Just give me an hug

di Jerry93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Last Betrayer ***
Capitolo 2: *** Song of a White Crow ***
Capitolo 3: *** Choose: How to start living ***
Capitolo 4: *** Smoky eyes ***



Capitolo 1
*** The Last Betrayer ***


Chapter one, The Last Betrayer

Harry teneva un braccio attorno ai fianchi di Ginny, mentre si muovevano simultaneamente di alcuni piccoli passi. Non erano dei grandi ballerini e la mente del ragazzo era persa a ripercorrere gli istanti trascorsi con Silente, avendo la conferma che, sì, l’oramai deceduto Preside non gli aveva mai rivelato che anche i suoi genitori avevano visto il sopraggiungere della fine a Godric’s Hollow. Questo, infatti, gli aveva da poco rivelato Elphias Doge, l’autore di quell’elogio funebre pubblicato dalla Gazzetta del Profeta. I due ragazzi, però, si tenevano stretti, resi ancora più affettuosi nei reciproci riguardi dalla dipartita di Malocchio.

Quella guerra maledetta, mai come in quei giorni, li intimoriva, incutendo nelle loro menti un terrore distruttivo e totalizzante. Un erbicida, lanciato al suolo contro gli steli di fragili piante che, in futuro, avrebbero potuto generare il tronco di un albero. Un veleno deglutito a fatica.

Ron si era allontanato da un paio di minuti, in cerca di una Burrobirra o, forse, desideroso solamente che quel matrimonio finisse presto per chiudersi nella sua camera a scrivere l’ennesima lettera. D’amore, sostenevano Fred e George, non sbagliando.

Continuavano a stare così, avviluppati dolcemente, godendosi quell’attimo di tranquillità. Attimo.

A raggiungerli fu, prima, un ruggito basso e gutturale. Poi, a pochi metri da loro, videro l’imponente figura di un felino argenteo: una lince, fiera della sua muscolatura massiccia, creava scompiglio tra i ballerini.

La voce di Kingsley Shacklebolt proruppe tonante, lievemente incrinata dall’agitazione.

“Il Ministero è caduto. Scrimgeour è morto. Stanno arrivando”.

Le loro mani corsero, a causa di una troppo precoce abitudine, verso le bacchette, che impugnarono saldamente. Un urlo, in grado di rompere anche quell’innaturale silenzio che si era generato, fece da colonna sonora al momento in cui il Patronus svanì. Fu il caos.

La piccola Weasley cominciò a cercare i suoi famigliari, concertandosi su quello con meno esperienza, dopo di lei, e che, per ovvi motivi, era quello che Voldemort voleva catturare: Ron. Lei, la fidanzata di Harry, e suo fratello, il suo migliore amico, si trovavano sotto quella tenda con un bersaglio lampeggiante attaccato alla fronte. Perché così il Signore Oscuro agiva: divide et impera. Lo chiamò, urlando sopra il clamore della calca, ma non ottenne alcuna risposta. Intanto, all’apparire dei primi Mangiamorte, Lupin e Tonks, spalleggiandosi, produssero all’unisono un incanto di Protezione che rispedì al mittente una Maledizione.

Ogniqualvolta qualcuno, nella foga della fuga, li urtava, le loro nocche sbiancavano, stringendo la mano dell’altro ancora più saldamente. Quando il lampo luminescente di un incantesimo sfrecciò sopra le loro teste, i cuori d’entrambi persero un battito: difficile stabilire se si trattasse di una fattura, così come era complesso risalire a chi l’aveva lanciato e verso chi era diretto.

Vedere Ron ancora vivo fu un sollievo, il quale, però, durò il tempo frugale d’un battito di ciglia. La sua bacchetta, infatti, era sguainata e si muoveva al ritmo degli affondi di un Mangiamorte incappucciato e con il viso coperto da una maschera. Ginny, degna Gryffindor, non perse tempo.

“Reducto!” urlò, dopo aver preso rapidamente la mira ed essersi avvicinata con Harry di alcuni passi. Il fisico dell’avversario manifestava l’insolita assenza di una corporatura massiccia ed imponente, ma, nonostante ciò, tutto poteva sembrare meno che un novellino. La sua arma si mosse con una rapidità tale da far credere loro che non fosse mai stata agitata. Il Ragazzo Sopravissuto continuò l’assalto con uno Schiantesimo, subito seguito da una Pastoia Total-Body di Ron. Entrambi si infransero su una barriera azzurrina, ben più potente di un semplice Incantesimo Scudo.

Questo, però, offrì la possibilità ad Harry di afferrare Ron, che si era subito avvicinato ai due, per eseguire un’affrettata, seppure corretta, Smaterializzazione Congiunta.

L’ultima cosa che i loro occhi videro furono le spalle di quello che era il loro avversario, mentre questo, con passo sicuro, si faceva spazio tra i pochi rimasti a colpi di bacchetta, fino a raggiungere il professor Kennan, già circondato.

 

***

 

Quando mancavano poco più che cento metri alla casa dei propri genitori, Hermione smise di correre e cominciò a camminare. Ansimava, affaticata dal già eccessivo calore di quella giornata, nonostante fossero appena le nove del mattino. Lasciò che i suoi troppi pensieri defluissero dalla sua testa, come risucchiati in un gorgo, abbandonandola a quello strano torpore che prova chi ha la fortuna di poter vivere alcuni istanti di silenzio mentale. Non avvertiva nulla, neppure il dolore delle sue gambe stanche, mentre rientrava verso casa svoltando dolcemente verso destra, dopo aver percorso una lunga rete metallica dalle cui maglie sbucavano i rami flessibili, sebbene inariditi dall’afa, di una siepe sempreverde. I suoi piedi, spontaneamente, seguirono le lastre che andavano a comporre il viottolo, come se ancora, dopo anni, stesse giocando a campana con sua padre. Di quell’uomo, il primo e l’unico ad averla chiamata principessa, rimanevano solo i ricordi di una casa vuota, gli echi delle stanze disabitate ed un pianoforte scordato che non aveva ancora imparato a suonare. Là, in fondo, a pochi passi da lei, la sua unica luce in quel periodo oscuro la stava aspettando: rimaneva immobile, seduto sull’ultimo scalino che dà accesso alla piccola veranda, troppo stanco anche per combattere l’implacabile avanzata del sonno. Così, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata alla parete, sfruttava un angolo d’ombra per dare alle proprie membra un poco di riposo. Tra le dita, un sacchetto di carta, contenente la loro colazione.

Era diventata una tradizione, da quando il panettiere di quella piccola cittadina aveva accettato di prenderlo come apprendista. Così, dopo il lavoro, che regolarmente cominciava molte ore prima dell’alba, lui l’aspettava lì, scomodo sul legno duro di quei gradini, così che potessero condividere il piacere di quella colazione con brioche alla marmellata appena sfornate.

Passandogli accanto silenziosa, anche quel giorno fecero il loro solito gioco: premurosa, Hermione gli passò una mano tra i capelli e lo svegliò chiamandolo piano. Tra le sue dita, che non avevano più la carnagione chiara della ragazza studiosa, quell’oro, filato da un fuso stregato, risaltava di riflessi di miele. Credette di poter quasi vedere la sua espressione schiudersi in un sorriso, mentre, dopo che lui ebbe ricambiato il suo buongiorno, andò ad aprire la porta. Cominciarono subito le loro chiacchiere, compiendo i pochi metri che li distanziavano dalla cucina: parlavano del più e del meno e di quanto, a volte, il meno fosse troppo e il più troppo poco. Come d’abitudine, lui si sarebbe seduto sul balcone, lei avrebbe preso del succo d’arancia rossa dal frigo e, poi, avrebbero preso a mangiare i loro croissant, mentre, tirandola piano per i fianchi, si sarebbe ritrovata tra le sue ginocchia, ad un sospiro di bacio.

Era proprio in momenti come questi che Hermione avrebbe voluto rinnegare il mondo magico: lei, la Nata Babbana, oramai non più reietta della società magica per quell’anello che portava all’anulare destro, avrebbe voluto rinunciare a tutti i suoi poteri e alla sua bacchetta, scappando con lui da quella Guerra infinita contro il Signore Oscuro che le aveva sottratto fin troppo. Perché Christopher Hunt sapeva farsi amare, per quel suo tocco lieve e per quel suo modo in cui era in grado di stringerti il viso tra le mani.

Eppure, pur sapendo che non avrebbe neppure dovuto dare al tempo la possibilità di tracciare il suo solco, lei non riusciva a concedersi quel lieto fine di fiaba che, in fin dei conti, credeva di meritarti. Da che era diventata uno degli stendardi del suo battaglione, nulla aveva senso ai suoi occhi se non in vista della Guerra. Da che aveva sbattuto la porta in faccia a Draco, all’inizio dell’estate, nessuno, se non lui, avrebbe potuto rendere realtà quell’utopia che l’amore era diventato.

Nessuna donna completamente senziente avrebbe potuto disprezzare quelle tenerezze che lei e Chris si scambiavano, ma erano solamente le coccole di due bambini che si erano giurati amore eterno davanti ad un autorevole compagno di classe goloso di merendine, nulla in confronto a quel sentimento, ben più vero e reale, che Hermione aveva provato con Draco. Proprio quest’aspetto della sua relazione con il Malfoy, però, era stato il suo più grande errore, quello che non riusciva ancora a perdonarsi e che, con buona probabilità, mai avrebbe potuto superare: la veridicità di quel loro rapporto, si era tramutata fin da subito in un bisogno anche carnale, che l’attesa non aveva fatto l’altro che aumentare di intensità. Come un amplesso, fare l’amore con Draco l’aveva lasciata sfinita, desiderosa solamente di lui e con il bisogno sulle labbra d’averlo ancora tutto per sé, di sentirlo fremere, come accadeva a lei, sotto le sue carezze.

Tutto era accaduto all’inizio di quell’estate, con una spontaneità quasi disarmante, come se i loro corpi non fossero stati fatti per altro che toccarsi. Tutto era accaduto una settimana prima che lo lasciasse.

 

***

 

I giorni, dopo aver lasciato Hogwarts, trascorsero immersi nella noia e nel dubbio. Le ore, quindi, trascorrevano piano, come se tra le sue mani vi fosse una spessa corda di canapa con cui qualcuno la stava costringendo a trascinare un grosso masso. Continuava a salire rupi, le cui vette parevano irraggiungibili e, quando pochi passi la distanziavano dalla tanto agognata meta, qualcosa andava storto e la pietra cominciava a rotolare, senza che lei nulla potesse fare se non seguirla fino a valle. Così si sentiva Hermione, non capendo quale fosse l’ostacolo che non era in grado di superare per poter finalmente superare il traguardo. Continuava a cadere nei suoi stessi errori, negli stessi pensieri che non la conducevano in alcun luogo, in quelle frasi che le erano state confidate con ovvi secondi fini. E negli occhi di Drew, nella sua sicurezza, nella sua caparbietà, nella sua folle e geniale strategia d’attacco.

“Purtroppo” aveva continuato, aggiungendo altre informazioni a quelle che, dopo quella chiacchierata nel suo ufficio, Hermione avrebbe dovuto affrontare e digerire “una guerra non si vince solo con i duelli e con le guerre. E non bastano neppure ideali saldi e piena convinzione in questi. Ci vuole dell’altro: l’astuzia”. Lei, si era limitata ad annuire, intuendo forse dove quel discorso sarebbe volto, ma rifiutandosi di semplificare le cose al giovane uomo che aveva dinnanzi. “Silente si fidava completamente di Piton, ma lui era un traditore e lo ha ucciso. Ora l’Ordine della Fenice non ha più un leader, Hogwarts ha perso la propria guida e non abbiamo la benché minima idea di quante e quali informazioni sono giunte all’orecchio del Signore Oscuro” la sua pausa, ben studiata, ottenne l’effetto desiderato: aprirle gli occhi.

“Hermione, oggi non abbiamo perso solamente una delle tante battaglie della guerra! Oggi il nostro migliore plotone di uomini è stato sterminato!”

Dal punto di vista di Drew, così come da quello di chiunque fosse in grado di estraniarsi dai drammi personali per avere una visione d’insieme più ampia, la situazione non era ancora tragica, ma poco ci mancava. La vittoria s’era fatta miraggio, così come la sconfitta, morso di vipera, aveva già messo in circolo il proprio veleno: la società magica, anche nei suoi capillari villaggi, si stava tingendo del colore della paura. Tutto si era già ridotto ad un timoroso vociferare, i negozi venivano chiusi prima che il sole tramontasse e nessuno, oramai, osava uscire di casa la sera. I pettegolezzi, infatti, dicevano che i Mangiamorte stessero progettando delle violente retate.

Così, lei aveva trascorso quella prima settimana lontana da Draco in una solitudine pressoché completa, se escluse le poche visite del suo vicino Chris che, nonostante i suoi continui rifiuti, continua a riempirla d’attenzioni. Lei, però, imperturbabile e troppo innamorata, si limitava a non calcolarlo, dandosi alla lettura degli ultimi libri che il professor Kennan le aveva suggerito e rispondendo alle sempre più frequenti missive del suo fidanzato. Le capitava spesso, inutile negarlo, di sorridere, mentre scriveva poche parole alle domande a volte troppo insistenti del Malfoy, rigirandosi tra le dita quel piccolo ciondolo a forma di “D” che pendeva dal suo braccialetto.

Quel giorno, non era cominciato poi in maniera differente dagli altri. Se ne stava seduta sulla sua sedia a dondolo, regina indiscussa del porticato di casa sua, con un libro pesante che sfogliava distratta ed una coperta leggera in grado di ripararla dal vento di quella giornata di temporali estivi. La pioggia, scrosciante, le faceva compagnia.

Sbucò dal nulla, mentre, camminando lungo il viottolo di casa sua, si avviava verso di lei con passo sicuro e deciso.

“Hey, ti sono mancato?” disse Draco con voce bassa e gutturale, atteggiandosi come poche volte lo aveva visto fare.

Inutile dire che la ragazza era scoppiata a ridergli in faccia, ottenendo un’occhiataccia offesa.

“Per niente, bambola!” gli rispose a tono, mentre cercava, asciugandosi le lacrime dagli occhi, di riassumere un minimo di serietà. Quando alzò gli occhi, lui l’aveva già raggiunta. Percepì le sue mani bagnate, posate lungo il suo viso, mentre le dita, fredde, le sfioravano il collo. Si era persa nei suoi occhi grigi come la sfumatura più chiara delle nuvole temporalesche che avevano inzuppato i suoi vestiti. Draco non fece nulla, se non posarle un bacio innocente sulle labbra, facendo di tutto pur di non essere costretto a sciogliere così precocemente quel ritrovato legame con il profumo alla vaniglia di lei. Credeva quasi di poterlo assaporare sulla propria lingua, tanto da ritrovarsi costretto a deglutire: non poteva farci nulla, le sue papille gustative erano in visibilio.

Continuò a guardarla, mentre le sue palpebre, piano, presero a celare le iridi nocciola e mentre la sua mano, docile, si posava sulla sua maglietta bianca e zuppa, all’altezza del suo cuore. Avrebbe sentito quanto questo pulsava come un forsennato per lei, sebbene già la sua presenza lì fosse un chiaro indicatore della sua follia, visti i rischi che correva nel farlo. Voleva che lo sentisse, voleva che ne fosse sicura, ma sentire pronunciare qualche parola a riguardo, a suo parere, avrebbe sicuramente minato la sua mascolinità. Per questo, giocò d’anticipo, rispondendo alla sua futura stilettata con un astuto affondo.

“Invece, sì, ti sono mancato”. Perché il loro amore era fatto anche di questo. Nessuno dei due voleva mostrarsi debole agli occhi dell’altro ed entrambi cercavano di celare, sotto una corazza di forza e determinazione, le proprie debolezze. Erano così mal assortiti, da risultare un’accoppiata perfetta; erano talmente opposti da sembrare quasi simili. Perché conoscendosi, amandosi, si erano circumnavigati vicendevolmente, finché nel riflesso del proprio amante avevano rivisto se stessi e i propri timori.

 

Hermione non aveva avuto bisogno d’utilizzare la propria fantasia per intuire cosa si celasse sotto quell’indumento fradicio d’acqua: la maglietta, infatti, si era perfettamente attaccata alla pelle di Draco, delineando in maniera chiara quei suoi muscoli appena accennati che, dal torace, scendevano ipnotici fino agli addominali. Alzarsi per avviarsi verso casa fu una sofferenza atroce perché questo aveva implicato, ovviamente, sfuggire da quella presa così dolce e ferrea in cui il ragazzo, con suo estremo piacere, la aveva costretta. Sì, ne aveva sentito la mancanza e nulla, neppure l’odore di lui ancora impregnato nei suoi vestiti né quel braccialetto che le aveva regalato, aveva potuto anestetizzare, anche per poco, quella così piacevole sofferenza. Per questo, nel compiere quel gesto che allontanò i loro corpi, afferrò saldamente la sua mano, conducendolo all’interno.

“Ti prenderai qualcosa” continuava a ripetere, troppo felice di quella sorpresa perché il suo cervello fosse in grado di formulare un pensiero comprensibile ad altri “Devi toglierti quella maglietta zuppa”.

Bastò il tempo, una volta giunti nel salotto, per farle comparire tra le mani un ricambio asciutto, affinché, voltandosi verso il fidanzato, si ritrovasse la sua maglietta bagnata in faccia. La esiliò lontano, con un rapido incantesimo non verbale, mentre, stendendo bene il braccio e puntando la sua bacchetta, si preparava a ridurlo in cenere.

Sul suo volto, un ghigno compiaciuto. Era di nuovo rimasta vittima di uno dei suoi ridicoli tranelli.

“Mi piacciono le ragazze che prendono l’iniziativa” ridacchiò “Dai, slacciami tu la cintura”. Concluse il tutto, immancabilmente, con un occhiolino che, per quanto sarcastico, aveva evidentemente un qualcosa di sensuale e provocatorio.

No, non gliel’avrebbe data vinta. Non così facilmente, almeno.

“Subito, amore” gli rispose a tono, mentre già nella faccia di Draco si dipingeva “Prima, però, vado a prendermi un caffè, dicono che sia un forte eccitante”. Gli voltò le spalle, volendo sorridergli compiaciuta, ma ritrovandosi a mordersi il labbro inferiore.

Sentì solamente le sue braccia sicure attorno alla vita e il petto nudo di lui contro la propria schiena. Poi, poté avvertire solamente le sue labbra che risalivano piano la sua spalla, percorrendo la piccola insenatura della clavicola e soffermandosi alla base del collo.

“Va bene, questa volta hai vinto tu” sussurrò, avvicinandosi al suo orecchio “Mi arrendo”.

Le scostò piano i capelli, ricci e folti, svelando d’improvviso le linee morbide del suo viso. Il respiro caldo di Draco ben presto venne sostituito da baci, con cui abilmente tracciò il profilo della sua nuca. Strinse piano tra le labbra calde una piccola porzione di pelle all'altezza della mandibola, mentre Hermione brandiva, in maniera piuttosto imprecisa, la propria bacchetta. Con un tonfo sordo, che fece sobbalzare entrambi, il divano-letto si aprì e il ragazzo sorrise compiaciuto mentre, prendendola in braccio, annullava la distanza da quel giaciglio improvvisato. Alcune cose si persero per strada, come inutili suppellettili quali erano. La bacchetta d’Hermione, la camicia di suo padre che voleva dare a Draco affinché si coprisse, le scarpe d’entrambi. L’unica cosa che la ragazza ebbe la coscienza di portarsi a tutti i costi con sé fu quella coperta troppo piccola per coprire entrambi, che si era trascinata fin dentro dalla sua sedia a dondolo.

Si ritrovò prigioniera sotto di lui, incarcerata dal materasso troppo duro e dal corpo di Malfoy.

“Sei bellissima”.

Quelle parole, unite al movimento ondulatorio e periodico di quel ciondolo a forma di “H” legato al collo di Draco, la resero ancora più desiderosa di fare l’amore con lui. Flettendosi in avanti, cingendogli il collo con il braccio sinistro, si presentò alle porte del suo sorriso e, dopo aver dovuto bussare per ben poco tempo, ottenne finalmente l’accesso a quel tanto agognato Eden: la sua bocca.

Non era lui a condurre quella lenta danza, così come non era neppure Hermione. Pareva, infatti, che i loro due corpi si muovessero perfettamente secondo le esigenze dell’altro, in un’armonia che difficilmente avrebbero saputo spiegare. Così, mentre lui cominciò a sfilare piano la canottiera della ragazza, questa piegò il proprio busto nel tentativo di aiutarlo, alzando, poi, le braccia, affinché quel tessuto leggero andasse a fare compagnia a ciò che già si trovava sul pavimento.

La loro non era fretta, ma incombenza, bisogno. Per questo, la mano di Draco corse a chiudersi a coppa sul seno di Hermione e lei, lentamente, percorreva la sua schiena e si infilava nei suoi pantaloni. Poi, furono baci e carezze. E sospiri liberatori. E gemiti non trattenuti.

Si liberarono definitivamente dei pantaloni e, poi, anche di quella così scomoda biancheria. A coprire i loro corpi, nudi ed accaldati, solamente quella coperta troppo piccola e che lasciava scoperti i loro piedi. Scambiandosi un bacio, i loro corpi si persero, divenendo l’uno quello dell’altro ed impedendo ad entrambi di stabilire i propri confini. Non era un semplice armistizio, il loro, era amore. Il modo in cui Draco l’accarezzava i capelli e le sfiorava il seno con le labbra. Il modo in cui Hermione si stringeva al proprio amato e mordicchiava, sorridendo, la sua pelle morbida.

Quelle spinte, lente e costanti, con cui protrassero per molto tempo quel loro piacere e che si conclusero con un amplesso che gridava liberazione e felicità.

Amarono tutto dell’altro, anche il sudore e la stanchezza. Per questo, dopo aver taciuto a lungo, dopo che il loro corpo si riprese dall’euforia di quell’intimo contatto, le parole che si scambiarono rimbombarono potenti e sincere. Non era l’eccitazione a parlare, non era il piacere ad imporsi come narratore, ma i loro sentimenti, ciò che per lungo tempo avevano maturato, ciò che ora gli aveva nutriti con linfa vitale.

“Draco, ti amo” gli disse, mentre si faceva spazio sotto la sua spalla e contro il suo rannicchiandosi addosso a lui.

“Ricordatelo anche domani, quando ci sveglieremo, perché dopo oggi, se tu ritrattassi, potrei morirne” disse lui, con il finto intento d’apparire scherzoso e non risultandolo affatto. Si piegò per posarle un casto bacio sulla guancia e per stringersela ancora più vicina, così da vincere, dopo tutti quei brividi che il fare l’amore aveva dato loro, quelli che il freddo li stava procurando.

“Io ti appartengo, ricordi?”.

 

Il risveglio, uno dei più belli della sua vita, le aprì gli occhi. Tra le sue mani, vi era la sinistra di Draco. A pochi centimetri dai suoi occhi, svettante sulla pelle pallida e nobile del ragazzo, il Marchio Nero. L’inchiostro, ancora vivido come se quel tatuaggio fosse appena stato fatto, tracciava con eccessiva precisione i tratti d’un teschio e della sua lingua, ispide velenoso. Ricadde in quell’incubo, nei visi cianotici dei suoi genitori morti, nel corpo scomposto di Silente riverso al suolo, nel sangue che sgorgava dalle ferite durante la Battaglia di Hogwarts, nella crocchia scomposta della McGranitt che dava battaglia. E le parole di Drew le sovvennero, acquisendo un nuovo significato, una diversa angolazione, una spiacevole soluzione.

Una guerra non si vince solo con i duelli e con le guerre. E non bastano neppure ideali saldi e piena convinzione in questi. Ci vuole dell’altro: l’astuzia.

Nessuno avrebbe potuto farlo, se non lei. Il suo titolo onorifico le avrebbe spianato la strada, il suo talento le avrebbe aperto le porte, il suo coraggio le avrebbe permesso di lasciarsi alle spalle ciò a cui teneva per dare una nuova speranza all’intero Mondo Magico. Lei, Hermione Granger, l’Ultima Matriarca, la Traditrice.

Non ebbe più il coraggio di guardarlo, così, quando Draco si svegliò, si limitò a sorridere e a rispondere in maniera evasiva.

“Non sono stato all’altezza delle tue aspettative?” le chiese Draco, incredulo per primo d’aver osato pensare ad una tale fesseria.

“A dire il vero, dopo Krum e la storia del freddo siberiano, pensavo che non avrei potuto incontrare qualcuno così poco fornito” sospirò teatrale “Per fortuna, Madre Natura con Ron è stata veramente molto generosa”

L’occhiata che il fidanzato le rivolse valse più di mille parole. Cercando di mantenere la calma, posò, il vassoio con i biscotti che era andato a prendere in cucina per fare colazione. Incrociò le braccia sul petto, ancora nudo, come del resto era anche la restante parte del suo corpo, fatta eccezione per quella coperta dai boxer neri.

“Tu e Weasley l’avete veramente fatto? Speravo fosse una leggenda metropolitana, come quella dei coccodrilli nelle fogne!” esclamò esterrefatto, per poi accorgersi di quanto fosse offensiva la frase della ragazza. “Aspetta” disse, incredulo, sorridendo nervoso “Tu mi stai dicendo che la donnetta di Lavanda Brown è … ma da quando ce l’ha?”

La sua espressione era realmente sconcertata. Hermione lo vide togliersi i boxer serio.

“Giuralo” la intimò “Adesso”.

No, allontanarlo non sarebbe stato facile.

 

***

 

La casa, dopo che Chris se ne era andato, era crollata miseramente in un terribile silenzio. Più volte, nei mesi trascorsi, era capitato che il ragazzo fosse così stanco da chiederle l’ospitalità del suo divano ed Hermione, sorridendogli cortese, non gli aveva mai negato questo privilegio, visto l’affettuoso comportamento che teneva sempre nei suoi riguardi. Eppure, se lo avesse fatto quel giorno, sarebbe stata costretto ad allontanarlo. Tutto era evoluto così rapidamente da non permetterle di comprenderlo veramente: era già giunto il momento.

Sentiva sulla pelle, quella maschera soffocante che aveva deciso di indossare e percepiva chiaramente quanto ogni giorno trascorso portasse quel malefico oggetto ad adattarsi ai suoi lineamenti, diventando irremovibile. Aveva perso se stessa, in un bacio che Draco le aveva rubato, ed aveva deciso coscienziosamente di farlo. Aveva rinunciato a se stessa e al proprio futuro, nel vaneggiante speranza di poterne dare uno alle future generazioni.

Ora, guardandosi allo specchio, non riusciva più a riconoscersi: non era solo il fisico ad aver subito drastici mutamenti, ma anche il suo spirito. Il suo grande coraggio e la sua predisposizione al sacrificio l’avevano condotto a tutto ciò e, ora, non aveva più la possibilità di ripercorrere a ritroso i propri passi. Anche perché, in fin dei conti, non ne aveva la benché minima intenzione.

Lo aveva capito a sue spese che la menzogna non è solamente un’attitudine, ma un vero e proprio talento. E lei, l’onesta Gryffindor, ne era completamente sprovvista, così si era ritrovata obbligata a dover imparare anche questo, nel breve tempo che aveva a disposizione.

Il vapore della doccia calda condensandosi sulla superficie che rifletteva i suoi tratti un tempo amorevoli, si accumulava in gocce d’acqua, che, percorrendone l’intera lunghezza, sparivano in un insenatura del legno. I lineamenti del suo viso si erano fatti più acuminati, dandole un tocco di femminilità quasi inusuale, che aveva annullato completamente quello che era il pallido ricordo, dopo la morte dei suoi genitori, delle sue gote paffute da ragazzina. La corsa mattutina aveva diminuito ancora il suo peso, mentre quella serale aveva aumentato la sua muscolatura. Lo yoga quotidiano, poi, aveva reso più tonico ed elastico il suo corpo. Non aveva potuto fare molto per la sua forza, ma un intensivo allenamento di karate, suddiviso su quattro pomeriggi settimanali, le aveva fornito gli aspetti basilari della tecnica di un buon combattimento corpo a corpo e dell’autodifesa. Infine, con qualche visita alla piscina comunale, cui Christopher si era sempre gentilmente offerto di partecipare, aveva migliorato la sincronia dei suoi movimenti. Ovviamente, tutto ciò aveva avuto molte spiacevoli controindicazioni: di rado le poche ore che si concedeva per dormire erano sufficienti a farle risanare la stanchezza data da questo sforzo, spesso i dolori erano tali da compromettere la sua prestanza fisica e molte cose del suo nuovo corpo non le piacevano affatto. Per esempio, il suo seno, quello che a contatto con le labbra di Draco la faceva fremere, si era rimpicciolito. Almeno una taglia, ad occhio e croce, anche se le sue ricerche a riguardo si erano concluse ben prima di scoprire quanto marcato fosse questo danno. Una fortuna, le aveva fatto notare Drew, nel tentativo di consolarla invitandola a guardare il proverbiale calice riempito per metà, visto l’impaccio che questo avrebbe potuto arrecarle durante un duello magico. La stessa motivazione, in quest’ultimo caso ben più fondata, l’aveva spinta a tagliarsi i capelli: entrata nel salone di una sua vecchia amica di famiglia con i suoi lunghi boccioli perfetti e ottenuti grazie ad una abbondante dose di Tricapozione Lisciariccio, ne era uscita con un taglio ben più corto e decisamente meno impegnativo. Eppure, nonostante il taglio deciso, questo non aveva leso in alcun modo l’innata delicatezza del gentil sesso. Non era divenuta più bella, ma non vi era stato in lei neppure alcun imbruttimento: Hermione Granger era semplicemente diversa.

Finalmente, poi, durante quell’estate di metamorfosi, aveva realmente capito il senso di tutti quei libri che il professor Kennan le aveva fatto leggere durante l’intero corso dell’anno. Con questi, infatti, si era potuta costruire una solidissima base che aveva sveltito notevolmente quelle lezioni private che le impartiva nella segretezza della taverna della dimora dei suoi genitori, che la ragazza aveva stregato abilmente così che questa evitasse d’andare distrutta nell’arco della prima seduta. I muri riflettevano le maledizioni e le fatture, ricreando il clima di una vera e caotica battaglia, il pavimento era disseminato di ostacoli ed oggetti utilizzabili durante lo scontro e, infine, si era procurata alcuni manichini con cui continuare ciò che aveva iniziato con Drew. I due, su volontà d’entrambi, si vedevano tutti i giorni, all’imbrunire. Lui le aveva insegnato buona parte di ciò che era a conoscenza della magia oscura, non tralasciando l’Occlumanzia e la Legilimanzia. Spingendola più volte tra la vita e la morte, torturandola come solo un vero avversario desideroso d’ucciderla avrebbe fatto, l’aveva resa una duellante ancora più abile di ciò che già era, ampliando gli orizzonti della sua conoscenza e permettendole di reggere uno scontro con un qualsiasi Mangiamorte, nonostante entrambi sapessero che, nel caso in cui tutto fosse andato come speravano, sarebbero dovuti essere gli Auror la sua principale fonte di pericolo.

Si era occupata, tra l’altro, anche della protezione di quell’abitazione da possibili attacchi, aumentando gli incantesimi difensivi e potenziando quelli già esistenti. Aveva stregato anche un paio delle piante del giardino, per ogni eventuale evenienza. Non si era dimenticata, poi, di far aggiungere, compilando non poche scartoffie per il Ministero, anche il suo camino alla rete nazionale di Trasporto Magico.

Infine, aveva troncato il suo fidanzamento, lasciando Draco senza molte spiegazioni.

Non poteva fare altrimenti, aveva deciso che questa sarebbe stata la sua strada e non si sarebbe voltata indietro, neppure per piangere. Smise di rispondere alle lettere che quotidianamente gli mandava via gufo, anche solo per chiederle come stava. Lui, preoccupato, si presentò immediatamente a casa sua, ma Hermione non si fece trovare. Tutto mutò in paura ed ansia. Poi, Malfoy ricevette quel suo ultimo messaggio. Riempito di scuse che non avrebbe mai accettato, gli rivelò d’essersi innamorata di Christopher Hunt e che, nel suo cuore, non c’era più spazio per lui e per il futuro che, insieme, avrebbero avuto.

Inutile dire che nessuno avrebbe potuto credere a quelle motivazioni.

Il suo già ex-fidanzata bussò urlando alla sua porta. Fu costretta ad aprirgli e a reggere il suo sguardo.

Cercava ancora di capire come vi era riuscita, ma non trovava ancora alcuna risposta che non fosse la sua disperata accettazione. Del suo destino, della fine che la attendeva.

 

***

 

“Se vuoi lasciarmi, devi avere il coraggio di dirmelo. Devi guardarmi negli occhi”.

Questo gli aveva chiesto.

Lo aveva fatto.

Scosse piano il capo, trattenendo appena un’espressione di noia. Incrociò le braccia sotto al petto. I suoi occhi si fossilizzarono su quelli grigi di lui.

“Tra noi è finita. Ora, non in un futuro prossimo” disse, scandendo piano le parole “Ora”.

Vide i suoi occhi farsi lucidi, mentre chinava il suo sguardo e, rabbioso, tirava un pugno contro il muro. Si ferì alla mano, da cui prese a sgorgare sangue in maniera costante. Lo vide voltarsi, pronto ad andarsene sconfitto. Ma non era soddisfatta, non era abbastanza. Doveva conficcare più in profondità quello stiletto. Lo chiamò. Si volto con uno strano sorriso, le gote segnate da lacrime che non aveva neppure il coraggio di  versare. Le avrebbe perdonato tutto, anche questa sua crudeltà, pur di riaverla.

Lei allungò la mano verso di lui, reggendo tra le dita il braccialetto che le aveva regalato. Il segno del loro amore.

Vedere il suo volto cambiare espressione in maniera istantanea la fece quasi morire. Draco cercò di dire qualcosa, ma le parole gli morirono sulle labbra prima d’acquisire un qualsiasi suono. Gli voltò le spalle e si chiuse la porta di case alle spalle.

