Sankaritarina

di lubitina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lack of faith ***



Capitolo 1
*** Prologo ***





C'era qualcosa, in quell'immagine, che lo affascinava. Valanghe di pensieri gli si affollavano nella mente, e a volte parevano larve bianche che si accapigliavano le une alle altre, altre volte una dolce danza cosmica.
Fondamentalmente, non c'era niente. Era una..foto. O così gli avevano detto. Ed era stata.. scattata(?) tanto,troppo, tempo prima. Ma quanto? Perché? Chi era stato? E.. cos'era quello?
C'era, immersa in un mare di nero compatto e vellutato, un piccolissimo puntino blu brillante. Tutt'attorno, strisce leggermente curve, come se fossero parte di circonferenze, gialle,verdi, e rosse
La teneva sempre stretta a sé, sotto gli abiti rossi, come si teneva, aveva sentito dire, tanto tempo prima, una ciocca di capelli di donna. Gli piaceva passare fra le dita il piccolo foglio inchiostrato, sentire sui polpastrelli la carta ruvida, bianca, avvertire, filtrato dalla grana, il peso di essi. Era strana, pensava. Ruvida eppure ordinata, come..come.. quelle cose del Mondo Lontano che aveva visto nell'ufficio del Direttore. Come le rocce, e le loro belle forme regolari. Ma era un materiale..diverso. Di un.. tempo, diverso. Ne era certo.
Lui non sapeva dire nulla, però. Lui fissava l'immagine, sognando vite mai vissute, venti mai soffiati, fuochi mai accesi, acqua che mai era scorsa, cristallina come mai, su quel piccolo, piccolissimo, fragile, punto blu. Creature senza volto, ma bellissime, che si muovevano aggraziate nel blu di un mare trasparente, riempito da piogge gentili e acqua, tanta dolcissima acqua, che scivolava nei fossi, nei fiumi, si infiltrava nel terreno marrone.. Che profumava di un profumo che lui non conosceva, umido della stessa acqua cristallina, buona da bere e per immergerci le mani.
E sognava tutto questo, mentre la Stella svaniva dietro l'orizzonte delle rocce rosse, amaranto nel tramonto, e l'unica luce in cielo era il Pianeta, accompagnato dai solitari e freddi anelli, un fantasma grigio nel nero. Il Pianeta, lui no, non sorrideva mai.
Sapeva, però, fin da quando era troppo piccolo per ricordare, che il Pianeta era potente, ed era potente quanto il Direttore, ed il Direttore conosceva tutto del piccolissimo puntino blu. Glielo diceva sempre lei, la donna dai lunghi capelli rossi, mentre lo cullava dolcemente fra le sue braccia. Sussurrava, piano. Raccontava di com'era il Mondo-di-Prima, dell'acqua, della pioggia, delle nuvole. Cos'erano le nuvole?, chiedeva sempre lui. Amava sentirsi rispondere che erano nient'altro che acqua leggera, così leggera da volare, e che un giorno lo avrebbe fatto anche lui, e avrebbe potuto bere quell'acqua prendendola fra le mani. Gli parlava del verde, del verde intenso dei boschi. Cos'erano i boschi? Sono tanti alberi tutti assieme, come una grande famiglia. Più sono uniti, più la famiglia è forte, impenetrabile. Invincibile, proprio come te, piccolo mio. E allora lui si addormentava, assaporando quel dolce calore.
I capelli rossi di lei profumavano, e lui immaginava profumassero di terra, di acqua, di umido, di alberi, di boschi e foreste. Immaginava che il piccolissimo punto blu, profumasse di lei.
Si ridestò all'improvviso, con ancora in mano la foto. Nella cuccetta faceva freddo, e la tenue luce che filtrava da fuori non bastava a rischiararla. Luce, poi, era una definizione esagerata. Tubi ripieni di gas altamente ionizzati, il cui spettro d'emissione coincideva con quello della luce visibile. La luce era altro, e lui lo sapeva. “Fuori” ne era pieno. Correvano sul soffitto. Ora, se fosse subito uscito, lo avrebbero accecato. Ma fuori, ancora più fuori, c'era il Niente, ma quel Niente in un tempo lontano era esploso, e da lì era nato il Tutto. Era tremendamente illogico e crudele, che dalla violenza nascesse esistenza. Ma il Niente era buio. Il paradosso di Olbers diceva perché. Olbers? Chi era? E perché le stelle, se sono così tante, non riempiono di luce, vera luce, il cosmo infinito?
Tutto questo gli volò per la mente in meno di un secondo; il tempo di scuotere la testa, tossire, e alzarsi lentamente dalla branda. Faceva freddo.
Si infilò l'uniforme, con gesti intorpiditi ma meccanici, sbadigliando confuso. Sentiva ancora il sapore dei sogni in bocca, il sapore dell'acqua. Uscì lentamente nel corridoio,richiudendo la porta dietro di sé.
Il rumore dei suoi passi riecheggiava sul pavimento metallico (“Metallo estratto dalle viscere di pianeti non nostri, stuprati a piacimento”). Sulle pareti si susseguivano le piccole porte delle altre cuccette, in cui tutti gli altri come lui dormivano dolci sonni cullati dalla gravità artificiale. Vari pannelli di comandi le intervallavano. Era una nenia che conosceva, era un corridoio che percorreva già da quasi mezza rivoluzione.
Camminava lentamente, non aveva motivo di andare di fretta. La sua mente era vuota, a livello cosciente, mentre dentro di lui sguazzavano mille pensieri informi, a cui non aveva interesse dare forma, e che avrebbe scacciato volentieri lontano, se ne fosse stato capace, se avesse studiato con la giusta dedizione qualche pratica antica di meditazione. Ma non lo aveva fatto, perché era troppo pigro e si odiava,profondamente,per questo.
Ah, la pigrizia. Che lenta e dolorosa ulcera. C'era Aristotele, fra le pieghe della sua pigrizia.
Svoltò a destra, leggendo distrattamente l'insegna recante scritta, in caratteri arancioni e ordinati, “Osservatorio”. Questo era un luogo all'apparenza enorme, anche se in realtà era una perfetta sfera,dotata di un pavimento piano e trasparente.
Come sempre, appoggiandovi il piede, si sentiva galleggiare. Leggero, incorporeo, fluttuante da qualche parte nell'Universo. Ed esso non appariva più ostile, colmo di radiazioni e materia bruciante, o gelido e inerte; era, lui, piccolo ammasso di elementi ben combinati fra loro, dotati di un soffio di vita messa in moto da una pulsazione di un joule, parte di esso, al contempo suo prodotto più alto e maggiore suo abominio. E ne era estasiato. Si sdraiava sul materiale trasparente, e si lasciava cullare dalle delicate luci delle stelle lontane, a sud dell'eclittica solare. Amava immaginare cosa si nascondesse lì, che mondi diversi e simili al loro, a quello che l'Umanità non aveva più. Che aveva perso.. Eppure le migliaia di luci, bianche, arancioni, gialle, rosse, erano lì, ed ognuna di esse era una piccola speranza. Dio, come avrebbe voluto che Aristotele avesse avuto ragione. C'era poesia, nel suo mondo. C'era certezza nell'amore del Cosmo per gli esseri umani, creature perfette e da esso direttamente discendenti. Tutti Titani, tutti divinità, fatti di 4 elementi e non decine e decine, semplici e perfetti. Fatti della stessa sostanza del Cosmo: acqua, dolce e cristallina, aria, trasparente e profumata, terra, pesante e forte, e fuoco, come lo spirito che brillava in ogni essere. Ed il loro mondo era al centro di esso, ed apparteneva a loro, e loro ne erano amanti e responsabili. C'era poesia, non solitudine. La Terra era da loro, da quegli uomini antichi, togati, e sapienti, amata, amatissima; ed essa li amava e proteggeva. Avrebbe voluto Aristotele avesse avuto ragione, per baciare quel suolo che non aveva mai visto e dire che lo amava, che qualunque luogo di quel piccolissimo punto blu era la sua casa, e mai poi mai sarebbe stato solo, perché avrebbe avuto un cinguettio d'uccello, il fruscio di un ruscello, il gracidare di una rana, il chiasso di una metropoli, o il ruggito di un leone, a tenergli compagnia. Ma la Terra, la loro Madre, la loro Sorella, che li aveva cullati e allevati da quando la Stella era solo un ammasso di polveri inerti, li aveva abbandonati. Li aveva traditi.
E quando lui giungeva a quel pensiero, l'assolutezza, la certezza straziante, dell'eterna solitudine dell'esiliato lo colpiva. Ramingo nel cosmo, vittima dell'incerto e dell'infinito, sentiva la lacerante mancanza di qualcosa che mai aveva avuto. Una casa.

