I wish you were here or I were there or we were together anywhere di AntheaMalec (/viewuser.php?uid=87426)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Here we are again! Una
mini-mini-stramini-long di due
capitoli, venuta in mente dallo splendido tumblr che mi ha fatto
conoscere
Claudia (Iloveyou) e di cui mi sono malvagiamente appropriata (qui
e qui).
Grazie a Chiara, perché sei bravissima e bellissima e mi
riempi sempre di
complimenti che non mi merito e a Jessie, perché sei troppo
gentile per essere
vera <3 Perfect human being! Quindi, sperando che qualcuno se la
fili (?),
vi auguro buona lettura!
P.S.: Il raiting potrebbe variare nel secondo e ultimo capitolo.
I
wish you were here or I were there or we were
together anywhere
Dovremmo dire
più spesso alle persone
quanto vogliamo loro bene, perché la vita è
imprevedibile e, se possiamo
manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo
sempre.
Pretend
I'm okay with it all
Act
like there's nothing wrong
Is
it over yet?
Can
I open my eyes?
Is
this as hard as it gets?
Is
this what it feels like to really cry?
Cry!
Kelly
Clarkson
Ironico,
assurdamente e tristemente
ironico. John continuò a guardare il giovane che era entrato
nel suo –loro? No, solo
suo– appartamento poco
tempo prima. Si guardava intorno, analizzando con lo sguardo gli
scatoloni
poggiati alla rinfusa sul pavimento, ricolmi di oggetti. Conosceva bene
il
rumore di una catastrofe: lento, pesante e di malaugurio. Da quando
aveva visto
Sherlock buttarsi giù dal tetto dell’ospedale lo
aveva seguito costantemente,
come un’ombra. Anche ora riusciva a sentirlo, guardando negli
occhi quel
Victor.
«
Mi
dispiace per la tua perdita, John.
»
Come diavolo faceva a sapere il suo nome? Come diavolo poteva, Sherlock
Holmes,
riuscire a ferirlo anche sotto metri di terra da neanche un mese? Aveva
pensato
di essere speciale –di essere
unico, di
valere qualcosa– eppure gli aveva nascosto che
c’era stato qualcun’altro
prima di John. Qualcuno che era stato suo amico –io
non ho amici, aveva detto. Bugiardo, bugiardo. «
Quindi
tu…
»
Incominciò
John, appoggiando il gomito sul
bracciolo della poltrona e tenendosi la testa con una mano. «
Tu,
Victor, saresti stato un amico di Sherlock?
»
Victor sembrava
impacciato, con gli occhi che
non stavano mai fermi e le dita che vagavano tra i riccioli corti –anche lui! Era una fissazione!.
«
Sì,
lo ero molti anni fa, poi abbiamo perso i contatti per…un
certo periodo di
tempo, diciamo.
»
John
abbassò lo sguardo, gli occhi
lucidi che non accennavano a smettere di bruciare. Aveva
quell’incredibile e al
tempo stesso orrenda sensazione di stare affogando nel nulla eppure
riusciva ad
avere la nausea di tutto. Del divano saturo di ricordi e della cucina
che prima
era stata protagonista di sentimenti ed ora era protagonista solo del
lento
frantumarsi di uno solo degli inquilini che prima vi abitavano.
Perché l’altro
si era già frantumato, sopra ad un marciapiede,
raccontandogli bugie su bugie
prima di commettere suicidio –bugiardo,
bugiardo. «
Sei
stato il primo, quindi?
»
Non aveva avuto
l’intenzione di dirlo, ne era
sicuro, ma le parole erano uscite di bocca senza controllo e ora a John
non
rimaneva altro che fissare quel ragazzo più giovane di lui,
che gli riservava
uno sguardo carico di scuse e pena che lui non sentiva e non capiva.
Cosa
c’era da scusarsi? Non era stato
lui a lasciarlo da solo. John aveva sempre avuto lo strano istinto di
aggrapparsi al pugnale che lo trafiggeva. Ironico, anche quello.
«
Già…
»
John rimase in
silenzio, non sapendo neanche
da dove partire per rompere quello strato di ghiaccio e imbarazzo che
si stava
creando in quella stanza. Aveva imparato a sopravvivere al caldo
impossibile
dell’Afghanistan, quindi il freddo, ora, gli andava
più che bene –era
l’unica cosa che gli era rimasta. «
John,
per caso tu hai qualche idea su come…sul perché
Sherlock abbia fatto ciò che ha
fatto?
»
Se fosse stato in
sé, John avrebbe accennato
un sorriso di ringraziamento per tutto il tatto che quel ragazzo gli
stava
mostrando, ma ora lo trovava solamente irritante, una mortale spina nel
fianco.
Era
una morte continua, parlarne. Le
parole di Sherlock continuavano ad
affiorare sul suo corpo come lame che non sapevano accarezzare, che
raschiavano
tutto il viso, che non si fermavano e tornavano sempre indietro.
«
No,
probabilmente è stato tutto uno
stupido piano calcolato male. Strano, perché a quanto pareva
lui era
l’intelligentone di turno. Lo saprai meglio di me, immagino.
»
Acido,
brusco e maleducato, eppure non
se ne pentiva neanche un po’. Gli era stata tolta la
compagnia e ora anche la
solitudine; tutta quella commiserazione non sarebbe servita a
nient’altro che a
infastidirlo. Gli era stata tolta anche l’illusione di essere
stato importante.
Gli era stato tolto tutto dalle mani piene e insaziabili. Victor
tamburellò
sulla stoffa del divano sul quale era seduto, l’attenzione
improvvisamente
rivolta al violino. Sherlock aveva mai suonato per lui? Probabilmente
sì, si
disse. Probabilmente lui aveva già visto tutto quello che
John aveva dovuto
faticare per conquistare, magari anche molto di più. «
Era
di…?
»
Aggiunse subito
dopo, fermandosi prima di
pronunciare quel nome. Lo facevano tutti, da quando era morto. «
Era
di Sherlock, sì. Puoi dire il suo nome, non sono un bambino,
l’ho accettato.
»
Non era vero e John
poteva intuire che anche
Victor aveva compreso quella verità. Non lo aveva accettato
e quel nome sarebbe
sempre stato un tabù per tutti coloro che gli giravano
intorno e per lui
stesso.
«
Era
alle prime armi quando ci frequentavamo, azzeccava sì e no
qualche nota.
Sbagliava e si arrabbiava, mettendo il broncio a tutti quanti.
»
Victor sorrise a
labbra aperte e John non se
la sentì di fermare quel fiume di parole –non
piangere, eri un soldato, controllati.
«
Credo
che se potesse essere in questa stanza, John, non vorrebbe che tu fossi
così…
»
Abbattuto, ferito, umiliato, deluso,
incattivito, arrabbiato? John poteva servirgli tutti gli aggettivi che
voleva
su un lucido piatto d’argento e non se ne sarebbe pentito. «
Già,
ma lui non c’è e per una volta non
c’è nessuno che deduce cosa ho fatto e come
mi sento dal risvolto delle pieghe della mia camicia.
»
Victor
annuì, alzandosi dalla sua postazione e
stirandosi i jeans con le mani. Si diresse piano verso John e gli diede
una
veloce, ma soffice pacca sulla spalla, come un balsamo, che lo fece
stare un
po’ meglio.
«
Per
qualunque cosa, qualsiasi problema, puoi chiamarmi. Non preoccuparti
né per
l’ora né per il disturbo, sarà un
piacere fare due chiacchiere.
»
John si rimise in
piedi, la gamba che gli dava
un leggero formicolio da giorni, ma che lasciò perdere.
Sorrise sinceramente,
per la prima volta dopo l’incidente, a quel giovane ragazzo
che gli stava
regalando del vero e sincero conforto, pur non conoscendolo nemmeno. «
Grazie
mille, lo farò.
»
Victor gli
lasciò il suo numero e se ne
andò svelto dall’appartamento, adducendo a un
impegno urgentissimo che non
poteva assolutamente posticipare. John rimase fermo in mezzo alla
stanza,
rigirandosi tra le mani il pezzettino di carta lasciato da Victor e
posizionandolo sopra al tavolino vuoto.
Non
si sa mai, si disse, prima di
andare a prepararsi del tè.
Victor
intrecciò le mani dietro la
schiena, la spalla che poggiava allo stipite della porta
d’entrata e lo sguardo
fisso sull’altro. «
Com’era?
» Chiese
quest’ultimo, seduto sulla
poltrona come lo era stato poco prima John –incredibile
quanto fossero diversi eppure così simili. «
Sta
bene, è solo un
po’ frastornato.
» Nel
tragitto per arrivare al monolocale in cui era stato rinchiuso
Sherlock, aveva
pensato al modo migliore per non far preoccupare il suo vecchio amico
ed aveva
optato per una bugia bianca, qualcosa che non avrebbe ferito nessuno –tranne John, che gli era sembrato un
cucciolo abbandonato sotto la pioggia.
«
Non
mentirmi, Victor, lo sai che non funziona con me.
» Due
occhi azzurri lo puntarono,
facendogli perdere la facciata composta e sicura e avvicinandolo a lui.
«
Sherlock,
non credo che…
»
«
Voglio
saperlo. Dimmelo.
»
Sherlock si mise nella solita posa che usava anche anni addietro, le
mani
intrecciate che sfioravano mento e labbra, in un’ impaziente
attesa. Victor si
sistemò davanti a lui, le sopracciglia aggrottate e i denti
che mordevano
l’interno guancia. «
Ha
il cuore spezzato, Sherlock.
»
Sherlock
ebbe un momento di esitazione,
come un battito di ciglia, mentre abbassava lo sguardo e socchiudeva le
palpebre, in un intimo gesto di sconforto che fece angustiare Victor. «
Ma
ho fatto ciò che mi hai detto, gli ho dato il mio numero per
qualunque
necessità e sembrava veramente sollevato.
»
Si sedette davanti a Sherlock, il
busto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, in un gesto di
simbolica
vicinanza. «
Bene,
tienimi aggiornato se ci sono
ulteriori sviluppi.
»
Sherlock chiuse gli occhi e reclinò la testa
all’indietro, poggiandola contro
la poltrona. Victor rimase immobile, nel silenzio cupo della stanza in
penombra. «
Puoi
andare, Victor, ciò che ho detto
prima era un congedo.
»
«
Sai
che ti conosco più di quanto tu voglia ammettere, Sherlock.
»
Il detective sbuffò, tamburellò con le
dita sul bracciolo della poltrona e si alzò di scatto, in
preda ad una crisi
nervosa. «
Se
Mycroft avesse seguito il mio piano
al posto di fare con la sua testa, a quest’ora avrei potuto
accertarmi da solo
della vita al di fuori di questo appartamento!
»
Della vita di John, avrebbe voluto dire, ma Victor non se la
sentì di
precisarglielo. Guardò l’orologio, notando che
l’ora di cena era passata da un
pezzo e che il suo stomaco stava incominciando a risentirne, dopo tutti
quegli
spostamenti e sensazioni. Un vibrare nella sua tasca lo distolse dalla
camminata in circolo di Sherlock, chiuso come un topo nella gabbia. Il
numero
sconosciuto lo fece stranire. «
Chi
è?
»
Chiese Sherlock ad un certo punto,
fermando la sua maratona e fissandolo dall’alto. Victor
aprì il messaggio, le
poche parole scritte sullo schermo del telefono lo fecero sobbalzare.
Ho bisogno di qualcuno con cui parlare, subito. Per favore. JW
Prima
che Victor avesse il tempo di
poter comunicare la notizia a Sherlock, questo gli aveva già
strappato dalle
mani il cellulare, leggendo avidamente e rimanendo nella sua piccola
bolla di
impassibilità. «
Sherlock… »
Sherlock gli fece cenno di fare silenzio, prima di incominciare a
digitare la
risposta al messaggio, le dita che si inseguivano veloci e gli occhi
che
sembravano non volersi staccare da quel telefono. Si sedette nuovamente
sulla
poltrona, in attesa. «
Posso
sapere cosa gli hai scritto?
»
Sherlock lo fulminò con un’occhiataccia, prima di
sospirare e ridargli il suo
telefonino. Andò nella cartella dei messaggi inviati e
aprì l’ultimo. Diceva:
‘Scusa, sono impegnato. Parliamo per messaggio.
C’è qualcosa che non va?’ e a
Victor nacque un sorriso intenerito per tutta quella preoccupazione non
da lui –o meglio, da chi voleva
sembrare.
Un’altra vibrazione, Sherlock che si spostava dalla poltrona
e si sedeva
accanto a lui, cosa che fece ricordare a Victor i tempi passati, quando
erano
ancora due giovani in cerca dell’impossibile.
E’
solo che…la sera mi frega sempre. Mi
manca. Tanto. Da impazzire. JW
Non
c’era bisogno di mettere un
soggetto a quella frase, sapevano benissimo tutti e tre a chi era
riferita
quella confessione di debolezza. Victor si girò
immediatamente verso Sherlock,
quella lieve inclinazione nello sguardo gli fece allungare la mano
verso il suo
ginocchio, in una presa fievole, ma presente. «
Ha
imparato anche lui
a firmarsi.
»
Disse dopo un po’, lo sguardo
incollato alle lettere nere che risaltavano sullo sfondo bianco.
Sembrava quasi
volersi amalgamare con esso per poter avvicinarsi a chi stava dietro ad
un
altro schermo, al 221B di Baker Street. Victor gli passò il
cellulare, in
attesa che scrivesse lui una risposta adeguata a John.
E’
morto, John. Non puoi fare altro che
andare avanti con la tua vita e lasciarlo andare. E’ solo un
periodo, passerà,
fatti forza.
«
Sherlock!
»
Il
suddetto si girò verso di lui, mentre premeva invio con il
pollice della mano
destra. «
Che
c’è?
»
«
E’
così che pensi di risollevargli il
morale? Dicendogli di andare avanti?
» Victor
riprese possesso del suo cellulare, rivolgendogli un’occhiata
stizzita. «
E’
l’unico modo che conosco.
»
Stava quasi per rispondergli per le
rime –era abituato a quegli inutili
comportamenti, già radicati in lui da quando era un neonato,
probabilmente– quando
il telefono vibrò di nuovo e la concentrazione dei due si
focalizzò su quello.
Se
n’è andato, lontano da me e il solo
pensiero che lui non ci sia più, che si sia suicidato di sua
spontanea volontà
e che io, nonostante tutto e nonostante la rabbia, creda ancora in lui,
mi fa capire che non
sarà mai solo un periodo.
E’ tutto così triste che sento il dolore alla
gamba, accertato come
psicosomatico, riaccendersi ogni giorno di più. JW
«
Chiamalo.
»
«
Cosa?
»
Victor lo guardò come se fosse
impazzito, lo sguardo che spaziava dai suoi occhi alla stanza
tutt’intorno. «
Tuo
fratello non aveva detto di mantenere la segretezza fino a nuovo ordine?
»
Sherlock storse la bocca in
un’espressione stizzita. «
Innanzitutto,
io non seguo nessun
ordine, tantomeno da Mycroft, e poi non dovrò parlarci io,
ma tu.
»
«
Io?
Sherlock non so cosa tu abbia in
mente, ma sarà una pessima idea.
»
«
Chiamalo
e metti il vivavoce, dai.
»
Victor lo fissò, imbronciato, prima di sbuffare e
schiacciare il pulsante verde
di chiamata.
Tanto,
lo sapeva, si sarebbe sempre
fatto come voleva Sherlock Holmes.
Era
rinchiuso in una prigione di
coperte scomode, il materasso che gli sembrava a tratti troppo duro a
tratti
troppo cedevole, il buio troppo soffocante, la sveglia sul comodino che
emanava
troppa luce, il silenzio che trapanava i timpani e lasciava il vuoto
tutto
intorno e dentro John. Il cellulare ben stretto tra le mani, gli occhi
socchiusi per cercare di vedere la schermata nonostante la troppa
luminosità.
Quando
si accorse che Victor lo stava
chiamando –chiamando? Oh Dio,
doveva
sembrare proprio messo male, allora–
schiacciò il tasto verde, sentendo
improvvisamente il fiato venire meno. «
John?
»
Aprì la bocca ma non uscì alcun suono,
cercò di tirarsi su, in posizione eretta –si
sentiva come uno schifosissimo bruco.
«
John?
Ci sei? John, stai bene?
»
La voce di Victor stava diventando sempre più acuta e
agitata. Sentì degli
spostamenti dall’altra parte della cornetta e Victor che
sussurrava a voce
bassissima cose che non riusciva a comprendere.
«
Victor?
»
Riuscì a dire, tornando ad usare le
proprie corde vocali. «
Ehi,
John, ci hai fatto spaventare!
»
«
Oh…c’è
qualcuno lì con te?
»
Chiese John, confuso. «
Eh?
Cosa? Oh, no! Volevo dire mi, mi hai fatto spaventare. Ahia!
»
John rise, sentendo la sensazione di
oppressione sparire piano piano dal petto. «
Ma
che cosa stai facendo?
»
«
Sono
solo andato a sbattere contro la
poltrona, una sciocchezza.
»
John annuì, anche se sapeva che Victor non avrebbe potuto
vederlo. «
Allora,
raccontami tutto.
»
«
Te
l’ho già detto, è che la notte riesce a
togliermi tutte le difese.
»
«
Sfogati,
sono qui per ascoltarti, anche
io sto passando parte di ciò che provi tu.
»
John si tolse il cuscino da dietro la
schiena e lo strinse forte con il braccio destro, premendoselo contro
la
pancia. «
E’
come se una parte di me non si sia ancora arresa al fatto che lui, beh,
sia
morto. Una parte del mio cuore è come se fosse sospesa, come
se…fosse in attesa
di quel qualcosa che eravamo io e lui.
»
Ci fu qualche momento di silenzio, con qualcosa che sembrava il ronzio
di
un’ape in sottofondo. «
Victor,
sei ancora lì?
»
«
Sì,
sì eccomi, stavo solo pensando.
»
«
Sicuro
che non ti sto disturbando? Ho
sentito…
»
«
Cosa
hai sentito?
»
Mormorò Victor, in un modo che fece
insospettire ancora di più John –il
tempo
con Sherlock non era stato del tutto infruttuoso. «
Niente,
dei bisbigli. Davvero, se hai da fare non preoccuparti!
»
«
Oh,
John! E’ la televisione!
»
Lo sentì ridere e si diede dello
stupido per essersi fatto venire degli inutili dubbi.
Non
c’era più nessun enigma da
risolvere. Non c’era più nessun consulente
investigativo con i suoi irritanti
monologhi. Non c’era più niente. «
Comunque,
credo che Sherlock, ovunque
sia in questo momento, sappia cosa tu stia facendo e giudichi con la
sua solita
voce annoiata e rompiscatole ogni singola cosa stia uscendo dalla tua
bocca.