Protetta, dal suo sguardo e dal desiderio di chiedergli scusa. Vinta, dal peso di ciò che aveva deciso d’affrontare.

 

Dopo molte settimane di preparazione, il momento cruciale era giunto. Lo studio, la pratica, i combattimenti, il dolore. Tutto era finalizzato solamente a questo. Lei che a malapena era in grado di dire una bugia, avrebbe dovuto mentire a tutti, se stessa compresa, per entrare nelle grazie di Lord Voldemort. Sicuramente sarebbe stata sottoposta ad alcune prove e lei doveva dimostrare non solo d’essere in grado di superarle, ma anche di poterlo fare senza essere costretta neppure ad impegnarsi. Non si poteva accontentare d’essere brava, se voleva trarre in inganno il Signore Oscuro, doveva essere eccelsa.

Era già notte. Malfoy Manor, ora sede principale del convoglio dei Mangiamorte, si stagliava ancora più oscura su quella volta celeste d’un tetro blu notte. Non una stella illuminava il suo cammino e anche la Luna sembrava averle voltato le spalle. Dell’intero complesso, tra le antiche pietre che componevano le pareti, solo un paio di finestre al secondo piano trapelavano, con le luci arancio e flebili che emanavano, una qualche forma di vita all’interno.

Il suo incedere, su quelle décolleté laccate di nero e leggermente aperte sul davanti, era sicuro e fiero. Poco importava che nel suo petto il cuore sembrasse voler lacerare la sua stessa carne, era l’apparire quello che solo aveva importanza. Nascosto sotto un cappuccio calato sul viso, incorniciato da un unico ciuffo più lungo degli altri, il suo sguardo era fermo. Nel pungo destro, ben salda, la sua bacchetta, pronta a scattare ad ogni evenienza. Hermione si avvicinò al portone di ferro battuto, studiandone per pochi istanti i contorti arabeschi e le cime acuminate. Intravide, con non poca fatica vista la sua inesperienza in quell’ambito, una traccia magica. Un potente incanto oscuro, una violenta maledizione che avrebbe colpito chiunque avesse valicato quella soglia senza permesso. Un potente virus, in grado di condurre alla morte in pochi mesi. Una variante meno aggressiva di quella che, ora lo sapeva, aveva infettato Silente al braccio sinistro. Impossibile da arrestare, ostica persino da rallentare. Nonostante ciò, sapere che il vecchio Preside di Hogwarts sarebbe morto comunque non aveva reso la sua morte meno ingiusta.

Un servo le si avvicinò, chiedendole chi fosse.

“Hermione Granger Bright. Riferisca al suo Padrone che sono venuta ad offrigli i miei servigi”

Dopo pochi minuti, l’alta inferriata si aprì e un elfo domestico la condusse all’interno di quella che, un tempo, era stata la casa di Draco. Troppo presa da ciò che stava per fare, lanciò un’occhiata disinteressata e prese a seguire la creatura salendo l’ampio scalone che conduceva ai piani superiori.

Il rumore dei suoi tacchi scandiva i trascorrere dei secondi, così come il lieve frusciare di quell’abito lungo fino al ginocchio sembrava essere deciso a contare le contrazioni del suo cuore. Non era, quella che indossava, la tenuta migliore per tenere un combattimento, ma aveva scelto qualcosa di sufficientemente ampio da non impedirle il movimento. Di nuovo, tutto ciò che aveva da giocarsi era il suo aspetto esteriore e quello che questo suggeriva.

Si fermarono dinnanzi ad una grande porta di mogano a doppia anta. Hermione trasse un grosso respiro. Quando questa si aprì, entro con passo sicuro. Una grande stanza, illuminata da un prezioso lampadario di cristalli di Boemia e con ampie vetrate. Non era questa la zona che dall’esterno aveva visto illuminata, ma sembrava che la riunione, visto il suo inatteso arrivo, fosse stata spostata di ubicazione. Molti furono gli sguardi che ricevette, ma su alcuni si soffermò più che su altri. Bellatrix Lestrange, colei che aveva ucciso i suoi  genitori, pareva essere curiosa e divertita, mentre, al contrario, Fenrir Greyback, che aveva ferito gravemente Bill Weasley, non sembrava essere molto felice della sua comparsata, cui avrebbe posto facilmente rimedio sbranandola. Ma tra tutti, non poté non soffermarsi sul volto imperturbabile e ambiguo di Piton, l’assassino di Silente. In quella stanza, era riunite tutte quelle persone che aveva distrutto la sua esistenza e delle persone a lei carica.

Lord Voldemort ridacchiò, interessato alla sua presenza lì e a quel suo strano e suicida coraggio.

Non avevano i volti coperti dalle loro solite maschere: da quel luogo, lei sarebbe uscita Mangiamorte o cadavere. Non c’era altra via di fuga, né alcuna alternativa da vagliare.

“Allora, signorina Granger, cosa la porta nella mia umile dimora?” esordì il Signore Oscuro con la sua voce sibilante “O preferisce essere chiamata Bright?” concluse con un ghigno malefico sul viso.

Fu il caos. Qualcuno cominciò a parlottare, altri a ridacchiare senza un motivo apparente.

Nella folla, qualcuno parlò a voce troppo alta.

“È l’Impura!”

Hermione lo squadrò dall’alto in basso.

“Avery Junior” disse tranquilla “Ho studiato il suo albero genealogico, di recente, e secondo le mie ricerche il suo sangue è ben meno nobile del mio, semplice Nata Babbana che ha avuto la fortuna di divenire parte di una delle famiglie più antiche dell’aristocrazia magica inglese” continuò, guardandolo con aria di sufficienza “Ma del resto, se non fosse risaputo che è completamente sprovvisto di astuzia, avrebbe avuto la furbizia di starsene in silenzio, visti i suoi disastrosi trascorsi. Mi dica, com’è stata la sua esperienza ad Azkaban? Certo che sfuggire ad una prima accusa dichiarandosi sotto l’effetto della Maledizione Imperius per poi venire incarcerato a causa di un manipolo di ragazzini nell’Ufficio Misteri non le fa proprio onore …”

Aveva toccato il nervo scoperto giusto. La reazione dell’uomo, fu immediata. Lo vide impugnare la bacchetta e questo le bastò per ritenere quel gesto un attacco.

Il suo braccio compì un rapido vortice nell’aria, mentre lei si spostava in posizione d’attacco. Prevedibilmente, l’incanto andò a segno. Le sue pupille parvero cominciare ad ingrandirsi, fino ad inglobare completamente l’iride azzurra e il biancore dell’orbita. Se non fosse stato per quel lieve rigonfiamento al di sotto delle palpebre, si sarebbe detto che qualche essere mostruoso glieli avesse cavati.

Cadde al suolo stramazzato, senza emettere alcun gemito.

Il rumore di due mani che cozzano tra di loro rianimò la stanza. Lord Voldemort la stava applaudendo.

“Magia Oscura di livello molto avanzato” motivò “Una piacevole sorpresa, signorina”

Hermione chinò il capo in una reverenza che non si faceva il minimo problema a mostrare un’insita superbia.

“Malfoy” continuò l’Oscuro Signore “Sciogli l’incanto e riporta tra di noi quell’idiota del tuo compagno”.

Dalle retrovie, Lucius Malfoy, ancora rinchiuso ad Azkaban per l’opinione pubblica, uscì con passo incerto e testa bassa. La Granger mascherò alla perfezione il suo stupore, con un’espressione schifata.

“I Dissennatori andrebbero istruiti meglio” commentò con cattiveria.

Il suo unico interlocutore si alzò dal suo trono. Le fece cenno d’avvicinarsi e lei così fece.

“Dimmi, cosa mi offri?” le domandò, toccandole il viso con la sua mano diafana.

“Potrei offrirle informazioni, ma so che non ne ha bisogno” gli rispose, sorridendo a Piton “Quindi, le offro la possibilità di divenire immortale”

Quello che un tempo era stato il giovane Tom Riddle si fece improvvisamente serio.

“Interessante” sussurrò Voldemort “Ma impossibile. Ho già fatto ogni genere di ricerca, a riguardo, e ho vagliato tutte le possibili alternative, le quali, però, fino ad ora si sono dimostrate tutte piuttosto deludenti”

Sul volto della ragazza si dipinse quell’espressione compiaciuta che molte volte aveva riservato ai suoi insegnanti e ai suoi compagni di classe.

“So tutto a riguardo” esordì annuendo piano “Il sangue d’unicorno, la pietra filosofale, il rito con cui è stato riportato in vita. Ritengo, tuttavia, che non abbia ancora vagliato l’ipotesi del Tredicesimo modo di utilizzare il sangue di drago”

Venne bruscamente interrotta dal mago oscuro.

“Sono solamente dodici”

Hermione colse la palla al balzo.

“Sono dodici quelli che Silente ha dichiarato pubblicamente. In realtà, però, se ne dovrebbe annoverare un altro che, però, è rimasto sempre abilmente celato. Si tratta di un progetto segreto, presente in un’unica forma manoscritta”

“Mi stai dicendo che quel vecchio pazzo è riuscito a ottenere la chiave per l’immortalità?”

“Lo trova poi così improbabile? Se non erro, è stato proprio quel vecchio pazzo, nel suo periodo migliore ovviamente, a creare la Pietra Filosofale assieme al celebre Nicholas Flamel. E vogliamo disquisire, per caso, del Fuoco Gubraitiano, l’unica fiamma in grado di non spegnersi mai? Risulterebbe ovvio a qualunque stolto che Albus Silente era particolarmente interessato a questo concetto. Non era, del resto, una rarissima fenice il suo animale da compagnia?”. Era questo il suo affondo, la strategia che aveva accordato con Drew. Ed entrambi erano pronti a svelare il mistero che Silente aveva raccontato al professor Kennan prima che questo abbandonasse Hogwarts per partire alla caccia dell’assassino della propria madre.

Vide nei suoi occhi una vena d’interesse.

“E tu sai dove questo si trova?”

“All’interno di Hogwarts, ben protetto in un luogo segreto. Non ne conosco l’esatta collocazione, ma sono sicura che, se potessi svolgere qualche ricerca all’interno della scuola, potrei trovarlo”.

Questo era il suo obbiettivo. Riuscire a diventare un occhio per Voldemort, all’interno della scuola, ora che il nuovo Preside si era istaurato e che le misure di protezione, dopo quella inaspettata ribellione nei confronti del Ministero, erano aumentate. Per un Mangiamorte non sarebbe stato semplice infiltrarsi all’interno, ma, in fin dei conti, anche prima di Marcus Belby ciò sembrava pressoché impossibile.

In quell’istante, gli sovvenne del ragazzo e lo cercò con lo sguardo. Quando lo trovò, vide in lui solo lo spettro di quello che era. La punizione per non aver ucciso Silente non doveva essere stata semplice da superare.

“Severus, ti prego, offri da bere alla nostra graditissima ospite” disse improvvisamente il Signore Oscuro.

L’attimo cruciale. Vita e morte si basavano solo su questo.

Veritaserum. Impossibile da riconoscere, non in quel bicchiere d’acqua, almeno. Tuttavia, Drew aveva supposto che avrebbe dovuto superare questa prova. Era stata una tortura quotidiana, a cui si era dovuta sottoporre. Alla fine delle loro sezioni di allenamento, dopo che lei era stata costretta ad assumerne alcune gocce e dopo che il suo insegnate privato l’aveva tempestata di domande, ben poche erano le cose che poteva definire private. Nell’arco di un’estate, il professor Kennan era venuto a conoscenza di molti dei suoi segreti, da ciò che provava nei confronti di Draco, ai suoi timori per il futuro.

Alla fine, però, sebbene non potesse in alcun modo mentire sotto l’effetto di quella pozione, era riuscita a controllare i suoi pensieri e a formulare risposte che, pur tralasciando una parte della verità, non potevano essere definite false. Assuefazione da Veritaserum, l’unico metodo per ridurne gli effetti.

Bevve quindi dal bicchiere senza timore, psicologicamente pronta a rispondere alle domande che il Signore Oscuro le avrebbe porto.

“Per quale motivo sei qui?”

“Per la gloria”. La gloria che portarlo alla sconfitta definitiva le avrebbe arrecato.

“A cosa sei disposta?”

“A tutto ciò che sarà necessario”. A tutto ciò che sarà necessario per ottenere il mio unico obbiettivo.

“Ucciderai chiunque si metterà sulla tua strada?”

“Sì” disse, senza alcuna remora.

“Allora, il tuo primo bersaglio sarà Drew Kennan” disse, pronto ad assistere glorioso a qualsiasi reazione la ragazza avesse avuto. Sul suo volto, però, c’era solo risoluzione.

“Se è questo che desidera, così sia” gli rispose, quasi annoiata da quell’incarico. Nessuna domanda, ergo nessuna bugia che il Veritaserum avrebbe potuto svelare.

Anche perché, stranamente, sentiva l’effetto di quel distillato meno soffocante.

“Perfetto, Hermione. Porgimi il braccio”

Quando la punta della sua bacchetta toccò la sua pelle, le stilettate di dolore raggiunsero galoppanti la sua testa. Avrebbe voluto urlare, ma non lo fece. Era stata marchiata. Come un animale.

Come una traditrice, quale era.

 

***

 

Non sapeva su cosa concentrare le sue preoccupazioni, se sul duello che stava per tenere con Drew o se su quell’eredità che Silente le aveva lasciato e che non riusciva ad interpretare. Non era l’unica, anche Harry, Ron, Draco, Blaise e Daphne avevano ricevuto qualcosa dal Preside. Questo l’aveva spinta a pensare che si trattasse d’un indizio per la ricerca degli Horcrux, quindi, non sapendo se e quando avrebbe rivisto l’unica persona a conoscenza del suo segreto, doveva riferirgli tutto quello che ne aveva carpito durante il loro combattimento. Un appunto in penna, su una delle tante pagine d’una versione antica, tanto da essere scritta in Antiche Rune, di quella che aveva scoperto essere una raccolta di racconti per bambini: le Fiabe di Beda il Bardo.

In qualche modo, doveva far sì che Drew facesse arrivare ad Harry quell’informazione.

Si fece largo nella folla, colpendo chiunque le venisse a tiro, ma evitando di infliggere ferite mortali. Infine, fiancheggiata da altri Mangiamorte, tra i quali la stessa Bellatrix, accerchiò il professor Kennan.

Non avevano avuto modo di stabilire un piano comune. Semplicemente, avrebbero duellato, come durante un allenamento, senza risparmiarsi alcun colpo. Sapeva solo che Drew confidava nell’intervento di qualcuno.

Lei sperava solamente che nulla andasse storto, o si sarebbe vista costretta ad ucciderlo.

Qualcuno provò ad alzare la bacchetto contro di lui, ma Hermione, rapida, lo disarmò.

“Lui è mio!” gridò sicura di sé, mentre la sua voce veniva resa più profonda e gracchiante, quasi mascolina, dalla maschera che indossava.

La loro fu una danza di perfetta sincronia che durò quasi per una decina di minuti. Ad ogni attacco seguiva un incantesimo Scudo o una controffensiva.

Poi, un affondo imprevisto, invece di una parata, colse il professore in fallo. Una magia oscura lo colpì in pieno petto, ritrovandosi incapace di muovere gli arti superiori.

“Incarceramus” sibilò, mentre pesanti catene uscivano dalla sua bacchetta e, dopo averlo spinto contro un albero, lo legavano a questo. Un serpente che tiene tra le sue spire una povera preda.

Sciolse in uno sbuffo di fumo nero la propria maschera e si fece scivolare il cappuccio sulle spalle.

“Hermione?” chiese realisticamente sconvolto Drew. “Tu?”

La ragazza sogghignò e alzò le spalle.

“Mi spiace, ma al momento attuale sei diventato solo un peso” gli spiegò tranquilla, avvicinandosi di un passo “Ma non ti preoccupare, mi prenderò cura io dei risparmi della famiglia Bright”

Bellatrix che piacevolmente colpita l’aveva raggiunta, la invitò a finirlo.

“Non ancora” rispose lei, avvicinandosi alla donna e sussurrandole quelle due parole all’orecchio.

Hermione alzò la bacchetta e, dopo aver evocato un incantesimo non verbale, prese a muoverla lentamente.

La camicia candida del professore cominciò a macchiarsi di rosso in maniera indistinta. Ampi squarci si stavano aprendo sul suo petto.

Poi, qualcosa accadde inatteso.

Un rapace si avventò sulla sua mano, recidendole in maniera profonda la carne con i propri artigli e lanciando lontana la sua bacchetta. Poi, si avventò con violenza sul viso di Bella, sfigurandola.

Con una rapidità che mai aveva visto neppure nella McGranitt, l’animale mutò in donna.

Non poté neppure studiarne il profilo.

Questa, afferrato per una mano il professor Kennan, si era Smaterializzata nel nulla.

Il Falco aveva fatto la sua entrata in scena.

Anche l’ultima pedina della sapiente scacchiera di Silente si era mossa.

 

 

Note dell’Autore

Avrei voluto che non fosse così, ma, dopo un anno di pausa, avrei dovuto intuirlo. Sì, sono piuttosto arrugginito. Sì, probabilmente non sarò più in grado di gestire né i miei personaggi né la mia trama.

Tuttavia, questa rimane la mia piccola fatica e deve avere un finale.

Per chi fosse interessato, questa è You and Me.

Qui, invece, trovate la mia pagina Facebook.

Un grazie a chi ha letto e a chi leggerà.

Sperando che qualcuno commenti,

Jerry

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Capitolo 2
*** Song of a White Crow ***


Chapter two, Song of a White Crow

Al mondo dei GdR online.

A chi vi ho incontrato, indistintamente.

A chi ha dato peso al mio parere e a chi no.

Ma, sopra ogni cosa,

A Bryan, Alexander, Aden, Raphael ed Aaron.

 

Continuava a ripetersi che quelle ferite non erano profonde e che Hermione, sapendo benissimo quello che stava facendo, aveva riposto la massima attenzione nell’evitare ad ogni costo d’urtare, anche solo per errore, un organo vitale. Queste parole, però, non riuscivano ad avere neppure lontanamente il bramato effetto di pacificargli lo spirito: la sua mente continuava ad impuntarsi sul fatto che una qualsiasi lesione, per quanto superficiale, fosse una condizione anomala per il corpo d’un essere umano. Sentirsi il cuore nel petto, in quegli istanti, gli parve una maledizione, poiché sapeva che ad ogni pulsazione l’alta velocità della pressione riversava il suo sangue all’esterno. Lontano, in un luogo che gli era mortifero per il semplice fatto che gli strappava quel liquido così fondamentale alla sua esistenza. Percepì una strana solitudine tanto diversa da quella che aveva provato piangendo sul corpo di sua madre, quanto terrificante. Soffocante.

Gli mancò il respiro e le sue mani, prese a tamponare la recisione, si portarono al collo, stringendolo nel disperato tentativo d’ingoiare un soffio d’aria. Fu l’inizio.

Annaspava ma questo non gli permetteva d’escludere dalla propria testa l’odore ferroso che il suo olfatto aveva riconosciuto: era sporco di sangue.

No, era cosparso di sangue. Scuro, denso, salato. Si sentì comprimere, quasi come se qualcuno si stesse divertendo a spremerlo per stillare dal suo corpo anche l’ultima goccia di calore. Tutto divenne improvvisamente inarrestabile, mentre le sue mani, disarcionato il proprio padrone, continuavano a stringere la presa attorno alla sua stessa gola, cercando d’anticipare il sopravvento della morte.

Poi, fu solo calore. Lo avvertì insinuarsi sotto i suoi vestiti, nelle pieghe della tela. Stava per dipartire in un mare scarlatto, stava per affogare nel proprio sangue.

Voleva urlare, ma sapeva che, se lo avesse fatto, avrebbe solo ottenuto solo la spiacevole conseguenza di velocizzare quel fin troppo rapido processo. La sua bocca si sarebbe riempita e, non potendo fare altro, avrebbe dovuto deglutire. E morire.

Si ritrovò al suolo, in ginocchio, con una mano stretta a pugno contro l’erba umida e con l’altra tesa sull’addome. Gli era parso che i suoi polmoni, nella disperata ricerca d’aria, fossero sul punto d’implodere, perciò, quando la spiacevole sensazione della Smaterializzazione terminò, prese ad annaspare terrorizzato: quella sensazione soffocante non se ne era ancora andata. Era confuso: troppo per poter mantenere saldo il controllo sui propri timori e per agire con logica consapevolezza di ciò che gli stava accadendo.

Percepì sul viso le dita sicure della donna che lo aveva salvato.

«Drew, respira».

La voce di lei, priva di inflessioni e pacata, parve sedarlo. Il caos nei suoi pensieri, fortunatamente, mascherò quel tintinnio di preoccupazione che, altrimenti, avrebbe avvertito nel modo in cui aveva pronunciato il suo nome.

Al rezzo dell’albero del Dolore, i suoi occhi si chiusero sull’increspatura tremante della sua voce. Quel sussulto d’amante scivolò, non visto, tra le dita di lei, con cui, docile e decisa, gli sfiorava il volto.

«Ho improvvisato una fasciatura, ma dobbiamo raggiungere Madama Chips il prima possibile. Ce la fai ad alzarti?». 

Solo in quell’istante l’uomo riconobbe che la consistenza grezza che avvertiva sotto le dita era quello di una benda e che non poteva essere il tessuto morbido della sua camicia. Quando l’altra avesse lanciato quell’incantesimo, non riusciva proprio a capirlo. Fortunatamente, negli ultimi anni, la sua rapidità doveva essersi ancora incrementata. C’era qualcosa, però, che la strega non riusciva a spiegarsi: come poteva quel ragazzo essere così debilitato da ferite che, fondamentalmente, non erano neppure lontanamente mortali? Aveva assistito alla scena: la Mangiamorte era intenzionata a prolungare molto a lungo quella tortura che lo avrebbe condotto alla morte, non si sarebbe mai concessa un incantesimo mortale. Drew, infatti, era disarmato, un Avada Kedavra avrebbe risolto ogni problema. Senza contare che, non avendo utilizzato la maledizione Cruciatus, chiaramente bramava d’ucciderlo lentamente. Non aveva perso sufficiente sangue.

Eppure, i suoi occhi erano sbarrati e vuoti.

Testardo e risoluto, lo vide provare ad alzarsi.

La ragazza, rimanendo schiacciata dal suo peso, riuscì ad afferrarlo prima che rovinasse al suolo.

«Maledizione» imprecò a bassa voce, troppo presa a pensare ad una soluzione per poter anche solo immaginare d’avere l’autorità di preoccuparsi. Dalla manica sinistra della giacchetta di pelle nera trasse la sua bacchetta che, flessuosa, frustò l’aria mentre dalla sua punta già si librava il primo incantesimo. Una panchina, posta al limitare del sentiero che, fiancheggiando un fitto bosco, conduceva ad Hogwarts, si animò, affrettandosi per raggiungerli. Con non poca fatica, il Falco riuscì a farlo stendere, assicurando il suo corpo con un paio di corde che aveva evocato con una blanda versione di un incanto Incarceramus.

«All’infermeria, muoviti! Io vi seguo in volo, procederemo molto più velocemente» ordinò all’oggetto magicamente animato.

Le sue braccia si ricoprirono di piume mentre il corpo, rimpicciolendosi, assumeva i connotati di quello di un rapace. Sul petto candido dell’animale, laddove prima brillava un piccolo diamante nero incastonato in un ciondolo dall’aria antica, vi era una macchia più scura che ne richiamava perfettamente la forma.

Con un paio di possenti battiti d’ala, che frustarono l’aria con un suono sordo, l’animale si librò in aria, cominciando la corsa.

 

La calura di quella prima mattinata di mezza estate sembrava essere intenzionata  a togliergli il respiro. Non che non apprezzasse quella torrida perturbazione che, insolitamente, aveva scacciato gli abituali nuvoloni di pioggia dal cielo plumbeo di Hogwarts, ma quell’afa rendeva ogni azione molto più faticosa del normale.

Così, desideroso di godersi il profumo fresco che la Foresta Proibita emanava, camminava piano lungo quel sentiero ciottoloso, sfruttando l’ombra delle fronde per trovare ristoro da quel sole, ormai prossimo allo zenit, che pareva essere più impietoso del solito.

I fili d’erba, ingialliti dalla calura, spuntando sparuti dal terreno riarso, imploravano dell’acqua, mentre instancabili formiche correvano dall’una all’altra parte in quella che avrebbe potuto essere scambiata in un’implorante danza della pioggia. Sopra il silenzio si ergeva potente una litania che ora era cicaleggio ora invito all’ozio, ma che, ininterrotta, scandiva il lentissimo susseguirsi dei minuti.

Sabbia che, frusciando sui propri stessi granelli, andava ad ammucchiarsi in una clessidra.

Intravide Hagrid nella propria capanna che, sudato, si prodigava nella preparazione di qualche strana pietanza che avrebbe rifilato ad una delle sue mostruose creature. Drew bussò piano sul vetro lercio della finestra, attirando la sua attenzione e rivolgendogli un cenno di saluto alzando la mano. Il Mezzogigante, con un sorriso a trentadue denti, gli venne incontro, spalancando l’infisso con un cigolio sinistro. Per quanto ottimo fosse stato il lavoro dei professori di Hogwarts, McGranitt in testa, non era stato possibile rimuovere completamente i segni dell’incendio innescato da Piton: la mobilia, scarti di cose diroccate quasi come la Stamberga Strillante, era completamente nuova e, sulle assi del pavimento e delle pareti, il legno assumeva una sfumatura nerastra.

Non appena il Guardiacaccia si sporse per stringerlo in un abbraccio con cui quasi gli incrinò un paio di costole, un refolo di putridume misto a zolfo schiaffeggiò il suo olfatto.

«Il pranzo per gli Schiopodi!» asserì Hagrid, in risposta al quesito del giovane Kennan.

Dopo essersi intrattenuto con l’uomo per qualche minuto, il suo sguardo cadde sull’orologio, confermandogli che l’ora del suo appuntamento con la nuova Preside di Hogwarts si stava avvicinando.

Rifiutando con affabile cortesia l’offerta ad abbuffarsi con alcuni dei suoi famosi biscotti rocciosi, Drew se ne congedò, promettendogli però, che un giorno si sarebbe fermato per assaggiare la sua Tisana d’Erba Piperita, particolarmente rigogliosa, a dire di Hagrid, in quel periodo dell’anno, nel primo sottobosco nelle vicinanze del Lago Nero.

Finalmente, riprese il suo cammino. Intravide, di sfuggita, Pomona Sprite con un cappello di paglia rattoppato schiacciato sulla testa, mentre si apprestava ad entrare nella Serra delle Piante Magiche Tropicali.

Da quello che era riuscito a capire, la donna aveva ottenuto il baccello di una rarissima pianta della foresta Amazzonica, cui si stava dedicando completamente. La cosa però, entusiasmava solo lei e Neville Paciock, disposto ad anticipare il suo ritorno a scuola per aiutarla almeno un paio di volte alla settimana. Voci di corridoio però, dicevano che si fosse accampato ai piedi del germoglio, così da non perdersi neppure una fase del suo lentissimo sviluppo.

Ridacchiando, l’uomo spinse la pesante anta del portone d’ingresso, che si rischiuse con un tonfo sordo alle sue spalle.

Le spesse ed antiche pareti dell’edificio, con suo grande piacere, parevano essere in grado di mitigare un po’ il clima all’interno, quasi come se potessero rilasciare progressivamente il freddo accumulato nelle fondamenta durante l’inverno precedente.

O forse, quel genio un po’ folle del professor Vitious aveva ideato un particolare incanto Refrigerante.

Risalì l’ampio scalone, svoltando l’angolo a destra. Non era sua abitudine essere in ritardo e questa non sarebbe stata un’eccezione.

Attraversò nella loro interezza alcuni corridoi fino a quando uno strano verso gracchiante attirò la sua attenzione.

Era la Cooman che, reggendo un paio di bottiglie di sherry semivuote, avanzava verso di lui barcollando. Da quando Silente era morto, nel timore che, senza il suo principale protettore, qualcuno la cacciasse dal castello, la fattucchiera si era concessa completamente al suo superalcolico preferito. Poi, quando la McGranitt si era insediata e le aveva promesso solennemente che nessuno l’avrebbe mai cacciata, aveva preso a bere per festeggiare. A conti fatti, la professoressa di Divinazione non era sobria almeno da un paio di mesi. Drew quindi, on rimase poi molto basito dinnanzi a quel suo cantare stonato e a quel suo pericoloso ondeggiare.

«Buongiorno» le disse, conscio che, probabilmente, quella neppure lo aveva riconosciuto.

La donna però, parve come ridestarsi da un lungo sonno.

Urlando, gli corse incontro agitando le braccia, come a voler frustare l’aria. Giunta al suo cospetto, guardandolo dal basso a causa della propria statura, lo fissò attraverso le sue lenti circolari e spesse.

I suoi occhi si voltarono all’indietro e lei gli si gettò tra le braccia avvinghiandosi al suo collo.

«Il tuo avvenire risiede nel tuo sangue» gli sussurrò all’orecchio.

«Se per il tuo sangue sacrificherai te stesso, Chimera, avrai in cambio il dono della vita!».

Intimorito, Drew rimase in silenzio, senza muovere la Veggente che ancora gli stava addosso. All’improvviso, qualcosa accadde: un sonoro rutto presagì che anche l’ultimo sorso di sherry aveva raggiunto il suo fegato.

«Scusa» bofonchiò la Cooman, mentre, rimettendosi in piedi, riprendeva la propria strada.

Il giovane Kennan la imitò, dirigendosi nella direzione opposta. Aveva appena assistito al melodioso canto del corvo bianco e ne era ancora provato.

Gli restavano solo quegli ultimi scalini che, al suono della parola d’ordine, si sarebbero palesati alle spalle del monolitico gargoyle. Non sapeva per quale motivo Minerva lo aveva convocato ma, essendo a conoscenza da mesi di duelli diplomatici trascorsi, si ritrovò ad attendere qualche istante, quasi a volerle concedere un attimo in più per ripetere nella propria testa, quel discorso che, a breve, gli avrebbe riproposto. Le offriva, per quanto questa potesse valere, la cortesia di concedersi un momento per trarre un respiro profondo.

Quel contatto fisico improvvisto lo fece sobbalzare, Qualcuno, che per un secondo intuito pensò si trattasse della Cooman, gli aveva schiaffeggiato con decisione il sedere e, ne era certo, quella mano colpevole si era soffermata su quella zona erogena per un tempo spudoratamente lungo.

Esterrefatto, Drew si scostò dall’alto pilastro cui si era appoggiato, rivolgendo uno sguardo alle sue spalle, avendo cura di completare la sua espressione attonita con un ghigno sarcastico.

Se anche avesse voluto tramutare il suo mutismo in una qualche forma di insulto, la possibilità gli venne strappata da una giravolta rapida e da una risata gioviale.

«Vedo con estremo piacere che ti sei tenuto in forma, Drew» scherzò la donna, con un sorriso smagliante sulle labbra.

«Amelia Fay» scandì lui di ritorno, dopo averla immediatamente riconosciuta.

Era cambiata molto dall’ultima volta che l’aveva vista: non era più una ragazza, tuttavia vi ritrovava i suoi non più così dolci lineamenti, escludendo il taglio drastico ai capelli, i quali le lambivano appena le spalle, sebbene un tempo fossero lunghi fino alla base della schiena.

La sua corporatura era rimasta invariata, lasciandola gracile, quasi esile, e non particolarmente alta. Un candido vestito senza spalline rimarcava la sua siluette, celando il seno minuto, ma portato con grande fierezza, e chiudendosi, con un’alta cintura nera, sulla sua vita sottile, salvo poi aprirsi in una vistosa ma raffinata gonna a balze, i cui fronzoli si interrompevano a qualche centimetro dalle ginocchia.

Il suo viso, perse le linee morbide della fanciullezza, s’era fatto più spigoloso, accentuando gli zigomi alti e le labbra sottili, valorizzate da un rossetto bordeaux. Immutato era, invece, il suo piccolo naso all’insù.

Malcelato dalla frangia sbilenca dei suoi capelli corvini, il suo sguardo pareva aver assunto una tinta ancora più scura, sfumata dal carboncino d’un ritrattista di strada.

«Proprio lei!» esclamò in risposta «In tutta la mia sfavillante bellezza e su questo improponibile paio di tacchi» ironizzò, lanciando all’indietro la gamba destra, dimostrando, nonostante il disagio delle calzature, un’innata agilità. Quelle meravigliose décolleté, dello stesso colore dei suoi capelli, seppur ingraziosite da un nastrino di raso battevano il ritmo pesante di una marcia militare contro il pavimento. La sua figura veniva così privata di sinuosità, sebbene il tintinnare delle grosse pietre del braccialetto che portava alla mano sinistra sobillassero una più femminile cadenza.

«Cosa ci fai qui?» comandò Kennan, alzando un sopracciglio.

Quella, sdegnata, incrociò le braccia al petto.

«Dov’è finita la tua rinomata cordialità, brutto bifolco?». Detto ciò, prese a borbottare qualcosa che poteva benissimo suonare come una maledizione.

Drew, finalmente spensierato dopo molto tempo, scoppiò a ridere.

«Sono qui per incontrare la nuova Preside, comunque».

Colmati gli sconquassamenti delle risa, le si avvicinò e, prendendola per un polso, se la tirò al petto e l’abbracciò.

«Bentornata, Amy» le disse, posandole un bacio sulla guancia.

Quella, ancora più infervorata, allontanandolo da sé facendo leva con una mano contro il suo corpo, alzò lo sguardo per fissarlo negli occhi.

Sfruttando la mirabile altezza datale dai tacchi, congiunse le loro bocche per alcuni istanti, accogliendo tra le proprie, il labbro inferiore di lui.

