I wish you were here or I were there or we were together anywhere

di AntheaMalec
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Here we are again! Una mini-mini-stramini-long di due capitoli, venuta in mente dallo splendido tumblr che mi ha fatto conoscere Claudia (Iloveyou) e di cui mi sono malvagiamente appropriata (qui e qui). Grazie a Chiara, perché sei bravissima e bellissima e mi riempi sempre di complimenti che non mi merito e a Jessie, perché sei troppo gentile per essere vera <3 Perfect human being! Quindi, sperando che qualcuno se la fili (?), vi auguro buona lettura!
P.S.: Il raiting potrebbe variare nel secondo e ultimo capitolo.

 
 
 
 
 
I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
 
 
Pretend I'm okay with it all
Act like there's nothing wrong
Is it over yet?
Can I open my eyes?
Is this as hard as it gets?
Is this what it feels like to really cry?
Cry!
 
Kelly Clarkson
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ironico, assurdamente e tristemente ironico. John continuò a guardare il giovane che era entrato nel suo –loro? No, solo suo– appartamento poco tempo prima. Si guardava intorno, analizzando con lo sguardo gli scatoloni poggiati alla rinfusa sul pavimento, ricolmi di oggetti. Conosceva bene il rumore di una catastrofe: lento, pesante e di malaugurio. Da quando aveva visto Sherlock buttarsi giù dal tetto dell’ospedale lo aveva seguito costantemente, come un’ombra. Anche ora riusciva a sentirlo, guardando negli occhi quel Victor.
« Mi dispiace per la tua perdita, John. »  Come diavolo faceva a sapere il suo nome? Come diavolo poteva, Sherlock Holmes, riuscire a ferirlo anche sotto metri di terra da neanche un mese? Aveva pensato di essere speciale –di essere unico, di valere qualcosa– eppure gli aveva nascosto che c’era stato qualcun’altro prima di John. Qualcuno che era stato suo amico –io non ho amici, aveva detto. Bugiardo, bugiardo.  « Quindi tu… »   Incominciò John, appoggiando il gomito sul bracciolo della poltrona e tenendosi la testa con una mano. « Tu, Victor, saresti stato un amico di Sherlock? »   Victor sembrava impacciato, con gli occhi che non stavano mai fermi e le dita che vagavano tra i riccioli corti –anche lui! Era una fissazione!.
« Sì, lo ero molti anni fa, poi abbiamo perso i contatti per…un certo periodo di tempo, diciamo. »   John abbassò lo sguardo, gli occhi lucidi che non accennavano a smettere di bruciare. Aveva quell’incredibile e al tempo stesso orrenda sensazione di stare affogando nel nulla eppure riusciva ad avere la nausea di tutto. Del divano saturo di ricordi e della cucina che prima era stata protagonista di sentimenti ed ora era protagonista solo del lento frantumarsi di uno solo degli inquilini che prima vi abitavano. Perché l’altro si era già frantumato, sopra ad un marciapiede, raccontandogli bugie su bugie prima di commettere suicidio –bugiardo, bugiardo. « Sei stato il primo, quindi? »   Non aveva avuto l’intenzione di dirlo, ne era sicuro, ma le parole erano uscite di bocca senza controllo e ora a John non rimaneva altro che fissare quel ragazzo più giovane di lui, che gli riservava uno sguardo carico di scuse e pena che lui non sentiva e non capiva.
Cosa c’era da scusarsi? Non era stato lui a lasciarlo da solo. John aveva sempre avuto lo strano istinto di aggrapparsi al pugnale che lo trafiggeva. Ironico, anche quello.
