Just give me an hug di Jerry93 (/viewuser.php?uid=96861)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Last Betrayer ***
Capitolo 2: *** Song of a White Crow ***
Capitolo 3: *** Choose: How to start living ***
Capitolo 4: *** Smoky eyes ***
Capitolo 1 *** The Last Betrayer ***
Chapter
one, The Last Betrayer
Harry teneva un braccio attorno ai
fianchi di Ginny, mentre
si muovevano simultaneamente di alcuni piccoli passi. Non erano dei
grandi
ballerini e la mente del ragazzo era persa a ripercorrere gli istanti
trascorsi
con Silente, avendo la conferma che, sì, l’oramai
deceduto Preside non gli
aveva mai rivelato che anche i suoi genitori avevano visto il
sopraggiungere
della fine a Godric’s Hollow. Questo, infatti, gli aveva da
poco rivelato Elphias
Doge, l’autore di quell’elogio funebre pubblicato
dalla Gazzetta del Profeta. I
due ragazzi, però, si tenevano stretti, resi ancora
più affettuosi nei
reciproci riguardi dalla dipartita di Malocchio.
Quella guerra maledetta, mai come in
quei giorni, li
intimoriva, incutendo nelle loro menti un terrore distruttivo e
totalizzante.
Un erbicida, lanciato al suolo contro gli steli di fragili piante che,
in
futuro, avrebbero potuto generare il tronco di un albero. Un veleno
deglutito a
fatica.
Ron si era allontanato da un paio di
minuti, in cerca di una
Burrobirra o, forse, desideroso solamente che quel matrimonio finisse
presto
per chiudersi nella sua camera a scrivere l’ennesima lettera.
D’amore,
sostenevano Fred e George, non sbagliando.
Continuavano a stare così,
avviluppati dolcemente, godendosi
quell’attimo di tranquillità. Attimo.
A raggiungerli fu, prima, un ruggito
basso e gutturale. Poi,
a pochi metri da loro, videro l’imponente figura di un felino
argenteo: una
lince, fiera della sua muscolatura massiccia, creava scompiglio tra i
ballerini.
La voce di Kingsley Shacklebolt
proruppe tonante, lievemente
incrinata dall’agitazione.
“Il Ministero è
caduto. Scrimgeour è morto. Stanno
arrivando”.
Le loro mani corsero, a causa di una
troppo precoce
abitudine, verso le bacchette, che impugnarono saldamente. Un urlo, in
grado di
rompere anche quell’innaturale silenzio che si era generato,
fece da colonna
sonora al momento in cui il Patronus svanì. Fu il caos.
La piccola Weasley
cominciò a cercare i suoi famigliari,
concertandosi su quello con meno esperienza, dopo di lei, e che, per
ovvi
motivi, era quello che Voldemort voleva catturare: Ron. Lei, la
fidanzata di
Harry, e suo fratello, il suo migliore amico, si trovavano sotto quella
tenda
con un bersaglio lampeggiante attaccato alla fronte. Perché
così il Signore
Oscuro agiva: divide et impera. Lo chiamò, urlando sopra il
clamore della
calca, ma non ottenne alcuna risposta. Intanto, all’apparire
dei primi
Mangiamorte, Lupin e Tonks, spalleggiandosi, produssero
all’unisono un incanto
di Protezione che rispedì al mittente una Maledizione.
Ogniqualvolta qualcuno, nella foga
della fuga, li urtava, le
loro nocche sbiancavano, stringendo la mano dell’altro ancora
più saldamente.
Quando il lampo luminescente di un incantesimo sfrecciò
sopra le loro teste, i
cuori d’entrambi persero un battito: difficile stabilire se
si trattasse di una
fattura, così come era complesso risalire a chi
l’aveva lanciato e verso chi
era diretto.
Vedere Ron ancora vivo fu un
sollievo, il quale, però, durò
il tempo frugale d’un battito di ciglia. La sua bacchetta,
infatti, era
sguainata e si muoveva al ritmo degli affondi di un Mangiamorte
incappucciato e
con il viso coperto da una maschera. Ginny, degna Gryffindor, non perse
tempo.
“Reducto!”
urlò, dopo aver preso rapidamente la mira ed
essersi avvicinata con Harry di alcuni passi. Il fisico
dell’avversario
manifestava l’insolita assenza di una corporatura massiccia
ed imponente, ma,
nonostante ciò, tutto poteva sembrare meno che un novellino.
La sua arma si
mosse con una rapidità tale da far credere loro che non
fosse mai stata agitata.
Il Ragazzo Sopravissuto continuò l’assalto con uno
Schiantesimo, subito seguito
da una Pastoia Total-Body di Ron. Entrambi si infransero su una
barriera
azzurrina, ben più potente di un semplice Incantesimo Scudo.
Questo, però,
offrì la possibilità ad Harry di afferrare
Ron, che si era subito avvicinato ai due, per eseguire
un’affrettata, seppure
corretta, Smaterializzazione Congiunta.
L’ultima cosa che i loro
occhi videro furono le spalle di
quello che era il loro avversario, mentre questo, con passo sicuro, si
faceva
spazio tra i pochi rimasti a colpi di bacchetta, fino a raggiungere il
professor Kennan, già circondato.
***
Quando mancavano poco più
che cento metri alla casa dei
propri genitori, Hermione smise di correre e cominciò a
camminare. Ansimava,
affaticata dal già eccessivo calore di quella giornata,
nonostante fossero
appena le nove del mattino. Lasciò che i suoi troppi
pensieri defluissero dalla
sua testa, come risucchiati in un gorgo, abbandonandola a quello strano
torpore
che prova chi ha la fortuna di poter vivere alcuni istanti di silenzio
mentale.
Non avvertiva nulla, neppure il dolore delle sue gambe stanche, mentre
rientrava verso casa svoltando dolcemente verso destra, dopo aver
percorso una
lunga rete metallica dalle cui maglie sbucavano i rami flessibili,
sebbene
inariditi dall’afa, di una siepe sempreverde. I suoi piedi,
spontaneamente,
seguirono le lastre che andavano a comporre il viottolo, come se
ancora, dopo
anni, stesse giocando a campana con sua padre. Di quell’uomo,
il primo e
l’unico ad averla chiamata principessa, rimanevano solo i
ricordi di una casa
vuota, gli echi delle stanze disabitate ed un pianoforte scordato che
non aveva
ancora imparato a suonare. Là, in fondo, a pochi passi da
lei, la sua unica
luce in quel periodo oscuro la stava aspettando: rimaneva immobile,
seduto
sull’ultimo scalino che dà accesso alla piccola
veranda, troppo stanco anche
per combattere l’implacabile avanzata del sonno.
Così, con gli occhi chiusi e
la testa appoggiata alla parete, sfruttava un angolo d’ombra
per dare alle
proprie membra un poco di riposo. Tra le dita, un sacchetto di carta,
contenente la loro colazione.
Era diventata una tradizione, da
quando il panettiere di
quella piccola cittadina aveva accettato di prenderlo come apprendista.
Così,
dopo il lavoro, che regolarmente cominciava molte ore prima
dell’alba, lui
l’aspettava lì, scomodo sul legno duro di quei
gradini, così che potessero
condividere il piacere di quella colazione con brioche alla marmellata
appena
sfornate.
Passandogli accanto silenziosa, anche
quel giorno fecero il
loro solito gioco: premurosa, Hermione gli passò una mano
tra i capelli e lo
svegliò chiamandolo piano. Tra le sue dita, che non avevano
più la carnagione
chiara della ragazza studiosa, quell’oro, filato da un fuso
stregato, risaltava
di riflessi di miele. Credette di poter quasi vedere la sua espressione
schiudersi in un sorriso, mentre, dopo che lui ebbe ricambiato il suo
buongiorno, andò ad aprire la porta. Cominciarono subito le
loro chiacchiere,
compiendo i pochi metri che li distanziavano dalla cucina: parlavano
del più e
del meno e di quanto, a volte, il meno fosse troppo e il più
troppo poco. Come
d’abitudine, lui si sarebbe seduto sul balcone, lei avrebbe
preso del succo d’arancia
rossa dal frigo e, poi, avrebbero preso a mangiare i loro croissant,
mentre,
tirandola piano per i fianchi, si sarebbe ritrovata tra le sue
ginocchia, ad un
sospiro di bacio.
Era proprio in momenti come questi
che Hermione avrebbe
voluto rinnegare il mondo magico: lei, la Nata Babbana, oramai non
più reietta
della società magica per quell’anello che portava
all’anulare destro, avrebbe
voluto rinunciare a tutti i suoi poteri e alla sua bacchetta, scappando
con lui
da quella Guerra infinita contro il Signore Oscuro che le aveva
sottratto fin
troppo. Perché Christopher Hunt sapeva farsi amare, per quel
suo tocco lieve e per
quel suo modo in cui era in grado di stringerti il viso tra le mani.
Eppure, pur sapendo che non avrebbe
neppure dovuto dare al
tempo la possibilità di tracciare il suo solco, lei non
riusciva a concedersi
quel lieto fine di fiaba che, in fin dei conti, credeva di meritarti.
Da che
era diventata uno degli stendardi del suo battaglione, nulla aveva
senso ai
suoi occhi se non in vista della Guerra. Da che aveva sbattuto la porta
in
faccia a Draco, all’inizio dell’estate, nessuno, se
non lui, avrebbe potuto
rendere realtà quell’utopia che l’amore
era diventato.
Nessuna donna completamente senziente
avrebbe potuto
disprezzare quelle tenerezze che lei e Chris si scambiavano, ma erano
solamente
le coccole di due bambini che si erano giurati amore eterno davanti ad
un
autorevole compagno di classe goloso di merendine, nulla in confronto a
quel
sentimento, ben più vero e reale, che Hermione aveva provato
con Draco. Proprio
quest’aspetto della sua relazione con il Malfoy,
però, era stato il suo più
grande errore, quello che non riusciva ancora a perdonarsi e che, con
buona
probabilità, mai avrebbe potuto superare: la
veridicità di quel loro rapporto,
si era tramutata fin da subito in un bisogno anche carnale, che
l’attesa non
aveva fatto l’altro che aumentare di intensità.
Come un amplesso, fare l’amore
con Draco l’aveva lasciata sfinita, desiderosa solamente di
lui e con il
bisogno sulle labbra d’averlo ancora tutto per sé,
di sentirlo fremere, come accadeva
a lei, sotto le sue carezze.
Tutto era accaduto
all’inizio di quell’estate, con una
spontaneità quasi disarmante, come se i loro corpi non
fossero stati fatti per
altro che toccarsi. Tutto era accaduto una settimana prima che lo
lasciasse.
***
I giorni, dopo aver lasciato
Hogwarts, trascorsero immersi
nella noia e nel dubbio. Le ore, quindi, trascorrevano piano, come se
tra le
sue mani vi fosse una spessa corda di canapa con cui qualcuno la stava
costringendo a trascinare un grosso masso. Continuava a salire rupi, le
cui
vette parevano irraggiungibili e, quando pochi passi la distanziavano
dalla
tanto agognata meta, qualcosa andava storto e la pietra cominciava a
rotolare,
senza che lei nulla potesse fare se non seguirla fino a valle.
Così si sentiva
Hermione, non capendo quale fosse l’ostacolo che non era in
grado di superare
per poter finalmente superare il traguardo. Continuava a cadere nei
suoi stessi
errori, negli stessi pensieri che non la conducevano in alcun luogo, in
quelle
frasi che le erano state confidate con ovvi secondi fini. E negli occhi
di
Drew, nella sua sicurezza, nella sua caparbietà, nella sua
folle e geniale
strategia d’attacco.
“Purtroppo” aveva
continuato, aggiungendo altre informazioni
a quelle che, dopo quella chiacchierata nel suo ufficio, Hermione
avrebbe
dovuto affrontare e digerire “una guerra non si vince solo
con i duelli e con
le guerre. E non bastano neppure ideali saldi e piena convinzione in
questi. Ci
vuole dell’altro: l’astuzia”. Lei, si era
limitata ad annuire, intuendo forse
dove quel discorso sarebbe volto, ma rifiutandosi di semplificare le
cose al
giovane uomo che aveva dinnanzi. “Silente si fidava
completamente di Piton, ma
lui era un traditore e lo ha ucciso. Ora l’Ordine della
Fenice non ha più un
leader, Hogwarts ha perso la propria guida e non abbiamo la
benché minima idea
di quante e quali informazioni sono giunte all’orecchio del
Signore Oscuro” la
sua pausa, ben studiata, ottenne l’effetto desiderato:
aprirle gli occhi.
“Hermione, oggi non abbiamo
perso solamente una delle tante
battaglie della guerra! Oggi il nostro migliore plotone di uomini
è stato
sterminato!”
Dal punto di vista di Drew,
così come da quello di chiunque
fosse in grado di estraniarsi dai drammi personali per avere una
visione
d’insieme più ampia, la situazione non era ancora
tragica, ma poco ci mancava.
La vittoria s’era fatta miraggio, così come la
sconfitta, morso di vipera, aveva
già messo in circolo il proprio veleno: la
società magica, anche nei suoi
capillari villaggi, si stava tingendo del colore della paura. Tutto si
era già
ridotto ad un timoroso vociferare, i negozi venivano chiusi prima che
il sole
tramontasse e nessuno, oramai, osava uscire di casa la sera. I
pettegolezzi, infatti,
dicevano che i Mangiamorte stessero progettando delle violente retate.
Così, lei aveva trascorso
quella prima settimana lontana da
Draco in una solitudine pressoché completa, se escluse le
poche visite del suo
vicino Chris che, nonostante i suoi continui rifiuti, continua a
riempirla
d’attenzioni. Lei, però, imperturbabile e troppo
innamorata, si limitava a non
calcolarlo, dandosi alla lettura degli ultimi libri che il professor
Kennan le
aveva suggerito e rispondendo alle sempre più frequenti
missive del suo
fidanzato. Le capitava spesso, inutile negarlo, di sorridere, mentre
scriveva
poche parole alle domande a volte troppo insistenti del Malfoy,
rigirandosi tra
le dita quel piccolo ciondolo a forma di “D” che
pendeva dal suo braccialetto.
Quel giorno, non era cominciato poi
in maniera differente
dagli altri. Se ne stava seduta sulla sua sedia a dondolo, regina
indiscussa
del porticato di casa sua, con un libro pesante che sfogliava distratta
ed una
coperta leggera in grado di ripararla dal vento di quella giornata di
temporali
estivi. La pioggia, scrosciante, le faceva compagnia.
Sbucò dal nulla, mentre,
camminando lungo il viottolo di
casa sua, si avviava verso di lei con passo sicuro e deciso.
“Hey, ti sono
mancato?” disse Draco con voce bassa e
gutturale, atteggiandosi come poche volte lo aveva visto fare.
Inutile dire che la ragazza era
scoppiata a ridergli in
faccia, ottenendo un’occhiataccia offesa.
“Per niente,
bambola!” gli rispose a tono, mentre cercava,
asciugandosi le lacrime dagli occhi, di riassumere un minimo di
serietà. Quando
alzò gli occhi, lui l’aveva già
raggiunta. Percepì le sue mani bagnate, posate
lungo il suo viso, mentre le dita, fredde, le sfioravano il collo. Si
era persa
nei suoi occhi grigi come la sfumatura più chiara delle
nuvole temporalesche
che avevano inzuppato i suoi vestiti. Draco non fece nulla, se non
posarle un
bacio innocente sulle labbra, facendo di tutto pur di non essere
costretto a
sciogliere così precocemente quel ritrovato legame con il
profumo alla vaniglia
di lei. Credeva quasi di poterlo assaporare sulla propria lingua, tanto
da
ritrovarsi costretto a deglutire: non poteva farci nulla, le sue
papille
gustative erano in visibilio.
Continuò a guardarla,
mentre le sue palpebre, piano, presero
a celare le iridi nocciola e mentre la sua mano, docile, si posava
sulla sua
maglietta bianca e zuppa, all’altezza del suo cuore. Avrebbe
sentito quanto
questo pulsava come un forsennato per lei, sebbene già la
sua presenza lì fosse
un chiaro indicatore della sua follia, visti i rischi che correva nel
farlo.
Voleva che lo sentisse, voleva che ne fosse sicura, ma sentire
pronunciare
qualche parola a riguardo, a suo parere, avrebbe sicuramente minato la
sua
mascolinità. Per questo, giocò
d’anticipo, rispondendo alla sua futura
stilettata con un astuto affondo.
“Invece, sì, ti
sono mancato”. Perché il loro amore era
fatto anche di questo. Nessuno dei due voleva mostrarsi debole agli
occhi
dell’altro ed entrambi cercavano di celare, sotto una corazza
di forza e
determinazione, le proprie debolezze. Erano così mal
assortiti, da risultare
un’accoppiata perfetta; erano talmente opposti da sembrare
quasi simili. Perché
conoscendosi, amandosi, si erano circumnavigati vicendevolmente,
finché nel
riflesso del proprio amante avevano rivisto se stessi e i propri timori.
Hermione non aveva avuto bisogno
d’utilizzare la propria
fantasia per intuire cosa si celasse sotto quell’indumento
fradicio d’acqua: la
maglietta, infatti, si era perfettamente attaccata alla pelle di Draco,
delineando in maniera chiara quei suoi muscoli appena accennati che,
dal
torace, scendevano ipnotici fino agli addominali. Alzarsi per avviarsi
verso
casa fu una sofferenza atroce perché questo aveva implicato,
ovviamente,
sfuggire da quella presa così dolce e ferrea in cui il
ragazzo, con suo estremo
piacere, la aveva costretta. Sì, ne aveva sentito la
mancanza e nulla, neppure
l’odore di lui ancora impregnato nei suoi vestiti
né quel braccialetto che le
aveva regalato, aveva potuto anestetizzare, anche per poco, quella
così
piacevole sofferenza. Per questo, nel compiere quel gesto che
allontanò i loro
corpi, afferrò saldamente la sua mano, conducendolo
all’interno.
“Ti prenderai
qualcosa” continuava a ripetere, troppo felice
di quella sorpresa perché il suo cervello fosse in grado di
formulare un
pensiero comprensibile ad altri “Devi toglierti quella
maglietta zuppa”.
Bastò il tempo, una volta
giunti nel salotto, per farle
comparire tra le mani un ricambio asciutto, affinché,
voltandosi verso il
fidanzato, si ritrovasse la sua maglietta bagnata in faccia. La
esiliò lontano,
con un rapido incantesimo non verbale, mentre, stendendo bene il
braccio e
puntando la sua bacchetta, si preparava a ridurlo in cenere.
Sul suo volto, un ghigno compiaciuto.
Era di nuovo rimasta vittima
di uno dei suoi ridicoli tranelli.
“Mi piacciono le ragazze
che prendono l’iniziativa” ridacchiò
“Dai, slacciami tu la cintura”. Concluse il tutto,
immancabilmente, con un
occhiolino che, per quanto sarcastico, aveva evidentemente un qualcosa
di sensuale
e provocatorio.
No, non gliel’avrebbe data
vinta. Non così facilmente,
almeno.
“Subito, amore”
gli rispose a tono, mentre già nella faccia di Draco si
dipingeva “Prima, però,
vado a prendermi un caffè, dicono che sia un forte
eccitante”. Gli voltò le
spalle, volendo sorridergli compiaciuta, ma ritrovandosi a mordersi il
labbro
inferiore.
Sentì solamente le sue
braccia sicure attorno alla vita e il
petto nudo di lui contro la propria schiena. Poi, poté
avvertire solamente le
sue labbra che risalivano piano la sua spalla, percorrendo la piccola
insenatura della clavicola e soffermandosi alla base del collo.
“Va bene, questa volta hai
vinto tu” sussurrò, avvicinandosi
al suo orecchio “Mi arrendo”.
Le scostò piano i capelli,
ricci e folti, svelando d’improvviso
le linee morbide del suo viso. Il respiro caldo di Draco ben presto
venne
sostituito da baci, con cui abilmente tracciò il profilo
della sua nuca. Strinse
piano tra le labbra calde una piccola porzione di pelle all'altezza
della
mandibola, mentre Hermione brandiva, in maniera piuttosto imprecisa, la
propria
bacchetta. Con un tonfo sordo, che fece sobbalzare entrambi, il
divano-letto si
aprì e il ragazzo sorrise compiaciuto mentre, prendendola in
braccio, annullava
la distanza da quel giaciglio improvvisato. Alcune cose si persero per
strada,
come inutili suppellettili quali erano. La bacchetta
d’Hermione, la camicia di
suo padre che voleva dare a Draco affinché si coprisse, le
scarpe d’entrambi.
L’unica cosa che la ragazza ebbe la coscienza di portarsi a
tutti i costi con
sé fu quella coperta troppo piccola per coprire entrambi,
che si era trascinata
fin dentro dalla sua sedia a dondolo.
Si ritrovò prigioniera
sotto di lui, incarcerata dal
materasso troppo duro e dal corpo di Malfoy.
“Sei bellissima”.
Quelle parole, unite al movimento
ondulatorio e periodico di
quel ciondolo a forma di “H” legato al collo di
Draco, la resero ancora più
desiderosa di fare l’amore con lui. Flettendosi in avanti,
cingendogli il collo
con il braccio sinistro, si presentò alle porte del suo
sorriso e, dopo aver
dovuto bussare per ben poco tempo, ottenne finalmente
l’accesso a quel tanto
agognato Eden: la sua bocca.
Non era lui a condurre quella lenta
danza, così come non era
neppure Hermione. Pareva, infatti, che i loro due corpi si muovessero
perfettamente secondo le esigenze dell’altro, in
un’armonia che difficilmente
avrebbero saputo spiegare. Così, mentre lui
cominciò a sfilare piano la
canottiera della ragazza, questa piegò il proprio busto nel
tentativo di
aiutarlo, alzando, poi, le braccia, affinché quel tessuto
leggero andasse a
fare compagnia a ciò che già si trovava sul
pavimento.
La loro non era fretta, ma
incombenza, bisogno. Per questo,
la mano di Draco corse a chiudersi a coppa sul seno di Hermione e lei,
lentamente,
percorreva la sua schiena e si infilava nei suoi pantaloni. Poi, furono
baci e
carezze. E sospiri liberatori. E gemiti non trattenuti.
Si liberarono definitivamente dei
pantaloni e, poi, anche di
quella così scomoda biancheria. A coprire i loro corpi, nudi
ed accaldati,
solamente quella coperta troppo piccola e che lasciava scoperti i loro
piedi.
Scambiandosi un bacio, i loro corpi si persero, divenendo
l’uno quello
dell’altro ed impedendo ad entrambi di stabilire i propri
confini. Non era un
semplice armistizio, il loro, era amore. Il modo in cui Draco
l’accarezzava i
capelli e le sfiorava il seno con le labbra. Il modo in cui Hermione si
stringeva al proprio amato e mordicchiava, sorridendo, la sua pelle
morbida.
Quelle spinte, lente e costanti, con
cui protrassero per
molto tempo quel loro piacere e che si conclusero con un amplesso che
gridava
liberazione e felicità.
Amarono tutto dell’altro,
anche il sudore e la stanchezza.
Per questo, dopo aver taciuto a lungo, dopo che il loro corpo si
riprese dall’euforia
di quell’intimo contatto, le parole che si scambiarono
rimbombarono potenti e
sincere. Non era l’eccitazione a parlare, non era il piacere
ad imporsi come
narratore, ma i loro sentimenti, ciò che per lungo tempo
avevano maturato, ciò
che ora gli aveva nutriti con linfa vitale.
“Draco, ti amo”
gli disse, mentre si faceva spazio sotto la
sua spalla e contro il suo rannicchiandosi addosso a lui.
“Ricordatelo anche domani,
quando ci sveglieremo, perché
dopo oggi, se tu ritrattassi, potrei morirne” disse lui, con
il finto intento
d’apparire scherzoso e non risultandolo affatto. Si
piegò per posarle un casto
bacio sulla guancia e per stringersela ancora più vicina,
così da vincere, dopo
tutti quei brividi che il fare l’amore aveva dato loro,
quelli che il freddo li
stava procurando.
“Io ti appartengo,
ricordi?”.
Il risveglio, uno dei più
belli della sua vita, le aprì gli
occhi. Tra le sue mani, vi era la sinistra di Draco. A pochi centimetri
dai
suoi occhi, svettante sulla pelle pallida e nobile del ragazzo, il
Marchio
Nero. L’inchiostro, ancora vivido come se quel tatuaggio
fosse appena stato
fatto, tracciava con eccessiva precisione i tratti d’un
teschio e della sua
lingua, ispide velenoso. Ricadde in quell’incubo, nei visi
cianotici dei suoi
genitori morti, nel corpo scomposto di Silente riverso al suolo, nel
sangue che
sgorgava dalle ferite durante la Battaglia di Hogwarts, nella crocchia
scomposta della McGranitt che dava battaglia. E le parole di Drew le
sovvennero, acquisendo un nuovo significato, una diversa angolazione,
una
spiacevole soluzione.
Una guerra
non si
vince solo con i duelli e con le guerre. E non bastano neppure ideali
saldi e
piena convinzione in questi. Ci vuole dell’altro:
l’astuzia.
Nessuno avrebbe potuto farlo, se non
lei. Il suo titolo
onorifico le avrebbe spianato la strada, il suo talento le avrebbe
aperto le
porte, il suo coraggio le avrebbe permesso di lasciarsi alle spalle
ciò a cui
teneva per dare una nuova speranza all’intero Mondo Magico.
Lei, Hermione
Granger, l’Ultima Matriarca, la Traditrice.
Non ebbe più il coraggio
di guardarlo, così, quando Draco si
svegliò, si limitò a sorridere e a rispondere in
maniera evasiva.
“Non sono stato
all’altezza delle tue aspettative?” le
chiese Draco, incredulo per primo d’aver osato pensare ad una
tale fesseria.
“A dire il vero, dopo Krum
e la storia del freddo siberiano,
pensavo che non avrei potuto incontrare qualcuno così poco
fornito” sospirò
teatrale “Per fortuna, Madre Natura con Ron è
stata veramente molto generosa”
L’occhiata che il fidanzato
le rivolse valse più di mille
parole. Cercando di mantenere la calma, posò, il vassoio con
i biscotti che era
andato a prendere in cucina per fare colazione. Incrociò le
braccia sul petto,
ancora nudo, come del resto era anche la restante parte del suo corpo,
fatta
eccezione per quella coperta dai boxer neri.
“Tu e Weasley
l’avete veramente fatto? Speravo fosse una
leggenda metropolitana, come quella dei coccodrilli nelle
fogne!” esclamò
esterrefatto, per poi accorgersi di quanto fosse offensiva la frase
della
ragazza. “Aspetta” disse, incredulo, sorridendo
nervoso “Tu mi stai dicendo che
la donnetta di Lavanda Brown è … ma da quando ce
l’ha?”
La sua espressione era realmente
sconcertata. Hermione lo
vide togliersi i boxer serio.
“Giuralo” la
intimò “Adesso”.
No, allontanarlo non sarebbe stato
facile.
***
La casa, dopo che Chris se ne era
andato, era crollata
miseramente in un terribile silenzio. Più volte, nei mesi
trascorsi, era
capitato che il ragazzo fosse così stanco da chiederle
l’ospitalità del suo
divano ed Hermione, sorridendogli cortese, non gli aveva mai negato
questo
privilegio, visto l’affettuoso comportamento che teneva
sempre nei suoi
riguardi. Eppure, se lo avesse fatto quel giorno, sarebbe stata
costretto ad
allontanarlo. Tutto era evoluto così rapidamente da non
permetterle di
comprenderlo veramente: era già giunto il momento.
Sentiva sulla pelle, quella maschera
soffocante che aveva
deciso di indossare e percepiva chiaramente quanto ogni giorno
trascorso portasse
quel malefico oggetto ad adattarsi ai suoi lineamenti, diventando
irremovibile.
Aveva perso se stessa, in un bacio che Draco le aveva rubato, ed aveva
deciso
coscienziosamente di farlo. Aveva rinunciato a se stessa e al proprio
futuro,
nel vaneggiante speranza di poterne dare uno alle future generazioni.
Ora, guardandosi allo specchio, non
riusciva più a
riconoscersi: non era solo il fisico ad aver subito drastici mutamenti,
ma
anche il suo spirito. Il suo grande coraggio e la sua predisposizione
al
sacrificio l’avevano condotto a tutto ciò e, ora,
non aveva più la possibilità
di ripercorrere a ritroso i propri passi. Anche perché, in
fin dei conti, non
ne aveva la benché minima intenzione.
Lo aveva capito a sue spese che la
menzogna non è solamente
un’attitudine, ma un vero e proprio talento. E lei,
l’onesta Gryffindor, ne era
completamente sprovvista, così si era ritrovata obbligata a
dover imparare
anche questo, nel breve tempo che aveva a disposizione.
Il vapore della doccia calda
condensandosi sulla superficie
che rifletteva i suoi tratti un tempo amorevoli, si accumulava in gocce
d’acqua, che, percorrendone l’intera lunghezza,
sparivano in un insenatura del
legno. I lineamenti del suo viso si erano fatti più
acuminati, dandole un tocco
di femminilità quasi inusuale, che aveva annullato
completamente quello che era
il pallido ricordo, dopo la morte dei suoi genitori, delle sue gote
paffute da
ragazzina. La corsa mattutina aveva diminuito ancora il suo peso,
mentre quella
serale aveva aumentato la sua muscolatura. Lo yoga quotidiano, poi,
aveva reso
più tonico ed elastico il suo corpo. Non aveva potuto fare
molto per la sua
forza, ma un intensivo allenamento di karate, suddiviso su quattro
pomeriggi
settimanali, le aveva fornito gli aspetti basilari della tecnica di un
buon
combattimento corpo a corpo e dell’autodifesa. Infine, con
qualche visita alla
piscina comunale, cui Christopher si era sempre gentilmente offerto di
partecipare, aveva migliorato la sincronia dei suoi movimenti.
Ovviamente,
tutto ciò aveva avuto molte spiacevoli controindicazioni: di
rado le poche ore
che si concedeva per dormire erano sufficienti a farle risanare la
stanchezza
data da questo sforzo, spesso i dolori erano tali da compromettere la
sua
prestanza fisica e molte cose del suo nuovo corpo non le piacevano
affatto. Per
esempio, il suo seno, quello che a contatto con le labbra di Draco la
faceva
fremere, si era rimpicciolito. Almeno una taglia, ad occhio e croce,
anche se
le sue ricerche a riguardo si erano concluse ben prima di scoprire
quanto
marcato fosse questo danno. Una fortuna, le aveva fatto notare Drew,
nel
tentativo di consolarla invitandola a guardare il proverbiale calice
riempito
per metà, visto l’impaccio che questo avrebbe
potuto arrecarle durante un
duello magico. La stessa motivazione, in quest’ultimo caso
ben più fondata,
l’aveva spinta a tagliarsi i capelli: entrata nel salone di
una sua vecchia
amica di famiglia con i suoi lunghi boccioli perfetti e ottenuti grazie
ad una
abbondante dose di Tricapozione Lisciariccio, ne era uscita con un
taglio ben
più corto e decisamente meno impegnativo. Eppure, nonostante
il taglio deciso,
questo non aveva leso in alcun modo l’innata delicatezza del
gentil sesso. Non
era divenuta più bella, ma non vi era stato in lei neppure
alcun imbruttimento:
Hermione Granger era semplicemente diversa.
Finalmente, poi, durante
quell’estate di metamorfosi, aveva
realmente capito il senso di tutti quei libri che il professor Kennan
le aveva
fatto leggere durante l’intero corso dell’anno. Con
questi, infatti, si era
potuta costruire una solidissima base che aveva sveltito notevolmente
quelle
lezioni private che le impartiva nella segretezza della taverna della
dimora
dei suoi genitori, che la ragazza aveva stregato abilmente
così che questa
evitasse d’andare distrutta nell’arco della prima
seduta. I muri riflettevano
le maledizioni e le fatture, ricreando il clima di una vera e caotica
battaglia, il pavimento era disseminato di ostacoli ed oggetti
utilizzabili
durante lo scontro e, infine, si era procurata alcuni manichini con cui
continuare ciò che aveva iniziato con Drew. I due, su
volontà d’entrambi, si
vedevano tutti i giorni, all’imbrunire. Lui le aveva
insegnato buona parte di
ciò che era a conoscenza della magia oscura, non
tralasciando l’Occlumanzia e la
Legilimanzia. Spingendola più volte tra la vita e la morte,
torturandola come
solo un vero avversario desideroso d’ucciderla avrebbe fatto,
l’aveva resa una
duellante ancora più abile di ciò che
già era, ampliando gli orizzonti della
sua conoscenza e permettendole di reggere uno scontro con un qualsiasi
Mangiamorte, nonostante entrambi sapessero che, nel caso in cui tutto
fosse
andato come speravano, sarebbero dovuti essere gli Auror la sua
principale
fonte di pericolo.
Si era occupata, tra
l’altro, anche della protezione di
quell’abitazione da possibili attacchi, aumentando gli
incantesimi difensivi e
potenziando quelli già esistenti. Aveva stregato anche un
paio delle piante del
giardino, per ogni eventuale evenienza. Non si era dimenticata, poi, di
far aggiungere,
compilando non poche scartoffie per il Ministero, anche il suo camino
alla rete
nazionale di Trasporto Magico.
Infine, aveva troncato il suo
fidanzamento, lasciando Draco
senza molte spiegazioni.
Non poteva fare altrimenti, aveva
deciso che questa sarebbe
stata la sua strada e non si sarebbe voltata indietro, neppure per
piangere.
Smise di rispondere alle lettere che quotidianamente gli mandava via
gufo,
anche solo per chiederle come stava. Lui, preoccupato, si
presentò
immediatamente a casa sua, ma Hermione non si fece trovare. Tutto
mutò in paura
ed ansia. Poi, Malfoy ricevette quel suo ultimo messaggio. Riempito di
scuse
che non avrebbe mai accettato, gli rivelò
d’essersi innamorata di Christopher
Hunt e che, nel suo cuore, non c’era più spazio
per lui e per il futuro che,
insieme, avrebbero avuto.
Inutile dire che nessuno avrebbe
potuto credere a quelle
motivazioni.
Il suo già ex-fidanzata
bussò urlando alla sua porta. Fu
costretta ad aprirgli e a reggere il suo sguardo.
Cercava ancora di capire come vi era
riuscita, ma non
trovava ancora alcuna risposta che non fosse la sua disperata
accettazione. Del
suo destino, della fine che la attendeva.
***
“Se vuoi lasciarmi, devi
avere il coraggio di dirmelo. Devi
guardarmi negli occhi”.
Questo gli aveva chiesto.
Lo aveva fatto.
Scosse piano il capo, trattenendo
appena un’espressione di
noia. Incrociò le braccia sotto al petto. I suoi occhi si
fossilizzarono su
quelli grigi di lui.
“Tra noi è
finita. Ora, non in un futuro prossimo” disse,
scandendo piano le parole “Ora”.
Vide i suoi occhi farsi lucidi,
mentre chinava il suo
sguardo e, rabbioso, tirava un pugno contro il muro. Si ferì
alla mano, da cui
prese a sgorgare sangue in maniera costante. Lo vide voltarsi, pronto
ad
andarsene sconfitto. Ma non era soddisfatta, non era abbastanza. Doveva
conficcare più in profondità quello stiletto. Lo
chiamò. Si volto con uno
strano sorriso, le gote segnate da lacrime che non aveva neppure il
coraggio
di versare. Le
avrebbe perdonato tutto,
anche questa sua crudeltà, pur di riaverla.
Lei allungò la mano verso
di lui, reggendo tra le dita il
braccialetto che le aveva regalato. Il segno del loro amore.
Vedere il suo volto cambiare
espressione in maniera
istantanea la fece quasi morire. Draco cercò di dire
qualcosa, ma le parole gli
morirono sulle labbra prima d’acquisire un qualsiasi suono.
