Chronicles Of This Time Imperfect.

di _neverdeen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dawn ***
Capitolo 2: *** How does it feel ***



Capitolo 1
*** Dawn ***


Chronicles Of This Time Imperfect.



Intro

C’è chi sfida il mondo, cerca l’inafferrabile, fugge dalle leggi della natura; chi, ormai fiacco, giace lì, tra i rottami; chi svanisce alla velocità della luce. C’è la fine, la notte.
Combattere è l’unica cosa che ci fa sentire vivi. La vita è complessa, riemerge dalle macerie.
E’ tempo di scelte, si torna alla realtà, mentre il vento soffia e spazza via le polveri. Aprite gli occhi, è l’alba.



CHAP 1: DAWN

Lo stelo del soffione che mi rigiravo tra i polpastrelli aveva sbiadito quasi tutto il suo colore. Dei pigmenti verdi era rimasto ben poco ormai ma i petali bianchi erano tutti al loro posto, come se il fiore fosse stato appena colto. Sembravano danzare al suono di quelle note dolci, timidi ma determinati a dare spettacolo di se. Intanto, il menestrello seduto sulle radici dell’albero suonava la sua  amabile melodia, lasciando che il suo cuore sereno parlasse di se attraverso il flauto. Anche la natura intorno era placida; sembrava stregata, catturata dalla dolcezza di quei suoni. I respiri del mondo suonavano all’unisono.  Da lontano, tamburi dissonanti, di tanto in tanto, disturbavano col loro suono sgradevole l’armonia dei suoni a valle. Erano tonfi secchi, troppo discontinui per considerarli tanto, ma che rompevano momentaneamente l’equilibrio del suono. Poi i botti sordi divennero sempre più forti, sempre più frequenti e ridondanti. L’intensità aumentava attimo dopo attimo, la musicalità scemava e il mondo sembrava avvertire l’ansia. Ad ogni colpo la melodia si interrompeva; il menestrello sembrava avere sempre meno fiato e tutta la valle cantava suoni scoordinati. Poi un unico, potente  botto alle mie spalle e il vento forte, burrascoso e caotico. In un attimo, il cantastorie svanì e la musica si calmò. Il vento aveva spezzato lo stelo fragile e i petali del soffione erano volati via, lontano nella tempesta. Solo allora aprii gli occhi.

Un fascio di luce mi aveva colpito gli occhi con la stessa inclemenza con cui i genitori ammoniscono i figli disobbedienti, senza che capissi bene da dove provenisse quel raggio.  Solitamente nessuno entrava nelle mie stanze, erano strettamente private, una sorta di nido, quel giorno invece, una donna dai capelli chiari mi scuoteva , lasciando che la luce entrasse dal corridoio piuttosto che dalla finestra ancora coperta dal tendaggio scuro. Lentamente la mia mente parve attivarsi e solo allora compresi che i tamburi del mio sogno altro non erano che i battiti incostanti della donna sulla spessa porta di legno. Doveva aver bussato per molto prima di chiedere alla guardia di sfondare la porta con quel tonfo sordo. Cercai di parlare, di chiedere spiegazioni e magari anche di polemizzare sulla brutalità del mio risveglio. Odiavo essere svegliata e ancora di più odiavo vedere estranei nell’unico posto che davvero era mio. Per un attimo, incrociai gli occhi della donna, accigliata e indurita dalle mie lente reazioni. Aveva i capelli legati in una coda scomposta e una ciocca le ricadeva sulla guancia destra; nonostante fosse mattino, almeno così pensavo, aveva già una aria stanca e spazientita. Le sue mani callose premevano sulla mia pelle nel tentativo di sbrogliarmi dal groviglio di coperte in cui mi ero avvolta, forse per impedire a quel sogno così placido di interrompersi. Intanto parlava, sembrava rimproverarmi per qualcosa che non capivo.

“Chi sei? E che ci fate voi nelle mie stanze?” Chiesi infine,spazientita. Quel brusco risveglio aveva intontito i miei sensi ma mi era bastato poco per recuperare il distacco e la lucidità. Ora ero io a guardarla con aria corrucciata, l’aria di chi sa di dover ricevere qualcosa, delle scuse almeno, dai due personaggi che avevano disturbato quella quiete.

“Ci scusi, signorina, abbiamo bussato ma non arrivava nessuna risposta dall’interno.” Si affrettò a rispondere la donna, con una voce particolarmente melodiosa e dimessa. “Suo padre mi ha chiesto di venire a chiamarla e di ricordarle che…” Sembrava in imbarazzo, quasi avesse paura di dirmi quello che doveva. Prese fiato e riprese con velocità.” Mi ha chiesto di ricordarle che il mondo non ha intenzione di aspettarla. Avrebbe dovuto raggiungerlo più di un’ora fa e che si aspettava un minimo di rispetto da lei.” Sapevo che il problema era lui, nessun altro avrebbe avuto modo di entrare in quell’ala degli alloggi, scortata da una guardia, senza il suo aiuto. Mi irritava il suo modo di fare, sempre così distaccato, sempre così burbero. Preferiva che tutti avessero un pezzetto del mio orgoglio piuttosto che affrontarmi.
“Capisco. Riferisci a mio padre che sarò da lui quando sarò pronta e solo ad allora.” Sapevo di colpirlo con quel modo di fare e non potevo farne a meno. Guardai la donna annuire e allontanarsi dopo un breve cenno del capo.

