F r a m m e n t i

di Kodamy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [Act 1.] Genesis: to wither away. ***
Capitolo 2: *** [Act 2.] Stillborn: Like God, arms thrown around the sky. ***
Capitolo 3: *** [Act 3.] Mother: can you hide your child from the waiting world? ***
Capitolo 4: *** [Act. 4] Name. Why wouldst thou be a breeder of sinners? ***



Capitolo 1
*** [Act 1.] Genesis: to wither away. ***


F r a m m e n t i

A/N: Non si tratta che di un piccolo prologo alle oneshot che seguiranno. Sono nuova di questo fandom, e si tratta di una piccola prova. Spero gradirete. (Essendo una sperimentazione, va da sè che i commenti sono altamente graditi. Sia in positivo che in negativo.)

 

SPOILER PER L’ANIME, EPISODIO 50.

 


 

 

F r a m m e n t i

                                  

Act 1.
Genesis.

To wither away.

 

 

La penna ferisce più della spada, e la carta è sicuramente più interessante della carne.
E, da un punto di vista puramente obiettivo, l’inchiostro è addirittura più bello del sangue.


Da un punto di vista soggettivo, per Lui era anche più bello dello stesso sangue del suo sangue.

    Non va bene. No, no.

 

    Quand’è che hai cominciato a pensare così, caro?


    Quand’è che ti ho perso, mh?


    Non me ne sono accorta, nonono, davvero.

 
    Non me ne sono accorta, caro.


    Mi perdoni?

 

    Mi perdonerai.

 

    Lo fai sempre, caro.

 

Mentre pensava questo, la giornata era afosa ed immobile, statica.

I capelli scuri della donna erano raccolti impeccabilmente in un nodo alla base del collo, a salvarla dalla cappa di caldo. Gli occhi chiari spaziavano annoiati sul paesaggio che il ritaglio di vetro della finestra le offriva.

 

Dalla finestra all’anello con la pietra rossa. Rosso fuoco, rosso tramonto, rosso sangue.

Suo marito non le faceva più regali da tanto, ormai.

La carta dei libri era molto più attraente di lei, l’inchiostro dei suoi appunti molto più importante del sangue del suo sangue che, in una camera del piano superiore, lentamente si spegneva.

 

E rantolava. Si, rantolava.

 

Oh, già.

 

Quasi essendosi ricordata solo in quel momento di quel qualcuno che moriva, lassù, la donna lasciò sfuggire un sospiro di stizza. Amava molto suo figlio, lo amava davvero, ma era arrivata al punto di sopportazione.

 

Era un figlio terribile, terribile.

Ora, con la consapevolezza della vita che gli scivolava via tra le dita, era – se possibile – peggiorato.
Si lamentava, richiedeva attenzioni, richiedeva cibo, acqua, libri per passare il tempo, compagnia, perché non gli andava giù l’idea di morire da solo.

 

Quando lei era lì, lui mormorava parole perfettamente sensate se prese singolarmente, ma che prese nell’insieme non avevano alcun senso. Le causava il più delle volte un’emicrania invidiabile.

 

Che la morte se lo prenda, una volta per tutte. Prima, dopo. Non la chiamerei neanche vita, la sua.

 

Nessuna madre vuole vedere soffrire i suoi bambini – si ripeteva lei, giustificando così quei pensieri poco consoni. Inoltre, non era affatto di buonumore, perché era l’unica disposta a fare compagnia al povero, piccolo moribondo.

 
Sempre lei, perché suo marito aveva sempre di meglio da fare.

 

Suo figlio non sembrava apprezzare particolarmente, tuttavia, dato che la prima domanda che le poneva, con un filo di voce debole, patetico e deluso, era sempre la stessa.

 

Dov’è lui?”

 

La stanza era in penombra, i raggi di sole illuminavano la polvere che, indisturbata, aleggiava nell’aria. Il letto era sfatto, le coperte avvolte attorno all’ombra di quello che un tempo era stato suo figlio.

 

Era stato un ragazzo agile e prestante, un tempo, ma il viso sul cuscino era un viso consumato.

 

Ah, stupida candela consumata. Ma spegniti. Spegniti, spegniti, una buona volta!

 

“Lo sai che è impegnato con le sue ricerche, Edward.

 

Detto questo, Dante sorrise con quel sorriso che sapeva di scusa, chiudendo la porta alle sue spalle.

 

 

Dapprima, si era trattato semplicemente di stanchezza. Quella che aveva scambiato per pigrizia, quando senza rendersene conto rimaneva a letto per un giorno intero, incapace di razionalizzare un pensiero coerente, capace solo di star lì e dormire, riposare, o fluttuare in un più semplice dormiveglia.

 

Incapace di capire ogni discorso che la madre tentava di spiegargli, incapace di afferrare ogni lezione alchemica che la madre tentava di insegnargli.
Sua madre pensava che semplicemente non avesse voglia di ascoltarla, ma lui non la capiva.
Non la capiva affatto.


Mormorava qualcosa, per rispondere a quelle accuse.


Lei non capiva.


I libri finivano per terra, in uno scatto d’ira completamente ingiustificato del ragazzo, che gridava che era lei, la stupida. Le parole si perdevano nel rumore di cocci di vetro infranti sul pavimento.

 

Aveva cominciato a non alzarsi più dal letto, lamentando atroci mal di testa.
Sua madre diceva di ‘piantarla di cercare di attirare l’attenzione di suo padre, perché apparentemente suo padre era al di sopra di certe strategie, e aveva di meglio da fare’.

 

Non trovando la forza di lanciarle contro uno dei libri che adornavano il comodino, si limitava a risponderle causticamente, aspramente, maleducatamente.

Restavano in silenzio, e le palpebre pesanti calavano sugli occhi stanchi. Per qualche minuto, tremavano.
Mormorava qualcosa, ancora, per poi apparentemente non ricordare più nulla.

E domandare quindi di nuovo perché lui non era lì, mai, mai, mai.

 

Sua madre passava una mano magra fra i mossi capelli biondi, disordinati.

 

“Ha da fare, Edward.”

 

Ma lui non rispondeva, sguardo vacuo negli occhi d’ambra, occhiaie vistose sulla pelle un tempo abbronzata.

 

 

Dante sapeva perfettamente il motivo del malessere incurabile di suo figlio, poiché dopo aver fatto adeguate ricerche sui libri di suo marito – in uno di quei giorni in cui non aveva nulla da fare, e la vita sembrava più lunga dell’eternità che si era concessa – era stata lei a causarlo.
I sintomi, dalla stanchezza ai discorsi confusi, dall’umore instabile all’insonnia, dall’emicrania al viso arrossato dalla febbre saltuaria, coincidevano tutti sotto un’unica voce: intossicazione da mercurio.

 

Hohemheim avrebbe pensato probabilmente che, ancora una volta, Edward avesse messo le mani fra le sue cose quando non avrebbe dovuto.

 

Tuttavia, Hohemheim non aveva pensato assolutamente a nulla. Non aveva notato quelle gocce di mercurio mancanti alla sua collezione, non aveva mostrato alcun interesse per la malattia del figlio.

Il Peccato di cui si era macchiata Dante non era servito a un granché, dato che Edward stava morendo per niente.

 

Quindi la donna si limitava a sbuffare, sbuffare, sbuffare e sorridere, ascoltare quella voce pateticamente debole, e pregare quel dio in cui non aveva mai creduto di portarselo con sé.

 

Voleva che Hohemheim tornasse a dedicare loro attenzione. Voleva gli occhi di suo marito solo per loro.

Ma
la realtà era cruda, e diversa. Ironicamente diversa.