Dopo aver cancellato con il pollice una traccia rosso scuro, inequivocabile prova del delitto, gli pestò un piede, senza però riporci troppa violenza.

«Questo è un bacio del “bentornata”» motivò, voltandogli le spalle sghignazzando. «E devo dire che mi fa piacere constatare che sai ancora di miele».

«Tu, cosa ci fai qui?» proseguì poco dopo chiedendo a sua volta, come se nulla fosse accaduto.

«Devo essere all’altezza delle tue aspettative, visto che non molti anni fa mia hai incoronato come “ragazzo più bello della nostra annata”» rispose, con il palese obbiettivo di destabilizzarla «E comunque, anche io sono stato chiamato a colloquio con la nuova Preside».

Fu il turno della donna di scoppiare a ridere.

«Era dell’intera Hogwarts!» esclamò, tutt’altro che scioccata. «Ammetto però, che fino all’ultimo gli addominali di Charlie mi hanno fatta vacillare e, se non fosse stato che per colpa sua mi sono dovuta accontentare del ruolo di Battitrice della squadra di Quidditch, forse avrebbe vinto» cominciò Amy ritrovandosi a riflettere ad alta voce e a fissare il suo interlocutore come a voler trovare, sul suo corpo, una conferma della scelta passata.

D’improvviso, dopo aver a lungo scrutato i muscoli e la leggera peluria di lui lasciati scoperti dalla camicia più sbottonata del dovuto, s’illuminò.

 «Capisco che per te la Mc è come una madre ma vuoi davvero presentarti da lei così? Povera donna, per quanto arzilla comincia ad avere una certa età!».

La frase lasciò Drew disarmato che, alzando le mani, dichiarò la propria resa.

« Stiamo facendo tardi» si limitò a constatare.

Alla parola d’ordine “Pigna, pizzicotto, manicotto e tigre”, la scultura di pietra si animò e, dopo essersi spostata, rivelò il passaggio.

«Andiamo» propose Kennan, mentre educato, visto lo sguardo intimorito di Amy dinnanzi alla scalinata, le porgeva un gomito a cui ancorarsi.

 Dopo aver bussato ed essere stati invitati ad entrare, i due fecero il loro ingresso accompagnati dai mormorii degli abitanti dei numerosi quadri appesi alle parti. Dalle ampie scaffalature erano stati tolti molti degli arredi appartenuti a Silente, rendendo così molto più spoglia l’intera stanza.

Troneggiava ancora però, l’antico Pensatoio, la cui superficie era increspata da brulicanti pensieri tormentati che l’anziana signora aveva qui riposto, in cerca di sollievo.

Quando lo scorse, si alzò stanca dalla poltrona, poggiando le mani sul piano della scrivania. Sopra il suo capo, protetta da una vetrina magica, pendeva la leggendaria spada di Godric Gryffindor.

«Vedo che vi siete già incontrati» esordì, stendendo le righe del viso in un sorriso «Prego, sedetevi» continuò, animando, con un gesto della mano, la lunga veste viola dalle ampie maniche. L’immancabile confezione metallica dei biscotti era affiancata da un vassoio di pasticcini decorati con i colori caldi e accesi della frutta fresca. Avvicinandolo di qualche centimetro, facendo scivolare piano, invitò loro a prendere qualcuno. Mentre Amy portandosi i capelli dietro all’orecchio si piegò in avanti, per quanto le gambe accavallate le permettessero, per sceglierne uno, Drew si limitò ad un pacato gesto di diniego.

Atteso il tempo necessario a che la giovane desse un morso al dolcetto e ne valorizzasse la bontà, la McGranitt cominciò a spiegare loro il motivo per cui si trovavano in quell’ufficio.

«Amelia, non so per quale motivo Albus ti avesse convocata e tu non sei arrivata in tempo per scoprirlo ma, come ti ho già detto, mi fa molto piacere rivederti, dopo tutto questo tempo» quell’introduzione, durante la quale lo sguardo di Minerva era corso verso il ritratto del suo predecessore, il quale sonnecchiava beatamente con gli occhiali a mezzaluna calati sul naso, presagiva amare constatazioni. «Purtroppo, il momento non è affatto dei migliori. Come sapete, la precedente dipartita di Silente ha lasciato molte cose in sospeso: poiché il suo assassinio non gli ha permesso di candidare un sostituto, il Ministero, che come sapete è effettivamente in mano al Signore Oscuro, sebbene Scrimgeour sia ancora in carica, aveva intenzione d’eleggere un nuovo Preside in maniera autonoma». La donna, con un austero chignon a chiuderle i capelli sulla nuca, mosse qualche passo verso l’ampia finestra che dava sul Parco. «Non ero neppure sicura che aprire i cancelli di Hogwarts fosse una scelta opportuna, ma non potevo permettere che venisse insediato a capo di questa scuola uno schifoso traditore come Piton». La sua mano destra si strinse a pugno sulla veste, in un moto d’orgoglio. «Così, ho candidato me stessa, sperando che le mie numerose referenze, nonché la mia superiore esperienza e preparazione, fossero sufficienti a scalzarlo dalla nomina. Ma, ovviamente, mi sbagliavo».

Amy, indignata dallo smacco che la sua prima insegnante di Animagia Avanzata aveva subito, riuscì a malapena a trattenere un moto di stizza.

«Sentii il peso della mia inferiorità rispetto ad Albus e temetti di non poter fare nulla per impedire che questo luogo venisse profanato« riprese la McGranitt.

«Mi manca la sua verve, la sua astuzia, la sua intelligenza,. Nonostante ciò, gli anni mi hanno insegnato che anche io posseggo delle qualità e, tra queste, la puntigliosità non mi ha mai tradito».

Finalmente, l’anziana donna si concesse un sorriso soddisfatto.

«Un vecchissimo decreto, tanto antico da non essere riportato sul regolamento scolastico da almeno un secolo. Così vetusto da risalire alla Fondazione di Hogwarts, ovvero prima che il Ministero, così come è composto attualmente, fosse concepito. Una legge, mai abrogata, contro la quale non potevano ordire alcuna contromossa, ideata da Helga Hufflepuff in persona. Fu l’ultima Fondatrice a spirare e, temendo che l’arbitro imparziale, il preside appunto, il quale avrebbe governato la scuola alla sua morte, potesse dimostrarsi incapace di tale compito, ideò una soluzione conforme alle sue idee».

Drew, silenzioso ma concentrato, la invitò a spiegarsi meglio.

«Il codice 21.2 dello Statuto Originario recita che, in caso di inadempienza da parte del capo d’Istituto, un appartenente al corpo docenti, ottenuto il favore dei quattro fantasmi delle Case e dei relativi Direttori, può prendere il posto, con i relativi poteri ed incarichi, oneri ed onori».

Non fu necessario specificare , dunque, che se anche Piton avesse ottenuto la cattedra somma di Hogwarts, lei avrebbe fatto ricordo, adducendo che, come da prescrizione, quell’incarico le spettava, in quanto detentrice degli otto assensi.

«Patteggiando r accettando alcune dovute condizioni, sono riuscita ad evitare che Piton potesse rientrare in questa scuola anche per un’ora soltanto».

Drew, che già era a conoscenza di tutto ciò poiché l’aveva aiutata sia durante gli incontri diplomatici sia durante le ricerche in biblioteca, cui avevano collaborato anche gli altri insegnanti e con particolare zelo di Madama Pince, che molto aveva da farsi perdonare, rimase dubbioso.

«Capisco che Amy, probabilmente, non fosse al corrente di tutto ciò, considerando come tutto è stato taciuto dalla stampa, Cavillo escluso» disse, non tacitando un astio quasi ironico. «Ma cosa centriamo noi due con tutto questo?».

Albus Silente, risvegliatosi dal suo torpore, molto sospetto, prese a ridacchiare.

«Il mio nuovo incarico mi impedisce di occuparmi della mia materia, dunque ben tre cattedre sono vacanti. Poiché Babbanologia risulta tra le discipline facoltative e poiché, comunque, pur non nutrendo io speranze a riguardo, la professoressa Charity Burbage potrebbe essere ritrovata, al momento attuale il problema più incalzante è un altro». La Preside, facendo scricchiolare le sue ossa stanche, si sedette. «Quindi, signor Kennan vorrei che lei divenisse il nuovo insegnante di Difesa contro le Arti Oscure, mentre auspico che lei, signorina Fay, voglia prendere il mio posto come insegnate di Trasfigurazione».

 

Aveva sfrecciato attraverso la scuola sfrecciando sopra le rampe di scale e tra i contorti corridoi, planando all’interno dell’infermeria prima ancora di riassumere la sua forma umana e ritrovandosi a frenare la scivolata con le proprie comode scarpe da ginnastica.

Madama Chips, pensando di dover trascorrere una delle sue ultima giornate di tranquillità estiva, s’era concessa un pisolino pomeridiano. La voce di Amy la risvegliò completamente, facendole ritrovare dopo un iniziale e comprensibile spaesamento, la fredda lucidità che il suo lavoro richiedeva, con tutti gli incidenti che capitavano continuamente in quella scuola. Ancora una volta, conteggiò mentalmente gli anni che le mancavano al pensionamento, rendendosi conto, nuovamente, che era ancora troppo giovane.

«Cosa sta succedendo?» domandò, uscendo dal suo ufficio mentre la professoressa Fay si stava togliendo, accaldata, la giacchetta di pelle scura, rimanendo in canotta.

«Il professor Kennan è stato ferito da un Mangiamorte» rispose lei, indicando il ragazzo già adagiato su un lettino. Intanto, una panchina sconsolata faceva ritorno alla propria dimora. «Le ferite non sembravano così profonde, eppure…».

Non ebbe il tempo di concludere quella constatazione, l’infermiera era già accorsa dal suo nuovo paziente.

«Buongiorno, Poppy» la salutò l’uomo, tranquillizzatosi nel corso del tragitto, sebbene fosse troppo provato per potersi definire pienamente cosciente.

«’Giorno Drew, è sempre un piacere averti qui» replicò lei, alludendo implicitamente, alle molte volte in cui aveva avuto bisogno delle sue cure.

«Sono stato peggio, vero?» le chiese, volendo sdrammatizzare la situazione.

Lei, prima di rispondere, si prese qualche istante per visitarlo. Trovò il suo battito cardiaco estremamente accelerato. Con un colpo di bacchetta esperto, sciolse la fasciatura ed esaminò la ferita. O almeno ci provò. L’enorme quantità di sangue che fuoriusciva dalle diverse incisioni rendeva impossibile individuare con precisione i punti in cui la carne era stata recisa.

Afferrato un panno pulito e sterile, tamponò la parte lesa.

Improvvisamente, i suoi occhi si illuminarono.

Cedette l’onere di vare pressione alla giovane che, nel farlo, si sporcò nuovamente di sangue.

Mentre fisava Drew nei suoi occhi vacui, mormorò una lunga litania e, alla fine di questa, toccò il collo del ragazzo con la bacchetta.

Laddove quel contatto era avvenuto si generò una ragnatela nera, la quale altro non era che l’apparato circolatorio del professor Kennan.

«Magia Oscura» riferì Madama Chips anche ad Amy «Molto potente e altrettanto complessa da rendere innocua».

«Puoi curarlo?».

«L’unico esperto di questo genere di incanti reperibile al momento attuale è  disteso su questo lettino» confermò lei, certa che quella che le era stata rivolta non fosse una vera e propria domanda quanto, invece, una mai detta supposizione. «Tutto ciò che posso fare è rimetterlo sufficientemente in forza da essere in grado di sciogliere questa maledizione da solo».

Senza molta grazia, la allontanò dal giovane.

«Esci di qui immediatamente e va ad avvisare Pomona che è giunto il momento di dimostrare che quella sua Mangrovia è veramente miracolosa come dice» le ordinò, senza dare il minimo adito ai suoi tentativi di rimanere. «E invia un gufo alla McGranitt. E’ corsa dai Weasley per assicurarsi che tutti stessero bene».

Amelia, recepito il messaggio, si trasfigurò immediatamente in falchetto.

Eppure, qualcosa non le tornava.

«Non è la prima volta che sento parlare di questi sintomi, sai?» disse l’infermiera al proprio paziente, dopo essersi assicurata che nei pressi non vi fossero ascoltatori indesiderati. «Due Mangiamorte, se non erro, i cui cadaveri sono stati ritrovati davanti al portone di Azkaban, li presentavano. Magari mi sbaglio, ma erano tra quelli che avevano ucciso tua madre…».

Drew alzò le spalle senza dire nulla.

«Lo sappiamo entrambi che questa è una tua creazione, puoi anche smetterla di nasconderti dietro questo mutismo».

L’affondo di Madama Chips  non lo lasciò indenne, eppure, non ebbe la possibilità di pensare ad una soluzione.

«È questo?».

La Medimaga, con un incantesimo avanzato, era riuscita a bloccare, almeno temporaneamente, il riversamento del sangue e, pulendo i lembi delle ferite qualcosa l’aveva colpita.

Un simbolo, un messaggio di Hermione. Doveva proteggere il loro segreto.

LA sua mano si era stretta sulla bacchetta e, prima ancora che l’altra potesse comprendere ciò che stava facendo, il suo incantesimo Confundus l’aveva colpita.

«Mi dispiace Poppy, ma è meglio se ne resti fuori» disse Kennan, nel tentativo di pacificare la propria coscienza «Meminion».

Il particolare incantesimo di Memoria andò a buon fine.

«Non hai visto alcun simbolo, solo una brutta ferita. Non hai riconosciuto i sintomi della mia Maledizione, ma sai che devi rimarginare la ferita, così poi io potrò intervenire per il resto. Infine, impedirai a chiunque d’essere presente al cambio dei bendaggi. Tutto chiaro?»

Dopo aver ricevuto un cenno d’assenso, concluse l’incanto e chiuse gli occhi, provato.

«È proprio una brutta ferita» confermò Madama Chips, poco dopo.

Lui le diede ragione e cercò di prendere sonno, prima di dover fronteggiare qualche visitatore, Amy in particolare.

 

***

 

All’improvviso l’oscurità smise di sommergerli e i tre ripresero il controllo su vista ed udito. Finalmente, l’opprimente sensazione della Smaterializzazione era sparita, abbandonandoli in uno squallido vicolo senza uscita in Tottenham Court Road, nella Londra Babbana. Non si trovavano così lontani dal British Museum, ma avevano preferito tenersi distanti dalla comunità magica.

L’imbrunire, ormai prossimo a tramutare in notte, immergeva quel viottolo e il suo asfalto consunto in una penombra che, in parte, celava la loro presenza lì. Ancora stravolti da ciò che era accaduto alla Tana, le loro menti, poco razionali e troppo emotive, continuavano a riempirsi di pensieri angoscianti. Mai come in quell’istante, la mancanza di Hermione si faceva sentire. Lei, con quella maturità e con la sua intelligenza, sarebbe sicuramente stata in grado di trovare una soluzione a tutto ciò.

Avevano bisogno di trovare un riparo, un rifugio in cui raccogliere le idee ma, acconciati così elegantemente, avrebbero attirato sicuramente l’attenzione. Anche perché la moda del mondo magico era decisamente troppo diversa da quella Babbana.

«Siete tutti interi?» chiese Harry tastandosi, nel timore d’essersi spaccato a causa dell’affrettata Smaterializzazione che era stato costretto ad eseguire. Di nuovo, se Hermione fosse stata al suo posto non si sarebbe posto un dubbio del genere. Dopo un cenno d’assenso dei due Weasley, trasse un grosso respiro di sollievo.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti mentre Ron, poggiandosi al muro, pareva annaspare alla ricerca della lucidità persa. Ginny, al contrario, continuava a percorrere la breve larghezza di quella viuzza. Il rumore dei suoi passi scandiva un tempo che sembrava non voler scorrere.

«Gli altri… tutti gli invitati…» mormorò Potter, senza rivolgersi ad un preciso interlocutore.

«Non possiamo pensare a loro adesso» gli rispose in un sussurro Ginny, raggiungendolo per afferrare dolcemente il suo viso e guardarlo nei suoi occhi verdi. «È a te che danno la caccia, Harry; se tornassimo metteremmo tutti ancora più in pericolo». Le loro labbra si incontrarono per un bacio lieve, in grado, però, di ridare un battito al loro ruggente cuore Gryffindor.

Prima ancora che il ragazzo sopravvissuto potesse controbattere qualcosa, Ron, che nei molti anni della loro amicizia aveva imparato a conoscerlo, lo anticipò.

«Ha ragione» asserì, schierandosi con la sorella e spostando su di lui il suo sguardo, fino a quel momento perso nelle mattonelle della parete che gli stava innanzi.

«Gran parte dell’Ordine era lì, si occuperanno loro di tutti».

Intanto la strada principale si era affollata. Un gruppo di uomini, tra cui il più sobrio stentava stare in piedi, avanzava barcollando, mentre intonava con passione ed energia una qualche canzonetta appartenente alla più squallida tradizione popolare.

 Tra una volgarità e l’altra, se non erano troppo concentrati nel portarsi nuovamente alle labbra la propria bottiglia, o anche quella di un altro, si prodigavano in non voluti complimenti verso le giovani donne che passavano loro accanto, ignare che quella sera il vecchio Alfred stava dando il suo addio al gioioso periodo del celibato.

Ginny, per quanto nascosta dalla mancanza di illuminazione, si strinse di più al proprio fidanzato.

«Dovremmo andarcene da qui» propose.

Entrambi le diedero ragione, ma la conversazione sprofondò nell’ennesimo silenzio quando iniziarono a pensare ad una possibile destinazione.

«Forse la campagna è più sicura» suppose Ron, tutt’altro che sicuro della propria affermazione.

«Magari potremmo provare a raggiungere Hogwarts» propose, invece, Ginny. Harry scosse piano la testa.

«Sicuramente Hogsmeade è pattugliata dai Mangiamorte e non è possibile Smaterializzarsi direttamente entro i confini della scuola» le rispose, ritrovandosi a valutare l’ipotesi di utilizzare la Metropolvere, ma scartandola subito dopo essersi ricordato quanto pochi fossero gli allacciamenti che il camino nell’ufficio del Preside aveva.

Dalla parte opposta della strada, in un pub, una coppia di operai corpulenti, seduti su una panca, stavano chiedendo il conto alla cameriera, presa dalla masticazione di una gomma. Il locale era talmente lurido da far loro preferire quei puzzolenti bidoni della spazzatura. Anche da quella distanza infatti, erano certi di poter vedere, districandosi sulle macchie di sudiciume della vetrina e le tendine ingiallite dal tempo, uno spesso strato di unto sugli economici tavolini di formica.

I due uomini erano già sull’uscio, quando un lampo verde colpì in pieno petto la barista, facendola crollare al suolo senza vita. Le loro bacchette, già sfoderate, puntavano verso i tre ragazzi, mentre correvano per raggiungerli.

La prima a sguainare la propria fu la più giovane dei Weasley, la quale, però, non appena la impugnò, capì di non poterla usare: essendo lei ancora minorenne, usarla avrebbe attivato la Traccia. Era stato così che quei due li avevano trovati. Mentre le loro prime Maledizioni Senza Perdono, scagliate senza prendere troppo la mira, si infrangevano sulla parete di fondo di quel vicolo, capirono che quel fuoco aveva il solo fine di non farli scappare. Una volta raggiunti, infatti, si sarebbero ritrovati in una trappola senza via d’uscita. Harry, facilitato dai lampioni della strada principale che illuminavano perfettamente i loro avversari, prese la mira e colpì il biondo dei due con uno Schiantesimo. Questo, fortunatamente, si dimostrò sufficiente per fargli perdere i sensi. L’uomo si afflosciò al suolo.

Per tutta risposta il suo compagno, con un caratteristico volto sfigurato, lanciò un incanto verso Harry, che Ginny, però, intercettò facendogli scudo con il proprio corpo. Corde lucide e nere le impedivano qualsiasi movimento.

L’urlo rabbioso di suo fratello fu l’ultima cosa che quel Mangiamorte sentì  prima di svenire.

«Reducto». L’incantesimo infatti, era stato indirizzato verso uno dei bidoni, il quale, urtato, aveva investito il Mangiamorte.

Negli istanti successivi fu il caos.

Harry tentò di liberare la Weasley, ma riuscì solo al secondo tentativo, dopo averla ferita leggermente al braccio.

Il primo avversario parve rinvenire.

«Via di qui!» gridò Ron, azzardando una Smaterializzazione Congiunta.

Sotto i loro piedi sfrecciò l’ennesima fattura.

I tre si ritrovarono al centro di una piazza di una piccola città.

«Dove stiamo andando?» domandò Potter, ancora incredulo che l’amico, bocciato all’esame per essersi dimenticato metà sopracciglio, fosse riuscito a salvarli, portandoli al sicuro.

«Da qualcuno che ci deve un favore» rispose misterioso lui, con la bacchetta ancora in mano, mentre li sospingeva verso un angolo buio.

«Ginny» continuò poco dopo. «Preferisco che tu ti difenda, anche se questo attiva la Traccia, piuttosto che farti colpire da una possibile Maledizione». Il suo sguardo si alternava studiando prima la sua ferita, poco più che superficiale, e poi accusando tacitamente Harry.

«Se lo avessi fatto, ora saprebbero dove siamo» si limitò a constatare lei, proseguendo poco dopo. «Voi siete riusciti a vederli in faccia?».

«Quello biondo era presente la notte in cui è morto Silente» osservò Harry.

A chiarire i loro dubbi fu Ronald, che aveva visto uno sui manifesti dei ricercati e che conosceva l’altro.

«Penso fosse Thorfinn Rowle» disse, respirando a fondo. «L’altro era Dolohov».

La ragazza arrestò quella che, da una rapida passeggiata, la cui meta conosceva solo suo fratello, era diventata una corsa affannata.

«L’assassino degli zii?».

Solo un assenso, prima di ricominciare a muoversi.

Lo fecero per almeno quindici minuti, svoltando spesso per controllare se, eventualmente, qualcuno li stesse seguendo. Così facendo però, allungarono di molto la strada. Alla fine, il complesso urbano si aprì verso la campagna. Un piccolo pendio culminava su una villetta le cui stanze del piano terra erano illuminate a giorno.

Il più anziano dei Weasley continuava imperterrito, mentre i suoi compagni si lanciavano occhiate dubbiose e molto eloquenti.

I tre, superato un piccolo cancelletto, percorsero un ciottolato immerso in un perfetto giardino inglese. Fu proprio questo particolare ad illuminare anche l’altra rossa che, a causa del buio e dell’agitazione, si era sentita spaesata come Potter.

«Sei un idiota!» esclamò, rivolgendosi al fratello. «Non potevi pensarci un po’ prima?».

Quello si limitò a mettersi addosso un’espressione spazientita.

Giunti alla soglia, suonarono il campanello.

Quando la porta si aprì, un ragazzo, evidentemente annoiato, li squadrò da capo a piedi. Sbadigliò, mentre con la mano si spettinava i capelli, già piuttosto disordinati. Era a piedi nudi e indossava solo un paio di pantaloncini grigi lunghi fino al ginocchio e una canotta nera che non nascondeva affatto la sua pelle abbronzata.

«Tesoro, abbiamo visite» gridò, voltando la testa verso qualcuno all’interno della casa. «Rogne, senza dubbio» completò, dopo aver lanciato loro, da sotto il ciuffo ribelle, l’ennesima occhiata. Se si escludeva questa porzione della sua testa, il resto dei capelli era stato tagliato molto corto di recente.

«Ti sta bene il nuovo taglio» disse gentile Ginny.

Quello sollevò le spalle.

«A mia moglie piaccio così» rispose lui, come se quella fosse l’unica cosa che gli importasse. Una voce spazientita si avvertì alle sue spalle.

«Blaise, quante volte devo dirtelo che è maleducazione tenere i propri ospiti sulla porta?».

Profondissimi occhi verde scuro, in grado di narrare racconti così terrificanti da far accapponare la pelle anche ad un prigioniero di Azkaban. Fatti realmente accaduti, di cui la sua carne portava ancora i segni.

Bellissima capelli color del grano, raccolti in un’acconciatura perfetta, poiché l’eccellenza era il suo fine, il suo tormento e la sua fobia.

Immancabili tacchi vertiginosi, portati con eleganza anche nell’atrio di casa propria.

Daphne Greengrass era più bella che mai.

Quando riconobbe chi aveva alla sua porta, corse loro incontro, non riuscendo a trattenersi, per quanto questo infrangesse la sua impeccabile alterigia, dall’abbracciare Ginny.

«Entrate prima che qualcuno vi veda» li esortò poco dopo, lanciando un’occhiata circospetta al giardino, che Zabini intercettò.

«Mi fumo una sigaretta»

Affermando ciò, mentre gli altri venivano guidati da Daphne in salotto, superò la veranda e si immerse nel buio del cortile.

La notizia della caduta del Ministero era giunta anche a loro.

La sicurezza, in tempi come quelli, non era mai troppa.

 

Aveva assistito impotente mentre il padre di Daphne la trascinava via, dopo il funerale di Silente. Non era accettabile che un rampollo Slytherin, Purosangue per giunta, si schierasse apertamente contro Lord Voldemort. Soprattutto se suo padre ne era un fedelissimo servitore.

La Greengrass, tuttavia, aveva voluto fare di testa propria, in un moto di indipendenza che avrebbe pagato a caro prezzo. Sapeva perfettamente come le cose sarebbero evolute, così come ne era a conoscenza il suo promesso sposo.

Proprio per rimanere tale aveva dovuto restarsene in disparte, durante la battaglia di Hogwarts. Per questo la McGranitt aveva Trasfigurato il suo aspetto. Lui rappresentava la sua unica speranza di sfuggire a quella prigionia.

Conscio di quello che sarebbe successo alla ragazza, Blaise si era presentato alla porta d’ingresso della residenza Greengrass di prima mattina, nell’indomani.

Ad aprigli fu Asteria, la sorella minore di Daphne. Lesse molte cose nel suo atteggiamento timoroso.

Si avvicinò per salutarla, ma lei arretrò velocemente, con il terrore negli occhi. La paura verso suo padre era tale da spingere il suo cervello a vedere nel contatto di chiunque, una violenza. Di nuovo, Blaise si ritrovò a capire perché Daphne non potesse abbandonarla ma, anzi, si prendesse carico anche delle torture che sarebbero spettate, ingiustamente, a lei e a sua madre.

«Scusa» mormorò Asteria, dispiaciuta.

Zabini alzò le spalle.

«Dov’è tua sorella?» le chiese, senza alcuna inflessione nella voce.

«Nella sua stanza, ma non puoi…».

Non attese altro, qualsiasi bieca motivazione non sarebbe stato sufficiente a tenerlo distante. Se avesse dovuto combattere contro il capofamiglia lo avrebbe fatto. Se alla fine fosse stato rinchiuso ad Azkaban, avrebbe affrontato il Bacio del Dissennatore a testa alta.

Le sue certezze crollarono quando la vide, nonostante i tentativi di fermarlo.

Seduta, dinnanzi ad uno specchio, con addosso una vestaglia leggera che lasciava scoperti gran parte dei bendaggi che un Elfo Domestico armato di unguenti e medicamenti, le stava applicando.

La madre, con gli occhi gonfi di lacrime, le pettinava i capelli singhiozzando.

Gli sguardi dei fidanzati si incrociarono, ma entrambi rimasero in silenzio.

Il suo viso, dalle linee così delicate, era ricoperto di ematomi.

Non era mai arrivato a picchiare il volto. Troppo difficile da nascondere, troppo evidente la magia applicata per capire il misfatto.

Un occhio nero, uno zigomo rotto, un taglio profondo sul labbro inferiore, una ciocca di capelli strappati. Sua madre tentava di celare il possibile.

«Uscite» ordinò Blaise imperioso, correggendosi poco dopo. «Per favore».

Ben presto la stanza si svuotò, lasciandoli soli. Si avvicinò, temendo che anche solo il suo avvicinarsi potesse farle del male.

«Riesci ad alzarti?» le chiese.

Quella indicò una boccetta, oramai piena per meno della metà, di Ossofast. Trattenere l’ennesimo attacco di rabbia, per il giovane Zabini, fu tutt’altro che semplice.

«Se io riuscissi a portare via di qui tua madre e tua sorella, tu…» provò, di nuovo, sapendo già che l’orgoglio della ragazza le avrebbe fatto formulare un rifiuto. Ma così non fu.

«Sì, ti sposerei» disse lei, con voce bassa e stanca. »Ma deve essere tutto perfettamente legale, non voglio mai più appartenergli in alcun modo».

Una vittoria.

Avrebbe avuto l’opportunità di darle una nuova vita.

«Entro la fine dell’estate sarai mia moglie» la rassicurò lui, sicuro di sé. Qualcosa non andava.

La vide tentare d’alzarsi, nonostante le ferite. Tremava. Piangeva.

Le gambe a stento la reggevano, mentre le mani, rallentate dalle troppe ferite, le fecero scivolare lungo la schiena l’abito leggero che indossava.

Si coprì il seno con una mano, mentre obbligava quel cadavere livido che era il suo corpo a dargli la schiena.

Tra le scapole, un’incisione, ancora arrossata sebbene fosse stato usato un incanto per cicatrizzarla. Una parola: puttana.

«Non ce la faccio più».

Blaise aveva atteso anni per sentirglielo dire. Non si era mai piegata, non si era mai data per sconfitta. Ora voleva voltare pagina.

L’abbracciò da dietro. Lei non riuscì a trattenere un gemito. Blaise cercò di allentare la presa, ma non era in grado di staccarsi da lei.

Doveva proteggerla.

«Tre settimane» la rassicurò, sussurrandole all’orecchio mentre delicatamente la aiutava a rivestirsi. «Tornerò stasera per parlare con tuo padre, fisserò la data e imporrò qualche condizione. Lo minaccerò affinché non ti tocchi più».

Daphne mormorò un ringraziamento.

«Resisti».

Posò un bacio leggero su una porzione di pelle non escoriata e la salutò.

Doveva ordire una fuga e organizzare un matrimonio in pochissimo tempo Sua madre era in vacanza con il suo nuovo marito.

Draco e Narcissa erano il suo unico appoggio. Magari loro avrebbero saputo a chi chiedere aiuto.

 

L’arredamento moderno della casa trapelava il rinomato buongusto di Daphne, la quale, prima di invitare i nuovi arrivati a sedersi sul divano, diede una veloce sistemata ai cuscini sgualciti. Alcuni più di altri portavano l’evidente passaggio di Blaise.

«Scusate il disordine, abbiamo saputo solo poco fa la notizia e non eravamo preparati a ricevere alcuna visita».

Nel suo modo di fare c’era la gentilezza e l’educazione tipica della perfetta padrona di casa.

«Ci dispiace molto essere di disturbo, ma non sapevamo dove altro andare« rispose subito Ginny. «E comunque, anche nel suo momento peggiore questa bellissima casa rasenterebbe la perfezione».

«Non lo siete affatto» li tranquillizzò lei pacata. «Considerando ciò che avete fatto per noi, l’uscio di questa casa sarà sempre aperto per voi» continuò poco dopo, sorridendo. «E poi come potrei sbattere la porta in faccia alla mia damigella?»

Harry, che si sentiva escluso poiché non aveva potuto partecipare alla missione di salvataggio di Asteria e sua madre e al successivo matrimonio di Daphne in quanto imprigionato dai Dursley, avanzò un quesito.

«Sai qualcosa degli altri invitati?».

La Greengrass si sedette loro di fronte. Quel gesto li mise in agitazione.

«Il numero di feriti è alto, ma sembra che l’Ordine sia riuscito ad evitare il peggio». Cominciò, parlando con tranquillità dell’associazione segreta, poiché vi era entrata in contatto quando aveva nascosto la sua famiglia presso l’attico di Narcissa Malfoy. «La vostra famiglia è al sicuro, sono tutti stati condotti nella Villa Conchiglia, dove sono protetti da molti Auror. Anche la McGranitt ha voluto assicurarsi che tutti stessero bene». A quella informazione, pronunciata guardando ora l’una ora l’altro Weasley, i due trassero un respiro di sollievo. «Purtroppo, ci sono anche delle brutte notizie».

Trasse un profondo respiro, che Blaise sfruttò per intromettersi nella conversazione.

«Draco sarà qui a momenti» le riferì dopo aver fatto un giro di ronda, sedendosi sul bracciolo della poltrona su cui lei stava elegantemente composta.

«Perfetto» gli rispose, mentre si voltava in cerca dell’elfa domestica. «Peggy, ti prego, servi del tè freddo».

Vedendola procrastinare, i tre si incupirono, reclamando spiegazioni.

La mano di Zabini si posò sulla sua spalla, dandole forza.

«Pare che il professor Kennan si sia ferito molto gravemente» spiegò, ottenendo fin da subito uno sguardo colpito. Drew, nel tempo che avevano trascorso a contatto con lui, era parso completamente invulnerabile.

«La Maledizione utilizzata per ferirlo rientra in un livello molto avanzato della Magia Oscura e Madama Chips dice d’essere in grado solo di stabilizzarlo e curare le ferite più esterne».

«Ma si riprenderà?» chiese Ron, portandosi alla bocca riarsa il bicchiere che la creatura gli aveva avvicinato.

«Si auspica che sia abbastanza in forze da essere in grado di eliminare gli effetti dell’incantesimo da solo, visto che, al momento attuale, è l’unico in tutta Hogwarts a sapersi destreggiare così bene con questo genere di Arti».

«Non mi sembra una notizia tanto tragica…» constatò Harry, non più in grado di impressionarsi facilmente dopo aver scoperto della morte di Malocchio, proprio durante il suo trasferimento alla Tana.

«Drew e chi l’ha salvato sostengono che la Mangiamorte che lo ha attaccato sia Hermione».

La voce gelida di Draco causò un brivido lungo la schiena di ognuno dei presenti.

Tante cose, viste da quell’ottica, prendevano senso. Terribilmente.

