Irraggiungibili

di Ariana_Silente
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non sapevo chi fosse, ma lo conoscevo. ***
Capitolo 2: *** Prima e Dopo ***
Capitolo 3: *** Nessuna Importanza ***
Capitolo 4: *** Particolari ***



Capitolo 1
*** Non sapevo chi fosse, ma lo conoscevo. ***








Non sapevo chi fosse, ma lo conoscevo.

 

 

Com'è iniziata? Non lo so.

No, non è vero.

Lo ricordo benissimo, ricordo qualsiasi particolare, persino il più insignificante, anche se ho cercato di dimenticare, cancellare, eliminare... Ho tentato tutto, per evitare la sofferenza.
Ma ogni volta torno a dirmi che la tortura maggiore è fingere che non sia mai successo niente, ignorare il suo ricordo presente e costante in ogni mio pensiero e gesto, in ogni singolo respiro. Perché quel che sono ora, e ne vado orgogliosa, è grazie a quello che è successo, per merito suo.

 

***

Era stata una giornata come tutte, iniziata presto e finita tardi. Stavo passeggiando nel parco sotto casa per far sporcare il cane.
Era buio, le stelle che si vedevano fra le nuvole si contavano sulla punta delle dita di una mano, una brezza appena appena fredda soffiava, non pensavo a niente di particolare, se non a visualizzare mentalmente gli impegni del giorno dopo, quando il cane alza il muso e le orecchie, teso ad avvertirmi che qualcuno stava avanzando verso di noi.
Una figura nera, longilinea con un lungo cappotto, molto stile medioevale/fantasy, avanzava sicura e tranquilla sulla mia sinistra lungo il vialetto.
Di solito quando si passeggia, lo sguardo recepisce la presenza delle persone che ci sono attorno, ma nemmeno li guarda. Passa oltre, indifferente perché indifferente è la presenza di tale elemento.
Quella sera, invece, nonostante il buio e nonostante la normalità della situazione, i nostri sguardi si incrociarono.

Soltanto quello.

Si intrecciarono per quei brevi attimi che impiegammo a superarci, ognuno nella sua direzione opposta, per proseguire senza voltarci indietro nemmeno una volta.
Soltanto dopo qualche passo, mi accorsi del cuore che mi martellava nel petto, del mio viso in fiamme e del fatto che udivo chiaramente i suoi passi scricchiolanti sulla ghiaia, soffocati dal ritmo crescente del mio respiro affannato.
Feci ancora qualche passo e mi fermai, respirando l'aria fredda, cercando di calmare il cuore impazzito e continuando ad ascoltare i suoi passi. Stavo per voltare la testa, nella speranza di individuare almeno la sua sagoma nella notte ma il cane mi strattonò, rincorrendo forse qualche riccio preso nella ricerca del cibo. Imprecai un po' contro la mia piccola belva, ma quando cercai di rimettere ordine nei pensieri e nelle sensazioni, mi resi conto che l'incantesimo si era spezzato.
Non sentivo più nemmeno i suoi passi.
Non mi voltai, non lo cercai e finii il giro, tornando a casa.
Durante il giorno seguente la mia mente cancellò totalmente quella figura misteriosa, fui impegnata in tutte le mie attività, corsi alla mattina, pomeriggio alla stalla a pulire e a fare i miei test sul comportamento, poi finalmente a casa per sbrigare il lavoro con l'editor, e poi, alla fine di un'altra lunga giornata, premio del mio impegno e della mia costanza, la passeggiata della sera, a godere del fresco e del buio.
Passeggiavamo io e il cane lungo il vialetto in penombra.
Non pensavo a niente, il giorno dopo sarebbe stato sabato, avrei dovuto lavorare al negozio ma niente di che, non avrei dovuto partecipare a nessuna gara per l'arrivo in orario coi mezzi pubblici. Sarebbe stata una giornata tranquilla.
Ci incrociammo ancora, i nostri sguardi si salutarono un'altra volta, ci superammo più lentamente in quest'occasione come se volessimo accertarci di qualcosa che ci sfuggiva. Una volta che anche le nostre ombre si furono separate però tornammo a ignorarci.
Non successe null'altro quella sera né quella successiva.
Fu la terza che fece iniziare la mia grande storia.

D'altronde, tre è il numero perfetto.

Io e la belva camminavamo sulla ghiaia gelata, con poco entusiasmo.
Il cane abbaiò due volte, sollevai lo sguardo nella direzione in cui guardava.
Il tempo si fermò e mi giocò un brutto tiro: improvvisamente la figura misteriosa e longilinea, nera, ritornò ad occupare la mia mente, il cuore a battere forte e fui pienamente consapevole del suo sguardo. Il cane smise di abbaiare, mi si sedette accanto.

Rimanemmo fermi così un attimo o forse per sempre.
Ci osservammo, tacendo, soppesandoci.
Provai una sensazione strana.

Non lo stavo guardando. E nemmeno lui guardava me.

Ci stavamo vedendo.

Un giovane uomo, la corporatura alta e solida, le braccia rilassate lungo i fianchi erano muscolose, stava dritto, in piedi ad attendere. Lo sguardo era fiero e sicuro, una corta barba sul volto ovale che non copriva lo sfregio fresco sulla guancia destra, la fronte coperta dalla frangia sbieca e i capelli cadevano sulle spalle, indomiti. Bianche vesti coprivano il suo corpo sottolineando le sue forme ben disegnate.
Mi guardai attorno, consapevole di conoscere quel luogo e la persona che mi stava difronte. Non eravamo nel parco buio sotto casa, con la vegetazione silente e il raro passaggio di auto rumorose.  Attorno a lui c'era un'ampia terrazza di pietra, con una balaustra a impedire di cadere di sotto. 
Annuì soddisfatto, come se avesse ottenuto quanto voleva e fece un gesto di saluto con la mano.

