia.

«E quando sarebbe questa sfilata?».

«Qualche giorno dopo l'inizio della scuola», fece Dana.

«Sì, ma quando? Potrei essere impegnata quel giorno».

«Oh, io non credo». Mi sorrise come una stronza. Ricambiai.

«Tu dici? Beh, fammi sapere quando è questa pseudo sfilata e poi vediamo», conclusi con aria di sfida. Jenna non sorrideva più, e sapevo che né Dana né sua madre sapevano il significato di “pseudo”. O forse non se la presero perché tanto la sfilata non era la loro, ma di Bree, e magari anche loro in realtà non la vedevano di buon occhio. Tutto era possibile, nell'incredibile mondo perverso e malato di Beverly Hills.

«Se adesso volete scusarmi», salutai con una faccia da finta educata e salii in camera mia. Dana ancora sorrideva come un'imbecille. Odiavo i suoi capelli biondi e gli occhi castano chiaro che ormai avevo imparato a leggere: era una stronza in ogni sua cellula, solo Jenna non l'aveva ancora capito.

Chiusi la porta di camera mia a chiave e mi misi un cuscino in bocca per impedirmi di gridare troppo forte. Dopo un quarto d'ora di accanimento sul povero cuscino, mi calmai e mi buttai sul letto a pancia in giù. Presi il cellulare e composi il numero di Lara, pregando che non fosse lontana dal suo cellulare. Non mi rispose e distrussi del tutto il cuscino. Forse avevo qualche problema di controllo, non so. O forse era la presenza di Dana al piano di sotto che bastava a farmi impazzire.

Aspettai di sentire la porta chiudersi, ma prima ci volle una quantità enorme di risate forzate e chiacchiere inutili. Quando finalmente le due tizie alzarono i tacchi, Jenna aprì la porta di camera mia.

«Non è stato molto carino da parte tua», disse dolce. Mi sedetti sul letto a gambe incrociate e la guardai allibita.

«Stai scherzando?». Forse in quei due secondi era stata rapita dagli alieni e non aveva assistito alla stessa scena che avevo visto io. «Crudelia ti ha fatto il lavaggio del cervello?».

«Hayley, non è stato molto carino da parte tua», ripeté con lo stesso tono.

«E questo l'hai già detto, Jenna. C'è altro?». Ero furiosa.

«Tu sei superiore, lascia stare Dana».

«È proprio quello che ho intenzione di fare, a partire da quella “sfilata”». Mimai apposta le virgolette.

«Mi pagheranno, non puoi fare finta di niente e passarci sopra?». La guardai a bocca aperta e indicai la porta. «Lo so, hai sedici anni e ti risulta difficile, però...».

«Non farò alcuno sforzo, non per compiacere Dana o Bree. Che paghino anche me se mi vogliono».

«Non accetteresti comunque». Vero. Mi strinsi nelle spalle e ignorai la sua affermazione.

«La prossima volta, puoi evitare?».

«Di fare cosa?!».

«Di rivolgerti a loro con quel tono».

«Jenna, non ci sarà una prossima volta. Perché la prossima volta che le vedo in casa, torno fuori senza neanche farmi vedere da loro».

Arrendendosi, scese in salotto scuotendo la testa.

Io aspettai le otto, come da appuntamento, e poi mi diressi a casa di Jamie e Travis, semplicemente attraversando la strada.

Chris era seduto sul marciapiede, stava fumando. Un paio di metri più in là, c'era anche Jess, in piedi e con una birra in mano. Non appena Chris mi salutò, Jess si voltò e mi salutò con la mano che teneva la bottiglia. Sembrava che si sforzasse di non sorridere.

«Guitar Hero anche tu?», fece Chris.

«Già. Vedo che il mio non era un invito esclusivo, se ci sei anche tu, Chris». Finse una risata sarcastica. Subito dopo spuntarono anche i due gemelli. Ora che ci penso, non ve li ho descritti.

Beh, sono identici, ah-ah. A dirla tutta, non proprio. Sono sempre riuscita a distinguerli, fin da piccola, quando i loro genitori li vestivano degli stessi colori. Che cosa triste.

Entrambi hanno i capelli biondicci e la pelle bronzea. Travis ha gli occhi azzurri, Jamie grigi. Travis ha i capelli più lunghi e sconvolti, sempre spettinati. Jamie li raccoglie sempre in una mini coda sulla nuca. Fisicamente, Travis è più massiccio, ma sono tutti muscoli; Jamie è mingherlino. Entrambi vestono casual, con polo o camicie a righe e quadri e bermuda larghissimi, con Converse costantemente ai piedi. In definitiva, sono dei bei ragazzi, ma per me sono prima di tutto “Travis e Jamie”.

Chris invece è del tutto dimenticabile. Non fraintendetemi, è un ragazzo completamente normale, non ha caratteristiche fisiche che restano impresse: è castano, capelli corti, occhi scuri, abiti normalissimi. Ma è un idolo proprio perché sa restare normale anche in giorni come questi. Probabilmente, la sua caratteristica principale è che non gliene frega niente di cosa la gente pensi di lui, perciò si veste come gli pare. Ma non è del tutto trasandato, capite? È normale. Uno normale a Beverly Hills non è poi così normale.

Invece Jess resta impresso, altroché. Quando avevo tredici o quattordici anni mi ero presa una cotta pazzesca per lui. Ha i capelli neri come la pece e un po' lunghetti, e li manovra con il gel con una maestria degna di un pubblicitario della Pantene. Ma sono i suoi occhi che non lasciano scampo: sono verdi, ma così verdi che neanche lo smeraldo più verde del mondo è verde abbastanza. Sono senza fondo, non so se mi spiego. Ci si incanta a fissarli, giuro. Almeno, a me capita sempre. E poi ha quel suo modo di fare silenzioso e preciso, così misterioso che a volte mette in imbarazzo. È pazzesco: e dovreste vederlo nei mesi un po' più freddi, quando arriva a scuola con la giacca di pelle nera.

Forse la mia cotta non è ancora sparita. Comunque.

Quando uscirono anche Travis e Jamie, mandammo all'aria la serata Guitar Hero e restammo sul vialetto di casa loro tutta la sera. Poi, la notte, ci trasferimmo nell'ala del giardino con la piscina e ci accampammo lì con le chitarre.

I genitori dei gemelli erano via per il week end, Jenna era fuori a cena... Non osavo immaginare con chi, ma sapevo che non sarebbe tornata, quella notte. Chris, beh, era il loro cugino, aveva il permesso di accamparsi sempre lì, e Jess... Testuale: “Come se dovessi chiedere il permesso a qualcuno”.

Perciò, ecco come passavo il tempo.

Ovviamente, verso le undici e mezza ordinammo delle pizze, anche se avevamo già mangiato. Ci mettemmo a divorarle sul bordo della piscina.

Io mi ero cambiata prima di uscire, non avevo più la maglietta super e i jeans. Avevo una minigonna di lino bianca e una canottiera nera semplicissima. Niente converse per quella sera, solo infradito nere. Però mi ero raccolta i capelli in una coda, il pomeriggio ero schiattata dal caldo con quella massa rossa e liscia indomata sulle spalle.

Jamie iniziò a strimpellare qualcosa sulla sdraio, Travis gli andò dietro. Chris li prendeva in giro, come al solito. Io mi ero messa a dondolare i piedi in acqua, attenta a non schizzare nessuno. Dopo poco, Jess si sedette di fianco a me e mi offrì un pezzo di pizza.

«Grazie».

«Figurati».

E la conversazione finì lì. Capite cosa intendo? Jess è così, c'è poco da fare, mica ci si offende.

Riconobbi la canzone che stava iniziando a suonare Travis: “Pressure”, dei Paramore. Non potei trattenermi dal cantarla, mentre Jamie si attaccava al fratello. Senza accorgermene, stavo muovendo i piedi a ritmo, facendo schizzare un po' d'acqua a destra e sinistra. Il tutto finì quando Jamie sbagliò un accordo e si perse la magia dell'improvvisazione.

«Mezza calzetta!», gli gridai ridendo. Con la coda dell'occhio mi parve di vedere Jess sorridere mentre mi fissava. Quando mi girai verso di lui, distolse lo sguardo di scatto.

«Sei brava, sai?», mi disse dopo un po' senza guardarmi in faccia. In quel preciso istante il mio cellulare mi salvò da quel momento un po' fuori dalla norma: Jess che faceva complimenti? Mah.

Feci segno a Jess con il cellulare senza dire una parola e mi allontanai da lui, in un angolino semi isolato.

«Lara!», esclamai sollevata. «Torna adesso, ti prego!».

«Sei così desolata e inutile senza di me, tesoro?».

«Tu non capisci: oggi Dana e sua madre erano in casa mia!».

Seguì un attimo di silenzio: probabilmente Lara aveva lasciato la mascella cadere.

«Che. Schifo. Hai disinfettato tutto?».

«E tu non sai qual era il motivo... Allucinante!».

«La sfilata di Bree, certo che lo so. Sei solo tu quella che viene a sapere le cose per ultima, visto che ti ostini a vivere nella tua bolla anti-gossip».

«Oh». Cambiai espressione e poi come una bimba viziata proseguii: «Beh, la mia bolla è bellissima».

«Non ne dubito, gioia».

«Lara, quando torni? Ti necessito».

«Tre giorni. Credi di potercela fare?».

«Fino a che sono dai gemelli a cazzeggiare, credo di sì».

«Guitar Hero?».

«Il piano era quello, ma poi Jess ha ordinato le pizze e le abbiamo mangiate in piscina con Chris che lanciava mozzarella ovunque».

«C'è Jess?!». Non aveva un tono né scandalizzato né stupito. Era neutrale, ma in modo sarcastico.

«Sì», risposi indifferente. Come no.

«Ma non mi dire... La mia teoria sembra non fallire mai».

«La tua teoria è una stronzata campata per aria, Lara», risposi arrossendo. Per fortuna che non era lì davanti a me.

«Questo lo vedremo. E ti dirò di più: entro tre mesi al massimo, qualcuno si farà male».

«Lara!», gridai mentre lei rideva.

Lasciai correre, così mi raccontò del ragazzo che aveva conosciuto alle Bahamas, anche se era abbastanza noioso. Tutta la vacanza secondo lei lo era, ma lo diceva solo perché i suoi genitori erano con lei. Voleva vedere cosa succedeva nel suo ambiente, non in quello delle Bahamas. La telefonata durò all'incirca un quarto d'ora, senza un filo logico costante. Perlopiù erano commenti sarcastici e acidi. Beh, eravamo pur sempre ragazze di Beverly Hills.

Quando tornai in piscina, erano spariti tutti. Entrai in casa, ma non vidi nessuno. Tornai di nuovo fuori, ma...

Avevo un presentimento che non ebbe il tempo di formularsi nella mia mente: quattro mani mi afferrarono per le gambe e per la schiena e mi alzarono da terra. In meno di due secondi, mi ero ritrovata catapultata in piscina vestita con Jamie e Travis. Chris e Jess se la ridevano in un angolo mentre fumavano una sigaretta.

Feci un po' di guerra ai due bulli acquatici, ma la realtà era che mi stavo divertendo. Presi la poltroncina gonfiabile e quando Travis ci fu sopra, andai sott'acqua e lo ribaltai. Jamie si tuffava dal trampolino.

«Hey Travis, pssst!», lo chiamai a bassa voce. Si girò con aria da cospiratore.

«Vuoi buttare giù anche Chris e Jess?», mi chiese malizioso.

«Come no, è quello che stavo per dirti».

«Okay. Sta' a vedere. Oh, Chris!». Il malcapitato si avvicinò, ma non troppo: conosceva il cugino abbastanza bene da poter prevedere le sue mosse. Decisi di intervenire.

«È mezz'ora che vi chiamo, imbecilli!», feci seria. «Mi passi un asciugamano? Ho freddo». Mi aggrappai al bordo e aspettai che si abbassasse al mio livello. Quando fu di ritorno, Travis era sparito. Era in agguato.

«Eccoti», mi disse piegandosi sulle ginocchia.

«Ti risparmio un viaggio in piscina se ti allei con me per buttare Jess in acqua». Sorrise e annuì subito: come era facile vincere.

«Hey, Jess», lo chiamò. «Dammi una mano per tirarla fuori, si è fatta male a un ginocchio e fa fatica». Mi lanciò un'occhiata d'intesa e feci la faccia dolorante. Non appena Jess fu a portata di mano e io sul bordo della piscina, mi aggrappai a tutti e due e mi lasciai cadere a peso morto all'indietro, mentre Jamie e Travis spingevano i due in piscina, in caso da sola non ce l'avessi fatta. Risultato: cinque folli che facevano un bagno in piscina vestiti.

Gridammo e giocammo come dei bambini: alcuni (io) finirono nei cassonetti, trascinati di peso; altri (Chris) furono frustati con asciugamani bagnati; altri ancora (Jamie) furono filmati durante i tuffi olimpionici a bomba.

Quando fummo esausti, uscimmo dall'acqua e ci avvolgemmo come dei talebani negli asciugamani: faceva abbastanza freddo, ora.

«Sei una brava attrice», commentò Jamie. Ringraziai con un'occhiata maliziosa.

«Credo che mi andrò a cambiare», annunciò Chris, «o così mi verrà la polmonite».

«Ma no, come sei fragile». Alla fine, tutti i ragazzi si misero qualcosa di asciutto, facendosi prestare vestiti dai gemelli. Io attraversai la strada e in due secondi mi ero già risistemata, con una maglietta a maniche corte bianca, una felpa leggera grigia sopra e i jeans. Immancabili Converse tradizionali: quella era la mia mise più trasandata. Avevo sciolto i capelli, così si sarebbero asciugati prima.

Tornai in meno di dieci minuti e li trovai tutti in salotto, stravaccati sul divano. Mi buttai sull'unica poltrona rimasta libera e sbuffai.

«Che smidollati che siete, vi stancate subito», li stuzzicai.

«Ma sentila».

«Ti ricordo che sei l'unica ragazza in una casa in cui ci sono quattro giovani uomini sessualmente imprevedibili», mi ammonì Jess. Risi e feci una pernacchia.

«Poveretti!», feci ridendo.

«Ci sta sfidando?», chiese Jamie al fratello. Mi preparai alla lotta imminente.

«Okay, la sopprimo io», si offrì serio Jess mentre si alzava con le mani avanti. Sapeva che soffrivo il solletico.

E questo per lui era il “sessualmente imprevedibile”? Che delusione.

Lara rise nella mia testa, ma sparì nel momento esatto in cui il solletico mi fece ridere così tanto da avere le lacrime agli occhi.

La guerra non durò molto: dopo mezz'oretta crollammo tutti, uno addosso all'altro. Se qualcuno ci avesse fatto una foto, probabilmente avremmo fatto la parte dei bimbi che dormono a pancia in su o a culo all'aria in una pubblicità di pannolini per la notte.

 

 

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Capitolo 2
*** Non tutte le pessime giornate finiscono male ***


Quando aprii gli occhi, il cielo si era fatto un po' più chiaro: non avevo la minima idea di che ora fosse. Ed ero tutta intorpidita, le mie ossa erano incastrate le une nelle altre. Girai la testa e sobbalzai.

Come diavolo ero finita sopra Jess? Avevo dormito su di lui?!

Eppure avevo i vestiti addosso. Ah. Mi ero solo addormentata su di lui, peccato.

Aveva una faccina da angioletto, non sembrava nemmeno così inavvicinabile, ora che ci pensavo (o forse lo dicevo perché ero esattamente appoggiata sul suo petto, capite?).

Ad ogni modo, non stetti troppo a fissarlo: vi immaginate la figura di merda che avrei fatto se all'improvviso avesse aperto gli occhi e mi avesse trovata lì come una beota?

Decisi di prendere una boccata d'aria fresca, così mi alzai lentamente per non fare casino. Ma... Non vi ancora detto che sono un danno ambulante, vero?

Ecco, picchiai il piede sul tavolino di vetro e feci un casino pauroso. Per sopprimere l'urlo che mi stava devastando fui costretta a mordermi una mano. Nessuno si mosse, tranne Jess che si girò su un fianco.

Aspettai per un po' seduta sulla sdraio, di fronte alla piscina, fino a che una voce molto familiare non mi fece venire un infarto.

«Ti sei fatta male, eh?», disse ridendo. Alzai gli occhi al cielo e gli feci vedere il segno del morso sulla mano.

«La prossima volta, mordi qualcos'altro», mi suggerì. L'allusione appariva chiara solo a me, vero? Sì, solo a una come me poteva sembrare una cosa simile. Sorrisi e annuii.

«Vai a casa subito?», mi chiese dopo essersi acceso una sigaretta ed essersi seduto sulla mia stessa sdraio, ma dandomi le spalle.

«Tanto non è una grande distanza, sai...». Poi mi accorsi che stava fumando ancora. «Ma sei una ciminiera! Smettila ogni tanto di stuprare quelle povere sigarette».

Si voltò a guardarmi con un ghigno in faccia.

«Stuprare?», e poi scoppiò a ridere.

«Già, guarda come ti accanisci su quei poveri tubicini indifesi...».

Poi, stringendosi nelle spalle, spense la sigaretta.

«Così va meglio?». Scossi la testa, incredula. La vocina di Lara mi disse: “Tre mesi, tre mesi, tre mesi”. E rise sempre più forte.

Probabilmente feci una faccia strana, perché Jess mi chiese a cosa stessi pensando di così impegnativo.

«Mah, niente. Mi sa che Jenna non è ancora tornata da ieri sera». Tentai in ogni modo di apparire disinvolta.

«Ed è ancora un problema per te che esca di continuo?». Non era stato affatto tendenzioso o maleducato, con quel tono. Era strano, sembrava che si interessasse di quello che pensavo. Ovviamente erano tutte supposizioni campate per aria, Jess era anche più isolato dal mondo di me. Smisi di farmi film e risposi.

«Ma no, figurati. L'unica cosa che non posso rimproverare a Jenna è la forza di volontà con cui non si butta giù». Solo io potevo capire quella frase, perciò prima che Jess esprimesse i suoi dubbi proseguii. «Spero che però sia in condizioni presentabili, quando entrerò in casa; non vorrei trovarla... sai...». Con un sorriso, mi bloccò.

«Posso solo immaginare, non c'è bisogno che tu vada oltre».

«E tu, invece? Vai a casa subito o aspetti?». Credo che voi tutti già sappiate in quale risposta io sperassi, accidenti.

«Mi sa che tra un po' vado. I miei non si interessano molto di me, ma un minimo di presenza a casa ci vuole, oppure mi daranno per disperso».

I genitori di Jess sono entrambi chirurghi plastici – e non poteva essere diversamente a Beverly Hills. Il fatto è che sono abbastanza conosciuti ed esperti nel loro campo, perciò spesso la loro carriera prevale sull'ambito familiare. L'unico motivo per cui non divorziano è che entrambi passano così poco tempo a casa, l'uno accanto all'altra, che manca il tempo materiale per i litigi. Mi dispiaceva proprio per Jess, ero pronta a giurare che anche lui si sentisse un po' a disagio per quella situazione apparentemente stabile.

«Tu dici che usciremo mai da questo buco nero che è la nostra vita a Beverly Hills?», gli chiesi dopo un po'.

«Lo spero tanto, davvero». Mi guardò e si fece pensieroso. «Non credevo che anche tu bramassi così tanto la fuga da qui». Mi strinsi nelle spalle e guardai altrove.

Vidi la macchina di Jenna arrivare in quel preciso istante. Quando chiuse la portiera con faccia preoccupata, decisi di levarle di dosso quei sensi di colpa che probabilmente si portava dietro da tutta la notte. Andiamo, in fondo non ero mica morta in sua assenza. Alzai un braccio e lo agitai, e quando mi vide la salutai. Sorrise, tranquillizzata, ed entrò in casa.

«Jenna è a casa», annunciò Jess, «ed è presentabile, evviva». Gli diedi una gomitata e un finto spintone e lui, udite udite, con scioltezza mi prese e mi mise sotto il suo braccio, fingendo di picchiarmi. Iniziammo a ridere come la sera precedente.

“Tre mesi, e qualcuno si farà male”, riecheggiò nel mio cervellino spensierato.

Accidenti a Lara.

 

Quella stessa mattina, sul tardi, decisi che avevo bisogno di andare in palestra. Di solito ci andavo con Lara, giusto per il puro gusto di spettegolare un po', ma senza mai andarci pesante. Chiacchiere tra amiche senza secondi fini, che cosa strana.

Ero giusto sul tapis roulant, correndo abbastanza velocemente. Quasi quasi ero di buon umore.

Ma poi vidi entrare Bree in palestra, camminando come se qualcuno le avesse infilato un palo su per quel posto: chissà su chi voleva far colpo, oggi.

Mi nascosi un pochino e feci finta di essere interessata alla TV; con le cuffie dell'I-Pod sparate nelle orecchie a tutto volume, non l'avrei neppure sentita.

Tutti sforzi vanificati dalla sua faccia tosta.

Un dito mi bussò sulla spalla, insistente e delicato come un ippopotamo in una vasca di cristallo minuscola. Tolsi un auricolare e la guardai scocciata.

«Ciao, Hayley!», salutò tutta entusiasta.

«Bree», commentai poco lieta.

«Che coincidenza, cercavo proprio te. Posso chiederti una cosa...?». La interruppi prima che andasse oltre.

«Per la tua sfilata, credo proprio che sarà altamente improbabile». Restò delusa e fece una faccia strana, a metà tra il menefreghismo improvviso e lo schifo più indignato del mondo.

«Ma se non sai neppure quando è», rispose schietta. Rallentai e la guardai in faccia.

«Bree, sii seria. Pochi fronzoli, okay? A me non farebbe affatto piacere sfilare per te. Puoi prenderti mia madre e il suo trucco miracoloso, ma io passo». Mi guardò come per dire “e chi ti chiede niente, pezzente”, così rincarai la dose. «E se mai ti saltasse in mente di fare un'altra sfilata e mi vuoi nel tuo esercito, almeno vieni a chiedermelo di persona, non mandare Dana come piccione viaggiatore, è davvero incapace e... indisponente». Sapevo che glielo avrebbe riferito. Squadrandomi da capo a piedi, restò con la bocca aperta e fissata con una smorfia di finta superiorità.

«Puoi andare ora, Bree», la incitai.

«Te ne pentirai», sibilò. E alla fine se ne andò, grazie a Dio.

Restai in palestra non più di altri dieci minuti: il saperla lì a fissarmi in attesa che cadessi dal tapis roulant era snervante.

Tornai a piedi, evitando il taxi (e anche la limousine che Jenna aveva mandato a prendermi per farsi perdonare – chissà cosa). Passeggiavo tranquilla con l'I-Pod che mi cantava “Faint” nelle orecchie: come ero arrivata ai Linkin Park quando stavo ascoltando i Paramore? “Faint” era troppo vicina alle mie esperienze passate, non dovevo concentrarmi su quel testo, maledizione.

Cambiai canzone infastidita, non tanto dalla melodia rockettara che mi piaceva parecchio, ma dal senso che avevano per me quelle parole.

“Non girarmi le spalle, non sarò ignorato”. Strinsi i pugni: adesso c'era Hayley che cantava, ma “Faint” era rimasta tatuata nel mio cervello.

“Il tempo non cambierà ancora questo danno”. “Mi ascolterai, che ti piaccia o no”.

Spensi l'I-Pod.

Il pensiero di quel viscido uomo che mi aveva messa al mondo mi fece venire la pelle d'oca. E la giornata si rovinò del tutto.

Ma il meglio doveva ancora arrivare, fidatevi.

Mancavano poche centinaia di metri al mio cancello, quando notai un camion gigante di fianco alla casa dei gemelli, che osservavano tutto dalle loro finestre. Li salutai ponendo più attenzione sul camion... Sui camion. Li contai rapidamente. Sei camion e una limousine chilometrica. La casa era stata occupata alla fine, ma come mai c'erano così tante telecamere?

Non capivo. Chi si era trasferito a Beverly Hills facendo così tanto casino mediatico?

Entrai in casa perplessa.

«Tesoro, sei tornata con la limousine?», mi chiese Jenna sollevata. Evitai la sua domanda e gliene feci un'altra.

«A proposito di limousine giganti, ma che succede qui?». Aprii il frigo e presi una bottiglia ghiacciata di aranciata.

Jenna mi guardò scandalizzata, stupita, incredula.

«Non lo sai?! Stai scherzando?». Stava gridando come un'adolescente in piena crisi vestiaria.

«Jenna», dissi inespressiva. «Ti risulta che a me freghi solo lontanamente della vita di questo posto malefico?».

Sgranò gli occhi e si ricompose.

«Okay. Beh, abbiamo un nuovo vicino, tesoro, ed è una star. Uno importante».

Oh, no. Mi tornarono in mente le “Crispy News” del giorno prima.

«Giovane, bello, potente... Che fortuna. Dovresti tentare di fartelo amico, tesoro».

«Di farmelo amico o di farmelo e basta?», chiesi irritata. «Non mi avvicinerò nemmeno lontanamente a quell'imbecille di Hitch, chiaro? Uno che si fa chiamare “intoppo” dai media non è degno della mia attenzione, direi». Ero veramente senza parole.

«Oh, andiamo, tesoro. Allora lo sapevi che si trasferiva...». Sbuffai e lanciai le mani in aria, sbraitando.

«Jenna! Non mi interessa un bel niente di un finto rapper diciannovenne che vive di attenzioni immeritate!».

«Vedo che sei informata, tesoro...», insinuò Jenna.

«Smettila di chiamarmi “tesoro” e smettila di farti film, okay? Dana sarà già in fila... e anche Bree». Ecco chi voleva conquistare, Bree... Con quell'aria da vip super gasata.

Jenna mi guardò contrariata, ma smise di insistere.

Salii in camera e sbattei la porta.

Non c'era bisogno di un rapper che mi ricordasse quanto ingiusto e immeritato fosse il mondo dello spettacolo. Che stupidità continua, davvero... Non bastava che invadesse MTV e VH1, ma adesso ce lo avevo anche di fronte a casa!

«Dov'è il cellulare?», gridai a me stessa. Poi mi accorsi che era nella mia tasca.

Lara, Lara, Lara: rispondi.

«Pronto?».

«Hitch vive di fronte a me da stamattina», grugnii furiosa.

«Hitch. Ah, già. Di già?».

«Lo sapevi anche tu!», la accusai.

«Hayley: ripeto, non è colpa mia se tu te ne sbatti di quello che si dice in giro. Certo che lo sapevo».

«Odio il rap e odio Hitch. Odio chiunque si chiami “intoppo”, chiaro? E odio le telecamere e i camion e tutti quei gioielli giganti che quelli come Hitch si portano al collo».

«Se tu l'avessi solo ascoltato una volta, sapresti che non è poi così stupido. E non porta gingilli del genere».

«Detto da una come te suona assurdo. Tu sei una punk, da quando ascolti il rap?».

«Non lo ascolto mica, ma dovresti provare a capire le sue canzoni. Se Hayley Williams rappasse, di sicuro non faresti tutte queste storie».

«Ci sentiamo Lara, vedo che non mi sei di aiuto».

«Aspetta, aspetta, aspetta!».

«Che c'è?».

«Dimmi una cosa: cosa ha fatto ieri Jess?». Arrossii subito.

«Ciao, Lara!».

«Lo sapevo! Io lo sapevo!».

«Sì, certo, come no. Ti chiamo quando la mia amica Lara torna per davvero».

«Come ti pare... Per ora, fai la brava e non provarci con Hitch», disse ridendo e riattaccando.

Riattaccai anch'io, poi lanciai il cellulare sul letto. Mi ci buttai anch'io, nel tentativo di calmarmi. Chiusi gli occhi. Poi, quando li riaprii, Jenna mi stava dicendo che stava uscendo con un certo Antonio. Antonio?

Vedevo tutto annebbiato, avevo fame e sentivo tutto molto, molto lontano, così annuii e la salutai. Richiusi gli occhi, nel tentativo di riaddormentarmi, ma il mio stomaco non mi lasciava scampo.

«Ma sta' zitto, non ti ci mettere anche tu, ora», ruggii a me stessa.

Faceva caldissimo ed ero davvero stanca di tutto.

Il cellulare vibrò sul comodino.

«E basta, adesso, voglio solo dormire!», gridai alzandomi e prendendo in mano quella macchinetta rovina-sonno. Risposi senza vedere chi stesse chiamando.

«Pronto?», dissi con un po' troppa furia.

«Hayley? Ti disturbo?». Aspettai che andasse avanti, forse avevo confuso la voce. O stavo sognando. Di sicuro. «Hayley?».

«Sì. Ciao». Avevo paura di aver scambiato l'interlocutore per qualcun altro, così restai sul vago.

«Ti disturbo?». Beh, sembrava proprio Jess, ma non era possibile.

«Ma no, dimmi pure».

«Stai bene? Ti sento... strana». Okay, meglio rischiare che passare per imbecille.

«Ma certo, Jess, cosa dovrei avere?», dissi tra una risatina isterica e l'altra.

«Allora mi hai riconosciuto... Credevo non avessi capito».

«Ma figurati!». Mi guardai allo specchio e risi di me stessa. Non c'era limite alla mia indecenza morale, davvero. Che livelli...

«Mi stavo chiedendo... Hai da fare?». Colsi un velo di imbarazzo nella sua voce.

«A dirla tutta, sono preda della noia più devastante».

«Ti va se passo a prenderti e facciamo un giro? I miei non ci sono e Chris è agli allenamenti...».

«Se vuoi posso venire io a tenerti compagnia, oppure tu da me, se preferisci. Jenna è fuori con... Antonio, ecco cosa ha detto prima!». L'ultimo sforzo di memoria doveva restare tra me e me, ma il sonno non mi faceva avere il pieno controllo della mia mente. Jess rise.

«Okay, buon per Antonio. Facciamo che passo io, d'accordo? Casa mia è impresentabile».

«Già, così adesso vado a mettere i manifesti e ti sputtano dicendo a tutti che vivi in un porcile... Comunque va bene, ti aspetto».

«Grazie, davvero. Dieci minuti circa e sono da te. Ciao, Hayley». Riattaccai completamente nel bel mezzo delle nuvole. E poi mi spaventai vedendomi allo specchio: una gallina aveva forse fatto guerra a una pulce sulla mia testa mentre dormivo? Beh, non me ne ero accorta, in tal caso.

Iniziai a darmi una sistemata, così presi dall'armadio una camicetta verde militare a maniche corte e degli shorts neri. Sistemai i capelli in una crocchia e passai veloce la matita e il mascara sugli occhi: mi sentivo infantile a prepararmi così. Definii gli ultimi dettagli, come la cintura, lo smalto nero e gli anelli coordinati e poi mi infilai le infradito mentre scendevo per le scale (e ci mancò poco che non mi rompessi un femore cadendo giù rovinosamente).

Nell'attesa, spiai dalla finestra. Mica Hitch, tesori miei: volevo vedere se Jess stesse arrivando, ovvio. Notai comunque che il casino creato dai camion era sparito. Il mio stomaco brontolò di nuovo, ed era una cosa normale visto che era pomeriggio inoltrato e io avevo saltato colazione e pranzo: l'ultima cosa che il mio stomaco aveva visto era stata la pizza notturna della sera precedente.

Il mio cellulare vibrò di nuovo, ma stavolta guardai prima di rispondere: era di nuovo Jess. Possibile?

«Dimmi tutto», dissi subito.

«Scusami, sono davvero uno stronzo desolato. Mi ha chiamato Chris, gli serve il mio aiuto. Credo che dovremo rimandare». Sbiancai per la delusione.

«Ah. Beh, posso venire anch'io, se ti va», dissi chiudendo gli occhi per la sfacciataggine.

«Non credo sia il tipo di situazione adatto, Hayley. Non ti offendere, è solo che... insomma, non è il caso». Il suo tono era aspro e preoccupato, così lasciai perdere.

«D'accordo, tranquillo. Ci vediamo», dissi fingendo di non esserci rimasta troppo male.

«Scusami ancora», fece affrettandosi. «Ci vediamo in giro». E riattaccò.

Restai a fare smorfie di delusione per un po', senza nemmeno arrabbiarmi.

Se Chris aveva un problema e aveva chiamato Jess, la cosa non era poi così “adatta” a me. O forse si sbagliavano di grosso, tutti quanti, tutti quelli che mi credevano una pappamolla. Ma come potevano sapere che ero in grado di difendermi se non ne avevo mai dato prova? Beh, di sicuro non avrei iniziato quel pomeriggio a dare lezioni di autodifesa.

Se volevo saperne di più, dovevo semplicemente attraversare la strada per chiedere spiegazioni ai gemelli: di sicuro loro avrebbero saputo qualcosa del cugino, no?

Dopo un paio di minuti di indecisione, presi la situazione di punta e uscii di casa.

Suonai due volte il campanello, ma nessuno mi rispose. Uscì dopo qualche minuto la filippina che faceva le pulizie in casa loro. Mi disse con non poche difficoltà che i gemelli erano appena usciti e sembravano di fretta. Mi sfuggì un'imprecazione che la donna mi rimproverò solo con gli occhi, così le chiesi preoccupata se sapesse dove fossero andati. Scosse la testa e tornò in casa.

Sconfitta, mi sedetti sul marciapiede. Poi mi alzai, indecisa se andare a cercarli o meno, feci avanti e indietro e mi risedetti con le mani nei capelli.

Qualcuno aveva dato del filo da torcere a Chris e lui aveva chiamato i cugini e l'amico. Semplice, era l'unica spiegazione che riuscivo a darmi.

Se almeno avessi saputo dove andare a cercarli, li avrei raggiunti; ma forse sarei stata solo d'impiccio.

Composi il numero di Travis e trovai il cellulare spento. Feci anche quello di Jamie, ma non cambiò niente. Aspettai il bip della segreteria e lasciai un messaggio.

«Brutti infami, la prossima volta che succede qualcosa, evitate di scappare in massa e abbiate almeno la decenza di avvertirmi di cosa succede. E questo vale per tutti, anche per Jess e Chris, perché lo so che sono con voi due smidollati, chiaro? Appena smettete di fare casini e risse, chiamatemi. All'istante».

Ero furiosa. Nessuno mi credeva all'altezza di fare niente, a quanto pareva. Ero solo utile a fare la cretina in delle feste improvvisate? Beh, non era esattamente così.

A passo svelto tornai in casa, ma quando mi girai per richiudere il cancello, vidi il nuovo vicino di Travis e Jamie che mi fissava dalla finestra. Schifata, feci finta di niente e rientrai.

Che pessima giornata, quella.

Passai il resto del pomeriggio chiusa in casa. Bryan chiamò verso le cinque e feci una chiacchierata con lui: il lavoro procedeva bene, Tokyo era bella come si aspettava e nell'arco di una settimana al massimo sarebbe tornato, ma per poco, perché poi sarebbe dovuto ripartire per Londra. Seguii la conversazione con la testa altrove, ma per fortuna Bryan era un monologhista fantastico.

Dopodiché, aspettai e aspettai e aspettai. I Paramore mi tennero compagnia, ma non ebbero il totale effetto in cui speravo.

Quando alla fine squillò il cellulare, mi avventai sul divano per rispondere, senza vedere chi fosse.

«Tesoro, ciao!».

«Jenna?». Che palle, per un momento avevo pensato che fossero loro e mi ero levata di dosso quella sensazione di ansia irreale... E ora, riecco l'ansia attaccarmi come un mostro appiccicoso.

«Sì, proprio io. Senti un po', scusami ma Antonio mi ha chiesto se resto a cena da lui». Rise sulle ultime parole. Rabbrividii.

«Non ti preoccupare, mi organizzo. Come sempre». Mi uscì un tono troppo freddo e insinuante.

«Oh, tesoro, mi dispiace così tanto. Sono una pessima madre, ti lascio sempre da sola», disse un po' affranta.

«Ma no, Jenna, giuro. Non mi costa niente organizzarmi; magari chiamo qualcuno per tenermi compagnia, okay?», provai a tranquillizzarla e liberarla dai suoi sensi di colpa. Ci riuscii fin troppo facilmente.

«Sicura?».

«Divertiti, mammina». Tanto bastò a farla tornare di buon umore, così la chiamata con lei si concluse nel migliore dei modi.

Non fu così per la seconda chiamata, iniziata da me. Alla fine, richiamai Travis. Rispose dopo un po'.

«Hayley, ciao». Niente giochetto di parole con il mio soprannome: cosa diavolo era successo?

«Travis, santo cielo, dove cazzo siete finiti tutti? Ma non l'hai sentito il messaggio che ti ho lasciato in segreteria?». Gridavo come una madre incazzata per lo sforo del coprifuoco del figlio.

«Beh, stavo giusto per richiamarti», si giustificò.

«Bella scusa del cazzo, Travis! Davvero, dove siete voi imbecilli? Tutti e quattro, sia ben chiaro».

«Stiamo... tornando a casa nostra. Tutti da noi, se vuoi venir...». Qualcuno lo interruppe e sentii chiaramente le parole: “Ma sei scemo? Se ci vede così ci fa fuori”.

«Travis», lo chiamai seria e chiudendo gli occhi. Contai fino a dieci.

«Sì?».

«Esigo che tutti e quattro veniate a casa mia. Adesso».

«Ma...».

«Ma cosa? Non stavate andando a casa vostra? Beh, io abito di fronte, direi che non cambia molto. Oppure avete qualcosa da nascondermi?».

Restò in silenzio.

«Perché tanto lo verrei a scoprire lo stesso, giusto?».

«Suppongo di sì».

«E allora muovete le chiappe. All'istante». Riattaccai con troppa foga e iniziai ad aspettare – di nuovo, sai che novità.

Dopo circa una mezz'oretta, sentii le loro voci in lontananza. Aprii la porta prima che arrivassero e li vidi trascinarsi con facce arrabbiate e confuse. Mai tanto confuse come la mia.

Mi misi da parte sul cancello mentre li esaminavo senza dire una parola.

Chris era quello messo peggio: aveva un occhio nero e uno zigomo sanguinante. Jamie e Travis erano un po' rossi e blu in faccia, solo dei lividi da poco. Jess aveva il labbro inferiore devastato. Feci cenno di entrare, in silenzio. Non c'è bisogno che vi dica quanto fossi stanca e arrabbiata, vero?

Quando furono tutti dentro, sbattei la porta. Li fissai uno ad uno, partendo da Jess, che tenne lo sguardo senza timore. Fui io ad abbassarlo, alla fine.

«Ti stavamo per chiamare, Hayley...», iniziò Jamie, ma lo zittii con una mano alzata.

Presi del ghiaccio, dell'alcool e delle garze e iniziai a occuparmi di Chris.

«Qualcuno intanto mi spieghi come avete fatto, forza», li incitai.

«Certo, mammina», mi rispose acido Jess. Lo fulminai e non gli risposi, non mi abbassavo a tanto.

Chris faceva un sacco di storie mentre l'alcool gli procurava bruciori e fastidi continui. Io intanto ascoltavo Travis.

«Hai presente quell'imbecille di Jim?». Si riferiva al bullo della zona che segnava il territorio come un cinghiale, ed effettivamente era proprio quello che era: una bestia animalesca. Tutto gasato, se ne andava sempre in giro a fare il duro, e aveva ragione di farlo, visto che aveva conoscenze che era meglio tenere alla larga. Era stato “il primo della lista” di praticamente tutte le ragazze facili della zona. Era stato il “primo”, ma anche il “secondo”, il “terzo”, eccetera, eccetera. Era... da tenere alla larga, ovviamente. E indovinate cosa ci avevano fatto quei cretini? Esatto, una bella rissa con lui e la sua compagnia poco raccomandabile.

«Sì», risposi senza alzare lo sguardo dalla ferita di Chris.

«Beh, ha fatto un po' il cretino con Chris. Così l'abbiamo raggiunto e aiutato. Fine della storia».

«Avete sfogato abbastanza il vostro eccesso di testosterone?».

«Ma non fare la melodrammatica, sono solo due graffi», rispose brutale Jess.

«Certamente. Adesso sono due graffi, domani è un braccio rotto, dopodomani è la sedia a rotelle o, peggio, uno dei suoi amici drogati che inizia a perseguitarvi. Fantastico». Mi avvicinai a lui e lo guardai con aria di sfida. «Fino a dove vi spingerete, eh? Campioni!».

«Okay, alla fine non è successo nulla di grave, non credo che se la siano presa così a cuore... In fondo, hanno vinto loro, direi», ammise Jamie. Jess sbuffò.

Diedi del ghiaccio ai gemelli e finii di sistemare tutti, mancava solo Jess. Jamie, Travis e Chris tornarono a casa subito dopo che ebbi finito con loro, così restammo in casa.

«Vieni qui, mettici sopra il ghiaccio», dissi dopo aver sbollito un po' di rabbia e ansia. Mi strappò letteralmente la borsina dalle mani. Che sorpresa, era tornato intrattabile.

Si sedette sul divano in silenzio. Iniziavo a chiedermi perché non se ne fosse andato, se gli davo così sui nervi. Mi sedetti di fianco a lui.

«La prossima volta, avvisami».

«È quello che ho fatto».

«Beh, non sei stato così chiaro. E comunque la risposta giusta era: “Non ci sarà una prossima volta”, Jess».

«Dovevo dirti: “Hey, Hayley, sto andando a fare a botte con Jim, non preoccuparti”? E poi, che ne so io se ci sarà o meno una prossima volta? Che discorso demenziale è?».

«Demenziale?», feci incredula. «Vogliamo parlare di una cosa davvero demenziale? Allora parliamo della vostra smania di farvi valere marcando il territorio. La prossima volta cosa farete? Piscerete in lungo e in largo?». Il malumore era tornato alla grande.

«Hayley, non ti rendi conto di cosa stai parlando», mi disse come se stesse parlando ad una bambina incompetente.

«Vaffanculo, Jess», risposi alzandomi di scatto. Senza rispondere, lasciò il ghiaccio sul tavolino ed uscì senza dire una parola e senza degnarmi di uno sguardo.

Senza capire come, salii in camera mia e mi buttai sul letto; poi allungai una mano verso il cassetto del comodino e presi il quaderno delle brutte occasioni.

L'ultima volta che avevo preso quel quaderno, avevo litigato tantissimo con Lara perché lei aveva fatto una cosa che secondo me si poteva risparmiare, ovvero era andata a letto con il già citato Jim. Probabilmente, l'unica che aveva tenuto le gambe ben chiuse in sua presenza ero io. Comunque, era stato proprio un brutto litigio, quello: Lara mi diceva che non dovevo impicciarmi in modo così spudorato nei suoi affari, io le dicevo che stava diventando esattamente come Dana e tutte le sue amichette. Alla fine, tutto si risolse nel migliore dei modi. Non sarebbe di certo stato un bullo da quattro soldi a farci mandare tutta la nostra amicizia a quel paese.

Aprii il quaderno e sfogliai le pagine all'indietro. Prima del litigio con Lara, c'erano pagine e pagine di infinite frustrazioni e incazzature rabbiose. Tutte dettate dall'ingiustizia che lo stesso, viscido e bastardo uomo aveva inflitto non solo a me e a Bryan, ma anche e soprattutto a Jenna. Sfogliai rapidamente, per non leggere neanche una parola: volevo solo vedere quante pagine avessi effettivamente scritto su di lui. Erano tantissime, quasi tutto il quaderno.

Le lacrime mi scesero sulle guance involontariamente, mentre giravo le pagine così violentemente che quasi le strappavo via. Presi l'ultima pagina e arrivai a una facciata completamente bianca. Presi una penna e la stritolai nelle mani fino a che le dita non mi fecero male.

Scrissi cose senza senso apparentemente, che però rimandavano tutte al mio senso di inadeguatezza. La penna strappava e sporcava il foglio di inchiostro che formava parole sinceramente frustrate; non appena segnava una lettera, sembrava che il bianco si lacerasse in due per lasciare spazio a tutto quello che avevo da dire. Ma non ero certa di voler dire proprio tutto.

Maledetto Jess, era stato lui a farmi tornare tutto in mente. Stronzo.

Dopo un po' di pianto silenzioso, riposi il quaderno nel fondo del cassetto, ricoprendolo con oggetti inutili la cui funzione era solo quella di coprire e riparare le mie riflessioni da depressa vera e propria.

Appoggiai la testa al cuscino e tentai di lasciare la mia mente vuota. Era da un po' che un momento di follia del genere non mi coglieva nel bel mezzo della mia vita da adolescente felice e viziata di Beverly Hills.

Sentii la vibrazione del cellulare sul ripiano di legno del comodino, ma lasciai che continuasse indisturbato: io non avrei risposto, non in quel momento. Ma, chiunque fosse, sembrava davvero insistente e deciso. Alla fine mi arresi.

«Pronto?». Mi uscì una voce un po' roca, dovevo ammetterlo.

«Accidenti, sei messa male». Jamie cercava di non prenderla troppo sul serio. «Cosa è successo con Jess? Lui è intoccabile, tu sembri... triste. Cosa diavolo è successo?».

Sospirai.

«Niente. Credo di averlo mandato a quel paese, nulla di che».

«E allora perché ti sento più triste del dovuto? Voglio dire, se io dico “vaffanculo” a qualcuno, si presume che poi non mi dispiaccia così tanto. Oppure è successo qualcos'altro? Hayley, a me puoi dirlo, lo sai». Jamie non cambiava mai: si faceva sempre in quattro per stare con tutti e rendere le vite più facili del dovuto; ed era sempre sincero, costantemente in buona fede. Con tutti.

«Jamie, certo che lo so. Ma non è successo altro, davvero. È solo che mi è sembrata una gran stronzata attaccar briga con Jim e la sua combriccola, e Jess, beh... Mi ha detto che non sapevo di cosa stessi parlando. E io l'ho mandato a farsi un giro». Era troppo facile parlare con Jamie, forse anche più facile che con Lara (anche se lei aveva il vizio di azzeccarci sempre).

«Non te la prendere, Hay, ti prego... Ma tu non sai perché Jess è scattato in quel modo».

«E allora dimmelo. Anche se dubito che la mia opinione in merito possa cambiare».

«No, non posso dirtelo. Poi Jess mi ucciderebbe».

«Come all'asilo, certo. D'accordo, Jamie, ci vediamo».

«No, aspetta, dai. Ho solo paura che lui non voglia passare come la vittima eroica della situazione, capisci? Conoscendolo, non vorrebbe mettersi in mostra. Non con te».

«Eh?». Stavo seguendo con la stessa facilità con cui seguivo una lezione di matematica o, peggio, di geometria analitica. O chimica.

«Avanti, Hay». Sbuffò, un po' contrariato. Poi si arrese e partì: «È scattato perché Jim ha fatto il tuo nome. Ha detto che prima o poi sarebbe riuscito a portarsi a letto anche te, solo che l'ha fatto in modo un po' più esplicito e meno elegante, ecco. E Jess non ci ha visto più».

Mi cadde la mascella e restai ammutolita.

«Stupido Jess, come se ci fosse bisogno di mettere in chiaro il fatto che Jim da me non avrà mai neanche una sola parola».

Dall'altra parte, Jamie rise come se se l'aspettasse.

«Dovresti smetterla di accusarlo. Inizia a vederlo sotto un'altra luce, non ce la fa più a fare finta di niente».

«Ma cosa... Questo è assurdo!», dissi un po' ravvivata. Era innegabile la sensazione di ebbrezza in quel momento.

«Andiamo, non dirmi che non te ne sei accorta, Hay. Non vedi come si comporta quando ci sei tu?». Stava ancora ridendo.

«Jamie, parliamo di me! E di... lui. Andiamo». Jess mi faceva sfigurare, per carità. Era troppo, senza dubbio. «Jess non caga nemmeno di striscio quelle come me, non sotto quell'aspetto. Per favore».

«Mi sa che non ti vedi nello stesso modo in cui ti vediamo noi maschietti, Hay». Arrossii.

«Gesù, Jamie! Ti prego». Era riuscito a farmi sorridere.

«Davvero, giuro! È chiaro come il sole, perciò smettetela di fare toccata e fuga e datevi una mossa, perché se sento di nuovo Chris che parla di te per bocca di Jess, uccido tutti. Anche te».

«Io...». Ero allibita e senza parole.

«Hayley!», mi rimproverò scherzoso.

«Okay, okay. Qualsiasi cosa sia, la smetto». Mi arresi a una risata.

«Ora però non so dove sia», ammise come se volesse che andassi a cercarlo subito.

«Jamie. Dammi un secondo per mettere in chiaro le idee».

«E per chiamare Lara, giusto?».

«Anche per chiamare Lara», confessai.

«Ragazze... Sempre a farvi teorie assurde, quando noi maschioni siamo molto più attivi e pratici».

«Va bene, Jamie, ho afferrato. Adesso vai pure. E grazie, davvero», aggiunsi con un sorriso che mi nasceva spontaneo.

«Quando vuoi». La sincerità si sentiva chiara e forte in ogni singola lettera che aveva pronunciato. Volevo proprio bene a Jamie.

Restai a pancia in su per un po', meditando su quella stranissima conversazione. “Assurdo” era un eufemismo. Era molto più che assurdo, era... inimmaginabile.

Chissà cosa avrebbe detto Lara. Meglio restare con il dubbio per un po', non avrei retto i suoi continui “te l'avevo detto” molto a lungo. Decisi di rimandare la telefonata.

Guardai l'orologio. Come diavolo erano arrivate le otto di sera? E ancora non avevo mangiato decentemente. Dovevo rimediare subito a quel problemino nutritivo scendendo in cucina.

Se fossi uscita a quell'ora, per pura ipotesi, dove avrei potuto trovare – sempre per pura, purissima ipotesi – Jess? O a casa sua, oppure... in giro. Dai gemelli? Ne dubitavo fortemente. E se, sempre per ipotesi, fosse andato a cercare Jim? No, no. Era stupido, ma non fino a quel punto.

Qualcuno suonò alla porta.

Ipotesi.

Nooo... Mi ero davvero bevuta il cervellino. Alla porta, poi? Doveva essere Jenna, ovvio.

Aprii la porta e mi paralizzai. Jenna aveva decisamente cambiato aspetto, e in quel modo mi piaceva molto di più. Per nulla togliere a lei, eh...

Mi uscì una specie di gemito di sorpresa che non riuscii a trattenere.

«E quello cos'era?» mi chiese con un sorriso abbozzato. «Hai ingoiato un moscerino?».

«Io... Non mi aspettavo di vederti proprio qui», dissi a voce inudibile. Il sangue mi ribolliva nelle guance.

«Già. Se disturbo posso sempre passare un'altra volta». Si capiva dalla sua espressione che non era quello a cui mirava.

«No, no», risposi un po' troppo rapida. «Entra pure». Mi feci da parte sulla soglia e lui entrò, guardandosi intorno.

«Jenna è già tornata?», chiese speranzoso. Scossi la testa e sorrise. «Okay».

Calò il silenzio più silenzioso dell'universo, le orecchie iniziarono a fischiarmi.

«A... cosa devo questa tua visita?», riuscii a dire alla fine, sembrando quasi disinvolta. Ma da quando Jess mi faceva quell'effetto? Oh Gesù, fino alla sera precedente era tutto nella norma. Come ero arrivata qui?

Si schiarì la voce.

«Innanzitutto, ti devo delle scuse per come... mi sono rivolto a te. Ero un po' su di giri, scusa. E poi...».

«Allora anch'io ti chiedo scusa per averti mandato a fanculo. Scusa, Jess», lo interruppi. Sorrise nervoso e fece un cenno con la testa.

«Già, beh. Non sei mica la prima che lo fa. Comunque...».

«Sì, ma sono stata abbastanza brutale, davvero. Scusami».

«Ho capito, stai tranquilla. Sono io che ti devo delle scuse in più, non tu. Ma non era solo di questo che volevo parlarti...». Era visibilmente a corto di parole.

«Beh, chiedere scusa una volta in più non può mica nuocere; perciò, ri-scusami, Jess». Mi guardò innervosito.

«La smetti di interrompermi? Ho capito, a me dispiace, a te pure. Siamo pari. Azzeriamo tutto il discorso e lasciami parlare, Hayley». Finsi di chiudermi la bocca con una chiave e buttai la mano dietro le spalle, come per gettare la piccola, insignificante chiave invisibile. Aspettai che iniziasse, ma non partiva.

«Okay. D'accordo. È abbastanza difficile da... spiegare, e, in tutta onestà, non ho la minima idea di come fare. Dammi un secondo per raccogliere le idee». Mi strinsi nelle spalle, un po' preoccupata e impaziente, ma sempre con la bocca ben serrata.

Dopo qualche secondo di silenzio, densissimo di curiosità e ansia, Jess si sedette sul divano e mi fissò a lungo, fino a che non fui costretta a distogliere lo sguardo dagli smeraldi che avevo puntati addosso.

«Hayley», mi chiamò. Riluttante, alzai lo sguardo, aggrottando la fronte. Gli sfuggì una risata. «Non fare quella faccia, non sei in tribunale, nessuno ti accuserà».

«Okay. Capirai anche tu che, però, questa attesa è un po'... No?». Avevo perso le parole.

«Avevi detto che non mi avresti interrotto».

«Ma mi hai interpellata!», mi difesi. Tecnicamente, non era vero. Comunque.

«Questo non è vero, la mia era solo una considerazione. Comunque, richiuditi la bocca finché non avrò finito, così mi sarà più facile».

«Inizia col cominciare, e allora sì che sarà più facile».

«Hayley!».

«Scusa». Mi cucii la bocca e alzai le mani, in segno di resa.

«Grazie tante. Adesso ho perso l'ispirazione». Risi della sua frustrazione, ma mi guardai bene dal parlare.

Si alzò dal divano e fece un paio di passi avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. E lo fece ancora e ancora e ancora. Poi scoppiai.

«Jess! Accidenti, datti una mossa!». Si bloccò un po' confuso.

«Credo che il modo migliore non sia con le parole», disse quasi solo a se stesso. Non capii subito quella frase, ma non appena fece due passi svelti verso di me, un campanellino trillò nella mia testa.

Dio, non era reale.

Mannaggia a Lara.

Mi prese la testa con tutte e due le mani e restò fermo a due millimetri dalla mia bocca, un po' indeciso.

Andiamo, ormai era così vicino! Non si sarebbe mica tirato indietro, vero?! Non se era arrivato fino a quel punto.

Passarono pochi secondi – che mi sembrarono anni, se non secoli – durante i quali restammo completamente immobili e vulnerabili.

In quel preciso istante, la serratura scattò, ed entrambi facemmo due passi indietro, in direzioni opposte, con le guance più rosse di due ciliegie.

«Jenna!», esclamai con la voce acutissima, così stridula che io stessa mi spaventai. Lei ricambiò con una faccia dapprima confusa, poi da esperta. Poi sinceramente dispiaciuta, come se si sentisse fuori luogo – e lo era. La mia mente le stava gridando: “Mammina, che fine ha fatto il tuo fottutissimo Antonio?”.

«'Sera, signora Smithson», salutò educato Jess, con una mano sulla nuca e l'altra in tasca.

«Ciao, ragazzi. Ho solo dimenticato il portafoglio. Tolgo subito il disturbo». Sgattaiolò in casa e in meno di due minuti – durante i quali io e Jess evitammo accuratamente di guardarci in faccia – fu di ritorno, con una faccia colpevole e implorante perdono. Altro che perdono, cara la mia Jenna. Salutò svelta, ancora imbarazzata (ma non più di noi) e uscì di corsa. Lessi il suo labiale sulla soglia della porta e diceva: “Scusami, tesoro, davvero”. Feci finta di niente e chiusi la porta lentamente, per rimandare di ancora qualche secondo il momento più indecentemente imbarazzante della mia vita.

«Perfetto», esordì Jess, ancora nella stessa posizione di prima. Non si era mosso di un millimetro.

«Il tempismo di Jenna? Già».

«Beh. Penso che tu abbia afferrato comunque il messaggio che volevo farti arrivare». Era molto più a disagio di me. Così, mi limitai ad annuire poco convinta. Ma c'era un punto che non avevo ancora messo a fuoco, e non era così indifferente. Anzi.

«Jess?». Mi guardò disorientato.

«Sì?», disse esitante.

«C'è solo una cosa che dovresti mettere in chiaro». Ero curiosa della sua risposta. «E cioè: cosa diavolo significa?».

Restò paralizzato.

«E io che ne so?», sbottò alla fine, quasi come se l'avessi appena offeso.

«Come tu che ne sai? Mi prendi per il culo? Tu hai... Insomma, dovresti saperlo meglio tu, no?», feci strabiliata dalla sua schiettezza per nulla soddisfacente.

«Io?». Il suo tono era sinceramente sorpreso. La misi sul ridere, anche se c'era una gran poco da ridere.

«Già», risposi sarcastica.

«Oh, io volevo solo mettere le carte in tavola, ora sta a te. Io non ce la facevo a fare finta di niente con te, così... Insomma, adesso lo sai, ma è il tuo turno adesso».

«COSA?!», gridai con voce così stridula che i cristalli in casa tremarono. «E che cavolo di funzione ha la frase “è il tuo turno adesso”?!». Ero completamente, totalmente e permanentemente allibita. Senza parole. Lui mi aveva trascinata in quella... cosa, e adesso io dovevo tirare fuori entrambi? Ecchecacchio, non ero mica Wonderwoman!

«Ti sei incazzata con me perché mi sono fatto avanti?», gridò anche lui.

«E quando ti saresti fatto avanti, esattamente? Non me ne sono accorta», sibilai perfida e con un ghigno cinico stampato in faccia. Fece per rispondermi qualcosa, ma le parole gli si bloccarono in bocca. Poi ripartì alla carica, con più foga di prima, tanto che feci un passo indietro per evitarlo.

«Ma allora sei stronza forte! Porca vacca, ti faccio vedere io quando mi sono fatto avanti!».

A grandi passi azzerò quella poca distanza che si era formata e mi mise le mani in faccia – in senso buono, tranquilli. Si appropriò della mia bocca, letteralmente. Faceva tutto lui, giuro, ma lo faceva così bene che fu inevitabile trovarmici alla perfezione. Se all'inizio ero stata passiva, beh, dopo un po' ci presi la mano e... altro che passiva. Anch'io misi avanti le mani, fino a che non fummo costretti a prendere una boccata d'aria. Non credevo di poter essere così “vivace”. E non credevo che potesse essere così “accondiscendente”.

«Hai afferrato, adesso? Mi sono fatto avanti abbastanza esplicitamente?», sussurrò nel mio orecchio con un che di sfida, ma era vulnerabile pure lui. Eccome.

Se solo quella sera avessi saputo a quali casini avrei dato origine a partire da quel preciso momento, forse ci avrei pensato due volte prima di lasciarmi credere che tutto stesse andando alla perfezione.

Decisamente.

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Capitolo 3
*** Azzerare ***


I giorni successivi furono un vero inferno: vivevo nell'incoscienza più totale, senza sapere che posizione prendere. Insomma, come mi dovevo comportare con Mr. “Adesso Tocca A Te”? E questo era solo uno dei problemini (il meno importante, forse) che mi occupavano le giornate.

C'era anche Lara, che rideva della mia ingenuità. Adesso mi diceva che ci ero cascata in pieno, la mia catastrofe era appena iniziata. La sua nuova teoria era che, una volta entrata nel mondo dei “love affair”, difficilmente ne sarei uscita illesa. L'aveva già predetto, in fondo: tre mesi, secondo lei. Secondo me, invece, molto, molto meno. Comunque mi stava sempre ad ascoltare e non voleva che la situazione degenerasse più di tanto, così era una specie di regista dietro le quinte di quello che stava succedendo.

E poi, come scordarci di Bryan? Era appena tornato e aveva litigato con Jenna. Abbastanza vivacemente. Avevo sentito parte della loro litigata senza volerlo, e – come al solito – mi sentii il punto di discordia comune. Era andata più o meno così: “Mamma, smettila di fare la giovane in carriera che esce col primo che respira e sii una madre presente per Hayley”. “Ma io lo sono, piuttosto tu non ci sei mai; e poi sei sempre mio figlio, perciò portami rispetto”. “Ma che rispetto e rispetto, se neanche tu sai cos'è! Metti la testa a posto, una buona volta, almeno per Hayley”. Siccome il mio nome ricorreva troppo spesso, decisi di mettermi un cuscino in testa e darci un taglio.

Come conseguenza al ritorno di Bryan, Jenna aveva smesso di frequentare Antonio, ma non credevo che ciò dipendesse dalla sfuriata di Bryan. Cambiava accessorio abbastanza spesso, la cosa ormai né mi stupiva né mi infastidiva. Se a lei stava bene così, perché avrebbe dovuto dare fastidio a me? Avevo già sperimentato il tipo di uomo che non volevo vedere accanto a lei, e...

Insomma, non poteva portare a casa uomini peggiori di quello che mi aveva messo al mondo, no?

Altro problemino era che, come un circolo vizioso, avevo smesso di uscire, anche solo per attraversare la strada. L'apertura delle scuole era alle porte, Jess costituiva un'incognita bella e buona, Jenna e Bryan non potevano stare a casa da soli, o il tutto sarebbe sfociato in un omicidio. L'unica cosa positiva era che, al contrario delle mie aspettative, il fatto di avere un famoso rapper come vicino di casa non si era dimostrato particolarmente insopportabile, fatta eccezione per l'incremento di concentrazione di popolazione femminile di un'età inferiore ai vent'anni esattamente sotto casa mia. Tutte che “casualmente” passavano di lì. Risatine e occhiatine verso quella casa, a volte qualcuna suonava anche il mio campanello, o quello dei gemelli.

A proposito di loro due, alla fine i loro genitori non erano stati molto felici delle loro facce tumefatte, così erano finiti in punizione per le ultime due settimane dell'estate. Che crudeltà, niente uscite e niente visite, nemmeno da parte del cugino Chris (era stato proprio lui a metterli nei guai, no?).

Quella mattina ero sul materassino, nella mia piscina, insieme a Lara. Ci stavamo rilassando al sole, godendoci gli ultimi giorni di libertà: mancavano tre giorni all'inizio della scuola e la cosa mi deprimeva in modo non indifferente. A Lara, invece, faceva quasi piacere. Per lei, la scuola non era luogo di studio, non era un carcere in cui eri costretto a stare con gente che magari non volevi vedere e in cui dovevi fare cose di cui non te ne poteva fregare di meno; per Lara la scuola era solo: ragazzi, “facciamo guerra a Dana”, ragazzi e ragazzi.

Il suo cellulare squillò. Di nuovo.

«Lara, Gesù mio, rispondi a quel dannato ragazzo. È la settima volta in tre minuti che chiama». Era il ragazzo delle Bahamas. Si era perdutamente innamorato di lei, ma... Lara l'aveva vissuta solo come una scappatella estiva. Che cosa doveva farsene di uno delle Bahamas?

«Allora ce ne sarà anche un'ottava. E forse, una nona. Lascia perdere, se lo faccio io... Fallo anche tu. Rilassati».

«Certo», feci infastidita. Lara mi squadrò a lungo da sopra gli occhiali da sole.

«Sai, non è così che ci si dovrebbe sentire quando non si ha il ciclo. Quando uno come Jess si fa avanti, di norma una ragazza normale si sente esaltata e un po' gasata».

«Ah-ah. Afferrato», risposi vaga. La verità era che mi dava sui nervi quel discorso.

«Wow, Hay, come sei gasata!», esclamò con una nota un po' troppo sarcastica per i miei gusti.

«Ma che ti ho fatto, Lara? Che c'è? Smettila, santoddio». Sbuffò e tornò al suo materassino in silenzio, ma sapevo che non avrebbe lasciato correre. Infatti, dopo un po' tornò alla carica.

«Perciò, è tutto okay. Sei... normale, come al solito. Non arrabbiata, non frustrata. Tutto in regola». Alzai gli occhi al cielo.

«Sì, Lara. Tutto perfettamente alla solita e perfetta perfezione». Questo era il problema.

«Perfetto, allora. Jamie e Travis sono riusciti a strappare un'ultima serata di libertà ai loro genitori, lo sapevi?».

«No», ammisi colta in contropiede.

«E come potevi? Hai tagliato i contatti con tutti tranne che con me... Comunque, domani sera a casa di Eva, ci stai?». Eva: l'amica più grande di Lara. Aveva ventuno anni, ed era una specie di amica storica della sua famiglia. Era anche una bomba, in tutti i sensi. Ma almeno non era in “stile Dana”. Mi piaceva, ma andare a casa sua... Le feste che dava lei erano sempre abbastanza rese note alla collettività. Significava prepararsi al rientro nel mondo vero... E poi, come ho già detto, era più grande di noi. Io e Lara avevamo sedici anni, lei ventuno. Due mondi un po' diversi. Noi a malapena potevamo prendere la patente, lei già poteva bere e fumare. Sapevo che a casa sua ci sarebbero stati anche i gemelli e... tutti gli altri, ma anche loro erano più grandi di me, a ben vedere. Jamie e Travis avevano diciassette anni, Chris diciotto... e Jess diciannove. All'improvviso, avevo la certezza che mi sarei sentita a disagio con chiunque.

«Allora, ci stai?», ripeté dopo un mio lungo silenzio denso di considerazioni, tutte prevalentemente negative.

Sbuffai.

«No. Passo».

«E tu questo lo chiami “essere normali”? Vabbé. Come ti pare», mi accusò.

«Non ti devo spiegazioni se non mi va di...». Mi bloccai.

«Di...?», chiese curiosa, ma con un filo di malizia. «Hayley, non riuscirai a evitarlo per sempre. Il fatto che tu non sappia cosa fare non si risolve chiudendoti in casa. Lo beccherai in giro prima o poi, e vedrai che si sentirà ancora di più preso per il culo. Sei sparita dalla circolazione così, di punto in bianco. Che “mistero”, eh?».

«Si chiama accidia, d'accordo? Non mi va di fare niente, la mia mente si nutre solo di inerzia ed è depressa. Lasciala annegare nella sua dolce depressione. Lasciami gli ultimi tre giorni di pace, okay? Sono cavoli miei». Scosse la testa e dopo poco se ne andò. Me l'ero andata a cercare, la pazienza di Lara non era affatto infinita.

 

Il pomeriggio, la situazione non migliorò. Non feci niente per farlo, tutto qui. Jenna era dall'estetista, Bryan... Boh. Di sicuro non in casa, incastrato come me.

Mi buttai sul divano del salotto a pancia in su, occhi chiusi e mente vuota. Giuro che non sapevo come fossi arrivata a tanto. Cioè, una mezza idea ce l'avevo, ma... No.

Poi sentii tre voci ben distinte, che conoscevo bene, gridare il mio nome.

Lara, Jamie, Travis.

Mi trascinai fuori, con i capelli raccolti in una coda improvvisata, i jeans che avevo addosso dal giorno prima e una canottiera bianca completamente anonima. Le infradito grattavano sul vialetto sotto il peso delle mie gambe pesantissime. Uscii io, ma non feci entrare loro.

«Beh?», iniziai, poco cortese.

«Visto?», disse Lara ai due gemelli. «È così da quando sono tornata. Incazzosa come non mai, una mestruata permanentemente acida».

Finsi una risata. «Tutto qui? Allora vi saluto».

«Hayley?», chiese spiazzato e sinceramente sorpreso Jamie. «Cosa... ti è successo?». Sembrava dispiaciuto come se gli avessi appena dato una brutta notizia. Distolsi lo sguardo dalla sua espressione da cane bastonato e lo sguardo mi cadde proprio sulla casa di fronte.

Hitch stava uscendo proprio in quel momento e mi fissava, con uno sguardo stranito e inquisitore. Lo mandai a quel paese con lo sguardo, finché non smise di guardarmi.

«Hayley? Dovresti dirci cosa ti passa per la testa», disse Travis.

Risi acida.

«Oh, davvero? E dove sta scritto?».

«Ma che...? Oh! E allora?», scattò Lara. «Ecchecazzo, mi sembri Dana!». La fulminai.

«Hayley...», supplicò Jamie. Sbuffai e mi sentii spazientita dalla loro curiosità illegittima. Stavo per esplodere.

«Che c'è?», gridai. Mi sentii gli occhi rimpicciolirsi. Stavano per lasciare spazio alle lacrime, ma non avrei dato a nessuno quella soddisfazione di vedermi vulnerabile e in cerca di pietà. Lara fece un passo indietro.

«Diamine, Hayley. Di nuovo?». Avevo capito a cosa si riferiva. Probabilmente si era ricordata che tutti gli anni, più o meno in quello stesso periodo, diventavo inavvicinabile e cattiva.

Non le risposi subito.

«Posso tornare in casa, adesso?», sibilai con una frecciatina verso di lei. Jamie e Travis non capivano, ma sapevo che Lara non si sarebbe fatta scappare una sola parola con nessuno.

Annuì impercettibilmente.

«Tante grazie», sussurrai a denti stretti e corsi in casa prima che le lacrime mi tradissero.

 

Ripresi quel maledetto quaderno dopo neanche cinque minuti. Scrivendo, non riuscii a frenare le lacrime di ira che trattenevo sempre.