Gli voltò le spalle
e si chiuse la porta di case alle spalle.
Protetta, dal suo sguardo e dal
desiderio di chiedergli
scusa. Vinta, dal peso di ciò che aveva deciso
d’affrontare.
Dopo molte settimane di preparazione,
il momento cruciale
era giunto. Lo studio, la pratica, i combattimenti, il dolore. Tutto
era
finalizzato solamente a questo. Lei che a malapena era in grado di dire
una
bugia, avrebbe dovuto mentire a tutti, se stessa compresa, per entrare
nelle
grazie di Lord Voldemort. Sicuramente sarebbe stata sottoposta ad
alcune prove
e lei doveva dimostrare non solo d’essere in grado di
superarle, ma anche di
poterlo fare senza essere costretta neppure ad impegnarsi. Non si
poteva
accontentare d’essere brava, se voleva trarre in inganno il
Signore Oscuro,
doveva essere eccelsa.
Era già notte. Malfoy
Manor, ora sede principale del
convoglio dei Mangiamorte, si stagliava ancora più oscura su
quella volta
celeste d’un tetro blu notte. Non una stella illuminava il
suo cammino e anche
la Luna sembrava averle voltato le spalle. Dell’intero
complesso, tra le
antiche pietre che componevano le pareti, solo un paio di finestre al
secondo
piano trapelavano, con le luci arancio e flebili che emanavano, una
qualche
forma di vita all’interno.
Il suo incedere, su quelle
décolleté laccate di nero e
leggermente aperte sul davanti, era sicuro e fiero. Poco importava che
nel suo
petto il cuore sembrasse voler lacerare la sua stessa carne, era
l’apparire
quello che solo aveva importanza. Nascosto sotto un cappuccio calato
sul viso,
incorniciato da un unico ciuffo più lungo degli altri, il
suo sguardo era
fermo. Nel pungo destro, ben salda, la sua bacchetta, pronta a scattare
ad ogni
evenienza. Hermione si avvicinò al portone di ferro battuto,
studiandone per
pochi istanti i contorti arabeschi e le cime acuminate. Intravide, con
non poca
fatica vista la sua inesperienza in quell’ambito, una traccia
magica. Un
potente incanto oscuro, una violenta maledizione che avrebbe colpito
chiunque
avesse valicato quella soglia senza permesso. Un potente virus, in
grado di
condurre alla morte in pochi mesi. Una variante meno aggressiva di
quella che,
ora lo sapeva, aveva infettato Silente al braccio sinistro. Impossibile
da
arrestare, ostica persino da rallentare. Nonostante ciò,
sapere che il vecchio
Preside di Hogwarts sarebbe morto comunque non aveva reso la sua morte
meno
ingiusta.
Un servo le si avvicinò,
chiedendole chi fosse.
“Hermione Granger Bright.
Riferisca al suo Padrone che sono
venuta ad offrigli i miei servigi”
Dopo pochi minuti, l’alta
inferriata si aprì e un elfo
domestico la condusse all’interno di quella che, un tempo,
era stata la casa di
Draco. Troppo presa da ciò che stava per fare,
lanciò un’occhiata
disinteressata e prese a seguire la creatura salendo l’ampio
scalone che
conduceva ai piani superiori.
Il rumore dei suoi tacchi scandiva i
trascorrere dei
secondi, così come il lieve frusciare di
quell’abito lungo fino al ginocchio
sembrava essere deciso a contare le contrazioni del suo cuore. Non era,
quella
che indossava, la tenuta migliore per tenere un combattimento, ma aveva
scelto
qualcosa di sufficientemente ampio da non impedirle il movimento. Di
nuovo,
tutto ciò che aveva da giocarsi era il suo aspetto esteriore
e quello che
questo suggeriva.
Si fermarono dinnanzi ad una grande
porta di mogano a doppia
anta. Hermione trasse un grosso respiro. Quando questa si
aprì, entro con passo
sicuro. Una grande stanza, illuminata da un prezioso lampadario di
cristalli di
Boemia e con ampie vetrate. Non era questa la zona che
dall’esterno aveva visto
illuminata, ma sembrava che la riunione, visto il suo inatteso arrivo,
fosse
stata spostata di ubicazione. Molti furono gli sguardi che ricevette,
ma su
alcuni si soffermò più che su altri. Bellatrix
Lestrange, colei che aveva
ucciso i suoi genitori,
pareva essere
curiosa e divertita, mentre, al contrario, Fenrir Greyback, che aveva
ferito
gravemente Bill Weasley, non sembrava essere molto felice della sua
comparsata,
cui avrebbe posto facilmente rimedio sbranandola. Ma tra tutti, non
poté non
soffermarsi sul volto imperturbabile e ambiguo di Piton,
l’assassino di
Silente. In quella stanza, era riunite tutte quelle persone che aveva
distrutto
la sua esistenza e delle persone a lei carica.
Lord Voldemort ridacchiò,
interessato alla sua presenza lì e
a quel suo strano e suicida coraggio.
Non avevano i volti coperti dalle
loro solite maschere: da
quel luogo, lei sarebbe uscita Mangiamorte o cadavere. Non
c’era altra via di
fuga, né alcuna alternativa da vagliare.
“Allora, signorina Granger,
cosa la porta nella mia umile
dimora?” esordì il Signore Oscuro con la sua voce
sibilante “O preferisce
essere chiamata Bright?” concluse con un ghigno malefico sul
viso.
Fu il caos. Qualcuno
cominciò a parlottare, altri a
ridacchiare senza un motivo apparente.
Nella folla, qualcuno
parlò a voce troppo alta.
“È
l’Impura!”
Hermione lo squadrò
dall’alto in basso.
“Avery Junior”
disse tranquilla “Ho studiato il suo albero
genealogico, di recente, e secondo le mie ricerche il suo sangue
è ben meno
nobile del mio, semplice Nata Babbana che ha avuto la fortuna di
divenire parte
di una delle famiglie più antiche
dell’aristocrazia magica inglese”
continuò,
guardandolo con aria di sufficienza “Ma del resto, se non
fosse risaputo che è
completamente sprovvisto di astuzia, avrebbe avuto la furbizia di
starsene in
silenzio, visti i suoi disastrosi trascorsi. Mi dica,
com’è stata la sua
esperienza ad Azkaban? Certo che sfuggire ad una prima accusa
dichiarandosi
sotto l’effetto della Maledizione Imperius per poi venire
incarcerato a causa
di un manipolo di ragazzini nell’Ufficio Misteri non le fa
proprio onore …”
Aveva toccato il nervo scoperto
giusto. La reazione
dell’uomo, fu immediata. Lo vide impugnare la bacchetta e
questo le bastò per
ritenere quel gesto un attacco.
Il suo braccio compì un
rapido vortice nell’aria, mentre lei
si spostava in posizione d’attacco. Prevedibilmente,
l’incanto andò a segno. Le
sue pupille parvero cominciare ad ingrandirsi, fino ad inglobare
completamente
l’iride azzurra e il biancore dell’orbita. Se non
fosse stato per quel lieve
rigonfiamento al di sotto delle palpebre, si sarebbe detto che qualche
essere
mostruoso glieli avesse cavati.
Cadde al suolo stramazzato, senza
emettere alcun gemito.
Il rumore di due mani che cozzano tra
di loro rianimò la
stanza. Lord Voldemort la stava applaudendo.
“Magia Oscura di livello
molto avanzato” motivò “Una
piacevole sorpresa, signorina”
Hermione chinò il capo in
una reverenza che non si faceva il
minimo problema a mostrare un’insita superbia.
“Malfoy”
continuò l’Oscuro Signore “Sciogli
l’incanto e
riporta tra di noi quell’idiota del tuo compagno”.
Dalle retrovie, Lucius Malfoy, ancora
rinchiuso ad Azkaban
per l’opinione pubblica, uscì con passo incerto e
testa bassa. La Granger
mascherò alla perfezione il suo stupore, con
un’espressione schifata.
“I Dissennatori andrebbero
istruiti meglio” commentò con
cattiveria.
Il suo unico interlocutore si
alzò dal suo trono. Le fece
cenno d’avvicinarsi e lei così fece.
“Dimmi, cosa mi
offri?” le domandò, toccandole il viso con
la sua mano diafana.
“Potrei offrirle
informazioni, ma so che non ne ha bisogno”
gli rispose, sorridendo a Piton “Quindi, le offro la
possibilità di divenire
immortale”
Quello che un tempo era stato il
giovane Tom Riddle si fece
improvvisamente serio.
“Interessante”
sussurrò Voldemort “Ma impossibile. Ho
già
fatto ogni genere di ricerca, a riguardo, e ho vagliato tutte le
possibili
alternative, le quali, però, fino ad ora si sono dimostrate
tutte piuttosto
deludenti”
Sul volto della ragazza si dipinse
quell’espressione
compiaciuta che molte volte aveva riservato ai suoi insegnanti e ai
suoi
compagni di classe.
“So tutto a
riguardo” esordì annuendo piano “Il
sangue
d’unicorno, la pietra filosofale, il rito con cui
è stato riportato in vita. Ritengo,
tuttavia, che non abbia ancora vagliato l’ipotesi del
Tredicesimo modo di
utilizzare il sangue di drago”
Venne bruscamente interrotta dal mago
oscuro.
“Sono solamente
dodici”
Hermione colse la palla al balzo.
“Sono dodici quelli che
Silente ha dichiarato pubblicamente.
In realtà, però, se ne dovrebbe annoverare un
altro che, però, è rimasto sempre
abilmente celato. Si tratta di un progetto segreto, presente in
un’unica forma
manoscritta”
“Mi stai dicendo che quel
vecchio pazzo è riuscito a
ottenere la chiave per l’immortalità?”
“Lo trova poi
così improbabile? Se non erro, è stato proprio
quel vecchio pazzo, nel suo periodo migliore ovviamente, a creare la
Pietra
Filosofale assieme al celebre Nicholas Flamel. E vogliamo disquisire,
per caso,
del Fuoco Gubraitiano, l’unica fiamma in grado di
non spegnersi mai?
Risulterebbe ovvio a qualunque stolto che Albus Silente era
particolarmente
interessato a questo concetto. Non era, del resto, una rarissima fenice
il suo
animale da compagnia?”. Era questo il suo affondo, la
strategia che aveva
accordato con Drew. Ed entrambi erano pronti a svelare il mistero che
Silente
aveva raccontato al professor Kennan prima che questo abbandonasse
Hogwarts per
partire alla caccia dell’assassino della propria madre.
Vide nei suoi occhi una vena
d’interesse.
“E tu sai dove questo si
trova?”
“All’interno di
Hogwarts, ben protetto in un luogo segreto.
Non ne conosco l’esatta collocazione, ma sono sicura che, se
potessi svolgere
qualche ricerca all’interno della scuola, potrei
trovarlo”.
Questo era il suo obbiettivo.
Riuscire a diventare un occhio
per Voldemort, all’interno della scuola, ora che il nuovo
Preside si era
istaurato e che le misure di protezione, dopo quella inaspettata
ribellione nei
confronti del Ministero, erano aumentate. Per un Mangiamorte non
sarebbe stato
semplice infiltrarsi all’interno, ma, in fin dei conti, anche
prima di Marcus
Belby ciò sembrava pressoché impossibile.
In quell’istante, gli
sovvenne del ragazzo e lo cercò con lo
sguardo. Quando lo trovò, vide in lui solo lo spettro di
quello che era. La
punizione per non aver ucciso Silente non doveva essere stata semplice
da
superare.
“Severus, ti prego, offri
da bere alla nostra graditissima
ospite” disse improvvisamente il Signore Oscuro.
L’attimo cruciale. Vita e
morte si basavano solo su questo.
Veritaserum. Impossibile da
riconoscere, non in quel
bicchiere d’acqua, almeno. Tuttavia, Drew aveva supposto che
avrebbe dovuto
superare questa prova. Era stata una tortura quotidiana, a cui si era
dovuta
sottoporre. Alla fine delle loro sezioni di allenamento, dopo che lei
era stata
costretta ad assumerne alcune gocce e dopo che il suo insegnate privato
l’aveva
tempestata di domande, ben poche erano le cose che poteva definire
private.
Nell’arco di un’estate, il professor Kennan era
venuto a conoscenza di molti
dei suoi segreti, da ciò che provava nei confronti di Draco,
ai suoi timori per
il futuro.
Alla fine, però, sebbene
non potesse in alcun modo mentire
sotto l’effetto di quella pozione, era riuscita a controllare
i suoi pensieri e
a formulare risposte che, pur tralasciando una parte della
verità, non potevano
essere definite false. Assuefazione da Veritaserum, l’unico
metodo per ridurne
gli effetti.
Bevve quindi dal bicchiere senza
timore, psicologicamente
pronta a rispondere alle domande che il Signore Oscuro le avrebbe porto.
“Per quale motivo sei
qui?”
“Per la gloria”.
La gloria che portarlo alla sconfitta
definitiva le avrebbe arrecato.
“A cosa sei
disposta?”
“A tutto ciò che
sarà necessario”. A tutto ciò che
sarà
necessario per ottenere il mio unico obbiettivo.
“Ucciderai chiunque si
metterà sulla tua strada?”
“Sì”
disse, senza alcuna remora.
“Allora, il tuo primo
bersaglio sarà Drew Kennan” disse,
pronto ad assistere glorioso a qualsiasi reazione la ragazza avesse
avuto. Sul
suo volto, però, c’era solo risoluzione.
“Se è questo che
desidera, così sia” gli rispose, quasi
annoiata da quell’incarico. Nessuna domanda, ergo nessuna
bugia che il
Veritaserum avrebbe potuto svelare.
Anche perché, stranamente,
sentiva l’effetto di quel
distillato meno soffocante.
“Perfetto, Hermione.
Porgimi il braccio”
Quando la punta della sua bacchetta
toccò la sua pelle, le
stilettate di dolore raggiunsero galoppanti la sua testa. Avrebbe
voluto
urlare, ma non lo fece. Era stata marchiata. Come un animale.
Come una traditrice, quale era.
***
Non sapeva su cosa concentrare le sue
preoccupazioni, se sul
duello che stava per tenere con Drew o se su
quell’eredità che Silente le aveva
lasciato e che non riusciva ad interpretare. Non era l’unica,
anche Harry, Ron,
Draco, Blaise e Daphne avevano ricevuto qualcosa dal Preside. Questo
l’aveva
spinta a pensare che si trattasse d’un indizio per la ricerca
degli Horcrux, quindi,
non sapendo se e quando avrebbe rivisto l’unica persona a
conoscenza del suo
segreto, doveva riferirgli tutto quello che ne aveva carpito durante il
loro
combattimento. Un appunto in penna, su una delle tante pagine
d’una versione
antica, tanto da essere scritta in Antiche Rune, di quella che aveva
scoperto
essere una raccolta di racconti per bambini: le Fiabe di Beda il Bardo.
In qualche modo, doveva far
sì che Drew facesse arrivare ad
Harry quell’informazione.
Si fece largo nella folla, colpendo
chiunque le venisse a
tiro, ma evitando di infliggere ferite mortali. Infine, fiancheggiata
da altri
Mangiamorte, tra i quali la stessa Bellatrix, accerchiò il
professor Kennan.
Non avevano avuto modo di stabilire
un piano comune.
Semplicemente, avrebbero duellato, come durante un allenamento, senza
risparmiarsi alcun colpo. Sapeva solo che Drew confidava
nell’intervento di
qualcuno.
Lei sperava solamente che nulla
andasse storto, o si sarebbe
vista costretta ad ucciderlo.
Qualcuno provò ad alzare
la bacchetto contro di lui, ma
Hermione, rapida, lo disarmò.
“Lui è
mio!” gridò sicura di sé, mentre la sua
voce veniva
resa più profonda e gracchiante, quasi mascolina, dalla
maschera che indossava.
La loro fu una danza di perfetta
sincronia che durò quasi
per una decina di minuti. Ad ogni attacco seguiva un incantesimo Scudo
o una
controffensiva.
Poi, un affondo imprevisto, invece di
una parata, colse il
professore in fallo. Una magia oscura lo colpì in pieno
petto, ritrovandosi
incapace di muovere gli arti superiori.
“Incarceramus”
sibilò, mentre pesanti catene uscivano dalla
sua bacchetta e, dopo averlo spinto contro un albero, lo legavano a
questo. Un
serpente che tiene tra le sue spire una povera preda.
Sciolse in uno sbuffo di fumo nero la
propria maschera e si
fece scivolare il cappuccio sulle spalle.
“Hermione?”
chiese realisticamente sconvolto Drew. “Tu?”
La ragazza sogghignò e
alzò le spalle.
“Mi spiace, ma al momento
attuale sei diventato solo un
peso” gli spiegò tranquilla, avvicinandosi di un
passo “Ma non ti preoccupare,
mi prenderò cura io dei risparmi della famiglia
Bright”
Bellatrix che piacevolmente colpita
l’aveva raggiunta, la
invitò a finirlo.
“Non ancora”
rispose lei, avvicinandosi alla donna e
sussurrandole quelle due parole all’orecchio.
Hermione alzò la bacchetta
e, dopo aver evocato un
incantesimo non verbale, prese a muoverla lentamente.
La camicia candida del professore
cominciò a macchiarsi di
rosso in maniera indistinta. Ampi squarci si stavano aprendo sul suo
petto.
Poi, qualcosa accadde inatteso.
Un rapace si avventò sulla
sua mano, recidendole in maniera
profonda la carne con i propri artigli e lanciando lontana la sua
bacchetta.
Poi, si avventò con violenza sul viso di Bella, sfigurandola.
Con una rapidità che mai
aveva visto neppure nella
McGranitt, l’animale mutò in donna.
Non poté neppure studiarne
il profilo.
Questa, afferrato per una mano il
professor Kennan, si era
Smaterializzata nel nulla.
Il Falco aveva fatto la sua entrata
in scena.
Anche l’ultima pedina della
sapiente scacchiera di Silente
si era mossa.
Note
dell’Autore
Avrei voluto che non fosse
così, ma, dopo un anno di pausa,
avrei dovuto intuirlo. Sì, sono piuttosto arrugginito.
Sì, probabilmente non
sarò più in grado di gestire né i miei
personaggi né la mia trama.
Tuttavia, questa rimane la mia
piccola fatica e deve avere
un finale.
Per chi fosse interessato, questa
è You
and Me.
Qui,
invece, trovate la mia pagina Facebook.
Un grazie a chi ha letto e a chi
leggerà.
Sperando che qualcuno commenti,
Jerry
|
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Capitolo 2 *** Song of a White Crow ***
Chapter two, Song
of a White Crow
Al mondo
dei GdR online.
A chi vi
ho incontrato, indistintamente.
A chi ha
dato peso al mio parere e a chi no.
Ma,
sopra ogni cosa,
A
Bryan, Alexander, Aden,
Raphael ed Aaron.
Continuava a
ripetersi
che quelle ferite non erano profonde e che Hermione, sapendo benissimo
quello
che stava facendo, aveva riposto la massima attenzione
nell’evitare ad ogni
costo d’urtare, anche solo per errore, un organo vitale.
Queste parole, però, non
riuscivano ad avere neppure lontanamente il bramato effetto di
pacificargli lo
spirito: la sua mente continuava ad impuntarsi sul fatto che una
qualsiasi
lesione, per quanto superficiale, fosse una condizione anomala per il
corpo
d’un essere umano. Sentirsi il cuore nel petto, in quegli
istanti, gli parve
una maledizione, poiché sapeva che ad ogni pulsazione
l’alta velocità della
pressione riversava il suo sangue all’esterno. Lontano, in un
luogo che gli era
mortifero per il semplice fatto che gli strappava quel liquido
così
fondamentale alla sua esistenza. Percepì una strana
solitudine tanto diversa da
quella che aveva provato piangendo sul corpo di sua madre, quanto
terrificante.
Soffocante.
Gli
mancò il respiro e
le sue mani, prese a tamponare la recisione, si portarono al collo,
stringendolo nel disperato tentativo d’ingoiare un soffio
d’aria. Fu l’inizio.
Annaspava ma
questo
non gli permetteva d’escludere dalla propria testa
l’odore ferroso che il suo
olfatto aveva riconosciuto: era sporco di sangue.
No, era
cosparso di
sangue. Scuro, denso, salato. Si sentì comprimere, quasi
come se qualcuno si
stesse divertendo a spremerlo per stillare dal suo corpo anche
l’ultima goccia
di calore. Tutto divenne improvvisamente inarrestabile, mentre le sue
mani,
disarcionato il proprio padrone, continuavano a stringere la presa
attorno alla
sua stessa gola, cercando d’anticipare il sopravvento della
morte.
Poi, fu solo
calore.
Lo avvertì insinuarsi sotto i suoi vestiti, nelle pieghe
della tela. Stava per dipartire
in un mare scarlatto, stava per affogare nel proprio sangue.
Voleva
urlare, ma
sapeva che, se lo avesse fatto, avrebbe solo ottenuto solo la
spiacevole
conseguenza di velocizzare quel fin troppo rapido processo. La sua
bocca si
sarebbe riempita e, non potendo fare altro, avrebbe dovuto deglutire. E
morire.
Si ritrovò al suolo, in
ginocchio, con una mano stretta a
pugno contro l’erba umida e con l’altra tesa
sull’addome. Gli era parso che i
suoi polmoni, nella disperata ricerca d’aria, fossero sul
punto d’implodere,
perciò, quando la spiacevole sensazione della
Smaterializzazione terminò, prese
ad annaspare terrorizzato: quella sensazione soffocante non se ne era
ancora
andata. Era confuso: troppo per poter mantenere saldo il controllo sui
propri
timori e per agire con logica consapevolezza di ciò che gli
stava accadendo.
Percepì sul viso le dita
sicure della donna che lo aveva
salvato.
«Drew, respira».
La voce di lei, priva di inflessioni
e pacata, parve
sedarlo. Il caos nei suoi pensieri, fortunatamente, mascherò
quel tintinnio di
preoccupazione che, altrimenti, avrebbe avvertito nel modo in cui aveva
pronunciato il suo nome.
Al rezzo dell’albero del
Dolore, i suoi occhi si chiusero
sull’increspatura tremante della sua voce. Quel sussulto
d’amante scivolò, non
visto, tra le dita di lei, con cui, docile e decisa, gli sfiorava il
volto.
«Ho improvvisato una
fasciatura, ma dobbiamo raggiungere
Madama Chips il prima possibile. Ce la fai ad alzarti?».
Solo in quell’istante
l’uomo riconobbe che la consistenza
grezza che avvertiva sotto le dita era quello di una benda e che non
poteva
essere il tessuto morbido della sua camicia. Quando l’altra
avesse lanciato
quell’incantesimo, non riusciva proprio a capirlo.
Fortunatamente, negli ultimi
anni, la sua rapidità doveva essersi ancora incrementata.
C’era qualcosa, però,
che la strega non riusciva a spiegarsi: come poteva quel ragazzo essere
così
debilitato da ferite che, fondamentalmente, non erano neppure
lontanamente
mortali? Aveva assistito alla scena: la Mangiamorte era intenzionata a
prolungare molto a lungo quella tortura che lo avrebbe condotto alla
morte, non
si sarebbe mai concessa un incantesimo mortale. Drew, infatti, era
disarmato,
un Avada Kedavra avrebbe risolto ogni problema. Senza contare che, non
avendo
utilizzato la maledizione Cruciatus, chiaramente bramava
d’ucciderlo
lentamente. Non aveva perso sufficiente sangue.
Eppure, i suoi occhi erano sbarrati e
vuoti.
Testardo e risoluto, lo vide provare
ad alzarsi.
La ragazza, rimanendo schiacciata dal
suo peso, riuscì ad
afferrarlo prima che rovinasse al suolo.
«Maledizione»
imprecò a bassa voce, troppo presa a pensare
ad una soluzione per poter anche solo immaginare d’avere
l’autorità di
preoccuparsi. Dalla manica sinistra della giacchetta di pelle nera
trasse la
sua bacchetta che, flessuosa, frustò l’aria mentre
dalla sua punta già si
librava il primo incantesimo. Una panchina, posta al limitare del
sentiero che,
fiancheggiando un fitto bosco, conduceva ad Hogwarts, si
animò, affrettandosi
per raggiungerli. Con non poca fatica, il Falco riuscì a
farlo stendere,
assicurando il suo corpo con un paio di corde che aveva evocato con una
blanda
versione di un incanto Incarceramus.
«All’infermeria,
muoviti! Io vi seguo in volo, procederemo
molto più velocemente» ordinò
all’oggetto magicamente animato.
Le sue braccia si ricoprirono di
piume mentre il corpo,
rimpicciolendosi, assumeva i connotati di quello di un rapace. Sul
petto
candido dell’animale, laddove prima brillava un piccolo
diamante nero
incastonato in un ciondolo dall’aria antica, vi era una
macchia più scura che
ne richiamava perfettamente la forma.
Con un paio di possenti battiti
d’ala, che frustarono l’aria
con un suono sordo, l’animale si librò in aria,
cominciando la corsa.
La calura di quella prima mattinata
di mezza estate sembrava
essere intenzionata a
togliergli il
respiro. Non che non apprezzasse quella torrida perturbazione che,
insolitamente, aveva scacciato gli abituali nuvoloni di pioggia dal
cielo
plumbeo di Hogwarts, ma quell’afa rendeva ogni azione molto
più faticosa del
normale.
Così, desideroso di
godersi il profumo fresco che la Foresta
Proibita emanava, camminava piano lungo quel sentiero ciottoloso,
sfruttando
l’ombra delle fronde per trovare ristoro da quel sole, ormai
prossimo allo
zenit, che pareva essere più impietoso del solito.
I fili d’erba, ingialliti
dalla calura, spuntando sparuti
dal terreno riarso, imploravano dell’acqua, mentre
instancabili formiche
correvano dall’una all’altra parte in quella che
avrebbe potuto essere
scambiata in un’implorante danza della pioggia. Sopra il
silenzio si ergeva
potente una litania che ora era cicaleggio ora invito
all’ozio, ma che,
ininterrotta, scandiva il lentissimo susseguirsi dei minuti.
Sabbia che, frusciando sui propri
stessi granelli, andava ad
ammucchiarsi in una clessidra.
Intravide Hagrid nella propria
capanna che, sudato, si
prodigava nella preparazione di qualche strana pietanza che avrebbe
rifilato ad
una delle sue mostruose creature. Drew bussò piano sul vetro
lercio della
finestra, attirando la sua attenzione e rivolgendogli un cenno di
saluto
alzando la mano. Il Mezzogigante, con un sorriso a trentadue denti, gli
venne
incontro, spalancando l’infisso con un cigolio sinistro. Per
quanto ottimo
fosse stato il lavoro dei professori di Hogwarts, McGranitt in testa,
non era
stato possibile rimuovere completamente i segni dell’incendio
innescato da
Piton: la mobilia, scarti di cose diroccate quasi come la Stamberga
Strillante,
era completamente nuova e, sulle assi del pavimento e delle pareti, il
legno
assumeva una sfumatura nerastra.
Non appena il Guardiacaccia si sporse
per stringerlo in un
abbraccio con cui quasi gli incrinò un paio di costole, un
refolo di putridume
misto a zolfo schiaffeggiò il suo olfatto.
«Il pranzo per gli
Schiopodi!» asserì Hagrid, in risposta al
quesito del giovane Kennan.
Dopo essersi intrattenuto con
l’uomo per qualche minuto, il
suo sguardo cadde sull’orologio, confermandogli che
l’ora del suo appuntamento
con la nuova Preside di Hogwarts si stava avvicinando.
Rifiutando con affabile cortesia
l’offerta ad abbuffarsi con
alcuni dei suoi famosi biscotti rocciosi, Drew se ne
congedò, promettendogli
però, che un giorno si sarebbe fermato per assaggiare la sua
Tisana d’Erba
Piperita, particolarmente rigogliosa, a dire di Hagrid, in quel periodo
dell’anno, nel primo sottobosco nelle vicinanze del Lago Nero.
Finalmente, riprese il suo cammino.
Intravide, di sfuggita,
Pomona Sprite con un cappello di paglia rattoppato schiacciato sulla
testa,
mentre si apprestava ad entrare nella Serra delle Piante Magiche
Tropicali.
Da quello che era riuscito a capire,
la donna aveva ottenuto
il baccello di una rarissima pianta della foresta Amazzonica, cui si
stava
dedicando completamente. La cosa però, entusiasmava solo lei
e Neville Paciock,
disposto ad anticipare il suo ritorno a scuola per aiutarla almeno un
paio di
volte alla settimana. Voci di corridoio però, dicevano che
si fosse accampato
ai piedi del germoglio, così da non perdersi neppure una
fase del suo
lentissimo sviluppo.
Ridacchiando, l’uomo spinse
la pesante anta del portone
d’ingresso, che si rischiuse con un tonfo sordo alle sue
spalle.
Le spesse ed antiche pareti
dell’edificio, con suo grande
piacere, parevano essere in grado di mitigare un po’ il clima
all’interno,
quasi come se potessero rilasciare progressivamente il freddo
accumulato nelle
fondamenta durante l’inverno precedente.
O forse, quel genio un po’
folle del professor Vitious aveva
ideato un particolare incanto Refrigerante.
Risalì l’ampio
scalone, svoltando l’angolo a destra. Non era
sua abitudine essere in ritardo e questa non sarebbe stata
un’eccezione.
Attraversò nella loro
interezza alcuni corridoi fino a
quando uno strano verso gracchiante attirò la sua attenzione.
Era la Cooman che, reggendo un paio
di bottiglie di sherry
semivuote, avanzava verso di lui barcollando. Da quando Silente era
morto, nel
timore che, senza il suo principale protettore, qualcuno la cacciasse
dal
castello, la fattucchiera si era concessa completamente al suo
superalcolico
preferito. Poi, quando la McGranitt si era insediata e le aveva
promesso
solennemente che nessuno l’avrebbe mai cacciata, aveva preso
a bere per
festeggiare. A conti fatti, la professoressa di Divinazione non era
sobria
almeno da un paio di mesi. Drew quindi, on rimase poi molto basito
dinnanzi a
quel suo cantare stonato e a quel suo pericoloso ondeggiare.
«Buongiorno» le
disse, conscio che, probabilmente, quella
neppure lo aveva riconosciuto.
La donna però, parve come
ridestarsi da un lungo sonno.
Urlando, gli corse incontro agitando
le braccia, come a
voler frustare l’aria. Giunta al suo cospetto, guardandolo
dal basso a causa
della propria statura, lo fissò attraverso le sue lenti
circolari e spesse.
I suoi occhi si voltarono
all’indietro e lei gli si gettò
tra le braccia avvinghiandosi al suo collo.
«Il tuo avvenire risiede
nel tuo sangue» gli sussurrò
all’orecchio.
«Se per il tuo sangue
sacrificherai te stesso, Chimera,
avrai in cambio il dono della vita!».
Intimorito, Drew rimase in silenzio,
senza muovere la Veggente
che ancora gli stava addosso. All’improvviso, qualcosa
accadde: un sonoro rutto
presagì che anche l’ultimo sorso di sherry aveva
raggiunto il suo fegato.
«Scusa»
bofonchiò la Cooman, mentre, rimettendosi in piedi,
riprendeva la propria strada.
Il giovane Kennan la
imitò, dirigendosi nella direzione
opposta. Aveva appena assistito al melodioso canto del corvo bianco e
ne era
ancora provato.
Gli restavano solo quegli ultimi
scalini che, al suono della
parola d’ordine, si sarebbero palesati alle spalle del
monolitico gargoyle. Non
sapeva per quale motivo Minerva lo aveva convocato ma, essendo a
conoscenza da
mesi di duelli diplomatici trascorsi, si ritrovò ad
attendere qualche istante,
quasi a volerle concedere un attimo in più per ripetere
nella propria testa,
quel discorso che, a breve, gli avrebbe riproposto. Le offriva, per
quanto
questa potesse valere, la cortesia di concedersi un momento per trarre
un
respiro profondo.
Quel contatto fisico improvvisto lo
fece sobbalzare,
Qualcuno, che per un secondo intuito pensò si trattasse
della Cooman, gli aveva
schiaffeggiato con decisione il sedere e, ne era certo, quella mano
colpevole
si era soffermata su quella zona erogena per un tempo spudoratamente
lungo.
Esterrefatto, Drew si
scostò dall’alto pilastro cui si era
appoggiato, rivolgendo uno sguardo alle sue spalle, avendo cura di
completare
la sua espressione attonita con un ghigno sarcastico.
Se anche avesse voluto tramutare il
suo mutismo in una
qualche forma di insulto, la possibilità gli venne strappata
da una giravolta
rapida e da una risata gioviale.
«Vedo con estremo piacere
che ti sei tenuto in forma, Drew»
scherzò la donna, con un sorriso smagliante sulle labbra.
«Amelia Fay»
scandì lui di ritorno, dopo averla
immediatamente riconosciuta.
Era cambiata molto
dall’ultima volta che l’aveva vista: non
era più una ragazza, tuttavia vi ritrovava i suoi non
più così dolci
lineamenti, escludendo il taglio drastico ai capelli, i quali le
lambivano
appena le spalle, sebbene un tempo fossero lunghi fino alla base della
schiena.
La sua corporatura era rimasta
invariata, lasciandola
gracile, quasi esile, e non particolarmente alta. Un candido vestito
senza
spalline rimarcava la sua siluette, celando il seno minuto, ma portato
con
grande fierezza, e chiudendosi, con un’alta cintura nera,
sulla sua vita
sottile, salvo poi aprirsi in una vistosa ma raffinata gonna a balze, i
cui
fronzoli si interrompevano a qualche centimetro dalle ginocchia.
Il suo viso, perse le linee morbide
della fanciullezza,
s’era fatto più spigoloso, accentuando gli zigomi
alti e le labbra sottili,
valorizzate da un rossetto bordeaux. Immutato era, invece, il suo
piccolo naso
all’insù.
Malcelato dalla frangia sbilenca dei
suoi capelli corvini,
il suo sguardo pareva aver assunto una tinta ancora più
scura, sfumata dal
carboncino d’un ritrattista di strada.
«Proprio lei!»
esclamò in risposta «In tutta la mia
sfavillante bellezza e su questo improponibile paio di
tacchi» ironizzò,
lanciando all’indietro la gamba destra, dimostrando,
nonostante il disagio
delle calzature, un’innata agilità. Quelle
meravigliose décolleté, dello stesso
colore dei suoi capelli, seppur ingraziosite da un nastrino di raso
battevano
il ritmo pesante di una marcia militare contro il pavimento. La sua
figura
veniva così privata di sinuosità, sebbene il
tintinnare delle grosse pietre del
braccialetto che portava alla mano sinistra sobillassero una
più femminile
cadenza.
«Cosa ci fai
qui?» comandò Kennan, alzando un sopracciglio.
Quella, sdegnata, incrociò
le braccia al petto.
«Dov’è
finita la tua rinomata cordialità, brutto
bifolco?».
Detto ciò, prese a borbottare qualcosa che poteva benissimo
suonare come una
maledizione.
Drew, finalmente spensierato dopo
molto tempo, scoppiò a
ridere.
«Sono qui per incontrare la
nuova Preside, comunque».
Colmati gli sconquassamenti delle
risa, le si avvicinò e,
prendendola per un polso, se la tirò al petto e
l’abbracciò.
«Bentornata, Amy»
le disse, posandole un bacio sulla
guancia.
Quella, ancora più
infervorata, allontanandolo da sé facendo
leva con una mano contro il suo corpo, alzò lo sguardo per
fissarlo negli
occhi.
Sfruttando la mirabile altezza datale
dai tacchi, congiunse
le loro bocche per alcuni istanti, accogliendo tra le proprie, il
labbro
inferiore di lui.
Dopo aver cancellato con il pollice
una traccia rosso scuro,
inequivocabile prova del delitto, gli pestò un piede, senza
però riporci troppa
violenza.