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Capitolo 2
*** Lack of faith ***


La Storia dell'Eroe
 
 
 
L'acqua gocciolava lentamente, dal rubinetto metallico, nel bicchiere di vetro. Da qualche parte aveva sentito dire che l'acqua, distillata al massimo, totalmente priva di qualunque impurità, era un solvente così potente da sciogliere il vetro, per l'appunto. Lui la sentiva cadere ad intervalli regolari, unico segnale dello scorrere del tempo. Mezza rivoluzione. La sola idea lo riempiva d'orrore. Non sapeva perché, però. Del resto aveva sempre sospettato, fin da quando era troppo piccolo per capire, che sarebbe morto senza la terra sotto i piedi. E quel viaggio interminabile era la realtà nelle sue infantili paure.
Prese il bicchiere fra le mani,e bevve piano, calibrando ogni sorso. Ultimamente era sempre più inquieto.  Uscì dalla sua stanza, sentendo la porta metallica richiudersi dietro di lui. Uomini e donne, si trovò davanti.
-Salve, padre.
Fece un sorriso tirato, piccole rughe apparvero intorno alla bocca, e alzò lentamente la mano bianca.
-Giorno,cara. Come butta oggi?
Ultimamente, il chiacchierare non rientrava fra le sue doti. Curioso era anche che essa fosse una virtù temporanea, decisamente volta al pontificare in sede di confessionale.
-Bene, padre. Come sempre da circa mezza rivoluzione.
Davanti a lui c'era una donna, una donna come tante (o almeno spesso così lui ragionava nella sua mente), sorridente di una gaiezza che lui aveva sempre trovato irritante. “Forse sto invecchiando”.
-Ne sono contento. E i bambini?
-Oh, penso siano nell'area ricreativa.
-L'arena di combattimento.
L'area ricreativa per i bambini dell'equipaggio era una specie di grossa stanza, recintata nell'area centrale,ove venivano lasciati i più piccoli. Ciò gli aveva sempre enormemente ricordato le raffigurazioni delle arene dei gladiatori dell'Antica Roma, con la differenza che i bambini non portavano in mano scudo e gladio, ma soltanto la loro ingenuità, e le ferite inferte non sanguinavano.
-Ahah! Com'è simpatico oggi!
Riabbozzò un sorriso, mollò la donna su due piedi e si avviò lungo il corridoio, verso la Chiesa. Un nuovo giorno era iniziato.
 