Mi chiedevo di continuo se mi avesse mai riconosciuta se mi avesse visto per strada. E se ci fosse riuscito, cosa avrebbe fatto? Avrebbe semplicemente ignorato anche me, o mi avrebbe riservato il trattamento che aveva utilizzato con Jenna? Non sapevo neppure quale sarebbe stata la mia di reazione: io avrei saputo riconoscerlo tra milioni e milioni di delinquenti, ma cosa ne avrei fatto? Cosa avrei risolto?

Niente.

Bryan spuntò sulla soglia di camera mia, completamente al buio, eccetto che per una piccola lucina che avevo acceso sulla scrivania per poter scrivere.

«Non ti ho sentito entrare», dissi con la voce tremante. Chiusi il quaderno e lo tenni ben stretto tra le mani sudate. Bryan aveva già intuito cosa mi stava saltando in testa, per questo aveva tentato di persuadere Jenna a fare la mamma.

Si sedette sul letto e mi fece un cenno, così mi posizionai vicino a lui. Tutte le volte funzionava così. Mi abbracciava, diceva due parole, sfondavo le dighe e dopo qualche ora ero come nuova. Con la durata di circa un annetto.

Non ci fu bisogno di dire niente, quella volta. Erano troppo stretti tutti quei problemi nella mia testa, non respiravano più nemmeno loro. Così, non appena abbassai la guardia e feci un respiro profondo, liberai tutto il peso che mi opprimeva e piansi fino allo sfinimento, con Bryan che mi cullava come una bambina. I singhiozzi violenti mi rendevano difficile respirare decentemente.

Dieci minuti e tutto fu azzerato. Pronta a fare finta di niente e ricominciare, rientrare nel giro.

Ma quale giro?

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Capitolo 4
*** Asilo ***


Quella sera, anche Jenna venne a dirmi due parole, che vi risparmierò. Vi basti sapere che a volte le capita di ricordarsi di certi... avvenimenti. Insomma, è una mamma anche lei.

Cenai con Jenna e Bryan e la cosa fu anche abbastanza piacevole. Quasi quasi sembravamo davvero una famiglia normale.

Fino al pomeriggio successivo, invece, nessuno si fece sentire. Fu allora che decisi di andare alla festa di Eva.

«Jenna?», gridai dal piano di sopra mentre mi mettevo lo smalto. I Paramore gridavano in casa mia, nel frattempo: le casse in ogni angolo di camera mia erano state un'idea di Bryan e – dovevo ammetterlo – come idea era stata geniale.

Sentii il passo svelto e pesante di Jenna salire le scale.

«Che c'è, tesoro?», mi chiese tranquilla. Temevo di farle un po' pena, ma sapevo di sbagliarmi.

«Hai da fare stasera?».

«Perché?». Fece una faccia allarmata, non sapevo se per qualcosa che temeva che io facessi o per qualcosa che magari lei aveva già fatto.

«Mi servirebbe un passaggio», ammisi subito. «A casa di Eva. Ieri Lara mi ha detto che dà una festa, e...». Un sorriso le illuminò il volto.

«Ci sarà anche Jess?», fece animata dalla curiosità. Arrossii.

«Non lo so. Può darsi», dissi facendo spallucce e fuggendo con gli occhi.

«Di' la verità, state insieme? O siete solo... “frequentanti”?». Mi faceva l'occhiolino ogni due parole.

«Jenna, da quando hai un tic all'occhio? O è solo un moscerino?», tentai di evadere la domanda.

«Hayleyyy... Avanti, a me puoi dirlo. Sono la tua mammina, ne capisco abbastanza... E dai! Non farti pregare».

«Jenna, io non lo so! Lui ha solo messo in chiaro un paio di cose, okay?». Sperai che tanto le bastasse. E invece no.

«Quali cose?».

«Ma non avevi detto che ne capivi abbastanza?». Mi guardò perplessa, così approfittai della sua titubanza per porre fine a quella conversazione. «Allora, mi dai questo passaggio o faccio l'autostop?».

«Certo, certo. Tutte le volte che vuoi, tesoro».

Così, adesso dovevo solo prepararmi per la serata. Mentalmente e fisicamente.

 

Aprii l'armadio e sbuffai, demoralizzata come non mai. Ci sarebbe stata tanta gente, anche Dana (purtroppo) e... Non che me ne fregasse molto, ma non potevo presentarmi lì come una stracciona.

Dopo una buona mezz'ora, optai per un corpetto nero senza bretelle, rigido ma comodo. Misi dei jeans neri e presi scarpe e accessori rossi. Raccolsi i capelli solo in parte, alzandoli un po' a mo' di coda, ma lasciandoli sciolti e mossi sotto. Con la matita mi diedi una passata intorno all'occhio, completai il resto del trucco divinamente (modestamente, sono la figlia di una make up artist – credevate che non fossi capace di usare ombretti, matite e mascara?) e scesi in salotto.

«Jenna?». Anche lei era tutta in tiro, non capivo perché.

«Che spettacolo, tesoro», dichiarò aprendosi in un sorriso.

«E tu, dove devi andare tu di bello?».

«Mah, nulla di che. I genitori dei gemelli hanno organizzato una cena in un posticino un po' fuori mano e hanno invitato un po' tutti, anche lo zio di quel nuovo ragazzo, quello famoso... Il rapper. Ecco perché Jamie e Travis hanno avuto il permesso di uscire, alla fine».

Il rapper: rabbrividii. Cosa si poteva mai dire allo zio di un rapper diciannovenne?

 

La musica – ovviamente dal vivo – si sentiva già a venti miglia da lì. Jenna sembrava più entusiasta di me di quella festa.

La salutai montando un sorriso molto, molto impegnativo, e lei mi credette senza battere ciglio. Subito dopo, dovetti farmi spazio per passare nel bel mezzo della gioventù californiana che ero riuscita (più o meno) ad evitare durante tutta la durata dell'estate.

Mi arrivarono spallate e occhiatacce da tutte le parti, mentre io volevo solo trovare Lara. Ero in disperata ricerca di un volto a me familiare, ma in un senso “vero”, capite?

Non sentivo niente, vedevo solo tacchi altissimi, gente appartata e spiaccicata sui muri che dava libero sfogo alle proprie “esigenze” e qualcuno che mescolava alcool e fumo. Il quadro perfetto di Beverly Hills.

Spuntai vicino alla piscina, diedi un'occhiata in giro, ma non trovai Lara. Iniziai a spazientirmi dopo dieci minuti che giravo a vuoto.

Intravidi Dana e Bree e tutte le loro piccole cloni, così invertii la marcia. Trovai un angolo in cui la respirazione era possibile e iniziai a ragionare: sono Lara, sono ad una festa, voglio divertirmi e... Certo, sono al reparto alcool.

Mi diressi verso quella che pensavo fosse la cucina, ma trovai di meglio: un intero tavolo, lungo chilometri, allestito con ogni genere di porcherie. Di sicuro Lara bazzicava lì.

Presi un bicchiere e lo riempii, con lo sguardo vagante in cerca della mia cara ubriacona. Per la mia gioia, sentii qualcuno arrivarmi da dietro, dandomi una spallata, come se qualcuno l'avesse spinto.

Mi girai, un po' infastidita.

«Scusa», disse serio l'assalitore. Altro che infastidita, quella faccia da “sono io la prossima star ultramillionaria a cui dovrete leccare il culo” mi fece salire il sangue al cervello. Hitch, quello scarto della creatività, se ne stava impalato di fronte a me, a chiedermi scusa mentre mi fissava.

Non avevo mai notato che avesse gli occhi verdi. Un bel verde. Del tutto diversi da quelli di Jess, ma non per questo meno intensi.

Lo scrutai meglio, per avere impressa meglio nella mente la faccia che avrei dovuto saper evitare al meglio delle mie capacità nei giorni a venire.

Capelli biondicci, un po' corti, un po' lunghi (effetto “sono andato dal barbiere, l'ho fatto arrabbiare ed ecco il risultato”); aveva un filino di barba che lo faceva sembrare più grande della sua effettiva età. Ed era più muscoloso di quanto mi aspettassi.

Dalla sua espressione non trapelava assolutamente niente. Aveva chiesto scusa ma sembrava che stesse aspettando una spiegazione o un rendiconto di una qualche mia cattiva azione. Per un attimo mi persi nel colore dei suoi occhi: era davvero strano. Ma poi mi ricordai che mi era appena precipitato addosso e mi stava chiedendo scusa con la grazia degna di un serial killer. Con la faccia degna di un serial killer.

All'improvviso, mi accorsi che tutte le ragazze nel raggio di dieci metri mi stavano uccidendo con gli occhi.

Senza rispondere alla “superstar”, gli diedi le spalle e feci finta di niente. Lui se ne andò e così tutti gli sguardi mi diedero pace.

In quel momento scorsi Jamie. Di fronte a lui c'erano tre persone: quelli che cercavo. Chris non era tra loro, probabilmente era ancora in punizione.

Jamie mi vide ed esplose di gioia solo con gli occhi. In neanche due secondi, anche gli altri si girarono. Il più veloce fu Jess, che si bloccò a fissarmi in ogni minimo particolare. Lara alzò il bicchiere verso di me, ridendo e gridando “yeah!”. Travis e Jamie dissero qualcosa a Jess, che non mi sorrise per niente. Anzi, con la più ostile delle facce si voltò verso di loro, rispose qualcosa e sparì nella folla.

Un po' umiliata, mi diressi verso di loro, con un mezzo sorrisetto.

«Hay!», salutò con un urlo Travis.

«Finalmente sei tornata... Un giorno mi spiegherai cosa ti è preso», disse Jamie. Annuii, poco convinta.

«Allora, compagna di scorribande! Sei sobria?». Io sì, Lara no. Per niente.

Lasciai correre per un po', ma dopo meno di un'oretta (durante la quale Jess si era volatilizzato) chiesi a Lara di accompagnarmi in bagno.

Ovviamente, non avevo bisogno davvero del bagno. Ci bastò isolarci in una qualsiasi stanza.

Non appena la musica si allontanò e le orecchie iniziarono a fischiarci al massimo, Lara mi guardò un po' rassegnata. Mi disse subito quello che volevo sapere.

«È abbastanza incazzato, sì. Gli avevo già detto che quasi sicuramente non saresti venuta».

«Era questa la mia intenzione, ma ho azzerato tutto ieri. Oggi era già... l'inizio di una nuova era».

«Oh, Hayley. Lo so che non vuoi, ma in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione, lo sai che ci sono. Non devi...», disse in difficoltà, forse per la quantità di alcool in corpo.

«Lara. Per favore, non dire altro», la bloccai. «Piuttosto, sai se è andato via?».

«Credo di no. Prova a cercarlo, dai. Andiamo a chiedere ai gemelli».

«Ma se ti lascio sola, berrai così tanto che finirai nelle lenzuola di chissà chi», la ammonii. Mi guardò scettica.

«Secondo te, c'è bisogno che io beva? Era questo il mio intento, già da un pezzo», disse facendomi l'occhiolino. Feci una faccia per niente stupita e lasciai correre, andando a cercare Jess. Scesi le scale e scorsi – di nuovo – quel demente di Hitch che mi squadrava. Lo fulminai e ripresi la mia ricerca, che si concluse subito.

Jess se ne stava al bordo della piscina, con una sigaretta in bocca, che parlava con una biondina (probabilmente del primo anno, se non ricordavo male). Lì per lì restai perplessa: da quando Jess faceva amicizia così apertamente e facilmente? Con una ragazza, poi!

Persi un po' di sicurezza, ma mi avvicinai lo stesso. Fece una cosa della quale ero certa che si sarebbe pentito. L'aveva studiata a tavolino, quella mossa.

Quello stronzetto, nel vedermi, aveva iniziato a parlare e sorridere alla biondina – completamente allibita – e aveva messo un braccio intorno alle sue spalle.

Segno di sfida, architettata da un dilettante, direi. Quando mi ci mettevo io, sapevo essere di gran lunga peggiore. E poi, sapevo di poter avere la faccia tosta.

«Possiamo fare due parole?», chiesi tagliente arrivando di fronte a lui. La biondina fece due passi indietro, come per discolparsi, ma non la stavo nemmeno guardando.

«Sono impegnato, non vedi?», mi rispose brusco. Dire che in quel momento restai delusa e impietrita, è dire poco. Persi tutta la grinta con cui volevo attaccarlo per costringerlo a parlarmi, così – senza nemmeno una parola – mi allontanai facendogli capire tutto il mio sbigottimento solo con gli occhi.

Tornai in casa e vidi che si erano formati parecchi gruppi di “giochi di società”, diciamo così. C'era chi partecipava al più innocuo gioco della bottiglia, chi invece fingeva di perdere a strip poker, e altri ancora (gli ubriachi) probabilmente giocavano a Twister. Era un delirio che non mi stupì affatto.

Trovai Lara intorno alla bottiglia che girava velocissima. I gemelli parlavano con alcune ragazze, un po' in disparte, ma almeno sapevo che il loro interesse non doveva essere un dispetto nei miei confronti.

Non sapevo cosa fare.

«Hayley, giusto?», fece una voce profondissima da dietro di me. Mi voltai, sorpresa.

Cristo, era Jim.

«Già», risposi vaga. Meglio non fare troppo la super eroina e non farlo scaldare.

«Sei qui da sola? Possiamo rimediare», fece allusivo. Sospirai.

«Credo di saper reggere la solitudine. E comunque, non sono qui da sola. Grazie lo stesso». Feci per andarmene, ma mi bloccò per un braccio.

«Quanta fretta. Aspetta un attimo con me, io sono da solo qui, i miei amici ancora non sono arrivati – ecco perché fa così schifo questa festa. Non mi vuoi tenere compagnia?», chiese stringendo la presa. Ero a corto di scuse.

«Scusa, ma credo che abbia già rifiutato la tua compagnia abbastanza civilmente», rispose un'altra voce maschile al mio posto. Non era possibile...

Il serial killer, o rapper, o come volete voi.

Ero bloccata tra quei due, non potevo farci niente. Finalmente, i gemelli mi buttarono un'occhiata preoccupata e si avvicinarono lentamente.

«E tu chi sei, il suo avvocato difensore?», rispose Jim lasciandomi il braccio. Aveva stretto così tanto che avevo le sue dita stampate sulla pelle, tanto che si capiva chiaramente dove il sangue stesse per ricominciare a fluire.

«Vedrai che ti ricorderai di me, se ti azzardi un'altra volta a trattare una qualsiasi di queste ragazze come se fosse il tuo passatempo». Mi voltai a guardarlo, sorpresa e meravigliata.

«A loro piace essere i miei passatempi», disse con un ghigno Jim. Rabbrividii per la sua espressione da pervertito.

«Questo lascialo decidere a loro». Si guardavano dritti dritti negli occhi, nessuno dei due avrebbe lasciato perdere. Una guerra fredda era in corso proprio davanti ai miei occhi.

Grazie a Dio, arrivarono i gemelli.

«Tutto a posto, qui?», fece Travis. Nel vederlo, Jim si aprì in un sorriso di soddisfazione.

«Ancora Cip e Ciop, che bello. Non vi è bastata la lezione dell'altra volta?».

«Sì, abbiamo afferrato e non c'è bisogno del bis, ma... Hayley dovrebbe venire via con noi. Adesso», disse Jamie, a metà tra l'ironico e il minaccioso.

«La accompagno io a casa, non ti preoccupare», rispose Jim sorridendo. Il solo pensiero di restare sola con lui in un qualsiasi posto mi fece venire la pelle d'oca.

«Lascia che sia lei a decidere con chi tornare», lo ammonì Hitch.

In quel momento vidi Jess spuntare da dietro le sue spalle, con faccia sbalordita e preoccupata.

E fu lì che ebbi un flash.

“Ti faccio vedere io come si fa la stronza, pivello”, pensai. “Ritorna dalla tua biondina”.

«Jamie, Travis... Andate pure, io mi faccio accompagnare a casa da...», feci guardando Hitch in attesa del suo vero nome. Non potei trattenere una faccia un po' schifata: stavo davvero per farmi accompagnare a casa da uno come lui? Ero caduta in basso, molto in basso...

«Adam», completò lui. Adam? E che cosa c'entrava con “Hitch”? Vabbé.

«Sì», sibilai acida. «Da lui. Tanto sta di fronte, no? Voi tornate pure dalle vostre... amichette. Mi sembrano impazienti», dissi con un sorrisetto.

Intanto, Jim si stava allontanando, ma non prima di aver minacciato Hitch con un “non finisce qua”. Jess mi vide e fece per avvicinarsi, ma gli diedi le spalle, guardandolo torva e uscendo da quella stramaledetta casa – con un rapper come ombra (cosa che avevo sempre reputato impossibile per principio).

Quando fummo fuori, si accese anche lui una sigaretta.

«Devi davvero tornare a casa?», chiese diffidente e guardandosi intorno. Tutti gli occhi speranzosi delle ragazze nel raggio di tre miglia mi stavano lapidando.

Non risposi e mi strinsi nelle spalle, come per dire “boh”. Io non dovevo tornare, ma tanto valeva darci un taglio, a quella festa. Non mi stavo divertendo affatto.

«Che vuol dire, scusa?», fece infastidito.

«Che non me ne frega se devo tornare adesso o no, tanto se resto o meno non mi perdo niente», risposi ancora più acida di prima.

«Vuoi restare qui con quel malato che escogita un piano per portarti in camera sua?».

Lo guardai malissimo. Perché, lui cosa stava facendo?!

«Senti un po', Adam, ho parecchie cose a cui pensare, perciò accompagnami a casa e non aspettarti altro», dichiarai chiudendo lì il discorso.

«Ti sopravvaluti un po' se credi che io mi aspetti altro. Non ringrazi mai la gente, vero?». Mi guardò in attesa di una risposta che non arrivò: mi aveva appena fatto fare la figura dell'idiota. «Potresti iniziare da adesso», mi suggerì.

Feci una faccia diffidente e cinica e lo guardai: «E chi dovrei ringraziare? Te?».

Si strinse nelle spalle e non mi rispose, facendo una faccia del tipo “non mi abbasso a replicare, ragazzina”.

«Dimmi solo se vuoi andare a casa o no, se no torno dentro».

«Ci torno da sola, tante grazie».

«E come?».

Indicai le mie gambe, completamente fuori di me.

«Oh, certo. Buona fortuna, allora». Mi incamminai mentre ancora stava parlando, ma sentivo i suoi passi dietro di me. Accidenti. Tentai di accelerare il passo, marciando come un militare.

«Ma che cazzo stai facendo?», sibilò afferrandomi per un braccio. L'altro.

«Indovina?», risposi sarcastica.

«Senti un po', Miss Non Ho Bisogno Di Nessuno, se ti fai tutta la strada da qui a lì a piedi, rischi di incappare in qualche seguace di quel Jim con una probabilità del mille per cento. Ti accompagno e smammo, non ti voglio sulla coscienza».

Mi liberai dalla sua stretta con una spallata e lo ignorai.

«Ho detto che non ti voglio sulla coscienza», ripeté.

«E io ti ho sentito, ma si dà il caso che io non voglia fare la strada con uno come te», risposi mentre camminavo dandogli le spalle.

«Ma sentila! Guarda che non siamo costretti a parlarci. Anzi, mi fai un favore se stai zitta e lasci che ti porti a casa. Fine della storia».

«Hey, Mr. Leccami Il Culo Perché Sono Un Rapper, senti un po' tu! Ma chi ti credi di essere? Lasciami andare e parla di meno, ché mi stai dando davvero sui nervi», gridai.

In quel momento comparve Jess.

Ma che sorpresa...

«Oh, tutto bene?», chiese correndo verso di noi.

«E a te che importa?», feci velenosa. Jess sbuffò.

«Non fare come le bambine, avanti», mi disse.

«Io? IO? Io non devo fare come le bambine? Vogliamo parlare dei dispetti che si fanno all'asilo i bimbi, Jess? Mi sembri un esperto, tu!». Stavo gridando con voce acutissima.

«Vedo che hai difficoltà a relazionarti in modo civile con tutti», commentò Hitch. O Adam, chi se ne importa.

«Tu inizia a farti i cazzi tuoi e vedrai che arrivi lontano nella vita», lo bacchettai.

«Hayley, sono solo venuto a chiederti cosa voleva Jim», mi spiegò Jess.

Certo. Cos'altro avrebbe dovuto dirmi?

«Hai paura di andare a chiederglielo tu perché se no ti spacca di nuovo il labbro?».

«Ci stava provando, senza permesso, diciamo», rispose rapido Hitch, intromettendosi nel discorso. Jess lo guardò serio per una frazione di secondo e poi tornò a me.

«E...?». Mi fece incazzare di brutto il suo modo di fare. Sembrava un genitore troppo apprensivo, che aspettava una mossa falsa per mettermi in punizione. Un genitore. Un padre.

«Vaffanculo, Jess! Adesso te ne accorgi? Non vedi che sono impegnata? Stavo giusto andando a casa con lui!», dissi additando Hitch, ma senza voler vedere la sua espressione.

«Hayley, stai scherzando?!», gridò incredulo Jess. «Tu sei sparita e adesso ti aspetti che... Avanti, mi conosci, sai che nessuno mi prende per il culo! Tanto meno tu... o lui».

«Ripeto, Jess: vaffanculo. È stata una gran brutta mossa della quale ti pentirai». Detto questo, mi voltai verso Hitch e gli feci un cenno con gli occhi che gli facesse capire “forza, andiamo”. Pregai che decidesse di non farmi fare altre figure di merda, magari dicendo: “Bella, non avevi detto che saresti tornata a casa a piedi?”.

Per mia fortuna, non lo fece.

«Hayley!», fece Jess credendo che gridare il mio nome bastasse a farmi girare.

Arrivammo alla macchina di Hitch – vi risparmio la descrizione, chiaro? Che macchina potrebbe mai avere uno come lui? Ecco – ed entrai sbattendo la portiera. Mi fulminò e io gli sorrisi come una stronzetta.

Evitò accuratamente ogni tipo di domanda o forma di conversazione, cosa che apprezzai moltissimo. Quasi quasi mi ero scordata di essere in macchina con un essere che con me aveva ZERO elementi in comune.

Aprì bocca solo quando parcheggiò di fronte a casa mia.

«Non è neanche mezzanotte», commentò.

«Già, gran bella considerazione. La notte è giovane, vai a dare un po' mostra di te. Ciao», dissi con un tono che avrei odiato persino io.

«Fino a prova contraria, non sono io quello che si mette in mostra». Era una frecciatina?

«Oh, beh, questo è del tutto opinabile».

«Hayley, ciao», si affrettò a concludere prima che potessi aggiungere commentini ancora più odiosi.

Aprii la portiera e prima di sbatterla (apposta) mi fermai a precisare una cosa:

«E comunque... Io sono Hayley solo per gli amici. Tu non devi proprio chiamarmi, né per nome, né per “concetti”, chiaro?».

«Quindi quel Jess era tuo amico, deduco. Ti ha chiamata in un modo che io non posso ripetere, perciò...», fece con un tono da pazzo furioso, serio e senza ombra di spirito.

Chiusi la portiera. Alla fine non ce la feci a sbatterla, mi aveva fatto restare di stucco con quella faccia da serial killer. La determinazione mi era venuta meno.

Quando però fui sulla porta di casa, mentre prendevo le chiavi, lo sentii sgommare e – potrei giurarci – gridare dal finestrino:

«Buonanotte, signorina Smithson!».

 

 

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Capitolo 5
*** Consiglio spassionato ***


La mattina seguente fu il mio cellulare a svegliarmi. Ero aggrovigliata intorno alla mia colonna vertebrale in modo pressoché indescrivibile e impresentabile.

Presi quell'oggetto fastidioso e rumoroso e lo lanciai verso l'armadio, sentendo chiaramente un “toc” quando si fece in mille pezzi. Allora scattai dal letto.

«Merda, merda, cos'ho fatto! No, no! NO!», gridavo mentre tentavo di rimontarlo alla meno peggio. Mi ero trascinata dietro tutte le lenzuola mentre mi ero precipitata al salvataggio del mio cellulare.

Almeno aveva smesso di suonare.

«No, no... Per favore!». Agitavo i pezzetti di tasti e la batteria a destra e sinistra, senza sapere cosa fare e lamentandomi come una bambina.

“Come una bambina”. No, aveva detto: “Non fare come le bambine”, se non ricordavo male.

Ecco, perfetto inizio di giornata: cellulare schiantato e stramazzante al suolo (colpa mia, lo so) e ricordi della sera precedente troppo precoci. Il mio stato di coma post-sonno era già sfumato del tutto.

Mi arresi e lasciai tutto a terra, coprendomi con il lenzuolo a mo' di mantello e sbuffando.

«Che succede qui?», chiese Bryan spuntando sulla soglia.

«E tu che ci fai qua?», chiesi un po' stupita.

«Hay, parto lunedì mattina. E te lo avevo già detto. Comunque, che cosa ti ha fatto perdere la calma alle sette di mattina di un sabato estivo?». Indicai ciò che restava del mio cellulare.

«Lara mi stava chiamando, ma io avevo sonno», spiegai come se tanto bastasse a farmi passare come una sedicenne sana di mente e senza problemi di controllo dell'impulsività.

«Ricordami di non chiamarti mai, allora». E sparì in corridoio.

Per tutta la mattinata mi trascinai, come un fantasma vagante, avanti e indietro per il salotto.

Che chiusura d'estate disastrosa. In pochi giorni avevo fatto più casini di quanti non ne avessi fatti in sedici anni, non so se mi spiego.

Jenna era andata a lavoro. Mi aveva lasciato un bigliettino con il resoconto della sua serata, perciò direi che più che un semplice bigliettino era una risma intera, rilegata e pubblicata. Una specie di poema, ecco.

Almeno lei si era divertita, a quanto pareva. Le sue parole sprizzavano entusiasmo da tutti i pori... Per fortuna non finii di leggere la sua storia improvvisata.

Verso le nove il mio campanello iniziò a strimpellare. La suonata era di Lara, così aprii e mi avviai in camera mia, dove sapeva che mi avrebbe trovata. Visto che c'ero, mi diedi anche una mezza sistemata.

Sentii prima la porta sbattere, poi le sue pedate sulle scale che annunciavano la sua furia. Soppressi una risata impellente mentre apparve sulla soglia, vestita di mille colori.

«Lara, Arlecchino è nella casa di fronte, di fianco ai gemelli», la salutai. Mi ignorò.

«Hai mandato a fanculo Jess due volte nella stessa sera e sei tornata a casa con Hitch?!», mi accusò strillando. «Ma ti sei bevuta il cervello? Io almeno ieri sera ero ubriaca, ma tu eri perfettamente sobria! E cosa fai? Dici “vaffanculo” a Jess! Non una volta, ma due! Senza contare quella dell'altra volta, quando le ha prese da Jim. Ma dico, ti sei dimenticata della persona con cui hai a che fare? Parliamo di Jess, quello che se si arrabbia...». Le tappai la bocca.

«Lara. Evidentemente, non me ne frega molto, no? Si dà il caso che già ieri sera lui si stesse dando da fare. Questo non te l'ha detto nessuno, immagino», la zittii.

«Beh», fece stizzita. E poi tornò alla carica: «Sei tornata a casa con Hitch!», esclamò tralasciando la rabbia di qualche istante prima. Adesso era euforica, ma non aveva capito un bel niente.

«Ma. Che. Gioia», dissi inespressiva.

«Avanti, cosa vi siete detti? Ci ha provato? Hai il suo numero? L'hai fatto entrare?». La sua raffica di domande corrispondeva esattamente alle cose che faceva lei al primo appuntamento. Si sedette sul letto ad aspettare, impaziente.

«Cara la mia Lara, dimentichi che io quel tizio non lo posso proprio tollerare. Anzi, ti dirò di più: da ieri sera mi sta ancora di più sulle palle. È un pallone gonfiato che ti guarda con quella faccia da Jack lo Squartatore... Lara: non andare a letto anche con lui, potrebbe ucciderti», la avvertii. Lei la mise sul ridere.

«Hayley... Tu mi dici di non andare a letto con lui perché... in realtà lo vorresti tu!». Risposi con una cuscinata in pieno viso, senza ridere.

«A proposito di andare a letto... Chi è stato ieri il tuo prediletto?», chiesi come una smorfiosetta.

«Credo che si chiamasse Peter. Ma non sarei pronta a metterci la mano sul fuoco». Alzai gli occhi al cielo: non avrebbe mai cambiato abitudini.

«Sai, Lara, dovresti almeno sforzarti di fare caso a certi particolari, tipo il nome della persona o... Non saprei, se si tratta di un uomo o una donna, ad esempio. A volte qualcuno riserba sorprese non indifferenti», la stuzzicai.

«Ma smettila! Sei tu la monaca, non io la...».

«La...? Ti prego, finisci la frase», la implorai ridendo. Fece la faccia da finta offesa.

«Eh, Hayley, Hayley... Arriverà il giorno in cui ti butterai! Allora capirai perché è una droga per me».

«Lara, per favore! Che schifo!», esclamai buttandole un altro cuscino in faccia. «Non ho bisogno dei particolari, okay? Piuttosto, cosa mi sono persa ieri dopo che Jim mi ha lasciato in pace?».

«Jim? JIM?», strillò con gli occhi fuori dalle orbite.

«Scusa, ma come facevi a sapere di Jess e di Hitch senza sapere di Jim?». Che strana sensazione, quei tre nomi combinati nella stessa frase facevano sembrare me la sgualdrina della situazione. Senza offesa per Lara, ovvio.

«A me i gemelli hanno riferito quello che Jess ha detto loro, e cioè che tu avevi fatto una scenata fuori e poi ti eri fatta portare via da Hitch, sotto gli sguardi isterici di tutte le ragazze della festa».

Feci una smorfia. Non solo detta così la cosa sembrava molto più offensiva della realtà (nei miei confronti, sia ben chiaro), ma Jess aveva anche omesso tutti i particolari che mi avevano portato a quella assurda coincidenza che mai e poi mai avrei voluto vivere. E adesso passavo come quella che si era anche gasata di fare una cosa del genere!

Vedete? La vita a Beverly Hills è così, ma lo è anche in un qualsiasi liceo della Terra, immagino.

«Io... io... devo uccidere quel pezzente, Gesù mio! Lo uccido, lo uccido davvero!», iniziai a strillare.

«Io sono qui per credere alla tua versione, se può servire a qualcosa».

«Certo che può servire a qualcosa! Altroché! Adesso vedrai chi è il vero imbecille, porca miseria!». Stavo sbraitando con le mani che si muovevano a velocità inverosimile.

«Sì, sì, però prima fammi un favore e calmati», tentò di dire Lara. «Uno, due, tre... Respira, okay? Conta fino a un milione e passa, se ti serve, ma prima calmati, Hayley».

Seguii il suo consiglio e misi in ordine le idee.

Perché diamine Jess aveva fatto una cosa del genere?

«Allora. Ti ricordi quando sono andata a cercarlo?».

Annuì decisa. «Sì, lì ero ancora semi sobria».

«Perfetto. Quando l'ho trovato, era con una biondina, credo del primo anno, il che non era particolarmente strano. Cioè, sì, anch'io mi sono chiesta da quando Jess fosse così espansivo, comunque... Ho lasciato correre e mi stavo avvicinando. Quell'idiota, quando mi ha vista, sai cosa ha fatto?», feci senza aspettare la sua risposta. «Beh, ha messo un braccio intorno alle spalle della poveretta, che è rimasta del tutto spiazzata, e faceva lo spiritoso! Rideva per finta mentre guardava fisso nella mia direzione. Era una sfida, porca miseria. Ma io non mi sono tirata indietro, così sono arrivata davanti a lui e gli ho chiesto chiaro e tondo: “Possiamo fare due parole?”. E lui lo sai cosa mi ha risposto?». Aspettai una sua risposta, che non arrivò, così ripartii: «Lara, lo sai cosa mi ha risposto?».

«Mi uccidi se ti dico che non posso saperlo?!», rispose sarcastica.

«Mi ha detto: “Non vedi che sono impegnato?”. Così me ne sono andata». Imitai la sua faccia e il suo tono a mo' di parodia mal riuscita.

«Ma dai, ha detto davvero così?». Era rimasta un po' spiazzata.

«Quanto è vero che sono rossa naturale», confermai.

«Ma perché fare così? Andiamo, non siete mica bambini... Dimmi che tu non l'hai ripagato con la stessa moneta», disse speranzosa. Distolsi lo sguardo e mi alzai in piedi, buttando le braccia in giro. «Hayley!», mi sgridò.

«Beh, lì per lì mi era sembrata una buona idea dargli una lezione di stile», mi giustificai.

«E che cosa c'è dello “stile” nel farsi i dispetti a vicenda?».

«Senti, Lara, ho fatto bene. Ancora non me ne sono pentita, perciò non dare voce alla mia coscienza ritardata, okay?».

Mi guardò scettica. «Ritardata, eh? Non c'è aggettivo migliore per te. Ma vai avanti, dimmi di Jim», proseguì arrendendosi.

«Beh. Dopo essermene andata, mi sono messa a cercarvi, ma Jim mi è spuntato da dietro e ha iniziato a rifilarmi certe frasi da maniaco che ti lascio solo immaginare. E in quel momento è arrivato Adam».

«Chi?».

«Adam. Cioè, Hitch. L'imbecille», mi corressi rapida e fluida, come se “Adam-Hitch-Imbecille” fosse una catena inscindibile.

«E da quando lo chiami per nome?», rise Lara con faccia maliziosa. «Hayley, Hayley, stai attenta a tutti questi giovani fusti...».

«Oh, ma per favore! La vuoi sapere la mia versione o continui a interrompermi con commenti insensati e stupidi?». Annuì, sorridente e rassegnata. «Bene. Perciò arriva Hitch, che inizia a stuzzicare Jim, finché non arrivano pure Jamie e Travis, e se ne escono dicendo che mi devono portare via. Jim dice che mi ci porta lui a casa, Hitch risponde che devo decidere io. Io stavo per andare con i gemelli, ma poi Jess è spuntato da dietro le spalle di Hitch e io ho pensato di “essere impegnata” allo stesso modo in cui lo era stato lui due secondi prima. Così ho scelto Hitch, un bel po' controvoglia».

«E qui arriva il litigio con Jess».

«Prima c'è quello con Hitch, che non voleva lasciarmi andare a casa da sola. Sai, quella era una copertura, io volevo starmene da sola, mica con uno come lui».

«E poi è arrivato Jess», ripeté interessata Lara.

«Già. Voleva sapere di Jim, ma Hitch gli ha risposto al posto mio, così ho iniziato a gridare un po' con tutti. Fine della storia. Hitch mi ha riportata a casa, con qualche altro battibecco, e poi stamattina ho rotto il cellulare. Ecco perché non ti ho risposto. Sai, l'ho lanciato per farlo stare zitto».

«Esiste la modalità “silenzioso”. O lo puoi addirittura spegnere, sai?». Si alzò in piedi e mi squadrò, con le mani sui fianchi. «Hayley», annunciò dopo qualche secondo, «lo vuoi un consiglio spassionato?». La guardai confusa, sapendo che stava per sparare una di quelle sue profezie che di solito si avveravano sempre.

«O scegli subito, o stai lontana da quei due». Mi puntò l'indice addosso, in segno di minaccia, e ripeté: «Tutti e due». Risi schifata.

Quanto avrei voluto darle retta. Quanto avrei dovuto darle retta.

 

Il pomeriggio andammo a passeggio per le strade nelle vicinanze. A dirla tutta, Lara aveva proposto di andare a passeggio su Rodeo Drive, ma io tutta 'sta voglia di spendere ed essere vista non ce l'avevo.

Alla fine, bussammo alla porta dei gemelli.

La brutta notizia fu che anche quel giorno non erano in casa (ma che diamine di punizione era, la loro?). La bruttissima notizia fu che incontrai Hitch che usciva di casa. Sorrise cinico mentre se ne stava per andare. Poi frenò e invertì la marcia.

«Miss Smithson, se non ricordo male», mi salutò. Mi voltai a guardare Lara, dandogli le spalle.

«Hayley, credo che stia parlando con te...», mi disse Lara picchiettandomi sulla spalla e facendo segno dietro di me. Sbuffai e mi voltai di nuovo, sorridendo per finta.

«Ancora tu, che bello», dissi tra i denti. Mi stava guardando ancora come la sera precedente: come uno che ha la calma e la freddezza di un assassino.

«Che ci fai vicino a casa mia?», mi chiese.

«Potrei rivolgerti la stessa domanda», feci incattivita dal suo tono strafottente.

«Sei sul marciapiede di fronte a casa tua, ovvero sul mio. Sei più vicina tu alla mia zona di quanto non lo sia io alla tua, mi pare».

Stavo giusto per rispondergli per le rime, quando la risata di Lara interruppe le nostre frecciatine.

«Lara, che ci trovi di così divertente? Non vedi che questo qui è un elemento che ha ben poco di divertente?», dissi finendo la frase guardando torva Hitch.

«Lara, piacere. Sono Adam, non “questo qui”». Mi fulminò anche lui. Allungarono le mani e in quel preciso istante fecero conoscenza, lasciandomi lì ad assistere come un terzo incomodo. Mi sedetti sul marciapiede in attesa che gli stupidi convenevoli finissero.

«Hay, ma scusa... Che fai?», mi chiese Lara incredula. Probabilmente, la sua domanda aveva tante sfumature, alcune più metaforiche, altre letterali. Finsi di cogliere solo l'aspetto più letterale della cosa.

«Aspetto che finiate. Poi, siccome non ho niente di meglio da fare, torno a casa e aspetto che la scuola inizi», risposi sbuffando. Hitch mi guardò di traverso e poi – attenzione, attenzione – un sorrisetto sarcastico spuntò sulla sua faccia da schiaffi.

«Mi sa che potresti aspettare qualcosa di più imminente».

«La scuola è fin troppo imminente».

«Ma inizierà lunedì. Inizia ad aspettare qualcosa che succederà stasera».

Lara era in modalità invisibile. Io non capivo.

«Stasera non succederà un bel niente», risposi preoccupata ma spavalda, senza degnarlo di uno sguardo.

«Tu dici?», mi stuzzicò, di nuovo freddo e distaccato.

«Io dico». Facevo la faccia tosta ma... Non avevo poi tutto quel coraggio.

«Allora mi dirai stasera, d'accordo?». Non avevo ancora ben capito il senso della sua affermazione, così aspettai che continuasse. «E non pensare che manderò qualcuno a bussare alla tua porta. Sarò contento della serata almeno quanto te».

Lara si rianimò.

«Hey, qualcuno mi spiega cosa succede?». La guardai con faccia abbastanza eloquente. Hitch scosse la testa e fece due passi indietro. Solo in quel momento notai un tatuaggio sull'avambraccio sinistro e un altro sul braccio destro, che girava tutto intorno al suo bicipite.

«Piacere di averti conosciuta, Lara», iniziò verso di lei. Poi si rivolse a me. «Signorina Smithson...».

E riprese la sua strada iniziale.

 

Una volta in casa lanciai le chiavi sul mobile dei bigliettini, dove giaceva ancora il tema della serata di Jenna. Ebbi un flash e per un momento me la immaginai a scuola, seduta nel suo banco, tutta vestita e imbacuccata come una studentessa modello, in attesa della traccia del tema da svolgere in classe. Con la penna in mano, scriveva: “Parla della tua scorsa serata; con chi eri, cosa hai fatto e se ti sei divertita”. Beh, certo, la traccia sarebbe stata articolata meglio, ma la sostanza sarebbe stata quella. E chissà che vita avrebbe avuto in quei tempi... Non avrebbe certo pensato a una figlia sedicenne che era appena tornata con un piercing all'ombelico nuovo di zecca e pagato insieme alla migliore amica. Un bel segno di amicizia, molto... di moda, direi. C'è poco di amichevole in un piercing, è solo un anellino che ti buca tutte le parti del corpo che vuoi. Però era stato uno spasso improvvisare tutto con Lara. Era partita in quarta e mi aveva convinta con così tanta facilità che alla fine eravamo fuori di noi. Ma che male, però. E quante risate...

Presi in mano il bigliettino di Jenna e con un sorriso stampato in faccia lo lessi tutto rapidamente. Chissà perché...

Forse il mio sesto senso mi stava suggerendo qualche cosa di importante che mi era sfuggita, qualcosa di poco piacevole (sensazione merito dell'incontro con Hitch), qualcosa che...

Oh, merda.

Rilessi la fine del biglietto con più attenzione.

Cacchio: avevo letto bene.

Lessi ancora una volta ogni singola lettera, lentamente e analizzando ogni possibile equivoco.

Era chiaro, accidenti. Dannazione!

Lessi di nuovo a bocca aperta, senza più sorridere: “Mi raccomando, tieniti libera per domani sera. Siamo invitate a cena dai nuovi vicini!”. E poi c'era una terribile e inquietantissima faccina sorridente. Una X e una D. Io sapevo che era una faccina, ma Jenna molto probabilmente no.

Lasciai cadere il pezzetto di foglio più perfido del mondo dalle mani, spaventata a morte. Jenna aveva forse iniziato a frequentare lo zio di un rapper adolescente e viziato, nonché sbruffone?

Mi scappò un verso simile a un grugnito, che poi si tramutò in un grido vero e proprio.

«Jenna!», gridai all'aria, a denti stretti.

 

Quando rientrò, mi trovò seduta sul divano con il broncio e la faccia accusatoria. Il suo sorriso si spense al volo.

«Tesoro mio, ciao. Qualcosa non va?». Alzai la mano con il fogliettino in mano, zitta e ostinata. Sembrava una strana inversione di ruoli.

«Già!», rispose sorridente. Di nuovo.

«Mi spieghi perché diamine dobbiamo andare nella tana del lupo?». Mi uscì un tono più piagnucoloso che aggressivo.

«Andiamo, ha invitato quasi tutti i vicini. Non sarai sola. E poi c'è il nipote di Frank, potresti fare la carina almeno con lui». Frank? Frank?! E chi cazzo era “Frank”?

Ma fu un'altra la cosa che mi irritò. Una scintilla mi fece scattare. Cos'era quel tono?

«Che vuol dire “almeno”?», chiesi con la voce più alta di due ottave.

«Tesoro, non ho più visto gironzolare Jess da queste parti. Tu torni a casa presto, e se esci, esci solo con Lara. Due più due». Ero tornata presto solo una volta, dannazione, una sola! Nemmeno il Grande Fratello sorvegliava così gli abitanti di casa mia.

«E così adesso sono io la colpevole? Neanche sai come è andata! Come puoi accusarmi di cose che non sai? Jenna!». Stavo gridando.

«Nessuno ti accusa, ma se reagisci così, qualcosa di cui pentirti c'è», rispose calma e insinuante. Restai senza parole, tutte bloccate in gola dall'occlusione di ira che stava per soffocarmi. Come se io non pensassi già abbastanza di mio a certe cose...

«E adesso vai a prepararti. Non te lo dico due volte». Il suo tono mi fece diventare ancora più cocciuta.

«E invece no. Ho da fare, stasera». Mi sedetti di slancio sul divano, quasi precipitandoci sopra, e la maglietta si alzò un po'. Non ci feci caso.

«E quello cos'è?!», gridò Jenna con voce più stridula della mia. I cani probabilmente la capirono alla perfezione; anzi, solo i cani: quelli erano veri e propri ultrasuoni, inudibili per le orecchie umane.

Fissai il punto in cui stava guardando. Abbassai subito la maglietta e feci un sorrisino innocente.

«Oh. Quello. Quello. Un... piercing?», azzardai timorosa, con le mani ancora attorcigliate sull'orlo della maglietta.

«CHE COSA?!». I cristalli in casa si frantumarono del tutto.

«Jenna, Jenna, ascolta...», tentai di iniziare.

«E da quanto tempo hai un pezzo di metallo conficcato in pancia?», urlò.

«Un paio d'ore», dissi, lieta che forse quella notizia l'avrebbe calmata almeno in parte.

«Come ti è saltato in mente?!». Altro che calma...

«Io e...». No, meglio lasciare in pace Lara. Presi qualche secondo di tempo, sotto la sua espressione esterrefatta e furibonda.

«Mi piaceva», feci alla fine, stringendomi nelle spalle. Jenna scoppiò in una risata perfida e sarcastica.

«Ma che fantasia! Che fantasia, tesoro mio! Sai una cosa? Sono pur sempre tua madre, puoi chiamarmi per nome o come ti pare, ma ciò non toglie che tu non debba comportarti come se io non esistessi! E se quel “coso” ti stesse facendo infezione? E se il grande genio che ti ha bucato l'ombelico non fosse stato uno esperto? Se avesse sbagliato qualcosa? Se...». La lasciai andare avanti per un po', facendo la faccia dispiaciuta. E lo ero davvero. Perché aveva ragione. Le avevo mancato di rispetto, prima di tutto. L'avevo ignorata e sottovalutata, e... Andiamo, non la chiamavo nemmeno “mamma”. Non credevo che le facesse così piacere. Che figlia ingrata che ero, mi meritavo una punizione.

Notai un momento di silenzio improvviso e, dato che non volevo passare per quella che nemmeno la stava ascoltando, lo occupai subito.

«Okay, okay. Vuoi che lo tolga? Mettimi in punizione, me la merito. Fai quello che ritieni opportuno, non mi opporrò. Scusa, Jenna. Davvero. Scusami».

Stette zitta per qualche secondo, sbollendo un po' per escogitare qualcosa, lo vedevo.

«La mia punizione...?», chiesi esitante dopo qualche minuto di occhiatacce e rimproveri visivi. La condanna arrivò con la stessa solennità con cui si annuncia un ergastolo.

«Tu stasera vieni a cena dai nuovi vicini. Non discuti di niente, non ti lamenti, fai la carina con tutti. E sottolineo tutti», fece minacciosa, così minacciosa e determinata che non mi passò per la testa nemmeno per un millesimo di secondo di obiettare. Annuii e mi scusai un altro paio di volte.

In camera mia, iniziai a rivalutare Jenna. Credevo non sapesse fare ramanzine, ma...

Boh, forse era solo il mio senso di colpa che mi aveva tritata e distrutta mentre lei parlava (strillava, strillava). E poi, quel piercing iniziava a dare fastidio, come se all'improvviso pesasse quintali e quintali.

Rassegnata, aprii l'armadio, la cabina armadio e tutto ciò che contenesse vestiti. Esasperata, iniziai a rimuginare su quella che sarebbe stata la serata-devasto-totale.

“Sarò contento della serata almeno quanto te”.

Avevo i miei dubbi, in proposito. La mia non poteva essere “contentezza”; era proprio frustrazione, consapevolezza di dover fare qualcosa che andava contro ogni mia cellula e principio.

Un piercing non valeva una serata del genere.

Ma il rispetto dovuto a una madre, soprattutto a una come Jenna, sì. Altroché se valeva una serata come quella. Anche due. O tre.

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Capitolo 6
*** Piacere di conoscerti ***


Attraversare quella strada mi costò uno sforzo sovrumano. Mi costò ancora di più fingere un sorriso quando “Frank” e Hitch aprirono la porta e ci accolsero.

Come temevo, eravamo le prime. E, peggio ancora, Jenna era fin troppo amichevole con quel “Frank”, e quel “Frank” ricambiava.

Due settimane al massimo, non oltre. Non sarebbe durata un solo secondo di più. Almeno avrei avuto una scusa ancora migliore per evitare quell'idiota.

Frank occupava tutta la soglia della porta, a braccia aperte, e con un sorriso smagliante. Era davvero un bell'uomo, brizzolato, alto e atletico. Soprattutto, era ben vestito, al contrario delle mie aspettative.

Hitch, invece, se ne stava alle sue spalle e in quel momento lo invidiai: lui non era costretto a fingersi felice, io invece sì. Da quella posizione potevo analizzarlo meglio, cosa che non avevo mai fatto prima (eccezion fatta per gli occhi verde strano e la faccia da killer con i lineamenti aspri e ostili).

Beh, non si vestiva male nemmeno lui. Aveva una canottiera aderente e bianca sotto una camicia azzurra, che teneva slacciata. I polsini erano arrotolati su per le braccia e i jeans (non smisurati – e la cosa mi stupì parecchio) cadevano abbastanza bene. Ovviamente, i capelli sconvolti e lo sguardo inquisitore rendevano ogni possibilità di analisi più profonda completamente nulla.

E, all'improvviso, fu lui a squadrarmi dalla testa ai piedi, con una tale sfacciataggine da mettermi a disagio. Sembrava che stesse analizzando i miei vestiti (camicetta bianca con gilet nero aderente sopra, jeans e Converse con relativi accessori neri e bianchi – se interessa a qualcuno), ma non solo. Cercava una mia reazione?

Beh, non gliela avrei data per vinta. Non mi avrebbe messa in soggezione.

«Avanti, avanti, entrate pure. Accomodatevi, fate come se foste a casa vostra», disse tutto amichevole Frank, che proprio per il suo modo di fare iniziò a darmi ancora di più sui nervi. Salutai, fingendomi lieta di quell'invito, e subito i due “adulti” lasciarono me e Hitch in disparte.

«Ti vedo più accondiscendente di quanto potessi pensare», iniziò a bassa voce lui.

«Pensare tu? Ho i miei dubbi».

«Quest'affermazione ti dimostra che tra noi due, la più incapace di pensare sei tu».

«Opinabile, del tutto opinabile», risposi senza guardarlo.

«Tu dici? E allora perché ti ostini a tirare su le mura quando ci sono io nei dintorni?».

«Punto numero uno: questa frase l'hai tirata fuori da una delle tue canzonette? Punto numero due: pecchi di protagonismo se credi che io mi comporti così solo con te», lo bacchettai, sempre a bassa voce.

«No, so bene che fai così anche con... Come si chiama? Ah, Jess, ecco. Anche con lui sei così scorbutica e insopportabile, oppure lui non sa che sei così perché scappi da lui?».

Mi girai a guardarlo, smontando il sorriso che avevo stampato in faccia. Jenna mi fulminò, così mi contenni.

«Hey, Eminem dei poveri, non improvvisarti psicanalista, chiaro? Non con me». Mi fissò freddo e inespressivo e non rispose.

«Adam, perché non fai fare un giro alla nostra prima ospite? Avanti», lo incoraggiò Frank. Trovavo sempre più scuse per odiarlo in modo sempre più smodato e irrazionale. Almeno, stando lontana da Jenna, avrei potuto togliermi la maschera della felicità.

«Non credo le vada. Giusto?», finì rivolto a me. Restai spiazzata.

«A me... Non cambia niente. È uguale, non c'è problema». Frank incitò di nuovo il nipote con frasi che dovevano nascondere qualche ricatto in codice, sotto sotto. Così, alla fine seguii Hitch in giardino, dove campeggiava una piscina che faceva impallidire tutte le restanti di Beverly Hills.

Evitai i commenti ad alta voce.

«Allora, posso sapere cosa ti ho fatto? Una ragazza intelligente come te avrà di sicuro una buona ragione per odiarmi». Il tono sarcastico era chiarissimo e sovrastava qualsiasi altra possibile interpretazione di quella frase.

«Hey, adesso posso smettere di fingere di essere lieta di questa serata, perciò sta' zitto».

Gli scappò un risolino sommesso.

«Anche tu sei una gran bella ipocrita. Dici che non te ne frega niente di questo o quello, ma poi ti trovi proprio nei posti che disprezzi. Ma, sai... chi disprezza, compra».

«Ipocrita io? Guarda che sono qui solo perché è... il risultato di una mossa sbagliata», risposi infastidita.

«Quale mossa?», mi stuzzicò.

«Okay, è una punizione. Jenna è stata scaltra e fortunata abbastanza da scoprire una mia mossa sbagliata nel momento più azzeccato possibile». Mi guardò di sottecchi.

«Jenna sarebbe tua madre?», chiese con un filo di incredulità. Lo guardai senza rispondere. «Beh, è... curioso che tu la chiami per nome», si limitò a dire infine.

Chissà per quanto sarebbe andata avanti quella storia della finta conversazione.

«Senti, dimmi un po' chi hai invitato».

«Io nessuno. Mio zio ha invitato voi due, i genitori dei due ragazzi, i gemelli, quelli che vivono qui di fianco...».

«So benissimo chi sono. E, per la cronaca, si chiamano Jamie e Travis».

«Sì, beh. Loro. Poi dovrebbero venire anche quelli che vivono di là», disse indicando la casa di Chris (e ringraziai il cielo: i gemelli e Chris, serata salvata). «E poi... quella che abita vicino a te».

Serata distrutta. Per sempre.

«Cosa?! Verrà anche Dana?! Io ti odio sul serio!», dissi esasperata e pessimista.

«Senti, a me faceva piacere passare una serata per conto mio, soprattutto adesso che devo anche...». Si bloccò. La curiosità mi stuzzicava, ma mi trattenni dal domandare cose che non mi riguardavano.

«Okay, allora posso dirti che non appena arriveranno Jamie, Travis e Chris, io non esisterò più. Potresti passare la tua serata in disparte, se solo non fosse per Dana. Ma suppongo saranno cacchi tuoi, non miei», dissi soddisfatta del fatto che Dana avrebbe lasciato in pace me per tormentare Hitch.

«Sai, posso anche starmene per conto mio mentre la gente mi parla. Basta non ascoltare».

«Se mi ascolti o meno, non me ne frega granché», risposi come se mi avesse appena offesa, come se la frecciatina fosse rivolta a me.

«Facciamo così: se ti do la prova che ti ho ascoltata mentre parlavi, farai lo stesso con me? Mi ascolterai per cinque minuti?», chiese in tono di sfida.

«No. Non metto in dubbio il fatto che tu mi abbia ascoltata o meno. Semplicemente ti dico esplicitamente che non me ne frega delle vite altrui, soprattutto di quelli un po' altezzosi come te. Perché, in fondo, sei uno del tipo “so-tutto-io”, caro il mio rapper». Lo guardai fissa. «E non mi interessa un bel niente. Gente come te va e viene, fa più danni dell'umanamente possibile».

Non abbassò lo sguardo nemmeno per un istante, poi strinse gli occhi e parlò velocissimo.

«Adesso ti dico cosa ho capito di te.

Prima di tutto, tu e il mondo maschile vi odiate, fatta eccezione per i due gemelli. Probabilmente, uno dei due è il tuo migliore amico, l'altro è un buon amico che non vorresti perdere. Dal tono con cui hai scandito i loro nomi, direi che Jamie è quello a cui sei più attaccata emotivamente.

Poi c'è Lara, la tua migliore amica, e credo che la vostra sia una gran bella amicizia, ecco perché sei finita in punizione: forse volevi difenderla o coprirla, o forse hai fatto qualcosa che coinvolgeva anche lei e, beh, la tua punizione è qui, pronta per essere scontata.

Per non parlare di quel Jess... Ti fa davvero paura il modo in cui ti guarda, per questo ti sei allontanata da lui – e, come vedi, questo conferma il fatto che tu non vai d'accordo con i maschietti.

E questo mi porta ad un'altra cosa: chiami tua madre per nome, come se non volessi riconoscere di avere un genitore. Ora, tua madre l'ho vista, e ho capito che gli uomini li odi. L'unica domanda che ho da farti adesso non è perché tu odi me, piuttosto vorrei chiederti dov'è tuo padre, ma non te lo chiederò perché credo che avresti un crollo o inizieresti a gridarmi addosso». Strinsi i denti. «Okay, ti ho elencato i tuoi migliori amici, il rapporto che hai con i maschietti e tuo padre. Su tre, quante ne ho azzeccate?». Non ero sicura che la voce mi sarebbe uscita correttamente, comunque provai a rispondere lo stesso.

«Quattro. Hai fatto bene a non chiedermi niente», dissi sempre a denti stretti. «Se adesso, piccolo Freud, hai finito con il tuo show, io andrei di là a vedere se qualcuno arriva».

«Arriveranno qui da soli. Lo so che con me non vuoi averci niente a che fare, ma abbi pazienza. È solo una serata».

«Se stai zitto mi aiuti parecchio», brontolai acida.

«Non mi ascolterai, vero?». Sembrava rassegnato più che curioso.

«Non avrebbe il minimo senso. Se saltasse fuori che sei uno sballato anche tu, non vorrei avere niente da spartire con te».

Rise cinico, ma tornò subito serio. Fissava il cielo, assorto in chissà quali pensieri. Poi mi venne in mente – non chiedetemi perché o come – che, di solito, i rapper non hanno vite così felici. Prendete Eminem. Parecchio disastrato.

In quel momento, Hitch mi sembrò quasi umano e vulnerabile, non il solito rapper assassino. E mi sentii davvero io l'imbecille. Aveva ragione anche su quello.

«Avanti, illuminami. Ti ascolto», mi arresi alla fine. Si voltò a guardarmi, scettico. «Avanti», lo incitai con voce più stridula.

«Posso chiamarti per nome?», chiese facendomi sentire ancora più stupida.

«Certo, certo», acconsentii rapidamente per placare il senso di vergogna che mi aveva fatto diventare piccola piccola.

«Sai, sono di Detroit», cominciò, «dei quartieri bassi. Hai presente Eminem?».

«Sì. È di Detroit anche lui, se non sbaglio», dissi – per la prima volta senza acidità nella voce.

«E ha una figlia che si chiama praticamente come te. Comunque, suppongo non te ne freghi niente. Il fatto è che io sono abituato a gente come te, diffidente e chiusa. Sono anche abituato al genere di persone completamente opposto, sai... La fama, i soldi. E tutto diventa amichevole e finto.

Prima di incidere ero uno scapestrato. Lo so come devo comportarmi con gente come te, giuro che lo so. Eppure tu sei incredibilmente cocciuta e – permettimelo – stupida. Come si fa a essere così ottusi e intolleranti verso qualcuno che nemmeno conosci? Sapere un paio di strofe delle mie canzoni, ammesso che tu le abbia mai sentite, non significa affatto potersi arrogare il diritto di giudicare così, su due piedi. Sono convinto che tu abbia le tue ragioni nel subconscio, e non le sai nemmeno tu, però... Fammi un favore: o mi ignori del tutto, o fingi tolleranza. Un minimo di tolleranza, giusto per rientrare nella buona educazione. Smettila di fare la vittima buona e spazientita, lo so che hai i tuoi problemi, ma... Accidenti, risolvili».

Restai senza parole. Che lezione, ragazzi. Ero davvero una cazzona, permettetemelo. Credevo di essere più intelligente. E, invece, adesso, ecco arrivare questo rapper che mi aveva appena spiattellato tutta la verità più ovvia in faccia, e lo aveva fatto con una tale classe che...

Sicuri che fosse un rapper?

Era davvero sottovalutato. Io, almeno, nemmeno volevo sentire il suo nome. E questo perché?

Non c'era una vera ragione, una plausibile intendo.

Iniziai a guardarlo compiaciuta e pensierosa, sempre un po' umiliata.

«Adam, giusto? Non “Hitch”, ma Adam».

«Adam Morrissey», disse più rilassato. Allungai la mano verso di lui, in attesa che la stringesse.

«Hayley Smithson. Piacere di conoscerti».

«Piacere mio, Hayley», rispose con voce più bassa, serio, fissandomi negli occhi.

 

Quando alla porta suonarono di nuovo, andammo ad aprire insieme. Frank e Jenna stavano conversando tranquilli dietro di noi e non sembravano credere ai loro occhi: ancora non ci eravamo scannati vivi.

Buttai le braccia al collo di Chris non appena lo riconobbi. Era il mio salvagente per quella serata. Insomma, Hitch – Adam, Adam – aveva guadagnato punti e non lo odiavo più con tutta me stessa, ma, capitemi, non c'era la confidenza che potevo avere con i miei amici, quelli che avevo da tempo. Perciò, sapendo che la prossima ospite sarebbe stata la figlia di Plastic-woman, fui incredibilmente sollevata e felice di vedere almeno lui, anche perché era da un pezzo che non lo incontravo. Alla festa di Eva, quella maledetta festicciola, lui non c'era.

«Chris!», lo salutai con troppa forza.

«Oh, che accoglienza!», rispose imbarazzato lui. Di solito non era così che lo salutavo.

Scambiai due parole anche con i genitori di Chris e lasciai che Adam si presentasse insieme a suo zio ai nuovi ospiti. La situazione era diventata più sopportabile.

«Grazie a Dio, Chris, ci sei anche tu. Dana non me la voglio sorbire da sola. Jamie e Travis? Stanno arrivando?», chiesi impaziente come una bimba. La faccia di Chris non mi piacque affatto: faceva smorfie, come per dire “mi dispiace, ma...”. Sembrava non trovare le giuste parole. Aveva quel “ma” stampato in fronte a caratteri cubitali.

«I tuoi cugini non verranno», disse Adam, pacifico. Guardai Chris, sperando che l'intuizione di Adam fosse sbagliata. Oh, no. No...

«Già. Jamie e Travis avevano un impegno e...», fece timoroso della mia reazione.

«Cosa?», dissi delusa, «Ma perché?». E sbuffai. Era una gran brutta notizia, che – stando alla faccia di Chris – era solo la punta dell'iceberg.

«Già. Beh. Hayley, non arrabbiarti. Ma tra qualche minuto li raggiungo anch'io. Sono solo venuto a conoscere Adam», e gli buttò un'occhiata amichevole, «e a farti un salutino. Non prendertela».

Prendermela? Prendermela? Accidenti, dovevano avere delle ragioni molto, ma molto più che valide per bidonarmi così. Tutti e tre.

Sbuffai dal naso e misi le mani sui fianchi.

«Ancora non mi hai detto perché mi bidonate – e stai attento alla risposta, pensaci bene».

«Allora passo», rispose spaventato.

«Non puoi passare», lo rimbeccai acida. Adam fingeva di guardare altrove, disinteressato.

«Hayley, so per certo che mi decapiteresti piuttosto che lasciarmi raggiungere Lara, Jamie e Travis a casa di Jess».

Mi si strinse il petto dalla rabbia che provai in quell'istante. Rabbia, ma anche vergogna. Mi sentivo anche un po' esclusa, come se mi avessero mancato di rispetto tutti quanti, pure Lara. Avevano fatto tutto alle mie spalle, di sicuro, perché Jess aveva detto solo la sua versione. Li aveva invitati a casa tutti? Tutti tranne me! Okay, aveva le sue ragioni, ma... Si era preso tutti quanti, lasciandomi in disparte e sapendo che sarei venuta a saperlo. Cosa voleva dimostrarmi, quello stronzo? Non credevo che un ragazzo come lui potesse essere così meschino. E poi perché? Solo perché mi aveva dato un mezzo bacio. Okay, non era proprio un mezzo bacio, piuttosto uno e mezzo. O due. Anche tre, volendo, ma non era quello il punto. Aveva fatto sempre il ragazzo onesto e superiore a questo genere di cose, e adesso? Era diventato un mostriciattolo californiano acido e stronzo. Mi aveva davvero esclusa da tutto. E i miei amici! Avevano subito scelto lui al posto mio, ammesso che ci fosse stato da fare una scelta. Che cosa stupida e... fastidiosa. Mi dava fastidio, così fastidio che desiderai che Chris non avesse mai varcato quella soglia per dirmi una cosa simile. A quel punto, aspettavo Dana con ansia.

La rabbia sbollì e diventò rassegnazione, amara e crudele rassegnazione.

«Hayley, vedi, io non trovo giusto che...», iniziò a giustificarsi Chris.

«Sta' zitto. Zitto e sparisci, non voglio sentire una sola parola di più».

«Hayley, io...».

«Chris, dannazione, apri quella fottuta porta e salutami tutti di cuore. Tutti», sibilai tra i denti.

«Hayley, vieni anche tu», mi propose timoroso.

«Amico, fuori di qui, avanti. Un colpo basso non si risolve così, perciò fingi di non essere mai entrato in questa casa e vai dai tuoi amichetti. Salutali anche da parte mia», disse Adam, sempre intento a scrutare gli altri invitati. Il suo tentativo di difendermi mi fece sentire ancora di più una nullità.

«Per favore, non è stata una mia idea», provò a dire in sua difesa Chris.

«Nessuno ti accusa, idiota. Adesso vattene e divertiti», risposi senza ammettere repliche.

Così, dopo essersi scusato con Frank e aver avvisato i suoi genitori della sua uscita, tolse il disturbo con una faccia da cane bastonato tatuata addosso.

Il silenzio che calò successivamente sembrava pesare tonnellate.

«Andiamo di là, okay?», mi consigliò Adam senza guardarmi e indicandomi la strada con espressione di nuovo ostile. A testa bassa, lo seguii.

Arrivammo in una stanza molto simile a un luogo di svago, con flipper, biliardo e divani in pelle ovunque. Ovviamente, c'era un super impianto stereo e tutte le super tecnologie che potete immaginare. Schermi piatti da un milione di pollici, acquari a parete, computer e...

Dio, quante chitarre. Sgranai gli occhi. Addirittura un piano forte. Quell'angolo doveva essere la zona musica... E ne restai affascinata. Quell'angolo lì, in disparte, vinceva anche sul perfetto reparto bar che avevo appena scorto.

Era il paradiso, quella stanza.

«Accidenti, non ti fai mancare niente». La voce mi uscì più mesta del previsto. Doveva sembrare sarcastica, non doveva indurre la gente a provare pietà per me.

«Sì. A volte serve un posto del genere», ammise ironico.

Mi avvicinai alle chitarre e al pianoforte e ne sfiorai i profili, voltandomi verso di lui.

«Sapevo che tra tutte le cose che ci sono qui avresti notato prima quelle», fece compiaciuto.

«Componi?», chiesi affascinata, quasi senza sentirlo.

«Quando mi lasciano il tempo per farlo, sì». Restai di stucco.

«Vuoi dire che sai suonare chitarra e piano?».

«Non è illegale, sai? La gente può ancora farlo, se vuole».

«Sì, beh, intendevo dire che è “curioso” che tu sappia anche suonare. Credevo facessi solo rap, e...».

«Credevi che le canzoni me le scrivessero altri, no?».

Mi strinsi nelle spalle. «Non proprio. Cioè, la cosa strana per me è che un rapper, oltre a rappare, sappia anche comporre. Mi sembra... insolito, tutto qua».

«Guarda che avere chitarre in casa non significa essere necessariamente bravi a comporre», mi disse con una punta di rimprovero. Chissà perché, sembrava che sapesse il fatto suo. Annuii e mi sedetti al pianoforte. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che avevo suonato, ma la tentazione era davvero troppo forte.

Il mio primo istinto fu quello di suonare alcune note iniziali di una canzone dei Linkin Park, una delle prime che avevo imparato da Bryan.

«“In The End”. Non credevo ti piacesse quel genere di musica», si limitò a constatare Adam. Mi stupii del fatto che l'avesse riconosciuta così rapidamente, ma non così tanto, a dirla tutta.

«Già. Ti dirò che, comunque, il rap non mi piace».

«Non mi dire», fece ironico. Sorrisi per il suo tono. «E che genere di musica ascolti?». Mi sembrò sinceramente interessato alla risposta.

«Se ti dico Paramore, che mi rispondi?>», feci scettica.

«Direi “Misery Business” oppure “Crushcrushcrush”... Si chiamano così, no?». Beh, non se l'era cavata così male. Aveva detto due canzoni, non le migliori, secondo me, ma ne aveva sapute almeno due.

Sorrisi.

«Non mi devi dimostrare che li conosci», dissi.

«Sembrava che volessi fare il contrario. Comunque, che altro ascolti?», mi chiese improvvisamente concentrato.

«Beh. Linkin Park, a volte... Raramente. Mi mettono di cattivo umore».

«Perché hanno ragione», concluse lui. Lo guardai di sfuggita, poi lo squadrai.

«La smetti? Non ti dico più niente se continui a fare lo psicanalista».

«La smetto, d'accordo. Che altro?». Mi stava assecondando? Accidenti a lui.

«Principalmente Paramore. O Strokes, a volte. Anche U2, in certi momenti. E poi cose un po' sparse, classici un po' di qua, un po' di là», spiegai vaga.

«Intendi dire che non sei appassionata di quei colossi del passato, ma non sei ignorante, giusto? Sai di cosa parli quando paragoni questo a quello». Lo guardai, restando a bocca aperta.

«Okay. Non ci parlo più, con te», sbottai dopo un po'.

«Suoni la chitarra?», mi chiese ignorandomi. Mi chiusi la bocca con un giro di chiave immaginaria e mi strinsi nelle spalle.

«Non è colpa mia se deduco bene le cose quando ascolto la gente», ammise compiaciuto.

«Almeno fingi di non capirle, così non metti in soggezione i comuni mortali, okay?».

Mi guardò, un po' preso in contropiede.

«Addirittura “soggezione”? È per questo che mi odi?». Feci una smorfia.

«Addirittura “odio”? È per questo che ti impegni a voler capire cosa penso?». Inclinò la testa di lato, come per esaminarmi meglio, poi fece un passo indietro, sospirando.

«Sei un libro aperto, non sono io che metto in soggezione», concluse quasi rivolto a se stesso. Mi sentii improvvisamente vulnerabile, come se quel ragazzo potesse davvero sapere con una semplice occhiata chi fossi io in realtà. Probabilmente, capì dalla mia espressione tutto il disagio che mi aveva scatenato.

«Tranquilla. Chiudo il libro non appena me lo chiedi».