«Questo è un
bacio del “bentornata”»
motivò, voltandogli le
spalle sghignazzando. «E devo dire che mi fa piacere
constatare che sai ancora
di miele».
«Tu, cosa ci fai
qui?» proseguì poco dopo chiedendo a sua
volta, come se nulla fosse accaduto.
«Devo essere
all’altezza delle tue aspettative, visto che
non molti anni fa mia hai incoronato come “ragazzo
più bello della nostra annata”»
rispose, con il palese obbiettivo di destabilizzarla «E
comunque, anche io sono
stato chiamato a colloquio con la nuova Preside».
Fu il turno della donna di scoppiare
a ridere.
«Era dell’intera
Hogwarts!» esclamò, tutt’altro che
scioccata. «Ammetto però, che fino
all’ultimo gli addominali di Charlie mi
hanno fatta vacillare e, se non fosse stato che per colpa sua mi sono
dovuta
accontentare del ruolo di Battitrice della squadra di Quidditch, forse
avrebbe
vinto» cominciò Amy ritrovandosi a riflettere ad
alta voce e a fissare il suo
interlocutore come a voler trovare, sul suo corpo, una conferma della
scelta
passata.
D’improvviso, dopo aver a
lungo scrutato i muscoli e la
leggera peluria di lui lasciati scoperti dalla camicia più
sbottonata del
dovuto, s’illuminò.
«Capisco
che per te
la Mc è come una madre ma vuoi davvero presentarti da lei
così? Povera donna,
per quanto arzilla comincia ad avere una certa
età!».
La frase lasciò Drew
disarmato che, alzando le mani,
dichiarò la propria resa.
« Stiamo facendo
tardi» si limitò a constatare.
Alla parola d’ordine
“Pigna, pizzicotto, manicotto e tigre”,
la scultura di pietra si animò e, dopo essersi spostata,
rivelò il passaggio.
«Andiamo» propose
Kennan, mentre educato, visto lo sguardo
intimorito di Amy dinnanzi alla scalinata, le porgeva un gomito a cui
ancorarsi.
Dopo
aver bussato ed
essere stati invitati ad entrare, i due fecero il loro ingresso
accompagnati
dai mormorii degli abitanti dei numerosi quadri appesi alle parti.
Dalle ampie
scaffalature erano stati tolti molti degli arredi appartenuti a
Silente,
rendendo così molto più spoglia
l’intera stanza.
Troneggiava ancora però,
l’antico Pensatoio, la cui
superficie era increspata da brulicanti pensieri tormentati che
l’anziana
signora aveva qui riposto, in cerca di sollievo.
Quando lo scorse, si alzò
stanca dalla poltrona, poggiando
le mani sul piano della scrivania. Sopra il suo capo, protetta da una
vetrina
magica, pendeva la leggendaria spada di Godric Gryffindor.
«Vedo che vi siete
già incontrati» esordì, stendendo le
righe del viso in un sorriso «Prego, sedetevi»
continuò, animando, con un gesto
della mano, la lunga veste viola dalle ampie maniche.
L’immancabile confezione
metallica dei biscotti era affiancata da un vassoio di pasticcini
decorati con
i colori caldi e accesi della frutta fresca. Avvicinandolo di qualche
centimetro, facendo scivolare piano, invitò loro a prendere
qualcuno. Mentre
Amy portandosi i capelli dietro all’orecchio si
piegò in avanti, per quanto le
gambe accavallate le permettessero, per sceglierne uno, Drew si
limitò ad un
pacato gesto di diniego.
Atteso il tempo necessario a che la
giovane desse un morso
al dolcetto e ne valorizzasse la bontà, la McGranitt
cominciò a spiegare loro
il motivo per cui si trovavano in quell’ufficio.
«Amelia, non so per quale
motivo Albus ti avesse convocata e
tu non sei arrivata in tempo per scoprirlo ma, come ti ho
già detto, mi fa
molto piacere rivederti, dopo tutto questo tempo»
quell’introduzione, durante
la quale lo sguardo di Minerva era corso verso il ritratto del suo
predecessore, il quale sonnecchiava beatamente con gli occhiali a
mezzaluna
calati sul naso, presagiva amare constatazioni. «Purtroppo,
il momento non è
affatto dei migliori. Come sapete, la precedente dipartita di Silente
ha lasciato
molte cose in sospeso: poiché il suo assassinio non gli ha
permesso di
candidare un sostituto, il Ministero, che come sapete è
effettivamente in mano
al Signore Oscuro, sebbene Scrimgeour sia ancora in carica, aveva
intenzione
d’eleggere un nuovo Preside in maniera autonoma».
La donna, con un austero
chignon a chiuderle i capelli sulla nuca, mosse qualche passo verso
l’ampia
finestra che dava sul Parco. «Non ero neppure sicura che
aprire i cancelli di
Hogwarts fosse una scelta opportuna, ma non potevo permettere che
venisse
insediato a capo di questa scuola uno schifoso traditore come
Piton». La sua
mano destra si strinse a pugno sulla veste, in un moto
d’orgoglio. «Così, ho
candidato me stessa, sperando che le mie numerose referenze,
nonché la mia superiore
esperienza e preparazione, fossero sufficienti a scalzarlo dalla
nomina. Ma,
ovviamente, mi sbagliavo».
Amy, indignata dallo smacco che la
sua prima insegnante di
Animagia Avanzata aveva subito, riuscì a malapena a
trattenere un moto di
stizza.
«Sentii il peso della mia
inferiorità rispetto ad Albus e
temetti di non poter fare nulla per impedire che questo luogo venisse
profanato«
riprese la McGranitt.
«Mi manca la sua verve, la
sua astuzia, la sua
intelligenza,. Nonostante ciò, gli anni mi hanno insegnato
che anche io
posseggo delle qualità e, tra queste, la
puntigliosità non mi ha mai tradito».
Finalmente, l’anziana donna
si concesse un sorriso
soddisfatto.
«Un vecchissimo decreto,
tanto antico da non essere
riportato sul regolamento scolastico da almeno un secolo.
Così vetusto da
risalire alla Fondazione di Hogwarts, ovvero prima che il Ministero,
così come
è composto attualmente, fosse concepito. Una legge, mai
abrogata, contro la
quale non potevano ordire alcuna contromossa, ideata da Helga
Hufflepuff in
persona. Fu l’ultima Fondatrice a spirare e, temendo che
l’arbitro imparziale,
il preside appunto, il quale avrebbe governato la scuola alla sua
morte,
potesse dimostrarsi incapace di tale compito, ideò una
soluzione conforme alle
sue idee».
Drew, silenzioso ma concentrato, la
invitò a spiegarsi
meglio.
«Il codice 21.2 dello
Statuto Originario recita che, in caso
di inadempienza da parte del capo d’Istituto, un appartenente
al corpo docenti,
ottenuto il favore dei quattro fantasmi delle Case e dei relativi
Direttori,
può prendere il posto, con i relativi poteri ed incarichi,
oneri ed onori».
Non fu necessario specificare ,
dunque, che se anche Piton
avesse ottenuto la cattedra somma di Hogwarts, lei avrebbe fatto
ricordo,
adducendo che, come da prescrizione, quell’incarico le
spettava, in quanto
detentrice degli otto assensi.
«Patteggiando r accettando
alcune dovute condizioni, sono
riuscita ad evitare che Piton potesse rientrare in questa scuola anche
per
un’ora soltanto».
Drew, che già era a
conoscenza di tutto ciò poiché l’aveva
aiutata sia durante gli incontri diplomatici sia durante le ricerche in
biblioteca, cui avevano collaborato anche gli altri insegnanti e con
particolare zelo di Madama Pince, che molto aveva da farsi perdonare,
rimase dubbioso.
«Capisco che Amy,
probabilmente, non fosse al corrente di
tutto ciò, considerando come tutto è stato
taciuto dalla stampa, Cavillo
escluso» disse, non tacitando un astio quasi ironico.
«Ma cosa centriamo noi
due con tutto questo?».
Albus Silente, risvegliatosi dal suo
torpore, molto
sospetto, prese a ridacchiare.
«Il mio nuovo incarico mi
impedisce di occuparmi della mia
materia, dunque ben tre cattedre sono vacanti. Poiché
Babbanologia risulta tra
le discipline facoltative e poiché, comunque, pur non
nutrendo io speranze a
riguardo, la professoressa Charity Burbage potrebbe essere ritrovata,
al
momento attuale il problema più incalzante è un
altro». La Preside, facendo
scricchiolare le sue ossa stanche, si sedette. «Quindi,
signor Kennan vorrei
che lei divenisse il nuovo insegnante di Difesa contro le Arti Oscure,
mentre
auspico che lei, signorina Fay, voglia prendere il mio posto come
insegnate di
Trasfigurazione».
Aveva sfrecciato attraverso la scuola
sfrecciando sopra le
rampe di scale e tra i contorti corridoi, planando
all’interno dell’infermeria
prima ancora di riassumere la sua forma umana e ritrovandosi a frenare
la
scivolata con le proprie comode scarpe da ginnastica.
Madama Chips, pensando di dover
trascorrere una delle sue
ultima giornate di tranquillità estiva, s’era
concessa un pisolino pomeridiano.
La voce di Amy la risvegliò completamente, facendole
ritrovare dopo un iniziale
e comprensibile spaesamento, la fredda lucidità che il suo
lavoro richiedeva,
con tutti gli incidenti che capitavano continuamente in quella scuola.
Ancora
una volta, conteggiò mentalmente gli anni che le mancavano
al pensionamento,
rendendosi conto, nuovamente, che era ancora troppo giovane.
«Cosa sta
succedendo?» domandò, uscendo dal suo ufficio
mentre la professoressa Fay si stava togliendo, accaldata, la
giacchetta di
pelle scura, rimanendo in canotta.
«Il professor Kennan
è stato ferito da un Mangiamorte»
rispose lei, indicando il ragazzo già adagiato su un
lettino. Intanto, una
panchina sconsolata faceva ritorno alla propria dimora. «Le
ferite non
sembravano così profonde, eppure…».
Non ebbe il tempo di concludere
quella constatazione,
l’infermiera era già accorsa dal suo nuovo
paziente.
«Buongiorno,
Poppy» la salutò l’uomo,
tranquillizzatosi nel
corso del tragitto, sebbene fosse troppo provato per potersi definire
pienamente cosciente.
«’Giorno Drew,
è sempre un piacere averti qui» replicò
lei,
alludendo implicitamente, alle molte volte in cui aveva avuto bisogno
delle sue
cure.
«Sono stato peggio,
vero?» le chiese, volendo sdrammatizzare
la situazione.
Lei, prima di rispondere, si prese
qualche istante per
visitarlo. Trovò il suo battito cardiaco estremamente
accelerato. Con un colpo
di bacchetta esperto, sciolse la fasciatura ed esaminò la
ferita. O almeno ci
provò. L’enorme quantità di sangue che
fuoriusciva dalle diverse incisioni
rendeva impossibile individuare con precisione i punti in cui la carne
era
stata recisa.
Afferrato un panno pulito e sterile,
tamponò la parte lesa.
Improvvisamente, i suoi occhi si
illuminarono.
Cedette l’onere di vare
pressione alla giovane che, nel
farlo, si sporcò nuovamente di sangue.
Mentre fisava Drew nei suoi occhi
vacui, mormorò una lunga
litania e, alla fine di questa, toccò il collo del ragazzo
con la bacchetta.
Laddove quel contatto era avvenuto si
generò una ragnatela
nera, la quale altro non era che l’apparato circolatorio del
professor Kennan.
«Magia Oscura»
riferì Madama Chips anche ad Amy «Molto
potente e altrettanto complessa da rendere innocua».
«Puoi curarlo?».
«L’unico esperto
di questo genere di incanti reperibile al
momento attuale è disteso
su questo
lettino» confermò lei, certa che quella che le era
stata rivolta non fosse una
vera e propria domanda quanto, invece, una mai detta supposizione.
«Tutto ciò
che posso fare è rimetterlo sufficientemente in forza da
essere in grado di
sciogliere questa maledizione da solo».
Senza molta grazia, la
allontanò dal giovane.
«Esci di qui immediatamente
e va ad avvisare Pomona che è
giunto il momento di dimostrare che quella sua Mangrovia è
veramente miracolosa
come dice» le ordinò, senza dare il minimo adito
ai suoi tentativi di rimanere.
«E invia un gufo alla McGranitt. E’ corsa dai
Weasley per assicurarsi che tutti
stessero bene».
Amelia, recepito il messaggio, si
trasfigurò immediatamente
in falchetto.
Eppure, qualcosa non le tornava.
«Non è la prima
volta che sento parlare di questi sintomi,
sai?» disse l’infermiera al proprio paziente, dopo
essersi assicurata che nei
pressi non vi fossero ascoltatori indesiderati. «Due
Mangiamorte, se non erro,
i cui cadaveri sono stati ritrovati davanti al portone di Azkaban, li
presentavano. Magari mi sbaglio, ma erano tra quelli che avevano ucciso
tua
madre…».
Drew alzò le spalle senza
dire nulla.
«Lo sappiamo entrambi che
questa è una tua creazione, puoi
anche smetterla di nasconderti dietro questo mutismo».
L’affondo di Madama Chips
non lo lasciò indenne, eppure, non ebbe la
possibilità di pensare ad una
soluzione.
«È
questo?».
La Medimaga, con un incantesimo
avanzato, era riuscita a
bloccare, almeno temporaneamente, il riversamento del sangue e, pulendo
i lembi
delle ferite qualcosa l’aveva colpita.
Un simbolo, un messaggio di Hermione.
Doveva proteggere il
loro segreto.
LA sua mano si era stretta sulla
bacchetta e, prima ancora che
l’altra potesse comprendere ciò che stava facendo,
il suo incantesimo Confundus
l’aveva colpita.
«Mi dispiace Poppy, ma
è meglio se ne resti fuori» disse
Kennan, nel tentativo di pacificare la propria coscienza
«Meminion».
Il particolare incantesimo di Memoria
andò a buon fine.
«Non hai visto alcun
simbolo, solo una brutta ferita. Non
hai riconosciuto i sintomi della mia Maledizione, ma sai che devi
rimarginare
la ferita, così poi io potrò intervenire per il
resto. Infine, impedirai a
chiunque d’essere presente al cambio dei bendaggi. Tutto
chiaro?»
Dopo aver ricevuto un cenno
d’assenso, concluse l’incanto e
chiuse gli occhi, provato.
«È proprio una
brutta ferita» confermò Madama Chips, poco
dopo.
Lui le diede ragione e
cercò di prendere sonno, prima di
dover fronteggiare qualche visitatore, Amy in particolare.
***
All’improvviso
l’oscurità smise di sommergerli e i tre
ripresero il controllo su vista ed udito. Finalmente,
l’opprimente sensazione
della Smaterializzazione era sparita, abbandonandoli in uno squallido
vicolo
senza uscita in Tottenham Court Road, nella Londra Babbana. Non si
trovavano
così lontani dal British Museum, ma avevano preferito
tenersi distanti dalla
comunità magica.
L’imbrunire, ormai prossimo
a tramutare in notte, immergeva
quel viottolo e il suo asfalto consunto in una penombra che, in parte,
celava
la loro presenza lì. Ancora stravolti da ciò che
era accaduto alla Tana, le
loro menti, poco razionali e troppo emotive, continuavano a riempirsi
di
pensieri angoscianti. Mai come in quell’istante, la mancanza
di Hermione si
faceva sentire. Lei, con quella maturità e con la sua
intelligenza, sarebbe
sicuramente stata in grado di trovare una soluzione a tutto
ciò.
Avevano bisogno di trovare un riparo,
un rifugio in cui
raccogliere le idee ma, acconciati così elegantemente,
avrebbero attirato
sicuramente l’attenzione. Anche perché la moda del
mondo magico era decisamente
troppo diversa da quella Babbana.
«Siete tutti
interi?» chiese Harry tastandosi, nel timore
d’essersi spaccato a causa dell’affrettata
Smaterializzazione che era stato
costretto ad eseguire. Di nuovo, se Hermione fosse stata al suo posto
non si
sarebbe posto un dubbio del genere. Dopo un cenno d’assenso
dei due Weasley,
trasse un grosso respiro di sollievo.
Rimasero in silenzio per alcuni
istanti mentre Ron,
poggiandosi al muro, pareva annaspare alla ricerca della
lucidità persa. Ginny,
al contrario, continuava a percorrere la breve larghezza di quella
viuzza. Il
rumore dei suoi passi scandiva un tempo che sembrava non voler scorrere.
«Gli altri…
tutti gli invitati…» mormorò Potter,
senza
rivolgersi ad un preciso interlocutore.
«Non possiamo pensare a
loro adesso» gli rispose in un
sussurro Ginny, raggiungendolo per afferrare dolcemente il suo viso e
guardarlo
nei suoi occhi verdi. «È a te che danno la caccia,
Harry; se tornassimo
metteremmo tutti ancora più in pericolo». Le loro
labbra si incontrarono per un
bacio lieve, in grado, però, di ridare un battito al loro
ruggente cuore
Gryffindor.
Prima ancora che il ragazzo
sopravvissuto potesse
controbattere qualcosa, Ron, che nei molti anni della loro amicizia
aveva
imparato a conoscerlo, lo anticipò.
«Ha ragione»
asserì, schierandosi con la sorella e spostando
su di lui il suo sguardo, fino a quel momento perso nelle mattonelle
della
parete che gli stava innanzi.
«Gran parte
dell’Ordine era lì, si occuperanno loro di
tutti».
Intanto la strada principale si era
affollata. Un gruppo di
uomini, tra cui il più sobrio stentava stare in piedi,
avanzava barcollando,
mentre intonava con passione ed energia una qualche canzonetta
appartenente
alla più squallida tradizione popolare.
Tra
una volgarità e
l’altra, se non erano troppo concentrati nel portarsi
nuovamente alle labbra la
propria bottiglia, o anche quella di un altro, si prodigavano in non
voluti
complimenti verso le giovani donne che passavano loro accanto, ignare
che
quella sera il vecchio Alfred stava dando il suo addio al gioioso
periodo del
celibato.
Ginny, per quanto nascosta dalla
mancanza di illuminazione,
si strinse di più al proprio fidanzato.
«Dovremmo andarcene da
qui» propose.
Entrambi le diedero ragione, ma la
conversazione sprofondò
nell’ennesimo silenzio quando iniziarono a pensare ad una
possibile
destinazione.
«Forse la campagna
è più sicura» suppose Ron,
tutt’altro che
sicuro della propria affermazione.
«Magari potremmo provare a
raggiungere Hogwarts» propose,
invece, Ginny. Harry scosse piano la testa.
«Sicuramente Hogsmeade
è pattugliata dai Mangiamorte e non è
possibile Smaterializzarsi direttamente entro i confini della
scuola» le
rispose, ritrovandosi a valutare l’ipotesi di utilizzare la
Metropolvere, ma
scartandola subito dopo essersi ricordato quanto pochi fossero gli
allacciamenti che il camino nell’ufficio del Preside aveva.
Dalla parte opposta della strada, in
un pub, una coppia di
operai corpulenti, seduti su una panca, stavano chiedendo il conto alla
cameriera, presa dalla masticazione di una gomma. Il locale era
talmente lurido
da far loro preferire quei puzzolenti bidoni della spazzatura. Anche da
quella
distanza infatti, erano certi di poter vedere, districandosi sulle
macchie di
sudiciume della vetrina e le tendine ingiallite dal tempo, uno spesso
strato di
unto sugli economici tavolini di formica.
I due uomini erano già
sull’uscio, quando un lampo verde
colpì in pieno petto la barista, facendola crollare al suolo
senza vita. Le
loro bacchette, già sfoderate, puntavano verso i tre
ragazzi, mentre correvano
per raggiungerli.
La prima a sguainare la propria fu la
più giovane dei
Weasley, la quale, però, non appena la impugnò,
capì di non poterla usare:
essendo lei ancora minorenne, usarla avrebbe attivato la Traccia. Era
stato
così che quei due li avevano trovati. Mentre le loro prime
Maledizioni Senza
Perdono, scagliate senza prendere troppo la mira, si infrangevano sulla
parete
di fondo di quel vicolo, capirono che quel fuoco aveva il solo fine di
non
farli scappare. Una volta raggiunti, infatti, si sarebbero ritrovati in
una trappola
senza via d’uscita. Harry, facilitato dai lampioni della
strada principale che illuminavano
perfettamente i loro avversari, prese la mira e colpì il
biondo dei due con uno
Schiantesimo. Questo, fortunatamente, si dimostrò
sufficiente per fargli
perdere i sensi. L’uomo si afflosciò al suolo.
Per tutta risposta il suo compagno,
con un caratteristico
volto sfigurato, lanciò un incanto verso Harry, che Ginny,
però, intercettò
facendogli scudo con il proprio corpo. Corde lucide e nere le
impedivano
qualsiasi movimento.
L’urlo rabbioso di suo
fratello fu l’ultima cosa che quel Mangiamorte
sentì prima
di svenire.
«Reducto».
L’incantesimo infatti, era stato indirizzato
verso uno dei bidoni, il quale, urtato, aveva investito il Mangiamorte.
Negli istanti successivi fu il caos.
Harry tentò di liberare la
Weasley, ma riuscì solo al
secondo tentativo, dopo averla ferita leggermente al braccio.
Il primo avversario parve rinvenire.
«Via di qui!»
gridò Ron, azzardando una Smaterializzazione
Congiunta.
Sotto i loro piedi
sfrecciò l’ennesima fattura.
I tre si ritrovarono al centro di una
piazza di una piccola
città.
«Dove stiamo
andando?» domandò Potter, ancora incredulo che
l’amico, bocciato all’esame per essersi dimenticato
metà sopracciglio, fosse
riuscito a salvarli, portandoli al sicuro.
«Da qualcuno che ci deve un
favore» rispose misterioso lui,
con la bacchetta ancora in mano, mentre li sospingeva verso un angolo
buio.
«Ginny»
continuò poco dopo. «Preferisco che tu ti difenda,
anche se questo attiva la Traccia, piuttosto che farti colpire da una
possibile
Maledizione». Il suo sguardo si alternava studiando prima la
sua ferita, poco
più che superficiale, e poi accusando tacitamente Harry.
«Se lo avessi fatto, ora
saprebbero dove siamo» si limitò a
constatare lei, proseguendo poco dopo. «Voi siete riusciti a
vederli in
faccia?».
«Quello biondo era presente
la notte in cui è morto Silente»
osservò Harry.
A chiarire i loro dubbi fu Ronald,
che aveva visto uno sui
manifesti dei ricercati e che conosceva l’altro.
«Penso fosse Thorfinn
Rowle» disse, respirando a fondo.
«L’altro era Dolohov».
La ragazza arrestò quella
che, da una rapida passeggiata, la
cui meta conosceva solo suo fratello, era diventata una corsa affannata.
«L’assassino
degli zii?».
Solo un assenso, prima di
ricominciare a muoversi.
Lo fecero per almeno quindici minuti,
svoltando spesso per
controllare se, eventualmente, qualcuno li stesse seguendo.
Così facendo però,
allungarono di molto la strada. Alla fine, il complesso urbano si
aprì verso la
campagna. Un piccolo pendio culminava su una villetta le cui stanze del
piano
terra erano illuminate a giorno.
Il più anziano dei Weasley
continuava imperterrito, mentre i
suoi compagni si lanciavano occhiate dubbiose e molto eloquenti.
I tre, superato un piccolo
cancelletto, percorsero un
ciottolato immerso in un perfetto giardino inglese. Fu proprio questo
particolare ad illuminare anche l’altra rossa che, a causa
del buio e
dell’agitazione, si era sentita spaesata come Potter.
«Sei un idiota!»
esclamò, rivolgendosi al fratello. «Non
potevi pensarci un po’ prima?».
Quello si limitò a
mettersi addosso un’espressione
spazientita.
Giunti alla soglia, suonarono il
campanello.
Quando la porta si aprì,
un ragazzo, evidentemente annoiato,
li squadrò da capo a piedi. Sbadigliò, mentre con
la mano si spettinava i
capelli, già piuttosto disordinati. Era a piedi nudi e
indossava solo un paio
di pantaloncini grigi lunghi fino al ginocchio e una canotta nera che
non
nascondeva affatto la sua pelle abbronzata.
«Tesoro, abbiamo
visite» gridò, voltando la testa verso
qualcuno all’interno della casa. «Rogne, senza
dubbio» completò, dopo aver
lanciato loro, da sotto il ciuffo ribelle, l’ennesima
occhiata. Se si escludeva
questa porzione della sua testa, il resto dei capelli era stato
tagliato molto
corto di recente.
«Ti sta bene il nuovo
taglio» disse gentile Ginny.
Quello sollevò le spalle.
«A mia moglie piaccio così» rispose lui, come se quella fosse l’unica cosa che gli importasse.
Una voce spazientita si avvertì alle sue spalle.
«Blaise, quante volte devo
dirtelo che è maleducazione
tenere i propri ospiti sulla porta?».
Profondissimi occhi verde scuro, in
grado di narrare
racconti così terrificanti da far accapponare la pelle anche
ad un prigioniero
di Azkaban. Fatti realmente accaduti, di cui la sua carne portava
ancora i
segni.
Bellissima capelli color del grano,
raccolti in
un’acconciatura perfetta, poiché
l’eccellenza era il suo fine, il suo tormento
e la sua fobia.
Immancabili tacchi vertiginosi,
portati con eleganza anche
nell’atrio di casa propria.
Daphne Greengrass era più
bella che mai.
Quando riconobbe chi aveva alla sua
porta, corse loro
incontro, non riuscendo a trattenersi, per quanto questo infrangesse la
sua
impeccabile alterigia, dall’abbracciare Ginny.
«Entrate prima che qualcuno
vi veda» li esortò poco dopo,
lanciando un’occhiata circospetta al giardino, che Zabini
intercettò.
«Mi fumo una
sigaretta»
Affermando ciò, mentre gli
altri venivano guidati da Daphne
in salotto, superò la veranda e si immerse nel buio del
cortile.
La notizia della caduta del Ministero
era giunta anche a
loro.
La sicurezza, in tempi come quelli,
non era mai troppa.
Aveva assistito impotente mentre il
padre di Daphne la
trascinava via, dopo il funerale di Silente. Non era accettabile che un
rampollo Slytherin, Purosangue per giunta, si schierasse apertamente
contro
Lord Voldemort. Soprattutto se suo padre ne era un fedelissimo
servitore.
La Greengrass, tuttavia, aveva voluto
fare di testa propria,
in un moto di indipendenza che avrebbe pagato a caro prezzo. Sapeva
perfettamente come le cose sarebbero evolute, così come ne
era a conoscenza il
suo promesso sposo.
Proprio per rimanere tale aveva
dovuto restarsene in
disparte, durante la battaglia di Hogwarts. Per questo la McGranitt
aveva
Trasfigurato il suo aspetto. Lui rappresentava la sua unica speranza di
sfuggire a quella prigionia.
Conscio di quello che sarebbe
successo alla ragazza, Blaise
si era presentato alla porta d’ingresso della residenza
Greengrass di prima
mattina, nell’indomani.
Ad aprigli fu Asteria, la sorella
minore di Daphne. Lesse
molte cose nel suo atteggiamento timoroso.
Si avvicinò per salutarla,
ma lei arretrò velocemente, con
il terrore negli occhi. La paura verso suo padre era tale da spingere
il suo
cervello a vedere nel contatto di chiunque, una violenza. Di nuovo,
Blaise si
ritrovò a capire perché Daphne non potesse
abbandonarla ma, anzi, si prendesse
carico anche delle torture che sarebbero spettate, ingiustamente, a lei
e a sua
madre.
«Scusa»
mormorò Asteria, dispiaciuta.
Zabini alzò le spalle.
«Dov’è
tua sorella?» le chiese, senza alcuna inflessione
nella voce.
«Nella sua stanza, ma non
puoi…».
Non attese altro, qualsiasi bieca
motivazione non sarebbe
stato sufficiente a tenerlo distante. Se avesse dovuto combattere
contro il
capofamiglia lo avrebbe fatto. Se alla fine fosse stato rinchiuso ad
Azkaban,
avrebbe affrontato il Bacio del Dissennatore a testa alta.
Le sue certezze crollarono quando la
vide, nonostante i
tentativi di fermarlo.
Seduta, dinnanzi ad uno specchio, con
addosso una vestaglia
leggera che lasciava scoperti gran parte dei bendaggi che un Elfo
Domestico
armato di unguenti e medicamenti, le stava applicando.
La madre, con gli occhi gonfi di
lacrime, le pettinava i
capelli singhiozzando.
Gli sguardi dei fidanzati si
incrociarono, ma entrambi
rimasero in silenzio.
Il suo viso, dalle linee
così delicate, era ricoperto di
ematomi.
Non era mai arrivato a picchiare il
volto. Troppo difficile
da nascondere, troppo evidente la magia applicata per capire il
misfatto.
Un occhio nero, uno zigomo rotto, un
taglio profondo sul
labbro inferiore, una ciocca di capelli strappati. Sua madre tentava di
celare il
possibile.
«Uscite»
ordinò Blaise imperioso, correggendosi poco dopo.
«Per favore».
Ben presto la stanza si
svuotò, lasciandoli soli. Si
avvicinò, temendo che anche solo il suo avvicinarsi potesse
farle del male.
«Riesci ad
alzarti?» le chiese.
Quella indicò una
boccetta, oramai piena per meno della
metà, di Ossofast. Trattenere l’ennesimo attacco
di rabbia, per il giovane
Zabini, fu tutt’altro che semplice.
«Se io riuscissi a portare
via di qui tua madre e tua
sorella, tu…» provò, di nuovo, sapendo
già che l’orgoglio della ragazza le
avrebbe fatto formulare un rifiuto. Ma così non fu.
«Sì, ti
sposerei» disse lei, con voce bassa e stanca. »Ma
deve essere tutto perfettamente legale, non voglio mai più
appartenergli in
alcun modo».
Una vittoria.
Avrebbe avuto
l’opportunità di darle una nuova vita.
«Entro la fine
dell’estate sarai mia moglie» la
rassicurò
lui, sicuro di sé. Qualcosa non andava.
La vide tentare d’alzarsi,
nonostante le ferite. Tremava.
Piangeva.
Le gambe a stento la reggevano,
mentre le mani, rallentate
dalle troppe ferite, le fecero scivolare lungo la schiena
l’abito leggero che
indossava.
Si coprì il seno con una
mano, mentre obbligava quel
cadavere livido che era il suo corpo a dargli la schiena.
Tra le scapole,
un’incisione, ancora arrossata sebbene fosse
stato usato un incanto per cicatrizzarla. Una parola: puttana.
«Non ce la faccio
più».
Blaise aveva atteso anni per
sentirglielo dire. Non si era
mai piegata, non si era mai data per sconfitta. Ora voleva voltare
pagina.
L’abbracciò da
dietro. Lei non riuscì a trattenere un
gemito. Blaise cercò di allentare la presa, ma non era in
grado di staccarsi da
lei.
Doveva proteggerla.
«Tre settimane»
la rassicurò, sussurrandole all’orecchio
mentre delicatamente la aiutava a rivestirsi.
«Tornerò stasera per parlare con
tuo padre, fisserò la data e imporrò qualche
condizione. Lo minaccerò affinché
non ti tocchi più».
Daphne mormorò un
ringraziamento.
«Resisti».
Posò un bacio leggero su
una porzione di pelle non escoriata
e la salutò.
Doveva ordire una fuga e organizzare
un matrimonio in
pochissimo tempo Sua madre era in vacanza con il suo nuovo marito.
Draco e Narcissa erano il suo unico
appoggio. Magari loro
avrebbero saputo a chi chiedere aiuto.
L’arredamento moderno della
casa trapelava il rinomato
buongusto di Daphne, la quale, prima di invitare i nuovi arrivati a
sedersi sul
divano, diede una veloce sistemata ai cuscini sgualciti. Alcuni
più di altri
portavano l’evidente passaggio di Blaise.
«Scusate il disordine,
abbiamo saputo solo poco fa la
notizia e non eravamo preparati a ricevere alcuna visita».
Nel suo modo di fare c’era
la gentilezza e l’educazione
tipica della perfetta padrona di casa.
«Ci dispiace molto essere
di disturbo, ma non sapevamo dove
altro andare« rispose subito Ginny. «E comunque,
anche nel suo momento peggiore
questa bellissima casa rasenterebbe la perfezione».
«Non lo siete
affatto» li tranquillizzò lei pacata.
«Considerando ciò che avete fatto per noi,
l’uscio di questa casa sarà sempre
aperto per voi» continuò poco dopo, sorridendo.
«E poi come potrei sbattere la
porta in faccia alla mia damigella?»
Harry, che si sentiva escluso
poiché non aveva potuto
partecipare alla missione di salvataggio di Asteria e sua madre e al
successivo
matrimonio di Daphne in quanto imprigionato dai Dursley,
avanzò un quesito.
«Sai qualcosa degli altri
invitati?».
La Greengrass si sedette loro di
fronte. Quel gesto li mise
in agitazione.
«Il numero di feriti
è alto, ma sembra che l’Ordine sia
riuscito ad evitare il peggio». Cominciò, parlando
con tranquillità
dell’associazione segreta, poiché vi era entrata
in contatto quando aveva
nascosto la sua famiglia presso l’attico di Narcissa Malfoy.
«La vostra
famiglia è al sicuro, sono tutti stati condotti nella Villa
Conchiglia, dove
sono protetti da molti Auror. Anche la McGranitt ha voluto assicurarsi
che
tutti stessero bene». A quella informazione, pronunciata
guardando ora l’una
ora l’altro Weasley, i due trassero un respiro di sollievo.
«Purtroppo, ci sono
anche delle brutte notizie».
Trasse un profondo respiro, che
Blaise sfruttò per
intromettersi nella conversazione.
«Draco sarà qui
a momenti» le riferì dopo aver fatto un giro
di ronda, sedendosi sul bracciolo della poltrona su cui lei stava
elegantemente
composta.
«Perfetto» gli
rispose, mentre si voltava in cerca dell’elfa
domestica. «Peggy, ti prego, servi del tè
freddo».
Vedendola procrastinare, i tre si
incupirono, reclamando
spiegazioni.
La mano di Zabini si posò
sulla sua spalla, dandole forza.
«Pare che il professor
Kennan si sia ferito molto
gravemente» spiegò, ottenendo fin da subito uno
sguardo colpito. Drew, nel
tempo che avevano trascorso a contatto con lui, era parso completamente
invulnerabile.
«La Maledizione utilizzata
per ferirlo rientra in un livello
molto avanzato della Magia Oscura e Madama Chips dice
d’essere in grado solo di
stabilizzarlo e curare le ferite più esterne».
«Ma si
riprenderà?» chiese Ron, portandosi alla bocca
riarsa
il bicchiere che la creatura gli aveva avvicinato.
«Si auspica che sia
abbastanza in forze da essere in grado
di eliminare gli effetti dell’incantesimo da solo, visto che,
al momento
attuale, è l’unico in tutta Hogwarts a sapersi
destreggiare così bene con
questo genere di Arti».
«Non mi sembra una notizia
tanto tragica…» constatò Harry,
non più in grado di impressionarsi facilmente dopo aver
scoperto della morte di
Malocchio, proprio durante il suo trasferimento alla Tana.
«Drew e chi l’ha
salvato sostengono che la Mangiamorte che
lo ha attaccato sia Hermione».
La voce gelida di Draco
causò un brivido lungo la schiena di
ognuno dei presenti.
Tante cose, viste da
quell’ottica, prendevano senso.
Terribilmente.
Le risposte sempre più
sporadiche ai gufi che le inviavano,
il continuo aggravarsi delle condizioni di salute di sua nonna, le
quali la
tenevano lontana dalla dimora dei suoi genitori e le avevano impedito
prima di
partecipare allo spostamento di domicilio di Harry, per la quale era
stata
sostituita dal professor Kennan e, poi, al matrimonio di Bill e Fleur.