 

Mi hai sussurrato dolci parole, caro. Dolci parole d’amore solo per me, di notte, nella città fantasma…

Fantasma e vuota, tutta per noi. Tu ed io, re e regina dell’eternità. Era il mio sogno d’amore.

 

Immortali, noi, uno al fianco dell’altra, per sempre, caro. Era la nostra promessa d’amore.

 

Voglio sentire il calore del tuo corpo, ma il nostro letto è sempre vuoto.

 

Edward era il frutto di un amore che si era spento.


Per quel che la riguardava, sarebbe stato molto meglio se si fosse spento anche lui.

 

 

Per Hohemheim, Edward non era mai stato un granché interessante.


Quando suo figlio era piccolo, era stato troppo piccolo per attirare la sua attenzione, ed oltretutto i bambini non gli erano mai piaciuti. Non gli piaceva il modo in cui Dante si perdeva in quei piccoli giochi di mamma, entusiasta mentre emetteva quei gridolini infantili, che non significavano nulla. Il bambino rideva di lei, ma lei non capiva.

Lei era una mamma, lei era una donna che aveva appena creato la vita.

 

Crescerà stupido, se Dante continua così.           

 

Sua moglie continuò così, e l’uomo non esitò a darle la colpa quando si accorse che suo figlio non era particolarmente brillante genericamente parlando, e non aveva un particolare talento neanche per l’alchimia.

 

Hohemheim aveva sperato di trovare in lui un valido aiuto nelle sue ricerche, che negli ultimi periodi erano divenute sempre più impegnative. Dante era una donna avida, seppur dannatamente affascinante – un’eterna primadonna, una donna che gli aveva strappato il cuore, e lo aveva tenuto per sé – interessata ormai esclusivamente alla pietra filosofale, alla vita eterna e a quelle tipiche e frivole faccende da donne.

 

Hohemheim era salito su un altro livello, ormai. Hohemheim voleva creare la vita.


Dante non poteva capire.

 

Per Hohemheim, suo figlio Edward non era mai stato un granché interessante.

Finchè un giorno – con grande sollievo di sua moglie – era morto.

 

 

“Caro…?”

 

L’uomo sollevò lo sguardo d’ambra, spostandolo sull’uscio semiaperto da cui erano entrate Dante e la luce del giorno. Sua moglie non rispose, limitandosi a guardare il pavimento.

 

“Si?”

 

“Edward, lui… Il medico…” La vide mordersi il labbro, scostare lo sguardo d’un lato. Lui batté ciglio, schiudendo le labbra per incalzarla. Ma Dante si era già gettata contro di lui, cingendogli il collo e le spalle in una stretta disperata.

Una sola lacrima rigava il volto di sua moglie, ed Hohemheim pensò che, in fondo, era più bella quando piangeva.


Perché sembrava umana.

 

“Nostro figlio…” sussurrò lei, serrando le labbra in una linea pallida, nascondendo il viso allo sguardo di lui.

 

(Primadonna.)

 

Lui rimase immobile, passando di tanto in tanto la mano fra i capelli della donna, carezze consolatrici.


Non provò nulla di devastante o particolare, se non la stupenda, magnifica sensazione di un disegno più grande che finalmente volgeva a suo favore.

 

 

Il funerale era stato tranquillo ed intimo, poiché né Dante, né suo marito e tantomeno suo figlio erano mai stati delle persone amanti della folla e dei rapporti interpersonali.


Qualche allievo di Hohemheim si era presentato per pura cortesia: Dante sapeva che la maggiorparte degli allievi di suo marito detestavano il suo Ed, perché Ed era stato tremendamente
invidioso della loro possibilità di passare così tanto tempo con suo padre – che non ne passava affatto con lui – e delle attenzioni che ricevevano da lui – quando lui non ne riceveva mai nessuna, non essendo abbastanza brillante o acuto d’ingegno.

 

Anche Dante, in silenzio, li invidiava.

(Perché il suo letto era sempre vuoto.)

 

Qualche donna che saltuariamente prendeva il tè con lei si era presentata vestita di nero, avendo persino la decenza di versare qualche lacrima, e quindi aggiungere al tutto un tocco un po’ più drammatico.

Dante, da dietro il velo scuro, non aveva versato una lacrima.

Hohemheim, da dietro lo specchio degli occhiali, aveva
un’espressione tranquilla e seria.

 

Quegli occhi senza lacrime si erano incrociati mentre la bara veniva ricoperta di terra.

Ed Hohemheim, lui aveva
sorriso.

 


 

A/N: Si. Spoiler Seri. Io ho avvisato.

 

Comunque, tecnicamente parlando, la scelta di chiamare l’ umano Envy “Edward” è stata una scelta puramente mia. Perché ci stava tremendamente bene. Per i progetti della fic.

 

Dato che qualcuno (guarda una nipote a caso) si è confuso, no, la donna non è in alcun modo Trisha. E’ ambientato tutto secoli prima della serie, comunque, Trisha non penso fosse nata. Jaja.

 

 Anche se non sembra dal prologo, o primo capitolo, sarà per lo più incentrata su Envy. O meglio, saranno una serie di oneshot svariatamente retrospettive.

 

Personalmente sono una piccola Fangirl in erba, quindi mi piace costruirmi i Missing Moments. Cioè, E’ nato tutto da quella maledettissima frase di Dante nell’episodio 50. Dante mi piace particolarmente come personaggio, mentre per qualche motivo detesto Hohemheim.

Ah, si. Si suppone che Envy sia nato da loro due tiposecoli prima, ma considerati i colori visti nell’episodio, Hohemheim avrà sempre scelto corpi biondi. Con gli occhi dorati. Mah.

 

Per quel che riguarda Dante, lei cambia corpo. La descrizione fattane è puramente random, insomma.

 

Sono nuova del fandom, e questa è una piccola prova. Vediamo il riscontro °_°”

 

[Sorry Nipote Miyu, non ho più ispirazione per Naruto ò_ò Ma a te vanno i ringraziamenti di questa fic, sisi.

]

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Capitolo 2
*** [Act 2.] Stillborn: Like God, arms thrown around the sky. ***


“Science sans conscience n'est que ruine de l'âme

“Science sans conscience n'est que la ruine de l'âme.”

 

“Scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima.”

 

(François Rabelais)

 

F r a m m e n t i

 

Act 2.
Stillborn.

Like God, arms thrown around the sky.

 

 

I giorni, i mesi si erano susseguiti in una strana monotonia: tuttavia, il tempo era passato relativamente veloce; il suo umore aveva risentito degli avvenimenti, ed un’incomprensibile amarezza si era alternata ad un senso di pace interiore.

 

Non sapeva cosa fosse successo, non sapeva come fosse successo. Sapeva solo che, dopo la morte del loro Ed, suo marito era tornato a dormire nel loro letto. Suo marito al funerale le aveva sorriso.
Suo marito, le aveva sussurrato, quella notte, di non preoccuparsi.

 

 

“Andrà tutto bene.”

 

La donna si era fermata sull’uscio della stanza in penombra, e la tazza di tè aveva traballato tintinnante sul vassoio che teneva tra le mani. Aveva battuto ciglio, chinato il capo d’un lato, prima di muovere qualche passo nella stanza.
Sorriso tranquillo disegnato con il rossetto amaranto sulle labbra.

 

“Per me va già tutto bene. Sei tu che sei cambiato, caro.” Sospirò piuttosto platealmente, voce civettuola annacquata di malinconia. “Il tuo corpo potrà essere qui, ma la tua mente è altrove.” Poggiò il vassoio sulla superficie di legno scuro, chinando appena il volto da un lato. “Dov’è la tua mente, tesoro? Non riesco a raggiungerla: per quanto allunghi la mano, è sempre troppo lontana. Dove sei tu, ora?”