«Allora chiudi. Adesso», ordinai implorante. Alzò gli occhi al cielo e mi chiese se volessi qualcosa dal mini bar. Accettai e decisi di indagare anch'io.

«E tu? Sei di Detroit, vivi con tuo zio, e... ?», feci stentando disinvoltura.

«Non sei proprio capace a ragionare come faccio io», disse ridendo di nascosto. «Adesso ti insegno, ti sarà utile». Mise un bicchiere davanti a me e mi si sedette di fronte, al posto del barista immaginario. Mi misi comoda sullo sgabello, in attesa di quella lezione. Ero curiosa.

«Illuminami», dissi.

«Certo. Allora, se ti dico Detroit, a cosa pensi?».

«Aretha Franklin e White Stripes».

«Anche Eminem, se è per questo. Dimmi cos'altro ti viene in mente, così non ci siamo».

«Il Michigan? Il fiume Detroit?», feci stentando.

Storse il naso.

«Madonna? Andiamo, lei è originaria di Detroit».

«Okay. A parte che è originaria dell'Italia, ma è nata a Detroit. Non c'entra niente. Fai un passo indietro. Detroit è una grande città, no?». Annuii, decisa e sicura. «E, come tutte le città più o meno grandi, ha zone più sicure e altre... più travagliate». Colsi il messaggio.

«Tu sei di una di quelle zone travagliate», dissi di getto. Poi compresi che Detroit avrebbe dovuto rimandarmi subito all'aggettivo “malfamato”, o – perlomeno – “poco sicuro”. Certo, in ogni città ci sono zone più pericolose di altre, ma...

E così, era di Detroit. Detroit.

«Esattamente. Perciò, cosa ti porta a pensare questo fatto?».

«Che... Non hai avuto sempre la pappa pronta», supposi.

«Vedo che ragioni. Okay. Passiamo al fatto che vivo con mio zio?», chiese come per chiedermi il permesso.

Ci pensai un attimo. Viveva con lo zio. E i genitori? Vagliai le possibilità.

Uno: i suoi genitori erano morti per una disgrazia quando era piccolo.

Due: l'avevano abbandonato.

Tre: era stato adottato. Ma perché chiamarlo “zio” e non “papà”, allora?

Quattro: il fatto era più complesso. Uno dei genitori era stato stronzo e forse l'altro era morto.

Cinque: entrambi i genitori erano stati stronzi.

Quando compresi che quel discorso mi era fin troppo familiare e che avrebbe potuto condurre di nuovo a me, riflettei sulla sua ultima richiesta, quasi un permesso chiesto a me, come se avesse saputo che avrei avuto qualche difficoltà a parlare di quel genere di cose.

«Sai una cosa? Non sono affari miei», dissi vaga, ma visibilmente a disagio. Sorrise cinico.

«Neanche i tuoi sono i miei. Ho chiuso il tuo libro, me l'hai chiesto». Mi strinsi nelle spalle, un po' spaventata da quell'individuo onnisciente e lasciai il tutto in sospeso.

In quel preciso istante, sulla soglia spuntarono due sagome esili e urlatrici (come le scimmie). Chiusi gli occhi e inspirai a fondo.

«Oh. Mio. Dio. Non pensavo ci fossi anche tu, Hayley!», strillò Bree, con le risatine di Dana come sottofondo fastidioso. Erano così sceniche e false da sembrare aliene.

Ovviamente erano tutte in tiro, scoprendo il più possibile le loro pelli abbronzate e truccate fino all'indicibile. Non sapevano usare il trucco in modo giusto e lo potevo dire perché io, almeno, ne capivo qualcosa. Minigonne o shorts super attillati facevano sempre uno strano effetto su di loro.

Le guardai senza sorridere.

«Dana. Bree. Che gioia», feci inespressiva.

«Abbiamo interrotto qualcosa?», fece invidiosa e maliziosa Dana, tanto che non le risposi. Adam andò a presentarsi, accompagnato dalle solite risate isteriche e sommesse di chi interpreta anche un solo saluto meramente frutto delle regole dell'educazione come una dichiarazione a cuore aperto.

Scollegai il cervello. E, involontariamente, i miei pensieri si spostarono verso un altro punto.

Jess.

Fino a che avevo parlato con l'angoscia in persona, avevo tenuto il cervello occupato. Ora che lo psicanalista fingeva di essere educato con le due svampite di turno (che, grazie a Dio, non mi calcolavano), era inevitabile ripensare al fatto che Jess mi avesse accuratamente tenuta da parte.

E faceva male essere esclusi così.

Non aveva capito niente, non mi aveva nemmeno dato la possibilità di...

Cosa? Spiegare? E cosa gli avrei detto?

“Guarda che sono sparita non per colpa tua, ma perché ripensavo a quando mio padre era tornato a distruggere la vita di Jenna mettendo al mondo me per poi abbandonarci di nuovo”.

Che pietà. Che vergogna. Mai e poi mai.

Con il tempo ci sarei passata sopra, avrei dimenticato tutto e sarei andata avanti come al solito. Ci riuscivo sempre, in fondo.

«E dove sono i tuoi amici?», mi chiese Dana con tempismo perfetto. Trasalii e scrollai le spalle. Adam mi guardò serio dalle loro spalle. E, potrei giurarci, scosse impercettibilmente la testa, come per rimproverarmi il fatto di non aver detto loro la vera ragione dell'assenza dei miei amici.

 

Mi trascinai per tutta la serata con un sorriso che mi stancava. Correre per venti ore filate sarebbe stato più facile. Ormai era quasi mezzanotte e Dana e Bree – finalmente – dovettero scappare alla festa di non so quale altra malcapitata ragazza. Ovviamente, fecero il possibile per trascinarsi anche Adam, ma non me. Era bello vedere che le loro attenzioni (o, al contrario, proprio la mancanza di queste da parte loro) non mi scalfivano affatto. Era il minimo.

Adam rifiutò più e più volte, sempre distaccato e, quasi sicuramente, esaurito per la loro insistenza.

La cosa buffa era vedere come loro stesse si facessero guerra per accaparrarsi il premio, non so se mi spiego. Avevo assistito allo spettacolo osceno con una certa pena per loro, ma anche divertita della loro completa e totale stupidità.

Quando alla fine se ne andarono, tutti gli “adulti” (soprattutto Jenna) ci incitarono ad uscire per i fatti nostri, andare a fare un giro di conoscenze o altro.

Inutile dirvi quanto fosse imbarazzante.

Inutile dirvi che Adam acconsentì subito. Subito.

A testa bassa, uscii anch'io da quella casa, lieta che almeno adesso non avrei dovuto sorridere per forza. Il fatto di avere la testa altrove mi portò a camminare seguendo Adam come riflesso incondizionato. Mi fermai quando mi trovai di fronte la sua macchina da un trilione di dollari.

«E con ciò?», feci scettica.

«E con ciò, sali in macchina e andiamo a fare un giro». Risposi con una smorfia. «Non mi dire che l'ultimo sabato estivo lo vuoi passare a casa tua. Che tristezza», mi provocò. Accentuai la faccia schifata.

«Dove abita quel Jess? Ti ci porto», annunciò salendo in macchina e abbassando il finestrino del passeggero, allungato verso di me. «Salta su».

«Illuso», dissi incamminandomi verso casa mia. Saltò giù dalla macchina e mi venne dietro.

«Hai paura».

«Ah-ah», lo assecondai.

«Mi odi di nuovo». Non era una domanda.

«Ah-ah».

«Seguimi o chiedo a tua madre di parlarmi di tuo padre». Sentii un rumore metallico nel cervello, lo stesso che fanno le lame affilatissime quando passano accanto alle orecchie a velocità sovrumana.

Frenai di botto e mi girai brusca, lanciando una mano in aria di proposito e colpendolo in faccia, come speravo.

Non fece una piega.

«Lo faccio davvero», mi promise minaccioso. Il rumore metallico si trasformò in uno schianto: le lame si erano conficcate per benino, visto che sapevo che lo avrebbe fatto davvero. Davvero.

«Aspettavo solo una dimostrazione della tua essenza di puro ed emerito stronzo, non ti preoccupare. Mi dai solo l'input che mi manca per arrivare all'odio vero», sibilai.

«E cosa risolveresti? Sentiamo», mi rispose più ostile di quanto mi aspettassi. Il suo sguardo fisso mi innervosiva perché mi rendeva del tutto impotente. La tensione era così palpabile da essere quasi visibile. Strinsi i denti.

«Posso chiederti perché diamine hai preso di mira me?», chiesi esasperata e per nulla spaventosa.

«Dovevi pensarci quando hai deciso – a prescindere – che non avresti mai voluto neppure conoscermi. Sai, sono uno che prende le cose a cuore. E faccio le cose sul serio. Cerco di capire dove sta il problema, soprattutto. Cosa che tu non fai. Perciò, sali su quella macchina e risolvi il tuo problema minore, che è quel ragazzo della cui intelligenza inizio seriamente a dubitare. Ma, a dirla tutta, dubito anche della tua».

Deglutii e lo fissai, senza parole.

«Per. Favore. No», dissi scandendo bene ogni lettera. «Assolutamente non stasera».

Probabilmente, il mio tono lo impietosì, perché mi lasciò perdere. Almeno, così credevo.

«Sali in macchina».

«Adam!».

«Non ho detto che andiamo da lui, non so nemmeno dove abita. Sali e basta». Dio solo sapeva quanto mi fosse sembrato minaccioso e vissuto quel ragazzo in quel preciso istante. All'improvviso, me lo immaginai in un vicolo buio che tentava di calmare le acque in una rissa, o addirittura che scatenava la stessa rissa. Che litigava e si scontrava con tutti. Ma forse erano solo effetti che la mia mente produceva nel vederlo così sicuro di sé e freddo.

E così, salii in macchina. Certo, un po' titubante e infastidita, ma ci salii.

Si accese una sigaretta e mise in moto. Sembrava che proprio tutti, lì, fumassero.

«La funzione di questa cosa?», chiesi fissando le case fuori dal finestrino. Aveva capito che non mi riferivo al fumo.

«Smettila di credere che tutti abbiano secondi fini o obiettivi. A volte le cose si fanno così, per il semplice gusto di farle». Semplice gusto di farle? Oddio.

«Allora mi dici dove andiamo?».

«Giriamo a vuoto fino a che non capisci che non è in questa macchina che dovresti essere», mi disse lanciandomi un'occhiataccia.

«E nemmeno a casa di Jess. So benissimo che non dovrei essere da lui».

«Spiegami come è andata», fece fissando la strada di fronte.

«Non è andata. Punto. Lui mi ha...». Guardai di sfuggita Adam e subito ebbi l'impulso di vuotare il sacco. «Okay, lui mi ha baciata, mi ha fatto capire che gli piacevo, poi mi ha detto che stava a me decidere. Poi è seguito un periodo in cui...». Sbirciai di nuovo verso di lui, e di nuovo presi lo slancio necessario a parlare. «Sì, è seguito un periodo di un paio di giorni in cui sono sparita, ma il fatto è che lui crede che io l'abbia fatto per evitarlo. Così lui ha fatto lo scemo, io ho fatto la scema e adesso... Lui è di là, io di qua».

«Stando così le cose, tu sei la più idiota dei due. Conosci i fatti, hai capito cosa crede lui, eppure non fai niente per rimediare. Sei sveglia, ma incredibilmente pigra e sorda».

Mi sforzai di non gridargli dietro, se non altro per non dargli la soddisfazione di dire “avevo ragione io, allora”.

«E con ciò?».

Frenò e accostò. Si voltò verso di me e mi fissò a lungo. Poi si avvicinò e io d'istinto feci uno scatto all'indietro.

«Vedi? Lo so che ti metto a disagio, ma tu sei davvero troppo passiva. Scappi in continuo». Tornò al suo posto, senza far trasparire niente. «Hayley, smettila. Sei ridicola», concluse mettendo in moto.

Prima che me ne accorgessi, mi aveva riportata a casa.

Mi sembrò di intravedere un piccolo lampo di luce vicino a casa mia, ma sapevo che nessuno era in casa. Dovevo essermi sbagliata.

Salutai a bassa voce e aprii la portiera.

Mi avvicinai alla porta, riflettendo su una cosa: mi aveva riaccompagnata a casa.

Ed era già la seconda volta che succedeva.

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Capitolo 7
*** Nuvole ***


Non mi reputavo stupida. Tanto meno indegna della compagnia dei miei amici.

Sembrava però che tutti volessero dimostrarmi il contrario, ultimamente.

Sbuffai, con la testa rivolta verso il cuscino, a pancia in giù.

Jenna bussò per l'ennesima volta.

«Sto dormendo, accidenti. È l'ultimo giorno di libertà, lasciami vivere!», gridai a pieni polmoni, ma la mia voce sembrò inudibile a causa delle piume che impedivano tutta la sonorità che, in effetti, avevo messo in quella frase.

Cielo: ultimo giorno.

In preda a una crisi isterica, iniziai a sbattere le braccia sul materasso, senza smuovermi.

«Merda, merda, no! No! No!».

«Tesoro?». Ecco, Jenna era entrata.

«Sto dormendo», ruggii.

«Al piano di sotto c'è qualcuno per te. Hai visite, qualcuno ti cerca», ripeté con più enfasi.

«E io sto ancora dormendo. Coma profondo. Inventati una sbornia».

«Avanti», mi implorò. «Sono stati così carini a farti visita. Sembra abbiano qualcosa da dirti. Forse delle scuse». Dal plurale capii che si trattava dei gemelli.

«Coma profondo», ribadii. Chissà, se magari fosse stato qualcun altro a cercarmi, forse sarei uscita dal coma.

Ma no.

La legge è uguale per tutti. Tutti.

«Sicura? Non è carino». Per tutta risposta, finsi di russare finché non sentii la porta richiudersi. Lasciai passare qualche secondo e poi cambiai posizione, sdraiata su un lato e fissando il sole che entrava di forza attraverso le tende, con le spalle alla porta. Strinsi gli occhi, la troppa luce mi faceva male agli occhi.

Non mi smossi neppure quando la porta si riaprì.

«Avanti, Jenna, pietà!», sbuffai.

«Siamo noi a chiederti pietà, Hayley», rispose la voce di Lara. Strinsi un cuscino tra le dita e in meno di mezzo secondo scattai in piedi sul letto, lanciandoglielo contro come un'arma letale.

«Traditrice!», gridai anche.

E poi feci i conti.

Uno, due, tre e quattro.

Quattro traditori, non una sola.

Presi altri oggetti che potessero essere lanciati facilmente e partii all'attacco.

«Traditori tutti quanti! Escludetemi anche questa volta, così adesso me ne sto in pace!».

«Ve l'avevo detto che era furiosa...», fece Chris. Sbuffai isterica e gli puntai un dito contro.

«Tu... Tu! Dimmi, almeno hai portato i miei più cari saluti a Giuda?!».

«Hayley, fungiamo da pacieri in tutta questa situazione assurda. C'è un gran bel quiproquò, sai? E noi siamo il mezzo della pace», disse Jamie. Saltai giù dal letto e mi misi una felpa. Dovevo essere impresentabile, con tutta quella massa di capelli rossi spettinati.

«Per favore», sibilai acidissima.

«Hayley, Jess non sa più che fare, con te», mi informò Travis.

«Potrebbe iniziare col maturare», risposi a denti stretti.

«Hayley, dai! Lo sai com'è fatto, adesso crede che sia colpa sua. Gli ho detto che non è così, ma non si accontenta di una spiegazione campata per aria. Io non dico niente, capisci?», disse Lara facendomi l'occhiolino. Annuii. Certo che capivo: lei non avrebbe detto la storia di mio padre a nessuno, per nessun motivo al mondo. Non l'aveva detta a Jess.

«Beate voi che vi capite».

«Boh, sarà una cosa in codice femminesco, non so». Jamie si grattò la fronte.

«Lara...», iniziai, «non ne voglio sapere oggi. Davvero».

«Okay, niente Jess. Allora dicci: ce l'hai con noi?», chiese Chris. Lo squadrai. E mi arresi all'evidenza.

«No, certo che no. Ma mi avete mentito. Omettere dei fatti equivale a mentire. Potevate dirmelo apertamente, non c'era bisogno di farmi fare la figura della poveraccia con Adam».

«Adam sarebbe il rapper di fianco a noi?», chiese Travis al fratello gemello, che annuì, concentrato su di me.

«Jess ci ha chiamato ieri pomeriggio per dirci del programma serale, sembrava giù. Vuoi sapere cosa crede, Hayley?», mi chiese serio Jamie.

«No che non lo voglio sapere», dissi come una mocciosa.

«Hayley...», mi rimproverò Lara. Chris e Travis si sedettero, in disparte e in religioso silenzio.

«Crede che tu l'abbia solo “ricambiato” per non farlo restare male. E crede che tu e quel tizio, il rapper, stiate uscendo. Insieme». Sottolineò apposta l'ultima parola. Scossi la testa e guardai altrove.

Che idea ridicola. Stupida.

«Questo la dice lunga sulla capacità intellettiva di Jess», risposi acida. «Se davvero crede una cosa del genere, non solo dimostra di essere superficiale e stupido, ma anche che non mi conosce. Per niente».

«Fammi un favore: vacci a parlare, Gesù mio», mi pregò Travis. «È diventato più irascibile e imprevedibile di prima». Feci spallucce.

«Perciò?», fece Lara, impaziente.

«Perciò niente. Oggi non ci vado, da Jess. Forse, domani, a scuola. Si vedrà. E per quanto riguarda voi quattro... Siete stati degli infami».

«Come minimo. Scusaci, Hayley. Siamo davvero dispiaciuti. E sinceri», disse Jamie a nome di tutti. Ottima scelta quella di far parlare lui: era l'unico che riusciva a trasudare sincerità da tutti i pori. Era impossibile rifiutare le sue scuse. Così, feci un movimento spastico con il collo, una cosa che doveva significare “okay, scuse accettate”. E mi capirono.

Dopo i soliti abbracci di riconciliazione (per un litigio piuttosto virtuale, direi), sembrò che non fosse successo niente. Solo Lara persisteva nel guardarmi di traverso.

E, quando restammo sole, scoprii che i miei sospetti erano fondati. Restammo in camera mia e io – reduce della serata precedente – presi a suonare il piano per occupare quel silenzio innaturale.

«È inutile che fai la finta tonta. Com'è che adesso lo chiami Adam?», fece accusatoria. Non le era sfuggito niente, piccola spia del tutto opprimente.

«Sai, la mia serata è stata frutto della punizione del piercing. Jenna l'ha visto e mi ha costretta a passare la serata come diceva lei. E poi, sono rimasta nella tana del lupo, qualcosa dovevo pur fare. Abbiamo parlato. Non è uno scarto della società di così grandi dimensioni. Ne ho visti di peggiori. Adam non è malissimo», dissi attenta a non incappare nel suo sguardo.

«Ti ho già detto di fare una scelta subito, vero?».

«Sì», risposi apatica con le dita che scivolavano sul piano.

«Bene. Perciò non è una conseguenza del mio consiglio il fatto che non vuoi vedere Jess, vero? Non è che mi hai presa sul serio? Perché non sarebbe da te».

«Infatti neppure ti sto ascoltando. Blateri cazzate», feci punta nell'orgoglio dal suo tono strafottente.

«Spero che sia la scuola imminente a metterti di così cattivo umore. Oppure è il fatto che ti sto dicendo le cose chiare e tonde?>>.

«Lara, cacchio! Basta!», le gridai dietro smettendo di suonare. «Sempre con quest'aria da “so tutto io”. Porca vacca, basta! Non hai un appuntamento a cui devi andare?».

«Vedo che non sono la benvenuta, perciò ti saluto prima che tu dica cose di cui potresti pentirti. Ci vediamo domani a scuola, e vedi di darti una calmata», si congedò seria, sbattendo la porta. Non capivo quanto fosse irritata da uno a dieci. Da quando non la capivo più al volo?

Ad un tratto, sembrava che non andassi più d'accordo con nessuno.

Tutti facevano discorsi insensati, tutti mi puntavano il dito addosso. E l'odiavo.

Così, passai la giornata chiusa in camera e seduta al pianoforte. Era l'unica cosa che mi desse un attimo di tregua: vedere che almeno una cosa la sapevo fare, anche senza regole e dopo tanto tempo, era una buona boccata d'aria. Necessaria.

 

La mattina seguente mi ritrovai ad aspettare, seduta sul marciapiede di fronte a casa mia, la macchina di Chris (che, come tutti gli anni, dava un passaggio a scuola a me e ai gemelli). E, invece, il primo ad uscire di casa fu Adam. O Hitch. Non sapevo più come chiamarlo, per paura di dare impressioni sbagliate.

Paura? E di che? Non c'era un bel niente.

Finsi di non averlo sentito, impegnata a manovrare i comandi del mio I-Pod. E con la scusa mi rimisi a posto la mezza coda che avevo improvvisato quella mattina, ad occhi chiusi per il sonno indicibile, mentre Bryan mi salutava di fretta e di furia.

Eppure, non potei evitarlo quando accostò vicino a me e abbassò il finestrino.

«Un passaggio a scuola?», mi chiese, assorto.

Scossi la testa. Anche lui a scuola? Poveretto.

«E che fai qui a terra?».

«Aspetto Chris e i gemelli per andare a scuola», risposi altrettanto fredda.

«Quelli che ti hanno bidonata, certo. Contenta tu. Ci vediamo», fece un po' alterato. E ripartì, non senza prima un'occhiataccia di rimprovero. Anche lui. Soprattutto lui mi guardava sempre in quel modo. Mi ripromisi che, se lo avesse fatto di nuovo, gli avrei cavato gli occhi.

Dopo pochi minuti, apparvero i miei accompagnatori. Salii dietro, come di consuetudine, e – come tradizione – nel lettore CD c'era un cd degli U2. Li sapevo riconoscere tutti al primo istante e quello era senza dubbio “The Joshua Tree”. Almeno qualcuno era dotato di buon senso, in quella macchina. E non ero io, di sicuro.

Sembravamo tutti sulla via della sedia elettrica. Tutte facce smorte e silenziose, tristi e rassegnate. La mia più di tutte.

Nemmeno sapevo cosa avrei detto a Jess.

Quando arrivammo, tutto quell'ammasso di gente giovane dentro mi diede il colpo di grazia e non potei trattenere uno sbuffo disperato e frustrato. Chris accostò. Tutti si voltarono verso di me.

Oh-oh. Non avevo fatto niente, accidenti!

«Tu scendi qua, noi andiamo a parcheggiare al solito posto», mi disse Jamie.

«E perché?», risposi infastidita.

«Perché te lo chiedo io». Lo guardai scettica, poi decisi che non avevo voglia di fare polemiche inutili anche con lui – ma un giorno se ne sarebbe pentito. Così, presi la mia tracolla e scesi barcollante, con passo trascinato. Era forse un altro tentativo di isolarmi?

Ero giusto sulla via d'ingresso, quando sentii qualcuno dire il mio nome forte e chiaro, scandito lettera per lettera. Riconobbi subito la voce, la stessa che mi aveva detto che “era impegnato, non vedevo?”.

Nonostante non volessi voltarmi, il mio primo impulso mi batté sul tempo. A quel punto, sarebbe stato parecchio meschino guardarlo e voltarsi dall'altra parte.

E poi, dovevate vederlo. Dio mio.

Se ne stava appoggiato a un albero, con un piede contro la corteccia, le braccia incrociate al petto (da cui traspariva “quello che c'era sotto la maglietta bianca, semplice e con scollo a V”, capite?). E i jeans sembravano essergli stati cuciti addosso. Per non parlare degli occhiali da sole, dai quali mi guardava sospettoso, incerto se avessi sentito o meno.

Notai che, proprio vicino a lui, faceva bella mostra di sé la sua moto nera lucidissima. Ebbi un impulso paragonabile a quello che si ha quando si prende la scossa elettrica. Ecco perché tutte le ragazze dotate di un minimo di cervello si innamoravano di lui e non di Jim. Lui dava tutta un'altra sensazione, del tutto più sicura e responsabile, ma... al tempo stesso, era tutto l'opposto. E adesso sapevo anche che era geloso e si faceva le paranoie mentali su di me.

All'improvviso, mi sentii soddisfatta e lusingata.

Jess aveva chiamato me.

Mi fece cenno di avvicinarmi e io – senza mostrare troppi segni di impazienza – lo accontentai.

Arrivai davanti a lui dondolandomi sul posto, in attesa che iniziasse a parlare.

«Hai perso la lingua?», mi chiese spegnando la sigaretta. «Spero di no». L'ambiguità poteva solo comparire in una mente contorta come la mia.

«Ma no. Come va?», chiesi portandomi più in su gli occhiali da sole. Non volevo che mi guardasse negli occhi, oppure avrei perso tutta la mia disinvoltura.

«Potrebbe andare meglio se solo sapessi come diamine siamo arrivati a fare i bambini».

Feci spallucce e fissai il vuoto dietro di lui. Mi accorsi di avere il sole in faccia, perciò – per quanto scure fossero le lenti – capii che, essendo in controluce, Jess vedeva alla perfezione dove stessi guardando e che espressione stessi facendo. Così lo guardai in faccia.

«Jess. Ascolta qui. Se ti dicessi che non è stata affatto colpa tua se sono sparita per quel paio di giorni, mi crederesti?».

«Ovvio», rispose togliendosi gli occhiali da sole. Accidenti, due smeraldi mi stavano interrogando, avidi di risposte.

«Allora il problema è risolto», conclusi rapida e a disagio.

«Ho detto che ti credo, non che mi accontento», disse con un sorrisetto cinico. «Una spiegazione potresti anche darmela, no?».

Feci una smorfia. «Cosa ti ha detto Lara?».

«Che non stava a lei decidere se ne potesse parlare o meno». Si avvicinò di qualche passo.

«Beh. È stata parecchio onesta», tentai di girare intorno alla questione.

«Certo, ma ciò non toglie che questo misterioso problema mi stia facendo impazzire. Soprattutto se riguarda te e tu me lo nascondi. È la strana legge della natura: tu mi neghi qualcosa, io la voglio a tutti i costi». Si avvicinò ancora. «E io ti voglio a tutti i costi», disse a bassa voce.

Trasalii. Santo cielo, avevo sentito bene?! Oh. Mio. Dio.

Dovevo essere in un universo parallelo.

Sapevo di non essere in grado di dire una parola.

«Hayley», iniziò afferrandomi per i fianchi, «credo che ti sfugga il punto della situazione. Credo che tu non abbia compreso fino in fondo cosa mi passa per la testa. Questa cosa... mi dà fastidio. Non ho mai dovuto credere di poter aver bisogno di qualcosa, di qualcuno, che non potessi avere. Mi conosci, sai come sono fatto. Ottengo sempre quello che voglio. Ma tu... Accidenti, sei irraggiungibile. Non riesco ad avere il tipo di approccio che vorrei con te. E non capisco niente. Faccio l'idiota, continuo a sbagliare mossa. Ma non credere che lo faccia apposta, sei solo tu che sei un enorme grattacapo. Forse non sai fino a che punto sono disposto a spingermi per avere l'oggetto dei miei desideri».

«Addirittura?!», dissi incredula, sorridendo alla parola “desideri”.

«Non in quel senso, avanti! Cioè, anche... Ma non sono un pervertito!». Il mio cervello si fermò alla parola “anche”. E arrossii.

«Anche?!», sbottai ridendo. Fu lui a sentirsi imbarazzato stavolta, assumendo la sua solita posa da vergogna totale: mano sulla nuca e altra mano in tasca.

«Hayley, Gesù... Sai proprio come fare perdere il filo del discorso». Conoscevo modi migliori, comunque... Quello poteva anche essere un metodo.

«Scusami, davvero», dissi ridendo. «Mi sembra come minimo surreale».

Fece un passo indietro e mi guardò meglio, spudoratamente.

«Sì», sbottò dopo un po'. «Hai proprio ragione, sei così inguardabile che non capisco come sia possibile», disse sarcastico e riavvicinandosi. «Hai davvero una percezione distorta di te stessa. Mi sa che non vedi quello che vede un ragazzo dotato di un paio di occhi e di un minimo di buon senso».

Anche Jamie mi aveva detto la stessa cosa, se non ricordavo male. Scherzavano?

«Beh», fu tutto quello che dissi.

«Perciò, se non ti spiace, aspetterei una minima spiegazione. Sai, la cosa più frustrante dei giorni appena trascorsi è stata non sapere perché tu fossi così indecisa e... ti fossi volatilizzata nel nulla», disse serio. Mi sentii una stronza colossale.

«Jess... Davvero, non ti basta sapere che non è colpa tua? Non mi sono fatta vedere da nessuno, non è una prova sufficiente?».

«Non ho bisogno di prove, ma della tua fiducia. Non ti fidi abbastanza di me da dirmi qual era questo maledetto problema?», chiese quasi spazientito.

«Jess. Jess. Aspetta un attimo. Se io ti dicessi adesso la questione, non crederesti che sarebbe una cosa forzata?».

«Sì, ma sorvolerei».

«E non vorresti che un giorno fossi io, di mia spontanea volontà, a raccontarti tutto, ma proprio tutto di quello che ho passato?», chiesi in tono patetico.

«Certo che lo vorrei», ammise. «Ma so che non lo farai. Non presto».

«Hai già messo un limite temporale?». Ero allibita dalla piega che quella conversazione aveva preso. Possibile?

«Il problema è proprio che non voglio nemmeno pensare di metterlo. Capisci?».

«A dirla tutta, no».

«Brucerei tutte le tappe, se potessi. Il tempo non deve influire, in nessun modo. Ma tu... mi sembri restia. Temo che tu non voglia avere niente a che fare con me».

«Jess... Ma ti senti? Adesso sei tu che non ti vedi», dissi tra le risate trattenute.

«Che bella coppia di materialisti che siamo. Che sembriamo», si corresse.

Scossi la testa, incredula. A quel punto mi sentivo messa al muro. E non potevo né abbatterlo, né scavalcarlo.

«Jess. Dammi solo un attimo di tregua, non costringermi a vuotare il sacco subito. Mi sembra... di essere messa con le spalle al muro». Ebbi l'effetto sperato: si accigliò e non proseguì, non insistette più.

«Hai ragione, scusami. Ti accompagno in classe, dai. Andiamo».

 

Okay. Vi risparmierò i dettagli delle lezioni che definiscono i rientri a scuola. Secondo me sono le più deprimenti e inutili ore che una persona possa mai perdere nel modo più improduttivo possibile.

Soliti saluti, domande disinteressate, commenti sulle coppie scoppiate e quelle appena accoppiate. Solito. Tentavo di non farmi coinvolgere più di tanto. Alcune voci riguardavano anche me.

La cosa strana fu che Lara non mi cercò e io non cercai lei. Forse era solo il caos generale.

La incrociai per caso mentre attraversavo il campus per andare a lezione di inglese.

«Lara, ciao», dissi poco convinta. Credevo che, chissà perché, ce l'avesse con me.

«Hayley! Ti ho vista parlare con Jess, prima...», fece insinuante. Mi ero sbagliata alla grande. Bah. Ero completamente fuori di testa.

«Sì. Già. Chiarito tutto», dissi sintetica il più possibile. Ma non era abbastanza.

«E...?».

«E cosa?».

«Adesso cosa siete? Una coppietta, due estranei, o niente di definibile?».

«Niente di definibile», annunciai quasi fiera di me stessa. Nessuno mi avrebbe mai definita, potevo metterci la mano sul fuoco.

«Ah, beh. Se è vantaggioso per te, non ho nulla da obiettare. Vai a inglese?». Annuii, un po' distratta. E così, in questo stato di semi incoscienza e leggerezza mentale, mi trascinai durante tutta la giornata scolastica.

A mensa non era successo niente di che, avevo visto un paio di volte i gemelli e Chris, di sfuggita, e li avevo salutati. Jess non l'avevo più incontrato.

In compenso, Adam era ovunque. Il suo nome, gli schiamazzi che lo precedevano, ragazzine isteriche e che fingevano di essere quello che non erano... Adam, o meglio Hitch, era ovunque. Era Hitch che loro volevano, non Adam. Nemmeno sapevano chi fosse Adam.

Hitch era la grande novità, qualcosa di epico e memorabile, un evento unico. Per le prime due o tre settimane al massimo non ci sarebbe stato altro argomento di cui parlare.

Mi stupii quando, all'uscita da scuola, me lo ritrovai di fianco.

«Hayley», mi salutò inespressivo, fissando chi lo fissava senza ombra di amicizia.

«Brutta giornata anche per te, immagino».

«Lo è stato anche per te?», chiese quasi sinceramente interessato.

«Ho visto giorni peggiori. Non è il mio momento, almeno», feci sarcastica.

«Buon per te. Ammetto che ti invidio», mi disse.

«Niente fotografi e paparazzi vari?», chiesi un po' sorpresa di non averne ancora visti in giro. Non mi rispose. Quando fummo fuori, si arrestò e guardò fisso un punto di fronte a noi, con un sorrisetto amaro e cinico. Tentai di capire dove stesse guardando e seguii il suo sguardo perso nel vuoto.

Oh.

Una bella moto nera e lucida mi stava aspettando. Jess, già in sella, mi faceva segno di avvicinarmi a lui.

«Non farlo aspettare, o rischia di farti altri dispetti», disse Adam mentre si volatilizzava. Con passo incerto, mi avviai – non senza una buona maggioranza di gente che mi fissava come se mi fossi materializzata dal nulla. Ed in un certo senso era proprio così: da quando una come me aveva così tante attenzioni?

«Jess?!», abbozzai senza la sicurezza sperata.

«E il primo giorno è andato. Ti accompagno?», mi chiese sorridente. Oddio, oddio.

«In... moto?», feci esitante.

«No, ti do un collare e ti attacco dietro. Così ti mantieni in forma. Però attenta, perché do di gas».

«Io... intendevo: con la moto? Io su una moto?!», strillai quasi.

«E il problema sarebbe...?», fece più a corto di parole di me.

«Che io non ci salgo su una moto come la tua!».

«E perché?», rise di me.

Indicai quella massa di ferraglia insormontabile con gesti vari e frenetici, fino a quando mi accorsi di non avere né voce né giustificazioni plausibili che al tempo stesso non mi facessero sembrare una sfigata.

«Paura, eh?», mi stuzzicò. Risposi con un grugnito, come per dire: “Chi? Io?”.

«Allora non c'è problema. Ma se hai paura, dimmelo pure... Capisco le fifone», disse compiaciuto di se stesso. Risposi con una pernacchia.

«Sai cosa? Non mi avvicino più di tanto agli sbruffoni», feci assumendo una posa da finta offesa.

«Questo è proprio falso, e ti dico anche perché. Punto numero uno, io non sono uno sbruffone; punto numero due, ti avvicini agli sbruffoni, eccome!». Colsi subito il punto della questione.

«Adam non è uno sbruffone. Non più di quanto non lo sia tu, ecco. Definirei Jim come uno sbruffone, ma Adam no», tentai di difenderlo. Chissà perché.

«Aveva ragione Lara: adesso non è più Hitch, è Adam». Mi diede sui nervi.

«Non ti ci mettere anche tu, Jess. Inizi proprio male, ti avviso», minacciai senza ombra di spirito.

«Davvero credi che dicessi sul serio? Andiamo, lo so che gente come lui non è nemmeno da considerare... Per favore!», fece sprezzante. Proprio come uno sbruffone.

Per una frazione di secondo restai senza parole, perché avevo avuto una specie di rivelazione: avevo visto Jess da una prospettiva del tutto inaspettata. Diversa. E meno bella.

«Jess. Torna a casa, dai. Aspetto i gemelli e Chris, non ti preoccupare. Io e la moto proprio non andiamo d'accordo, fidati». Mi guardò per un po', decisamente preso in contro piede e un pochino deluso dalla mia risposta. Poi assunse una faccia rassegnata e mise in moto, pensieroso.

E io iniziai ad aspettare. Aspettai e aspettai, tanto che dopo dieci minuti chiamai Chris. Udite, udite: erano già a casa. Pensavano tutti che sarei tornata con Jess.

Fantastico.

Nessun passaggio per me. Bello.

La cosa più fantastica di tutta quella situazione fu il risvolto che prese alla fine. Il risvolto che decisi di farle prendere.

«Ti ha lasciata qui, alla fine? Non è molto gentile da parte sua», disse una voce da assassino. Rieccolo, distaccato e minaccioso, proprio alle mie spalle. Mi voltai, seduta per terra, a controllare che fosse lui. Beh, chi altri poteva essere? Almeno non era Jim.

«No. Credo di aver rifiutato io, pensando che Chris fosse ancora nei paraggi».

«E adesso che facevi, allora? Aspettavi un passaggio che piombasse dal cielo, come una luce divina?», disse serio. Le sue parole, in quel contesto, contrastavano troppo con il suo tono micidiale.

«No. A dirla tutta, aspettavo te. Sei l'unico che abita nella mia stessa zona, dopo i gemelli e Chris», ammisi alzandomi in piedi, ma senza guardarlo in faccia.

Mi squadrò due secondi e poi si avviò, senza una parola. Nel dubbio, non lo seguii. Quando si accorse che non mi ero mossa, si girò e mi indicò.

«Allora? Hai messo le radici?», fece scortese. «Ti piace così tanto questo posto?».

«Sai, non è facile interpretare i silenzi di un barbaro, idiota», dissi sputando veleno.

«Vuoi un passaggio o resti a scuola fino a domattina?». Senza rispondergli, mi avvicinai e accettai quella “offerta” spontanea.

In macchina, non dicemmo una parola. Lui era di malumore – lo si capiva a prima vista – e io non ero messa meglio.

Solo quando arrivai a casa e lo salutai (distaccata, ovviamente), mi accorsi che – dannazione – era la terza volta che mi accompagnava.

E che cacchio, basta!

 

Il pomeriggio, qualcuno bussò alla porta, decisamente impaziente. Aprii sbuffando.

«Jess!?», dissi spiazzata e con un filo di voce, proprio acuta.

«Ciao», fece con un sorriso a trecento denti stampato in faccia. Era raggiante, ma non ne capivo il motivo.

«Vuoi entrare?», dissi a corto di parole. Che domanda idiota, non l'avrei mica lasciato sulla soglia... Non con l'aspetto che aveva, fidatevi. Era come se uno stile “Brad Pitt” si fosse materializzato di fronte a me.

«Preferirei che fossi tu ad uscire. Con me».

Restai perplessa per un po'.

«Ci sei ancora?», mi chiese un po' preoccupato del mio silenzio. «O stai pensando a una scusa per bidonarmi?».

«Illuso, vorresti che lo facessi? Beh, non lo farò. Dammi solo un secondo per prepararmi, tu intanto accomodati pure», dissi spostandomi dalla porta e facendogli spazio.

«Okay. Non c'è nessuno?». Aveva un tono che nascondeva secondi fini.

«No... Direi di no. Perché?». Mi sentivo un po' a disagio: situazioni simili non mi erano mai capitate, a dirla tutta.

«Niente, niente. Giusto per sapere». Vedendomi impalata sulle scale, continuò: «Beh, che fai? Non ti prepari? Vuoi restare qui?», mi provocò.

«Ti piacerebbe...», biascicai mentre salivo le scale, sorridendo. Era davvero, davvero molto, molto surreale.

In camera scelsi con cura una mise che non mi facesse sembrare troppo piena di me, né troppo scialba. Insomma, qualcosa che dicesse le giuste cose, no? E tentai anche di non essere troppo lenta, non volevo dare l'impressione della tipica ragazzina isterica che impiega ore e ore per decidere cosa mettere anche per andare in bagno (anche se, devo ammetterlo, a volte anch'io, mio malgrado, mi perdo in problemi simili. E non ne esco facilmente).

Così, in cinque minuti circa fui di ritorno. Lo trovai che sbirciava le foto di quando ero piccola.

«Sei tu?», chiese ridendo.

«No, è mio fratello che, con tendenze gay, a due anni si metteva parrucche rosse in testa», risposi altrettanto frivola.

«Dio mio, che faccino dolce e paffutello... Non che adesso mi sembri una stronza, per carità... Anzi, quasi quasi mi ricredo», mi provocò.

«Hey, cocco bello, non mettermi alla prova... Posso essere davvero molto più crudele di così», lo avvisai. Nemmeno io sapevo, in quel momento, quanto dannatamente vera fosse quell'affermazione. Col senno di poi, me ne sarei ricordata, fidatevi.

«E io ti rimetto in riga, tranquilla. Nessuno mi prende per i fondelli, a me...». Meno male che già lo sapevo bene...

«Comunque», lo interruppi, «che facciamo? Mi sembravi parecchio convinto su un piano, o sbaglio?».

«Assolutamente. E non ti spaventare. Fidati, una buona volta».

«Okay, adesso sì che mi spavento. Non avresti dovuto dirmi di non spaventarmi, è la legge della natura umana: faccio quello che mi vieti, no?», citai alla meno peggio ciò che mi aveva detto la mattina a scuola.

«D'accordo... Ho pensato che, visto che voglio essere io a riaccompagnarti a casa, dovresti imparare a sconfiggere quella tua ridicola paura della moto. Quindi...».

Per un attimo mi soffermai solo sul “visto che voglio essere io a riaccompagnarti a casa” e persi il filo logico del discorso. Mi sentii in colpa, come se lui avesse saputo che Adam mi aveva riaccompagnata a casa al posto suo, quando io gli avevo detto esplicitamente che avrei aspettato altra gente. Non Adam. E adesso non avevo capito se lui sapeva o meno, e mi ero mandata in confusione da sola. Non avevo capito cosa voleva fare perché mi sentivo una specie di Giuda. E ciò non aveva senso, no? Non ero in torto, non avevo fatto nulla di male, ed era stato legittimo chiedere un passaggio all'unica persona rimasta che viveva vicino a me.

La verità era che il fatto che sapessi di non dovermi sentire in torto per qualcosa che di fatto avevo detto e compiuto mi faceva sentire in colpa ancora di più.

Però perché mettere in chiaro quell'equivoco? Era una leggerezza, priva di importanza. Non aveva senso andare a complicarsi la vita per nulla, no? Vero?

«Oggi ti porto in moto con me. Capirai che non c'è niente da temere». Impiegai un po' a capire cosa volessero dire esattamente quelle parole. C'era un significato particolare, che era meglio rappresentato dall'immagine di me, terrorizzata e goffissima, su una moto enorme e incontrollabile che sfrecciava per le strade assolate e affollate di Beverly Hills.

«No, no, no, no, no, no, no, bello mio. Piuttosto restiamo a casa e ti do la libertà di fare di me quello che ti pare. Ma la moto no. Assolutamente no. Non in questo mondo, non in questa vita», dissi irremovibile.

«Potrei anche accettare l'idea del “fai di me quello ti pare”, attenta ragazzina», disse beffardo.

«Okay. Ma la moto, no. Proprio no». Mi squadrò a lungo, con un sorrisetto.

«Per questa volta te la faccio passare, ma... Ricordati che prima o poi ce la farò a darti un passaggio a casa». Da quella frase dedussi che non aveva saputo niente del mio ritorno a casa. E, stupidamente e inappropriatamente, tirai un sospiro di sollievo.

Eppure sapevo che Jess non era stupido. Lo sapevo. «Però, Hayley, devi togliermi una curiosità», iniziò più serio di prima. Ecco il primo allarme.

Dovevo smetterla di vedermi come una piccola Giuda, accidenti, non lo ero. Affatto.

«Di' pure».

«Travis e Jamie mi hanno detto che tu non sei tornata con loro». Mi morsi un labbro e tentai di apparire disinvolta.

«Questo perché Chris pensava che io tornassi con te, e quindi mi hanno lasciata a piedi. Quando li ho chiamati per sapere dove fossero finiti...», iniziai a parlare come una macchinetta.

«Sì, sì, ma non è questa la mia curiosità», mi interruppe brusco.

«Ah, no?», feci spiazzata e con voce stridula. Stavo per uscire allo scoperto. E continuavo a sentirmi dalla parte del torto, ma perché?

«No», mi disse allerta. «Mi chiedevo con chi sei tornata, allora».

Per un attimo trattenni il respiro e cercai le parole e il tono giusti per formulare la risposta nel modo corretto.

«Con Hitch. O Adam, chiamalo come vuoi», dissi tutto d'un fiato e con voce acuta. Maledetta voce, mi tradiva sempre quando meno ne avevo bisogno. Del resto, quando mai si era sentito dire di qualcuno che avesse bisogno di essere tradito?

Stavo impazzendo mentre aspettavo e cercavo qualche segno di reazione.

«Con quello, eh? Quello che gira sempre qui intorno, se non sbaglio», disse con una smorfia.

«Grazie, abita qui...», feci con una risatina isterica. Ero davvero patetica.

«Già. Già. Comunque non c'è bisogno che lo venga a sapere da altri, non ti pare?», disse apparentemente calmo. Sapevo che non lo era.

«Credo anch'io. È che non mi sembrava rilevante, sai... Parliamo di Adam. L'hai detto anche tu che non va nemmeno considerato». “E ti sbagli”, aggiunsi mentalmente e d'impulso.

Ma che diavolo mi prendeva? COSA SUCCEDEVA? Cosa?

«Vero, vero. Hai ragione. In fondo, ti ha accompagnata a casa solo una volta, dopo quella stupida festa... Fanno due con questa. Mi allarmerei se arrivassimo a tre», concluse ridendo. Risi anch'io, ma con tutta un'altra prospettiva rispetto alla sua.

E adesso qualcuno mi chieda perché non lo corressi, perché non dissi semplicemente che c'era stata una terza, irrilevante volta. Avanti, ditemi: “Hayley, perché hai omesso quel particolare? Non avevi detto anche tu ai tuoi amici che omettere è come mentire?”.

Certo che l'avevo detto. E ne sono ancora fermamente convinta.

Ma, vedete, il fatto è che quel pomeriggio compresi che le cose non stavano andando esattamente come sarebbero dovute andare. Ebbi solo un assaggio. Intravidi una piccola nuvola all'orizzonte, e posso dire di essere stata abbastanza superficiale e bugiarda con me stessa da averla semplicemente ignorata.

Una nuvoletta, cosa poteva mai significare? A volte sono anche carine le nuvolette, prendono la forma che noi vogliamo che assumano. Basta un po' di fantasia.

Ma, chissà perché, la nostra fantasia non funziona quando guarda i nuvoloni neri e densi di un temporale. La nostra fantasia scappa a gambe levate, sotto le coperte del letto, spaventata dai fulmini e dai lampi che saprà che arriveranno inevitabilmente. C'è poco da fantasticare, con una nuvola del genere.

Ma la mia era una nuvoletta paffuta e carina, no?

Beh. Altro che nuvoletta. Quella era proprio una tempesta, un vero e proprio cataclisma.

E non sarebbero bastate le coperte di tutti i letti del mondo a difendermi.

Buffo...

Letti.

 

 

 

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Capitolo 8
*** Vincolata ***


Senza nemmeno accorgermene, stavo diventando un'estranea a me stessa. Prendevo tutto sotto gamba, senza pensarci troppo. Okay, non ragionavo.

E con Jess c'era qualche problema di comunicazione. Lui continuava a straparlare su Adam e io fingevo di non sentire, perché in realtà – quando Jess non vedeva – io andavo a cercare quel rapper che riusciva a psicanalizzarmi alla perfezione. Era comodo. Era giusto.

Così, uno di quei pomeriggi in cui avevo incontrato Adam per strada, avevo iniziato a raccontargli (senza che lui me lo avesse estorto con l'inganno) del problema che mi stava veramente facendo impazzire. “Problema” era una parola grossa, perché avevo imparato a spese mie che i problemi, quelli veri, erano ben altri.

Comunque, importante o no, il fatto era che Jess usciva e si faceva vedere con me, mi si avvicinava sempre parecchio, mi guardava estasiato, era gentile e carino, continuava a cercare di convincermi a salire in sella a quella sua maledetta moto, ma... Okay. Il fatto era che non mi aveva più baciata dalla prima volta. Capito? Tutto ciò era un controsenso allucinante. Si comportava in un modo, ma poi, quando arrivava il momento giusto, spariva. Si tirava indietro.

Per non parlare della sua insistenza: era ostinato a voler sapere quale segretissimo problema mi avesse fatto chiudere due giorni in casa. Non capiva che più insisteva, più io non avrei parlato. Non capiva proprio.

Eppure, continuava a piacermi parecchio. Era Jess, accidenti, era Jess e girava con me. Con me. Era surreale, ma stava assumendo sfumature del tutto inaspettate.

Quando Lara mi aveva chiesto come stesse Adam e io le avevo risposto subito e sorridendo, mi aveva fulminata. Quando poi, lo stesso giorno, mi aveva chiesto dove fosse Jess e io le avevo risposto indifferente che non lo sapevo, era scoppiata a ridere, come Crudelia.

«Cara Hayley, ancora non hai focalizzato un bel niente!», aveva tentato di dire tra le risa.

Anche i gemelli provavano a farmi degli interrogatori camuffati da partite a Guitar Hero, con una noncuranza del tutto discutibile. Io, anche se capivo i loro intenti, fingevo, sorridevo e annuivo.

In realtà mi avevano esasperata tutti quanti.

Jenna mi faceva domandine tendenziose e per nulla imparziali sulle mie uscite. Bryan, quando c'era, mi prendeva in giro come se fossi una bimba dell'asilo alle prese con i primi fidanzatini. In un certo senso era così, ma non ero affatto una mocciosa. Anche Chris sembrava preoccupato che le mie azioni potessero ferire in qualche modo l'amico, Jess, che mi opprimeva con tutto se stesso, anche se non se ne accorgeva. E poi Lara, con le sue sentenze sempre accennate e mai costruttive... Jim, accidenti a lui, mi faceva occhiolini e mi fissava come un pervertito, soprattutto quando Jess era con me. Per non parlare del meglio del peggio: Dana, Bree e compagnia bella. Nei corridoi della scuola, a mensa, in palestra, OVUNQUE, mi guardavano di sottecchi e puntavano Jess come una preda.

Il fatto strano era che, però, non mi dava fastidio che volessero lui per fare un dispetto a me; piuttosto, non sopportavo che tutti si immischiassero negli affari miei.

Tutti tranne uno. Uno che, certi giorni, sembrava sopportare a malapena la mia presenza; altri giorni, invece, si trasformava in ciò che i miei amici avrebbero dovuto essere.

Direi che un po' di confusione era più che legittima.

Quel giorno, dissi a Jenna che stavo uscendo per conto mio, da sola, e che non ci sarei stata per nessuno. Indaffarata com'era, mi liquidò subito e annuì. Grazie al cielo.

Guardandomi le spalle, attraversai la strada, ma non bussai alla porta dei gemelli.

«Supponevo una visita del genere, sai», mi aveva accolta Adam, con un aspetto trasandato e una sigaretta in bocca. «Dovresti dirlo a Mr. Non Bacio Nessuno che ogni tanto passi da me come una fuggitiva».

«Direi una bugia», risposi entrando.

«Nel senso che non è vero che vieni da me, non è vero che non bacia nessuno o non è vero che sei una fuggitiva?».

«Sta' zitto e cammina nella stanza dei sogni, idiota».

«Questa gentilezza la devo a...?», fece come se non gli avessi detto niente.

«Ti ho già detto di stare zitto?».

«Hey, d'accordo che ti lascio andare e venire come ti pare, ma non andiamo bene se inizi a fare la schizzinosa dittatrice. Non con me».

Senza rispondergli, entrai nella stanza più bella che avessi mai visto. Quella sala “svago” era diventata un paradiso per me, mi sentivo bene lì dentro. Il mondo, là fuori, poteva implodere o precipitare nel vuoto: a me non sarebbe importato nulla.

«Niente interviste, oggi?», gli chiesi affondando nel divano di pelle, esausta.

«No. Per un bel po' nessuna rivista si farà viva. Se ne sta occupando Frank. Almeno credo». Neanche lui chiamava lo zio “zio” e la cosa mi faceva sentire a mio agio. «Insomma, sono venuto qui per darci un taglio, tornerò sulla scena quando avrò di nuovo qualcosa da dire. I media hanno interpretato il mio trasferimento a Beverly Hills come un atto di creatività. Ma presto si stancheranno di aspettare e di pedinarmi».

«Pedinarti?», feci incredula. «E quando ti pedinerebbero?».

«Quando vado a scuola, quando torno a casa, quando mangio fuori. Sempre. Paparazzi, inutili rifiuti della società», disse spegnendo la sigaretta nel portacenere sul tavolino di fronte a me e sedendosi.

«E perché io non me ne sono mai accorta?».

«Perché sono professionisti, non si fanno beccare in flagranza». Mi esaminò da capo a piedi. «E poi non sei una che se ne accorgerebbe».

Non capii subito il senso della sua affermazione, ma dal tono che aveva usato sembrava un'offesa o, comunque, una frecciatina.

«Scusa?!», sbottai irritata.

«Ma se nemmeno hai capito cosa intendo dire, perché fai la donnina isterica e offesa?».

«Riflesso incondizionato», sibilai sputando veleno, «e adesso spiegati, Hitch». Scoppiò a ridere. «Cosa c'è di così divertente?», strillai.

«Adesso torni a chiamarmi Hitch? Ti ho fatta arrabbiare e mi chiami “Hitch”? Sei incredibile, signorina Smithson».

Tentai di ribattere un paio di volte, mi alzai, feci avanti e indietro di fronte a lui puntandogli l'indice in segno di minaccia, ma poi alzai gli occhi al cielo e mi buttai le mani in testa, arrendendomi.

«Okay. Dimmi cosa intendevi», dissi infine.

Rispose con due schiocchi di lingua netti e secchi: era un “no, no”.

«Andiamo», implorai. La curiosità mi aveva imbrogliata e adesso mi stava facendo i dispetti. Eh, no, non era la curiosità che faceva la dispettosa: era un ragazzo intrattabile che si chiamava Adam, e se lo si chiamava Hitch si metteva a ridere. Supponevo che allora fosse consapevole di quanto fosse ridicolo il suo nome d'arte.

«Hayley, ti fasci la testa prima di essertela rotta. Dicevo solo che non ti accorgeresti di un paparazzo perché tu non sei una che si sente una vip, non vai in giro credendo di essere ammirata dagli altri. Se passi davanti una vetrina, non guardi il tuo riflesso che sculetta, non ti reputi una che dovrebbe camminare sul tappeto rosso. In poche parole, non te la tiri. Tutto qui. In compenso, però, sei una fissata e illegalmente curiosa. Rilassati. Lo dico per te. Anche per quanto riguarda Jess... Diglielo che parli anche con me, non fare le cose di nascosto. Se ometti, menti e... non arriverai da nessuna parte se hai certi problemi di fiducia già a sedici anni». Risi tra me e me. “Se ometti, menti”. L'avevo già sentita, questa.

«Okay», dissi sprofondando di nuovo nel divano. «Fammi sentire come suoni».

«Ma anche no», rispose senza scomporsi troppo.

«Paura di un po' di sana critica?», lo stuzzicai. «Lo sai che non ho mai sentito una sola parola delle tue canzoni? Mai».

«Buon per te». Era di nuovo distaccato e irraggiungibile nei suoi pensieri.

«Per favore?».

«Non fare la carina con me, risparmiamelo». Altro che distaccato: scorbutico.

«Facciamo un compromesso. Cosa vuoi che faccia in cambio?», tentai di trattare.

«Niente, Smithson, niente. Smettila o ti caccio a calci».

«Morrissey, facciamo meno gli irritabili, eh? Se qui c'è una persona che potrebbe permettersi di essere irritabile durante alcuni specifici giorni, quello non sei tu».

«Sei in quegli specifici giorni?», mi chiese sfacciato. E mi prese in contropiede. «Io credo di sì. Si vede», si rispose da solo. Sentii il sangue bollirmi nelle guance e la bocca bloccarsi.

«Si... vede?», feci terrorizzata. Uno dei miei peggiori incubi diventava realtà. Le donnine sanno cosa intendo...

«Non in quel senso, Smitty. Non si vede direttamente, si capisce da... alcuni particolari», concluse trattenendo una risatina.

«Alcuni... particolari?». Sapevo bene quali erano le due cose che mi succedevano in quei giorni. Una era l'intrattabilità più o meno accentuata, l'altra...

«Sì. Due», affermò ridendo. Merda! Ecco che facevo la mia prima figura di merda con Adam.

«Da quanto tempo mi stavi fissando le due amichette qui sotto piuttosto che guardarmi in faccia o non guardarmi affatto?», gridai irritata e incredibilmente imbarazzata.

«Non sono io che le guardo, sono loro che... ingrassano». Lo fissai con gli occhi fuori dalle orbite e la mascella per terra. «Sia ben chiaro, solo in quei giorni», precisò.

«Cazzo, Adam!», farfugliai mentre lo prendevo a schiaffi un po' ovunque. «Smettila, smettila, smettila! Smettila adesso di esaminarmi in tutto e per tutto!».

«Hey, Smitty, sono solo un buon osservatore, nel senso che non mi sfugge niente. Rilassati...», disse ridendo.

«Chiamami di nuovo Smitty e... e...». Non mi veniva in mente una minaccia abbastanza minacciosa.

«E...? Avanti, Smitty. Che fai, chiami il tuo “fidanzato”?», fece mimando apposta le virgolette e smettendo di ridere. Riuscì a mettere di malumore anche me.

Scossi la testa e lo fissai schifata. E l'Oscar per il miglior guasta feste va a...

«Sai una cosa? Hai ragione, non dovrei affatto essere qui. Sei l'unico che se ne frega di quello che succede nella mia vita privata, ma adesso solo tu me lo fai pesare più di tutti gli altri ficcanaso messi insieme. Hai ragione da vendere, non è con te che dovrei parlare, Adam», dissi prendendo le mie cose. «Ci vediamo a scuola».

 

Credevo che la mia uscita scenica lo avesse fatto dubitare del suo potere di sparare giudizi e analisi su tutti. Evidentemente non era affatto così, perché – seguendomi nel vialetto di casa sua – iniziò a gridarmi dietro.

«Tu? Tu che fai la ramanzina a me? Hayley, andiamo! Sei tu che vieni da me, cosa ti aspetti che faccia? Non me ne frega dei tuoi problemi con il tuo amichetto, ma sei tu che continui a rifilarmeli sotto ogni possibile aspetto. Una volta passa, due anche, ma poi... Basta. Non sono tuo amico, i gemelli qui di fianco sì. Mi fa piacere se vuoi fare due chiacchiere, ma che non ti salti in mente di scambiarmi come il tuo terapista di fiducia. Mettiamo le cose in chiaro: io non sono quello con cui ci si confida. Non so tenere i segreti e non mi impegno per farlo. Vai a sbattere i tuoi sensi di colpa in faccia a qualcun altro».

E, rientrando, aveva sbattuto la porta con così tanta forza da farmi sobbalzare. Aspettai qualche secondo prima di attraversare la strada del tutto, non ero sicura che le mie gambe avrebbero collaborato molto volentieri.

Girai la chiave nella serratura e trovai Jenna in salotto che rideva con Frank.

Fantastico.

«Ciao, tesoro! Ti ricordi Frank?», mi accolse smagliante.

«Certo che sì. Ciao, Frank. Come va?», chiesi cancellando il punto di domanda alla fine. Il mio tono era troppo apatico.

«Bene, Hayley, grazie. Spero di non essere di troppo, posso sempre...».

«No, no», lo interruppi rianimata. «Stavo giusto per uscire di nuovo. Volevo solo dire a Jenna che stasera non ceno a casa».

«Come mai?», mi chiese lei palesemente disinteressata alla mia risposta. Ma il normale protocollo del genitore modello presupponeva che, di fronte agli altri, domande del genere fossero obbligatorie.

«Vado da Lara. O dai gemelli, magari usciamo tutti insieme visto che è venerdì sera».

«Avevi ragione, è proprio una bellissima ragazza. Educata, per di più», si intromise Frank. Da quando la gente parlava di me e mi definiva “bellissima” ed “educata”? La cosa mi infastidiva parecchio.

«Già», tagliai corto. «Io vado. Ciao a tutti. Se senti Bryan, salutamelo», dissi scappando dal luogo dei finti convenevoli che era diventato casa mia.

Peccato che non sapessi dove andare. Mi veniva in mente solo un nome, ma non era quello di Adam. Assolutamente.

Iniziai a passeggiare per le vie del mio quartiere con il cellulare in mano.

«Jess, ciao».

«Ciao!», mi rispose sollevato e sorpreso. «Credevo che avessi detto a Jenna che volevi startene da sola».

«Già. Questo prima che mi venisse voglia di parlare un po' con te». Stupida Jenna, poteva almeno dirmi che Jess mi aveva cercata. Stupido Adam, che mi aveva messo le parole in bocca mentre parlavo con Jess.

«Ah. Beh, certo. Se mi dici dove sei, passo a prenderti», acconsentì felice.

«No, bello, tu passi con la moto, e io sul tuo mostriciattolo non ci salgo affatto. Ci vediamo a Coldwater Park, va bene?». Lo sentii ridere mentre riagganciava e mi informava del suo imminente arrivo.

Infatti, neanche dieci minuti dopo lo trovai già lì, che mi aspettava su una panchina. Non appena mi vide, sorrise come un bambino (molto adorabile, direi) e alzò un braccio per salutarmi. Senza accorgermene, mi misi a ridere: ero tornata di buon umore.

«Mi hai fatto prendere un altro infarto», disse facendomi spazio sulla panchina per permettermi di sedermi vicino a lui.

«Scusa, non volevo», risposi rannicchiando le ginocchia contro il mio petto. Inaspettatamente, mi mise un braccio intorno alla spalla e mi tirò verso di sé.

«Non ti preoccupare, Hayley. Sopravvivo a tutto, sai?». Rise del mio silenzio imbarazzato e mi baciò sulla testa.

«Di' la verità, cosa ti ha detto Jenna?», chiesi con il broncio tirando su la testa per guardarlo in faccia. Che occhi indecenti che aveva.

«Ha detto solo che eri uscita e che volevi startene per conto tuo. E io ho pensato che stessi per sparire di nuovo. Non volevo, tutto qui. Ma poi mi hai chiamato e sono resuscitato».

Sospirai, comprendendo dove sarebbe finita presto la conversazione. Forse aveva ragione Adam, dovevo parlare con Jess. Lui sì che mi avrebbe ascoltata. Il punto era: volevo davvero parlarne?

«Jess, Jess», iniziai.

«Non mi devi dire niente se ti senti obbligata, Hayley. Lo sai. Anzi, ti chiedo scusa se ho fatto il bamboccio cocciuto e ho insistito tanto».

Restai stralunata per qualche secondo. Cosa?

Fu lì che ebbi l'impulso di lasciar cadere tutti i muri. Peccato che durò così poco che, non appena aprii bocca, subito cercai un modo per rimangiarmi la frase che segnava l'inizio della mia confessione.

«Hai mai sentito parlare di mio padre? Hai mai sentito da me una parola su di lui?», dissi in preda all'indecisione. Volevo lasciar perdere quel discorso frustrante e insopportabile.

«No. E non devi per forza parlarne adesso, se non vuoi». Colsi la palla al balzo e restai in silenzio, più stupita ed esterrefatta di prima.

«Ti basti sapere che quella era la ragione della mia “sparizione”. Non tu, Jess», conclusi con un sospiro di sollievo.

«Sai una cosa?», fece lui ridendo.

«Come potrei sapere tutte le cose del mondo, Jess?», tentai di sdrammatizzare.

«Sì, sì. Stavo proprio pensando che adesso posso reputarmi abbastanza sicuro delle mie azioni e...», disse girandomi il viso verso di lui con una mano.

«E...?», feci senza voce. A questo punto le mie aspettative non potevano essere deluse ancora. Lo avrei ucciso, se lo avesse fatto.

«E... dico che adesso, se ti baciassi, tu non scapperesti, vero?», chiese a bassa voce nel mio orecchio. Scossi la testa senza una parola. «Allora diamo inizio alle danze».

Mai sentito, vissuto, visto, provato niente del genere. Giuro. Una cosa così fuori dal comune che vi risparmio i particolari. Se vi dicessi tutto, tutte le ragazze si aspetterebbero cose inumane dai rispettivi ragazzi e... Insomma, non è il caso di mettere i manifesti. Vi basti sapere che potrebbe anche passare come un bacio illegale.

E che, alla fine, i passanti ci applaudirono. Qualcuno addirittura si complimentò con Jess.

 

Quella sera, ci ritrovammo tutti a casa di Lara. I suoi erano via e lei aveva invitato la solita combriccola. Lei e Travis erano particolarmente su di giri, ma non quanto me.

Io e Jess arrivammo insieme – non con la moto, sia ben chiaro. Chris ci diede un passaggio e poi passò a prendere anche i cugini.

Ma la nostra entrata fu più che scenica. Lui, un bellissimo ragazzo decisamente al di sopra della mia portata, che mi teneva stretta a sé con un braccio intorno al mio collo. Lara, non appena ci vide, scoppiò in un urlo di gioia e liberazione.

«Grazie Signore per aver riunito questi due in via definitiva e averci liberati tutti dal pesante fardello che era diventata la loro sopportazione!», strillò saltellando a destra e a sinistra.

«Che simpaticona», esclamammo in coro io e Jess.

Quando poi Travis, Jamie e Chris ci raggiunsero, i commentini raggiunsero livelli così bassi da dover essere censurati. Jamie era l'unico che a volte si tratteneva, e ogni tanto mi faceva l'occhiolino, tutto soddisfatto.

Mangiammo sushi, rigorosamente stravaccati per terra. Poi iniziammo a fare la gara: dovevamo lanciarci i pezzi di cibo da una parete all'altra della stanza, centrando le rispettive bocche. Beh, vincemmo io e Jess.

Dopo la gara, invece, ci fu la lotta, ma nessuno osò avvicinarsi a me. Solo Jess poteva prendermi in spalla e buttarmi in giro, sul divano o per terra.

E, per concludere, ci sfidammo tutti a Guitar Hero. Senza troppe sorprese, Travis vinse contro tutti noi, tanto che alla fine formammo un'associazione contro di lui. Ma Jamie ci fece perdere clamorosamente, e lì iniziarono le prese in giro.

Fu una bellissima serata, che mi ricordò nitidamente una delle ultime serate spensierate passate dai gemelli: una delle sere in cui, giustamente, non potevo nemmeno immaginare che Jess nutrisse un qualsiasi tipo di interesse per me.

Il fatto è che, come spesso accade, fino a che si è in compagnia e si hanno brutti pensieri, è facile scacciarli ridendo. Risulta più difficile restare lucidi quando, la notte, si resta da soli in una camera immensa e buia. Magari con le canzoni più belle e riflessive dei Paramore sparate a mille nelle orecchie.

Ripercorsi mentalmente la mia giornata. I momenti migliori li avevo passati con Jess, indubbiamente, ma... C'era una vocina che mi gridava “eppure non gli hai detto tutta la verità!”. Non gli avevo detto niente, a dirla tutta. Adam era caduto nel dimenticatoio, mio padre era stato accuratamente evitato. E la vocina strillava e strillava, finché non assunse il tono e la voce di Hitch, non Adam. Afferrai il cuscino e tentai di soffocare quella vocina insolente, ma non ci riuscii fino a notte fonda. La verità era che la situazione si chiariva a tutti, tranne che a me. C'era una sensazione fastidiosa (ora più che mai) che tentavo di zittire e reprimere, ma nel mio profondo sapevo che stavo mentendo a me stessa.

Quello stronzo di Hitch, accidenti a lui, mi faceva trovare più a mio agio quando parlavo con lui. Non insisteva, non si arrendeva, sapeva quando doveva fermarsi. Però era troppo sgraziato e cattivo, distaccato e indecifrabile.

Jess era tutta un'altra cosa. Mi piaceva di più, era solare, simpatico e, perché no, anche tenero. Ah, dimenticavo: qualcosa di molto simile a un modello, solo non troppo tirato a lucido.

E poi, sembrava che le cose fossero diventate un po' più esplicite e “limitate”. Se prima mi sentivo soffocata dai pensieri di altra gente, ora ero veramente seppellita sotto le loro opinioni.

Sapevo di non essere stata del tutto onesta con Jess, e lui non se lo meritava; ma proprio non volevo rovinare l'atmosfera che veniva a crearsi con lui parlando di Adam.

Per fortuna l'indomani, sabato soleggiato e allegro, mi avrebbe salvata non solo dalla scuola, ma anche da quei pensieri stupidi e, sì, infondati. Era facile da capire: io e Jess. Adam aveva solo contribuito a rovinare una parte di quella splendida giornata. Era la parte più piccola, sgradevole e insignificante di quel giorno. E pensare che fino a qualche settimana prima non potevo nemmeno vedere la sua faccia in TV. Mi era facilissimo girare canale e ignorarlo al meglio. Però, ora che abitava sul marciapiede di fronte al mio, era un pochino più difficile. La situazione era cambiata radicalmente.

Volevo disperatamente che arrivasse l'alba del giorno dopo, mi stavo crogiolando fin troppo in un problema che sostanzialmente non esisteva. Avanti, qual era il mio problema?

Non c'era.