Aveva
anche rimandato o annullato ogni appuntamento con ognuno di loro,
spingendoli a
pensare che fosse sparita.
La notizia della separazione da Draco
r il grave male che
stava conducendo alla morte uno dei suoi pochi parenti che ancora era
in vita
però, li aveva spinti a desistere dall’insistere
troppo. Infondo, lei era
Hermione Granger una Gryffindor valorosa, una guerriera,
un’amica. Lei era
stata la soluzione a molti dei problemi che Lord Voldemort aveva posto
sulla
loro strada.
«Non è
possibile» scandì chiaro Ron, dando voce anche al
pensiero dei suoi compagni.
Malfoy si limitò a
scuotere piano il capo. Era lui il primo
con il cuore infranto, sebbene nessuno paresse rimembrarlo. Era lui il
primo ad
essere stato deluso. Pensò ad un impropero, mentre,
standosene ancora in piedi,
caricava l’affondo finale.
«Sono appena stato a
trovare la signora Jean…» cominciò,
mentre già le teste dei tre presero a muoversi in segno di
diniego. «… ed era
ancora più allegra e vispa dell’ultima volta che
l’ho vista».
Si soffermò su ognuno di
loro per qualche istante.
«Un’arzilla
vecchietta in piena salute e che, su sua stessa
ammissione, non vede la propria nipote da quasi due mesi».
Potter scattò in piedi.
Avrebbe voluto urlare, scaraventare
qualcosa al suolo, rompere quella dannata testa platinata. Sentiva che
tutto
quello che stava accadendo aveva una spiegazione. Doveva avercela.
Sentire la mano di Ginny sulla
propria schiena placò il suo
spirito.
«Vorremmo
credervi» cercò di scusarsi lei. «Ma
cercate di
capirci: fino a pochi secondi fa lei era uno dei nostri pilastri.
Abbiamo
bisogno che sia lei a dire di averci voltato le spalle per schierarsi
con il
Signore Oscuro. Abbiamo bisogno di un confronto».
I muti assensi del suo fidanzato e di
Ron valsero più di
mille parole.
«Dovrete attendere che io
abbia il mio» chiarì Draco, con un
tono che non aveva alcuna tipologia di replica.
«Resta il fatto
però, che, Granger o meno, Silente ci ha
lasciato una missione da compiere» disse Blaise che, per la
prima volta, si era
inserito nella conversazione.
«Partiresti anche senza di
lei, Sfregiato?» domandò Malfoy.
Harry parve non avvertire neppure il
suo insulto.
«Assolutamente»
disse con fermezza. «Anzi, dovremmo muoverci
ancora più velocemente, onde evitare che il Signore Oscuro,
avvisato da
Hermione, recuperi gli Horcrux prima di noi».
«Una missione con ben poche
possibilità di riuscita»
constatò la Greengrass che, corrucciata, stava tormentando
la mano che Zabini
le aveva porto. «Gli unici indizi che abbiamo sul dove si
trovino sono nel
messaggio cifrato che quel pazzo di Silente ci ha lasciato con il suo
testamento».
Malfoy si intromise nuovamente.
«Senza contare che questa
sua indicazione non è nascosta tra
le parole delle sue volontà, visto che il Ministero, prima
di darci ciò che ci
spettava si è premurato di controllare approfonditamente che
non vi fosse nulla
di anomalo». Così dicendo gettò una
copia di quel documento sul tavolino,
suggerendo, implicitamente, che la chiave, dunque, doveva trovarsi
negli
oggetti ricevuti.
Da un cassetto di una vetrina, Blaise
trasse un libricino
dall’aria antica e con la copertina logora.
«A
Blaise Aiden Zabini
lascio il Manoscritto di E.H., mio personale ritrovamento, certo che
apprezzerà
l’amore per l’ozio del protagonista» citò
a memoria, lanciandolo sul
tavolo.
«A
Ronald Bilius
Weasley lascio il mio set di Scacchi Magici da viaggio, nella speranza
che
questo non faccia che accrescere la sua passione» continuò
il rosso posando
un sacchetto sgualcito e dall’aria antica sul tavolo.
«A
Daphne Meredith
Greengrass lascio il mio Deluminatore, nell’auspicio che si
ricordi di me
quando lo usa» recitò la ragazza,
aggiungendo agli altri oggetti qualcosa
di simile ad un accendino.
«A
Draco Lucius Malfoy
lascio una piccola fiamma gubraitiana, così che questa lo
aiuti a dissipare i
suoi dubbi». Si trattava di una boccetta simile ad
una clessidra, in cui
bruciava ininterrottamente un fuocherello vispo.
«A
Harry James Potter
lascio il Boccino che catturò nella sua prima partita di
Quidditch ad Hogwarts,
in memoria delle ricompense che perseveranza e abilità
meritano, e la
leggendaria Spada di Godric Gryffindor, così che questa
metta in luce il suo
grande coraggio» concluse Harry, che non avendo
potuto appropriarsi di un
patrimonio storico dell’intera comunità magica,
mostrò solo la sferetta alata,
brillante nel suo colore aureo.
«Ancora una
volta» commentò Ginny.
«Quell’uomo è stato
cristallino».
Ciò stemperò
l’atmosfera, fin troppo tesa. Se fosse stato
vero quello che si diceva di Hermione, il gruppo avrebbe dovuto
affrontare un
ennesimo problema: risolvere l’enigma senza una parte del
quesito e senza la
mente brillante della Granger.
«Ginny, vieni con me,
magari c’è qualcosa di comodo nei
nostri armadi per te e i ragazzi» esordì
d’improvviso Daphne, dopo che più di
un’ora era trascorsa senza che nessuno avesse avuto qualche
idea.
Draco, salutando tutti, se ne era
andato, portando con sé la
sua parte di eredità. Il programma era che i tre sarebbero
rimasti presso
Blaise e Daphne fino al primo giorno di scuola, dove Draco li avrebbe
raggiunti
il più spesso possibile per tentare di capire dove Voldemort
potesse aver
nascosto i sui Horcrux.
«Ho chiesto personalmente
al professor Kennan di imporre
qualche protezione su questa casa» li aveva rassicurati la
Greengrass, mentre
Blaise, stanco, si era andato a infilare a letto.
***
Rare gocce di una fiacca pioggia di
fine estate si
frantumavano contro le vetrate di un silenzioso bar sperduto nella
campagna
inglese. La proprietaria del locale, bella sebbene non più
giovane, dopo aver
raccolto i lunghi capelli biondi in una treccia distratta che le
ricadeva sulle
spalle e sul seno abbondante, stava cercando, con risultati piuttosto
scadenti,
di non farsi prendere un infarto dopo aver scoperto che le proprie
finanze
erano pesantemente in rosso. I boccali di birra che serviva la sera ai
suoi
clienti abituali, purtroppo, non sembravano essere sufficienti per
mandare
avanti la baracca, costatò dopo aver ringraziato
l’unico cameriere del bar, il
quale, posandole la mano sulla spalla cercando di confortarla, si
diresse verso
uno dei pochi tavolini occupati da qualche cliente, reggendo abilmente
il
vassoio sul palmo aperto della mano sinistra. Se Marise, alla fine di
quei
conti con tanto di calcolatrice scientifica, avesse dichiarato
bancarotta, lui
si sarebbe ritrovato disoccupato e con una costosa retta da pagare per
i suoi
studi. Aspetto, quest’ultimo, che l’avrebbe
costretto a ritornare a capo chino
dai suoi genitori per implorare che lo aiutassero, nonostante
l’ultima volta
che li aveva visti il rumore della porta d’ingresso sbattuta
fosse stata
l’unica parola che si erano scambiati.
Pochi passi furono più che
sufficienti per permettergli di
raggiungere quel tavolino addossato al muro in cui si apriva
un’ampia finestra
che dava su una strada solitaria, calpestata solo dai passi pesanti del
tempo
ubriaco, e su un piccolo parco addobbato da alcune querce, le cui
fronde
secolari appena si muovevano sotto il respiro del vento.
«Due cappuccini e tre
brioche al cioccolato» disse il
ragazzo mentre posava le ordinazioni.
Due ragazzi, diametralmente opposti
in tutto, sedevano l’uno
di fronte all’altro. Uno riempiva il silenzio,
l’altro lo ascoltava in modo
composto.
Sorrise educatamente ai due e, in
risposta, ottenne un
leggero assenso con il capo e un ringraziamento gentile. Iridi di miele
di
castagno e capelli color del grano all’inizio di settembre,
accompagnarono la
riconoscenza del giovane, che si appropriò immediatamente
del piatto su cui si
trovavano i tre croissant. La sua fame da abile giocatore di Quidditch,
evidentemente, non lo aveva ancora abbandonato, nonostante che da quasi
un paio
di mesi non mettesse più piede ad Hogwarts. Quella scuola,
in cui presto
avrebbero fatto ritorno con l’inizio del nuovo anno
scolastico, non era più
ritenuta un rifugio sicuro da quando Silente era morto. Molti suoi
compagni di
casa, proprio per questo motivo, erano stati obbligati dai propri
genitori a
trasferirsi a Durmstrang o a Beauxbatons.
Quell’incontro, il sabato
mattina, era diventato ormai
un’abitudine. Stesso locale, stesso tavolo, stesse
ordinazioni. Il diverso era tutto
il resto, loro per
primi.
«Davvero è
così grave la situazione?» aveva bofonchiato il
biondo mentre addentava la prima brioche, la quale, con due morsi ben
assestati, si ritrovò ingerita ed accompagnata verso lo
stomaco con due pugni
pesanti contro il petto, che evitarono all’affamato ragazzo
di soffocare.
L’altro, ridacchiando in un
frangente di spensieratezza a
quella scena, si portò la tazza contenente il cappuccino
alle labbra sottili e
ne bevve un sorso. Un leggero segno biancastro, lasciato dalla schiuma
della
bevanda, marcò il contorno rosato di quella bocca per pochi
istanti, prima che
questa venisse pulita dall’educato utilizzo di un tovagliolo.
«Dovresti andarci piano con
tutti quei dolci che ingurgiti,
se non vuoi ritrovarti grasso e solo» disse, non riuscendo a
nascondere la
bruciante invidia per quel suo maledetto metabolismo e l’odio
verso quella
ferrea dieta cui spesso si ritrovava costretto a sottostare per
mantenere in
perfette condizioni il suo fisico da atleta. Nel dire quelle parole,
con cui
ancora una volta veniva ad essere rimarcato il profondo divario tra i
due,
Logan Forsyth non poté non soffermarsi su tutte quegli
aspetti su cui i loro
essere differivano.
Faceva fatica a convivere con il
fatto che, se accostati,
Daniel riusciva a metterlo sullo sfondo anche solo con un sorriso,
rendendo
costantemente quelli che erano i suoi difetti un proprio punto di
forza. A
volte, si sentiva solo l’ombra di una luce splendente, di
cui, pur non
volendolo, si ritrovava ad essere un banalissimo marcatore dei
vastissimi
confini: era un mare nero reso “nulla” da uno
scorcio bianco.
Si era tagliato i capelli corvini con
un taglio militaresco
che i suoi genitori, altolocati Purosangue, avevano disprezzato in
quanto troppo
poco nobiliare, nella speranza che le ragazze, a volte, fantasticassero
anche
su di lui e non solo sulle linee morbide del biondo scuro del giovane
Alleyn.
Aveva fatto a gara con l’altro, pur sapendo
d’essere l’unico a gareggiare a
quella tenzone, a chi riusciva ad avere il fisico più
tonico. Si era anche
imposto di smettere di fumare pur d’arrivare ad arrancare
dietro un’idealistica
perfezione che credeva fermamente di non poter raggiungere.
Ogni volta che lo guardava negli
occhi, però, capiva quanto
lontano fosse dalla possibilità d’esserne
all’altezza: un banalissimo marrone,
privo di sfumature che potessero essere associate a gioielli raffinati
o a
imprevedibili malesseri del cielo. Eppure, il suo era uno sguardo che
sapeva
riempirsi degli aspetti migliori della vita, della bellezza della sua
imprevedibilità e della sconvolgente originalità
della sua semplicità. Erano
iridi, le sue, che cantavano fin dalle prime ore del giorno un
accalorato inno
alla vita.
Nulla a che vedere, quindi, con
quella tetra oscurità con
cui Madre Natura aveva ricucito i pezzi della sua anima. Uno specchio
infranto
e portatore di malasorte.
Una nota morta in gola.
L’altro, preparandosi ad
azzannare il secondo croissant,
alzò le spalle e, addentata la pasta friabile ferendo a
morte il suo cuore
pulsante cioccolata, si preparò a rispondergli per le rime.
«Sono sicuro che la persona
a cui piaccio lo farebbe anche
se occupassi entrambe le piazze del nostro letto».
Il suo interlocutore si prese un
sorso del proprio
cappuccino e lui, rimanendo in silenzio, ebbe la possibilità
di constatare
quella classe innata nel suo portamento, che sapeva benissimo non
avrebbe mai
posseduto. Non Daniel Alleyn, il Mezzosangue.
Il nodo perfetto alla cravatta blu
scuro e l’elegante giacca
dal taglio moderno, abbandonata sullo schienale della sedia, sul cui
taschino
spiccava una spilla d’oro bianco con il simbolo del suo
casato. In confronto,
lui, con la sua maglia leggera con cui fronteggiava quel prematuro
autunno
britannico, sembrava essere uscito per errore di casa con il pigiama
addosso.
Tra i due c’era solamente
un anno di distanza, il cui peso a
volte era fin troppo opprimente. Non che Logan evitasse di farglielo
notare
costantemente, trattandolo come un bambino e offrendosi di dargli
ripetizioni
di Storia della Magia.
«Dovresti sapere che quella
persona, pur amandoti, ha un
fila di ragazzi che aspettano solo di avere uno straccio di
possibilità», gli
rispose Logan, sapendo quanto questo avrebbe scatenato la sua gelosia
quasi
infantile.
«Prima o poi ti
costringerò a dirmi tutti i loro nomi»
concluse l’altro, mentre con un gesto veloce, si preparava ad
ingurgitare anche
l’ultimo pezzo di brioche. Il ritmo pacato con cui girava il
cucchiaino in
senso antiorario per sciogliere lo zucchero che aveva versato nel
proprio
cappuccino, però, anticipò che il silenzio lo
aveva portato a riflettere sulla
questione da cui tutto aveva avuto inizio.
«Quindi le cose si stanno
mettendo veramente male» constatò
amaro, esternando quello che era il pensiero che stava prendendo il
dominio
nella sua testa in quell’istante. Lo aveva intuito dal fatto
che Logan non
avesse voluto parlarne, tergiversando la sua domanda e concentrando la
loro
conversazione su argomenti ben più rilassati.
L’espressione del suo
interlocutore si rabbuiò, mentre, dopo
aver dato un’occhiata circospetta ai Babbani presenti in quel
locale ed aver
avuto la conferma d’essere sufficientemente lontani da occhi
indiscreti,
sfilava da una tasca interna della propria giacca un giornale
arrotolato.
Daniel, spostando la propria tazza per coprire il più
possibile la foto
magicamente animata dell’oramai ex-Ministro della Magia,
Cornelius Caramell,
con un’espressione seria e pensosa. Dal titolo, che il
ragazzo lesse
rapidamente e di sfuggita, intuì che il padre di Luna
Lovegood, nell’ultimo
periodo, stava dando il meglio di sé, accusando
l’anziano uomo d’avere
l’abitudine di torturare e poi cucinare in crosta tutti
Folletti che gli
capitavano a tiro di bacchetta.
«Non pensavo che fossi un
lettore del Cavillo» gli disse,
guardandolo basito.
Il sospiro di Logan fu perentorio,
messo di infausti
presagi.
«Ne ho parlato con mio
padre» questo incipit, se possibile,
lo intimorì ancora più di quello che
già era. Se Logan era arrivato a chiedere
informazioni a suo padre, uomo freddo e scostante, favorevole, per
quanto non
facente parte dei Mangiamorte, all’ascesa di Lord Voldemort,
la situazione
doveva essere tragica «Tu-sai-chi si è infiltrato
nel Ministero, facendosi
largo con spie e Maledizioni Imperius. Ora, da quando Rufus Scrimgeour
è morto,
è completamente nelle sue mani» si prese una pausa
per permettere a Daniel di
immagazzinare le informazioni, sapendo che dall’ultima volta
che si erano
visti, due settimane prime, non aveva potuto ricevere alcuna
informazioni sul
Mondo Magico «Se non altro, pare che sia morto senza svelare
dove si
nascondesse Potter. A reggere il governo, in questo momento,
è Pius O’Tusoe,
una marionetta completamente in mano al Signore Oscuro».
«Quindi, tutti i maggiori
giornali nazionali sono in mano sua»
continuò, per lui, il giovane Gryffindor, capendo per quale
motivo quello
sconclusionato mensile fosse diventata l’unica fonte di
informazioni veritiere.
«Esattamente»
confermò Forsyth con un lieve cenno d’assenso
«Da
questa posizione, nulla è più sicuro. Potrebbe
benissimo infiltrare qualche
burattino all’interno di qualsiasi associazione o organismo
pubblico. Pare che
l’abbia fatto anche con il San Mungo, sostituendo il Primario
con un suo
fedelissimo. Fortunatamente, non ha avuto gioco facile con Hogwarts: la
McGranitt ha deciso di scendere in campo, nonostante i rischi che corra
nel
farlo», continuò poco dopo.
L’espressione di Daniel era
una muta richiesta. Sapeva che
la direttrice della sua Casa non avrebbe ceduto a Lord Voldemort, ma
non poteva
non temere per la vita dell’anziana donna. Neppure Silente
era sopravvissuto a
quel folle e il solo pensiero che colei che era stata per tutta la sua
generazione un punto di riferimento insostituibile perisse per sua mano
era
inaccettabile.
«Che ha fatto?».
Nella sua voce, un tremore parafrasava la
sua preoccupazione.
«Ha sfruttato
un’antica regola per ottenere la carica di
Preside a tempo indeterminato e, poi, ha dichiarato la scuola
indipendente dal
giogo ministeriale. Nel farlo, ha perso buona parte dei
sovvenzionamenti
governativi, oltre alla protezione del corpo degli Auror. Per ora, la
cosa
sembra funzionare, ma è probabile che a breve
sarà costretta a scendere a
trattative, se non vuole rischiare che Hogwarts venga chiusa. Per non
parlare,
poi, delle varie e possibili ripercussioni di cui il corpo docenti
potrebbe
essere vittima … ».
Alleyn rovinò contro lo
schienale della sedia. Stanco,
improvvisamente.
«Perché
l’ha fatto?».
«Pius O’Tusoe
aveva individuato in Piton il successore di
Silente. La McGranitt non lo avrebbe mai permesso» rispose
pacato Logan,
passando con fare consolatorio una mano tra i capelli di Daniel
«Avanti, mangia
pure anche la mia brioche» continuò, poco dopo,
trascorsi alcuni istanti di
silenzio totale.
Il biondo, come prevedibile, non se
lo fece ripetere due
volte, ottenendo che sul viso dell’altro si aprisse
un’espressione ilare. La
facciata splendente di un mondo rovinato al suolo, di domande che non
avevano e
non avrebbero avuto alcuna risposta. Un luogo dove era stato
imprigionato il
timore, solo per poter ostentare un coraggio vuoto, ma vero e
profondamente
sentito.
Solo una settimana, poi la scuola
sarebbe ricominciata.
Forse, quest’anno, qualcuno avrebbe notato il loro talento
nel Quidditch, dopo
tanti allenamenti. Ore di sudore e fatica, condivise e convissute, con
l’unica
certezza che, se mai i loro sforzi fossero valsi a qualcosa, si
sarebbero
ritrovati avversari. Gryffindor e Slytherin. Mezzosangue e Purosangue.
Alba e
tramonto.
Nulla, nella loro esistenza avrebbe
suggerito quella loro
strana armonia.
Marise, intanto, si dava sconfitta e,
chiamando vicino il
suo cameriere, gli annunciava piano che l’unica cosa che
potevano fare era
cercare di stabilire quanti giorni, ancora, sarebbero riusciti a
rimanere
aperti.
«Si sa qualcosa degli
insegnanti a cui sono state assegnate
le cattedre mancanti?» chiese ancora Daniel, reso ancora
più curioso dalla
lunga lontananza dal mondo magico, in quello sperduto angolo Babbano in
cui si
ritrovava ad abitare.
«Nulla.» rispose
pacato «Pare che la McGranitt voglia
evitare che i nuovi acquisti subiscano delle ritorsioni per aver
accettato i
loro incarichi. Tra Hogwarts e il Ministero è ufficialmente
guerra fredda».
Logan lo conosceva fin troppo per non
notare la
preoccupazione nel suo sguardo. Forse avrebbe dovuto misurare meglio le
parole.
«Un passo falso della
Preside basterebbe a far riempire i
corridoi di Mangiamorte» constatò Alleyn, senza
alcuna inclinazione nella voce.
La risposta dello Slytherin fu solo
un cenno affermativo con
la testa. Rimasero in silenzio per alcuni minuti. Necessari e dovuti.
«Sono stufo di stare qua
dentro, andiamo fuori» esordì
improvvisamente Logan, mentre afferrava la propria giacca e lasciava
cadere un
paio di banconote sul tavolino, invitando con un gesto eloquente Daniel
ad
alzarsi e seguirlo.
«Tenete pure il resto.
Arrivederci» disse ad alta voce,
sbrigativo. Aprì la porta e il suono di una campanella
accompagnò quel gesto.
Basito e trascinato per un braccio, l’altro non
poté fare altro che seguirlo,
abbozzando un saluto che gli morì in gola quando Forsyth lo
trascinò con più
forza.
Si ritrovarono, bagnati, sotto la
pioggia estiva, la quale
presto sarebbe mutata in temporale, solo per scemare nel nulla. Corsero
fino a
raggiungere un vicolo secondario, dove potevano ripararsi sotto un
tetto
spiovente.
«Sai, vero, che con quel
resto potranno tenere aperto il bar
almeno per il prossimo mese?» gli domandò,
leggermente affannato.
«Davvero?»
domandò Logan, sinceramente incredulo «Stupidi
soldi Babbani … »
Fu un attimo. Lo spinse contro il
muro, facendogli avvertire
il calore del proprio corpo.
La sua mano destra, bagnata dalla
pioggia, risalì placida la
linea del suo collo, andando ad aprirsi dolcemente sulla sua guancia e
causandogli un fremito che, per il piacere dello Slytherin, non fu in
grado di
nascondere. L’altra, intanto, scese sul fianco, stringendolo
con forza vorace.
La troppo prolungata distanza aveva reso la mancanza di quel contatto
insopportabile.
Piegò leggermente il viso,
così da avere un più facile
accesso alla sua bocca. Proprio su questa si soffermò, a
pochissimo da che le
loro labbra si potessero finalmente sfiorare. L’affanno della
corsa e del
momento mischiava i loro respiri, bussando alle reciproche bocche con
una
affettuosa insistenza. I loro occhi si riflettevano in quelli
dell’altro, in un
gioco di specchi infiniti e di bagliori.
«Mi devi una
brioche». Quel sussurro scivolò nelle membra
dell’altro, con un bacio leggero a sancirne
l’immanenza. Le mani di Daniel, da
inermi e vinte, ritrovarono vigore. Salirono sul suo petto, scivolando
sulla
camicia bianca e zuppa, che nulla lasciava all’immaginazione.
Raggiunse il
colletto e, sgualcendolo, lo strinse tra le dita, tirando di nuovo a
sé quel
viso. Con un colpo di reni ben assestato, invertì le loro
posizioni.
«Ti devo una
brioche». Rispose, con un sorriso divertito
sulle labbra. Sì, era felice.
Cercò le sue labbra, per
un bacio più profondo.
Da mesi, anche lui sapeva
cos’era l’amore.
***
Infine, anche quello che avrebbe
dovuto essere il suo ultimo
“primo giorno di scuola” era giunto.
L’Espresso per Hogwarts
però, sarebbe approdato ad
Hogsmeade, dove si trovava la stazione più vicina alla
scuola, solo un paio
d’ore più tardi. Il regime di Lord Voldemort,
instaurato da quando Pius
O’Tusoe, fantoccio sotto Imperius , era divenuto Ministro,
stava muovendo i
primi passi.
Così, decine di
Mangiamorte, cui le fila si stavano
ampliando notevolmente da quando il Signore Oscuro era risorto,
saturavano le
vie di quel villaggio magico, attendendo di poter mettere le mani su
qualche
studente particolarmente remunerativo. La taglia posta sul capo della
giovane
Asteria Greengrass, come anche quella su sua madre, prometteva infinite
ricchezze, ma mai paragonate a quelle che Bellatrix Lestrange era
pronta a
sborsare per sua sorella Narcissa e suo nipote Draco.
Per questo motivo, il tradizionale
attraversamento del Lago
Nero in barca per quelli del primo anno era stato sospeso. Tutti
avrebbero
raggiunto il castello mediante le carrozze trainate da Thestral, che
gli
insegnanti avevano opportunamente protetto con incanti per evitare
qualsiasi
attacco. La McGranitt, con quelle che ora mai erano considerate doti di
contrattazione, aveva ottenuto dai Centauri che questi si disponessero
nella
penombra della boscaglia addossata al sentiero, così da
poter eliminare un
eventuale assalitore. Inutile dire
che
gli studenti maggiorenni, nel caso improbabile in cui fosse necessario,
avrebbe
potuto utilizzare la propria bacchetta per difendersi.
Per quel che le era stato bisbigliato
all’orecchio,
comunque, in molti, specie tra i provenienti da famiglie Babbane e
Mezzosangue,
erano già stati accompagnati a scuola dai propri genitori,
da un appartenente
al corpo docente o da qualche Auror fidato.
Lei, invece, camminava senza alcun
timore verso Hogwarts,
lasciandosi alle spalle la fin troppo trafficata Hogsmeade e
dirigendosi,
indossando già alla perfezione la propria divisa, su cui
spiccava una nuova
spilla.
Nessun Mangiamorte avrebbe osato
anche solo pensare di
sfiorarla.
Nel suo incedere però,
c’erano i vistosi segni della
punizione che Lord Voldemort le aveva inferto.
Il non essere riuscita ad uccidere
Drew Kennan aveva avuto
delle conseguenze che, se non fosse stato per l’inattesa
testimonianza di altri
servi fedeli, tra cui Bellatrix, l’avrebbero condotta
sicuramente alla morte.
Aveva quasi iniziato a supporre che
in lei, l’Oscuro Signore
avesse intravisto una qualche forma di guadagno.
Nonostante ciò, non era
stato facile sopportare per tre
giorni consecutivi la Maledizione Cruciatus, scagliatale dallo stesso
Voldemort
e il ghigno di soddisfazione di Piton, incaricato di curare con la
Magia Oscura
i danni arrecati dal maleficio sul suo corpo, così che la
tortura potesse
continuare senza che la morte la interrompesse.
Le ore parevano non trascorrere mai.
Vi erano solo le sue
grida e quella sofferenza lancinante in grado di romperle le ossa.
E la soddisfazione, nello sguardo
scarlatto del suo boia.
Avrebbe voluto farlo, ma non si
arrese. Non aveva ridotto
Drew in fin di vita per nulla.
Drew,
Draco, Harry, Ron, Ginny.
Come avrebbe retto I loro sguardi?
Come avrebbe sopportato il disprezzo
della McGranitt?
Non lo sapeva, ma stava per
affrontare questo suo timore.
Con la mano sinistra, la cui manica
della camicia aveva
volutamente arrotolato fino al gomito per lasciare scoperto il Marchio,
spinse
la possente anta della porta d’ingresso.
In lontananza gracidava un corvo.
Note
dell’Autore
Non è stato semplice, ma
ci siamo riusciti. Parlo al plurale
non per indicare le mie molteplici e psicopatiche
personalità, ma perché questo
capitolo, visto che tra le rogne dell’ultimo periodo rientra
anche la rottura
del mio pc, è stata battuto al computer da Lady Annette, cui
va, ancora, il mio
più sentito ringraziamento.
Ok, ci ho messo un po’, ma
ce l’ho fatta, non odiatemi ^^
Ho avuto un paio di impicci, tra
problemi di salute e primi
esami all’università, ma hey non vi ho abbandonate
u.u Vi voglio troppo bene :3
Vorrei ringraziare chi mi ha
reclamato ai miei doveri, non
tanto perché ne avessi bisogno, ma perché mi
hanno fatto sentire apprezzato.
Non faccio nomi, so che sapete chi siete xD
Un ringraziamento di cuore a Nihal,
che mi ha adottato come
Pandino. E uno anche alla Tam, che, in sintesi, possono essere ritenute
due dei
pilastri più spessi della mia esperienza nel mondo dei GdR.
Buon Weekend
dell’Immacolata e, se non dovessimo risentirci
prima, Buon Natale ^^
A presto,
Jerry
|
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Capitolo 3 *** Choose: How to start living ***
Chap3
Chapter
three, Choose: How to start living
Mangiamorte
infestavano Hogsmeade. Non si esponevano, non ancora, ma era risaputo
che entro
le mura del Ministero, da settimane in mano a Voldemort, si stava
covando,
vipera in seno, una legge contro i Nati Babbani. Ad emanazione compiuta
del
decreto, i seguaci del Signore Oscuro, autorizzati a denunciare e
imprigionare
chiunque ritenessero avverso al regime, avrebbero gettato la
società in uno
spaventoso disordine.
Il
Primo
Ministro di Francia si era già mosso per tamponare la
gravosa situazione,
cercando di instaurare un’alleanza con i propri colleghi, ma
ben pochi avevano
risposto al suo appello. Aurore Leroy, chiedendo aiuto per la
popolazione inglese,
si era ritrovata completamente abbandonata ed esposta ad una ritorsione
che non
si era affatto fatta attendere. A distanza di un paio d’ore
dalla sua richiesta
pubblica di convocare il Concilio Plenario delle Nazioni Magiche Unite,
assemblea in cui erano chiamati a presentarsi tutti i governatori degli
Stati
firmatari, suo marito, l’esimio e amatissimo Cyprien, da cui
aveva assunto il
proprio cognome, era stato freddato con un Avada Kedavra. Il
responsabile,
immediatamente individuato, privato del pesante cappuccio nero che gli
copriva
il volto, aveva rivendicato per il suo Lord l’uccisione e,
poi, aveva posto
fine alla propria esistenza gettandosi dalla finestra del Palazzo
dell’Eliseo,
dove Madame Leroy aveva richiesto che venisse condotto
affinché potesse
interrogarlo.
L’opinione
pubblica si convinse che il decesso dell’amato
l’avesse piegata, ma fu un errore
di valutazione. Enorme.
Chiusasi
nella propria dimora, ampiamente protetta da un folto gruppo di Auror
fidati,
vi rimase senza rilasciare alcuna dichiarazione fino ai giorni dei
funerali del
consorte.
La
foto della
signora di mezz’età, che, china sotto il peso di
abiti scuri, percorreva il
lungo viale fino alla lapide di Cyprien, fece rapidamente il giro del
mondo
magico e anche chi aveva delle riserve, stabilì la sua
sconfitta su tutti i
fronti.
Era
rimasta
per ore inginocchiata sul terreno appena dissodato della pietra
sepolcrale,
senza dire una parola e non permettendo a nessuno di avvicinarsi. La
veletta
nera che cadeva morbida dal suo cappello, parte integrante della sobria
acconciatura, sviava lo sguardo dai suoi occhi arrossati. Teneva il
pugno
chiuso, stretto su un fazzoletto, premuto contro la bocca, quasi come
se fosse
decisa a trattenere quel singhiozzo in maniera perpetua. Qualcuno,
misericordioso, le aveva coperto le spalle, lasciate nude dal semplice
tubino,
con un pesante cappotto. Il colore acceso dei suoi capelli castano
ramati,
ricchi di sfumature bordeaux, pareva sconvolgere l’equilibrio
di quella scena,
spezzando anche il lento ciondolare di quel pesante medaglione che,
infilato in
una lunga collana, pendolava dal collo affusolato della donna. Molti
anni
addietro, con quei due anelli, Aurore e Cyprien avevano suggellato il
loro
giovane amore.
Solo
dopo
ore, la donna si era alzata, scostando la giacca e restituendola al
ragazzo cui
apparteneva.
Gelida
ed
austera, si infilò un ampio paio di occhiali scuri, pronta
ad affrontare la
folla di giornalisti e di semplici cittadini che si era accalcata oltre
il
cancello d’ingresso del cimitero. No, lei non avrebbe
abbandonato il suo
popolo. Il suo cuore, quello che aveva pulsato al ritmo dei baci
amorevoli del
suo uomo, reclama vendetta.
Di
nuovo, il
ragazzo le si avvicinò, offrendosi per ripararla dalle
impietose macchine
fotografiche cui sarebbe andata incontro. Lei, però,
rifiutò l’offerta, posando
la propria mano sul braccio del suo assistente.
«Ho
bisogno
di te altrove, Aymon» esordì lei, facendo in modo
d’ottenere la sua completa
attenzione «Devi mettermi segretamente in contatto con
Minerva McGranitt».
Quello
annuì
appena, voltandosi immediatamente e sparendo, dopo aver svoltato dietro
un
albero, smaterializzandosi.
Il
Ministro,
allora, si concesse un grande respiro. Alle domande su come si sarebbe
comportata per far fronte all’ingiuria subita, avrebbe
risposto solamente che
si sarebbe presa un paio di giorni per piangere la dipartita di suo
marito a
causa di un tragico incidente. Avrebbe convinto l’opinione
pubblica di aver
deciso d’evitare di mettersi contro Lord Voldemort, emanando
un ingiunzione
contro tutti i giornali che avessero pubblicato notizie sulla
situazione
inglese o sull’attentato.
Si
sarebbe
finta domata, quando in vero sarebbe stata la fiamma della ribellione.
Lei, a
costo di rimetterci la vita, avrebbe impedito ad ogni costo che un
essere così
abietto dominasse il mondo, il Signore Oscuro avrebbe dovuto pentirsi
amaramente d’aver colpito il Rubino di Francia.
***
I
dati
parlavano chiaro: era da anni che ad Hogwarts non si registrava un
così basso
numero di iscrizioni. Da che i Fantasmi dell’edificio ne
avevano memoria, ciò
accadeva solamente in circostante particolarmente drammatiche, cosa che
non si
facevano scrupolo a ripetere assiduamente. Del resto, per loro che
tanto si
rallegravano dal vedere tutte quelle giovani e vispe menti affollare i
loro
corridoi, un così sventurata novella non poteva che essere
al centro dei loro
chiacchiericci.
Raccontavano
a chi volesse stare ad ascoltarli, e anche a chi si sarebbe flagellato
pur di
non farlo, che la più importante scuola di Magia e
Stregoneria inglese non era
così vuota dagli oramai remoti tempi in cui
l’Europa tutta era devastata dai
Conflitti Mondiali Babbani. Una simile prospettiva, poi, si era
palesata anche
durante la prima ascesa di Lord Voldemort, ma questa si era assestata
su uno
scenario ben più roseo. Per questo motivo, il tradizionale
treno diretto ad
Hogsmeade da Londra sarebbe rimasto pressoché vuoto,
eccezion fatta per tutti
quelli studenti che sapevano essere al sicuro dalle possibili angherie
dei
Mangiamorte. Slytherin, principalmente, e tutti noti per
l’appartenenza ad una
delle famiglie Purosangue. Del resto, Traditori del Sangue esclusi,
tutta la
nobiltà Magica era rinomata per i suoi stretti rapporti di
parentela e per i
frequenti matrimoni tra consanguinei.
Gli
altri,
invece, avevano ottenuto il permesso di raggiungere la scuola mediante
altre
vie, alcune delle quali non propriamente legali. Era stato il caso di
alcuni
coraggiosi Nati Babbani che, pur di poter accrescere le proprie
conoscenze
magiche, avevano accettato d’utilizzare una Passaporta non
autorizzata, dalla
forma di un vaso di terracotta sbeccato, che li aveva catapultati
direttamente
entro i confini scolastici. Mai, come in quel momento,
l’undicesima serra,
quella dei tuberi flatulenti, fu tanto trafficata.