« Già… »   John rimase in silenzio, non sapendo neanche da dove partire per rompere quello strato di ghiaccio e imbarazzo che si stava creando in quella stanza. Aveva imparato a sopravvivere al caldo impossibile dell’Afghanistan, quindi il freddo, ora, gli andava più che bene –era l’unica cosa che gli era rimasta. « John, per caso tu hai qualche idea su come…sul perché Sherlock abbia fatto ciò che ha fatto? »   Se fosse stato in sé, John avrebbe accennato un sorriso di ringraziamento per tutto il tatto che quel ragazzo gli stava mostrando, ma ora lo trovava solamente irritante, una mortale spina nel fianco. Era una morte continua, parlarne.  Le parole di Sherlock continuavano ad affiorare sul suo corpo come lame che non sapevano accarezzare, che raschiavano tutto il viso, che non si fermavano e tornavano sempre indietro. « No, probabilmente è stato tutto uno stupido piano calcolato male. Strano, perché a quanto pareva lui era l’intelligentone di turno. Lo saprai meglio di me, immagino. »   
Acido, brusco e maleducato, eppure non se ne pentiva neanche un po’. Gli era stata tolta la compagnia e ora anche la solitudine; tutta quella commiserazione non sarebbe servita a nient’altro che a infastidirlo. Gli era stata tolta anche l’illusione di essere stato importante. Gli era stato tolto tutto dalle mani piene e insaziabili. Victor tamburellò sulla stoffa del divano sul quale era seduto, l’attenzione improvvisamente rivolta al violino. Sherlock aveva mai suonato per lui? Probabilmente sì, si disse. Probabilmente lui aveva già visto tutto quello che John aveva dovuto faticare per conquistare, magari anche molto di più. « Era di…? »   Aggiunse subito dopo, fermandosi prima di pronunciare quel nome. Lo facevano tutti, da quando era morto. « Era di Sherlock, sì. Puoi dire il suo nome, non sono un bambino, l’ho accettato. »   Non era vero e John poteva intuire che anche Victor aveva compreso quella verità. Non lo aveva accettato e quel nome sarebbe sempre stato un tabù per tutti coloro che gli giravano intorno e per lui stesso.
« Era alle prime armi quando ci frequentavamo, azzeccava sì e no qualche nota. Sbagliava e si arrabbiava, mettendo il broncio a tutti quanti. »   Victor sorrise a labbra aperte e John non se la sentì di fermare quel fiume di parole –non piangere, eri un soldato, controllati.
« Credo che se potesse essere in questa stanza, John, non vorrebbe che tu fossi così… »  Abbattuto, ferito, umiliato, deluso, incattivito, arrabbiato? John poteva servirgli tutti gli aggettivi che voleva su un lucido piatto d’argento e non se ne sarebbe pentito. « Già, ma lui non c’è e per una volta non c’è nessuno che deduce cosa ho fatto e come mi sento dal risvolto delle pieghe della mia camicia. »   Victor annuì, alzandosi dalla sua postazione e stirandosi i jeans con le mani. Si diresse piano verso John e gli diede una veloce, ma soffice pacca sulla spalla, come un balsamo, che lo fece stare un po’ meglio.
« Per qualunque cosa, qualsiasi problema, puoi chiamarmi. Non preoccuparti né per l’ora né per il disturbo, sarà un piacere fare due chiacchiere. »   John si rimise in piedi, la gamba che gli dava un leggero formicolio da giorni, ma che lasciò perdere. Sorrise sinceramente, per la prima volta dopo l’incidente, a quel giovane ragazzo che gli stava regalando del vero e sincero conforto, pur non conoscendolo nemmeno. « Grazie mille, lo farò. »   Victor gli lasciò il suo numero e se ne andò svelto dall’appartamento, adducendo a un impegno urgentissimo che non poteva assolutamente posticipare. John rimase fermo in mezzo alla stanza, rigirandosi tra le mani il pezzettino di carta lasciato da Victor e posizionandolo sopra al tavolino vuoto.
Non si sa mai, si disse, prima di andare a prepararsi del tè.
 