Le risposte sempre più sporadiche ai gufi che le inviavano, il continuo aggravarsi delle condizioni di salute di sua nonna, le quali la tenevano lontana dalla dimora dei suoi genitori e le avevano impedito prima di partecipare allo spostamento di domicilio di Harry, per la quale era stata sostituita dal professor Kennan e, poi, al matrimonio di Bill e Fleur. Aveva anche rimandato o annullato ogni appuntamento con ognuno di loro, spingendoli a pensare che fosse sparita.

La notizia della separazione da Draco r il grave male che stava conducendo alla morte uno dei suoi pochi parenti che ancora era in vita però, li aveva spinti a desistere dall’insistere troppo. Infondo, lei era Hermione Granger una Gryffindor valorosa, una guerriera, un’amica. Lei era stata la soluzione a molti dei problemi che Lord Voldemort aveva posto sulla loro strada.

«Non è possibile» scandì chiaro Ron, dando voce anche al pensiero dei suoi compagni.

Malfoy si limitò a scuotere piano il capo. Era lui il primo con il cuore infranto, sebbene nessuno paresse rimembrarlo. Era lui il primo ad essere stato deluso. Pensò ad un impropero, mentre, standosene ancora in piedi, caricava l’affondo finale.

«Sono appena stato a trovare la signora Jean…» cominciò, mentre già le teste dei tre presero a muoversi in segno di diniego. «… ed era ancora più allegra e vispa dell’ultima volta che l’ho vista».

Si soffermò su ognuno di loro per qualche istante.

«Un’arzilla vecchietta in piena salute e che, su sua stessa ammissione, non vede la propria nipote da quasi due mesi».

Potter scattò in piedi. Avrebbe voluto urlare, scaraventare qualcosa al suolo, rompere quella dannata testa platinata. Sentiva che tutto quello che stava accadendo aveva una spiegazione. Doveva avercela.

Sentire la mano di Ginny sulla propria schiena placò il suo spirito.

«Vorremmo credervi» cercò di scusarsi lei. «Ma cercate di capirci: fino a pochi secondi fa lei era uno dei nostri pilastri. Abbiamo bisogno che sia lei a dire di averci voltato le spalle per schierarsi con il Signore Oscuro. Abbiamo bisogno di un confronto».

I muti assensi del suo fidanzato e di Ron valsero più di mille parole.

«Dovrete attendere che io abbia il mio» chiarì Draco, con un tono che non aveva alcuna tipologia di replica.

«Resta il fatto però, che, Granger o meno, Silente ci ha lasciato una missione da compiere» disse Blaise che, per la prima volta, si era inserito nella conversazione.

«Partiresti anche senza di lei, Sfregiato?» domandò Malfoy.

Harry parve non avvertire neppure il suo insulto.

«Assolutamente» disse con fermezza. «Anzi, dovremmo muoverci ancora più velocemente, onde evitare che il Signore Oscuro, avvisato da Hermione, recuperi gli Horcrux prima di noi».

«Una missione con ben poche possibilità di riuscita» constatò la Greengrass che, corrucciata, stava tormentando la mano che Zabini le aveva porto. «Gli unici indizi che abbiamo sul dove si trovino sono nel messaggio cifrato che quel pazzo di Silente ci ha lasciato con il suo testamento».

Malfoy si intromise nuovamente.

«Senza contare che questa sua indicazione non è nascosta tra le parole delle sue volontà, visto che il Ministero, prima di darci ciò che ci spettava si è premurato di controllare approfonditamente che non vi fosse nulla di anomalo». Così dicendo gettò una copia di quel documento sul tavolino, suggerendo, implicitamente, che la chiave, dunque, doveva trovarsi negli oggetti ricevuti.

Da un cassetto di una vetrina, Blaise trasse un libricino dall’aria antica e con la copertina logora.

«A Blaise Aiden Zabini lascio il Manoscritto di E.H., mio personale ritrovamento, certo che apprezzerà l’amore per l’ozio del protagonista» citò a memoria, lanciandolo sul tavolo.

«A Ronald Bilius Weasley lascio il mio set di Scacchi Magici da viaggio, nella speranza che questo non faccia che accrescere la sua passione» continuò il rosso posando un sacchetto sgualcito e dall’aria antica sul tavolo.

«A Daphne Meredith Greengrass lascio il mio Deluminatore, nell’auspicio che si ricordi di me quando lo usa» recitò la ragazza, aggiungendo agli altri oggetti qualcosa di simile ad un accendino.

«A Draco Lucius Malfoy lascio una piccola fiamma gubraitiana, così che questa lo aiuti a dissipare i suoi dubbi». Si trattava di una boccetta simile ad una clessidra, in cui bruciava ininterrottamente un fuocherello vispo.

«A Harry James Potter lascio il Boccino che catturò nella sua prima partita di Quidditch ad Hogwarts, in memoria delle ricompense che perseveranza e abilità meritano, e la leggendaria Spada di Godric Gryffindor, così che questa metta in luce il suo grande coraggio» concluse Harry, che non avendo potuto appropriarsi di un patrimonio storico dell’intera comunità magica, mostrò solo la sferetta alata, brillante nel suo colore aureo.

«Ancora una volta» commentò Ginny. «Quell’uomo è stato cristallino».

Ciò stemperò l’atmosfera, fin troppo tesa. Se fosse stato vero quello che si diceva di Hermione, il gruppo avrebbe dovuto affrontare un ennesimo problema: risolvere l’enigma senza una parte del quesito e senza la mente brillante della Granger.

«Ginny, vieni con me, magari c’è qualcosa di comodo nei nostri armadi per te e i ragazzi» esordì d’improvviso Daphne, dopo che più di un’ora era trascorsa senza che nessuno avesse avuto qualche idea.

Draco, salutando tutti, se ne era andato, portando con sé la sua parte di eredità. Il programma era che i tre sarebbero rimasti presso Blaise e Daphne fino al primo giorno di scuola, dove Draco li avrebbe raggiunti il più spesso possibile per tentare di capire dove Voldemort potesse aver nascosto i sui Horcrux.

«Ho chiesto personalmente al professor Kennan di imporre qualche protezione su questa casa» li aveva rassicurati la Greengrass, mentre Blaise, stanco, si era andato a infilare a letto.

 

***

 

Rare gocce di una fiacca pioggia di fine estate si frantumavano contro le vetrate di un silenzioso bar sperduto nella campagna inglese. La proprietaria del locale, bella sebbene non più giovane, dopo aver raccolto i lunghi capelli biondi in una treccia distratta che le ricadeva sulle spalle e sul seno abbondante, stava cercando, con risultati piuttosto scadenti, di non farsi prendere un infarto dopo aver scoperto che le proprie finanze erano pesantemente in rosso. I boccali di birra che serviva la sera ai suoi clienti abituali, purtroppo, non sembravano essere sufficienti per mandare avanti la baracca, costatò dopo aver ringraziato l’unico cameriere del bar, il quale, posandole la mano sulla spalla cercando di confortarla, si diresse verso uno dei pochi tavolini occupati da qualche cliente, reggendo abilmente il vassoio sul palmo aperto della mano sinistra. Se Marise, alla fine di quei conti con tanto di calcolatrice scientifica, avesse dichiarato bancarotta, lui si sarebbe ritrovato disoccupato e con una costosa retta da pagare per i suoi studi. Aspetto, quest’ultimo, che l’avrebbe costretto a ritornare a capo chino dai suoi genitori per implorare che lo aiutassero, nonostante l’ultima volta che li aveva visti il rumore della porta d’ingresso sbattuta fosse stata l’unica parola che si erano scambiati.

Pochi passi furono più che sufficienti per permettergli di raggiungere quel tavolino addossato al muro in cui si apriva un’ampia finestra che dava su una strada solitaria, calpestata solo dai passi pesanti del tempo ubriaco, e su un piccolo parco addobbato da alcune querce, le cui fronde secolari appena si muovevano sotto il respiro del vento.

«Due cappuccini e tre brioche al cioccolato» disse il ragazzo mentre posava le ordinazioni.

Due ragazzi, diametralmente opposti in tutto, sedevano l’uno di fronte all’altro. Uno riempiva il silenzio, l’altro lo ascoltava in modo composto.

Sorrise educatamente ai due e, in risposta, ottenne un leggero assenso con il capo e un ringraziamento gentile. Iridi di miele di castagno e capelli color del grano all’inizio di settembre, accompagnarono la riconoscenza del giovane, che si appropriò immediatamente del piatto su cui si trovavano i tre croissant. La sua fame da abile giocatore di Quidditch, evidentemente, non lo aveva ancora abbandonato, nonostante che da quasi un paio di mesi non mettesse più piede ad Hogwarts. Quella scuola, in cui presto avrebbero fatto ritorno con l’inizio del nuovo anno scolastico, non era più ritenuta un rifugio sicuro da quando Silente era morto. Molti suoi compagni di casa, proprio per questo motivo, erano stati obbligati dai propri genitori a trasferirsi a Durmstrang o a Beauxbatons.

Quell’incontro, il sabato mattina, era diventato ormai un’abitudine. Stesso locale, stesso tavolo, stesse ordinazioni. Il diverso era tutto il resto, loro per primi.

«Davvero è così grave la situazione?» aveva bofonchiato il biondo mentre addentava la prima brioche, la quale, con due morsi ben assestati, si ritrovò ingerita ed accompagnata verso lo stomaco con due pugni pesanti contro il petto, che evitarono all’affamato ragazzo di soffocare.

L’altro, ridacchiando in un frangente di spensieratezza a quella scena, si portò la tazza contenente il cappuccino alle labbra sottili e ne bevve un sorso. Un leggero segno biancastro, lasciato dalla schiuma della bevanda, marcò il contorno rosato di quella bocca per pochi istanti, prima che questa venisse pulita dall’educato utilizzo di un tovagliolo.

«Dovresti andarci piano con tutti quei dolci che ingurgiti, se non vuoi ritrovarti grasso e solo» disse, non riuscendo a nascondere la bruciante invidia per quel suo maledetto metabolismo e l’odio verso quella ferrea dieta cui spesso si ritrovava costretto a sottostare per mantenere in perfette condizioni il suo fisico da atleta. Nel dire quelle parole, con cui ancora una volta veniva ad essere rimarcato il profondo divario tra i due, Logan Forsyth non poté non soffermarsi su tutte quegli aspetti su cui i loro essere differivano.

Faceva fatica a convivere con il fatto che, se accostati, Daniel riusciva a metterlo sullo sfondo anche solo con un sorriso, rendendo costantemente quelli che erano i suoi difetti un proprio punto di forza. A volte, si sentiva solo l’ombra di una luce splendente, di cui, pur non volendolo, si ritrovava ad essere un banalissimo marcatore dei vastissimi confini: era un mare nero reso “nulla” da uno scorcio bianco.

Si era tagliato i capelli corvini con un taglio militaresco che i suoi genitori, altolocati Purosangue, avevano disprezzato in quanto troppo poco nobiliare, nella speranza che le ragazze, a volte, fantasticassero anche su di lui e non solo sulle linee morbide del biondo scuro del giovane Alleyn. Aveva fatto a gara con l’altro, pur sapendo d’essere l’unico a gareggiare a quella tenzone, a chi riusciva ad avere il fisico più tonico. Si era anche imposto di smettere di fumare pur d’arrivare ad arrancare dietro un’idealistica perfezione che credeva fermamente di non poter raggiungere.

Ogni volta che lo guardava negli occhi, però, capiva quanto lontano fosse dalla possibilità d’esserne all’altezza: un banalissimo marrone, privo di sfumature che potessero essere associate a gioielli raffinati o a imprevedibili malesseri del cielo. Eppure, il suo era uno sguardo che sapeva riempirsi degli aspetti migliori della vita, della bellezza della sua imprevedibilità e della sconvolgente originalità della sua semplicità. Erano iridi, le sue, che cantavano fin dalle prime ore del giorno un accalorato inno alla vita.

Nulla a che vedere, quindi, con quella tetra oscurità con cui Madre Natura aveva ricucito i pezzi della sua anima. Uno specchio infranto e portatore di malasorte.

Una nota morta in gola.

L’altro, preparandosi ad azzannare il secondo croissant, alzò le spalle e, addentata la pasta friabile ferendo a morte il suo cuore pulsante cioccolata, si preparò a rispondergli per le rime.

«Sono sicuro che la persona a cui piaccio lo farebbe anche se occupassi entrambe le piazze del nostro letto».

Il suo interlocutore si prese un sorso del proprio cappuccino e lui, rimanendo in silenzio, ebbe la possibilità di constatare quella classe innata nel suo portamento, che sapeva benissimo non avrebbe mai posseduto. Non Daniel Alleyn, il Mezzosangue.

Il nodo perfetto alla cravatta blu scuro e l’elegante giacca dal taglio moderno, abbandonata sullo schienale della sedia, sul cui taschino spiccava una spilla d’oro bianco con il simbolo del suo casato. In confronto, lui, con la sua maglia leggera con cui fronteggiava quel prematuro autunno britannico, sembrava essere uscito per errore di casa con il pigiama addosso.

Tra i due c’era solamente un anno di distanza, il cui peso a volte era fin troppo opprimente. Non che Logan evitasse di farglielo notare costantemente, trattandolo come un bambino e offrendosi di dargli ripetizioni di Storia della Magia.

«Dovresti sapere che quella persona, pur amandoti, ha un fila di ragazzi che aspettano solo di avere uno straccio di possibilità», gli rispose Logan, sapendo quanto questo avrebbe scatenato la sua gelosia quasi infantile.

«Prima o poi ti costringerò a dirmi tutti i loro nomi» concluse l’altro, mentre con un gesto veloce, si preparava ad ingurgitare anche l’ultimo pezzo di brioche. Il ritmo pacato con cui girava il cucchiaino in senso antiorario per sciogliere lo zucchero che aveva versato nel proprio cappuccino, però, anticipò che il silenzio lo aveva portato a riflettere sulla questione da cui tutto aveva avuto inizio.

«Quindi le cose si stanno mettendo veramente male» constatò amaro, esternando quello che era il pensiero che stava prendendo il dominio nella sua testa in quell’istante. Lo aveva intuito dal fatto che Logan non avesse voluto parlarne, tergiversando la sua domanda e concentrando la loro conversazione su argomenti ben più rilassati.

L’espressione del suo interlocutore si rabbuiò, mentre, dopo aver dato un’occhiata circospetta ai Babbani presenti in quel locale ed aver avuto la conferma d’essere sufficientemente lontani da occhi indiscreti, sfilava da una tasca interna della propria giacca un giornale arrotolato. Daniel, spostando la propria tazza per coprire il più possibile la foto magicamente animata dell’oramai ex-Ministro della Magia, Cornelius Caramell, con un’espressione seria e pensosa. Dal titolo, che il ragazzo lesse rapidamente e di sfuggita, intuì che il padre di Luna Lovegood, nell’ultimo periodo, stava dando il meglio di sé, accusando l’anziano uomo d’avere l’abitudine di torturare e poi cucinare in crosta tutti Folletti che gli capitavano a tiro di bacchetta.

«Non pensavo che fossi un lettore del Cavillo» gli disse, guardandolo basito.

Il sospiro di Logan fu perentorio, messo di infausti presagi.

«Ne ho parlato con mio padre» questo incipit, se possibile, lo intimorì ancora più di quello che già era. Se Logan era arrivato a chiedere informazioni a suo padre, uomo freddo e scostante, favorevole, per quanto non facente parte dei Mangiamorte, all’ascesa di Lord Voldemort, la situazione doveva essere tragica «Tu-sai-chi si è infiltrato nel Ministero, facendosi largo con spie e Maledizioni Imperius. Ora, da quando Rufus Scrimgeour è morto, è completamente nelle sue mani» si prese una pausa per permettere a Daniel di immagazzinare le informazioni, sapendo che dall’ultima volta che si erano visti, due settimane prime, non aveva potuto ricevere alcuna informazioni sul Mondo Magico «Se non altro, pare che sia morto senza svelare dove si nascondesse Potter. A reggere il governo, in questo momento, è Pius O’Tusoe, una marionetta completamente in mano al Signore Oscuro».

«Quindi, tutti i maggiori giornali nazionali sono in mano sua» continuò, per lui, il giovane Gryffindor, capendo per quale motivo quello sconclusionato mensile fosse diventata l’unica fonte di informazioni veritiere.

«Esattamente» confermò Forsyth con un lieve cenno d’assenso «Da questa posizione, nulla è più sicuro. Potrebbe benissimo infiltrare qualche burattino all’interno di qualsiasi associazione o organismo pubblico. Pare che l’abbia fatto anche con il San Mungo, sostituendo il Primario con un suo fedelissimo. Fortunatamente, non ha avuto gioco facile con Hogwarts: la McGranitt ha deciso di scendere in campo, nonostante i rischi che corra nel farlo», continuò poco dopo.

L’espressione di Daniel era una muta richiesta. Sapeva che la direttrice della sua Casa non avrebbe ceduto a Lord Voldemort, ma non poteva non temere per la vita dell’anziana donna. Neppure Silente era sopravvissuto a quel folle e il solo pensiero che colei che era stata per tutta la sua generazione un punto di riferimento insostituibile perisse per sua mano era inaccettabile.

«Che ha fatto?». Nella sua voce, un tremore parafrasava la sua preoccupazione.

«Ha sfruttato un’antica regola per ottenere la carica di Preside a tempo indeterminato e, poi, ha dichiarato la scuola indipendente dal giogo ministeriale. Nel farlo, ha perso buona parte dei sovvenzionamenti governativi, oltre alla protezione del corpo degli Auror. Per ora, la cosa sembra funzionare, ma è probabile che a breve sarà costretta a scendere a trattative, se non vuole rischiare che Hogwarts venga chiusa. Per non parlare, poi, delle varie e possibili ripercussioni di cui il corpo docenti potrebbe essere vittima … ».

Alleyn rovinò contro lo schienale della sedia. Stanco, improvvisamente.

«Perché l’ha fatto?».

«Pius O’Tusoe aveva individuato in Piton il successore di Silente. La McGranitt non lo avrebbe mai permesso» rispose pacato Logan, passando con fare consolatorio una mano tra i capelli di Daniel «Avanti, mangia pure anche la mia brioche» continuò, poco dopo, trascorsi alcuni istanti di silenzio totale.

Il biondo, come prevedibile, non se lo fece ripetere due volte, ottenendo che sul viso dell’altro si aprisse un’espressione ilare. La facciata splendente di un mondo rovinato al suolo, di domande che non avevano e non avrebbero avuto alcuna risposta. Un luogo dove era stato imprigionato il timore, solo per poter ostentare un coraggio vuoto, ma vero e profondamente sentito.

Solo una settimana, poi la scuola sarebbe ricominciata. Forse, quest’anno, qualcuno avrebbe notato il loro talento nel Quidditch, dopo tanti allenamenti. Ore di sudore e fatica, condivise e convissute, con l’unica certezza che, se mai i loro sforzi fossero valsi a qualcosa, si sarebbero ritrovati avversari. Gryffindor e Slytherin. Mezzosangue e Purosangue. Alba e tramonto.

Nulla, nella loro esistenza avrebbe suggerito quella loro strana armonia.

Marise, intanto, si dava sconfitta e, chiamando vicino il suo cameriere, gli annunciava piano che l’unica cosa che potevano fare era cercare di stabilire quanti giorni, ancora, sarebbero riusciti a rimanere aperti.

«Si sa qualcosa degli insegnanti a cui sono state assegnate le cattedre mancanti?» chiese ancora Daniel, reso ancora più curioso dalla lunga lontananza dal mondo magico, in quello sperduto angolo Babbano in cui si ritrovava ad abitare.

«Nulla.» rispose pacato «Pare che la McGranitt voglia evitare che i nuovi acquisti subiscano delle ritorsioni per aver accettato i loro incarichi. Tra Hogwarts e il Ministero è ufficialmente guerra fredda».

Logan lo conosceva fin troppo per non notare la preoccupazione nel suo sguardo. Forse avrebbe dovuto misurare meglio le parole.

«Un passo falso della Preside basterebbe a far riempire i corridoi di Mangiamorte» constatò Alleyn, senza alcuna inclinazione nella voce.

La risposta dello Slytherin fu solo un cenno affermativo con la testa. Rimasero in silenzio per alcuni minuti. Necessari e dovuti.

«Sono stufo di stare qua dentro, andiamo fuori» esordì improvvisamente Logan, mentre afferrava la propria giacca e lasciava cadere un paio di banconote sul tavolino, invitando con un gesto eloquente Daniel ad alzarsi e seguirlo.

«Tenete pure il resto. Arrivederci» disse ad alta voce, sbrigativo. Aprì la porta e il suono di una campanella accompagnò quel gesto. Basito e trascinato per un braccio, l’altro non poté fare altro che seguirlo, abbozzando un saluto che gli morì in gola quando Forsyth lo trascinò con più forza.

Si ritrovarono, bagnati, sotto la pioggia estiva, la quale presto sarebbe mutata in temporale, solo per scemare nel nulla. Corsero fino a raggiungere un vicolo secondario, dove potevano ripararsi sotto un tetto spiovente.

«Sai, vero, che con quel resto potranno tenere aperto il bar almeno per il prossimo mese?» gli domandò, leggermente affannato.

«Davvero?» domandò Logan, sinceramente incredulo «Stupidi soldi Babbani … »

Fu un attimo. Lo spinse contro il muro, facendogli avvertire il calore del proprio corpo.

La sua mano destra, bagnata dalla pioggia, risalì placida la linea del suo collo, andando ad aprirsi dolcemente sulla sua guancia e causandogli un fremito che, per il piacere dello Slytherin, non fu in grado di nascondere. L’altra, intanto, scese sul fianco, stringendolo con forza vorace. La troppo prolungata distanza aveva reso la mancanza di quel contatto insopportabile.

Piegò leggermente il viso, così da avere un più facile accesso alla sua bocca. Proprio su questa si soffermò, a pochissimo da che le loro labbra si potessero finalmente sfiorare. L’affanno della corsa e del momento mischiava i loro respiri, bussando alle reciproche bocche con una affettuosa insistenza. I loro occhi si riflettevano in quelli dell’altro, in un gioco di specchi infiniti e di bagliori.

«Mi devi una brioche». Quel sussurro scivolò nelle membra dell’altro, con un bacio leggero a sancirne l’immanenza. Le mani di Daniel, da inermi e vinte, ritrovarono vigore. Salirono sul suo petto, scivolando sulla camicia bianca e zuppa, che nulla lasciava all’immaginazione. Raggiunse il colletto e, sgualcendolo, lo strinse tra le dita, tirando di nuovo a sé quel viso. Con un colpo di reni ben assestato, invertì le loro posizioni.

«Ti devo una brioche». Rispose, con un sorriso divertito sulle labbra. Sì, era felice.

Cercò le sue labbra, per un bacio più profondo.

Da mesi, anche lui sapeva cos’era l’amore.

 

***

 

Infine, anche quello che avrebbe dovuto essere il suo ultimo “primo giorno di scuola” era giunto.

L’Espresso per Hogwarts però, sarebbe approdato ad Hogsmeade, dove si trovava la stazione più vicina alla scuola, solo un paio d’ore più tardi. Il regime di Lord Voldemort, instaurato da quando Pius O’Tusoe, fantoccio sotto Imperius , era divenuto Ministro, stava muovendo i primi passi.

Così, decine di Mangiamorte, cui le fila si stavano ampliando notevolmente da quando il Signore Oscuro era risorto, saturavano le vie di quel villaggio magico, attendendo di poter mettere le mani su qualche studente particolarmente remunerativo. La taglia posta sul capo della giovane Asteria Greengrass, come anche quella su sua madre, prometteva infinite ricchezze, ma mai paragonate a quelle che Bellatrix Lestrange era pronta a sborsare per sua sorella Narcissa e suo nipote Draco.

Per questo motivo, il tradizionale attraversamento del Lago Nero in barca per quelli del primo anno era stato sospeso. Tutti avrebbero raggiunto il castello mediante le carrozze trainate da Thestral, che gli insegnanti avevano opportunamente protetto con incanti per evitare qualsiasi attacco. La McGranitt, con quelle che ora mai erano considerate doti di contrattazione, aveva ottenuto dai Centauri che questi si disponessero nella penombra della boscaglia addossata al sentiero, così da poter eliminare un eventuale assalitore. Inutile dire  che gli studenti maggiorenni, nel caso improbabile in cui fosse necessario, avrebbe potuto utilizzare la propria bacchetta per difendersi.

Per quel che le era stato bisbigliato all’orecchio, comunque, in molti, specie tra i provenienti da famiglie Babbane e Mezzosangue, erano già stati accompagnati a scuola dai propri genitori, da un appartenente al corpo docente o da qualche Auror fidato.

Lei, invece, camminava senza alcun timore verso Hogwarts, lasciandosi alle spalle la fin troppo trafficata Hogsmeade e dirigendosi, indossando già alla perfezione la propria divisa, su cui spiccava una nuova spilla.

Nessun Mangiamorte avrebbe osato anche solo pensare di sfiorarla.

Nel suo incedere però, c’erano i vistosi segni della punizione che Lord Voldemort le aveva inferto.

Il non essere riuscita ad uccidere Drew Kennan aveva avuto delle conseguenze che, se non fosse stato per l’inattesa testimonianza di altri servi fedeli, tra cui Bellatrix, l’avrebbero condotta sicuramente alla morte.

Aveva quasi iniziato a supporre che in lei, l’Oscuro Signore avesse intravisto una qualche forma di guadagno.

Nonostante ciò, non era stato facile sopportare per tre giorni consecutivi la Maledizione Cruciatus, scagliatale dallo stesso Voldemort e il ghigno di soddisfazione di Piton, incaricato di curare con la Magia Oscura i danni arrecati dal maleficio sul suo corpo, così che la tortura potesse continuare senza che la morte la interrompesse.

Le ore parevano non trascorrere mai. Vi erano solo le sue grida e quella sofferenza lancinante in grado di romperle le ossa.

E la soddisfazione, nello sguardo scarlatto del suo boia.

Avrebbe voluto farlo, ma non si arrese. Non aveva ridotto Drew in fin di vita per nulla.

Drew, Draco, Harry, Ron, Ginny.

Come avrebbe retto I loro sguardi?

Come avrebbe sopportato il disprezzo della McGranitt?

Non lo sapeva, ma stava per affrontare questo suo timore.

Con la mano sinistra, la cui manica della camicia aveva volutamente arrotolato fino al gomito per lasciare scoperto il Marchio, spinse la possente anta della porta d’ingresso.

In lontananza gracidava un corvo.



Note dell’Autore

Non è stato semplice, ma ci siamo riusciti. Parlo al plurale non per indicare le mie molteplici e psicopatiche personalità, ma perché questo capitolo, visto che tra le rogne dell’ultimo periodo rientra anche la rottura del mio pc, è stata battuto al computer da Lady Annette, cui va, ancora, il mio più sentito ringraziamento.

Ok, ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta, non odiatemi ^^

Ho avuto un paio di impicci, tra problemi di salute e primi esami all’università, ma hey non vi ho abbandonate u.u Vi voglio troppo bene :3

Vorrei ringraziare chi mi ha reclamato ai miei doveri, non tanto perché ne avessi bisogno, ma perché mi hanno fatto sentire apprezzato. Non faccio nomi, so che sapete chi siete xD

Un ringraziamento di cuore a Nihal, che mi ha adottato come Pandino. E uno anche alla Tam, che, in sintesi, possono essere ritenute due dei pilastri più spessi della mia esperienza nel mondo dei GdR.

Buon Weekend dell’Immacolata e, se non dovessimo risentirci prima, Buon Natale ^^

A presto,
Jerry

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Capitolo 3
*** Choose: How to start living ***


Chap3 Chapter three, Choose: How to start living

Mangiamorte infestavano Hogsmeade. Non si esponevano, non ancora, ma era risaputo che entro le mura del Ministero, da settimane in mano a Voldemort, si stava covando, vipera in seno, una legge contro i Nati Babbani. Ad emanazione compiuta del decreto, i seguaci del Signore Oscuro, autorizzati a denunciare e imprigionare chiunque ritenessero avverso al regime, avrebbero gettato la società in uno spaventoso disordine.
Il Primo Ministro di Francia si era già mosso per tamponare la gravosa situazione, cercando di instaurare un’alleanza con i propri colleghi, ma ben pochi avevano risposto al suo appello. Aurore Leroy, chiedendo aiuto per la popolazione inglese, si era ritrovata completamente abbandonata ed esposta ad una ritorsione che non si era affatto fatta attendere. A distanza di un paio d’ore dalla sua richiesta pubblica di convocare il Concilio Plenario delle Nazioni Magiche Unite, assemblea in cui erano chiamati a presentarsi tutti i governatori degli Stati firmatari, suo marito, l’esimio e amatissimo Cyprien, da cui aveva assunto il proprio cognome, era stato freddato con un Avada Kedavra. Il responsabile, immediatamente individuato, privato del pesante cappuccio nero che gli copriva il volto, aveva rivendicato per il suo Lord l’uccisione e, poi, aveva posto fine alla propria esistenza gettandosi dalla finestra del Palazzo dell’Eliseo, dove Madame Leroy aveva richiesto che venisse condotto affinché potesse interrogarlo.
L’opinione pubblica si convinse che il decesso dell’amato l’avesse piegata, ma fu un errore di valutazione. Enorme.
Chiusasi nella propria dimora, ampiamente protetta da un folto gruppo di Auror fidati, vi rimase senza rilasciare alcuna dichiarazione fino ai giorni dei funerali del consorte.
La foto della signora di mezz’età, che, china sotto il peso di abiti scuri, percorreva il lungo viale fino alla lapide di Cyprien, fece rapidamente il giro del mondo magico e anche chi aveva delle riserve, stabilì la sua sconfitta su tutti i fronti.
Era rimasta per ore inginocchiata sul terreno appena dissodato della pietra sepolcrale, senza dire una parola e non permettendo a nessuno di avvicinarsi. La veletta nera che cadeva morbida dal suo cappello, parte integrante della sobria acconciatura, sviava lo sguardo dai suoi occhi arrossati. Teneva il pugno chiuso, stretto su un fazzoletto, premuto contro la bocca, quasi come se fosse decisa a trattenere quel singhiozzo in maniera perpetua. Qualcuno, misericordioso, le aveva coperto le spalle, lasciate nude dal semplice tubino, con un pesante cappotto. Il colore acceso dei suoi capelli castano ramati, ricchi di sfumature bordeaux, pareva sconvolgere l’equilibrio di quella scena, spezzando anche il lento ciondolare di quel pesante medaglione che, infilato in una lunga collana, pendolava dal collo affusolato della donna. Molti anni addietro, con quei due anelli, Aurore e Cyprien avevano suggellato il loro giovane amore.
Solo dopo ore, la donna si era alzata, scostando la giacca e restituendola al ragazzo cui apparteneva.
Gelida ed austera, si infilò un ampio paio di occhiali scuri, pronta ad affrontare la folla di giornalisti e di semplici cittadini che si era accalcata oltre il cancello d’ingresso del cimitero. No, lei non avrebbe abbandonato il suo popolo. Il suo cuore, quello che aveva pulsato al ritmo dei baci amorevoli del suo uomo, reclama vendetta.
Di nuovo, il ragazzo le si avvicinò, offrendosi per ripararla dalle impietose macchine fotografiche cui sarebbe andata incontro. Lei, però, rifiutò l’offerta, posando la propria mano sul braccio del suo assistente.
«Ho bisogno di te altrove, Aymon» esordì lei, facendo in modo d’ottenere la sua completa attenzione «Devi mettermi segretamente in contatto con Minerva McGranitt».
Quello annuì appena, voltandosi immediatamente e sparendo, dopo aver svoltato dietro un albero, smaterializzandosi.
Il Ministro, allora, si concesse un grande respiro. Alle domande su come si sarebbe comportata per far fronte all’ingiuria subita, avrebbe risposto solamente che si sarebbe presa un paio di giorni per piangere la dipartita di suo marito a causa di un tragico incidente. Avrebbe convinto l’opinione pubblica di aver deciso d’evitare di mettersi contro Lord Voldemort, emanando un ingiunzione contro tutti i giornali che avessero pubblicato notizie sulla situazione inglese o sull’attentato.
Si sarebbe finta domata, quando in vero sarebbe stata la fiamma della ribellione. Lei, a costo di rimetterci la vita, avrebbe impedito ad ogni costo che un essere così abietto dominasse il mondo, il Signore Oscuro avrebbe dovuto pentirsi amaramente d’aver colpito il Rubino di Francia.
***