Pochi minuti dopo, le sue mani erano aperte, alzate al cielo in segno di preghiera. Il cielo? Ah giusto. Loro si TROVAVANO nel cielo. Più in alto c'erano solo altre stelle, e poi il vuoto intergalattico.
-Rendiamo grazia a Dio onnipotente ed eterno.
La Chiesa era probabilmente uno dei luoghi più grandi di Pirra. L'architetto doveva aver avuto un gusto spiccatamente neogotico, con tutte quelle colonne (metalliche, ma rivestite di materiale plastico simile a marmo) svettanti verso il soffitto, che tale però non era. Infatti esso non era altro che un fac simile dell'osservatorio, vetro super-resistente alle temperature estreme dello spazio, che lasciava ai fedeli almeno la parvenza di poter guardare al Cielo, alle stelle più lontane. Le colonne si assottigliavano sempre più, avvicinandovisi, ed erano dipinte di nero, per dare l'illusione che vi si perdessero. I neri capitelli erano tutt'uno col nero.
Nelle navate, invece, era la luce. Il materiale era candido,splendente, e aveva la deliziosa sfumatura quasi azzurra di certa neve di cui aveva letto in un libro. I banchi erano verdi, di quel verde di quelle pietre preziose che spesso le donne portano al collo. Ed erano ricoperti d'edera, una strana pianta che si attorcigliava attorno alle cose, posto che avesse un po' di terra dove porre radici. Le sue foglie erano lucide, e riflettevano il candore del luogo.
Bianco in terra, nero in cielo. Del resto, non c'era spazio per il celeste.
-Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. Per mia colpa, mia sola, grandissima, colpa.
E si levò un coro di pugni femminili e maschili, che battevano contro costole e seni, pochi suoni fruscianti che creavano un unico,enorme,fruscio.
-Dio onnipotente abbia misericordia di noi e perdoni i nostri peccati, e ci conduca alla vita eterna.
A quel punto l'uomo lasciò la parola al giovane sacerdote dagli occhi a mandorla, che con voce inferma iniziò a cantare il Gloria. Chiuse gli occhi, mentre un violino suonava delicato.
Gloria.
Gloria.
Gloria a te, nell'alto dei cieli.
Quali cieli? Di che arido pezzo di roccia sospeso nello spazio? Cieli neri come il carbone più nero, non rischiarato da un'atmosfera di azoto e ossigeno?  “Oh, per diamine! Cielo è un concetto metafisico, è come dire “anima”! Come sei gretto, sciocco ragazzo!”
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
“La terra, ragazzo, sei tu! Non dubitare della parola di Dio, o Lui ti punirà!” Occhi gialli lo guardavano, da dietro i suoi occhi, occhi che avevano visto il Cielo azzurro e che odiavano, perché non potevano rivederlo più. Una mano si abbatteva sulla sua guancia ancora priva di barba, liscia come quella di un bambino, e lui sentiva il dolore spargersi per il corpo.
Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazia per la tua gloria immensa.
...Tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi...
“Il peccato, sciocco ragazzino, lo compi anche solo guardandomi negli occhi! Non ne sei degno,capisci? I tuoi occhi impuri! Fai parte di una generazione dannata, voi sareste dovuti perire col Giudizio, non nascervi. Non siete, NON SEI, figli di Dio!” Sentì di nuovo il dolore della mano, misto al sapore ferroso del suo labbro che si spaccava.
Tu che siedi alla destra del Padre, accogli la nostra supplica!
Devi pregare,pregare come un agnello davanti al suo carnefice, di esser salvato. Ma,sappilo, l'Inferno è quello che vi aspetta, là fuori, nel niente”.
Perchè tu solo il Santo, tu solo l'Altissimo...
Il canto fu bruscamente interrotto da un grido orrendo.
L'assemblea vide il sacerdote, steso a terra. Un macchia di sangue andava allargandosi attorno a lui, come acido, viscoso e denso. Sporcava il bianco candido, sporcava la sua veste candida dalla striscia purpurea. Una donna urlò. Era la madre di prima.
Il coltello era lì, affianco al cuore.

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