Diario antico di TheMask (/viewuser.php?uid=138953)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo; ritorno al passato ***
Capitolo 2: *** Vecchi amici ***
Capitolo 3: *** Street ***
Capitolo 4: *** Surreal Friend ***
Capitolo 1 *** Prologo; ritorno al passato ***
Hei, ciao, qualcuno si ricorda di me? no? si? boh.
Comunque, vi ricordate quella storia un po' brutta e appena un po'
incomprensibile che si chiamava Bakup?
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=828114&i=1)
Ecco proprio quella! Questa storia è una specie di continuo.
No, mi spiego, non è precisamente un continuo.
Vi ricordate che nell'ultimo capitolo Mina, una cooprotagonista, si
ammazzava? Ecco, praticamente questa fan fiction rivela finalmente il
suo passato e intanto fa vedere come se la cavano i sopravvissuti. Si
insomma che ne so! bah! mah!
...
Non me lo dovete dire che è una cosa stupida, lo so!
Però se vi va di leggere vi sarò grata a vita e
vi beatificherò di nascosto in caso crediate. In caso
contrario vi farò un bel monumento, che ne dite? Bene!
Allora perdonate il mio delirio e se avete voglia leggetevi questo
inizio!
NOTABENE: in caso qui capitasse qualcuno che NON HA LETTO LA PRIMA
STORIA DELLA SERIE sappia che non è necessario, a
mio parere può capire benissimo la trama comunque! :D
Grazie ancora e buona lettura!
THINKS OF BEYOND BIRTHDAY
Mina era morta da tre mesi precisi quel giorno. Il giorno in cui con un
grande
sforzo, declinando l’invito di L a venire con me, ero uscito
di casa con una
grande borsa nera sulla spalla, salito in macchina e guidato fino al
grande
edificio circondato da un prato ormai selvaggio con una grande targa
dorata sul
cancello: la casa di Wammy. Scesi
dalla
macchina sotto la neve gelida che aveva cominciato a scendere. Si era
ai primi
di gennaio e il freddo si insinuava come sempre dappertutto, sotto i
guanti e
le sciarpe, fra i capelli, nella schiena, nelle scarpe. Ciononostante,
abbandonai l’asciutto e caldo abitacolo della macchina senza
pensarci due volte
o forse non l’avrei fatto. Ma non volevo essere vigliacco.
Così, mi fermai
davanti al cancello sbirciando l’interno mentre estraevo un
mazzo di chiavi
dalla tasca della giacca a vento e ne collaudavo una nella serratura
del
lucchetto. Ne provai tre prima di riuscire ad aprirlo. Spinsi, e con un
profondo e perforante cigolio, cedette sotto le mie mani. Entrai,
lasciando
leggere impronte sulla neve fresca e rivelando un prato non curato.
Alcuni
grossi e tetri alberi si protendevano nel giardino, scheletrici per
l’inverno.
Non volli pensare che fosse per il luogo nefasto dove avevano messo
radici.
Avanzai verso l’edificio e vecchi ricordi si fecero vivi
senza permesso. Chinai
il capo e tenni lo sguardo sui miei piedi, scacciandoli. Finalmente,
dopo
quella che mi parve un’eternità, arrivai alla
porta. Feci un respiro profondo.
Esitai. Volevo davvero entrare? Per risentire nella mia mente urla,
voci
antiche di morti, per ricordare volti ormai mangiati dai vermi o
consumati dal
mare, per rivedere mura che mi avevano quasi fatto impazzire? Mi spinsi
a
prendere una chiave a caso e infilarla nella serratura. Ero sfortunato:
era
quella giusta. La porta si aprì, stavolta senza cigolii
troppo evidenti. Salii
i due gradini dell’ingresso e li mi fermai. Strinsi gli
occhi, ma non potei
scacciare le immagini che già si stavano creando, vivide,
quasi reali, nelle
mie retine influenzate. Mi costrinsi a pensare solo a dove mettere i
piedi e
feci i primi due passi, verso destra. Trovai le scale in fondo al
corridoio e
cominciai a salirle, sebbene sospettassi che non avrebbero retto molto
più del
mio peso a giudicare dai sonori rumori di protesta che emettevano a
ogni
gradino. Era brutto essere li da solo, ma forse sarebbe stato peggio
essere con
gli altri. Si, decisamente, era un gran bene che non avessi detto ad
altri che
L ciò che volevo fare.
Appoggiai una mano al corrimano, ma la ritirai quasi subito, vista la
precipitosa caduta che esso fece, come per dispetto, sollevando una
nube di
polvere qualche gradino più in basso. Sospirai o sbuffai,
non lo capii bene
neanche io, e continuai a salire fino al sesto piano senza
più degnare il
corrimano di uno sguardo, trovando molto più interessanti le
mie scarpe così risolute,
che salivano gradino per gradino ogni rampa di scale. Misi i piedi sul
pianerottolo e non potei fare a meno di lanciare un’occhiata
in giro. Avanzai,
imboccando uno stretto corridoio e mi girai verso la seconda porta a
destra.
Cautamente, con una paura ingiustificata, poggiai la mano sulla
maniglia di
falso ottone, molto economica, e aprii lentamente. Camera mia. Feci
qualche
passo nell’angusta stanzetta
riconoscendo in essa alcuni segni del mio passaggio. Il vetro era
crepato per
un pugno che Mello vi aveva tirato una volta.
il letto aveva le molle rotte dopo che l’avevo preso a calci
e a pugni una
volta che mi avevano punito severamente facendomi solo arrabbiare di
più. La
scrivania era piena di scritte dei miei amici. Non le lessi. La sedia
era a
terra. Non la sollevai. Non toccai nulla se non un libro che trovai
come
sapevo, sotto un’asse del pavimento che avevo staccato con
pazienza a forza di
calci e unghie rotte.
“Ci sono bambini a zig zag” diceva il titolo.
L’unico libro che avevo e non certo legalmente diciamo. Lo
misi nella borsa con
un sospiro e lanciai ancora un’occhiata alla camera.
Uscii velocemente dalla stanza: non era per quello che ero li.
Continuai a
percorrere il corridoio. Sapevo bene che dietro ogni porta
c’era una vita
segnata, una storia da raccontare, ma lo ignorai, arrivando
all’ultima porta a
sinistra. Con qualcosa di metallico, avrebbe potuto essere uno dei suoi
braccialetti pieni di borchie, aveva inciso una profonda ed elegante M su di essa.
Sospirai sentendo una strana sensazione farsi strada sotto la maglietta
e la
felpa. Sentivo l’aria viziata scendere nei polmoni e
ritornare su ancora più
avariata e avevo bisogno di una boccata almeno una di aria fresca,
pensai. Esco
un momento in giardino e torno subito qui, mi dicevo convinto, ma
sapevo che se
l’avessi fatto non sarei più entrato in quella
camera. Appoggiai di nuovo la
mano sulla maniglia percependone la freddezza metallica e le
zigrinature vaghe.
Inspirai. Espirai. Lo feci di nuovo. ricordai il volto di Mina la prima
volta
che l’avevo visto. Poi subentrò nella mia mente
l’immagine dell’ultima.
“Così non va!” borbottai, aprendo con un
gesto che voleva essere deciso quella
maledetta porta.
La tentazione di chiudere gli occhi e fuggire era tanta ma…
mi trattenni e
diedi un’occhiata alla stanza.
La finestra era aperta, notai per prima cosa, e l’aria era
fresca come fuori.
me ne riempii i polmoni con sollievo. Poi vidi le pareti.
Già, mi ero scordato
come Mina tenesse le pareti. Da ogni angolo spuntavano poster, foto,
pagine,
scritte, incisioni… qualsiasi cosa. il pavimento
addirittura, era completamente
inciso, pieno di parole, citazioni…
Il mio piede poggiava sull’inizio di una frase che le avevo
sentito dire alcune
volte: L’affermazione
è la regola della
piena libertà.
Camminai verso la scrivania, per controllare ciò
che già sapevo esserci:
una parte di Romeo e Giulietta, la sua parte preferita:
Ma quale luce apre l’ombra da quel
balcone?Ecco l’oriente e Giulietta è il
sole… Alzati, dunque, o vivo sole e
spegni la luna già fioca, pallida di pensa perché
ha invidia di te, tu che la
servi! E se ha invidia di te lasciala sola. Il suo manto vestale ha
già un
colore verde di palude, e nessuna vergine lo porta. Gettalo via!
Oh, è la mia donna, è il mio amore! Ma non lo sa!
Parla e non dice parola: il
suo occhio parla, e a lui risponderò!
Ma che folle speranza; non è a me che parla.
Due fra le stelle più lucenti, che girano ora in altre zone,
pregano i suoi
occhi di splendere nelle sfere senza luce, fino al loro ritorno. E se i
suoi
occhi fossero nel cielo veramente, e le stelle nel suo viso? Lo
splendore del
suo volto farebbe pallide le stelle, come la luce del giorno, la fiamma
d’una
torcia! Se poi i suoi occhi fossero nel cielo veramente, quanta luce su
nell’aria,
tanta che gli uccelli credendo finita la notte, si metterebbero a
cantare!
Sorrisi leggendola e ricordando con quanta passione lo faceva
lei. Adorava
recitare, mettere maschere, mettere allegria sul volto delle
persone… non era
certo capitata nel posto giusto però.