I dati parlavano chiaro: era da anni che ad Hogwarts non si registrava un così basso numero di iscrizioni. Da che i Fantasmi dell’edificio ne avevano memoria, ciò accadeva solamente in circostante particolarmente drammatiche, cosa che non si facevano scrupolo a ripetere assiduamente. Del resto, per loro che tanto si rallegravano dal vedere tutte quelle giovani e vispe menti affollare i loro corridoi, un così sventurata novella non poteva che essere al centro dei loro chiacchiericci.
Raccontavano a chi volesse stare ad ascoltarli, e anche a chi si sarebbe flagellato pur di non farlo, che la più importante scuola di Magia e Stregoneria inglese non era così vuota dagli oramai remoti tempi in cui l’Europa tutta era devastata dai Conflitti Mondiali Babbani. Una simile prospettiva, poi, si era palesata anche durante la prima ascesa di Lord Voldemort, ma questa si era assestata su uno scenario ben più roseo. Per questo motivo, il tradizionale treno diretto ad Hogsmeade da Londra sarebbe rimasto pressoché vuoto, eccezion fatta per tutti quelli studenti che sapevano essere al sicuro dalle possibili angherie dei Mangiamorte. Slytherin, principalmente, e tutti noti per l’appartenenza ad una delle famiglie Purosangue. Del resto, Traditori del Sangue esclusi, tutta la nobiltà Magica era rinomata per i suoi stretti rapporti di parentela e per i frequenti matrimoni tra consanguinei.
Gli altri, invece, avevano ottenuto il permesso di raggiungere la scuola mediante altre vie, alcune delle quali non propriamente legali. Era stato il caso di alcuni coraggiosi Nati Babbani che, pur di poter accrescere le proprie conoscenze magiche, avevano accettato d’utilizzare una Passaporta non autorizzata, dalla forma di un vaso di terracotta sbeccato, che li aveva catapultati direttamente entro i confini scolastici. Mai, come in quel momento, l’undicesima serra, quella dei tuberi flatulenti, fu tanto trafficata.
Altri, invece, erano riusciti ad approfittare della speciale concessione che la popolazione di centauri della Foresta Nera aveva concesso alla neo-insediata Minerva McGranitt. Guidati da costoro, avevano potuto attraversare la fitta boscaglia rimanendo illesi. Fondamentale, poi, era stato l’intervento dei Maridi, i quali, in ricordo del molto compianto Albus Silente, avevano fornito una grande quantità di alga branchia e messo a disposizione i propri mezzi di trasporto per far risalire agli studenti il fiume emissario del Lago Nero. Non tutti, però, erano rimasti soddisfatti di quest’ultima tipologia, decisamente troppo bagnata e pericolosa.
Per i ricercati, ovvero Potter, i due Weasley e Malfoy, sotto imposizione di un non proprio entusiasta Horace Lumacorno, timoroso di possibili ritorsioni, era stata predisposta una corsia preferenziale: la Pozione Polisucco. Poiché in passato questa si era dimostrata sufficientemente efficace, avevano supposto che potesse affrontare a testa alta anche quelle ennesime difficoltà. Del resto, chi avrebbe osato intromettersi nelle violente pomiciate che Madame Pince e Mastro Gazza avevano continuato a scambiarsi lungo tutto il tragitto tra Hogsmeade e Hogwarts, coccolati dalla lenta andatura di una carrozza trainata da Thestral?
Decisamente meno gioiosi furono Ron e Draco, quando scoprirono di dover impersonare Hagrid e il professor Vitious, di ritorno da un viaggio infruttuoso a Diagon Alley, dove il professore di incantesimi aveva deciso di recarsi in cerca di un nuova scorta di piume per le sue lezioni. La storia, a causa del terrore che aveva investito il quartiere magico di Londra, era purtroppo molto realistica: ben poche erano le vetrine ancora allestite e, in generale, l’usuale folla che ne saturava le vie era completamente sparita.
Inizialmente, i due ragazzi aveva deciso di giocarsi a sorte chi impersonare, ma considerando l’espressione di Malfoy e che, in fondo, le vecchie abitudini sono sempre difficili da depennare, il rosso si offrì per vestire i giganteschi abiti del caro Rubeus. Con suo grande piacere, inoltre, scoprì d’essere stato il più fortunato: la sua pozione, nonostante l’ispido capello crespo, era quella con il sapore migliore. Biscotti Rocciosi bruciacchiati, con un retrogusto amaro simile all’odore del fumo di un caminetto scoppiettante.
Ovviamente, i ragazzi non erano stati abbandonati a se stessi. Appollaiata su un morbido cuscino di raso viola, una gatta sonnecchiò, anch’essa intontita dal moto lento della carrozza su cui viaggiavano i due fidanzatini, avendo l’accortezza, per decenza personale, di tenere il muso rivolto altrove.
Un falchetto, invece, procedette ad ampie spirali sul placido camminare dei due insegnanti di Hogwarts, i quali, dopo un iniziale imbarazzo, trovarono uno o due argomenti di conversazione che non destasse sospetti: Natale, nonostante fossero i primi di settembre, era alle porte ed entrambi erano già ansiosi a causa dei preparativi. Il coro, quest’anno, doveva essere perfetto e, nei propositi del Guardiacaccia, il numero degli abeti doveva essere il doppio, per compensare la grave carenza di studenti.
Fatto sta che, fin dal primo mattino, la scuola, solitamente abituata ad accogliere gli scolari all’imbrunire, era già gremita di buona parte degli ospiti attesi.
La nuova Preside, provata dall’estate trascorsa, aveva deciso, irremovibile, di accogliere personalmente chiunque fosse entrato dall’ampia porta della Sala d’Ingresso. I professori, suoi colleghi, erano presto giunti a farle compagnia e, man mano, anche gli studenti si erano appollaiati qua e là. L’apprensione era palpabile nell’aria: tutti stavano aspettando qualcuno, timorosi che il proprio amico avesse deciso di non frequentare la scuola, seguendo, solitamente, le preoccupate imposizioni dei propri genitori.
Alcuni, vuoi per fama, vuoi per timore, erano più attesi di altri. Come da tradizione, infatti, un segreto ad Hogwarts era tale solo se tutti ne erano a conoscenza.
Per questo motivo, una notizia apparsa tra gli annunci della Gazzetta del Profeta non poteva che essere sulla bocca di tutti: Daphne Greengrass era convogliata a nozze con Blaise Zabini, cedendo, secondo Betty Braithwaite, autrice dell’inserzione, ad una lunghissima serie di avances durata anni. Fortunatamente, nessun fotografo aveva ottenuto il permesso di assistere alla cerimonia, così da evitare che la notizia delle violenze subite divenisse di dominio pubblico. I due, però, essendo entrambi Slytherin Purosangue, avevano deciso di viaggiare con la comodità dell’Espresso e, per questo motivo, non erano attesi per almeno un altro paio d’ore. Similmente, nessuno si aspettava di assistere all’ingresso di Theodore Nott, il quale, sicuramente, da rinomato figlio di Mangiamorte, avrebbe avuto la coerenza d’essere l’ultimo ad entrare, vista anche la sua imminente posizione all’interno della sua Casata, gli Slytherin.
Questi ultimi costituivano, senza dubbio, il gruppo più sparuto, lì nella Sala d’Ingresso. Tacevano.
Il loro era un silenzio austero, pregno dell’eleganza che solo la distaccata freddezza può avere. Non chiacchieravano tra di loro, non si raccontavano aneddoti sull’estate trascorsa. Non c’era spazio per l’amicizia tra di loro, o, almeno, questo doveva suggeriva l’apparenza. Se ne stavano immobili, fissando a lungo e con insistenza un punto fisso, quasi a volerne svelare ogni segreto. Erano grandi amatori, il cui sguardo avrebbe stregato anche la dama più pudica, spingendola a far scivolare le proprie vesti sulle curve morbide dei fianchi.
Non erano che una dozzina e tutti, quasi a voler tacitamente affermare la propria superiorità, si erano disposti sull’ampio scalone. Draco Malfoy, tra gli altri, con i suoi capelli chiarissimi, riluceva di una bellezza difficile da comprendere. Aveva, infatti, l’aspetto di un ragazzo con indosso abiti da uomo: una transizione, un qualcosa in divenire, che non è più ciò che era, ma non può ancora essere ciò che sarà. Le sue mani, torcendosi vicendevolmente, penzolavano sotto il suo capo, mentre s’impuntava sulle ginocchia con i gomiti.
L’anno scolastico, ufficialmente, non era ancora iniziato. Per questo motivo, aveva ritenuto di poter indossare la divisa senza una cura meticolosa: la camicia era leggermente sbottonata, con le maniche avviluppate sull’avambraccio, e, non sopportando l’afa, aveva allentato il nodo della cravatta. A malapena, nascosta dal tessuto leggero, si intravvedeva una catenina risaltare sul pallore della sua pelle.
La barba era sfatta da un paio di giorni e ancora rada a causa della giovane età: una sfumatura più scura di biondo con cui le sue labbra, d’un acceso rosso sangue, disegnavano l’affresco d’un paesaggio estivo.
Nel suo respiro, calmo e regolare, si avvertiva chiaramente la nota acre lasciata dall’ultima sigaretta, fumata non più di un’ora prima. Le nocche bianche suggerivano una tensione che, però, non riusciva a risalire la sua anima fino agli occhi. Cenere d’un rogo spento da un acquazzone, scrutavano con attenzione chi varcava la soglia.
Solo, su di un altro piccolo pianeta. Era lontano da quell’edificio, distante dai suoi tormenti. Eseguiva quel compito che, svelata la verità, si era imposto da sé, nascondendosi dietro la bugia di un ordine imposto. Così, stanco, usava la piccola fiammella, alimentata dalla sua stessa ansia, per accendere e spegnere quella luce che, lo sapeva benissimo, non avrebbe rischiarato nulla. Ogni minuto aveva il proprio tormento, un principio ed un esaurimento. Inseguiva la speranza di giungere alla fine, così da potersi fermare. Si sarebbe seduto sul morbido manto erboso di quel minuscolo astro, lasciandosi poi cadere all’indietro. Giunta la notte, avrebbe finalmente potuto dormire un sonno tranquillo: in un sogno irreale, guardando una stella con il proprio telescopio, qualcuno gli avrebbe detto che, secondo la somma scienza, la continua intermittenza luminosa dava il nome di cefeide a quel corpo celeste, non sapendo che, in realtà, su quel lontano asteroide, abitava, indaffarato come lui, un suo collega lampionaio. Allora, disilluso e intimorito, si sarebbe svegliato di soprassalto, accecato dall’alba, e avrebbe spento il suo lume. E, sconsolato, avrebbe atteso il tramonto.
Alle spalle di Malfoy, distante solo un paio di scalini, vi era Forsyth. Tra i due, nascosta dalla breve distanza fisica, ve ne era un’altra, più spirituale, difficilmente commensurabile. Fu per questo che, stanco di quell’attesa infinita, Logan si staccò dall’ampio corrimano di marmo bianco cui si era appoggiato, cominciando a scendere i gradini, dirigendosi verso l’esterno. La sua bocca portava l’evidente marchio di un segreto taciuto. Il leggero gonfiore del labbro inferiore, una piccola ferita che suggeva continuamente rimarcata da una piccola goccia di sangue, un sorriso nascosto a fatica. Erano solo indizi che avrebbero ricondotto un attento osservatore ad un bacio passionale. Nulla avrebbe potuto suggerire la verità: non il suo ostentare sicurezza, non il suo obbligarsi a non guardare quella persona per cui il suo spirito si disperava. Avrebbe solo voluto annullare quella loro distanza, afferrarlo per il colletto con entrambe le mani e baciarlo. Senza dolcezza, anzi, senza timidezza. Voleva sentirlo, avvertirlo. Eppure, qualcosa lo frenava. Perché nonostante tutti i ghirigori che la sua fantasia aveva costruito su un fragile castello di carte, lui era conscio di non poter far nulla. La sua famiglia gli avrebbe voltato le spalle, se avesse saputo che si era innamorato di qualcuno diverso dalla sua promessa sposa: un Gryffindor, un Mezzosangue, un ragazzo. Sarebbe divenuto lo zimbello della Comunità Magica, se qualcuno avesse saputo che fremeva ogni volta che le mani di un essere così tanto inferiore a lui lo toccavano. Suo padre avrebbe voluto la sua testa.
***

Spinse una delle ante della grande porta d’ingresso e si insinuò all’interno dell’edificio. Il suo gesto non era stato plateale o strafottente, anzi. Alcuni, nonostante il drastico taglio di capelli, la riconobbero e, rapidamente, si diffuse la convinzione, tra chi ne era al corrente, che quella era la stessa Hermione di sempre: più magra e con un trucco più marcato attorno agli occhi, ma con lo stesso sorrise gentile con cui era sempre stata disponibile per tutti.
Il suo viso, tuttavia, rimase impassibile: non corse ad abbracciare Ron ed Harry, i suoi compagni di disavventure, non saltò al collo di Ginny, la sua migliore amica. Senza voltarsi, chiuse l’uscio.
Osservò tutti i presenti, soffermandosi su ognuno di essi per alcuni istanti. Molti non ressero il confronto, i restanti, per il troppo dolore, si costrinsero a concentrarsi su altro.
Non indossava la divisa, cosa che, negli anni passati, si era sempre premurata di fare, prima di entrare nell’edificio scolastico, ma una gonna a balze nera e una semplice camicetta bianca.
L’attenzione di tutti, immediatamente, si focalizzò sul suo avambraccio sinistro che, lasciato volutamente scoperto, confermò ciò che molti pensavano fosse impossibile: era divenuta una Mangiamorte.
Attendevano che lei facesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Amy, discretamente, mise la mano sulla bacchetta. Drew si staccò dolorante dalla parete a cui si era appoggiato, stanco e provato. La McGranitt provò a muovere un passo o a dire qualcosa, ma la voce le morì in gola. Aprì la bocca e la richiuse immediatamente, come intimorita dall’idea che, parlando troppo forte, avrebbe infranto il silenzio di quel luogo, facendo rovinare al suolo una terrificante, e al tempo stesso maestosa, statua di cristallo.
Lei mosse alcuni passi. Harry pensò che volesse salutarli, Ginny fu sul punto di piangere per la felicità, Ron strinse con forza la mano della sua finalmente ritrovata Denise.
La Granger si avvicinò ancora. Potter le accennò un sorriso, ma non trovò risposta.
Il rumore dei tacchi, troppo alti e volgari per una studentessa modello come Hermione, si interruppe solo quando fu ad un passo dal professor Kennan.
Lo guardò negli occhi e sul suo viso si dipinse un’espressione di ribrezzo che, presto, evolse in un ghigno beffardo. Crudele.
«La prossima volta, non sbaglierò».
La Preside, finalmente, riuscì a compiere un passo in avanti, desiderosa di dire qualcosa.
«Hermione?». Non era stata lei a parlare.
Dal folto gruppo di Gryffindor, fino a pochi minuti prima brulicante di chiacchiere, uscì allo scoperto Daniel Alleyn. I suoi occhi, profondi e leggermente lucidi, non celavano nulla: avrebbe voluto domandarle tante cose, a lei che lo aveva guidato e aiutato, a lei che aveva saputo confortarlo e ascoltarlo. Avrebbe voluto scuoterla, fino a costringerla a svelargli il perché di una simile follia.
La ragazza non diede prova d’averlo sentito e, non appena ruppe il contatto visivo con Drew, riprese a camminare, dirigendosi verso l’ampio scalone.
«Non mi rispondi neppure?». Era stato un urlo.
Il giovane Gryffindor, colpito tanto intimamente da sembrare essere sul punto di versare qualche lacrima, fu l’unico a riuscire ad infrangere quell’atmosfera tetra ed intoccabile che la Granger aveva fatto scivolare in quella stanza con il suo ingresso. Ma dipinse quella situazione, lui che pareva essere in grado di tinteggiare di gioia anche la più tetra delle oscurità, con un fioco grigio d’abbandono e sofferenza.
Eppure, non ottenne alcuna risposta, se non la preoccupazione dello sguardo di Logan.
La Gryffindor, gelida ed imperscrutabile, prese a salire gli ampi gradoni. Passò di fianco a Draco, ma, nuovamente, fece finta di non vederlo. Ad uno schiocco di dita, lo aveva annullato dalla propria esistenza.
Aveva assistito inerme. Fino a quel momento.
Non accettò che lei non lo degnasse neppure di uno sguardo. Non poteva farlo, lui non glielo avrebbe permesso. Non anche questa volta.
Le afferrò il polso con forza, pentendosene subito per il timore d’averle fatto del male. Hermione si fermò, uno scalino più in alto di lui.
«È questo che sei diventata? La versione squallida di te stessa?» le domandò, con una cattiveria che, pur sapendo d’aver covato a lungo in sé, sperava di saper controllare meglio.
Rise.
«No, Draco, io sono diventata la versione migliore di te. Magari un giorno diventerai un uomo e lo capirai» gli rispose, interrompendo il contatto tra i loro corpi «Ma se le cose andranno come credo, sarai morto molto prima».
La ragazza riprese la salita verso il suo dormitorio, senza dargli la possibilità di replicare. D’improvviso, però, s’arrestò. Non gli concesse l’onore di guardarle il viso.
«Dimenticavo». Nella sua voce, c’era un qualcosa di divertito. «Tu zia Bella mi ha detto di portare a te e a tua madre le sue condoglianze per la dipartita di tuo padre».
Tutta Hogwarts, in quell’istante sprofondò in un mondo errato, in un universo parallelo profondamente sbagliato. Lucius Malfoy, che tutti ritenevano al sicuro tra le fredde mura di Azkaban, era morto.
«È stata una splendida esecuzione: ha strisciato, pur d’aver salva la vita».
In quell’istante, l’idea che tutti avevano di Hermione sparì: stava infierendo con cattiveria su un ragazzo che aveva appena perso il padre, provando un dolore simile a quello che aveva vissuto lei. Non c’era pietà, nel suo agire. Era come se qualcuno le avesse strappato il cuore dal petto.
Era diventata un’arma nelle mani di Voldemort.
Il rumore pesante dei suoi passi, che lentamente si allontanava dal Salone d’Ingresso, rimbombò nelle teste dei presenti. Lentamente, con l’aumentare della distanza, l’eco si fece meno tonante, si affievoliva. Allo stesso modo, il cuore di Draco pareva essere sul punto di smettere di pulsare.
Qualcuno, con mani forti e viso dagli zigomi aristocratici, gli fu vicino, obbligandolo a sedersi.
***
Il viso di Minerva McGranitt era rimasto impassibile, sebbene lei per prima, e forse sola, aveva realmente compreso la gravità della situazione. Aveva permesso tutto ciò, ben conscia dei pericoli in cui sicuramente sarebbe caduta, ma non sapendo d’essere stata tanto sciocca ed avventata.
Fin da quando aveva messo piede in quell’ampia camera ministeriale in cui avrebbe dovuto contrattare per la nomina di Preside di Hogwarts, l’anziana donna era stata consapevole che non avrebbe potuto ambire a tale titolo senza qualche rinuncia. Il suo obbiettivo, fin da subito, era stato cercare di ridurre al minimo l’intrusione di Lord Voldemort all’interno delle antiche mura del castello e, per ottenere ciò, aveva dibattuto strenuamente. Era riuscita ad evitare che fosse il Ministero a stabilire a chi venissero attribuite le cattedre vacanti, onde evitare che il corpo docente fosse formato, per l’ennesima volta, da insegnanti incompetenti o schierati, seppur sotto mentite spoglie, con il Signore Oscuro. Purtroppo, giunta ad un bivio in cui la propria coscienza non poteva che farle intraprendere un percorso, aveva dovuto cedere terreno: pur di poter aprire l’ampio portone di ferrò battuto della scuola anche ai Nati Babbani, aveva dovuto accettare che tutte le sue decisioni passassero al vaglio di un Tribunale del Controllo, opportunamente costituito. Dodici eminenti personalità, di cui lei aveva potuto scegliere solo tre candidati, tutte facenti rapporto ad un innominato Giudice Eccelso, avrebbero osservato con attenzione il suo operato, potendo porre il veto sui suoi provvedimenti e, quindi, obbligandola a riformulare gli editti da lei emessi.
Per esempio, nel corso dell’estate aveva cercato di annullare, per ovvi motivi, le uscite ad Hogsmeade, ma la cosa, per chissà quale motivo, non era piaciuta ai suoi Controllori e si era vista costretta a mediare, ancora, autorizzando le visite alla cittadina magica, oramai molto desolata, solo per coloro i quali la media dei risultati ottenuti nelle varie materie era pari o superiore a “Oltre Ogni Previsione”.
L’anziana, nonostante tutto, era rimasta dov’era, ancora desiderosa di dare il benvenuto ad ogni suo studente. Apparentemente, cercò di mostrarsi tutt’altro che turbata da quel tatuaggio sul braccio di quella che, da anni, era la sua studentessa preferita, nonché una delle migliori in tutta la scuola. Eppure, quella era Hermione Granger.
Cambiata nell’esteriorità, senza dubbio, ma con il medesimo portamento fiero e a tratti superbo. Aveva anche lo stesso orgoglio negli occhi, quello che un tempo aveva riversato nelle sue lotte sociali contro la disparità tra Razze. Eppure, lei che per anni aveva sofferto per i maltrattamenti subiti in quanto Sanguesporco, si era schierata proprio dalla parte di chi, primo fra tutti, aveva fomentato quel grande astio tra simili.
La McGranitt aveva visto Drew, sofferente, perdere terreno contro quella ferita non ancora guarita perfettamente e lo aveva pregato di andare a riposarsi in vista della cena con cui il nuovo anno scolastico sarebbe stato inaugurato e durante la quale lui avrebbe avuto un ruolo importante, non temendo di dover utilizzare la sua nuova autorità. Stranamente mansueto, il giovane uomo aveva accettato senza opporsi, chiedendo anzi alla sua giovane collega, Amelia Fay, di accompagnarlo nella sua stanza.
Quando i due se ne andarono, un incantesimo parve spezzarsi, rompendo l’ordine segreto della Convinzione e liberando da pesanti legacci molti dei presenti. I primi ad allontanarsi furono i pochi Slytherin presenti, quasi indignati dal comportamento deplorevole di Malfoy. Il ragazzo, dopo aver spintonato Logan Forsyth, che lo aveva obbligato a sedersi dopo aver appreso del decesso del padre, tenne tutti a distanza. Il suo sguardo, fisso in un punto non precisato, non lasciava trasparire alcuna emozione: vani furono i tentativi dei professori, Preside in testa, di smuoverlo, così come altrettanto futili furono le parole che Harry gli rivolse.
Pareva essersi rinchiuso in bolla di silenzio e rimorso. Ammutolito come il più violento dei folli, pronto a tutto per ottenere pace e vendetta. Il giudizio, sasso pesante lanciato nell’acqua, pareva aver abbandonato il suo corpo, suicida. Un corpo stanco lanciato con forza oltre il limite di una rupe, spinto, da un’illusione d’amore, a compiere il balzo di Saffo.
In meno di un’ora, il Salone d’Ingresso si era quasi completamente svuotato, eccezion fatta per l’anziana donna, Potter e i Weasley, i quali trovarono, però, anche la compagnia di alcuni elementi dell’Esercito di Silente. Pochi, i più fedeli, quelli che ancora credevano negli ideali che erano stati le fondamenta di quel gruppo ma che, dopo il voltafaccia della Granger, la quale più di tutti aveva spinto per la creazione dell’organizzazione segreta, si erano mostrati con la loro reale ed effimera figura.
Neville e Luna, comunque, trascorsero la maggior parte del tempo a parlottare tra di loro, lanciando occhiate sospettose a Logan Forsyth. Risoluto, lo Slytherin era rimasto dov’era, sebbene Malfoy avesse chiarito esplicitamente, non con parole gentili, che non apprezzava la sua presenza. Ai due ragazzi, infatti, non era sfuggita l’espressione preoccupata che si era dipinta sul volto di Daniel Alleyn, quando il giovane Sanguepuro, scostato bruscamente da Draco, era caduto al suolo, ruzzolando per un paio di scalini. Se non fosse stato ideologicamente inaccettabile e, di conseguenza, impossibile sul piano pratico, avrebbero affermato che i due si conoscevano. Il motivo per cui Luna s’attardava, facendo ritardare anche Paciock dal raggiungere la Sprite nelle serre, era quindi tentare di svelare che tipo di relazione li legasse, desiderosa, grazie a quello spirito di reporter che la accumunava con suo padre, di risolvere un misterioso intrigo che, in realtà, esisteva solo nella sua mente. Forse.
La situazione, fatta solo di sguardi circospetti, proseguì ancora per qualche tempo, fino a quando, Daniel, stanco d’essere osservato con tanta insistenza, salutò i presenti, la cui maggior parte aveva conosciuto nel proprio dormitorio, e si congedò con educazione dalla Preside. Quando, salendo le scale, i due coetanei, appartenenti a due Case diverse, non si rivolsero neppure un cenno, cosa normale tra i Gryffindor e gli Slytherin, la Lovegood se ne uscì con un’esclamazione soddisfatta e corse a scrivere a suo padre, dopo aver dato un rapido bacio sulle labbra a Neville, che, in risposta, arrossì irrimediabilmente.
Anche Malfoy, colpito da quel gesto tanto quanto il pupillo dell’insegnante d’Erbologia, uscì per pochi istanti dal suo stato catatonico per domandarsi quale malsana idea fosse entrata in rotta di collisione con il cervello della Lunatica.
Alla fine, anche gli ultimi Sanguepuro, rigorosamente appartenenti alla Casata di Salazar, arrivarono a scuola. Non c’era nessuna folla ad accogliergli, ma solo sguardi sospetti, riservati alla quasi totalità di loro.
Il gruppo di studenti, meno esiguo di quanto la Preside sperasse, riservò a tutti i presenti, McGranitt compresa, un’espressione superba, che variò in scherno quando l’oggetto delle loro angherie divenne Malfoy. Theodore Nott gli dedicò una risata crudele, quando gli passò vicino.
Anche lui, considerando che l’anziano padre era un Mangiamorte, doveva sapere del lutto che lo aveva colpito.
A chiudere il gruppo, distaccati dagli altri principalmente a causa dell’inesistente solerzia di Blaise, vi erano i coniugi Zabini, i quali camminavano vicini, ma senza toccarsi. Eppure, chiunque, guardandoli, avrebbe detto che non c’era bisogno di un contatto fisico per essere certo del forte rapporto che intercorreva tra i due.
Quando vide l’amico in quello stato, Daphne corse ad abbracciarlo, sfiorandoli il viso con il tocco gentile delle sue mani e costringendolo ad alzare lo sguardo affinché i loro occhi si incrociassero.
«Che succede, Draco?».
Non ricevette risposta. Fu Ginny a spiegare loro la situazione.
Blaise lo issò con forza, rimettendolo in piedi mentre la sua consorte faceva loro strada verso i sotterranei.
Mai, da quando si trovava ad Hogwarts, aveva visto una Sala Grande così vuota. Eppure, erano molti anni che, prima da studentessa e, poi, da insegnante, affollava i corridoi di quell’antico edificio. Minerva McGranitt non poté che limitarsi ad auspicare, in cuor suo, che ciò non si ripetesse anche negli anni venturi e che la situazione si risolvesse in un tempo minore di quello che lei avrebbe trascorso nell’ufficio del Preside.
Le grandi tavolate non erano un continuo alternarsi di giovani testa scalmanate. Molto del cibo preparato dagli Elfi, rifletté, sarebbe andato sprecato.
Spinse indietro la sedia, issandosi in piedi e allontanandosi dagli altri docenti per avvicinarsi al leggio da cui avrebbe tenuto il suo discorso inaugurale. La stanza, fatta esclusione di qualche Slytherin irrispettoso, ammutolì. Non vi fu alcun rumore, se non quello della sua lunga veste che strusciava sul prezioso tappeto di fattura Veela. La sua voce, sicura, venne amplificata dalla magia.
«Studenti di Hogwarts, benvenuti!» nella sua voce, c’era reale gioia. Strinse con più forza le mani attorno al legno massiccio, cercando un sostegno. Era troppo anziana per un peso così grande, ma non avrebbe permesso ad un lurido verme di strappare il futuro alle generazioni venture. A lei, prima che ad altri, era richiesto di combattere strenuamente, così da dare un lieto avvenire a tutti quei giovani che aspettavano in silenzio una parola di conforto.
Avrebbe voluto parlare senza censura, criticare aspramente il governo, da mesi in mano a Lord Voldemort, e denunciare quella spregevole situazione, ma non poteva farlo. Non sapendo perfettamente che, al suo primo passo falso, si sarebbe ritrovata bandita dalla scuola. Cercò la Granger con lo sguardo, trovandola isolata dagli altri compagni di Casa. Fiera, sembrava attendere di sentire ciò che lei, povera vecchia, aveva da dire.
In quel momento seppe di non poter tacere su tutto.
«Avrei tante cose da dirvi, molte delle quali sono costretta a tacere. Ritengo, tuttavia, che tutti voi ne siate, in forma più o meno esaustiva, al corrente» fece una pausa, durante la quale trasse un forte respiro «Hogwarts nacque come un luogo per riunire i giovani maghi, così da poterli istruire e proteggere dal male. In questo, tutti noi insegnanti, l’anno scorso, siamo stati sconfitti: non sapevamo all’epoca, fino a quanto si sarebbe spinto il nostro avversario, nel suo reclutamento» guardò fisso Hermione, sulla cui persona, quasi immediatamente, si era concentrata l’attenzione di tutta la platea.
La Preside, sollevando l’orlo del suo vestito, prese a scendere i pochi scalini che separavano il tavolo dei professori, leggermente rialzato, da quelli degli studenti.
«Lo sappiamo ora, dopo che, a tradimento, la nostra luce più luminosa è stata spenta. Un assassinio, avvenuto per mani di persone insospettabili o in cui lo stesso Silente riponeva la sua totale fiducia». La McGranitt, si avvicinò istintivamente ai Gryffindor, sfiorando i suoi studenti.
«Non accadrà più» continuò sicura, spostandosi verso il tavolo dei Ravenclaw «Non accadrà più, perché io non permetterò che ciò avvenga nuovamente. Non fino a quando avrò forza a sufficienza per stringere la mia bacchetta e, credetemi, la mia mano non trema ancora. Combatterò per voi, come Albus avrebbe voluto che facessimo. Hogwarts vi proteggerà, vi renderà streghe e maghi degni di questo nome e vi permetterà di battervi per ciò in cui credete».
Così dicendo, con passo fiero, ritornò verso i suoi colleghi.
«Noi saremo per voi una perfetta fattura e un eccelso incanto scudo, ve lo prometto».
Qualcuno iniziò ad applaudire, trascinando presto nella foga anche i propri vicini. Ben presto, tre delle quattro casate accolsero con entusiasmo la nuova Preside, mentre tra gli eredi di Salazar solo qualcuno, particolarmente intrepido, osò tanto. Daphne, guardando con sfida i propri compagni, osò persino alzarsi in piedi, imitando qualche collega Hufflepuff.
Hermione Granger, invece, rimase immobile: quelle parole sarebbero giunte all’orecchio del Signore Oscuro.
Aveva atteso che il clamore si placasse per poi ricominciare a parlare.
«Per ovvi motivi, il corpo docenti ha subito delle modifiche» scandì bene, pacata «Il professor Lumacorno, già insegnante di Pozioni, dopo il triste abbandono del nostro “beneamato” Piton, è divenuto il Direttore degli Slytherin». Un boato di disapprovazione si alzò dal tavolo dei diretti interessati, non dispiaciuti tanto dall’avere il pacato Horace a capo della propria Casata, il quale assicurava loro la completa assenza di qualsiasi forma di punizione, ma quanto per l’epiteto, chiaramente ironico, con cui la McGranitt aveva appellato l’oramai ex docente.
«Nessuno vi trattiene, serpi. Non accetterò che in questa scuola, la mia scuola, il nome dello spregevole assassino di Albus Silente venga anche solo nominato senza essere pronunciato come un insulto. Un giorno anche Severus Piton pagherà per le sue colpe e, aprite bene tutti le orecchie, mi assicurerò che la sua morte sia così tremenda da fargli desiderare il Bacio del Dissennatore». Anche un sordo, guardando il cipiglio severo delle sue labbra, contornate da rughe, avrebbe intuito che la sua minaccia non doveva essere presa alla leggera. Con quella mossa, ovviamente, la Preside non aveva fatto altro che peggiorare la sua posizione, ma era giunta alla conclusione che, se proprio doveva peccare, lo avrebbe fatto nel miglior modo possibile. Poco le importava, fondamentalmente, di dover mantenere la sua facciata severa: l’argomento la toccava profondamente, minando sì la sua integrità morale, ma facendole anche dolere il petto per la forte sofferenza. Lei aveva perso un amico ed un maestro. E qualcuno, per questo, avrebbe dovuto pagare.
Non vi fu alcun rimbecco da parte dei diretti interessati, forse veramente intimoriti da quella donna.
«Lei è ancora viva solo perché il Signore Oscuro non la ritiene neppure un ostacolo, per i suoi progetti».
Quella voce. Un brivido corse lungo la schiena della Preside.
«Signorina Granger, non sfidi la mia pazienza solo perché si è fatta marchiare come una bestia incapace d’intendere» la risposta della McGranitt fu immediata. Il suo viso non fu attraversato neppure dall’ombra di un’emozione «Lei, in questo momento, è ancora viva solo perché temo che la sua infantile superbia possa essere contagiosa. E, ora, ci faccia il piacere di ritirarsi nelle sue stanze, così da non appestare questa situazione felice con la sua spiacevole presenza».
Piccata, Hermione non poté fare altro che obbedire. Alzatasi in piedi, osservando l’anziana signora negli occhi, si sistemò sul petto la spilla da Caposcuola, rimarcando ancora una volta il grande errore che la donna aveva compiuto. Molto prima che sapesse di quel risvolto inatteso, Minerva l’aveva candidata per quel ruolo.
Il Tribunale del Consiglio aveva accettato la sua proposta, senza contestare, sebbene avessero avuto da ridire sui ragazzi che aveva suggerito per le altre Case. Ora sapeva per quale motivo: aveva dato autorità ad una Mangiamorte. A nulla sarebbe valso un suo tentativo di cambiare quell’editto oramai stipulato.
Le due donne, appartenenti a generazioni molto distanti tra di loro, si scambiarono un sorriso, crudele da una parte e gelido dall’altra, prima che la figura snella della più giovane sparisse dietro la pesante porta che conduceva al Salone d’Ingresso e, quindi, alla scale.
Per la prima volta, Drew Kennan cominciò a dubitare della propria scelta di far divenire Hermione una Mangiamorte: lui stesso, oramai, non sapeva se potersi fidare completamente di lei.
La McGranitt aveva ripreso a parlare poco dopo.
«Vi pregherei di accogliere con un applauso fragoroso l’erede della mia cattedra, la signorina Amelia Fay, la quale si occuperà anche della direzione della Casata dei Gryffindor».
La diretta interessata non seppe come reagire a questa pubblica declamazione e, improvvisando, si alzò in piedi, sorridendo. Accennò un saluto ai suoi studenti, simile a quello con cui l’anziana Regina Madre soleva salutare gli astanti. A tale mossa, un rumoroso sbattere di piedi si sollevò dai Grifoni, cui lei ringraziò prodigandosi in gesti poco consoni per il ruolo autoritario che doveva investire. Indispettita, la McGranitt rivolse un’occhiata severa prima alla giovane e, poi, agli studenti, ottenendo un silenzio immediato. Amy, abbassando gli occhi, si portò una mano alla fronte in un perfetto saluto militare e si rimise a sedere. Rimaneva la certezza, comunque, che la prima impressione fatta era ben più che positiva.
«Sarò io la loro professoressa preferita, Kennan» sussurrò, rivolgendosi al vicino che chinò appena il capo per poter sentire le sue parole. Era divertita da quella situazione ed entusiasta all’idea di cominciare le lezioni.
«Molti di voi lo conoscono già … », stava dicendo intanto la Preside « … ma da quest’anno non si occuperà solo del corso speciale per gli studenti più promettenti, per il quale verrà affiancato dalla professoressa Fay, ma anche dell’insegnamento della sottile arte, fondamentale in momenti come quello che stiamo vivendo, della Difesa contro le Arti Oscure. Vi prego di riservare un applauso anche per Drew Kennan, che ora, in qualità di nuovo Vicepreside, si occuperà dello smistamento dei ragazzi».
In questo caso, il fragore provenne da tutti i tavoli indistintamente. Anche gli Slytherin dovevano ammettere, a malincuore, che averlo come insegnante era quanto di migliore potesse capitare loro, dopo Piton. Si diceva, infatti, che, sebbene i suoi metodi fossero inusuali, era uno dei maghi più dotati e potenti viventi. Senza contare che, non era affatto un mistero, il suo passato trasudava anche magia nera.
«Dicevi?» domandò, fintamente ingenuo, alla sua interlocutrice, mentre, prendendo l’elenco dei nuovi studenti, ben pochi, raggiungeva il polveroso Cappello Parlante.
***
La stanchezza traspariva dai loro volti. Era stata una giornata dura per tutti, sebbene alcuni, allo scoccare della mezzanotte, avrebbero realizzato d’essere stati colpiti con più ferocia di altri. Non riuscivano ancora a comprendere l’inspiegabile e repentino cambiamento di Hermione per quanto si sforzassero, per quanto tempo avessero avuto per affrontare la questione con le proprie coscienze. Nelle loro teste, continuavano ad essere approfondite, sviluppate come monumentali castelli di carta, ipotesi senza fondamento ma che, comunque, al loro cuore apparivano più realistiche di quanto gli occhi mostrassero loro.
Se qualcuno avesse chiesto loro di definire la parola “verità”, quella sera, solo uno di essi avrebbe saputo fornire una risposta valida e di senso compiuto. Solo uno di loro, quella sera, aveva smesso di combattere Lord Voldemort, preoccupato da altro.
Così, esausti e assonnati, dopo l’abbondante cena, come da accordi presi in precedenza, quando ancora la maggioranza di loro si trovava ospite sotto il tetto dei coniugi Zabini, si ritrovarono nella Stanza delle Necessità. Il primo ad arrivare, Harry, aveva chiesto un luogo in cui fosse possibile parlare senza timore d’essere uditi da orecchie indiscrete e in cui fosse anche possibile trovare un po’ di quiete.
Oltre la soglia, comparsa per magia lungo il corridoio del Terzo Piano, si sviluppò un salotto accogliente.
Un ampio finestrone, inserito in un arco trilobato, lasciava che la luce di quella luna di tarda estate filtrasse all’interno, disegnando giochi di ombre e riflessi luminosi. La stanza, non molto grande, era pregna di un piacevole tepore, alimentato dal fuoco scoppiettante nel camino. Anche il pavimento, ricoperto da un parquet massello di legno Wengè, sul cui colore scuro risaltavano le comode poltrone di un accesso carminio, era caldo. Su un piccolo tavolino di design, creato dall’intarsiarsi di tre lastre di vetro dalle forme curvilinee, erano appoggiati dei fogli di carta con una penna stilografica. Potter si lasciò cadere, sedendosi di peso e occupando uno dei posti più vicini al fuoco. In silenzio, mentre attendeva che i minuti trascorressero, scanditi da un orologio a pendolo dall’aria antica, formulò nella propria mente la richiesta che quel luogo fosse inaccessibile per Hermione Granger e per chiunque, come lei, non era desiderato all’interno.
Il salotto, oramai, era ricolmo.
Draco si era allontanato dagli altri e se ne stava appoggiato alla fredda parete, con le pietre a vista, poco distante dalla finestra. Daphne, invece, perfetta nell’apparire ed elegante nonostante l’ora tarda, aveva occupato una delle poltrone, sedendosi con una grazia tale che, per alcuni istanti, Ginny pensò che non fosse completamente umana. Con le gambe incrociate, ben definite da un sobrio paio di pantaloni neri a sigaretta, e con una mano presa a volteggiare dalle sue labbra carnose al posacenere, sfiorava distrattamente i capelli di Blaise, il quale si era seduto sul pavimento, a ridosso dei vertiginosi e immancabili tacchi che sua moglie non aveva potuto esimersi dall’indossare una volta liberatasi dell’uniforme scolastica. Gli occhi del giovane Zabini, tanto pesanti da sembrar non poter rimanere aperti, sottolineavano chiaramente la sua sonnolenza e il suo forte desiderio d’essere altrove, magari sotto l’abbraccio caldo delle coperte del suo letto. O della sua donna.
La più giovane dei Weasley, invece, si era seduta sul bracciolo della poltrona su cui si era insediato il suo fidanzato. Le fiamme rendevano i suoi capelli morbidi un qualcosa d’estremamente attraente e terribile nella medesima quantità: una creatura mitologica, un drago sfuggito da un antico libro di fiabe le cui squame cremisi parevano essere in grado di emettere una luce propria. Infine, forse i più tranquilli del gruppo, persi a cincischiare e a raccontarsi le molte cose vissute durante l’estate, vi erano Denise e Ron. Su volontà dello stesso Potter, il quale sapeva che l’amico non avrebbe sopportato di tenere con la quasi fidanzata un segreto tanto grande, il celebre portiere della squadra di Quidditch, il membro più spontaneo del Trio, oramai non più tale, aveva rivelato alla Millay la missione che Silente aveva affidato loro.
La Ravenclaw, che dopo il supposto tradimento di Hermione aveva cominciato a sentire un grosso peso sulle sue spalle, in quanto ragazza più brillante del gruppo, aveva trascorso tutto il suo tempo libero a documentarsi sul Signore Oscuro, attirando attenzioni non molto desiderabili, e sugli Horcrux. Le sue ricerche, in fin dei conti, avevano dato buoni risultati.
Finalmente, Harry decise di prendere la parola.
«Hermione ci ha traditi».
Quelle parole erano necessarie: tutti avevano bisogno di sentirsele dire, di percepire il loro suono pronunciato ad alta voce. Senza disincanti o bugie, senza domande, senza dubbi.
Per un attimo, il silenzio si fece di cemento armato.
«Almeno ora sappiamo chi ha rivelato al Signore Oscuro il piano per il tuo trasferimento» constatò Ron, riportando quella notte tremenda alla mente di tutti coloro che vi avevano partecipato e anche di chi era stato solo testimone di un racconto. Sulla coscienza della Granger, lo realizzarono per la prima volta in quell’istante, pesava la vita di Malocchio.
Eppure, la ragazza pareva non essere neppure lontanamente toccata dai sensi di colpa. Quasi come se fosse stata Imperius.
«E sappiamo anche chi ha svelato ai Mangiamorte la data del matrimonio di Bill e Fleur» aggiunse Ginny, provando una forte sofferenza, comunque, per quelle parole. Lei era pur sempre la sua migliore amica.
«Quindi è stata lei ad attaccare Drew» concluse Daphne, osando sottintendere, per la prima volta, quanto pericolosa la Granger era divenuta, se era stata in grado di sconfiggere Drew. «Hai ancora intenzione di partire?» continuò poco dopo la bionda.
Harry si spostò in avanti, facendo attenzione a non sbilanciare Ginny. Le sue mani si giunsero, posando i gomiti sulle ginocchia.
«Ora sono ancora più intenzionato di prima. Dobbiamo fermare Lord Voldemort, Silente ci ha lasciato questa missione» disse, scandendo chiaramente «Ho già detto alla McGranitt che dovrò andarmene e che, forse, qualcuno di voi verrà con me».
Draco, per la prima volta, si scostò dal muro avvicinandosi agli altri. Anche Blaise, in quel momento, parve particolarmente attento.
«Non mi ha fatto domande, ma mi ha promesso che ci avrebbe aiutati ad uscire dal Castello e a superare Hogsmeade inosservati» continuò Potter, sistemandosi gli occhiali sul naso «Ora devo saperlo: qualcuno di voi mi seguirà? Io avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile».
Cercò conferme, forzandosi di non guardare verso la propria fidanzata, del cui pensiero era già a conoscenza. Proprio per questo motivo, tentava di evitarla. La Weasley, tuttavia, fu ben salda sulle proprie convinzioni.
«Io e Ron lo seguiremo. Lo abbiamo sempre fatto e, fino ad ora, non ha mai avuto torto».
Il fratello di lei si limitò ad annuire.
«Io resterò qui, vi sarò molto più utile dove mi è possibile consultare la biblioteca, piuttosto che in un possibile scontro». Non era quello il vero pensiero di Denise, ma Ron, in questo caso, era stato irremovibile: lei non li avrebbe accompagnati. Troppi pericoli.
Per questo motivo, la ragazza si era impegnata per escogitare un sistema di comunicazione, così da poter restare sempre in contatto con loro. Il metodo non era altro che una variazione, riuscita in maniera migliore, di quello con cui avevano spiato Marcus Belby. Si trattava, infatti, di una coppia di diari, legati tra loro da un incanto affinché ciò che veniva scritto su uno comparisse anche sull’altro. La particolarità era, però, che l’inchiostro spariva dopo un paio di ore se nessuno leggeva quel passaggio. Una contromisura necessaria, che avrebbe fatto sì che, per la maggior parte del tempo, i due volumi non sarebbero stati altro che un insieme di pagine bianche.
«Sarei venuto con voi solo per Hermione» sussurrò Draco, constatando un fatto ovvio «E lei ora non è qui. Dovrete fare a meno di me».
Il gruppo iniziale, così come era stato concepito, aveva subito la prima variazione quando la Granger li aveva abbandonati e, ora che anche Malfoy aveva deciso di restarsene ad Hogwarts, il recupero degli Horcrux pareva una missione quanto mai impossibile. Anche i lasciti di Albus, infatti, venivano ad essere separati.I tre Gryffindor, guardandosi, lessero la certezza che avrebbero dovuto fare a meno degli Slytherin nei visi degli altri. Daphne e Blaise non avrebbero mai abbandonato Draco.
Il ragazzo biondo mormorò un saluto ed uscì. Sembrava che la questione non lo interessasse, che, in qualche modo, non lo toccasse personalmente. Eppure, aveva appena appreso che il Signore Oscuro aveva ucciso sua padre.
Aveva forse deciso di deporre le armi?
«Io resto. Draco ha bisogno di noi».
Queste furono le parche parole con cui anche Zabini, includendo la giovane moglie, evitò di partire. Tutti avevano dubbi su di lui: la sua natura non era quella di un avventuriero, come tutti ben sapevano, e l’unica fedeltà che conosceva era rivolta a sua moglie.
Gli sguardi di tutti, meno che quello di Blaise, si concentrarono sulla Greengrass.
La ragazza, istintivamente, aveva smesso di giocare con i capelli di Zabini, quando lui aveva parlato.
Per un attimo, quel suo parlare anche per lei le aveva fatto perdere un battito. L’aveva ferita.
Neppure suo padre la lasciava mai esprimere il proprio giudizio. Era rimasta per anni rinchiusa, prigioniera di regole violente e di credenze tanto sciocche da essere assurde. Per anni.
Aveva accettato di sposarlo. Si era venduta a lui.
«Senza la Granger, due tonti come voi si ritroverebbero morti prima ancora di uscire dal portone di Hogwarts. E Ginny non può difendervi entrambi» aveva parlato senza pensare, lasciando che fosse la sua stessa coscienza a parlare. Non impedendo, per la prima volta nella sua vita, al suo desiderio di libertà di urlare contro il mondo.
«Verrò con voi».
Per la prima volta, Daphne Greengrass aveva messo i suoi bisogni per primi.
Non quelli di sua madre Beth o di sua sorella Asteria. Non quelli sbagliati del padre Ladon.
Non quelli di Draco. Non quelli di Blaise.
Sentiva di dover agire e lo avrebbe fatto: avrebbe combattuto per cominciare a vivere.
Ginny corse ad abbracciarla, mentre i restanti si prodigarono in un applauso.
Tutti tranne Blaise.
Il giovane Zabini sorrideva, soddisfatto.