Il cane si appoggiava su di me con le zampe anteriori, col naso cercava di attirare di nuovo la mia attenzione. Gli diedi uno sguardo frettoloso e una carezza sulla testa.
Mi affrettai a guardarmi attorno: l'uomo di nero vestito mi aveva superato e camminava tranquillo e sicuro lungo il vialetto, non riuscii a capire niente di quanto era successo. Sentivo il freddo della notte così come poco prima avevo percepito il tepore del sole primaverile sulla pelle.
Scossi la testa e mi sedetti sulla panchina fredda e brinata, il cane mi si mise sulle ginocchia e io continuai ad accarezzarlo, riflettendo.
Non sapevo dire cosa fosse successo. Cosa avessi visto.
Una cosa però mi era chiara.
Conoscevo quel ragazzo vestito di nero e dall'aura misteriosa.
Mi guardai attorno. Era buio e l'inverno ormai iniziato lasciava spogli gli alberi e i cespugli. Di quella grande dimora di pietra e della mitezza della giornata non era rimasto niente.
Era stato un de-ja-vu? Un flashback?
“Studiare fa male” scossi la testa, per cancellare le immagini luminose che avevo in mente.
Faceva freddo, tornai a casa col mio cane che mi trotterellava di fianco soddisfatto della scelta che avevo preso.
Il giorno dopo però fu difficile non pensare a quanto mi era successo.

Non sapevo chi fosse, ma lo conoscevo.



§§§§



Non lo so. ho avuto un flash di un attimo ed ho iniziato a scrivere, non so come e se proseguirà. Comunque, eccola qua.
Come ho già detto, il titolo è provvisorio, dipende da come si evolve la vicenda^^ anche se una mezza idea ce l'ho.
Grazie, per aver letto tutto, sin qua infondo.

 

AS

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Capitolo 2
*** Prima e Dopo ***





 Prima e Dopo

 A sera scesi di proposito prima col cane e iniziai a passeggiare, tenendo d'occhio quei pochi temerari che si affrettavano a raggiungere la loro destinazione e per far prima tagliavano nel parco altrimenti deserto.
 Lo percorsi due volte e più il tempo passava, più la parte razionale di me si inviperiva perché faceva freddo, perché stavo perdendo tempo e soprattutto perché avevo tutte le intenzioni di rincorrere una fantasia.
 Alla fine, ho desistito e sono tornata indietro, metà sconsolata metà irritata.
 Persa nel mio malumore, non mi accorsi della figura appoggiata al recinto dei cani desolatamente vuoto e stranamente nemmeno il cane mi avvertì della sua presenza.
 Me ne accorsi quando fu troppo tardi, anzi veramente non me ne accorsi proprio. Gli andai addosso senza nessuno scrupolo. Ed ero ancora così irritata che stavo per inveirgli contro, perché si era messo sulla mia traiettoria impunemente.
 Riempì i polmoni, ma quando alzai lo sguardo, l'aria rimase incastrata nei polmoni e si rifiutò di uscire a formare le parole che volevo sputare fuori, non di certo lusinghiere in quel momento.
 I nostri sguardi si incontrarono ancora e questa volta lui sorrise.
 Le sensazioni negative volarono via come tanti palloncini colorati e lo imitai, appoggiandomi al recinto di legno.
 «Credevi di non trovarmi?»
 «Iniziavo a crederlo» annuii, mentre il cane mi si intrufolava tra le gambe, come suo solito.
 «Sei scesa prima.»
 «Sei arrivato dopo.»
 Stavamo guardando il recinto con quei poveri e sparuti alberelli che si aggrappavano disperatamente al suolo, mentre il terreno gelava.
 Inconsapevolmente ci stringemmo l'uno all'altro per sentire un po' meno freddo.
 «Sei di queste parti?» anche se dentro di me già conoscevo la risposta.
 «Sono di tutte le parti e di nessun posto in particolare.»
 Ci guardammo un attimo, il sorriso che luccicava nei suoi occhi mi scaldò il cuore. Non so come, ma quelle parole mi diedero tranquillità.
 «Sempre di corsa, eh?»
 Quella domanda che mi riportava alla realtà fu un colpo che non riuscii a evitare del tutto.
 «Già, fin troppo forse. Ma sono contenta.» lo guardai bene.
 «Invece i tuoi viaggi?
 «Proseguono.»
 Mi passò una sua grande mano sulle spalle per scaldarmi, tremavo leggermente.
 «Torna a casa, ci incontreremo domani» lo guardai e un sorriso mi si dipinse sulle labbra.
 «Sarai di nuovo in ritardo? »
 «E tu sarai ancora in anticipo?»
 Ridacchiammo un po', anche se una parte di me si chiedeva cosa ci fosse di tanto divertente, eppure un profondo senso di divertimento e sollievo mi si sprigionava da dentro. Lui mi strinse a sé con un gesto gentile e mi posò un bacio sulla fronte.
 Non sapevo chi fosse, non conoscevo il suo nome e l'avevo visto solo tre o quattro volte per pochi minuti, eppure non mi suonò affatto strano essere avvolta dal suo abbraccio. Non mi diede da pensare, percepì solo serenità e soddisfazione in quell'abbraccio veloce e gentile.
 Il mio animo gioiva e io non feci altro che ascoltare quella gioia, sentendo un vulcano di energia scoppiettare a un'altezza imprecisata tra il cuore e i polmoni.
 «A domani» mi allontanai da lui lanciandogli qualche occhiata, come se una parte di me fosse ancora stupita e sorpresa di quanto fosse successo. Ma mi avviai a casa con la luminosa certezza che il giorno dopo ci saremmo incontrati di nuovo.
 L'indomani la mia vita prese a scorrere come sempre, nel pomeriggio ero alle stalle a lavorare con i somari, uno a uno li portavo nel recinto e facevo il mio lavoro per i dieci minuti necessari, segnavo sui miei fogli e via di seguito.
 Quando lavoravo con gli asini mi immergevo completamente in quell'attività e poche cose mi distraevano.
 Eppure mentre ero impegnata con la Dama, qualcosa mi distrasse, sentivo la nuca e la schiena scaldata da un fuoco caldo e appassionato. La bestia mi guardò, poi spostò lo sguardo oltre le mie spalle, le orecchie tese in avanti.
 Mi voltai e lo vidi.
 Era appoggiato al recinto, chiacchierava col proprietario.
 Andai verso di lui e l'asinella mi seguì, curiosa di conoscere la persona in grado di distrarmi dal nostro lavoro.
 «A che punto sei?» mi chiese il capo.
 «Ho ancora i monelli e devo fare il giro mangiatoia» avevo appoggiato la mano libera accanto alla sua mano, mentre Dama annusava il ragazzo vicino a me.
 «Finisci coi monelli poi puoi andare» lo guardai, poi lanciai un'occhiata al ragazzo, ma rimase silenzioso e tranquillo.
 «D'accordo, grazie.»
 Lo osservammo allontanarsi, mentre il mio amico accarezzava l'asinella.
 «Studi sul comportamento?» mi chiese senza smettere di grattare il muso all'animale. Annuii, accarezzandola anche io.
 «Si conoscono poco gli asini, io sto cercando di individuare indici di benessere che permettano di stabilire se l'animale sta bene.»
 «Non hai bisogno di studiare per capire se un animale sta male, puoi capirlo solo con un'occhiata» ci guardammo, aveva usato un tono deciso e convinto. E dentro di me sapevo che aveva ragione.
 «Non è sufficiente intuirlo. E comunque non lo faccio solo per me.»
 Lui sembrò soddisfatto della risposta e io tornai a lavorare con Dama. Finito con lei, la portai assieme al mio amico ai recinti con gli altri.
 «Chi sono i monelli?» gli sorrisi divertita. Fischiai un paio di volte e dopo cinque minuti apparvero i due puledri al piccolo trotto nati negli ultimi sei mesi. Erano vivaci e capricciosi e facevano più disastri loro che tutto il branco messo insieme.
 «Eccoli.» anche lui ridacchiò e si avvicinò ai puledri che si lasciarono accarezzare di buon grado. Presi una corda e accompagnai il più scuro dei due nel recinto, mentre il mio amico intratteneva l'altro. Feci quanto dovevo e poi li lasciai liberi di tornare a far disastri.
 Recuperai le mie cose e trascorremmo la giornata insieme. Parlammo di molte cose, come due amici di vecchia data che devono aggiornarsi su quanto successo nel periodo di separazione.
 Ma c'era qualcosa tra noi che non riuscivo a definire, ci univa senza bisogno di parole o spiegazioni.
 Trascorsero così le nostre ore e i nostri giorni. Ci raccontammo molte cose, mi aggiornò sul suo lavoro di restauratore che lo portava a girare per l'Italia e non solo, mi raccontò la mitologia greca e romana che incontrava sui mosaici rovinati dal tempo e dall'incuria, della maestria degli antichi pittori, dell'ottusità di alcune persone che preferivano perdere opere d'arte per un misero pugno di soldi.