Sospirai di nuovo, sedendomi dove mesi prima (era passato
così poco tempo?) si
era seduta lei. mi chinai sulla scrivania e trovai un capello verde che
le era
appartenuto. Lo presi fra le mani. C’è ancora un
po’ di Mina al mondo, mi
ritrovai a pensare, mentre alcune lacrime mi scendevano impudentemente
sulla
faccia. Le asciugai con rabbia e aprì con un gesto deciso il
primo cassetto. Vi
trovai alcuni libri che poggiai con gesti
cauti sulla scrivania. Presi il primo e con una carezza, tolsi la
polvere dalla
copertina. Naturalmente era Romeo e Giulietta, c’era da
aspettarselo. Lo sfogliai
delicatamente, come temendo che potesse andare in pezzi da un momenti
all’altro
e notai che vi erano parecchie note in matita, frasi sottolineate. Non
mi ci
soffermai più del necessario però,
l’avrei fatto in seguito. Il secondo libro me
lo ricordavo bene: me lo aveva prestato più volte e
l’avevo sempre letto
volentieri: Qualcuno con cui correre
era il titolo. Quello non lo sfogliai, passai direttamente al terzo, un
libretto sottile: Il gabbiano Jonathan
Livingston. In sequenza, trovai e misi da parte sulla
scrivania questi
libri:
Cime tempestose; Il giro del mondo in 80 giorni; Ventimila leghe sotto
i mari;
L’inventore dei sogni; La collina dei conigli; Abbaiare
stanca; In viaggio con
Erodoto; Le commedie di Shakespire; Tre uomini in barca; 1984.
E li finì la sua piccola biblioteca personale. Ricordavo
bene il traffico di
libri che teneva con tutti gli altri, di nascosto dai sorveglianti.
Sembrava proprio
che si divertisse a fargliela sotto il naso, infatti prestava sempre
tutti i
libri (tranne naturalmente quelli di Shakespire per i quali provava uno
strano
attaccamento.) Mi
assicurai di mettere
bene i libri nella borsa, non
volendo
rovinarli, e passai al secondo cassetto.
Tentavo di non pensare che tutte quelle cose erano appartenute a lei,
che le
aveva toccate, lette, usate…
Nel secondo cassetto c’erano una serie di quaderni con una
rigida copertina
nera. Saranno stati sei. Persi il primo con curiosità. Che
fosse ciò che
cercavo? Il diario? Lo aprii e subito fu chiaro che non era
così. Lessi la
prima pagina. Era una storia. Il quaderno era completamente ricoperto
dalla
fitta scrittura, non un angolino aveva trovato salvezza. Non potevo
leggerli
subito però, quindi li infilai uno a uno, dopo averli
sfogliati per un momento,
nella borsa. In fondo al cassetto trovai un mp3 molto vecchio e un bel
po’
graffiato con attorcigliate sopra, un paio di cuffie bianche. Presi
anche
quello.
Aprii l’ultimo cassetto, o almeno tentai visto che era chiuso
a chiave. Già. Sbuffai,
guardandomi intorno e chiedendomi dove avrebbe potuto nascondere una
chiave. Riaprii
i due cassetti per vedere se avevano un doppio fondo. Niente.
Contrariato,
estrassi un coltellino dalla borsa e forzai il cassetto, venendo meno
alla
promessa che mi ero fatto, cioè di lasciare tutto come
l’avessi trovato.
Il cassetto era vuoto, a parte un foglio scritto a mano in bella
calligrafia
quasi gotica, un sacchettino e un piccolo e spesso quaderno marrone
scuro. Presi
il foglio per primo e lessi questo:
Heilà,
brutto
scassinatore di cassetti di persone defunte!
Guarda che lo so che hai scassinato il cassetto: la chiave ormai
è persa per
sempre, perciò non hai scuse!
Comunque: se sei un sorvegliante, va al diavolo e restaci, chiaro? Non
voglio che
un vecchio mefitico ostricone del Bengala stracotto dal sole
dell’Alaska sappia
qualcosa di me, perciò come ho appena detto, giù
le mani! Brucia il foglio,
buttalo nel cesso, non mi interessa (ma stai attento ai canguri mi
raccomando!).
Hei, ancora leggi con una faccia interessata? Qualche lacrima? Ah, ma
allora
tutto si spiega, devi essere un mio amico, e io devo essere morta, non
è così? Ebbene
avevo ragione! Hahaha! Le mie previsioni di morte prematura non erano
mica
false vero? Bene! Dunque, suppongo che dovrei mettere per iscritto qui
le mie
ultime volontà, così non buttate la mia roba va!
Che conoscendovi… allora chi
sei? Alma? Jen? L? BB?
Va bè, va bè, andiamo avanti che se no qua non
finiamo più!
Ecco a chi vanno i miei averi:
§
Il
mio basso va a Mello che gli fa sempre il filo per provarlo e al quale
non l’ho
mai fatto toccare, proprio lui! Non mi ringraziare biondino, te
l’aspettavi, lo
so! Se me lo righi, all’inferno ti ammazzo, chiaro? Bene!
§
I
miei vestiti (ves-ti-ti non
accessori,
mi raccomando) vanno tutti a quella punk di Alma, che non si chieda di
nuovo
dove li ho presi e se lo fa, tirale un ceffone amico. Se sei Alma, in
mia
memoria, fallo lo stesso.
§
I
miei accessori dateli tutti a Jennifer, le starebbero così
bene con quella
carnagione chiara, lo dice anche lei, ma dice sempre anche che non sa
come
procurarseli, perciò che li tenga lei.
§
La
mia tinta, se non è finita fatene un po’ quel che
ve ne pare, non è che me ne
freghi molto. Guardate la data di scadenza però!
§
I
miei libri vanno tutti a Near.
§
Cos’ho
ancora? Beh, ci sono le storie che ho scritto. Quelle che vadano a
Alma, lei
scrive sempre, saprà cosa farne.
§
A
Federica lascio il sesto quaderno nero, dove sono annotate
accuratamente tutte
le mie imprecazioni.
§
Per
L e BB, c’è il diario marrone che tu (oh
profanatore di cassettiere tarlate!)
hai trovato ora. Decidano loro se farlo leggere anche agli altri,
vedranno loro
se è il caso. Mah…
§
Per
Matt (non non mi sono dimenticata del fumatore di sott’aceti
fritti) c’è una
cosa che si trova a Londra. Si lo so che è un casino scomodo
farsi il viaggio
fino a Londra per questo, ma non ho avuto la possibilità di
recuperarlo. Dunque,
una volta a Londra, Matt deve andare in Princess May rd al numero 13,
dove
troverà, se ha fortuna, un mio vecchio amico. Se gli
dirà che viene da parte
mia, magari facendogli vedere una mia foto e simili, il sunnominato lo
porterà
in una camera. Capirà da solo qual è la cosa che
deve prendere. Certo, se vuole
prendere altro non è un problema per me. Faccia pure.
E con
ciò ho
finito il testamento. Dei soldi sinceramente non me ne frega niente, li
prenda
chi vuole. Tanto con quel riccone di L che probabilmente mantiene tutti
non ne
si ha certo bisogno. Dateli in beneficienza va! Così fate
una buona azione e
via! ;)
Bene allora, ti saluto mio caro, chiunque tu sia! Va a te il sacchetto,
ok? Fanne
ciò che vuoi.
Addio!
Mina
Rimasi a fissare il foglio per qualche
minuto buono, poi lo
rilessi e solo
allora alzai lo sguardo
dalla carta e mi permessi di tirare un profondo respiro. Quindi potevo
leggere
il quaderno marrone? Presumibilmente proprio il… diario?
Misi il foglio nella
borsa e lo presi fra le mani. Ero tentato di leggerlo subito, ma poi lo
misi un
momento da parte e presi curiosamente il sacchetto.
tirai i lacci per aprirlo e al suo interno trovai molte liquirizie di
quelle
che piacevano a lei. e in fondo, scorsi un luccichio. Così,
svuotai il
sacchettino sulla scrivania, annusando volentieri l’aroma
forte che emanava e
trovai un anello di quello che sembrava vero oro molto raffinato, con
una
piccola pietra verde sopra. Lo esaminai da vicino. Da dove
l’aveva preso
quello? Nessuno che io sapessi, l’aveva mai visto. Ma quante
cose potevo dire
di sapere di lei, dopotutto? Quasi niente.
rimisi le liquirizie e l’anello dentro il sacchetto e me lo
misi in tasca.
dopodiché mi alzai, con ancora un sospiro e andai ad aprire
l’armadio, con la
borsa sottobraccio. Vi riposi uno a uno tutti i vestiti, un paio di
anfibi e le
catene, i bracciali e braccialetti, gli orecchini e
quant’altro ella avesse (li
trovai riposti in uno spazioso cassetto).
Ora che l’armadio era vuoto e la borsa praticamente piena, mi
avvicinai un’altra
volta alla scrivania e presi il diario in mano, indietreggiando sino al
letto. Mi
ci lasciai cadere mollemente e il suo odore, rimasto prepotentemente
nelle
lenzuola e sul cuscino, m’investì in pieno,
dolorosamente. Mi rialzai subito,
ma misi nella borsa anche il cuscino, per un motivo a me ignoto. Mi
guardai
intorno (Ridere è il linguaggio
dell’anima;
A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e
togliere ogni
dubbio;).
Guardai il pavimento (Due cose sono
infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo
l'universo ho ancora dei
dubbi; Mi sveglio sempre in
forma e mi deformo
attraverso gli altri;)
Alla fine mi decisi a uscire dalla camera, dopo averle lanciato ancora
un
ultimo sgaurdo. Mi ritrovai di nuovo nel corridoio, ancora abbagliato
da ciò
che avevo trovato. Come mai aveva lasciato un testamento?