»
John sorrise, grato per quella persona
così genuina che gli stava tirando su il morale. «
Sicuramente
sarà
così.
»
«
Ora
è meglio se dormi, cerca di rilassarti, ci sentiremo domani,
va bene?
»
Promessa. Una persona che richiedeva
la sua attenzione, dopo tutto quel tempo. John si sentì
improvvisamente ripieno
di una nuova forza. «
Ovvio,
allora buonanotte, Victor.
»
«
Buonanotte,
John.
»
Stava quasi per riattaccare quando la
voce dell’altro lo riportò a premere il cellulare
all’orecchio. «
Dimmi.
»
«
Sherlock
ti vuole bene, lo sappiamo
entrambi.
»
«
Comunque
sia, Victor, bisogna parlare
al passato.
»
Anche a lui era capitato, i primi tempi in cui era successo il
terribile fatto.
Faceva finta che quel giorno non fosse mai esistito e viveva
imbrogliando anche
se stesso. Pensava che Sherlock sarebbe rientrato dalla porta di casa e
tutto
sarebbe ritornato a posto. Lo aveva aspettato seduto sulla poltrona che
riteneva sua, fissando la finestra, con la pioggia che aveva bagnato
Londra per
giorni interi. Poi la ragione lo aveva raggiunto e aveva solamente
chiuso gli
occhi e abbassato la testa davanti alla verità. «
Già,
come dici tu.
»
John aggrottò le sopracciglia,
dubbioso. Quel ragazzo aveva un comportamento strano e sembrava
nascondesse
qualcosa. Sentì un lieve mugolio di dolore da parte di
Victor prima che John
facesse terminare la telefonata.
Sospettoso,
decisamente.
«
Mi
hai fatto male!
»
«
Sei
un idiota, Victor! Pensavo che tutti questi anni avessero avuto un
effetto
positivo per il tuo piccolo cervello, ma la realtà
è ben diversa dalle
aspettative!
»
«
Che
cosa diamine ho fatto?
»
«
Ringrazia
che John non abbia capito niente, altrimenti passerai dei lunghi guai.
»
«
Ma
ti rendi conto di avermi tirato addosso dei libri? Avrebbe potuto
capire che c’era
qualcun altro nella stanza!
»
Lo
sguardo inviperito di Sherlock lo
fece desistere dal prolungarsi oltre, prese il suo giubbotto e si
chiuse la
porta alle spalle. Idiota lo era stato veramente, per aver dato
nuovamente
ascolto a Sherlock Holmes.
Sembrava
che non imparasse mai la
lezione, maledizione.
John
aveva sentito una frase
particolarmente ispiratrice tempo prima, quando ancora faceva parte
dell’esercito,
da un commilitone più giovane di lui. L’aveva
segnata su un foglio e l’aveva
riposta nella tasca dei pantaloni militari, con la speranza che gli
portasse un
po’ di quella fortuna che serviva dopo essersi arruolati.
La
prima volta che l’aveva sentita
aveva dato un significato tutto diverso a quelle poche parole, una
sostanziale
differenza di punti di vista che gli aveva fatto credere di poter
capire quella
frase molto più di tutti gli altri.
Dopo
il congedo, aveva lasciato quel
foglietto di carta stropicciata in tasca, la frase che aveva assunto
altri
toni, più drammatici e pungenti. Il senso delle cose: occhi
diversi che pensano
di capire ogni cosa allo stesso modo.
Ora,
mentre la tempesta infuriava fuori
dalla finestra di casa, impedendogli di fare qualunque altra cosa
all’infuori
di guardare –senza mai osservare,
anche
quello era diventato un tabù? Non lo sapeva, non lo voleva
sapere– quelle
parole gli ritornarono alla memoria, dando un senso ancora
più triste a quella
giornata solitaria. Ti mostro le spine per non far vedere i petali che
cadono* –poesia?
No, forse cruda realtà pronunciata da una persona troppo
giovane per capirla
appieno. «
Cucù,
John?
»
Mrs Hudson spuntò dalla porta
d’ingresso, una mano posata sull’anca e il sorriso
sempre impresso sul viso.
Era invecchiata, dalla morte di Sherlock –tutti
quelli che avevano conosciuto Sherlock lo erano diventati–,
le occhiaie
scure che spiccavano sulla carnagione chiara e la pelle che quasi
sembrava aver
formato un secondo strato delle ossa, incavando le guance e indurendo i
lineamenti.
Cambiamenti:
nulla per poterli fermare.
Bisognava solo accettarli, violenti come tsunami, e aspettare la nuova
quiete,
prima di tornare a respirare nuovamente –se
fossero esistiti ancora polmoni con cui farlo. John
voltò il viso verso di
lei, l’ombra di un sorriso sul volto. «
C’è
una visita per te!
»
Non ci volle molto per capire chi
fosse e ancora di meno che nella stanza entrasse la presenza slanciata
di
Victor. «
Che
sorpresa!
»
Mormorò John, alzandosi a fatica e
cercando sostegno al muro lì vicino. Ci aveva forse preso
gusto a fargli visita?
Non che John non lo volesse o gli fosse antipatico, ma la ferita era
ancora così
fresca e non era sicuro che tutta quell’amicizia fosse un
bene –la sua fiducia era stata
già distrutta una
volta, non aveva nessuna intenzione di rischiare di nuovo. «
Non
va bene?
»
Domandò Victor, arrestandosi dal
mettere il giubbotto fradicio sull’appendiabiti. Quante volte
l’aveva sentita
quella frase, in diciotto mesi di convivenza? Tante, ma da una persona
diversa.
Dio, vivere nel passato gli causava un livello di frustrazione
ignobile.
«
No,
sì…
»
John si passò una mano sugli occhi,
scoraggiato. «
Certo
che va bene, va benissimo.
Accomodati pure.
»
«
Facevi
qualcosa di interessante? Ho saputo che scrivi su un blog.
»
John si riaccomodò sulla poltrona, le
parole di Victor che si agitavano prepotenti nel petto. Gli faceva
sempre
quell’effetto, parlare con lui, come se fosse sempre pronto
per sapere tutta la
vita di John, senza che nessuno lo avesse autorizzato a farlo. Si
sentiva a
disagio e agitato –anche triste, ma
quella era una sensazione che lo seguiva da giorni e che non sembrava
voler
terminare. «
Scrivevo,
in realtà. Ora non ho niente
da raccontare.
»
«
Deve
essere dura, John, riesco solo a immaginare quanto possa esserlo.
Vivere
insieme, condividere tutto…
»
John scosse la testa, colpito in pieno da tutti quei ricordi che
premevano per
uscire. Fece cenno a Victor di fermarsi, prendendo un bel respiro e
osservando
il vetro appannato e bagnato. «
Era
molto più di questo.
»
Disse John in un sussurro. Vide con la
coda dell’occhio l’altro agitarsi piano sul divano,
prima di ritornare
immobile, l’attenzione puntata tutta su di lui.
«
Lo
amavo, in verità. Ha avuto una parte di me già
dal primo giorno in cui ci siamo
conosciuti. Anche se non c’è più e non
c’è alcuna possibilità che lui ritorni
indietro, non verrà dimenticato, non da me. Il dispiacere
più grande è di non
avere avuto una chance, di essere stati troppo prudenti anche solo per
abbracciarci o per tenerci per mano senza pericoli in agguato. Non
potrò
vederlo invecchiare, perché è troppo tardi e la
vita ha scelto per noi, ma mi
sarebbe piaciuto tanto. Avrei voluto essere il suo compagno
più di qualunque
altra cosa.
»
Non sapeva perché glielo stava confessando, non sapeva
neanche perché avesse le
lacrime agli occhi o perché continuasse a far finta che
andasse tutto bene –perché,
dannazione, non c’era proprio
niente che andava bene, ormai. Aveva solo voglia di
confidarsi con
qualcuno, di togliersi un peso dal cuore che non gli faceva chiudere
gli occhi
la notte e che gli incurvava le spalle di giorno. Victor
aprì le labbra, ma non
ne uscì alcun suono, le mani unite in preghiera sopra le
ginocchia –di preghiere ce
n’erano state fin troppe.
Un lampo squarciò il cielo e John trovò la forza
di continuare quel discorso
che sembrava essersi perso nel nulla. «
I
primi giorni in cui lui è morto,
quando ritornavo a casa da lavoro, pensavo di sentire il suono del suo
violino
e allora salivo gli scalini a due a due fino a spalancare la porta e
rendermi
conto che non c’era più nessuno ad aspettare.
»
Victor
aveva lo sguardo disperato, di
quelli che corrodevano dentro. «
John,
senti, io devo…
»
«
Scusa,
non ti ho nemmeno chiesto se
desideri qualcosa da bere o mangiare. Posso farti del tè?
»
Victor annuì, prendendo il cellulare
dalla tasca e digitando frettolosamente sui tasti. John mise
l’acqua nel
bollitore, l’occhio che andava a spiare le mosse di Victor,
nella stanza
accanto. Sembrava nervoso, come se qualcosa l’avesse scosso.
Sperava di non
averlo turbato con le sue parole, né altro. Lo vide passarsi
una mano tra i
capelli e poi entrare in cucina,
insieme
a lui. «
Qualcosa
non va?
»
Chiese, rimanendo discreto. «
No,
è solo che questa storia mi rende un po' triste, in
realtà. Insomma, la morte non è
mai una bella cosa da affrontare.
» John
annuì, d’accordo con Victor.
«
A
volte mi chiedo come tutta questa oscurità ci abbia trovato.
»
Sbottò, tutto d’un tratto Victor, le
dita che tamburellavano sul tavolo della cucina, pieno di graffi e
macchie di
ogni genere. John gli puntò gli occhi addosso, interessato.
Gli era sembrato un
buon ascoltatore, nel breve periodo da quando era piombato nel suo
appartamento
senza che sapesse nulla, ed ora sembrava in procinto di dire qualcosa
di
importante e John non voleva perderselo per nulla al mondo. «
Insomma,
questa oscurità, questa malinconia, come ci ha trovato?
»
John scosse la testa, confuso. Non lo
sapeva, non era lui quello che sapeva tutto. «
Si
è messa nelle
nostre vite e noi abbiamo solo dovuto abbracciarla fin quando noi
stessi
incominciamo a cercarla e ad adattare la nostra vita ad essa?
Forse…ogni volta
che qualcuno esce di casa, è come se fossimo in guerra,
speriamo in un loro ritorno,
speriamo che non facciano scelte sbagliate, che non cambino rotta in
una
destinazione lontana da noi. Sherlock ha solo perso la sua strada, per
un
momento. Ha dovuto scegliere in fretta e ha scelto la via
più facile, da una
parte, ma molto più difficile dall’altra. Tu sei
un uomo forte, John, un uomo
che credo abbia avuto un punto speciale nell’animo di
Sherlock. Puoi superare
tutto questo, puoi andare avanti.
»
Victor gli mise una mano sulla spalla, un sorriso che gli increspava il
volto e
faceva nascere rughe d’espressione vicino alla bocca.
Gli
era grato, se ne accorse come se
fosse un lampo a ciel sereno. Di essere lì, con lui, quando
aveva allontanato
tutti. Di ascoltarlo per davvero, senza nessun pregiudizio o
cattiveria, con il
solo intento di farlo stare meglio e di disinfettare le ferite. John
gli
sorrise, cercando di essere il più convincente possibile. «
Sentirsi
speciale è forse una delle peggiori gabbie che una persona
possa costruirsi,
Victor. L’ho imparato a mie spese quando sei venuto qui la
prima volta.
»
John spense l’acqua e svuotò la
teiera, mettendoci dentro quasi tre grammi di foglioline di
tè. Victor aggrottò
la fronte, perplesso. «
In
che senso?
»
John si graffiò la pelle del pollice
con l’indice, a disagio –fare
scenate di
gelosia davanti ad un potenziale amico di Sherlock? Brutta idea.
«
Diciamo
che Sherlock non mi aveva mai parlato di te.
»
«
Oh.
»
Disse Victor, tormentandosi la felpa
con le dita. «
Oh!
»
Ripetè ancora, stavolta con più
enfasi. «
Se
ti può consolare, credo che considerasse un
po’ differenti le due amicizie, per questo non
ha mai fatto parola di
me.
»
John sorrise, improvvisamente
imbarazzato. Era un complimento? Gli piaceva pensarlo. «
Non
hai mai provato a rintracciarlo dopo che vi siete separati?
»
«
Ci
sentivamo, ogni tanto, quando io non
ero impegnato in…
»
Victor sorrise, furbo, deviando lo sguardo di John e prendendo due
tazze dal
mobile in legno –da quanto non
preparava
il tè per due persone? Un mese. Triste.
«
…in
affari privati, chiamiamoli così, e lui non era impegnato in
quei casi che lo
eccitavano tanto. Da quando ha conosciuto te non si è fatto
più sentire. A
buona causa, aggiungerei.
»
John versò il tè nelle tazze e le
portò in salotto, attento a non scottarsi. Il
rombo dei tuoni che ancora faceva tremare le finestre e illuminava
Londra ad
intermittenza. «
Come…
»
John si schiarì la gola, cercando il
modo giusto per dirlo –esisteva? E
lui
aveva davvero la forza per sentire la risposta?. Victor si
sedette per
terra, la schiena poggiata al divano e la gamba sinistra lievemente
piegata. «
Com’era
Sherlock prima? Quando eravate amici?
»
Victor sembrò trovare la domanda particolarmente divertente
perché si mise a
ridere di gusto, il tè che rischiava di strabordare dalla
tazza. «
Beh,
era Sherlock! Solitario, introverso, arrogante e disgustosamente
intelligente!
»
John rise con lui, sedendosi a sua
volta per terra e poggiando la tazza vuota sul basso tavolino accanto a
loro. «
Credo
fosse anche più…fragile, in qualche modo. Era
giovane ed era pieno di vita, ma
si riusciva a vedere quanto tutte le parole cattive non fossero
completamente
gettate nel fuoco. Insomma, era un essere umano anche lui.
»
«
Lui
più di tutti, già.
»
Mormorò John, massaggiandosi per un momento la gamba che
aveva incominciato a
pulsare dolorosamente. «
Una
persona, l’altra sera, mi ha detto
che stare lontano da una persona che ami, non significa amarla di meno,
ma
amarla così tanto da rinunciare alla propria
felicità, mettendosi in gioco fino
alla fine.
»
John aggrottò la fronte, cercando di
capire il senso di quella frase. Ora capiva perché quei due
erano stati amici,
ai tempi. Lo stesso, dannato vizio di parlare per metafore o concetti
mentali
che lui non riusciva nemmeno a comprendere. Annuì lo stesso,
facendo finta di
aver capito a fondo il senso di quelle parole. «
E’
sempre stato più
forte di me e di tutti quelli che gli stavano intorno.
»
Continuò Victor, poggiando la testa dietro
di sé, contro al divano. «
Gli
bastava una sola parola per ferire
le persone. Anzi, a volte anche meno: un silenzio,
un’occhiata, uno sguardo
rivolto altrove. Potevi sbraitare e dimenarti per ore, passare alle
ingiurie,
mentre a lui bastava una piccola e semplice smorfia per sconfiggerti,
fatta con
un angolo del labbro.
»
John scosse la testa, abbattuto da quella descrizione così
veritiera della vita
di Sherlock Holmes e della propria –della
loro, di quella che non c’era più.
Gli
serviva dell’alcool, ma non voleva
annebbiare tutto, non voleva aggiungere a quel momento quel particolare
che
avrebbe solamente rovinato ogni cosa. «
E’
meglio che vada, ho fatto la persona
solidale e umana per un’intera vita, parlando con te stasera.
Sono pur sempre
un uomo!
»
Victor sorrise ma John non se la sentì
di contraccambiare, già perso ad osservare nuovamente la
pioggia scrosciante
fuori dalla finestra –perché
tutti se ne
sarebbero andati, da quell’appartamento, e chi sarebbe dovuto
restare aveva
deciso di abbandonarlo, tradendo la sua fiducia.
«
Non
rattristirti troppo, John. Andrà tutto bene prima che tu
possa accorgertene.
Ricorda che il mio numero è sempre disponibile, per te.
»
Victor se ne andò, non prima di avere
dato la solita stretta alla spalla di John, stavolta smorzata dal
rumore della
pioggia, ancora più violento di prima. Avrebbe voluto dirgli
di fermarsi a
cena, avrebbe voluto dirgli di aspettare perché la tempesta
là fuori non
sembrava promettere niente di buono, avrebbe voluto parlargli ancora e
avere una
mano a cui aggrapparsi, nel caso cedesse, nel cuore della notte. Ma
tutte
quelle cose gli sembravano improponibili –non
ora, forse mai– e lo avevano fatto stare zitto,
facendolo andare via.
Ciò
che gli rimaneva era il silenzio
che aveva il volto di tutte le cose che aveva perduto** –Sherlock,
Sherlock, ti prego, torna.
«
Ho
letto il blog di John mentre venivo qui in taxi.
» Victor
si sentiva sempre un po’ sotto
osservazione quando stava nella stessa stanza con Sherlock –una sensazione che gli ricordava i
vecchi tempi in maniera non proprio
positiva. Certo, era tutto diverso dallo stare in presenza di
John: almeno
lui ci provava, a fare il simpatico quando non era colpito dalla
tristezza –ovvero molto raramente.
«
Buon
per te, Victor.
»
Rispose Sherlock, accucciato su una poltrona davanti al camino con
addosso
cappotto e sciarpa, le gambe strette al petto e lo sguardo lontano –smarrito? Lo era? Perso senza John,
probabilmente, un pezzo fondamentale del suo puzzle. Victor
si posizionò
sul divano, com’era solito fare nei loro incontri, dopo
essere stato da John.
Si sentiva meschino a fare quel doppiogioco eppure, vedendo quelle due
anime in
difficoltà, non riusciva a dire di no. «
Nell’ultimo
aggiornamento ha scritto:
“Lui era il mio migliore amico e crederò sempre in
lui.” Sherlock serrò gli
occhi, facendogli un gesto brusco con la mano. «
Non
mi interessa cosa
ha scritto sull’argomento.
»
«
Sembra
un brav’uomo, il tuo John, non credo si meriti questo.
»
Sherlock raddrizzò le spalle e mise
giù i piedi dalla poltrona, ritornando la persona composta e
imperturbabile di
sempre. «
Non
è più mio.
»
Victor sorrise impercettibilmente,
ricordando le parole di John a proposito di cosa provasse davvero per
Sherlock.
Stupidi, tutti e due. «
Io
non credo lui la pensi allo stesso
modo.