 

“Pensavo, Dante. Pensavo.” Mormorò lui, senza sollevare lo sguardo dal vecchio manoscritto “In questi ultimi anni ho studiato molti testi di alchimia antica, quelli che sono stati salvati dal fuoco della religione di sangue. I testi di Paracelsus che sono sopravvissuti alla censura. I testi di Zorimos. Prima di me, c’è stato chi ha studiato questa possibilità, cara. Ci sono stati studi, dibattiti…” la voce di lui scemò, pensosa, e Dante ne approfittò per intromettersi con una domanda intrinseca d’apprensione.

 

“Cos’è così importante da rubare la tua mente per così tanto tempo?”

 

Lui sollevò lo sguardo.
“E’ possibile creare la vita?”

 

Un sussurro che ottenne una riposta immediata, accompagnata da una piccola e chioccia risata.

“Non è possibile.”

 

“Non è mai stata portata a termine, Dante.” Concesse l’uomo, solleticandosi la barba incolta con la piuma intinta d’inchiostro. “Ma i miei studi sono molto più precisi di quelli degli antichi. In fondo, che cos’è il corpo umano? Acqua, carbonio, ammoniaca, calce, sale…”

 

“… è un’assurdità, caro.” Cinguettò lei, tranquilla, poggiandosi contro il tavolo di legno massiccio.

Lui la ignorò.

 

“ … posso crearla. Capisci, Dante? Creare la vita.” Sorrise lui, quello stesso sorriso del funerale passato.

 

Dante capì.

Dante capì, e non le piacque per niente.

 

“Cosa te ne fai, comunque? Ti diverti a giocare al piccolo dio sceso in terra?” tastò il terreno, con voce tranquilla. La voce delle chiacchierate da tè, appropriata perché la tazza era ancora lì, fumante. Anche se ignorata. “Non importa. Vivremo comunque per sempre, noi. Perché ti interessa creare la vita? Stiamo bene così.”

 

“Non capisco per quale motivo tu sia così contrariata, cara.” Obiettò lui, sollevando lo sguardo. “Sei sempre stata una donna ambiziosa. E’ questo che amo, di te.”

 

“Una donna  non sente il minimo bisogno di creare la vita in questo modo. L’ho già creata, io. Perché potevo.” Volse lo sguardo verso la porta, quasi ad evitare quello di lui. La voce era vagamente amareggiata, ma tutto qui. “Ed ora che non c’è più, non mi va affatto di creare qualcosa per perderla di nuovo. Ci sarà un motivo se non è mai stata creata, prima d’ora, con l’alchimia.”

 

“Perché erano sciocchi.” Sbottò suo marito, tranquillamente. “Perché avevano paura di quel dio che non esiste più, Dante. Il dio della croce non esiste più, ma a quel tempo loro avevano paura.”

 

La donna non rispose, crucciando solo le sopracciglia. “Non passerai più tempo con me, vero?”

 

“Ma no, cara.” Replicò lui, scuotendo mestamente il capo. “Non capisci? Possiamo vivere per sempre.”

 

“Viviamo già per sempre.” fu la caustica risposta.

 

“No, no. Per sempre, noi tre. Posso riportare indietro nostro figlio, e…”

 

“A te non interessa nostro figlio.” Lo accusò lei, con voce tranquilla. “ Quando mai ti sei interessato a lui? Era troppo poco intelligente. Sono stata io a pulirgli la bava dalla bocca fino a quando è morto, sai? Non eravamo affatto interessanti, io e Ed. E non mi dire che cercavi di capire come creare la vita in attesa della sua morte, caro. Non ci crederei.  Vuoi solo il mio consenso per poter giocare al piccolo dio con lui.”


La parte di moglie e madre affranta era quella che le si addiceva di più, pensò lui.
Pensò che se l’era cercata, innamorandosi in quella maniera di un’attrice di teatro.

Era una primadonna, il suo posto era sul palco, sotto gli occhi affamati della gente.

 

“… nostro figlio sarebbe con noi.” mormorò lui, senza guardarla negli occhi, concedendole tuttavia quel piccolo attimo d’istrionismo.

 

“Ma non per sempre.” ragionò Dante, con voce piuttosto piatta.

 

“Quando morirà, lo porterò di nuovo in vita.”

 

La voce di suo marito era una voce sognante ed ormai troppo lontana. Troppo lontana, persa nel suo mondo.
Dante crucciò le sopracciglia sugli occhi scuri, ma non disse nulla

 

“E quando morirà ancora, lo porterò in vita ancora una volta.”

 

La donna prese la tazza fra le mani, prendendo un piccolo sorso. Hohemheim non la guardava, fissando i suoi appunti.

 

“Ancora, ancora e ancora. Vivremo insieme, tutti e tre, per sempre.”

 

 

Suo marito, dall’animo razionale e matematico, da sempre lo studioso ed il ricercatore, era impazzito.

 

Suo marito doveva essere impazzito – Dante ne era sicura, era sicura che la vita eterna l’avesse accecato.

 

Dante era anche convinta che quella di suo marito fosse un’idea assurda, un’idea che lui avrebbe portato avanti per un po’ di tempo, fino a quando non si sarebbe reso conto della sua inattuabilità. Sarebbe rinsavito – si ripeteva lei – e la loro vita sarebbe tornata tranquilla. La morte di Edward sarebbe servita a qualcosa, sarebbe servita a riportarlo da lei, e questo avrebbe lenito quel po’ che le rimaneva come senso di colpa.

 

C’era anche una minima possibilità che Hohemheim, l’Alchimista, non si fosse sbagliato neppure questa volta.

 

Tuttavia, neppure questa possibilità le dispiaceva.


Se la soddisfazione alchemica di poter far finta di essere Dio – il dio personale di loro figlio, che dona e toglie la vita - lo avesse tenuto ancorato al suo fianco per l’eternità che spettava loro di diritto…

 

… Non le dispiaceva. Non le dispiaceva affatto.

 



“Trentacinque litri di acqua. Venti chilogrammi e mezzo di carbonio. Tre virgola cinque litri di ammoniaca. Due chilogrammi di calce. Ottocentoventi grammi di fosforo. Trecento grammi di sale. Cento grammi di nitrati. Ottanta grammi di zolfo…”

“Ah, sembra quasi tu debba fare una torta, sai?”

“… Settantacinque decigrammi di fluorina. Cinque grammi di ferro, tre grammi di silicio.”

“Non capisco ancora come possa funzionare, caro.”

“Sei una donna intelligente, Dante.”

“Intendi che, usando l’alchimia, è possibile trasformare tutto questo in un corpo umano?”

“Ne sono sicuro.”

“Sarà solo un corpo, così.”

“Dante… chi meglio di noi sa che l’anima è immortale? Ha bisogno solo di un segnale per tornare a casa.”

Dante si limitò ad inarcare un sopracciglio.

Alla fine, decise – a malincuore -  di sacrificare un dente della collezione da latte del suo bambino,
conservata quando era ancora una madre innamorata ed amata,
lasciata in un angolo e dimenticata.
Hohemheim, ancora una volta, le aveva sorriso.
Come ai vecchi tempi.
Lei, madre assassina e colpevole, aveva ricambiato quell’espressione d’affetto sfiorando le labbra di lui con le sue.
Macchiate di rosso, il rosso del rossetto.

 

 

C’era stata una luce accecante.
Dopo di che, il buio.

 

 

 

Due occhi liquidi ed iniettati di sangue lo osservavano dal basso.


Spalancati, apparentemente inorriditi dal grido violento che si era spento pochi attimi prima.