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Capitolo 3
*** Nessuna Importanza ***


 



 Nessuna importanza

 Una sera lo raggiunsi alla palestra in cui si allenava e allenava i suoi allievi. Mi misi al bordo del tappeto ad ammirarlo.
 Per un po' fece finta di non accorgersi di me, ma percepivo gli sguardi furtivi che mi lanciava tra una mossa e l'altra, poi si mise in posizione di riposo e mi si inginocchiò difronte.
 Ci sorridemmo, notai che il suo respiro era regolare come se non avesse fatto alcuna sforzo fisico.
 «Come te la cavi con le arti marziali?»
 «Non me la cavo» il suo sguardo si rabbuiò e per un attimo mi soppesò. Mi tese la sua mano. Io lo scrutai, incerta. Allungai le mie dita sulla sua mano e lui le strinse con decisione.
 Mi sollevò e mi portò davanti a lui, in piedi.
 «Lascia che t'insegni» non ero sicura di volerlo fare, avevo già abbastanza impegni così senza aggiungere altro... ma nel suo sguardo lessi una cupa ansia, un timore antico e profondo che si rifletteva nell'espressione tesa e intensa del viso che alla fine annuii poco convinta un paio di volte.

 Mi sorrise, un sorriso da lupo.

 Così iniziammo il mio allenamento, non fu nulla di difficile all'inizio. Mi insegnò le basi, quella sera.
 A mano a mano che procedeva però ad insegnarmi le tecniche vi associava allenamenti di corsa, flessioni e piegamenti con programmi sempre più intensi.
 Nel giro di qualche mese mi portò a fronteggiarlo, a combattere con lui. Fu molto duro mi faceva pagare ogni errore con sedute di allenamenti inclementi.
 Accanto agli allenamenti però c'erano sempre le nostre passeggiate con il mio cane o da soli, mano nella mano.
 Eravamo sempre più legati, senza che me ne rendessi conto.
 Un giorno eravamo in un prato, all'ombra di un grande albero ombroso. Mi teneva abbracciata e io godevo di quel contatto così semplice e naturale.
 «Come ti chiami?» gli chiesi girandomi verso di lui. Mi accarezzò la guancia, sistemando dietro l'orecchio una ciocca di capelli.
 «Quanta importanza ha un nome?» appoggiò la sua fronte sulla mia, la brezza soffiò ad avvolgerci.
 «Nessuna...» sussurrai anche io, mentre sulle mie labbra fioriva un nome che fino all'attimo prima non sapevo, ma ora conoscevo.
 Ci guardammo e lui capii che sapevo, sorrise.
 «Ara» mormorò a fior di labbra.
 «Caylus» lo imitai, mi prese il volto tra le mani. «Ma il mio nome....» continuai, alcune lacrime si gonfiarono agli angoli dei miei occhi. Quello era il mio nome, lo riconoscevo, faceva parte di me. Ma oggi, in quel momento, nessuno mi conosceva con quel nome.
 Non ero Ara, lo ero stata ma solo in un tempo remoto: faceva malissimo quel nome, mi procurava un dolore atroce il suo suono, nonostante Caylus lo avesse sussurrato con dolcezza infinita.
 Anche i suoi occhi si riempirono di lacrime. Mi strinse a sé con delicatezza, lo sentivo tremare.
 «Non temere, Greta. È lo stesso, senti?» non mi lasciò andare finché non mi calmai.
 Ero di nuovo io, l'angoscia mi abbandonò.
 E sentivo ancora di appartenergli, nella stessa misura in cui lui apparteneva a me.
 Tornai a respirare normalmente, assaporando l'aroma che emanava il suo corpo. Sollevai il capo lentamente fino a incontrare le sue labbra, credo che capì quante domande mi si accavallassero nella mente. Scosse impercettibilmente il capo prima che mi appoggiassi alla sua bocca con la mia.
 Non so quanto tempo trascorremmo sotto quell'albero, tra cielo e terra. Quando ritornammo a interessarci del mondo esterno, il buio era sceso e le stelle brillavano numerose nel cielo.
 Dopo quello che successe sotto l'albero, fui presa da un'angoscia inspiegabile, profondamente legata a lui.
 Non lo cercai più ed evitai di scendere al parco nei miei soliti orari, cercando di immergermi il più possibile nella mia solida, confortante e conosciuta quotidianità. Lui non mi cercò né si fece vedere, sembrò che avesse capito che ero turbata e mi lasciò il tempo per riflettere.
 Passai molte sere, seduta sul letto a pensare.
 Pensai al legame che sentivo nei suoi confronti e iniziai a chiamarlo Claudio, Caylus mi rammentava troppo il nome di un gioco da tavolo, dentro di me, cercando di sgrovigliare i fili che si intrecciavano tra me e lui.
 Non avevamo avuto bisogno di chiederci di stare insieme, semplicemente lo eravamo, mi sentivo bene accanto a lui, mi sembrava di conoscerlo da sempre, leggevo i suoi pensieri attraverso il suo sguardo e lui sapeva fare altrettanto con me. Come era successo: non gli avevo chiesto di lasciarmi sola.