Decisi di non pensarci subito. Invece mi affrettai a uscire, respirai a
fondo
la neve e richiusi il cancello a chiave.
Entrai in macchina e feci un altro respiro profondo. Presi
il diario fra
le mani e aprii alla prima pagina.
Caro
diario (se così posso chiamare questa
raccolta di fogli a righe che ancora non conosco),
ho intenzione di riempire la tua candida concezione di spazio con
lettere nere
che nessuno a parte me leggerà forse. Ma se qualcuno sta
veramente leggendo
queste righe, allora vuol dire che, come mi ero immaginata, sono morta
prima
dei venticinque anni.
Mi fermai dopo quattro righe, decidendo di
leggerlo solo con L. Da
solo non me la sentivo. Era così cinica a volte quella
ragazza! Anche da morta!
Scossi la testa e accesi il motore, accingendomi a tornare a casa.
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Capitolo 2 *** Vecchi amici ***
Eccomi al secondo capitolo di questa storia. Non so bene se andare
avanti o meno, ditemelo voi.
Comunque, vi avverto che questo è un capitolo che funge
quasi da presentazione: si rivedono i vecchi amici e si comincia a
svelare alcuni dei segreti della misteriosa Mina.
Qualsiasi commento è ben accetto, grazie.
Mina
Scossi la testa e accesi il motore, accingendomi a tornare a casa.
Parcheggiai la macchina vicino a casa e mi entrai con la borsa a
tracolla, cercando L con lo sguardo: lo trovai come al solito seduto
davanti al pc a pensare a qualche caso.
“Ciao BB, come va?” mi chiese con la voce atona.
“Tutto bene… ecco, ho trovato qualcosa…
insomma, dovremmo chiamare gli altri.”
Il detective si girò a guardarmi e appena vide la borsa
piena si affrettò verso il telefono. In pochi minuti erano
tutti convocati d’urgenza da noi.
Per prima arrivò Jennifer, lo sentimmo da rombo insistente
della moto. Era da un mese che non ci rincontravamo, tutti avevano
infatti tentato di rifarsi una vita lasciandosi il passato alle spalle,
e vedere i compagni della sfortunata sorte che ci era toccata non
aiutava di certo.
La bionda salì le scale con passi pesanti e bussò
alla porta un paio di volte con il casco della moto. Andai ad aprire io
e la salutai pur con un certo distacco.
Senza chiedere niente, Jen entrò in casa e fece un cenno a L
per poi sedersi intorno al tavolo tondo al centro della sala. La seguii
sospirando. Era cambiata molto. Ora infatti, la bionda non era
più bionda. Bensì aveva i capelli neri come il
catrame, pur con alcune ciocche bionde che spiccavano fra i
capelli. Anche i suoi vestiti erano scuri: indossava un paio
di pantaloni di pelle neri e una maglietta grigia con sopra un corto
giubbotto di pelle. I suoi occhi erano molto tristi, facevano sentire
in colpa chiunque li incrociasse.
“Come stai?” le chiese L.
“Bene, bene. Perché ci hai chiamato L?”
“Aspetterò gli altri per dirlo. Così
non lo dovrò ripetere troppe volte.”
“Non siamo più così tanti”
ribatté Jen.
Calò un silenzio pesante.
Poi arrivò Matt, insieme con Mello. Entrarono anche loro
silenziosamente, salutandoci appena e sedendosi vicino a Jen.
Dopo qualche minuto, bussarono di nuovo: era Federica.
Aveva degli occhi sottili, quasi cattivi, sebbene una volta erano stati
pieni di allegria.
E infine aprii a Near e lo trovai un po’ cresciuto. Non disse
una parola naturalmente e quando si sedette anche lui, fummo di nuovo
al completo. Nessuno incrociava lo sgaurdo con gli altri, anzi, quasi
tutti tenevano gli occhi sul vetro del tavolo o sui piedi.
Presi una sedia anche io e misi la borsa sul tavolo.
“Vi devo parlare di Mina.” Dissi semplicemente.
E a un tratto, l’attenzione di tutti si spostò su
di me, tutti gli occhi scattarono sui miei.
“Io.. io sono tornato all’orfanotrofio
e… ho trovato questo.” Dissi, estraendo dalla
borsa il foglio con il suo testamento.
“Cos’è?” chiese subito Mello.
Glielo porsi, togliendomi il peso di doverlo leggere ad alta voce, cosa
che probabilmente non sarei riuscito a fare. Mello lo tenne in mano per
alcuni minuti, poi lo passò con un gesto secco al compagno,
Matt, che ripeté la scena.
Il foglio passò in mano a tutti, anche in mano a L, che
ancora non sapeva cos’avevo trovato nella stanza di Mina.
L’atmosfera nella stanza era sempre più pesante.
Jennifer si asciugava una lacrima col dorso della mano.
Poi, senza sapere cosa dire, diedi loro ciò che a ciascuno
Mina aveva destinato. Ciascuno se lo rigirò tra le mani come
se fosse una reliquia. Matt invece aveva preso la lettera, tutti erano
stati d’accordo a dargliela, e aveva deciso di partire il
giorno successivo, da solo. Mello non aveva insistito.
Ci guardammo.
Poi loro cominciarono ad alzarsi e ad andarsene, salutandosi con un
abbraccio al massimo. Capivo che per loro era come riaprire una ferita
che tentavano da mesi di rimarginare.
E quando il rombo della moto di Jennifer si fu estinto in lontananza,
io e L rimanemmo in silenzio, a pensare.
Infine mi alzai e uscii dalla stanza, dirigendomi in cucina. Era ormai
sera e presi come pretesto il fatto di cucinare per andare via da
quella stanza.
Avevamo appena finito di cenare, quando L mi chiese se volevo leggere
il diario ottenendo per tutta risposta un sospiro.
“Se non vuoi non importa… ”
“No, va bene.” Dissi sommessamente.
“Tu lo sai perché Mina era la dentro?”
“No, tu?”
“Neanche io.” rispose, tirando fuori il quadernetto
e andando ad accucciare sul divano, seguito da me.
Quella sera qualcosa ci separava, non capivo cosa.
Ma poi cominciammo a leggere, e tutto questo passò in
secondo piano.
Caro diario (se così posso chiamare questa raccolta di fogli
a righe che ancora non conosco),
ho intenzione di riempire la tua candida concezione di spazio con
lettere nere che nessuno a parte me leggerà forse. Ma se
qualcuno sta veramente leggendo queste righe, allora vuol dire che,
come mi ero immaginata, sono morta prima dei venticinque anni. Chiunque
tu sia, amico, nemico, sconosciuto, ti prego abbi cura di questi fogli,
perché conservano tutti i miei segreti, i miei pensieri, la
mia vita. Se vuoi, leggile, non m’interessa, visto che tanto
sono morta e non lo saprò mai. Se non vuoi, non buttarle giu
da un balcone o nello scarico del tuo amato gabinetto perfavore. Te ne
sono grata. E se esiste la vita nell’aldilà, cosa
del che in effetti io dubito, la gratitudine di una morta
può servire a qualcosa, no?
Comunque, caro il mio diario,
desidero raccogliere qui le mie memorie. Perché?
perché se come credo muoio giovane, i miei amici potranno
sapere finalmente qualcosa di me, visto che con ogni
probabilità s’illuderanno di sapere qualcosa, pur
non sapendo. In caso contrario, sarà interessante rileggere
queste righe per me, fra un bel po’ di anni.
Bene allora, mi prendo la libertà di aprire con una bella
frase fatta a effetto:
cominciamo dal principio, lettore mio…
Avevo compiuto da cinque mesi quattordici anni, ma non fu a questo che
pensai quel sabato mattina uscendo dal letto: mia madre aveva la febbre
alta e non saremo potuti andare in vacanza come avevamo previsto. Mio
padre stava preparando la colazione quando entrai in cucina e mi
sorrise comprensivo vedendo il broncio che avevo messo su. Mi disse
qualcosa come “Vedrai che si rimetterà in pochi
giorni e potremo partire lo stesso!”, non ricordo con
precisione.
Dopo aver mangiato mi rintanai in camera mia a scrivere una delle mie
storie e ci rimasi per un bel po’. Papà era
occupato a stare con mia madre, misurarle la febbre eccetera e non mi
chiese di vestirmi ne di fare qualcosa in casa come avrebbe fatto
normalmente.
Passarono le ore e a un tratto accadde. Qualcuno entrò in
casa. Io non me ne accorsi subito, ma mio padre si e corse
all’ingresso chiedendo ci fosse.
Poi successe. Udii uno sparo, poi un altro. Ero immobile, le orecchie
tese, il cervello in pappa. Non era possibile, mi ripetevo. Non poteva
essere possibile. Mi alzai, e mi avvicinai alla porta senza riuscire a
pensare con logica. Sentii delle voci litigare. Fra quelle, il
familiare timbro di mio padre non c’era. Non so cosa pensai
in quei momenti. Mi ricordo solo una sensazione primordiale, di paura,
no, di terrore puro. Ogni parte di me era tesa, agitata,
sull’attenti, ma il mio cervello era come scollegato. Avevo
la pelle d’oca e dubitavo che sarei rimasta viva ancora a
lungo. Non urlavo perché non ci riuscivo, non per altro.
Dei passi si avvicinarono nel corridoio, ma la porta dietro
la quale mi rifugiavo, rimase ferma. Una voce femminile
esclamò: “Ma non dovevano essere in
vacanza?”
“Mi avevano detto così, che cazzo ci posso
fare?” rispose una voce preoccupata dall’altro lato
della casa.