Note dell’Autore
Imperdonabile, lo so, ma sono rientrato in crisi. Esco ed entro dalla stasi mentale con una rapidità tale da farmi spesso supporre d’essere affetto da grave forma di Disturbo dell’Umore. Magari sono solo bipolare.
Eppure, sono qui. Ancora una volta.
Questo, per me, è il capitolo degli anniversari. Sono passati circa tre anni da quando mi sono iscritto ad Efp e, sì, per quanto molto sia cambiato da allora, mi fa ancora piacere pubblicare qui. Non sono uno di quegli uomini romantici, tanta stima per loro, che si ricordano a memoria le date importanti – e me ne duole –, ma è sempre meglio arrivare tardi, piuttosto che non arrivare mai.
Io ci sono, finalmente XD
Vorrei ringraziare tutti di cuore. Dalla prima persona che ha cominciato a leggere You and Me, all’ultima che ha intrapreso la lettura di Just Give me an Hug.
Per alcuni non sarà un traguardo importante, ma, poiché lo è per me, voglio rendervi partecipi del fatto che il primo capitolo di Y&M ha superato le 10000 visite. È un numero enorme.
Quella pagina è stata aperta per diecimila volte, stento ancora a crederci. Per diecimila volte io sono entrato in contatto con perfetti sconosciuti grazie a ciò che ho scritto. Quindi, ancora, fino a che avrò fiato (o, in questo caso, forza per colpire le lettere della tastiera), grazie.
Ora, rendetemi contento :3
Mipiacciate il capitolo, se vi è piaciuto. Mipiacciate la mia pagina autore, se vi piace come scrivo. Mipiacciate la mia pagina Facebook, se volete mettervi in contatto con il sottoscritto.
E recensite, se vi va, perché, come per ogni altro autore, avere un riscontro di chi legge è quanto di più importante ci sia nel processo di scrittura. È un carburante, è una soddisfazione, è un sorriso. Sempre, anche quando la recensione è negativa.
Insomma, manifestatevi con un segno della vostra presenza :3
Sperando di avervi regalato qualcosa,
a presto.

Jerry


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Capitolo 4
*** Smoky eyes ***


Chapter four, Smoky eyes

Il trascorrere del tempo aveva smesso d’essere scandito quando lei era scesa dai suoi tacchi, abbandonandoli, in un ordine spasmodico, contro la parete in cui si apriva la porta che permetteva l’accesso a quella stanza. I suoi passi, leggeri e nudi, erano un sospiro ansioso, una mano entusiasta stretta sul petto per cercare di trattenere quel sentore di vita. Lui, vestito solo d’un paio di boxer scuri, era rimasto ad assaporare la sua presenza, imponendosi di tenere gli occhi chiusi, cercando di incamerare il più grande numero di particolari per l’avvenire. Per la distanza, per la lontananza, per la separazione. Il viziato principe delle cicale stava cercando di imparare qualcosa dall’operosa signora delle formiche che, minuta e fragile, tentava di costruirsi un futuro.
Il suo profumo, ne aveva avuto un sentore quando si era piegata sulle ginocchia vicino alla sua testa per sistemare qualcosa nel cassetto del suo comodino, aveva un qualcosa di floreale e fruttato che, però non copriva il piacevole aroma della sua pelle. Avrebbe voluto morderla piano, per saggiarne con le labbra il sapore di pesca, lasciando un leggero rossore sulla pelle ambrata della sua spalla. Non lo avrebbe mai fatto, non l’avrebbe mai neppure stretta a sé, anche se avrebbe voluto, per il timore, sempre troppo forte, di vederla spezzarsi tra le sue braccia. Per la paura che lei potesse guardarlo come l’aveva vista accusare suo padre. Alla luce di ciò, aveva imparato ad accontentarsi di quell’amore a metà, si limitava a percepire quella fragranza che, nella sua mente, era associata al concetto d’ambrosia.
Cantava piano tra sé una canzone che lui non conosceva. Una qualche band Babbana che l’etichetta dei Purosangue avrebbe voluto lei non conoscesse ma che, per una qualche forma di contrabbando che correva tra le fila degli Slytherin, alimentandosi della compiacenza di molti, era giunta anche alle piccole orecchie di Daphne, la quale, da anni, fruiva di quel servizio. Chi fosse a capo di quella losca compravendita era ignoto ai più, ma Blaise era giunto alla conclusione che la Greengrass doveva essere stata in grado di svelare quel mistero. Per questo la sua collezione di cd Babbani aumentava costantemente di volume senza che lei fosse costretta a versare anche solo un galeone.
Quiescente, il ragazzo rimaneva immobile: il viso inerte sul cuscino, stritolato dalla presa delle mani frementi di molti desideri zittiti, la bocca dischiusa ancora da quel bacio che si erano scambiati.
Le aveva chiesto di venire a preparare ciò di cui aveva bisogno per il viaggio nella sua camera, visto che, per il regolamento di Hogwarts lui, uomo, non avrebbe mai potuto raggiungerla nel dormitorio femminile, sebbene fosse suo marito.  Aveva accettato senza alcuna ritrosia, incapace di trattenere un fremito di felicità all’idea di partire. Non gli era importato che lei lo avesse raggiunto senza alcuna borsa o valigia, così come non si era opposto quando lei, senza neppure chiedergli il permesso, si era messa a riordinargli la stanza. Nel farlo, raccattando qua e là gli indumenti usati dal ragazzo e poi abbandonati sul pavimento, la meticolosità della bionda l’aveva spinta anche in quella parte di stanza, ben più assettata, entro cui era Draco a soggiornare. Malfoy, cordiale, aveva lasciato loro libera la stanza, adducendo la scusante di un incontro con la Preside. Puntigliosa come solo una casalinga prossima alla disperazione avrebbe potuto essere, lei aveva ripiegato la camicia bianca che, nella fretta della fuga, il biondo aveva gettato distrattamente sulla sedia accostata alla propria scrivania.
La camera pareva essere divisa in due da una linea immaginaria: la normalità e, al di là della barricata, il pacato disordine della pigrizia di Zabini, impreziosita da una fragranza maschile costosa e dalle note acri di un paio di sigarette spente in un posacenere.
«Non pensavo la conservassi ancora» sentenziò Daphne, mentre era presa ad armeggiare con i caotici libri scolastici del suo giovane consorte. Apprezzò d’essersi finto addormentato in quella posizione: gli fu sufficiente aprire l’occhio sinistro per avere una visuale completa di ciò che stava accadendo, anche se offuscata dai ciuffi spettinati dei suoi capelli troppo lunghi. Una ciocca bionda, non più raccolta sulla nuca, le sfiorava il naso, nonostante tentasse inutilmente di portarsela dietro un orecchio. Il busto chinato in avanti per cercare di catturare un raggio luminoso, un sorriso leggero ad aprirle le labbra ed un bagliore negli occhi.
Non smise di guardarla. Riconobbe subito nella carta stropicciata che reggeva, la fotografia che Pansy Parkinson aveva scattato loro, nella Sala Comune, tre anni prima. La Slytherin, orgogliosa per il regalo ricevuto, aveva tormentato tutti i suoi compagni, rendendoli, volontariamente o meno, soggetti dei propri primi tentativi dietro la macchina fotografica. Era accaduto tutto molto rapidamente, ma Pansy, mostrando ai presenti un istinto da fotoreporter, era stata in grado di cogliere al volo il lieto evento: Daphne si era avvicinata a Blaise per sistemargli il colletto della camicia e, lui, ferino e scattante, l’aveva tratta a sé, stringendola in un abbraccio e baciandola. Il risultato, nella foto ingiallita, dava l’illusione che la Greengrass, in un attimo di voracità, avesse afferrato il ragazzo e gli avesse deflorato le labbra sottili.
«È la nostra unica fotografia» si limitò a risponderle lui, richiudendo subito gli occhi e nascondendo, oltre quelle palpebre chiuse, parole che non osava neppure pensare.
Lei non amava molto essere immortalata, anzi, lo odiava a tal punto che, in alcuni casi, era venuta alle mani con chi era stato così stupido da infastidirla. Comprendere cosa causasse tutta quella ritrosia non era affatto complesso: anni di violenze che quella ragazzina nell’immagine animata non poteva neppure rintracciare nei propri peggiori incubi, nonostante all’epoca avesse già conosciuto il colore violaceo dei lividi. Dal loro matrimonio, poi, era stato cacciato chiunque paresse intenzionato a procacciarsi una prova di tutto ciò che il vestito e il trucco non erano stati in grado di celare.
Tutti quei ricordi, d’un tratto, avevano reso il suo riposo una sofferenza. Chiuse gli occhi, nella speranza di dormire e dimenticare, ma non vi riuscì.
Poi, avvertì il peso leggero di Daphne sulla sponda del letto e la mano di lei che gli scompigliava i capelli, rendendoli ancora più caotici. Nella sua testa, Zabini s’immaginò che stesse cercando, in quel modo, di dare loro una precisa configurazione. L’ennesima ricerca di una perfezione che lui non possedeva ma per cui non vi sarebbe stato prezzo troppo alto: l’avrebbe resa propria solo per donargliela completamente, solo per permetterle di rallentare, d’amarsi. D’amarlo.
Un giorno lei si sarebbe pacificata con se stessa e, allora, lo avrebbe finalmente notato per quello che era, non solo per il ragazzo che aveva impedito a suo padre d’ammazzarla.
Fu per questo che la sua domanda lo stupì. Gli stava ancora toccando i capelli, ma la mano, dita affusolate nella carne, si era posata sul fianco scoperto di Blaise.
«Vuoi fare l’amore con me, Blaise?».
Sesso, non lo avevano mai definito in altri modi. Una piacevole attività fisica, nulla di più. Il loro amore era vero, ma era intriso dal senso di convenienza fintanto da apparire quasi una bugia. Eppure era sincero, sentito, anche se coronato da una cerimonia affrettata.
«Continuamente» le rispose lui, dopo aver riaperto l’occhio sinistro. «Davvero».
Le loro mani si incontrarono sul vestito di lei che, presto, cadde al suolo. Nei loro sguardi, resi fumosi dal piacere d’aversi, riluceva quel sentimento che ancora non potevano pronunciare ad alta voce.
 
***
 
Distanziò l’imponente villa di diversi passi, traendo la freddezza di cui aveva bisogno da un susseguirsi ritmato di boccate dalla propria sigaretta. Il sole di giugno illuminava Cambridge e il riflesso che, di questa, si creava sul fiume Cam. La dimora di Ladon Greengrass, fortezza di questa famiglia da generazioni, si apriva su uno scorcio pittoresco del corso d’acqua, sulla cui riva si approssimava una rada boscaglia che, però, creava un gioco d’ombre suggestivo e fresco. Costeggiò il torrente per diversi metri, poi, dopo essersi assicurato che nessun Babbano fosse presente, cosa improbabile visto che si trovava in uno dei più ricchi quartieri residenziali della comunità magica cittadina, impugnò la propria bacchetta.
Aveva appreso l’incanto che si apprestava a lanciare osservando i tentativi di Draco, il quale, invece, lo aveva studiato durante il corso speciale tenuto dal professor Kennan. Del trio consolidato che gli Slytherin formavano, non era lui quello che spiccava per i risultati scolastici. Daphne dominava la classifica, non brillante certo come, invece, era Hermione Granger, ma caparbia e testarda, oltre che risoluta ed astuta. La seguiva, poi, Draco: imbattibile nelle proprie materie preferite, ma capace di risultati rovinosi in tutte le altre. Infine, l’ultimo gradino spettava a lui, Blaise Zabini: troppo pigro per mettersi davvero a studiare, accontentandosi, grazie alla peculiare capacità di saper apprendere facilmente dagli altri, d’arrivare alla soglia della sufficienza. Lasciava agli altri l’onere di stringere tra le mani un libro ed impararlo a memoria, poiché, fondamentalmente, la cosa lo annoiava terribilmente, come solo i matrimoni di sua madre sapevano fare. In effetti, era un vero peccato che la donna si trovasse in viaggio: lei avrebbe saputo sicuramente come organizzare una cerimonia adatta in sole tre settimane.
Mentre malediceva per l’ennesima volta la signora che lo aveva partorito, lanciò un ben realizzato Incanto Patronus. Un rugliare feroce ruppe il silenzio, mentre, imponente, un orso luminescente prendeva consistenza a pochi centimetri di distanza dall’erede della dinastia Zabini. L’animale, in una scena che molto aveva del surreale, trasformò il suo verso minaccioso in un qualcosa di simile ad uno sbadiglio e si rannicchiò al suolo, preparandosi ad affrontare un placido sonno ristoratore.
Puntò la propria arma nuovamente contro l’animale, rendendolo capace di trasportare un messaggio.
«Corri da Draco» ordinò «Digli che ho bisogno di vederlo il prima possibile, al solito posto. Chiedigli di portare con sé anche Cissy». L’animale si rialzò, con un’espressione chiaramente scocciata. Il suo passo placido causò un’espressione basita sul volto del suo creatore. «Ho detto “corri”!» gridò furioso. L’orso lo accontentò, scuotendo la testa.
Gettò il mozzicone al suolo. Focalizzò nella sua mente la propria meta: conosceva quel luogo alla perfezione. Diede inizio alla Smaterializzazione. Vorticando, l’immagine della villa entrava ed usciva dal suo campo visivo: quando vi sarebbe tornato, trattenersi dal far finire al San Mungo Ladon Greengrass sarebbe stato molto complesso.
 
L’arrivo del messaggero di Blaise fu inaspettato. Draco e Narcissa stavano facendo colazione assieme, seduti sugli sgabelli dell’isola dal ripiano di marmo scuro che collegava la cucina al salotto, nell’attico splendidamente arredato dalla donna. Il sorgere del sole filtrava dai lucernari, accendendo di luce quel luogo, stregato per non esistere se non nella mente di chi era al corrente del suo segreto. Draco sorseggiava del caffè, accompagnandolo con dei biscotti ricolmi di gocce di cioccolato, rattristato dal non vedere più Hermione da un paio di giorni, ma felice di quel tempo che poteva trascorrere con sua madre. Narcissa, invece, reggeva tra le mani un tè Earl Grey, addentando di quando in quando una brioche, mentre il suo sguardo correva rapido sulle notizie della Gazzetta del Profeta. Non lo avrebbe mai confessato a nessuno, ma quei mesi, praticamente da reclusa se non per le uscite strettamente necessarie che le erano concesse, erano stati molto duri. Aveva scoperto peculiarità della solitudine che mai, fino a quel momento, aveva conosciuto e sapeva che, nel più prossimo avvenire, ne avrebbe rintracciate altre ancora.
Quando l’orso invase lo spazio della loro cucina, mettendo in fuga Strach, l’unico e fedelissimo elfo domestico della signora Malfoy, il quale si occupava di tutti quei compiti cui lei non poteva adempiere, il viso del ragazzo si tese in un’espressione preoccupata che la madre captò subito.
«Deve essere successo qualcosa a Daphne» disse lui, incolore nella voce, dopo aver ascoltato la missiva. In silenzio, la donna si alzò, dirigendosi verso la propria camera, così da potersi cambiare per uscire.
Non più tardi di dieci minuti dopo, i due, abbigliati come semplici Babbani, procedevano rapidi verso un vicolo secondario, dove potersi tranquillamente Smaterializzare verso la loro destinazione. Il tentativo del giovane di celare la preoccupazione sotto un paio d’occhiali da sole fallì miseramente, svelato da un movimento nervoso della mano sinistra, tesa a tamburellare sulla coscia un ritmo incalzante. Un paio di pantaloni grigi, stropicciati dall’inserimento delle mani nelle tasche, ed una camicia leggera a quadri con le maniche arrotolate fino ai gomiti, facevano di lui un ragazzo qualunque. Allo stesso modo, Narcissa, il viso rischiarato dai raggi del sole e disperso nei suoi capelli paglierini, poteva essere scambiata per una sofisticata signora della società altolocata appena ritornata da un incontro con le amiche: pantaloni leggeri e bianchi lunghi poco oltre le ginocchia, con una maglia grigia ed ampia, stretta solo sui fianchi da una fascia elastica. Alcune punte d’azzurro coloravano la sua semplicità: un paio di ballerine, un foulard svolazzante, un bracciale, degli orecchini a forma di rosa ed un’ampia borsa abbandonata nell’incavo del gomito. Taciturni, lasciarono che la sensazione soffocante di quel mezzo di trasporto tanto caro alla comunità magica scivolasse loro addosso. Ricomparirono in un angolo di Holland Park non frequentato dai non magici, all’ombra di alte frasche che mitigavano la temperatura. Tra scoiattoli e pavoni, tra salti spericolati da un ramo ad un altro e eleganti ed altezzose ruote di piume, i due attraversarono il manto erboso percorrendone i sentieri fino al Kyoto Garden. Era stata la Greengrass a proporre quello come il luogo dei loro ritrovi e non era un caso che questo si trovasse in quello che universalmente era ritenuto il parco più elegante dell’intera Londra. Era una tradizione, per loro tre, ritrovarsi lì prima di partire per un nuovo anno scolastico ad Hogwarts e ogniqualvolta uno di loro necessitasse del conforto degli altri. Daphne, colei che, tutti lo sapevano, aveva le maggiori necessità della presenza altrui, era l’unica a non richiederla mai. Troppo orgogliosa, ma anche, segretamente, troppo fragile: un albero secolare, impassibile alle più sferzanti raffiche di vento, che d’improvviso veniva spezzato da una saetta. Attendevano tutti quel punto di rottura, quello oltre il quale neppure lei sarebbe potuta spingersi, ma tutti e tre, quando i loro sguardi si incrociarono in un muto rincorrersi immobili, su una passerella di pietra, dinnanzi ad una cascata placida, videro negli altri che l’attesa era stata troppo lunga. La resistenza della Greengrass aveva superato ogni più terribile pianificazione: persino quando nessun’altro avrebbe potuto sopportare un così forte dolore, fisico e mentale, lei era rimasta in piedi, sporca di sangue e sudore, ricoperta di lividi ed escoriazioni, ma incredibilmente viva e coraggiosamente ritta sulla proprie gambe.
Non furono necessarie molte parole di Blaise, per spiegare la situazione. Prima ancora dei saluti di circostanza, la mano di Cissy aveva cercato la sua e, poi, si era posata sulla sua guancia, a lasciargli una carezza materna. Perché questo era stata lei anche per loro, non solo per Draco: era tra lei e sua nonna che Blaise si sedeva durante le celebrazioni dei vari matrimoni di chi, biologicamente, gli aveva dato la vita, era nella propria dimora che lei ospitava Daphne per festeggiare quel compleanno che Ladon scordava regolarmente. L’abbraccio in cui Blaise la strinse, muto e cupo, fu un ricercare quella forza d’andare avanti, di chiudere gli occhi sul passato e su tutto quello che lui aveva visto sul corpo della ragazza che amava. Della ragazza che, però, non capiva, non fino in fondo.
La donna gli mormorò qualcosa all’orecchio, mentre la sua mano, dalle dita affusolate e bianche, passava sulla sua schiena, seguendo il profilo delle scapole. Raccontò piano, quasi a bassa voce, quello che doveva: l’ennesima violenza subita, la richiesta d’aiuto ed il bisogno di organizzare un matrimonio in tre settimane. A ciò, poi, andava sommata la fuga di Asteria e Beth, missione che rasentava l’impossibile: nessuno entrava od usciva dalla dimora di Ladon Greengrass senza che lui ne venisse a conoscenza. Non era affatto un mito il suo sigillare tutte le porte e le finestre con numerosi incanti, affinché non vi fossero né fughe né arrivi indesiderati.
«Tre settimane» mormorò tra sé Draco, pensieroso. Nessuno avrebbe osato affermarlo, ma i dubbi sulla riuscita di ciò che si era preposti erano davvero tanti: quella casa pareva inespugnabile, tanto che neppure anni di tentativi, da parte di Daphne, si erano dimostrati utili. Superato il primo incanto, vi era una maledizione e, sciolta questa, una magia ancora più complessa di quelle affrontate. Scindere i legami stregati di questa, sebbene non impossibile in teoria, risultava impraticabile nella sostanza, a causa di un Incanto Gnaulante che, fin dall’iniziale intrusione, aveva il compito d’avvertire il capostipite del tentativo di sovversione. La ragazza, poi, era giunta alla conclusione che, oltre al limite fino a cui si era spinta, ovvero sette sigilli spezzati, ve ne fossero ancora molti altri d’affrontare, in un tempo che, solitamente, non superava i tre minuti se Ladon era in casa e i quindici se l’uomo si trovava altrove. Poiché, purtroppo, in quella casa aveva molti servitori fedeli. E viscidi.
«Io non posso aiutarvi con la fuga di Beth e sua figlia» esordì Narcissa «Ma posso organizzare il matrimonio e sono sicura che una mia vecchia conoscenza sarà più che disponibile nel darmi una mano».
Lo sguardo di Blaise, d’improvviso, s’illuminò: la sua vera preoccupazione era solo quella, suocera e cognata, ai suoi occhi, meritavano di rimanersene dov’erano, vista la facilità con cui avevano sempre permesso a Daphne di prendersi i loro castighi, per quanto questi fossero immeritati.
«So come farle scappare» disse, invece, Draco. I suoi occhi erano persi, relegati in un altrove che era solo nella sua testa e che, da dove si trovavano, Narcissa e Blaise non potevano raggiungere. «Ma sarà rischioso. E complicato».
 