»
Buttò lì, cercando di restare il più
vago possibile. Sherlock si fermò per un momento dal muovere
nervosamente il
piede avanti e indietro, l’attenzione improvvisamente tutta
su Victor.
«
Ti
ha detto qualcosa?
»
«
Forse.
»
Sherlock strinse gli occhi in due
fessure ghiacciate, alzandosi dalla sua postazione e mettendosi davanti
a
Victor che sorrideva, beato. «
Sbrigati,
la pazienza non è uno dei
miei pregi.
»
«
Nemmeno
la simpatia, a quanto pare.
»
Sherlock alzò gli occhi al cielo e si sedette affianco al
compagno, in attesa. «
Avanti,
parla.
»
«
Okay,
beh, credo solo che, da come lui
mi ha parlato di te, e ha parlato veramente tanto –un
ghigno si formò sul viso di Sherlock a quella rivelazione–,
sì,
credo che lui ti consideri davvero molto molto speciale.
»
Sherlock sembrò soppesare ogni singola
parola e farla sua, prima di abbassare per un secondo lo sguardo sulle
sue mani
intrecciate. «
Non
c’è una remota possibilità che tu
possa andare da lui?
»
«
No,
non ora. Sarebbe troppo pericoloso e troppo affrettato.
»
«
Ma
potresti, che ne so, mandargli un
messaggio, fargli capire che sei ancora vivo. A lui andrebbe bene.
»
Sherlock
sbuffò, infastidito dalla
continua invadenza dell’altro. Noioso, noioso e sentimentale
peggio di John
Watson. Si tolse il cappotto in un moto di irritazione, alzandosi
nuovamente in
piedi. «
Ho
detto di no. Sarebbe disastroso, è un pessimo bugiardo e non
aspetterebbe due
secondi prima di venire a cercarmi. Lo rintraccerò quando
sarà il momento più
opportuno.
»
Victor lo osservò, lo sguardo che
spariva oltre la finestra –così
diversi,
così uguali–, le braccia incrociate al
petto, appoggiato contro un vecchio
mobile di plastica arancione –orribile
e
terrificante, quel posto l’avrebbe fatto uscire pazzo.
«
Il
momento opportuno per te o per John?
»
Chiese d’un tratto, sapendo bene che
la frecciata sarebbe andata a buon segno. Si girò a fissarlo
in quel modo che
aveva sempre messo in soggezione tutti quanti, tranne lui. «
Non
vedo come questi siano affari tuoi, Victor. Sei qui per svolgere un
lavoro, non
farti distrarre.
»
«
Hai
paura della sua reazione, non è così?
»
Sherlock sbuffò, accennando appena ad una risata sarcastica.
«
Ovvio
che non è così, Victor. Non ho paura di niente.
»
«
Lo stai ingannando, Sherlock. » « Non
si può
dire che un’illusione sia un inganno; è piuttosto
un abbaglio, una verità a
termine che dura finché nella bolla sospesa in aria dura
l’ossigeno.
» Victor
scrollò le spalle, non prendendo
nemmeno in considerazione l’idea di rispondergli. Si
strofinò le mani tra loro,
cercando di scaldarle, quando il suo telefono squillò e la
pesante cortina di
silenzio che si era creata tra loro si spezzò. Sherlock
ritornò a posare gli
occhi su di lui, cercando di capire se fosse John o qualcuno che non
valeva la
pena nemmeno conoscere. «
E’
John. » Disse
ad un tratto Victor, continuando a
fissare il cellulare, in attesa di chissà cosa. «
Imposta
l’altoparlante.
»
Sherlock raddrizzò un po’ la schiena quando si
sentì la voce di John inondare
la stanza. Una voce che non era più destinata
a lui –morte,
così irrimediabile,
così imprevedibile.
«
Victor?”
«
Ehi,
John! Qualche problema?
»
«
No,
no, figurati. Sei impegnato?
»
John continuò a fissare le tazze da tè della
signora Hudson –o quello che ne era
rimasto–, tutto
intorno a lui. Le aveva fatto cadere o le aveva gettate in un momento
di
rabbia? Non se lo ricordava molto bene, ma appena la governante se ne
sarebbe
accorta gli avrebbe fatto una bella ramanzina, seguita da un aumento
dell’affitto
per il prossimo mese. Seguì una pausa di Victor, prima che
continuasse a
parlare. «
No,
non proprio. Cosa stai facendo?
»
«
Sto,
uhm, pulendo un po’, ma sto per
andare a letto. Tu?
»
«
Sono
a casa di un amico.
»
«
Oh,
scusami allora.
»
John si diede mentalmente dell’idiota per averlo chiamato. «
No,
figurati, è irritante come l’orticaria, mi hai
salvato.
»
John rise appena e sentì Victor fare
lo stesso, con un rumore attutito in sottofondo.
Lanciò
un’ultima occhiata ai cocci per
terra, prima di lasciar perdere tutto e salire le scale, verso la sua
stanza. «
E’
un amico tanto antipatico?
»
Chiese John, infilandosi direttamente nel letto senza accendere la luce
della
stanza –il buio andava bene, il
buio lo
faceva sentire protetto. «
Abbastanza,
ma il problema è che cocciuto
come un mulo.
»
John sorrise ancora, poggiando la
testa sul cuscino e sospirando piano. «
Conosco
il tipo, posso capirti.
»
Poté sentire l’incertezza di Victor
dopo quelle parole, nonostante non fosse lì con lui. Una
brutta area in cui
camminare, piena di mine pronte a esplodere. «
Mi
dispiace, non
volevo…
»
«
Tranquillo,
è tutto okay.
»
No, non era okay, per niente, ma far
finta che lo fosse andava bene sia lui che agli altri. «
John,
devo andare ora, ci sentiamo domani?
»
«
Certo,
buonanotte!
»
«
Buonanotte,
John.
»
John
si passò stancamente una mano
sugli occhi, prima di chiudere la telefonata. Degli strani rumori lo
fermarono
in tempo, il pollice che sfiorava il tasto rosso per terminare la
chiamata
mentre la curiosità prendeva il sopravvento sulla ragione.
Si riportò il
cellulare all’orecchio, in attesa. «
Mi
sembrava molto triste.
»
«
Lo
è, ovviamente. Grazie per la tua
precisazione inutile, Victor.
»
Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il
cuore che
incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di
fare il
proprio lavoro.
«
Dovresti
smetterla di essere così duro nei confronti di questa
situazione.
»
«
E
tu dovresti smetterla di improvvisarti
Cupido, è stupido e noioso.
»
John
si premette una mano sulla bocca,
nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano
annidando
nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock,
Sherlock,
Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo
in tilt. «
Sei
un robot.
»
Mormorò Victor, in lontananza. «
Vorrei
tanto poterlo essere.
» Sherlock.
Sherlock.
«
Sherlock?
»
John riempì la stanza di quel nome, la
voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava
provando. Il silenzio
che riempì le orecchie di John, gli fece capire che
l’avevano sentito.
Sherlock. Vivo.
Sherlock
era vivo.
Note:
*
Citazione da Via Paolo Frabbri 43
**
Citazione da Mogol, Paolo Limiti
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
I
wish you were here or I were there or we were
together anywhere
Dovremmo
dire più spesso alle persone
quanto vogliamo loro bene, perché la vita è
imprevedibile e, se possiamo
manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo
sempre.
Share
my life, take me for what I am
Cause
I'll never change all my colours for you
Take
my love, I'll never ask for too much
Just
all that you are and everything that you do
I
don't want to have to go where you don't follow
I
won't hold it back again, this passion inside
I
don't wanna hurt anymore
Stay
in my arms if you dare
Or
must I imagine you there?
Don't
walk away from me...
I
have nothing, nothing, nothing
If
I don't have you
Whitney
Houston
Sherlock.
Sherlock. Sherlock. Vivo. John pensava che
quelle due parole non potessero stare più insieme –era morto, l’aveva visto con i
suoi stessi occhi, non era pazzo!– e
invece ora scopriva che era vivo. L’aveva sentito, era lui,
avrebbe
riconosciuto la sua voce anche tra mille altre.
«
John,
ehi, ehm, cosa stavi dicendo? Pensavo
avessi riattaccato!
»
Victor. L’avevano riempito di bugie su bugie, infarcendole
con sorrisi finti e
stupide parole di conforto. «
Sherlock.
C’è Sherlock lì con te, non
è vero?
»
Aveva parlato in modo sicuro mentre, in realtà, si
sentiva cadere a pezzi un po’ per volta, dolorosamente. La
mano che non reggeva
il cellulare era abbandonata sul suo petto, tremando leggermente. Si
mise a
sedere, respirando profondamente e imponendosi la calma. «
No, cosa dici? John, Sherlock è
morto, lo sai!
»
No, no che non lo sapeva, perché evidentemente
c’era in gioco più di quanto gli
era concesso sapere. «
Giurami
che non c’è Sherlock lì con te,
giuramelo sulla cosa che hai di più caro,
Victor, e allora ti crederò.
»
Victor esitò, dall’altra parte dalla cornetta, e
John si sentì in dovere di farlo sentire in colpa nei suoi
confronti –era così
strano che volesse sapere la
verità? Che volesse sapere se il suo dannato migliore amico
avesse solo fatto
finta, per un dannato mese, di essere dannatissimamente morto?.
«
Victor, per favore, dimmi la
verità, ho bisogno che qualcuno sia sincero con me, per una
volta. Se Sherlock
è vivo, dimmelo.
»
Altro silenzio, altra attesa. «
Aspetta
un momento, John, ti richiamo più tardi.
»
Prima che potesse protestare, la telefonata venne
interrotta e tutto ciò che gli restò furono dubbi
e certezze.
La
certezza di averlo riconosciuto, il dubbio di essere diventato pazzo,
la
certezza di essere stato ingannato –da
lui, ancora. Gliel’avrebbe fatta passare liscia, questa
volta? Non ne era
sicuro–, il dubbio del perché lo avesse
fatto. Si alzò dal letto, girando
per la stanza in preda a una di quelle irritazioni epiche che si
ricordavano
per il resto della vita.
Traditore,
bugiardo, calcolatore. Bugiardo, calcolatore, traditore.
Lanciò un’occhiata al
cellulare che non accennava a squillare –squilla,
squilla, per favore, ne ho bisogno– prima di
buttare tutte le coperte a
terra, in un moto di rabbia. Lanciò il cuscino
dall’altra parte della stanza,
strappò via il lenzuolo, stropicciandolo e facendolo finire
sull’orrendo
comodino d’epoca, vicino all’armadio. Infuriato,
ecco com’era.
Non
gli importava che fosse vivo, in quel momento, voleva solamente averlo
lì di
fronte, sincerarsi che stesse bene e poi picchiarlo così
forte da fargli
rimanere i lividi per i successivi sette mesi. Si sedette sul
pavimento, nel
mare di caos che lui stesso aveva creato, sentendo agitarsi nel petto
milioni
di emozioni contrastanti che creavano una guerra, distruggevano
ciò che era
rimasto in piedi dalla morte –finta
morte– di Sherlock e creavano ipotesi, speranze e
castelli di sabbia dentro
al suo cervello. Si prese la testa tra le mani, cercando di calmare il
clamoroso mal di testa che si era impossessato di lui dopo quella
telefonata.
Quanto avrebbe realmente aspettato Sherlock a ripresentarsi da lui, se
non
avesse lasciato aperta la chiamata? E, soprattutto, sarebbe ritornato o
avrebbe
lasciato tutto così com’era, non preoccupandosi
più di lui? Il telefonino prese
a vibrare e suonare e non aspettò nemmeno il terzo squillo
prima di alzarsi e
rispondere. Aveva bisogno con tutto se stesso di sapere la
verità. «
Victor?
»
«
John, ehi.
»
John, ehi? Era tutto ciò che aveva da dirgli? John
strinse tra le mani il bordo del comodino, cercando rimasugli di calma
dentro
di lui. «
Spero che tu e il
tuo compagno di avventure abbiate le idee chiare, ora.
»
«
Senti, non è semplice come credi.
»
«
E’ ancora lì?
»
Inspira, espira, non arrabbiarti prima del dovuto,
si disse, cercando un appiglio, un qualcosa dove poter fare breccia e
trovare
finalmente una risposta –un mese,
un mese.
«
No, non è qui. Non c’è
nessuno qui.
»
Mentiva, anche se era bravo a fingere tanto quanto a dar sollievo ai
poveri
coinquilini lasciati soli. Tutto uno squallido piano architettato alla
perfezione, il solo pensiero gli fece venire la nausea. «
Voglio parlargli, passamelo.
»
Victor sospirò, dall’altra parte
della cornetta, prima di rispondergli. «
Aspetta.
»
Aspettare, aspettare, aspettare, non faceva altro,
ormai.
Si
alzò dalla posizione accovacciata in cui si era messo senza
accorgersene,
camminando per la stanza e dando un calcio al cuscino, per terra. «
John?
»
Ancora la voce di Victor –diamine,
voleva la voce di Sherlock, voleva
gridargli addosso quanto diavolo lo odiasse!. «
Non crede sia il momento più opportuno per
parlare.
»
«
Oh, pensavo non ci fosse nessuno lì con te,
Victor.
»
Sarcasmo: gli usciva bene quando
era particolarmente agitato; fiotti di veleno che non avevano nessun
argine.
Liberatorio, almeno. «
Non è
come credi, è…complicato.
»
«
Complicato?
Oh, certo.
»
A John scappò una risata che non aveva nulla di divertente.
Si stava
arrabbiando, sentiva che tutta la tristezza che l’aveva
accompagnato come una
seconda pelle per quei giorni, ora si stava tramutando in altro, forse
in
qualcosa di ancora più letale.
«
Passamelo.
Voglio sentire la sua voce.
»
«
Non si può, John, ti prego! Questa telefonata
potrebbe essere ascoltata!
»
John sbuffò, sentendo i muscoli tendersi e dolere
nello sforzo di mantenere un minimo di calma. Avrebbe voluto non
saperlo in
questo modo. Avrebbe voluto avere lì davanti quel deficiente
e poterlo
sistemare bene, come gli era stato insegnato quando era in guerra,
sfigurare
quel viso di porcellana e romperlo in mille pezzi, come aveva fatto
Sherlock
con lui. «
Va bene, va bene.
»
Concesse John mentre percepiva
Victor sospirare di sollievo dall’altra parte della linea. «
Grazie, John, mi fa piacere che
tu…
»
«
No. No, non hai capito. Vorrà
dire che verrò io lì, ovunque voi siate. Subito,
immediatamente.
»
Victor gemette, frustrato, la
mente di John che lavorava da sola, senza freni, in un misto di
agitazione,
furia e qualcos’altro, che gli faceva pulsare le tempie e
torcere lo stomaco. «
John…per favore.
»
«
Dimmelo. Verrò a cercarlo per tutta Londra se
necessario, sappilo, e informerò tutti, Lestrade, Mrs
Hudson, Molly e Mycroft,
farò uscire tutti i giornalisti fino a che non lo troveranno.
»
Silenzio. Sapeva che qualunque
cosa fosse successa, quello era il momento giusto per insistere fino a
mordere.
«
Victor…
»
«
John, sai che la decisione non aspetta a me,
io…non
sono io a scegliere, mi dispiace.
»
«
Beh,
allora dì a quel…
»
John si impose la calma, stringendo forte i denti fino a sentire male
alle
gengive. «
Allora digli che,
se non verrà da me ora, non avrà più
qualcuno da cui tornare, mai più. Digli
che questo è definitivo: o si fa vivo o per me è
morto per sempre.
»
Riuscì a chiudere la chiamata
prima che qualcos’altro potesse alimentare la fiamma
incessante dentro al suo
petto.
Non
voleva sapere niente, in quel momento, voleva solo che lui si
presentasse lì e
respirasse e battesse le palpebre e avesse le pulsazioni regolari per
far
capire a John che quello non era un sogno o un’allucinazione,
che era davvero
umano e pieno di vita. Strinse di più la presa sul telefono,
lo rigirò tra le
mani, lo mise sul comodino e poi sul letto sfatto, prima di decidersi a
fare
qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non diventare pazzo d’ansia
in quella camera.
Scese le scale in fretta, lasciando la camera nel caos totale che aveva
creato
lui stesso, girò per il salotto ed entrò in
cucina, tamburellando con le dita
sul tavolo. Nervoso, agitato, in attesa di qualcuno che non sapeva
nemmeno
sarebbe ricomparso –voleva? Lo
sperava.
Sherlock, Sherlock, Sherlock.
Sentiva
il cuore scoppiargli nel petto e la vista farsi appannata, le mani che
incominciavano a formicolare, tanto che dovette sedersi su una sedia e
mandare
giù un paio di cucchiai ricolmi di zucchero –odio,
odio per quello stato in cui era caduto, odio per lui che non stava
arrivando–,
ispirando ed espirando lentamente, socchiudendo gli occhi e facendo una
lista
dei pro e dei contro di tutta quella faccenda e rinunciando
all’impresa al
secondo punto di quel delirio. Avvertiva lo stupido impulso di alzarsi
e
correre fino al cellulare, fare il numero di Victor e implorargli di
passargli
Sherlock –perché ne ho
bisogno, perché
lui mi sta mancando come l’aria e tu non puoi
capire–, ma il suo lato duro,
quello saldo e indistruttibile, non glielo permise. Non sarebbe andato
lui da
Sherlock, non quella volta, non quando l’aveva fatto vivere
in una bugia per un
mese, non quando l’aveva piegato fino a farlo rompere, non
quando aveva avuto
quel ti amo sulle labbra, ma non
era
mai riuscito a dirgli niente, per paura di rovinare tutto.
Improvvisamente,
tutti i vecchi e i nuovi rancori collegati a Sherlock si stavano
coagulando,
diventando una sfera insostenibile, creando una rabbia smisurata che lo
corrodeva dentro a poco a poco, ma intensamente. Aveva
subìto abbastanza, John,
aveva subìto troppo e la goccia –una
cascata, in realtà– che aveva fatto
traboccare il vaso era arrivata,
scombinando le carte in tavola. Guardò l’orologio,
notando che la mezzanotte
era passata da un pezzo e che gli occhi cominciavano a bruciare,
complice l’ora
tarda e la delusione. Non era venuto, quindi –aveva
mai preso in considerazione di venire? Forse no, forse non
gliene fregava niente. Dolore.
Aveva
deciso al suo posto, ancora una volta. Aveva fatto di testa sua,
incurante del
fatto che qualcuno gli avesse dato dei limiti, una scelta da fare e una
dimostrazione da dare –se ci tieni
a me,
vieni, altrimenti va’ al diavolo. Dolore,
straziante.