Sentii la voce tenue di mia madre.
“Cosa… cosa ci fate qui… chi.. chi
sie-”
La sua voce fu interrotta. “Porca puttana Wolf, vieni qui!
Che cazzo faccio, ammazzo anche lei?”
“Perché cazzo urli il mio nome? Ammazzala
subito!”
“No… no perfavore no vi pre-”
Sparo
Persi un battito.
Seppi che non l’avrei più sentita in vita mia e
sentii una profonda rabbia crescere dentro di me, forte e strana per
me.
Li sentii andare in giro per la casa. Poi uno dei due si
avvicinò alla porta di camera mia e non fui capace di
muovermi. Mi stanò con una facilità che non mi
perdonai mai.
“Cazzo c’è anche una bambina!”
disse la donna.
“Ma porca troia!” rispose l’uomo dalla
cucina.
Lei era vestita tutta di nero e aveva un passamontagna sul viso, ma
alcuni capelli biondi uscivano lunghi e lisci. Aveva degli occhi
azzurri. La guardai dritta in quel ghiaccio che aveva visto i miei
genitori morire e per un momento, il dolore fu portato in secondo piano
da quella rabbia che non avevo mai conosciuto.
La donna si chinò su di me addolcendo lo sguardo.
“è ancora piccola. Hei bambina, vuoi venire con
noi?” mi chiese come se fossi deficiente.
Senza pensare alle conseguenze, le tirai un forte pugno sul naso con
tutta l’energia che avevo.
“CAZZO! QUESTA TROIETTA MI HA ROTTO IL NASO!”
“E tu le hai ucciso i genitori idiota. E abbassa quella
fottuta voce, cazzo!” Le rispose Wolf sempre dalla cucina.
Il mio sguardo, per puro caso, si fermò sui fianchi
dell’assassina, con le mani sul viso: la pistola. Ancora una
volta agii impulsivamente e la sfilai dalla cintura con una mossa
veloce, che la donna non riuscì a evitare e che anzi,
neanche vide, occupata com’era a tenersi il naso.
Poi sentì il rumore della sicura.
“Hei bambina, lascia quella pistola. Non riusciresti mai a
uccidermi, idiota. Dai dammela cacasotto.” Disse con una voce
mielata, falsa.
Avevo il dito fermo sul grilletto, ma la mano mi tremava. O morivo io,
o morivano loro.
“Dai, dammi quella cazzo di pistola! Tanto non hai le palle
per uccidermi, sei una fottuta bambina!”
Non riuscivo a muovermi. Dovevo, dovevo, dovevo farlo. Ma come potevo?
Non me lo chiesi. Ero troppo combattuta per formulare i pensieri
completamente.
Pensai agli occhi di mia madre. A quelli di mio padre.
“CAZZO UN GATTO!”urlò Wolf. Sparo.
“Dammi la pistola cretina, chi cazzo ti credi di essere,
eh?”
No. Non te la do la tua fottuta pistola.
Ora non so dire come feci. Ma riuscii a premere quel cavolo di
grilletto, e il colpo partì. Ebbi fortuna, perchè
andò dritto alla testa della donna. Altro colpo. La donna
cadde. Sentii un dolore profondo, come un urlo stridente che partiva
nel mio stomaco e mi saliva al cervello. Tremavo, ma ora sapevo che
potevo farcela. Oramai ero un’assassina. Il primo colpo, il
più difficile. La prima vittima, quella che non scordi mai.
E chissà perché, per me fu più che
veritiero.
Non sapevo cosa fare. E a un tratto lo seppi.
“L’HAI UCCISA JEN?”
Mi misi dietro la porta.
“JEN?”
Dei passi si avvicinarono lentamente. Aveva la guardia alzata. Per me
era un gran male. Ma poi vide il corpo della compagna.
“JEN! DOVE SEI TROIA? DOVE CAZZO SEI!”
urlò, lanciandosi sull’assassina e guardandosi
intorno.
“Dietro di te.” Furono le ultime parole che
sentì.
Ancora uno sparo profanò la casa.
E grazie a dio ci siamo tolti di mezzo la faccenda pietosa dei miei
genitori, perché non vedevo l’ora. È
per questo che è corta. Mi sembra ovvio il motivo per cui
non mi ci voglio di certo soffermare. Ripensandoci, spesso credo che
sarebbe stato meglio morire per me, che non tramutarmi in
un’assassina di punto in bianco. Come feci? Come potei
guardare una persona negli occhi e toglierle la vita? E in un secondo
ero già una esperta omicida. Infatti avevo teso la trappola
fatale al collega della bionda e paff, un’altra vita a cui la
fine era giunta troppo presto. E tutti i loro pensieri, le loro paure,
le loro piccole vittorie, le loro vite, per me non furono nulla. Come
potei? Dopo che successe, ero come in trance, agivo senza sapere di
farlo, come se una voce mi dicesse cosa fare e io non potessi
disubbidirle. Così ficcai un po’ di vestiti in una
borsa insieme con tutti i soldi che trovai, presi la mia chitarra
acustica e uscii di casa, chiudendomi la porta alle spalle e lasciando
la dentro tutto il mio passato. Si chiude una porta e si apre un
portone, no? Già, il portone di casa. Finii in strada e
cominciai a camminare senza meta per le larghe strade di Londra.
Passarono le ore, senza che io mi fermassi una sola volta. Ormai erano
circa le sei di sera e mi trovavo in centro, davanti al big ben. Alla
fine mi sedetti sul bordo del ponte a gambe incrociate e per un
po’ guardai la gente passare frettolosa, i turisti fare
fotografie, tutti ignari di me. Allora presi coscienza che per vivere
avrei dovuto suonare e cantare davanti a costoro, cosa che mai avevo
fatto. Presi però coraggio, estrassi la chitarra appoggiando
davanti a me la custodia aperta come avevo visto fare altrove e
cominciai ad accordare. Come diceva mia madre? Tira fuori la voce da
dentro lo stomaco, fa del tuo corpo una chitarra e la tua testa
sarà una cassa armonica, i tuoi pensieri saranno corde.
Che canzone potevo cantare per presentarmi a quel pubblico di ignoti,
di vite che non avevo il privilegio o la sfortuna di incontrare, ma
delle quali potevo cambiare un momento con la musica?
Pensai a uno dei miei libri preferiti, “qualcuno con cui
correre” e mi riconobbi nella protagonista. L’unica
differenza era che lei aveva uno scopo che l’aiutava ad
andare avanti, io avevo solo una gran dose di paura.
L chiuse il quaderno e mi guardò negli occhi. aspettai che
parlasse, come sapevo che avrebbe fatto.
E invece niente. Nulla. Nisba. Niet. Nada.
Silenzio. E quei giganteschi occhi da panda che mi fissavano
insistentemente.
“Sono stupito” ammise infine.
“Cosa? tu sei stupito?” gli chiesi incredulo, per
un momento dimentico della situazione.
“Si BB. Perché non dovrei? Non me lo aspettavo.
Tu?”
“No, neanche io. Credi che dovremmo dirlo a… agli
altri?”
“Non li chiami più amici, vero?”
“La verità è che non lo sono
più. Non fraintendermi, morirei per loro se dovessi,
ma… c’è qualcosa di troppo pesante che
non ci permette di frequentarci come allora.”
“Allora? Stai parlando di neanche un anno fa.”
“A volte mi sembra che sia passato molto più
tempo.”
“Perché allora fra di noi non è
cambiato nulla?”
“Fra di noi non è cambiato nulla? Pensaci un
momento L. Da quanto tempo non ridiamo? ”
Silenzio.
“Immagino che tu voglia lasciarmi, vero?”
“Cosa? ma che dici? Dopo tutto quello che abbiamo
passato!”
“Da come parli sembra che tu resti in questa casa solo
perché abbiamo vissuto un passato alquanto…
tormentato, insieme.”
“L piantala. Lo sai che non è
così.”
“Scusa, hai ragione.” Disse con uno sbuffo.
“Cosa? mi hai chiesto scusa? Tu? L, sicuro di sentirti bene?
Ti misuro la febbre?” esclamai con una risata.
Mi accennò un sorriso.
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Capitolo 3 *** Street ***
Era notte
fonda,
quando mi svegliai. L non era di fianco a me, come immaginavo: spesso
la notte
stava alzato a risolvere casi o più semplicemente a
strafogarsi di torte
intanto che io non lo trattenevo…
Soffriva di insonnia a differenza di me che, quando volevo, potevo
dormire per
ore senza che una bomba atomica potesse svegliarmi, tranquillo come un
bambino.
Mi venne in mente una volta che mi ero svegliato con gli occhi del
panda
davanti e mi aveva praticamente fatto venire un infarto. E come
risposta al mio
spavento lui si era messo a ridere. Alzai gli occhi al cielo al solo
ricordo ed
entrai nella cucina. Lo trovai seduto a tavola, con in mano una
generosa fetta
di torta alla panna e il quaderno di Mina davanti, chiuso.
“L?”
“Oh, BB, vedo che ti sei svegliato! Vuoi favorire della
torta?” mi domandò con
un piccolo sorriso.
“No grazie, non ho molta fame. che cosa stavi
facendo?” risposi, mentre lui si
mangiava un gigantesco boccone di torta, suo tipico.
“Mmf… niente di che. Mi chiedevo se fosse il caso
di leggere ancora un po’, ma
mi frenava il fatto che tu non ci fossi.”
“Ora ci sono, se lo desideri possiamo andare
avanti.”