Probabilmente era solo un’impressione causata dall’assenza di palpebre a coprirli, tuttavia – in quel momento -  sembrarono all’uomo più completi di quanto non lo fossero i suoi.

 

Il sangue fluiva, silenzioso, fra le dita che ostinatamente premevano sull’orbita vuota, quasi a ricacciare dentro un occhio che ormai non c’era più. Ma l’uomo non ansimava, sebbene provasse dolore.

L’uomo stava zitto, perché aveva la sensazione che se avesse schiuso le labbra, avrebbe finito col vomitare.

 

La cosa – in mancanza di una definizione migliore, cosa che sicuramente non aveva la forza di pensare in quel momento – sembrava affannarsi in qualche modo per respirare. Ma i polmoni non c’erano – dio, dio,

 

                                                                                                                                 [Non sono io]

 

i polmoni c’erano ma erano al posto sbagliato, era tutto al posto sbagliato, e la creatura sibilava e rantolava ed i denti scoperti cozzavano tra di loro ed i capelli sabbia sporca di sangue e l’odore di sangue ovunque, ed il suo occhio sanguinava e le pupille liquide di muovevano, si fissavano su di lui, i denti si aprivano ma soltanto rantoli, rantoli e sibili, mentre quello che sembrava un braccio si sollevava piano, scoordinato – non era nella posizione giusta, era storto, e la pelle, la pelle… - si sollevava di qualche centimetro e ricadeva, e di nuovo quel sibilo di polmoni che non erano polmoni ma solo una massa che opprimeva il cuore, il cuore scoperto che tentava di battere, tentava di vivere, e quelle fauci deformate si spalancavano quasi volessero piangere e gridare, come piange e grida come un bambino nato per la prima volta…

 

… Quando Dante sentì il grido disumano provenire dallo studio, lasciò cadere la tazza che stringeva fra le mani.


Senza pensare a nulla in particolare, per puro istinto, corse verso lo studio di suo marito. Finì soltanto per sbattergli contro, per le scale che portavano al piano di sotto.


I suoi occhi scuri, confusi, incontrarono quello dorato di lui.


Ma quell’unico occhio dorato non le disse niente, scostandola con un gesto brusco da sé e superandola.


Superandola prima che riuscisse a chiedere dov’era finito l’altro occhio.
Prima che riuscisse a chiedere cosa fosse stato quel grido orribile.

 

Orribile.


Lei rimase lì, ad osservare la schiena di quella figura.

 

Poi quel rantolio.


Quel rantolio le risuonò nell’anima, in quel corpo vuoto che lei aveva preso in prestito.


Quel rantolio che richiedeva attenzione, perché non voleva stare da solo.

 

Un solo rantolio, debole, fioco, spettrale e patetico.

 

Fu come se il cuore si fermasse, d’un tratto.

 

Dimenticando suo marito, ragione offuscata dalla paura e dalle troppe aspettative nel cuore

 

-          tu lo farai restare sempre con me, tu sarai il nostro legame, tu sarai… -

-           

corse fino allo studio, spalancando la porta socchiusa.

 

Non ebbe la stessa forza di suo marito.
Vomitò prima ancora di riuscire a capire cosa stesse guardando.

 

 

 

 

Inconsapevole che, dopo quello scontro sulle scale, suo marito sarebbe semplicemente scomparso.

 

Per molto, molto tempo.

 

 

 

 


 

 

A/N : forse dovrei alzare il rating. Sta prendendo la via dell’horror.

Scusate per la descrizione vivida dell’homunculus. Paracelsus e Zorimos sono, secondo le mie (poche) ricerche alchimista che hanno parlato degli homunculus. Sono veramente esistiti? Boh.

 

Nell’anime viene chiaramente detto che il Cristianesimo è esistito, ma non non esiste più. Nelle lettere d’amore di Hohemheim a Dante, la data è scritta secondo il calendario cristiano, ovvero ponendo come anno zero la nascita di Cristo.

 

Envy è sicuramente una trasmutazione finita male, mi chiedo perché hohemheim non abbia usato la pietra. La risposta che mi do è che non riteneva fosse necessario.

 

Dante umana? Nei ricordi vediamo una Dante che ama alla follia Hohemheim, usando la pietra per mettere la sua anima in un altro corpo. Penso che Dante sia peggiorata di gran lunga dopo. Ma anche prima non era tanto messa bene. Che sia stata un’attrice – altra cosa che ho aggiunto io. Come mi diverto a giocare con ste cose.

 

Ringraziamenti:

 

chibymiky: grazie mille! *_* Contenta ti sia piaciuta!

 

Maochan_91: Uhm, penso che Hohemheim sia migliorato dopo essersi innamorato di Trisha. D’altronde, ha pur sempre creato la pietra filosofale usando una città. Sono contenta di non essere piombata troppo nell’ooc, comunque. Assi *_*

 

jacky_dragon: non sai quante volte controllo prima di pubblicare. Sono paranoica al riguardo. Comunque, sono contenta che l’uso di Edward come nome sia stato trovato azzeccato. C’è qualcuno che si confondeva, al riguardo °_°”

 

 

Un’altro paio di appunti. Hoheheim usa quantità di elementi leggermente diverse per creare Envy. D’altronde, sono studi sperimentali. I denti da latte… mia madre li conserva ancora. *sigh* Un'altra cosa. Stillborn: nato morto. I bambini che nascono già morti, insomma. E' il termine inglese.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** [Act 3.] Mother: can you hide your child from the waiting world? ***


F r a m m e n t i

F r a m m e n t i

 

 

                                               Act 3.
                                              
Mother.
                                               Can you
hide your child from the waiting world?

 

 

Gli occhi liquidi erano fissi verso l’uscio aperto, la dentatura socchiusa a far uscire quel sibilo, quel soffio.


Quel rantolo.


Dante si poggiò allo stipite della porta, mano tenuta contro il petto, cercando di contenere il cuore all’interno della cassa toracica. L’odore di sangue la nauseava.
Quella – cosa – non aveva pelle, e l’odore del sangue la nauseava.

Tuttavia, non riusciva a distogliere lo sguardo.

 
Quella cosa sembrava una grottesca imitazione – mal riuscita – di un essere umano, creata da qualcuno che sembrava aver dimenticato l’aspetto che un vero essere umano avrebbe dovuto effettivamente avere.

 

Dimenticato, già.
Suo marito aveva dimenticato?

No.

 

Non era suo figlio, quello. Vero?

I pochi ciuffi di capelli biondi erano sparpagliati per terra, madidi di sangue, e le suggerivano il contrario.

Premette una mano contro le labbra, incurante del rossetto, a trattenere quel respiro che sembrava, per un attimo, impazzito. Perché lei doveva stare calma, perché lei era una donna razionale e intelligente, che si era meritata la vita eterna.

 

In quel momento, quella massa informe di organi scomposti sussultò sul pavimento sporco di gesso, in preda ad una piccola convulsione. Quei polmoni respirarono con un singhiozzo soffocato, che le vibrò nel profondo dell’anima.

Quella mano dalle dita storte e rosse era tesa verso di lei, abbandonata per terra, tremante.

 

E così Dante, donna razionale e intelligente, che si era meritata la vita eterna, ebbe paura.

La mano sinistra andò istintivamente a cercare l’anello con la pietra rossa che le aveva regalato lui, ma l’anello non c’era. L’anello era ancora accanto al comodino, dove l’aveva posato prima di andare a dormire.

 

Maledisse sé stessa, una, due, tre, venti, mille volte.

Scostò violentemente lo sguardo da quella cosa, affannandosi verso il tavolo massiccio, affannandosi fra quei piccoli, tantissimi contenitori di vetro, disposti ordinatamente sulla superficie come tanti piccoli soldati.