Altri,
invece, erano riusciti ad approfittare della speciale concessione che
la
popolazione di centauri della Foresta Nera aveva concesso alla
neo-insediata
Minerva McGranitt. Guidati da costoro, avevano potuto attraversare la
fitta
boscaglia rimanendo illesi. Fondamentale, poi, era stato
l’intervento dei
Maridi, i quali, in ricordo del molto compianto Albus Silente, avevano
fornito
una grande quantità di alga branchia e messo a disposizione
i propri mezzi di
trasporto per far risalire agli studenti il fiume emissario del Lago
Nero. Non
tutti, però, erano rimasti soddisfatti di
quest’ultima tipologia, decisamente
troppo bagnata e pericolosa.
Per
i
ricercati, ovvero Potter, i due Weasley e Malfoy, sotto imposizione di
un non
proprio entusiasta Horace Lumacorno, timoroso di possibili ritorsioni,
era
stata predisposta una corsia preferenziale: la Pozione Polisucco.
Poiché in
passato questa si era dimostrata sufficientemente efficace, avevano
supposto
che potesse affrontare a testa alta anche quelle ennesime
difficoltà. Del
resto, chi avrebbe osato intromettersi nelle violente pomiciate che
Madame Pince
e Mastro Gazza avevano continuato a scambiarsi lungo tutto il tragitto
tra
Hogsmeade e Hogwarts, coccolati dalla lenta andatura di una carrozza
trainata
da Thestral?
Decisamente
meno gioiosi furono Ron e Draco, quando scoprirono di dover impersonare
Hagrid
e il professor Vitious, di ritorno da un viaggio infruttuoso a Diagon
Alley, dove
il professore di incantesimi aveva deciso di recarsi in cerca di un
nuova
scorta di piume per le sue lezioni. La storia, a causa del terrore che
aveva
investito il quartiere magico di Londra, era purtroppo molto
realistica: ben
poche erano le vetrine ancora allestite e, in generale,
l’usuale folla che ne
saturava le vie era completamente sparita.
Inizialmente,
i due ragazzi aveva deciso di giocarsi a sorte chi impersonare, ma
considerando
l’espressione di Malfoy e che, in fondo, le vecchie abitudini
sono sempre
difficili da depennare, il rosso si offrì per vestire i
giganteschi abiti del
caro Rubeus. Con suo grande piacere, inoltre, scoprì
d’essere stato il più
fortunato: la sua pozione, nonostante l’ispido capello
crespo, era quella con
il sapore migliore. Biscotti Rocciosi bruciacchiati, con un retrogusto
amaro
simile all’odore del fumo di un caminetto scoppiettante.
Ovviamente,
i ragazzi non erano stati abbandonati a se stessi. Appollaiata su un
morbido
cuscino di raso viola, una gatta sonnecchiò,
anch’essa intontita dal moto lento
della carrozza su cui viaggiavano i due fidanzatini, avendo
l’accortezza, per
decenza personale, di tenere il muso rivolto altrove.
Un
falchetto,
invece, procedette ad ampie spirali sul placido camminare dei due
insegnanti di
Hogwarts, i quali, dopo un iniziale imbarazzo, trovarono uno o due
argomenti di
conversazione che non destasse sospetti: Natale, nonostante fossero i
primi di
settembre, era alle porte ed entrambi erano già ansiosi a
causa dei
preparativi. Il coro, quest’anno, doveva essere perfetto e,
nei propositi del
Guardiacaccia, il numero degli abeti doveva essere il doppio, per
compensare la
grave carenza di studenti.
Fatto
sta
che, fin dal primo mattino, la scuola, solitamente abituata ad
accogliere gli
scolari all’imbrunire, era già gremita di buona
parte degli ospiti attesi.
La
nuova
Preside, provata dall’estate trascorsa, aveva deciso,
irremovibile, di
accogliere personalmente chiunque fosse entrato dall’ampia
porta della Sala
d’Ingresso. I professori, suoi colleghi, erano presto giunti
a farle compagnia
e, man mano, anche gli studenti si erano appollaiati qua e
là. L’apprensione
era palpabile nell’aria: tutti stavano aspettando qualcuno,
timorosi che il
proprio amico avesse deciso di non frequentare la scuola, seguendo,
solitamente, le preoccupate imposizioni dei propri genitori.
Alcuni,
vuoi
per fama, vuoi per timore, erano più attesi di altri. Come
da tradizione, infatti,
un segreto ad Hogwarts era tale solo se tutti ne erano a conoscenza.
Per
questo
motivo, una notizia apparsa tra gli annunci della Gazzetta del Profeta
non
poteva che essere sulla bocca di tutti: Daphne Greengrass era
convogliata a
nozze con Blaise Zabini, cedendo, secondo Betty Braithwaite, autrice
dell’inserzione, ad una lunghissima serie di avances durata
anni.
Fortunatamente, nessun fotografo aveva ottenuto il permesso di
assistere alla
cerimonia, così da evitare che la notizia delle violenze
subite divenisse di dominio
pubblico. I due, però, essendo entrambi Slytherin
Purosangue, avevano deciso di
viaggiare con la comodità dell’Espresso e, per
questo motivo, non erano attesi
per almeno un altro paio d’ore. Similmente, nessuno si
aspettava di assistere
all’ingresso di Theodore Nott, il quale, sicuramente, da
rinomato figlio di
Mangiamorte, avrebbe avuto la coerenza d’essere
l’ultimo ad entrare, vista
anche la sua imminente posizione all’interno della sua
Casata, gli Slytherin.
Questi
ultimi costituivano, senza dubbio, il gruppo più sparuto,
lì nella Sala
d’Ingresso. Tacevano.
Il
loro era
un silenzio austero, pregno dell’eleganza che solo la
distaccata freddezza può
avere. Non chiacchieravano tra di loro, non si raccontavano aneddoti
sull’estate trascorsa. Non c’era spazio per
l’amicizia tra di loro, o, almeno,
questo doveva suggeriva l’apparenza. Se ne stavano immobili,
fissando a lungo e
con insistenza un punto fisso, quasi a volerne svelare ogni segreto.
Erano grandi
amatori, il cui sguardo avrebbe stregato anche la dama più
pudica, spingendola
a far scivolare le proprie vesti sulle curve morbide dei fianchi.
Non
erano
che una dozzina e tutti, quasi a voler tacitamente affermare la propria
superiorità, si erano disposti sull’ampio scalone.
Draco Malfoy, tra gli altri,
con i suoi capelli chiarissimi, riluceva di una bellezza difficile da
comprendere. Aveva, infatti, l’aspetto di un ragazzo con
indosso abiti da uomo:
una transizione, un qualcosa in divenire, che non è
più ciò che era, ma non può
ancora essere ciò che sarà. Le sue mani,
torcendosi vicendevolmente,
penzolavano sotto il suo capo, mentre s’impuntava sulle
ginocchia con i gomiti.
L’anno
scolastico, ufficialmente, non era ancora iniziato. Per questo motivo,
aveva
ritenuto di poter indossare la divisa senza una cura meticolosa: la
camicia era
leggermente sbottonata, con le maniche avviluppate
sull’avambraccio, e, non
sopportando l’afa, aveva allentato il nodo della cravatta. A
malapena, nascosta
dal tessuto leggero, si intravvedeva una catenina risaltare sul pallore
della
sua pelle.
La
barba era
sfatta da un paio di giorni e ancora rada a causa della giovane
età: una
sfumatura più scura di biondo con cui le sue labbra,
d’un acceso rosso sangue,
disegnavano l’affresco d’un paesaggio estivo.
Nel
suo
respiro, calmo e regolare, si avvertiva chiaramente la nota acre
lasciata
dall’ultima sigaretta, fumata non più di
un’ora prima. Le nocche bianche
suggerivano una tensione che, però, non riusciva a risalire
la sua anima fino
agli occhi. Cenere d’un rogo spento da un acquazzone,
scrutavano con attenzione
chi varcava la soglia.
Solo,
su di
un altro piccolo pianeta. Era lontano da quell’edificio,
distante dai suoi
tormenti. Eseguiva quel compito che, svelata la verità, si
era imposto da sé,
nascondendosi dietro la bugia di un ordine imposto. Così,
stanco, usava la
piccola fiammella, alimentata dalla sua stessa ansia, per accendere e
spegnere
quella luce che, lo sapeva benissimo, non avrebbe rischiarato nulla.
Ogni
minuto aveva il proprio tormento, un principio ed un esaurimento.
Inseguiva la
speranza di giungere alla fine, così da potersi fermare. Si
sarebbe seduto sul
morbido manto erboso di quel minuscolo astro, lasciandosi poi cadere
all’indietro. Giunta la notte, avrebbe finalmente potuto
dormire un sonno
tranquillo: in un sogno irreale, guardando una stella con il proprio
telescopio, qualcuno gli avrebbe detto che, secondo la somma scienza,
la
continua intermittenza luminosa dava il nome di cefeide a quel corpo
celeste,
non sapendo che, in realtà, su quel lontano asteroide,
abitava, indaffarato
come lui, un suo collega lampionaio. Allora, disilluso e intimorito, si
sarebbe
svegliato di soprassalto, accecato dall’alba, e avrebbe
spento il suo lume. E,
sconsolato, avrebbe atteso il tramonto.
Alle
spalle
di Malfoy, distante solo un paio di scalini, vi era Forsyth. Tra i due,
nascosta dalla breve distanza fisica, ve ne era un’altra,
più spirituale,
difficilmente commensurabile. Fu per questo che, stanco di
quell’attesa
infinita, Logan si staccò dall’ampio corrimano di
marmo bianco cui si era
appoggiato, cominciando a scendere i gradini, dirigendosi verso
l’esterno. La
sua bocca portava l’evidente marchio di un segreto taciuto.
Il leggero gonfiore
del labbro inferiore, una piccola ferita che suggeva continuamente
rimarcata da
una piccola goccia di sangue, un sorriso nascosto a fatica. Erano solo
indizi
che avrebbero ricondotto un attento osservatore ad un bacio passionale.
Nulla
avrebbe potuto suggerire la verità: non il suo ostentare
sicurezza, non il suo
obbligarsi a non guardare quella persona per cui il suo spirito si
disperava.
Avrebbe solo voluto annullare quella loro distanza, afferrarlo per il
colletto
con entrambe le mani e baciarlo. Senza dolcezza, anzi, senza timidezza.
Voleva
sentirlo, avvertirlo. Eppure, qualcosa lo frenava. Perché
nonostante tutti i
ghirigori che la sua fantasia aveva costruito su un fragile castello di
carte,
lui era conscio di non poter far nulla. La sua famiglia gli avrebbe
voltato le
spalle, se avesse saputo che si era innamorato di qualcuno diverso
dalla sua
promessa sposa: un Gryffindor, un Mezzosangue, un ragazzo. Sarebbe
divenuto lo
zimbello della Comunità Magica, se qualcuno avesse saputo che fremeva ogni
volta che le mani di
un essere così tanto inferiore a lui lo toccavano. Suo padre
avrebbe voluto la
sua testa.
***
Spinse
una
delle ante della grande porta d’ingresso e si
insinuò all’interno
dell’edificio. Il suo gesto non era stato plateale o
strafottente, anzi.
Alcuni, nonostante il drastico taglio di capelli, la riconobbero e,
rapidamente,
si diffuse la convinzione, tra chi ne era al corrente, che quella era
la stessa
Hermione di sempre: più magra e con un trucco più
marcato attorno agli occhi,
ma con lo stesso sorrise gentile con cui era sempre stata disponibile
per
tutti.
Il
suo viso,
tuttavia, rimase impassibile: non corse ad abbracciare Ron ed Harry, i
suoi
compagni di disavventure, non saltò al collo di Ginny, la
sua migliore amica.
Senza voltarsi, chiuse l’uscio.
Osservò
tutti i presenti, soffermandosi su ognuno di essi per alcuni istanti.
Molti non
ressero il confronto, i restanti, per il troppo dolore, si costrinsero
a
concentrarsi su altro.
Non
indossava la divisa, cosa che, negli anni passati, si era sempre
premurata di
fare, prima di entrare nell’edificio scolastico, ma una gonna
a balze nera e
una semplice camicetta bianca.
L’attenzione
di tutti, immediatamente, si focalizzò sul suo avambraccio
sinistro che,
lasciato volutamente scoperto, confermò ciò che
molti pensavano fosse
impossibile: era divenuta una Mangiamorte.
Attendevano
che lei facesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Amy,
discretamente, mise la mano sulla bacchetta. Drew si staccò
dolorante dalla
parete a cui si era appoggiato, stanco e provato. La McGranitt
provò a muovere
un passo o a dire qualcosa, ma la voce le morì in gola.
Aprì la bocca e la
richiuse immediatamente, come intimorita dall’idea che,
parlando troppo forte,
avrebbe infranto il silenzio di quel luogo, facendo rovinare al suolo
una
terrificante, e al tempo stesso maestosa, statua di cristallo.
Lei
mosse
alcuni passi. Harry pensò che volesse salutarli, Ginny fu
sul punto di piangere
per la felicità, Ron strinse con forza la mano della sua
finalmente ritrovata
Denise.
La
Granger
si avvicinò ancora. Potter le accennò un sorriso,
ma non trovò risposta.
Il
rumore
dei tacchi, troppo alti e volgari per una studentessa modello come
Hermione, si
interruppe solo quando fu ad un passo dal professor Kennan.
Lo
guardò
negli occhi e sul suo viso si dipinse un’espressione di
ribrezzo che, presto,
evolse in un ghigno beffardo. Crudele.
«La
prossima
volta, non sbaglierò».
La
Preside,
finalmente, riuscì a compiere un passo in avanti, desiderosa
di dire qualcosa.
«Hermione?».
Non era stata lei a parlare.
Dal
folto
gruppo di Gryffindor, fino a pochi minuti prima brulicante di
chiacchiere, uscì
allo scoperto Daniel Alleyn. I suoi occhi, profondi e leggermente
lucidi, non
celavano nulla: avrebbe voluto domandarle tante cose, a lei che lo
aveva
guidato e aiutato, a lei che aveva saputo confortarlo e ascoltarlo.
Avrebbe
voluto scuoterla, fino a costringerla a svelargli il perché
di una simile
follia.
La
ragazza
non diede prova d’averlo sentito e, non appena ruppe il
contatto visivo con
Drew, riprese a camminare, dirigendosi verso l’ampio scalone.
«Non
mi
rispondi neppure?». Era stato un urlo.
Il
giovane
Gryffindor, colpito tanto intimamente da sembrare essere sul punto di
versare
qualche lacrima, fu l’unico a riuscire ad infrangere
quell’atmosfera tetra ed
intoccabile che la Granger aveva fatto scivolare in quella stanza con
il suo
ingresso. Ma dipinse quella situazione, lui che pareva essere in grado
di
tinteggiare di gioia anche la più tetra delle
oscurità, con un fioco grigio
d’abbandono e sofferenza.
Eppure,
non
ottenne alcuna risposta, se non la preoccupazione dello sguardo di
Logan.
La
Gryffindor,
gelida ed imperscrutabile, prese a salire gli ampi gradoni.
Passò di fianco a
Draco, ma, nuovamente, fece finta di non vederlo. Ad uno schiocco di
dita, lo
aveva annullato dalla propria esistenza.
Aveva
assistito inerme. Fino a quel momento.
Non
accettò
che lei non lo degnasse neppure di uno sguardo. Non poteva farlo, lui
non
glielo avrebbe permesso. Non anche questa volta.
Le
afferrò
il polso con forza, pentendosene subito per il timore
d’averle fatto del male.
Hermione si fermò, uno scalino più in alto di lui.
«È
questo
che sei diventata? La versione squallida di te stessa?» le
domandò, con una
cattiveria che, pur sapendo d’aver covato a lungo in
sé, sperava di saper
controllare meglio.
Rise.
«No,
Draco,
io sono diventata la versione migliore di te. Magari un giorno
diventerai un
uomo e lo capirai» gli rispose, interrompendo il contatto tra
i loro corpi «Ma
se le cose andranno come credo, sarai morto molto prima».
La
ragazza
riprese la salita verso il suo dormitorio, senza dargli la
possibilità di
replicare. D’improvviso, però,
s’arrestò. Non gli concesse l’onore di
guardarle
il viso.
«Dimenticavo».
Nella sua voce, c’era un qualcosa di divertito. «Tu
zia Bella mi ha detto di
portare a te e a tua madre le sue condoglianze per la dipartita di tuo
padre».
Tutta
Hogwarts, in quell’istante sprofondò in un mondo
errato, in un universo
parallelo profondamente sbagliato. Lucius Malfoy, che tutti ritenevano
al
sicuro tra le fredde mura di Azkaban, era morto.
«È
stata una
splendida esecuzione: ha strisciato, pur d’aver salva la
vita».
In
quell’istante, l’idea che tutti avevano di Hermione
sparì: stava infierendo con
cattiveria su un ragazzo che aveva appena perso il padre, provando un
dolore simile
a quello che aveva vissuto lei. Non c’era pietà,
nel suo agire. Era come se
qualcuno le avesse strappato il cuore dal petto.
Era
diventata un’arma nelle mani di Voldemort.
Il
rumore
pesante dei suoi passi, che lentamente si allontanava dal Salone
d’Ingresso,
rimbombò nelle teste dei presenti. Lentamente, con
l’aumentare della distanza,
l’eco si fece meno tonante, si affievoliva. Allo stesso modo,
il cuore di Draco
pareva essere sul punto di smettere di pulsare.
Qualcuno,
con mani forti e viso dagli zigomi aristocratici, gli fu vicino,
obbligandolo a
sedersi.
***
Il
viso di
Minerva McGranitt era rimasto impassibile, sebbene lei per prima, e
forse sola,
aveva realmente compreso la gravità della situazione. Aveva
permesso tutto ciò,
ben conscia dei pericoli in cui sicuramente sarebbe caduta, ma non
sapendo
d’essere stata tanto sciocca ed avventata.
Fin
da
quando aveva messo piede in quell’ampia camera ministeriale
in cui avrebbe
dovuto contrattare per la nomina di Preside di Hogwarts,
l’anziana donna era
stata consapevole che non avrebbe potuto ambire a tale titolo senza
qualche
rinuncia. Il suo obbiettivo, fin da subito, era stato cercare di
ridurre al
minimo l’intrusione di Lord Voldemort all’interno
delle antiche mura del
castello e, per ottenere ciò, aveva dibattuto strenuamente.
Era riuscita ad
evitare che fosse il Ministero a stabilire a chi venissero attribuite
le
cattedre vacanti, onde evitare che il corpo docente fosse formato, per
l’ennesima volta, da insegnanti incompetenti o schierati,
seppur sotto mentite
spoglie, con il Signore Oscuro. Purtroppo, giunta ad un bivio in cui la
propria
coscienza non poteva che farle intraprendere un percorso, aveva dovuto
cedere
terreno: pur di poter aprire l’ampio portone di
ferrò battuto della scuola
anche ai Nati Babbani, aveva dovuto accettare che tutte le sue
decisioni
passassero al vaglio di un Tribunale del Controllo, opportunamente
costituito.
Dodici eminenti personalità, di cui lei aveva potuto
scegliere solo tre
candidati, tutte facenti rapporto ad un innominato Giudice Eccelso,
avrebbero
osservato con attenzione il suo operato, potendo porre il veto sui suoi
provvedimenti e, quindi, obbligandola a riformulare gli editti da lei
emessi.
Per
esempio,
nel corso dell’estate aveva cercato di annullare, per ovvi
motivi, le uscite ad
Hogsmeade, ma la cosa, per chissà quale motivo, non era
piaciuta ai suoi
Controllori e si era vista costretta a mediare, ancora, autorizzando le
visite
alla cittadina magica, oramai molto desolata, solo per coloro i quali
la media
dei risultati ottenuti nelle varie materie era pari o superiore a
“Oltre Ogni
Previsione”.
L’anziana,
nonostante tutto, era rimasta dov’era, ancora desiderosa di
dare il benvenuto
ad ogni suo studente. Apparentemente, cercò di mostrarsi
tutt’altro che turbata
da quel tatuaggio sul braccio di quella che, da anni, era la sua
studentessa
preferita, nonché una delle migliori in tutta la scuola.
Eppure, quella era
Hermione Granger.
Cambiata
nell’esteriorità, senza dubbio, ma con il medesimo
portamento fiero e a tratti
superbo. Aveva anche lo stesso orgoglio negli occhi, quello che un
tempo aveva
riversato nelle sue lotte sociali contro la disparità tra
Razze. Eppure, lei
che per anni aveva sofferto per i maltrattamenti subiti in quanto
Sanguesporco,
si era schierata proprio dalla parte di chi, primo fra tutti, aveva
fomentato
quel grande astio tra simili.
La
McGranitt
aveva visto Drew, sofferente, perdere terreno contro quella ferita non
ancora
guarita perfettamente e lo aveva pregato di andare a riposarsi in vista
della
cena con cui il nuovo anno scolastico sarebbe stato inaugurato e
durante la
quale lui avrebbe avuto un ruolo importante, non temendo di dover
utilizzare la
sua nuova autorità. Stranamente mansueto, il giovane uomo
aveva accettato senza
opporsi, chiedendo anzi alla sua giovane collega, Amelia Fay, di
accompagnarlo
nella sua stanza.
Quando
i due
se ne andarono, un incantesimo parve spezzarsi, rompendo
l’ordine segreto della
Convinzione e liberando da pesanti legacci molti dei presenti. I primi
ad
allontanarsi furono i pochi Slytherin presenti, quasi indignati dal
comportamento deplorevole di Malfoy. Il ragazzo, dopo aver spintonato
Logan
Forsyth, che lo aveva obbligato a sedersi dopo aver appreso del decesso
del
padre, tenne tutti a distanza. Il suo sguardo, fisso in un punto non
precisato,
non lasciava trasparire alcuna emozione: vani furono i tentativi dei
professori, Preside in testa, di smuoverlo, così come
altrettanto futili furono
le parole che Harry gli rivolse.
Pareva
essersi rinchiuso in bolla di silenzio e rimorso. Ammutolito come il
più
violento dei folli, pronto a tutto per ottenere pace e vendetta. Il
giudizio,
sasso pesante lanciato nell’acqua, pareva aver abbandonato il
suo corpo,
suicida. Un corpo stanco lanciato con forza oltre il limite di una
rupe,
spinto, da un’illusione d’amore, a compiere il
balzo di Saffo.
In
meno di
un’ora, il Salone d’Ingresso si era quasi
completamente svuotato, eccezion
fatta per l’anziana donna, Potter e i Weasley, i quali
trovarono, però, anche
la compagnia di alcuni elementi dell’Esercito di Silente.
Pochi, i più fedeli,
quelli che ancora credevano negli ideali che erano stati le fondamenta
di quel
gruppo ma che, dopo il voltafaccia della Granger, la quale
più di tutti aveva
spinto per la creazione dell’organizzazione segreta, si erano
mostrati con la
loro reale ed effimera figura.
Neville
e
Luna, comunque, trascorsero la maggior parte del tempo a parlottare tra
di
loro, lanciando occhiate sospettose a Logan Forsyth. Risoluto, lo
Slytherin era
rimasto dov’era, sebbene Malfoy avesse chiarito
esplicitamente, non con parole
gentili, che non apprezzava la sua presenza. Ai due ragazzi, infatti,
non era
sfuggita l’espressione preoccupata che si era dipinta sul
volto di Daniel
Alleyn, quando il giovane Sanguepuro, scostato bruscamente da Draco,
era caduto
al suolo, ruzzolando per un paio di scalini. Se non fosse stato
ideologicamente
inaccettabile e, di conseguenza, impossibile sul piano pratico,
avrebbero
affermato che i due si conoscevano. Il motivo per cui Luna
s’attardava, facendo
ritardare anche Paciock dal raggiungere la Sprite nelle serre, era
quindi
tentare di svelare che tipo di relazione li legasse, desiderosa, grazie
a
quello spirito di reporter che la accumunava con suo padre, di
risolvere un
misterioso intrigo che, in realtà, esisteva solo nella sua
mente. Forse.
La
situazione,
fatta solo di sguardi circospetti, proseguì ancora per
qualche tempo, fino a
quando, Daniel, stanco d’essere osservato con tanta
insistenza, salutò i
presenti, la cui maggior parte aveva conosciuto nel proprio dormitorio,
e si
congedò con educazione dalla Preside. Quando, salendo le
scale, i due coetanei,
appartenenti a due Case diverse, non si rivolsero neppure un cenno,
cosa
normale tra i Gryffindor e gli Slytherin, la Lovegood se ne
uscì con
un’esclamazione soddisfatta e corse a scrivere a suo padre,
dopo aver dato un
rapido bacio sulle labbra a Neville, che, in risposta,
arrossì
irrimediabilmente.
Anche
Malfoy, colpito da quel gesto tanto quanto il pupillo
dell’insegnante
d’Erbologia, uscì per pochi istanti dal suo stato
catatonico per domandarsi
quale malsana idea fosse entrata in rotta di collisione con il cervello
della
Lunatica.
Alla
fine,
anche gli ultimi Sanguepuro, rigorosamente appartenenti alla Casata di
Salazar,
arrivarono a scuola. Non c’era nessuna folla ad accogliergli,
ma solo sguardi
sospetti, riservati alla quasi totalità di loro.
Il
gruppo di
studenti, meno esiguo di quanto la Preside sperasse, riservò
a tutti i
presenti, McGranitt compresa, un’espressione superba, che
variò in scherno
quando l’oggetto delle loro angherie divenne Malfoy. Theodore
Nott gli dedicò
una risata crudele, quando gli passò vicino.
Anche
lui,
considerando che l’anziano padre era un Mangiamorte, doveva
sapere del lutto
che lo aveva colpito.
A
chiudere
il gruppo, distaccati dagli altri principalmente a causa
dell’inesistente
solerzia di Blaise, vi erano i coniugi Zabini, i quali camminavano
vicini, ma
senza toccarsi. Eppure, chiunque, guardandoli, avrebbe detto che non
c’era
bisogno di un contatto fisico per essere certo del forte rapporto che
intercorreva tra i due.
Quando
vide
l’amico in quello stato, Daphne corse ad abbracciarlo,
sfiorandoli il viso con
il tocco gentile delle sue mani e costringendolo ad alzare lo sguardo
affinché
i loro occhi si incrociassero.
«Che
succede, Draco?».
Non
ricevette risposta. Fu Ginny a spiegare loro la situazione.
Blaise
lo
issò con forza, rimettendolo in piedi mentre la sua consorte
faceva loro strada
verso i sotterranei.
Mai,
da
quando si trovava ad Hogwarts, aveva visto una Sala Grande
così vuota. Eppure,
erano molti anni che, prima da studentessa e, poi, da insegnante,
affollava i
corridoi di quell’antico edificio. Minerva McGranitt non
poté che limitarsi ad
auspicare, in cuor suo, che ciò non si ripetesse anche negli
anni venturi e che
la situazione si risolvesse in un tempo minore di quello che lei
avrebbe
trascorso nell’ufficio del Preside.
Le
grandi
tavolate non erano un continuo alternarsi di giovani testa scalmanate.
Molto
del cibo preparato dagli Elfi, rifletté, sarebbe andato
sprecato.
Spinse
indietro la sedia, issandosi in piedi e allontanandosi dagli altri
docenti per
avvicinarsi al leggio da cui avrebbe tenuto il suo discorso inaugurale.
La
stanza, fatta esclusione di qualche Slytherin irrispettoso,
ammutolì. Non vi fu
alcun rumore, se non quello della sua lunga veste che strusciava sul
prezioso
tappeto di fattura Veela. La sua voce, sicura, venne amplificata dalla
magia.
«Studenti
di
Hogwarts, benvenuti!» nella sua voce, c’era reale
gioia. Strinse con più forza
le mani attorno al legno massiccio, cercando un sostegno. Era troppo
anziana
per un peso così grande, ma non avrebbe permesso ad un
lurido verme di
strappare il futuro alle generazioni venture. A lei, prima che ad
altri, era
richiesto di combattere strenuamente, così da dare un lieto
avvenire a tutti
quei giovani che aspettavano in silenzio una parola di conforto.
Avrebbe
voluto parlare senza censura, criticare aspramente il governo, da mesi
in mano
a Lord Voldemort, e
denunciare quella
spregevole situazione, ma non poteva farlo. Non sapendo perfettamente
che, al
suo primo passo falso, si sarebbe ritrovata bandita dalla scuola.
Cercò la
Granger con lo sguardo, trovandola isolata dagli altri compagni di
Casa. Fiera,
sembrava attendere di sentire ciò che lei, povera vecchia,
aveva da dire.
In
quel
momento seppe di non poter tacere su tutto.
«Avrei
tante
cose da dirvi, molte delle quali sono costretta a tacere. Ritengo,
tuttavia,
che tutti voi ne siate, in forma più o meno esaustiva, al
corrente» fece una
pausa, durante la quale trasse un forte respiro «Hogwarts
nacque come un luogo
per riunire i giovani maghi, così da poterli istruire e
proteggere dal male. In
questo, tutti noi insegnanti, l’anno scorso, siamo stati
sconfitti: non
sapevamo all’epoca, fino a quanto si sarebbe spinto il nostro
avversario, nel suo
reclutamento» guardò fisso Hermione, sulla cui
persona, quasi immediatamente,
si era concentrata l’attenzione di tutta la platea.
La
Preside,
sollevando l’orlo del suo vestito, prese a scendere i pochi
scalini che
separavano il tavolo dei professori, leggermente rialzato, da quelli
degli
studenti.
«Lo
sappiamo
ora, dopo che, a tradimento, la nostra luce più luminosa
è stata spenta. Un
assassinio, avvenuto per mani di persone insospettabili o in cui lo
stesso
Silente riponeva la sua totale fiducia». La McGranitt, si
avvicinò
istintivamente ai Gryffindor, sfiorando i suoi studenti.
«Non
accadrà
più» continuò sicura, spostandosi verso
il tavolo dei Ravenclaw «Non accadrà
più, perché io non permetterò che
ciò avvenga nuovamente. Non fino a quando
avrò forza a sufficienza per stringere la mia bacchetta e,
credetemi, la mia
mano non trema ancora. Combatterò per voi, come Albus
avrebbe voluto che
facessimo. Hogwarts vi proteggerà, vi renderà
streghe e maghi degni di questo
nome e vi permetterà di battervi per ciò in cui
credete».
Così
dicendo, con passo fiero, ritornò verso i suoi colleghi.
«Noi
saremo
per voi una perfetta fattura e un eccelso incanto scudo, ve lo
prometto».
Qualcuno
iniziò ad applaudire, trascinando presto nella foga anche i
propri vicini. Ben
presto, tre delle quattro casate accolsero con entusiasmo la nuova
Preside,
mentre tra gli eredi di Salazar solo qualcuno, particolarmente
intrepido, osò
tanto. Daphne, guardando con sfida i propri compagni, osò
persino alzarsi in
piedi, imitando qualche collega Hufflepuff.
Hermione
Granger, invece, rimase immobile: quelle parole sarebbero giunte
all’orecchio
del Signore Oscuro.
Aveva
atteso
che il clamore si placasse per poi ricominciare a parlare.
«Per
ovvi
motivi, il corpo docenti ha subito delle modifiche»
scandì bene, pacata «Il
professor Lumacorno, già insegnante di Pozioni, dopo il
triste abbandono del
nostro “beneamato” Piton, è divenuto il
Direttore degli Slytherin». Un boato di
disapprovazione si alzò dal tavolo dei diretti interessati,
non dispiaciuti
tanto dall’avere il pacato Horace a capo della propria
Casata, il quale
assicurava loro la completa assenza di qualsiasi forma di punizione, ma
quanto
per l’epiteto, chiaramente ironico, con cui la McGranitt
aveva appellato
l’oramai ex docente.
«Nessuno
vi
trattiene, serpi. Non accetterò che in questa scuola, la mia
scuola, il nome
dello spregevole assassino di Albus Silente venga anche solo nominato
senza
essere pronunciato come un insulto. Un giorno anche Severus Piton
pagherà per
le sue colpe e, aprite bene tutti le orecchie, mi assicurerò
che la sua morte
sia così tremenda da fargli desiderare il Bacio del
Dissennatore». Anche un
sordo, guardando il cipiglio severo delle sue labbra, contornate da
rughe,
avrebbe intuito che la sua minaccia non doveva essere presa alla
leggera. Con
quella mossa, ovviamente, la Preside non aveva fatto altro che
peggiorare la
sua posizione, ma era giunta alla conclusione che, se proprio doveva
peccare,
lo avrebbe fatto nel miglior modo possibile. Poco le importava,
fondamentalmente, di dover mantenere la sua facciata severa:
l’argomento la
toccava profondamente, minando sì la sua
integrità morale, ma facendole anche
dolere il petto per la forte sofferenza. Lei aveva perso un amico ed un
maestro. E qualcuno, per questo, avrebbe dovuto pagare.
Non
vi fu
alcun rimbecco da parte dei diretti interessati, forse veramente
intimoriti da
quella donna.
«Lei
è
ancora viva solo perché il Signore Oscuro non la ritiene
neppure un ostacolo,
per i suoi progetti».
Quella
voce.
Un brivido corse lungo la schiena della Preside.
«Signorina
Granger, non sfidi la mia pazienza solo perché si
è fatta marchiare come una
bestia incapace d’intendere» la risposta della
McGranitt fu immediata. Il suo
viso non fu attraversato neppure dall’ombra di
un’emozione «Lei, in questo
momento, è ancora viva solo perché temo che la
sua infantile superbia possa
essere contagiosa. E, ora, ci faccia il piacere di ritirarsi nelle sue
stanze,
così da non appestare questa situazione felice con la sua
spiacevole presenza».
Piccata,
Hermione non poté fare altro che obbedire. Alzatasi in
piedi, osservando
l’anziana signora negli occhi, si sistemò sul
petto la spilla da Caposcuola,
rimarcando ancora una volta il grande errore che la donna aveva
compiuto. Molto
prima che sapesse di quel risvolto inatteso, Minerva l’aveva
candidata per quel
ruolo.
Il
Tribunale
del Consiglio aveva accettato la sua proposta, senza contestare,
sebbene
avessero avuto da ridire sui ragazzi che aveva suggerito per le altre
Case. Ora
sapeva per quale motivo: aveva dato autorità ad una
Mangiamorte. A nulla
sarebbe valso un suo tentativo di cambiare quell’editto
oramai stipulato.
Le
due
donne, appartenenti a generazioni molto distanti tra di loro, si
scambiarono un
sorriso, crudele da una parte e gelido dall’altra, prima che
la figura snella
della più giovane sparisse dietro la pesante porta che
conduceva al Salone
d’Ingresso e, quindi, alla scale.
Per
la prima
volta, Drew Kennan cominciò a dubitare della propria scelta
di far divenire
Hermione una Mangiamorte: lui stesso, oramai, non sapeva se potersi
fidare
completamente di lei.
La
McGranitt
aveva ripreso a parlare poco dopo.
«Vi
pregherei di accogliere con un applauso fragoroso l’erede
della mia cattedra,
la signorina Amelia Fay, la quale si occuperà anche della
direzione della
Casata dei Gryffindor».
La
diretta
interessata non seppe come reagire a questa pubblica declamazione e,
improvvisando, si alzò in piedi, sorridendo.
Accennò un saluto ai suoi
studenti, simile a quello con cui l’anziana Regina Madre
soleva salutare gli
astanti. A tale mossa, un rumoroso sbattere di piedi si
sollevò dai Grifoni,
cui lei ringraziò prodigandosi in gesti poco consoni per il
ruolo autoritario
che doveva investire. Indispettita, la McGranitt rivolse
un’occhiata severa
prima alla giovane e, poi, agli studenti, ottenendo un silenzio
immediato. Amy,
abbassando gli occhi, si portò una mano alla fronte in un
perfetto saluto
militare e si rimise a sedere. Rimaneva la certezza, comunque, che la
prima
impressione fatta era ben più che positiva.