John si tenette la testa con
la mano, il
braccio che sembrava aver perso consistenza e il gomito che sfregava,
insofferente,
contro il legno del tavolo. Tutta quell’ansia che solo
qualche tempo prima lo
aveva scosso, affogandogli il corpo di quella scarica di adrenalina di
cui
aveva costantemente bisogno, si era affievolita, spegnendosi a poco a
poco,
come un fuocherello sotto la pioggia battente. Perché non
era arrivato a Baker
Street e probabilmente quello era il suo modo di chiudere la faccenda.
Victor
gli aveva detto che era pericoloso, Victor gli aveva detto che non si
poteva,
Victor gli aveva detto che proprio non era il momento giusto per
parlare con il
suo migliore amico morto. Bugie, ancora. Bugie belle e buone.
Il
pericolo lo avevano affrontato tutti i giorni, prima, il pericolo era
sempre
andato bene a tutti e due. Se Sherlock non era ritornato a casa, allora
era
quella la sua scelta. Il tacito accordo del mai più
rivederci –per sempre felici e
contenti? Pessima
idiozia. Si alzò dalla sedia, stiracchiandosi le
gambe indolenzite e
versandosi un po’ di acqua fresca. Inutile illudersi ancora,
inutile ritardare
la cruda verità che gli si era mostrata senza
pietà. Mise il bicchiere nel
lavandino e spense la luce della cucina, avviandosi verso le scale e
fermandosi
al bivio. Senza pensarci, scese gli scalini fino alla porta
d’ingresso, prese
un respiro profondo, e abbassò la maniglia, arrivando a
contatto con l’aria
pungente della notte. Nessuno, ovviamente. Non sapeva nemmeno
perché l’avesse
fatto, sperando fino all’ultimo in qualcosa che, maledizione,
non esisteva. Lanciò
un’ultima occhiata alla via deserta, prima di tornare dentro
e chiudere il
portone. Si premette contro il legno per qualche secondo, in un gesto
di resa.
Ci
gettava la spugna, con Sherlock Holmes, lui e i suoi stupidi trucchetti
di
magia, lui e la sua sociopatia, lui e i suoi trabocchetti, lui e basta.
John
Watson stava smettendo di lottare perché non c’era
più nulla per cui farlo. Ritornò
su, nella sua camera da letto, tenendosi al corrimano come se fosse la
sua
personale fune per la salvezza. Arrivato dinanzi alla stanza, lo prese
un
immotivato panico. Era tutto fuori posto, non andava bene, non andava
bene
niente. Come avrebbe fatto a dormire in quel caos? Come avrebbe potuto
rimettere a posto? Le lacrime premettero per uscire, ma le rispinse
dentro,
deciso. Niente più lacrime, non per lui –ma
stava male per il letto, per il letto disfatto, non per Sherlock che
non si era
presentato.
Calma.
Entrò in quel disordine e afferrò il cellulare
che lampeggiava deciso sopra il
materasso. Un messaggio, non aveva voglia di leggerlo, chiunque fosse –chi vuoi che sia, John Watson? Di certo
non
Sherlock. Mai lui. Mai più. Si guardò
per un momento intorno, prima di
optare per la fuga; si chiuse la porta alle spalle –ancora,
la sua vita stava diventando tutta una questione di porte
chiuse e ferite aperte– e andò in
soggiorno, stendendosi sopra al divano
scomodo e girandosi su un fianco, coprendosi la visuale di tutto
premendo la
faccia contro un cuscino.
Dio,
si sentiva uno schifo. Tutta quella serata aveva fatto schifo, in
realtà. Anzi,
l’intero mese era stato un totale, gigantesco, immane schifo.
Nella sua testa
continuavano ad affollarsi migliaia di domande che non trovavano alcuna
risposta e quell’assenza, quel silenzio, gli bruciava dentro
come acido. Si
girò supino, l’imbottitura sotto di lui che non
gli dava tregua e lo faceva
rimanere rigido. Era giusto così, si disse, andava bene
stare allerta, essere
vigili e non sopprimere tutto nel dormiveglia. Agguantò il
cellulare, ai piedi
del divano, e premette il tasto al centro, aprendo finalmente il
messaggio.
Victor.
Diceva:
‘Mi dispiace, davvero. Sappi che è per la tua
protezione, non si può esporre.
Ti prego, cerca di capire, non è come pensi tu. Se non
è di troppo disturbo,
domani verrò a casa tua. Ti vuole bene, credici’. John rise, una risata
secca e distruttiva.
Gli voleva bene, certo. Gli voleva bene così tanto da non
avere nemmeno il
coraggio di parlargli, ma sapeva benissimo come fingersi morto per
giorni che
sembravano anni. Imprecò, buttando malamente il telefonino
sul tappeto, non
curandosi del fatto che avrebbe potuto rompersi. Lo infarcivano di
bugie, gli
facevano credere che era tutto per proteggere lui, che lui avrebbe
dovuto
ringraziare e chinare la testa –lui,
il
capitano John Watson!–, che tutto si sarebbe
risolto, mentre lui brancolava
nel buio del lutto –finto, un finto
lutto
del cavolo. Beh, John non ci stava. Non si sarebbe sottomesso
alle regole
di Sherlock Holmes e non avrebbe fatto come diamine voleva lui, non
quella
volta, non dopo tutto quello che aveva causato dentro John e attorno a
lui. Spense
il cellulare e spense anche i pensieri, chiudendo gli occhi e inalando
ossigeno
solo per semplice istinto di sopravvivenza.
Qualcosa
era inesorabilmente morto, quella notte, qualcosa che aveva a che fare
con il
senso di legame che era sopravvissuto dopo la caduta, quel senso di
alleanza e
quella fiducia che prima sembravano a prova di proiettile e che ora
restavano a
terra, a pezzi. Scivolò in un dormiveglia tormentato, fatto
di edifici troppo
alti e marciapiedi coperti di sangue, fatto di ossa che stridono e
dolore alla
nuca, fatto di sentimenti che mutano e fioriscono e appassiscono e si
spezzano.
Fatto di lutto, questa volta in commemorazione di John.
La
prima cosa di che percepì John appena si svegliò,
fu un lancinante dolore alla
schiena che gli fece stringere ancora di più le palpebre
chiuse e impastate, ricordandogli
immediatamente dove avesse
passato le ultime ore.
Victor.
Telefonata. Sherlock.
Attesa. Sherlock. Rabbia.
Sherlock. Delusione. Sherlock. Sherlock che era vivo, ma che aveva
deciso di
restare morto –a John tanto non
importava, sarebbe andato avanti con la sua vita, lo avrebbe fatto sul
serio,
questa volta. Provò a stirare i muscoli, riuscendo
a toccare con la pianta
dei piedi il bracciolo del divano dopo di lui e sentendo parecchie ossa
scricchiolare fastidiosamente. Aprì gli occhi, scontrandosi
con il soffitto verde
scuro e lievemente scrostato del suo appartamento. Silenzio, imperioso
e
inutile quanto banale. Si mise a sedere, massaggiando piano la spalla
destra e
notando che qualcuno era seduto sulla poltrona nera che un tempo era
appartenuta a Sherlock.
Il
suo cuore perse un colpo, notando i capelli riccioluti e corti, ma
dovette
ritornare a fare i conti con la realtà, osservando quel viso
che non
apparteneva al suo migliore amico –sciocco
anche solo pensarlo, sciocco anche solo sperarci– ma
a qualcun altro,
qualcuno che in quel momento non aveva nessuna intenzione di vedere.
«
Prima
che mi cacci fuori di casa brandendo una
pistola, sappi che sono venuto in pace!
»
Alzò le mani davanti al viso, un accenno di sorriso
sul viso pulito. John si chiese come diavolo avesse potuto anche solo
pensare
di dare corda ad un ex probabile amico di Sherlock Holmes. «
Mi hai mentito.
»
Riuscì solamente a dire, trovando
la forza di alzarsi dal divano e fare qualche passo verso la cucina. «
Ho dovuto farlo, lo sai benissimo
anche tu.
»
«
Non puoi sapere cosa penso.
»
«
Ma sono certo che non mi hai ancora sparato e questo
è un ottimo segno!
»
John lo guardò in tralice, sopprimendo un sorriso. Non
doveva ridere, Victor
era stato falso con lui, era stato dalla parte di Sherlock ancora prima
di
conoscere lui. «
Sono qui
solo per specificare che non è solo per aiutare lui che ho
condiviso con te
questi ultimi giorni. Provo un sincero affetto per te, così
forte e così simile
a ciò che ero io tanti anni fa. Non credere che
ciò di cui abbiamo discusso sia
solo una bugia, non farlo.
»
John abbassò lo sguardo, frustrato.
Era
tutta una serie di sensazioni negative, quella che provava da un mese a
quella
parte. Una tristezza sopra l’altra, un castello che
barcollava e cadeva sempre,
rovesciando tutto e bloccando il respiro. «
Potevi dirmelo, anzi, dovevi dirmelo. Sherlock
è il mio
migliore amico, dannazione! Ho aspettato un mese, un mese! Ma no,
perché
informare il patetico John Watson che Sh-
»
Victor gli mise una mano sulla bocca, fulminandolo con
i suoi occhi azzurro acqua. «
Fai
silenzio.
»
Sillabò, allontanandosi subito dopo, tornando alla sua
postazione originale. «
Tu non puoi capire molte cose e
io non posso spiegartele, ritieniti fortunato nel sapere ciò
che sai.
»
John spalancò gli occhi, allibito
da ciò che aveva pronunciato Victor.
Fortunato?
Davvero? Era finito in un manicomio per pazzi, ecco il problema.
Credevano
fosse tutto rose e fiori, che basta sapere che Sherlock fosse vivo per
far
ritornare tutto alla normalità? Beh, si sbagliavano di
grosso. «
Tu non puoi capire, nessuno di
voi può! Siete solamente dei bugiardi che giocano con i miei
sentimenti e con
la mia vita! Vattene, non voglio che tu stia in casa mia.
»
Fece dietro front ed entrò in
cucina, chiudendosi la porta alle spalle. Cercò di regolare
il respiro,
fallendo miseramente e facendolo entrare in iperventilazione. Oltre al
danno
anche la beffa, oltre all’abbandono anche la delusione e poi
l’affronto.
Fortunato.
Lui che aveva visto morire il suo migliore amico in diretta. Lui che
aveva
passato di tutto, in quei giorni schifosi dove nessuno era riuscito a
fare
niente per farlo stare meglio. Dove anche il sentirsi speciale per
essere stato
l’unico veramente vicino a Sherlock in tutta la sua vita era
andato in frantumi
all’arrivo di Victor. John era stato ripagato con una mezza
verità, una nuova
delusione e tanto fumo.
Se
era quello che significava essere fortunati, allora non osava
immaginare come
sarebbe stato essere sfortunati –un
soffitto che crollava in testa, forse. Saltare in aria con una bomba,
uno
psicopatico e un sociopatico in una dannata piscina, forse.
«
Posso?
»
Chiese Victor, poco dopo, affacciandosi al vano
della porta. «
No.
»
«
John, non pensare che Sherlock non ti voglia bene
solo perché non è venuto da te, ieri
sera.” «
Odio la gente che mi dice cosa posso pensare o non
posso pensare.
»
Victor si fece un po’ più vicino, posandogli una
mano sulla spalla. «
Lo capisco, davvero. Posso capire
il tuo punto di vista. E’ difficile. E’ doloroso.
Ti sei sentito morire quando
non l’hai visto arrivare, non è così?
»
John lo fissò negli occhi e sentì tutte le
emozioni
salirgli su in gola, creandogli il magone. «
Vorrei potertelo far incontrare, John, più di
ogni altra cosa
al mondo.
»
«
No. No, non voglio.
»
Victor aggrottò le sopracciglia,
confuso.
«
Non
voglio vederlo. Non stavo scherzando, ieri
sera. Gli avevo dato un ultimatum e lui non l’ha rispettato,
ha fatto la sua
scelta e a me sta bene.
»
«
Non
capisci, ora come ora.
»
John si tolse dalla presa di Victor, aggirando il tavolo e
ritornando in salotto. «
No,
è la mia scelta, per la prima volta ho preso una decisione e
sono deciso a
rispettarla. Ho la mia vita a cui pensare e lui ha deciso di non farne
più
parte.
»
Victor sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «
Smettila di fare il bambino.
»
John lo ignorò, avvicinandosi alla finestra e osservando
la strada sottostante. «
Potresti
andartene, ora? Sono stanco.
»
Non sentì alcun rumore alle sue spalle, ma non se ne
curò, appoggiando la tempia sopra al vetro freddo. «
John?
»
«
Per
favore, no…vai e basta.
»
Vide il riflesso di Victor tentennare, i denti che
mordevano il labbro inferiore e l’indecisione scritta negli
occhi. «
Sherlock mi ammazzerà, ne sono
sicuro.
»
Proruppe infine, massaggiandosi la fronte e avvicinandosi a John. «
In che senso?
»
«
Nel senso…
»
Incominciò Victor, prendendo dalla tasca dei
pantaloni il suo cellulare e digitando in fretta sullo schermo. «
…che sto per fare una cosa che mi
farà rischiare quasi certamente la morte.
»
Si mise un momento il telefono all’orecchio,
prima
di passarlo a John. Sentì il cuore perdere un battito, non
riusciva più ad
avere la capacità di manovrare il proprio corpo, in preda ad
un’ondata di
emozioni così intensa da lasciarlo paralizzato.
Stava
per parlare con Sherlock? Perché lui non voleva farlo, no
davvero. Sherlock non
se lo meritava, affatto.
Prese
il cellulare in mano, cercando di frenare il leggero tremito che lo
scuoteva
tutto. Oh Dio, oh Dio, non voleva parlarci, non voleva sentire
più la sua voce,
aveva una dannatissima paura delle conseguenze che avrebbe portato
quella
telefonata. «
Victor, perché
mi hai chiamato? C’è qualche problema?
»
John si posò una mano sulla bocca, in un curioso
déjà-vu della serata precedente. Sherlock, mio
Dio. Sherlock, vivo –il miracolo
era giunto e sentiva i pezzi di
se stesso vorticare e ferire tutte le parti nascoste di lui. «
Victor, sei tu, vero?
»
Mormorò stizzito Sherlock,
dall’altra parte della cornetta. John non riuscì a
far altro che guardare
Victor negli occhi, sentendosi come un cucciolo abbandonato per strada.
«
No, non sono Victor.
»
Riuscì a dire, il tono duro che
non lasciava trapelare nulla. Poteva sentirsi scosso quanto voleva, ma
non
avrebbe mai permesso a Sherlock di vederlo o sentirlo debole. Non gli
avrebbe
più permesso niente. «
John.
Ovviamente dare un ordine a Victor è come darlo al muro.
»
La rabbia incominciò a montargli
dentro, distruggendo qualunque altro sentimento. Furia omicida. «
Stai facendo anche il sarcastico?
Stai davvero cercando di far finta di niente?
»
Aveva alzato il volume della voce, la mano che non
reggeva il telefono era aggrappata al davanzale della finestra,
invocando la
santa pazienza che gli era stata affidata alla nascita. «
Non mi sembra il momento giusto per parlarne.
Non dovremmo nemmeno parlare, in realtà.
»
Odio. Victor dovette vedere che le cose si stavano
complicando perché prese in mano la situazione. «
Sherlock, senti…
»
La voce di Victor morì subito mentre quella di
Sherlock riusciva ad arrivare anche a John, tanto era alta. «
Dimmi dov’è.
»
Sussurrò John a Victor che scosse
la testa, afflitto dalla marea di parole che Sherlock gli stava
versando
addosso. «
Per favore,
dimmelo. Devi dirmelo, se qualcosa di vero c’è
stato tra di noi, dimmelo.
»
John lo guardò, in attesa.
Non
avrebbe mollato, non ora che l’aveva sentito parlare. Doveva
sfogarsi di tutto,
doveva poterlo vedere e poterlo aggredire, vedere il suo viso mentre
gli
sputava tutto il rancore che lo stava perseguitando da giorni. Voleva
potergli
dire addio guardandolo dritto negli occhi e poi farlo sparire per
sempre
insieme al peso che gli opprimeva i polmoni. «
Washington Street, 46. Ti prego, fai attenzione.
»
Riuscì solo a dire Victor mentre
la voce di Sherlock si alzava ancora, scandendo bene le parole
‘Gli hai detto
dove sono? Victor, dannazione!’, prima che John salisse in
fretta le scale che
portavano alla sua camera, indossando una felpa con il cappuccio, una
di quelle
sciarpe che non aveva mai messo e un paio di jeans scoloriti –sto arrivando, sto arrivando da te.
Guardò
per un momento il disordine che ancora aleggiava in quella stanza, ma
durò
poco, troppo preso dalla miriade di input e pensieri che il suo corpo e
il suo
cervello continuavano a concedergli, senza sosta. Scese le scale,
osservando
Victor che faceva avanti e indietro nel salotto, cercando di aprire
bocca per
ribattere ma non riuscendo a proferire parola. Un po’ gli
dispiaceva per lui,
ma lo ammirava e lo stimava per essere andato contro il volere di
Sherlock ed
aver fatto per conto proprio, nonostante sapesse delle conseguenze
irreversibili del suo gesto. Glielo avrebbe detto, dopo aver visto
Sherlock –Dio, lo avrebbe ripetuto
all’infinito. Sto
andando da Sherlock Holmes, sto andando da Sherlock Holmes.
Appena si
chiuse il grosso portone alle spalle, John si alzò il
cappuccio sulla testa,
fino a coprire metà volto. Notò una macchina nera
e lucida posteggiata davanti
a lui e si inquietò subito. Familiare, assurdamente
familiare. E irritante. Che
cosa voleva Mycroft da lui, ora? Non aveva tempo da perdere. «
La prego di salire su quest’auto,
dottor Watson.
»
Disse un uomo in abito elegante, in piedi sul marciapiede. «
Se questa messinscena è per
evitare che io vada da lui, allora potete risparmiarvela. Stavolta non
sono
d’accordo, stavolta non cedo.
»
«
Salga
in macchina, dottor Watson.
»
John sbuffò, guardandosi nervosamente attorno. Non
sarebbe riuscito a crearsi una via di fuga se Mycroft voleva che non la
trovasse, questo era garantito.
L’unica
cosa che gli rimaneva da fare era assecondare le manie di
quell’uomo e poi
tornare al punto principale, ovvero stanare Sherlock ovunque si
trovasse. Salì
in macchina, cercando di non pensare a niente –perché
pensare gli dava rabbia e, grazie tante, di rabbia ne aveva
già
abbastanza per conto suo. Il suo telefono squillò
nella tasca della felpa, il
nome di Mycroft che lampeggiava prepotente sullo schermo luminoso. «
Pronto?