Non badò ad esser silenziosa, come invece aveva badato quando si era introdotta per rubare le gocce di mercurio.

 

Quei barattoli inutili, inutili, inutili non siete voi quel che mi serve! – caddero a terra, l’uno dopo l’altro, frantumandosi all’urto, disperdendo il loro contenuto sul pavimento.

 

Dov’è, dov’è, dov’è, dannazione! Dov’è?!

 

L’ultimo barattolo finì sul pavimento, causando un rantolo più acuto, un rantolo da animale spaventato. Il respiro della cosa si fece più affannato, più ansimante. La cosa si contorceva per terra, cercando di muoversi, cercando di…

 

Dante poggiò entrambe le mani, tremanti, sul tavolo. A sostenere quello che le gambe sembravano non sostenere più.

Si sentiva male.
Dov’erano le pietre rosse di suo marito? Dov’erano?

 

                                                                       Dove le tieni, caro?
                                                                       Dov’è che le tieni?
                                                                       Devo ritrasmutare quella cosa in mio figlio.


                                                                       Posso?

 

… E’ possibile?
           

Smettila di fare quei rumori, smettila di respirare, smettila!

 

Stringendo le mani sottili in due piccoli pugni tesi, sollevò lo sguardo sui barattoli che, innocui, riposavano sulle mensole solide.

Dedico a questi la stessa attenzione e lo stesso trattamento dedicato ai primi, lasciando cadere a terra ciò che non le interessava – come sempre in vita aveva lasciato indietro ciò che non le serviva -  con movimenti disordinati e goffi, movimenti che non le appartenevano, movimenti che appartenevano all’ansia. All’accanimento.

Quella cosa si stava muovendo su pavimento, macchiandolo di rosso. Boccheggiando.

 

“Zitto, zitto, Ed, per una volta…” ma anche lei boccheggiava, mentre le mani tremanti urtavano un piccolo contenitore, lasciandolo cadere sul tavolo di legno. Il vetro si ruppe, ma i suoi occhi scuri furono catturati da un bagliore rosso.

 

Le pietre rosse, piccole ed innocentemente luminose, catturavano la poca luce fra i cocci di vetro.

 

Ne prese dapprima una, incurante dei vetri. Poi, dopo un velocissimo ripensamento, ne prese una piccola manciata, voltandosi verso quella cosa con un sorriso falso, un sorriso infranto. Quegli occhi liquidi la fissavano, mentre tentava di reggersi sulle braccia storte e gemeva e soffocava…

 

“Ed, ora la mamma sistema tutto. Non sporcare troppo.” La donna ansimava.

 

Quasi si aspettava un “lui dov’è?”, come quando il suo piccolo era malato.
Ma fu solo un rantolio, un rantolio che le si avvolse attorno al cuore.

Odiava vedere il suo bambino soffrire.                                                   Quella cosa era il suo…?

Sarebbe dovuto vivere o morire – a seconda di ciò che avrebbe tenuto suo marito accanto a lei – ma mai soffrire.

 

Soffocava.

“Sta zitto, zitto, zitto…” mormorò serrando gli occhi un’ultima volta, prima di protendere entrambe le mani verso quella cosa, ogni fibra della sua volontà tesa alla costituzione di un vero corpo umano, non di una grottesca imitazione, non di un…

 

“Caro?”

“Si, Dante?”
La donna sollevò lo sguardo dai biscotti di burro che, tranquillamente, stava inzuppando nel tè.
Suo marito sollevò lo sguardo dal libro che, seduto sulla poltrona dall’aspetto severo vicino al camino, stava sfogliando.

“Mi chiedevo...”

“Ti chiedi sempre molte cose.”

“ Com’è possibile che, utilizzando la pietra rossa, non vi sia bisogno di cerchio alchemico? Non capisco proprio come funzioni. Non per pigrizia, volesse il cielo. Ho sfogliato i tuoi appunti, ma non conosco così bene il latino. Sono troppo vecchi, e l’inchiostro è rovinato.”
Lui sospirò, chiaramente considerando il tutto come effettiva pigrizia.

“Ricordo che, quando portammo avanti i nostri studi, io e Nicolas, lui mi fece la medesima domanda.”

“Nicolas? Quel tuo amico di…?”

“Non importa, è morto da un pezzo, ormai. Un vero peccato, era un uomo geniale. Elaborò una teoria piuttosto interessante, ma purtroppo senza alcun fondamento.”
Dante attese diligentemente, rimirando l’anello che sfoggiava la pietra rossa, come un rubino.
Ma immensamente più preziosa.
Hohemheim sospirò, sistemando gli occhiali sul naso.

“Disse che era altamente probabile che la pietra, frutto di una reazione alchemica, avesse un’alta compatibilità con l’alchimia.”

“Quindi?”

“… diviene veicolo dell’alchimia, sottomessa solamente alla volontà di chi la usa. E’ debole, comunque. Dovrebbe essere usata con parsimonia, Dante, ma tu la usi per sciocchezze.”

Lei sorrise, come una bambina. “E’ solo che la luce che fa è così bella…”

 

 

La luce rossa illuminò la stanza, ancora più vivida sulle tracce di sangue del pavimento, e lei si accorse di non averla mai trovata tanto bella quanto la trovava in quel momento…


Poi, quella cosa gridò.

Quella cosa gridò con tutta l’aria che aveva in quei polmoni deformati, un grido inumano, un grido animalesco, roco ed insopportabile. Cominciò a contorcersi, contorcersi nella stessa pozza di sangue in cui si ritrovava, mentre quel fiato che opprimeva il cuore abbandonava la bocca scoperta di labbra.

 

Dante sussultò a quel grido, gridò a sua volta di sorpresa quando uno schizzo di sangue – nausea, nausea, nausea – le finì sul viso.

 

Le pietre rosse caddero per terra, quando le ginocchia decisero di aver esaurito ormai ogni forza rimasta.

Quella cosa ansimava e si contorceva, ancora, occhi vicinissimi a lei.

Sentiva quello sguardo putrido che la fissava. Sentiva l’istinto animalesco di quella cosa che, ora, fissava quelle pietre cadute. Le fissava e rantolava.

Quella cosa non era suo figlio.

Quella cosa non poteva essere suo figlio.

Arretrò frettolosamente sul pavimento disegnato dal cerchio e dal sangue non appena il braccio di quella cosa cominciò a muoversi, instabile, tremante, non appena quel braccio si piantò sui disegni di gesso, dita protese, dita che si piegavano, dita che tendevano verso le pietre rosse, occhi fissi su quel barlume rossastro.

Non poteva essere suo figlio.

Quelle dita si serrarono attorno alla pietra rossa più vicina, prima di sollevarla con un movimento tremante.

Un improvvisa convulsione del braccio e la pietra cadde per terra, con un piccolo rumore che riecheggiò assieme ai due respiri scomposti.

Si rialzò non appena quelle dita si strinsero una seconda volta attorno alla pietra, portandola più vicina a quegli occhi liquidi.

Arretrò non appena quelle dita portarono la pietra più vicina a quei denti scoperti di labbra.

Abbandonò di corsa la stanza non appena sentì quel crack! della pietra che si spezzava, e non ebbe bisogno di guardare, non ebbe bisogno di…

Rischiò di scivolare su ciò che il suo stesso stomaco aveva vuotato, ma si aggrappò allo stipite della porta.

Rivolgendo un ultimo sguardo braccato a quella cosa al centro della stanza buia, strinse le labbra.

Corse via, annaspando, sbattendo la porta e lasciandosi cadere seduta contro di essa, stringendo le ginocchia al petto.

“… caro..?”

La sua voce era flebile, e la casa era silenziosa.

“… Caro?” 