“Cosa ne pensi di ciò che abbiamo letto
ieri?”
“Cosa ne dovrei pesare scusa?”
“No, niente. Qualche ragionamento sulla morte dei genitori?
Dopotutto non hai
ancora mantenuto fede alla tua promessa di raccontarmi tutto di te,
no?”
“L… vado in bagno un momento.”
“Bella scusa. Non ce n’è bisogno, quando
vorrò davvero saperlo, lo saprò.”
Sogghignai alla sua sicurezza, e mi sedetti di fianco a lui, per poi
avvicinare
il diario e aprirlo alla pagina alla quale eravamo
arrivati.
La scelta
cadde su una canzone chiamata Knockin'
On Heaven's Door
(http://www.youtube.com/watch?v=2tmc8rJgxUI)
Cominciai a fare i primi accordi, studiando ansiosamente la reazione
della
gente: alcuni mi lanciavano un’occhiata di sfuggita e
andavano avanti pur
riservandomi un piccolo sorriso, pochi si fermarono ad ascoltare, altri
ancora
parevano non accorgersi affatto di me.
Infine, decisi di immaginarmi di essere sola con il mio migliore amico
di
allora, un bassista pazzo e pieno di problemi che però
trovava sempre il tempo
di ascoltarmi cantare e di darmi consigli.
Lo pensai seduto davanti a me, a guardarmi con quell’aria a
metà fra la risata
e la critica a gambe incrociate, con il basso nero in braccio. E per
puro
miracolo, riuscii a estraniarmi da tutto ciò che mi
circondava e diedi il
massimo per quella proiezione della mia mente, pur così
familiare.
Quando ritornai alla realtà, alla fine della canzone, la
prima cosa che vidi,
fu la faccia di una signora che teneva il manico di un grazioso
passeggino che
mi sorrideva apertamente e maternamente. Intorno a me si era formato un
piccolo
capannello di gente e alcune monete erano cadute nella custodia della
chitarra:
la mia cena.
Mi sentii decisamente rincuorata e feci a quelle persone un gran
sorriso,
pensando alla canzone che avrei cantato per seconda. La scelta cadde su
una
canzone che mi era sempre piaciuta tantissimo: Suzanne, di Cohen.
(http://www.youtube.com/watch?v=otJY2HvW3Bw)
Quando intonai le prime parole, ero molto più rilassata di
pochi minuti prima.
Non pensavo più alla mattina di quel terribile giorno. Ne
pensavo al futuro che
si profilava stentato e pieno di orrore. Pensavo solo al presente. Quei
volti
attorno a me, che come una fragile campana di vetro mi proteggevano da
ciò che
c’era all’esterno, mi circondavano e mi facevano
sorridere fra le parole.
Alcuni, lo si vedeva negli occhi, erano persi nella melodia che forse
ricordava
loro qualcosa di lontano.
Finii anche quella canzone, ma non mi fermai. Cantai invece altre tre
canzoni
che piacquero al piccolo e variegato pubblico, tanto che quella sera a
cena mi
permisi una pizza con le olive e una lattina di coca cola.
Mentre, seduta su una panchina, mangiavo e bevevo, cominciò
a piovigginare e il
problema della notte si fece ancora più insistente nella mia
testa: dove avrei
dormito?
Vagai alla cieca per le strade, cambiando marciapiede appena vedevo
qualche
barbone. Vidi per la prima volta una prostituta, asiatica, che mi
squadrò
dall’alto al basso.
Alla fine mi rintanai in un vicolo, dietro e sotto alcune scatole da
fruttivendolo. Fu una notte orribile.
La mattina mi svegliai con la schiena a pezzi, la chitarra stretta fra
le
braccia, una fame lancinante e una puzza di vomito nel naso che
proveniva dal
fondo del vicolo. Mi alzai, guardandomi intorno, ma fortunatamente non
c’era
nessuno. Così mi misi la chitarra sulle spalle e ripresi a
camminare. In un bar
presi una brioche per fare colazione e la trovai stantia, ma la mangiai
lo
stesso. La fame però non si attenuò. Quanto
desideravo la colazione che
preparava di solito mia madre. Però mi impedivo di pensarci.
Non potevo
permettermelo. Così andai avanti a camminare, cercando di
capire in che zona di
Londra fossi e scoprii di essere a Brixton. Fui costretta dalle
circostanze a
prendere un biglietto per la metropolitana e mi ripromisi di stare
più attenta
a dove mi portavano i piedi. Tornai in centro e feci alcuni concerti in
giro
per la zona, guadagnando tanto da permettermi di prendere delle
economiche
caramelle per la gola. Evitai di guardare i giornali nelle edicole, per
paura
di leggere titoli sulla mia famiglia. E su di me. Avevo paura di me
stessa in
quel momento. Di quello che avevo fatto.
Camminai tantissimo per i miei standard, e capii che sarebbe stata la
mia
routine. Suonavo, suonavo e suonavo ancora. Ma ero sempre
più disperata. Le
facce della gente sembravano sempre meno calorose, nel fondo dei loro
occhi
leggevo sempre che erano tristi. Ed erano così anonimi,
certi. Ancora una volta
mi frenai poco prima di pensare al mio incerto futuro. I miei giorni in
strada
erano faticosi e lunghi. Mai prima di allora mi erano mancate le mie
amiche, la
scuola, i professori… la mia vita. Mi sentivo
così spaesata! Non riuscivo a pensare
che avrei dovuto vivere quella vita per sempre, e ogni mattina mi
svegliavo
sperando di essere nel mio vecchio e comodo letto. Ma scoprivo di
essere in
stazione, su una panchina, per terra. La mia vita fu terribile per poco
più di
un mese, poi, proprio quando stavo per cedere,
una nota di colore decise di venirmi incontro. Stavo
camminando in un
parco, in mezzo ai numerosi alberi, mangiando un panino al prosciutto,
quando a
un tratto scorsi un movimento. Era una donna, piegata in due vicino a
un albero,
che si guardava intorno guardinga. Mi nascosi per puro istinto e quando
mi
girai, la donna non c’era più. Incuriosita, mi
avvicinai all’albero dove
l’avevo vista. Più mi avvicinavo più mi
sembrava che qualcosa si muovesse sotto
l’erba alta. Infine, mi accucciai davanti all’erba
che si muoveva in modo
anomalo e la scostai d’un colpo. Immaginati, mio bel lettore,
che sorpresa
provai nel vedere un piccolo cucciolo di cane nero guardarmi con gli
occhietti
lucidi e le orecchie tese.
Avvicinai la mano al suo musino ed essa venne accuratamente analizzata
dal mio
nuovo amico che decise che ero una tipa di cui fidarsi e mi
leccò l’indice, per
poi lanciare una specie di guaito e rotolarmi incontro. Sorrisi e lo
presi in
braccio, guardandolo. Si vedeva che sarebbe diventato un cane grande,
aveva un
musino destinato a diventare lungo,
un
orecchio dritto come una puntina e l’altro piegato
comicamente.
“E tu chi sei?” gli chiesi con una carezza.
Insomma, finì che lo adottai. Ma cosa potevo fare, lasciarlo
in mezzo al parco?
Così gli diedi metà del panino, un nome e una
corda perché non finisse sotto
una macchina.
Lo chiamai Nacho dell’Orecchio e lo tenni con me ovunque
andavo. Avevo sempre
desiderato un cane, e ora, nel momento in cui ormai non ci pensavo da
molto
tempo, eccolo cadere fra le mie braccia!
Era un cucciolo intelligente e coraggioso, anche se n po’
imprudente. Pensava
che i miei capelli verdi fossero qualcosa di unico e passava
metà del suo tempo
a tentare di salirmi in testa i primi tempi. Poi vide un ragazzo coi
capelli
quasi dello stesso colore e la smise grazie a dio.
fu veramente una nota di felicità in quel periodo della mia
vita, uno dei
peggiori.
Ogni volta che vedeva le mie lacrime, mi saltava in braccio e mi si
stringeva
al petto. Ogni volta che avevo bisogno di parlare mi guardava dritto
negli
occhi e alzava l’altro orecchio. E ogni volta che vedeva un
mio sorriso
lanciava un versetto di gioia e faceva una giravolta. Passarono ancora
due
mesi. Non mi capacito del fatto di poter racchiudere quei giorni in una
frase
di sole quattro parole, così banali e semplici. Furono un
vero inferno infatti.
Ogni giorno era diversamente terribile e se non ci fosse stato quel
cane non
credo ceh l’avrei superato. Spesso, troppo spesso, guardavo
con una sorta di
melanconico desiderio le rotaie della metropolitana, ma non arrivai mai
a
toccarle.
Poi, per la terza volta, la mia vita cambiò. Stavo cantando
una canzone dei
Beatles quando vidi, insieme a una moneta da un dollaro nella mia
custodia
cadde un foglietto. Appena smisi di cantare, dopo aver messo via i
soldi, lo
raccolsi cautamente, chissà cosa mi aspettavo. Lessi, in una
frettolosa
calligrafia un indirizzo non molto lontano da li e una breve frase:
è un centro
di accoglienza per quelli di strada.
Mi stupii che qualcuno si fosse preoccupato per me e diffidai per
qualche
momento di quell’indirizzo. Ma poi, scrollando le spalle e
accartocciando il
foglietto, mi avviai in quella strada con Nacho al seguito.
Mi ritrovai in una via molto
dimessa e
un po’ cadente, davanti a un portone aperto che dava su uno
squallido cortile.
Mi feci coraggio ed entrai, facendo risuonare per la prima volta i miei
passi
in quel posto.