»
«
Dottor Watson, che piacevole sorpresa risentirla
dopo tutto questo tempo.
»
Sorpresa? John si massaggiò la tempia, già stanco
della conversazione. Mycroft aveva il fantastico dono di farlo
arrabbiare a
livelli cosmici senza nemmeno stargli davanti. «
Vorrei poter dire lo stesso.” «
Si sta chiedendo dove è diretto,
John?
»
«
In qualche edificio abbandonato
dove potrà cercare di parlarmi di non so cosa?
»
Domandò, ostentando una calma che
non sentiva di possedere. «
Lo
sa bene di cosa potrei parlare, con lei.
»
Allora
lo sapeva anche lui. Perfetto. Giusto. Magnifico. Era stato un idiota a
pensare
che Mycroft Holmes, chiamato anche Governo britannico, non sapesse che
il suo
amato fratellino fosse vivo. A quanto pareva, l’unico ad
essere rimasto nel
buio era John, il perché era ancora un mistero –o forse non lo era, ma faceva troppo
male per prendere in
considerazione anche solo l’idea. «
Comunque, questo pomeriggio noi non dovremmo incontrarci,
dottor Watson.
Verrà portato in un’ala ben precisa in un edificio
ad alta sicurezza dove potrà
aspettare il momento più opportuno per ricevere la visita
che anela con così
tanto…ardore e sentimento.
»
Ironico. Ironico e tagliente, il vecchio e pomposo
Mycroft era ritornato nella sua vita –ci
sarebbe tornato anche il fratello? Sperava di sì. O no. Non
ne era sicuro.
Cercò
di seguire il percorso della macchina tra le vie di Londra, ma si perse
tra un
vicolo e una rotonda, l’agonia dell’attesa che lo
stava facendo diventare un
fascio di nervi, pronto a scattare al minimo cenno. «
Siamo
arrivati, dottor Watson.
»
Disse il conducente con voce atona. John aprì lo
sportello, finendo davanti ad un paio di scalini che portavano ad un
grosso
portone di ciliegio con un’anta spalancata. «
Grazie per il passaggio.
»
Mormorò John, uscendo all’aria
aperta. Aspettò qualche secondo in cerca di una risposta
qualsiasi o un
congedo, ma l’uomo restò in silenzio e John decise
di lasciar perdere. Si
guardò intorno, con il grande giardino pieno di alberi e una
fontana rotonda al
centro –come nelle peggiori sit-com
americane, si disse–, tutto colorato con i colori
romantici del tramonto.
Sembrava tutto curato in maniera maniacale, cosa che fece pensare a
John che
quella enorme reggia dovesse essere di proprietà di Mycroft.
Salì gli scalini
ed entrò, titubante, nel grande salone d’ingresso,
pieno di corridoi e
persone vestite di
scuro. Inquietante. «
Il dottor Watson?
»
Una giovane donna mai vista prima
gli comparì davanti, il cellulare tra le mani –probabilmente
era un requisito per tutti coloro che lavoravano con
Mycroft– e una smorfia simile ad un sorriso sul
viso truccato. «
Sì, sono io.
»
La donna incominciò a camminare
per un lungo corridoio con le piastrelle in lucida ceramica grigia, i
tacchi
alti che rimbombavano nel silenzio assoluto della casa. John la
seguì, le mani
che prima si nascondevano nelle tasche e poi si posavano sui suoi
fianchi, le
braccia che si incrociavano contro al petto mentre si mordeva
l’interno
guancia, agitato.
Si
sentiva agitato fino ai limiti e la sensazione non era propriamente
positiva.
Si tolse il cappuccio dalla testa, cercando di respirare in modo
regolare,
impostando il viso in un’espressione di assoluta
impassibilità e concentrandosi
per far smettere il cuore di battere così forte. Era andato
in Afghanistan,
dannazione. Era stato in ospedale due settimane per un proiettile nella
spalla,
dannazione. Aveva passato delle dannate terapie inutili, aveva
incontrato
Sherlock Holmes e Mycroft, aveva sparato ad un tassista solo per
salvare la
vita ad un ipotetico sconosciuto. Quello non era niente, a confronto –forse, o forse era tutto. Forse era la
fine
di tutto. La ragazza si era fermata davanti ad una porta blu
scuro,
l’attenzione tutta concentrata sul suo Iphone di ultima
generazione. Se fosse
stato veramente in sé, John ci avrebbe provato con una delle
solite battute che
usava per conquistare una ragazza, qualche sorriso luminoso e via. Ma
quella
non era una situazione normale e avere una fidanzata era
l’ultimo dei suoi
pensieri.
Era
già arrivato? Dio, sperava di no. Non era pronto, non voleva
entrare. Non
voleva vedere la prova tangibile che Sherlock era vivo, la prova
tangibile di
tutte le bugie, e non voleva sbattere la testa contro la
verità nuda e cruda
che, in quel mese, la tristezza che aveva cullato e che
l’aveva cullato non era
stato altro che inutilità sprecata, un qualcosa di finto,
una ferita lancinante
e mortale fatta da un oggetto che non esisteva. Recita, inganno.
Allungò la
mano verso la maniglia e prese un respiro profondo, prima di decidersi
ad
abbassarla e a spingere, avendo la visuale di una stanza vuota. Non
c’era –stavolta si
sarebbe presentato? Non sapeva
più cosa sperare. Non sapeva più niente.
La stanza era spoglia, se non per
un piccolo tavolino di vetro con sopra un vassoio di biscotti –biscotti, davvero?–
e due sedie in
plastica. Una grande finestra faceva entrare gli ultimi raggi di sole e
John si
ritrovò a pensare di essere entrato in un patetico
romanzetto rosa, con la
principessa che aspetta il principe chiusa in una stanza del castello.
Patetico
e fuori moda. Incominciò a girare in tondo, provando spiare
dalla finestra
l’ingresso, ma non vedendo nessuno né arrivare
né andarsene. Non era mai
riuscito a gestire il nervosismo, John, era una cosa che andava oltre
di lui e
che lo faceva impazzire.
Aspettare.
Aspettare sempre. Aspettare cosa? Gli aveva dato un ultimatum la sera
prima e
lui non l’aveva rispettato, che cosa c’era ancora
da chiarire? Nulla. John in
realtà non lo voleva vedere, ecco. Si sarebbe accertato del
suo stato di
salute, gli avrebbe tirato un pugno su quel viso perfetto –no, non perfetto, John
concentrati!– e poi se ne sarebbe tornato a
casa, avrebbe buttato via tutti gli scatoloni riguardanti la loro vita
passata
e sarebbe andato avanti. Sì, sarebbe andata così.
Era un soldato, sapeva
mantenere la calma, sapeva conquistare il controllo con la forza, se
necessario.
Non era spaventato, nient’affatto. Per niente. Forse un
po’, non tanto. Magari
un po’ troppo. Okay, stava per urlare dall’ansia,
ma avrebbe mantenuto
l’espressione impassibile e neutra, ne era capace. Non gli
sarebbe di certo
saltato addosso, piangendo e stringendolo. Oddio, stava per morire di
crepacuore e quella porta chiusa gli stava facendo venire la nausea.
Quando
vide la maniglia abbassarsi a John saltò il cuore in gola, i
polmoni che
smettevano di fare il loro lavoro, le mani sudate e il cervello in
tilt.
Gli
sembrò di vedere la scena a rallenty, con la porta che si
apriva così
lentamente da poter morire, e poi intravide il bordo scuro del cappotto
e le
scarpe costose, le mani bianche, la camicia chiara, il collo lungo, i
nei –stava per svenire, lo
sentiva– e poi il
viso. Sherlock. Sherlock. Sherlock. Come si faceva a
respirare? Sherlock. Sherlock.
«
John, respira.
»
A John tremavano le mani,
veramente, e di respirare proprio non se ne parlava. Era vivo. Era
lì, era lui.
Fece qualche passo dentro la stanza, chiudendosi la porta alle spalle e
scandagliandolo con i suoi occhi chiari. Era bellissimo, come sempre.
Forse un
po’ più magro e con le occhiaie più
accentuate, ma era sempre lui. Gli sembrava
di non vederlo da una vita. Improvvisamente, tutte le parole e tutte le
azioni
che aveva premeditato di dire o di fare, erano scomparse nel nulla,
cancellate
su due piedi, senza pensarci. Cosa sarebbe successo? «
Sei qui.
»
Riuscì a dire, con una voce che non riconobbe come
sua. «
Per colpa di Victor.
Non sarei nemmeno dovuto venire qui, ma ormai era fatta.
»
La bolla in cui John era caduto
da quando era entrato Sherlock esplose fragorosamente a quelle parole,
riportandolo alla realtà. «
Per
colpa? Sherlock, ti sei finto morto per un mese! E, a quanto pare, ero
l’unico
ad essere all’oscuro di tutta questa macchinazione!
»
Sherlock distolse lo sguardo,
l’espressione indecifrabile come sempre. «
Perfetta deduzione, John. Saresti dovuto restare
all’oscuro di
tutto, se qualcuno non avesse rovinato il piano. Non è in
gioco solo la mia
reputazione, sono in gioco delle vite, ma questo qualcuno non
l’ha voluto
capire.
»
Disse
velenoso, colpendolo in pieno. Non gli era mancato, per niente. Non era
neanche
un minimo contento di vederlo? Preferiva proseguire davvero con il suo
piano e
lasciarlo in disparte a morire? John gli diede le spalle, cercando di
trattenere quelle emozioni che gli facevano appannare la vista. Sii
forte, sii
forte. «
Bene, allora puoi
anche andartene.
»
Proruppe John, con tono incolore. Era troppo, quella situazione. Nella
sua
testa era andata diversamente, nella sua testa aveva immaginato un
altro
Sherlock, uno Sherlock che chiedeva scusa, uno Sherlock umano che in
quel
momento sembrava non esistere. «
Mi
hai voluto incontrare per niente?
»
Chiese, la sua voce che sembrava essersi fatta più
vicina. «
No, no, non è per
questo, in realtà. Non è per niente, in
realtà. Questa situazione, questa…
»
John cercò di prendere fiato,
sentendo la rabbia affiorare incontrollabile.
«
Ti
sei reso conto di cosa hai fatto, Sherlock?
Ti rendi conto di ciò che hai causato alle persone intorno a
te? E’ stato
terribile! Ha fatto male ogni singolo giorno di questo dannato mese!
Hai
avvertito tutti, hai avvertito un tuo vecchio amico di cui nemmeno
sapevo
l’esistenza e non hai avvertito me, il tuo migliore amico!
Abbiamo passato
diciotto mesi insieme e tu ci hai sputato sopra senza tanti pensieri,
creando
un magnifico piano per salvare il mondo. Beh, bene! Puoi ritornare al
tuo cavolo
di lavoro che ti interessa tanto, puoi andartene e non tornare
più da me! Ho la
mia vita, ora, ho tutto ciò che mi serve.
»
Sherlock lo guardava immobile, davanti a lui. Non
sapeva nemmeno se lo stava ascoltando, veramente. «
Pensavo di essere diventato importante.
»
Non seppe nemmeno John perché
quella frase gli uscì dalle labbra, svicolando da tutti i
controlli, ma sortì
su Sherlock un effetto diverso, che lo risvegliò dal
torpore. «
Sei in pericolo di vita, non
credi che questo sia importante?
»
«
Ma
tu sei importante per me e ti sei finto morto.
»
«
Ho dovuto farlo.
»
«
Potevi
dirmelo.
»
«
No, non potevo.
»
«
Perché?
»
Sherlock
distolse nuovamente lo sguardo dal suo, puntandolo sui biscotti accanto
a loro.
«
Non potevo e basta.
»
John gli si avvicinò un po’ di
più, il senso reale dell’averlo lì
davanti che prendeva forma secondo dopo
secondo. «
Parla con me.
»
John avvicinò piano una mano a
quella dell’altro, in cerca di un minimo contatto. Ne aveva
bisogno, ora. Lo
sentiva necessario come l’ossigeno. Appena sfiorò
il dorso della sua mano,
però, Sherlock la ritrasse, turbato. Sembrava che si
stessero studiando a
vicenda, pronti per azzannarsi o per lasciarsi andare –c’era
una terza opzione?. «
Puoi fidarti di me, lo sai che puoi.
»
Sherlock puntò gli occhi dritti
nei suoi, prima di decidersi a parlare. «
Non sei arrabbiato con me?
»
«
Certo
che lo sono! Sono furioso con te e non te la farò passare
liscia per tutto
l’oro del mondo!
»
Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. «
Mi hai toccato la mano, prima.
»
«
Questo non significa che io non sia almeno un
po’
felice di vederti vivo, Sherlock. Sono qui per te, sono sempre stato
qui per
te.
»
Successe
molto velocemente, con Sherlock che prima era fermo davanti a lui e poi
tutto
intorno a John, con le braccia che lo circondavano e le mani che
stringevano la
stoffa della felpa, dietro la schiena. Non se lo aspettava di certo,
non da uno
come lui, ma questo non gli fece godere di meno il momento.
Affondò il viso
nell’incavo del suo collo, abbracciandolo a sua volta. Odore
di casa, gli era
mancata quella fragranza. «
Mi
sei mancato tanto.
»
Borbottò John, strofinando il naso contro la pelle tesa del
collo. «
Victor è un idiota.
»
Disse Sherlock, sciogliendo
l’abbraccio mentre John si staccava a sua volta, deluso che
quel contatto fosse
durato così poco. «
Invece è
un bravo ragazzo.
»
Sherlock inarcò le sopracciglia e alzò gli occhi
al cielo. «
Certo, come no.
»
«
Dovrai ancora rimanere nascosto?
»
Domandò John, dando voce a quella
domanda che aleggiava nella sua testa da un po’ di tempo. «
Sì, fin quando non prenderemo
tutti i componenti del gruppo di Moriarty.
»
«
Ti
aiuterò.
»
Asserì John, immediatamente. «
No,
tu non farai proprio un bel niente. Adesso andrai a casa e farai finta
di non
avermi mai incontrato, è così che funziona.
Questa è stata solo una circostanza
speciale che non si ripeterà.
»
«
Mi
stai dicendo che dovrò aspettare ancora non so quanto tempo
prima di rivederti
mentre tu sarai in missioni suicide da qualche parte nel mondo?
»
«
Esattamente.
»
«
Tu
sei pazzo! Non se ne parla assolutamente.
»
«
John,
si fa come dico io. Non ti voglio tra i piedi.
»
«
Sherlock, no! Stavolta non ti farai ammazzare senza
che io non possa fare niente per proteggerti!
»
Sherlock restò un momento in silenzio, prima di
sospirare e abbassare lo sguardo giusto un attimo, per poi tornare
glaciale
come sempre. «
Smettila.
»
Disse, indurendo la mascella. «
Di fare cosa?
»
«
Di fare la moglie protettiva e amorevole. Smettila,
mi irrita.
»
John sentì qualcosa rompersi dentro di sé, ma non
ci fece caso. «
Ti sto solo dicendo che non
voglio che tu muoia di nuovo! E’ così difficile da
comprendere? E’ stato un
mese d’inferno!
»
«
Sì, beh, io ho da fare al
momento e tu mi intralceresti solo il lavoro con le tue preoccupazioni
inutili.
Quindi ritorna a casa e rincomincia la tua vita.
»
«
No. No, non se ne parla. Io vengo insieme a te.
»
«
John!
»
Lo prese per le braccia, in una morsa dolorosa, gli
occhi che erano diventati quasi trasparenti dopo quell’urlo. «
Io non ti voglio.
»
Crack.
Bum. Sentì le ginocchia piegarsi dopo quella frase, sotto il
peso di qualcosa
di troppo grande. «
Non ti
voglio come collega, né come amico. Adesso ho il mio lavoro
e quello mi basta,
è chiaro?
»
Gli
lasciò la presa dalle braccia e John quasi cadde, non
sorretto da quelle mani. «
Spero di essere stato abbastanza
chiaro.
»
John lo vide raggiungere la porta con ampie falcate,
girarsi un momento verso di lui e poi andarsene, in una nuvola di nero.
Appena
la porta sbattè, John sentì le forze venire meno
e si ritrovò incollato al
pavimento, le lacrime che ora perdevano il controllo e infuriavano
contro di
lui.
Non
ti voglio.
Il
problema, forse, era che John voleva Sherlock il doppio di quanto
consentito.
Il problema, forse, stava nel fatto che Sherlock non gli aveva detto
tutte
quelle cose che John aveva sperato di sentirsi dire. Il problema,
forse, era
solo che John si era ritrovato con il cuore in mano davanti a Sherlock
Holmes,
un’altra volta, e lui l’aveva gettato a terra senza
pensarci due volte.
Il
problema, alla fine, era che faceva male e basta, senza Sherlock,
semplicemente, non era vita.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
I wish you were here or I were there or we were
together anywhere
Dovremmo
dire più spesso alle persone
quanto vogliamo loro bene, perché la vita è
imprevedibile e, se possiamo
manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo
sempre.
What if I let you in?
What if I make it right
it?
What if
I give it up?
What if I want to try?
What if you take a
chance?
What if I learn to love?
What if, what if we
start again?
Red
Un mese dopo
John
aveva appena finito il suo turno all’ambulatorio, aveva
sorriso, salutato con
la mano Sarah, ancora sua collega e amica, e aveva lasciato
l’edificio con
l’armonia di un uomo qualunque.
Stava
passeggiando verso casa, le mani nelle tasche dei pantaloni per
proteggerle dal
freddo e gli occhi che restavano fissi sull’asfalto. Non
prestava attenzione
alla gente intorno a lui, preferiva camminare a testa bassa,
consapevole del
macigno nascosto che si trascinava dietro da giorni. Si sentiva
pesante,
confuso, assurdamente triste, nonostante le apparenze. «
E’
stato assolutamente inaspettato,
questo detective morto e risorto!
»
John si fermò un
momento, il sangue che si ghiacciava nelle vene, tutta la via intorno a
lui che
diventava uno stupido contorno, gli occhi che si puntavano sulla
persona che
aveva pronunciato quelle parole, davanti ad un’edicola. «
Insomma,
non che io ci creda molto, a
questo svitato!
»
Aggiunse la signora, accennando ad
una risata. Le gambe di John si mossero da sole, spostandosi dal
semaforo
ancora rosso, davanti alle strisce pedonali, fino ad arrivare
all’edicola, gli
occhi puntati, ora, sui due signori che parlottavano ignari del suo
tumulto
interiore. «
Scusi,
vorrei quel giornale, per favore.
»
Disse, quasi senza
accorgersene, indicando ciò che aveva in mano la donna. «
Anche
lei un appassionato di
miracolati?