Perciò sarebbe stato ancora più facile risolvere il fatto che un problema non ci fosse, non so se mi spiego. Sono un po' contorta, lo so, ma davvero non saprei dire meglio da cosa partisse quella mia angoscia. O forse sì, saprei dirlo. Con esattezza, per di più.

Il vero punto della situazione era che adesso mi sentivo in debito, vincolata irreversibilmente alle opinioni della gente; mi ero mostrata loro sotto una luce diversa, e mi avevano accettata. Ora, però, sapevo che non ne sarei stata all'altezza, avrei deluso tutti quanti, forse me stessa più di tutti.

Una cosa era certa: durante il periodo che era in procinto di assalirmi io mi sarei dimostrata una persona totalmente nuova, sia a me stessa che agli altri. Non poteva piacermi quella situazione, perché era nuova, e in quanto tale non potevo proprio fare i salti di gioia ed essere lieta di qualcosa che non conoscevo se non per sentito dire. La pratica è tutta un'altra cosa rispetto alla teoria, perciò la gente può parlare quanto vuole, ma le esperienze non si acquisiscono così, o sbaglio?

Mi stavo creando un problema che potevo evitare: stare con Jess non avrebbe dovuto crearmi problemi esistenziali. Non è così quando ci si innamora, no?

Ora, io non ne sapevo abbastanza da poter fare l'esperta, ma supponevo (e suppongo tutt'ora) che non fosse quello il modo in cui mi sarei dovuta sentire pensando a ciò che stava nascendo tra me e un bellissimo ragazzo. Al contrario, nessuno parlerebbe delle cotte e dell'amore con così tanti luccichii negli occhietti luminosi, no?

Io non avevo mica gli occhietti luminosi quando parlavo di Jess. Sì, mi mandava un po' in tilt con le sue mosse da cavaliere, ma...

Non lo sapevo. Forse il senso di oppressione era più forte.

Se davvero l'amore era qualcosa di simile a quell'angoscia che stavo provando quella notte, quel peso che mi stava bucando il petto e rompendo le ossa lentamente, beh... Allora era davvero una gran fregatura.

 

 

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Capitolo 9
*** Scheletro nell'armadio ***


Alla fine non avevo chiuso occhio. Non un solo minuto.

E mi ero ricordata di non avere più un cellulare.

E la mia giornata si presentava come un inferno. Di nuovo.

Jenna, alla bellezza delle ore sei e mezza – e ripeto SEI e MEZZA – si era affacciata sulla porta di camera mia (lo so, non avrebbe dovuto darmi così fastidio visto che non stavo dormendo, ma d'altra parte era pur sempre una voce acuta e squillante che interrompeva il mio flusso di coscienza). Mi aveva trovata sdraiata al contrario, con la schiena parallela al cuscino e le gambe che penzolavano dal lato del letto; la testa ciondolava dal lato opposto, con i capelli che arrivavano per terra. La guardavo confusa, visto che lei era sottosopra e io a pancia in su.

«Ti va il sangue alla testa. Alzati, tesoro», aveva cercato di sussurrare, ma aveva gridato per le mie orecchie.

«Sei già sveglia?».

«Indovina», feci scortese. «Che c'è?», continuai sdraiandomi sulla pancia e scrutandola. Avevo un brutto presentimento, e la sua espressione colpevole me lo confermò: le si formava sempre una rughetta in mezzo alle sopracciglia quando stava per dire qualcosa che – con ogni probabilità – avrebbe potuto farmi infuriare.

«Niente», rispose, evadendo con lo sguardo.

«Jenna», la esortai. «Per favore, non farmi faticare per niente. Che cosa c'è?».

«Niente tesoro, non è nulla di brutto», disse a denti stretti, forzando un sorriso che tutto mi sembrava tranne che rassicurante.

«Ma qualcosa c'è, allora. Altrimenti cosa saresti venuta a dirmi?», tentai di mantenere la calma.

«Io? Niente, niente». La fissai a fondo, quasi strozzandola con lo sguardo. Stava per esplodere, lo sapevo. Non avrebbe retto il gioco ancora a lungo. Infatti.

«E va bene. Ma non credo che tu debba prenderla male, in fondo l'ultima volta non è stato poi così brutto... Lo so che adesso il fatto che tu abbia un ragazzo potrebbe imbarazzarti e farti saltare qualche rotella, ma...». Rieccola: l'intrusione di una persona che aveva già espresso un giudizio su di me senza davvero sapere cosa stessi pensando io.

«Jenna!», gridai facendola spaventare.

«Calma, calma...», rispose un po' a disagio. Poi prese fiato, con gli occhi spalancati e attenti a ogni mia minima reazione. «Ti ricordi Frank?».

 

Non sapevo come, ma alla fine ero stata incastrata. Sabato sera fuori a cena con Jenna. Con mia madre, accidenti.

E non era tutto.

Quel simpaticone di Frank, oltre ad aver pianificato una serata devastante per me e suo nipote, aveva anche proposto di andare a cena fuori tutti e quattro. Insieme. INSIEME.

Non bastava casa sua, a quanto pareva; bisognava anche farsi vedere in pubblico, come se non bastasse.

Mentre decidevo cosa mettermi di fronte all'armadio, parlavo al cellulare con Jess.

Lo so, lo so: quale cellulare? Quello che Jenna aveva barattato con me in cambio della fatidica serata con tanto di sorrisetti incorporati. Odiavo quel genere di cose, davvero, soprattutto se coinvolgevano giovani rapper pseudo psicanalisti rabbiosi. Chissà cosa aveva promesso Frank ad Adam per convincerlo. (Secondo me niente, Adam non è tizio che si fa corrompere).

«Con quello lì», ripeté freddo e contrariato Jess dall'altra parte del telefono.

«Già. Non senti la felicità nella mia voce?», feci sarcastica. In quel momento Jenna passò nel corridoio e, dalla porta aperta di camera mia, mi lanciò un'occhiataccia di rimprovero. Risposi con una scrollata di spalle. Poteva convincermi per quella serata, certo: ma quella parte della giornata non era ancora arrivata. Non aveva comprato tutte le ventiquattro ore.

«Vuoi che venga per caso a cenare nello stesso locale e ti incroci? Sempre per caso, sia chiaro».

«Se sapessi dove andiamo accetterei volentieri l'invito della sorte».

«E così adesso sarei diventato la sorte, eh?», disse mentre sorrideva. «Bel soprannome. La sorte», ripeté facendo la voce grossa, e io non potei trattenere una risata.

«Okay, okay. Sorte o no, adesso devo andarmi a vestire».

«Allora facciamo la videochiamata, perfetto», consigliò immediatamente.

«Bel tentativo, cara la mia sorte!».

«Non è andato in porto?», chiese fingendosi implorante.

«Assolutamente no». Era incredibile, quel ragazzo. Bastava solo parlare con lui e tutti quei pensieri che mi avevano tormentata la notte sparivano.

Però, quando la conversazione terminò, mi sentii già più stanca, come se la nottata in bianco iniziasse ad avvisarmi della difficoltà dell'impresa imminente.

Sbuffai più o meno trenta volte al secondo, sempre nei paraggi di Jenna. Doveva capire quanto un cellulare non bastasse a comprarmi.

Aspettammo che Frank e l'inquisitore passassero a prenderci, sedute sul divano e in silenzio. Giocavo con l'orlo del vestitino nero che mi ero messa, abbinandoci dei tacchi rosso scuro (che andavano a braccetto con i miei capelli sciolti di proposito: non volevo prepararmi troppo per un'uscita del genere). Quando suonarono alla porta, Jenna schizzò in piedi come un'adolescente impaziente e io la fulminai, disapprovando il suo atteggiamento. Anche lei si fermò davanti alla porta e mi puntò l'indice addosso, pronunciando un veramente poco minaccioso “mi raccomando, hai promesso”. Sbuffai per l'ultima volta e mi alzai, tentando di non trascinarmi troppo.

Con mia enorme sorpresa, sulla soglia si materializzò solo Frank. Per un attimo mi sentii sollevata... ma anche delusa. Cosa avrei fatto tutta la sera da sola?

«Buonasera, signorine. Ci accomodiamo nella limousine? Adam è già lì che aspetta», ci informò con tono perfettamente cortese e amichevole. Stranamente, non mi suonava affatto falso o forzato. Peccato, volevo che lo sembrasse.

Mi accomodai sui sedili posteriori, lasciando Jenna e il suo caro amico a discorrere davanti a noi.

Adam guardava dall'altra parte, fuori dal finestrino impenetrabile dall'esterno. Aveva una maglietta di mille colori sgargianti, uno più vivace dell'altro, e un gilet nero aperto, con dei jeans scoloriti a zone che incorniciavano il tutto. La sua posizione mi faceva capire la sua ostilità: con il pugno della mano sinistra si reggeva il mento e non mi degnava di uno sguardo. Quando la portiera si chiuse con uno scatto, fui costretta a salutarlo.

«Ciao», iniziai in soggezione. Si voltò per un attimo a guardarmi distratto, mi squadrò per benino e poi si rigirò verso il finestrino.

«D'accordo...», dissi a bassa voce mentre gli davo le spalle anch'io per fissare il paesaggio fuori. Mi accingevo ad erigere il muro del silenzio e dell'indifferenza. Dio, come avrei voluto che Jess fosse stato al posto suo.

E, senza che me lo aspettassi, lo sentii ridere istericamente. Stupita, mi voltai a guardarlo, un po' infastidita.

«Ti diverti? Beh, io no. Per niente», lo ammonii a bassa voce.

«Hai detto “d'accordo”. Ti prego, spiegami che cosa ti aggrada così tanto, perché io non ci vedo nulla di bello in questa serata».

Non gli risposi nemmeno e tornai ai paesaggi sfuocati che sfrecciavano vicino a me. Ma poi mi sfuggì dai denti un “che stronzo” che lui captò.

«L'unica stronza qui sei tu», sibilò senza guardarmi. La scena era alquanto comica: parlavamo a bassa voce per non essere sentiti ed eravamo girati una a destra e l'altro a sinistra. Sembrava addirittura che non ci stessimo facendo guerra. In realtà, l'avevamo dichiarata apertamente il giorno prima.

«Vaffanculo, Hitch».

«Molto matura».

«Sarai maturo tu, che fingi che io non ci sia nemmeno».

«Parla la ragazza che non dice al suo ragazzo che parla con me perché ha paura. Senti, per coerenza e non per altro, smettila di fare la vittima. Ti ho già detto che non me ne frega».

«Fantastico. Problema risolto», tentai di zittirlo. E per un po' funzionò.

«No che non è risolto, mocciosa!», sbottò all'improvviso girandosi a guardarmi. Frank lo sentì e fece una faccia strana, ma poi tornò alla sua conversazione con Jenna. Adam era furioso.

«Mocciosa? Mocciosa?!». Tentai di non gridare e mantenere la calma. Bell'impresa.

«Già. Mocciosa. Come fai a dire di aver risolto il problema quando sai benissimo che questa è la cazzata più grande che potessi mai sparare?». Mi fissava esasperato, io persi le staffe.

«Senti un po', cocco, hai detto tu che non te ne frega dei miei problemi. Perciò, stanne fuori. E se ti dico che non ho problemi, allora fidati e fatti i cazzi tuoi! Tu non sei nessuno per me! E adesso smettila di farmi sentire in colpa per qualcosa che non ho fatto», sibilai senza alzare la voce.

Strinse i denti e ingoiò i litri di bile che gli avevo fatto salire.

«Tu non glielo hai detto, vero?».

«Cosa? Ma ti senti?! Parli come se avessi commesso un crimine e tu volessi che io lo confessassi. Smettila. Non ho fatto niente. Non ho detto niente», mi tradii alla fine.

«Come vuoi. Non mi riguarda», concluse furioso contraendo le mascelle.

«Lo so che non ti riguarda. Continui a ripeterlo e poi ti immischi sempre».

«Hayley. Smettila. Per la tua incolumità, smettila». Iniziava a farmi davvero paura. Quella frase, poi... Che bisogno c'era di scaldarsi così tanto?

«Se mi dicessi cosa dovrei smettere di fare, magari potrei anche accontentarti».

Sbuffò dal naso e digrignò i denti.

«Non nominare mai più il tuo ragazzo quando parli con me, okay? Non fare la mocciosa. Se eviti quello, possiamo anche tentare di conversare civilmente. Ma non di te». Mi squadrò. «Tanto meno di lui».

Restai sbigottita. Non volevo credermi egocentrica, ma sembrava che fosse geloso di Jess. Il che non aveva il più assoluto senso, secondo la mia logica. Mi ricordai di chiudere la bocca solo dopo qualche minuto. Dovevo avere qualche problema nel comprendere le situazioni, perché continuavo a fraintendere.

Quando arrivammo al ristorante, ero completamente assente con la testa. Jenna sorrideva ed era euforica e anche Frank sembrava allegro e spensierato. Io e Adam avevamo tutt'altre facce.

Il tavolo che avevamo riservato era super lussuoso, perciò vi risparmio i dettagli. Mi sedetti di fronte a Jenna e, porca vacca, alla mia sinistra Adam si sistemò trascinandosi. Vidi chiaramente Frank rimproverarlo con gli occhi, seduto di fronte a lui.

Ascoltai senza interesse i discorsi che iniziavano sempre e solo gli adulti, mentre con la mente facevo l'elenco di tutti quei luoghi in cui avrei preferito trovarmi.

Beh, credevo che ce ne fossero di più.

Lasciai la serata trascorrere lentamente, annuendo e sorridendo al momento giusto e risvegliandomi dal coma profondo quando Jenna mi dava i calci sotto il tavolo. Adam, invece, non si degnava nemmeno di fingere. Beato lui.

Dopo cena mi vidi costretta a rifiutare categoricamente l'invito di Frank e Jenna ad andare a passeggio per Rodeo Drive, e Adam si trovò con le spalle al muro: anche lui doveva rifiutare per principio.

Così, in pochi minuti ci liberammo delle guardie del corpo e ci ritrovammo di nuovo soli. Nell'imbarazzo più totale e senza sapere cosa dirci, salimmo sulla limousine che Frank aveva chiamato per noi.

«Vuoi tornare a casa subito?», mi chiese inespressivo Adam.

«Non vedo cos'altro dovrei fare», risposi cinica. E (stranamente) lo feci incazzare.

«Certo. Ovviamente. Conversare con me di cose che non riguardano solo te e il tuo caro amichetto ingellato è estremamente pesante».

«Già! Lo è! Non sai quanta fatica mi sia costata questa serata. E la colpa è tua, perché sei tu che continui a fare il duro e la vittima. Poi cosa fai? Dai la colpa a me. Sai una cosa? Non ci sto, mi hai rotto per davvero», dissi aprendo lo sportello e tentando di scendere dalla limousine; il suo braccio strinse una morsa d'acciaio attorno al mio e mi bloccò.

«Dove vai?», chiese alzando gli occhi al cielo.

«A casa. Da sola. A piedi».

«Mi sembra di averla già sentita una storia simile, ricordi?».

«Vedo che hai una buona memoria. E vedo anche che le cose non sono affatto cambiate: continui a darmi sui nervi. Perciò, se permetti...», dissi strattonando il mio braccio per liberarmi di lui. Ma l'effetto che ottenni fu il contrario. Mi ritrovai molto più vicina a lui di quanto non lo fossi prima. Inoltre, il braccio mi pulsava e mi faceva male. Come se non bastasse, lui non mollava la presa.

«Ho afferrato, grazie, ora potresti farmi tornare il sangue in circolo, per favore? Mi fai male». Non appena dissi la parola “male” fece uno scatto all'indietro e mi lasciò.

«Scusa. Se vuoi andare a casa, ti ci accompagno io». Sospirai e mi arresi. Dovevo sotterrare l'ascia di guerra.

«D'accordo. Come ti pare. Ma devi togliermi una curiosità», feci intimorita dalla sua espressione impenetrabile. «Di cosa... Di cosa dovremmo parlare io e te? Non abbiamo nulla in comune», lo sfidai.

«Abbiamo molte più cose in comune di quanto tu possa credere. Solo che tu non me le chiedi perché hai paura. Come al solito».

«Io non ho paura», piagnucolai.

«Va bene. Allora chiedimi tutto quello che vuoi, ti risponderò senza troppi giri di parole».

Deglutii e ci pensai su. Ce n'erano di cose che avrei voluto sapere su di lui... Era la giusta occasione per saperne di più.

«Facciamo così: domande e risposte concise, okay?». Annuì e si voltò a guardarmi serio.

Risi della domanda che mi venne in mente per prima. «Sei mai stato arrestato?».

Sgranò gli occhi ma non si stupì più di tanto. «Sì. Una notte. Frank ha pagato la cauzione e mi ha fatto uscire». Gli occhi mi uscirono dalle orbite.

Non mi aspettavo mica un sì! Io glielo avevo chiesto perché, andiamo, tutti i rapper di solito hanno condotte un po' stravaganti, ma non pensavo di certo che anche lui avesse fatto qualcosa di simile.

«Scherzi?», feci a bocca aperta.

«No. Tu me l'hai chiesto, io ti ho risposto».

«Ma... Ma cosa hai fatto?».

«Un po' di risse e qualche giro poco raccomandabile, tutto qui». Corrugai la fronte e lui capì che volevo saperne di più. «Uno spaccio finito male, con la polizia eccetera».

«Spaccio?», ribadii con la mascella per terra.

«Sei così innocentina, Hayley. Cosa ti aspettavi, il modello perfetto idolo delle teen ager? Non sono mica Zac Efron».

«Tu spacciavi?». Non me lo aspettavo proprio. «E quando?».

«Non spacciavo, Hayley. Avevo sedici anni e volevo provare. Avevo... la tua età, giusto?».

Annuii tentando di nascondere la mia opinione.

«Ne sei uscito da solo?».

Inspirò e fissò il finestrino dietro di me per un istante prima di rispondermi. «Sì».

«Perché?», feci come se provassi pietà. Cosa aveva potuto spingere un sedicenne – di Detroit – a mollare la droga una volta provata? Era senza dubbio parecchio difficile.

«Mio fratello è morto di overdose l'anno dopo, e io non volevo fare la sua stessa fine».

Le sue parole mi trafissero il cervello. Per un attimo pensai a me stessa nei suoi panni e mi venne la pelle d'oca. Se ne accorse.

«Gesù, non... io non...», dissi in imbarazzo e faticando per trovare le parole giuste.

«Hayley, ti prego. Non avere pietà come tutti gli altri. Adesso non trattarmi come se fossi un portatore di handicap, altrimenti non ti dico più niente. Continua pure a fare la stronzetta, a me sta bene così. Anzi, preferisco così».

«Dammi almeno due secondi per digerire la notizia», dissi a bassa voce.

«Come ti pare. Allora mentre tu digerisci questa notizia, io ti dico qualcosa dei miei genitori».

«No, no, aspetta. Qualcosa mi dice che dovrei digerire bene anche loro».

«Quel qualcosa ti dice bene».

Deglutii e lo fissai. Non potevo evitare di provare pietà e pena.

«Come... fai?», chiesi vincendo il premio per la banalità.

Si strinse nelle spalle ed evase con lo sguardo. «Dopo un certo numero di fallimenti, sono due i casi: o ti rassegni e vai avanti, o tocchi il fondo e risali imparando dai tuoi errori».

«E tu quali dei due casi hai scelto?».

«Non ho scelto. È andata così. Ho toccato il fondo e sono risalito. E non commetto più gli stessi errori», disse con voce così bassa e profonda da sembrarmi quella della morte.

«Tu... Tu sei sicuro di questo?», gli chiesi seria, un po' spaventata dal suo passato che l'aveva inghiottito più e più volte, a quanto pareva.

«Certo. Sono uno che non torna indietro, se non per casi estremamente eccezionali. Hayley, non ti voglio spaventare con il mio passato, questo lo sai, vero?».

«Certo che lo so, è solo che non riesco a capacitarmene. Come è possibile cambiare così tanto?», chiesi più a me stessa che a lui.

«Basta prendere delle belle batoste, e il lupo non solo perde il pelo, ma anche tutti i vizi che ha. Quasi quasi diventa un agnellino», fece sdrammatizzando.

«E...». Indugiavo un po' su quella domanda che mi premeva sulla lingua e che il cervello mi bloccava. «I tuoi genitori?», chiesi infine.

«Mio padre ha abbandonato mia madre subito dopo averla messa incinta, lei si è suicidata dopo qualche mese dalla morte di mio fratello. Era depressa».

Mi sentii mancare. Non era possibile che mi stesse dicendo la sua vita con tale freddezza e indifferenza. Era disumano, era... incredibile che potesse mantenere la calma così perfettamente.

«Santo cielo...», sussurrai mentre mi appoggiavo allo schienale di pelle fredda come il suo sguardo inquisitore. Ero incredibilmente esausta.

Fu in quel momento che mi accorsi che la limousine si era fermata: eravamo a casa, ma nessuno dei due si schiodava da lì. Non volevo più tornare, sentivo il bisogno di fare, di dire qualcosa per fargli capire cosa provassi io. Cosa avrei provato io al posto suo se avessi avuto la sfortuna e la devastazione come angeli custodi.

All'improvviso, tutte le frasi che aveva detto in precedenza, ogni singola parola, tutto assunse una sfumatura diversa, triste e infinitamente ingiusta.

E io mi sentii così stupida, così insulsa, così viziata e superficiale da voler sparire per potermi prendere a calci da sola. Per poter sbattere la testa da qualche parte.

«Hayley, stai tranquilla», mi rassicurò lui. «È tutta acqua passata».

«No, Adam, no. Questo è ciò che ti ha fatto diventare ciò che sei, e tu lo hai detto a me. Perché? Cosa... cosa volevi farmi capire con questo?».

«Quanto abbiamo in comune. Ecco cosa volevo farti capire. Io lo so che tu, rispetto a tutte le altre ragazze di Beverly Hills, hai qualcosa dentro che ti logora tanto quanto succede a me». Distolse lo sguardo, come se stesse omettendo una parte di verità.

Lo guardai e vidi in lui ciò che non avrei dovuto vedere, se solo fossi stata dotata di un minimo di buon senso.

«Adam», tentai di interromperlo.

«Ho capito che tu in fondo agisci come me, lo so che vivi diversamente. Per questo quando parli come una mocciosa viziata mi fai arrabbiare».

«Adam», ci riprovai.

«Perché non era giusto che tu mi odiassi senza sapere; ma la verità era che tu sapevi di non voler sapere niente di me, e ti comportavi come una qualsiasi. Ma tu non sei una qualsiasi. Tu, Hayley, tu...».

Non sapevo più come fermarlo. Doveva zittirsi, era arrivato il momento di liberarsi di quello stramaledetto peso. Ma me lo stava impedendo con il suo fiume di parole in piena. Ed ero stanca, così stanca... Letteralmente e metaforicamente.

«Adam».

«Hai un potenziale che gli altri non hanno. Hayley, tu...».

«Adam, sono nata dallo stupro di mia madre».

E, all'improvviso, tutto quel peso che mi premeva sul petto da sedici anni si dissolse, svanì per iniziare a diventare un'altra oppressione, meno importante e più sostenibile. Quasi piacevole.

 

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Capitolo 10
*** Le bugie, anche quelle piccole, hanno le gambe microscopiche ***


«Sei distratta».

«Questo non è vero».

«Allora cos'hai?».

«Niente, Jess. Te l'ho detto e te le ripeto. Sono solo un po' stanca. Ieri abbiamo fatto tardi, tutto qui. Mi cala la palpebra».

«Perciò sei io faccio così», e mi accarezzò il palmo della mano che stringeva con la sua, «ti concilio il sonno? Ti addormenteresti qui tra le mie braccia?», chiese baciandomi la testa. L'atmosfera che c'era era così piacevole che presto sarei sprofondata in un coma profondo. Sdraiata su di lui, in camera sua, avevamo deciso che avremmo passato la domenica rilassandoci completamente.

«Probabile. Sono davvero comoda così come sono», feci stringendomi contro il suo petto ancora di più e socchiudendo gli occhi.

«Sei vecchia dentro. Ti basta rientrare un po' più tardi del solito e guarda come crolli», mi prese in giro. Risi insieme a lui, ma in realtà Jess non poteva sapere che ero in quello stato comatoso perché avevo passato non una, ma ben due nottate in bianco. Una ripensando al perché mi sentissi così inappropriata a stare con Jess, e l'altra a scrivere sul mio quaderno le confessioni della sera precedente. Risultato: mummia ambulante.

«Lo sai, non dovresti dormire in camera mia. È inopportuno, non credi? In camera mia dovremmo fare altro». Soffocai una risata contro la sua maglietta.

«D'accordo, Jess», feci allontanandomi da lui e sdraiandomi a pancia in su. «Sto aspettando. Fai di me quello che vuoi», lo stuzzicai.

«Attenta, ragazza dai capelli rossi. Potrei anche accettare l'invito». Si sporse su di me e mi baciò piano. Lasciai che mi abbracciasse e mi riportasse vicino a lui: ero completamente in balia delle forze esterne.

«Jess, scusami. Oggi sono di una noia mortale».

«Non importa, Hayley. A me basta guardarti». Mi sentii arrossire, nonostante avessi gli occhi chiusi. Per tutta risposta, Jess rise di gusto. Gli buttai le braccia al collo e mi lamentai della sua eccessiva dolcezza.

Sentii la sua mano prendere il mio braccio, proprio in corrispondenza del livido che mi era rimasto dalla sera precedente, e non potei soffocare una smorfia di dolore. Più lentamente, posò le dita sul contorno violaceo e assunse un'espressione preoccupata.

«E questo?», chiese aggrottando la fronte.

«Oh... Quello», tentai di prendere tempo. «Boh. Non ti aspetterai mica che mi ricordi come mi sono fatta ogni singolo livido... Avrò preso una botta da qualche parte». Mi sembrai convincente.

«Ma... è stranissimo come livido. Guarda...», e fece coincidere le ombre violacee con le sagome delle sue dita, «... Sembra la stretta di una mano». Risi per cercare di sviarlo un po'.

«Che fantasia, Jess. Però hai ragione, sembra una mano». Richiusi gli occhi nella speranza che sorvolasse e mi vedesse abbastanza sincera.

Ma quante bugie che gli stavo raccontando. Più che bugie, erano omissioni di particolari o piccole distorsioni della realtà. Comunque, di sicuro non ero sincera. Mi sentivo in colpa, perché c'era una persona che sapeva la verità, senza scorciatoie o lacune.

Un nome mi balzò subito in mente. Non era quello di Jess.

 

Il giorno dopo quasi mi addormentai in classe. Sembrava che la notte mi facesse i dispetti: fino a che il sole splendeva, il sonno mi chiudeva di forza le palpebre. Al buio, invece, tutta la stanchezza svaniva. La mia mente era lucidissima. Era snervante.

Come se non fosse abbastanza, allo stato incosciente dovuto al sonno si aggiunse anche un mal di stomaco che quella mattina mi stava sfiancando. Dovevo avere davvero una brutta cera, così appoggiai la testa sul banco durante l'ora di inglese. La sensazione di fresco sulla guancia mi dava un po' di sollievo, ma nel mio addome era in corso la terza guerra mondiale. Lara tentava di farmi alzare, ma era davvero un'impresa. Ad un certo punto fui costretta a chiedere alla professoressa il permesso di andare in bagno, e lei – non appena mi guardò bene – acconsentì e mi consigliò anche una capatina in infermeria.

Mi trascinai verso il bagno delle ragazze, ma nel bel mezzo del corridoio trovai Jim appoggiato agli armadietti, che aspettava che il tempo passasse. L'importante, per lui, era non essere in classe. L'importante, per me, era arrivare al più presto in un posto in cui poter dare libero sfogo al mio stomaco in difficoltà. Con ogni probabilità, Jim avrebbe ritardato il raggiungimento del mio obiettivo.

Pregai che non ci impiegasse troppo.

«Hayley, ciao», mi salutò ammiccante. Sarebbe anche stato attraente se non avesse avuto quel tono.

«Jim», dissi passandogli davanti con una mano sullo stomaco, sperando che mi lasciasse andare avanti indisturbata. Non fu così: allungò una mano verso il muro e mi bloccò.

«Quanta fretta... Non stai bene?», mi chiese avvicinandosi fin troppo.

«Non rischierei, se fossi in te. La distanza è ravvicinata, e il mio stomaco è al limite».

«Allora facciamo così: ti lascio la via libera se mi prometti un appuntamento. Chi se ne importa di quel Jess», disse facendomi l'occhiolino. Sbuffai e provai a passare da un'altra parte, girandogli intorno. Ma, anche stavolta, fu più veloce di me e mi fermò di nuovo.

«Allora, lo facciamo questo accordo?».

Stavo giusto escogitando un piano B, quando una voce familiare irruppe nel silenzio.

«Hey, che succede?», tuonò la voce di Adam. Ringraziai il cielo. Jim fece una faccia stupita e infastidita.

«Vedo che non ci sono solo io in coda, eh? La fila dopo Jess è lunga. Anche Morrissey, che novità», mi disse a bassa voce Jim. Intanto Adam si avvicinava a grandi passi.

«Jim, lasciami passare», implorai un po' troppo strafottente. Si fece da parte con un sorrisetto da bastardo.

«Hayley, ricordati che ho una buona memoria. E sono parecchio cocciuto», concluse sparendo. Non appena fu abbastanza lontano, corsi verso il bagno.

«Hayley!», chiamava Adam da dietro di me.

Troppo tardi. Feci appena in tempo a raggiungere un gabinetto per guardarlo da tutta un'altra prospettiva, non so se mi spiego. Mi chiesi cosa mai stessi rigettando, dato che non avevo mangiato niente.

«Hayley...», ricomparve la voce di Adam. Lo sentivo ovattato. Non appena riuscii a parlare, lo implorai di andarsene.

«Perché sei venuta a scuola se stai male?», mi chiese in tono di rimprovero.

«E tu perché sei nel bagno delle ragazze, Adam?». Appoggiai la guancia sulle mattonelle ghiacciate del muro. Fu un sollievo immediato.

«Cosa hai mangiato stamattina? Uova avariate?». Scossi la testa e feci un gesto che indicava il nulla mentre mi riavvicinavo alla tavoletta per lasciare altri succhi gastrici. Sentii le sue mani tenermi prima le spalle e poi la testa, nonostante tentassi di scacciarlo con gesti indecifrabili. Che spettacolo degno di manifesti: Hayley che vomita e un rapper famoso che le tiene la fronte. Che classe, vero?

Quando fui esausta, mi lasciai cadere all'indietro, incontrando le gambe di Adam a farmi da parete.

«Mi porteresti in infermeria?», chiesi ad occhi chiusi per paura di vedere la sua faccia. Non rispose, ma sentii le ginocchia alzarsi da terra, e in un batter d'occhio mi stavo muovendo per i corridoi verso l'infermeria al suo passo, con un suo braccio intorno alla vita e le mie gambe che si trascinavano tentando di stargli dietro. Quando comprese che non ce la facevo, prese uno slancio e mi caricò in spalla.

«No, mettimi giù, Adam... Per... favore... mettimi...», dissi senza concludere la frase con successo.

«Così facciamo prima. Tranquilla. L'importante è che non mi vomiti sulla spalla».

«Farò... del mio... meglio», promisi con la voce traballante. Sentii una porta aprirsi e poi la voce della signora che si occupava di tutte le pappamolli della scuola, una delle quali ero io.

«Che succede, figliolo? Non sta bene?». Avrei voluto risponderle per le rime (quale infermiera chiede a una moribonda che ha appena vomitato l'anima se sta bene?!), ma non volli disturbare il mio già precario equilibrio interno.

«Ha vomitato un paio di volte in bagno. Credo abbia la febbre», rispose immediato Adam. Febbre? Ma no, per favore. Non ero tizia da febbre.

Lentamente, percepii una brandina sotto la mia schiena e mi rilassai un po'. Sembrava andare decisamente meglio.

«Bene, figliolo. Puoi tornare in classe». Ero curiosa della risposta di Adam.

«No, no. Il professore ha esplicitamente richiesto che qualcuno restasse con lei».

Che bugiardo, ragazzi! Che bugiardo! E che credibilità...

«In tal caso, accomodati pure». L'infermiera prese un termometro e me lo porse, poi iniziò a farmi le solite domande.

«Cosa hai mangiato a colazione?», mi chiese premurosa.

«Niente. E non credo che qualcosa possa avermi fatto male, è da un po' che non mangio esperimenti», dissi sentendomi un po' meglio.

«E da quando hai questa nausea?».

«Direi da stamattina. Deve essere qualcosa di passeggero, magari un virus».

«Potrebbe essere. E, dimmi, ti capita spesso di stare poco bene come stamattina?».

«Non spesso. A volte sì, ma raramente».

«Giramenti di testa?», chiese riprendendo il termometro e annunciando qualche linea di febbre. Sbuffai.

«A volte. Come a tutti, insomma», risposi sentendomi i riflettori addosso.

«E...», indugiò un attimo prima di rivolgermi un'altra domanda. Guardò male Adam e poi mi guardò piena di premura. «Quando hai avuto l'ultimo ciclo?».

Scoppiai a ridere. Così tanto che mi scesero le lacrime. Riuscii a coinvolgere anche Adam (che fino a quel momento aveva avuto una faccia veramente ansiosa) e la signora nella mia risata improvvisa e incontrollata.

«Mi creda, è davvero impossibile che la nausea sia dovuta a quello che pensa lei. È un virus, è un virus...», conclusi ridendo più di prima.

«Beh, figliola, non saresti né la prima né l'ultima. Capita un po' troppo spesso, in questa scuola». Subito mi venne in mente un nome: Jim. Chi altri poteva seminare falsi allarmi meglio di lui?

«Già, già», concordai ancora sorridendo. In quel preciso istante suonò la campanella della ricreazione. Mi sdraiai su un fianco e guardai Adam, che parlava con la spiritosissima signora. Capii solo che sarei dovuta restare lì per qualche minuto, fino a che non avrei ripreso colore.

«Lo trovi divertente, vero? Hai appena espulso ogni succo gastrico e trovi la forza di ridere?», mi rimproverò sarcastico Adam. La tensione gli aveva un po' segnato il viso.

«Ti avevo detto di non guardare», gli ricordai.

«Hey, ne ho viste di peggiori. E non ti dico i particolari o finiresti per vomitare di nuovo».

«Ringrazio e passo».

«Già, fai bene. Comunque», riprese tornando serio, «la prossima volta che quell'imbecille di Jim ti si avvicina, non fare troppo la gradassa e cerca di evitarlo. Sono qui da poco, ma ho già capito che con lui c'è da stare attenti».

Mi strinsi nelle spalle e lasciai correre.

Subito dopo, la porta si riaprì e stavolta sulla soglia spuntarono i gemelli, Lara e Jess. Mi aprii in un sorriso e li salutai, contenta che fossero subito passati a trovarmi. Adam non fece una piega.

«Allora? Ti vedo un po' più rosa di prima», osservò Lara.

«Probabilmente è perché ho già... come dire, “espulso” il male».

«Bleah...», rispose Jamie. «Hayley, in sedici anni non ti ho mai vista vomitare, ma non ci tengo». Anche Travis, con la sua faccia schifata, sembrava concordare con il fratello.

Jess entrò per ultimo, stava per dirmi qualcosa con un sorriso stampato in faccia. Peccato che, non appena scorse Adam seduto sulla poltroncina, cambiò espressione. E insieme a lui, anche tutti gli altri.

«E tu che ci fai qui?», lo accusò Jess. Adam lo squadrò e fece una faccia cinica e sprezzante, senza rispondergli.

«Mi ha accompagnata qui, visto che non mi reggevo in piedi», spiegai imbarazzata e attenta alle parole da usare.

«Avresti potuto chiamare me, no?», rispose Jess fulminando Adam, il quale non si azzardava ad abbassare lo sguardo. Sbuffai e attirai l'attenzione di tutti i presenti.

«Andiamo, Jess, come diavolo avrei potuto chiamarti? Ho incontrato Adam per caso, non fare l'idiota», lo rimproverai. Lui sotterrò subito l'ascia da guerra.

«Hai ragione. Scusa», disse a me. Sinceramente, credevo che le scuse le dovesse a qualcun altro, non a me. «Adesso come stai?».

«Bene», mentii. Mi faceva male la testa, ma lo stomaco era a posto.

«Ha qualche linea di febbre ma il peggio è passato», si intromise Adam con tono distaccato. Vidi Lara lanciarsi delle occhiate attente con i gemelli, come se fossero in guardia. Erano tutti ridicoli. Quante sciocchezze. Jess riassunse la faccia infastidita di qualche istante prima, ma non gli rispose. Lo ignorò semplicemente.

In quel momento capii che la situazione stava iniziando a sfuggirmi di mano.

«Okay, perciò credi che tornerai in classe presto?», provò a dire Lara per riportare un po' di civile tranquillità. Stavo soffocando.

«Certo», risposi sedendomi sul lettino con calma. Appoggiai il braccio per non alzarmi troppo in fretta e vidi Adam corrugare la fronte. Fissava il braccio.

Merda, no. Pregavo che non stesse per dire ciò che gli leggevo in faccia.

Si alzò dando una spallata a Jess, che non si mosse di un solo millimetro. Tirai un sospiro di sollievo.

Quando fu sulla porta si rigirò verso di me e mi chiese di fargli sapere se avessi avuto bisogno di qualcosa. Quella frase fece scattare un'espressione furiosa sulla faccia di Jess, che restò in silenzio voltato verso di me. Allo stesso tempo, fui felice che avesse visto il livido e avesse optato per il silenzio.

Lara fu l'unica a salutarlo e io insieme a lei.

La porta stava giusto per chiudersi, quando all'improvviso si riaprì. Adam, affacciato sulla soglia, mi guardò indifferente.

«Dimenticavo. Scusa per... quello», disse facendo un cenno verso il braccio. E poi sparì prima che Jess gli saltasse addosso.

In realtà, la faccia di Jess tutto sembrava tranne che arrabbiata. Era teso e nervoso, mi guardava senza dire niente. E io, a mia volta, non avevo la minima idea di cosa inventarmi per giustificarmi. Aveva appena scoperto solo una delle mie piccole bugie, forse la più insignificante, e mi sentivo completamente dalla parte del torto.

Scesi dal lettino. Jamie mi aiutò a restare in piedi.

«Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa», disse a bassa voce Jess guardandomi torvo. «Anche se so che te lo ha già detto Hitch», continuò, «spero che sceglierai di chiamare me al posto suo. Ma non ne sono sicuro, o mi sbaglio?». E uscì sbattendo la porta e facendo sobbalzare tutti.

 

Non appena suonò la campanella, schizzai fuori dall'aula, sapendo di dover correre per trovare Jess ancora nel parcheggio. Infatti, lo trovai proprio qualche metro davanti a me.

«Jess!», iniziai a chiamare. Non si girava. «Jess!», gridai più forte. Mi ignorò. Accelerai il passo e gli misi una mano sulla spalla. «Jess», implorai, «aspetta un attimo».

Finalmente mi guardò, anche se probabilmente avrei preferito che non lo facesse. Non in quel modo.

«Cosa c'è?», fece acido.

«Mi dispiace, okay? Ma cosa avrei dovuto dirti? Che in realtà sapevo dove mi fossi procurata quello stupidissimo livido?».

«Già, questo è esattamente quello che avresti dovuto fare!», sbottò spaventandomi.

«Invece no! E sai perché? Perché saresti impazzito proprio come stai facendo adesso».

«Non sto impazzendo, Hayley, mi sto incazzando. Con te, okay? Con te. Perché mi sembra che tu mi stia prendendo per il culo, e credo di averti già detto che con me questi giochetti non funzionano. Correggimi se sbaglio», disse riprendendo un tono più basso ed esasperato.

«Davvero credi che ti stia... Tu davvero credi che io stia facendo il doppio gioco?», ripetei incredula. Mi sembrava di aver capito proprio quel concetto.

Non rispose subito. Si fermò e mi guardò più rilassato. «Tu dimmi che non è così, e io ti credo».

«Risposta sbagliata, Jess», dissi furiosa prendendo lo slancio necessario ad andarmene. «Avresti dovuto dirmi che non credi nemmeno lontanamente una cosa simile. Se hai bisogno di sentirtelo dire da me, allora neanche tu hai capito come funziona veramente con me». Lo fissai incredula e me ne andai, lasciandolo impietrito.

 

A casa, quel pomeriggio, ero sola. Grazie al cielo.

Mi chiusi in camera mia e accesi lo stereo a tutto volume. Poi, strano ma vero, mi stufai e spensi tutto: i Paramore potevano risolvere solo in parte i miei problemi. Mi sedetti al pianoforte e, sperando di riuscire a fare qualcosa di buono, iniziai a premere sui tasti bianchi e neri, prima con calma, poi con più forza. Finché non mi accorsi di avere le guance bagnate dalle lacrime. Allora mi alzai di scatto e iniziai a camminare avanti e indietro.

Ero nervosa e isterica, perché avevo capito qual era la cosa che più di tutte mi dava fastidio. Non era affatto il litigio con Jess, ma la considerazione che lui aveva fatto su di me. Non era completamente falsa. Mi irritava vedere con i miei occhi che stavo diventando una persona come tutte le altre.

Pensai dapprima di arrabbiarmi con Adam, che mi aveva fatta uscire allo scoperto di proposito (potevo metterci la mano sul fuoco). Eppure non era colpa sua se stavo diventando una bugiarda di professione, tormentata dai sensi di colpa.

Mi sdraiai sul letto e, grazie a Dio, mi addormentai. Finalmente riuscii a chiudere occhio.

Peccato che chiudere le palpebre non bastasse a confinare i miei stupidi pensieri.

Così mi svegliai di soprassalto, un po' sudata. Guardai l'orologio ed era sera inoltrata. Sentivo la televisione del soggiorno, probabilmente Jenna era a casa e non mi aveva svegliata. Mi sentivo più riposata, però ero anche un po' spossata.

Diedi un'occhiata al cellulare sul comodino. Nessuna chiamata senza risposta.

Che idiota: mi aspettavo anche che richiamasse? Io ero dalla parte del torto, Jess non era così stupido da credere al mio tentativo di ribaltare i ruoli. Io avevo sbagliato e lo sapevo, così come lui sapeva che aveva ragione.

Scesi le scale con una faccia che con ogni probabilità doveva sembrare quella di una drogata. Jenna mi sentì subito. Non era sola.

«Jamie, che ci fai qui?», chiesi con voce roca mentre mi avvicinavo.

«Tesoro, Jamie mi ha detto che oggi sei stata poco bene a scuola. Per questo non ti ho svegliata. Stai meglio?», fece preoccupata Jenna. Le sorrisi e lei si tranquillizzò. «Vuoi che ti prepari qualcosa? Hai saltato la cena».

«No, no. È meglio tenere lo stomaco a riposo».

«Come vuoi. Se cambi idea, mi trovi di là», disse Jenna mentre spariva. Mi sedetti sul divano accanto a Jamie. Inspirai a fondo e sbuffai fissando il vuoto di fronte a me.

«Hayley, cosa hai combinato?», fece accusandomi per finta.

«Jamie, sto impazzendo. Giuro», confessai affondando la testa sulla sua spalla. Un abbraccio amichevole era tutto ciò di cui avevo bisogno.

«Non puoi impazzire, Hay. Tu sei già pazza di tuo», rise di me.

«Che simpaticone», dissi facendogli il verso.

«Allora. Come mai Jess ha perso le staffe?». Alzai il braccio con la prova del crimine.

«Questo insulso livido me lo sono fatta sabato sera con Adam. Ti ho già raccontato del sabato sera fuori con Jenna e lo zio di Adam?».

«Tu no, ma Jess mi ha detto qualcosa».

«Okay. Io giuro che non ci volevo andare, ma Jenna mi ha comprata... Così, alla fine continuavo a litigare con Adam, e volevo tornarmene a casa da sola, ma lui non approvava. Mi ha fermata con un po' troppa forza perché non voleva che tornassi da sola e a piedi a casa. Tutto qui».

«E perché non hai detto queste cose a Jess?», fece con ovvietà. Già.

«Perché con lui non si può parlare di Adam, così come con Adam non si può parlare di Jess. Sono tutti tabù, e io mi sto stufando».

«Hayley, posso dirti cosa penso?», disse stringendo l'abbraccio Jamie.

Annuii.

«Io ti vedo più te stessa quando parli con gli amici. Mi spiego meglio: secondo me, prima che ti mettessi con Jess tu avevi con lui un rapporto migliore. O mi sbaglio?».

Scossi la testa.

«E poi adesso vedo che tu e questo Adam state diventando amici. Il fatto che Jess voglia impedirtelo – perché a me sembra così – contribuisce ad allontanarti da lui per avvicinarti al nuovo arrivato. Mi sbaglio?».

Feci cenno di no.

«E aggiungi anche il fatto che adesso ti senti sotto pressione, giusto?».

Annuii.

«Allora direi che qualche imprecisione te la puoi anche permettere, no?».

Mi strinsi nelle spalle.

«Jamie, mi sembra di essere più sincera con te o con Adam che con Jess. Non è giusto, lo so. Più voglio rimediare, più sbaglio. Non... credo che io mi debba sentire così».

«Lo so, Hay, lo so. Posso solo consigliarti di dire ciò che mi hai appena detto a Jess».

Mi sfuggì un lamento e Jamie rise.

«Sai bene che non posso farlo io al posto tuo», mi rammentò.

«Neanche se te lo chiedo per favore?», grugnii ridendo.

«No, Hay. Non voglio fare il messaggero. Anche perché Jess sta sfruttando me e Chris come confessionali».

«Scusa. Appena vedo Chris lo dirò anche a lui», dissi sentendomi un po' in colpa.

«Sai, continua a dire che non sopporta l'idea di Adam che ti mette le mani addosso».

«Oh, per favore!», esclamai quasi scandalizzata. «Per favore!».

«Lo so, credo anch'io che abbia detto una scemenza colossale, ma sai com'è... È innamorato, non ci puoi fare niente», concluse ridendo. «Se fossi in te, starei attenta a ben altre persone», fece serio. Capii al volo a chi si stava riferendo.

«Jim è solo un deficiente», affermai.

«Tu fammi un favore: stai attenta quando c'è lui nei paraggi. Girano voci poco raccomandabili». Scattai sulla difensiva.

«In che senso?».

«Beh, ti ricordi della rissa, no?». Annuii decisa. Come dimenticare quella giornata...

«Ecco, Hayley... Jim aveva detto che in un modo o nell'altro avrebbe... avrebbe...», fece imbarazzato.

«Lo so cosa voleva fare», lo aiutai.

«Cosa vuole fare, Hayley. Non demorde».

«Ma io non sono mica stupida, dovresti saperlo».

«Sì, ma... Hay, il suo giro è più pericoloso di quel che tu possa immaginare», mi avvisò scuro in volto. «Stai attenta, ti prego». Lo vidi così in pensiero che non potei fare altro che rassicurarlo il più possibile.

 

Prima di andare a letto feci una doccia rigenerante. Durò più del solito, perché continuavo a imbambolarmi sotto l'acqua che scorreva. Mi conciliava il pensiero profondo.

In particolare, non riuscivo a levarmi dalla testa le cose che avevo appreso sul conto di Adam. Mi sentivo male per lui. Forse era per questo che non avevo più l'impulso di ucciderlo. Seriamente, non volevo più.

Dovevo fare qualcosa. In generale, non solo riguardo Jess o Adam: dovevo fare qualcosa.

Uscii dalla doccia e presi in mano il cellulare. Composi il numero di Jess.

«Chi non muore si risente», mi salutò con tono freddo.

«Sembra che tu mi preferisca morta, o mi sbaglio?», dissi subito sulla difensiva.

«Mio malgrado mi vedo costretto ad ammettere che ti sbagli. Che c'è?».

«Senti, mi dispiace. Ho capito dove ho sbagliato, ma voglio che tu ammetta che anche tu hai sbagliato. Non importa se in minima parte, ma devi ammetterlo anche tu».

«Se è riguardo alla storia del doppio gioco, okay. Mi scuso. Però tu ammetti che hai tentato di fare la furbetta per far ricadere tutta la colpa su di me».

«Okay, potrebbe anche essere vero. Lo ammetto. Ma non è per il doppio gioco che ti devi scusare», dissi confusa dalle mie stesse parole.

«Ah, no?», rispose colto in contro piede.

«No. Dovresti delle scuse ad Adam per come lo hai trattato». Rise nervoso.

«Credi davvero che lo farò? Illusa. Lui ti ha chiesto scusa per averti lasciato un livido addosso?», chiese retorico.

«In realtà, sì, Jess. Mi ha chiesto scusa e tu eri presente quando l'ha fatto, ma eri così preso a concentrarti sul fatto che ti avessi mentito che lo hai tralasciato. Non è così?».

«Già. Ecco cos'era che mi aveva fatto incazzare bene, Hayley. Grazie per avermelo ricordato. Mi hai detto una bugia, è vero». Sbuffai, frustrata dalla piega che la conversazione stava prendendo.

«Sai una cosa, Jess? Non c'è da stupirsi se preferisco andare a parlare con Adam piuttosto che con te!», dissi riattaccando il telefono.

Non era così che avevo programmato le mie scuse. Ma quel testardo mi aveva fatto saltare i nervi, non ero solo io a essere nel torto. Adesso era lui a dover richiamare, non io.

 

«Avete litigato di nuovo?», mi chiese Lara per l'ennesima volta mentre prendevo i libri dall'armadietto.

«Sì, d'accordo? Non so più cosa dirti, Lara. È così e basta». Una busta rosa cadde per terra. Cercai di ricordare cosa potesse essere mentre la raccoglievo. Di sicuro non era mia, io non avevo buste di quel colore così vivace. Io non avevo buste da lettera e basta. Eppure, ero certa che fosse caduta dal mio armadietto.

«Perciò se vi incontrate per strada non vi salutate?», continuò imperterrita Lara.

«Ma non lo so!», la zittii scorbutica, concentrandomi su quella busta. La rigirai tra le mani e vidi il mio nome scritto in bella grafia. Di sicuro femminile.

«Lara, facciamo così: rimandiamo il tuo interrogatorio all'ora di pranzo, okay? Adesso devo andare». Dovevo liberarmi di lei per poter aprire quella busta. Non sapevo perché, ma avevo un brutto presentimento, e lei era così presa dalle sue stesse parole che nemmeno si era accorta della busta che tenevo in mano.

Quando fui in classe, senza occhi indiscreti puntati addosso, strappai e aprii l'involucro rosa.

C'era un foglio tutto spiegazzato. Quando misi a fuoco di cosa si trattasse, subito mi guardai le spalle.

Merda. E quelle foto da dove venivano?!

Riguardai bene il foglio, assicurandomi di non avere nessuno dietro di me. Erano tre foto stampate una sotto l'altra. Una ritraeva me e Adam fuori dal ristorante mentre entravamo nella limousine. La seconda era stata scattata fuori da casa di Adam, probabilmente venerdì, quando avevamo litigato. La terza era la più inquietante: ritraeva Adam che mi riaccompagnava a casa, ed ero sicura che si trattasse della sera della festa a casa di Eva, quando mi aveva riaccompagnata per la prima volta.

Fissai di nuovo tutte e tre le foto, allibita e completamente incredula. Sotto le immagini, una scritta attirò la mia attenzione e mi fece venire la pelle d'oca.

“Cosa ne pensa Jess?”, diceva la grafia ordinata e tondeggiante. Mi ricontrollai le spalle e tornai alle foto. C'era un logo un po' troppo noto che mi fece raggelare il sangue: PerezHilton.com.

Cosa? COSA?!

Che scherzo era quello? Pessimo gusto, pessime foto, pessimo tempismo.

Tutte queste pessime cose mi fecero venire in mente solo una ragazza. Al massimo due, ma entrambe andavano di pari passo. Cercando una, avrei trovato anche l'altra.

A pranzo trovai una scusa per allontanarmi da Lara. Sapevo da chi dovevo andare.

Le trovai al solito posto, con il solito gruppetto di cheerleader pronte a fare le lecchine con la numero uno delle stronze. Solito, appunto.

«Dana. Bree», salutai ostile piazzandomi di fronte a loro. Immediatamente, tutte le presenti si voltarono a fissare chi osasse avvicinarsi alla loro boss senza il permesso della regina. Erano tutte più piccole di me, tranne una o due.

«Hayley Smithson, ciao», rispose la voce irritante di Dana accompagnata dalle risatine senza senso di Bree e compagnia bella.

«Abbiamo qualcosa di cui parlare, immagino», la accusai.

«Potremmo barattare il tutto», propose subito Bree. La fulminai.

«Sono difficile da comprare, Bree», la avvisai minacciosa. In realtà, mi facevo comprare solo da Jenna.

«Hayley, anche nascondere notizie simili è difficile. Ma credo che Jess non sia un ragazzo che passa tutto il giorno su PerezHilton.com, giusto? Direi che non verrebbe a saperlo facilmente, a meno che una di noi non andasse a dirglielo di proposito», spiegò Dana. Sorrisi strafottente.

«Potrebbe anche venire a saperlo da qualcun altro», obiettai.

«Suppongo di no. Poca gente si avvicina a Jess parlando di te. Forse Jim, credo, ma lui a quanto pare preferisce te», fece Bree. L'invidia che provava era palpabile e non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che una ragazza potesse anche solo lontanamente desiderare che un pervertito come Jim la volesse. Faceva ribrezzo solo l'idea.

«Qual è il punto?», chiesi a Dana ignorando Bree.

«Possiamo barattare».

«Io non ho nulla da nascondere, Dana. Non scendo a compromessi con voi», dissi sfidandole. «Non mi abbasso a tanto».

«E dimmi, allora: Jess ha visto quelle foto? Perché, sai, ultimamente si dice in giro che lui e Morrissey non vadano molto d'accordo... Qualcuno parla dell'infermeria, ti dice niente?».

Ero sbigottita. Davvero la gente non aveva niente di meglio da fare se non parlare di me alle mie spalle?

«Altri dicono che tu e lui siate in crisi... e noi tutte speriamo che questa sia la verità», continuò Bree ridendo insieme alle sue seguaci. Alzai gli occhi al cielo. Allora era quello il punto.

«Non ho bisogno dei vostri stupidi giochetti», annunciai iniziando ad andarmene. «Potete dire e fare quello che volete, non me ne frega. Anzi, non me ne fotte proprio», conclusi incazzata.

«E pensare che basterebbe la tua partecipazione alla sfilata di Bree, venerdì prossimo. Ti ricordi, Hayley? La sfilata?», mi stuzzicò Dana giocando con il fuoco.

«Sai una cosa, Dana? Me la annoterò e ci penserò tutti i giorni, poi venerdì concluderò che piuttosto che venire alla vostra stramaledetta sfilata mi butterei giù da un ponte!», sibilai mentre mi allontanavo dalla tana del lupo.

«Hai tempo fino a venerdì!», mi avvisò Bree mentre me ne andavo, «dopodiché le cose potrebbero sfuggirci di bocca!». E giù con altre risate fastidiose come unghie sulla lavagna.

Evitai di pranzare e mi chiusi in bagno, cercando di sbollire un po' di rabbia. Quando uscii, di fretta e di furia, mi schiantai contro Jess.

Perfetto.

«Hey, Hayley», disse facendo un passo indietro per il contraccolpo e tentando di mantenere l'equilibrio.

«Scusa», feci distratta cercando di divincolarmi. Mi bloccò per le spalle e mi scrutò con attenzione. «Cosa c'è?», mi chiese infine come se la sera prima non avessimo litigato.

«Niente, Jess, niente. È meglio se mi lasci andare», lo avvisai.

«Preferisci parlarne con Adam, suppongo», rispose sarcastico ma sincero. Lo spinsi via e, scandalizzata dal suo comportamento infantile, me ne andai. Di nuovo.

Perché la gente stava diventando così stupidamente opprimente e invadente? Perché? Io non avevo mai voluto essere popolare, tanto meno attirare l'odio e le invidie di tutte le merde più pezzenti della scuola.

Uscendo all'aria aperta, scorsi la macchina di Adam. Era seduto al posto di guida e mangiava tranquillo. Destino beffardo.

Non avevo scelta. Sospirai e bussai al suo sportello; abbassò il finestrino e mi guardò da sopra gli occhiali da sole.

«Hai vomitato di nuovo?», fece curioso. Avrei potuto giurarci: se avessi risposto di sì, probabilmente non mi avrebbe permesso di entrare.

«No». Sembravo ancora arrabbiata.

«Allora entra pure». Feci il giro della macchina e mi accomodai sul sedile di fianco al suo.

«Non mi serve niente, non voglio sapere niente e tu non ti azzardare a farmi la ramanzina», dissi parlando da sola. Lui era tornato al suo panino e mi ignorava.

Sospirai di sollievo: finalmente qualcuno a cui non poteva importare di meno di me.

Affondai nel sedile e appoggiai le ginocchia sul cruscotto, prendendomi la testa tra le mani.

«Non ti chiederò cosa è successo, sia ben chiaro», disse Adam distaccato.

«Non sto chiedendo altro. Mi serve solo una persona capace di ignorarmi».

Iniziai a frugare in mezzo ai CD che aveva in macchina. Sgranai gli occhi.

«Ascolti i Muse?», feci incredula. «Non hai proprio la faccia di uno che ascolta i Muse».

«E tu invece hai proprio la faccia di una che ascolta solo i Paramore».

«Non ascolto solo loro. Te l'ho già detto», precisai.

«Lo so, mi ricordo», rispose finendo il panino.

«Senti...», iniziai un po' indecisa. Mi guardò in attesa che continuassi. «Non è che potremmo continuare le domande dell'altra sera? Sai, per sapere qualcosa di te».

«Come vuoi. Però stavolta le domande le faccio io», minacciò serio.

«Cosa? No! Tu sai già tutto, ti basta guardarmi bene per un secondo per scoprire tutto...», mi lamentai.

«Direi che io ti ho già risposto a parecchie domande», ribatté lui. «Alcune anche parecchio personali».

«Io non sono stata da meno».

Mi fissò un po' dispiaciuto, il che mi lasciò sconvolta. Non l'avevo mai visto con un'espressione simile.

«Per questo chiami tua madre per nome, giusto?», concluse con voce piena di pena.

«Adesso sei tu che provi pietà per me. Mi dà fastidio, smettila», dissi a denti stretti guardando fuori dal finestrino.

«Non provo pietà, voglio solo cercare di capire come ti senti quando ci pensi».

«Voglio pensarci il meno possibile e tu me lo stai rendendo impossibile».

«Vuoi cambiare argomento?», chiese di nuovo gelido.

«Sarebbe gradito».

«Okay. Hai visto le foto?».

«Passo», feci schietta e digrignando i denti. «Hai detto che non mi avresti chiesto cosa è successo».

«Non te l'ho chiesto, infatti. Ti ho chiesto se hai visto le foto o no».

«Non le avrei mai viste se non fosse stato per quella specie di ricatto mal riuscito di quelle due stronze!», iniziai a sfogarmi. «Non hanno niente di meglio da fare! Niente! Porca vacca, io le ho sempre evitate. E adesso pur di avere Jess fanno il gioco sporco. Ma non me ne frega! Né di loro, né di Jess. Così impara quel deficiente a fare il bambino. Deve imparare ad ascoltare quando la gente parla, cacchio! Che imparasse una buona volta a scendere dal piedistallo e ascoltare cosa cazzo mi passa per la testa, merda! Merda, merda, merda!», gridai mentre me la prendevo con le mie mani. Avevo stretto i pugni così forte che le dita iniziarono a pulsare, ma non le rilassavo. Così Adam fu costretto a prendermi i pugni e aprirli di forza. Con grande sorpresa vidi che avevo stretto così tanto la presa da avere i palmi che stavano per sanguinare.

«Sta' buona. Sono cose che capitano. I paparazzi seguono in lungo e in largo quasi tutti, i riflettori sono puntati su di me, non su di te. È me che vogliono stuzzicare, okay?», chiarì.

«Non è questo il punto, e mi meraviglio che tu non l'abbia capito».

«Jess potrà dire e fare quello che vuole, ma se non capisce che tre foto non sono la verità, allora vince il premio per la stupidità», spiegò come suo solito.

«Allora hai capito», mi limitai a constatare con il broncio. «Ma non avevi detto che non avremmo mai dovuto parlare di me o di Jess?».

«Sì che l'ho detto. Ma non mi sembra il caso di mettere certi limiti, o finiresti per voler uccidere anche me». Sorrisi della sua perspicacia.

«Io non ho chiesto niente di tutto questo casino», brontolai.

«E io invece sì?!», disse ridendo lui. Era la prima volta che lo sentivo ridere così, ed era strano. Era piacevole. La sua risata aveva un suono stranamente piacevole. Già.

Sbuffai un paio di volte e ammisi di essere così codarda da non voler rientrare a scuola.

«Allora non rientreremo», acconsentì subito Adam. Lo fissai scettica.

«Certo, così buttiamo benzina sul fuoco».

«Se gli piaci così tanto come vuole far credere, si prenderà uno spavento tale che alla fine sarà costretto ad ascoltarti», osservò lui. Era una brutta idea, lo sapevo, ma allo stesso tempo era incredibilmente allettante.

«Non lo so... Adam, forse non è una buona idea».

«Non ho mai detto che lo fosse, Smitty. Ma se non ti va, nessuno ti costringe».

Mi stava sfidando. Dal suo tono era chiaro come il sole che mi stava stuzzicando. Credeva che avrei rifiutato. Voleva che gli dimostrassi che ero una pappamolla.

Ah-ah. Sbagliato.

Nessuno sfida Hayley e vince. Nessuno.

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Capitolo 11
*** Ipocrita ***


«No, Hayley, ti ho già detto di no», ribadì per la trecentesima volta Adam.

«Nemmeno se ti imploro?», continuai ridendo e sorseggiando il caffè alla nocciola che aveva appena finito di preparare. Ero fermamente convinta che quella stanza – quella con chitarre, biliardi, divani, eccetera eccetera – fosse la cosa che più si avvicinava al paradiso. Almeno, all'idea che avevo io del paradiso.

«Puoi implorare e pregare quanto ti pare. Sono irremovibile».

«Allora barattiamo. Dimmi qualsiasi cosa, la farò. Però voglio sentirti suonare, ti supplico! Una volta sola...», brontolai innocente.

«No», sbottò dandomi le spalle per voltarsi verso la dispensa delle meraviglie. «Hai mai bevuto una grappa da ottanta gradi a quest'ora del mattino?», riprese ignorandomi.

«No. Ma lo faccio se mi fai sentire qualcosa. Rigorosamente live, ovviamente».

«No di nuovo, Hayley. Ma non ti stanchi mai?». Si voltò con una lattina di birra e una bottiglietta di gazosa in mano. Nell'altra, due bicchieri.

«Già bevuto, bello mio. Non mi stupisci più», lo stuzzicai.

«Non mi sfidare», fece tirando sul bancone una cassetta piena di bottiglie. «Adesso ti faccio bere qualcosa che in Germania non potresti non bere».

«Birra?», feci sarcastica. Ovvio che uno come lui fosse stato in Germania. Chissà dove non era stato.

«Anche. Vuoi birra con succo di limone o con Coca Cola? Oppure vuoi Coca Cola alla vaniglia o alla ciliegia? Posso anche farti assaggiare la Coca Cola Black, se ci aggiungo il caffè. O preferisci vodka e whisky vari? Possiamo miscelarli con tutti i succhi che vuoi», spiegò come un esperto. Lo guardai scettica.

«D'accordo, sei stato in Germania e te la stai tirando parecchio, ho capito», feci divertita dalla sua espressione. «Che mi dici dell'Irlanda?», lo interrogai.

«Irish Cream Liquor. È parecchio insolito. Ci vogliono le uova, il latte condensato, whisky e cacao amaro. Oppure ci buttiamo sul tradizionale con il Black Velvet, cioè Guinness insieme a champagne. Ti basta?», disse sprezzante. Risposi con una pernacchia.

«Italia», sbottai sperando che ne sapesse poco.

«Limoncello e vini vari».

«Giappone».

«Sakè e tè verde».

«India», feci certa che avrebbe avuto qualche titubanza.

«Lassi. So che non sai cos'è, ma per me è troppo dolce, perciò non credo che te lo preparerò».

«E va bene, va bene. Ho capito, sei stato praticamente ovunque».

«Non è vero. Posso dire di aver messo piede ovunque, ma non ho mai visitato per davvero i posti in cui sono stato», mi spiegò riponendo tutte le bottiglie.

Iniziai a pensarci su: se io avessi potuto girare il mondo come aveva fatto lui, chissà quante cose avrei visto... C'erano così tante cose che avrei voluto fare.

Girai sullo sgabello, persa nei miei pensieri. Avevo perso di vista anche il mio obiettivo iniziale.

«Avanti, Adam. Per favore», presi di nuovo l'iniziativa. Capì al volo.

«Ancora? Quante volte dovrò dirti di no prima che tu ti arrenda?», rispose esasperato.

«Molte. Tante. Infinite volte», lo avvisai. «Finché non mi dirai di sì». Sbuffò e andò a sedersi sul divano. Con una piccola spinta sul piede dello sgabello, mi voltai e lo seguii con lo sguardo.

«Ma quanto sei alto?!», esclamai guardandolo bene. Non ci avevo mai fatto caso.

«Sei tu che sei bassa, non io alto». Si stravaccò e mi scrutò. «Già, sei proprio piccolina».

«Questo. Non. È. Vero», scandii bene le parole. «Sono nella media. E ricordati che ho tre anni meno di te, se non sbaglio».

«Allora vedi che sei piccolina?», mi provocò di nuovo con il sorriso sulle labbra. Mi alzai, presi un cuscino e glielo lanciai con tutta la forza che avevo, ma lui riuscì a scansarlo.

«Se non mi fai sentire niente», ripresi dopo un po', «almeno mi insegni a suonare la chitarra?».

Sgranò gli occhi. «Non ci credo», disse sorpreso.

«Che c'è?», risposi allarmata. Cosa avevo detto di sbagliato?

«Non sai suonare la chitarra? Tu?», chiese esterrefatto.

«Beh... No. So suonare il piano. La chitarra no, però mi piacerebbe», confessai con semplicità. «Non credo sia un crimine, giusto?».

Restò a bocca aperta e dopo un po' sorrise. «Questa davvero non me l'aspettavo. Non hai la faccia di una che non sa suonare la chitarra», ammise finalmente come un ragazzo normale e non come uno strizzacervelli.

«E tu non hai la faccia di uno che si fa condizionare dalle apparenze», lo bacchettai avendone l'occasione. Finalmente. Rise del mio tentativo di rivalsa.

«Touché. Per un attimo mi stavo abbassando ai tuoi livelli, chiedo umilmente perdono...», fece con un ghigno nascosto.

«Allora? Non mi hai ancora risposto», ripresi, «mi insegni o no?».

«Assolutamente no. Come non ti farò sentire niente». Sottolineò così tanto quel “niente” che la presi come una questione di principio. Accidenti a lui.

«Ma che rapper sei? Il palco scenico ti spaventa? Ansia da prestazione?». Non credevo possibile che non sfruttasse un'occasione per pavoneggiarsi un pochino.

«Tu non sai niente di me, figuriamoci delle mie canzoni. O delle mie prestazioni», aggiunse divertito.

«Infatti ti ho già detto che non ho mai ascoltato nulla di tuo. È un modo per azzerare i pregiudizi. Ora come ora potresti essere un rapper come un compositore di musica classica. Con me tutto è lecito», spiegai sedendomi di fronte a lui a gambe e braccia incrociate.

«Quest'ultima frase è davvero ambigua», mi fece notare. «Jess non vorrebbe che tu la dicessi a me».

«Idiota», risposi secca e allungandomi verso di lui per sferrargli un colpo sulla nuca. Fece solo finta di aver sentito il colpo passandosi una mano dietro il collo.

«Sei troppo debole per farmi male. Ci vuole ben altro per lasciarmi anche un solo livido sbiadito». Il che mi riportò alla mente una certa questione lasciata in sospeso.

«A proposito di lividi, Mr. Evito Di Far Finta Di Niente Così Metto Hayley Nella Merda», iniziai frivola, «posso sapere perché hai deciso di proposito di non coprirmi?». Sapevo che avrebbe capito il senso della mia frase.

«Così almeno saresti stata costretta a iniziare a fare i conti con lui. Se io non dicessi niente, tu continueresti a distorcere la realtà con particolari più o meno grandi, e ti sentiresti una bugiarda. E poi diventeresti una traditrice. Tu vedila come un salvataggio», mi spiegò accendendosi una sigaretta. «E comunque ti ho già detto che mi dispiace. Sul serio, non ho mai voluto farti male. Non pensavo di aver stretto così tanto, scusa». Parlava freddo e come una macchinetta, quasi volesse evitare di sentirsi in colpa. Sembrava davvero in difficoltà, con quella sua voce bassa e profonda. Faceva sia paura che pena. E non ne capivo il motivo.

«Guarda che è solo un livido», tentai di alleggerire l'atmosfera con un sorrisetto beffardo. E mi spinsi oltre. «Non mi hai mica picchiata». Puntai lo sguardo verso di lui, misurando la sua reazione.