«Sarò
io la
loro professoressa preferita, Kennan» sussurrò,
rivolgendosi al vicino che
chinò appena il capo per poter sentire le sue parole. Era
divertita da quella
situazione ed entusiasta all’idea di cominciare le lezioni.
«Molti
di
voi lo conoscono già … », stava dicendo
intanto la Preside « … ma da quest’anno
non si occuperà solo del corso speciale per gli studenti
più promettenti, per
il quale verrà affiancato dalla professoressa Fay, ma anche
dell’insegnamento
della sottile arte, fondamentale in momenti come quello che stiamo
vivendo,
della Difesa contro le Arti Oscure. Vi prego di riservare un applauso
anche per
Drew Kennan, che ora, in qualità di nuovo Vicepreside, si
occuperà dello
smistamento dei ragazzi».
In
questo
caso, il fragore provenne da tutti i tavoli indistintamente. Anche gli
Slytherin dovevano ammettere, a malincuore, che averlo come insegnante
era
quanto di migliore potesse capitare loro, dopo Piton. Si diceva,
infatti, che,
sebbene i suoi metodi fossero inusuali, era uno dei maghi
più dotati e potenti
viventi. Senza contare che, non era affatto un mistero, il suo passato
trasudava anche magia nera.
«Dicevi?»
domandò, fintamente ingenuo, alla sua interlocutrice,
mentre, prendendo l’elenco
dei nuovi studenti, ben pochi, raggiungeva il polveroso Cappello
Parlante.
***
La
stanchezza traspariva dai loro volti. Era stata una giornata dura per
tutti,
sebbene alcuni, allo scoccare della mezzanotte, avrebbero realizzato
d’essere
stati colpiti con più ferocia di altri. Non riuscivano
ancora a comprendere
l’inspiegabile e repentino cambiamento di Hermione per quanto
si sforzassero,
per quanto tempo avessero avuto per affrontare
la questione con le proprie coscienze. Nelle
loro teste,
continuavano ad essere approfondite, sviluppate come monumentali
castelli di
carta, ipotesi senza fondamento ma che, comunque, al loro cuore
apparivano più
realistiche di quanto gli occhi mostrassero loro.
Se
qualcuno
avesse chiesto loro di definire la parola
“verità”, quella sera, solo uno di
essi avrebbe saputo fornire una risposta valida e di senso compiuto.
Solo uno
di loro, quella sera, aveva smesso di combattere Lord Voldemort,
preoccupato da
altro.
Così,
esausti e assonnati, dopo l’abbondante cena, come da accordi
presi in
precedenza, quando ancora la maggioranza di loro si trovava ospite
sotto il
tetto dei coniugi Zabini, si ritrovarono nella Stanza delle
Necessità. Il primo
ad arrivare, Harry, aveva chiesto un luogo in cui fosse possibile
parlare senza
timore d’essere uditi da orecchie indiscrete e in cui fosse
anche possibile
trovare un po’ di quiete.
Oltre
la
soglia, comparsa per magia lungo il corridoio del Terzo Piano, si
sviluppò un
salotto accogliente.
Un
ampio
finestrone, inserito in un arco trilobato, lasciava che la luce di
quella luna
di tarda estate filtrasse all’interno, disegnando giochi di
ombre e riflessi
luminosi. La stanza, non molto grande, era pregna di un piacevole
tepore,
alimentato dal fuoco scoppiettante nel camino. Anche il pavimento,
ricoperto da
un parquet massello di legno Wengè, sul cui colore scuro
risaltavano le comode
poltrone di un accesso carminio, era caldo. Su un piccolo tavolino di
design,
creato dall’intarsiarsi di tre lastre di vetro dalle forme
curvilinee, erano
appoggiati dei fogli di carta con una penna stilografica. Potter si
lasciò
cadere, sedendosi di peso e occupando uno dei posti più
vicini al fuoco. In
silenzio, mentre attendeva che i minuti trascorressero, scanditi da un
orologio
a pendolo dall’aria antica, formulò nella propria
mente la richiesta che quel
luogo fosse inaccessibile per Hermione Granger e per chiunque, come
lei, non
era desiderato all’interno.
Il
salotto,
oramai, era ricolmo.
Draco
si era
allontanato dagli altri e se ne stava appoggiato alla fredda parete,
con le
pietre a vista, poco distante dalla finestra. Daphne, invece, perfetta
nell’apparire ed elegante nonostante l’ora tarda,
aveva occupato una delle
poltrone, sedendosi con una grazia tale che, per alcuni istanti, Ginny
pensò
che non fosse completamente umana. Con le gambe incrociate, ben
definite da un
sobrio paio di pantaloni neri a sigaretta, e con una mano presa a
volteggiare
dalle sue labbra carnose al posacenere, sfiorava distrattamente i
capelli di
Blaise, il quale si era seduto sul pavimento, a ridosso dei vertiginosi
e
immancabili tacchi che sua moglie non aveva potuto esimersi
dall’indossare una
volta liberatasi dell’uniforme scolastica. Gli occhi del
giovane Zabini, tanto
pesanti da sembrar non poter rimanere aperti, sottolineavano
chiaramente la sua
sonnolenza e il suo forte desiderio d’essere altrove, magari
sotto l’abbraccio
caldo delle coperte del suo letto. O della sua donna.
La
più
giovane dei Weasley, invece, si era seduta sul bracciolo della poltrona
su cui
si era insediato il suo fidanzato. Le fiamme rendevano i suoi capelli
morbidi
un qualcosa d’estremamente attraente e terribile nella
medesima quantità: una
creatura mitologica, un drago sfuggito da un antico libro di fiabe le
cui
squame cremisi parevano essere in grado di emettere una luce propria.
Infine,
forse i più tranquilli del gruppo, persi a cincischiare e a
raccontarsi le
molte cose vissute durante l’estate, vi erano Denise e Ron.
Su volontà dello
stesso Potter, il quale sapeva che l’amico non avrebbe
sopportato di tenere con
la quasi fidanzata un segreto tanto grande, il celebre portiere della
squadra
di Quidditch, il membro più spontaneo del Trio, oramai non
più tale, aveva
rivelato alla Millay la missione che Silente aveva affidato loro.
La
Ravenclaw, che dopo il supposto tradimento di Hermione aveva cominciato
a
sentire un grosso peso sulle sue spalle, in quanto ragazza
più brillante del
gruppo, aveva trascorso tutto il suo tempo libero a documentarsi sul
Signore
Oscuro, attirando attenzioni non molto desiderabili, e sugli Horcrux.
Le sue
ricerche, in fin dei conti, avevano dato buoni risultati.
Finalmente,
Harry decise di prendere la parola.
«Hermione
ci
ha traditi».
Quelle
parole erano necessarie: tutti avevano bisogno di sentirsele dire, di
percepire
il loro suono pronunciato ad alta voce. Senza disincanti o bugie, senza
domande, senza dubbi.
Per
un
attimo, il silenzio si fece di cemento armato.
«Almeno
ora
sappiamo chi ha rivelato al Signore Oscuro il piano per il tuo
trasferimento»
constatò Ron, riportando quella notte tremenda alla mente di
tutti coloro che
vi avevano partecipato e anche di chi era stato solo testimone di un
racconto.
Sulla coscienza della Granger, lo realizzarono per la prima volta in
quell’istante, pesava la vita di Malocchio.
Eppure,
la
ragazza pareva non essere neppure lontanamente toccata dai sensi di
colpa.
Quasi come se fosse stata Imperius.
«E
sappiamo
anche chi ha svelato ai Mangiamorte la data del matrimonio di Bill e
Fleur»
aggiunse Ginny, provando una forte sofferenza, comunque, per quelle
parole. Lei
era pur sempre la sua migliore amica.
«Quindi
è
stata lei ad attaccare Drew» concluse Daphne, osando
sottintendere, per la
prima volta, quanto pericolosa la Granger era divenuta, se era stata in
grado
di sconfiggere Drew. «Hai ancora intenzione di
partire?» continuò poco dopo la
bionda.
Harry
si
spostò in avanti, facendo attenzione a non sbilanciare
Ginny. Le sue mani si
giunsero, posando i gomiti sulle ginocchia.
«Ora
sono
ancora più intenzionato di prima. Dobbiamo fermare Lord
Voldemort, Silente ci
ha lasciato questa missione» disse, scandendo chiaramente
«Ho già detto alla
McGranitt che dovrò andarmene e che, forse, qualcuno di voi
verrà con me».
Draco,
per
la prima volta, si scostò dal muro avvicinandosi agli altri.
Anche Blaise, in
quel momento, parve particolarmente attento.
«Non
mi ha
fatto domande, ma mi ha promesso che ci avrebbe aiutati ad uscire dal
Castello
e a superare Hogsmeade inosservati» continuò
Potter, sistemandosi gli occhiali
sul naso «Ora devo saperlo: qualcuno di voi mi
seguirà? Io avrò bisogno di
tutto l’aiuto possibile».
Cercò
conferme, forzandosi di non guardare verso la propria fidanzata, del
cui
pensiero era già a conoscenza. Proprio per questo motivo,
tentava di evitarla.
La Weasley, tuttavia, fu ben salda sulle proprie convinzioni.
«Io
e Ron lo
seguiremo. Lo abbiamo sempre fatto e, fino ad ora, non ha mai avuto
torto».
Il
fratello
di lei si limitò ad annuire.
«Io
resterò
qui, vi sarò molto più utile dove mi è
possibile consultare la biblioteca,
piuttosto che in un possibile scontro». Non era quello il
vero pensiero di
Denise, ma Ron, in questo caso, era stato irremovibile: lei non li
avrebbe
accompagnati. Troppi pericoli.
Per
questo
motivo, la ragazza si era impegnata per escogitare un sistema di
comunicazione,
così da poter restare sempre in contatto con loro. Il metodo
non era altro che
una variazione, riuscita in maniera migliore, di quello con cui avevano
spiato
Marcus Belby. Si trattava, infatti, di una coppia di diari, legati tra
loro da
un incanto affinché ciò che veniva scritto su uno
comparisse anche sull’altro.
La particolarità era, però, che
l’inchiostro spariva dopo un paio di ore se
nessuno leggeva quel passaggio. Una contromisura necessaria, che
avrebbe fatto
sì che, per la maggior parte del tempo, i due volumi non
sarebbero stati altro
che un insieme di pagine bianche.
«Sarei
venuto con voi solo per Hermione» sussurrò Draco,
constatando un fatto ovvio «E
lei ora non è qui. Dovrete fare a meno di me».
Il
gruppo
iniziale, così come era stato concepito, aveva subito la
prima variazione
quando la Granger li aveva abbandonati e, ora che anche Malfoy aveva
deciso di
restarsene ad Hogwarts, il recupero degli Horcrux pareva una missione
quanto
mai impossibile. Anche i lasciti di Albus, infatti, venivano ad essere
separati.I
tre Gryffindor, guardandosi, lessero la certezza che avrebbero dovuto
fare a
meno degli Slytherin nei visi degli altri. Daphne e Blaise non
avrebbero mai
abbandonato Draco.
Il
ragazzo
biondo mormorò un saluto ed uscì. Sembrava che la
questione non lo
interessasse, che, in qualche modo, non lo toccasse personalmente.
Eppure,
aveva appena appreso che il Signore Oscuro aveva ucciso sua padre.
Aveva
forse
deciso di deporre le armi?
«Io
resto.
Draco ha bisogno di noi».
Queste
furono le parche parole con cui anche Zabini, includendo la giovane
moglie,
evitò di partire. Tutti avevano dubbi su di lui: la sua
natura non era quella
di un avventuriero, come tutti ben sapevano, e l’unica
fedeltà che conosceva
era rivolta a sua moglie.
Gli
sguardi
di tutti, meno che quello di Blaise, si concentrarono sulla Greengrass.
La
ragazza,
istintivamente, aveva smesso di giocare con i capelli di Zabini, quando
lui
aveva parlato.
Per
un
attimo, quel suo parlare anche per lei le aveva fatto perdere un
battito. L’aveva
ferita.
Neppure
suo
padre la lasciava mai esprimere il proprio giudizio. Era rimasta per
anni
rinchiusa, prigioniera di regole violente e di credenze tanto sciocche
da
essere assurde. Per anni.
Aveva
accettato di sposarlo. Si era venduta a lui.
«Senza
la
Granger, due tonti come voi si ritroverebbero morti prima ancora di
uscire dal
portone di Hogwarts. E Ginny non può difendervi
entrambi» aveva parlato senza
pensare, lasciando che fosse la sua stessa coscienza a parlare. Non
impedendo,
per la prima volta nella sua vita, al suo desiderio di
libertà di urlare contro
il mondo.
«Verrò
con
voi».
Per
la prima
volta, Daphne Greengrass aveva messo i suoi bisogni per primi.
Non
quelli
di sua madre Beth o di sua sorella Asteria. Non quelli sbagliati del
padre
Ladon.
Non
quelli
di Draco. Non quelli di Blaise.
Sentiva
di
dover agire e lo avrebbe fatto: avrebbe combattuto per cominciare a
vivere.
Ginny
corse
ad abbracciarla, mentre i restanti si prodigarono in un applauso.
Tutti
tranne
Blaise.
Il
giovane
Zabini sorrideva, soddisfatto.
Note dell’Autore
Imperdonabile,
lo so, ma sono rientrato in crisi. Esco ed entro dalla stasi mentale
con una
rapidità tale da farmi spesso supporre d’essere
affetto da grave forma di
Disturbo dell’Umore. Magari sono solo bipolare.
Eppure,
sono
qui. Ancora una volta.
Questo,
per
me, è il capitolo degli anniversari. Sono passati circa tre
anni da quando mi
sono iscritto ad Efp e, sì, per quanto molto sia cambiato da
allora, mi fa ancora
piacere pubblicare qui. Non sono uno di quegli uomini romantici, tanta
stima
per loro, che si ricordano a memoria le date importanti – e
me ne duole –, ma è
sempre meglio arrivare tardi, piuttosto che non arrivare mai.
Io
ci sono,
finalmente XD
Vorrei
ringraziare
tutti di cuore. Dalla prima persona che ha cominciato a leggere You
and Me, all’ultima
che ha intrapreso la lettura di Just Give me an Hug.
Per
alcuni
non sarà un traguardo importante, ma, poiché lo
è per me, voglio rendervi
partecipi del fatto che il primo capitolo di Y&M ha superato le
10000
visite. È un numero enorme.
Quella
pagina è stata aperta per diecimila volte, stento ancora a
crederci. Per
diecimila volte io sono entrato in contatto con perfetti sconosciuti
grazie a
ciò che ho scritto. Quindi, ancora, fino a che
avrò fiato (o, in questo caso,
forza per colpire le lettere della tastiera), grazie.
Ora,
rendetemi contento :3
Mipiacciate
il capitolo, se vi è piaciuto. Mipiacciate la mia pagina
autore, se vi piace
come scrivo. Mipiacciate la mia pagina
Facebook, se volete mettervi in contatto con il sottoscritto.
E
recensite,
se vi va, perché, come per ogni altro autore, avere un
riscontro di chi legge è
quanto di più importante ci sia nel processo di scrittura.
È un carburante, è
una soddisfazione, è un sorriso. Sempre, anche quando la
recensione è negativa.
Insomma,
manifestatevi con un segno della vostra presenza :3
Sperando
di
avervi regalato qualcosa,
a
presto.
Jerry
|
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Capitolo 4 *** Smoky eyes ***
Chapter
four, Smoky eyes
Il
trascorrere del tempo aveva smesso d’essere scandito quando
lei era scesa dai
suoi tacchi, abbandonandoli, in un ordine spasmodico, contro la parete
in cui
si apriva la porta che permetteva l’accesso a quella stanza.
I suoi passi,
leggeri e nudi, erano un sospiro ansioso, una mano entusiasta stretta
sul petto
per cercare di trattenere quel sentore di vita. Lui, vestito solo
d’un paio di
boxer scuri, era rimasto ad assaporare la sua presenza, imponendosi di
tenere
gli occhi chiusi, cercando di incamerare il più grande
numero di particolari
per l’avvenire. Per la distanza, per la lontananza, per la
separazione. Il
viziato principe delle cicale stava cercando di imparare qualcosa
dall’operosa
signora delle formiche che, minuta e fragile, tentava di costruirsi un
futuro.
Il suo
profumo, ne aveva avuto un sentore quando si era piegata sulle
ginocchia vicino
alla sua testa per sistemare qualcosa nel cassetto del suo comodino,
aveva un
qualcosa di floreale e fruttato che, però non copriva il
piacevole aroma della
sua pelle. Avrebbe voluto morderla piano, per saggiarne con le labbra
il sapore
di pesca, lasciando un leggero rossore sulla pelle ambrata della sua
spalla.
Non lo avrebbe mai fatto, non l’avrebbe mai neppure stretta a
sé, anche se
avrebbe voluto, per il timore, sempre troppo forte, di vederla
spezzarsi tra le
sue braccia. Per la paura che lei potesse guardarlo come
l’aveva vista accusare
suo padre. Alla luce di ciò, aveva imparato ad accontentarsi
di quell’amore a
metà, si limitava a percepire quella fragranza che, nella
sua mente, era
associata al concetto d’ambrosia.
Cantava
piano tra sé una canzone che lui non conosceva. Una qualche
band Babbana che
l’etichetta dei Purosangue avrebbe voluto lei non conoscesse
ma che, per una
qualche forma di contrabbando che correva tra le fila degli Slytherin,
alimentandosi della compiacenza di molti, era giunta anche alle piccole
orecchie di Daphne, la quale, da anni, fruiva di quel servizio. Chi
fosse a
capo di quella losca compravendita era ignoto ai più, ma
Blaise era giunto alla
conclusione che la Greengrass doveva essere stata in grado di svelare
quel
mistero. Per questo la sua collezione di cd Babbani aumentava
costantemente di
volume senza che lei fosse costretta a versare anche solo un galeone.
Quiescente,
il ragazzo rimaneva immobile: il viso inerte sul cuscino, stritolato
dalla
presa delle mani frementi di molti desideri zittiti, la bocca dischiusa
ancora
da quel bacio che si erano scambiati.
Le aveva
chiesto di venire a preparare ciò di cui aveva bisogno per
il viaggio nella sua
camera, visto che, per il regolamento di Hogwarts lui, uomo, non
avrebbe mai
potuto raggiungerla nel dormitorio femminile, sebbene fosse suo marito. Aveva accettato senza
alcuna ritrosia,
incapace di trattenere un fremito di felicità
all’idea di partire. Non gli era
importato che lei lo avesse raggiunto senza alcuna borsa o valigia,
così come
non si era opposto quando lei, senza neppure chiedergli il permesso, si
era
messa a riordinargli la stanza. Nel farlo, raccattando qua e
là gli indumenti
usati dal ragazzo e poi abbandonati sul pavimento, la
meticolosità della bionda
l’aveva spinta anche in quella parte di stanza, ben
più assettata, entro cui
era Draco a soggiornare. Malfoy, cordiale, aveva lasciato loro libera
la
stanza, adducendo la scusante di un incontro con la Preside.
Puntigliosa come
solo una casalinga prossima alla disperazione avrebbe potuto essere,
lei aveva
ripiegato la camicia bianca che, nella fretta della fuga, il biondo
aveva
gettato distrattamente sulla sedia accostata alla propria scrivania.
La camera
pareva essere divisa in due da una linea immaginaria: la
normalità e, al di là
della barricata, il pacato disordine della pigrizia di Zabini,
impreziosita da
una fragranza maschile costosa e dalle note acri di un paio di
sigarette spente
in un posacenere.
«Non pensavo
la conservassi ancora» sentenziò Daphne, mentre
era presa ad armeggiare con i
caotici libri scolastici del suo giovane consorte. Apprezzò
d’essersi finto
addormentato in quella posizione: gli fu sufficiente aprire
l’occhio sinistro
per avere una visuale completa di ciò che stava accadendo,
anche se offuscata
dai ciuffi spettinati dei suoi capelli troppo lunghi. Una ciocca
bionda, non
più raccolta sulla nuca, le sfiorava il naso, nonostante
tentasse inutilmente
di portarsela dietro un orecchio. Il busto chinato in avanti per
cercare di
catturare un raggio luminoso, un sorriso leggero ad aprirle le labbra
ed un
bagliore negli occhi.
Non smise di
guardarla. Riconobbe subito nella carta stropicciata che reggeva, la
fotografia
che Pansy Parkinson aveva scattato loro, nella Sala Comune, tre anni
prima. La
Slytherin, orgogliosa per il regalo ricevuto, aveva tormentato tutti i
suoi
compagni, rendendoli, volontariamente o meno, soggetti dei propri primi
tentativi dietro la macchina fotografica. Era accaduto tutto molto
rapidamente,
ma Pansy, mostrando ai presenti un istinto da fotoreporter, era stata
in grado
di cogliere al volo il lieto evento: Daphne si era avvicinata a Blaise
per
sistemargli il colletto della camicia e, lui, ferino e scattante,
l’aveva
tratta a sé, stringendola in un abbraccio e baciandola. Il
risultato, nella
foto ingiallita, dava l’illusione che la Greengrass, in un
attimo di voracità,
avesse afferrato il ragazzo e gli avesse deflorato le labbra sottili.
«È la nostra
unica fotografia» si limitò a risponderle lui,
richiudendo subito gli occhi e
nascondendo, oltre quelle palpebre chiuse, parole che non osava neppure
pensare.
Lei non
amava molto essere immortalata, anzi, lo odiava a tal punto che, in
alcuni
casi, era venuta alle mani con chi era stato così stupido da
infastidirla.
Comprendere cosa causasse tutta quella ritrosia non era affatto
complesso: anni
di violenze che quella ragazzina nell’immagine animata non
poteva neppure
rintracciare nei propri peggiori incubi, nonostante all’epoca
avesse già
conosciuto il colore violaceo dei lividi. Dal loro matrimonio, poi, era
stato
cacciato chiunque paresse intenzionato a procacciarsi una prova di
tutto ciò
che il vestito e il trucco non erano stati in grado di celare.
Tutti quei
ricordi, d’un tratto, avevano reso il suo riposo una
sofferenza. Chiuse gli
occhi, nella speranza di dormire e dimenticare, ma non vi
riuscì.
Poi, avvertì
il peso leggero di Daphne sulla sponda del letto e la mano di lei che
gli scompigliava
i capelli, rendendoli ancora più caotici. Nella sua testa,
Zabini s’immaginò
che stesse cercando, in quel modo, di dare loro una precisa
configurazione.
L’ennesima ricerca di una perfezione che lui non possedeva ma
per cui non vi
sarebbe stato prezzo troppo alto: l’avrebbe resa propria solo
per donargliela
completamente, solo per permetterle di rallentare, d’amarsi.
D’amarlo.
Un giorno
lei si sarebbe pacificata con se stessa e, allora, lo avrebbe
finalmente notato
per quello che era, non solo per il ragazzo che aveva impedito a suo
padre
d’ammazzarla.
Fu per
questo che la sua domanda lo stupì. Gli stava ancora
toccando i capelli, ma la
mano, dita affusolate nella carne, si era posata sul fianco scoperto di
Blaise.
«Vuoi fare
l’amore con me, Blaise?».
Sesso, non
lo avevano mai definito in altri modi. Una piacevole
attività fisica, nulla di
più. Il loro amore era vero, ma era intriso dal senso di
convenienza fintanto
da apparire quasi una bugia. Eppure era sincero, sentito, anche se
coronato da
una cerimonia affrettata.
«Continuamente»
le rispose lui, dopo aver riaperto l’occhio sinistro.
«Davvero».
Le loro mani
si incontrarono sul vestito di lei che, presto, cadde al suolo. Nei
loro
sguardi, resi fumosi dal piacere d’aversi, riluceva quel
sentimento che ancora
non potevano pronunciare ad alta voce.
***
Distanziò
l’imponente villa di diversi passi, traendo la freddezza di
cui aveva bisogno
da un susseguirsi ritmato di boccate dalla propria sigaretta. Il sole
di giugno
illuminava Cambridge e il riflesso che, di questa, si creava sul fiume
Cam. La
dimora di Ladon Greengrass, fortezza di questa famiglia da generazioni,
si
apriva su uno scorcio pittoresco del corso d’acqua, sulla cui
riva si
approssimava una rada boscaglia che, però, creava un gioco
d’ombre suggestivo e
fresco. Costeggiò il torrente per diversi metri, poi, dopo
essersi assicurato
che nessun Babbano fosse presente, cosa improbabile visto che si
trovava in uno
dei più ricchi quartieri residenziali della
comunità magica cittadina, impugnò
la propria bacchetta.
Aveva
appreso l’incanto che si apprestava a lanciare osservando i
tentativi di Draco,
il quale, invece, lo aveva studiato durante il corso speciale tenuto
dal
professor Kennan. Del trio consolidato che gli Slytherin formavano, non
era lui
quello che spiccava per i risultati scolastici. Daphne dominava la
classifica,
non brillante certo come, invece, era Hermione Granger, ma caparbia e
testarda,
oltre che risoluta ed astuta. La seguiva, poi, Draco: imbattibile nelle
proprie
materie preferite, ma capace di risultati rovinosi in tutte le altre.
Infine,
l’ultimo gradino spettava a lui, Blaise Zabini: troppo pigro
per mettersi
davvero a studiare, accontentandosi, grazie alla peculiare
capacità di saper
apprendere facilmente dagli altri, d’arrivare alla soglia
della sufficienza.
Lasciava agli altri l’onere di stringere tra le mani un libro
ed impararlo a
memoria, poiché, fondamentalmente, la cosa lo annoiava
terribilmente, come solo
i matrimoni di sua madre sapevano fare. In effetti, era un vero peccato
che la
donna si trovasse in viaggio: lei avrebbe saputo sicuramente come
organizzare
una cerimonia adatta in sole tre settimane.
Mentre
malediceva per l’ennesima volta la signora che lo aveva
partorito, lanciò un
ben realizzato Incanto Patronus. Un rugliare feroce ruppe il silenzio,
mentre,
imponente, un orso luminescente prendeva consistenza a pochi centimetri
di
distanza dall’erede della dinastia Zabini.
L’animale, in una scena che molto
aveva del surreale, trasformò il suo verso minaccioso in un
qualcosa di simile
ad uno sbadiglio e si rannicchiò al suolo, preparandosi ad
affrontare un
placido sonno ristoratore.
Puntò la
propria arma nuovamente contro l’animale, rendendolo capace
di trasportare un
messaggio.
«Corri da
Draco» ordinò «Digli che ho bisogno di
vederlo il prima possibile, al solito
posto. Chiedigli di portare con sé anche Cissy».
L’animale si rialzò, con
un’espressione chiaramente scocciata. Il suo passo placido
causò un’espressione
basita sul volto del suo creatore. «Ho detto
“corri”!» gridò furioso.
L’orso lo
accontentò, scuotendo la testa.
Gettò il
mozzicone al suolo. Focalizzò nella sua mente la propria
meta: conosceva quel
luogo alla perfezione. Diede inizio alla Smaterializzazione.
Vorticando,
l’immagine della villa entrava ed usciva dal suo campo
visivo: quando vi
sarebbe tornato, trattenersi dal far finire al San Mungo Ladon
Greengrass
sarebbe stato molto complesso.
L’arrivo del
messaggero di Blaise fu inaspettato. Draco e Narcissa stavano facendo
colazione
assieme, seduti sugli sgabelli dell’isola dal ripiano di
marmo scuro che
collegava la cucina al salotto, nell’attico splendidamente
arredato dalla
donna. Il sorgere del sole filtrava dai lucernari, accendendo di luce
quel luogo,
stregato per non esistere se non nella mente di chi era al corrente del
suo segreto.
Draco sorseggiava del caffè, accompagnandolo con dei
biscotti ricolmi di gocce
di cioccolato, rattristato dal non vedere più Hermione da un
paio di giorni, ma
felice di quel tempo che poteva trascorrere con sua madre. Narcissa,
invece,
reggeva tra le mani un tè Earl Grey, addentando di quando in
quando una
brioche, mentre il suo sguardo correva rapido sulle notizie della
Gazzetta del
Profeta. Non lo avrebbe mai confessato a nessuno, ma quei mesi,
praticamente da
reclusa se non per le uscite strettamente necessarie che le erano
concesse,
erano stati molto duri. Aveva scoperto peculiarità della
solitudine che mai,
fino a quel momento, aveva conosciuto e sapeva che, nel più
prossimo avvenire,
ne avrebbe rintracciate altre ancora.
Quando
l’orso invase lo spazio della loro cucina, mettendo in fuga
Strach, l’unico e
fedelissimo elfo domestico della signora Malfoy, il quale si occupava
di tutti
quei compiti cui lei non poteva adempiere, il viso del ragazzo si tese
in
un’espressione preoccupata che la madre captò
subito.
«Deve essere
successo qualcosa a Daphne» disse lui, incolore nella voce,
dopo aver ascoltato
la missiva. In silenzio, la donna si alzò, dirigendosi verso
la propria camera,
così da potersi cambiare per uscire.
Non più
tardi di dieci minuti dopo, i due, abbigliati come semplici Babbani,
procedevano rapidi verso un vicolo secondario, dove potersi
tranquillamente
Smaterializzare verso la loro destinazione. Il tentativo del giovane di
celare
la preoccupazione sotto un paio d’occhiali da sole
fallì miseramente, svelato
da un movimento nervoso della mano sinistra, tesa a tamburellare sulla
coscia
un ritmo incalzante. Un paio di pantaloni grigi, stropicciati
dall’inserimento
delle mani nelle tasche, ed una camicia leggera a quadri con le maniche
arrotolate fino ai gomiti, facevano di lui un ragazzo qualunque. Allo
stesso
modo, Narcissa, il viso rischiarato dai raggi del sole e disperso nei
suoi
capelli paglierini, poteva essere scambiata per una sofisticata signora
della società
altolocata appena ritornata da un incontro con le amiche: pantaloni
leggeri e
bianchi lunghi poco oltre le ginocchia, con una maglia grigia ed ampia,
stretta
solo sui fianchi da una fascia elastica. Alcune punte
d’azzurro coloravano la
sua semplicità: un paio di ballerine, un foulard
svolazzante, un bracciale,
degli orecchini a forma di rosa ed un’ampia borsa abbandonata
nell’incavo del
gomito. Taciturni, lasciarono che la sensazione soffocante di quel
mezzo di
trasporto tanto caro alla comunità magica scivolasse loro
addosso.
Ricomparirono in un angolo di Holland Park non frequentato dai non
magici,
all’ombra di alte frasche che mitigavano la temperatura. Tra
scoiattoli e
pavoni, tra salti spericolati da un ramo ad un altro e eleganti ed
altezzose
ruote di piume, i due attraversarono il manto erboso percorrendone i
sentieri
fino al Kyoto Garden. Era stata la Greengrass a proporre quello come il
luogo
dei loro ritrovi e non era un caso che questo si trovasse in quello che
universalmente era ritenuto il parco più elegante
dell’intera Londra. Era una
tradizione, per loro tre, ritrovarsi lì prima di partire per
un nuovo anno
scolastico ad Hogwarts e ogniqualvolta uno di loro necessitasse del
conforto
degli altri. Daphne, colei che, tutti lo sapevano, aveva le maggiori
necessità
della presenza altrui, era l’unica a non richiederla mai.
Troppo orgogliosa, ma
anche, segretamente, troppo fragile: un albero secolare, impassibile
alle più
sferzanti raffiche di vento, che d’improvviso veniva spezzato
da una saetta.
Attendevano tutti quel punto di rottura, quello oltre il quale neppure
lei sarebbe
potuta spingersi, ma tutti e tre, quando i loro sguardi si incrociarono
in un
muto rincorrersi immobili, su una passerella di pietra, dinnanzi ad una
cascata
placida, videro negli altri che l’attesa era stata troppo
lunga. La resistenza
della Greengrass aveva superato ogni più terribile
pianificazione: persino
quando nessun’altro avrebbe potuto sopportare un
così forte dolore, fisico e
mentale, lei era rimasta in piedi, sporca di sangue e sudore, ricoperta
di
lividi ed escoriazioni, ma incredibilmente viva e coraggiosamente ritta
sulla
proprie gambe.
Non furono
necessarie molte parole di Blaise, per spiegare la situazione. Prima
ancora dei
saluti di circostanza, la mano di Cissy aveva cercato la sua e, poi, si
era
posata sulla sua guancia, a lasciargli una carezza materna.
Perché questo era
stata lei anche per loro, non solo per Draco: era tra lei e sua nonna
che
Blaise si sedeva durante le celebrazioni dei vari matrimoni di chi,
biologicamente,
gli aveva dato la vita, era nella propria dimora che lei ospitava
Daphne per
festeggiare quel compleanno che Ladon scordava regolarmente.
L’abbraccio in cui
Blaise la strinse, muto e cupo, fu un ricercare quella forza
d’andare avanti,
di chiudere gli occhi sul passato e su tutto quello che lui aveva visto
sul
corpo della ragazza che amava. Della ragazza che, però, non
capiva, non fino in
fondo.
La donna gli
mormorò qualcosa all’orecchio, mentre la sua mano,
dalle dita affusolate e bianche,
passava sulla sua schiena, seguendo il profilo delle scapole.
Raccontò piano,
quasi a bassa voce, quello che doveva: l’ennesima violenza
subita, la richiesta
d’aiuto ed il bisogno di organizzare un matrimonio in tre
settimane. A ciò,
poi, andava sommata la fuga di Asteria e Beth, missione che rasentava
l’impossibile: nessuno entrava od usciva dalla dimora di
Ladon Greengrass senza
che lui ne venisse a conoscenza. Non era affatto un mito il suo
sigillare tutte
le porte e le finestre con numerosi incanti, affinché non vi
fossero né fughe
né arrivi indesiderati.
«Tre
settimane» mormorò tra sé Draco,
pensieroso. Nessuno avrebbe osato affermarlo,
ma i dubbi sulla riuscita di ciò che si era preposti erano
davvero tanti:
quella casa pareva inespugnabile, tanto che neppure anni di tentativi,
da parte
di Daphne, si erano dimostrati utili. Superato il primo incanto, vi era
una
maledizione e, sciolta questa, una magia ancora più
complessa di quelle
affrontate. Scindere i legami stregati di questa, sebbene non
impossibile in
teoria, risultava impraticabile nella sostanza, a causa di un Incanto
Gnaulante
che, fin dall’iniziale intrusione, aveva il compito
d’avvertire il capostipite
del tentativo di sovversione. La ragazza, poi, era giunta alla
conclusione che,
oltre al limite fino a cui si era spinta, ovvero sette sigilli
spezzati, ve ne
fossero ancora molti altri d’affrontare, in un tempo che,
solitamente, non
superava i tre minuti se Ladon era in casa e i quindici se
l’uomo si trovava
altrove. Poiché, purtroppo, in quella casa aveva molti
servitori fedeli. E
viscidi.
«Io non
posso aiutarvi con la fuga di Beth e sua figlia»
esordì Narcissa «Ma posso
organizzare il matrimonio e sono sicura che una mia vecchia conoscenza
sarà più
che disponibile nel darmi una mano».
Lo sguardo
di Blaise, d’improvviso, s’illuminò: la
sua vera preoccupazione era solo
quella, suocera e cognata, ai suoi occhi, meritavano di rimanersene
dov’erano,
vista la facilità con cui avevano sempre permesso a Daphne
di prendersi i loro
castighi, per quanto questi fossero immeritati.
«So come
farle scappare» disse, invece, Draco. I suoi occhi erano
persi, relegati in un
altrove che era solo nella sua testa e che, da dove si trovavano,
Narcissa e
Blaise non potevano raggiungere. «Ma sarà
rischioso. E complicato».