»
Disse l’edicolante, con un sorriso
divertito sul volto.
Certo,
ero così appassionato da volerlo vedere morto su un
marciapiede, avrebbe voluto
dirgli, ma si trattenne, sopprimendo l’impulso di cadere a
pezzi. Aveva capito,
era andato avanti, non aveva più nessun altro a cui pensare
e gli andava bene
così. Non rispose alla domanda dello sconosciuto, tirando
fuori pochi spiccioli
dalla tasca e cercando di formare una sorta di sorriso, mal riuscito.
Era
più
difficile fingere, quando non era chiuso nelle pareti confortanti della
clinica. Era più difficile fingere, quando nessuno
più si ricordava dello
scapolo John Watson, compagno inseparabile di Sherlock Holmes. Ma lui
non lo
voleva più e la situazione era totalmente cambiata –in meglio? Decisamente no.
Prese in fretta il giornale,
arrotolandolo stretto e mettendoselo sotto braccio, facendogli scudo
con esso.
Non voleva che potenziali stalker –ed
era
sicuro ci fossero, conoscendo Mycroft Holmes– si
facessero idee sbagliate
sul suo ultimo acquisto.
Lui
non
aveva nessuna curiosità su tutto ciò che
riguardasse Sherlock né aveva voglia
di ritornare da lui, nonostante l’articolo in prima pagina.
Era solo mero
interesse, come un qualunque cittadino che ascolta una storia qualsiasi
alla
televisione, una bella favola da leggere e riporre lontano da se
stessi. Si
avviò a passo svelto lungo i vicoli semideserti, la luce
scura del pomeriggio
che perdeva sempre più colore, spruzzando il cielo di blu
scuro. John, in un
qualunque giorno di un anno fa, se la sarebbe presa comoda, camminando
con il
naso all’insù, ringraziando madre natura per
avergli restituito la vita che il
congedo in Afghanistan gli aveva strappato, e un sorriso impresso sul
volto,
nel suo personale campo di battaglia.
Ora
camminava a testa bassa, il mondo che non lo conosceva e lui che non
aveva più
voglia di conoscere il mondo, i capelli più grigi, le
occhiaie più marcate, il
peso sul cuore sempre più pesante, la falsità
sempre più all’ordine del giorno.
Era strano, era ingiusto, ma andava così e John non aveva
più forza di
combattere. Lui aveva vinto la battaglia e John sentiva di aver
miseramente
perso, un limbo in cui non trovava via d’uscita. Si accorse
di aver sorpassato
il condominio dove ora abitava, una vecchia palazzina con
l’intonaco rosa
antico scrostato e appartamenti grandi quanto una gabbia –gli
andava bene, gli andava bene tutto, ormai. Ritornò
indietro,
prendendo le chiavi dalla tasca del cappotto e infilandone una nella
serratura.
Insistette un po’, fino a quando la porta cedette e John
potè ripararsi dal
vento gelido che aveva incominciato a turbinare fuori. Salì
fino al secondo
piano ed entrò in casa propria, restando fermo per qualche
secondo sul
tappetino d’ingresso, immobile. Ogni volta che entrava in
quell’appartamento,
si sentiva trascinato via da quel posto, troppo angusto e troppo buio e
troppo
spoglio per essere definito come casa. Era asettico, monocromatico e
banale.
Un’accozzaglia di cose in un bilocale che non era vissuto
veramente –triste, solitario, come
il proprietario.
Appena
dopo aver avuto l’ultima discussione con Sherlock, John si
era deciso a voltare
pagina, o almeno a provarci. Aveva lasciato Baker Street, nonostante le
proteste della signora Hudson, e si era rintanato in quel buco,
sorridendo ai
pazienti, sorridendo ai colleghi e piangendo nel cuore. Faceva finta di
andare
avanti, ogni giorno, rifiutava le chiamate di Victor sempre
più insistenti e
soffocanti. Non voleva nessuno, gli piaceva quella vita, davvero,
checché ne
dicessero gli altri.
Si
tolse le scarpe e posò il giornale sul tavolo, lanciandogli
un’occhiata astiosa
e dirigendosi nell’angolo che faceva da cucina, prendendosi
una birra dal
frigorifero. Gli serviva qualcosa di forte per affrontare
ciò che stava per
leggere, ma, purtroppo, si era severamente vietato l’alcool
dalla prima volta
in cui aveva visto sua sorella vomitare l’anima nel bagno
della loro casa di
famiglia, quindi si sarebbe dovuto arrangiare –come
sempre, come per tutto.
Stappò la bottiglia con i denti e si sedette sull’
unica sedia in legno
affianco al tavolo –triste, anche
quello.
Mandò giù un lungo sorso, gustandosi il sapore
sulla lingua, prima di fare i
conti con il giornale ancora piegato davanti a lui. Su, forza e
coraggio, si
disse, tamburellando piano le dita sulla superficie del tavolo.
E’ solo un
giornale, nulla di particolarmente
pericoloso, pensò, ingoiando un’altra sorsata e
decidendosi a leggere. Un
titolo in grassetto, sulla prima pagina, diceva chiaramente
‘Il
super-scienziato Sherlock Holmes riscatta la sua fama. Sarà
vero?’ Dio, gli
stava salendo la nausea. Dio, aveva voglia di bruciare quella dannata
pagina e
stendersi su un letto, cercando di somigliare ad un vegetale.
Lesse
l’articolo velocemente, le parole di Sherlock sembravano
distorte, di certo non
da lui, manipolate dai giornalisti affamati di scoop esilaranti. John
si fermò
a leggere una domanda particolarmente interessante che avevano rivolto
a
Sherlock e che aveva attirato tutta la sua attenzione. ‘E di
John Watson, il
suo compagno, che cosa ci dice? Ritornerete di nuovo insieme? Lo ha
già
perdonato?’ John respirò a fondo, prima di leggere
la risposta, il cuore che
palpitava più forte, fregandosene del controllo che il
padrone cercava di
imporgli. Chiuse per un momento gli occhi, sentendosi come uno stupido
bambino
di due anni che aveva paura del verdetto della propria mamma, e li
riaprì
subito, incentrandoli sulle parole di Sherlock. ‘Il signor
Holmes evita la
domanda, decretando che gli affari privati riguardanti lui e John
Watson non
sono questioni rilevanti con il tema
dell’intervista.’ Ovviamente, era ovvio –perché lui non lo voleva,
né come collega
né come amico.
Prese
il giornale e lo buttò nella pattumiera, chiedendosi
perché diavolo avesse
speso soldi per quella spazzatura visto che tanto non gli importava.
Era
inutile, era anche ridicolo averci pensato, a una dichiarazione
pubblica o a
una ammissione di colpa. Non sarebbe mai cambiato, sempre il solito
egocentrico, sempre il solito arrogante. Finì la bottiglia
di birra e la lasciò
lì, andando a lavarsi il viso con l’acqua fredda.
Il rumore del citofono lo
distolse dai suoi pensieri, facendolo distogliere dal suo stesso
riflesso,
davanti al lavandino –il volto di
un
altro, uno sconosciuto impossessato del suo corpo, gli occhi delusi che
avevano
perso luce, imbrunendo ogni cosa. Aggrottò le
sopracciglia, chiedendosi chi
cavolo fosse all’ora di cena. Sperava non fosse Victor, in
realtà. Quel ragazzo
era una vera e propria piaga quando ci si metteva di impegno e
più di una volta
aveva dovuto cambiare strada all’improvviso pur di non
incrociarlo. Non voleva
più nessuno che fosse in contatto con Sherlock e, dopo tutto
ciò che era
successo, sperava che tutti capissero l’antifona e lo
lasciassero in pace. Si
diresse spedito verso il citofono, affianco alla porta
d’ingresso, mentre
qualcuno continuava a scampanellare senza sosta. Prese il ricevitore
con aria
furibonda, fino a quando non si accorse del soggetto di tutto quel
rumore, al
videocitofono. Oh mio Dio. Riccioli, occhi chiari, aria annoiata di chi
già si
è pentito di aver compiuto quel gesto. Sherlock. Cosa ci
faceva Sherlock sotto
casa sua? Panico.
Si
schiarì
la voce, cercando di non far trasparire l’emozione dal tono. «
Chi
è?
»
«
Lo
sai chi
sono, hai un videocitofono.
»
John arricciò il
labbro, infastidito. Se era quello l’atteggiamento che aveva
in serbo per lui –dopo tutto quello
che gli aveva fatto, dopo
tutto quello che aveva sentito e quello, ancora più
importante, che non si era
permesso– poteva benissimo andarsene a quel paese e
non tornare mai più. «
Bene,
cosa vuoi?
»
Sbottò, giocando con il filo del ricevitore.
Anche
solo pensarlo, ormai, gli provocava il nervoso –Dio,
gli doveva una medaglia per tutta la pazienza che stava avendo
con quell’uomo. «
Posso
salire o dobbiamo parlare in questo modo?
»
Disse, osservando qualcosa che non riusciva a entrare
anche nel suo campo visivo. Stava cercando un punto di fuga? «
Preferisco
parlare così, non ho
nessuna voglia di vederti dal vivo.
»
«
In
realtà tu puoi vedermi dal
citofono mentre io devo parlare a questo…aggeggio.
»
«
Fidati,
è per la tua salute che io non sia lì davanti a
te, ora.
»
John vide Sherlock sbuffare piano, continuando a deviare
lo sguardo da un posto all’altro, come se lui fosse veramente
davanti a lui e
non volesse incrociare il suo sguardo. Restò in silenzio
mentre John
incominciava a spazientirsi. «
Quindi?
»
«
Quindi
cosa?
»
John gemette, frustato. «
Quindi
cosa vuoi, Sherlock! Perché sei sotto casa mia a
quest’ora?
»
«
Ho
visto che hai comprato il giornale con l’intervista.
»
Ah, ecco, giusto per avere le idee chiare sul chi, in
realtà, lo avesse pedinato in quei giorni. Sherlock,
Sherlock che non aveva più
il sapore di Sherlock, nelle sue corde vocali. «
Avevo
voglia di leggere un po’ di favole, nulla di
importante.
»
Rispose con tono acido e maligno,
non riconoscendosi nemmeno.
Sentiva
troppo dolore, ancora, una pena viscerale che gli faceva dolere i
muscoli la
mattina e gli toglieva il sonno alla notte. Se lo meritava, tutto quel
veleno,
perché sapeva che per Sherlock Holmes facevano
più male le parole che i
cazzotti. «
Sei
ancora arrabbiato, quindi.
»
«
Sherlock,
parla chiaro e dimmi che
cosa vuoi da me.
»
Si sforzò di dire,
in un impeto di coraggio che in quel momento sembrava scarseggiare. «
Insomma,
pensavo che…
»
Lo osservò muoversi agitato davanti al citofono, gli
occhi che ancora non fissavano la videocamera. «
Pensavo
dovessimo parlare riguardo ciò che è successo
l’ultima volta che ci siamo incontrati, ecco. Dovresti aver
già sbollito la
rabbia, ormai. Possiamo continuare da dove abbiamo terminato
e…
»
Sherlock fermò il suo monologo che a John sembravano solo
frasi in ordine casuale e senza significato. Cosa stava dicendo? A lui
non era
passata affatto, quella furia. A lui non era passato nemmeno il dolore
della
perdita, seppur finta –davvero?
Perché
lui la sentiva vera, sulla pelle, il legame che si era spezzato e un
amico che
se n’era andato–, e di certo non avrebbe
fatto finta di niente, non dopo
ciò che gli aveva detto. «
Non
posso, Sherlock.
»
Finalmente,
gli occhi di Sherlock si focalizzarono nella videocamera e John si
pentì di
aver desiderato quel gesto, perché ora le sue iridi erano
puntate su di lui,
nonostante la schermata fosse in bianco e nero, e la cosa lo stava
alquanto
agitando. «
Cosa
vuol dire ‘non posso’, John?
»
Lo sapeva bene,
cosa volesse dire, ma voleva che John glielo dicesse. Era testardo,
nonostante
leggesse qualcosa, in quei occhi, qualcosa che era umano e tangibile e
che
graffiava la pelle di John fino a farlo sanguinare. «
Non
posso, Sherlock. Non posso
lasciare ancora la mia vita per te, lasciare tutto quello che sto
cercando di
costruire, per ritornare insieme a te fino a quando non ci
sarà un altro
criminale che ti farà fare cose stupide. Non posso
sacrificarmi ancora, non
posso fare questo, non posso farmi questo. Mi
sono fatto tanto di quel
male che tu non te lo puoi nemmeno immaginare.
Non posso fare finta che sia tutto okay, capisci? Hai bisogno
di…hai bisogno di
stare da solo, ora, tu stesso mi hai detto che vuoi che sia
così. Per
favore…per favore, vattene. Non posso, vattene.
»
Gli occhi di Sherlock erano la peggiore punizione che
potesse avere da chiunque stesse manovrando le loro vite,
c’era tutto, in
quelle iridi, tutto quello che a parole non sarebbe stato capace di
dire.
Tutti
i
sentimenti che stava provando strabordavano dai suoi bulbi e
investivano John
come uno tsunami, facendogli venire la nausea. Sentiva le gambe molli e
si
accorse di avere una lacrima solitaria sullo zigomo solo quando chiuse
gli
occhi e li sentì umidi. Dolore, dolore che non accennava a
scemare, ma che,
anzi, continuava a muoversi impetuoso in lui, così tanto da
farlo morire
dentro, ancora e ancora. «
Io
l’ho
fatto per te.
»
Mormorò Sherlock, non c’era nulla
delle emozioni che sembravano creare ombre lungo tutto il suo viso,
c’era solo
rabbia –la rabbia che muoveva ogni
cosa,
da due mesi. «
Ho
fatto tutto questo per te, ho salvato la tua vita e tu dici che hai la
tua vita
a cui pensare.
»
John non sapeva cosa dire, la gola
così secca da rasentare l’irrealtà. Lo
sapeva cosa stava succedendo a Sherlock,
in quel momento: combattere tutti gli altri sentimenti per far posto
alla
cattiveria, alla furia. «
Addio
John.
»
Lo
vide
sparire come un fulmine, lasciando il buio davanti a John. John che non
riusciva più a reggersi in piedi, John che aveva urlato il
nome di Sherlock
mentre sentiva l’anima in ginocchio, cercando di farlo
restare perché, diavolo,
no che non voleva vederlo in quello stato, nonostante tutto –la persona più umana di
questo mondo ed era
quella la verità. Se n’era andato prima
di mostrare le sue debolezze,
cercando di rimanere forte, cercando di non finire in mille pezzi, come
era
finito John non appena aveva visto il cadavere di Sherlock riverso in
una pozza
di sangue. Rimise la cornetta al proprio posto, prendendo un respiro
profondo e
scacciando quella foschia che gli appannava la vista e lo faceva
barcollare –l’unica volta
che l’aveva fatto era stato
riempito di esplosivo. Era la stessa, medesima, struggente situazione.
Cercò
di calmarsi, si mise a riordinare i pochi libri che aveva portato
dall’appartamento a Baker Street –la
sua
vera casa. Non pensarci, non pensarci.
Si
sentiva come se avesse perso qualcosa di non rimpiazzabile, aveva amato
troppo
quell’uomo e ora aveva perduto tutto –poteva
andare peggio?. Ci aveva provato, John, aveva provato
finché aveva potuto,
era andato anche oltre i suoi limiti, contro la sua
eterosessualità, contro i
suoi principi, contro le malelingue, era andato contro la polizia,
contro al
mondo intero e ciò che gli era rimasto in mano erano
briciole di qualcosa che
non esisteva più. Si sentiva così stanco, ora.
Prosciugato di tutte le energie
che servivano per sopravvivere, ridotto come un’ombra confusa
su un vetro
appannato. Aveva finalmente ottenuto la sua vendetta, fargli provare
almeno un
minimo di quel dolore che aveva sentito lui in quei due mesi, eppure
sentiva di
non aver conquistato niente. Nessuna gloria, nessun amore, nessuna
felicità,
solo il triste capolinea di qualcosa di irrisolto, ma già
perduto –perso qualcosa che non si
poteva
rimpiazzare, l’amore di sempre, il contorno di tutti suoi
giorni, la nitidezza
della sua intera esistenza. Si trascinò fino al
letto, ancora sfatto dalla
nottata precedente.
Provò
a
dare un paio di colpi al cuscino, fece gli angoli al lenzuolo e
provò ad
annullare tutti i pensieri, fallendo. Era lui, era Sherlock, radicato
dentro di
lui dal primo secondo in cui aveva posato gli occhi su di lui.
Bellissimo in
tutto il suo essere speciale. Si mise sotto le coperte ancora vestito,
coprendosi fino al mento e affondando la testa nel cuscino. A
tutti
serviva qualcosa per vincere la notte, fosse anche il più
piccolo spiraglio di
speranza.* John si sentiva così perdente, da restare con gli
occhi sbarrati
contro al soffitto, le parole di Sherlock che affioravano nella sua
mente e
bruciavano tutto. Sherlock, Sherlock, il mio Sherlock.
Scoppiò a piangere, in
un curioso déjà-vu della sua vita dopo
l’incidente in Afghanistan.
I
singhiozzi che gli scuotevano
il petto, Sherlock che appariva chiaro davanti a lui, impresso nella
sua retina
a fuoco. Sherlock con i suoi occhi ghiacciati, Sherlock in un mare di
lava,
qualche momento prima. Sherlock che rideva, Sherlock
sull’orlo di una crisi di
nervi. Sherlock sempre, Sherlock che aveva deciso di lasciare alle sue
spalle,
ma che sapeva, non avrebbe mai avuto il coraggio di dimenticare.
Sherlock.
Sherlock che amava, Sherlock che avrebbe amato fino alla fine dei suoi
giorni.
Si
sentiva invisibile, inadatto,
incompreso. Era il destino di tutti quelli che sentivano troppo. Il
destino di
tutti quelli che amavano troppo. La via obbligata del troppo pensare
era veder
svanire, sotto un velo di incomprensibilità,
quell’ illogico mondo e restare
irrimediabilmente soli.** Solo. Ancora.
Sveglia.
Borbottio. Ciglia
attaccate l’una all’altra. Bagno. Doccia.
Caffè, senza zucchero. Respirare. Far
battere il cuore.