Arthur Weasley possedeva uno straordinario talento: gli oggetti parevano parlargli. Gli bastava bussare con il dorso della mano contro un qualsiasi arnese per riuscire a comprenderlo, entrandovi in un’inspiegabile sintonia. Lo scrutava anche per ore, senza muoversi di un centimetro, concentrandosi sul suo rumore o sull’assenza di questo. Lo toccava, facendolo roteare tra le dita e tastandone la consistenza. Lo percepiva, sentendolo in un modo tutto suo che nessuno, neppure impegnandosi, avrebbe mai potuto interpretare. Non era stato sufficiente neppure il plurilinguismo di Albus Silente, per interpretare quella lingua astrusa, fatta di sospiri e rivelazioni improvvise, che l’uomo parlava tra sé dinnanzi all’ennesimo manufatto.
Eppure, le cose, dopo aver dialogato con lui, parevano aggiustarsi o migliorarsi.
Era stato così per la Ford Anglia, vecchio catorcio classe 1962 raccattato in una discarica Babbana, che era stato in grado di rimettere in movimento, sebbene sul suo motore malconcio pesassero già molti anni di onorato servizio. In confronto, aggiungere qualche incanto qua e là, come quello Dissimulante che la rendeva invisibile all’occorrenza o l’Estensione Irriconoscibile per farci entrare tutta la famiglia, era stata una sciocchezza. Era stato così anche per la stessa Tana, eretta per magia a partire da un semplice porcile: nonostante l’apparente instabilità suggerita dalla sua sembianza traballante e rattoppata, la dimora non era mai stata danneggiata neppure dai peggiori cataclismi. Il fatto che le stanze nascessero l’una sull’altra, come funghi sulla corteccia ruvida di un grosso tronco d’albero, la rendeva solo unica nel suo genere e non certo meno confortevole, nonostante le proteste di Ron per la sua stretta convivenza con il demone della soffitta. Uno dei suoi ultimi progetti, poi, lo aveva portato a recuperare la motocicletta di Sirius, così da potervi fare alcune modifiche per restituirla al suo legittimo proprietario, Harry. Ovviamente, lo faceva di nascosto da sua moglie Molly, sperando che questa non notasse, su quel suo maledetto orologio che si era inventata, il “Pericolo Mortale” in cui lui finiva ogni volta che vi faceva un giro di prova.
Per questo motivo, così come la donna che aveva sposato, molti anni prima, fu entusiasta all’idea di poter essere utile a Narcissa Malfoy nell’organizzare il matrimonio per Daphne Greengrass, lui rispose con un assenso infervorato al giovane Draco che era venuto a domandargli aiuto con un progetto che riguardava un Armadio Svanitore da aggiustare.
La notte era crollata loro addosso inesorabile, mettendo fine al primo giorno di luglio e alla settimana che era trascorsa dall’incontro con Blaise. Gli gnomi dei Weasley si rincorrevano l’un l’altro gridando sguaiatamente, divertiti dal gioco improvvisato, ruzzolando sui pendi che circondavano la Tana e inciampando su ciuffi d’erba troppo rigogliosi. Una luce calda e sfumata da pennellate di chiarore, come agrumi succosi e brillanti dispersi tra le foglie d’un arancio, indicava dove, in quella casa, qualcuno era ancora sveglio. Dalla finestra della cucina il volto stanco della matrona compariva ad intermittenza, mentre questa s’apprestava a finire le sue mansioni della giornata. Asciugandosi le mani sul grembiule stinto, si voltò verso un’interlocutrice che le stava porgendo dei piatti impilati: una delle due doveva aver scherzato su qualcosa, scatenando le risate d’entrambe.
Narcissa, in abiti Babbani, si era poi voltata verso una lavagna per appuntare l’ennesima voce ad una lista molto lunga. Nel salotto, invece, si erano raccolti i restanti membri della famiglia che non si trovavano altrove nel mondo: Fleur, infatti, stava facendo assaggiare le varie proposte per la torta del proprio matrimonio, che si sarebbe tenuto da lì ad un mese. Ron, ovviamente, non aveva perso l’occasione per riempirsi lo stomaco, ma anche Ginny si era impegnata: se era costretta a sopportare Flebo, riteneva d’avere il diritto di ingozzarsi a spese dei signori Delacour. Bill, affaticato e stanco, ma in lenta ripresa dall’attacco di Fenrir, guardava la scena divertito, lasciando che la fidanzata lo imboccasse con cucchiate di dolci.
Distanti, chiusi da giorni nello sgabuzzino che era l’officina e lo studio di Arthur Weasley, l’uomo e Draco Malfoy, incredibilmente suo assistente, lavoravano incessantemente sull’Armadio Svanitore.
Era stata, per il giovane Slytherin, un’idea improvvisa: si era ricordato dell’episodio di Montague, ex capitano della squadra di Quidditch delle serpi, rinchiuso in un armadio, precedentemente scagliato da Pix contro Gazza, che lo aveva tenuto prigioniero per mesi. Il ragazzo aveva affermato d’essersi trovato spesso a sentire la voce del proprietario di Magie Sinister. Il giorno successivo all’incontro con Zabini, Draco si era recato dal negoziante domandando precisazioni all’uomo: aveva scoperto che lo spesso mobile a due ante che teneva lì esposto era, come aveva supposto, il gemello di quello che, seppure rotto, si trovava ad Hogwarts. Lo aveva comperato immediatamente, inviando l’amico a recuperare l’altro nella Stanza delle Necessità della scuola, dove era stato riposto. Aveva anche tentato di estorcere al proprietario qualche informazione utile su come ripararlo, ma il proprietario del più rinomato negozio di magia nera di Notturn Alley non era stato molto collaborativo, richiedendo, per farlo, una somma di denaro fin troppo consistente.
Per questo, Draco, dopo aver dedotto che lavorandoci da solo non avrebbe mai fatto in tempo, aveva chiesto al capofamiglia dei Weasley d’aiutarlo.
Seguirlo, all’inizio, era stato impossibile: l’uomo aveva un ritmo tutto suo e pareva muoversi seguendo una voce interna misteriosa. Eppure, quell’armadio stava riprendendo forma: incredibilmente, Arthur riusciva a riportare i pezzi al loro posto, senza incrinare l’incanto originario, poiché anche intaccarlo solamente avrebbe potuto annullare il punto di contatto tra i due oggetti. Le prime ventiquattro ore erano state un umiliante susseguirsi di azioni inutili che lo avevano fatto sentire più volte nel posto sbagliato. Aveva impiegato un po’ a comprendere come muoversi in quell’ufficio, come alzarsi senza far crollare nessuna pila di inutili oggetti Babbani di ricambio, come servire a qualcosa. Alla fine, dopo un paio di giorni, era entrato anch’egli in perfetta sintonia con quella melodia straniera.
La camicia bianca, con le maniche arrotolate sino ai gomiti, gli si era appiccicata alla pelle madida di sudore, e gli occhi, segnati da occhiaie pesanti, tradivano la stanchezza che provava, eppure continua imperterrito a lavorare, levigando il legno o inchiodandolo. Fischiettava un motivetto che l’altro gli aveva messo in testa.
«Come sta Hermione?» gli domandò il più anziano, in un modo così spontaneo che stupì Draco. In quella casa, la Granger era quasi una figlia: una nuora quasi predestinata, una sorella acquisita, una moglie perfetta.
Lei non era affatto impeccabile, anzi. Lui lo sapeva molto più di altri, poiché di Hermione aveva visto la verità ed a malapena era riuscito a coprire il timore sul proprio volto. Non era una ragazza semplice, la sua fidanzata. Eppure, il suo essere scontrosa ed impertinente, il suo a volte spigoloso modo di fare, il suo intelletto vispo, la rendevano unica ai suoi occhi. Stupenda nei suoi errori e odiosa nel suo voler risolvere ogni situazione solo con le proprie forze. Tra loro due, nonostante tutto, c’era sempre stata quella distanza. Anche quando, durante il funerale dei suoi genitori, lei lo aveva cercato. Un metro soltanto, sufficiente a permettere loro d’amarsi, ma mai abbastanza per dare loro un po’ di tregua. Perché la loro era una lotta continua, una battaglia per rubarsi un bacio o per stringersi tra le coperte.
«Sono preoccupato» gli rispose lui a bassa voce, continuando imperterrito quello che stava facendo «Mi sta tenendo all’oscuro di qualcosa». L’aveva vista il giorno prima, avevano fatto l’amore nella casa dei suoi genitori. L’aveva amata con tutto se stesso e si erano presi in giro. Avevano scherzato e riso, poi si erano baciati. Molte volte. Tuttavia, quando lui le aveva chiesto cosa la tormentasse, Hermione si era ritratta in un silenzio quasi accusatorio, deviando il discorso su qualcos’altro. Scherzando, ridendo e baciandolo. Bugiarda.
«Ma forse è solo una mia impressione».
Non poteva lasciare sua nonna, malata, per aiutarli a tirare fuori Daphne da quella prigione. Non poteva mettere davanti ai propri interessi quelli di Draco, neppure per una volta.
Quella risposta negativa lo aveva ferito. Stavano parlando della Greengrass e di Zabini, non di due persone qualsiasi: se lei glielo avesse domandato, Malfoy avrebbe distrutto una montagna a pugni per impedire che Potter finisse mangiato da un drago. Si era ripetuto, di nuovo, che lei aveva le sue buone ragioni per farlo e aveva tentato di perdonarla. L’ennesimo compromesso con se stesso pur di farsi amare.
L’ultimo.
 
Quella casa si raggomitolò su se stessa non appena lui ne uscì. Le tende vennero tirate a coprire gli interni, le porte di tutte le stanze vennero chiuse a chiave e l’ampio portone d’ottone venne aperto rapidamente, come ad invitarlo ad andarsene in fretta. Blaise, realmente intimorito da quel luogo, accettò cordialmente e accelerò il passo. Non aveva avuto modo di spiegare il loro piano a Daphne, ma l’ampio quadro, largo quasi due metri, era stato fissato ad una delle pareti della sua camera. Una stanza come tante altre, in quella magione gelida: spoglia e priva di troppi orpelli, fredda e inospitale. Apparentemente, ad un occhio disattento, sarebbe potuta persino passare per abbandonata, se non fosse stato per quel anziano giardiniere che impiegava le proprie giornate, sotto le peggiori intemperie o con la più afosa delle calure, a tenere alla perfezione la varia vegetazione. Il signor Ladon voleva così. Le donne della sua vita, quelle che lui avrebbe dovuto amare con tutto se stesso, avevano il medesimo valore. Siepi da potare non appena un ramo si fosse spinto oltre il disegno voluto per loro. Bambole di porcellana da riporre su una mensola, lasciandole ad impolverare d’angoscia e tormento.
Il giovane Zabini, come avevano progettato, aveva spacciato quel dipinto come un regalo di nozze per la propria futura consorte, di modo che non finisse in qualche soffitta polverosa. Del resto, però, l’ottimo lavoro svolto da Minerva McGranitt nel Trasfigurare l’Armadio Svanitore in un piccolo capolavoro, avrebbe reso quel gesto una colpa imperdonabile: l’anziana donna, con una maestria che avrebbe fatto intimorire molti pittori, aveva lavorato un paio d’ore per riprodurre un paesaggio della sua patria, la Scozia.
Con tinte tenui, quasi d’inverno, aveva impresso nelle pieghe della tela il ricordo d’una gita fuoriporta con i propri genitori. Sullo sfondo, alcune montagne, distanti e in parte coperte dalle molte nuvole plumbee, cariche di pioggia, e dalla foschia, parevano giocare a scavallarsi l’un l’altra, quasi a rincorrersi per disarcionarsi, salvo poi d’improvviso svanire, permettendo alle nubi di far risaltare, sulla propria fumosa consistenza, il vero protagonista della scena. Ad un passo dall’osservatore, interrotto, un lago placido, idealmente sul punto di straripare oltre la cornice dorata per creare un rivolo d’acqua lungo il muro. Sulla sua superficie, posate lievemente da un tocco di divina gentilezza, alcune foglie d’alberi decidui parevano attendere: un singulto delle profondità od un reflusso d’inspiegabile provenienza, qualsiasi cosa potesse animarle, facendole danzare sulle improvvise crepe di quell’acqua mai increspata. Puntellavano il paesaggio d’improvvisi slanci entusiastici di colore, capaci d’esaltare, su quel timido spiazzo di terra inattesa e circondata d’acqua, un castello in rovina, per i cui mattoni ricoperti d’edera, una qualche donna, un tempo, aveva composto un sonetto di poesia sepolcrale. A concludere lo squarcio di memoria, qualche albero dalle fronde scure e il verde quasi brillante ai piedi del maniero. Un ponte di pietra, retto da tre archi bassi, lo collegava alla terra ferma.
Non sapeva per quale motivo l’oramai destinata a divenire ex Capocasata dei Gryffindor si spendesse con così tanto impegno per lui, ma aveva capito che, per anni, l’aveva valutata nel modo errato e, come molti altri Slytherin, aveva spesso atteso che si voltasse per scherzare su quella sua ridicola affezione al tartan. Dopo che lei lo aveva Trasfigurato durante l’attacco dei Mangiamorte ad Hogwarts, così che nessuno lo riconoscesse mentre era in compagnia di Potter e dei suoi compari, dopo avergli concesso senza alcuna ritrosia di prelevare l’Armadio Svanitore dalla Stanza delle Cose Nascoste, gli aveva chiesto come avessero intenzione di introdurre l’oggetto di nascosto e, infine, aveva fornito una sua proposta.
Vincente. Lo stesso Ladon, infatti, era rimasto stregato dalla profonda e inafferrabile bellezza di quella vista.
Blaise scrutò a lungo le colline che circondavano la zona della villa Greengrass, fino a quando non fu sicuro d’aver riconosciuta quella individuata da Draco per dare inizio al loro piano e porre il gemello dell’oggetto regalato a Daphne. Sempre che lui e il capobranco dei Weasley fossero riusciti ad ultimarlo in tempo.
Sospirò e, accendendosi una sigaretta, si Smaterializzò dinnanzi alla casa di sua madre, quella da cui si sarebbe allontanato, una volta sposato, per non farvi ritorno se non nelle più gravi ed incombenti circostanze. La donna, come spesso capitava, era in viaggio di nozze con l’ennesimo nuovo marito e poco le importava di perdere uno degli eventi più importanti della vita del suo unico figlio. Forse, però, credeva che Blaise avrebbe seguito le sue orme.
Si aspettò di trovare la solita fredda e distaccata accoglienza degli Elfi Domestici, troppo presi dalle faccende ordinate loro per rendersi conto che lui, taciturno come al solito, era rientrato da Hogwarts con l’inizio delle vacanze estive. Scorse, invece, una signora bassa e robusta, appesantitasi con gli anni, ma non per questo grassa o fiacca. Indossava un abito leggero, lungo fin poco oltre le ginocchia, d’un giallo acceso ed allegro, coordinato ad un maglioncino lasciato aperto che le raggiungeva i fianchi. Un foulard allentato, un paio d’orecchini ed un braccialetto non appariscente. Tutto, in lei, risaltava quei suoi capelli grigi, molto vicini ad essere d’un bianco brillante. Mossi e corti, si allungavano leggermente solo sulla fronte, con uno svirgolo che svelava un pizzico di geniale follia. Non appena lo vide abbandonò sul tavolino il suo bicchiere d’acqua con uno spicchio di limone e due cubetti di ghiaccio, per alzarsi aitante dal divano e raggiungerlo.
«Blaise!» esclamò entusiasta, abbracciandolo forte e scoppiando a ridere «Guardati! Sei diventato anche più bello di tuo padre».
Dopo un iniziale smarrimento, la tensione di Blaise, tra quelle braccia, si sciolse improvvisamente. Tante volte, quand’era più piccolo, quel contatto lo aveva tranquillizzato. Carolyn Gray in Zabini, sua nonna, c’era stata sempre per lui: lei era la sua costante.
Lo guardò negli occhi, mentre gli posava una mano sulla guancia. «Però, dovresti tagliare questi capelli» continuò, spettinandolo un po’ «Non vorrai farli crescere tanto come quelli di tuo padre, vero? Non mi sono mai piaciuti».
I suoi occhi si fecero lucidi, quasi fosse sul punto di piangere. Erano trascorsi molti anni da quando Oscar, il suo unico figlio, era morto e, nonostante il tempo, non era mai riuscita a superare quell’ennesima perdita. Si era trovata un nuovo compagno, di recente, ma non aveva mai avuto il coraggio di presentarlo al nipote. Temeva che, anche solo per un istante, lui potesse stimarla simile alla donna che lo aveva generato e che, quand’era ancora in fasce, aveva ucciso la figura paterna di cui, per anni, Blaise aveva sentito la mancanza. Era rimasta impunita, quella lurida arrampicatrice sociale, anche se aveva ucciso il padre del ragazzo che ora stava guardando: annegato nella piscina di un hotel Babbano, facendo ricadere la colpa su un’innocente cameriera.
«Dai, sediamoci» disse all’improvviso Carolyn, costringendosi ad un sorriso «Hai molte cose da raccontarmi, se non sbaglio».
Erano rimasti a lungo seduti vicini su quel divano. Lui, stanco e provato, disteso contro un bracciolo e reticente a parlare. Lei, curiosa ed attenta, ma circospetta e accondiscendete: conosceva i ritmi degli Zabini, così lontani dai suoi, e, per questo, si era limitata ad attendere, ponendosi perpendicolarmente a lui con il fianco destro contro lo schienale e il pugno chiuso a reggerle la testa. Gli faceva le domande giuste, cercando di sfiorare le sue ferite scoperte, così da spingerlo a parlare senza farlo soffrire troppo.
«E così le hai proposto di sposarti?» gli domandò, posando quel bicchiere d’acqua ormai vuoto che un elfo si sbrigò a riempirle.
«Sì, di nuovo. Non pensavo accettasse» le rispose lui, con un braccio davanti agli occhi per proteggerli da quella fastidiosa luce estiva «Non ci speravo più».
«Sai, vero, che lo ha fatto per salvarsi, non per amore?» insistette l’anziana signora, senza cattiveria. Un discorso come quello, probabilmente, sarebbe dovuto venire da una coppia di genitori apprensivi, ma cause di forza maggiore imponevano che fosse lei a tenerlo. Con dispiacere d’entrambi: Carolyn era colei che amava riempirlo di regali e coccolarlo, quando era piccolo, il ruolo della crudele realista avrebbe preferito lasciarlo all’odiata nuora.
«Sì». Quel monosillabo fu un macigno.
«Sai che ti farà soffrire, vero? Daphne ha vissuto per anni in uno stato di soffocante prigionia, per lei non c’è mai stato qualcuno disposto a prendere le sue difese. È stata abituata ad accettare tutto in silenzio» continuò la donna, senza risparmiare nulla al nipote «Non ti dirà cosa di te la fa soffrire, si limiterà a fingere che le sta bene. E poi comincerà a sentire quello che ora sente per suo padre: ti sopporterà perché ti deve qualcosa, perché tu, per lei, sarai colui che avrà salvato sua madre e sua sorella, ma ti odierà. Ogni giorno di più. Il tuo sguardo, il tuo silenzio, il tuo amore» gli afferrò la mano, con forza, scoprendo il suo sguardo «Blaise, qualsiasi cosa di te, per lei, sarà asfissiante. Con lei, sposerai anche i suoi problemi. Dovrai sopportare più di quanto un matrimonio normale richieda: non si tratta di difetti caratteriali o vizi, è rancore quello che per anni quella povera ragazza ha covato in sé. Sarai tu ad esserne vittima, anche se non ti spetta»
D’impeto, Blaise si mise a sedere, cercando febbrilmente il pacchetto di sigarette. Ne estrasse due, una per sé e una per sua nonna. Quasi in sincronia, se le portarono alla bocca e le accesero. In poco tempo, nell’aria si diffuse un odore pungente. C’era qualcosa, in quel gesto così abituale per entrambi, che li accumunava: il ritmo, il respirare il fumo liberato dalla bocca e, a tratti, anche il modo in cui stringevano tra le dita quell’oggetto. A volte in maniera troppo femminile, altre in modo esageratamente maschile. Del resto, il più giovane dei due aveva rubato quel vizio all’altra.
«Dovresti smetterla di fumare» lo rimproverò, come al solito.
Blaise ridacchiò. Tutte le volte che si incontravano, quindi molto spesso, quella scena si ripeteva nella stessa maniera, fin da quando Carolyn lo aveva sorpreso la prima volta. Serviva ad entrambi per pulire la propria coscienza e, poi, continuare imperterriti sulla via della distruzione che percorrevano assieme. In fin dei conti, però, nessuno avrebbe voluto che l’altro smettesse seriamente: quando avveniva quel gesto, non vi era parola che non divenisse superflua.
«Me ne pentirò, lo so, ma per me è giusto farlo». Nessuno avrebbe saputo dire con certezza a cosa si riferisse, nessuno tranne l’anziana signora con cui stava conversando. Posò la sua mano grinzosa su quella di lui, gli pizzicò una guancia e prese l’ennesima boccata dalla sigaretta.
«Fallo, allora».
Nella semplicità dei loro sorrisi, per un solo istante, apparve lampante la profonda somiglianza tra i due. Non era fisica, o caratteriale. Erano animi affini, capaci, per amore, di sacrificare anche se stessi.
 
Era rimasta immobile per delle ore intere. In silenzio, con gli occhi sbarrati nel buio e il petto squassato dal cuore pulsante. Aveva atteso anni per quel fatidico momento, quello che avrebbe permesso a sua madre e a sua sorella di fuggire da quella prigione. Le mani, quando aveva trovato, come le aveva suggerito Blaise, quel biglietto dietro il quadro, avevano preso a tremare. Un freddo innaturale le si era insinuato fin nelle ossa: era quello il calore della speranza?
Aveva avuto solo tre settimane per preparare il suo matrimonio: inizialmente, la sola idea l’aveva portata ad avere una crisi di nervi. Si era presto immaginata, prossima alle nozze, senza nulla tra le mani. Il suo futuro marito, però, l’aveva tolta dall’imbarazzo: ad intervalli irregolari, dopo averle detto di premurarsi solo degli abiti e dei fiori, le aveva fatto visita portando un tassello in più con sé. Ad una settimana dalla fatidica data, esclusione fatta per le bomboniere che avevano deciso assieme, tutto era pronto.
Un bella villa dell’Ottocento, affacciata su un laghetto artificiale, avrebbe fatto da scenario e, in uno splendido salotto, adattato all’occasione, si sarebbe tenuto il rito civile. Poi il tutto si sarebbe spostato in un ampia sala da ballo, finemente abbellita, dove un catering di classe avrebbe servito molte portate, dai sapori semplici ma presentate con un gusto minimal e raffinato. Aveva avuto modo di scegliere il colore degli addobbi e il loro genere, d’assaggiare ciò che sarebbe stato servito e di decidere la musica che sarebbe stata suonata. Per quest’ultimo punto, aveva optato per un gruppo di sette musicisti che, pizzicando le corde dei loro strumenti, avrebbero accompagnato l’evento. Per la torta, invece, non aveva avuto dubbi: pan di spagna al cacao e crema alla nocciole. Blaise, infatti, le aveva fatto capire, pur non dicendolo effettivamente per non condizionarla, che era la sua preferita.
Ladon le aveva concesso d’uscire con sua madre e sua sorella per scegliere il proprio vestito e quello della damigella, ma lei, avendo un’idea piuttosto precisa di ciò che voleva, aveva risolto le cose in poco tempo.
Ed ora era lì: a dieci ore dal momento in cui si sarebbe unita in un vincolo d’amore con Blaise Zabini. Mancavano quindici minuti a che il piano ideato da Draco avesse inizio.
Discostò il lenzuolo leggero. Rimase immobile per un momento, necessario per prendere un respiro. Il suo abito bianco, appeso alla barra della tenda, pareva suggerirle di desistere.
Avrebbe potuto essere egoista per una volta nella sua vita. Avrebbe potuto chiudere gli occhi, dormire e, poi, riposata, percorrere la navata, fingendo che suo padre l’amasse davvero. Avrebbe potuto salvarsi e smettere d’essere colei che veniva colpita tre volte. Una per le sue colpe, una per quelle di Lisbeth, una per quelle di Asteria. Nessuna meritata davvero.
Oppure, poteva impugnare la bacchetta e sfidarlo. Sputare sul suo viso e procurargli quell’affronto per cui tante volte l’aveva costretta a letto. Quando era piccola, quando era una bambina, soleva piangere molto, rea del non capire per quale motivo la odiasse tanto. Poi aveva capito, poi aveva messo a tacere anche i singhiozzi.
«Finite Incantatem» mormorò, mirando contro il castello di Scozia del dipinto.
Rapidamente, la sua profondità aumentò, divenendo più spesso, mentre i colori tenui si scurivano in un marrone scuro. Legò i capelli in una coda alta, scoprendo il collo, che la leggera vestaglia lasciava nudo. Due passi, necessari per comprendere se le gambe l’avrebbero retta, se davvero era stata capace di trovare il coraggio. Quando d’improvviso le mancò il respiro, pensò che non ci sarebbe mai riuscita, che non avrebbe mai corso quel rischio.
Due colpi rapidi ed uno più lento. Lo aveva fatto, quello era il segnale.
La luce quasi bianca dei riflessi lunari sui capelli di Draco la investì immediatamente, ritrovandosi stretta in un abbraccio quasi feroce. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma riuscì solo ad aggrapparsi a lui, con quanta più forza le sue braccia, ancora ricoperte di lividi, le permettessero. Le teste ramate che seguirono, rosse come ogni Weasley che si rispetti, portavano in dono sorrisi fiduciosi. Ron e suo fratello Charlie avevano deciso di intraprendere quella missione suicida, senza neppure un baleno di timore. I loro volti, non noti a Ladon, non avrebbero portato a grosse conseguenze se questo li avesse visti. Per questa motivazione, Zabini era stato costretto a rimanere alla Tana, assieme alla signora Malfoy e a Drew Kennan, il quale avrebbe svelato il segreto di cui era Custode a Beth e Asteria, così che queste potessero nascondersi presso lo spazioso attico di Narcissa. Di ovvia sconvenienza, era la presenza in quel luogo dello Slytherin, ma, essendo l’unico capace di muoversi con una certa dimestichezza in quella casa ed avendo lui ideato quella fuga, nessuno aveva potuto scalfire il suo irremovibile ardore.
«Papà, Fred e George sono sulla collina, dall’altra parte dell’armadio, pronti a partire appena tua mamma e tua sorella saranno in salvo». Avevano studiato la cosa nei minimi particolari, arrivando a procurarsi persino un paio di manici di scopa nel caso in cui, nella fretta del partire, i ragazzi fossero rimasti bloccati nella casa. Se fossero riusciti a mettere Beth ed Asteria sedute sul sedile della Ford Anglia, quella missione sarebbe stata ritenuta un successo. Daphne, a quella notizia, si limitò ad annuire, mentre la mano dell’amico, sulla schiena, pareva quasi sorreggerla.
«Ripetiamo il piano a sommi capi» propose Draco per calmarla e per accertarsi che tutti sapessero cosa fare.
«Io e te, usciti su questo corridoio, andiamo a sinistra e raggiungiamo la camera della sorella di Daphne» cominciò Ronald, parlando piano, timoroso di farsi scoprire, ed indicando chi teneva le redini della spedizione «Sulla serratura potrebbero esserci alcuni incanti di Chiusura, dobbiamo stare attenti a non farla gridare per la paura e dobbiamo fare attenzione al non ferirci in alcun modo, poiché nell’ultimo periodo ha manifestato una forte emofobia». Compiaciuto, Draco annuì.
«E se necessario, meglio stordirla. Se urla, gli elfi domestici accorreranno e Ladon ci scoprirebbe prima di riuscire a metterla in salvo» concluse il rosso, quasi dispiaciuto dal dover pronunciare quelle frasi.
La Greengrass si staccò dal suo supporto, improvvisamente più sicura di quello che stava facendo. Recuperò un foglio che aveva nascosto tra le pagine niente affatto impolverate di un libro riposto alla perfezione nella libreria.
«Ho controllato prima» disse ai ragazzi «Sono tre, gli incanti con cui è stato stregata la serratura. Uno di questi, l’ultimo ad essere disattivato, è un incanto Gnaulante. L’allarme scatterà appena qualcuno proverà a manometterla. Dovrete attendere che io apra la porta della camera patronale per prelevare Asteria». La sua mano, ferma e decisa, porse il biglietto su cui aveva scritto la procedura per sciogliere le prime due magie. Aveva fatto molta pratica, in passato, e tutte avevano portato ad una sessione di torture e sevizie.
«Io e te» cominciò subito dopo Charlie, con un’espressione rassicurante «ci occuperemo di tua mamma. Non ci sono incanti sull’uscio della stanza, ma lei è legata al letto con un incanto oscuro. Anche se la libereremo, tenterà di opporsi per paura. Di Ladon».
Avevano deciso che fosse lui a correre questo rischio poiché era l’unico con la stazza adatta a trasportare con la forza la donna fuori dalla Magione. E poiché la maggiore esperienza, anche con i draghi, lo aveva reso molto difficile da impressionare e prendere contropiede.
«Lui dorme al suo fianco. Se riuscissimo a Schiantarlo senza svegliarlo, risolveremmo molti dei nostri problemi. Dubito sarà così». Il suo tendere al perfezionismo, l’aveva portata a rimarcare, con freddezza, tutte le difficoltà della cosa anche se nessuno dei presenti aveva bisogno di farselo ricordare.
Guardando un orologio, constatarono d’essere in ritardo sulla tabella di marcia prestabilita e che, presto, se si fossero fatti attendere ulteriormente, chi era rimasto all’esterno sarebbe venuti a cercarli.
Mentre gli altri tre schermavano i propri volti con un incanto Dissimulante per non essere riconosciuti, Daphne cominciò a sciogliere le fatture che erano state lanciate sulla porta della propria camera. Si avvicinò, si chinò e si concentrò sulla prima magia che doveva sbrogliare. Non la trovò.
Come un automa, spinse la maniglia.
Lo sguardo di suo padre, rabbioso ma soddisfatto d’averla colta in fallo, la fece rabbrividire. La soddisfazione che trasudava dall’uomo preannunciava il piacere che avrebbe provato nel corso di quella notte.
 