 E quel nome... Ara... mi creava veramente un atroce dolore, una sensazione fisica associata a sconfitta e impotenza, perché?
 Non era il mio nome, eppure... lo era stato, non riuscii a spiegarmelo. In una vita precedente forse... poteva essere una spiegazione, ma non credevo alla reincarnazione... non per questa situazione.
 Sbuffai e mi strofinai gli occhi, senza capire perché sentissi quel magone in gola, pensando a quel nome che Claudio aveva sussurrato a fior di labbra. Mi addormentai con un groviglio vorticante di pensieri in testa.
 Mi svegliai di soprassalto la mattina, ero sudata e affannata.
 I pensieri cupi mi misero di malumore e fu difficile affrontare la giornata, in molte occasioni alcune lacrime mi sfuggivano dagli occhi, senza che potessi spiegare il motivo.
 Nel pomeriggio cercai di liberarmi da quella cappa emotiva che mi impediva di concentrarmi e portai gli asini al recinto in cima alla collina e invece di tornare indietro, mi sedetti su un masso ad osservare l'allevamento stendersi sotto di me placido e sicuro.
 Rimasi così, facendo correre lo sguardo sulla terra, sugli edifici e poi sempre più su verso il cielo, alle nuvole bianche.
 Uno degli asini ragliò e io scossi la testa, lasciando da parte i pensieri.
 Udì chiaramente dei passi avanzare con cautela. Mi misi ad ascoltare e riconobbi a chi appartenevano.
 Penso si fosse fermato a qualche metro da me, attendendo che facessi in modo di fargli capire che poteva avvicinarsi.
 Ma non feci niente, rimasi immobile. Altre inspiegabili lacrime che non toccai mi piovvero sulle guance.
  Lui, esitante si fece avanti, un passo alla volta con gli sguardi degli asini puntati addosso. Lo sapevo, conoscevo i miei polli.
 Lo sentii incombere su di me, immaginai il vento accarezzargli i capelli lunghi e spostarli verso destra. Mi appoggiò una mano sulla spalla e a quel contatto insicuro ebbi un brivido, non spostò la mano.
 «Posso sedermi?» mi spostai di lato, quel tanto perché si potesse sedere. Non lo guardai.
 «Credo di doverti delle scuse» lo guardai asciugandomi le lacrime, lui fu attento a non toccarmi.
 «No» il suo sguardo si oscurò e fece per parlare, ma glielo impedii «No, penso piuttosto che tu mi debba delle spiegazioni» lessi il sollievo nel rilassamento dei muscoli del viso, ma tornai a fissare l'orizzonte. «Ho fatto un sogno.» sentii di poterne parlare finalmente proprio perché era lui, dovevo parlarne, non sarei riuscita a tenermelo dentro ancora. Le sue spiegazioni potevano attendere.
 «Raccontamelo, ti prego.» la sua voce tremò. Gli lanciai un'occhiata e allungai una mano per stringere la sua.
 «Non ricordo dove fossi. Eravamo prigionieri entrambi, ma non so di cosa. Ero Ara, Caylus. Ero schiava: non so di chi. Fuggimmo, nel mio sogno eri venuto a prendermi per salvarmi e scappammo, cercando un rifugio. Eravamo inseguiti da nemici pericolosi che promettevano di farci pentire di essere nati. Mi sono svegliata alla mattina con quest'angoscia di dover fuggire senza sapere se ci fosse stato un domani. Ricordo molto bene una cosa.» mi guardò con lacrime aggrovigliate alla barba di pochi giorni.
 «Cosa ricordi?» rimasi a fissarlo molto a lungo. Poi iniziai a sollevare la mano destra tremante, fino a sfioragli la barba, premetti le dita e cercai la pelle. Caylus rimase immobile mentre le mie dita incontrarono una piccola cicatrice.
 «Nel mio sogno...» una profonda commozione mi impastò la bocca.
 «Vai avanti» mi incoraggiò accarezzandomi la guancia a sua volta, senza nascondere le sue lacrime. «Era una sfregio grande, qui, proprio dove ho le dita... il simbolo di assassini e traditori» concludemmo insieme.
 «Cosa significa, Cla?» non sembrò stupito del modo in cui lo chiamai. Si scosse a disagio.
 «Non posso spiegartelo, ma posso mostrartelo... quello che ricordo» mi osservò.
 Era sincero, ma capivo che sarebbe stato un passo che mi avrebbe portato a scoprire cose che forse sarei stata più contenta a non sapere. Lasciava a me la scelta, non poteva impormi quella che sarebbe stata molto probabilmente un'esperienza infelice.
 «Capirò?»
 «Può darsi, ma se preferisce non...» scossi la testa: il sogno, il nome... Caylus... non potevo far finta di niente, c'era qualcosa che ci legava al di là del tempo e dell'età... dovevo capire. Scossi la testa con fermezza.
 «Mostrami quello che puoi» mi sorrise, mi prese il viso tra le mani e appoggiò la sua fronte alla mia.
 «Sei sempre stata coraggiosa» commentò, io sbuffai.
 «O forse solo molto incosciente» ridacchiò e mi baciò a lungo, poi smise e inspirò lentamente ed espirò allo stesso ritmo, io lo imitai....
 