Ricordo distintamente che quel giorno pioveva ancora e più
che mai quella
mattina, avevo desiderato un letto in cui infilarmi, un tetto che mi
riparasse
la testa, uno scudo fra me e il mondo a cui ormai appartenevo.
Ero dunque fradicia quando entrai, accompagnata da Nacho
nell’ingresso
dell’edificio, oltre il cortile scarno e puzzolente.
L’atrio era vuoto e freddo,
ma vidi una rampa di scale di un bianco sporco e decisi di salire. Dopo
tutto
cos’avevo da perdere? A ogni gradino che facevo mi domandavo
se fosse prudente
continuare a salire. Alla mia destra, sul muro, c’era una
macchia rossa e
densa, che poteva essere sangue rappreso, e per terra, al quinto
gradino capii
il perché della puzza di vomito che avevo sentito poco
prima, vedendo una larga
macchia verde e liquida che mi affrettai a superare. Sembrava che quel
posto
non avesse mai visto un detersivo o un moccio.
Ma nonostante l’odore, continuai a salire. Arrivata al primo
pianerottolo,
sulla porta vidi una targa in finto ottone che diceva:
“Centro di accoglienza
per giovani di strada”.
Allora era vero, qualcuno si era preoccupato per me! Quasi non ci
credevo.
Cautamente, aprii la porta e vidi un ingresso con una minuscola
scrivania
sommersa di fogli e dietro di essi una donna bruna che lavorava. Appena
sentì
la porta aprirsi, alzò lo sguardo e mi rivolse un caldo
sorriso. Mi accorsi di
non riuscire a rispondere a quel gesto. Così rimasi ferma
sulla porta,
impassibile, con Nacho di fianco e la chitarra a tracolla insieme alla
borsa
con la cinghia allentata.
La donna bruna si alzò e mi si avvicinò
porgendomi la mano e presentandosi.
Disse di chiamarsi Katie e di essere una volontaria che lavorava li
qualche
giorno la settimana. Io le risposi stringendole la mano e accennando al
fatto
di chiamarmi Mina.
“Vuoi fermarti qui per un po’? basta che firmi li e
avrai una camera tutta per
te, la colazione e la cena ogni giorno. La domenica anche il pranzo! Ti
va
allora?” mi chiese con una gentilezza che avevo dimenticato.
Guardai un momento il mio cane, che annusava la ragazza tutto felice.
“Emm… ma se mai desidererò andarmene
potrò farlo senza vincoli, vero?” le chiesi,
pur pensando che avevo ben poche possibilità di trovare un
modo per uscire
dalla mia situazione.
“Certo che si! Puoi andartene quando vuoi se lo desideri!
Dunque, firmi?”
“Ok.” Risposi, prendendo la penna che mi porgeva e
mettendo la mia firma su un
foglio.
“Bene, ora se mi segui ti mostro la tua camera!”
esclamò la bruna soddisfatta
incamminandosi per il corridoio.
In quel momento decine di domande mi infestarono la testa. Stavo per
trovare
una casa? Stavo per cambiare vita? E come? Sarebbe stato bello? Sarebbe
stato
terrificante? Avrei incontrato qualcuno di simpatico? Mi sarei
emarginata?
Avrei fatto qualcosa nella mia vita? Quanto sarei rimasta li? Tutta la
vita?
Pochi giorni? Qualche mese? Avrei conosciuto qualcuno con cui suonare?
Avrei
vissuto male? Bene? Così e così?
Poi, la bruna aprì una porta e mi lasciò sola
davanti alla mia nuova camera.
alla mia nuova casa. Aveva le pareti completamente bianche e il
pavimento in
legno. Un letto rifatto stava a sinistra, contro il muro, e alla sua
destra
avevano messo una piccola scrivania e una sedia. Sull’altra
parete un armadio e
di fianco a me un paio di scaffali con qualche libro riposto. Non era
un
granché ripensandoci, ma a me sembrò un paradiso!
Una stanza tutta per me! Con
addirittura una serratura e una chiave! Fu allora che il corso di danza
diede i
suoi frutti e senza pensare cominciai a danzare per la stanza, con
Nacho che
saltellava intorno contento. Volteggiavo tra ciò che sarebbe
stata la casa dei
miei pensieri da quel giorno stesso, anzi già lo era! In
quel momento, da quel
momento, sarebbe stata la custode dei miei sogni, dei miei pianti,
delle mie
risa, dei miei ricordi, di tutta la mia esistenza, di me insomma! Ero
completamente estasiata da quelle quattro mura, soprattutto da quando,
avvicinandomi
ai libri avevo visto che il primo titolo era quello del mio libro
preferito:
Romeo e Giulietta! Un’ombra di familiarità
passò sul mio volto, mentre lo
prendevo e lo aprivo, trovavo la pagina che cercavo e cominciavo a
recitare.
Romeo, Romeo, perché tu sei Romeo?
…
Anche senza il suo nome, la rosa avrebbe il suo profumo e
così Romeo, anche
senza il suo nome, sarebbe caro com’è!
…
Non sei Romeo, uno dei Montecchi?
Ne l’uno ne l’altro se non ti è caro ne
l’uno ne l’altro!
…
Sono alti i muri del giardino e aspri da scalare!
Quanti ricordi riaffiorano in me solo a scriverle, queste parole! Mi
ricordo
che mentre recitavo mi sembrava di vedere i volti dei miei compagni di
teatro e
di sentire le loro voci! Ero così felice in quei momenti!
Dopo aver finito di
recitare mi buttai sul letto (e non ci fu modo di convincere Nacho che
non doveva
dormire insieme a me… ) e in poco tempo, sfinita, mi
addormentai così com’ero.
Chiudemmo
il
libro.
“Allora L, cosa ne pensi della nostra Mina?”
“Sapevo che nascondeva misteri, ma non sapevo che fossero di
questo genere.
Certo è che ne ha passate di belle e che sono molto
combattuto: da un lato sono
molto curioso di sapere tutto del suo passato,
dall’altro… ”
“Dall’altro?”
“Dall’altro diciamo che mi sento un po’
indiscreto. E non voglio prendere
questa questione in modo diverso da quello che è:
cioè una questione personale.
Ho paura di ricadere nel mio spirito investigativo e trattare la
faccenda
freddamente. Capisci quello che intendo? Ho paura di leggerlo come si
legge un libro.
Cosa dovrei fare?”
“L, se ti fai queste domande vuol dire che non lo stai
prendendo come un libro,
anzi il contrario.”
“Sai sempre cosa dirmi tu, vero?”
“Esattamente. Cos’ho da fare oggi?”
“Sei impegnati tutta la mattina.”
“Che felicità… ”
“Perché non ti piace il tuo lavoro?”
“Assai, ma quando a casa c’è qualcosa di
tanto gustoso…”
“Ti aspetterò per leggerlo, non ti
preoccupare…”
“Ma io non intendevo il diario, L.”
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Capitolo 4 *** Surreal Friend ***
Tornai a
casa per
cena, quel giorno. Entrato in casa, mi accorsi che c’era
qualcosa di strano: L
non era, come suo solito, al pc a risolvere casi. Questo
perché amando così
tanto il suo lavoro spesso non si accorgeva del tempo che passava e se non ci fossi stato io
a ricordagli di
mangiare non si sarebbe più staccato dalle sue elucubrazioni.
Vagamente preoccupato e incuriosito, mi diressi in sala, ma anche li,
non lo
trovai.
“L?” chiamai. Nessuno rispose.
Mi affacciai alla cucina e rimasi a bocca aperta.
La tavola di legno era stata coperta con una tovaglia a scacchi blu e
bianchi,
sopra la quale stavano portate di ogni ben di dio per due. Si passava
da un
leggero antipasto, al primo, a due secondi e infine alla frutta e i
dolci. Improvvisamente
mi accorsi di avere fame. All’improvviso L comparve, dalla
porta della
dispensa, con un grembiule un po’ sporco in mano e un timido
sorriso.
“L? tu hai fatto tutto questo?” gli chiesi stupito.
“Certo, non te l’aspettavi?”
“Sinceramente… no.”
“Beh, buon compleanno Beyond.” Ribatté
dolcemente, invitandomi a sedere.
“Compleanno? Oh, me lo ero totalmente dimenticato…
”
“Immaginavo. Comunque, si, oggi è il tuo
compleanno. Prego, accomodati.”
Fu una serata splendida e il suo regalo fu squisito. Dove aveva
imparato a
cucinare, poi, era un mistero.
Fatto sta che il mattino dopo arrivò un regalo dai nostri
amici per il mio
compleanno. Non me lo aspettavo e invece si erano uniti e mi avevano
regalato
una ironica fornitura di marmellata di fragole per tre anni.
naturalmente ero
in estasi.
“Allora, pensi ancora che non siamo più come
prima?” mi chiese L.
“Credo solo che siamo diversi, ma tutto
ciò… ”
Non seppi concludere la frase che sentivo solo come concetto astratto,
ma
scommetto che L capì. La giornata successiva, L mi aveva
garantito un giorno
libero da impegni e per la mattinata, decidemmo di andare avanti a
leggere il
diario di Mina, curiosi di sapere come fosse stato il suo passato.