Arthur
Weasley possedeva uno straordinario talento: gli oggetti parevano
parlargli.
Gli bastava bussare con il dorso della mano contro un qualsiasi arnese
per
riuscire a comprenderlo, entrandovi in un’inspiegabile
sintonia. Lo scrutava
anche per ore, senza muoversi di un centimetro, concentrandosi sul suo
rumore o
sull’assenza di questo. Lo toccava, facendolo roteare tra le
dita e tastandone
la consistenza. Lo percepiva, sentendolo in un modo tutto suo che
nessuno,
neppure impegnandosi, avrebbe mai potuto interpretare. Non era stato
sufficiente neppure il plurilinguismo di Albus Silente, per
interpretare quella
lingua astrusa, fatta di sospiri e rivelazioni improvvise, che
l’uomo parlava
tra sé dinnanzi all’ennesimo manufatto.
Eppure, le
cose, dopo aver dialogato con lui, parevano aggiustarsi o migliorarsi.
Era stato così per la Ford Anglia, vecchio catorcio classe
1962 raccattato in
una discarica Babbana, che era stato in grado di rimettere in
movimento,
sebbene sul suo motore malconcio pesassero già molti anni di
onorato servizio. In
confronto, aggiungere qualche incanto qua e là, come quello
Dissimulante che la
rendeva invisibile all’occorrenza o l’Estensione
Irriconoscibile per farci
entrare tutta la famiglia, era stata una sciocchezza. Era stato
così anche per
la stessa Tana, eretta per magia a partire da un semplice porcile:
nonostante
l’apparente instabilità suggerita dalla sua
sembianza traballante e rattoppata,
la dimora non era mai stata danneggiata neppure dai peggiori
cataclismi. Il fatto
che le stanze nascessero l’una sull’altra, come
funghi sulla corteccia ruvida
di un grosso tronco d’albero, la rendeva solo unica nel suo
genere e non certo
meno confortevole, nonostante le proteste di Ron per la sua stretta
convivenza
con il demone della soffitta. Uno dei suoi ultimi progetti, poi, lo
aveva
portato a recuperare la motocicletta di Sirius, così da
potervi fare alcune
modifiche per restituirla al suo legittimo proprietario, Harry.
Ovviamente, lo
faceva di nascosto da sua moglie Molly, sperando che questa non
notasse, su
quel suo maledetto orologio che si era inventata, il
“Pericolo Mortale” in cui lui
finiva ogni volta che vi faceva un giro di prova.
Per questo
motivo, così come la donna che aveva sposato, molti anni
prima, fu entusiasta
all’idea di poter essere utile a Narcissa Malfoy
nell’organizzare il matrimonio
per Daphne Greengrass, lui rispose con un assenso infervorato al
giovane Draco
che era venuto a domandargli aiuto con un progetto che riguardava un
Armadio
Svanitore da aggiustare.
La notte era
crollata loro addosso inesorabile, mettendo fine al primo giorno di
luglio e
alla settimana che era trascorsa dall’incontro con Blaise.
Gli gnomi dei
Weasley si rincorrevano l’un l’altro gridando
sguaiatamente, divertiti dal
gioco improvvisato, ruzzolando sui pendi che circondavano la Tana e
inciampando
su ciuffi d’erba troppo rigogliosi. Una luce calda e sfumata
da pennellate di chiarore,
come agrumi succosi e brillanti dispersi tra le foglie d’un
arancio, indicava
dove, in quella casa, qualcuno era ancora sveglio. Dalla finestra della
cucina
il volto stanco della matrona compariva ad intermittenza, mentre questa
s’apprestava a finire le sue mansioni della giornata.
Asciugandosi le mani sul
grembiule stinto, si voltò verso un’interlocutrice
che le stava porgendo dei
piatti impilati: una delle due doveva aver scherzato su qualcosa,
scatenando le
risate d’entrambe.
Narcissa, in
abiti Babbani, si era poi voltata verso una lavagna per appuntare
l’ennesima
voce ad una lista molto lunga. Nel salotto, invece, si erano raccolti i
restanti membri della famiglia che non si trovavano altrove nel mondo:
Fleur, infatti,
stava facendo assaggiare le varie proposte per la torta del proprio
matrimonio,
che si sarebbe tenuto da lì ad un mese. Ron, ovviamente, non
aveva perso
l’occasione per riempirsi lo stomaco, ma anche Ginny si era
impegnata: se era
costretta a sopportare Flebo, riteneva d’avere il diritto di
ingozzarsi a spese
dei signori Delacour. Bill, affaticato e stanco, ma in lenta ripresa
dall’attacco di Fenrir, guardava la scena divertito,
lasciando che la fidanzata
lo imboccasse con cucchiate di dolci.
Distanti,
chiusi da giorni nello sgabuzzino che era l’officina e lo
studio di Arthur
Weasley, l’uomo e Draco Malfoy, incredibilmente suo
assistente, lavoravano
incessantemente sull’Armadio Svanitore.
Era stata,
per il giovane Slytherin, un’idea improvvisa: si era
ricordato dell’episodio di
Montague, ex capitano della squadra di Quidditch delle serpi, rinchiuso
in un
armadio, precedentemente scagliato da Pix contro Gazza, che lo aveva
tenuto
prigioniero per mesi. Il ragazzo aveva affermato d’essersi
trovato spesso a
sentire la voce del proprietario di Magie Sinister. Il giorno
successivo
all’incontro con Zabini, Draco si era recato dal negoziante
domandando
precisazioni all’uomo: aveva scoperto che lo spesso mobile a
due ante che teneva
lì esposto era, come aveva supposto, il gemello di quello
che, seppure rotto,
si trovava ad Hogwarts. Lo aveva comperato immediatamente, inviando
l’amico a
recuperare l’altro nella Stanza delle Necessità
della scuola, dove era stato
riposto. Aveva anche tentato di estorcere al proprietario qualche
informazione
utile su come ripararlo, ma il proprietario del più rinomato
negozio di magia
nera di Notturn Alley non era stato molto collaborativo, richiedendo,
per
farlo, una somma di denaro fin troppo consistente.
Per questo,
Draco, dopo aver dedotto che lavorandoci da solo non avrebbe mai fatto
in
tempo, aveva chiesto al capofamiglia dei Weasley d’aiutarlo.
Seguirlo,
all’inizio, era stato impossibile: l’uomo aveva un
ritmo tutto suo e pareva
muoversi seguendo una voce interna misteriosa. Eppure,
quell’armadio stava
riprendendo forma: incredibilmente, Arthur riusciva a riportare i pezzi
al loro
posto, senza incrinare l’incanto originario,
poiché anche intaccarlo solamente
avrebbe potuto annullare il punto di contatto tra i due oggetti. Le
prime
ventiquattro ore erano state un umiliante susseguirsi di azioni inutili
che lo
avevano fatto sentire più volte nel posto sbagliato. Aveva
impiegato un po’ a
comprendere come muoversi in quell’ufficio, come alzarsi
senza far crollare
nessuna pila di inutili oggetti Babbani di ricambio, come servire a
qualcosa.
Alla fine, dopo un paio di giorni, era entrato anch’egli in
perfetta sintonia
con quella melodia straniera.
La camicia bianca,
con le maniche arrotolate sino ai gomiti, gli si era appiccicata alla
pelle
madida di sudore, e gli occhi, segnati da occhiaie pesanti, tradivano
la
stanchezza che provava, eppure continua imperterrito a lavorare,
levigando il
legno o inchiodandolo. Fischiettava un motivetto che l’altro
gli aveva messo in
testa.
«Come sta
Hermione?» gli domandò il più anziano,
in un modo così spontaneo che stupì
Draco. In quella casa, la Granger era quasi una figlia: una nuora quasi
predestinata, una sorella acquisita, una moglie perfetta.
Lei non era
affatto impeccabile, anzi. Lui lo sapeva molto più di altri,
poiché di Hermione
aveva visto la verità ed a malapena era riuscito a coprire
il timore sul
proprio volto. Non era una ragazza semplice, la sua fidanzata. Eppure,
il suo
essere scontrosa ed impertinente, il suo a volte spigoloso modo di
fare, il suo
intelletto vispo, la rendevano unica ai suoi occhi. Stupenda nei suoi
errori e
odiosa nel suo voler risolvere ogni situazione solo con le proprie
forze. Tra
loro due, nonostante tutto, c’era sempre stata quella
distanza. Anche quando,
durante il funerale dei suoi genitori, lei lo aveva cercato. Un metro
soltanto,
sufficiente a permettere loro d’amarsi, ma mai abbastanza per
dare loro un po’
di tregua. Perché la loro era una lotta continua, una
battaglia per rubarsi un
bacio o per stringersi tra le coperte.
«Sono
preoccupato» gli rispose lui a bassa voce, continuando
imperterrito quello che
stava facendo «Mi sta tenendo all’oscuro di
qualcosa». L’aveva vista il giorno
prima, avevano fatto l’amore nella casa dei suoi genitori.
L’aveva amata con
tutto se stesso e si erano presi in giro. Avevano scherzato e riso, poi
si
erano baciati. Molte volte. Tuttavia, quando lui le aveva chiesto cosa
la
tormentasse, Hermione si era ritratta in un silenzio quasi accusatorio,
deviando il discorso su qualcos’altro. Scherzando, ridendo e
baciandolo. Bugiarda.
«Ma forse è
solo una mia impressione».
Non poteva
lasciare sua nonna, malata, per aiutarli a tirare fuori Daphne da
quella
prigione. Non poteva mettere davanti ai propri interessi quelli di
Draco,
neppure per una volta.
Quella
risposta negativa lo aveva ferito. Stavano parlando della Greengrass e
di
Zabini, non di due persone qualsiasi: se lei glielo avesse domandato,
Malfoy
avrebbe distrutto una montagna a pugni per impedire che Potter finisse
mangiato
da un drago. Si era ripetuto, di nuovo, che lei aveva le sue buone
ragioni per
farlo e aveva tentato di perdonarla. L’ennesimo compromesso
con se stesso pur
di farsi amare.
L’ultimo.
Quella casa
si raggomitolò su se stessa non appena lui ne
uscì. Le tende vennero tirate a
coprire gli interni, le porte di tutte le stanze vennero chiuse a
chiave e
l’ampio portone d’ottone venne aperto rapidamente,
come ad invitarlo ad
andarsene in fretta. Blaise, realmente intimorito da quel luogo,
accettò
cordialmente e accelerò il passo. Non aveva avuto modo di
spiegare il loro
piano a Daphne, ma l’ampio quadro, largo quasi due metri, era
stato fissato ad
una delle pareti della sua camera. Una stanza come tante altre, in
quella magione
gelida: spoglia e priva di troppi orpelli, fredda e inospitale.
Apparentemente,
ad un occhio disattento, sarebbe potuta persino passare per
abbandonata, se non
fosse stato per quel anziano giardiniere che impiegava le proprie
giornate,
sotto le peggiori intemperie o con la più afosa delle
calure, a tenere alla
perfezione la varia vegetazione. Il signor Ladon voleva
così. Le donne della
sua vita, quelle che lui avrebbe dovuto amare con tutto se stesso,
avevano il
medesimo valore. Siepi da potare non appena un ramo si fosse spinto
oltre il
disegno voluto per loro. Bambole di porcellana da riporre su una
mensola,
lasciandole ad impolverare d’angoscia e tormento.
Il giovane
Zabini, come avevano progettato, aveva spacciato quel dipinto come un
regalo di
nozze per la propria futura consorte, di modo che non finisse in
qualche
soffitta polverosa. Del resto, però, l’ottimo
lavoro svolto da Minerva
McGranitt nel Trasfigurare l’Armadio Svanitore in un piccolo
capolavoro,
avrebbe reso quel gesto una colpa imperdonabile: l’anziana
donna, con una
maestria che avrebbe fatto intimorire molti pittori, aveva lavorato un
paio
d’ore per riprodurre un paesaggio della sua patria, la Scozia.
Con tinte
tenui, quasi d’inverno, aveva impresso nelle pieghe della
tela il ricordo d’una
gita fuoriporta con i propri genitori. Sullo sfondo, alcune montagne,
distanti
e in parte coperte dalle molte nuvole plumbee, cariche di pioggia, e
dalla
foschia, parevano giocare a scavallarsi l’un
l’altra, quasi a rincorrersi per
disarcionarsi, salvo poi d’improvviso svanire, permettendo
alle nubi di far
risaltare, sulla propria fumosa consistenza, il vero protagonista della
scena.
Ad un passo dall’osservatore, interrotto, un lago placido,
idealmente sul punto
di straripare oltre la cornice dorata per creare un rivolo
d’acqua lungo il
muro. Sulla sua superficie, posate lievemente da un tocco di divina
gentilezza,
alcune foglie d’alberi decidui parevano attendere: un
singulto delle profondità
od un reflusso d’inspiegabile provenienza, qualsiasi cosa
potesse animarle,
facendole danzare sulle improvvise crepe di quell’acqua mai
increspata.
Puntellavano il paesaggio d’improvvisi slanci entusiastici di
colore, capaci
d’esaltare, su quel timido spiazzo di terra inattesa e
circondata d’acqua, un
castello in rovina, per i cui mattoni ricoperti d’edera, una
qualche donna, un
tempo, aveva composto un sonetto di poesia sepolcrale. A concludere lo
squarcio
di memoria, qualche albero dalle fronde scure e il verde quasi
brillante ai
piedi del maniero. Un ponte di pietra, retto da tre archi bassi, lo
collegava
alla terra ferma.
Non sapeva
per quale motivo l’oramai destinata a divenire ex Capocasata
dei Gryffindor si
spendesse con così tanto impegno per lui, ma aveva capito
che, per anni,
l’aveva valutata nel modo errato e, come molti altri
Slytherin, aveva spesso
atteso che si voltasse per scherzare su quella sua ridicola affezione
al
tartan. Dopo che lei lo aveva Trasfigurato durante l’attacco
dei Mangiamorte ad
Hogwarts, così che nessuno lo riconoscesse mentre era in
compagnia di Potter e
dei suoi compari, dopo avergli concesso senza alcuna ritrosia di
prelevare
l’Armadio Svanitore dalla Stanza delle Cose Nascoste, gli
aveva chiesto come
avessero intenzione di introdurre l’oggetto di nascosto e,
infine, aveva
fornito una sua proposta.
Vincente. Lo
stesso Ladon, infatti, era rimasto stregato dalla profonda e
inafferrabile
bellezza di quella vista.
Blaise scrutò
a lungo le colline che circondavano la zona della villa Greengrass,
fino a
quando non fu sicuro d’aver riconosciuta quella individuata
da Draco per dare
inizio al loro piano e porre il gemello dell’oggetto regalato
a Daphne. Sempre
che lui e il capobranco dei Weasley fossero riusciti ad ultimarlo in
tempo.
Sospirò e,
accendendosi una sigaretta, si Smaterializzò dinnanzi alla
casa di sua madre,
quella da cui si sarebbe allontanato, una volta sposato, per non farvi
ritorno
se non nelle più gravi ed incombenti circostanze. La donna,
come spesso
capitava, era in viaggio di nozze con l’ennesimo nuovo marito
e poco le
importava di perdere uno degli eventi più importanti della
vita del suo unico
figlio. Forse, però, credeva che Blaise avrebbe seguito le
sue orme.
Si aspettò
di trovare la solita fredda e distaccata accoglienza degli Elfi
Domestici,
troppo presi dalle faccende ordinate loro per rendersi conto che lui,
taciturno
come al solito, era rientrato da Hogwarts con l’inizio delle
vacanze estive.
Scorse, invece, una signora bassa e robusta, appesantitasi con gli
anni, ma non
per questo grassa o fiacca. Indossava un abito leggero, lungo fin poco
oltre le
ginocchia, d’un giallo acceso ed allegro, coordinato ad un
maglioncino lasciato
aperto che le raggiungeva i fianchi. Un foulard allentato, un paio
d’orecchini
ed un braccialetto non appariscente. Tutto, in lei, risaltava quei suoi
capelli
grigi, molto vicini ad essere d’un bianco brillante. Mossi e
corti, si
allungavano leggermente solo sulla fronte, con uno svirgolo che svelava
un
pizzico di geniale follia. Non appena lo vide abbandonò sul
tavolino il suo
bicchiere d’acqua con uno spicchio di limone e due cubetti di
ghiaccio, per
alzarsi aitante dal divano e raggiungerlo.
«Blaise!»
esclamò entusiasta, abbracciandolo forte e scoppiando a
ridere «Guardati! Sei
diventato anche più bello di tuo padre».
Dopo un
iniziale smarrimento, la tensione di Blaise, tra quelle braccia, si
sciolse
improvvisamente. Tante volte, quand’era più
piccolo, quel contatto lo aveva
tranquillizzato. Carolyn Gray in Zabini, sua nonna, c’era
stata sempre per lui:
lei era la sua costante.
Lo guardò
negli occhi, mentre gli posava una mano sulla guancia.
«Però, dovresti tagliare
questi capelli» continuò, spettinandolo un
po’ «Non vorrai farli crescere tanto
come quelli di tuo padre, vero? Non mi sono mai piaciuti».
I suoi occhi
si fecero lucidi, quasi fosse sul punto di piangere. Erano trascorsi
molti anni
da quando Oscar, il suo unico figlio, era morto e, nonostante il tempo,
non era
mai riuscita a superare quell’ennesima perdita. Si era
trovata un nuovo
compagno, di recente, ma non aveva mai avuto il coraggio di presentarlo
al
nipote. Temeva che, anche solo per un istante, lui potesse stimarla
simile alla
donna che lo aveva generato e che, quand’era ancora in fasce,
aveva ucciso la
figura paterna di cui, per anni, Blaise aveva sentito la mancanza. Era
rimasta
impunita, quella lurida arrampicatrice sociale, anche se aveva ucciso
il padre
del ragazzo che ora stava guardando: annegato nella piscina di un hotel
Babbano, facendo ricadere la colpa su un’innocente cameriera.
«Dai,
sediamoci» disse all’improvviso Carolyn,
costringendosi ad un sorriso «Hai
molte cose da raccontarmi, se non sbaglio».
Erano
rimasti a lungo seduti vicini su quel divano. Lui, stanco e provato,
disteso
contro un bracciolo e reticente a parlare. Lei, curiosa ed attenta, ma
circospetta e accondiscendete: conosceva i ritmi degli Zabini,
così lontani dai
suoi, e, per questo, si era limitata ad attendere, ponendosi
perpendicolarmente
a lui con il fianco destro contro lo schienale e il pugno chiuso a
reggerle la
testa. Gli faceva le domande giuste, cercando di sfiorare le sue ferite
scoperte, così da spingerlo a parlare senza farlo soffrire
troppo.
«E così le
hai proposto di sposarti?» gli domandò, posando
quel bicchiere d’acqua ormai
vuoto che un elfo si sbrigò a riempirle.
«Sì, di
nuovo. Non pensavo accettasse» le rispose lui, con un braccio
davanti agli
occhi per proteggerli da quella fastidiosa luce estiva «Non
ci speravo più».
«Sai, vero,
che lo ha fatto per salvarsi, non per amore?» insistette
l’anziana signora,
senza cattiveria. Un discorso come quello, probabilmente, sarebbe
dovuto venire
da una coppia di genitori apprensivi, ma cause di forza maggiore
imponevano che
fosse lei a tenerlo. Con dispiacere d’entrambi: Carolyn era
colei che amava
riempirlo di regali e coccolarlo, quando era piccolo, il ruolo della
crudele
realista avrebbe preferito lasciarlo all’odiata nuora.
«Sì». Quel
monosillabo fu un macigno.
«Sai che ti
farà soffrire, vero? Daphne ha vissuto per anni in uno stato
di soffocante
prigionia, per lei non c’è mai stato qualcuno
disposto a prendere le sue
difese. È stata abituata ad accettare tutto in
silenzio» continuò la donna,
senza risparmiare nulla al nipote «Non ti dirà
cosa di te la fa soffrire, si
limiterà a fingere che le sta bene. E poi
comincerà a sentire quello che ora
sente per suo padre: ti sopporterà perché ti deve
qualcosa, perché tu, per lei,
sarai colui che avrà salvato sua madre e sua sorella, ma ti
odierà. Ogni giorno
di più. Il tuo sguardo, il tuo silenzio, il tuo
amore» gli afferrò la mano, con
forza, scoprendo il suo sguardo «Blaise, qualsiasi cosa di
te, per lei, sarà
asfissiante. Con lei, sposerai anche i suoi problemi. Dovrai sopportare
più di
quanto un matrimonio normale richieda: non si tratta di difetti
caratteriali o
vizi, è rancore quello che per anni quella povera ragazza ha
covato in sé.
Sarai tu ad esserne vittima, anche se non ti spetta»
D’impeto,
Blaise si mise a sedere, cercando febbrilmente il pacchetto di
sigarette. Ne
estrasse due, una per sé e una per sua nonna. Quasi in
sincronia, se le
portarono alla bocca e le accesero. In poco tempo, nell’aria
si diffuse un
odore pungente. C’era qualcosa, in quel gesto così
abituale per entrambi, che
li accumunava: il ritmo, il respirare il fumo liberato dalla bocca e, a
tratti,
anche il modo in cui stringevano tra le dita quell’oggetto. A
volte in maniera
troppo femminile, altre in modo esageratamente maschile. Del resto, il
più
giovane dei due aveva rubato quel vizio all’altra.
«Dovresti
smetterla di fumare» lo rimproverò, come al solito.
Blaise
ridacchiò. Tutte le volte che si incontravano, quindi molto
spesso, quella
scena si ripeteva nella stessa maniera, fin da quando Carolyn lo aveva
sorpreso
la prima volta. Serviva ad entrambi per pulire la propria coscienza e,
poi,
continuare imperterriti sulla via della distruzione che percorrevano
assieme.
In fin dei conti, però, nessuno avrebbe voluto che
l’altro smettesse
seriamente: quando avveniva quel gesto, non vi era parola che non
divenisse
superflua.
«Me ne
pentirò, lo so, ma per me è giusto
farlo». Nessuno avrebbe saputo dire con
certezza a cosa si riferisse, nessuno tranne l’anziana
signora con cui stava
conversando. Posò la sua mano grinzosa su quella di lui, gli
pizzicò una
guancia e prese l’ennesima boccata dalla sigaretta.
«Fallo,
allora».
Nella
semplicità dei loro sorrisi, per un solo istante, apparve
lampante la profonda
somiglianza tra i due. Non era fisica, o caratteriale. Erano animi
affini,
capaci, per amore, di sacrificare anche se stessi.
Era rimasta
immobile per delle ore intere. In silenzio, con gli occhi sbarrati nel
buio e
il petto squassato dal cuore pulsante. Aveva atteso anni per quel
fatidico
momento, quello che avrebbe permesso a sua madre e a sua sorella di
fuggire da
quella prigione. Le mani, quando aveva trovato, come le aveva suggerito
Blaise,
quel biglietto dietro il quadro, avevano preso a tremare. Un freddo
innaturale
le si era insinuato fin nelle ossa: era quello il calore della speranza?
Aveva avuto
solo tre settimane per preparare il suo matrimonio: inizialmente, la
sola idea
l’aveva portata ad avere una crisi di nervi. Si era presto
immaginata, prossima
alle nozze, senza nulla tra le mani. Il suo futuro marito,
però, l’aveva tolta
dall’imbarazzo: ad intervalli irregolari, dopo averle detto
di premurarsi solo
degli abiti e dei fiori, le aveva fatto visita portando un tassello in
più con
sé. Ad una settimana dalla fatidica data, esclusione fatta
per le bomboniere
che avevano deciso assieme, tutto era pronto.
Un bella
villa dell’Ottocento, affacciata su un laghetto artificiale,
avrebbe fatto da
scenario e, in uno splendido salotto, adattato all’occasione,
si sarebbe tenuto
il rito civile. Poi il tutto si sarebbe spostato in un ampia sala da
ballo,
finemente abbellita, dove un catering di classe avrebbe servito molte
portate,
dai sapori semplici ma presentate con un gusto minimal e raffinato.
Aveva avuto
modo di scegliere il colore degli addobbi e il loro genere,
d’assaggiare ciò
che sarebbe stato servito e di decidere la musica che sarebbe stata
suonata.
Per quest’ultimo punto, aveva optato per un gruppo di sette
musicisti che,
pizzicando le corde dei loro strumenti, avrebbero accompagnato
l’evento. Per la
torta, invece, non aveva avuto dubbi: pan di spagna al cacao e crema
alla
nocciole. Blaise, infatti, le aveva fatto capire, pur non dicendolo
effettivamente per non condizionarla, che era la sua preferita.
Ladon le
aveva concesso d’uscire con sua madre e sua sorella per
scegliere il proprio
vestito e quello della damigella, ma lei, avendo un’idea
piuttosto precisa di
ciò che voleva, aveva risolto le cose in poco tempo.
Ed ora era
lì: a dieci ore dal momento in cui si sarebbe unita in un
vincolo d’amore con
Blaise Zabini. Mancavano quindici minuti a che il piano ideato da Draco
avesse
inizio.
Discostò il
lenzuolo leggero. Rimase immobile per un momento, necessario per
prendere un
respiro. Il suo abito bianco, appeso alla barra della tenda, pareva
suggerirle
di desistere.
Avrebbe
potuto essere egoista per una volta nella sua vita. Avrebbe potuto
chiudere gli
occhi, dormire e, poi, riposata, percorrere la navata, fingendo che suo
padre
l’amasse davvero. Avrebbe potuto salvarsi e smettere
d’essere colei che veniva
colpita tre volte. Una per le sue colpe, una per quelle di Lisbeth, una
per
quelle di Asteria. Nessuna meritata davvero.
Oppure,
poteva impugnare la bacchetta e sfidarlo. Sputare sul suo viso e
procurargli
quell’affronto per cui tante volte l’aveva
costretta a letto. Quando era
piccola, quando era una bambina, soleva piangere molto, rea del non
capire per
quale motivo la odiasse tanto. Poi aveva capito, poi aveva messo a
tacere anche
i singhiozzi.
«Finite
Incantatem» mormorò, mirando contro il castello di
Scozia del dipinto.
Rapidamente,
la sua profondità aumentò, divenendo
più spesso, mentre i colori tenui si
scurivano in un marrone scuro. Legò i capelli in una coda
alta, scoprendo il
collo, che la leggera vestaglia lasciava nudo. Due passi, necessari per
comprendere se le gambe l’avrebbero retta, se davvero era
stata capace di
trovare il coraggio. Quando d’improvviso le mancò
il respiro, pensò che non ci
sarebbe mai riuscita, che non avrebbe mai corso quel rischio.
Due colpi
rapidi ed uno più lento. Lo aveva fatto, quello era il
segnale.
La luce
quasi bianca dei riflessi lunari sui capelli di Draco la
investì
immediatamente, ritrovandosi stretta in un abbraccio quasi feroce.
Avrebbe
voluto dirgli qualcosa, ma riuscì solo ad aggrapparsi a lui,
con quanta più
forza le sue braccia, ancora ricoperte di lividi, le permettessero. Le
teste
ramate che seguirono, rosse come ogni Weasley che si rispetti,
portavano in
dono sorrisi fiduciosi. Ron e suo fratello Charlie avevano deciso di
intraprendere quella missione suicida, senza neppure un baleno di
timore. I
loro volti, non noti a Ladon, non avrebbero portato a grosse
conseguenze se
questo li avesse visti. Per questa motivazione, Zabini era stato
costretto a
rimanere alla Tana, assieme alla signora Malfoy e a Drew Kennan, il
quale
avrebbe svelato il segreto di cui era Custode a Beth e Asteria,
così che queste
potessero nascondersi presso lo spazioso attico di Narcissa. Di ovvia
sconvenienza, era la presenza in quel luogo dello Slytherin, ma,
essendo
l’unico capace di muoversi con una certa dimestichezza in
quella casa ed avendo
lui ideato quella fuga, nessuno aveva potuto scalfire il suo
irremovibile
ardore.
«Papà, Fred
e George sono sulla collina, dall’altra parte
dell’armadio, pronti a partire
appena tua mamma e tua sorella saranno in salvo». Avevano
studiato la cosa nei
minimi particolari, arrivando a procurarsi persino un paio di manici di
scopa
nel caso in cui, nella fretta del partire, i ragazzi fossero rimasti
bloccati
nella casa. Se fossero riusciti a mettere Beth ed Asteria sedute sul
sedile
della Ford Anglia, quella missione sarebbe stata ritenuta un successo.
Daphne,
a quella notizia, si limitò ad annuire, mentre la mano
dell’amico, sulla
schiena, pareva quasi sorreggerla.
«Ripetiamo
il piano a sommi capi» propose Draco per calmarla e per
accertarsi che tutti
sapessero cosa fare.
«Io e te,
usciti su questo corridoio, andiamo a sinistra e raggiungiamo la camera
della
sorella di Daphne» cominciò Ronald, parlando
piano, timoroso di farsi scoprire,
ed indicando chi teneva le redini della spedizione «Sulla
serratura potrebbero
esserci alcuni incanti di Chiusura, dobbiamo stare attenti a non farla
gridare
per la paura e dobbiamo fare attenzione al non ferirci in alcun modo,
poiché
nell’ultimo periodo ha manifestato una forte
emofobia». Compiaciuto, Draco
annuì.
«E se
necessario, meglio stordirla. Se urla, gli elfi domestici accorreranno
e Ladon
ci scoprirebbe prima di riuscire a metterla in salvo»
concluse il rosso, quasi
dispiaciuto dal dover pronunciare quelle frasi.
La
Greengrass si staccò dal suo supporto, improvvisamente
più sicura di quello che
stava facendo. Recuperò un foglio che aveva nascosto tra le
pagine niente
affatto impolverate di un libro riposto alla perfezione nella libreria.
«Ho
controllato prima» disse ai ragazzi «Sono tre, gli
incanti con cui è stato
stregata la serratura. Uno di questi, l’ultimo ad essere
disattivato, è un
incanto Gnaulante. L’allarme scatterà appena
qualcuno proverà a manometterla.
Dovrete attendere che io apra la porta della camera patronale per
prelevare
Asteria». La sua mano, ferma e decisa, porse il biglietto su
cui aveva scritto
la procedura per sciogliere le prime due magie. Aveva fatto molta
pratica, in
passato, e tutte avevano portato ad una sessione di torture e sevizie.
«Io e te»
cominciò subito dopo Charlie, con un’espressione
rassicurante «ci occuperemo di
tua mamma. Non ci sono incanti sull’uscio della stanza, ma
lei è legata al
letto con un incanto oscuro. Anche se la libereremo, tenterà
di opporsi per
paura. Di Ladon».
Avevano
deciso che fosse lui a correre questo rischio poiché era
l’unico con la stazza
adatta a trasportare con la forza la donna fuori dalla Magione. E
poiché la
maggiore esperienza, anche con i draghi, lo aveva reso molto difficile
da
impressionare e prendere contropiede.
«Lui dorme
al suo fianco. Se riuscissimo a Schiantarlo senza svegliarlo,
risolveremmo
molti dei nostri problemi. Dubito sarà
così». Il suo tendere al perfezionismo,
l’aveva portata a rimarcare, con freddezza, tutte le
difficoltà della cosa
anche se nessuno dei presenti aveva bisogno di farselo ricordare.
Guardando un
orologio, constatarono d’essere in ritardo sulla tabella di
marcia prestabilita
e che, presto, se si fossero fatti attendere ulteriormente, chi era
rimasto
all’esterno sarebbe venuti a cercarli.
Mentre gli
altri tre schermavano i propri volti con un incanto Dissimulante per
non essere
riconosciuti, Daphne cominciò a sciogliere le fatture che
erano state lanciate
sulla porta della propria camera. Si avvicinò, si
chinò e si concentrò sulla
prima magia che doveva sbrogliare. Non la trovò.
Come un
automa, spinse la maniglia.
Lo sguardo
di suo padre, rabbioso ma soddisfatto d’averla colta in
fallo, la fece
rabbrividire. La soddisfazione che trasudava dall’uomo
preannunciava il piacere
che avrebbe provato nel corso di quella notte.
Uno
scricchiolio. Soppesò il timore che il proprio cuore stesse
frantumandosi. Le
faceva male, ma non abbastanza. Impugnò la propria arma con
tenacia e fece un
passo fuori da quella stanza.
«Stupeficium!»
gridò, furente. Ladon aveva già evocato un
incanto Scudo, quando vide la mano
della figlia virare bruscamente e puntare ad un altro obbiettivo. Uno
dei
Mangiamorte che aveva assoldato come scagnozzo venne scagliato contro
una
finestra: un allarme assordante si azionò e il suo corpo
venne percorso da una
forte scarica elettrica che lo stordì. Il fatto che, per
anni, fosse stata
prigioniera, l’aveva portata a conoscere alla perfezione la
propria cella e i
difetti di questa. Quel rumore sinistro che aveva avvertito, quel
cigolare
leggero, non poteva che provenire da un listello del parquet che, nel
corso del
tempo, si era sollevato dal massello. Una volta, un elfo domestico
l’aveva
colta in fallo proprio a causa di quel rumore.
Si guardò
rapidamente attorno. Come Drew aveva insegnato loro, la prima azione da
compiere, in un duello, era individuare il numero di nemici contro cui
ci si
sarebbe dovuti fronteggiare. Ne contò due. Si
preparò a scagliare una magia di
Disarmo, ma, con una sterzata, fu costretta a mutare
l’incantesimo.
«Protego
Horribilis», ebbe la forza di dire, mentre la Maledizione
Cruciatus di suo
padre le si avvicinava celermente. La barriera resse contro
l’urto, ma
s’incrinò, spezzandosi definitivamente quando uno
dei tirapiedi di suo padre
aggiunse all’assalto un’altra fattura.
Una ferita
non molta profonda le si aprì sul fianco, tagliando sia la
stoffa dell’abito
leggero che la copriva sia la carne.
«Muovetevi!»
urlò, mentre Draco l’aveva già
raggiunta per aiutarla. Daphne distinse i due
Weasley procedere verso i propri obbiettivi, eliminando, lungo il
percorso, uno
degli incappucciati. Charlie, sorprendendo il malcapitato avversario,
gli si
avventò contro fisicamente, strappandogli letteralmente di
mano la bacchetta e
spingendola con forza, poiché dalla corporatura pareva una
donna, contro il
muro. Il forte colpo le fece perdere i sensi.
Mentre la
restante parte del gruppo tentava di sciogliere gli incantesimi, con
non poche
difficoltà, i due Slytherin si prepararono a fronteggiare
Ladon e l’ultimo
Mangiamorte superstite. Nel volto del primo era chiaro lo stupore: non
sapeva
quale degli elfi domestici l’aveva tradita, ma il mettere in
giro la notizia
falsa d’un semplice tentativo di fuga aveva mascherato la
realtà delle cose.
Sapeva che quella casa aveva orecchie indiscrete, sebbene sperasse che
così non
fosse, e aveva fatto la giusta decisione, forviando i possibili
ascoltatori.
Vide chiaramente il terrore nel viso di Ladon quando dalla sua stanza
uscirono
i rinforzi. La parità numerica, inattesa, volse facilmente a
loro favore,
poiché avevano puntato molto sull’elemento
sorpresa. Finalmente, con il giovane
Malfoy al suo fianco, poteva sfidare suo padre.
«Cosa stai
facendo, Daphne?» le domandò l’uomo che
l’aveva generata. Draco scagliò tre
rapide fatture contro l’ultimo degli sgherri, il quale, pur
tentando di
resistere all’offensiva, cedette alla rapidità di
questa.
«Immagina»
gli rispose lei. Satirica e sprezzante, come non aveva mai potuto
essere.
Considerato
l’evidente vantaggio, i quattro credettero d’essere
prossimi alla vittoria e
alla conseguente riuscita della loro missione. Quando una maledizione
silenziosa aprì uno squarcio nella gamba di Ron, compresero
che Greengrass
aveva ancora qualche asso nella manica.