 §§§

 
vi chiedo scusa per l'attesa, ma ancora di più per quella che, già lo so, dovrete sostenere per il prossimo (in cantiere) ma non so quando avrò tempo di continuarlo con le vacanze in arrivo^^

 spero che questo capitolo vi piaccia come i precedenti e spero non ci siano troppi errori.
 buone vacanze a tutti!!!



 AS

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Capitolo 4
*** Particolari ***





Particolari

 

Una bambina di una decina d'anni era accovacciata in un giardino rigoglioso e curato, con fiori appariscenti e variopinti, persa, sembrava, ad osservare il volo delle farfalle dalle grandi ali sbattute con eleganza e superbia. I colori erano tanto sgargianti quanto quelli dei fiori su cui si posavano.
Fu disturbata dal suono di passi sull'acciottolato e con l'espressione all'erta cercò con lo sguardo di chi fossero.
Un bambino con una casacca malconcia e delle braghe ridotte ancor peggio si stava avvicinando. Lei lo squadrò da capo a piedi, lui si fermò con sguardo interrogativo.
«Come ti chiami?» si decise a chiederle dopo un attimo. La piccola si prese qualche attimo per pensare.
«Non ha nessuna importanza, il nome, ma quello che sei» ribatté con tono distaccato, come le avevano insegnato, ma in realtà stava studiando con curiosità lo sconosciuto che aveva davanti.
«Sono il figlio di un mercante dell'est» si guardarono. Lei sembrò voler parlare, poi sembrò ripensarci, infine vinse la curiosità.
«Vieni dall'est? È vero che là ci sono elefanti selvaggi, come quelli che si vedono qui nei circhi, solo liberi?» gli si era avvicinata, ansiosa di conoscere la risposta. Il bambino sorrise e spostò il ciuffo ribelle dalla fronte.
«Sì, ma stanno nelle foreste. Io non li ho mai visti.»
«Oh, ma... è vero che sono feroci? Mi hanno detto che è per quello che li incatenano» insistette, lui scosse la testa.
«No! Stanno per i fatti loro se non li disturbi! Nei circhi li tengono così per evitare che scappino.» la sua risata genuina la colse impreparata e non seppe se imitarlo o meno.
«A me fanno paura... Sono così grandi e con quelle zanne...»
«Sono così grandi per non aver noia dagli altri animali e la proboscide così lunga serve per mangiare, lavarsi, giocare...Sono giganti buoni: non devi averne paura» le spiegò ancora. Lei gli sorrise timidamente.
«Ara!» una donna con una tunica da tutrice era comparsa all'ombra di un albero all'inizio del vialetto su cui erano i bambini.
La bambina trasalì e girò il capo, quindi si rivolse al suo interlocutore.
«Devo andare. Torna dai tuoi genitori, non puoi rimanere qui» e si affrettò a raggiungere la domestica, senza voltarsi indietro.
Ara seguì di buon grado la donna, sorbendosi con aria annoiata l'ennesimo rimprovero sul fatto che si fosse trovata esattamente dove non doveva, a perder tempo.
La bambina sembrava non dar molta retta alla voce irritata della donna che le parlava, ripensando alle parole del bambino di poco prima, ma la sua attenzione fu richiamata ben presto, quando fu menzionato il padre.
«Questa volta mi costringi a segnalare il tuo comportamento. Forse tuo padre sarà in grado di farti rigare dritto.»
Erano le parole che nessuno dei tre figli del Governatore voleva sentir pronunciare.
Il Governatore era un uomo severo e intransigente, innanzitutto con se stesso e a maggior ragione con gli altri.
Si era costruito la sua fortuna da solo, aveva iniziato da umile bracciante per arrivare a un passo dal potere supremo. All'infuori di lui, solo il Sovrano del regno vantava un potere maggiore, di cui era il braccio destro.
Aveva imposto una disciplina ferrea, quasi marziale, in casa propria.
I suoi figli gli dovevano obbedienza e ammirazione, una delle prime cose che era stata loro insegnata. Aveva anche imposto un'educazione intensa e precisa per i propri pargoli, da quella della mente a quella del corpo.
Ad Ara riuscivano difficili le ore in cui doveva rimanere ferma per ore a leggere e scrivere e poi a studiare, preferiva molto di più quelle in cui poteva correre e sfogarsi, rimanendo nei vasti prati e giardini della dimora signorile di suo padre.
Nei momenti di pausa si fermava ad osservare ciò che la circondava con un misto di curiosità e diffidenza, finché i fratelli più grandi non la coinvolgevano in qualche gioco.
«Mio padre? Che bisogno c'è di disturbarlo per una sciocchezza simile, signora maestra? Vi prego, stavo solo...»
«So distinguere da me una sciocchezza, Ara.»