Alzò subito gli occhi verso di me, istantaneamente, l'espressione sulla difensiva.

Lo sapevo. Lo sapevo, accidenti, lo sapevo!

«Stai marcando male, Hayley», mi avvisò con la sigaretta in bocca. «Attenta, stai imparando a giocare con me come io gioco con te, ma ti stai spingendo un po' troppo oltre». Mi venne la pelle d'oca.

«Parli come se ti sentissi accusato. Peccato che io non abbia mai puntato il dito su di te», risposi con più coraggio di quanto credessi di averne.

«Sei troppo sensibile per voler sapere tutto su di me, accontentati del fatto che ti abbia raccontato della mia “famiglia”, okay?».

«No», feci spavalda.

«Mi sembri troppo fragile... e invadente. Ripeto, stai attenta». La sua voce era una minaccia bella e buona.

«Smettila di trattarmi come se non potessi capire, l'hai detto tu che abbiamo in comune molto più di ciò che può sembrare», insistetti meravigliandomi di me stessa.

«No, Hayley, certe cose non le puoi davvero capire. Non le capisco io, come puoi fare di meglio tu?». Il suo modo di parlare mi ricordò di quando pensavo a lui come a un serial killer.

«Cosa hai fatto?», chiesi tralasciando le sue parole. Fece un paio di tiri violenti e schizzò in piedi, ridendo nervoso.

«Ma ci sei o ci fai, Hayley?». Mi sentii a disagio come non mai e mi alzai anch'io, rimpiangendo un po' di non essere rimasta a scuola. Iniziava davvero a spaventarmi per bene.

«Adam, non sono una mocciosa. Puoi smetterla di fare il duro con me, ormai ho capito che non sei come vuoi far credere alla gente. La tua è solo apparenza».

La sua reazione fu spropositata. Spense di colpo la sigaretta che era appena a metà, digrignò i denti e si avventò velocissimo su di me, arrestandosi a pochi centimetri dalla mia faccia. Indietreggiai col cuore in gola. Ma cosa diamine aveva quel ragazzo di sballato?

«Solo apparenza, eh? Credi che mi diverta a tenere la gente lontana da me, vero? Secondo te è tutta una maschera, un modo per fare il figo... Spiacente, mocciosa, non è così. C'è gente, lì fuori, che si fa il culo dalla mattina alla sera per sopravvivere in un mondo che non è ricoperto da una bolla fatata come quella che protegge il tuo, chiaro? Perciò non venirmi a dire che puoi capire, e nemmeno che hai capito tutto di me, perché non è affatto vero. Dovresti vergognarti per la sfacciataggine con cui ti sei arrogata il diritto di giudicarmi prima che arrivassi e anche per l'ipocrisia che hai dimostrato in continuo, giorno dopo giorno. Sei un'ipocrita così bugiarda ed egocentrica che mia fai schifo, Hayley. Tu mi usi per passare il tempo, vuoi ingigantire i tuoi problemi per sentirti importante e per potermeli spiattellare in faccia. E più cerco di convincere te e me che non me ne potrebbe fregare di meno, che non me ne dovrebbe fregare di meno, più tu riappari in ogni angolo della mia vita, e inizio ad odiarti per la costanza con cui riesci a scoprire sempre più cose su di me. Ma tu non sei nessuno per me, non devi essere nessuno per me, chiaro? Mi sono trasferito qui per evitare quelle come te, eppure me le ritrovo con il fiato sul collo sempre e comunque. E io non ne posso più, davvero. Ragazzina, non dirmi assolutamente che puoi capire, perché sei stata tu la prima a non voler sapere niente di me. Ora che stai cambiando idea, anch'io prendo un'altra posizione. Che non ti salti in mente di diventare più di una semplice conoscenza. Non sei nient'altro. Niente di niente».

Non compresi bene l'istante esatto in cui sentii sgorgare le lacrime sulle mie guance, e nemmeno capii se fossero state le sue parole, una per una, a farmi male come coltellate, o se fosse stato il tono e il modo in cui le aveva dette. Mi aveva guardata dritta in faccia durante tutto il suo monologo e questo mi aveva fatta sentire così maltrattata e umiliata che alla fine non avevo retto. Che bisogno aveva di essere così brutale e crudele con me? Non gli avevo fatto niente di così imperdonabile come voleva farmi credere, soprattutto se si considerava il fatto che fino a cinque minuti prima avevamo conversato come due civilissimi ragazzi di città. Che bisogno c'era? E pensare che era con lui che mi ero liberata del mio peso insostenibile. Era a lui che avevo detto ad alta voce per la prima volta qual era il mio problema di coscienza. Adesso, invece, sembrava che avessi preso una cantonata epica.

«E adesso vattene», concluse senza spostarsi di un millimetro. Mi sfuggì un gemito con altre lacrime che tentai di nascondere con i capelli mentre prendevo la mia tracolla per tornare a casa. Volevo fuggire da quella stanza che ora sembrava un inferno piuttosto che un piccolo paradiso.

«Solo una cosa», tentai di dire tra i singhiozzi imbarazzanti. La mia voce sembrava volermi dare torto. «Avresti potuto farmi questo bel discorsetto prima che io... Prima», conclusi con la voce spezzata.

«Hey, no, aspetta un attimo», fece cambiando completamente tono e bloccandomi per un braccio, di nuovo con troppa foga.

«Lasciami, Adam, lasciami subito», dissi tra i denti evitando accuratamente di guardarlo in faccia. Strattonai il braccio così tanto da far cadere la tracolla e tutti i quaderni per terra.

«Hayley, aspetta... Cazzo, non capisci!», sbottò abbassandosi per aiutarmi a raccogliere le mie cose.

«No, sei tu che non capisci! Se dici una cosa, dopo ti comporti di conseguenza! Di solito funziona così. Perciò dimmi, Adam: mi vuoi dentro o fuori dalla tua vita? Perché posso sparire meglio di chiunque altro se ti do così fastidio, non voglio essere un peso per nessuno, soprattutto se devo essere trattata così», dissi chiudendo la tracolla ed alzandomi velocemente. Ancora non mollava la presa sul mio braccio. «Io non me lo merito, non sarai tu a ridurre la mia coscienza in pezzi ancora più piccoli», sibilai guardandolo finalmente in faccia con gli occhi pieni di acqua salata.

«No, Hayley, no...», si lamentò scuotendo la testa.

«Lasciami questo cazzo di braccio, idiota!», gridai senza più pazienza. «Dai dell'ipocrita a me, ma ti sei guardato allo specchio? Vaffanculo, Hitch! Vattene a quel fottutissimo paese, vattene...», continuai piagnucolando come una bambinetta viziata.

«Non hai capito, Hayley... Non mi hai ascoltato bene, Hayley, no!», gridò anche lui. «Te ne devi andare da qui!».

«Come faccio ad andarmene se tu mi stritoli un braccio per tenermi qua?! Come faccio?», feci più esasperata di lui.

«Appunto. Non vedi? Non capisci?», disse tornando serio e distaccato e lasciandomi il braccio.

«Vedo che dici una cosa ma ne fai un'altra», risposi velocemente. Chi era adesso l'ipocrita?

«Se solo fossi meno vincolata dai tuoi sensi di colpa avresti già fatto due più due», fece indietreggiando con le mani in testa. «Non voglio spingerti a fare cose di cui ti pentiresti e di cui dovrei assumermi io la responsabilità – la colpa», si corresse automatico. Quel discorso non aveva alcun senso per me. Non capivo cosa stesse blaterando.

«Ma ti senti?», feci incredula. «Ma dico... Ti senti?».

«Per l'amor del cielo, Hayley, vai. Vai a casa e torna da Jess. Rendimi le cose più facili e vattene. Almeno tu», implorò frustrato. Senza capire, sentii solo l'impulso di uscire da quella stanza in cui l'aria era diventata irrespirabile. Mi asciugai le lacrime, consapevole del casino che era diventato il mio trucco. Inspirai e lasciai Adam a rimuginare su quello che aveva appena detto e fatto.

A dirla tutta, anche io avevo bisogno di tentare di trovare un minimo di senso alle sue ultime frasi. Mi sembravano completamente fuori dal mondo e senza logica. Non sapevo più cosa pensare, davvero. Ogni singolo brandello della mia quotidianità iniziava a sbriciolarsi, a svanire da sotto i miei piedi.

Cosa mai avrei dovuto fare? Cosa?

ìì

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Capitolo 12
*** Fantasma ***


Giovedì.

Il giorno prima dell'ultimatum, e io ancora non avevo spiccicato parola con nessuno. Nessuno.

Rispondevo a monosillabi a tutti, tanto che Jamie iniziava seriamente a dubitare delle mie capacità espositive. Non vi dico le interrogazioni a scuola... Un disastro. Ma non me ne fregava.

Jess, vedendo che io non prendevo l'iniziativa, fingeva che io non esistessi. Come i bambini, avevamo deciso di non parlarci più.

Meglio così. Dana e Bree avrebbero potuto dire o fare quello che volevano, non avrebbero distrutto un bel niente. L'avevo già fatto io.

Jenna era così entusiasta della sua “storia” con Frank che nemmeno si era accorta del mio umore. Bryan invece sì. Era appena tornato, ma nello stesso istante in cui aveva messo piede in camera mia aveva aggrottato la fronte, dubbioso.

«Cosa è successo qui in mia assenza?», mi aveva chiesto misurando il tono con cura.

«Nulla che io abbia intenzione di raccontarti. Bentornato, Bryan», gli avevo risposto senza nemmeno guardarlo in faccia.

«Tanto non mi sfuggirai», aveva detto mentre portava i bagagli in camera sua.

Per mia fortuna, invece, aveva avuto così tante cose da organizzare e sistemare che praticamente non lo avevo più incrociato in casa.

Lara, al contrario, spuntava ovunque come i funghi. Non capiva cosa diamine mi stesse succedendo. Continuava a dirmi che mi avrebbe sostenuta qualora avessi deciso di rompere con Jess, e a quel punto le avevo gridato contro che la situazione era già abbastanza chiara e che non mi era affatto di aiuto se continuava a ronzarmi intorno in quel modo insopportabile.

Anche Chris e Travis si erano improvvisati spie segrete: cercavano di scoprire per conto di Jess se stessi uscendo con qualcun altro, in particolare con uno stronzo super egocentrico di cui nemmeno farò il nome.

Perciò, ecco tutto. Giovedì.

L'indomani ci sarebbe stato da ridere molto più di quanto già non stessi facendo.

Incrociai Dana in corridoio e mi rammentò dell'accordo. Lo fece con una tale strafottenza che davvero non riuscii a contenermi.

Ora, io non ho mai avuto problemi di autocontrollo, sono sempre stata una tipa tranquilla e riservata. Certo, questo finché qualcuno non mi fa saltare i nervi. E Dana mi aveva fatto davvero saltare i nervi. Anzi, direi che i miei nervi con lei facevano bungee jumping.

Così, lo schiocco che sentii quando il mio pugno incontrò il suo visino perfettamente truccato fu musica per le mie orecchie, e mi servì a scaricare parte della mia tensione. Liberatorio e meritato.

E così, ecco come mi ritrovai nell'ufficio del preside. Con un rischio di sospensione che mi pendeva sulla testa come una spada di Damocle.

Non era stata una buona idea dare un pugno a Dana, vero? E nemmeno farla piangere davanti a tutti. Bree era stata fortunata, giuro. Si era trovata lontana dal posto sbagliato al momento giusto. Probabilmente avrei spaccato uno zigomo anche a lei, se si fosse trovata nei paraggi.

«Smithson, posso sapere cosa ti sta succedendo?», fece il preside serio, con alcuni dei miei compiti in mano. «I tuoi rendimenti hanno subito notevoli cali, soprattutto per quanto riguarda gli orali. Spero sia un momento passeggero, sai bene che stai correndo un bel rischio. Se aggiungiamo anche questa tua ultima bravata...». Lasciai che continuasse a parlare in tono paterno, e proprio per questo staccai il cervello, fingendo di ascoltarlo. Quando il suo silenzio durò abbastanza a lungo da farmi capire che l'avevo scampata – ma che mia madre sarebbe dovuta venire a fare un colloquio – mi alzai e sgambettai fuori dall'ufficio.

L'essere che non nominerò stava aspettando seduto sulla poltroncina.

«Tu?», mi chiese allibito. «Allora le voci di corridoio sono vere», concluse freddo.

«Allora stai attento», lo avvisai a denti stretti andandomene.

Decisi di non tornare a casa con Chris e i gemelli, ultimamente non mi ci trovavo più bene. Fatta eccezione per Jamie, tutti gli altri mi sembravano coalizzati contro di me per appoggiare Jess. Chi lo sa, magari avevano anche ragione. Non mi importava più di tanto.

Ironia della sorte, intravidi Jess appoggiato alla sua moto che aspettava con il casco in mano. Non appena mi vide, mi fece un cenno con la testa. Mi armai di pazienza e mi avvicinai.

«Da quando sei una bulla?», iniziò senza ombra di ironia.

Lo fissai scettica. «Un pugno a Dana fa di me una bulla e non un'eroina? Però. Mi stupisco della velocità delle tue conclusioni».

«So che avrai avuto una buona ragione, ma ti sembrava il caso?», mi rimproverò.

«Sai una cosa? Domani giudicherai da te», feci iniziando ad avviarmi. Mi camminò dietro.

«Domani? Cosa c'entra adesso?».

«Senti, Jess», dissi fermandomi per chiarire bene il concetto. «Ti sei sentito preso per il culo anche quando io non facevo niente di male, figuriamoci domani quando le due miss ti faranno vedere delle foto mie e di...», feci una smorfia, «... di Hitch. Mi dispiace che non sappiamo comportarci come adulti e spero che con il tempo torneremo a essere amici come lo eravamo prima. Non è stata affatto una buona idea, scusa», conclusi girandomi. Mi bloccò per un braccio. Ancora?

«E smettetela di fermarmi per un braccio, sono piena di lividi, cazzo!», sbottai furiosa.

«Hayley, prima di tutto datti una calmata quando parli con me. E poi, davvero credi che io mi lasci atterrire da un paio di foto? Anzi, tre, se non erro. Le ho già viste. Lara me le ha fatte vedere, ha detto che ti aveva vista un po'... Insomma, lei se n'era accorta. Me l'ha detto, assicurandomi che prima o poi saresti venuta tu a dirmelo. Non l'hai fatto. Fino a due secondi fa. Questo mi dimostra che non hai nulla da nascondermi, mi dispiace solo che tu ci abbia impiegato così tanto per fare uno sforzo a fidarti di me». Scossi la testa, incredula.

«Tu, Jess, tu hai bisogno di continue dimostrazioni di riverenza e rispetto. Tu non ti fidi, ma vuoi che io mi fidi al posto tuo. Spiacente, non ci sto. Non mi fido di nessuno», dissi incrociando le braccia in attesa della sua risposta.

«Ma cosa diavolo ti è successo in questi pochi giorni? Cosa? Non ti riconosco più», ammise deluso.

«Niente. Dico solo che dovremmo tornare a essere amici e basta. Prima la mia vita torna alla normalità, prima io torno a essere quella di prima. Ammesso che ci sia stato davvero un cambiamento». Lo guardai di sbieco mentre finivo la frase.

«Quando sarai pronta ad avere una relazione, una vera intendo, fammi uno squillo», fece spazientendosi.

«Potresti aspettare per sempre. Non rischierei, se fossi in te. Ignorami. Ignorami anche tu, o se preferisci trattarmi come una merda, accomodati. Ma non assicuro niente», risposi evasiva.

«Ti ho mai trattata come una merda, Hayley? Rispondimi!», sbottò del tutto privo di pazienza.

«Chi ti ha detto che parlavo di te, Gesù mio?!», feci alzando gli occhi al cielo. «Ti piace così tanto tirare le conclusioni affrettate, Jess? Ti diverti?».

«Allora spiegami, sono qui apposta. Però, ti ripeto, rilassati un po'», rispose facendo un respiro profondo.

«Tu, Jess, in tutta questa... cosa... non c'entri niente, okay? È una questione mia e basta, e siccome... Insomma...». Non sapevo come spiegargli cosa mi saltasse in mente. Andiamo, non lo capivo nemmeno io.

«E se io non c'entro, chi è il punto della questione?», chiese aggrottando le sopracciglia. Aveva centrato in pieno il punto.

Feci per rispondere, ma poi mi arresi a una risata rassegnata e lasciai la risposta in sospeso, senza nemmeno aver detto una parola.

«Hai detto che non sono io, giusto? Allora dimmi, Hayley, chi è che ti tratta come una merda?», disse facendo due più due. Non lo facevo così sveglio. Smisi di ridere e tornai seria.

«Mi dispiace, Jess. Forse un giorno sarò capace di gestire un rapporto serio con te>>, ammisi in fine. «Vedi, sono davvero... piccolina», dissi usando parole non mie.

«Questo significa che se non sei pronta per me, non lo sei per nessun altro, giusto?». Feci una faccia superiore a ciò che lui stava insinuando, perché c'era una cosa che le sue parole stavano insinuando in modo altamente offensivo. E io l'avevo capita.

«Questo significa che devi crescere anche tu, idiota». Gli voltai le spalle e accelerai il passo prima che potesse riafferrarmi. Ne avevo abbastanza.

 

Ero sulla strada verso casa, con le cuffiette dell'I-Pod ben incastrate nelle orecchie. Volume al massimo, non mi aspettavo di sentire altri rumori.

Eccetto un fastidiosissimo rombo di un'auto che – secondo me – doveva essere davvero costosa. Davvero rara. Davvero del mio nuovo vicino di casa. Davvero irritante.

Non mi voltai, nonostante la velocità della macchina fosse visibilmente rallentata per tenere il mio passo.

Andai avanti a fare finta di niente per circa cinque minuti. Speravo che si stancasse e mi lasciasse lì da sola, in pace una volta per tutte. E invece no, era instancabile e fastidiosamente paziente.

Mi fermai di scatto e, senza girare lo sguardo verso l'auto, alzai il dito medio verso il finestrino. Finestrino che si abbassò con un ronzio impercettibile.

«Non ti sto chiedendo di saltare su, mi assicuro solo che tu arrivi a casa tutta d'un pezzo. Posso ancora farlo, vero?», chiese allungandosi un po' verso di me per essere sicuro di essere sentito. Risposi ribadendo lo stesso concetto di prima: raddoppiai il dito medio. Che stalker.

«Tranquillo, vado a casa da sola. Ti rendo le cose più facili se me ne vado», feci acida lanciandogli una frecciatina.

«Hayley...». Scosse la testa e frenò. Aprì lo sportello e mi corse davanti.

«Non toccarmi o mi lascerai dei lividi», lo avvisai prima che potesse fare qualcosa. Sapevo che quello era un colpo basso, ma non ero riuscita a trattenermi.

«Non hai ancora capito, è chiaro», disse a bassa voce, quasi come se parlasse solo a se stesso.

«Scusa se sono una impedita. Posso passare, ora? Vorrei arrivare a casa prima di Jenna».

Sospirò e si fece da parte.

«Hayley», mi chiamò mentre ripartivo a tutta birra. Lo ignorai e continuai a camminare con passo deciso e furioso fino a che non raggiunsi casa mia. Ovviamente, aveva continuato a seguirmi con la macchina e credeva che io non me ne fossi accorta, probabilmente. Beh, ero più sveglia di quello che la gente credeva.

Spalancai la porta e Jenna mi stava già aspettando.

Tante grazie, Hitch.

Aveva un'espressione insolitamente seria. Non credevo di avergliela mai vista addosso.

«Ha chiamato la scuola», proferì con voce ferrea. Chiusi la porta e mi preparai a prendermi la ramanzina.

«Mmh», fu tutto quello che dissi annuendo.

«Immagino che tu ne conosca il motivo», continuò severa come non mai.

«Non ci sono molte cose che mi vengono in mente. Non sono ancora così bulla».

«La madre di Dana ha chiamato. Le ho assicurato che domani parteciperai alla sfilata di Bree». Aprii la bocca per obiettare ed esprimere un miliardesimo della mia frustrante disapprovazione, ma alzò la voce prima di me. «E non voglio sentire storie. Mi stai facendo fare la figura dell'idiota, ragazzina. Ricordati che sono pur sempre tua madre, non puoi permetterti di mancarmi di rispetto come e quando ti pare. Ringrazia il cielo di avere una madre permissiva come me. Permissiva e comprensiva, non stupida. La musica sta cambiando. Da oggi, quello che dico è legge. E non ci devono essere storie».

Mi sentii un peso insopportabile sulle spalle, nei polmoni. Le gambe pesantissime e allo stesso tempo debolissime. Iniziarono a fischiarmi le orecchie, mentre sentivo anche la voce, nonostante stessi zitta, venirmi meno.

«Hayley, non capisci la fortuna che hai ad avere una madre come me», riprese.

«No, Jenna, io non capisco come fai a svegliarti tutte le mattine e riuscire a guardarmi in faccia senza avere l'impulso di uccidermi ogni singolo, maledettissimo, interminabile secondo», dissi a denti stretti per evitare che le lacrime iniziassero a inondarmi le guance.

Cambiò subito faccia. Da severa diventò pensierosa e poi preoccupata fino all'inverosimile, sbiancando.

«Hayley, tesoro, non dire cose simili nemmeno per scherzo. Chi ti mette in testa certe idee? Cosa ti sta succedendo, tesoro? Qual è il problema? Parlamene!», iniziò prendendomi per le spalle e scuotendomi per ottenere risposte. «Pensi davvero queste cose? Tu davvero credi che io non ti voglia? Ma sei pazza?».

«Posso andare in camera mia?», sbottai ricacciando indietro le lacrime, atona e fredda.

«Cosa? No! Parla con me, prima! Ti prego, Hayley, tesoro, non dirmi queste cose senza poi darmi una spiegazione», disse frustrata almeno quanto me. Mi pentii di aver aperto bocca.

«Andrò alla sfilata, Jenna, ma adesso ti prego, ti prego, lasciami da sola», implorai con un nodo in gola.

«Hayley, per favore. Cosa sta succedendo nella tua testolina? Dimmelo, aiutami a capire».

«Posso. Andare. In. Camera. Mia?», ripetei digrignando i denti. La spaventai un po', evidentemente. Fece un passo indietro come se avesse preso la scossa e mi scrutò con gli occhi fuori dalle orbite.

«Vai pure...», sussurrò con gli occhi sbarrati e la voce roca.

Mi trascinai su per le scale sentendomi una merda colossale. Non appena chiusi la porta mi buttai sulle ginocchia. Aspettavo che le lacrime mi affogassero, ma non arrivarono. Non subito.

In una stessa giornata (anzi, in una mattinata) avevo rotto ufficialmente con il mio ragazzo, litigato con gran parte dei miei amici, preso a pugni la stronza della scuola, rischiato una sospensione ed evitato l'unica persona che forse poteva capirmi. Inoltre, avevo ottenuto anche l'obbligo di partecipare a quella stupida sfilata. E avevo anche distrutto la salute psichica di mia madre.

Bel colpo.

Con che faccia mi sarei fatta rivedere in giro? Non solo per quanto riguardava Dana e tutti gli altri, ma soprattutto nei confronti di Jenna. Adesso che avevo intelligentemente aperto bocca giusto per far prendere aria al cervello, come avrei riparato alle parole che avevano distrutto il nostro già precario equilibrio?

Semplice: non avrei mai potuto. Non avrei mai dovuto.

 

Qualche ora dopo, sentii bussare alla porta. Avevo pianto troppo per riuscire a trovare la voce necessaria a rispondere. Avevo la gola raschiata dentro, la testa stava per implodere e l'addome era indolenzito per i violenti spasmi che lo avevano scosso fino a qualche minuto prima. Avevo anche tutti i capelli davanti alla faccia bagnati fradici, insieme alla fodera del cuscino che ormai era un lago. Bello profondo.

La porta si aprì con un cigolio.

«Ah, no...», gemette la voce di Bryan colma di pena. Tutta per me, ovvio. Sospirò e lo sentii sedersi sul letto, ma non lo vidi, perché gli davo le spalle.

«Mi sono perso cose importanti, allora».

Non risposi.

«Ti ho già detto che non mi sfuggi».

Non risposi.

«Guarda che la mamma non è poi così arrabbiata per la storia della mini rissa. Anzi, io sono orgoglioso di te. Ti sei fatta valere. Però la prossima volta sii più... diplomatica, d'accordo?».

Non risposi.

«Ma qualcosa mi dice che non si tratta di questo, vero? Il groviglio è molto più complesso».

Sospirai e mi sembrò di avere le convulsioni. Bryan si sdraiò accanto a me e mi abbracciò di lato.

«So anch'io quanto è difficile crescere come stai facendo tu. Anzi, no. Non lo posso sapere fino in fondo, perché io... sono nato in circostanze diverse. Ma ho visto come si viveva in casa prima del tuo arrivo. E ho visto anche il dopo e, giuro sul bene che ti voglio, è decisamente meglio il dopo. Non è colpa tua, smettila di incolparti. Se la mamma ti odiasse, ed è evidente che non lo fa, adesso tu non saresti qui in camera a piangerti addosso, e nemmeno lei sarebbe in cucina a torturarsi chiedendosi dove ha sbagliato. Capisco il tuo peso, ma non puoi liberartene. È un fantasma che non puoi scacciare, ma puoi imparare a conviverci. Puoi imparare da questo impedimento qualcosa che gli altri non impareranno mai. E poi, ci siamo io e la mamma. Che problema c'è? Tutto è risolvibile. Sai come diceva la nonna? Solo alla morte non c'è riparo», disse scimmiottando la vocina di una donna anziana che non avevo mai avuto la fortuna di conoscere. Sorrisi e altre lacrime ripresero a sgorgare.

«Era il rumore di un sorriso, quello? Ma non mi dire!», fece stringendo l'abbraccio. Mi afferrai le ginocchia in attesa che l'aria tornasse nei polmoni.

«Bryan... Quando ripartirai?», chiesi con la voce così roca da non sembrarmi nemmeno la mia. Mi faceva male la gola a parlare.

«Posso rimandare, stupidina», rispose evitando la reale domanda.

«No, no. Figurati. Quando?».

«Lunedì». Accidenti, era solo giovedì. Lunedì era prestissimo.

«Dove?».

«Francia». Cercai nella mente il nome di una bevanda francese che avevo potuto nominare con Adam qualche giorno addietro, ma mi ricordai di non aver parlato di Francia con lui. Solo perché io non glielo avevo chiesto.

«Mi fai un favore?», chiesi illuminandomi.

«Certo». Era sorpreso.

«Mi porti una bevanda stranissima e che solo in Francia si può trovare? Non importa se alcolica o meno», spiegai. «Deve essere strana e particolare. Anche schifosa, se vuoi».

«Ma certo», acconsentì senza troppe domande. Adoravo Bryan.

«Okay. Grazie», feci alzandomi. Mi guardai allo specchio. «Oh, merda>>, mi lamentai del mio aspetto da zombie.

«Non sei così male, babbea. La tua amica Lara a volte si concia peggio di te in queste condizioni», disse ridendo. Sapevo che a lui lo stile di Lara non piaceva proprio.

Sorrisi e mi accorsi di avere gli zigomi molto intorpiditi.

«Forse dovrei scendere da Jenna. Dirle qualcosa. Qualsiasi cosa».

«Sarebbe carino», approvò Bryan soddisfatto della sua opera di bene. Che buon samaritano.

Annuii e presi lo slancio necessario a fare le scale (senza cadere) e affrontare i residui di ciò che la mia incapacità di tenere chiuso il becco aveva provocato.

Se solo fossi riuscita a non trascinarmi come un elefante pigro e obeso, forse Jenna non si sarebbe accorta di me e sarebbe andata avanti a singhiozzare indisturbata, in compagnia del suo barattolo di gelato al cioccolato.

«L'ho fatta così grossa?», chiesi sedendomi accanto a lei con un cucchiaino in mano.

«Questa domanda dovrei farla io a te», mi rispose abbozzando un sorriso mesto.

«Jenna, non ti dirò che non pensavo quelle cose, perché me le chiedo davvero. Ma so per certo qual è la tua risposta, e quindi le mie domande perdono di significato. Voglio dire, che senso ha farsi domande stupide? Soprattutto se conosco già la risposta, no?».

Mi guardò speranzosa e in ansia.

«Jenna, scusami. È stata una giornata difficile e ho esagerato. È stata un'esagerazione continua. Scusami, davvero».

Sorrise con le lacrime, ma di commozione. «Hai un fratello che fa miracoli. Per fortuna hai preso tutto da lui», disse porgendomi un cucchiaio più grande.

«Siamo bravi», conclusi abbuffandomi di gelato. «Non importa come, ma ce la sappiamo cavare. Alla grande. Tutti e tre».

E ci credevo davvero. 

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Capitolo 13
*** Delirio ***


La casa di Bree era davvero noiosa e infinitamente grande e monotona. Rispecchiava la sua personalità alla grande: pallosa e piena di cose inutili.

In una parola sola, Bree.

Me ne stavo seduta a uno dei trecentomila tavolini che erano stati allestiti in giardino per l'occasione, tutti messi intorno in modo ordinato e simmetrico alla passerella sulla quale dovevano sfilare le creazioni oscene di quella ragazza.

Jamie e Jess stavano giusto tornando a sedersi con in mano i cocktail, quando Lara mi fece l'occhiolino.

«Lo so, è pieno di moscerini fastidiosi qui fuori», dissi scherzando.

«Cretina! Intendevo un'altra cosa», sussurrò facendo più chiasso di quanto non ne avrebbe fatto se avesse parlato normalmente. «Tu e... Jess. Insomma, cosa siete adesso?».

Scrollai le spalle e sorrisi ai due che stavano arrivando.

«Grazie», dicemmo in coro io e Lara con noncuranza. Jamie si sedette di fianco a me, Jess di fronte. Travis e Chris erano andati a vedere se riuscivano a concludere qualcosa in campo di ragazze e difficilmente sarebbero ritornati da noi.

«Deve essere una tortura per te dover restare qui per forza», osservò Jess. Anche lui si stava sforzando di fare un compromesso con se stesso.

«Lo è», mi limitai a rispondere. «Ma Jenna è stata chiara, e ha ragione. Me lo merito, un po' come Dana si è meritata quella botta in faccia...», dissi scoppiando a ridere guardandola bene. Da lontano sembrava anche più deformata del solito. Chissà cosa le aveva detto Plastic-woman vedendola tornare a casa così.

«Hai tenuto il pollice fuori dal pugno, vero?», si informò Jamie.

«Sì. Ho fatto più o meno così...», e raccolsi le dita sul palmo, accartocciate su loro stesse, «... e poi così», e appoggiai il pollice sulla seconda falange di ogni dito. Quasi ogni dito. «Poi ho preso lo slancio e...», feci prendendo di mira Jamie, sapendo che non l'avrei mai colpito, «... ho preso bene anche la mira, stando attenta a non fare rimbalzare il pugno. Insomma, un colpo ben assestato».

«Sì! Sì!», esultò felice Jamie, battendo le mani. «La ragazza ci sa fare! Sa picchiare come si deve!».

«È una ragazza, Jamie, non esulterei troppo», lo ammonì Lara.

«Sei solo gelosa perché lei sa fare male e tu no», la stuzzicò Jess. Scoppiai a ridere, gongolante. In fondo, quella serata si stava rivelando meno letale del previsto. Almeno così credevo.

«Jamie, io vado a cercare... Ti ricordi...?», iniziò Lara con una scarsissima capacità di improvvisazione. Non era brava a fare l'attrice.

«Oh, certo!», esclamò Jamie dopo aver ricevuto un calcio fortissimo da sotto il tavolo. Tutti i bicchieri traballarono pericolosamente.

«Chi l'ha detto che Lara non sa fare male?», borbottai rivolta verso Jess. Alzò gli occhi al cielo e aspettò anche lui che la sceneggiata volse al termine.

«Già, Lara, andiamo a cercare...».

«Tuo fratello e tuo cugino!», concluse lei come se avesse appena trovato un'idea geniale.

«Esatto!», approvò rapido Jamie. Che pessimi attori. «Esatto», ripeté con meno enfasi.

«Noi andremmo... Ma torniamo subito, eh!», fecero come se non avessimo ancora capito il loro tentativo maldestro di lasciarci soli.

Annuimmo rassegnati e aspettammo che fossero abbastanza lontani.

Seguirono istanti di silenzio imbarazzante e pieni d'ansia. Incredibile che fino a nemmeno un mese prima io e quel ragazzo non avessimo praticamente nulla in comune. Inutile dire quanto la cosa mi sconvolgesse. Jess restava sempre il ragazzo super figo di cui mi ero invaghita quando ero più piccola, e adesso che potevo averlo sul serio, io...

Chiamiamola pure ansia da prestazione, anche se parliamo di un altro tipo di prestazione, non so se mi spiego.

«Okay», dissi dando un altro sorso al mio cocktail – che era davvero troppo alcolico per me. Fortuna che era una sfilata organizzata per adolescenti... Gesù, quanto alcool.

«Ammettilo, è imbarazzante», fece Jess stravaccandosi sulla sedia.

«Altroché».

«Non sono nemmeno riuscito a portarti sulla mia moto», rimpianse. Sorrisi.

«Non ci saresti riuscito nemmeno se ci fossimo sposati, fidati», lo rincuorai.

«Invece credo che avremmo potuto fare molte più cose. Cioè, avremmo dovuto prenderla più alla leggera. Poi sarebbe diventata una cosa seria da sé, ma abbiamo iniziato male. Ci siamo imposti limiti di fiducia», disse fissando la gente che ci circondava. Evitava di guardarmi apposta. «Saremmo dovuti essere più... frivoli. Più superficiali. Più normali, ecco».

«Ho fatto un gran bel casino, Jess. Davvero, la colpa è mia se non ha funzionato», ammisi volendo discolparlo. Mi faceva un po' pena vederlo così, quasi affranto.

«Mi è dispiaciuto davvero, sai. Sentirti dire quelle cose. È stato brutto».

«Lo so», dissi rizzandomi sulla sedia. Sembrava che qualcuno mi avesse appena punta, oppure mi avesse dato una mazzata in testa. Oh, certo: i sensi di colpa, ecco cos'erano.

«Mi piacevi davvero, Hayley. Mi piaci davvero, c'è poco da dire o fare. Puoi fare la stronza quanto ti pare, continuerai a piacermi come nessun'altra. Ne sei consapevole, vero?».

Deglutii, e stavolta fui io ad evitare di guardarlo.

«Rassegnati, io ti aspetterò fino a che non ti deciderai a fidarti di me». Sembrò più che altro una minaccia.

«Jess, non mi sembra il caso...», tentai di opporre resistenza.

«Invece è proprio il caso, Smithson. È proprio il caso», disse. Non capii se il caso a cui faceva riferimento lui fosse inteso nel senso di “destino” o nel senso di “essere opportuno”. Comunque lasciai correre.

«Mi basterebbe sapere che quando ci sarai, ci sarai solo per me e nessun altro. Capisci cosa intendo dire, vero?». Altroché se capivo. Tradotto in soldoni significava: “Guarda che me la prendo a morte se con me non ci stai e poi vengo a sapere che stai con un altro”, e per “altro” intendiamo una persona in particolare, meglio identificata con Adam. O Hitch. O Morrissey. Ormai ognuno lo chiamava come voleva.

«Capisco», mi limitai a dire tentando di nascondere quanto la cosa mi desse fastidio. Era da bambini. Era come mettere la cintura di castità alla moglie prima di partire per la guerra. Altro che problemi di fiducia, qui andavamo ben oltre!

Però era vero: Jess mi piaceva. Parecchio. Con il tempo avrei sentito la sua mancanza se non ce l'avessi avuto accanto, perciò era meglio tenerselo vicino. Molto vicino.

Ad interrompere quel flusso di coscienza fu un dito indelicato che iniziò a tamburellare su un microfono acceso.

«Prova. Prova. Funziona questo coso?», fece la voce di Bree stridula e insopportabile. «Oh, certo che funziona. Molto bene». Si schiarì la voce. «Desideravo dare il benvenuto a tutti quanti i presenti...», iniziò ridendo come una demente. «Già, già, grazie a tutti, ragazzi, per essere qui stasera. Vi sono davvero molto riconoscente, sul serio. Mi fa piacere vedere che in un modo o nell'altro», e buttò un'occhiata verso di me, «gran parte di voi mi sostiene nelle mie creazioni. Davvero, grazie». E giù con gli applausi. Ma per cosa?

«Ora mi piacerebbe dare inizio al vero spettacolo e... Buon divertimento!». Sparì dietro le quinte e partì una “musica” assordante e per niente compatibile con i miei gusti. Anche Jess fece una faccia schifata, sbuffando a denti stretti.

«Speravo che alla fine un meteorite cadesse sulla passerella prima che potesse iniziare la vera tortura», commentò. Sorrisi, ma non sapevo cosa dire per evitare un altro silenzio imbarazzante che, molto probabilmente, avrebbe portato ad altre confessioni e ad altri sensi di colpa che non sarei stata in grado di reggere.

«Vuoi che vada a prendere qualcos'altro da bere?», propose vedendomi in procinto di finire anche il secondo cocktail. Annuii decisa, grata che avesse avuto quella idea per evitare l'imbarazzo post rottura, e anche un po' rassegnata a fare i conti con la mia mente infestata dai sensi di colpa. Non era giusto scaricare tutto su di me.

Per mia sfortuna, comunque, non restai sola molto a lungo.

«Scommetto che quel posto è occupato, ma... Chissene», tuonò la voce di Jim dietro di me mentre si fiondava sul posto di Jess.

«Effettivamente, è occupato», risposi facendo la gradassa. Non capivo perché tutti mi dicessero di stare attenta a quel tizio, a me sembrava solo un pallone gonfiato.

«Si dice che tu e il Grande Jess abbiate rotto. Spero sia così», fece prendendo per il culo tutto e tutti, senza il minimo rispetto.

«Sai, se lo chiami “Grande Jess” significa che sai molte più cose del dovuto», risposi prendendo le parti di Jess e stuzzicando il suo orgoglio.

«Tu potresti darmi ragione o meno, no?», disse alludendo a ciò che doveva restare una questione mia e solo mia. Affari privati. Alzai gli occhi al cielo.

«Non gli farà piacere vederti qui. Sta per tornare, non è mica partito per il Vietnam», minacciai.

«Che torni pure, così gli spacco di nuovo la faccia, a quel moccioso». Che pena mi faceva. Non capiva che non mi impressionava affatto.

«Già, tu non hai altri modi per dimostrare quanto vali, vero?», feci infastidita e cercando Jess con gli occhi.

«Veramente, un altro modo ce l'ho... Se mi segui, ti mostro qual è», disse ammiccando. Lo guardai di sbieco, completamente schifata. Che livelli infimi.

«No, grazie. Passo», sbottai alzandomi per andare via. Lui mi imitò e mi sbarrò la strada. Che bel vizio che aveva.

«Quanta fretta, dove vai?».

«Lontano dal raggio del tuo testosterone», risposi cercando di farmi da parte. Lo avevo ancora alle calcagna.

«Hey, hey, qualcuno sta tirando fuori le unghie! È proprio vero che sei un peperino...».

«Vuoi un pugno anche tu? O preferisci un calcio?». Mi prese per tutti e due i polsi e mi strattonò verso di lui.

«Voglio un altro tipo di trattamento da te, Hayley Smithson. Non lo rimpiangeresti nemmeno tu, sai?», mi sussurrò di forza nelle orecchie.

«Lasciami andare, e subito anche, imbecille», sibilai opponendo resistenza. Era troppo forte per le mie capacità. E iniziavo a spaventarmi sul serio.

«Altrimenti?», continuò trascinandomi verso un angolo più appartato. Cominciavo a capire perché dovessi stare attenta con lui.

«Figlio di puttana!», tuonò una voce in lontananza. E all'improvviso Jim si ritrovò per terra, ai miei piedi, con il labbro sanguinante e con Jess che lo puntava.

Impiegai qualche secondo a capire cosa realmente fosse successo, mentre vedevo Jamie e Adam tirarmi indietro da quello che doveva essere il campo di battaglia. Non mi ero nemmeno accorta che ci fosse anche lui. Ero completamente in balia degli altri, ero stata sballottata da un lato all'altro del giardino con una tale velocità che non avevo capito niente. Non avevo visto gli amici di Jim prendere parte al massacro.

All'improvviso, le ragazze che si erano improvvisate modelle e che in quel momento si trovavano sulla passerella si voltarono verso di noi e si fermarono. Bree e Dana assunsero facce sconvolte, anche loro non capivano. Lara mi corse subito incontro, rimpiazzando Adam che corse ad aiutare Jess. Almeno così mi sembrava. Scorsi anche Travis e Chris che tentavano di mettere a fuoco la scena da lontano. Subito dopo si diedero una gomitata con faccia preoccupata e si avvicinarono rapidi, lasciando le loro due ragazze in un angolino ad aspettare.

Ci fu una specie di fuggi fuggi generale, mentre Bree chiamava i suoi genitori e alcuni camerieri iniziarono ad intervenire per fermare quella che era diventata una vera e propria rissa. Jess era scatenato, ma Jim non si faceva mettere al tappeto. Solo Adam riusciva a colpirlo sufficientemente forte da farlo gridare per il dolore, ma anche lui aveva incassato qualche duro colpo. Dovevano esserci circa nove o dieci persone, tutte concentrate in quello spazio piccolissimo, impegnate a darsele di santa ragione. E tutto era cominciato da me.

Lara mi si materializzò davanti.

«Hayley, Hayley! Tutto bene? Tu stai bene? Non ti ha toccata, vero?», iniziò a chiedere come una macchinetta incontrollabile. Senza parole scossi la testa per rassicurarla.

«Sicura? Non ti ha toccata, vero?», ripeté minaccioso Jamie. Deglutii e dissi un “no” forte e chiaro che non era poi la completa verità. Mi facevano male i polsi mentre li ruotavo.

I genitori di Bree si stavano avvicinando e Adam ebbe il buon senso di trascinare via dalla rissa Jess. Di forza, ma ci riuscì. Eppure, i suoi sforzi furono vani, perché non appena Jim stuzzicò Jess, lui gli corse contro a tutta birra per vendicarsi delle cattiverie che stava dicendo sul suo conto e anche sul mio. Jamie riuscì a chiamare Adam e ad attirare la sua attenzione prima che anche lui si ributtasse nella massa.

«Hey! Hey, tu! Adam! Morrissey, vieni qua!», lo chiamò con energia. Si girò verso di noi e sentii solo Jamie che mi lanciava verso di lui. «Portala via da qui prima che qualcuno mormori troppo su di lei, Jim potrebbe prenderla troppo a cuore, questa questione!», disse digrignando i denti. «Jess mi sembra troppo coinvolto per uscirne pulito. Portala via da questa dannata festa, okay?». Volevo davvero oppormi a quella proposta, prima di tutto perché anche io ero stata coinvolta più di tutti e quindi andarsene non aveva alcun senso, e poi anche perché non avevo la benché minima intenzione di restare lontana da Jess per andarmene con Adam. Non volevo saperne, e lasciare lì solo Jess mentre si stava prendendo tutte le botte del mondo per difendere me mi sembrava un colpo estremamente basso e da vigliacchi. Io non ero una vigliacca.

Vidi Adam riflettere su quella proposta in un batter d'occhio e acconsentire ancora più velocemente. Si scagliò su di me coprendomi con le spalle e spingendomi via da lì.

«Assolutamente no!», gli gridai addosso. «Non esiste proprio! Io non me ne vado! Jess le sta prendendo per colpa mia, e io resto qui!».

«Cosa cazzo stai sparando?», mi rispose ansioso e allibito Adam. Anche Jamie e Lara sgranarono gli occhi.

«Hayley, vattene da qui. Spiegheremo noi le cose a Jenna», mi tranquillizzarono.

«Ah, si? E cosa direte a Jess quando verrà a cercarmi? Che me ne sono andata con Adam? Scommetto che farà i salti di gioia». La rabbia e l'inquietudine facevano bella mostra di sé nel suono della mia voce.

«Ma sei scema? Ti sei bevuta il cervello? Quel bastardo figlio di puttana non appena ne riavrà l'occasione ti salterà di nuovo addosso! Vuoi restare qui a farti mettere le mani addosso da un verme simile?!», strillò più furioso di me Adam. Non l'avevo mai visto così.

«Voglio che sia Jim a doversene andare e non io a dover scappare da lui. Prima o poi lo incrocerò di nuovo, non posso cambiare Stato solo perché devo stare attenta a un cretino come lui».

«Non capisci, Hay. Adesso oltre a essere in difficoltà nell'ottenere ciò che vuole, Jim vede tutto questo come una questione di principio... Ci andrai di mezzo tu», disse più rilassato Jamie. Puntai i piedi e mi liberai della presa di Adam.

«Io resto qui. Fine della storia», conclusi decisa mentre Adam rideva nervoso, incredulo ed esterrefatto. Lara sembrava essersi arresa già da un pezzo, sapeva che una volta impuntata su una cosa, difficilmente mi sarei smossa da lì.

«Tu sei davvero, davvero stupida», si limitò a rispondermi Adam con la voce più bassa.

«Grazie, ma conosco elementi ancora peggiori», dissi guardandolo malissimo. Lo scansai e mi avventai verso il luogo della rissa, dove i genitori di Bree e alcuni ragazzi più grandi avevano messo fine a quello scempio nato dal nulla. La gente era davvero malata. Perché scattare per così poco?

Jess era trattenuto da Chris e Travis, insieme a qualche altro loro compagno di classe. Jim e i suoi compari, invece, stavano ricevendo gli insulti dei genitori di Bree e si accingevano a lasciare la festa, non senza minacciare Jess. E non avevano dimenticato Adam, che avvisarono con occhiatacce micidiali mentre se ne andavano pavoneggiandosi più di prima. Secondo loro, avevano reso la festa più interessante, ma meno degna della loro partecipazione. In realtà, se ne stavano solo andando con la coda tra le gambe perché erano stati cacciati e minacciati.

Poi i genitori di Bree si voltarono verso chi aveva partecipato più o meno attivamente alla rissa, in particolar modo verso Jess. Lo avvisarono che avrebbero parlato con i suoi genitori, ma che poteva considerarsi fortunato.

Fortunato di che? Di non essere stato cacciato via? Bella fortuna.

Mi avvicinai a Jess e lo guardai bene. La camicia bianca e la cravatta grigio chiaro si erano macchiate di sangue. Aveva uno zigomo e il naso disastrati.

«Gesù... Vuoi andare al pronto soccorso? Magari ti sei rotto qualcosa», dissi senza sapere dove mettere le mani per paura di fargli male. Sentii Adam sbuffare mentre si metteva del ghiaccio sul labbro spaccato. Mi voltai per fulminarlo, ma vidi che in fondo se l'era cavata meglio di tutti. Oltre al labbro, aveva solo le nocche di entrambe le mani insanguinate. E non ero sicura che il sangue fosse tutto suo.

«Ma che pronto soccorso... Sto bene, sto bene», mi rispose Jess attirando di nuovo la mia attenzione. Sembrava scocciato.

«Ti prendo del ghiaccio, aspetta. Tu intanto vatti a sedere, ti raggiungo». Lui non rispose, ma Chris e Travis lo portarono di forza verso un tavolino.

Quando tornai, la sfilata aveva ripreso il suo normale corso. Li trovai tutti seduti attorno allo stesso tavolino, anche Adam. Feci una smorfia e mi misi accanto a Jess, ma non potevo evitare di sentirmi in pena anche per quel deficiente di Hitch. Avrei voluto dare altro ghiaccio anche a lui, ma mi sembrava inopportuno.

Quasi a farlo apposta, c'erano Jess da una parte del tavolo e Adam da quella opposta. Chris e Travis vicino a Jess, Jamie e Lara da quella di Adam. Sembravano divisi in squadre. E infatti sapevo per certo che Travis e Chris, così come Jess, non potevano vedere quello che, secondo loro, era il rivale del loro amico. Lara e Jamie, invece, avevano accettato di buon grado la sua presenza, anche perché non lo vedevano quasi mai, tanto meno ci parlavano. Non dava nessun fastidio, a loro.

Iniziai a tamponare il ghiaccio sulla guancia di Jess, mentre lui mi fissava da vicino e senza dire una parola. Era incantato, quasi morto se non avessi visto con i miei occhi che respirava, così assente da mettermi un po' in imbarazzo. Era troppo vicino. E come mi fissava... Non capivo se fosse arrabbiato o pensieroso.

Nessuno parlò per un po'. Poi Lara ruppe il silenzio.

«Hayley, ma si può sapere quando starai più attenta? Impara a credere che esiste gente davvero malata lì fuori che per avere ciò che vuole usa soprattutto la forza».

«Punto numero uno, non ha ottenuto un bel niente. E punto numero due, non ha usato la forza. Non così tanta come credete voi», mi corressi alla fine.

«Ma per favore!», sbottarono in coro Adam e Jess, e tutti si guardarono nervosi. Jess fulminò Adam, lui a sua volta fece un'espressione rassegnata e da “essere superiore”, non so se mi spiego. Io però avevo capito che Jess iniziava a dargli parecchio sui nervi.

«Ragazzi, qui Jim inizia a diventare un vero problema», concluse Jamie come se volesse organizzare una spedizione di salvataggio. Era ridicolo.

«Andiamo, non sono stupida, ragazzi! Credo di poter evitare certi problemi senza che nessuno si debba per forza far deformare la faccia», sibilai sentendomi al centro dell'attenzione. Lo odiavo.

«Nessuno dice che sei stupida, Hay. È solo che tu non hai ancora capito del tutto di cosa è capace Jim. È meglio che tu non ti ritrovi faccia a faccia con lui», mi spiegò Travis. Adam fece uno schiocco con la lingua, come per costringere se stesso a stare zitto; solo che tutti si girarono verso di lui.

«E adesso che c'è?», ringhiò Jess spaventandomi. Ero ancora molto vicina a lui, così mi allontanai un pochino.

Adam scrollò le spalle, inspirò e si alzò. Ma proprio mentre se ne stava per andare, Dana sopraggiunse a spargere un altro po' di zizzania. Perfetto. Alzai gli occhi al cielo in attesa che mi rovinasse ancora di più la serata.

«Ma che bel faccino rovinato», la salutò Lara strafottente. Le sorrisi di nascosto.

«Già, Courtney Love, ma non sono qui per parlare con te. O di te, sai che schifo». Che ragazza insulsa. Si rivolse verso di me sventolando una busta rosa più grande, ma il colore e la consistenza non mi erano nuove. «Smithson, volevamo farle passare sul megaschermo durante la sfilata», iniziò parlando delle foto, «ma poi abbiamo pensato che, visto che alla fine sei venuta, avresti solo attirato troppa attenzione. E stasera l'attenzione non deve affatto ricadere su di te. Avevamo anche pensato di lasciar correre, ma a Bree proprio non sta bene che tu continui ad attirare l'attenzione, così...», fece allungando la busta verso Jess, che non le porse la mano per prenderla. Lasciò cadere la busta sul tavolino, scocciata. «Così, le lascio qui. Jess, credo dovresti vederle», concluse con voce più zuccherosa del solito. Da voltastomaco.

«Grazie, ma sono già al corrente di quelle tre foto», rispose superiore. Tirai un sospiro di sollievo mentre aspettavo che sul volto di Dana comparisse un'espressione delusa e sorpresa. Al contrario delle mie aspettative, iniziò a ridere in modo così irritante che mi stupii del fatto di non averle distrutto di nuovo quella faccia da culo.

«Tre? Ma quali tre foto! Qua c'è un album, caro Jess, e mi dispiace dirti che... tu qui non appari mai», disse compiaciuta e stronza come una vipera. Si strinse nelle spalle e fece gli occhioni. Mi lanciò un sorrisetto finto e se ne andò via sculettando mentre augurava solo a Jess una buona visione e un buon proseguimento di serata.

Dovevo avere una faccia paralizzata e impietrita, perché Jamie e Lara mi guardarono apprensivi. Adam rimase interdetto, in piedi vicino alla sedia.

«Sono solo foto, i paparazzi girano e rigirano gli scatti per farli sembrare diversi», fece Adam volendo discolparmi. Ma perché avevo così paura della reazione di Jess?

«Non vorrai vederle davvero, Jess...», continuò Jamie frivolo. Avevo il respiro corto. Fissai la busta sul tavolo, desiderando bruciarla insieme al cuore di Dana. Aspettai che rispondesse qualcosa, ma lo sentii solo digrignare i denti mentre allungava una mano per afferrare quella maledettissima busta.

«Jess», sbottai fermandogli la mano. «Sono solo foto».

«Allora posso vederle senza problemi. Sono solo foto, e io sono solo curioso», mi bacchettò severo. Sembrava mi odiasse. Mi prese la mano che bloccava la sua e la tolse bruscamente dal suo polso.

«Jess, andiamo...», tentò Travis.

«Avete detto voi che sono solo foto. E allora perché non posso guardarle?», fece alzando la voce e dilaniando il rosa della busta. Deglutii in attesa della mia condanna. Chissà cosa ritraevano quelle foto. Le uniche tre che avevo visto, se osservate da un completo estraneo, sarebbero potute sembrare decisamente equivoche. Sapevo di non aver fatto nulla di sbagliato, ma sapevo anche di aver nascosto a Jess parecchi accompagnamenti a casa da parte di Adam. E anche parecchie visite a casa sua. Di per sé erano tutte cose innocue, ma viste così, tutte insieme, e in un momento come quello...

Non lo guardai nemmeno mentre sfogliava due, tre, quattro fogli. Avanti e retro. Quante cazzo erano quelle fottute foto? Quante?

«Jess...», feci indecisa. Alzai gli occhi e lo vidi furioso, con le mascelle tese e gli occhi diventati una fessura. Buttò i fogli – sei in totale – sul tavolo e mi guardò per alcuni secondi interminabili. Mi stava odiando sul serio. Tutti intorno a noi finsero di guardare altrove. Tutti tranne Adam.

«Sei un coglione se credi a quelle foto. Sono solo apparenza», prese le mie difese Adam, guardandomi di sottecchi. Perché lo stava facendo? Non aveva senso.

Jess rispose alla sua affermazione alzandosi lentamente. Gli puntò un dito addosso e fissandolo come un pazzo furioso iniziò a parlare.

«Fammi un favore, amicone della mia ex ragazza, stasera portala tu a casa. Tanto vedo che non è mica la prima volta che succede, no?», disse guardandomi malissimo. «Levamela da sotto gli occhi, o non so cosa potrei dirle».

«Guarda che è qui, non è una qualsiasi stronzetta. Ti sente e non è stupida», disse al posto mio Adam. Io, senza forze, mi misi le mani in faccia. Sentii le risate di Bree e del suo gruppetto rompermi i timpani. Le orecchie mi fischiavano alla grande.

«Non è una qualsiasi stronzetta?», ripeté Jess facendogli il verso. «Questo lo lascio decidere a te», sussurrò infine andandosene come un uragano furioso.

All'improvviso, sentii un nodo in gola. Chris e Travis si scusarono e gli corsero dietro, mentre Jamie raccoglieva e strappava i fogli senza nemmeno guardarli. Adam restò lì, in piedi e imbambolato. Forse un po' confuso dalla situazione, ma pur sempre allibito.

«Hayley, era solo su di giri per cosa è appena successo, non pensa davvero quelle cose», iniziò a blaterare Lara. Non la ascoltai nemmeno. Mi armai di pazienza e, disarmata e stanca, mi alzai dal mio posto per andarmene.

«Hay...», mi chiamò Jamie. Lara stava per corrermi dietro, ma Adam la fermò e prese il suo posto. Sentivo ancora le urla di gioia di Dana e delle sue seguaci. E va bene, avevo perso e loro avevano vinto. Mi avevano umiliata, d'accordo.

Non capii quando mi si sciolse il trucco. Forse ero già fuori dalla casa di Bree, o forse no. Mi sentivo debole e non sapevo dove andare. Non appena voltai l'angolo dietro il cancello, però, udii delle voci che mi fecero tornare in me. Per la paura.

«Rieccola, la troietta...», disse un amico di Jim. Deglutii e mi asciugai le lacrime alla meno peggio.

«Oh, povera cocca, il tuo ragazzo è una pappamolla e sei triste? Oppure ti abbiamo rovinato la festa?».

«Oppure finalmente ti ha scaricata? Eh?», concluse Jim. Mi ritrovai circondata da quattro ragazzi enormi e certamente malintenzionati. Mi acquattai sul muro e aspettai che arrivasse Adam. Sapevo che mi aveva seguita. Contai un paio di volte fino a tre e...

Infatti.

«Pezzo di merda, sei ancora qui? Le vuoi prendere sul serio, eh?», minacciò Adam.

«E tu sta' buono, hai già preso il posto di quella checca?», lo stuzzicò Jim.

«Se per checca intendi te stesso, beh... No. Io non rompo i coglioni dalla mattina alla sera come fai tu, povero malato psicopatico», rispose alterato Adam. Un amico di Jim ruppe la sua bottiglia vuota sul muro, prendendola dal collo come un'arma. Sobbalzai.

«Oh, cazzo...», gemetti a denti stretti. Adam mi buttò un'occhiata per calmarmi e assunse una faccia da esperto.

Si piegò e dalla tasca dei pantaloni estrasse un coltellino svizzero. Era sorridente.

«Oh, cazzissimo...», feci con voce più stridula e trattenendo le lacrime. Andavo in giro con uno che aveva un coltellino svizzero in tasca?! E che era stato in galera?!

Gesù, Gesù.

Fece schizzare in avanti una lama e due degli amici di Jim fecero un passo indietro, lasciandomi più spazio verso Adam.

«Non spaventi nessuno, Morrissey», lo ammonì Jim. Stava bluffando, si capiva da come i suoi occhi vagavano dalle mani di Adam alla piccola ma affilatissima lama.

«Tu dici? Vediamo. Sono di Detroit, credi che non abbia mai fatto un giro in galera per cose simili? Se domani ti svegli e hai ancora le mani, fatti un giro su Google. Cerca e fammi sapere cosa hai scoperto sulla mia fedina penale», fece micidiale. Chiusi gli occhi e deglutii. Iniziai a pregare. Ero completamente paralizzata dalla paura.

«Tutte balle», fece il tizio con la bottiglia in mano.

«Okay, vediamo chi mente», sbottò Adam avvicinandosi così rapidamente da far spaventare sul serio tutti e quattro. «No, no, bello. Adesso vieni qui e facciamo i conti. Vieni, vieni», continuò avventandosi su di lui con il coltellino puntato. Mi sembrava del tutto fuori controllo.

«Oh! Oh!», gridarono alcuni di loro.

«Okay, abbiamo capito!».

«Tu sei fuori, coso, datti una calmata», ammise controvoglia e spaventato Jim. «Adesso ce ne andiamo. Ragazzi...».

«No, no. Restate qui, così vediamo una volta per tutte chi è il vero pericolo», riprese Adam parandosi di fronte a me e allungando una mano a mo' di scudo. L'altra era protesa in avanti con l'arma in mano.

E in meno di due secondi tutti se la diedero a gambe.

Lentamente mi lasciai cadere contro il muro con una smorfia visto che mi stavo letteralmente grattugiando, e aspettai che il respiro mi tornasse regolare. Le lacrime tornarono a sgorgare come un fiume in piena mentre vedevo Adam riporre il coltellino. Si inginocchiò vicino a me, ma si tenne a distanza.

«Ce la fai ad alzarti? Andiamo a casa, Hayley», disse sembrandomi un vero criminale. Un criminale pentito.

«Mi viene da vomitare», ammisi chiudendo gli occhi annebbiati.

«E va bene. Ti porto in macchina e ti do un sacchetto. Tieniti forte...», disse prendendomi in braccio con troppa facilità. «Questa giornata dovrà pur finire, prima o poi».

Quanto desideravo che avesse ragione.

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Capitolo 14
*** La cosa giusta da fare è sempre la più sbagliata ***


Ridendo come una deficiente, lasciai che Adam mi aiutasse a mantenermi in equilibrio con un braccio intorno alla vita. Sospirò e girò la chiave nella serratura.

«Hayley, fa' uno sforzo e resta in piedi, almeno finché non entriamo», mi sgridò. Gli misi un braccio intorno al collo e annuii morendo dalle risate.

Era bello vedere come girava tutto. Sembrava un terremoto costante, però senza scosse, molto più soffice e delicato. Piacevole. E poi era tutto divertente, qualsiasi cosa mi stimolava la risata genuina e rumorosa. Anche quello era piacevole.

Dovevo bere più spesso, se nei paraggi c'era un ragazzo disposto a farmi da baby-sitter. Uno come Adam, che però non sembrava lieto di avermi accanto. Almeno, non in quelle condizioni pietose. Forse non valeva la pena fare così...

«E va bene», annunciò aprendo la stanza delle meraviglie, «adesso ti siedi sul divano e aspetti che ti prepari qualcosa di rigorosamente non alcolico. Aspetta qua». Annuii sorridente, sforzandomi di non ridere senza motivo, ma non appena sparì da dietro la porta mi scappò un rumore gutturale che mi sembrò davvero troppo divertente per non riderci su. Così, piano piano, arrivai a sedermi. Non sul divano, ma di fronte al pianoforte.

Con lentezza assurda, mi tolsi prima le scarpe altissime e poi tutti gli infiniti elastici e forcine che mi stavano torturando il cranio. Presi un fazzolettino imbevuto dalla borsa e me lo passai sotto gli occhi. Dovevo iniziare a usare i trucchi resistenti all'acqua, come mi aveva sempre consigliato Jenna, però mi davano fastidio perché quando arrivava l'ora di struccarsi non se ne andavano mai.

Mi massaggiai le tempie sperando di trovare una qualsiasi forma di sollievo, ma non fu così. Mi rivenne in mente la faccia di Jess, poi quella di Jamie e di tutti gli altri... E anche le risate di Dana e Bree.

Il rumore della porta mi fece sobbalzare e ricacciare indietro le lacrime.

«Ridi ancora?», mi chiese Adam serio. Sorrisi e mi scese una lacrima.

«No», risposi con la voce rotta dal pianto. «Dammi qualsiasi cosa mi possa far passare la sbronza, non ne posso già più».

«Vedrai domattina, allora. Hai bevuto pochissimo ma sei partita subito», fece allungandomi una tazza di non so cosa al limone. Evitai di chiedere cosa fosse per paura che la voce potesse mancarmi di nuovo e iniziai a sorseggiare la bevanda bollente.

«Attenta, ti bruci la lingua se bevi così in fretta», mi avvisò.

«Volesse il cielo», replicai tentando di alzarmi per andare a posare la tazza fumante sul bancone. Barcollai un po', ma ci arrivai senza far cadere niente.

«Non volevo spaventarti, prima... Sai, con Jim».

«Beh», sbottai senza sapere cosa dire.

«Vado sempre in giro con un coltellino svizzero in tasca, se questo può tranquillizzarti».

«No che non mi tranquillizza, Adam!». Mi voltai troppo velocemente e persi l'equilibrio, ma non finii a terra solo per i riflessi miracolosi di Adam.

«Puoi stare attenta?», mi sgridò alterato.

«Perché ci provi gusto a parlarmi così? Cosa ti ho fatto? Perché mi odi anche tu?», piagnucolai con gli occhi lucidi. Mi guardò sprezzante e si accese una sigaretta.

«Sei così innocentina, Hayley. Fai finta di non capire o è l'alcool che ti offusca la capacità di giudizio?», mi ringhiò contro.

Non ne potevo più di essere trattata così da tutti. E poi, dannazione, mi girava la testa!

«Vaffanculo!», gridai mentre iniziavo a piangere convulsamente.

«Hey, hey, hey!», fece sbarrandomi la strada. «Aspetta, Hayley, aspetta. Scusami».

«No. No! Smettetela di trattarmi come se fossi una merda qualsiasi! Basta! Le stronze ridono di me, i figli di puttana mi vogliono stuprare e prendono a pugni i miei amici... Il mio ex ragazzo non ha mai avuto un briciolo di fiducia in me, e la gente ci gode! Alla gente piace vedermi strisciare, Adam, e piace anche a te, ammettilo! Ti piace vedermi implorare il tuo aiuto, hai capito anche tu che tanto torno sempre con la coda tra le gambe... E tu fai finta di niente, tu mi odi come tutti gli altri, e io non riesco a evitare di finire in questa cazzo di stanza! Non ne posso più, io davvero non ce la faccio, Adam, io...», mi sfogai piangendo più del necessario. Che bella figura che stavo facendo. Di nuovo.

«Allora tu non fai finta di non capire, tu non ci arrivi proprio», commentò facendomi indietreggiare verso il muro e appoggiandoci sopra le mani. Sentivo il mento che mi traballava instabile. E giù con altre lacrime mentre mi lasciavo scivolare per terra. Se l'alcool comprendeva anche tutte quelle figure e quegli sbalzi, beh... Non ne valeva la pena, allora.

«Hayley, lascia che ti dica una cosa che molto probabilmente domattina non ti ricorderai», iniziò inginocchiandosi di fronte a me e asciugandomi una lacrima. «Faccio davvero fatica a essere ragionevole quando mi giri intorno». Lo guardai confusa.

«Mi fa piacere sapere che sei poco ragionevole e che giri anche con un coltellino svizzero in tasca, allora».

Rise e mi alzò da terra. Mi fece sedere sul pianoforte, fresco e lucido. Ci appoggiò le mani sopra e mi scrutò.

«Non ti avrei mai fatto del male», affermò convinto e sicuro mentre spegneva la sigaretta.

«Lo so. Hai anche tentato di difendermi più volte stasera, ho notato. Grazie», feci stanca. «Ma dimmi una cosa», continuai, «perché non ti permetti di essere sincero con nessuno? Tu sai tanto, tutto di me, però quando io ti chiedo...».

«Delilah», mi interruppe brusco. «Era la mia ragazza a Detroit e per gran parte dei primi mesi di successo. Era la cosa più importante per me, l'unica cosa che mi spingeva giù dal letto. Mi teneva con i piedi per terra anche quando non me lo meritavo. Insomma, era la mia Delilah. Poi è successo che è rimasta incinta. Io volevo tenere quel figlio, ero quasi felice di mettere su famiglia con lei, non m'importava che fosse a diciassette anni. Avevo sempre pensato che la mia vita sarebbe andata avanti con lei. Io lo volevo, quel bambino, perché non c'era nulla di sbagliato in noi. Ma Delilah non la pensava così. Avevamo iniziato a discutere anche pesantemente, perché lei voleva abortire, ma io non volevo che lo facesse. Stavo per accettare l'evidenza, insomma... Non potevo costringerla ad avere un figlio da me. Non lo voleva. Non ci voleva più. Una sera l'ho beccata a farsi una dose. Inutile dire quanto non ci avessi visto più. Ho perso un po' il controllo, ma non l'ho picchiata davvero, capisci? Volevo solo impedirle di fare cazzate. Ma era completamente impazzita, non mi ascoltava, gridava, correva... Era l'inferno. In ospedale ci dissero che non era in pericolo di vita, ma che il bambino sarebbe potuto morire se lei avesse continuato in quel modo. Ero pronto a fare uno sforzo e ricominciare, sarebbe stato difficile, ma non impossibile. Quando andai a trovarla in ospedale dopo qualche giorno, però, lei non c'era più. L'avevano dimessa e io non ne sapevo niente. Mi aveva lasciato lì. Non una lettera, non un foglietto, niente. Non mi ricordo nemmeno l'ultima cosa che ci siamo detti».

Fissai il colore dei suoi occhi, verdi e indecifrabili. Avrei dovuto vivere anni e anni prima di riuscire a capire la sua frustrazione e il dolore che lui aveva vissuto e provato in soli diciannove anni. Il successo, la fama, i soldi... Per lui non erano niente, ed era evidente quanto soffrisse per le cose che aveva perso irrimediabilmente. Sapeva che i soldi andavano e venivano, e con quelli non poteva comprarsi un fratello, una madre, un padre o una ragazza con suo figlio in grembo. Era solo e non ne capiva il motivo. Non lo capivo nemmeno io. E del resto, come potevo? L'unico mio problema era ridicolo e banalissimo se paragonato a uno solo dei suoi.

Ci fissammo per alcuni minuti interminabili. Lui non faceva una piega, io cercavo come una forsennata qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa di amichevole e che mi potesse fare sentire adatta alla situazione. Ma trovavo solo rabbia e solitudine, e mi sentii un nodo in gola. Guardai di nuovo il suo labbro ferito. Poi gli presi una mano, con le nocche tutte aperte a metà, e parlai con aria colpevole.

«Mi hai detto tutto», constatai con un filo di voce. «Mi dispiace di averti costretto».

«Non mi hai costretto, mocciosa», mi rispose amareggiato. «Se non capisci questo, allora... Sono proprio inguaiato. Non ne uscirò mai».

Aggrottai la fronte e in un millesimo di secondo ogni dettaglio tornò al suo posto. Ogni parola che prima non aveva senso per me, ora trovava una spiegazione. Ovvia e impossibile. Sbagliata ma perfetta. Morale ma non etica.

Alzai gli occhi per guardarlo meglio, anche se mi era difficile concentrarmi.