Uno scricchiolio. Soppesò il timore che il proprio cuore stesse frantumandosi. Le faceva male, ma non abbastanza. Impugnò la propria arma con tenacia e fece un passo fuori da quella stanza.
«Stupeficium!» gridò, furente. Ladon aveva già evocato un incanto Scudo, quando vide la mano della figlia virare bruscamente e puntare ad un altro obbiettivo. Uno dei Mangiamorte che aveva assoldato come scagnozzo venne scagliato contro una finestra: un allarme assordante si azionò e il suo corpo venne percorso da una forte scarica elettrica che lo stordì. Il fatto che, per anni, fosse stata prigioniera, l’aveva portata a conoscere alla perfezione la propria cella e i difetti di questa. Quel rumore sinistro che aveva avvertito, quel cigolare leggero, non poteva che provenire da un listello del parquet che, nel corso del tempo, si era sollevato dal massello. Una volta, un elfo domestico l’aveva colta in fallo proprio a causa di quel rumore.
Si guardò rapidamente attorno. Come Drew aveva insegnato loro, la prima azione da compiere, in un duello, era individuare il numero di nemici contro cui ci si sarebbe dovuti fronteggiare. Ne contò due. Si preparò a scagliare una magia di Disarmo, ma, con una sterzata, fu costretta a mutare l’incantesimo.
«Protego Horribilis», ebbe la forza di dire, mentre la Maledizione Cruciatus di suo padre le si avvicinava celermente. La barriera resse contro l’urto, ma s’incrinò, spezzandosi definitivamente quando uno dei tirapiedi di suo padre aggiunse all’assalto un’altra fattura.
Una ferita non molta profonda le si aprì sul fianco, tagliando sia la stoffa dell’abito leggero che la copriva sia la carne.
«Muovetevi!» urlò, mentre Draco l’aveva già raggiunta per aiutarla. Daphne distinse i due Weasley procedere verso i propri obbiettivi, eliminando, lungo il percorso, uno degli incappucciati. Charlie, sorprendendo il malcapitato avversario, gli si avventò contro fisicamente, strappandogli letteralmente di mano la bacchetta e spingendola con forza, poiché dalla corporatura pareva una donna, contro il muro. Il forte colpo le fece perdere i sensi.
Mentre la restante parte del gruppo tentava di sciogliere gli incantesimi, con non poche difficoltà, i due Slytherin si prepararono a fronteggiare Ladon e l’ultimo Mangiamorte superstite. Nel volto del primo era chiaro lo stupore: non sapeva quale degli elfi domestici l’aveva tradita, ma il mettere in giro la notizia falsa d’un semplice tentativo di fuga aveva mascherato la realtà delle cose. Sapeva che quella casa aveva orecchie indiscrete, sebbene sperasse che così non fosse, e aveva fatto la giusta decisione, forviando i possibili ascoltatori. Vide chiaramente il terrore nel viso di Ladon quando dalla sua stanza uscirono i rinforzi. La parità numerica, inattesa, volse facilmente a loro favore, poiché avevano puntato molto sull’elemento sorpresa. Finalmente, con il giovane Malfoy al suo fianco, poteva sfidare suo padre.
«Cosa stai facendo, Daphne?» le domandò l’uomo che l’aveva generata. Draco scagliò tre rapide fatture contro l’ultimo degli sgherri, il quale, pur tentando di resistere all’offensiva, cedette alla rapidità di questa.
«Immagina» gli rispose lei. Satirica e sprezzante, come non aveva mai potuto essere.
Considerato l’evidente vantaggio, i quattro credettero d’essere prossimi alla vittoria e alla conseguente riuscita della loro missione. Quando una maledizione silenziosa aprì uno squarcio nella gamba di Ron, compresero che Greengrass aveva ancora qualche asso nella manica.
Lo stoicismo con cui il ragazzo, pur ferito gravemente, continuò a tentare d’aprire la porta portò gli amici ad ingaggiare una lotta serrata contro l’ultimo oppositore alla loro missione. I due, pur riuscendo ad alternarsi ad un ritmo molto sostenuto, parevano in netto svantaggio: i loro attacchi venivano deviati o parati senza troppe difficoltà, mentre le loro difese, progressivamente, sembravano farsi meno efficaci. Alle fatture di loro, volte al solo metterlo fuori combattimento, lui rispondeva con ferocia e Maledizioni Senza Perdono. Tortura per la figlia, morte per lo sconosciuto che la stava aiutando.
Per questo, presto, Daphne cominciò a concentrarsi per tutelare Draco che, inaspettatamente risoluto e concentrato, pareva non voler cedere di un solo centimetro, pur di sconfiggere Ladon. La ferita della ragazza, intanto, pulsava, dandole fitte violente ogniqualvolta i suoi movimenti fossero troppo ampi o rapidi.
Sentì sua madre gridare, stretta tra le braccia di Charlie. Gli colpiva con forza il petto, graffiandolo e mordendolo disperata. Lisbeth non era mai stata una guerriera, eppure, al solo pensiero che suo marito pensasse che lei non si era battuta per evitare d’essere rapita, o salvata da quella prigionia, aveva manifestato un ardore che, fino a quel momento, non aveva mai visto in lei. Quasi animalesca, in quel suo dibattersi violento. Per un attimo, la immaginò come un salmone, strappato dall’acqua da un orso affamato, mentre placido procedeva nella risalita di un fiume, con un fine che qualcuno aveva imposto nella sua testa, per natura. Per dovere.
Tutto quello schiamazzare, quel berciare sgolandosi, quell’abbaiare contro colui che la stava salvando, tacque d’improvviso, quando ad alzare la voce fu Daphne.
«Smettila!». C’era, in quell’esclamazione, il tono di un’accusa e il vigore di un rimprovero. Lei lo fece. S’acquattò tra le braccia del ragazzo, con gli occhi spalancati e il corpo tremante. Accucciata contro quel torace che aveva colpito e ferito, lasciò che ciò che doveva accadere avvenisse.
«Come pensi di farla uscire da qui?» le domandò Ladon, schernendola.
Non vi fu risposta: Draco sfruttò l’occasione per un affondo che non colpì il bersaglio. Quell’uomo pareva impossibile da cogliere in fallo. Un Avada Kedavra galoppò verso il petto di Malfoy. L’amica lo spinse con quanta più forza possedeva, riuscendo a farlo finire al suolo. L’improvvisa mancanza del ragazzo all’attacco  peggiorò ancora la situazione. Proprio su questo, in quanto inerme, si abbatterono i successivi malefici. Con un’agilità che non le era solitamente propria, la ragazza bionda riuscì ad evitare che venisse colpito, ingaggiando uno scontro diretto con il padre. Sciabolate e parate: la sua testa era vuota, concentrata e precisa. L’adrenalina l’aveva resa più resistente, tanto da non sentire neppure il dolore. Ancora una volta, però, il capostipite dei Greengrass riuscì a vincerla.
«Non vuoi realmente ferirmi, come pensi di potermi sconfiggere? Stupida».
Avrebbe voluto rigurgitare un insulto dal profondo delle sue membra, ma il sentirsi chiamare, mentre la sua spalla si rialzava dal pavimento gelido di quella villa, la fece desistere.
Ron non riusciva a smuovere sua sorella. Asteria era impietrita, terrorizzata. Non ebbe bisogno di osservare la situazione troppo a lungo per capire cosa stava accadendo. I pantaloni del ragazzo erano zuppi di sangue, a causa del profondo squarcio all’altezza del polpaccio.
«Il sangue» disse solamente, rivolgendosi allo Slytherin che era al suo fianco «Vai ad aiutarli».
«Ma tu … » provò a dire Draco, più pallido del solito.
«Vai!». La stessa rabbia che aveva usato per sua madre, la rivolse anche a lui. Non c’era crudeltà, in quel suo modo di parlare, ma paura. Paura per gli altri. Draco capì in quell’istante per quale motivo lei avesse voluto salvarle: a guidarla era lo stesso motivo che l’aveva spinta a schierarsi sempre dalla sua parte, chiunque avesse contro.
Quel che accadde poi, fu molto rapido. Malfoy li raggiunse correndo a perdifiato, coprì la ferita con un “ferula”, ma Asteria non si mosse. Cercarono di scuoterla, ma il suo sguardo vitreo rimaneva fisso verso il combattimento in atto. Fu necessario uno schiaffo per farla rinsavire. Con il volto arrossato dalla sberla, nel vedere la sorella battersi per lei, la ragazzina sembrò trovare coraggio. Infilatasi sotto un braccio di Ron, claudicante, aiutò il biondo a trasportarlo verso la camera di Daphne.
Quando furono tutti nella stanza, esclusione fatta per colei che lì usava dormire, aprirono la porta dell’Armadio Svanitore. Ladon, troppo preso dall’euforia d’aver scovato la figlia, prima, e dalla rissa, poi, non lo aveva notato. La sua espressione mutò.
«Sbrigatevi» li incitò ancora una volta colei che, a differenza degli altri, sarebbe rimasta in quella casa fino alla mattina seguente. Sola. Con quella bestia irosa.
Il primo a sparire fu Charlie, con in braccio Beth. Seguirono Ron ed Asteria, presi l’uno a sostenere e fare forza all’altra. Rimase solo Draco. Incerto, teneva tra le dita una delle due ante. Avrebbe voluto rimanere in quella casa, lottare.
Ladon caricava per raggiungerli, Daphne tentava in ogni modo di rallentarlo. Fermare quell’essere, sfigurato dalla rabbia, giocato dall’astuzia di colei che aveva ritenuto sempre un scarto, era impossibile.
Lo sguardo smeraldino che investì Malfoy parve parlargli. Mormorò delle scuse, capaci di generare un sorriso sulle labbra di lei, e scomparve nell’oggetto.
La Greengrass contò fino a dieci, nella sua testa. Pochi secondi per accertarsi che nessuno si trovasse dentro l’Armadio Svanitore.
«Reducto» mormorò.
Cadde in frantumi. Frammenti di legno accatastati e scaglie sottili ed acuminate nella polvere.
Sentì le mani di Ladon afferrarla e spingerla contro il muro. Urtò con la testa e cadde al suolo, in una bozzolo di abiti leggeri e carne, sporca di sangue. Alto ed imponente, lui era già su di lei. Sentì il viso tremarle ed un singhiozzo che pensò preannunciasse un pianto, ma non fu così.
Le sfuggì una risata cristallina. Ottenne solo più colpi. I primi furono i calci.
Il sole, quel giorno, si affrettò a sorgere solo per lei.
 
Molly Weasley, indaffarata, correva da una parte all’altra della villa in cui si sarebbe tenuta la cerimonia. Ad aiutarla, vi erano solo sua figlia Ginny e la quasi nuora Fleur Delacour, entrambe tanto immerse nei preparativi del matrimonio della seconda da sapere alla perfezione cosa fare senza aver bisogno di indicazioni da parte di nessuno. A queste, poi, si era aggiunto il coordinatore del servizio catering, arrivato con un ritardo d’una quindicina di minuti e per questo ammonito dall’agguerrito terzetto. Presto, ad aiutarle, era giunta anche la signora Carolyn, nonna di Blaise, accompagnata da Airi, lontana cugina del ragazzo venuta dal Giappone appositamente per l’occasione. Le due, trovandosi subito in sintonia con le altre, si erano prodigate per essere utili. La prima, con il suo finto cipiglio severo, aveva redarguito tutti coloro che tardavano nel compiere gli ordini della signora Weasley ed aveva accolto l’officiante, suggerendo d’accorciare il più possibile la cerimonia. Si era poi permessa di proporre qualche cambio nella disposizione dei tavoli, per evitare che le prozie del nipote bisticciassero, e aveva fornito uno scaletta al gruppo musicale. La seconda, invece, vestita con un improbabile abito svolazzante e colorato, si era prodigata per creare, con i fiori in eccesso ordinati per errore, dei magnifici centrotavola, a cui nessuno aveva avuto modo di pensare, dimostrando una straordinaria abilità nell’arte dell’ikebana. Il fatto che, poi, fosse rovinata tragicamente nel laghetto, aveva suscitato le risate generali e le sue. Felice, forse più di prima, aveva addotto d’avere una scusante per cambiarsi d’abito e così, in effetti, era stato.
L’arrivo di Ladon, puntuale, allo scoccare delle dieci, aveva creato, invece, scompiglio. Trascinava, qualcosa di informe, reticente a muoversi. Il dolore e la vergogna la facevano stare piegata in due, mentre tentava, con le mani e le braccia, ferite in più punti, di reggere quella vestaglia leggera, ricolma di tagli e scuciture, con cui si era coperta durante la notte.
«Ho portato la sposa». Questo aveva detto l’uomo, mentre lei, trascinando le gambe, indifesa come mai era stata, si era raggomitolata contro il muro. La prima ad accorrere era stata Ginny, seguita a ruota da Airi. La rossa cominciò ad insultarlo ad alta voce, attirando l’attenzione di molti. Quando Molly vide la scena, pur sapendo qual’era il vizio di quell’uomo poiché Narcissa gliene aveva abbondantemente parlato, rimase senza parole. Avrebbe voluto dire qualcosa a quella bestia, ma qualsiasi discorso la sua mente formulasse, improvvisamente questo si sgretolava, lasciandola ad imprecare qualche divinità. La sua espressione era quella che solitamente intimava i suoi figli a scappare dalla cucina prima di ricevere una padella tra gli occhi.
Quando Carolyn sopraggiunse, la sicurezza dell’uomo ebbe un cedimento: non si aspettava che la matriarca si trovasse in quel luogo.
«Esattamente come tuo padre» esordì l’anziana signora «Un verme». Gli sorrise, scuotendo piano la testa. Lentamente, raggiunse la sua borsetta e ne trasse un foglio ripiegato. Nella sigaretta che si accese, poi, trovò calma e lucidità. «Per l’abito, i fiori e la dote».
Dicendo quelle parole, gli porse un assegno. «Noterai che c’è un grosso supplemento per il tuo disturbo. Ritienilo pure un incentivo per uscire ora da questo edificio e per non infastidire più mio nipote e la sua sposa per il resto dei tuoi miseri giorni. Non penso, sinceramente, che qualcuno rimpiangerà la tua assenza».
Sentendo quelle parole, l’uomo divenne rosso in viso e parve voler alzare le mani pure sulla signora Gray, la quale, però, non retrocesse neppure di un millimetro.
«Lei è mia figlia, io la accompagnerò all’altare» provò a dire quello, fieramente.
La mano di Carolyn si serrò con forza sul suo mento, costringendolo a guardarla.
«No» disse semplicemente «Hai perso questo diritto la prima volta che le hai messo le mani addosso. E dovresti ringraziare il tuo buon diavolo custode che mio nipote non si trovi qui in questo momento, non penso che ti avrebbe permesso d’uscire vivo da questo casa».
Ladon parve voltarsi per andarsene. Fu una finta, a cui tutti coloro che lo conoscevano erano preparati. Impugnava già la bacchetta, pronto a colpire chiunque si fosse messo in mezzo a questioni che lo riguardavano così da vicino. Furente, perché ora che Daphne poteva ufficialmente ritenersi una donna libera, lui non aveva più nessuno da costringere sotto il proprio giogo, dopo che Beth ed Asteria erano fuggite. Vipera, non avendo più nulla, avrebbe morso fino ad esaurire la propria fiele.
«Crucio». La voce era un sospiro fievole, rotta dal pianto, mentre con una mano, cercava di trattenere le lacrime che aveva lottato per arrestare fino a quel momento. Il sale dei suoi occhi si mischiò al sapore ferroso del suo sangue, ma nonostante l’occhio nero e il labbro contuso, quel volto tumefatto era ancora quello di Daphne Greengrass. L’orgoglio e il senso della giustizia l’avevano portata ancora una volta a difendere qualcun altro dalle azioni di quell’uomo. Aveva afferrato la propria bacchetta, quella che l’uomo le aveva restituito così che potesse Dissimulare, ancora una volta, le sue ferite. Aveva disubbidito, poiché la sua stecca di legno, quella che aveva ricucito tante volte la sua carne e che aveva attenuato le sue sofferenze, aveva funto da catalizzatore per l’odio che provava verso di lui.
Molly Weasley, impastoiandolo per evitare che colpisse Carolyn, aveva fissato quel momento: crollato sulle proprie ginocchia, con i muscoli tesi, il viso digrignato in una smorfia e gli occhi spalancati.
«Non credo affatto che rispondere alla violenza con un altro maltrattamento sia un buon modo di fare giustizia» cominciò la più anziana del gruppo, non colpita da ciò che era accaduto «So anche, però, che tu non imparerai mai. Puoi mettere addosso ad un verme un bel viso e dei vestiti costosi, ma questo resta sempre un viscido invertebrato».
Daphne, scossa da tremiti violenti, era riuscita a mettersi in piedi.
«Un giorno, qualcuno farà giustizia. E tu pagherai le tue colpe, le tue violenze» prese un’ultima boccata dalla sua sigaretta «Nel mentre, permetti a questa anziana signora, barbara e becera, di lasciarti un promemoria». Con quelle parole, spense il tizzone sulla pupilla dell’occhio sinistro, accecandolo. Poi, con un cenno della mano, chiamò due camerieri nerboruti.
«Scusate, ragazzi, so che non rientra nelle vostre mansioni, ma potreste togliere questo schifo dal pavimento? Temo inquieterebbe gli invitati».
Qualcuno rise, altri si congratularono. Nella calca del momento, la Greengrass traballò fino a colei che l’aveva appena liberata da quell’uomo per ringraziarla.
«Devi credermi, è stato un vero piacere» le rispose quella, sorridendole e scostandole una ciocca di capelli dal viso insanguinato «Ma dovrai dire tu a Blaise che l’ho fatto uscire da qui vivo» scherzò poco dopo.
Vedeva chiaramente quando problematico sarebbe stato, per quella ragazza, amare qualcuno, ma, in quel momento, seppe per quale motivo suo nipote si era perdutamente innamorato di lei. Dentro, era più bella che fuori. E molto più fragile.
 
La situazione, molto più grave di quello che era stato previsto, richiese il maggior aiuto possibile. Per questo, i maschi Weasley, Ron compreso, poiché era stato rimesso in piedi con un’abbondante dose d’Essenza di Dittamo, vennero reclutati per aiutare per gli ultimi preparativi. Le signore, infatti, vennero tutte impiegate nel cercare di rendere presentabile Daphne.
Molly scrisse un gufo a Narcissa dicendole che il loro arrivo sarebbe dovuto essere anticipato. Tempo mezzora e la donna, accompagnata da Draco, testimone stropicciato e stanco, aveva bussato alla porta della stanza dedicata alla preparazione della sposa. Colei che si preparava ad abbandonare definitivamente il proprio nubilato, seduta davanti ad una toeletta dall’aspetto antica, osservava il suo riflesso, provata, mentre molte donne, amiche che non credeva di avere, le volteggiavano attorno, prodigandosi per arrestare il sangue dalle ferite e poggiare del ghiaccio sulle sue ferite. Presto, compresa la gravità del suo stato di salute, cominciò a vorticare la notizia che le nozze sarebbero state rimandate a data da destinarsi. Quando Blaise l’aprì, la porta di quella stanza quasi si scardinò. D’improvviso, tutto quel danzare intorno si chetò, in aperto contrasto con il tumulto nello sguardo di Zabini.
La guardò, la raggiunse, la toccò e temette di romperla.
«Draco avrebbe dovuto portarti fuori da quella casa» disse, visibilmente scosso da ciò che i suoi occhi vedevano «Lo ammazzo».
Lei sorrise e, nel tendere il labbro, il taglio su quello inferiore si aprì di nuovo. Blaise afferrò una piccola garza pulita e lo tamponò con gentilezza. Le sfiorava il viso con gentilezza, soffrendo profondamente per ogni segno di percossa. Era felice che sua nonna avesse vendicato quel bellissimo occhio cerchiato di nero.
«Se lo avesse fatto, Ladon non avrebbe creduto al fatto che quello di ieri sera fosse un tentativo di fuga per non sposarmi» gli rispose lei finalmente tranquilla, posando la propria mano, su quella di lui. Era stato uno spreco spendere tutti quei galeoni in manicure e parrucchiere: era tutto da rifare e non c’era il tempo per contattare un esperto del campo. Si sarebbero dovuti accontentare di Fleur e dei suoi trucchi magici d’alta moda francese.
«E, comunque, non puoi uccidere il tuo testimone. Non potremmo celebrare le nozze, altrimenti» continuò poco dopo. Le dita di lui rimasero a mezz’aria, ancora con quella pezza sporca di sangue ben stretta. C’era dello stupore sul suo volto.
«Parlavo di tuo padre» cominciò, riprendendo parola poco dopo «Vuoi davvero farlo oggi?». Qualcuno mormorò, nelle retrovie, che uno due doveva aver battuto fortemente la testa. Al contrario di quello che era facile supporre, il maggior numero delle persone riteneva che a farlo fosse stato il promesso sposo.
«Ho qualche problema a stare in piedi, ma mi stanno rimettendo in sesto. Mi dovrai reggere, soprattutto durante quel primo ballo per cui spero ti sia esercitato» gli rispose Daphne tranquilla.
Ci mancò poco che Blaise, improvvisamente sveglio e reattivo, non esultasse. Non lo fece, limitandosi a baciarle la fronte docile. Con le mani, la ragazza gli prese il viso e condusse la sua bocca alla propria. Non fu uno di quei baci passionali che erano abituati a scambiarsi, ma c’era, in esso, la taciuta promessa di recuperare il prima possibile. Nella loro nuova casa, quella che Carolyn aveva regalato loro, possibilmente.
«Sai perfettamente che non devi neppure chiedermelo» la rassicurò lui, sincero e fragile, in quel suo scoprirsi. Eppure, era chiaro a tutti che non gli importava d’essersi esposto.
Alle loro spalle, la cugina Airi, cambiatasi d’abito e pronta alla funzione, s’entusiasmò improvvisamente, trattenendo a stendo dei gridolini elettrizzati. Qualcuno le lanciò un’occhiata a metà tra il dubbioso e lo sconvolto e quella parve darsi una calmata, anche se più tardi la videro infrangere le direttive degli sposi, che per ovvi motivi non avevano voluto fotografi, per immortalarli in qualche istantanea.
«Vai a prepararti. E non osare allentare il nodo della cravatta o addormentarti prima ancora che la cerimonia inizi» lo ammonì, mentre questo usciva dalla porta, seguito immediatamente da Malfoy.
Trascorsero una decina di minuti, durante i quali, stringendo i denti, alla ragazza vennero ripulite le molte ferite sulle gambe. Si temette che quella sinistra fosse rotta, poiché muoverla le provocava molta sofferenza, ma l’eventualità venne esclusa dopo qualche accertamento e si procedette con arrestare le ferite dove ciò si mostrasse ancora necessario.
Il tintinnio dei calici, preannunciò l’arrivo di Ginny, sparita da qualche istante. Dopo essere stata scelta come damigella d’onore da Daphne, questa era entrata in uno stato di fibrillazione ed era svanita improvvisamente, posticipando il momento in cui avrebbe dovuto provare l’abito apposito che la Slytherin aveva scelto per lei. Al suo ritorno, reggeva tra le mani una bottiglia di champagne. Consegnò un flute ad ognuna delle presenti e, alle facce dubbiose che ricevette in cambio, rispose solamente con «Non farti troppe domanda, è un addio al nubilato. Tutto è lecito».
Le risate si interruppero solamente quando a valicare la porta fu Drew, che scortava Lisbeth e Asteria. Le lasciarono sole. Asteria, rassicurata sul fatto che tutte le ferite fossero state in parte già medicate e che, di conseguenza, non avrebbe incontrato sangue nel farlo, si mise a preparare alcuni dei suoi speciali impacchi. Tutte le donne della famiglia Greengrass, almeno da un paio di generazioni, sapevano trattare alla perfezione ogni genere di escoriazioni. Era qualcosa che la nonna, medimaga di rinomata e straordinaria abilità, aveva trasmesso anche a loro: delle due, però, chi aveva assorbito il maggior numero di nozioni era sicuramente la più giovane, nonostante l’età. Ciò era accaduto anche perché Daphne, nella maggior parte dei casi, fungeva spesso da cavia. L’apparente tranquillità di lei, però, era sovrastato dal pianto disperato della madre, che, gettatasi in lacrime ai piedi della figlia, si era aggrappata alle sue gambe e aveva cominciato una lunga litania.
«Dovevo farlo. Dovevo. Lui mi avrebbe uccisa».
Da anni era così che accadeva. Lei non era più in grado di difenderle, poiché, quando erano bambine, aveva subito le peggiori angherie. Per Daphne era stato quasi naturale darle il cambio.
Aveva lasciato che si sfogasse e, poi, le aveva chiesto di pettinarla. Era una cosa, questa, che amava fare e, con il tempo, era divenuta anche particolarmente abile nel coprire i punti dove Ladon aveva strappato qualche ciocca.
 
Qualcuno si intrufolò nella stanza, senza bussare. Qualsiasi rumore, pensavano, avrebbe infranto la semplicità di quel ritrovarsi che aveva da sempre unito quelle tre donne. Eppure, oltre quella soglia, altre esponenti del gentil sesso fremevano per riprendere l’attività lasciata interrotta. Proprio a causa di ciò, avevano mandato Kennan in avanscoperta. Forse ingenuo in quel frammento, ma senza ombra di dubbio troppo bello in quel suo smoking blu scuro, abbinato all’intensità dei suoi occhi, per subire qualsiasi genere di ripercussione.
Asteria già stravedeva per lui. Per questo, quando entrò, arrossì visibilmente. La sorella, per toglierla dall’imbarazzo, le chiese di andare a convocare le altre signore.
«Scusate l’interruzione» cominciò lui con un sorriso «Fremevo per vedere la sposa e per farle le mie congratulazioni». Daphne, con i bellissimi capelli biondi riportanti al fasto naturale dalle mani esperte della madre che li avevano raccolti in uno chignon voluminoso annodato sul lato della nuca, si alzò in piedi per accoglierlo. Una veste lunga fino alle ginocchia mascherava in parte i segni di quella nottata, poiché ancora si doveva procedere con gli incantesimi Dissimulanti per nasconderli completamente. L’occhio sinistro, contornato d’un viola livido, rendeva quella sua espressione felice, molto più grave. C’era qualcosa di drammatico, in tutto ciò: non era, quello, il lieto fine a conclusione di una lunga ed estenuante vicenda, ma solo una tregua prima della prossima battaglia. L’attimo da spendere per rifocillarsi e per piangere il passato, tristi ma speranzosi.
«Drew» lo chiamò lei, illuminandosi un poco e cercando di muovere qualche passo verso l’ospite. Non riuscì a staccarsi dallo schienale della sedia su cui era stata fino a quell’istante. Fu il giovane uomo ad andarle incontro e ad aiutarla a fermare il tremore delle sue gambe facendola sedere nuovamente. «Grazie per essere venuto e per l’aiuto a mia madre e mia sorella».
Lui si piegò sulle ginocchia per poterla guardare negli occhi, slacciando il bottone che teneva stretta sull’addome la giacca del suo completo.
«Non ti preoccupare, Daphne, l’ho fatto con piacere». Da un taschino interno trasse una boccetta ricolma d’un liquido dal colore rosato. «Distillato Rinvigorente in formula concentrata, gentilmente offerto dal professor Lumacorno, che è riuscito ad ottenere un posto nelle prime file della sala e che ora sta facendo amicizia con tutti le personalità più importanti presenti. La McGranitt fa fatica a trattenerlo, pare adori i matrimoni». La ragazza prese la piccola bottiglia di vetro lavorato e la soppesò.
«Non basterà per tutta la cerimonia, ma se l’assumi pochi istanti prima che questa cominci, penso che ti sarà d’aiuto almeno fino al ballo» proseguì poco dopo «Lenirà il dolore, ma soffrirai ugualmente. Un ottimo palliativo, ma non certo una soluzione miracolosa».
La Greengrass, lo ringraziò piano e, forse in imbarazzo per tutte le attenzioni che stava ricevendo in quel giorno, cercò una distrazione e la trovò nell’orologio a parete che l’avviso, purtroppo, d’essere in ritardo. Doveva ancora essere truccata ed indossare l’abito. L’idea di soffrire ancora, anche se per una giusta causa, non la faceva di certo smaniare.
«Ok, è il caso che io ti lasci preparare». Rapido, le posò una bacio sulla guancia e si approssimò all’uscita, dove Asteria, seguita dal gruppo agitato e un po’ brillo delle wedding planners, macerò nell’invidia. «Quasi dimenticavo» aggiunse Drew, con una mano nella tasca dei pantaloni e l’altra posata quasi casualmente sulla spalla di Narcissa «Hermione ed Harry vi fanno i loro più sinceri auguri e si dispiacciono che cause di forze maggiore abbiano impedito loro di essere qui, oggi».
Mentre la più anziana delle sorelle si prodigava, come si conveniva ad una persona educata come lei, a ringraziare ancora il professor Kennan, la più giovane lanciò un’occhiata al sedere tornito di questo mentre si allontanava verso lo stanzone, in parte già gremito, dove si sarebbero tenute le nozze.
 
Bevve la pozione e, immediatamente, si sentì più in forze. Narcissa, Lisbeth ed Asteria si fermarono nella stanza, dove, non potendo rischiare d’essere riconosciute dai Purosangue presenti, sarebbero rimaste. A prestare attenzione al regolare svolgimento del rito, avrebbero badato Molly e Fleur.
Il programma prevedeva che lei, seguita dopo qualche passo da Ginny, i cui capelli ramati erano esaltati dal suo abito lilla dalle linee semplici, percorresse da sola la navata fino a raggiungere l’officiante, Blaise e Draco, il suo testimone, ma lei, durante la preparazione chiese, contravvenendo alle normali regole, d’essere accompagnata da Carolyn. Imparenta con lo sposo, questa avrebbe dovuto limitarsi a stare seduta in prima fila, ma accettò di buon grado, colpita dalla richiesta.
Scrutò il proprio riflesso nello specchio per l’ultima volta: i colpi, troppi, c’erano ancora, ma erano stati dissimulati tutti, così come le cicatrici e le ferite in via di guarigione grazie alla magia medicamentosa di sua sorella e a molta Essenza di Dittamo. Appariva come una ragazza normale, con un trucco non troppo marcato ed una pettinatura elegante. Il vestito da lei scelto era semplice, senza alcun ornamento se non le pieghe del tessuto, numerose e sottili, che parevano fasciarle il corpo dal corpetto senza spalline fin sui i fianchi, dove si apriva una gonna spiovente e più ampia. Sulla schiena, dei lacci davano ancor maggior rilievo al senso di bardatura dell’abito attorno al suo corpo. All’interno, si sentiva quasi protetta.
Aveva deciso di non avere né velo né strascico, ingombri per lei futili. Al contrario, aveva seguito la tradizione, per volontà di chi l’aveva preparata: indossava le sue scarpe preferite laccate di vernice bianca, con vertiginosi ed immancabili tacchi che le causano solo ulteriori sofferenze e che, per questo, non vedeva l’ora di togliere. A conclusione, una collana sottile con un unico zaffiro, regalatale dalla madre, e un bracciale tintinnante che, invece, le aveva prestato Narcissa.
Quando la musica ebbe inizio, la signora Weasley le aprì la porta. Airi, la cugina di Blaise, l’aveva anticipata, spargendo dei petali di fiori. La mano di Carolyn era confortante sulla propria e la sua presa solida, pronta ad afferrarla nel caso vi fosse necessità. Reggeva un bouquet semplice di calle bianche, la cui corolla, però, celava all’interno un intenso colore viola.
In fondo alla navata, una scena sconvolgente: Blaise, eterno assonnato, pareva sveglio e trepidante, mentre Draco, solitamente avvezzo a svegliarsi presto, aveva gli occhi segnati da pesanti occhiaie. Per un attimo, si augurò che avesse con sé i loro anelli. Colei che avrebbe celebrato la loro unione era una donna di colore, bassa e dalla corporatura robusta, con un abito porpora che sembrava essere stato da lei scelto appositamente per essere in perfetta sintonia con quel matrimonio. Aveva un sorriso spettacolare: ampio, rassicurante, dolce e soddisfatto. Quella signora non li conosceva neppure, ma era felice d’unirli in quel vincolo per lei sacro. Nei ricordi di Daphne, tra le cose più belle di quel giorno e tra quelle più splendide che vide mai, quella persona assunse un ruolo speciale e preminente. Un simbolo.
Poi, la sua attenzione fu subito per Blaise. Suo marito. Bello con non mai, aveva esaudito la sua richiesta: la cravatta pareva soffocarlo. Sapevano entrambi che erano troppo giovani, che quel matrimonio imposto non era ciò che avrebbe dovuti unirli, ma era anche sicuri che tra loro non vi fosse solo l’amore di due adolescenti.
Una fitta la fece quasi inciampare, causando la reazione di molti dei presenti pronti a soccorrerla, ma come le era stato promesso, non venne lasciata cadere. Carolyn la resse facendole un occhiolino e, presto, il nipote di lei venne a prenderla, così che a percorrere la navata furono in tre.
Dinnanzi all’officiante, lui non riuscì a trattenersi dal baciarla. Ricevette uno colpo leggero sulla spalla dalla donna che doveva sposarli.
«Aspetta ancora un attimo» gli disse ridendo. Lui mormorò delle scuse e si spettinò i capelli. Le mani della sposa gli risalirono il petto ed allentarono il nodo che gli stringeva la gola.
«Siete pronti?» domandò la celebrante con fare complici. Quando entrambi annuirono, la cerimonia ebbe inizio. La voce tuonò chiara.
«Conoscenti, amici, famigliari» cominciò «Siamo qui riuniti oggi, per celebrare assieme il giovane amore di Daphne e Blaise».


Note dell’Autore.
Dieci lunghi mesi. Chi mi segue da un po’ di tempo, conosce già la mia saltuarietà: scrivo molto spesso, qualche settimana anche tutti i giorni, ma inseguo come una formica laboriosa le briciole che l’ispirazione si lascia alle spalle. Mettermi davanti al computer e pensare a come trascinare in avanti questa storia, iniziata anni fa con You and Me, a volte mi costa una fatica immane, per cui preferisco desistere e dedicarmi ad altro. Non fraintendetemi, non ho ancora deciso come finirà questo racconto, ma so perfettamente quale strada intraprendere. Nella mia testa, tra uno spiffero d’aria e un pensiero inconsistente, HugMe è già stata scritta tutta fino al finale. La serie “Becoming Us” è fin da prima che finissi Y&M in questo stato immanente di incompletezza. Se la mia mente potesse scrivere, la narrazione sarebbe conclusa da tempo e sarebbe migliore di quello che è. Come sosteneva un illustre filosofo, però, il passaggio dal mondo delle Idee, dall’Iperuranio, a quello della sostanza comporta l’imperfezione. Perché scrivere per me è questo: una fatica, tesa a qualcosa che a volte non so definire, altre volte solo ad una sensazione. Una sofferenza, quasi dovessi scavare un pozzo per ricavare un sorso di frase. Il piacere della scrittura, e penso non valga solo per me, viene solo dal confronto con chi legge. Quando una persona percepisce quello che io volutamente ho nascosto tra le righe, quando comprende il perché di un’azione di un personaggio alla luce delle informazioni che ho disseminato su di lui, quando mi fa avvertire un’assonanza tra ciò che io avrei voluto descrivere e quello che lei ha è recepito, è allora che “scrivere”, nella maniera amatoriale e poco seria del sottoscritto, prende un senso. Altrimenti, per quello che sono io, resta solo un modo per stare seduto su una sedia a farsi venire mal di schiena.
Ci sono autori più capaci di me, su questo sito, ci sono fanwriter che potrebbero tranquillamente venirmi a sminuire per quello che scrivo, ma ci sono ragazzi (o ragazze, o donne, o uomini) che non hanno la mia stessa fortuna. Un piccolo baule di tesori, che io ho avuto la fortuna di scovare non so nemmeno come. Siete voi, chi mi legge e chi commenta. Perché nonostante tutto, ho scoperto, di recente, che You and Me è tra le quaranta storie con la più alta media di parole per recensioni positive, nel fandom di Harry Potter. Una categoria, diciamoci la verità, non molto piccola. Questo merito non mi appartiene.
È vostro. Di voi che avete perso – e spero perderete – tempo prezioso per lasciarmi un pensiero, per commentare ciò che è accaduto, per avanzare ipotesi o per insultarmi. Di voi che avete scritto, tanto, su queste vicende. Ho apprezzato ogni singola recensione ricevuta e ho cercato di rispondere al numero maggiore. Se non l’ho fatto, vi chiedo scusa, a volta il tempo è tiranno.
Quando ho cominciato You and Me avevo due obbiettivi, il primo, superare i 200 commenti, è stato ampiamente raggiunto. Questo riconoscimento, però, ha un valore di gran lunga maggiore. Anzi, tra le due cose non vi è proprio paragone.
Sebbene questa sia una Dramione fuori dagli schemi, sebbene i miei aggiornamenti e la mia persona stessa facciano schifo, sebbene molte decisioni da me prese siano state impopolari, voi non avete abbandonato questa follia.
Io non posso che dirvi grazie, ancora. Ogni volta che lo faccio mi sembra che non sia abbastanza.
Detto questo, sperando che l’università non mi uccida, che nessuno sia morto nell’attesa di questo aggiornamento e che il capitolo vi sia piaciuto, vi lascio.
Jerry

PS1: recensite, mi raccomando ^^
PS2: potete contattarmi anche sulla mia pagina facebook :3
PS3: dopo anni, ho finalmente capito come eliminare quelle odiose spaziature nell’impaginazione *-*

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