 

Non ottenne risposta.

 

 

Con i capelli spettinati, il trucco sciolto dal sudore e dalle lacrime di stizza ed il viso sporco di sangue, Dante aveva vagato per la casa, infestandola come un fantasma.

Non riusciva ad ignorare quel rantolio, quel sibilo che continuava, che la perseguitava, che le stringeva il cuore.

 

“Caro…?”

Quante volte aveva ripetuto quell’appellativo, con voce sempre più alta che, da qualche minuto, era andata scemando? Ma la casa era immersa nel silenzio, quel silenzio in cui rimbombavano sia la sua voce che i suoi passi che quel sibilo.

Ma non poteva mentirsi troppo a lungo. Non poteva negare che la casa, la loro casa, era vuota.

Vuota.

 

Per quanto tempo sarebbe riuscita a convincersi che Hohemheim sarebbe tornato?

 

Non molto. Hohemheim non aveva più motivo di tornare lì, perché non l’amava più e non era Dio.

Dante questo poteva capirlo.

Sentì ancora una volta quel rantolo trasformarsi in grido, e rabbrividì.

Ma Dante era una donna intelligente e razionale. Dante aveva una vita eterna davanti a sé.

Era andato tutto storto, aveva perso tutto – suo figlio e suo marito – eppure non aveva guadagnato nulla.

Il principio dello scambio equivalente non esisteva.

 

Qualcosa dentro di lei era scattato, e questa cosa era probabilmente la consapevolezza di essere stata abbandonata e lasciata indietro. Come una cosa che, ormai, non serviva più.

 

Dante si sedette sulla poltrona severa di suo marito, e pianse – non trovando né il coraggio né la forza di fare altro.

 

 

Più tardi, quando ormai anche fuori era buio come nel suo cuore, la donna era ritornata nello studio.

Quella cosa era lì, ma non emetteva più neanche un suono.
Gli occhi eternamente spalancati erano rivolti verso l’uscio, vicino ai denti qualche scheggia di rosso.

Il sangue aveva creato una piccola pozza sul pavimento.

Dante si era pulita il viso e si era pettinata i capelli.
Senza l’eterna maschera di trucco, aveva ricambiato lo sguardo putrido.

Un rantolio più flebile era cominciato, un rantolio che la pregava.

La pregava di farlo vivere? Morire?

Non le interessava.

 

Posò lo sguardo scuro su quelle schegge di pietra rossa, poi su quei denti scoperti.
C’era una scheggia anche lì.

La stanza puzzava di sangue, quindi lasciò la porta aperta per poter far cambiare aria.

Si era diretta a passi forzatamente misurati verso il tavolo di legno scuro, dove il contenitore di pietre rosse si era infranto quel pomeriggio. Ne raccolse qualcuna, stando bene attenta a dividerle dai cocci di vetro.

Dopodichè, con un piccolo movimento, guardò quella cosa da sopra la spalla.

“Tuo padre invidiava molto Dio, temo.”

 

Mormorò, profondo rammarico nella voce. Rammarico che non si rifletteva però sull’espressione del viso, serafico.

Si avvicinò ancora alla cosa, con un po’ di timore, tenendo le pietre nella piccola conca della mano.

“Voleva dimostrare a sé stesso di essere migliore di quel Dio in cui si rifiutava di credere.”

 

La cosa sibilò non appena catturò il barlume rossastro delle pietre, cercando di sollevare quell’unico braccio che sembrava capace di muovere.

Dante si sedette a terra, lì vicina, porgendo la mano vicino al viso della cosa.

Come una bestia, come un animale –
e non come un essere umano, non come suo figlio – la cosa affondò il viso grottesco in quella mano, spinta da una fame intrinseca, un bisogno primitivo.

“Le mangi davvero. Che cosa disgustosa.”


 Mormorò lei, con tono piuttosto piatto.
Ma la cosa ansimava e ingeriva, rantolava e masticava e quel crack! continuo ed incessante la…

… Dante si limitò a passare la mano libera tra quei pochi ciuffi di capelli color sabbia sporca di sangue, sovrappensiero.

“Il papà se n’è andato...” mormorò, con voce imbevuta di abbandono.

Quella cosa non se ne curò affatto, continuando avida a mandar giù i frammenti di pietra. Quasi fossero caramelle.

Lo sguardo di lei era distante, mentre guardava quella cosa e vedeva suo figlio.
Non era lui. Ed si sarebbe messo a piangere, venendo a sapere una notizia del genere.

Ed le avrebbe detto che era una
stupida perché l’aveva lasciato andare via.

Dante sospirò, rifiutandosi di rimettersi a piangere. Perché lei era una donna razionale.

“… ma a te, in fondo, cosa importa?” commentò, infine, con distacco.

 

Si era veramente stancata di provare così tante emozioni tutte insieme.
Era tanto, che non le succedeva.

Era esausta.

Tuttavia, la notte le rifiutò il suo conforto. E non le rispose.

 

 


 

A/N: Ehm. Non vi abituate a questo ritmo. Sono solo dannatamente inspirata. Comunque, penso di dover inserire “Non per stomaci delicati!” come warning, a questo punto. Giusto per sicurezza.

E magari alzare il rating? Oddio, non penso. Ditemi se dovrei cambiare °_°”

 

Riguardo questo capitolo… mi sono lasciata prendere un po’ la mano. Di qui inizia la redenzione di Hohemheim, che avrà il suo culmine con Trisha, la perdizione di Dante, che ormai se n’è andata, e la vita di Envy.  

 

Che, finalmente, dal prossimo Cap avrà più amore XD Penso sia uscito come un capitolo piuttosto intenso. Personalmente, mi piace e ne vado abbastanza fiera. Capita quando sono ispirata.

Diciamo che il capitolo risponde ad un punto cieco: come ha fatto dante a capire che gli homunculus si nutrono di pietre rosse? Caso fortuito.

Chibymiky: ancora una volta grazie mille *_* * fa inchino sotto applausi *

Jacky_dragon: uuuuh, amo le sfide, ragazza. Solo che, mi cogli impreparata. Sinceramente, ho sempre creduto che quella forma di “dragone” la usasse per scampare agli omini del cancello – non mi viene il nome – che cercavano di portargli via gambe e braccia. E per dare poi lo spunto per il film XD Qualcuno mi può spiegare, ecco? Perché ora mi è venuto il dubbio. Comunque, per Greed… è già pronto. E’ uno dei punti del plot XD

Nacchan: Assie *_* Io con Dante ho uno strano rapporto amore/odio. Ultimamente però è la mia idola. E’ una donna innamorata a cui non è rimasto nulla se non la vita eterna. Doveva pure usarla in qualche modo o.o
MalkContent: Onorata ç_ç Spero di non deludere, ecco. Envy e Wrath li ho amati anche io, tremendamente.
Jem: i tuoi commenti mi fanno sempre commuovere, cattiva! E sentire lievemente lusingata, ecco. Anche me ha una vera macabra, a quanto pare. L’avresti mai detto?




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Capitolo 4
*** [Act. 4] Name. Why wouldst thou be a breeder of sinners? ***


“Science sans conscience n'est que ruine de l'âme

 

 

F r a m m e n t i

 

Act 4.
Name.

Why wouldst thou be a breeder of sinners?

 

 

La prima volta che lei l’aveva portato a casa, lui era rimasto in quella stanza che puzzava di sangue. Le braccia, quasi dritte, rimasero strette a stringere le ginocchia ancora troppo ossute al petto incavato. L’intera volto infossato contornato da una stopposa massa di capelli d’oro opaco.