 
Victor intrecciò le mani dietro la schiena, la spalla che poggiava allo stipite della porta d’entrata e lo sguardo fisso sull’altro. « Com’era? » Chiese quest’ultimo, seduto sulla poltrona come lo era stato poco prima John –incredibile quanto fossero diversi eppure così simili. « Sta bene, è solo un po’ frastornato. » Nel tragitto per arrivare al monolocale in cui era stato rinchiuso Sherlock, aveva pensato al modo migliore per non far preoccupare il suo vecchio amico ed aveva optato per una bugia bianca, qualcosa che non avrebbe ferito nessuno –tranne John, che gli era sembrato un cucciolo abbandonato sotto la pioggia.
« Non mentirmi, Victor, lo sai che non funziona con me. » Due occhi azzurri lo puntarono, facendogli perdere la facciata composta e sicura e avvicinandolo a lui. « Sherlock, non credo che… »  « Voglio saperlo. Dimmelo. »  Sherlock si mise nella solita posa che usava anche anni addietro, le mani intrecciate che sfioravano mento e labbra, in un’ impaziente attesa. Victor si sistemò davanti a lui, le sopracciglia aggrottate e i denti che mordevano l’interno guancia. « Ha il cuore spezzato, Sherlock. »   
Sherlock ebbe un momento di esitazione, come un battito di ciglia, mentre abbassava lo sguardo e socchiudeva le palpebre, in un intimo gesto di sconforto che fece angustiare Victor. « Ma ho fatto ciò che mi hai detto, gli ho dato il mio numero per qualunque necessità e sembrava veramente sollevato. »  Si sedette davanti a Sherlock, il busto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, in un gesto di simbolica vicinanza. « Bene, tienimi aggiornato se ci sono ulteriori sviluppi. »  Sherlock chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro, poggiandola contro la poltrona. Victor rimase immobile, nel silenzio cupo della stanza in penombra. « Puoi andare, Victor, ciò che ho detto prima era un congedo. »  « Sai che ti conosco più di quanto tu voglia ammettere, Sherlock. »  Il detective sbuffò, tamburellò con le dita sul bracciolo della poltrona e si alzò di scatto, in preda ad una crisi nervosa. « Se Mycroft avesse seguito il mio piano al posto di fare con la sua testa, a quest’ora avrei potuto accertarmi da solo della vita al di fuori di questo appartamento! » Della vita di John, avrebbe voluto dire, ma Victor non se la sentì di precisarglielo. Guardò l’orologio, notando che l’ora di cena era passata da un pezzo e che il suo stomaco stava incominciando a risentirne, dopo tutti quegli spostamenti e sensazioni. Un vibrare nella sua tasca lo distolse dalla camminata in circolo di Sherlock, chiuso come un topo nella gabbia. Il numero sconosciuto lo fece stranire. « Chi è? »  Chiese Sherlock ad un certo punto, fermando la sua maratona e fissandolo dall’alto. Victor aprì il messaggio, le poche parole scritte sullo schermo del telefono lo fecero sobbalzare.

Ho bisogno di qualcuno con cui parlare, subito. Per favore. JW

 
Prima che Victor avesse il tempo di poter comunicare la notizia a Sherlock, questo gli aveva già strappato dalle mani il cellulare, leggendo avidamente e rimanendo nella sua piccola bolla di impassibilità. « Sherlock…  »  Sherlock gli fece cenno di fare silenzio, prima di incominciare a digitare la risposta al messaggio, le dita che si inseguivano veloci e gli occhi che sembravano non volersi staccare da quel telefono. Si sedette nuovamente sulla poltrona, in attesa. « Posso sapere cosa gli hai scritto? » Sherlock lo fulminò con un’occhiataccia, prima di sospirare e ridargli il suo telefonino. Andò nella cartella dei messaggi inviati e aprì l’ultimo. Diceva: ‘Scusa, sono impegnato. Parliamo per messaggio. C’è qualcosa che non va?’ e a Victor nacque un sorriso intenerito per tutta quella preoccupazione non da lui –o meglio, da chi voleva sembrare. Un’altra vibrazione, Sherlock che si spostava dalla poltrona e si sedeva accanto a lui, cosa che fece ricordare a Victor i tempi passati, quando erano ancora due giovani in cerca dell’impossibile.
 