Appena la porta fu chiusa, mi alzai dal letto, sbadigliando. Ancora una volta avevano interrotto il mio sonno, spezzato il mio sogno e spaccato il dolce equilibrio delle mie giornate. E tutto a causa di mio padre e del suo stupido e integerrimo modo di fare. Quel fanatismo che detestavo e che l’avrebbe portato ad odiare il mondo e ad essere detestato a sua volta. A volte preferivo non essere mai tornata a Firestein, avrei preferito la vita solitaria, l’eremitaggio, piuttosto che la vita in quella gabbia dorata. Sospirai e andai a vestirmi. Nella cabina armadio giacevano gli abiti che avevano scelto per me, quelli che mi avrebbero resa “la rispettabile figlia di tuo padre”, un membro effettivo della società. Era un vestito beige ricco di ricami stoffa su stoffa, intricati disegni che incorniciavano tutto il petto e che morivano nella vistosa fascia blu zaffiro che mi cingeva la vita e ricadeva in un morbido fiocco. Mi acconciai i capelli in una crocchia delicata e osservai il mio riflesso allo specchio. Impeccabile, forse, se non fosse stato per quel sorriso polemico che mi ero stampata sul viso.
Ero tutto fuorché impeccabile, tutto tranne che perfetta. Quel sorriso non raggiungeva i miei occhi ghiacciati, non solo per loro naturale colore ma per il peso che mi portavo sullo stomaco;i capelli castani che di solito giacevano su un lato della mia spalla e che adesso erano perfettamente legati erano qualcosa che non mi rappresentava affatto e quel vestito era un abominio, come se il mio corpo fosse staccato da me e controllato dalla stoffa, che lo catturava e lo inglobava nella sua morbida pressa.  “Spero tu sia soddisfatto, anche stavolta, padre”.  Dissi allo specchio, poi mi girai ed uscii dalla stanza, pronta ad affrontare quella corte che mi aspettava impaziente mentre il sole raggiungeva la sua più alta posizione nel cielo.


 

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Capitolo 2
*** How does it feel ***


In primis, vorrei ringraziare tutti coloro che leggono le mie storie, senza risparmiarsi nel sostenermi sempre. Grazie.
Quanto ai nuovi capitoli, posterò al più presto del materiale che vi permetta di conoscere la mia ragazza. Presto avrete un quadro ben più chiaro,promesso.

    KeiViolet_


HOW DOES IT FEEL. 2CHAP.


Il corridoio del palazzo era lungo e sorvegliato da almeno una ventina di guardie, tutte pompose nella loro livrea, immobili se non per gli occhi che si muovevano rapidi da una parte all’altra, quasi fossero in ansia. Qualcuna abbassava lo sguardo su di me, distrattamente, senza però concedere ai miei occhi più di qualche secondo, prima di tornare a fissare il nulla o l’estremità buia del corridoio. C’erano poche lampade, la luce era soffusa e il corridoio sembrava piombare in una luce artificiale e sonnolenta intrappolata nella fredda e dura pietra delle pareti. I suoni erano amplificati, i passi echeggiavano un po’ ovunque, in altezza e in lunghezza, intrappolati nel masso.

Alla fine del corridoio, quando ormai le mie orecchie chiedevano silenzio e non rimbombi, una delle guardie, il vecchio con la barba bianca e i capelli che spuntavano a ciuffi dall’elmetto che portava in testa, mi scortò nella stanza in cui mio padre sbrigava i suoi affari. Quella deviazione non era prevista nei piani, avrei dovuto andare subito nella sala grande e non in quello stanzino di cui era tanto fiero. La vecchia guardia attese sulla soglia della porta ed io entrai. La stanza era come la ricordavo: rivestita di pesante stoffa rossa sembrava rimpicciolirti di fronte a quella scrivania ingombrata di carte, mappe, calamai e penne che non lasciavano nessuna parte del legno superiore visibile dal mio posto. Differentemente dal corridoio, la stanza era illuminata dal sole, le luci artificiali erano spente e le finestre aperte lasciavano filtrare l’aria. Contro il davanzale della finestra, spalle alla porta d’ingresso, mio padre osservava il cielo. Sentì i miei passi avvicinarsi attutiti dal tappeto e partì con la sua solita paternale, dandomi ancora le spalle.

“ Quand’è che crescerai, Nëya? Quand’è che smetterai di essere una bambina viziata e capirai di dover obbedire? Sono tuo padre, non osare mai più ridicolizzarmi in quel modo, sono stato chiaro?”