John
si sentiva come un automa
quella mattina, la mano che si muoveva da sola per mischiare il secondo
caffe
della giornata, in ambulatorio. Sarah gliel’aveva gentilmente
offerto vedendo
il suo stato di semi incoscienza in cui era caduto, gli occhi fissi sul
muro di
fronte e il paziente che aspettava la ricetta per le medicine. Era
stanco, non
aveva dormito praticamente niente per tutta la notte, in una continua
lotta con
se stesso, ciò che provava e ciò che non voleva
più provare. Si passò una mano
sugli occhi, cercando di cacciare quella spossatezza che lo rendeva
nervoso e
intrattabile. Non era colpa degli ammalati e nemmeno dei suoi colleghi
se lui
conosceva Sherlock Holmes –era
colpa del
destino e, in buona percentuale, di Mike Stamford.
Buttò
il bicchiere di plastica
nel cestino e si preparò per il prossimo paziente, cercando
di focalizzare
tutta la sua attenzione sul suo posto di lavoro e non altrove –chissà dove, si stava
già facendo ammazzare
da altri criminali? Senza di lui? No, basta. La dottoressa
che anticipava i
pazienti nel suo studio, arrivò tutta trafelata, il camice
sgualcito e lo sguardo
confuso. « Dottor
Watson, c’è un ragazzo che
dice di stare molto male, ha rimesso nelle ultime quarantotto ore e
dice di non
riuscire a reggersi nemmeno in piedi. Lo faccio entrare?
»
John avrebbe voluto rispondergli con una nota
sarcastica –no, lo lasci pure fuori,
a
morire sul pavimento!–, ma si trattenne, facendo un
gesto sbrigativo con la
testa e alzandosi dalla sedia, pronto per sorreggere il nuovo arrivato.
Si
diede dello stupido, più e
più volte, quando il paziente entrò nel suo campo
visivo e riconobbe la figura
accartocciata di Victor –ovvio,
l’arte di
mentire, ingannare e recitare era insidiata in tutti loro.
Strinse le
labbra, arrabbiato, mentre la ragazza sorreggeva Victor per un braccio,
con
l’ansia a trasformarle il volto. John rimase fermo a braccia
conserte, gli
occhi di Victor che si muovevano veloci dal pavimento, al viso
dell’infermiera
fino a lui, con il sottofondo ironico che li caratterizzava sempre.
Si
accasciò sul lettino, privo
di forze, mentre la ragazza gli scostava i capelli, arrossiva e se ne
andava,
sbattendo la porta alle sue spalle. «
Siete
davvero le persone più spregevoli su questa Terra.
»
Proruppe John, ad un tratto, facendo nascere una
sentita risata da parte dell’altro. « Tu non
rispondevi al cellulare e mi evitavi, non mi hai lasciato scelta.
»
Sbuffò, mettendosi finalmente a sedere e
ritornando la persona composta e piena di salute di sempre. « Ho saputo
cos’è successo ieri sera.
»
Come giravano le voci a Londra non succedeva da
nessun’altra parte, pensò, distogliendo lo sguardo
da lui e affondandolo fuori
dalla finestra. « C’è
stato solo un disguido,
tutto risolto. » Victor
alzò un sopracciglio, accigliato. « A quanto ho
capito, non c’è nulla di risolto in
tutta questa faccenda. » « Non sono
affari tuoi.” «
Invece sì. » John stesse
in silenzio, cercando di non fare una
sfuriata in piena regola. Victor scese dal lettino e si
avvicinò a lui, gli
occhi fissi sul suo viso che non volevano farlo respirare.
«
John,
senti, lo so che è difficile. E’ dura,
è Sherlock, è sempre stato così. Io ti
ho tenuto nascosto ciò che era giusto nascondere, ma tu sei
come un fratello
per me, un amico… »
Ritornò a posare gli occhi su di lui, sentendo
quelle parole entrare dentro e riscaldarlo. « Hai
parlato con lui? » Chiese John,
appoggiandosi alla scrivania, seguito
subito da Victor. «
Sì, mi ha mandato un
messaggio e io sono andato da lui. Era sconvolto, anche se faceva finta
di
niente, sembrava crollare a pezzi dietro tutta la sua
immobilità e non ha
spiccicato una parola. Mi aveva detto che sarebbe venuto da
te…ha rovinato
tutto come sempre? »
John
non sapeva più come si
parlasse, immaginando Sherlock nel loro appartamento a Baker Street,
solo come
lo era stato lui solo un mese prima, con un comportamento che rasentava
quello
tenuto a Baskerville. Triste, era in quello stato anche lui. « E’
venuto a parlare con me. »
Incominciò, cercando di mantenere una posa
rilassata e neutra, ma non riuscendoci. Era Victor, era un suo amico,
nonostante tutto, e John era stanco di nascondersi dietro a belle
facciate. « Non
l’ho fatto salire, abbiamo parlato al
citofono. » Victor
sgranò un momento gli occhi, ma non parlò,
cosa che rincuorò enormemente John. « Lui mi
ha chiesto di tornare con lui, nel suo modo contorto, e io gli ho detto
di no.
Non posso, non voglio. E’…troppo presto, ancora.
Doloroso. Lui mi ha detto
addio e se n’è andato.
»
Era stato sintetico,
non aveva voluto veramente dire cos’era successo,
cos’aveva visto dal
videocitofono –la tormenta negli
occhi di
lui che crepava il cuore di John, ancora, ancora e ancora.
«
E
a te
sta bene così? » Chiese
Victor, con una punta di rabbia nella voce.
« Certo
che mi sta bene così! Ti devo forse
ricordare cos’ha fatto? » « Ora deve
solo capire se vuoi continuare a vivere
nei rancori del passato o pensare al presente e al tuo possibile
futuro. Sei
disposto a lasciarlo andare per davvero?
»
Victor
prese in mano il fermacarte dalla scrivania, incominciando a passarselo
da una
mano all’altra, gli occhi che continuavano ad incentrarsi su
di lui.
Certo
che lo voleva lasciare
andare, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare in quei mesi.
Voleva
punirlo, fargli capire come si stava da soli, smarriti e abbandonati.
Voleva
che, finalmente, pronunciasse qualche parola di vero sentimento, tanto
da
convincerlo a ritornare da lui, piano piano.
Ma
era Sherlock e tutti quei
desideri si tramutavano solo in fumo incolore e insapore, riempiendolo
nuovamente di delusione. «
Se sei sicuro di
volerlo lasciare andare, sicuro al cento per cento, allora io non vi
fermerò e
lascerò che ricominciate a vivere separatamente, ma se
c’è anche solo una
piccolissima parte di te che si sta pentendo di non averlo fatto salire
a
parlare con te, se solo c’è una parte che ha
mancanza di Sherlock, allora è mio
dovere di amico fare in modo che ritorniate uniti, insieme. La scelta
è tua,
però. Spetta a te decidere.
»
Victor
rimise a posto il fermacarte, dandogli una solidale pacca sulla spalla
e facendo
per uscire dallo studio. «
E comunque…
»
Disse ad un tratto, aprendo la porta in plastica
lucida e ritornando a guardare John. «
Anche Sherlock
è rimasto in silenzio. » Se ne
andò via,
lasciandolo in un mare di confusione che non gli piaceva per niente.
Cosa aveva
voluto dire con quella frase? Che Sherlock era disposto a riprovarci
un’altra
volta, mister non-mi-piace-nessuno-in-questo-mondo-idiota? Brividi.
L’infermiera ritornò dentro, accompagnando una
madre con la sua bambina di
qualche anno mentre la mente di John era ormai persa, alla deriva di
pensieri
troppo grandi. Lavoro, sei al lavoro, John Watson, riprenditi,
pensò, aprendo
la bocca alla bimba con lunghi riccioli neri. Sherlock. « Respira
profondamente, brava. » Sherlock.
« Stenditi,
ecco, sei bravissima!” Sherlock.
Sherlock. « Ora
prova a tossire un po’ e poi
abbiamo finito, su.
»
Sherlock. Lasciò una carezza
sulla testa della piccola, sorprendentemente silenziosa, e prese la sua
decisione, sperando che quell’idiota non avesse cambiato
numero di cellulare in
tutto quel tempo di lontananza.
Stasera,
nel mio appartamento.
Dobbiamo parlare. JW
Lasciò
il cellulare sulla
scrivania, il peso dal cuore che diminuiva lentamente, lasciando posto
ad un
sorriso appena nervoso. Lanciò un’occhiata
all’orologio fissato al muro mentre
regalava una caramella al gusto di menta alla bimba. La resa dei conti
che,
imperterrita, si avvicinava.
«
Come
va, consulente investigativo? » Chiese
Victor con evidente scherno, guardando Sherlock seduto sul pavimento
dell’appartamento a Baker Street, contornato da fogli e foto.
« Non
ho tempo da perdere con te e le tue stupide
chiacchiere, Victor. Sono impegnato.
»
« Oh,
beh, quindi non vuoi sapere che sono appena
stato da John. » La testa di
Sherlock si alzò di scatto,
intrappolandolo sul posto con le sue iridi chiare. « Infatti,
non mi importa. » « Oddio,
smettetela di fare i bambini! » Sherlock
lasciò perdere, ritornando a fissare un’immagine
zoomata di un braccio.
«
Ha
detto che ha pensato molto a quello che vi siete detti…
»
Provò, cercando di attirare la sua attenzione, ma
Sherlock sembrava ostinato a dimenticare la sua esistenza in quel
luogo. « Insomma,
non sei un minimo curioso di ciò che sta
provando lontano da te? » « Ti
sorprenderà la mia risposta, ma no. Ho chiuso
con…John Watson. E’ anche meglio, visto che ora la
mia concentrazione è tutta
sul lavoro. » Victor
alzò gli occhi al cielo, spazientito.
Se
parlare con John era stato
potenzialmente duro –almeno ad
arrivarci
a parlare con lui, visto che aveva dovuto ricorrere a trucchetti idioti
per
raggiungerlo–, provare ad avere un discorso serio
con Sherlock Holmes senza
arrivare alle mani era quantomeno un’impresa titanica. «
Ha detto che ti vuole bene.
»
Sherlock
si arrestò per un momento, facendo cadere una nuova foto
dalle mani, per poi
riprendersi nuovamente, gli occhi che non accennavano ad alzarsi da
terra.
Eccolo
lì, il punto debole.
Voleva sentirselo dire, voleva che glielo dicesse John
perché ne aveva un
disperato bisogno. Idioti, pensò Victor, sedendosi in mezzo
alle scartoffie di
Sherlock, davanti a lui. «
Ti vuole molto
bene, in realtà. Solo che ora è molto ferito e tu
lo sai bene perché. » « Non mi
trattare
come un bambino perché non lo sono.
»
Sembrava
un bimbo sperduto dopo una particolare sgridata della mamma, con i
riccioli che
gli nascondevano il viso e il borbottio arrabbiato. «
Forse anche lui vorrebbe sapere che gli vuoi bene.
»
Si decise ad alzare il viso verso il suo, una
punta di irritazione nello sguardo. «
Te l’ho
mai detto che non ti sopporto? »
Victor
piegò le labbra in un
accenno di sorriso, sentendo che era la cosa giusta, che Sherlock aveva
capito
che non avrebbe affrontato la realtà nascondendosi dietro
una bugia. « Me
l’hai detto un paio di volte, sì.
»
Anche Sherlock ghignò, ritornando a prestare
attenzione al suo lavoro. Okay, il suo lavoro per quel giorno
l’aveva fatto, si
disse, alzandosi e stirandosi i jeans scuri con le mani –se
esisteva un paradiso, pretendeva il posto d’onore.
Un
lieve rumore lo distrasse
dall’osservare il suo eccentrico e vecchio amico
d’avventure, facendogli
spostare lo sguardo sul tavolino pieno di cartellette aperte.
Rintracciò il
telefono di Sherlock sotto il marasma e sbloccò la
schermata, pieno di positività
per quel nuovo messaggio –sapeva
che la
rubrica di Sherlock era molto scarna e il nome che era apparso gli
faceva
presagire il meglio. Finalmente.
Un
sorriso pieno gli riempì il
viso non notato da Sherlock, mentre leggeva il resoconto stretto che
John aveva
scritto all’altro. Perfetto, stupendo. Alla buon ora,
soprattutto. « Credo
che qualcuno abbia fatto il primo passo.
»
Borbottò, lasciando il cellulare nella sua
postazione originale e dirigendosi verso la porta. Sherlock
mormorò qualcosa,
ma non accennò a distogliere l’attenzione dallo
schema che aveva appena
afferrato. Uscì piano, socchiudendo la porta e restando a
vedere uno Sherlock
che, dopo pochi minuti, afferrava il cellulare e leggeva avidamente
ciò che
John gli aveva scritto. Sorrise insieme a Victor, ancora nascosto,
prima di
poggiare il telefonino tra le sue gambe, la bocca che non accennava a
spegnere
quella manifestazione di gioia, per una volta. Victor si decise a
scendere le
scale, orgoglioso di se stesso. In fondo, gli esseri umani erano tutti
dannatamente, odiosamente e irrimediabilmente sentimentali. E nessuno
faceva
eccezione.
Stava
impazzendo, in quel
maledetto bilocale asettico. Improvvisamente, tutto quello che aveva
reputato
banale e di nessuna importanza aveva incominciato a valere
più di qualunque
altra cosa nella sua vita.
Da
quel tavolino poteva capire
che aveva pianto dopo aver parlato con lui, qualche giorno fa? Dalla
riga sul
parquet poteva arrivare a definire la sua vita inutile fino a quel
giorno? Dio,
Dio, Dio. Non gli aveva dato un orario preciso e si odiava per quello,
sobbalzando ogni volta che qualcuno muoveva qualcosa fuori dalla sua
porta. Non
doveva preoccuparsi, si diceva, sei nella tua area di gioco, sei in
casa tua e
lui partirà svantaggiato per questo, ma sapeva che, invece,
era tutto il
contrario. Oddio, stava per vomitare la cena che non aveva mai
ingerito.
Un
bussare la porta gli fece
rompere il bicchiere che stava pulendo, gli occhi puntati
improvvisamente
all’ingresso come un cervo davanti alla luce. Pericolo, una
dannata paura che
la conversazione degeneri, ritrovandosi nuovamente al punto di
partenza. Cercò
di raggruppare i cocci in un angolo, prima di aprire la porta,
sciogliendo i
muscoli contratti delle spalle con una mano. « Ti
ho spaventato. »
Annunciò, restando fermo nel corridoio del
condominio. « No,
ero solo…sovrappensiero.
»
Mormorò, puntando gli occhi sul suo collo –pessima,
orrenda idea– pur di non
incontrare i suoi. «
Ho preferito arrivare
direttamente qui, in caso avessi cambiato idea e non volessi aprirmi la
porta
d’ingresso. » Oh, oh
sì. John annuì, cercando di riattaccare la
spina del cervello a tutto il resto del corpo. « Entra
pure. » Gli fece
spazio ed entrò, portando alle narici di
John il profumo intenso che aveva sempre contraddistinto la loro casa,
ai tempi
in cui vivevano insieme –e anche
dopo,
c’era sempre stato, nei suoi ricordi.
Sherlock
si fermò in mezzo al
salotto, lo sguardo che vagava da tutte le parti e raccoglieva dati.
Imbarazzante. Tutta quella situazione era imbarazzante, tanto che si
pentì di
non avergli dato appuntamento in un bar o ristorante o qualunque altro
posto popolato
da gente. « Carino.
»
Sussurrò Sherlock, poco convinto. « E’
quello che si ottiene con un lavoro minimo e
una pensione ai limiti dell’umano.
»
Un
silenzio insopportabile scese nella stanza, lasciando John camminare
avanti e
indietro davanti alla porta della sua camera da letto con Sherlock che
lo
inseguiva con lo sguardo, ancora fermo al centro del salotto. « Quindi?
»
« Quindi
cosa? » John ebbe
un déjà-vu –ancora.
La sua vita ormai
sembrava tutta un trito e ritrito di cose già vissute, di
cose che facevano
male. « Se
mi hai fatto venire qui ci
dev’essere un motivo.
»
Sì, sì, era giunto il momento.
O adesso o mai più, John Watson. « Vuoi…vuoi
sederti? »
Mormorò John, indicando il piccolo sofà
lì vicino.
Sherlock non sembrava voler accettare quella proposta, ma lo fece lo
stesso,
aiutandolo a sbollire un po’ di ansia. « Okay,
beh… »
Incominciò, stropicciandosi le mani e mettendosi
davanti a lui.
«
Ecco,
vedi, sono stati dei giorni orribili, per me. Giorni che preferirei non
fossero
mai avvenuti, ma ci sono, sono tra noi e sono reali. Io…io
non so se potrò mai
perdonare ciò che hai fatto.
»
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, a metà tra il confuso e
l’irritato. «
Mi hai fatto venire qui per ribadire ciò che
già
so? Bene, non ce n’era bisogno.
»
Si alzò
dal divano, stringendosi i lembi del cappotto –cosa
ci faceva ancora con il cappotto?– più
vicino al petto. John
si avvicinò di più a lui –pessima,
orrenda, cattivissima idea– e lo ammonì
con gli occhi. « Non
ho finito. Siediti. » Sherlock
sembrava più docile degli altri giorni e
fece come gli era stato chiesto, continuando a tenere gli occhi puntati
su di
lui. « Dicevo,
non credo di poter mai
perdonare il tuo gesto. Hai finto un suicidio, mi hai riempito di bugie
e hai
fatto sì che rimanessi da solo per un mese, non accennando a
farmi sapere che
eri in vita. Se non fosse stato per Victor, non so nemmeno per quanto
tempo
avresti dilungato questa situazione e ciò mi fa paura.
E’ stato duro, no, Dio,
è stato come morire. Tu non c’eri e io non sapevo
più che fare. Questo, questo
non potrò mai dimenticarlo, non potrà mai far
tornare il nostro rapporto come
prima. » Si
fermò per un momento, sentendo il magone fluire
su per la gola.
«
E’
tutto? »
Domandò Sherlock, l’espressione indecifrabile come
sempre. « Dimmelo
tu. » « Non mi
piacciono gli indovinelli. » Rispose
calmo,
fulminandolo con gli occhi. John stava per gettare la spugna, con quel
tipo.
Era tutto frasi dette e non dette che lo lasciavano stordito ogni
volta, lasciandolo
in bilico. « C’è
qualcosa che vorresti dire a
proposito? »
Riprovò John, cercando di fargli sputare fuori quelle
parole che era restio a dire –non
ci
pensava nemmeno a confessare tutto lui, lasciandolo fuori da tutti i
problemi.
Stavolta doveva mettersi in gioco anche lui. Sherlock
restò in silenzio con
gli occhi fissi nei suoi. Parlami, parlami, ti prego. «
Sono venuto da te e tu mi hai respinto, non ho
più nient’altro da
aggiungere. » John
sbattè la mano sul muro contro il quale si
era appoggiato poco prima. «
Smettila di fare
così! Non sei la vittima della situazione!
»
« Ho
già ripetuto le mie motivazioni, non so cosa tu
voglia sentirti dire!