«Io?», chiesi allibita e senza voce. Non rispose e seguitò a fissarmi. Era dentro i miei occhi, non sembrava mi stesse parlando. E infatti non lo stava facendo. Mi stava letteralmente smembrando l'anima e la mente, senza nemmeno proferire parola. Straordinario.

Allungai una mano sulla sua guancia e una lacrima mi inumidì il viso.

In fondo ci avevo sempre sperato. Inutile negarlo, no?

Abbassai lo sguardo per un secondo, ma lui mi mise una mano sotto il mento e mi costrinse a guardarlo ancora.

E all'improvviso tutto cambiò. Tutto. C'era un motivo se ero lì con Adam, quella sera.

Mi bastò un istante a capire cosa dovessi – cosa volessi – fare.

Allungai anche l'altro braccio verso di lui e lo trascinai verso di me, appoggiando indecisa le mie labbra sulle sue. Non reagì subito, e io mi sentii respinta. Umiliata, feci marcia indietro.

«Scusa», dissi imbarazzata. Dio mio, come avevo potuto essere così stupida? Cosa mi era passato per il cervello?

«Scusa?», ripeté incredulo. «No, adesso tu resti qui con me», disse prendendomi per la nuca e dimostrandomi che non avrebbe accettato le mie scuse. Erano scuse inutili, a quanto pareva.

Sentivo il suo respiro tutto addosso, ma non me ne volevo liberare.

Ero fermamente convinta che – non importava cosa ci fosse voluto per giungere in quella stanza in quel determinato momento – qualsiasi cosa avessi dovuto superare quella sera per arrivare a quel punto non valesse la perdita di un momento simile. Tutto tornava al suo posto, come se non ci fosse mai stata un'altra via alternativa.

Lasciai che la sua mano scorresse sulle mie spalle e indugiasse sulla cerniera del vestitino. Non era sicuro di volerlo davvero, forse? Ero io che dovevo avere dubbi, mica lui. Risposi alla sua titubanza avvicinandolo al pianoforte e lasciando il cervello disconnesso.

Solo per un po'.

Non avrebbe fatto male a nessuno. Forse solo a me.

Ma solo per un po'.

 

Non credevo che in quella stanza potesse entrare la luce in modo così diretto. Ce l'avevo dritta negli occhi e mi faceva male alla testa. Forse era stata proprio quella a svegliarmi e a farmi ronzare le orecchie.

Tutto era perfettamente silenzioso, si sentiva solo il mio respiro regolare. Piano piano, però, l'angoscia mi assalì inesorabilmente e il mio respiro regolare andò a farsi benedire.

Spalancai gli occhi, ma non avrei mai dovuto farlo. Una lama immaginaria mi spaccò in due il cervello e la mia stabilità psichica, tutto in un sol colpo.

Sentii una fitta indescrivibile dritta in mezzo agli occhi, subito dopo un cerchio alla testa completò il quadro. Bocca impastata da far schifo.

Dunque, era così che ci si sentiva dopo una sbronza. Ero nel post sbornia, che emozione.

Con molta cautela iniziai a cercare con gli occhi qualcosa che mi ricordasse cosa esattamente avessi fatto.

Mi ci vollero cinque minuti buoni per ricordarmi del disastro a casa di Bree, e l'angoscia mi schiacciò i polmoni. Ma quello non fu niente quando mi ricordai del naso insanguinato e dello zigomo sfracellato di Jess. Jess.

Cazzo, Jess.

Merda, Jess! Jess! JESS!

Mi sedetti di scatto sul divano sul quale mi ero trovata appallottolata in una coperta. Non fu una buona idea, perché il mondo riprese a girare troppo velocemente per i miei gusti.

Fu allora che la porta si aprì e Adam si materializzò con due bicchieri di caffè in mano. Non aveva nessuna espressione particolare, sembrava una qualsiasi azione, abituale e così quotidiana da non essere degna di una caratteristica faccia.

Okay.

Dovevo fare un paio di calcoli. Più che calcoli, si trattava di ricordi, un testa a testa con la mia memoria un po' sbiadita.

Ero ubriaca, okay, e quello l'avevo appurato. Ero tornata a casa di Adam perché mi ero scordata le chiavi di casa, ripromettendomi che non appena Jenna fosse rientrata, sarei tornata anch'io.

Okay.

Poi era iniziato un discorso strano con Adam, una cosa importante... Ma cosa? Chi?

Un nome mi balzò davanti, come un cartello stradale. Delilah.

Okay.

Tutto il resto si ricompose nella mia mente da sé. Particolari più o meno raccapriccianti, altri decisamente imbarazzanti. Alcuni indimenticabili nonostante la sbronza.

«Ti sei svegliata, ciao», mi salutò mettendosi la camicia. Deglutii e non risposi.

Jenna. Dio, Jenna. Non l'avevo avvisata, non sapeva niente, lei mi credeva alla festa, io...

«Sono appena tornato dal salotto, dove ho trovato Jenna e mio zio. Lara e Jamie l'avevano chiamata dicendole che eri con loro, ieri sera. Perciò lei ti crede da Lara, che a quanto pare sta simulando la tua presenza in maniera pressoché perfetta, perché tua madre mi sembra felice e rilassata. Non crede minimamente che tu sia qua, come del resto non può crederlo nessun altro. Solo Jamie, forse. L'ho avvisato chiamandolo da un numero privato, gli ho detto che era tutto a posto e che eri con me, ma non mi sono fatto sfuggire alcun particolare. Tranquilla, nessuno sa niente», mi spiegò porgendomi il caffè. «Ne ho presi due di nascosto. E poi, i due vecchi erano troppo presi nelle loro chiacchiere per accorgersi di me».

Se solo Jenna avesse saputo cosa aveva fatto sua figlia con il nipote del suo attuale uscente, mi avrebbe sgozzata a sangue freddo. E se poi Jess, Dio, Jess... Lui le aveva prese per me, quelle botte, e io...

Ero una stronzetta qualsiasi.

Avevo perso la verginità, ubriaca come una spugna, con un rapper. Che qualunquista che ero. Una stracciona, ma non tanto per Adam. La situazione in sé mi faceva schifo.

Non doveva essere così, cacchio! Non con me!

Non mi ricordavo nemmeno se... avessimo preso precauzioni.

«Adam, noi...?», chiesi vaga. Forse troppo vaga.

«Io ho fatto il mio dovere, ma forse è meglio se tu prendi questa. Non si sa mai», fece lanciandomi una pillola. Non ero stata poi così vaga, allora. Non per lui. Mi aveva capita al volo. La presi velocemente, consapevole che sarebbe stata una mazzata ormonale che, aggiunta alla sbornia da smaltire, mi avrebbe reso la giornata un inferno.

Stavo giusto per chiedergli dove l'avesse presa uno come lui una pillola del giorno dopo. Dalla mia faccia intuì la mia domanda imminente.

«Ne ho sempre un paio nascoste... Anche mio zio le nasconde e crede che io non lo sappia. Quando improvvisiamo non vogliamo rischiare. E tu mi hai preso alla sprovvista», ammise serio. Non capivo: era pentito?

Mi passai una mano sulla fronte e mi abbracciai le ginocchia attraverso le lenzuola. Risi di me stessa.

Non sapevo cosa dire, mi sentivo completamente a disagio. Scossi la testa, incredula e confusa. Mi aveva vista... nuda! Adam Morrissey si era fatto Hayley Smithson, wow. O io mi ero fatta lui?

«Noi ragazzi non ce ne pentiamo mai. Il peggio che può succederti è essere rimossa», mi spiegò sorseggiando il suo caffè, «ma tu non corri questo rischio. E nemmeno io, sembrerebbe», disse alludendo alla mia inesperienza. Sospirai e lo guardai, sentendomi impacciata. Avevo la bocca così secca che difficilmente avrei spiccicato una sola parola.

Mi venne in mente il “patto” che Jess aveva stretto con me, quello che detto alla meno peggio era qualcosa del tipo “io ti aspetto se tu nel frattempo non ci stai con nessun altro”.

Spalancai la bocca.

«Adam, non ho più la mia virtù», dissi incredula. «Accidenti, l'ho persa», conclusi ridendo, ma in realtà volevo piangere e disperarmi. Se avessi gridato, però, Jenna mi avrebbe sentita e allora sì che sarebbero stati guai veri. Guai seri.

«Non l'hai persa. Ce l'ho io, ma non posso restituirtela», fece abbozzando un sorriso compiaciuto.

«Porca puttana, che casino», gemetti con la testa premuta sulle ginocchia.

«Ti ricordi abbastanza bene. Allora non eri così tanto ubriaca. Non hai agito contro la tua volontà, vero? Perché non voglio essere accusato di averti “rubato” la virtù», disse rigirando le mie assurde parole.

«Suppongo di no», risposi con un putiferio nella testa. «Ma almeno non la ruberà Jim», fu l'unica cosa positiva che mi venne in mente.

Adam sospirò e mi porse i vestiti.

«Non ti dimenticherai di certo di me», iniziò contrariato, «ma di sicuro te ne stai già pentendo». Deglutii a fatica e presi i vestiti. «Se vuoi che me ne vada, posso farlo».

«Non ne vedo il bisogno. Cosa dovrei nasconderti?», feci un po' arrabbiata per la sua indelicatezza. Non che io fossi da meno, ma lui poteva almeno mostrarsi un pochino meno cinico e distaccato.

«Non si sa mai. Io chiedo sempre».

Lentamente, mi rivestii. Non riuscii a chiudere bene la cerniera del vestitino, ma Adam mi diede una mano con una sigaretta in bocca. Sembrava a disagio, come se non volesse farsi beccare mentre guardava. Mi passai una mano nel groviglio di capelli e aspettai che il disagio tornasse anche per me. Invece mi ricordai di un'altra cosa, che mi fece sorridere.

«Se non ricordo male era qualcosa tipo: “Faccio davvero fatica a essere ragionevole quando mi giri attorno”, giusto?», dissi ridendo. «Ma tanto non me lo ricordo», aggiunsi sarcastica senza essere frivola per davvero.

Con un ghigno, scosse la testa e si stravaccò sul divano vicino a me, fissando la luce del sole che gli arrivava dritta negli occhi.

«Come va stamattina?», mi chiese senza nemmeno guardarmi.

«Potrei darti tantissime risposte. Tu a che tipo di domanda ti riferivi?».

«La sbronza. Come va?».

«Una merda. Ma passerà», sbottai schietta. «E tu? Come va?», osai intimorita.

Si voltò a fissarmi, come se non si aspettasse una domanda simile.

«Scherzi?», mi chiese indelicato.

«No. Come va, Adam?», ripetei sentendomi fuori posto. Avevo paura della risposta.

Un ghigno sarcastico comparve sul suo volto.

«Nemmeno mi ricordo l'ultima volta che sono stato così», mi rispose fissandomi negli occhi. Deglutii, con un leggero giramento di testa.

«Bene o male?», mi buttai come un'incosciente.

Si alzò e si avvicinò allo stereo. Tirò fuori da una pila assurda di cd quello che mi sembrava Origin Of Symmetry, dei Muse. Aspettai che mi desse la sua risposta. Ero impaziente.

«Immagino tu sappia che i Muse, in questo album, hanno fatto la cover di una canzone famosa», iniziò mettendo il cd al suo posto.

«Feeling Good», risposi con la voce secca. Mi guardò sorridente e tornò al suo stereo, facendo partire la canzone.

«Come credi che stia, Hayley? Non potresti farmi male, neppure impegnandoti». Conoscevo un modo per contraddirlo, ma siccome io non giravo con un coltellino svizzero in tasca, forse era meglio non contraddirlo. «Io sto bene».

Tirai un sospiro di sollievo e mi alzai.

«La prossima volta rispondi alla domanda senza troppi giri poetici e musicali, okay?», feci sollevata.

«Non sono io quello che si pentirà di aver fatto l'amore la scorsa notte, giusto?».

Quella frase mi fece mancare il respiro.

Amore? Non sesso e basta? Mi mancava l'aria. Dov'era l'aria? Ossigeno, ossigeno, ossigeno. Davvero io avevo superato quel limite? Il modo in cui ne parlava lui lo faceva sembrare una cosa seria, da adulti, quasi bella. E io non ero né adulta né una bella persona.

Sentii un nodo enorme in gola ed evitai di guardarlo. Ancora l'aria non veniva in mio soccorso.

«Non... Adam, non credere che io...», iniziai senza sapere bene cosa dire. Mi schiarii la voce. «Adam. Allora. Probabilmente è vero che me ne pentirò, ma non per causa tua. Capisci?», feci timorosa della sua reazione.

«A dire il vero, no», mentì alterato. Iniziavo ad avere un po' paura.

«Saranno tutte le conseguenze che adesso dovrò affrontare che mi faranno pensare di stare attenta la prossima volta. Quello che noi... Insomma, di per sé non è sbagliato. Ma adesso la gente mi...».

«Giudicherà? Stavi per dire che la gente ti giudicherà perché tu hai passato la notte con me dopo che il tuo ragazzo ha fatto il coglione per tutta la sera? Stavi per dire questo?», sibilò fuori di sé. Lo sapevo.

«No», risposi sentendomi sotto interrogatorio. Dov'era il poliziotto buono? Vedevo solo il cattivo. E il bello, sì, ma non il buono.

«E cosa stavi per dire, allora?».

Sospirai. «Nessuno capirà le mie ragioni. Non ne vorranno sapere, sarò solo una nuova troietta», ammisi infastidita. «La gente non deve saperlo», conclusi scongiurandolo con gli occhi. Mi fissò schifato e indietreggiò.

«Tranquilla, Hayley. Se vuoi fare una sceneggiata, io ti appoggerò. Ma se non dovessi riuscirci, non azzardarti a tornare da me, non sono il tuo zerbino», mi ammonì crudele.

«Sì», dissi a testa bassa come una bambina appena sgridata.

«E comunque puoi sempre dire che eri ubriaca, se proprio ti interessa giustificarti con i tuoi amichetti».

Sempre a testa bassa, umiliata e ferita come non mai, mi assicurai che Jenna non fosse più in casa. Quando ne ebbi la conferma, presi le mie cose e uscii come un cane bastonato da lì, sotto lo sguardo accusatore di Adam.

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Capitolo 15
*** Bivio ***


Non tirai dritto fino a casa. All'ultimo secondo svoltai a destra, verso il vialetto dei gemelli.

Suonai al solito modo, di modo che potessero capire che ero io.

Sentii una mandria di elefanti precipitarsi verso la porta. Quasi la strapparono via tutti insieme: Lara, Jamie e Travis.

Lara mi buttò subito le braccia al collo e io, esitante, ricambiai l'abbraccio, cercando subito lo sguardo di qualcuno che di certo non mi avrebbe giudicata. Trovai in Jamie gli occhi rassicuranti che cercavo. Travis alzò gli occhi al cielo, sollevato ma esausto.

«Okay. La principessina è tornata e io vado ad avvisare colui che con voi non si può nominare», disse sparendo su per le scale.

«Ha chiamato Jess?», chiesi con la voce roca. Lara si allontanò per guardarmi meglio.

«Cosa ti è successo? Sei sconvolta. Tu non stai bene», constatò.

«È la sbornia che mi fa sembrare malata terminale», ammisi sotto lo sguardo fraterno di Jamie.

«Sbornia?», fece preoccupato. «Hay, mi sa che non è tutto», continuò indicandomi con un gesto vago. Mi diedi un'occhiata più attenta. Avevo i polsi con delle chiazze più scure, e sul collo, io...

«Non è un succhiotto quello, vero?», sbottò Lara allibita. Poi si aprì in un sorriso senza limiti. «Sì che lo è!», esultò.

«Già», ammisi senza guardarla. Fissavo i miei polsi.

«Io mi riferivo ad altro», riprese Jamie. «Ma è meglio se ne parliamo in camera mia».

Salimmo le scale con passo trascinato; almeno, io. Jamie mi seguiva, Lara svolazzava e saltellava precedendomi. Per quanto le volessi bene, a volte proprio non capiva. Con Jamie questo rischio non c'era e, mio malgrado, neppure con Adam.

Chiuse la porta delicato e mi fece sedere sulla sua poltrona gonfiabile che tanto adoravo. Verde speranza.

«Allora? Quelli non te li ha fatti Adam, immagino», iniziò dispiaciuto. Lara, non capendo subito, cercò con lo sguardo a cosa ci stessimo riferendo, così io alzai i polsi per facilitarla.

«Oh. Oh». Assunse una faccia del tutto diversa da quella frivola e contenta che aveva avuto fino a qualche secondo prima.

«No. Queste sono le dita delicatissime di Jim», ammisi senza mostrarmi troppo indolenzita.

«Poco prima della rissa», disse Jamie pensieroso. «E... quello, invece?», mi chiese indicandomi la spalla.

«Il succhiotto?», fece Lara schietta.

«No, non quello. Io intendevo...», e si avvicinò alla mia spalla, alzandomi i capelli, «questo, più precisamente. Qua dietro». Mi sfiorò delicato una parte della schiena e mi ritrassi subito.

«Ahi!», sibilai sorpresa. Cos'era che mi faceva così male? Non me ne ero nemmeno accorta. Girai la testa per cercare di capirci qualcosa, ma era troppo indietro e non riuscivo a vedere cosa mi bruciasse così tanto al tocco.

Mi alzai e andai a controllare allo specchio.

«Non si usano le grattugie sugli uomini, sai? Fa male», mi ammonì Lara. E compresi l'esatto istante in cui mi ero provocata quella... cosa. Non era una botta, era una sbucciatura arrossata, come quando un bimbo cade con le ginocchia sul cemento e ci si struscia sopra come un masochista provetto.

«Questo...», affermai indecisa, «me lo sono fatta da sola, dopo che Jim se l'è data a gambe».

«Scusa?!», gridarono in coro i miei due amici. «JIM?!».

Annuii, timorosa.

«ANCORA?!». Sembravano due menti sincronizzate, connesse e perfettamente collegate con entrambe le bocche.

Feci cenno di sì e mi sedetti, sotto i loro occhi fuori dalle orbite.

«Beh. C'era Adam. Li ha fatti cagare sotto. A dire il vero ha fatto cagare sotto anche me, con quel cacchio di coltellino svizzero. Ma è una lunga storia», li tranquillizzai.

«Ti seguiamo», sbottò senza parole Jamie. Lara si era seduta, altrettanto incredula e sconvolta, a bocca aperta.

«Non mi sembra il caso di fare queste scene, ragazzi. Ero appena uscita dalla casa infernale e sapevo che Adam mi stava seguendo. Per fortuna, direi, perché non volevo affrontare da sola Jim e i suoi amici da strapazzo. Beh, comunque facevano tutti gli splendidi, con bottiglie rotte in mano e pugni in avanti. E Adam li ha battuti tutti, minacciandoli e bluffando alla grande. Anche se non so effettivamente quanto stesse bluffando...», dissi perdendomi nelle mie riflessioni. I ricordi della sera precedente erano davvero, davvero incisi e indelebili nel mio fragile e sbronzo cervellino.

«E...?», mi incitò Lara.

«E... niente. Li ha mandati via e mi ha portata a casa mia, dove un po' fuori di me ho scoperto di non avere le chiavi. Così sono restata da lui, ripromettendomi di rientrare non appena anche Jenna fosse tornata».

«Ma non è andata esattamente così. Pazienza», concluse Jamie riprendendosi.

«Non mi sembra una storia così lunga», disse Lara; poi, chiudendo la bocca e sorridendo, aggiunse: «Eri ubriaca a casa di Adam?».

«Così sembra».

«Quindi quello», e mi indicò il collo, «non te lo sei fatta per sbaglio. O meglio, qualcuno ti sei fatta, se non erro!». Era più felice lei di me. Jamie comprese subito il mio disagio a riguardo.

«Lara, Lara. Ti prego. Per favore. Sono ancora un ragazzo, non mi interessa sapere i vostri giudizi o le vostre peripezie in campo sessuale, okay?», tentò di salvarmi. Lo ringraziai con gli occhi. Lara si piazzò di fronte a me.

«Non mi sfuggi, bella mia. Dopo voglio i particolari. Quelli che ti ricordi, chiaro». Annuii poco decisa e mi lasciai sprofondare nella verde poltroncina.

Travis arrivò imponente davanti alla porta e senza bussare la buttò giù, con un cellulare all'orecchio. Guardò verso di me, con la fronte corrugata.

«Sì. Qua. Bene, direi», e fece una smorfia nell'osservarmi meglio. «No. Non lo so, chiedilo a lei! Te la passo subito se non la smetti di fare il cazzone. Idiota, sei un povero scemo. Ti ho già detto di sì! No che non la vedo dalla finestra, ti dico che ce l'ho di fronte ed è in camera di Jamie! Ancora?». Allontanò il telefono da sé e mi scongiurò di far sentire la mia voce. «È qui! Cosa non ti è chiaro di questo concetto?».

Allungai la mano verso il cellulare, con fare scocciato. «Dammi quel dannato telefono, Travis», dissi per salvarlo da quel supplizio.

«Adesso te la passo, bamboccio!», concluse arrabbiato quasi lanciandomi il suo cellulare.

Sospirai e iniziai il mio di supplizio.

«Jess», lo chiamai schiarendomi la voce.

«Hayley?», rispose seriamente sorpreso, come se non se l'aspettasse nemmeno dopo i continui avvisi di Travis.

«Che sorpresa, vero? Mi credevi da Adam, non è così?», chiesi accusandolo solo nella mia mente. Il tono che mi uscì fu del tutto neutro e incolore.

«In effetti, sì», ammise più cattivo del necessario. «Come stai?», mi chiese giusto per educazione. Si sentiva che non gliene poteva fregare di meno.

«Mmh», risposi molto più che vaga.

«Cosa vuol dire “mmh”?», ribatté irritato.

«Significa che potrebbe, che dovrebbe, andare meglio», spiegai più alterata. Finalmente reagivo alle sue accuse.

«Mi dispiace, allora. Spero non sia colpa mia». Ignorai il suo tono cinico. Stava comportandosi da bambino.

«Come no. Ti dispiace, certo. Tu, invece, come stai? Intendo fisicamente», mi affrettai a chiarire prima che potesse cogliere l'occasione di marciarci sopra per farmi sentire ancora più in colpa.

«Mi sono solo preso qualche pugno, non sono morto», rispose come se si sentisse offeso dalla domanda inutile.

«Per quanto ancora ce l'avrai con me, Jess? Sai, giusto per organizzarmi le giornate di modo che tu riesca a farmi sentire una merda per benino», lo incolpai. In realtà, volevo solo un pretesto per litigare di nuovo, così non avrei dovuto affrontarlo tanto presto per dirgli cosa io avevo... fatto.

«Ci mancherebbe anche», commentò.

«Ci mancherebbe cosa?». Ero sconvolta dal suo tono.

«Che non ti sentissi una merda. È il minimo», chiarì schietto lasciandomi senza parole. Era diventato più esplicito del necessario. Non gli risposi e ripassai il cellulare a Travis, che seguiva le mie risposte un po' timoroso della piega che la conversazione aveva preso. Fece una smorfia del tipo “ops” e, riafferrando il telefono, tornò in camera sua, rassegnato a doversi sorbire altri commenti su di me.

Non appena sparì mi alzai e, traballando per l'effetto di intontimento, feci per andarmene.

«Hayley, vengo a casa con te», propose Lara.

«Certo, così poi Jenna mi chiederà perché sei ancora con me se abbiamo passato tutta la serata e la nottata insieme. Piuttosto», chiesi curiosa, «che ci fai tu qui a quest'ora del mattino? È prestissimo».

«Dopo ieri sera siamo rimasti uniti, sai... nel caso tu chiamassi uno o l'altra», mi spiegò Jamie.

«Eravamo preoccupati», chiarì Lara.

«Credevo che Adam avesse chiamato».

«Lo ha fatto. Ha chiamato me, ma non ha detto nulla che ci potesse tranquillizzare. Per quanto sia un bravo ragazzo, nonostante tutto, con quella voce da assassino che si ritrova è meglio non fidarsi troppo», disse Jamie con una vena ironica nella voce.

«Infatti gira con coltellini svizzeri in tasca!», rise Lara e io con lei.

Poi, stanca, mi trascinai verso casa, sotto gli sguardi attenti di Jamie e Lara, che controllavano dalla finestra che riuscissi ad attraversare la strada.

Quando fui sull'altra parte del marciapiede, non chiedetemi perché, feci una scemenza. Mentale, non un atto pericoloso nel senso fisico.

Mi voltai a guardare verso una delle finestre più in vista della casa di Adam. Sapevo di non dovermi aspettare nessuno lì affacciato, ma mi girai lo stesso.

E davvero non lo credevo possibile.

Adam era lì, dietro i vetri splendenti, che aspettava che entrassi in casa. Non tenni il suo sguardo nemmeno per mezzo secondo, tanto che, agitata, iniziai a suonare il campanello con un po' troppa impazienza.

Perché se ne stava lì? Non aveva senso. In fondo, di lui sapevo praticamente tutto (e anche lui di me), ma il rapporto era decisamente strano. Per esempio, non avevo il suo numero di cellulare nonostante fossi praticamente sempre in casa sua. E poi, c'era da considerare il fatto che non appena andavamo d'accordo per un secondo, l'istante dopo ci stavamo odiando e insultando come due forsennati. Oppure, come l'ultimo caso, finivamo a letto insieme.

Cosa diamine significava? Qual era la funzione di quel pazzoide nella mia vita? Come aveva preso un ruolo più importante di quello di Jess?

Finalmente, la porta si aprì. Bryan aveva una tazza di cereali in mano e mi guardava, cercando qualcosa che non coglieva. Mi lasciò sulla soglia per qualche secondo, e io alla fine, spazientita, gli chiesi se volesse farmi entrare o meno.

«Ti sei sbronzata!», esultò alla fine, comprendendo quale fosse il mio particolare fuori posto.

«Bingo», gli feci il verso entrando e costringendomi a non guardarmi dietro.

«Ti dà fastidio se grido?», chiese ridendo.

«Le persone normali, anche se sono ubriache, non fanno domande stupide come le tue, Bryan. Lasciami in pace prima che anche Jenna se ne accorga, per favore», lo implorai.

Sempre sorridente (e, potrei giurarci, quasi orgoglioso della mia prima sbronza), si fece da parte e mi mandò in bagno.

Una doccia rigenerante era tutto quello che chiedevo.

Non sapevo come affrontare la situazione. A dire il vero, non ero nemmeno sicura di volerla affrontare. Ed ero rimasta da sola, almeno nella mia ottica. Vedendo le cose come le vedevo io, Jess mi avrebbe decapitata seduta stante (nella migliore delle ipotesi), e Adam mi avrebbe puntato il dito contro dicendomi prima “te l'avevo detto” e poi “non ne voglio sapere, mocciosa”.

Merda.

Alla fine di Agosto – e stavamo parlando di poco meno di un mese prima, visto che eravamo alla fine di Settembre – era tutto perfetto. Un po' noioso, ma fantastico. Niente preoccupazioni, se non l'inaspettata confessione di Jess, che, se solo fosse arrivata da sola e non accompagnata dall'arrivo di un rapper in quartiere, avrebbe reso tutto più piacevole ancora.

Ma io sono stupida, e già lo sapevo. Solo che non credevo di esserlo fino a quel punto.

Uscii dalla doccia. Per terra era tutto bagnato.

(Vi ho già detto che sono stupida, vero?).

Ero così presa dai miei pensieri – e dalla sbornia – che scavalcai il bordo della doccia senza nemmeno guardare dove stessi mettendo i piedi.

(E vi ho anche detto che sono molto, molto stupida?).

Non mi accorsi nemmeno che stavo scivolando rovinosamente a terra fino a che non sentii il mio braccio sinistro tentare di opporre resistenza. E vidi rosso.

Beh, vi risparmierò i dettagli della dinamica della caduta. Vi basti sapere che gridai così tanto, ma così tanto, che probabilmente mi sentirono anche in Alaska.

Mi uscirono le lacrime senza che io le avessi chiamate, e a dirla tutta il dolore era così lancinante che nemmeno mi accorsi di loro.

In meno di due secondi sentii quattro mani bussare alla porta, demolendola.

«Tesoro! Tesoro! Ho sentito un tonfo!».

«Hayley! Hayley?! Stai bene?».

«Aprimi la porta! Avanti, tesoro!».

«Hayley! Smettila di gridare così e apri! Ci stai spaventando!».

Presi un bel respiro e mi accorsi che le gambe mi tremavano così tanto che era impensabile alzarsi per aprire a Jenna. Ma dovevo far sentire che ero viva in un modo diverso dalle grida dell'inferno.

«Jenna, sto... No, non sto bene, sono caduta. Credo di essermi rotta un braccio, sto morendo dal dolore!», gridai restando inerme a terra. Solo dopo qualche imprecazione riuscii a strisciare fino alla porta.

«Fai uno sforzo e aprimi, tesoro!», implorò come se stesse soffrendo lei.

«Dammi due secondi, okay? E allontana Bryan da lì, sono in accappatoio». Ringraziai il cielo. Poteva andare molto, molto, molto peggio. Sotto molti aspetti.

Almeno adesso la sbornia non la sentivo nemmeno lontanamente. Il sangue mi pulsava ovunque solo per quel dannatissimo dolore, che non aveva niente a che vedere con il cerchio alla testa di prima. Avrei donato un rene, un polmone, il cervello (difettato, gente, non conviene) per tornare al malessere fisico precedente. Perlomeno adesso il dolore psicologico, quel tormento insopportabile, aveva perso un po' di priorità. Sembrava ovattato.

Molto lentamente mi allungai verso la maniglia e sbirciai con la coda dell'occhio l'altro braccio. Mai l'avessi fatto. Penzolava come la carne da macello. Mi venne una nausea così improvvisa da farmi percepire i vari dolori di nuovo in modo diverso.

Come si dice? Per uccidere un dolore, ci vuole un dolore più grande.

Verissimo.

«Okay, Bryan è un po' più lontano. Adesso apri, tesoro!».

Non risposi e serrai le mascelle per evitare di accogliere Jenna in modo ancora più ingrato.

Mi ci volle uno sforzo letteralmente enorme per girare la chiave e lasciare che la porta si aprisse.

«Oh. OH! Cielo, tesoro!», disse Jenna, sbiancando totalmente. Sorrisi della sua espressione da film horror. Il sangue c'era.

«Andiamo, ho solo rotto un ossicino. Se mi aiuti a rendermi anche solo lontanamente presentabile, mi porti in ospedale. Okay?», feci prendendo il controllo della situazione. Andavamo bene...

Sentii Bryan avvicinarsi. «No!», lo ammonii. «Tu resta lì fino a nuovo ordine, chiaro?».

«Non fare la cretina, Hayley, sono tuo fratello!», mi rispose da lontano.

«Appunto per questo!», strillai isterica. Tanto bastò a tenerlo confinato in corridoio.

Vidi Jenna visibilmente in preda al panico. Sbuffai.

«Okay, mammina bella, mammina cara. Stai buona. Non è niente. Hai capito cosa ho detto, no? Mi aiuti a vestirmi e filiamo in ospedale. Ma ho bisogno che tu collabori, o rischio di fare la muffa qui, in questo cesso. Non c'è nemmeno tanto sangue, avanti. Coraggio, donna, sii forte», dissi più a me stessa che a lei. Ma almeno mi diede retta e deglutì così rumorosamente che pensai che avesse ingoiato una tonsilla.

Io, invece, tesi i nervi così tanto che li sentii saltare. Uno ad uno.

 

Il gesso era decisamente orrendo. Una schifezza colossale, una scomodità unica, una fonte che avrebbe solo attirato altra attenzione. E dicerie stupide.

Stavo dondolando le gambe dal lettino, fissando quel malloppo bianco e vomitevole, e aspettavo che Jenna firmasse le ultime carte.

Alla fine era riuscita a infilarmi una gonna a campana, le Converse e una maglietta semplicissima. L'avevo costretta a scegliere qualcosa che potesse conciliarsi con la gonna, non sarei mai andata in giro vestita come una zingara. Già la gente parlava – e parlava a vanvera. Ci mancava solo quella.

Stavo ancora ringraziando il cielo per non avermi fatto incontrare i genitori di Jess. Probabilmente erano all'opera con silicone e schifezze varie. Che schifo, ma ci pensate? La gente si riempie di schifezze persino in ospedale. Siamo carne aromatizzata al silicone. È di una tristezza unica. Comunque.

Vidi Bryan affacciarsi sulla soglia e farmi un cenno.

«Andiamo?», chiesi speranzosa.

«Sissignora. A meno che non voglia fare qualche altra cazzata, tipo... Non so, vuoi tagliarti la gola con un bisturi? Te ne procuro subito uno», fece sollevato. Quando era sarcastico significava che il peggio era passato, ma che si era preso un bello spavento. Quando non parlava era pericoloso: c'era qualcosa di grave se la sua lingua non faceva la petulante. Adesso, invece, stava meglio anche lui.

Gli sorrisi con una linguaccia e mentre scesi dal lettino feci finta di essermi fatta male. Subito lui si allarmò, ma, quando mi scappò una risata, mi scoprì e si avvicinò solo per darmi una spintarella verso il muro.

Non appena varcai la soglia, però, tutta la forza e l'impeto dei pensieri che ero riuscita a mettere in secondo piano mi saltarono addosso. Erano in agguato già da un po'.

Alle dieci di mattina, ad ogni modo, al mio stomaco non importava molto dei sensi di colpa. Reclamava un po' di attenzione.

«Bryan», lo chiamai.

«Eh», mi rispose cercando Jenna. Quell'ospedale era una fonte d'angoscia sia per me che per lui.

«Ho fame».

«Adesso andiamo».

«Fai il fratello maggiore premuroso. Portami a fare colazione. Una bella colazione». Si fermò e sgranò gli occhi.

«Cos'hai fatto di così grave, Hayley? Mi chiedi di stare con te solo quando vuoi dimenticarti di qualcosa di veramente impensabile. Cos'hai fatto stavolta?», disse analizzandomi scrupoloso. Arrossii.

«Potevi dire semplicemente “no”. Oppure “ho da fare, mi dispiace”. Non c'è bisogno di puntare il dito come fai tu», feci con il broncio.

«Facciamo così: io ti porto a fare colazione in un bel posto solo se tu mi dici qual è il problema». No, no, bello mio. Non mi avrebbe convinta. Mai e poi mai. Non si parla di quel genere di cose con il fratello maggiore ultra impegnato che è a casa un giorno su sette. Non basta. Non se ne parla nemmeno con il fratello più comprensivo del mondo, perciò...

«Passo e chiudo», dissi intravedendo Jenna. «E non fare la spia con Jenna. Riguardo la sbronza, intendo».

«Se fossi abbastanza autorevole, ti ricatterei. Ringrazia di avere un fratello come me».

«E chi dovrei ringraziare?», ribattei schizzinosa.

«Me! Ovviamente!», fece alzando gli occhi al cielo come una donnina isterica. Mi faceva morire dal ridere quando faceva così. Non era più quel pezzo grosso della società che girava il mondo in lungo e in largo per undici mesi e mezzo all'anno. Era Bryan, il fratello che mi aveva insegnato a suonare il pianoforte, il fratello che mi aveva aiutata a tirare via il mio primo dentino da latte, il fratello che stava a consolarmi. Sempre.

«Allora, ragazzi. Qui è tutto sistemato. Io tra mezz'ora devo essere da una cliente. Bryan, ti prendi cura tu di tua sorella?», fece Jenna molto più colorata di prima. Le sorrisi e schioccai le dita di fronte alla sua faccia, imbambolata su mio fratello.

«Jenna, sono ancora capace di vivere da sola. Non mi serve il baby sitter», misi subito in chiaro.

«Anche perché avrei un paio di questioni da organizzare e risolvere», fece il pezzo grosso della società. «La Francia non si organizza da sola», spiegò vedendo Jenna delusa dalla sua risposta.

«Ma non voglio che tu resti da sola a casa», obiettò lei. «Se avessi bisogno di qualcosa?».

«Chiamerò Lara o i gemelli per tenermi compagnia, okay? Sei più tranquilla così?», dissi improvvisando una gigantesca balla. Non li avrei mai chiamati, piuttosto sarei rimasta da sola. Ma stavo imparando a mentire relativamente bene, così Jenna acconsentì. Bryan mi riaccompagnò a casa e poi sparì nella sua BMW con i finestrini scuri. Un vero vip.

E così, rieccomi in balia della mia delicatissima mente. Mi buttai sul divano e accesi la TV.

Stupidi scherzi del destino.

Lo speciale su Hitch, MTV me lo poteva risparmiare. Un video lo potevo anche accettare, ma lo speciale no.

Eppure non cambiai canale. C'era una considerazione, un pensiero fisso, che mi spingeva a volerne sapere di più.

Io avevo “dato a lui la mia virtù”, e lui non poteva restituirmela. Insomma, capirete anche voi che vedere in televisione un uomo o ragazzo che ha assunto il controllo di una parte particolarmente importante della vostra vita non è una cosa da tutti i giorni. Soprattutto se quell'uomo o ragazzo vive proprio dall'altra parte del marciapiede. Ed è pedinato dai paparazzi.

Vidi anche un paio di video. Il ritmo non mi era nuovo, ma non avevo mai fatto attenzione al testo delle sue canzoni. Era velocissimo e facevo fatica a capire tutto, ma una cosa era certa: mi ero sbagliata. Non c'era nulla di volgare o banale. Io, che sapevo più del dovuto, ritrovavo in quelle parole più del necessario. Riconoscevo dove stava Delilah, dove suo fratello, dove i suoi genitori. Poteva usare tutti i giri di parole del mondo, ma io ormai capivo chi fosse chi nelle sue canzoni. Ricollegavo tutto.

E forse non avrei dovuto. Mi stavo solo illudendo di poter essere qualcuno per lui. La verità era che io, in uno di quei testi, non ci sarei mai entrata. Il giorno e la notte, ecco cosa eravamo io e lui. Gatto e topo.

I miei pensieri vennero interrotti dalla vibrazione del mio cellulare. Mi fece venire un infarto tanto ero coinvolta dal groviglio che era il mio cervello.

Non conoscevo il numero, ed ero tentata di lasciarlo squillare. E se fosse stato Jess che reclamava vendetta perché la morte aveva fatto la spia e mi stava aspettando?

Ma oltre a essere stupida, io sono anche curiosa. Un po' troppo.

«Pronto?», risposi esitante.

«Ce ne hai messo di tempo a decidere di rispondere. Ti sei rotta un braccio?», fece un serial killer.

«Così hanno detto i tizi in camice bianco», feci lieta che non fosse lì di fronte a me: mi avrebbe vista arrossire.

«Come hai fatto?», fece quasi arrabbiato. Ma mi venne in mente una domanda migliore.

«Hai il mio numero di cellulare?!».

«L'ho preso stanotte. Problemi? Posso sempre cancellarlo e venirti a parlare di persona».

«Tranquillo, non ti denuncerò per questo», risposi intimorita dal suo tono.

«Non mi hai ancora detto come hai fatto», ripeté incolore.

«Doccia. Ero sovrappensiero», confessai rapidamente.

«Allora è colpa mia», riprese con una punta di acidità nella voce.

«Come no. Le tue sono solo manie di protagonismo», lo bacchettai. Ma era così, aveva ragione lui. Come al solito.

«Se ti chiedo cosa hai raccontato ai tuoi amichetti gemelli passo per insolente?», si finse cortese.

«Direi di sì, considerata la nostra ultima conversazione diretta», risposi riscattandomi. Alleluia.

«Corro il rischio e accetto di passare per insolente». Risi isterica, per nulla divertita.

«Cosa ti fa pensare che te lo dirò? Insomma, Adam, mi sembra di aver capito che tu con me voglia averci poco o niente a che fare. Correggimi se sbaglio, ovviamente».

«Non sbagli, Hayley. Sei solo incredibilmente ottusa. Tutto qui», disse stanco.

«Ti prego. Ti. Prego. Adesso spiegami cosa vuoi dire, perché se no la prossima volta che mi faccio una doccia ci resto secca». Rise impercettibilmente e ne fui soddisfatta.

«Allora era colpa mia, pensavi a me», mi corresse senza troppa cattiveria.

«Certo che sì. Come sempre. È sempre colpa del rapper cattivo che si comporta come un serial killer», scherzai. Ma non troppo.

«Mi vedi così, eh? Brava, sei perspicace». Non era più molto arrabbiato, ma non sprizzava nemmeno gioia da tutti i pori. «Senti, Hayley...», riprese dopo qualche secondo di silenzio, «... Posso passare da te? Non fare la stronza e non mettere il dito nella piaga. Mi vedo abbastanza instabile e ipocrita, non c'è bisogno che tu me lo faccia notare».

Mi cadde la mascella. Ero di stucco. Porca... vacca. Mi stava cercando lui! Apertamente, per di più. Era... surreale.

«Tu... Tu, allora, io... Certo che puoi», sbottai alla fine, così incredula da dover abbassare il volume della televisione per essere certa di aver capito bene. «Certo», ribadii infine, quasi in trance.

«D'accordo. Attraverso e arrivo». E riattaccò all'istante. Fremeva così tanto? Forse quella mattina mi avevano rapita gli alieni e avevo vissuto in un universo parallelo. Ora, sbaglio o si era incazzato perché io volevo evitare di parlare di...?

Spensi al volo la televisione. Sai che bella figura se mi avesse beccata a farmi i cacchi suoi su rete nazionale. Lentamente mi alzai, e non appena arrivai alla porta il campanello suonò. Contai fino a cinque (però così: un milione, due milioni, tre milioni, quattro milioni, cinque milioni), giusto per non sembrare la tipa che sta dietro la porta in attesa e in agguato del primo malcapitato. Aprii titubante.

«Non sono ancora il serial killer che credi. Se vuoi puoi non farmi entrare, sai?», fece sollevato non appena mi vide. Ma non per questo mi sembrava meno ostile del solito.

Senza dire niente, mi spostai di lato e lasciai l'ingresso libero, nascondendo il braccio ingessato. Che schifo.

«L'ho già visto», precisò chiudendo la porta al posto mio. Si avvicinò e persi la percezione effettiva delle cose. Inutile, ero proprio stupida. Ecco perché non mi allontanavo. Anzi.

«Adam, forse dobbiamo mettere in chiaro un paio di cose, perché io davvero non...».

«Non capisci cosa io stia facendo, vero?», concluse fissandomi troppo a lungo.

Annuii brusca e deglutii. Fece un altro passo in avanti e mi chiuse ogni via di fuga. Non sentii l'impulso di divincolarmi: mi andava tutto benissimo così com'era. Perfino il gesso mi piaceva in quella situazione.

«Appena lo capisco anch'io, ti faccio sapere. Per il momento mi accontento di agire d'impulso. Ma se ti disturba, posso imporre al mio cervello uno sforzo sovrumano per essere minimamente razionale». Mi guardò di sottecchi e scrollò la testa, come se volesse togliersi dalla mente un brutto ricordo. Subito dopo si allontanò e si sedette sul divano.

Inspirai lentamente, giusto per riprendere il controllo delle mie gambe.

Con calma degna di un bradipo pigro, mi sedetti vicino a lui.

«Hai detto a Jess del braccio?». Eccolo lì, il pensiero che lo torturava. Che ci torturava.

«Io...». Risi nervosa, senza guardarlo. «Non è proprio nei miei piani», ammisi a testa bassa.

«Non è nei tuoi piani dirglielo, o non è nei tuoi piani parlargli? Intendo mai più». Sembrava volere che io concordassi con la seconda opzione.

«Suppongo che sia nei suoi di piani non parlarmi; almeno non molto presto».

«Allora avete già parlato?», fece spiazzato e sorpreso come non mai.

«No, Adam, no», risposi rapida per evitargli false speranze. «Cioè, sì, ma non di...». Gesticolai imbarazzata, senza voler davvero finire la frase.

«Certo. Ovvio». C'era un qualcosa di acido nella sua voce che probabilmente doveva essere diretto a me. «E allora avete parlato o no?».

Sospirai e mi buttai sul divano, inerme. Perché tutti mi tartassavano così? Cosa avevo fatto di male? A parte andare a letto con la persona più sbagliata del mondo e non sentirmi minimamente in colpa per questo.

«Lui... ha telefonato a Travis mentre ero dai gemelli. Voleva sapere... Insomma, non credeva alle parole di Travis, che gli diceva che ero lì di fronte a lui. Così me lo ha passato e lui...».

«Credeva fossi con me. E avete litigato per questo», completò la frase inespressivo.

«Sì. Anche. Lui non ha esplicitamente attaccato te... Lui è stato solo più diretto del necessario», chiarii con la voce rotta sulla fine della frase.

«Pensa che guaio se tu non fossi stata davvero con i gemelli. Se tu fossi stata a casa mia al momento della chiamata del simpaticone», tentò di fare lo spiritoso. Si vedeva che non lo era affatto.

«Adam», sbottai voltandomi verso di lui sentendo un nodo in gola, «devi aiutarmi. Lo so che non dovrei fare la frignona con te, e lo so che mi dirai che me lo merito, ma io davvero non so più cosa fare con Jess. Qualsiasi cosa io faccia, lui riesce a ritorcermela contro. Io... come posso dirgli cosa ho fatto con te? Come?», mi lamentai perdendomi nelle pieghe della gonna. Non ero così coraggiosa da guardarlo in faccia mentre mi faceva un'altra ramanzina stile “adesso ti faccio vedere io, mocciosa”.

E poi, inaspettatamente, lo sentii sorridere. Non ridere, ma sorridere. Amareggiato.

«Tu non mi stai chiedendo di parlargli al posto tuo. Tu mi stai chiedendo di sparire, giusto?», disse obbligandomi ad alzare lo sguardo.

Cosa? Che cosa?!

«Scusa?! Ma sei scemo? Smettila di tirare le tue conclusioni del cacchio! Non ho mai detto niente del genere! E non sperarci. Se vuoi levare le tende, non sarò certo io a importelo, chiaro?», lo bacchettai un po' troppo coinvolta. Così tanto che si aprì in un sorriso più rilassato, facendomi arrossire.

«E allora che aiuto vuoi da me?».

Cercai una risposta nel mio cervellino malridotto, ma non la trovai. Cosa poteva fare lui per evitare l'inevitabile? Okay, era bravo e tutto il resto, ma non era onnipotente.

«Potresti... Beh... Non lo so. Mi serve un appoggio stabile, però. Questo lo so per certo. Una volta che Jess mi avrà decapitata, allora avrò bisogno di qualcuno che mi porti avanti... Visto che non avrò la testa».

«Tipo i cani dei ciechi?», scherzò.

«Più o meno. Una cosa molto simile, sì», ammisi imbronciata. Non mi prendeva sul serio.

«Se è proprio questo ciò che vuoi, non te lo negherò. Io no di certo». Risi della sua frecciatina rivolta a una persona assente e mi rilassai sullo schienale.

Dopo qualche minuto di silenzio niente affatto imbarazzante, Adam si rizzò sulla schiena per guardarmi meglio.

«Lo vuoi fare davvero», constatò. Io sgranai gli occhi.

«Scusa?!», feci scandalizzata.

«Dico, sei davvero intenzionata a farlo». Non credevo alle mie orecchie.

«Stai scherzando? ADAM! Mi stai facendo passare per una...». Lo vidi corrugare la fronte, confuso dalla mia reazione. Mi sentii ribollire il sangue nelle guance mentre comprendevo di aver frainteso tutto. Ops.

«Hayley. Non parlavo del sesso», mi spiegò serio ma sinceramente divertito. «Ma se ci tieni, un ragazzo non si tira mai indietro». Sbuffai e gli diedi un colpo sul petto, imbarazzata per la mia figura (degna di me).

«Allora cosa stavi dicendo? E sii chiaro, per cortesia».

«Parlavo del dirglielo. A Jess. Mi sembri intenzionata a dirglielo davvero, okay?».

«Ah. Oh. Certo, Jess. Vorrei evitare di dirglielo, ma la vedo come una cosa necessaria. Prima o poi mi perdonerà, spero. Meglio vuotare il sacco ora che sono giovane, così quando avrò novant'anni avrò qualche possibilità di parlargli di nuovo», spiegai.

«Parli come se volessi stare con lui». Dal suo tono il mio cervello mi suggerì un “oh – pericolo ira facile”. Dovevo calibrare la risposta con una cautela infinita.

«Cosa vuoi sentirti dire, Adam? Mi sembra evidente che tengo anche a lui». Probabilmente fu la parolina magica “anche” che mi salvò la pelle. Lo vidi irrigidirsi e poi fare un respiro profondissimo.

«Voglio sentirti dire che sei stufa di voler compiacere persone alle quali interessa solo il proprio bene e il raggiungimento dei propri obiettivi. Hayley, perché ti ostini a tenerti buono Jess quando ti fa sentire così frustrata? Non sarebbe meglio lasciare stare le cose così come stanno? Diglielo, se vuoi, ti difenderò e non me ne andrò, giuro. Ma spiegami perché non vuoi ferirlo», mi implorò. «Per favore, perché proprio non ci arrivo».

«La gente normale evita di ferire altra gente quando può», risposi acida.

«Allora lascia che riformuli la domanda: perché sei pronta a sacrificare la tua felicità per avere la certezza di non ferire persone che, di fatto, fanno solo quello che vogliono?».

Deglutii e non risposi, ma strinsi i denti. Dopo un po' mi tornò la parola.

«Potrei farti la stessa domanda. Adesso tu sei me, e io sono la tua “Jess”. Perché ti rovini per me?», osai senza peli sulla lingua.

«Per il semplice fatto che non riesco a starti lontano. E so che è lo stesso per te», mi rispose con più foga e sicurezza di me.

«D'accordo. È vero. Ma è anche vero che Jess era qui molto tempo prima di te. È mio amico, mi è caro. Non posso, non voglio nemmeno pensare di pugnalarlo alle spalle».

«È esattamente ciò che hai appena fatto. E che continui a fare anche con me».

«Tante grazie. Hai appena vinto il premio per il tatto, Adam», dissi alzandomi per allontanarmi da lui.

«Hayley, con te bisogna essere drastici. Perciò è proprio quello che farò. Io e te non faremo più un bel niente, anzi nemmeno parleremo in questo modo, se tu non affronti i tuoi problemi da sola. Tradotto in soldoni: prima decidi la cosa giusta da fare per te, e poi la fai. Non si sta con due piedi in una scarpa».

 

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Capitolo 16
*** Mostri ***


La domenica passò lenta e infernale. Tra sensi di colpa e riflessioni eccessive e lividi e braccia rotte non ero esattamente al settimo cielo. E poi non vidi nessuno.

Sentivo Bryan preparare le valigie per la Francia e ciò mi mise addosso una strana malinconia. Sarei rimasta sola per tutta la settimana a venire, indifesa e a rischio omicidio. Chi mi avrebbe vendicata?

Nessuno.

In più, a scuola c'era un esercito di adolescenti pronti a lapidarmi. Bree, alla quale avevo rovinato la sfilata. Dana, che si ostinava a mettere zizzania tra me e Jess.

E... certo. Come dimenticarsi di Jim? Stando ai consigli dei miei amici, dovevo stare molto più che all'erta. Magari rinchiudermi in un convento, se possibile.

Lunedì aspettai ugualmente Chris e i gemelli per un passaggio a scuola, anche se – chissà perché – avevo lo strano presentimento che non sarebbero passati. Forse era perché sapevo che Travis e suo cugino parteggiavano apertamente e sostenevano spudoratamente Jess, non importava riguardo chi o cosa. Fino a prova contraria, alla sfilata di Bree io ero diventata una specie di demone cattivo per Jess, una sorta di nemica. E loro sostenevano lui.

Dall'altra parte, però, era anche vero che Jamie non faceva il testardo. Insomma, era più aperto al dialogo e non si faceva influenzare dalle apparenze. Perciò, se suo fratello e suo cugino avessero deciso di non darmi un passaggio, probabilmente lui si sarebbe opposto e incazzato per la loro... non so, immaturità?

Mentre pensavo tutto ciò, vidi la macchina tirata a lucido di Adam sfrecciarmi davanti, ma non in direzione della scuola. In quella opposta.

Niente.

Nemmeno un saluto.

Allora faceva sul serio. Quando aveva detto di scegliere una cosa e poi farla... diceva sul serio. Era un affare drastico, eh?

Restai mentalmente ammutolita e un po' umiliata, ma mi ripresi quando dal vialetto del garage dei gemelli spuntò la macchina che stavo aspettando.

Salii salutando con poca enfasi. Il silenzio assordante che riempiva quell'abitacolo mi diede la certezza che la maggior parte delle mie supposizioni era fondatissima.

Povera me.

Sarebbe stata una giornata lunghissima. Infernale.

A scuola trovai Lara ad aspettarmi, con la solita faccia da interrogatorio.

«Allora, non mi hai ancora detto come è stato. Ho ragione o no quando dico che è una droga?», fece in estasi.

«Beh, se parliamo dell'atto in sé, sì. Se parliamo di tutte le conseguenze che ne derivano, assolutamente no».

«Ecco perché io vado a caso. Sai, mi evito la parte problematica. Comunque», proseguì imperterrita, «non mi hai ancora detto quanto è stato super da uno a dieci».

Ci pensai un attimo.

«Sai, per essere la prima volta me l'aspettavo più dolorosa. Forse è stato merito dell'alcool. Mi avrà dato la spinta mancante, non so. Anche se, diciamocela tutta, mi sa che con o senza alcool le cose sarebbero andate esattamente come sono andate». Ripensai a ciò che Adam mi aveva detto e ne ebbi la certezza. «È stata colpa mia, non dell'alcool», conclusi. Forse non era il caso di dire addirittura “colpa”.

«Sì, va beh. Bella mossa da maestra quella del bere, e dico sul serio. Ti facevo più pivella. Ma io voglio un numero. Un voto concreto».

«Questo voto deve comprendere anche il fattore conseguenze o deve riguardare solo... l'atto in sé?», chiesi imbarazzata.

«Prima solo l'atto in sé. Avanti: spara».

Radunai i miei ricordi e li valutai, arrossendo un po'. Lara se ne accorse e fece una risatina sommessa e felice.

«Mah. Molto vicino all'otto», ammisi in fine. Ma stavo minimizzando.

«Lo sapevo! Sì! Sì, sì, sì!», esclamò esultante Lara. Almeno lei ne era felice. «E nel complesso, invece?».

Mi uscì un lamento impossibile da ignorare o camuffare. «Beh. Siamo di molto sotto al quattro».

«Cazzarola!», disse sorpresa. Poi fece due più due. «Aspetta: non avrai mica intenzione di dirlo a Jess?! Quello già è fumato di suo, e quelle foto lo hanno mandato in bestia... Se gli dici anche questo... Cazzo, Hayley, non puoi».

«Ah, sì?», feci sarcastica, «E cosa faccio, la bugiarda perfetta? Sai benissimo che non ne sono capace».

«No, no. Rompi e basta. Digli che vedi le vostre incompatibilità e che...».

«Ufficialmente, avevamo già rotto. Alla sfilata, però, mi aveva detto un paio di cose che avevano risollevato la questione. Poi le foto l'hanno riseppellita».

«Meglio ancora. Non gli devi spiegazioni», disse più risoluta ancora.

«Lara», la ripresi, «sai benissimo che con me non funziona così».

«Non è colpa mia se ti piace fare la martire. Vai e fai quello che ritieni più opportuno, allora. Cos'altro vuoi che ti dica?». Sbuffai.

«Che almeno tu non mi decapiterai». Sorrise e fece una finta faccia dubbiosa.

«Solo se mi fai copiare i compiti», propose.

«Affare fatto», replicai ridendo. Non sapeva che non li avevo fatti nemmeno io.

«Solo una cosa ancora». La guardai di sbieco.

«Cosa?». Vista la sua faccia iniziavo a essere preoccupata.

«Vieni in bagno che copriamo quel...». Fece un cenno verso il mio collo.

Oh, certo. Certo.

E mi avviai in bagno.

 

Non incrociai né Jess né Adam fino all'ora di pranzo.

Camminavo come se mi aspettassi che da un momento all'altro qualcuno mi sparasse alle spalle. Peggio ancora, mi sembrava di essere pedinata.

Arrivai al mio solito tavolo completamente nel panico. Lara e Jamie erano ai loro soliti posti e a me toccava stare in mezzo a loro, grazie a Dio. Ma dagli sguardi di Chris e Travis (in mezzo ai quali c'era una sedia vuota – merda) capii subito quanto fossi indesiderata.

Ma che problema avevano, loro? Jess non era lì. Potevano almeno sforzarsi di mostrarsi un po' più tolleranti, no? Non avevo mica leso i loro interessi.

«Ciao a tutti», esordii imbarazzata. Le risposte arrivarono più o meno allegre. Inutile dirvi chi fosse meno entusiasta.

Mi sedetti e appoggiai il vassoio, fissando la sedia vuota che avevo di fronte. Non sapevo se fosse il caso di chiedere o meno dove fosse Jess.

Optai per il silenzio, ma vi assicuro che la risposta non tardò ad arrivare da sola.

Jess, con passo lento e trascinato, si sedette a tavola con il suo vassoio, guardandomi di traverso. Tra tutti, lui era decisamente il più scocciato e sorpreso. Forse non credeva che io avessi la faccia tosta di sedermi di fronte a lui dopo la scenata che mi aveva fatto la sera della sfilata, ma... Beh. Il fatto era che, se non mi fossi presentata fingendomi innocente almeno per un po', lui avrebbe dedotto che i suoi sospetti fossero fondati. E, okay, lo so che è esattamente così, lo so. Ma non potevo lasciarglielo credere in quel modo, capite? Insomma, per menarmi bene la zappa sui piedi, dovevo essere almeno sincera. Non ero stata il ritratto della limpidezza, quindi ora il minimo che potessi fare era essere onesta e vuotare il sacco. Glielo dovevo.

Beh. Magari non lì, in quel momento, con tutti quei testimoni... O forse avevo bisogno dei testimoni? Nel caso in cui avesse fatto esplodere una bomba dritta in faccia a me o mi avesse tagliato la gola con un coltello di plastica, i testimoni (sempre se fossi sopravvissuta) mi avrebbero salvata dalla galera.

Comunque.

«Mi avevano detto che ti eri rotta il braccio, ma non pensavo fosse vero», iniziò lui acido e cattivo. Strinsi le unghie nel gesso marmoreo.

Okay. Potevo – dovevo – sopportarlo. Me lo meritavo.

«Sì. Beh, sono ancora viva», risposi a testa bassa.

«Hitch ne sarà felice». Sospirai ed evitai di guardarlo.

Strinsi i denti perché sapevo che dovevo sopportarlo, visto che me lo meritavo.

«Okay». Tutti gli altri ascoltavano e seguivano la mia esecuzione in silenzio.

«Come sei tornata a casa, alla fine? Sai, dopo la sfilata».

Bastardo. Già conosceva la risposta.

Contai fino a dieci e presi un respiro profondo mentre provavo ad alzare lo sguardo. Era così inferocito. Di nuovo, mi accanii sul gesso.

Okay. Me lo meritavo. Dovevo incassare il colpo, perché Jess nemmeno sapeva che cosa...

Merda.

«Mi... ha accompagnata Adam», dissi rassegnata alla fine.

«Sai la novità», commentò Jess veramente crudele. Iniziai a vedere appannato, e per questo abbassai la testa in attesa che continuasse la sua tortura – che, come continuavo a ripetermi, mi meritavo al cento per cento.

«Okay, Jess, hai messo abbastanza il dito nella piaga. Adesso smettila», sbottò arrabbiato Jamie, che mi sedeva accanto. Gli presi un braccio per fargli capire di non intromettersi, non era il caso.

«Che c'è, Jamie? Adesso anche tu simpatizzi per il grandioso Hitch?», fece Jess iniziando a prendersela anche con lui.

«No, idiota, non sono io che ti metto i bastoni tra le ruote, e nemmeno Adam se è per questo. Sei tu, e solamente tu, che ti dai la zappa sui piedi. Continua a trattarla come una merda, vedrai quanti frutti ti porterà questo tuo atteggiamento!», gridò alzandosi e sbattendo la sedia. «Scusate ragazzi, ci vediamo dopo scuola», aggiunse a voce più bassa rivolta a tutti noi. Prima di andarsene fulminò Jess con gli occhi, che iniziava a scuotere la testa come se fosse l'unico incompreso. Forse lo era. Poi Jamie mi scompigliò i capelli e mi fece un occhiolino prima di andarsene per davvero.

«Ragazzi, ci lasciate soli un attimo?», chiese più tranquillo Jess. Ci sorprese tutti, me per prima. Non era furioso fino a un secondo fa? Com'è che adesso la diplomazia aveva voce in capitolo?

«Certo, sicuro», acconsentirono rapidi tutti. Lara mi buttò un'occhiata di avvertimento e preoccupazione, poi insieme agli altri due se la svignò il più rapidamente possibile.

Una volta rimasti soli, Jess iniziò:

«Mi dispiace».

Cosa? COSA?! No! No, no, no! Quella era la mia battuta!

«No, Jess, ascolta... Non... Ti prego, non dirlo nemmeno», lo pregai con una voce un po' troppo traballante. Di nuovo, tornò sospettoso e freddo.

«Perché non dovrei scusarmi?», chiese più accusandomi che tentando di comprendermi.

Potevo farcela, avanti. La ghigliottina era vicina, mi bastava fare un passo solo.

«Adam mi ha riaccompagnata a casa», dissi come se quelle parole sottintendessero in modo ovvio la vera risposta.

Appoggiai metaforicamente la testa sul legno, fissando la lama dal basso.

«E con questo? Non era la prima volta, e lo abbiamo appurato». Si rizzò sulla sedia. Lo vidi stringere i pugni. Non potevo fermarmi o invertire la rotta. Non più. La corda che reggeva la lama in alto sembrava iniziare a sgretolarsi.

«Sì», concordai guardandolo piena di sensi di colpa. A furia di stringere le dita attorno al gesso mi si stavano indolenzendo le dita.

«Cosa avete fatto?», iniziò con un sorriso isterico stampato in faccia. «Non vi sarete mica baciati?».

Non risposi e tentai di mandare giù quel groppo abnorme che mi si era formato in gola. La lama incombeva in modo terrificante.

«Hayley?», mi chiamò nervoso e distaccato. Ma perché lo avevo ferito così? Perché? «Ti ha... baciata?», continuò schifato.

Rimasi in religioso silenzio, fissando i due smeraldi che presto avrebbero rifiutato categoricamente di vedermi.

«Quante volte? Una, due?», mi accusò sempre più allarmato.

Fu allora che una lacrima gigante mi rigò la guancia e un gemito mi sfuggì, tremendo e sincero. Stava dicendo lui la verità, non io.

La ghigliottina stava diventando praticamente casa mia.

«Di più?». Mi ero accorta di come si stesse rifiutando di ammettere l'ovvio anche a se stesso. E mi stava torturando. Sapevo di meritarmi ogni singolo millesimo di secondo di dolore, lo sapevo e me lo ripetevo di continuo, ma il desiderio di fuggire dal disastro che avevo appena iniziato a combinare era troppo forte.

Non aprii nemmeno la bocca per scusarmi o flagellarmi a parole: sapevo che avrei gridato e pianto come un'isterica.

Ed ecco la lama cadere, con un rumore secco e tagliente. Aveva lacerato l'aria ed era finita dritta dritta sul mio collo. Peccato che fossi ancora viva.

All'improvviso, vidi i tratti del suo volto indurirsi, come incisi nella pietra, mentre pieno di collera e furia allo stato puro mi chiedeva: «Dimmi almeno che rimpiangi di averlo fatto».

Se almeno quella lama mi avesse decapitato per bene e non mi fosse semplicemente rimbalzata addosso, il dolore sarebbe cessato. Beh, non sarebbe stata una punizione adeguata.

Mi si aprì una voragine nel bel mezzo del cervello. Sentii un ronzio nelle orecchie così forte da coprire tutti gli altri suoni della mensa, e desiderai così ardentemente volergli dare ragione da sentirmi mancare.

Fottutissima onestà.

Era quella che mi impediva di dire tre semplici e dannate paroline: “Sì, hai ragione”.

«Hayley, dimmi che se potessi tornare indietro non lo rifaresti nemmeno sotto tortura». Parlava così a bassa voce che temevo un suo scatto letale da un momento all'altro. Per tutta risposta, un'altra lacrima rincorse le precedenti. E un singhiozzo gli fece chiudere gli occhi per la collera insostenibile. Vidi i denti stridere mentre evitava di guardarmi.

«Cazzo, Hayley, dimmi che te ne sei pentita, che avevi bevuto, che ti dispiace. Giustificati in qualche modo. Menti se serve a salvarti la faccia, dimmi che non vuoi vedere quel verme mai più in vita tua», disse iniziando ad alzare la voce e spalancando gli occhi. «Dannazione, dimmi qualcosa che possa darmi un indizio sul perché tu abbia scelto lui al posto mio! Dimmi che te ne sei pentita, Hayley!». Scattò in piedi e sbatté un pugno sul tavolo di fronte a me, mentre io me ne stavo a testa bassa, rannicchiata intorno a me stessa sulla sedia. Non riuscivo a fermare le lacrime. E tutti, in mensa, ci stavano osservando, lo sentivo.

Lentamente si risedette. Serrò pugni e mascelle e mi ordinò – mi impose letteralmente – di guardarlo in faccia.

«Dimmi che vorresti tanto non averlo fatto», comandò delirante.

Non trattenni un gemito e scossi la testa.

Una bugia sola, dannazione, una sola! Una!

Tanto sarebbe bastato.

«Dillo», sbottò crudele.

Di nuovo, scossi la testa senza guardarlo.

«Dillo!», urlò furioso.

«Non posso!», gridai io con altrettanta forza, anche se meno incisiva della sua a causa del pianto continuo.

Mi sembrò di riuscire a sentire e vedere le scintille che le sue mascelle stavano provocando a furia di sfregare violentemente una contro l'altra.

Si alzò un'altra volta, stavolta con una lentezza esagerata, e mi fissò per due minuti buoni, i due minuti più lunghi ed estenuanti della mia vita.

Come avevo potuto fargli questo? E come potevo continuare a farglielo? Dovevo pentirmi, sapevo che era eticamente giusto provare rimorso in quel momento. Moralmente, però, sapevo che non era opportuno. Prima di tutto perché non volevo mentire. E poi rinnegare in quel modo Adam, non importava se solo nella mia mente, era un affronto, una mancanza di rispetto così spropositata che non avrei mai potuto conviverci a lungo. Sarebbe stato come rinunciare anche ad Adam, dopo aver perso irrimediabilmente Jess.

Chissà, forse mi sarei meritata di perdere entrambi. E molto altro.

Mi guardò per un ultimo interminabile secondo. Sentii un'unghia rompersi contro il gesso.

«Non azzardarti mai più a farti vedere da me».

E se ne andò via, con passo veloce e furioso, pestando i piedi come se sul pavimento ci fossi stata io.

 

Corsi subito in bagno, noncurante dei commenti della gente che aveva assistito tranquillissima allo show, come fosse al cinema o al teatro. I loro sguardi, nonostante sembrassero lame affilate che mi colpivano alle spalle, non erano assolutamente niente in confronto al dolore che provavo dentro.

Mi ero trasformata in un mostro. Non c'erano altre parole. Niente scuse. Era così e basta.

Sbattei la porta e appoggiai la fronte sulle mattonelle fredde del muro.

Niente sollievo. Davvero cercavo di lenire i miei dolori sulle mattonelle dei bagni della scuola? Ero messa davvero male.

Sentii dei passi troppo poco aggraziati entrare in bagno. Non passarono nemmeno cinque secondi che quell'essere di sicuro non femminile bussò violentemente alla mia porta. Con tutte quelle che c'erano, proprio alla mia doveva rompere.

«Occupato», sbottai con la voce roca e dilaniata.

Le nocche sbatterono con più foga sulla porta. Mi asciugai le lacrime, tutto il trucco sciolto.

«Ho detto occupato!», gridai con più rabbia.

Chiunque ci fosse aldilà della porta, non sembrava arrendersi. A momenti abbatteva tutto...

«Si può sapere quale cazzo è il tuo fottutissimo problema?», strillai sforzando la gola mentre spalancavo la porta.

E ci rimasi secca.

Questa proprio no. No, dai. No.

«Ci rivediamo, eh? Come va, Hayley?», fece la voce viscida e profonda di Jim. Mi squadrò per bene, spostando il ghigno sul braccio rotto. «Non bene, vero?», aggiunse gongolante. «È stato il delinquente salvatore di sgualdrine come te, oppure la checca?».

Mi guardai subito in giro, cercando qualsiasi ragazza o essere animato che potesse essere un testimone. Non c'era nessuno. Erano tutti in mensa, tranne me e quello stronzo.

«A proposito di quei due... Hai fatto arrabbiare la checca parlandogli del delinquente?». Era troppo fastidioso.

«Cosa vuoi, Jim?». A parte scassare organi che non ho, pensai in aggiunta.