Mi
svegliai alle prime luci del mattino e mi
alzai in fretta. Poi mi ricordai dov’ero e andai a cercare un
bagno con Nacho
che mi seguiva, facendo ticchettare le unghie sul pavimento. Vidi molte
altre
porte, ma tutte chiuse. Finalmente trovai il bagno, e per poco non mi
stupii
della sua pulizia: mi aspettavo uno schifo. Solo guardandomi allo
specchio mi
resi conto di quanto ero sporca e mi infilai subito in doccia. Ne uscii
appena
dieci minuti dopo e me ne ci vollero appena altri cinque per vestirmi e
andare
a fare colazione sempre col cane al seguito, ormai è inutile
dirlo. Trovai una
mensa alla fine del corridoio, composta da un lungo tavolo verde e una
serie di
sedie. Ma niente cibo. All’improvviso ricordai di aver visto
un foglio sulla
scrivania, magari diceva quando servivano la colazione. Così
mi fiondai in
camera mia e andai a vedere: avevo ragione: sul foglio erano scritte a
chiare
lettere tutte le regole da rispettare la dentro, inclusa quella che
diceva che
la colazione era servita dalle nove e mezza, alle dieci e mezza. E in
quel
momento sospettavo che fossero appena le sette di mattina. Andai dunque
a fare
due passi con Nacho, per rendermi conto di quale zona circondasse la
mia nuova
casa. Mi chiedevo spesso chi fosse stato a darmi
quell’indirizzo, visto che non
l’avevo neanche guardato in volto per un istante, troppo
concentrata a cantare.
Che faccia avrà avuto?, pensavo fra me e me richiamando
Nacho, allontanatosi
troppo. Cosa l’avrà mai spinto a farmi questo
favore?, continuavo, scusandomi
con un signore per essere stato investito da qualcosa di nero e
fulmineo.
Conclusi in fretta che era inutile stare troppo a preoccuparsi e
sgridando
severamente Nacho per aver inseguito un gatto randagio, decisi di
tornare a
casa. Casa. Che strano per me utilizzare di nuovo quel termine. Anche
solo nei
pensieri, sentivo una sorta di estraneità con quel vocabolo.
Cosa vuol dire alla fine casa? Vuol dire protezione? Vuol dire stare a
proprio
agio? O vuol dire solo “posto fisso dove stare”?
Non può essere la stessa cosa
con questa casa e con la mia casa passata, mi dicevo.
Salendo le lerce scale, canticchiavo una canzone dei Sonata Artica:
Shy. Mi era
piaciuta dal primo istante quella canzone. Ricordo che me
l’aveva fatta
ascoltare la mia più grande amica, chiedendomi di
cantargliela. E così l’avevo
imparata ed era per me stata una canzone piena di significato dal punto
di
vista dell’evoluzione della mia voce. entrai nella mia camera
e trovai ancora
una volta conforto nelle parole di Shakespeare, le quali mi fecero
davvero
sentire a casa. Allora forse una casa altro non è
che… familiarità assoluta con
il luogo in cui sei. È forse per questo che molti ragazzi,
conoscendo al meglio
una zona di Londra dicono “Questa zona è casa
mia”?
Per trovare ancora più conforto in quella camera che ad un
tratto non sentivo
mia in tutta se stessa (dal letto su cui ero seduta, alle crepe del
muro, alla
porta accostata, alla lampadina che penzolava sulla mia testa come una
pena
capitale), presi fra le braccia la mia chitarra e la accordai con
movimenti che
volevano essere calmi. Conoscevo quei tasti come le mie tasche ormai,
pensai.
Cominciai a fare qualche accordo, senza riuscire a decidere che canzone
suonare. Infine scelsi per un cantautore che avevo sempre amato:
Fabrizio de
André. Come
conoscevo un artista
italiano? Mia madre, alla quale ora con riluttanza pensavo, era
italiana e mi
aveva fatto crescere con questo sottofondo. Certo, non avevo molta
familiarità
con l’italiano, ma le parole di quelle canzone invece, mi
sembravano poesia più
che italiano, anche senza capire completamente il senso di queste.
http://www.youtube.com/watch?v=2kNwJX6E7pE
E naturalmente, appena potuto, per lei avevo imparato quella canzone di
Faber
che preferiva fra tutte. Non so se fosse per la musicalità,
per le parole o per
l’insieme. Ma che sorriso aveva, quando la cantavo!
Cantando, chiusi gli occhi istintivamente, per lasciarmi cullare dal
suono che
producevo e trovare in esso consolazione alla nostalgia che mi era
sovvenuta
come un pugno nello stomaco.
Erano tutti schierati davanti alle mie palpebre, neanche avessero
aspettato
quella canzone per comparire.
Mia madre, mio padre, le mie tre amiche, il mio amico con il suo
basso…
Li vedevo dentro la testa come immagini nitide e chiare, piene di
volontà.
Mi fermai di botto, decisa a continuare con la mia abnegazione alla
nostalgia,
così distruttiva per me, nella situazione in cui mi trovavo.
Ma mi accorsi che
era troppo tardi: avevo già cominciato a versare lacrime.
Mi misi la testa fra le mani tentando di non pensare ad altro che al
posto in
cui mi trovavo. Non al futuro, non al passato, ma al presente.
Assolutamente i
piedi a terra, mi dicevo. Ma non riuscivo a smettere di piangere, per
qualche
incantesimo dei miei purtroppo sdolcinati pensieri, che in quel momento
non mi
aiutavano affatto. Fu in quel momento che vidi i piedi di qualcuno
davanti alla
mia porta, attraverso i capelli verdi. Due anfibi graffiati e logori
con il
tacco ormai consumato per metà e dei pantaloni stracciati
sistemati alla
meglio.
Alzai la testa stupita e incontrai un paio di occhi scuri e un
caschetto di
capelli azzurri. Era una ragazza che avrà avuto la mia
età, forse un po’ più
piccola. Mi fissava con l’ombra di un sorriso sul volto.
“Chi sei?” le chiesi irritata con lei e con me. Ma
questo non sembrò
spaventarla, tutt’altro.
“Oh, ciao, io sono Amy!” esclamò
infatti, avvicinandosi a passi pensanti e
porgendomi la mano con un largo sorriso. Ma prima di stringergliela, le
chiesi
bruscamente cosa ci facesse in camera mia.
“Beh, avevo sentito qualcuno cantare in una lingua che non
conoscevo, ma mi
piaceva, così sono venuta a vedere. Scusami se ti ho
disturbato! Vuoi venire a
vedere la mia camera?”
“Emmm… certo.” Risposi: sembrava in
buona fede.
La seguii per il corridoio, fino a una delle tante porte, che
aprì come se
fosse l’entrata di un palazzo. Sembrava felice di
mostrarmela, quasi infantile.
In effetti guardandola bene mi accorsi che non poteva avere che dodici
anni
massimo. Com’era finita li?, mi chiesi, con un po’
di tristezza. Con un
larghissimo sorriso mi stava mostrando un letto a castello, una
scrivania e una
libreria.
“Guarda, questo è il mio preferito!”
esclamò contenta, porgendomi una vecchia
edizione di Jane Eyre.
“Davvero? L’hai trovato qua?”
“No… no, era di casa dello zio Tony.”
Disse con un’ombra sul viso, al ricordo
del passato.
Mi diedi della stupida almeno venti volte.
“Mi dispiace… come ti chiami?” le
chiesi, tentando di sviare l’argomento.
“Amy, te l’ho già detto, tu?”
rispose con un altro sorriso, apparentemente
dimentica della figuraccia che avevo fatto poco prima.
“Io… io mi chiamo Mina” dissi,
inventandomi un nome sul momento: non volevo
avere niente a che fare con il passato. Eh già amici, non
era il mio nome. Ma da
quel momento lo è stato, allo stesso modo che me
l’avessero dato alla nascita.
Come se quel nome stesse aspettando solo di venire fuori.
“Che bel nome Mina, io il mio l’ho sempre odiato.
Se invece avessi un nome
interessante come il tuo… ”
“E come vorresti chiamarti?”
“Suzanne mi piace molto! O se no Joanna! Tu non hai mai
voluto cambiare nome?”
“No, mai. Posso chiederti se sei in stanza con qualcuno?
È che vedo il letto a
castello.”
“Si, con me c’è mia sorella, Linda. Sai,
lei tenta di mantenere tutte e due, e
ora che siamo qui è possibile. Prima invece ogni tanto,
dovevo lavorare anche
io, sai? Non era per niente bello. Tu canti per vivere vero? Sei molto
fortunata a poterlo fare! Noi… noi non possiamo.”
“Si, io canto.” Risposi, senza chiederle nulla sul
lavoro che aveva dovuto fare,
avendo notato il suo tono melanconico.
Mi sorrise.
“Vuoi diventare mia amica?”
“Emmm… ci conosciamo da poco… comunque
va bene, se vuoi.”
“Che bello che ora siamo amiche! Suoni qualcosa per
me?”
“Ma…. Come? Cioè, cosa vuoi che ti
suoni?”
“La sai Across the universe? È dei
Beatles!”
“Si, la conosco. Aspetta che accordo la chitarra.”
Le dissi, chiedendomi cosa
mi avesse spinto a dirle di si. Provavo un istintivo senso di
protezione verso
quella ragazza, non poi così bambina, ma così
infantile.
Così cominciai gli accordi di quella canzone, spiandola. Lei
si limitò a
sedersi di fianco a me, sul letto e ad aspettare. I suoi grandi occhi
non
abbandonavano per un istante le mie dita, cosa che in effetti mi
metteva un po’
a disagio. Non sorrideva ora, ma aveva un’espressione
indecifrabile. Niente
solcava quel volto se non un pizzico di curiosità. Cantando
una delle canzoni
che mi stavano più a cuore, sentii gli occhi asciugarsi
definitivamente e
addirittura accennai un sorriso fra le parole, cosa che fece sorridere
anche
Amy. Poi smisi di lanciarle quelle sporadiche occhiatine e ricordo
distintamente che abbassai lo sguardo ai miei piedi, ovvero su Nacho,
che mi
guardava con occhi languidi e orecchie alzate. Tutte e due.