E’ solo che…la sera mi frega sempre. Mi manca. Tanto. Da impazzire. JW
 
Non c’era bisogno di mettere un soggetto a quella frase, sapevano benissimo tutti e tre a chi era riferita quella confessione di debolezza. Victor si girò immediatamente verso Sherlock, quella lieve inclinazione nello sguardo gli fece allungare la mano verso il suo ginocchio, in una presa fievole, ma presente. « Ha imparato anche lui a firmarsi. » Disse dopo un po’, lo sguardo incollato alle lettere nere che risaltavano sullo sfondo bianco. Sembrava quasi volersi amalgamare con esso per poter avvicinarsi a chi stava dietro ad un altro schermo, al 221B di Baker Street. Victor gli passò il cellulare, in attesa che scrivesse lui una risposta adeguata a John.
 
E’ morto, John. Non puoi fare altro che andare avanti con la tua vita e lasciarlo andare. E’ solo un periodo, passerà, fatti forza.
 
« Sherlock! » Il suddetto si girò verso di lui, mentre premeva invio con il pollice della mano destra. « Che c’è? »  « E’ così che pensi di risollevargli il morale? Dicendogli di andare avanti? » Victor riprese possesso del suo cellulare, rivolgendogli un’occhiata stizzita. « E’ l’unico modo che conosco. » Stava quasi per rispondergli per le rime –era abituato a quegli inutili comportamenti, già radicati in lui da quando era un neonato, probabilmente– quando il telefono vibrò di nuovo e la concentrazione dei due si focalizzò su quello.
 
Se n’è andato, lontano da me e il solo pensiero che lui non ci sia più, che si sia suicidato di sua spontanea volontà e che io, nonostante tutto e nonostante la rabbia, creda ancora in lui,  mi fa capire che non sarà mai solo un periodo. E’ tutto così triste che sento il dolore alla gamba, accertato come psicosomatico, riaccendersi ogni giorno di più. JW
 
« Chiamalo. » « Cosa? »  Victor lo guardò come se fosse impazzito, lo sguardo che spaziava dai suoi occhi alla stanza tutt’intorno. « Tuo fratello non aveva detto di mantenere la segretezza fino a nuovo ordine? »  Sherlock storse la bocca in un’espressione stizzita. « Innanzitutto, io non seguo nessun ordine, tantomeno da Mycroft, e poi non dovrò parlarci io, ma tu. »  « Io? Sherlock non so cosa tu abbia in mente, ma sarà una pessima idea. » 
« Chiamalo e metti il vivavoce, dai. »  Victor lo fissò, imbronciato, prima di sbuffare e schiacciare il pulsante verde di chiamata.
Tanto, lo sapeva, si sarebbe sempre fatto come voleva Sherlock Holmes.
 