Con grande disappunto della piccola, all'ombra del porticato era comparso suo padre. Una figura alta e imponente: aveva il viso rasato e pulito e i capelli brizzolati tenuti ordinati da una coda fissata dietro la nuca. I suoi occhi glaciali e duri fissavano la donna e la bambina.
La donna si irrigidì e fece un inchino, la bambina tacque all'improvviso e portò le braccia lungo i fianchi, facendo un passo all'indietro per stare all'ombra della tutrice.
Prima di abbassare il capo in segno di rispetto e sottomissione, la bambina riuscì a vedere al fianco del padre la figura elegante della madre e per un attimo sperò che il giudizio paterno potesse essere meno severo in sua presenza.
«Parlate, dunque» era molto simile a un ordine più che a un invito, quello che rivolse alla donna difronte a sé. Lei esitò un attimo, come a raccogliere le idee, poi parlò cauta.
«La bambina non era dove l'avevo lasciata, padrone, si è allontanata nel giardino.» Era una mezza verità, infondo non voleva che la bambina venisse punita, ma a quel punto non poteva nemmeno più tacere.
Ara trattenne il fiato e sbirciò in su verso il padre. La maestra la stava coprendo. Non si era semplicemente allontanata, era sgattaiolata nel giardino... poi era arrivato il ragazzino dell'est...
I genitori fecero qualche passo avanti, la moglie appena dietro al marito.
«Gli elefanti selvaggi sono liberi nell'est» le disse. La luce illuminò il visino della bambina.
«Sono così grandi per non doversi preoccupare degli altri animali e...» la sua voce entusiasta si spense all'improvviso e lo sconforto le fece arricciare le labbra. Guardò un attimo suo padre negli occhi che si erano chiusi come due fessure.
L'espressione dell'uomo si fece minacciosa, Ara tremò impercettibilmente.
«Vieni qui.» Quel tono non lasciava adito a proteste. La bambina deglutì e avanzò un passetto dopo l'altro con estenuante lentezza, ma il padre si dimostrò paziente.
«Ara Ruen, dov'eri?» Seppure l'uomo fosse immobile, Ara sapeva bene che era in arrivo uno scapaccione di quelli che lasciano il segno.
Non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, parlò con lo sguardo rivolto alle scarpette lucide anche se impolverate.
«Nel giardino, padre. Guardavo le farfalle» le sollevò il mento con due dita, la bambina era già pronta a ricevere lo schiaffo.
«Ti sei rivolta a uno sconosciuto» la delusione del padre era palpabile nell'aria.
«Padre, era un bambino come me..» se già la situazione non era delle migliori, quelle parole la fecero precipitare in maniera irreversibile.
Ara non si accorse nemmeno dei movimenti veloci che compì la mano di suo padre, ma il fuoco che provocò il contatto del manrovescio con le sue guance lo avvertì chiaramente. Furono tre schiaffi metallici che le ruppero il labbro inferiore.
Aveva detto le parole sbagliate.
Pochi potevano paragonarsi alla famiglia Ruen, per potenza, ricchezza ed influenza e il Governatore non sopportava che fossero fatti confronti tra sé e altri, lui che tanto aveva fatto per distinguersi, fino a diventare il braccio destro del Sovrano.
E non lo accettava men che meno dalla più giovane dei suoi figli.
Ara riprese a respirare dopo qualche attimo, sentendo colare sul mento una goccia di sangue tiepido e fastidioso, ma non osò versare nemmeno una lacrima, non era permesso.
«Chiedo perdono, padre. Non mi rivolgerò mai più a nessuno, non è degno della nostra illustre famiglia.»
Ara prese coraggio e fissò gli occhi lucidi in quelli del padre. L'ira non era svanita, ma le parole che aveva pronunciato dimostravano che aveva ben presente quale fosse la sua posizione e quali i suoi doveri, nonostante la giovane età.
L'uomo annuì, come rassicurato, le voltò le spalle, prese per mano la moglie e la condusse con sé. La signora non gettò nemmeno uno sguardo dietro le spalle per sincerarsi delle condizioni della figlia.
La volontà del Governatore era anche quella dalla Signora: Ara se ne rammaricò per l'ennesima volta.
La tutrice si avvicinò alla bambina e le mise dolcemente una mano sulla spalla, quindi con un fazzoletto che non rimase molto tempo candido, le tamponò il labbro.
Sospirò prima di mormorarle: «Mi dispiace, non immaginavo fosse nei paraggi.»
Ara la guardò.
«Non dispiacetevi per me. Toccherà una punizione anche a voi» un sorriso triste si dipinse sulle labbra gentili dell'altra.
«Sopravviverò, non preoccuparti.»
Un solo singhiozzo scosse allora la bambina che si fece guidare, desolata, in casa.