«Tu lo sai cosa voglio. Sono solo venuto a dirti che il tuo comportamento, il modo in cui mi stai rendendo tutto più difficile, non farà altro che rendermi ancora più ostinato. Non farò niente qui e ora, non ci sarebbe gusto. Ma aspettati una costanza stremante da parte mia, chiaro? E fallo presente anche al signorino col coltellino svizzero in tasca», mi minacciò serio. Poi tornò strafottente e mi sorrise. «Ti auguro una buona giornata, Hayley».

Quando sparì anche lui, caddi in ginocchio. Compresi che stavo per vomitare solo un secondo prima che accadesse.

Probabilmente, peggio di così non poteva andare.

Avevo bisogno di Adam. Subito.

 

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Capitolo 17
*** Vai, vattene pure ***


Non aprii bocca finché non tornai a casa. Non parlai con nessuno, nemmeno con Jamie o Lara. Anche se mi guardavano in pena, sapevano che non avrei mosso un solo muscolo della bocca.

Grazie a Dio a casa non c'era nessuno. Sbirciai dalla finestra della cucina l'altro lato della strada, prendendo in mano una bottiglia di qualcosa di veramente forte dal posto segreto di Jenna – che tanto segreto non era, cara Jenna.

Sembrava non ci fosse nessuno a casa Morrissey.

Non mi sarebbe sfuggito.

Presi il cellulare dalla tasca e con una mano sola in due secondi fui sul registro delle chiamate. Trovai il numero di Adam, l'unico che non era stato ancora memorizzato con nome. Premetti il tasto verde e aspettai.

Non appena sentii una voce registrata parlare, lanciai il cellulare sul divano, emettendo un urlo così rabbioso da meravigliarmi di me stessa.

Guardai la bottiglia che avevo in mano. Sembrava roba pesante, di chissà quanti gradi.

Svitai il tappo e annusai. Per poco non vomitavo di nuovo.

Non sapevo cosa tra il disgusto e la responsabilità mi avesse convinta a lasciar perdere. Non aveva importanza, il risultato era comunque la sobrietà. Schifosa sobrietà.

Non sapevo cosa fare. Fissai il cellulare e decisi di riprovarci. Che stronzata, vero?

Infatti era ancora spento.

Non sapendo come impiegare bene il tempo, optai per una doccia. E poi mi ricordai del gesso e mi passò la voglia. Andai semplicemente in bagno a lavarmi a pezzi.

Feci una fatica incredibile a fare lo shampoo con un braccio solo, ma da una parte era meglio così. Tenevo la mente occupata. Non volevo assolutamente ripensare all'espressione e alle parole di Jess. O a quelle di Jim. Sul serio, non avevo la più pallida idea di fino a che punto sarebbe stato disposto ad arrivare pur di averla vinta, quel teppista.

Ma non me ne fregava molto.

Non passai la piastra sui capelli, avevo il braccio indolenzito. Li asciugai un po' mossi.

Dopodiché filai in camera mia a spararmi lo stereo a mille. Proprio un secondo prima di premere play sul telecomando, sentii qualcuno bussare alla porta.

Me ne infischiai.

Se fosse stata Jenna, avrebbe aperto con le chiavi. Bryan era partito.

Lasciai che la voce di Hayley, la batteria di Zac, le chitarre di Josh e Taylor e il basso di Jeremy mi rincoglionissero per benino. Avevo davvero, davvero bisogno di sentire una “All We Know” così potente da demolire tutto. Da devastare vetri, muri, cervello, membra. Una canzone purificatrice, Santiddio, mi serviva.

Dopo due minuti e mezzo contati dallo stereo, il mio cellulare vibrò sul comodino.

Infastidita, guardai il numero.

Alla buon ora.

Abbassai il volume in modo da poter parlare decentemente.

«Che c'è?», iniziai brusca.

«Apri questa maledetta porta», mi ordinò.

«Come no. Arrivo», risposi il più scocciata possibile.

Premetti stop e scesi le scale come un bradipo. Arrivata davanti alla porta, contai fino a dieci, sbuffai e aprii.

Aveva un braccio appoggiato al muro, come se dovesse reggersi, e la testa piegata all'ingiù. Non appena mi vide, mi fece un cenno con la testa.

«Volevi tenermi fuori un'altra mezz'oretta?». Era pure incazzato, il signorino.

Mi feci da parte sulla soglia, in silenzio. Gli feci cenno di sedersi sul divano, ma evidentemente la mia espressione non doveva essere molto amichevole o paziente.

Si lasciò andare sui cuscini dello schienale e mi guardò con fare sospetto.

«Dimmi tutto», iniziò come se fosse lui la vittima. Lo guardai incredula e scettica, sbuffando mentre mi giravo per dargli le spalle.

«Fanculo, Morrissey», sibilai voltandomi rapidamente verso di lui. «Io ti chiedo di aiutarmi e tu mi...». Non finii la frase per la rabbia e il nervosismo che provavo.

«Non era il caso che venissi anch'io, oggi. E poi, non sarei riuscito a starmene alla larga». Notai un certo sguardo vago e incerto, ma mi feci prendere dalla foga del momento e lo incalzai:

«Alla larga da chi? Da me, da Jess o da...». La mia furia svanì non appena pensai che forse non era il caso di dirgli di Jim, altrimenti avrei solo alimentato il fuoco.

Nonostante mi fossi interrotta giusto in tempo, diventò ugualmente sospettoso.

«O da...?», chiese minaccioso.

«Cosa...». Cercai un modo per svicolare in modo non troppo spudorato. «Cosa ti fa pensare che io adesso ti racconti la mia giornata in tutto e per tutto? Hai deciso di lasciarmi lì da sola in mezzo agli squali?! Benissimo, ma adesso non ti aspettare che ti confidi ogni particolare della mia giornata di merda».

«Non svicolare e rispondi alla mia domanda». Ahia. Tentativo fallito. Non sapevo più come evitare. Restai zitta un po' troppo a lungo, con le parole in gola a soffocarmi.

«Jim è venuto a cercarti». Ma come aveva fatto? Non me lo stava chiedendo, lo stava affermando. E non seppi negarlo. Sbuffai dal naso e andai a sedermi sul divano mentre lui si alzava.

«Sì, no... Cioè, sì, ma non ha fatto niente. Solo aria alla bocca e al suo minuscolo cervello», tentai di minimizzare.

Si girò a guardarmi infuriato. Ma cosa gli avevo fatto io? Non ero io Jim, cacchio.

«Devo andarlo a cercare subito o immediatamente?», minacciò facendomi venire la pelle d'oca. Deglutii spaesata.

«No, non devi», dissi allerta.

«E dammi una buona ragione, allora». Aveva una voce così cattiva e fredda che per un attimo volli scappare via a gambe levate.

Abbassai lo sguardo e parlai pianissimo. Non credevo di averne la forza.

«Vuoi andare? Allora va' pure. Ma se quando tornerai non vorrò spiccicare parola con te, non meravigliarti. Ti ho detto che è stata una giornata infernale, una delle più brutte che io abbia mai vissuto, e l'unica cosa che tu riesci a dirmi è che vuoi andare a cercare Jim per fare a botte. Ma non sai nemmeno cosa mi ha detto, quell'idiota. Non lo sai e non me lo chiedi. Non mi chiedi nemmeno come stia io adesso, eppure mi avevi detto che mi avresti sostenuta almeno tu. Non immagini nemmeno cosa abbia provato oggi, Adam, davvero. Volevo solo che tu fossi lì, e non c'eri. E adesso che ci sei, vuoi andartene. Cosa ti ho fatto, Adam?», chiesi alzando lo sguardo solo sull'ultima frase.

Mi fissò accigliato. L'ira era sparita, grazie al cielo. Sembrò quasi in pena.

«Sono proprio uno stronzo, non è così?», ammise in piedi di fronte a me.

«A volte. Molto spesso, direi». Ignorò il mio sarcasmo e continuò a scrutarmi.

«Come stai?», chiese a bassa voce sedendosi di fianco a me senza staccarmi gli occhi di dosso.

Stavo per rispondere, giuro. Non volevo fare la figura della bimbetta frignona, volevo sul serio rispondere. Ma quando aprii la bocca, l'unica cosa che mi venne in mente fu la frase con cui Jess mi aveva bollata come nemica. Come stronza. Come demone.

Non azzardarti mai più a farti vedere da me.

Non mi voleva più, mi odiava, e faceva bene. Ma come ero arrivata a tanto?

Così, giuro che volevo rispondere in modo civile, ma il mio tentativo fallì miseramente.

Scoppiai a piangere come una mocciosa qualunque.

«No, Hayley, no», sbuffò Adam. Ma il suo tono non era confortante o dolce, era solo deluso e contrariato, così mi sentii ancora di più una cretina.

Mi asciugai velocemente le lacrime e scattai in piedi, lontana da lui, in silenzio. Senza guardarlo.

«Non puoi piangere con me per un altro, no», spiegò subito dopo. «Ho capito che ti dispiace per come è andata, ma pensaci. Era davvero il caso che andasse avanti?».

Mi girai a guardarlo quasi schifata. «Ma cosa cazzo stai dicendo, Adam? Ti senti?», gridai con la voce acuta. Restò spiazzato. Poi si ricompose e si arrabbiò anche lui.

«No, Hayley, ti senti tu!», mi rispose alterato. «Non puoi piangere per Jess con me!».

«Tu sei un cretino, davvero. Dio, come ho fatto a credere che potessi capire? Io sto piangendo perché ho avuto una giornata tremenda, con Jess che mi sbraitava contro, Jim che mi ha seguita nel bagno, Travis e Chris che non volevano nemmeno vedermi; poi torno a casa, e tu fai il cretino! Per questo piango, non per Jess, idiota!».

Mi guardò serio, ma non sembrava contrariato dalle mie parole. E restò nel più assoluto silenzio. Così proseguii:

«Non è per Jess che piango. Piango perché ho deciso che mi andava bene passare giornate così. E l'ho fatto per un motivo che tu, dannazione, non capisci. Non capisci, e credevo che potessi, ma non lo fai, Adam, non lo fai. Non capisci e mi serve che tu lo faccia, altrimenti ho preso la decisione sbagliata», spiegai sforzandomi di non piangere. Sembravo avere una certa dignità. «Non mi va di aver sbagliato».

Aggrottò la fronte e deglutì. «Certo», disse accigliato. «Ma certo». Abbassò lo sguardo e io mi spazientii, tanto che, infuriata, pestai i piedi sulle scale per andarmene dal salotto e rinchiudermi in camera mia. Speravo che capisse almeno che ora volevo solo che se andasse.

E invece mi seguì velocemente su per le scale, più veloce di me.

Feci per sbattere la porta, ma me lo impedì mettendo un piede e una spalla tra la soglia e la porta.

«No, aspetta», comandò.

«Cosa? Aspettare cosa? Credevo di essere io l'ottusa, ma mi sbaglia...». Mi interruppe sfondando la porta contro di me, e quasi caddi all'indietro. Non successe solo perché mi afferrò due secondi prima che il mio equilibrio decidesse di fare sciopero.

Me lo ritrovai vicinissimo in troppo poco tempo perché potessi capire che la forza delle mie ginocchia stava scioperando insieme al mio equilibrio. Mi sentivo una pappamolla.

«Hayley», disse fissandomi le labbra – Dio solo sa come mai non svenni –, «tu hai scelto me».

Alleluia. ALLELUIA. Grazie Signore, grazie.

Però non stavo respirando, ecco perché mi faceva male il petto. Espirai con calma.

Adam non si era mosso, ma adesso mi guardava negli occhi. Lo guardai anch'io, piegando la testa di lato per riuscirci meglio.

«Già», sbuffai esausta.

Sbatté le palpebre e non si mosse di un millimetro. Mi teneva stretta e non mollava la presa – e meno male, perché altrimenti il pavimento avrebbe avuto un incontro ravvicinato con il mio lato B.

«Già», ripeté straniato.

E all'improvviso sciolse la presa, facendomi traballare. Indietreggiò e mi voltò le spalle.

Oh, no. OH-NO.

“Dio, ma perché ti accanisci su di me? Perché?”, pensai esasperata.

«Adam», chiamai debole. Non si voltò, ma sospirò.

«Non avrei mai dovuto trasferirmi a Beverly Hills. Non ne avevo il diritto».

La terra mi mancò sotto i piedi.

Fantastico.

Giornata di merda conclusa alla cazzo.

Perfetto.

«Okay», dissi con voce stranamente ferma. Si voltò. E lo fulminai.

«Non avevo il diritto di metterti in questa situazione, ma...», ammise.

«Esattamente», concordai acida.

«Forse dovrei andarmene».

«Sì, bravo», dissi furiosa, «vattene a fanculo».

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Capitolo 18
*** Sfida per masochisti ***


Mi rigirai su un fianco per la trecentesima volta. Iniziavo ad odiare il mio letto, mi rendeva insonne.

Feci un altro mezzo giro e i numerini verdi sul comodino segnavano le due e quarantadue di notte.

Presi il cellulare, scocciata. Ero stanca e volevo dormire, ma – porca vacca – neanche a farlo apposta non chiudevo occhio.

Iniziai a pensare a Bryan. Doveva essere in Francia già da un pezzo. Beato lui.

Forse non era il caso di chiamare proprio mio fratello nel cuore della notte. Okay, dovevo contare più o meno nove ore di fuso orario, ma...

Rimisi il cellulare sul comodino, al suo posto, e mi sedetti sul bordo del letto.

Inutile starmene lì in quella fossa che stava diventando il mio letto.

Ma cos'altro potevo fare? Ero bloccata nella mia paralisi post litigata e non sapevo cosa fare. Non era colpa mia, questo era certissimo. Al mille per mille, senza dubbio, era tutta colpa sua. Quindi, io non avrei fatto di sicuro il primo passo.

Accesi la luce sul comodino per cercare il quaderno delle brutte occasioni. Quella notte era proprio una brutta occasione. Insomma, ero solo stata a letto con la persona apparentemente sbagliata, che mi aveva imposto una specie di ultimatum. Io l'avevo accontentato, e gli avevo confessato che, okay, io avevo scelto lui, io volevo lui. E ora?

Porca puttana, ora aveva pensato “che sarebbe stato meglio andarsene”.

Beh, le vie del Signore sono infinite, giusto? E allora, Hitch, scegline una e vattene a fanculo.

Stavo giusto sbattendo il cassetto, quando il mio cellulare vibrò.

Guardai il numero. E sorrisi.

«Jamie», lo salutai senza alzare la voce. «Ciao».

«Sei ancora sveglia? Avanti, spegni la luce di camera tua, la vedo da camera mia».

«Mi chiami per questo? E poi potrei farti la stessa domanda inutile. Lo sai che sono sveglia, cosa me lo chiedi a fare?».

Dall'altro capo del telefono la sua risata tonante e contenuta mi mise di buon umore. «Hai ragione. Comunque te lo chiedo perché in sedici anni non ho mai visto camera tua illuminata nel bel mezzo della notte. Sai, stavo andando in bagno, e quando sono tornato ho notato la tua luce. E mi sono detto: ah-ah, qualcosa non va. E so di avere ragione, visto che oggi a scuola c'ero anche io». La sua voce assonnata era confortante più del dovuto.

«E invece ultimamente mi capita spesso di non dormire, sai?», tentai di sorvolare.

«Hayley». Tentativo fallito.

«Okay, è vero, a scuola è stato uno schifo, ma non è stato niente se paragonato a quello che ho passato a casa», ammisi abbassando la voce e spegnendo la luce.

«È inutile che spegni la luce, non ti mollo. Dimmi tutto».

«Va' a dormire almeno tu, Jamie. Dai, non è nulla. Se vuoi ne parliamo domani».

«Nah, io voglio sapere adesso, Hay. Testolina, dovresti sapere che non ti mollerò nel cuore della notte così».

«Beh, dovresti!», risi.

«Okay, dovrei, ma non è nel mio stile, e lo sai. Avanti. C'entra Adam, non è così?».

Nervi scoperti.

«Adam è un coglione», ringhiai.

«Appunto».

«Andiamo, Cristo Santo, è un deficiente cronico! Prima mi dice tutte quelle cose, poi finiamo a letto insieme. Poi mi dice: “Devi scegliere, non si sta con due stramaledetti piedi in una stradannata scarpa”. Poi gli dico: “Okay, ho scelto te, Jess mi odia ma non importa, tanto mi hai detto che mi saresti stato accanto”, e alla fine lui se ne esce con un “non era mio diritto metterti in questa situazione e blablabla, non dovevo trasferirmi e blablabla, forse dovrei andare e blablabla”, così gli ho detto che, sì, doveva andarsene. A quel paese. Solo che con lui sono stata più esplicita».

«Ah», fu tutto quello che mi rispose.

«Hai sonno, dai, ne riparliamo domani», proposi.

«No, ma che sonno e sonno, il mio era un “ah” che sta a significare “brava, scema”. Hai mandato Adam a quel paese?».

«Certo che sì!», dissi con enfasi, ma a bassa voce.

«E non gli hai chiesto perché ti ha detto quelle cose? Insomma, Adam è un personaggio, okay, ma non è scemo e neppure impulsivo, mi sembra. Io credo che ti manchi parte della sua storia. Se ha cambiato idea di punto in bianco... No, c'è qualcosa che non va. Hayley, dovresti vederlo quando ti guarda: si perde, sul serio. Me ne ero già accorto quando giravi intorno a Jess. Adam rodeva, sul serio, ma mai in modo volgare o spudorato. Non si intrometteva più di tanto, credo. Poi Jess ha fatto una cagata bell'e buona, e lui ha preso le redini. Mi sembrava contento di farlo. Ora però... No, Hay, ci sfugge qualcosa».

Ammutolii.

Deglutii i litri di bile che tanta classe e astuzia mi avevano fatto rivoltare nello stomaco. Perché sapevo, io lo sapevo che in realtà Jamie aveva ragione. Mannaggia.

«E tu l'hai mandato a Fanculandia, non credo che il suo carattere lo accetti facilmente, neppure se glielo hai detto tu. Anzi, soprattutto se glielo hai detto tu».

«Oh, Gesù», biascicai. «No, no, no. Jamie, ti odio quando hai ragione! Non gli ho nemmeno chiesto dove fosse stato oggi. Mi sono lamentata tanto della mia di giornata, ma non gli ho chiesto niente della sua. Mi ha solo detto che secondo lui non era il caso di venire a scuola perché altrimenti non si sarebbe trattenuto dal... boh, credo dal fare del male a Jess».

«HAYLEY! È una balla allucinante, come hai fatto a non accorgertene?!», mi sgridò.

«Che? Scusa, non ti seguo».

«Imbecille, ma ti pare logico che lui, e parliamo di Adam – hai presente il rapper iper protettivo che ha minacciato Jim con un coltellino svizzero perché ti stava infastidendo? –, ti pare mai possibile che lui ti lasci a scuola da sola, nelle grinfie di Jess, ma soprattutto nelle trappole di Jim?! Andiamo, Hay, ma dove vivi? Non ti sta mai alla larga, non ti stava lontano neppure quando stavi con Jess, perché avrebbe dovuto lasciarti a scuola da sola quando ti aveva già promesso il suo sostegno? Sai bene che Adam non è così bastardo, lo sai bene. Ci sfugge qualcosa».

Grugnii e restai zitta.

«Che Dio ti fulmini, amico», dissi atona. Stavo già macchinando le domande da fare ad Adam l'indomani. Ammesso che sarei andata a scuola, non ne avevo nessuna voglia.

«Ti voglio bene anch'io, Hay», mi rispose ridendo.

«Adesso dormi, prima che ti venga un'illuminazione su come risolvere i problemi del terzo mondo». Rise di nuovo e mi augurò la buona notte in un modo stranamente fraterno e familiare.

Mannaggia a Jamie, mannaggia.

 

Martedì.

Con Jenna avevo finto egregiamente un mal di pancia mostruoso. E beh, c'è arte e arte. Io sono un'artista in alcune cose, e non in altre. Pazienza.

Niente sensi di colpa, perché... No, non è vero: un po' in colpa mi sentivo. Eccome.

Jenna sarebbe stata fuori fino a tardo pomeriggio, e io no. A casa, finta malata.

In realtà sapevo che non sarei rimasta da sola molto a lungo.

Mi misi sul divano e iniziai a fissare il mio gesso. Che palle. Tre settimane di quel coso inumano attorno al braccio. Sbuffai.

Diedi un'occhiata all'orologio.

Sì, i gemelli erano appena tornati da scuola. Sentii la macchina di Chris parcheggiare sul loro vialetto e poi ripartire per andare a casa.

Contai fino a dieci, e sull'otto il campanello di casa mia suonò. Sembrava tanto una minaccia.

Ma non mi smossi. No, no.

Drin. Drin. Driiiiiiiin.

Sorrisi beffarda e mi alzai. Era inutile, non riuscivo a lasciarlo fuori.

Aprii con faccia ostile e scocciata.

«Ma che ti salta in mente?! Chiamo e non rispondi, a scuola nessuno sa che fine hai fatto, suono e mi lasci fuori. Ma che cazzo pensi?», mi ringhiò contro adirato Adam. Lo squadrai.

«Penso che non so dove sei stato ieri, al posto di essere a scuola. Dov'eri?», minacciai imperterrita e per nulla impressionata dal suo tono. Fece un passo indietro e mi guardò di sbieco.

«In giro», sussurrò vago.

«Ah-ah, come no. Allora tanti saluti». Feci per chiudere la porta, ma non ci riuscii.

«Oh, Hayley, aspetta».

Piegai la testa di lato e sbarrai la soglia. «Mi rispondi o resti fuori?».

Sospirò e si passò una mano in faccia.

«Okay. Ieri la casa discografica voleva fare due parole con me e Frank. Posso entrare, adesso? Ti ho risposto». Tentò di entrare, ma mi sporsi in avanti e mi richiusi la porta alle spalle.

«No che non entri. Sai bene cosa voglio sapere».

Sbuffò dal naso e mi guardò severo. «No. Ci vediamo in giro, ciao». Voltò le spalle e mi lasciò di stucco.

Cosa?

No, no, no. Doveva dirmi di più!

NO! Stava facendo un'uscita scenica, quando ero io quella che aveva le battute da diva da telefilm poliziesco.

«Chiederò a Jenna». Lampo di genio, grazie Signore. «Lei parla con Frank, e se lui sa, stai pur certo che sa anche lei». Si voltò lentamente a fissarmi. «E se sa lei, allora non passerà molto tempo prima che ne venga a conoscenza anche io. A te la scelta, Adam». Non credevo di poter avere un tono così... così... così da Buffy.

Sgranò gli occhi e strinse le mascelle. La testa gli cadde all'indietro mentre sbuffava.

«C'è un tour estivo in ballo. Tutto qui», confessò infine.

«E non potevi dirm...». “E non potevi dirmelo prima?”, era la frase completa. Mi bloccai quando realizzai.

Tour estivo.

Partenze.

In giro per il mondo.

Via da Beverly Hills.

Hayley da sola, niente più Adam o Hitch.

Solo dalla TV, che schifo.

Feci una smorfia ad occhi chiusi, molto simile al dolore. O alla delusione. O a una fitta di malessere nauseante.

«Non è il caso che stia qui, ti pare? Il fatto è che non mi va di lasciar stare».

«Ecco perché. Certo... Che stupida, certo», sussurrai a me stessa, ma intanto la terra mi mancava sotto i piedi.

Non aveva senso provarci con lui, se tanto poi si sarebbe dissolto nel nulla, nella scia della fama, nei palchi di tutto il mondo, in milioni di fan in fila da ore solo per sentirlo o vederlo.

Ebbi un moto di nausea allucinante.

Mi aveva... distrutta in circa un mese.

«Hayley», mi chiamò preoccupato mantenendo le distanze. «Hayley, non fare così, dai».

Nemmeno lo guardai mentre rientravo in casa, chiudendo la porta a chiave.

 

Andò avanti a suonare alla mia porta per circa un quarto d'ora.

Io, sul letto di camera mia, me ne stavo con un cuscino in testa.

Poteva restare lì a suonare quanto voleva, io non avrei fatto un solo passo per facilitare la mia morte. Lo so, suono melodrammatica, ma voi forse non avete capito.

Adam “aveva la mia virtù”, e non è cosa da poco. Soprattutto se per sedici anni si è sempre stati convinti che la verginità ci sarebbe sempre stata accanto. Certo, all'inizio la si vede come una frustrazione, un impedimento. Ma poi, quando non c'è più, ti senti tipo: “Oddio, non c'è più”. E il responsabile stava per fare la stessa cosa. A breve, sarebbe sparito anche lui.

Gli era bastato troppo poco tempo per avere campo libero con me, e adesso ero pronta a fargli guerra. Voleva andarsene? Okay, ma non mi avrebbe ridotto in pezzetti microscopici.

Ma poi sentii la voce di Jenna. E Frank. E Adam, cacchio.

«Ciao! Ma che ci fai qua fuori?». Questo era Frank.

«Credo che Hayley stia dormendo. Non apre». Bugiardo. “Hayley ti odia e non vuole vederti mai più”, lo corressi mentalmente.

«No problem», fece Jenna. Sentii lo scampanellio del suo mazzo di chiavi. «Oggi non stava molto bene, sai. Comunque adesso andiamo subito a controllare». Un giro nella serratura, uno scatto ed ecco il mio piano rovinato.

Gridai contro il cuscino. Adesso dovevo anche fingermi moribonda.

Okay, avrei tenuto il cuscino in faccia e mi sarei girata verso la finestra.

«Hayley, tesoro?», chiamò Jenna. Stava salendo le scale. Sbuffai e restai immobile. Dai suoi passi capii che non era sola.

«Hayley», fece di nuovo aprendo la porta. «Stai dormendo?».

«Non più», biascicai senza voltarmi a guardarla.

«Stai ancora male?», chiese Adam. Dio, gli avrei sparato un colpo in mezzo agli occhi se Jenna non fosse stata lì. Con quel suo tono strafottente del...

«Sì», sbottai. «Malissimo. Peggio di stamattina». Evidenziai il “peggio”, la frecciatina al rapper era evidente.

La risposta che mi aspettavo era un “allora andiamo e ti lasciamo in pace”.

Ma quando mai.

«Allora, Adam, resti tu a farle compagnia in caso avesse bisogno?», propose Jenna.

Nota: sparare un colpo anche a lei. Nel cervello, magari glielo metto a posto.

«Certo, signora Smithson». Sentii Jenna sorridere e scendere le scale per andare da Frank.

La porta si chiuse piano.

Presi il cuscino dalla mia testa e lo lanciai contro Adam, furiosa.

«Vaffanculo!», esordii. Afferrò il cuscino con una mano sola e lo poggiò sulla sedia dietro di lui.

«E con questa fanno due. Attenta, alla terza rischio di prenderla a cuore».

«Ah, certo, proprio tu mi vieni a parlare di prenderla a cuore! Ma vaff...».

«E basta, ho capito, dannazione! Basta mandarmi a quel paese!», mi interruppe infastidito. Mi sedetti sul letto e distolsi lo sguardo.

«Allora vattene e basta», dissi calma. «Meglio ora che tra qualche mese».

«Non ho ancora accettato di fare il tour, ma non dipende solo da me. Ne saprò qualcosa andando avanti. Insomma, per fare un tour mi serve un album nuovo, che non ho».

«Grandioso. Vai via prima pur di registrarlo?», feci acida.

«Non hai capito», mi corresse spazientito. «Come al solito».

«E già, povero te che hai a che fare con me. Dev'essere dura stare sotto i riflettori. Sai, non ti avevo mai inquadrato davvero come uno che deve stare a Hollywood. Solo i primi giorni, ma non me ne fregava molto. Tanto presto saresti sparito. E poi, idiota che non sei altro, hai incasinato tutto. Io non ho più pensato a te come a una star, ma tu, dannazione, potevi ricordarmelo di tanto in tanto! Potevi tenere le distanze prima, prima che io e te facessimo sesso, cretino. Potevi avere pietà per me, visto che tu sei quello che capisce sempre tutto. Beh, caro Hitch, stavolta non hai capito proprio un tubo di niente», dissi tutto d'un fiato.

«Sarei umano anche io, sai? Chi ha detto che devo sempre essere onnisciente? Io volevo starti lontano, ma tu...».

«NO!», lo interruppi brusca, «Tu non hai mai voluto sul serio starmi lontano, come del resto non lo volevo io. Ammettilo, abbi almeno la decenza di ammetterlo».

Sospirò. «Infatti, hai ragione. Ma adesso cosa dovrei fare? Stare con te e poi partire? Non ha senso».

«Per questo ti ho detto di andartene e basta. Prima mi rifaccio una vita, meglio è, non credi?». Il mio tono era stranamente supponente. Non credevo che la rabbia potesse farmi quest'effetto.

«Non potremmo riparlarne più in là? Siamo solo a settembre, ce n'è di tempo».

«Domani siamo a ottobre, non fare lo gnorri. Tutto 'sto tempo io non ce lo vedo». In quel preciso istante il mio cellulare interruppe il breve attimo di silenzio che era venuto a crearsi.

«Pronto», feci quasi arrabbiata ma indifferente. Non misi il punto di domanda alla fine.

«Hayley, ciao! Allora sei viva? Credevo stessi male», fece Lara.

«Sì, beh, posso richiamarti dopo? Ora ho da fare». E lanciai un'occhiata tremenda ad Adam.

«Oh beh, qualsiasi cosa tu debba fare deve aspettare! Non hai idea di cosa abbia scoperto. Sono davanti al pc... Dovresti cercare Hitch nel web. I post sulla “rossa sconosciuta che sta facendo impazzire il rapper” fioccano ovunque. Ce ne sono a valanghe!», esultò felice.

Deglutii e mandai giù i litri di bile acidissima.

«Ma non mi dire... che culo», risposi fredda. «Ti richiamo appena posso, okay?». Volevo tagliare corto. Non volevo sapere nient'altro.

«Hayley, tutto bene? Andiamo, non ti sento entusiasta nemmeno un pochino...», si lamentò.

«Perché non lo sono affatto. Ci sentiamo dopo, ciao». Le buttai il telefono in faccia. Tornai a fissare Adam.

Sospirò e si sedette di fronte a me, sulla sedia girata al contrario.

«Okay. Parliamone. Vuoi discuterne adesso? Va bene, io un'idea ce l'ho», iniziò spaventandomi un po'.

«Io pure: va' via».

«Oppure tu vieni via con me». Mi fissò troppo intensamente.

«Oppure no», risposi rapida, ma con un giramento di testa. Come diamine gli era venuta in mente una cosa simile? Che idiozia. STUPIDO. Stu-pi-do.

«Oppure sì». La nostra conversazione sembrava una partita di tennis: un botta e risposta troppo rapido per starci dietro anche con la logica, oltre che con le parole.

«La fai facile, tu, ma nemmeno hai capito cosa hai detto», lo sgridai severa.

«Hayley, cosa vuoi che ti dica? Dimmelo, e te lo dirò. Giuro che lo farò. Ma trovami una soluzione che non sia sparire dalla tua vita, perché sarebbe improponibile».

Lo guardai scettica. «Mi sembri una persona razionale per la maggior parte del tempo. Lascia stare. Sai bene che è la cosa più semplice e sensata. Lascia perdere adesso. Non mi va di ricomporre i pezzi dopo che te ne sarai andato».

«E io che credevo che avessi capito... Ma quando mai. Ti ho raccontato di Delilah o sbaglio? Perché credo proprio di averlo fatto», minacciò con una vena isterica.

«Cosa c'entra adesso?», scattai colpita nell'orgoglio. Chissà perché.

«C'entra, e non fare l'offesa con me, sai? C'entra perché mi ci sono voluti tre anni, e dico TRE, per lasciarmela alle spalle. E sai come ho fatto? Non credevo, non volevo nemmeno farcela, ma è stata colpa tua – e non merito, questo no di certo –, chiaro? Io non ti volevo stare attorno, giuro, però non potevo farci niente. Non potevo farci niente un mese fa, figurati adesso. Quindi, Hayley, non azzardarti mai più a dirmi che la soluzione più sensata è quella di lasciar perdere, perché non sono così coglione da lasciarmi sfuggire questa occasione. E non parlo affatto del tour».

Il sangue stava pulsando troppo velocemente. Avevo il battito accelerato, il caos nel cervello, e – per fortuna – un letto su cui ero seduta. Sarei caduta rovinosamente a terra dopo quella... cosa che mi aveva appena detto.

«E un'altra cosa», riprese brusco alzandosi dalla sedia e finendomi di fronte, «tu con me non farai mai sesso. Tu con me hai fatto – e farai ancora – l'amore. Non dimenticartelo mai».

Okay.

Volevo rispondergli per le rime.

(Sì, come no).

Stavo perdendo la lucidità. Me ne ero accorta da un pezzo. E adesso quel bastardo mi stava pure facendo venire i brividi. “Stupido battito, rallenta”, mi dicevo con poca convinzione. Peccato che avessi un tizio in camicia nera e con gli occhi verdi impenetrabili di fronte a me. Anche una demente come me avrebbe notato un certo... fascino, come minimo. Anche se fosse stato zitto sarebbe riuscito ad esercitare una forza sulle mie ginocchia fino a farle...

DIO DEL CIELO, AIUTO.

Forse avrebbe dovuto allontanarsi un pochino, giusto per precauzione.

Quasi a farlo apposta, invece, si avvicinò ancora di più.

«Chiaro?», chiese a mo' di sfida.

Sfida tua sorella, idiota.

Lo presi da dietro la testa – con un braccio solo, ahimè – e lo tirai verso di me con forza esagerata. Certo, anche lui non fu delicatissimo. Mi mise una mano su un fianco, l'altra dietro il collo, e mi tirò su dal letto.

E non staccò le labbra dalle mie. Non respirava nessuno dei due, questo lo sapevo per certo.

Mi diede una spinta leggera verso la mia scrivania e mi ci fece sedere sopra, facendo cadere alcune matite e alcuni cd.

Chissene, pensai. Avevo capito dove voleva arrivare, e tanto meglio.

Poi raggelai all'improvviso, tremando per il terrore. O forse no.

«No», dissi con le sue labbra addosso, «no... Al piano di sotto c'è Jenna e...». Mi mancarono le forze per proseguire. E lui rise. Stronzetto sexy che non era altro.

«E...?», mi incitò con le labbra sul collo. Oh, porca miseria.

«E non è il caso che...». Adesso la sua bocca era sul mio orecchio e sentivo una sua mano spingere piano sulla schiena per avvicinarmi a lui.

«Ma tu hai la gonna, non c'è problema», disse ridendo. «I vestiti resteranno addosso, tranquilla».

Mi venne da ridere insieme a lui. Che pazzo furioso.

«Stronzetto che non sei altro», dissi cercando di restare lucida.

«Ti ricordo che anche questo deve essere etichettato come amore, e non come sesso e basta».

Sorrise e fece finta di niente.

 

Una mezz'oretta dopo mi sentivo stravolta. Ero ancora seduta sulla scrivania, intontita e inebetita. Forse anche spettinata, boh.

Lentamente accavallai le gambe, e Adam rise.

«Stai giocando col fuoco, Hayley. Io non mi allontanerò da te, ma se tu vuoi impormelo... Beh, prova un po' a vedere se ci riesci».

Mi ero distratta.

«A fare cosa?», chiesi assente.

«Tu credi che riuscirai a starmi lontana? Guarda che io userò tutti i modi a mia disposizione, anche quelli indecenti. Non mi stai lasciando scelta».

Dopo un minuto buono (impiegato per capire il senso della sua frase), feci cadere la mascella scandalizzata.

«Mi stai sfidando?».

«Se vuoi vederla così».

«Stai sfidando me solo perché ti ho chiesto di starmi alla larga?», ribadii sarcastica.

«Esattamente. Tu credi che sarà facile tenermi lontano? Secondo te basta dirmi “vattene a fanculo” e io obbedirò? No, Hayley, non obbedirò. E tu non mi starai lontana».

«Questo è tutto da vedere», feci senza sorridere. Mi sentivo sminuita dal suo tono supponente. E sexy, sì, ma non dovevo darci peso se volevo vincere la sfida di quel babbeo.

«Questo è tutto da vedere», ripeté sorridente. Abbottonò la camicia e mi fissò, improvvisamente serio. «Non mi scappi, ora».

Mi feci prendere dall'impulsività del momento e tralasciai il mio masochismo. Praticamente stavo accettando di giocare al “toccata e fuga” con un rapper che prima dell'estate sarebbe sparito per colpa del suo tour. Questa cosa, col senno di poi, mi avrebbe fatto molto male. Molto, molto, molto male.

E allora perché stavo accettando la sfida?

Lo so io, il perché.

È indubbiamente “divertente” e stupido accettare quel tipo di sfide. E io sono stupida, lo so. Inoltre, avevo appena scoperto che mi piaceva parecchio “divertirmi” così.

Due più due.

Star o meno, per il momento il rapper aveva deciso di sfidarmi. E credo di aver già detto che nessuno sfida Hayley. Nessuno sfida Hayley e vince.

 

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Capitolo 19
*** Eroina ***


Anche mercoledì optai per una falsa malattia. A Jenna dissi che sì, stavo un pochino meglio, ma non volevo rischiare.

E lei se l'era bevuta.

Certo che non volevo rischiare. Non volevo rischiare un faccia a faccia con Jess o Jim. Adam sarebbe stato a scuola.

Beh, e io no.

Solito orario.

I gemelli erano a casa, li salutai dalla finestra di camera mia senza nemmeno fingermi in fin di vita. Jamie di sicuro aveva intuito quale fosse il mio vero “malessere”. Probabilmente anche Lara.

Jenna se ne stava al piano di sotto, la sentivo armeggiare con i trucchi e con le chiavi di casa.

«Tesoro, sto uscendo. Hai bisogno di qualcosa?», gridò dal salotto.

«No», urlai seduta alla scrivania. Presi un pennarello e iniziai a scarabocchiare sul gesso. Grazie al cielo mi ero rotta il braccio sinistro e non il destro.

Risi quando sentii il campanello proprio mentre Jenna stava aprendo la porta.

La voce di Adam tranquillizzava quella di mia madre, già rasserenata dalla presenza del nipote del suo uscente.

E pensare che Adam (volendo) poteva anche essere considerato il mio uscente. Non sarebbe stato illegale, se fosse stato possibile? Boh. Non era un mio problema, questo no.

Jenna salutò per l'ennesima volta e lui comparve sulla soglia di camera mia.

«Non penso che mi lascerebbe entrare così facilmente se sapesse cosa facciamo io e te quando siamo soli», mi salutò appoggiandosi al muro vicino a me.

«Beh. Anche quando non siamo soli, a dirla tutta. Ieri al piano di sotto c'era un tuo stretto parente, e una mia strettissima madre, capisci?», sorrisi alzando un occhio verso di lui. Polo verde scuro. Lo stesso verde dei suoi occhi. Jeans neri perfetti. Vans ai piedi. Da quando era arrivato aveva la carnagione più scura. E la barba appena accennata.

Sospirai e tornai a scarabocchiare sul mio gesso la frase “It's not faith if you use your eyes”, non è fede se usi i tuoi occhi. Hayley Williams la dice spesso quando canta “Miracle”, e io le credo. Insomma, se ti serve la vista per crederci, allora non è fede, ti pare? Anche se ammetto che questa frase non vale molto per me: io non ho fede in praticamente niente.

«Scrivi sul tuo gesso», constatò.

«Mmh-mmh», annuii impegnata.

«E non sei venuta a scuola nemmeno oggi. La gente mormora».

«E allora la gente andrà a farsi benedire. Oggi sono quasi di buon umore, non rovinarmi la giornata con cose che non vorrei sentire».

«Okay», concordò sedendosi accanto a me. Mi prese il pennarello dalle mani e, con delicatezza, pose il mio gesso sotto la sua vista.

«Posso scriverci io? È abbastanza triste avere un gesso e scriversi da soli le frasi, sai?».

Restai stupita. «Certo, scrivi pure», concordai. Ero curiosissima.

Restammo in religioso silenzio per qualche secondo. Poi, senza alzare lo sguardo dal gesso, mi chiese:

«Dimmi la verità, non vieni a scuola perché vuoi evitare me o perché vuoi evitare Jess?». Sembrava relativamente tranquillo parlando di quello che era stato il suo rivale.

«Numero due», risposi atona sospirando. «E non arrabbiarti, sono ancora la ragazzina che scappa dai suoi problemi, se può».

«Ma non stai scappando da me», affermò soddisfatto. «Quindi non sono un tuo problema».

Risi debolmente. «Tu sei un problema diverso. Tu sei una sfida, e io vincerò questa sfida».

«Quindi possiamo anche dire che non sei venuta a scuola perché vuoi vincere la sfida. Diciamocela tutta, oggi non c'eri perché sapevi che non mi avresti resistito avendomi intorno...», insinuò guardandomi con troppa insistenza. Cielo.

«Beh. Guarda che tu adesso sei qua, e le mie ginocchia sono ben chiuse», mi vantai.

«Perché non mi ci sto impegnando». Alzò gli occhi dalla sua scritta e mi sorrise appena.

«Che idiota», dissi arrossendo. Rise di me, e io cambiai argomento. «Che scrivi?».

Stava giusto concludendo l'ultima lettera, almeno così sembrava.

«Ti ho scritto “Heroin(e)”. Vuoi che te la spieghi?», fece strafottente ma sarcastico.

«Sì, dai, illuminami», accettai frivola.

«Okay. “Heroin” – con il significato di droga, hai presente? – è il titolo di una mia canzone. In tanti pensano che io l'abbia scritta parlando di un'amante pericolosa, una ragazza che poteva passare come Delilah. In realtà non si trattava di me o di lei; l'amante pericolosa era l'eroina. E si trattava di mio fratello. O volendo anche di me».

Deglutii e mi finsi a mio agio. «E poi c'è quella “e” tra parentesi...», lo incitai.

«Che fa diventare “Heroin” un “Heroine”. Sai, una persona eroica. E quella sei tu, la mia eroina. In tutti i sensi, sia brutti che belli». Mi fissò troppo a lungo.

«Eroina», ripetei allucinata. «Sia come droga che come eroe».

«Sì», rispose serio, con gli occhi dentro ai miei. Come faceva a restare serio e irremovibile?

Passarono un paio di minuti in cui sentii mancarmi le forze.

«Lo stai rifacendo», lo ammonii senza convinzione.

«Cosa?», fece abbozzando un sorrisetto cinico.

«Non mi seduci, stavolta». Sembrava tutt'altro dalla mia voce vulnerabile.

«Non ci stavo nemmeno provando». Si stava pavoneggiando.

«Buon per te, perché resteresti a bocca asciutta».

«E chi ha parlato di bocca?», rise genuino. E io con lui.

«Sei diventato spiritoso a starmi vicino, vedi?». Feci un respiro profondo e mi appoggiai sullo schienale della sedia, diminuendo la vicinanza pericolosa.

«Non solo spiritoso. Anche un rammollito indeciso».

Ahia. Non rideva più nessuno, adesso.

«Indeciso», ripetei amareggiata.

«Non voglio andare in tour», disse convinto.

«Ma...?».

«Ma non è così facile come sembra. Ho un contratto. Anche se, per quello che mi importa, potrei anche lasciar perdere tutto».

Feci una smorfia di delusione chiudendo gli occhi. «No che non puoi. Non si interrompono le carriere promettenti solo per stare con me. Non valgo tanto».

«Ma per favore, sei una malata di vittimismo che continua a sottovalutarsi. Questo mi fa pensare che tu non tenga a me tanto quanto io tengo a te».

«Okay, stiamo perdendo il filo logico e stiamo sparando entrambi cazzate. Forse dovremmo parlarne più in là», proposi agitata. Non sapevo rigirarmi in un discorso simile.

«È esattamente quello che ti ho detto ieri, solo che eri così incazzata e fuori di testa che mi volevi uccidere».

«Ho sbollito la rabbia, adesso. E non mi va di incazzarmi di nuovo».

«Sono d'accordo con te», fece concentrato. Si alzò dalla sedia e mi guardò di sbieco. «Ma ti prego, ti prego, domani vieni a scuola. E vienici con me».

 

Quella sera Jamie e Travis passarono da casa mia, dopo cena. Ero in giardino, accucciata su una sdraio.

«Hey, Hay!», salutarono in coro. Mi stupii del fatto che anche Travis mi avesse salutato con tanta enfasi, ma decisi di non fare troppo la schizzinosa.

«Ragazzi, ciao!». Era bello vederli insieme. Sorrisi senza nemmeno accorgermene.

«La smetti di fingerti malata, frignona?». Jamie, sempre a centrare il punto con naturalezza e stile.

«Già, è una noia insultare Dana e Bree senza di te», proseguì Travis. «E poi è da un paio di giorni che ti devo delle scuse per come mi sono comportato con te. Anche Chris voleva fartele, credo che domani si farà avanti – sempre se verrai a scuola».

«Scuse?», feci finta di niente.

«Sì, sai... Jess non può impormi di odiarti. Tu non mi hai fatto niente. Io conosco te da sedici anni, e lui da sei. Dieci anni non si cancellano per una scaramuccia che nemmeno mi riguarda, no?», disse sorridendo.

«Non ce l'avevo con te, Travis. Non sono arrabbiata».

«Ma domani vieni a scuola?», si intromise Jamie.

Sì, e già che ci sono vi dico anche che passa Adam, dite a Chris di non aspettarmi, volevo dire. Solo che mi mancò lo slancio completo.

«Sì, sì. Ecco, però...».

«Okay, passa il rapper», capì al volo Travis. Fantastico!

Trattenni il mio sollievo con un semplice “esatto, bravo”. Jamie mi sorrise complice e mi chiese di firmare il gesso.

Nessuno mi chiese di “Heroin(e)”.

Anzi, iniziammo a giocare al Link Game senza nemmeno accorgercene.

Casa, dolce casa.

I gemelli avevano di gran lunga il miglior intuito del mondo. O semplice buon senso, dipende dai punti di vista.

 

«Sai la faccia di Dana quando arriveremo a scuola», dissi preoccupata, più che vanitosa.

«Sai le foto dei paparazzi sul web, domani», rincarò la dose Adam. Eravamo chiusi in macchina da cinque minuti, in attesa che mi tornasse il coraggio per tornare a camminare a testa alta in quel carcere adolescenziale. Mi sentivo in convalescenza.

«Avanti, Hayley, non sono una piaga. Andiamo o no?», fece spazientito.

Annuii poco convinta. «Questa vale come uscita pubblica?».

«Ma che ti frega? Apri quel dannato sportello e sgambettiamo fino in classe, pivella», mi prese in giro con una vena di impazienza nella voce.

E va bene.

Dovevo smetterla di dare così tanto peso ai giudizi altrui.

Feci un respiro profondissimo e aprii lo sportello, trovandomi Adam già di fronte, in piedi. Chiuse lo sportello al posto mio e si comportò come se nulla fosse.

Ero alla luce del sole da nemmeno due secondi, e già tutti mi guardavano increduli. Fissavano prima me, poi Adam, poi di nuovo me.

«Forza», mi incoraggiò Adam mettendomi una mano intorno alla vita in modo non troppo spudorato.

«Sì», feci senza fissare troppo tutte le ragazze che parlavano le une alle orecchie delle altre. Sorridevano acide, poi mi squadravano e tornavano a parlare sottovoce.

E poi vidi il volto che meno volevo vedere, quello da cui stavo scappando.

Storse la bocca in una smorfia schifata, mi guardò malissimo per due secondi e poi mi voltò le spalle, andando a sparire dietro la sua moto insormontabile.

Ebbi un crampo allo stomaco e proseguii fino al mio armadietto.

Jim era lì, che mi aspettava. Merda.

Dalla sua faccia dedussi che non aveva preso in considerazione Adam, che subito scattò in avanti.

«Morrissey?!», fece Jim preso in contropiede.

«Faresti meglio a sparire subito», rispose.

«Ti è stato recapitato il messaggio?». Adesso Jim non lo temeva più, anzi. Strafottente come non mai, fissava me con aria maliziosa, e poi lui con uno sguardo atroce.

Dio mio, ma perché proprio a me?

«No, e fidati se ti dico che è meglio per tutti se non ne vengo a conoscenza». Presi le distanze da Adam. Così mi spaventava. Parecchio.

«Come ti pare. Sappi solo che non mi spaventi». Fece un passo avanti verso di me e mi mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Nemmeno lo guardai in faccia.

«E tu sappi solo che sono in grado di romperti le ossa...», Adam fece una pausa e afferrò la mano di Jim con violenza disumana, «... anche adesso». Strinse la presa e sentii un crack poco raccomandabile. Jim cacciò un urlo da far accapponare la pelle e subito si allontanò, con la mano dolorante.

«Non è rotta, è solo... indolenzita. Se la vuoi rompere, fammi un fischio», minacciò Adam. Jim era già sparito da un pezzo. Per ora il momento era stato scongiurato.

Tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai cadere sugli armadietti.

Adam non parlava più, mi guardava e basta.

«Così non va», dissi furiosa. «Datti una calmata». Presi un paio di libri e sbattei lo sportellino dell'armadietto. «Così proprio no».

E camminai veloce lontano da lui, filando in classe molto prima del suono della campanella.

Forse non era questa gran cosa essere una specie di droga. A cosa avrebbe portato? Cosa avremmo risolto?

Forse dovevo iniziare a preoccuparmi. Ma di chi?

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Capitolo 20
*** Problemi ***


Tornai a casa con i gemelli e Chris. Non so perché, ma non volevo parlare con Adam. Quella mattina mi aveva fatto saltare i nervi.

Anche Lara venne con noi, la volevo ospitare per farmi perdonare l'indelicatezza della telefonata... Insomma, nell'ultimo paio di giorni non ero stata esattamente una buona amica.

«Ballo d'Autunno», ripetei convincendomi di quel disastro. Porca vacca.

«Già!», confermò lei. «Con chi ci vai? Con Adam, suppongo». La sua curiosità travestita da affermazione pressoché certa faceva pietà.

Feci spallucce, il modo più semplice e immediato di rimandare un problemino.

«Mi spieghi cosa è successo stamattina?», fece apprensiva.

«Niente». E di nuovo spallucce. Ma stavolta non bastò, così dovetti continuare: «Jim ha fatto il cretino e Adam più di lui. Gli ha quasi rotto una mano davanti a me».

«Questa cosa è molto romantica. È molto protettivo, è una buona qualità».

«No che non lo è, se inizia a spaventarti», ammisi prendendo una vaschetta di gelato e due cucchiaini.

«Spaventarti?». Non era sbalordita o scandalizzata, solo che non capiva sul serio la mia sensazione di angoscia. Prese un cucchiaino e iniziò a mangiucchiare con me.

«Sì, mi spaventa quando si fa prendere dal momento. Non credo di sapere con certezza fino a dove si spingerebbe pur di restare orgoglioso».

«Tu intendi cose grosse?». Corrugò la fronte, allarmata.

«No, no! Non così grosse! Ti dico solo che quando fa il tosto non mi sento al sicuro, anzi. Non so perché, ma non mi piace».

«Glielo hai detto?», mi chiese Lara con la più naturale curiosità.

Risi un po' a disagio. Certo che no!

«No!», scattai.

«E perché?».

Ma boh. Non sono cose che si dicono.

«Perché no...». Mi sentivo una bamboccia. Spallucce e risposte da idiota facevano al caso mio.

«Sai», disse affondando il cucchiaino nella vaschetta, «io credo che Adam sia una persona ragionevole. Con lui puoi parlare, non è come con Jess. Detto tra noi, Jess è molto più infantile e orgoglioso a modo suo. Veramente, è orgoglioso come un bimbo cocciuto. Adam, invece, è orgoglioso come un ragazzo di strada, lui capisce meglio le situazioni. Io dico che dovresti dirglielo che così non va».

Così non va. Proprio no.

Ah-ah, non mi era nuova.

«Io... credo di averglielo già detto stamattina. Anzi, ne sono certa. Poi ho sbattuto l'armadietto e me ne sono andata».

«Da allora non avete più parlato?», chiese contrariata.

«Ehm. Mi sa di no». Ero anche tornata a casa con i gemelli, pensate un po'...

«E mi spieghi cosa ci fai qui con me? Cazzo, va' da lui!», mi sgridò benevola. Mi stizzii comunque.

«Adesso adesso?».

«Adesso adesso, sì. Fila via dalla mia vista».

«E tu?», trovai una scusa inutile.

«Ma vai a cagare, io attraverso la strada con te – così mi assicuro che tu vada da lui – e poi passo dai gemelli o da Chris», fece con ovvietà. «Non muoio senza di te, anche se ancora dobbiamo parlare delle tue foto sul web!».

Feci una smorfia. Forse era meglio scappare da Lara finché ero in tempo.

 

Bussai nervosa.

Mi guardai le Converse rosse ai piedi, incrociando le dita. “Ti prego, fa' che non sia (troppo) arrabbiato”.

Non venne nessuno ad aprirmi. Così suonai e bussai di nuovo, un po' scocciata. E se non fosse stato in casa? Tanto nervosismo per niente.

E poi, all'improvviso, la porta si spalancò.

Adam, con una faccia molto simile a quella di un mafioso incazzato, mi aveva aperto con una sigaretta in bocca.

«Ti sei appena svegliato?», chiesi stupita. Aveva tutti i capelli scompigliati.

«No. Cosa vuoi, Hayley?», fece brusco. Le mie preghiere erano andate a farsi benedire.

Sbuffai e gli voltai le spalle. «Magari ne riparliamo quando sei meno mestruato», sibilai infastidita dal suo tono. Mi bloccò per una spalla.

«No, dai. Entra», mi invitò. Senza troppe storie, accettai e in meno di un minuto mi ritrovai seduta sul divano della stanza delle meraviglie.

Dio, l'ultima volta che mi ero messa su quel divano... non avevo i vestiti addosso. Trattenni un po' di imbarazzo e mi concentrai sull'espressione indecifrabile del mio caro rapper personale.

«Quando togli il gesso?», mi chiese fingendosi interessato.

«Due settimane e mezzo», risposi fredda.

«Bene».

Okay, dovevo vuotare il sacco come avevo fatto con Lara. Feci un bel respiro profondo.

«Adam».

«Che c'è?», si girò indelicato.

«Che palle! Sono venuta a spiegarti qual è il problema, e tu...». Alzò la voce di scatto e mi zittì.

«Hayley, il problema! Il problema, certo. Lo so io, qual è questo cazzo di problema. Il problema è che io continuo ad innamorarmi di ragazzine con la fissa per la fuga, e tu, Hayley, tu fuggi senza nemmeno accorgertene. Scappi da Jess, scappi da me, scappi da tutto e tutti, non affronti il problema, tu ti giri dall'altra parte e basta. Se quando ti rigiri il problema sta ancora là, tu chiudi gli occhi e preghi che qualcuno lo risolva al posto tuo. Se io oggi non avessi fatto il gradasso con quel figlio di puttana, tu avresti trovato comunque una scusa per prendere e andartene facendo la vittima». Mi si era avvicinato fino ad arrivarmi a pochi centimetri dalla faccia.

«Ne sei certo?», lo sfidai alzandomi in piedi. E che palle, adesso basta farmi passare per la vigliacca della situazione.

«Dimostrami il contrario, dimostrami che mi sbaglio», fece lui più sicuro ancora.

«Vuoi che ti dimostri che non sto scappando?». Ora anche io mi ero fatta prendere dalla foga del momento.

«Sì, avanti. Dimostramelo». Sorrisi cinica.

«Non ti basta l'evidenza? Io sono qui», e feci un passo avanti verso di lui, «sono qui con te perché volevo chiarirti il problema, e tu mi chiedi di dimostrarti che non sto scappando. Sei incredibile, sai? Ho fatto la stronza con Jess in un modo che mai mi sarei immaginata, sono venuta a cercarti per essere certa che tu capissi, e mi chiedi di dimostrarti che non sto scappando?». Ero incredula. Non credevo di poter avere un tono così sicuro e che non ammetteva repliche.

«Sì, è esattamente quello che ti sto chiedendo». Ma guarda questo!

Adesso ti faccio vedere io, porca miseria.

«D'accordo».

Gli misi un braccio intorno al collo e lo strattonai verso di me. Gli diedi un bacio che non si sarebbe aspettato nemmeno nei suoi sogni più nascosti, e giuro che non so ancora come potessi avere tanta forza emotiva. Peccato per quel braccio rotto, perché se fosse stato sano chissà dove sarei finita.

Adam era del tutto spiazzato. Non se lo aspettava, non mi credeva capace di una cosa così impulsiva e fuori controllo. Ma non si azzardò ad opporre resistenza, anzi.

Decisi che avevo “dimostrato” abbastanza. Proprio quando Adam stava dipendendo da me – e non scherzo affatto – mi staccai da lui e feci un passo indietro. Fu difficile nascondere anche la mia di dipendenza, ma mi finsi spavalda abbastanza da disorientarlo.

«Okay», dissi sistemandomi i capelli che mi aveva spettinato. Lo guardai come se mi sentissi superiore. Dio, aveva una faccia stravolta. «Hai avuto quello che cercavi, quando sarai pronto a discutere civilmente, fammi un fischio. Ti saluto».

Gli voltai le spalle e mi incamminai. Sentivo il potere che esercitavo su di lui in quel momento.

«Hayley», chiamò. Sorrisi senza farmi vedere: lo sapevo. Cancellai il mio gongolamento e mi girai verso di lui.

«Sì?».

«Non andartene adesso, dai», mi pregò. Ebbi una stretta al cuore e mi lasciai andare ad un sorriso.

 

Tornai a casa quasi saltellando, mi sentivo decisamente meglio. Avevo vuotato il sacco con Adam e avevo anche scoperto che boccheggiava senza di me – e questa cosa mi dava parecchia soddisfazione. Avevamo parlato del suo atteggiamento che mi metteva a disagio e mi aveva promesso che avrebbe tentato di essere meno impulsivo e violento; avevamo parlato delle foto sul web (anzi, le avevamo proprio viste ed eravamo scoppiati a ridere vedendo in che condizioni ci avevano ripreso); e poi mi aveva detto che non sarebbe andato in tour. Ma dal tono in cui lo aveva fatto, avevo capito che non sarebbe stato così facile mollare tutto. Quindi annuii e sorrisi, fingendo di aver capito. E fingendo di crederci.

Erano ormai quasi le sette quando misi piede in casa. Jenna mi stava aspettando con un sorriso stupefacente. Era raggiante. E non ne capivo il motivo.

«Tesoro!», mi salutò.

In quel preciso istante dalle scale spuntò Bryan.

«Bryan!», esultai lanciando la borsa sul divano e correndogli incontro. «Bryan!».

«Scimmietta, ciao! Sono tornato prima, hai visto?». Gli buttai il braccio buono al collo e lo abbracciai a metà.

«Ho visto, pivello! Che c'è, hai combinato qualcosa di grosso e lo Stato francese ti ha sbattuto fuori?».

«Ma no, poveretta. Ho solo deciso di fare un'improvvisata. Sai, ho una sorella che ha un braccio sfracellato, e siccome so che senza di me non vive...». Stava facendo lo sbruffone, così gli diedi un colpetto sul petto e lui mi abbracciò di nuovo.

«Immagino che tu sia più rimbambito del solito... Il fuso orario ti avrà fuso quel microscopico cervello».

«Magari ti si fondesse il senso dell'umorismo, sorellina». E giù a ridere.

Ecco perché Jenna era così sorridente. Bryan aveva fatto una sorpresa anche a lei.

«Bene, ragazzi», ricominciò lei, sempre smagliante, «spero non vi dispiaccia, ma per domani sera avrei già invitato alcuni amici».

«Nessun problema, mamma», concordò subito Bryan. Io non fui così accomodante.

«Amici? Tipo?», chiesi temendo la risposta.

«Beh, ho invitato Frank... e il nipote, ovviamente. Poi anche i gemelli e i loro genitori. E anche le famiglie di Dana e Bree».

«JENNA!», gridai esasperata. «E perché mai?».

«Rilassati, tesoro, è giusto una cenetta tra amici. Ci sarà anche qualcun altro, giusto per festeggiare il nuovo ingaggio che ho ottenuto!».

Ah, ecco perché sorrideva tanto. Non era (solo) per Bryan.

Era così esultante e emozionata che non ebbi il coraggio di smontarle la felicità. Volevo gridarle tanti insulti per aver invitato il demonio in casa, ma d'altra parte era anche vero che ci sarebbero stati Adam e i gemelli. E altra gente, okay, ma non mi importava.

Una cosa mi preoccupava: non avrei dovuto dare nell'occhio con Adam, anche se sarebbe stato davvero impossibile. Forse con l'aiuto dei gemelli ce l'avrei fatta. Ma con Dana e Bree intorno...

«Nuovo ingaggio?», risposi tentando di rilassarmi.

«Sì, la settimana prossima gireranno un film qui vicino e sarò una delle make up artist! Non è fantastico? È stato Frank – con l'aiuto della madre di Dana – a mettere una buona parola sul mio nome. E ora – ta-daaa – mi sto facendo un nome nella scalata al successo!». Era al settimo cielo. Come potevo rovinarle la festa?

«Bene, Jenna. È fantastico», mi limitai a dire. Anche Bryan si congratulò e andò a disfare le valigie, chiedendomi il suo aiuto.

«Arrivo subito, okay?», dissi rivolta a lui. Poi scesi le scale e andai da Jenna. «Hai detto che ci sarà qualcun altro... Esattamente, quanta gente potrebbe esserci?». Conoscevo bene Jenna. “Qualcun altro” chissà a quale cifra esorbitante corrispondeva.

«Un po' di gente, non so. Io ho sparso la voce. Te l'avrei detto prima, ma non ne ho mai avuto l'occasione. È circa un paio di giorni che ho in ballo questa cosa».

«Oh», dissi stupita e delusa. Ero una figlia così tremenda da non poter parlare nemmeno di una festa in casa? Bene.

«Tesoro, nemmeno ti accorgerai di Dana e le sue amiche».

«Amiche», ripetei fredda. «Quindi sono più di una». Mi si gelò il sangue.

«Ma non preoccuparti, i gemelli ti terranno compagnia». Stava andando a destra e a sinistra con il cellulare in mano, nel tentativo di organizzare qualcosa in modo ancora più perfetto di quanto sicuramente non avesse già fatto. Le feste di Jenna erano una garanzia, purtroppo per me. Anche se venivano organizzate dalla sera alla mattina. Bryan aveva ereditato tutta quella capacità di organizzazione da Jenna. Io, purtroppo, avevo solo ereditato i capelli rossi da quel pezzente. E non avevo nemmeno gli occhi verdi di Jenna.

Persa nei miei pensieri, annuii debolmente e salii le scale fino in camera di Bryan.

Meglio concentrarsi su qualcosa di bello.

Iniziai a pensare ad Adam, ed entrai in camera di mio fratello. Era già a buon punto, ma gli diedi una mano comunque. Presi alcune cose dalla sua valigia e le piegai decentemente, posandole sul letto. Dopo qualche minuto, mi ritrovai a pensare a cose imbarazzanti. Dio, c'era Jenna al piano di sotto... e anche suo zio! Però era stata una cosa... che non avevo mai provato.

«Hayley?», fece Bryan con un certo tono sarcastico.

«Eh», risposi con la testa ancora altrove.

«Posso farti una domanda?».

Spostai lo sguardo su di lui immediatamente e mi misi sulla difensiva. Tutte le volte che iniziava una frase così, non era buon segno.

«No che non puoi», risposi quasi offesa. Rise di me e iniziò:

«Okay. Scuola... Amici...».

Oh, no. OH, NO.

Stava iniziando il suo monologo-interrogatorio, mi fissava con troppa insistenza! Non avevo scampo. Avrebbe detto tutte le parole del mondo finché non avrebbe avuto un cenno inconsapevole da parte mia.

«Bryan, smettila», dissi inutilmente.

«Jenna... Lara...», continuò imperterrito.

Merda.

«BRYAN!».

«Ragazzi...». Si bloccò.

Cacchio, avevo fatto una smorfia impossibile da notare, una cosa impercettibile e stupida, nemmeno io me ne ero accorta. Ma tanto bastò.

«Okay: ragazzi», affermò sorridendo.

«Sei un impiccione», piagnucolai.

«Ragazzi... Quindi, vediamo un po'. Jamie... Travis... Quel demente che girava qua intorno, come si chiama?».

Mi si bloccò la gola. «Smettila», dissi di nuovo.

«Ah, ecco: Jess». Mi scrutò. «Ma no, non è lui».

Tirai un sospiro di sollievo e lo pregai un'altra volta di fare meno il cretino impiccione. Ma Bryan era cocciuto almeno tanto quanto me.

«Ah-ah!», esultò dopo pochi secondi. «Ho capito!».

Dio mio, dalla faccia che aveva capii che aveva capito sul serio.

«Il caro nipotino del carissimo Frank», sussurrò ridendosela. C'era poco da ridere.

«Stupido!», sbottai. Ma non negai come avrei dovuto fare. Non mi sembrava che avesse molto senso mentire a Bryan.

«Centro!», fece orgoglioso della sua capacità di leggermi dentro.

«Idiota».

«E scommetto che la mamma pensa che tu e lui siate solo buoni amici. Magari si sta anche stupendo di come tu abbia cambiato idea nei confronti della super star», mi prese in giro. Lo zittii lanciandogli addosso alcuni vestiti, ma lui rise più forte.

«Babbeo, ma sta' zitto!», sussurrai per non farmi sentire.

«Tranquilla, tanto conosciamo entrambi la mamma. Finirà presto, tu continua a fare la finta amica... Tieni duro, e potrai uscire allo scoperto prima o poi».

«Sai, ti preferivo in Francia», lo bacchettai.

«A proposito di Francia», si ricordò. Mi voltò le spalle e cercò qualcosa in una valigetta. Quando la trovò, mi mostrò una bella bottiglia francese.

«Ti sei ricordato», dissi cadendo dalle nuvole. «Io me ne ero scordata alla grande», ammisi.

«Eh, già. È patis, è una cosa strana. Nemmeno l'ho assaggiata. Anice, zucchero, alcool...».

«È molto dolce?», chiesi afferrando la bottiglia e scrutandola.

«Non lo so. Fai decidere al tuo amichetto, dai. E digli di diluirlo con l'acqua». Che perspicace. Feci una boccaccia molto poco carina, ma poi lo ringraziai con un mezzo abbraccio e filai in camera mia.

Poggiai la bottiglia sulla scrivania. Un cd era ancora per terra. Mi chinai per raccoglierlo e poi mi buttai sul letto. E sorrisi da sola.

Però. Avevo trovato un punto stabile nella mia vita, ed era proprio il rapper che tanto odiavo i primi giorni. Incredibile, tra tutti l'unico con cui stavo... sì, l'unico con cui stavo bene, era proprio lui. Pazzesco. Se mi avessero detto che avrei avuto tutto quel feeling, tutta quella fiducia in una persona apparentemente incompatibile con me, non ci avrei mai creduto. Mai.

Caspita, per la prima volta avevo affrontato i problemi della giornata senza comportarmi come una bambina di due anni. Ero senza parole.

Non sapevo quanto fosse merito mio. E quanto di Adam.

Ma era davvero incredibile.

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Capitolo 21
*** Principi Azzurri e pirati ***


Tipico di Jenna.

La casa era già piena fino all'inverosimile. Dovevo aspettarmelo.

Bryan era sparito in tempo, beato lui.

Io, intanto, me ne stavo in giardino, vicino alla piscina, con Jamie e Travis. Sorseggiavamo cose rigorosamente non alcoliche (non volevo finire di nuovo nel letto sbagliato, non ora che tenevo sul serio ad Adam) standocene al bordo della piscina.

Mi ero messa un vestitino verde smeraldo, con un nastrino nero che partiva proprio sotto il taglio del seno. Peccato che le décolleté non fossero comodissime. Insomma, mi ero messa in ghingheri, ma non per la festa.

«Hayley», mi salutò la voce falsa di Dana.

Sorrisi altrettanto finta. «Ma che bello. Ciao, Dana. Ciao, Bree», salutai inespressiva.

«Ma che bella festa», commentò Bree con la sua vocetta isterica.

«Non è merito mio di sicuro», risposi. Jamie stava sbuffando, così come Travis.

«Senti, forse è il caso che noi mettiamo in chiaro due cosette», iniziò Dana come se volesse minacciarmi.

«Ah, sì?», dissi scoppiando a ridere. I gemelli fecero un verso assurdo con la gola, tentando di non ridere così spudoratamente.

«Esatto. Credo che tu dovresti stare alla larga da noi».

«Io?», feci ridendo ancora di più. «Io non...». Mi ricomposi. «Io non ho la benché minima intenzione di vedervi, figuriamoci di starvi intorno. Non me ne frega proprio, non so se avete recepito il messaggio».

Travis non ce la fece più e rise a crepapelle, io ricominciai a ruota, portandomi dietro anche Jamie.

«Che maleducati», commentò Bree.

Diedi due colpi ai gemelli, che cercarono di tornare seri. Ma anche io ero poco credibile.

«Scusate. Allora, ricapitoliamo: a voi brucia perché sto attirando tanta attenzione, la vostra attenzione. Ma a me proprio... Sapete, non me ne frega niente di voi due. Vi starò alla larga, se volete, anche se è quello che ho sempre fatto... Comunque. C'è altro?». Mi sforzai di non ridere di nuovo in modo disumano.