 
Era rinchiuso in una prigione di coperte scomode, il materasso che gli sembrava a tratti troppo duro a tratti troppo cedevole, il buio troppo soffocante, la sveglia sul comodino che emanava troppa luce, il silenzio che trapanava i timpani e lasciava il vuoto tutto intorno e dentro John. Il cellulare ben stretto tra le mani, gli occhi socchiusi per cercare di vedere la schermata nonostante la troppa luminosità.
Quando si accorse che Victor lo stava chiamando –chiamando? Oh Dio, doveva sembrare proprio messo male, allora– schiacciò il tasto verde, sentendo improvvisamente il fiato venire meno. « John? »  Aprì la bocca ma non uscì alcun suono, cercò di tirarsi su, in posizione eretta –si sentiva come uno schifosissimo bruco.
« John? Ci sei? John, stai bene? »  La voce di Victor stava diventando sempre più acuta e agitata. Sentì degli spostamenti dall’altra parte della cornetta e Victor che sussurrava a voce bassissima cose che non riusciva a comprendere.
« Victor? »  Riuscì a dire, tornando ad usare le proprie corde vocali. « Ehi, John, ci hai fatto spaventare! »  « Oh…c’è qualcuno lì con te? »  Chiese John, confuso. « Eh? Cosa? Oh, no! Volevo dire mi, mi hai fatto spaventare. Ahia! »  John rise, sentendo la sensazione di oppressione sparire piano piano dal petto. « Ma che cosa stai facendo? »  « Sono solo andato a sbattere contro la poltrona, una sciocchezza. »  John annuì, anche se sapeva che Victor non avrebbe potuto vederlo. « Allora, raccontami tutto. » 
« Te l’ho già detto, è che la notte riesce a togliermi tutte le difese. »  « Sfogati, sono qui per ascoltarti, anche io sto passando parte di ciò che provi tu. »  John si tolse il cuscino da dietro la schiena e lo strinse forte con il braccio destro, premendoselo contro la pancia. « E’ come se una parte di me non si sia ancora arresa al fatto che lui, beh, sia morto. Una parte del mio cuore è come se fosse sospesa, come se…fosse in attesa di quel qualcosa che eravamo io e lui. »  Ci fu qualche momento di silenzio, con qualcosa che sembrava il ronzio di un’ape in sottofondo. « Victor, sei ancora lì? »  « Sì, sì eccomi, stavo solo pensando. »  « Sicuro che non ti sto disturbando? Ho sentito… »  « Cosa hai sentito? »  Mormorò Victor, in un modo che fece insospettire ancora di più John –il tempo con Sherlock non era stato del tutto infruttuoso. « Niente, dei bisbigli. Davvero, se hai da fare non preoccuparti! »  « Oh, John! E’ la televisione! »  Lo sentì ridere e si diede dello stupido per essersi fatto venire degli inutili dubbi.
Non c’era più nessun enigma da risolvere. Non c’era più nessun consulente investigativo con i suoi irritanti monologhi. Non c’era più niente. « Comunque, credo che Sherlock, ovunque sia in questo momento, sappia cosa tu stia facendo e giudichi con la sua solita voce annoiata e rompiscatole ogni singola cosa stia uscendo dalla tua bocca. »  John sorrise, grato per quella persona così genuina che gli stava tirando su il morale. « Sicuramente sarà così. » 
« Ora è meglio se dormi, cerca di rilassarti, ci sentiremo domani, va bene? »  Promessa. Una persona che richiedeva la sua attenzione, dopo tutto quel tempo. John si sentì improvvisamente ripieno di una nuova forza. « Ovvio, allora buonanotte, Victor. »  « Buonanotte, John. »  Stava quasi per riattaccare quando la voce dell’altro lo riportò a premere il cellulare all’orecchio. « Dimmi. »  « Sherlock ti vuole bene, lo sappiamo entrambi. »  « Comunque sia, Victor, bisogna parlare al passato. »  Anche a lui era capitato, i primi tempi in cui era successo il terribile fatto. Faceva finta che quel giorno non fosse mai esistito e viveva imbrogliando anche se stesso. Pensava che Sherlock sarebbe rientrato dalla porta di casa e tutto sarebbe ritornato a posto. Lo aveva aspettato seduto sulla poltrona che riteneva sua, fissando la finestra, con la pioggia che aveva bagnato Londra per giorni interi. Poi la ragione lo aveva raggiunto e aveva solamente chiuso gli occhi e abbassato la testa davanti alla verità. « Già, come dici tu. »  John aggrottò le sopracciglia, dubbioso. Quel ragazzo aveva un comportamento strano e sembrava nascondesse qualcosa. Sentì un lieve mugolio di dolore da parte di Victor prima che John facesse terminare la telefonata.
Sospettoso, decisamente.
 