 

                                                                                                                                                           ҉        

 

Passò diverso tempo prima che Ara e il ragazzo dell'est si incontrassero di nuovo.
Trascorsero alcuni anni, i suoi fratelli vennero arruolati nell'esercito e poteva vederli solo nei periodi di congedo, coincidenti con le feste più importanti, un lusso che poche famiglie oltre a quella dei Ruen potevano vantare.
Ad Ara mancavano quei monelli che le facevano scoprire il mondo, mettendola alla prova in gare che non avrebbe mai potuto vincere.
Soprattutto le mancavano i programmi d'istruzione degli anni precedenti: almeno poteva correre e stare in giro per i prati per qualche ora, attualmente invece seguiva corsi di musica e di galateo che la facevano annoiare da morire e non le consentivano di vagabondare per la casa, se non in rare pause in cui veniva accompagnata nel giardino interno e più sorvegliato.
La sua anziana tutrice le rimaneva al fianco, contenendo la sua irrequietezza e rimarcando spesso quali fossero i limiti da non varcare e lei, con una malcelata irritazione, ritornava sui suoi passi.
«Non sei più una bambina, Ara. Certe mancanze non ti sono più concesse» le ripeteva instancabile.
«Perché invece non parliamo mai di quello che viene a mancare a me?» borbottava a mezza voce tutte le volte, facendo in modo che solo l'anziana potesse udirla, al ché la donna scrollava le spalle, spazientita.
In uno di quei pomeriggi in cui sedevano all'ombra delle betulle che suo padre aveva fatto crescere, una figura transitò accostato al muro candido difronte a loro, ma ciò che attirò l'attenzione della ragazza fu che non procedeva a testa china e con fare impaurito, come i servi di più basso rango come lui, a giudicare dalla divisa che indossava.
Avanzava senza far rumore, in modo da non disturbare le due, ma non si poteva scorgere il ben che minimo timore nel suo modo di fare.
Quando si accorse di essere osservato, osò alzare lo sguardo e incrociare quello di Ara.
La ragazza lo guardò scostarsi il ciuffo ribelle dalla fronte e quel gesto richiamò alla mente il bambino mal vestito che veniva dall'est e parlava di elefanti e soprattutto ricordò la goccia di sangue scivolare lungo il mento.
«Vi ricordavo più piccola» le disse, senza tentare di avvicinarsi. La tutrice si alzò minacciosa.
«Vattene immediatamente o chiamo le guardie.»
«Signora maestra, vi prego, sedete. Siamo soli e non stiamo facendo nulla di male» si decise a intervenire la ragazza, facendo sedere la donna più anziana. Quindi tornò ad occuparsi del ragazzo.
«Mi ricordo di te, ragazzo dell'est. Non ti dissi di tornare dai tuoi genitori?» lui annuì.
«Lo feci, ma per una serie di coincidenze ora servo i Ruen» le rispose schiettamente.
«Consideralo un grande onore. E ora va', qui non servi» e gli fece cenno di andare per la sua strada, cosa che fece senza ribattere.
La tutrice non attese che i passi scemassero sul lucido pavimento di mosaico, prese la ragazza per mano con impensabile decisione e la condusse con sé lontana dal giardino.
Una settimana più tardi, Ara leggeva comodamente adagiata su un'ampia poltrona di vimini in un angolo del solito giardino quadrato interno che era diventato l'unico punto della casa da cui potesse guardare una porzione di cielo più grande del rettangolo di una finestra. L'unica novità era che l'avevano lasciata da sola, la sua tutrice si era sentita poco bene, ma le guardie erano a portata d'orecchio, pronte a intervenire.
Aveva chiesto spesse volte perché mai col tempo le fosse stato impedito di uscire nei grandi giardini esterni, che ormai poteva visitare solo durante le grandi occasioni, mai da sola, ma ovviamente l'unica risposta che aveva ottenuto era la solita: così aveva disposto il Governatore, d'altra parte che cosa mai poteva mancarle?
Ma Ara sapeva bene cosa le mancava.
Le mancava la libertà di muoversi da sola, senza nessuno che le facesse ombra. Le mancava il tempo in cui poteva sgattaiolare liberamente e la punizione più temibile era uno scapaccione.
Alla sua età doveva pensare a contrarre un matrimonio che fosse utile alla famiglia e come le ripeteva frequentemente la madre, avrebbe dovuto rivedere il suo carattere perché una buona sposa non deve avere la risposta pronta su tutto e non contraddice in continuazione chicchessia, a maggior ragione il proprio marito.
Era la cosa che più l'angosciava.
A sua madre forse poteva andar bene, aveva trovato un uomo che la rispettava e a modo suo l'amava, ma nemmeno questo le bastava.
Il libro era stato abbandonato sulle ginocchia, mentre le passavano per la mente tutti questi pensieri, alcune pagine si erano piegate, con uno sbuffo le sistemò e chiuse il libro con un gesto secco.
Accarezzò con sguardo distratto le foglie verdi brillanti e i vari fiori ai piedi della sua poltrona, finché un'ombra oscurò il bianco di un giglio.
Ara alzò lo sguardo sorpresa, credeva di essere da sola, e si trovò davanti di nuovo il ragazzo dell'est.
«Chiedo scusa, ma ho visto che stavate osservando qualcosa e volevo vedere anch'io» le spiegò. Lei si guardò intorno.
«Fatti più lontano, servo» lui con un'ombra negli occhi fece un passo indietro.
«Se oserai avvicinarti ancora te ne farò pentire» lo minacciò, ma lui la fissò negli occhi e non sembrò nemmeno impensierito.
«Stavate guardando la margherita?» lei lo fissò con tanto d'occhi, chiedendosi cosa fosse.
«Credi che non ne sarei in grado?» lo apostrofò invece. Lui la fissò intensamente.
«Il tempo è passato, ma io vedo quella stessa bambina che chiedeva degli elefanti selvaggi» scosse le spalle. Lei gli lanciò un'occhiata, questa volta turbata, un'ombra era scesa sul suo volto e il ragazzo colse l'occasione per fare un passo avanti.
«Permette che vi mostri. Vedete, è questa più piccola, all'ombra del giglio» allungò una mano e scostò delicatamente il grande fiore per scoprire uno più piccolo e meno appariscente, alto pochi centimetri da terra.
Ara si stupì dei numerosi fiorellini e piccole piantine che crescevano appena sotto quelle che i giardinieri di suo padre si affannavano a curare tutti i giorni.
«Sono tutte piante infestanti, darò ordine di curare meglio queste aiuole» sentenziò decisa. «O forse sono solo altre piante e fiori che meritano un'occhiata» obiettò il ragazzo. Si guardarono, lui tranquillo, lei pensierosa.
«Ma sono così piccole che nemmeno si vedono...» iniziò Ara. «Sono i particolari a fare la differenza» concluse lui.
Le rivolse un cenno del capo e la lasciò a rimuginare.