«Hayley, ci conosci bene. Sai che se ci metti i bastoni tra le ruote, noi te la faremo pagare», minacciò di nuovo Dana. E Bree la spalleggiava in modo ridicolo.

«Mettere i bastoni tra le ruote? Esattamente, per fare cosa?», mi anticipò Jamie. Dana lo guardò con fare da Reginetta Delle Stronze e rispose:

«Se c'è una cosa che Dana vuole, Dana la ottiene». Ci voltò le spalle e iniziò a sculettare come una modella mal riuscita, seguita da Bree. Non appena furono più lontane, scoppiammo a ridere come dei deficienti, ma era davvero impossibile trattenersi dopo quella sceneggiata. Erano patetiche, e facevano passare me per la stronza! Beh, a loro spettava il premio per la fantasia.

Avevo anche capito cosa – o meglio, chi – volessero le due vipere: Adam, ovvio. Poverette.

Proprio mentre scherzavo con i gemelli, sentii qualcuno respirarmi sul collo e spostarmi i capelli sciolti dalla spalla.

«Ciao, Smitty», sussurrò all'orecchio. Jamie guardò Travis con un'occhiata che doveva dirla lunga e insieme si volatilizzarono.

Mi voltai e trovai le sue braccia attorno alla mia vita. Con delicatezza, sciolsi l'abbraccio.

«Ciao, star».

Mi scrutò con attenzione. «Non dirmi che non vuoi farti scoprire da Jenna».

Ma come diamine faceva?! Come?

«Beh, è esattamente quello che stavo per dire. C'è anche tuo zio, non credo sia una buona idea».

«L'ultima volta che tua madre e Frank erano nello stesso luogo, anche noi eravamo impegnati», disse abbozzando un sorriso e guardando altrove.

«Sì, suppongo di sì».

«Ma, scusa, se non vuoi dare nell'occhio, perché ti sei vestita così? Credi che mi tratterrò?». Fece un passo indietro e mi guardò così intento a scorgere ogni particolare da farmi sentire imbarazzata.

Allora anche io fissai lui.

Era elegante: camicia nera, cravatta bianca, pantaloni scuri e capelli spettinati al punto giusto.

Corrugai la fronte.

«Certo, Adam, anche tu potevi vestirti in modo meno... attraente». Sapevo che non se lo sarebbe aspettato. Infatti sgranò gli occhi.

«Hayley, ammetto che tra ieri e oggi mi stai dando alla testa. Prima mi baci in quel modo – e io mi ricordo bene come – adesso mi parli con questo tono da donna matura... Stai crescendo o giochi a un gioco che mi piace?».

Scrollai le spalle. «Tu limitati a fare il bravo. Non dare nell'occhio e fingiti solo un amico. Poi vedremo se giocare o no». Sorrisi appena e mi allontanai, lasciandolo a bocca aperta. Veramente avevo stupito anche me stessa: non credevo di poter essere così spavalda.

Vidi con la coda dell'occhio Dana e Bree confabulare, o forse mi stavano solo sputtanando. Pazienza.

Dopo nemmeno due minuti, Adam mi comparve di nuovo alle spalle, ma solo per dirmi velocemente: «Okay, allora giochiamo. La sfida si riapre». Non ebbi il tempo di rispondergli: era già sparito tra la folla.

«Hayley!», chiamò una voce dalla parte opposta. Mi voltai.

«Ciao, Chris!», lo salutai allegra. Sembrava proprio che tutto stesse tornando al posto giusto.

«Però, come siamo belle stasera...», mi fece i complimenti.

«Beh, anche tu sei tutto in ghingheri, o sbaglio? Vuoi fare stragi di cuori?». Sorrise e mi fece l'occhiolino.

«Hey, comunque... Per quel che riguarda i giorni scorsi...». Avevo già capito.

«Non fa niente, Chris. Figurati, mica ce l'ho con te. Non ce l'ho con nessuno, okay?», lo tranquillizzai. Si rilassò appena, perché il suo cellulare squillò. Guardò il numero e fece una faccia strana.

«Pronto?», iniziò attento. «No, dai, non è il caso. Hai...», e mi guardò di sfuggita, «... lo hai fatto di nuovo? Insomma, basta! Non sei un bambino». Mi accorsi che non diceva il nome dell'interlocutore apposta per non farmi capire di chi si trattasse. Allora poteva esserci solo una persona dall'altro capo del telefono. E quella persona mi odiava. «No, i tuoi genitori sono stati invitati, non tu. No, credimi non è una buona idea. Come? Che diamine significa che sei già qua fuori?».

«Okay, è Jess, l'ho capito», dissi piano a Chris. Avevo parlato troppo presto. Tutto stava tornando al posto giusto, vero? Come no.

Alzò gli occhi al cielo, scusandosi senza voce. Poi riprese a parlare: «Jess, ascolta. No, questo non è vero. Se la pensi davvero così, perché mi hai chiamato? Allora non hai capito! Io non sto dalla parte di nessuno, d'accordo? Nessuno».

Non so perché, ma incitai Chris a porgermi il cellulare. Fece cenno di no un paio di volte, poi mi stancai e glielo strappai dalle mani.

«Jess», tuonai.

Qualcuno rise in modo sguaiato dall'altra parte.

«Jess?», ripetei più cauta.

«Hayley!», esclamò con una voce stranissima. Oddio, era sbronzo.

«Jess, spiegami cosa diamine ti dice il cervello. Hai bevuto?».

«Potrebbe essere, sì», rispose ridendo.

«E adesso dove sei?». Era inutile, non sembravo per niente arrabbiata. Anzi, se mai mi sentivo colpevole.

«Sul vialetto di casa tua... Seduto per terra!». E scoppiò in una risata fragorosa.

«Da solo?».

«Credo di sì... Non importa, sai? Tu stai pure a goderti la tua festicciola con il milionario di MTV, dai... Non ti preoccupare...». Adesso biascicava.

«Stai lì», ordinai ripassando il cellulare a Chris, che mi guardava straniato.

Camminai rapidissima attraverso la folla, e Jamie mi fu subito accanto.

«Che succede?», mi chiese stando al mio passo, ma senza intralciarmi.

«Succede che abbiamo Jess ubriaco sul vialetto di casa mia, e non mi va di lasciarlo lì».

«Di nuovo?», fu tutto quello che mi rispose.

«Di nuovo cosa?». Adesso sì che mi stavo scaldando.

«Ubriaco. Non è la prima volta».

«E posso sapere cosa stavate aspettando a dirmelo?».

«E posso chiederti cosa avresti risolto? Semmai avresti solo peggiorato la situazione. Sarebbe stato meglio tenerti fuori. Conosci Jess anche tu».

«Purtroppo sì», ammisi. Aveva ragione Jamie, come al solito.

Uscimmo da casa mia e percorremmo tutto il vialetto praticamente di corsa.

Jess era davvero seduto in un angolo appartato per terra, con una bottiglia di non so cosa in mano.

«Cristo Santo», feci arrivandogli contro. Gli presi la bottiglia di mano e la diedi a Jamie. «Cosa cazzo stai facendo, Jess?», gridai a bassa voce.

«Hayley». Sorrise come un beota. «Ciao. Non sei con il rapper?».

Gli diedi uno schiaffo.

«Stupido. Non sei lucido, faresti meglio a stare zitto».

«Invece quando si beve si è molto più sinceri del solito, sai?».

«Aiutami a portarlo in camera mia», dissi a Jamie. Io avevo un solo braccio a disposizione. «Passiamo dall'entrata sul retro».

Jess continuò a blaterare fino a che non fummo dentro di nuovo. Jamie tentava di zittirlo, ma era una vera impresa. Come impedire a un muto di stare zitto.

Aprii la porta.

Oh, no.

OH, NO.

Adam se ne stava affacciato alla mia finestra, dandoci le spalle.

«Eccolo, il campione!», fece Jess. Lo lasciai andare e lo feci traballare. Jamie lo mise a sedere sul letto, io chiusi la porta a chiave.

Mi voltai a fissare Adam con faccia eloquente.

«Lui. Lui è qui?», mi chiese deluso e infuriato. Quando aveva la voce così bassa e profonda non era buon segno. Non in quelle circostanze, perlomeno.

«Non per mia volontà. È sbronzo e mi sta facendo andare il sangue al cervello, giuro», sibilai.

«Jess, questa roba è troppo pesante per te, avevi detto che non avresti più fatto il cretino», lo rimproverò gentile Jamie.

«Io giuro che non volevo... Ma è colpa sua», disse indicandomi.

«Bella scusa, bastardo che non sei altro. Si fa presto a risolvere i problemi come fai tu», rispose Adam infuriato.

«Hayley...», disse Jess allungando una mano verso di me. Incrociai le braccia al petto e lo fissai incavolata. «Hayley, ma perché mi hai fatto questo? A me piaci tu, mi piaci come nessun'altra. Credevo di piacerti anche io...».

«Era così», risposi fredda.

«Ma poi è arrivato questo qui... Mi avevi detto che non c'era da preoccuparsi di lui».

«Questo l'avevi detto tu», lo corressi scattando sulla difensiva.

«Ma tu me l'avevi confermato! E poi hai iniziato a dirmi tantissime bugie, una dopo l'altra...». Poi si rivolse ad Adam. «Sai, se fossi in te starei attento. Mente mooolto spesso. E lo fa bene, così bene che nemmeno ce ne si accorge. O forse ero io troppo vincolato da non volerci credere...».

Sbuffai. E Adam non lo contraddisse. Lo fulminò con lo sguardo e basta.

Fu Jamie ad intervenire: «Hayley ti mentiva perché eri insopportabile, ecco perché».

«Ma a me importava troppo di lei! Mi ha ucciso! Ero io il suo Principe Azzurro e lei mi ha pugnalato! Hayley!».

«Che c'è, adesso?», risposi brusca.

«Hai fatto sesso con lui e non con me... Mi hai tradito, hai fatto la troia», disse serio e imbronciato. Era partito sul serio.

«Non era sesso», fu l'unica cosa che mi venne da dire.

«Ah, no? E cos'era? Petting spinto?».

«Jess. Jess, per favore. Sei sbronzo, non capisci. Domani nemmeno ti ricorderai di quello che stai dicendo».

«Non ti ho ancora perdonata, sai?», proseguì senza ascoltarmi. «Vuoi che ti perdoni, Hayley?».

Sbuffai e mi strinsi nelle spalle.

«Allora fai sesso anche con me!», propose senza ridere. «Perché io ti amo, lui no! Lui presto se ne andrà e resterò solo io ad amarti sul serio, Hayley».

Adam, in silenzio, sgattaiolò via dal mio fianco e uscì da lì. Lo guardai andarsene senza dire una parola. Mi stavo impegnando a non piangere, quindi non potevo spiccicare parola.

«Capisci, Hayley? Io ti amo sul serio».

All'improvviso sentii un rumore sordo. Jess si lamentò. Aveva uno zigomo tutto insanguinato.

Jamie si teneva la mano chiusa a pugno.

«Jamie!», esclamai.

«Non ho potuto farne a meno. Scusa, Hay, ma sta proprio delirando, e io sto sentendo parecchie cazzate negli ultimi tempi. Mi è scappato il pugno, scusa».

Sorrisi senza volerlo e diedi un fazzoletto a Jess, che si stava ancora lamentando.

«Va' a chiamare Chris e Travis, lo riportiamo a casa noi. Tu vai da Adam, okay?», propose Jamie.

«NO! No! Hayley, non andartene da me! Non di nuovo!», protestò Jess. Mi bloccai sulla soglia della porta.

«Vuoi un altro pugno, signorino?», minacciò il mio migliore amico. Poi si rivolse a me: «Forza, vai pure. Non dare ascolto a un ubriaco».

Poco convinta, annuii e scesi le scale.

Travis e Chris erano nei paraggi e mi stavano già cercando. Li mandai in camera mia senza troppe spiegazioni.

Io avevo altro da fare.

 

Lo chiamai sul cellulare almeno sette volte, e tutte le volte mi deviò la chiamata. Non aveva spento il cellulare, ma non mi rispondeva di proposito.

Sbuffai e mi guardai intorno.

Un dito mi picchiettò sulla spalla. Mi girai speranzosa.

«Stai cercando qualcuno?», mi chiese questo ragazzo. Era moro, gli occhi grandi e di un azzurro limpidissimo. Non lo avevo mai visto prima, ma non aveva un'aria nuova.

«Sì», risposi a disagio. Lo scrutai meglio. Capelli lunghetti, stile emo. Oddio. Sarebbe anche stato passabile se mi avesse permesso di guardarlo in faccia, sotto tutti quei capelli.

«E dalla tua espressione deduco di non essere io il fortunato, giusto?», disse ridendo. Aveva denti bianchissimi e un sorriso plastico. Ma non lo conoscevo proprio. Un clone di Zac Efron, ecco chi era.

«Già». Mi strinsi nelle spalle, senza sapere cosa dire.

«Magari posso aiutarti lo stesso», propose amichevole.

Oh, no. Che palle.

Questo ci stava provando alla grande. Ci mancava solo questa.

«Non so, hai visto un ragazzo...?». Mi ricordai all'improvviso che Adam era una star, uno famoso, uno che se lo vedi... Insomma, ci si ricordava di lui. Voglio dire, era famosissimo. «Ecco, hai per caso visto Hitch?», dissi infine.

«Il rapper, eh?», mi prese in giro. «Beh, no. Non l'ho visto qui». Sembrava mi stesse prendendo in giro. O che non mi credesse.

«Allora scusami tanto, ma è proprio lui che sto cercando. E se non lo hai visto, allora non puoi essermi utile». Mi stava infastidendo il suo sorrisetto strafottente.

«Forse la tua ricerca frutterà un gran poco, sai?», continuò prendendosi gioco di me.

«Senti un po', belloccio, perché non torni alla festa e mi lasci in pace?». Mi stavo innervosendo parecchio, finché una voce seria e profonda (troppo profonda) chiamò il mio nome alle mie spalle.

«Hayley».

Mi voltai di scatto. Grazie a Dio, Adam. ADAM!

Volevo sul serio vedere la faccia di mister Sì-Certo-Come-No-Un-Rapper-A-Casa-Tua, ma lasciai perdere. Gli corsi incontro.

«Adam, cosa diamine...?». Mi bloccai e tentai di tenere le distanze, almeno in pubblico. «Posso sapere perché mi hai deviato le chiamate?», chiesi a bassa voce.

«Hayley, Jess ha ragione. Vai da lui, io vado a casa». Mi diede subito le spalle.

«Cosa? Non ti azzardare!», lo ammonii alzando la voce. Chissene di tutti gli ascoltatori indiscreti.

Mi fissò come se si sentisse superiore. Come se non potessi capire perché troppo stupida.

«Avanti, Hayley, sii razionale».

«Ti va se ne parliamo in un luogo più consono?», proposi arrabbiata e con finta gentilezza. Ero così nervosa che decise di non contraddirmi.

Finimmo nascosti dietro un cespuglio, vicino alla porta sul retro. Lì non c'era nessuno.

«Okay. Cosa diamine ti dice quel fottuto cervello?», iniziai scorbutica.

Adam rise amareggiato. «Lui ti ha detto che ti ama, e lo ha fatto di fronte a me. Lo ha fatto prima di me, forse perché ci crede più di me. Lui ti ha detto “ti amo” e io me ne sono rimasto impalato. Me ne sono andato. Okay, va bene. Ha ragione lui. Io me ne andrò, lui resterà qui. Lui ti ama, io non posso. Devi andare da lui prima che sia troppo tardi. Con il Principe Azzurro che ti ritrovi, non andare a innamorarti del pirata, Hayley».

Lo fissai schifata. Chiusi gli occhi nauseata.

«Si fa presto a risolvere i problemi come fai tu, eh? Vero? Era così, no? Comunque, se è davvero questa la considerazione che hai di me, vattene pure. Se davvero mi rispetti così poco, se davvero credi così poco in me, allora sì che non vedo nessun motivo per cui dovresti trattenerti. Ma c'è solo una cosa che non capisco». Aspettai una sua reazione.

«E cioè?», si arrese infine.

«Spiegami perché fai il rapper e non l'attore, Adam. Perché me ne hai dette di cose... E tutte erano balle, allora. Sai, me le ero bevute. Tutte, dalla prima all'ultima. Tutte quelle cazzate sul “non posso starti lontano, sei la mia opportunità, noi non facciamo solo sesso e blablabla”. Vaffanculo, tientele per te la prossima volta, tutte queste cazzate esistenziali. Sei un montato come tutti gli altri, anzi più degli altri. Dici che ti basta un'occhiata per capire tutto della gente e poi sei il più meschino di tutti. Sei un bugiardo, Hitch. Anzi, sei un attore con i fiocchi. Tu e la tua carriera del cazzo, lo so io dove devi mettertela la tua carriera. Con queste manie di vittimismo, devi proprio fare l'attore. Ci sei portato».

Girai i tacchi e feci per andarmene. Una presa ferrea mi bloccò il braccio senza gesso.

Non mi ero accorta di avere le lacrime agli occhi.

«Dico solo che è meglio per te», disse piano.

«Questo lascialo decidere a me», risposi con la voce rotta.

«Ma non posso lasciare a te la scelta. Faresti quella sbagliata. Anzi, quella cattiva».

Sciolsi la sua presa e iniziai a dare libero sfogo alle lacrime.

«Potevi pensarci prima. Dannazione, proprio ieri pensavo di stare bene, credevo di aver trovato un appoggio stabile. Dio, quanto ti odio!». Lo colpii sul petto un paio di volte, dapprima piano, poi con più forza. «Sei uno stronzo, io ti odio! Ti odio! Ti odio!».

Fu abbastanza scaltro da trasformare i miei colpi in un abbraccio. E – diciamoci la verità – non avevo le forze necessarie a rifiutarlo.

«Sei andato in confusione per colpa di uno sbronzo. Sei più stupido e influenzabile di quanto credessi, stronzo!», continuai nella sua presa.

«Hayley», tentò di dire sconsolato. «Se già adesso è così... No, io non posso. Prenditi del tempo e ragionaci. Avanti».

All'improvviso sciolse l'abbraccio e fece due passi indietro. Lo fissai stravolta. Mi stava respingendo.

«Tempo? TEMPO?», ringhiai sentendomi montare una furia dentro. «E proprio tu mi vieni a parlare di RAGIONARE?».

«Sì», rispose così freddamente da farmi restare congelata.

«Stai solo perdendo tempo, Adam. Potresti – potremmo – goderci questi mesi».

«Tu potresti goderteli. E poi? Avanti, Hayley, e poi?». Adesso il suo tono era crudele. Sinceramente crudele.

«Fino ad allora ne possono succedere di cose». Nemmeno immaginavo quali e quante.

Sorrise beffardo e indietreggiò ancora. «No, non sono il tipo che si affida agli imprevisti. Mi spiace, Hayley, ma adesso faresti meglio a sistemare quello che puoi. Vai da Jess».

Per un attimo non credevo stesse dicendo sul serio, ma poi, guardandolo negli occhi, scorsi quella durezza tipica della verità amara. Mi fissava come se volesse sbranarmi, come se fossi io la cattiva.

Restai disarmata.

Con il passare dei secondi diventavo sempre più consapevole. Quindi era così che finiva. Non mi rimaneva che accontentarmi di essere stata una piccola cotta passeggera di un rapper famoso. Una delle tante. Una tra un milione.

Ma come? Pochi minuti prima eravamo d'accordo. Il giorno prima filava tutto liscio come l'olio. E adesso era come una mazzata in fronte. Quegli occhi verdastri mi fissavano e mi facevano male, perché più cercavo di trovarci dentro una menzogna, un piccolissimo barlume di speranza inutile, più capivo che mi sbagliavo. Di grosso.

Com'era? Stava tutto tornando al posto giusto?

Sì, sì. In quale universo?

Raccolsi le ultime forze, quelle che aveva avuto la pietà di lasciarmi.

«Spero che tu bruci all'inferno». Gli voltai le spalle e camminai lontano dal prossimo Oscar per la crudeltà.

 

 

 

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Capitolo 22
*** Buco nero ***


Arrivai come una furia a casa di Jess.

Non me ne fregava niente se il suo dopo-sbornia lo aveva messo al tappeto: era un lusso che dovevo prendermi solo io.

I suoi genitori non erano in casa e la domestica messicana mi portò in camera di Jess senza troppi complimenti. Forse mi aveva vista abbastanza decisa a non lasciar perdere.

Lo trovai sdraiato sul letto, con gli stessi vestiti del giorno precedente. A testa in giù, teneva la testa nel cuscino. Mi venne voglia di soffocarlo.

«Maya, no. Che vuoi ora?».

«Le facciamo due parole su ieri sera, oppure stai ancora delirando? Perché immagino tu sappia che la tua cazzo di sbronza mi è costata cara!». Sbattei la porta e Jess sobbalzò. Mi guardò come se venissi da Marte.

«Hayley», biascicò. Poi gli venne la brillante idea di fare la vittima. «Cosa vuoi?», proseguì incazzato.

«Io cosa voglio? Tu cosa vuoi da me! Porca miseria, ho sbagliato e lo so, ma che bisogno c'era? Ho già pagato abbastanza, perché dovevi...». Mi mancò la voce e iniziai a piangere come una mocciosa isterica, stringendo i denti e torturandomi le mani. Lo lasciai senza parole, quasi spaventato dalla mia reazione.

«Non ho capito niente, Hayley, ma adesso – ti prego – calmati. Rilassati e spiegami. Cercherò di starti dietro, mal di testa permettendo», propose preoccupato. Lo spinsi via con il braccio sano e gli diedi uno schiaffo.

«Nemmeno ti ricordi cosa hai fatto ieri sera! Cazzo, Jess! Hai rovinato tutto! Ho capito che mi volevi vedere morta per ripicca, ma non credevo fossi così stronzo da farlo sul serio! Una cosa è dirlo, un'altra è vederlo! E un'altra ancora è provarlo sulla propria pelle!».

Con la guancia indolenzita, mi guardò straniato. «Cosa ho fatto?», mi chiese quasi timoroso.

Singhiozzai più forte e alzai gli occhi al cielo. Sembravo una pazza.

«Hayley, Hayley! No, dai, spiegami», mi incitò.

«COSA? Cosa ti spiego? Ti spiego di come hai fatto un'improvvisata in casa mia ubriaco perso? O di come mi hai detto “ti amo” e “fai sesso anche con me” di fronte ad Adam? O di come ti sei preso un pugno da Jamie? O di come hai fatto sì che Adam mi lasciasse?!». Sull'ultima frase non ce la feci più, la voce mi si ruppe facendomi gridare. Sembrava un grido di dolore più che di rabbia. Mi faceva male lo stomaco, avevo questa nausea perenne che dalla sera precedente mi aveva fatta vomitare almeno dodici volte. Un buco nero aperto esattamente nel petto.

«Dio mio, Jess, hai rovinato tutto, e avevi il diritto di farlo. Ma, Dio mio, ti sto odiando così tanto...». Adesso mi faceva male anche la testa. Lasciai che Jess mi si avvicinasse e tentasse di tenermi per le spalle.

«Stai bene?», mi chiese concentrato. Lui era nella fase post sbronza, ma ero io a dare i numeri.

«NO!», gridai facendolo sobbalzare.

«Ti prego, Hayley, so che sei incazzata, ma non gridarmi in faccia così... Ho ancora... una bolla gigante in testa che mi rende tutto ovattato e... strano», mi pregò mettendosi una mano in faccia. Con l'altra imitava il cerchio alla testa.

Scrollai le spalle e mi levai le sue mani di dosso.

«Hai ottenuto quello che volevi, bravo. Adam mi ha piantata in asso, sei felice? Sei felice? Vuoi che torni da te, adesso? Era questo il tuo piano?».

Mi scrutò con attenzione e senza espressione per un po'.

«Hayley, posso chiederti perché sei venuta qui da me? Volevi chiedermi se distruggerti la vita fosse il mio piano originale?».

Smisi di piangere per un attimo e ci pensai su. Rimasi senza risposta, alla fine.

«Perché, Hayley, in tutta onestà: credi che sia io il ragazzo che ti ha ridotta in queste condizioni? Voglio dire, guardati. Sei pallida e hai la faccia sconvolta, il tuo trucco è un cesso, sei spettinata e piangi di fronte a me. Mi sembri una sopravvissuta da un incidente aereo. E, okay che sono ancora un pochino fuso da ieri sera, ma tra me e te, quella che è sicuramente messa peggio... sei tu. E non ti sei ubriacata con superalcolici, direi. Quindi, Hayley, adesso rispondimi: sei venuta qui a rinfacciarmi le colpe di qualcun altro? Io ho le mie colpe, ma non ti ho mai ridotta in questo stato. Il che mi fa rodere, okay, perché questa è la prova madre che non te ne fregava molto di me, mentre per quello là ti strappi faccia e capelli. Sei impazzita. E non sei sbronza. Correggimi se sbaglio, ma non è colpa mia se ieri la tua vita era quasi perfetta e oggi è un cesso».

Trattenni il respiro fino a che non ebbi la certezza che non sarei scoppiata di nuovo a piangere. Poi, quando mi resi conto che avevo appena sentito la sacrosanta verità fuoriuscire dalla bocca del mio ex (che la sera prima si era ubriacato, mi aveva confessato di amarmi e mi aveva messa in circostanze spigolose), feci un sospiro.

«Una cosa sola, Jess», feci stanca. Avevo lo stomaco che era una merda, giuro.

«Sì, Hayley. Io ci credo davvero a quello che ho detto».

La nausea mi travolse, ma riuscii a tenerla a freno fino a che non tornai a casa.

 

«Hey!». Aveva il tono autoritario che tanto mancava in casa mia.

«Lasciami in pace».

«No, Hayley, che succede?». Vaffanculo.

«Porca puttana, cosa non ti è chiaro del concetto “lasciami in pace”, Bryan?», gli urlai contro isterica mentre andavo in bagno. Gli occhi mi si erano gonfiati e arrossati di nuovo.

Sbattei la porta e la chiusi a chiave. Quasi immediatamente mi accasciai per vomitare. Di nuovo.

«Hayley! HAYLEY!», gridò con voce fin troppo potente. «Aprimi subito». Non l'avevo mai sentito così minaccioso.

Non risposi. Non potevo.

«HAYLEY!», urlò ancora. E poi la porta venne giù con un tonfo.

L'aveva sfondata. Con un colpo solo.

Venne subito a tenermi la fronte. «Ma posso sapere cosa diamine è successo a mia sorella? Quella che conosco io?», mi chiese un po' più addolcito. Era comunque arrabbiato.

Sputai per l'ultima volta e mi lasciai cadere all'indietro. Ero in condizioni disastrose.

«Hayley! E basta, adesso!».

Non lo guardai neppure.

Solo quando mi diede una sberla sgranai gli occhi.

«Vuoi fare la bimbetta isterica ancora per molto? Adesso ti dai una ripulita, e quando torno prega di essere in condizioni presentabili, perché non accetterò un'altra sceneggiata simile, hai capito?», mi sgridò severo.

Annuii poco convinta e lo vidi chiudere la porta alla meno peggio.

Raccolsi un po' di forze e feci come mi aveva detto. L'unico uomo che non mi avrebbe mai ferita in vita sua mi aveva chiesto di rimettermi in sesto. Meglio dargli retta.

Peccato che l'unica cosa che mi tenesse la mente occupata fosse un pensiero fisso, del quale non sapevo nemmeno la destinazione.

“Resta, ti prego. Ti prego, ti prego. Resta. Anche poco sarà abbastanza, ma – ti supplico – resta con me. Non lasciarmi sola”.

Stavo affogando nelle mie stesse lacrime.

Bryan, ti prego, resta con me. Non lasciarmi sola.

Adam, ti prego, resta con me. Non lasciarmi sola.

Non lasciatemi sola.

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Capitolo 23
*** Fratelli ***


Forse avrebbe piovuto. Vedevo delle nuvole dalla finestra della cucina, seduta al tavolo.

Volevo liberarmi di quel dannato gesso. Non solo era un ingombro, ma adesso quelle sette lettere stampate a caratteri cubitali mi davano la nausea.

Balle. Tutte balle, schifosissime e verissime balle.

La porta di ingresso si aprì. Bryan apparve con una faccia un po' infastidita.

«Allora?», mi chiese con un cenno della testa.

Mi distesi sulla sedia e feci una smorfia come per dire “tutto okay, perché me lo chiedi?”. Ma avevo gli occhi piccoli per i pianti di qualche minuto prima. E di fatto non parlavo.

«Stavo per fare una stronzata, sai», mi disse sedendosi di fronte a me.

Scrollai le spalle a mo' di incitamento.

«Sono andato a casa sua, ma per fortuna non c'era. E sai perché era una stronzata? Perché non è un problema mio, Hayley. E poi non avrei risolto niente».

Mi sentivo in coma.

Annuii a malapena.

«Cosa pensi?», chiese infine. Feci un bel sospiro, assicurandomi che la voce non mi sarebbe venuta meno.

«Penso a quanto tempo ci impiegherai a far sparire anche questo problema che non è tuo», risposi controvoglia.

Sorrise malinconico. «Hayley, e se io fossi stato via?». Avvicinò la sedia al tavolo per guardarmi meglio. «Okay, adesso hai sedici anni, e sebbene il mio impulso di salvarti da questa situazione sia praticamente irrefrenabile, mi vedo costretto a dirti di risolvere il tuo problema senza il mio aiuto. Insomma, non sarò sempre qui a intervenire sul mio cavallo bianco. Tu credi che sia io a risolverti i problemi, ma non è così. Io consolo e do appoggio, non risolvo un bel niente. Adesso voglio proprio vedere come te ne uscirai, signorina. Dimostrami che sei mia sorella, Hayley. Sai cos'hai e sai cosa puoi affrontare. E questo, lo sappiamo bene entrambi, non è niente. Non voglio vederti buttata giù, al tappeto, per questo. È la fine del mondo nella tua testa, ma fidati: basta prenderci le distanze e reagire. Fammi vedere quanto sai essere reattiva, okay? È un favore che ti chiedo io».

Deglutii e lo guardai negli occhi. Erano uguali ai miei.

Volevo davvero deludere me stessa? Deludere Bryan?

Insomma, non garantivo niente.

«Devo proprio crescere adesso?», piagnucolai inespressiva. Bryan sorrise di più e si alzò per darmi un bacio in fronte.

«Vedrai che non è poi così male, piccola microba». Mi strinse per le spalle per darmi un briciolo di conforto. Forse quell'input sarebbe bastato. O forse no.

 

Non sapevo esattamente come dimostrare di essere reattiva, ma di certo starmene a casa in camera mia non avrebbe dato la giusta impressione.

Così, uscii. Presi gli occhiali da sole (per camuffare le occhiaie che non avevo avuto voglia di correggere) e dissi a Bryan un semplicissimo “io esco, ciao”. Non aspettai nemmeno una sua reazione.

Mi imposi di non guardare dall'altra parte del marciapiede. Restai impalata dietro il mio cancelletto per un po', lo sguardo basso e i capelli davanti alla faccia.

Dove diamine sarei andata?

In un posto che non aveva nulla a che fare con me, ecco dove.

Sgambettai con l'I-Pod nelle orecchie e i Paramore a tutto volume fino a raggiungere il set del film dove Jenna stava lavorando come make up artist.

Non fu facile dimostrare che ero davvero la figlia di Jenna e non una ragazzina scatenata fan impazzita di un certo Derek Non So Cosa.

Riuscii a raggiungere mia madre. Era incredibile che fosse davvero la stessa donna che conoscevo io.

Era seria, professionale, concentrata al massimo. Stava truccando una ragazza splendida, con i capelli nerissimi, corti e sparati in aria. Gli occhi di questa ragazza erano l'incarnazione del buio, erano pece vera e propria. E glieli invidiai tantissimo.

Solo quando si alzò mi ricordai di conoscerla – di vista, ovvio. Era un'attrice che avevo già visto in un film horror qualche mese addietro. Ero andata al cinema con i gemelli e (sì, anche lui) Jess. Era stata brava con le sue grida da fanciulla spaventata.

C'era da ammettere che non ne ricordavo il nome, ma dobbiamo anche riconoscere che quando alcune foto (che mi ritraevano con il Nobel per l'ipocrisia) erano spuntate su Internet, io ne ero rimasta allo scuro fino alla grazia divina di Dana & Co. Quindi.

La ragazza si alzò dalla sua sedia. E mi passò la voglia di ricordarmi il suo nome. Una piccola clone, una come tutte le altre: “Sono bella e famosa, io sono tutto, tu niente”. Ecco la tipica star hollywoodiana. Maltrattò un paio di persone e sparì.

Sospirai e mi avvicinai a Jenna.

«Tesoro, ciao!», mi salutò entusiasta. «Che ci fai qui?».

«Ero nei dintorni», mentii. E se ne accorse.

«Vuoi parlare della festa di ieri?», fece apprensiva. Era successo solo ieri? «Mi hanno detto che hai avuto qualche divergenza di qua e di là».

Mi schiarii la gola. «Jenna, non ero nei dintorni. Non voglio pensare a ieri sera, né a stamattina, né alla prossima settimana o al prossimo anno. Devo fare qualcosa. Puoi aiutarmi?».

Mi guardò pensierosa, poi annuì decisa. «Tu puoi aiutare me. Prendi tutto il materiale che vedi lì su quel tavolo e vai a prepararmi quel ragazzo. Arrivo subito. Okay, tesoro?».

Sospirai per il sollievo e senza pensarci troppo mi tolsi gli occhiali per fare come mi aveva detto.

Non appena vidi chi era “quel ragazzo” me li rimisi immediatamente.

Mossa inutile.

«Tu sei quella di ieri», iniziò vedendomi arrivare, «quella che cercava Hitch».

Contai fino a millecinquecentosettantacinque.

«E tu quello a cui avrei tanto voluto dire “te l'avevo detto io”. Ciao». Sorrise e si mise comodo sulla sedia. Pensavo che il mio tono non fosse stato così accomodante. Comunque.

«Allora? L'hai trovato, eh?».

Contai fino a settecentomilioniduecentoquarantamilatrecentoventinove.

«No», sbottai. Il suo sorriso smagliante si trasformò in un “ah, ho capito, scusa”.

«È così stronzo come sembra dai suoi video?», scherzò. Mamma, che fatica. Essere reattivi era davvero sfiancante.

Scrollai le spalle. «Allora, sei un attore», ricominciai. «Ecco perché non mi risultavi una faccia nuova».

«Sì, già», fece divertito da chissà cosa. «Anche tu non sei una faccia nuova, rossa sconosciuta». Ammiccò.

Di nuovo? Di nuovo, no, eh. Proprio no.

«Magari su PerezHilton.com. Ci sono finita una volta». Mi sedetti accanto a lui.

«Sei una cantante emergente?». Risi di gusto.

«Oh, no, no. Direi proprio di no», dissi tra le risate.

«E allora cosa ci fai qui? Un'attrice? Una stylist? Una controfigura?». Era in difficoltà.

«Nah», mi limitai a rispondere. Quando lo vidi intento a fissarmi un po' troppo intensamente, aggiunsi: «Sono solo la figlia della make up artist, tutto qua».

«E che ci facevi allora su PerezHilton.com?». Mentre poneva la domanda si stava già dando la risposta. Infatti, si corresse subito dopo con un “ah, ho capito, scusa”. Solo che stavolta lo disse ad alta voce.

«Posso chiederti comunque il tuo nome?», fece galante.

Guardando da un'altra parte risposi: «Hayley. E tu?».

Rise come se gli avessi raccontato la barzelletta più spassosa della galassia. Quando capì che stavo dicendo sul serio, che davvero io non sapevo chi fosse con esattezza, sembrò scendere dalle nuvole.

«Oh. Sei seria», constatò. «Scusami», proseguì, «è solo che era da un po' che qualcuno non mi chiedeva il nome. Io sono Derek».

Stavolta fui io a fare la faccia eloquente. «Aaaah». Mi tolsi gli occhiali, così magari avrebbe desistito dal provarci con me. «Insomma, roba grossa», proseguii.

Di nuovo. Sembrava che ragazzi non famosi non fossero più disponibili per Hayley.

«Già», ammise. Mi scrutò a fondo. «Roba grossa anche io».

Mi sentii in imbarazzo totale. Sapevo con certezza che ero arrossita. «In che senso?».

«Sì, insomma... In un posto come Beverly Hills, è normale che una bella ragazza come te venga presa di mira da giovani rapper e da giovani attori. Non è giusto, però, che venga presa di mira solo per divertimenti passeggeri». Ammiccò di nuovo.

Okay. Mi stavo davvero scaldando. Questo credeva di aver capito tutto, ma non aveva capito una sola virgola.

«No, guarda, ne sai troppo poco per permetterti di sparare a zero su di me o su di lui», risposi tagliente. Subito si mise sulla difensiva.

«Dico solo che non mi sembra giusto. Insomma, guardati. Così bella, eppure così triste. Non è giusto». Attore di merda.

Sbuffai e mi alzai. Quel tizio mi stava facendo salire il sangue al cervello.

«Ma sentilo. Beh. Caro Derek, vorrei dirti che è stato un piacere conoscere un attore della tua portata, ma non è affatto così. Perciò adesso me ne andrò, farò finta di non averti mai rivolto la parola e mi sentirò meglio senza dubbio».

«Paura di un altro divertimento passeggero?», mi prese in giro divertito. «Andiamo, dai, dammi il tuo numero, così quando posso ti faccio uno squillo». Quando posso.

Risi sarcastica. «Facciamo così: perché non ti sposti dall'orbita che il tuo ego ha tracciato nel raggio di venti miglia, scendi dal piedistallo e te ne vai a fanculo?!», sibilai furiosa. Inforcai gli occhiali e non stetti abbastanza a lungo da vedere la sua faccia da “ma io sono famoso, ottengo sempre quello che voglio”. Me ne andai.

Almeno, ci provai.

Mi fermò da una spalla. «E dai, su», sorrise finto, «non fare la preziosa. Quando ti ricapita un'occasione come questa?».

«Sei proprio il peggio del peggio». Scrollai via la sua mano dalla mia spalla. «E, se proprio vuoi saperlo, è già la seconda “occasione” che mi capita. E mi fa ribrezzo molto più della prima». Smontai del tutto il suo sorriso quando conclusi con un: «Ricordati di questo giorno, perché è il giorno in cui una comune mortale ha dato un bel calcio nel culo al tuo ego da due soldi».

Uscita scenica.

Cala il sipario.

Saluta la faccia confusa di Jenna.

Applausi nella mia mente.

Ma adesso meglio tornare a casa.

Non sono poi così reattiva come pensavo.

 

Quando aprii la porta trovai Bryan in compagnia di Jamie e Travis. Giocavano a Guitar Hero e Bryan stava massacrando tutti.

«Ciao a tutti», salutai chiudendo la porta.

«Già di ritorno?», fece Bryan senza staccare gli occhi dal televisore. Percepivo una nota di rammarico nella sua voce camuffata da “impegno nel gioco”.

«Seh. Da Jenna era una palla colossale. Sono andata via subito, o i miei nervi avrebbero ceduto».

«Tu non dovevi proprio nascere a Beverly Hills», disse Travis, e Jamie concordò con una risata.

«Suppongo di no». Mi avvicinai al frigorifero e presi quattro birre. «Volete?».

Nessuno alzò gli occhi verso di me. «VOLETE?!», urlai come una mamma arrabbiata.

Jamie fece un salto dal divano e mi fissò stravolto, Travis lanciò un'imprecazione e Bryan mi sorrise plastico.

«Cara sorellina, l'impianto acustico vorrei metterlo verso la vecchiaia, non ora. Sono ancora giovane».

Feci spallucce. «Ho detto: volete?». Sbatacchiai le lattine di fronte a loro.

Annuirono e smisero di giocare. Si lanciarono un'occhiata che non identificai.

«Senti un po', Hay...», cominciò Jamie.

«Oh-oh», gemetti.

«Ci chiedevamo – anzi, mi chiedevo – tu ci vieni al ballo d'Autunno?».

Mi uscì un verso gutturale che doveva significare un “ma scherzi?”. Jamie capì.

«Facciamo così, mettiamola sullo sportivo – più o meno».

«Oh-oh. Cosa avete architettato?».

«Senti qua: partita a Guitar Hero. Se vinci tu, fai quello che vuoi. Vince uno di noi, e tu vieni al ballo».

«Ma non esiste proprio!», scattai.

Travis sorrise. «Pagare, prego», disse rivolto a Bryan.

«Aspetta, aspetta. Conosco mia sorella, non è detta l'ultima parola», rispose lui.

Eh? Non capivo niente.

«Jamie, io al ballo non ci vengo proprio. È una delle cose che farei solo se l'alternativa fosse buttarsi sotto un treno in corsa. E non ne sono del tutto certa al cento per cento».

«Okay», mi rispose pacato Jamie. «Allora facciamo che la partita a Guitar Hero che dovrebbe decidere la tua sorte sarà solo contro di me. Io sarò il tuo avversario, nessun altro. Hayley contro Jamie. Andata?».

Alzai le sopracciglia. Stava scherzando?! Lui era una schiappa colossale a Guitar Hero. Travis era il campione, ma Bryan era ancora meglio.

Scossi la testa dopo un attimo di silenzio.

«Nah. Io non ci vengo al ballo».

«E dai!», scattò Jamie. Travis tirò un sospiro di sollievo verso mio fratello, che – rassegnato – gli allungò una banconota da venti dollari in mano. Avevano scommesso su di me?

«Sei una cagasotto. Hai paura di perdere contro di me?», fece Jamie provocandomi.

«Ovvio che no. Tu sei una schiappa. È solo una cosa senza senso», dissi facendo spallucce.

«No: è una sfida che tu non hai accettato. Una sfida facile che hai snobbato, facendo la figura di quella che si tira indietro», precisò Bryan. Evidenziò le parole giuste per farmi sentire punta nell'orgoglio.

«Io non mi tiro indietro!», piagnucolai come una mocciosa.

«Allora accetta la sfida. Se vinci, niente ballo. Se perdi, ci vieni. Eccome». Jamie mi fece l'occhiolino.

«Jamie, andiamo... Non ho nemmeno l'accompagnatore», trovai una scusa all'ultimo secondo.

Accentuò il suo sorriso tremendo. «Invece sì. Vienici con me, Hay. Dai, sarà uno spasso!».

Scoppiai a ridere per la faccia di Jamie. Incorreggibile.

Sbuffai un pochino, ma in realtà sapevo di aver già accettato la sfida da un pezzo. Da quando Bryan aveva dato venti dollari a Travis per aver scommesso sulla mia “combattività”.

Fissai Travis. «Molla i venti verdoni a Bryan, uomo di poca fede».

 

Pazzesco. Irreale. STUPIDO.

Avevo perso. Perso all'ultimo minuto.

No.

Ma no! Porca miseria, no!

Avevano architettato tutti i modi possibili per distrarmi e... dannazione, avevo perso!

Jamie se la rideva mentre salivamo in camera mia. Bryan era rimasto al piano di sotto, a organizzare partenze per chissà dove.

Mi lanciai sul letto, ancora lamentandomi della cospirazione contro di me.

Però una cosa straordinaria era successa: per quel poco tempo non avevo più pensato ad Adam. Grazie a Bryan, Travis e soprattutto Jamie.

Era più che un amico, più che un migliore amico. Un fratello vero e proprio.

Mi cadde lo sguardo sulla scrivania. Una bottiglia di – come si chiamava? Ah, sì: patis – mi stava fissando minacciosa. Tenerla in camera non era una buona idea.

«Mi servirebbe un favore», dissi senza guardare nessuno dei due fratelli. Mi diressi alla scrivania e presi un foglietto bianco. Iniziai a scriverci sopra. Lo attaccai alla bottiglia e porsi il tutto al primo che allungò la mano: Jamie.

«Di' pure».

«Gliela portereste?». Sapevano a chi. «Non la voglio in camera. Era per lui, non deve restare qui». Sarebbe stato meglio tagliare tutti i contatti, darci un bel taglio netto.

«Certo che sì», rispose Travis, mentre Jamie mi fissava pensieroso.

«Ne sei sicura?», mi chiese apprensivo.

Feci un bel sospiro. «Sì».

«Allora va bene». Prese la bottiglia e non tentò nemmeno per sbaglio di leggere il bigliettino. «Però a una condizione», fece all'ultimo secondo, quando già era sulla soglia insieme al fratello.

«E cioè?», risposi sorpresa.

Si aprì in un sorrisone meraviglioso. «Quando torno, devi aver già scelto cosa metterai al ballo. Voglio accompagnare una vera Principessa, io».

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Capitolo 24
*** Boom - tutto sbagliato ***


[Piccola nota pre-capitolo conclusivo: questo è l'ultimo capitolo di "riot! riot! riot!". Per chi non lo sapesse, specifico che esiste un libro cartaceo di questa storia e che il seguito, "hitches", è anch'esso stato pubblicato in formato cartaceo. Esistono una pagina Facebook e un profilo Twitter dedicati alla "Riot! Saga". Pertanto, non pubblicherò nell'immediato subito tutti i capitoli del secondo libro, ma in futuro lo farò senz'altro. Buona conclusione!]



Domenica tolsi il gesso, finalmente. Dopo tre lunghissime ed estenuanti settimane, tolsi quel blocco bianco sporco.

Ma conservai un pezzo di quel gesso. Una cosa stupida, lo so, ma non volevo buttarlo via.

Erano passati pochi giorni dal fattaccio e le cose non sembravano andare meglio.

Adam mi evitava. Davvero.

Dove c'ero io, non c'era lui; e dove c'era lui, c'era atmosfera da “non voglio Hayley nei dintorni”.

Jamie non aveva ancora avuto modo di consegnargli la bottiglia: evitava anche lui. Evitava tutti, tranne le persone più insulse.

Come Dana, per dirne una.

Quella piovra era appiccicata a lui come una ventosa tutto il tempo. E anche Bree non era da meno. Sapevo bene come stessero le cose (e cioè che non le evitava perché così sarebbe riuscito meglio ad evitare me), ma non mi andava a genio che facessi la figura della demente. Dana stava gongolando troppo alle mie spalle, la cosa mi infastidiva parecchio.

Lara continuava a ripetermi che la poveretta era lei, visto che non capiva la situazione effettiva, ma io proprio stavo impazzendo.

Lunedì arrivai a scuola senza gesso, grazie al cielo. Le sette letterine tanto carine e speciali mi stavano distruggendo la sanità mentale. Era un bene non avercele più sotto al naso.

All'ora di pranzo mi diressi all'aperto, fuori dalla mensa. Non avevo fame.

Fissai il cielo un pochino nuvoloso, ma comunque luminoso. Che giorno era? Sedici ottobre, lunedì. L'indomani sarebbe stato martedì diciassette, che bello. Ma non era quello a preoccuparmi: venerdì venti sarei dovuta andare al ballo con Jamie, sotto gli occhi e i giudizi di tutti. Non ne avevo proprio voglia. Chissà, forse avrei potuto ricontrattare con Jamie, cercare una rivincita che mettesse tutto in gioco per una seconda volta.

Vidi un'ombra proiettata alle mie spalle che si estendeva oltre la mia. Passeggiò fino ad arrivarmi di fronte.

«Piccola Hayley, ciao. Come stai?». Jim stava fumando una sigaretta e mi squadrava come se avesse l'acquolina in bocca.

«Prima stavo meglio», sbottai acida. Non ero in vena.

«Intendi prima che Morrissey facesse il cattivone con te?». Rise crudele.

«No, intendo prima che la tua viscida presenza mi rovinasse la giornata». E giù con un'occhiataccia.

Si sedette vicino a me, così io mi allontanai un po'.

«Hayley, dimmi un po': con chi ci vai al ballo?». Ah, ecco il punto.

Sbuffai e mi alzai, scocciata e incazzata. Mi bloccò per il braccio.

«Niente gesso? Che bello. Sei bellissima. Però adesso siediti qui o te lo faccio rimettere, il gesso». Aveva un tono micidiale. Non ammetteva repliche.

Feci come mi aveva detto e lui mi lasciò il braccio accennando un sorriso soddisfatto.

«Con chi ci vai?», ripeté come se nulla fosse.

«Non so nemmeno se ci vado», bofonchiai fissando i ragazzi che passavano di fronte a noi. Erano troppo lontani per vederci.

«Ma sì che ci vai. Ti dirò di più: ci vieni con me, dai». Mi alzai di nuovo.

«Senti, Jim, non so cosa tu abbia nel cervello, ma se non fosse abbastanza evidente, io non voglio avere nulla – e ripeto nulla – a che fare con te. Devo spiegartelo meglio? Vuoi un disegnino? Con tutte le ragazze che puoi e vuoi avere, perché non mi lasci in pace? Perdi tempo tu, e lo fai perdere anche a me. Lascia perdere, Cristo Santo», dissi furiosa. Avevo parlato a macchinetta e non mi ero accorta che anche lui si era alzato per avvicinarsi a me, spingendomi contro il muro. Non rideva affatto.

«Mi stai facendo incazzare, Smithson», tuonò con una mano sul muro e con l'altra sulla mia spalla, «perché ancora non hai capito che con me non c'è scelta. Non sarà certo una testarda come te a mettermi in difficoltà. Sei una bella ragazza, forse un po' troppo contro corrente, ma adesso l'ho presa a cuore: ti dimostrerò che quando mi metto in testa una cosa, la ottengo sempre. Senza eccezioni. E, credimi, se ti dico che ti avrò, allora fidati che...».

Jim sparì dalla mia vista. Lo ritrovai a terra, accasciato ai miei piedi, senza preavviso.

Di fronte a me, Adam si teneva il pugno, stiracchiandosi le dita.

«Duro di comprendonio», sputò Adam. Si piegò e prese Jim dal collo, alzandolo da terra. Sotto la maglietta un po' larga che indossava, intravedevo i movimenti furiosi delle sue spalle. Ma non parlò con Jim, perché mi incenerì con gli occhi.

«E adesso vattene. Sparisci, presto». Aprii bocca per controbattere, ma lui fu più veloce. «Dio Santo, Hayley, quante volte dovrò ancora ripetertelo?! Vattene e lascia perdere».

Sentii un nodo in gola crescere in modo spaventoso. Così, traballando, feci un paio di passi indietro, guardandolo atterrita. Urlò di nuovo un “vattene, idiota” che mi fece scappare via a gambe levate, perché suonava fin troppo maligno. Finii in bagno a piangermi addosso, con le ginocchia al petto e i jeans bagnati di lacrime salatissime e amarissime.

 

«Dio mio, Hayley, stai d'incanto!», esclamò Lara entrando in camera mia. Mi stavo vestendo per andare a bruciare all'inferno. O al ballo, dite come volete. Sorrisi a malapena.

«Ti piace?», chiesi esitante. Feci un mezzo giro per mostrarle il mio vestito celeste a tubino, con bretelle sottilissime e cuciture nere. Stavo giusto finendo di cercare i giusti accessori.

«Se mi piace? Lo adoro!», urlò entusiasta. Guardai il suo vestito. Era nero e amaranto, molto sofisticato per i suoi standard. Era di velluto e le arrivava appena sopra il ginocchio, con la svasatura graziosissima. Stava proprio bene, aveva azzeccato sia trucco che accessori. Era una Lara diversa, quella che avevo davanti.

«Certo che anche tu non scherzi, sei una meraviglia», constatai. «E sono riduttiva».

Fu il suo turno di fare un mezzo giro, tutta sorridente. «Ti piace?». Il dietro era anche meglio del davanti.

«Come mai tutta questa perfezione in una sera sola? Chi devi intrappolare nelle tue grinfie?».

Arrossì. E io la guardai meglio.

Cosa?

Lara non arrossiva mai. Lara gongolava sempre quando si parlava di ragazzi. Lara parlava di ragazzi come merce da scambiare, non come cose imbarazzanti. Lara non arrossiva mai.

«COSA?!», gridai saltando sul letto a piedi nudi e precipitandomi verso di lei. «Dimmi tutto!». Sorrise imbarazzata. Le lanciai un cuscino.

«Ma non c'è niente da dire...», fece vaga afferrando il cuscino.

«Come no! Spara tutto. Avanti, chi è?».

«Hayley, smettila e finisci di prepararti, dai». Era rossa in modo inverosimile.

«Solo se prima mi dai le risposte che cerco». In quel momento suonò il campanello. E Lara diventò paonazza.

Mi ci volle un secondo. Uno solo. Giuro, uno solo. Perché, in effetti, se uno ci pensa bene, ci sono cose che due migliori amiche non possono proprio nascondersi. Pur volendo, è impossibile.

«Oddio, Lara, è Travis!», gridai a bassa voce, entusiasta e strabiliata. Fosse stato Jamie, me l'avrebbe detto prima lui di lei.

«HAYLEY!», mi sgridò zittendomi. Dovevo andare ad aprire.

«Torno subito», minacciai, «ma non credere di scapparmi così facilmente». A piedi nudi scesi le scale ed andai ad aprire, pronta solo per metà.

«Ragazzi», salutai guardando in modo particolare Travis, che fece una faccia strana ed entrò insieme a Jamie. «Tra cinque minuti sono pronta. Lara è al piano di sopra». Fissai intenzionalmente Travis quando pronunciai il nome di Lara e notai – con gioia incontenibile – che spalancò gli occhi in modo strano. Come avevo fatto a non accorgermene? Era così evidente e... carino! Era una cosa stupenda! E io non me ne ero nemmeno accorta...

Ah, già, avevo avuto un cuore distrutto a cui rimediare. Comunque.

«Allora aspettiamo qui», disse Jamie sorridendomi. Dalla faccia che aveva intuii che lui non sapeva niente delle tresche del fratello gemello. Annuii in fretta e salii le scale di corsa.

«Dicevamo», mi rivolsi a Lara maliziosa. Alzò gli occhi al cielo e sbuffò, ma non era tipa da segretezza assoluta. Avrebbe ceduto presto. Chiusi la porta e le andai addosso.

«Non dicevamo un bel niente!».

Le diedi una gomitata. «E dai, su. Sai bene anche tu che hai una voglia pazza di dirmi tutti i particolari. Sono tua amica, ammettilo: hai sognato di fare una bella chiacchierata su di lui con me, come nei film...». La guardai di sbieco. Stava retrocedendo sulla sua decisione.

«Daaai, su!». Feci gli occhioni. «Siete entrambi amici miei. E poi, so mantenere un segreto come questo, lo sai bene». Mi guardò intimorita, ma si stava fidando di me – come sempre. «Non sono una di quelle che parlano a vanvera. E poi, a chi chiederai consigli se non dici niente nemmeno a me?».

Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «E va bene!», si arrese.

«Sì, sì, sì!», esultai saltellando. «Allora... prima domanda: da quanto va avanti questa cosa?».

«Pochissimo. Nemmeno due settimane».

«Ah-ah». Annuii come una finta esperta. «E c'è reciprocità?».

Rise di gusto. «Altroché!».

Saltellai di nuovo. «Evvai! E, dimmi un po', cara... Avete già...?». Lasciai la frase a metà. Certo che sì.

Arrossì. E scosse la testa.

Lasciai cadere la mascella, restando inebetita per un paio di millenni.

«Non avete fatto sesso?!», urlai senza rendermene conto. Mi lanciò un cuscino con così tanta forza da farmi perdere il respiro.

«Cretina, non gridare! I gemelli sono al piano di sotto che ci aspettano, perciò faresti meglio a chiudere la tua fogna, rana dalla bocca larga, e a vestirti!», mi sgridò.

Chiusi la bocca e la guardai, impalata. Stavolta sussurrai, ma con lo stesso tono:

«Non avete fatto sesso?!».

Scandalizzata, mi rispose: «Okay, sarò anche una un po' facile, ma a volte capita anche a me di tenere le gambe chiuse». Si era offesa un po'.

«Significa che ci tieni sul serio, non è così? Se no, non avresti paura del suo giudizio». Non mi accorsi che quelle parole valevano anche per me.

«Ah beh, Bella Addormentata, allora lo sai anche tu. Buon giorno anche a te», mi canzonò. Mi trovai a rifletterci un attimo. Non mi andava affatto.

«Comunque sia, Lara, perché non me l'hai detto prima? Non mi hai raccontato un bel niente, mi sento offesa».

Inarcò le sopracciglia. «E cosa dovevo dirti? “Mi dispiace disturbarti nel bel mezzo della tua crisi da abbandono multiplo, Hayley, ma volevo solo informarti che io e Travis ci stiamo avvicinando”? Andiamo. Sii onesta. Non era il caso di fare le mocciose eccitate, no?». Contorsi le labbra, in silenzio. Poi incontrai gli occhi senza fondo di Lara.

«Già», ammisi a testa bassa. «Adesso mi preparo e scendiamo. Non voglio farti aspettare troppo».

Sorrise e mi abbracciò una spalla. «Grazie. Solo una cosa, però: fingi di non sapere niente, okay? Stasera voglio fare tutto, tranne che dare nell'occhio».

Mi strinsi nelle spalle. «E io voglio fare tutto, tranne che andare al ballo per rovinarmi l'esistenza».

Certo, non potevo sapere che quella verità mi fosse uscita di bocca nel momento più azzeccato. Quasi un presagio. Una frase così vera e premonitrice che, se ci penso oggi, mi viene ancora la pelle d'oca. Mi viene ancora la pelle d'oca. Sempre.

 

«Per la cronaca, sei uno schianto. Odio essere il tuo migliore amico, ma meglio il miglior amico che l'amico gay, comunque», borbottò Jamie seduto vicino a me. Sorseggiai qualcosa e finsi di non aver sentito.

«E io odio dover stare qui», ringhiai.

«Tante grazie, come sei gentile! Guarda che hai un fior fiore di accompagnatore, come osi non apprezzarlo?». Stavolta non potei evitare di ridere.

«Jamie, sai bene che non è per l'accompagnatore che non vorrei essere qui. Ancora non capisco come tu abbia potuto trascinarmi in questa anticamera dell'inferno. Uffa».

«Impara a giocare meglio a Guitar Hero, e se ne riparlerà».

«Avete imbrogliato. Mi avete distratta!».

«Ognuno ha i suoi metodi, cara».

Per un po' rimanemmo zitti a fissare la folla che si dimenava. Inquadrai Lara e Travis. C'era perfetta alchimia, beati loro. Distolsi lo sguardo perché non volevo dare troppo nell'occhio, come aveva detto Lara.

Qualche metro più avanti trovai Dana che sembrava in procinto di procreare pubblicamente con tre giocatori della squadra di baseball della scuola. Vicino a lei, Bree era intrappolata nella bocca di un amico di Jim. Sembrava un po' troppo su di giri. Che schifo.

In un angolo della palestra, Chris e Jess parlottavano con due ragazze. Riconobbi una delle due: era la biondina della festa di Eva, quella con cui Jess aveva voluto farmi “i dispetti”. Buon per lei, almeno se la stava spassando con un bellissimo ragazzo un po' cocciuto e decisamente troppo orgoglioso.

E pensare che mi aveva confessato di amarmi. Okay, era sbronzo, ubriaco perso, ma poi me l'aveva riconfermato. Non sapevo se contare la sua dichiarazione come valida o meno. Non aveva alcuna importanza, in ogni caso.

Non mi accorsi di aver puntato lo sguardo su di lui finché, girandosi, non mi sorprese a squadrarlo. Imbarazzata, accennai un saluto e guardai verso l'angolo opposto.

Dove trovai Adam.

Porca puttana, Adam. Adam. Adam, capite? Quello a cui avevo scritto un “non importa cosa sia successo, questa era destinata comunque a te fin dall'inizio – stammi bene” al collo di una bottiglia di patis.

«A proposito, già che ti sta fissando te lo dico subito: oggi pomeriggio sono riuscito a dargli la bottiglia. Comunque non credevo sarebbe venuto, aveva detto che voleva starsene per conto suo». Capii di chi stesse parlando Jamie dall'accento strano che mise sul “gli”.

«Deve aver cambiato idea», risposi stringendo i denti e voltando le spalle verso quello stronzo inumano. Non avrebbe potuto respingermi di nuovo se non fossi stata a portata di mano. Basta con il masochismo.

«Ehm, Hay, credo sia mio dovere avvisarti: sta venendo qui». Jamie si alzò senza troppe finzioni. Salutò con un cenno del capo e lasciò vuoto il suo posto.

Una chioma nerissima e due smeraldi limpidi si materializzarono al suo posto.

Non sapevo se esserne lieta o esasperata. Incazzata o delusa. Forse tutto. Io mi aspettavo Adam, non Jess. Non Jess.

«Non hai la faccia di una che si diverte», fece lui.

Scossi la testa guardando basso. «Proprio no».

«E allora che ci fai qui? Dimostri che non molli?».

«No, ho solo perso una scommessa sabotata dai gemelli». Sorridemmo entrambi, imbarazzati e silenziosi, in attesa del Big Bang. Qualcuno doveva pur accendere la miccia, buttare la bomba, gridare “si salvi chi può!”.

Non io.

«Credo che nessuno di noi debba essere qui», iniziò serio. «Intendo né io, né te, né lui».

Boom.

«No?», risposi a disagio. Mi bruciava lo stomaco.

«Ho un brutto presentimento. Insomma, tutte le volte che noi tre siamo nella stessa stanza succede il finimondo. È una catena di eventi spiacevoli, incomprensioni ed equivoci».

Boom!

«Ah».

«A questo aggiungi la mia... sottospecie di dichiarazione».

Si salvi chi può!

«Io non... Sì, insomma...», balbettai.

«Potresti almeno guardarmi in faccia quando mi parli? Per favore», mi chiese autoritario. Annuii e ricominciai:

«Jess, io non credevo saremmo arrivati a tanto. Mi dispiace, ma è tutto sbagliato. Magari, se quella casa di fronte alla mia fosse rimasta vuota, se fossi stata meno impacciata e stupida, le cose sarebbero andate meglio. Ma questa è la mia natura, ed io credo che se anche Adam fosse rimasto al posto suo e non si fosse mai trasferito, ci sarebbe comunque stato un motivo che ci avrebbe messi a dura prova fino a farci lasciare. Insomma, non voglio essere crudele, ma per me non funzionava proprio. E non sarebbe potuta funzionare in nessun modo. Chiamalo destino o come ti pare, io proprio non... Non era così che doveva andare e basta».

Mi guardò malinconico e pensoso. Infine sospirò.

«Grazie per essere stata chiara. Evidentemente sono destinato ad amori ben più atroci di questo».

«No, Jess, non hai capito cosa intendevo», tentai di fermarlo mentre se ne andava insuperbito.

«No, no, Hayley, ho capito perfettamente. Con me no, con lui sì. Sai, è buffo: tu non vuoi me, e lui non vuole te. Come ci si sente a essere me, eh, Hayley?».

Sbuffai, sentendomi impotente. Volevo aggiustare le cose, essere chiara almeno con lui, ma sembrava che non fosse serata. Proprio no. Tutto sbagliato.

«Sai una cosa? Vai, Jess, ne ho abbastanza. Mi dispiace non poter farti capire, ma pazienza. Sono stufa di te, di lui e di tutto quello che riguarda voi o questo posto». Presi la borsetta e gli lanciai un'occhiataccia piena di pena per lui – povero idiota – che non capiva che la mia era una resa, non un atto di superbia o il colpo di grazia. Non ero io quella che provava gusto a far male alla gente. Almeno, non apparivo così ai miei occhi.

Dopodiché, scossi la testa e me ne andai, nel momento esatto in cui anche lui pestò i piedi nella direzione opposta. Due bambini. Eccoci.

Mi diressi in bagno senza nemmeno rendermene conto. Aprii la porta con una spalla, entrando furiosa.

Dio, la gente sapeva essere così ottusa e frustrante. Dio.

Poggiai le mani sui lavandini e mi guardai allo specchio. Che faccia incazzata che avevo. Meglio darsi una calmata.

In quel momento la porta cigolò. Passi sgraziati e scoordinati irruppero nel bagno delle ragazze.

«Hayley, bella figliola, ciao! Come sei scopabile, stasera!». Perfetto. Ciliegina sulla torta. Fantastico. Jim.

«E tu ubriaco perso. Lasciami stare, Jim, giuro che stasera rischi grosso», ringhiai.

«Non sono ubriaco, diavoletta indomata». Rise sguaiato – e fu lì che capii che essere nel bagno (da sola) con un Jim che non era ubriaco, ma drogato, era davvero inopportuno. Molto inopportuno, soprattutto in una serata sfigata come quella.

«No, ti sei infradiciato il cervello...», constatai attenta. Tentai di arrivare il più possibile vicina alla porta.

«Per sbatterti meglio!». Rise di nuovo, stavolta più convinto di prima. Ruppe una bottiglia che aveva in mano e la usò a mo' di minaccia. «Dai, resta ferma qui dove sei, con me. Ancora un pochino e poi torniamo di là».

«Jim, non sei in te. Lasciami andare», dissi fingendomi risoluta. In realtà la sua espressione mi incuteva paura e timore. Stavo tremando di paura.

«Se no?». Allungò una mano verso di me e la scansai appena in tempo.

«Lasciami andare», sibilai senza sapere cosa fare.

«Se no?», ripeté più strafottente di prima.

«Ma vaffanculo», lo insultai dandogli uno schiaffo. Ne avevo abbastanza, era troppo. Sul serio, basta. Feci per andarmene, ma sentii una morsa ferrea proprio sulla vita. Dal volto deformato di Jim uscì un grido di rabbia mista a soddisfazione, mentre sentivo il pavimento sotto di me oscillare. Avevo perso l'equilibrio ed ero finita a terra, con la testa contro uno spigolo del muro. Solo una botta da nulla, ma mi aveva stordita.

«A me vaffanculo? A ME?!», urlò più di prima. Mi ricordava più un animale che un ragazzo. C'era un qualcosa di animalesco e bestiale in lui, probabilmente dettato dalla quantità enorme di droga che doveva avere in corpo. Possibile... Possibile che... si spingesse oltre? Volevo sperare proprio di no.

E invece mi sbagliavo.

«Jim, sta' fermo, Jim. Non intendevo...». Mi rialzai.

Non finii la frase, perché di peso mi tirò su e mi diede un pugno nello stomaco, così assestato e così violento da farmi mancare il respiro per qualche secondo. Subito dopo fu la volta della bottiglia rotta in testa – e stavolta sì che si aprì una ferita sullo zigomo.

Ero troppo spaesata e confusa per realizzare. Ero semplicemente incredula, nel vero senso della parola. Non potevo credere alla realtà, mi sembrava una specie di incubo che non riuscivo a mettere a fuoco.

Jim stava picchiando me?

Me?

E perché?

Non riuscivo a pensare, se quella bestia non mi lasciava un attimo di tregua. Schiaffi e strattoni si alternarono per parecchi secondi, interminabili, finché qualcosa di molto più agghiacciante si fece strada verso il mio cervello.

Il tubino celeste era stato strappato esattamente sotto la coscia. E Jim mi stava soffocando, non mi dava via di scampo, mi aveva stretta al muro, mi stava stritolando, non mi permetteva nemmeno di gridare o di piangere per la disperazione. Mi faceva male, ma male sul serio. Forzava e faceva un male cane. Volevo gridare, e non potevo. Volevo urlare e piangere, perché mi facevano male i polsi, il bacino, le gambe. Volevo gridare e...

E NON POTEVO.

Perché proprio non poteva essere possibile che stesse capitando sul serio. A me. Quella sera. I miei problemi... non dovevano riguardare Jim. Quel problema era troppo grande per me, ci doveva essere un errore.

Non era possibile che non riuscissi a dire una parola perché il sapore del sangue in bocca mi spaventava molto più della presa che con forza mi obbligava a fare ciò che non volevo, che non pensavo sarebbe mai potuto accadere a me.

Non riuscivo a credere che non avessi abbastanza forza da opporre un minimo di resistenza, non riuscivo a crederci e basta.

Non a me.

Solo qualche singhiozzo sommesso si faceva strada su per la mia gola, ma quella belva feroce riusciva a sopprimere anche quelli insieme alla mia dignità. Mi stava annullando.

E finalmente un grido ben netto squarciò quel falso silenzio.

Quella sera proprio no. Era sbagliata, era tutto sbagliato. Dovevo ascoltare il mio sesto senso, non dovevo peccare nel pensare “tanto a me non succederà mai”. Non dovevo andare al ballo e basta.

Tutto sbagliato. Tutto, tutto.

Anche la voce mi era uscita in modo sbagliato. Troppo reale. Troppo agghiacciante. Troppo e basta.

Io ero nel posto sbagliato, Jim aveva fatto la cosa sbagliata.

E Adam, dannazione, era arrivato nel momento più perfettamente sbagliato. Non doveva vedere quella scena sbagliata. Non doveva e basta. Non poteva.

Adam, dannazione, era arrivato nel momento più tragicamente sbagliato. E l'unica cosa che riuscivo a pensare, l'unica cosa che avevo il diritto e la forza di pensare, fu che non era giusto che stesse capitando a me.

Che stesse capitando sul serio a me.

Che quello scempio non finisse mai.

Che quello scempio non sarebbe finito mai.

Mai.

 

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