Passarono
alcuni giorni, durante i quali il
mio tenore di vita si alzò. Scoprii che volendo potevo
donare alcuni dei miei
pochi spiccioli alla casa, cosa che feci in simbolico risarcimento dei
pasti
che mi venivano offerti. Ogni mattino mi alzavo verso le nove, facevo
una bella
colazione a base di caffèlatte e bacon (eh,
l’Inghilterra…), uscivo e andavo a
cercarmi un posticino favorevole. Al che cominciavo a cantare. Cambiavo
un bel
po’ di posti al giorno e mettevo da parte tutti i soldi
possibili mangiando
tanto a colazione e a cena, così da poter saltare il pranzo
e poter risparmiare
qualche soldo. Non so cosa sperassi di fare con quei soldi. Amy mi
parlò poco,
dopo quella volta. Quel giorno, stavo ingurgitando una bella dose di
pasta al
pesto come cena, sempre più grata a quegli affettuosi
volontari che
dispensavano sorrisoni a tutti insieme a fumanti piatti di cibo.
Davanti a me
c’era un uomo sui vent’anni che mangiava con lo
sguardo basso e delle occhiaie
spaventose. Non parlava, come d’altra parte molti dei
miei… “compagni”.
Ma quella sera avevo voglia di attaccare discorso.
“Hei, io sono Mina, tu?” gli chiesi allora,
porgendogli la mano al di sopra del
tavolo.
Mano che egli non guardò neanche.
Un po’ irritata finii di mangiare e feci per tornare in
camera.
“Mina!” mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai e vidi un caschetto di capelli azzurri e due occhioni neri
che mi
guardavano un po’ più in la.
“Ciao Amy!” la salutai, avvicinandomi.
Mi sedetti di fianco a lei, non so come desiderosa di contatto con una
qualsiasi
persona. Di affetto forse…
“Come stai? È da un po’ che non ti sento
suonare!”
“Bene. Non sono spesso qua. Tu?”
“Oh, io sto molto bene! Cioè, abbastanza in
realtà! Ma non importa.”
“Come sta tua sorella?”
“Bene, bene. Sta facendo grandi incassi in questi
giorni.”
“Ah, bene, sono felice per te.”
“Dipende da che punto di vista la prendi. Comunque si, va
bene. Almeno possiamo
sopravvivere no?”
“Emm.. si.”
“Prima hai parlato a quel tipo, ho visto. Se vuoi ti dico chi
è.”
“Se vuoi…”
“Sai, in realtà è qui da molto tempo,
si dice. Era un grande avvocato, con
tanti soldi, uno di quelli messi proprio bene, sai? Ma poi ha
cominciato a
comprare la neve e ha sperperato tutto. Ora sta qua, guadagnandosi in
modi
infidi dei soldi che poi spende sempre e solo per la neve. E pensare
che
potrebbe essere ricco…”
La neve, mi chiesi, che cavolo è? Poi capii a cosa alludeva
Amy. La famosa
polverina bianca, no?
“Cosa? Davvero? Che idiota.”
“Già. Quando è entrato qua dentro, in
un momento di lucidità ha detto che
vorrebbe smettere ma non ci riesce.”
“Lo faccio smettere io.”
“Cosa?”
“Mi fa arrabbiare. Quindi lo farò smettere. Che lo
voglia o no.”
“Oh… ma sei sicura di farcela?”
“Tentar non nuoce, no?”
“Se la metti così…”
“La metto così.”
Aspettai che il tipo, che nella mia mente avevo chiamato Signor
Y, finisse di mangiare e vidi in che camera si rintanava.
La mattina dopo, piena di buoni propositi, uscii dalla mensa
e andai subito in camera del Signor Y.
Bussai sommessamente. Niente. Bussai più forte. Niente.
Aprii ed entrai. Lui
era seduto sul letto, fissava il pavimento e non pareva vedermi. Rimasi
ferma
ad osservarlo. Era un bel ragazzo, alto, spalle larghe, magro, capelli
bruni e
corti. Gli occhi non li vedevo.
“Chi sei” disse infine al pavimento.
“Sono una persona che ti può aiutare a
smettere.”
“Uh.”
“Vuoi?”
“Mh.”
“Cosa?”
“Vattene.”
“Quindi no?”
“Mh.”
“Beh non mi interessa. Da oggi non ti farai più.
Mai più.”
“Vattene idiota”
“No.”
Non mi spaventava il fatto che fosse più grande e
probabilmente più forte di
me, forse per incoscienza, forse per stupidità, forse senza
motivo. Ero una
sciocca allora.
“Vattene idiota.”
“No.”
“VATTENE!” sbottò
all’improvviso.
“No.”
“…”
“Dove tieni la roba?”
“…”
“Dove cazzo tieni la roba?”
“…”
“Ma mi senti?”
“Che cazzo vuoi?”
“La tua roba”
“Fottiti.”
“No grazie. Dov’è?”
“Ti fai?”
“No”
“E allora che te ne fotte?”
“Voglio che tu smetta.”
“Ma chi cazzo sei?”
“La tua coscienza.”
“Uau. Esci.”
“No.”
“Esci”
“No”
“Esci.”
“Dammi la tua roba.”
“ESCI CAZZO!”
“No.”
Sbuffò. Si
alzò e estrasse un sacchetto
dal cassetto. Me lo porse.
“Tutta.”
Si girò prese altri due sacchetti dal cassetto e me li diede.
Così
conobbi James, un uomo di 26 anni, un
avvocato, una speranza, ma soprattutto una persona che aveva bisogno di
aiuto.
Per prima cosa ricordo che buttai la roba trovata nel cestino
all’ingresso. Poi
tornai da lui e li rimasi per i seguenti sette giorni senza mai
uscire. Neanche una volta. Fu terribile. Aveva continue e profonde
crisi,
contrazioni dolori. Dormiva pochi minuti, poi si svegliava e vomitava.
Era un
incubo, ma avevo deciso una cosa, e quando decidevo una cosa nulla mi
persuadeva dal farla, come tu, caro lettore dovresti sapere. Ricordo
che Nacho
si accucciò di fianco alla porta e rimase li quasi sempre.
La porta chiusa a
chiave per tutto il giorno, tranne quando Amy portava i pasti a tutti e
tre.
Poi, il settimo giorno, finì. Fu un sollievo inimmaginabile
per tutti e due.
Non avevamo in mente altro che andarcene da quella stanza,
possibilmente per
sempre.
Così, insieme uscimmo. Non solo dalla stanza, ma
dall’edificio a respirare aria
che non fosse rarefatta e a riprenderci. Passarono i minuti. Io, con
Nacho
affianco, sedevo sul marciapiede e guardavo le nuvole simili alla
schiuma dello
spumante che mio padre apriva a capodanno. Sarebbe stato fiero di me?
No, mi
rispose subito. Non lo sarebbe stato per niente. E avevo ragione. Ero
un’assassina, mai nessuno ne sarebbe stato felice. Sapevo che
il fattaccio
probabilmente aveva riscosso i giornali, ma io li avevo evitati. Sapevo
che
avrebbero potuto scoprire la mai identità, ma non
l’avevano fatto. La mia vita
era un tutt’uno precario e instabile che dipendeva solo dal
fatto che era
passato tanto tempo e che l’uomo dimentica in fretta
ciò che non gli serve.
Contavo sul fatto che ciò che era accaduto fosse rapidamente
caduto nell’oblio,
anche se faceva male pensare ai miei amici, ai miei parenti, alla mia
vecchia
vita. Mi dicevo che tutti loro erano andati avanti come me e che ormai,
semplicemente, le nostre strade si erano divise. Evitavo di pensare che
in ciò
che vivevo non c’era nulla di semplice e scontato. Diciamo
che evitavo di
pensare alla mia vita in generale. Ero giunta a uno stato in cui mi
adattavo
semplicemente alle situazioni, senza chiedermi perché o
percome. L’uomo davanti
a me camminava in tondo, guardando ora il cielo, ora il marciapiede
pieno di
cicche di sigarette, spente da suole ignote in quella che sembrava
un’altra
dimensione del conscio.
Passò del tempo, non saprei dire quanto, finché
egli si girò verso di me con
uno sguardo strano.
“Grazie” mi disse con sincerità.
Mi stupì quel gesto, ma mi ci adattai. Come detto
poc’anzi non mi risultava
difficile farlo.
Comunque sia, rientrammo, ma poco prima di salire le luride scale,
l’uomo mi
guardò e mi disse:
“Grazie a te presto me ne andrò da qui.
Grazie.”
“Figurati.”
Per tutti e due, era evidente, la gentilezza, l’amicizia
erano cose insolite da
trattare, non vi eravamo abituati.
Rientrai in camera mia, avvertendo un’atmosfera leggermente
surreale. Mi
sentivo malinconica, ma al contempo soddisfatta. Non sapevo cosa fare,
ne come
farlo. così presi la mia chitarra e decisi di dedicare una
mezz’oretta a lei,
per poi uscire in strada a cantare e riprendere la routine.
Interrompemmo
la
lettura.
“Che forza.”
“Il diario?”
“Mina.”
“Matt quando arriva a Londra?”
“Domani sarà in quella casa.”
Con queste parole mi alzai per andare a cucinare qualcosa per il
pranzo, mentre
L mi guardava riflettendo pandosamente.
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