Lo stoicismo
con cui il ragazzo, pur ferito gravemente, continuò a
tentare d’aprire la porta
portò gli amici ad ingaggiare una lotta serrata contro
l’ultimo oppositore alla
loro missione. I due, pur riuscendo ad alternarsi ad un ritmo molto
sostenuto,
parevano in netto svantaggio: i loro attacchi venivano deviati o parati
senza
troppe difficoltà, mentre le loro difese, progressivamente,
sembravano farsi
meno efficaci. Alle fatture di loro, volte al solo metterlo fuori
combattimento, lui rispondeva con ferocia e Maledizioni Senza Perdono.
Tortura
per la figlia, morte per lo sconosciuto che la stava aiutando.
Per questo,
presto, Daphne cominciò a concentrarsi per tutelare Draco
che, inaspettatamente
risoluto e concentrato, pareva non voler cedere di un solo centimetro,
pur di
sconfiggere Ladon. La ferita della ragazza, intanto, pulsava, dandole
fitte
violente ogniqualvolta i suoi movimenti fossero troppo ampi o rapidi.
Sentì sua
madre gridare, stretta tra le braccia di Charlie. Gli colpiva con forza
il petto,
graffiandolo e mordendolo disperata. Lisbeth non era mai stata una
guerriera,
eppure, al solo pensiero che suo marito pensasse che lei non si era
battuta per
evitare d’essere rapita, o salvata da quella prigionia, aveva
manifestato un
ardore che, fino a quel momento, non aveva mai visto in lei. Quasi
animalesca,
in quel suo dibattersi violento. Per un attimo, la immaginò
come un salmone,
strappato dall’acqua da un orso affamato, mentre placido
procedeva nella
risalita di un fiume, con un fine che qualcuno aveva imposto nella sua
testa,
per natura. Per dovere.
Tutto quello
schiamazzare, quel berciare sgolandosi, quell’abbaiare contro
colui che la
stava salvando, tacque d’improvviso, quando ad alzare la voce
fu Daphne.
«Smettila!».
C’era, in quell’esclamazione, il tono di
un’accusa e il vigore di un
rimprovero. Lei lo fece. S’acquattò tra le braccia
del ragazzo, con gli occhi
spalancati e il corpo tremante. Accucciata contro quel torace che aveva
colpito
e ferito, lasciò che ciò che doveva accadere
avvenisse.
«Come pensi
di farla uscire da qui?» le domandò Ladon,
schernendola.
Non vi fu
risposta: Draco sfruttò l’occasione per un affondo
che non colpì il bersaglio.
Quell’uomo pareva impossibile da cogliere in fallo. Un Avada
Kedavra galoppò
verso il petto di Malfoy. L’amica lo spinse con quanta
più forza possedeva,
riuscendo a farlo finire al suolo. L’improvvisa mancanza del
ragazzo all’attacco peggiorò
ancora la situazione. Proprio su
questo, in quanto inerme, si abbatterono i successivi malefici. Con
un’agilità
che non le era solitamente propria, la ragazza bionda riuscì
ad evitare che
venisse colpito, ingaggiando uno scontro diretto con il padre.
Sciabolate e
parate: la sua testa era vuota, concentrata e precisa.
L’adrenalina l’aveva
resa più resistente, tanto da non sentire neppure il dolore.
Ancora una volta,
però, il capostipite dei Greengrass riuscì a
vincerla.
«Non vuoi
realmente ferirmi, come pensi di potermi sconfiggere?
Stupida».
Avrebbe
voluto rigurgitare un insulto dal profondo delle sue membra, ma il
sentirsi
chiamare, mentre la sua spalla si rialzava dal pavimento gelido di
quella
villa, la fece desistere.
Ron non
riusciva a smuovere sua sorella. Asteria era impietrita, terrorizzata.
Non ebbe
bisogno di osservare la situazione troppo a lungo per capire cosa stava
accadendo. I pantaloni del ragazzo erano zuppi di sangue, a causa del
profondo
squarcio all’altezza del polpaccio.
«Il sangue»
disse solamente, rivolgendosi allo Slytherin che era al suo fianco
«Vai ad
aiutarli».
«Ma tu … »
provò a dire Draco, più pallido del solito.
«Vai!». La
stessa rabbia che aveva usato per sua madre, la rivolse anche a lui.
Non c’era
crudeltà, in quel suo modo di parlare, ma paura. Paura per
gli altri. Draco capì
in quell’istante per quale motivo lei avesse voluto salvarle:
a guidarla era lo
stesso motivo che l’aveva spinta a schierarsi sempre dalla
sua parte, chiunque
avesse contro.
Quel che
accadde poi, fu molto rapido. Malfoy li raggiunse correndo a
perdifiato, coprì
la ferita con un “ferula”, ma Asteria non si mosse.
Cercarono di scuoterla, ma
il suo sguardo vitreo rimaneva fisso verso il combattimento in atto. Fu
necessario uno schiaffo per farla rinsavire. Con il volto arrossato
dalla
sberla, nel vedere la sorella battersi per lei, la ragazzina
sembrò trovare coraggio.
Infilatasi sotto un braccio di Ron, claudicante, aiutò il
biondo a trasportarlo
verso la camera di Daphne.
Quando
furono tutti nella stanza, esclusione fatta per colei che lì
usava dormire,
aprirono la porta dell’Armadio Svanitore. Ladon, troppo preso
dall’euforia
d’aver scovato la figlia, prima, e dalla rissa, poi, non lo
aveva notato. La
sua espressione mutò.
«Sbrigatevi»
li incitò ancora una volta colei che, a differenza degli
altri, sarebbe rimasta
in quella casa fino alla mattina seguente. Sola. Con quella bestia
irosa.
Il primo a
sparire fu Charlie, con in braccio Beth. Seguirono Ron ed Asteria,
presi l’uno
a sostenere e fare forza all’altra. Rimase solo Draco.
Incerto, teneva tra le
dita una delle due ante. Avrebbe voluto rimanere in quella casa,
lottare.
Ladon
caricava per raggiungerli, Daphne tentava in ogni modo di rallentarlo.
Fermare
quell’essere, sfigurato dalla rabbia, giocato
dall’astuzia di colei che aveva
ritenuto sempre un scarto, era impossibile.
Lo sguardo
smeraldino che investì Malfoy parve parlargli.
Mormorò delle scuse, capaci di
generare un sorriso sulle labbra di lei, e scomparve
nell’oggetto.
La
Greengrass contò fino a dieci, nella sua testa. Pochi
secondi per accertarsi
che nessuno si trovasse dentro l’Armadio Svanitore.
«Reducto»
mormorò.
Cadde in
frantumi. Frammenti di legno accatastati e scaglie sottili ed acuminate
nella
polvere.
Sentì le mani di Ladon afferrarla e spingerla contro il
muro. Urtò con la testa
e cadde al suolo, in una bozzolo di abiti leggeri e carne, sporca di
sangue.
Alto ed imponente, lui era già su di lei. Sentì
il viso tremarle ed un
singhiozzo che pensò preannunciasse un pianto, ma non fu
così.
Le sfuggì
una risata cristallina. Ottenne solo più colpi. I primi
furono i calci.
Il sole,
quel giorno, si affrettò a sorgere solo per lei.
Molly
Weasley, indaffarata, correva da una parte all’altra della
villa in cui si
sarebbe tenuta la cerimonia. Ad aiutarla, vi erano solo sua figlia
Ginny e la quasi
nuora Fleur Delacour, entrambe tanto immerse nei preparativi del
matrimonio
della seconda da sapere alla perfezione cosa fare senza aver bisogno di
indicazioni da parte di nessuno. A queste, poi, si era aggiunto il
coordinatore
del servizio catering, arrivato con un ritardo d’una
quindicina di minuti e per
questo ammonito dall’agguerrito terzetto. Presto, ad
aiutarle, era giunta anche
la signora Carolyn, nonna di Blaise, accompagnata da Airi, lontana
cugina del
ragazzo venuta dal Giappone appositamente per l’occasione. Le
due, trovandosi
subito in sintonia con le altre, si erano prodigate per essere utili.
La prima,
con il suo finto cipiglio severo, aveva redarguito tutti coloro che
tardavano
nel compiere gli ordini della signora Weasley ed aveva accolto
l’officiante,
suggerendo d’accorciare il più possibile la
cerimonia. Si era poi permessa di
proporre qualche cambio nella disposizione dei tavoli, per evitare che
le
prozie del nipote bisticciassero, e aveva fornito uno scaletta al
gruppo
musicale. La seconda, invece, vestita con un improbabile abito
svolazzante e
colorato, si era prodigata per creare, con i fiori in eccesso ordinati
per
errore, dei magnifici centrotavola, a cui nessuno aveva avuto modo di
pensare,
dimostrando una straordinaria abilità nell’arte
dell’ikebana. Il fatto che, poi,
fosse rovinata tragicamente nel laghetto, aveva suscitato le risate
generali e
le sue. Felice, forse più di prima, aveva addotto
d’avere una scusante per
cambiarsi d’abito e così, in effetti, era stato.
L’arrivo di
Ladon, puntuale, allo scoccare delle dieci, aveva creato, invece,
scompiglio.
Trascinava, qualcosa di informe, reticente a muoversi. Il dolore e la
vergogna
la facevano stare piegata in due, mentre tentava, con le mani e le
braccia,
ferite in più punti, di reggere quella vestaglia leggera,
ricolma di tagli e
scuciture, con cui si era coperta durante la notte.
«Ho portato
la sposa». Questo aveva detto l’uomo, mentre lei,
trascinando le gambe,
indifesa come mai era stata, si era raggomitolata contro il muro. La
prima ad
accorrere era stata Ginny, seguita a ruota da Airi. La rossa
cominciò ad
insultarlo ad alta voce, attirando l’attenzione di molti.
Quando Molly vide la
scena, pur sapendo qual’era il vizio di quell’uomo
poiché Narcissa gliene aveva
abbondantemente parlato, rimase senza parole. Avrebbe voluto dire
qualcosa a
quella bestia, ma qualsiasi discorso la sua mente formulasse,
improvvisamente
questo si sgretolava, lasciandola ad imprecare qualche
divinità. La sua
espressione era quella che solitamente intimava i suoi figli a scappare
dalla
cucina prima di ricevere una padella tra gli occhi.
Quando
Carolyn sopraggiunse, la sicurezza dell’uomo ebbe un
cedimento: non si
aspettava che la matriarca si trovasse in quel luogo.
«Esattamente
come tuo padre» esordì l’anziana signora
«Un verme». Gli sorrise, scuotendo
piano la testa. Lentamente, raggiunse la sua borsetta e ne trasse un
foglio
ripiegato. Nella sigaretta che si accese, poi, trovò calma e
lucidità. «Per
l’abito, i fiori e la dote».
Dicendo
quelle parole, gli porse un assegno. «Noterai che
c’è un grosso supplemento per
il tuo disturbo. Ritienilo pure un incentivo per uscire ora da questo
edificio
e per non infastidire più mio nipote e la sua sposa per il
resto dei tuoi
miseri giorni. Non penso, sinceramente, che qualcuno
rimpiangerà la tua assenza».
Sentendo
quelle parole, l’uomo divenne rosso in viso e parve voler
alzare le mani pure
sulla signora Gray, la quale, però, non retrocesse neppure
di un millimetro.
«Lei è mia
figlia, io la accompagnerò all’altare»
provò a dire quello, fieramente.
La mano di
Carolyn si serrò con forza sul suo mento, costringendolo a
guardarla.
«No» disse
semplicemente «Hai perso questo diritto la prima volta che le
hai messo le mani
addosso. E dovresti ringraziare il tuo buon diavolo custode che mio
nipote non
si trovi qui in questo momento, non penso che ti avrebbe permesso
d’uscire vivo
da questo casa».
Ladon parve voltarsi
per andarsene. Fu una finta, a cui tutti coloro che lo conoscevano
erano
preparati. Impugnava già la bacchetta, pronto a colpire
chiunque si fosse messo
in mezzo a questioni che lo riguardavano così da vicino.
Furente, perché ora
che Daphne poteva ufficialmente ritenersi una donna libera, lui non
aveva più
nessuno da costringere sotto il proprio giogo, dopo che Beth ed Asteria
erano
fuggite. Vipera, non avendo più nulla, avrebbe morso fino ad
esaurire la
propria fiele.
«Crucio». La
voce era un sospiro fievole, rotta dal pianto, mentre con una mano,
cercava di
trattenere le lacrime che aveva lottato per arrestare fino a quel
momento. Il
sale dei suoi occhi si mischiò al sapore ferroso del suo
sangue, ma nonostante
l’occhio nero e il labbro contuso, quel volto tumefatto era
ancora quello di
Daphne Greengrass. L’orgoglio e il senso della giustizia
l’avevano portata
ancora una volta a difendere qualcun altro dalle azioni di
quell’uomo. Aveva
afferrato la propria bacchetta, quella che l’uomo le aveva
restituito così che
potesse Dissimulare, ancora una volta, le sue ferite. Aveva
disubbidito, poiché
la sua stecca di legno, quella che aveva ricucito tante volte la sua
carne e
che aveva attenuato le sue sofferenze, aveva funto da catalizzatore per
l’odio
che provava verso di lui.
Molly
Weasley, impastoiandolo per evitare che colpisse Carolyn, aveva fissato
quel
momento: crollato sulle proprie ginocchia, con i muscoli tesi, il viso
digrignato in una smorfia e gli occhi spalancati.
«Non credo affatto
che rispondere alla violenza con un altro maltrattamento sia un buon
modo di
fare giustizia» cominciò la più anziana
del gruppo, non colpita da ciò che era
accaduto «So anche, però, che tu non imparerai
mai. Puoi mettere addosso ad un
verme un bel viso e dei vestiti costosi, ma questo resta sempre un
viscido
invertebrato».
Daphne,
scossa da tremiti violenti, era riuscita a mettersi in piedi.
«Un giorno,
qualcuno farà giustizia. E tu pagherai le tue colpe, le tue
violenze» prese
un’ultima boccata dalla sua sigaretta «Nel mentre,
permetti a questa anziana
signora, barbara e becera, di lasciarti un promemoria». Con
quelle parole,
spense il tizzone sulla pupilla dell’occhio sinistro,
accecandolo. Poi, con un
cenno della mano, chiamò due camerieri nerboruti.
«Scusate,
ragazzi, so che non rientra nelle vostre mansioni, ma potreste togliere
questo
schifo dal pavimento? Temo inquieterebbe gli invitati».
Qualcuno
rise, altri si congratularono. Nella calca del momento, la Greengrass
traballò
fino a colei che l’aveva appena liberata da
quell’uomo per ringraziarla.
«Devi
credermi, è stato un vero piacere» le rispose
quella, sorridendole e scostandole
una ciocca di capelli dal viso insanguinato «Ma dovrai dire
tu a Blaise che
l’ho fatto uscire da qui vivo» scherzò
poco dopo.
Vedeva
chiaramente quando problematico sarebbe stato, per quella ragazza,
amare
qualcuno, ma, in quel momento, seppe per quale motivo suo nipote si era
perdutamente innamorato di lei. Dentro, era più bella che
fuori. E molto più
fragile.
La
situazione, molto più grave di quello che era stato
previsto, richiese il
maggior aiuto possibile. Per questo, i maschi Weasley, Ron compreso,
poiché era
stato rimesso in piedi con un’abbondante dose
d’Essenza di Dittamo, vennero
reclutati per aiutare per gli ultimi preparativi. Le signore, infatti,
vennero
tutte impiegate nel cercare di rendere presentabile Daphne.
Molly
scrisse un gufo a Narcissa dicendole che il loro arrivo sarebbe dovuto
essere
anticipato. Tempo mezzora e la donna, accompagnata da Draco, testimone
stropicciato e stanco, aveva bussato alla porta della stanza dedicata
alla
preparazione della sposa. Colei che si preparava ad abbandonare
definitivamente
il proprio nubilato, seduta davanti ad una toeletta
dall’aspetto antica,
osservava il suo riflesso, provata, mentre molte donne, amiche che non
credeva
di avere, le volteggiavano attorno, prodigandosi per arrestare il
sangue dalle
ferite e poggiare del ghiaccio sulle sue ferite. Presto, compresa la
gravità
del suo stato di salute, cominciò a vorticare la notizia che
le nozze sarebbero
state rimandate a data da destinarsi. Quando Blaise
l’aprì, la porta di quella
stanza quasi si scardinò. D’improvviso, tutto quel
danzare intorno si chetò, in
aperto contrasto con il tumulto nello sguardo di Zabini.
La guardò,
la raggiunse, la toccò e temette di romperla.
«Draco
avrebbe dovuto portarti fuori da quella casa» disse,
visibilmente scosso da ciò
che i suoi occhi vedevano «Lo ammazzo».
Lei sorrise
e, nel tendere il labbro, il taglio su quello inferiore si
aprì di nuovo.
Blaise afferrò una piccola garza pulita e lo
tamponò con gentilezza. Le
sfiorava il viso con gentilezza, soffrendo profondamente per ogni segno
di
percossa. Era felice che sua nonna avesse vendicato quel bellissimo
occhio
cerchiato di nero.
«Se lo
avesse fatto, Ladon non avrebbe creduto al fatto che quello di ieri
sera fosse
un tentativo di fuga per non sposarmi» gli rispose lei
finalmente tranquilla, posando
la propria mano, su quella di lui. Era stato uno spreco spendere tutti
quei
galeoni in manicure e parrucchiere: era tutto da rifare e non
c’era il tempo
per contattare un esperto del campo. Si sarebbero dovuti accontentare
di Fleur
e dei suoi trucchi magici d’alta moda francese.
«E,
comunque, non puoi uccidere il tuo testimone. Non potremmo celebrare le
nozze,
altrimenti» continuò poco dopo. Le dita di lui
rimasero a mezz’aria, ancora con
quella pezza sporca di sangue ben stretta. C’era dello
stupore sul suo volto.
«Parlavo di
tuo padre» cominciò, riprendendo parola poco dopo
«Vuoi davvero farlo oggi?».
Qualcuno mormorò, nelle retrovie, che uno due doveva aver
battuto fortemente la
testa. Al contrario di quello che era facile supporre, il maggior
numero delle
persone riteneva che a farlo fosse stato il promesso sposo.
«Ho qualche
problema a stare in piedi, ma mi stanno rimettendo in sesto. Mi dovrai
reggere,
soprattutto durante quel primo ballo per cui spero ti sia
esercitato» gli
rispose Daphne tranquilla.
Ci mancò
poco che Blaise, improvvisamente sveglio e reattivo, non esultasse. Non
lo
fece, limitandosi a baciarle la fronte docile. Con le mani, la ragazza
gli
prese il viso e condusse la sua bocca alla propria. Non fu uno di quei
baci
passionali che erano abituati a scambiarsi, ma c’era, in
esso, la taciuta
promessa di recuperare il prima possibile. Nella loro nuova casa,
quella che
Carolyn aveva regalato loro, possibilmente.
«Sai
perfettamente che non devi neppure chiedermelo» la
rassicurò lui, sincero e fragile,
in quel suo scoprirsi. Eppure, era chiaro a tutti che non gli importava
d’essersi esposto.
Alle loro
spalle, la cugina Airi, cambiatasi d’abito e pronta alla
funzione, s’entusiasmò
improvvisamente, trattenendo a stendo dei gridolini elettrizzati.
Qualcuno le
lanciò un’occhiata a metà tra il
dubbioso e lo sconvolto e quella parve darsi
una calmata, anche se più tardi la videro infrangere le
direttive degli sposi,
che per ovvi motivi non avevano voluto fotografi, per immortalarli in
qualche
istantanea.
«Vai a
prepararti. E non osare allentare il nodo della cravatta o
addormentarti prima
ancora che la cerimonia inizi» lo ammonì, mentre
questo usciva dalla porta,
seguito immediatamente da Malfoy.
Trascorsero
una decina di minuti, durante i quali, stringendo i denti, alla ragazza
vennero
ripulite le molte ferite sulle gambe. Si temette che quella sinistra
fosse
rotta, poiché muoverla le provocava molta sofferenza, ma
l’eventualità venne
esclusa dopo qualche accertamento e si procedette con arrestare le
ferite dove
ciò si mostrasse ancora necessario.
Il tintinnio
dei calici, preannunciò l’arrivo di Ginny, sparita
da qualche istante. Dopo
essere stata scelta come damigella d’onore da Daphne, questa
era entrata in uno
stato di fibrillazione ed era svanita improvvisamente, posticipando il
momento
in cui avrebbe dovuto provare l’abito apposito che la
Slytherin aveva scelto
per lei. Al suo ritorno, reggeva tra le mani una bottiglia di
champagne.
Consegnò un flute ad ognuna delle presenti e, alle facce
dubbiose che ricevette
in cambio, rispose solamente con «Non farti troppe domanda,
è un addio al
nubilato. Tutto è lecito».
Le risate si
interruppero solamente quando a valicare la porta fu Drew, che scortava
Lisbeth
e Asteria. Le lasciarono sole. Asteria, rassicurata sul fatto che tutte
le
ferite fossero state in parte già medicate e che, di
conseguenza, non avrebbe
incontrato sangue nel farlo, si mise a preparare alcuni dei suoi
speciali
impacchi. Tutte le donne della famiglia Greengrass, almeno da un paio
di
generazioni, sapevano trattare alla perfezione ogni genere di
escoriazioni. Era
qualcosa che la nonna, medimaga di rinomata e straordinaria
abilità, aveva
trasmesso anche a loro: delle due, però, chi aveva assorbito
il maggior numero
di nozioni era sicuramente la più giovane, nonostante
l’età. Ciò era accaduto
anche perché Daphne, nella maggior parte dei casi, fungeva
spesso da cavia.
L’apparente tranquillità di lei, però,
era sovrastato dal pianto disperato
della madre, che, gettatasi in lacrime ai piedi della figlia, si era
aggrappata
alle sue gambe e aveva cominciato una lunga litania.
«Dovevo
farlo. Dovevo. Lui mi avrebbe uccisa».
Da anni era
così che accadeva. Lei non era più in grado di
difenderle, poiché, quando erano
bambine, aveva subito le peggiori angherie. Per Daphne era stato quasi
naturale
darle il cambio.
Aveva
lasciato che si sfogasse e, poi, le aveva chiesto di pettinarla. Era
una cosa,
questa, che amava fare e, con il tempo, era divenuta anche
particolarmente
abile nel coprire i punti dove Ladon aveva strappato qualche ciocca.
Qualcuno si
intrufolò nella stanza, senza bussare. Qualsiasi rumore,
pensavano, avrebbe
infranto la semplicità di quel ritrovarsi che aveva da
sempre unito quelle tre
donne. Eppure, oltre quella soglia, altre esponenti del gentil sesso
fremevano
per riprendere l’attività lasciata interrotta.
Proprio a causa di ciò, avevano
mandato Kennan in avanscoperta. Forse ingenuo in quel frammento, ma
senza ombra
di dubbio troppo bello in quel suo smoking blu scuro, abbinato
all’intensità
dei suoi occhi, per subire qualsiasi genere di ripercussione.
Asteria già
stravedeva per lui. Per questo, quando entrò,
arrossì visibilmente. La sorella,
per toglierla dall’imbarazzo, le chiese di andare a convocare
le altre signore.
«Scusate
l’interruzione» cominciò lui con un
sorriso «Fremevo per vedere la sposa e per
farle le mie congratulazioni». Daphne, con i bellissimi
capelli biondi
riportanti al fasto naturale dalle mani esperte della madre che li
avevano
raccolti in uno chignon voluminoso annodato sul lato della nuca, si
alzò in
piedi per accoglierlo. Una veste lunga fino alle ginocchia mascherava
in parte
i segni di quella nottata, poiché ancora si doveva procedere
con gli
incantesimi Dissimulanti per nasconderli completamente.
L’occhio sinistro,
contornato d’un viola livido, rendeva quella sua espressione
felice, molto più
grave. C’era qualcosa di drammatico, in tutto ciò:
non era, quello, il lieto
fine a conclusione di una lunga ed estenuante vicenda, ma solo una
tregua prima
della prossima battaglia. L’attimo da spendere per
rifocillarsi e per piangere
il passato, tristi ma speranzosi.
«Drew» lo
chiamò lei, illuminandosi un poco e cercando di muovere
qualche passo verso
l’ospite. Non riuscì a staccarsi dallo schienale
della sedia su cui era stata
fino a quell’istante. Fu il giovane uomo ad andarle incontro
e ad aiutarla a
fermare il tremore delle sue gambe facendola sedere nuovamente.
«Grazie per
essere venuto e per l’aiuto a mia madre e mia
sorella».
Lui si piegò
sulle ginocchia per poterla guardare negli occhi, slacciando il bottone
che
teneva stretta sull’addome la giacca del suo completo.
«Non ti
preoccupare, Daphne, l’ho fatto con piacere». Da un
taschino interno trasse una
boccetta ricolma d’un liquido dal colore rosato.
«Distillato Rinvigorente in
formula concentrata, gentilmente offerto dal professor Lumacorno, che
è
riuscito ad ottenere un posto nelle prime file della sala e che ora sta
facendo
amicizia con tutti le personalità più importanti
presenti. La McGranitt fa
fatica a trattenerlo, pare adori i matrimoni». La ragazza
prese la piccola
bottiglia di vetro lavorato e la soppesò.
«Non basterà
per tutta la cerimonia, ma se l’assumi pochi istanti prima
che questa cominci, penso
che ti sarà d’aiuto almeno fino al
ballo» proseguì poco dopo
«Lenirà il dolore,
ma soffrirai ugualmente. Un ottimo palliativo, ma non certo una
soluzione
miracolosa».
La
Greengrass, lo ringraziò piano e, forse in imbarazzo per
tutte le attenzioni
che stava ricevendo in quel giorno, cercò una distrazione e
la trovò
nell’orologio a parete che l’avviso, purtroppo,
d’essere in ritardo. Doveva
ancora essere truccata ed indossare l’abito. L’idea
di soffrire ancora, anche
se per una giusta causa, non la faceva di certo smaniare.
«Ok, è il
caso che io ti lasci preparare». Rapido, le posò
una bacio sulla guancia e si
approssimò all’uscita, dove Asteria, seguita dal
gruppo agitato e un po’ brillo
delle wedding planners, macerò nell’invidia.
«Quasi dimenticavo» aggiunse Drew,
con una mano nella tasca dei pantaloni e l’altra posata quasi
casualmente sulla
spalla di Narcissa «Hermione ed Harry vi fanno i loro
più sinceri auguri e si
dispiacciono che cause di forze maggiore abbiano impedito loro di
essere qui,
oggi».
Mentre la
più anziana delle sorelle si prodigava, come si conveniva ad
una persona
educata come lei, a ringraziare ancora il professor Kennan, la
più giovane
lanciò un’occhiata al sedere tornito di questo
mentre si allontanava verso lo
stanzone, in parte già gremito, dove si sarebbero tenute le
nozze.
Bevve la
pozione e, immediatamente, si sentì più in forze.
Narcissa, Lisbeth ed Asteria
si fermarono nella stanza, dove, non potendo rischiare
d’essere riconosciute
dai Purosangue presenti, sarebbero rimaste. A prestare attenzione al
regolare
svolgimento del rito, avrebbero badato Molly e Fleur.
Il programma
prevedeva che lei, seguita dopo qualche passo da Ginny, i cui capelli
ramati
erano esaltati dal suo abito lilla dalle linee semplici, percorresse da
sola la
navata fino a raggiungere l’officiante, Blaise e Draco, il
suo testimone, ma
lei, durante la preparazione chiese, contravvenendo alle normali
regole,
d’essere accompagnata da Carolyn. Imparenta con lo sposo,
questa avrebbe dovuto
limitarsi a stare seduta in prima fila, ma accettò di buon
grado, colpita dalla
richiesta.
Scrutò il
proprio riflesso nello specchio per l’ultima volta: i colpi,
troppi, c’erano
ancora, ma erano stati dissimulati tutti, così come le
cicatrici e le ferite in
via di guarigione grazie alla magia medicamentosa di sua sorella e a
molta
Essenza di Dittamo. Appariva come una ragazza normale, con un trucco
non troppo
marcato ed una pettinatura elegante. Il vestito da lei scelto era
semplice, senza
alcun ornamento se non le pieghe del tessuto, numerose e sottili, che
parevano
fasciarle il corpo dal corpetto senza spalline fin sui i fianchi, dove
si
apriva una gonna spiovente e più ampia. Sulla schiena, dei
lacci davano ancor
maggior rilievo al senso di bardatura dell’abito attorno al
suo corpo.
All’interno, si sentiva quasi protetta.
Aveva deciso
di non avere né velo né strascico, ingombri per
lei futili. Al contrario, aveva
seguito la tradizione, per volontà di chi l’aveva
preparata: indossava le sue
scarpe preferite laccate di vernice bianca, con vertiginosi ed
immancabili
tacchi che le causano solo ulteriori sofferenze e che, per questo, non
vedeva
l’ora di togliere. A conclusione, una collana sottile con un
unico zaffiro,
regalatale dalla madre, e un bracciale tintinnante che, invece, le
aveva
prestato Narcissa.
Quando la
musica ebbe inizio, la signora Weasley le aprì la porta.
Airi, la cugina di
Blaise, l’aveva anticipata, spargendo dei petali di fiori. La
mano di Carolyn
era confortante sulla propria e la sua presa solida, pronta ad
afferrarla nel
caso vi fosse necessità. Reggeva un bouquet semplice di
calle bianche, la cui
corolla, però, celava all’interno un intenso
colore viola.
In fondo
alla navata, una scena sconvolgente: Blaise, eterno assonnato, pareva
sveglio e
trepidante, mentre Draco, solitamente avvezzo a svegliarsi presto,
aveva gli
occhi segnati da pesanti occhiaie. Per un attimo, si augurò
che avesse con sé i
loro anelli. Colei che avrebbe celebrato la loro unione era una donna
di
colore, bassa e dalla corporatura robusta, con un abito porpora che
sembrava
essere stato da lei scelto appositamente per essere in perfetta
sintonia con
quel matrimonio. Aveva un sorriso spettacolare: ampio, rassicurante,
dolce e
soddisfatto. Quella signora non li conosceva neppure, ma era felice
d’unirli in
quel vincolo per lei sacro. Nei ricordi di Daphne, tra le cose
più belle di
quel giorno e tra quelle più splendide che vide mai, quella
persona assunse un
ruolo speciale e preminente. Un simbolo.
Poi, la sua
attenzione fu subito per Blaise. Suo marito. Bello con non mai, aveva
esaudito
la sua richiesta: la cravatta pareva soffocarlo. Sapevano entrambi che
erano
troppo giovani, che quel matrimonio imposto non era ciò che
avrebbe dovuti
unirli, ma era anche sicuri che tra loro non vi fosse solo
l’amore di due
adolescenti.
Una fitta la
fece quasi inciampare, causando la reazione di molti dei presenti
pronti a
soccorrerla, ma come le era stato promesso, non venne lasciata cadere.
Carolyn
la resse facendole un occhiolino e, presto, il nipote di lei venne a
prenderla,
così che a percorrere la navata furono in tre.
Dinnanzi
all’officiante, lui non riuscì a trattenersi dal
baciarla. Ricevette uno colpo
leggero sulla spalla dalla donna che doveva sposarli.
«Aspetta
ancora un attimo» gli disse ridendo. Lui mormorò
delle scuse e si spettinò i
capelli. Le mani della sposa gli risalirono il petto ed allentarono il
nodo che
gli stringeva la gola.
«Siete
pronti?» domandò la celebrante con fare complici.
Quando entrambi annuirono, la
cerimonia ebbe inizio. La voce tuonò chiara.
«Conoscenti,
amici, famigliari» cominciò «Siamo qui
riuniti oggi, per celebrare assieme il
giovane amore di Daphne e Blaise».
Note dell’Autore.
Dieci lunghi
mesi. Chi mi segue da un po’ di tempo, conosce già
la mia saltuarietà: scrivo
molto spesso, qualche settimana anche tutti i giorni, ma inseguo come
una
formica laboriosa le briciole che l’ispirazione si lascia
alle spalle. Mettermi
davanti al computer e pensare a come trascinare in avanti questa
storia,
iniziata anni fa con You and Me, a volte mi costa una fatica immane,
per cui
preferisco desistere e dedicarmi ad altro. Non fraintendetemi, non ho
ancora
deciso come finirà questo racconto, ma so perfettamente
quale strada intraprendere.
Nella mia testa, tra uno spiffero d’aria e un pensiero
inconsistente, HugMe è
già stata scritta tutta fino al finale. La serie
“Becoming Us” è fin da prima
che finissi Y&M in questo stato immanente di incompletezza. Se
la mia mente
potesse scrivere, la narrazione sarebbe conclusa da tempo e sarebbe
migliore di
quello che è. Come sosteneva un illustre filosofo,
però, il passaggio dal mondo
delle Idee, dall’Iperuranio, a quello della sostanza comporta
l’imperfezione. Perché
scrivere per me è questo: una fatica, tesa a qualcosa che a
volte non so
definire, altre volte solo ad una sensazione. Una sofferenza, quasi
dovessi
scavare un pozzo per ricavare un sorso di frase. Il piacere della
scrittura, e
penso non valga solo per me, viene solo dal confronto con chi legge.
Quando una
persona percepisce quello che io volutamente ho nascosto tra le righe,
quando
comprende il perché di un’azione di un personaggio
alla luce delle informazioni
che ho disseminato su di lui, quando mi fa avvertire
un’assonanza tra ciò che
io avrei voluto descrivere e quello che lei ha è recepito,
è allora che “scrivere”,
nella maniera amatoriale e poco seria del sottoscritto, prende un
senso. Altrimenti,
per quello che sono io, resta solo un modo per stare seduto su una
sedia a
farsi venire mal di schiena.
Ci sono
autori più capaci di me, su questo sito, ci sono fanwriter
che potrebbero
tranquillamente venirmi a sminuire per quello che scrivo, ma ci sono
ragazzi (o
ragazze, o donne, o uomini) che non hanno la mia stessa fortuna. Un
piccolo
baule di tesori, che io ho avuto la fortuna di scovare non so nemmeno
come. Siete
voi, chi mi legge e chi commenta. Perché nonostante tutto,
ho scoperto, di
recente, che You and Me è tra le quaranta storie con la
più alta media di
parole per recensioni positive, nel fandom di Harry Potter. Una
categoria,
diciamoci la verità, non molto piccola. Questo merito non mi
appartiene.
È vostro. Di
voi che avete perso – e spero perderete – tempo
prezioso per lasciarmi un
pensiero, per commentare ciò che è accaduto, per
avanzare ipotesi o per insultarmi.
Di voi che avete scritto, tanto, su queste vicende. Ho apprezzato ogni
singola
recensione ricevuta e ho cercato di rispondere al numero maggiore. Se
non l’ho
fatto, vi chiedo scusa, a volta il tempo è tiranno.
Quando ho
cominciato You and Me avevo due obbiettivi, il primo, superare i 200
commenti,
è stato ampiamente raggiunto. Questo riconoscimento,
però, ha un valore di gran
lunga maggiore. Anzi, tra le due cose non vi è proprio
paragone.
Sebbene
questa sia una Dramione fuori dagli schemi, sebbene i miei
aggiornamenti e la
mia persona stessa facciano schifo, sebbene molte decisioni da me prese
siano
state impopolari, voi non avete abbandonato questa follia.
Io non posso
che dirvi grazie, ancora. Ogni volta che lo faccio mi sembra che non
sia
abbastanza.
Detto
questo, sperando che l’università non mi uccida,
che nessuno sia morto nell’attesa
di questo aggiornamento e che il capitolo vi sia piaciuto, vi lascio.
Jerry
PS1:
recensite, mi raccomando ^^
PS2: potete
contattarmi anche sulla mia pagina facebook :3
PS3: dopo
anni, ho finalmente capito come eliminare quelle odiose spaziature
nell’impaginazione
*-*
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