»
Sbottò anche lui, alzandosi
dal divano. « Forse
se tu la smettessi di
fissarmi dal tuo stupido piedistallo e mi guardassi davvero in faccia,
capiresti
ciò che voglio sentirmi dire!
»
« Hai
detto che non volevi più vedermi.
»
« Ero
arrabbiato! » « Ora non lo
sei
più? » John
aprì e chiuse la bocca, cercando le parole
adatte con cui rispondergli. Sherlock si era fatto più
vicino, nella foga di
quel discorso, e ora guardarlo negli occhi gli creava non poca
difficoltà. «
Potresti smetterla di far finta che non
t’importi? »
Mormorò John, stanco di quel continuo litigare che
lo tormentava ogni volta che incontrava Sherlock. « Devi
dirmi quello che vuoi, Sherlock. Devi dirmi se hai bisogno di me o se
preferisci restare tu e il tuo lavoro. Devi dirmi se
t’importa veramente di me
o è solo per avere al tuo fianco un leccapiedi che ti
farà tutti i complimenti
che il tuo ego desidera. Devi dirmi la verità
perché me lo devi. Mi devi tutto,
Sherlock. »
Sherlock
abbassò le palpebre e
le strizzò con forza, insieme ai pugni. « Che
cosa vuoi sapere? » « Perché
mi hai
respinto, perché te ne sei andato quando io avevo bisogno di
te. » « Potevi
morire e
la pista era troppo flebile per farla svanire da uno stupido errore.
Dovevi
stare lontano perché dovevo rimanere nascosto. E’
stato l’unico modo. » Lo sapeva che
si stava sforzando e lo apprezzava
davvero.
Era
stupendo, con la testa un
po’ abbassata e i capelli vaporosi, come una nuvola. Era
fantastico anche con
il cappotto dopo tutto quel tempo chiuso nel suo appartamento.
Magnifico mentre
cercava di andare contro la sua natura, per John. « Volevo
starti vicino. » Disse John,
frenando l’impulso di allungare la
mano verso il suo viso scurito dalla vergogna per tutte quelle emozioni
che
andavano fuori dal DNA che si era imposto. « Devi
per forza pensare al passato, John?
»
Sbuffò
stizzito, Sherlock, stringendo forte i denti. « O
mi perdoni o lasciamo perdere, non esiste una terza opzione.
»
Abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un
caldo soffocante nel suo maglione a righe bianche e nere. Avrebbe
voluto
rispondergli scortesemente –non
mostrarti
troppo preso da come andrà a finire la nostra amicizia, mi
raccomando!–, ma
la voce sembrava averlo abbandonato, seccandogli la lingua. « Il problema
non sta nel cosa voglio io, Sherlock!
»
Riuscì a mormorare, spazientito. « Tutto sta
nel cosa vuoi tu. Non posso giocare da
solo, non questa volta. » « Non ti
farò una dichiarazione romantica, non
pensarci nemmeno. » John
sbuffò, facendo un passo indietro e facendo
distanziare i loro corpi. «
Non è questo che
ti sto chiedendo. » Sbotta di
nuovo John, cercando di non fantasticare
in quali momenti gli avrebbe potuto fare una dichiarazione romantica –letto e Sherlock nella stessa frase non
erano proprio il miglior modo per restare concentrati. « Vorrei
che…vorrei che potessi avere ancora un
coinquilino su cui fare affidamento.
»
Ammise,
distogliendo lo sguardo dal suo. «
Non so se
mi basta. » « Te
l’ho detto,
nessuna dichiarazione romantica uscirà dalla mia bocca.
»
« No,
non in quel
senso. Non so se mi basta essere solo un coinquilino, per te.
»
John si morse la lingua, imbarazzato.
Era
stato azzardato, stavano
giusto per riequilibrare le cose e lui aveva alzato nuovamente un altro
polverone, confondendo tutto. Idiota. Stupido idiota. Sherlock
aggrottò le
sopracciglia, prima di dipanare le rughe della fronte in una
espressione sconfitta.
« Sì,
va bene, non solo come coinquilino, lo
sai. » A John
balzò il cuore in gola, sorpreso dalla
ventata di avvenenza che Sherlock stava sfoggiando con così
tanta calma. Era
giunto forse il momento? «
Lo sai che siamo
anche…legati in una relazione di amicizia reciproca a tempo
indeterminato. » Detta
così sembrava tanto un punto di accordo in
un qualsiasi contratto –cinico come
il
peggiore degli scienziati. John non riuscì a
trattenere un gemito di
delusione alle parole di Sherlock –amicizia?
Solo amicizia? Perché amicizia?.
«
Ho
detto qualcosa che non va? Insomma, sai cosa volevo dire!
»
« No,
è tutto
okay. »
Provò a dire, cercando di non far trasparire
nessun segno sul suo corpo, in modo da non far dedurre a Sherlock il
suo stato
d’animo. Inutilmente. «
Non ti stavi riferendo
all’amicizia, non è così?
»
« No,
senti, lascia stare. Va bene, essere amici, va
bene. Possiamo provarci di nuovo, sì.
»
John si sentiva
così in imbarazzo da voler
affondare nel pavimento e non tornare a galla mai più.
Sherlock, ora, sembrava
aver preso coscienza del segreto più importante del mondo –oddio, doveva scappare da lì,
subito, immediatamente. «
Dovremmo….dovresti, insomma, andare a casa.
E’
tardi, è buio, continueremo il discorso domani, okay?
»
Avrebbe voluto potersi dividere in due persone per
poter vedere la faccia di assoluta idiozia che stava sfoggiando in quel
momento, sotto la radiografia di Sherlock che non accennava a muoversi.
« John…
»
C’era per
forza bisogno di parlare?, si chiese frustato, passandosi la mano tra i
capelli
e osservando la porta d’ingresso con particolare interesse. « John, lo sai
cosa penso riguardo queste cose…
»
Sembrava incerto, come se stesse camminando su una
sottile lastra di ghiaccio pronta a spezzarsi al minimo movimento brusco.
«
No, non ti stavo chiedendo…no. » Provò
a negare, scuotendo la testa energicamente e muovendo con enfasi le
braccia.
Dannazione,
dannazione,
dannazione. Dannazione a lui e alla sua boccaccia e dannazione anche a
Sherlock, che continuava a far finta che niente e nessuno intaccasse la
sua
personale bolla di cinica solidità. Sherlock
scrollò le spalle, raddrizzando
appena la schiena. «
Okay, bene. » La patina di
imbarazzo che sembrava essersi
dissolta solo pochi minuti prima ora era ritornata compatta tra di
loro, come
un muro invisibile che li faceva rimanere su isole diverse. John si
ritrovò,
per la prima, senza parole da dirgli. Provava una strana sensazione,
qualcosa
come una mano trasparente che schiacciava il cuore in una stretta
letale,
impedendogli di mentire come aveva sempre fatto da quando
l’aveva conosciuto.
Si ritrovò immobilizzato e stanco, mentre Sherlock si
avvicinava alla porta di
casa e si sistemava ancora una volta il cappotto.
Si
sentì stufo, incredibilmente
irritato nel dover continuare a dire bugie e nascondersi e far tacere i
suoi
sentimenti solo per paura, paura che niente potesse migliore e tutto
potesse,
miseramente, peggiorare. Inutile era stato tenere al riparo dai tempi
il
germoglio di qualcosa che sbocciava prepotente dentro di lui, inutile
scalciare
e smentire le insinuazioni della gente, nella vana speranza di far
smettere di
crescere anche ai suoi, di pensieri.
Quello
che provava per Sherlock
–amore, amore, più di
amore, era sempre
più di tutto, quando c’era lui di mezzo–
era mutato senza freno, da una
salda fiducia all’amicizia più pura, fino a
diventare altro –altro di
sbagliato. Scorretto. Così tanto
ingiusto?–, un ridimensionamento di se stesso che
cercava di scacciare via
con tutte le sue forze. Era arrivato al punto di non ritorno, non
voleva più
lasciare tutto al caso, non ora che aveva davvero rischiato di perderlo
per
sempre. « Quindi,
ti aspetto a Baker Street
domani pomeriggio. Lestrade mi ha lasciato il primo caso, smettendola
di farmi
il broncio ogni volta che lo incrociavo. Potresti anche smetterla di
pagare per
questo posto orrendo e ritornare lì, se ne hai voglia. Non
che io ne abbia,
ovviamente. »
Mormorò alla fine, borbottando più con se stesso
che con John.
Sherlock
aprì la porta e le
parole uscirono dalla bocca prima ancora che potesse pensare a cosa
dire. Prima
ancora di respirare. «
Io ti odio. » Un fiotto di
aria calda, una frase così
impercettibile che quasi sembrò che John non
l’avesse pronunciata, in un
imperturbabile silenzio che, invece, diceva tutto il contrario.
Sherlock rimase
fermo lì, una mano sulla maniglia, la porta socchiusa che
gli faceva smuovere
dolcemente i capelli, e le spalle irrigidite. Tutto sembrava morto, ma
John
sentiva di dover andare avanti o non l’avrebbe fatto mai
più. Dirgli tutto e
dirglielo subito o sarebbe marcito nel pentimento di un sentimento. « Mi hai
lasciato da solo, uno stupido che credeva
in un uomo, un bugiardo. » John si
fermò un momento, riempì i polmoni
d’aria e si sforzò di non far tremare le
mani –tutto, tutto, tutto o niente,
niente più mezze misure.
«
Mi
sono
fidato di te, fidato quando nessuno era stato in grado di farmi provare
un
minimo di amicizia, dopo il congedo in Afghanistan. Te ne sei andato
nel
peggiore dei modi. E’ questo, questo che odio.
»
« Pensavo
avessimo chiarito, John. »
Sbottò, stizzito, girandosi verso di lui e John
notò la durezza dei suoi lineamenti. « Non
c’era davvero bisogno che mi ricordassi ciò che ho
fatto perché me lo ricordo
bene anche io, ma grazie per lo spunto.
»
Prima che
John potesse dire qualcosa per fermarlo –non
capiva mai niente, quell’idiota, e non gli faceva mai finire
un discorso senza
che lui ne deducesse il finale. Sbagliando. Odiava anche quello–,
Sherlock
aveva già sbattuto la porta alle sue spalle, lasciandolo da
solo nella stanza.
No, no, no, non ancora. «
Sherlock? Sherlock! » John gli
corse dietro, trovandolo a metà scalinata
e afferrandolo per il cappotto. «
Ehi, aspetta,
non hai capito niente! » Sherlock si
girò verso
di lui e gli lanciò un’occhiata di fuoco,
strattonando il braccio con cui aveva
stoppato la sua fuga. «
Io capisco sempre tutto,
se te lo fossi dimenticato. »
«
Quindi
hai capito anche che non ti odio realmente? Hai capito che, quello che
volevo
dire, è che vorrei odiarti, vorrei odiarti per tutte queste
cose che mi fanno
uscire fuori di testa, ma tu sei tu e io…io non sono
più io, quando si parla di
te. Non mi hai fatto scegliere, se avessi potuto, per
l’ennesima volta, avrei
scelto te. Il problema sta nel fatto che sceglierei te anche ora.
»
Sherlock dipanò piano le rughe in mezzo alle
sopracciglia, gli occhi che si fondevano insieme a quelli di John,
spezzando un
legame e creandone un altro. «
Dopo tutto
quello che mi hai fatto, volevo davvero non perdonarti, stare lontano
da te e
fare una vita normale. Ti sei finto morto e io questo non riuscivo ad
accettarlo. Ma tu sei qui e sei Sherlock e non posso, davvero, non
posso
pensare al fatto che tu sia vivo ma lontano da me.
»
John si sentiva come una stupida ragazzina di quei
film romantici e adolescenziali che aveva evitato come la peste per
tutta la
vita. Un allarme continuava a lampeggiargli in testa, urlandogli che
era uno
stupido idiota ad essersi esposto così tanto, scoprendo il
suo tallone
d’Achille.
Poteva
sentire le valvole del
cervello di Sherlock muoversi veloci, alla ricerca del giusto senso per
quelle
parole. « Non
ti stavi riferendo all’amicizia,
prima. E’ così.
»
Disse dopo un momento interminabile, salendo uno
scalino e arrivando vicinissimo a John. Il dottore si sentiva fremere
ogni
muscolo del corpo, guardando Sherlock da un po’
più in alto rispetto al solito,
ringraziando mentalmente le scale che gli davano un vantaggio in
altezza. John
non rispose, preso com’era a trovare il coraggio di fare
ciò che andava fatto,
ciò che voleva fare da mesi, sentendo i loro sguardi farsi
carne e unirli in un
abbraccio che non si sarebbero dati di nuovo –respira,
respira, non andare in iperventilazione!. John
chiuse gli occhi, chiuse le mani a pugno
lungo i fianchi e recluse tutti i pensieri in fondo alla sua testa,
premendo le
labbra contro quelle secche di Sherlock. Durò giusto un paio
di secondi, il
momento di assaporarne la consistenza, per poi ragionare sul gesto
completamente sconsiderato che aveva commesso, facendolo staccare in
fretta e
sgranare gli occhi, pronto per la risposta di Sherlock. Sherlock che
stava
immobile. Sherlock che non parlava, non muoveva nessun muscolo e lo
fissava.
Sherlock che, John temeva, non respirava nemmeno. « Non…è
che, non…io, solo…
»
Si sarebbe picchiato, se non si fosse trovato in
quella situazione. L’aveva spaventato –l’aveva
spaventato? Dio, sperava di no. « Sherlock,
credimi, non ho nessuna intenzione di chiederti cose che
non…va bene, essere amici.
Non so cosa mi sia preso. » « Facciamo
finta che non sia successo niente, okay?
»
Chiese Sherlock, mordendosi il labbro inferiore.
John sentì il cuore spezzarsi, ma annuì
solamente, risoluto. Andava bene, non
aveva nulla del quale rimproverarsi; ci aveva provato, almeno. « Va bene, va
benissimo. » John fece per
risalire, quando la mano bianca di
Sherlock si posò dietro al suo collo e le sue labbra
tornarono sopra le sue.
Rimase sbalordito per un po’, finchè non si rese
conto che Sherlock lo stava
baciando –Dio santissimo, Dio
santissimo–
e che quel miracolo stava accadendo a lui. Premette più
forte la bocca contro
la sua, poggiandogli le braccia sulle spalle e accarezzandogli i
capelli.
Bello, bellissimo, perfetto. Incredibile come avesse passato la sua
vita
cercando di nascondere i suoi sentimenti dietro un muro di spavalderia,
orgoglio e testardaggine, per poi ridursi tutto in un istante. Rimasero
lì per
un tempo indefinito, con Sherlock che brontolava per ogni cosa –John, John, ahia, mi stai tirando i
capelli! John, smettila di mordermi il labbro! John, scendi da questo
scalino,
è noioso!– e John che sorrideva e lo
continuava a baciare, impertinente.
Tutto, in quell’unico attimo.
«
Ehi,
Victor, come stai? » « John! Ho
sentito che qualcuno ha pomiciato sulle
scale di un condominio! » John
arrossì di botto, orgoglioso del fatto che
l’altro non potesse vederlo. Si
premette il cellulare contro l’orecchio, finendo di mettere a
posto le sue
poche cose nei cartoni scuri. «
Spero non te
l’abbia detto Sherlock! » « No, me
l’ha detto Mycroft, insomma, un minimo di
pudore! » Lo sentiva
ridere come non mai e la cosa lo
infastidiva e divertiva allo stesso tempo. « Stai
tornando a Baker Street, allora? » « Sì,
è
giusto così, dopotutto. » « Pensi che
potremmo…rivederci? »
Borbottò Victor, improvvisamente serio. « Ovviamente,
Sherlock non vede l’ora che io abbia
qualche altro amico per il quale essere irritantemente geloso.
»
« L’irritante
consulente investigativo, che Dio ce ne scampi!
»
John rise, sentendo bussare alla porta del suo
appartamento, prima di veder comparire Sherlock. « John,
hai finito? Non devi portare dietro anche la polvere di questo posto
immondo. » « John, ti
lascio
al tuo sfortunato destino! Ci sentiamo più tardi.
»
John fece per terminare la chiamata quando sentì la
voce di Victor richiamarlo. «
Sono davvero
felice per voi, volevo dirtelo.” « Grazie per
tutto quanto, Victor.
»
« Dai,
John! Dai! Noia! »
Girò per l’appartamento come se fosse in gabbia,
prima di riuscire dalla porta d’ingresso. John si
sistemò il cellulare nella
tasca dei jeans, prendendo i due cartoni pieni di roba –non
sia mai che Sherlock lo aiuti a fare qualcosa di così poco
interessante come aiutarlo in qualcosa– e
dirigendosi verso l’uscita. Si
guardò per l’ultima volta indietro, in quella casa
che non era mai stata
veramente sua. Così triste, così solo. Un periodo
buio, un periodo che non si
sarebbe mai scordato, ma che aveva bisogno di essere riposto nello
scaffale dei
vecchi ricordi dolorosi. «
John! »
Chiamò una voce petulante dal vano delle scale. « Arrivo!
»
Era ora
di andare a vivere con Sherlock, di nuovo, in un modo tutto diverso. Lo
stesso
Sherlock, come lo sarebbe sempre stato, ma con
quell’aggettivo possessivo –suo–
che rendeva l’emozione forte e
viva come se fosse la prima volta. «
John, sto
per andarmene! » Chiuse la
porta di casa e tirò un sospiro di
sollievo, sentendo il peso di mesi crollare via. Chi restava non lo
diceva, si
soffermava suoi tuoi occhi e con gli occhi te lo gridava, con tutto
l’amore che
aveva dentro. Chi restava non voltava il viso lontano dal tuo. E alla
fine, ciò
che a John importava, era che Sherlock fosse tornato per
restare. Insieme.
Note:
*
Citazione
di Mary
Alice Young
**
Citazione di Anton Vanligt
Questa
storia è
finalmente giunta al termine. Ha visto luce come una one-shot, passando
per una
mini-long di due capitoli, di tre, fino ad arrivare a credere che non
potesse
finire mai. Ma è finita e sono veramente contenta di come io
abbia saputo
gestire qualcosa di diverso.
Un grazie particolare va a Claudia che è stata la portatrice
di quell’incentivo
giusto che mi serviva per partire, a Sabrina, Natasa, Jessie, Cristina,
Monica,
Glass, Greta, Caroline e tutte le altre bellissime ragazze che ho
conosciuto,
che sono state il supporto per il mio ego e per me stessa. Spero che
questo
capitolo non deluda nessuna aspettativa. Un abbraccio con affetto ad
ognuna
delle mie lettrici.
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