Cominciò molto aspramente. Il mio commento aveva colto nel segno, e lasciar trapelare che qualcuno potesse minare la sua autorità era a dir poco logorante per mio padre, nato per comandare e non per essere comandato, almeno così diceva. Piuttosto che sulle sue parole, mi concentrai sulle sue spalle, massicce e ben dritte, fasciate da una raffinata camicia rosso granata bloccata in vita da un cinturone da cui pendevano un mazzo di chiavi magistralmente incise ed una spada antica, dall’elsa levigata. Di quegli oggetti, molto più che di me, mio padre era fiero, molto fiero.

“ Pensi che sia uno scherzo?  Pensi che sia solo un gioco da cui puoi ritirarti o partecipare così, con superficialità? Smettila di comportarti da stupida e sii la degna figlia del comandante dell’esercito imperiale, Nëya. Sono stanco di dover rispondere delle tue stranezze, del tuo modo di vivere come se non facessi parte della comunità. Sei obbligata, ti ordino, di smetterla di essere una simile macchia sull’onore della nostra famiglia. Siamo fedeli da secoli e non sarà una ragazzina a mandare tutto all’aria.”
Man mano, la sua voce diventava sempre più alta e graffiante. Era frustante per lui avere me, l’unica che ancora era legata alla sua custodia, l’unico membro della sua amata stirpe, a disinteressarmi di tutto il suo mondo, di quello che lui rappresentava per la comunità. Ero l’errore. Qualcosa da dover piegare, cambiare, influenzare, così da non causargli più problemi. Né commenti malevoli da parte dei genitori dei figli più docili, né insinuazioni sulla sua fedeltà all’Impero a causa di una sciocca ragazzina, né il disprezzo delle popolazione per la mia esistenza scellerata. Avrebbe preferito combattere mille guerre che la battaglia con me.  Avrebbe volentieri adottato un figlio che riuscisse a rendere onore al suo nome piuttosto che difendere le mie azioni, giustificarsi e continuare ad andare avanti in quel modo.  Qualsiasi condizione pur di rendermi la figlia perfetta che non ero. Peccato che la trasmutazione non fosse ammessa e in nessun caso avrebbe eluso le regole della corona.
Lasciai che completasse il suo zelante soliloquio prima di respirare sonoramente, cercando di calmare i nervi e lasciar implodere la bolla di rabbia che stava per scoppiarmi in petto. Strinsi con tutta la mia forza lo schienale della poltrona  di legno che avevano posizionato sull’angolo destro del tappeto, osservando i tendini sottomessi alla pressione e allo sforzo.

“ Non mi interessa questa famiglia, non mi interessa l’onore di cui parli tanto. Non mi interessa questa comunità né i motivi per cui ti preoccupi tanto. Di qui cimeli, non so che farmene. Tu non vuoi una figlia, tu vuoi un soldato. Mi dispiace, padre, ma non ho intenzione di essere uno dei tuoi sottoposti. La tua vita, non  sarà la mia. E’ inutile, non mi interessa la gloria di cui tanto parli; non sono fatta per queste carte, per le supposizioni e gli intrighi. Non sono affascinata dalla vita a corte, dall’esistenza di rinunce e giuramenti che non valgono nulla. Non sono nata per rendere onore al tuo nome. Ma questo, pare che tu l’abbia dimenticato. Eppure, c’eri anche tu quando lei mi ha allevata.  Pensi ancora che il tuo ruolo sia più importante della mia indole, vero? Sai che non voglio e mi obbligherai a farlo, come quella volta che mi riportasti qui, quando la mamma morì. Perché non smetti di essere un comandante almeno per un momento e mi ascolti?”

Si voltò lentamente, tanto da sembrare muoversi al rallentatore. Il suo sguardo sbarrato conferiva al suo viso pallido un’espressione folle. Le mani tremavano e non osava avvicinarsi a me. Il suo sguardo chiaro intrecciò il mio per molti secondi poi, monocorde, mio padre sentenziò:

“ Sei stata richiamata all’ordine da sua Maestà, qualunque sia il compito che ti aspetti tu lo eseguirai con rigore, qualunque siano le conseguenze e le possibilità, sceglierai unicamente per la salvaguardia della comunità e del prestigio della nostra famiglia. L’impero ha bisogno di te, e tu dovrai dargli tutto quello che chiede. Non voglio sentire ragioni, ne’ commenti, nient’altro.  Questa è la tua unica possibilità di riscattarti.
Se l’Imperatore ha chiesto di te, vuol dire che c’è ancora una possibilità. Qualsiasi cosa sia, non fallire, altrimenti non ci sarà più posto per te. Obtempera, immine, vince. Ricordalo. Ora va. Ti aspettano nella sala del trono da parecchio, ormai.”

Senza aggiungere altro, gli voltai le spalle e uscii dalla stanza, chiudendo con uno schianto la porta alle mie spalle, non prima di averlo sentito mugugnare ancora quelle tre parole. Obtempera, immine, vince.

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