 

Aveva dondolato su sé stesso, un po’, contro la porta. Gli occhi, finalmente provvisti di palpebre ma privi di ciglia, erano rimasti fissi sul buio del muro di fronte. Quella cosa non era ancora abituata a chiuderli, dopotutto.

 

Era rimasto lì, ad ascoltare, sibilando appena. Denti affilati appena scoperti da labbra presenti, ma tirate indietro come quelle di una belva che ringhia.

 

“Siete incantevole come sempre, Dante. Mi chiedo come possa, una giovane donna come voi, rassegnarsi ad essere vedova.”

“Di grazia, Thomas. Con queste vostre lusinghe, finirete per viziarmi.”

“Le mie labbra pronunciano solo la verità, dovreste saperlo ormai. Vostro marito non ve lo ripeteva, forse, strenuamente?”

“Non lo ripeteva da tempo, ormai.”

“Me ne rammarico. Siete stupenda, e la vostra casa vi si addice non poco: una villa davvero ben arredata. Ma non è scomodo, così lontano dal villaggio?”

“Non troppo, non troppo.”

“E’ arredato con buongusto.”

“Grazie.”

 

Chiacchiere frivole, chiacchiere frivole.

Poteva sentire, distrattamente i due cuori battere mentre quei passi si portavano vicino alla porta chiusa.

La sorpassarono.

Quella mano ossuta e pallida si posò distrattamente sul petto, artigliando la carne. Lì, però nessun cuore batteva.

Ancora un altro sibilo, questa volta più stizzito.

Dondolò, ancora un po’, battendo ripetutamente la testa contro il legno della porta. Aveva fame. Aveva fame.

 

La mamma ha preparato da mangiare.

 

Le dita si flessero appena, affondando unghie troppo simili ad artigli nella pelle malaticcia.

 

“Siete una donna molto forte, Dante. Prima vostro figlio, poi vostro marito. Eppure, trovate la presenza di spirito di sorridere.”

“Ah, ma solitamente gli uomini non amano avere donne forti al loro fianco. Si sentono minacciati, temo.”

“Eppure si dice che dietro ogni grande uomo si celi una grande donna, Dante.”

“Oh, su questo avete indubbiamente ragione. Thomas, vi andrebbe un po’ di te? Ho dei nuovi biscotti al burro.”

“Rifiutare sarebbe una maleducazione troppo grande, suppongo.”

“Supponete bene.”

“Tre zollette di zucchero, allora.”

 

Quelle unghie passarono a graffiare la porta. Accanitamente, quasi a volere aprirsi un varco nel legno ed andare via, via, via, via da quell’uomo che rubava ogni attenzione, via contro quell’uomo che lei, lei lei lei…

 

Un sibilo, un rantolo. Il battere di quelle ossa contro la porta. Tuttavia, non ricevette alcuna attenzione.

Avrebbe voluto parlare, ma non conosceva le parole. La sua lingua immatura non sapeva pronunciarle.

Cessò di muoversi, e rimase lì, contro la porta. Insieme di carne messo insieme alla meno peggio.

Imitazione mal riuscita di un essere umano.

Rimase lì, contro la porta, ed attese. Cercando di saziare la sua fame di vita con quel rancore che, da quando era nato – per la seconda volta, anche se non se ne rendeva conto – era l’unica cosa che era riuscito a provare.

 

Attese.

 

Thomas Rutherford era un uomo elegantemente impeccabile. Un eterno viveur alla soglia dei suoi ventotto anni, con alle spalle milioni di storie d’amore con donne più giovani di lui, e all’orizzonte alcuna prospettiva di matrimonio.

Non particolarmente benestante, ognuna delle donne con cui si era fatto vedere, era stata scelta per inequivocabile vocazione estetica e dopo una strenua ed estenuante ricerca sulle finanze della famiglia di lei.

 

Dante, vedova, era una donna che spesso si era vantata di essere attrice. Ed era anche la prima donna più anziana di lui che Thomas avesse mai provato a corteggiare. Girava voce, nel villaggio, che Dante fosse una strega. Lui, tuttavia, la ricordava sempre meravigliosamente radiosa, e meravigliosamente bella.

 

Giovanile.

 

Caratterialmente forte.

 

Ostinata.

 

Ricca.

 

E vedova.

 

Lei sembrava cosciente del suo costante riempirla di attenzioni, delle sue lusinghe non tanto velate e dei troppo arditi inviti che lui osava rivolgerle, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Sembrava anche cosciente che la ricchezza aveva riscosso su di lui un particolare fascino, e Thomas se ne rese conto quando lei gli donò un meraviglioso stallone pezzato per il suo ventottesimo compleanno. Thomas le aveva promesso che l’avrebbe così accompagnata nelle passeggiate autunnali, e Dante aveva asserito che quella promessa era ringraziamento più che esauriente.

 

In pochi mesi, Thomas era riuscito a farsi strada nel letto della vedova.

L’aveva posseduta, e lei – prima di addormentarsi – aveva riso ancora come una ragazzina.

 

Tuttavia, la mattina dopo, Thomas non era riuscito a domandarle cosa fossero quei rumori costanti – quei rumori di spettri, di fantasmi - che l’avevano tenuto sveglio tutta la notte, fra le braccia nude di lei.

 

( Di notte, la cosa rimaneva sveglia perché non aveva affatto bisogno di dormire.

 

Ascoltava.

 

Ascoltava e si avventava contro la porta. La graffiava.

Con la voce che non gli era stata concessa, tentava di chiamare la donna.

Voleva uscire.


Che lo lasciasse uscire!

 

La stanza puzzava di sangue rappreso, quell’odore metallico ormai impregnato nei muri e nel pavimento.

 

Da tre giorni, quella donna non tornava più.

 

Non aveva forse trovato un nuovo giocattolo?

Aveva fame, fame, fame fame! Di vita!

 

[Fammi vivere! Fammi vivere. Fammi vivere, fammi vivere fammivivere!]

 

Non se n’era dimenticata. In fondo, nel profondo della sua non-coscienza, lo sapeva.

 

Eppure, sentendo quelle risate intime, non poteva fare a meno di provare invidia.

Smodata, misurata, innata, recondita, insita, bestiale invidia.

 

[Perché non ci sono IO al suo posto?
Io!
Io, io, ioioio!

Perché lui?
Cosa c’entra, lui?
 Cosa c’entra?
Non c’entra niente!
Nientenienteniente!]

 

[… papà… ]

 

Ma la sua non-coscienza non cercava neppure di capire quei pensieri, che attraversavano incomprensibili un cervello troppo semplice.

Alla fine, la cosa poteva solo provare rancore.

 

Che cosa tremendamente sbagliata.)

 

 

Non accadde solo la prima notte che passarono insieme.

Ma anche la seconda.

E la terza.

 

Ogni notte, i rumori erano più violenti della notte prima.
E la quinta mattina Thomas vide Dante sveglia, accanto a lui, intenta a fissare il vuoto del soffitto.
“I fantasmi di questa casa sono agitati.” spiegò lei, con il solito tono delle chiacchiere da tè. Quel tono tranquillo, vagamente innocente. “Non ti vogliono qui.”

Thomas rimase in silenzio, prima di chinarsi su di lei e rubarle un veloce bacio a fior di labbra. Lei si lasciò derubare, ma sembrava pensierosa. Pensierosa e distante.

E Thomas ricordò che, secondo il villaggio, Dante era una strega.

Che abita una casa infestata – completò mentalmente, lasciandosi sfuggire un sospiro nel vedere la schiena nuda e pallida di lei sollevarsi dal letto, sfuggire alle coperte candide. Bella. Bella, bella, bella.

Era malato di lei, probabilmente.

“Continuano a vivere in questa casa, i fantasmi?”

“A loro la morte non piace. Come biasimarli? Non vorresti vivere per sempre, tu?”