 

҉

 

Ara non ebbe altre occasioni per rimanere nel giardino, i genitori presero a condurla con loro a ricevimenti e feste e fu quello il suo ingresso nella società che contava: nobili, principi, funzionari del Sovrano l'accolsero con distaccato interesse e a lei fu subito chiaro quello che passò per la mente di molti: era un partito molto interessante e proficuo ma anche molto oneroso, insomma un coltello a doppio taglio. Non ci mise molto ad odiare ogni singolo minuto trascorso accanto alla madre o sotto lo sguardo vigile del padre a far la conoscenza di giovani e meno giovani che non si interessavano ad Ara, ma valutavano quanto fossero disposti a rischiare per vantare un legame tanto stretto con Loky Ruen, Governatore e consigliere reale.
Di contro ebbe molto tempo per riflettere sulle parole di quel ragazzo che sembrava insofferente alle leggi di suo padre.
Ara chiese notizie di quel giovane cui venivano affidati i compiti più pesanti e ingrati. Eppure li faceva senza troppo lamentarsi e soprattutto non mostrando mai timore o reverenza.
Venne a sapere che proprio per il suo comportamento più volte si era buscato delle sonore legnate, ma non aveva mai smesso di mostrarsi tranquillo e a suo agio e, soprattutto con la lingua lunga, troppo lunga per un servo del suo rango.
«Se continua così non se la passerà bene» le aveva detto il responsabile della servitù una sera, sdegnoso.
Le parole che la costrinsero a riflettere furono quelle della sua tutrice, che col tempo era diventata non solo maestra, ma amica e confidente.
«Fai domande che non devi fare e ti interessi di cose che non ti riguardano, Ara. Ti avverto, la curiosità uccise il ratto» le disse l'anziana tutrice una sera, accanto al camino della sua stanza, mentre leggeva un libro. Ara sollevò gli occhi dalle righe d'inchiostro, sorpresa.
«Ho soltanto chiesto informazioni sul personale che lavora in casa mia» rispose con tono leggero.
«Prego che sia così.» ribatté la donna, senza alzare lo sguardo dal lavoro a maglia che le occupavano le mani rapide sugli aghi.
Sembrò non accorgersi del lungo sguardo che la ragazza non distolse per parecchi minuti.
Qualche giorno più tardi, Ara stava percorrendo un lato del giardino interno per raggiungere la sala di musica e se lo vide venire incontro zoppicando.
La sua espressione da annoiata si fece seria.
«Che cos'è successo?» gli chiese avvicinandosi cauta.
«Da quando ti rivolgi a un ignobile servo?» le rispose in malo modo, come mai aveva fatto, senza usare il plurale.
Lei tentennò un attimo.
Se qualcuno fosse venuto a saperlo... si lanciò un'occhiata dietro le spalle, poi tornò a guardare il ragazzo ingobbito e il pensiero di quello che sarebbe potuto succedere l'abbandonò. Quel ragazzo aveva qualcosa che la colpiva e le spiaceva che soffrisse.
«Da quando il tempo è trascorso, eppure io vedo ancora quel bambino dell'est che raccontava di elefanti selvaggi» si guardarono e lui sbuffò, scuotendo la testa.
«Scusa è che...»
«Ho sentito che ne prendi parecchie» gli disse avvicinandosi ancora e tendendogli la mano, come a volerlo aiutare. Lui la guardò, poi esitante l'afferrò e si fece sostenere almeno un attimo.
«Vorrebbero vedermi impaurito e umiliato, ma non gli darò mai la soddisfazione» le confidò con tono di sfida all'orecchio. Lei lo squadrò, sulla schiena c'erano segni verticali e scuri. Si fece cupa in viso.
«Mio padre non cambierà la sua politica. Se non ti pieghi, morirai. Qui tutti dobbiamo sottostare alle sue leggi. Anche se non era mai arrivato a... questo» e lo indicò turbata.
Suo padre era facile alla collera e molto spesso puniva pesantemente chi sbagliava, ma mai aveva sentito che avesse permesso una punizione fisica.
«Non temere, mi riprenderò presto.»
 «L'unica cosa che riprenderai presto saranno le botte, se continui così» cercò di insistere.
«Sono quello che sono e per questo non mi piegherò» ribatté con caparbia veemenza.
Lei sospirò.
Doveva ammettere che ammirava quella determinazione e quel coraggio... lei poteva forse dire di esserlo altrettanto?
«Fatti trovare su alla vecchia torre, vedrò di fare qualcosa per queste ferite.... la conosci?» decise alla fine e si guardarono ancora, l'espressione del ragazzo era tesa e affaticata, ma nei suoi occhi limpidi si poteva leggere sorpresa.
«Ne ho bisogno, perciò non ti chiederò se hai pensato ai rischi... preferisci sotto la feritoia o accanto ai nidi dei colombi?» si scambiarono sguardi eloquenti, la ragazza sorrise.
«Particolari, Caylus» il ragazzo la guardò allontanarsi a bocca aperta.
Lei corse via, cercando una scusa plausibile per il ritardo.

Eppure, dopo tanto tempo, sorrideva.

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