E Thomas aveva deglutito, senza riuscire a nascondere l’implicazione che quelle parole avevano avuto su di lui.

Dante la Strega cercava forse un compagno per la sua eterna giovinezza?

Voleva lui, fra tutti?

Avrebbe condiviso con lui l’eternità ed ogni ricchezza e conoscenza che suo marito le aveva lasciato in eredità?

Ogni stregoneria?

 

Non fece in tempo a rispondere. Sentiva il petto troppo pesante alla prospettiva, ed una piccola parte di lui tentava ancora di convincerlo che Dante non era affatto una strega.

Dante stava al gioco, e lo stava prendendo in giro.

 

Scoppiò discretamente a ridere.

 

“Colazione?” cinguettò lei, dedicandogli un sorriso. Lui, sornione, annuì.

E, mentre lei si vestiva – affatto frettolosa di nascondere il suo corpo – a Thomas parve di scorgere una macchia scura dietro l’incavo del ginocchio. Un livido?

Non riuscì ad indagare oltre, perché l’ampia gonna scese a coprire la visuale.

E Dante collegò quello sguardo imbronciato a tutt’altro tipo di delusione.
Lui, tranquillamente, glielo lasciò credere.

 

 

Quando Dante aprì la porta della Stanza, non si stupì affatto nel ritrovarsi gettata a terra dal peso della Cosa.

“Che c’è?” domandò, con un dolce sussurro. “Ti sono mancata?”

 

Due occhi dorati la fissarono dall’alto, adombrati dalla massa informe di capelli del medesimo colore.

 

La donna pensò che mai prima d’ora la cosa aveva rassomigliato in tal modo suo figlio. Il volto scarno e scheletrico deformato dalla smorfia di rabbia. Smodata. Incontrollata.

 

Le labbra tirate a scoprire i denti lievemente appuntiti. Il corpo nudo, ancora un po’ deforme, ma definitivamente umano. “La mamma è stata occupata.” Il sorriso di scusa era tanto falso quanto mellifluo.

 

Una piccola opera d’arte.

 

E la cosa rantolò.

 

Dante aveva voglia di vomitare, eppure una piccola parte di lei le ricordava che era sempre stata una donna forte.

 

“Lasciami andare.” Ordinò, semplicemente, con agognata disinvoltura.

 

Venne ignorata.

 

“Devi capire che non posso passare tutto il mio tempo con te. Ho una mia vita. E tu, in questa mia vita, non sei nessuno. Un fantasma. Sei un fantasma, di grazia, che tuo padre mi ha lasciato come testimone. Comportati da tale. Sii invisibile. Non esistere.”

 

La frustrazione crebbe e scemò sotto il peso di quegli occhi umani pieni di luce selvatica. Il viso scarno si era raddolcito nei lineamenti affilati, e non era più una maschera di rabbia. Era una maschera di infantile curiosità. Capiva le parole di lei, ma non capiva cosa stesse dicendo. Dante, calmatasi, non lo biasimò.

 

Non lo capiva neanche lei.

 

“Scendi.” Per farsi intendere, si limitò a porre entrambi le mani sulle spalle sottili della Cosa, spingendola appena all’indietro. Quasi spaventata, la Cosa saltò giù da lei, liberandola dalla presa.

Si rifugiò nell’angolino opposto della stanza, scoprendo i denti e ringhiando appena.

 

Dante la ignorò, dirigendosi verso quella che era stata la scrivania di lavoro di suo marito.
E che ormai era soltanto ricoperta da un cumulo di cocci di vetro.

 

Sospirò, lasciando passare il ringhio in secondo piano e sfogliando distrattamente le pagine del libro aperto sul ripiano. Alcune erano state violentemente strappate, probabilmente per opera della Cosa.

 

“Sei davvero arrabbiato?”

 

Anche Ed lo sarebbe stato, se Dante avesse iniziato a vedere un altro uomo.

Ed sarebbe stato furioso, e le avrebbe fatto passare l’Inferno. Perché Ed aveva sempre idolatrato suo padre.

Con o senza le sue attenzioni. Era stato fiero di essere suo figlio.

 

E triste, tremendamente triste, perché suo padre non era stato ugualmente fiero di lui.

 

Dante cacciò via questi pensieri, dirigendo ogni fibra della rabbia che aveva in corpo verso Hohemheim.

 

Perché, caro? Perché l’unica cosa che mi hai lasciato è lui?

Un errore?

E’ una cosa tremendamente crudele, caro.

Potrei anche odiarti.

 

Ma tutta quella rabbia non era abbastanza da soffocare la completa devozione e l’amore che provava per lui.

Che cosa terribile, essere una donna innamorata.

 

Trasalì quando due braccia storte la cinsero da dietro.

Nello stesso identico modo in cui Thomas l’aveva abbracciata, quattro giorni prima, davanti a quella porta.

Deglutì.

 

Sei invidioso di tutte le attenzioni che dedico a quell’uomo?
Eri invidioso da vivo delle attenzioni che lui dedicava agli altri.

E persino ora, tu… vorresti tutte le attenzioni per te? Le mie?

Le hai sempre avute. Ed, le hai…

 

Ma non era davvero Ed, per quanto gli assomigliasse.

 

L’invidia era un peccato capitale.
Lo sapeva. Lei era vissuta durante l’età del Dio della Croce.
Sua madre era stata una fervente devota, e lei stessa aveva passato tutte le Domeniche in chiesa.

 

“Hai così tanta invidia, tu. Non ti lascia in pace neanche dopo la morte. Penso sia una cosa molto triste.”

 

L’abbraccio si strinse, automaticamente, a quelle parole.
Dante sospirò, cercando di cacciar via la nausea e riprendendo a sfogliare gli appunti di suo marito.

Che era stato invidioso di Dio.

 

Povero Ed.

 

Aveva vissuto nell’invidia per gli studenti di suo padre.
Era morto per l’invidia di sua madre nei confronti dei libri, che ricevevano sempre più attenzioni di lei.
Ed era stato strappato dall’eterno riposo dall’invidia che suo padre provava verso Dio.

 

Erano stati una famiglia logorata dall’invidia, loro.

 

Senza dubbio una cosa molto triste.
Dal profondo del suo cuore immortale, Dante provò pena.

 

“Lasciami andare, Envy.”

 

Appropriato.

 

Tuttavia, mai obbediente, l’Invidia seppellì il volto contornato di dorato nella sua spalla.

 

 

 

Sulle scale, ormai sveglio, Thomas ascoltava diligentemente.

Con orecchio teso e cuore in tumulto.

 


A/N: Che ci si creda o meno, sono ancora viva. Di questo non riuscivo a scrivere la prima parte. Me sorry °_°” Thomas non è in alcun modo un OC. Cribbio. Coff. Ehm, Dante cristiana. Era appropriato, suppongo. Ha abbandonato la sua religione dopo che questa è caduta, per amore di Hohem-coso. Il prossimo capitolo sarà: Act 5. Greed. Everything you see you think you need. In cui, finalmente, il neo-nato Envy acquisisce una coscienza.

Non mi piace affrettare troppo le cose. Vedendo com’è cresciuta gradualmente Sloth, all’inizio era proprio… animalesca, ecco. Personalmente, amo Thomas.

L’intero capitolo è ispirato da Fma Reflections, parte 5: Sin. Guardatelo. E’ disponibile su youtube.

P.S. Why wouldst thou be a breeder of sinners? È una citazione dell’Amleto di Shakespear. Amleto parla ad Ophelia, consigliandole di farsi suora. Perché se avrà figli, saranno certamente peccatori. Perché ogni uomo lo è, in fondo.

 

 

 

 

 

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