 
« Mi hai fatto male! » 
« Sei un idiota, Victor! Pensavo che tutti questi anni avessero avuto un effetto positivo per il tuo piccolo cervello, ma la realtà è ben diversa dalle aspettative! » 
« Che cosa diamine ho fatto? » 
« Ringrazia che John non abbia capito niente, altrimenti passerai dei lunghi guai. » 
« Ma ti rendi conto di avermi tirato addosso dei libri? Avrebbe potuto capire che c’era qualcun altro nella stanza! » 
Lo sguardo inviperito di Sherlock lo fece desistere dal prolungarsi oltre, prese il suo giubbotto e si chiuse la porta alle spalle. Idiota lo era stato veramente, per aver dato nuovamente ascolto a Sherlock Holmes.
Sembrava che non imparasse mai la lezione, maledizione.
 
 
 
 
John aveva sentito una frase particolarmente ispiratrice tempo prima, quando ancora faceva parte dell’esercito, da un commilitone più giovane di lui. L’aveva segnata su un foglio e l’aveva riposta nella tasca dei pantaloni militari, con la speranza che gli portasse un po’ di quella fortuna che serviva dopo essersi arruolati.
La prima volta che l’aveva sentita aveva dato un significato tutto diverso a quelle poche parole, una sostanziale differenza di punti di vista che gli aveva fatto credere di poter capire quella frase molto più di tutti gli altri.
Dopo il congedo, aveva lasciato quel foglietto di carta stropicciata in tasca, la frase che aveva assunto altri toni, più drammatici e pungenti. Il senso delle cose: occhi diversi che pensano di capire ogni cosa allo stesso modo.
Ora, mentre la tempesta infuriava fuori dalla finestra di casa, impedendogli di fare qualunque altra cosa all’infuori di guardare –senza mai osservare, anche quello era diventato un tabù? Non lo sapeva, non lo voleva sapere– quelle parole gli ritornarono alla memoria, dando un senso ancora più triste a quella giornata solitaria. Ti mostro le spine per non far vedere i petali che cadono* –poesia? No, forse cruda realtà pronunciata da una persona troppo giovane per capirla appieno. « Cucù, John? »  Mrs Hudson spuntò dalla porta d’ingresso, una mano posata sull’anca e il sorriso sempre impresso sul viso. Era invecchiata, dalla morte di Sherlock –tutti quelli che avevano conosciuto Sherlock lo erano diventati–, le occhiaie scure che spiccavano sulla carnagione chiara e la pelle che quasi sembrava aver formato un secondo strato delle ossa, incavando le guance e indurendo i lineamenti.
Cambiamenti: nulla per poterli fermare. Bisognava solo accettarli, violenti come tsunami, e aspettare la nuova quiete, prima di tornare a respirare nuovamente –se fossero esistiti ancora polmoni con cui farlo. John voltò il viso verso di lei, l’ombra di un sorriso sul volto. « C’è una visita per te! »  Non ci volle molto per capire chi fosse e ancora di meno che nella stanza entrasse la presenza slanciata di Victor. « Che sorpresa! »  Mormorò John, alzandosi a fatica e cercando sostegno al muro lì vicino. Ci aveva forse preso gusto a fargli visita? Non che John non lo volesse o gli fosse antipatico, ma la ferita era ancora così fresca e non era sicuro che tutta quell’amicizia fosse un bene –la sua fiducia era stata già distrutta una volta, non aveva nessuna intenzione di rischiare di nuovo. « Non va bene? »  Domandò Victor, arrestandosi dal mettere il giubbotto fradicio sull’appendiabiti. Quante volte l’aveva sentita quella frase, in diciotto mesi di convivenza? Tante, ma da una persona diversa. Dio, vivere nel passato gli causava un livello di frustrazione ignobile.
« No, sì… »  John si passò una mano sugli occhi, scoraggiato. « Certo che va bene, va benissimo. Accomodati pure. » 
« Facevi qualcosa di interessante? Ho saputo che scrivi su un blog. »  John si riaccomodò sulla poltrona, le parole di Victor che si agitavano prepotenti nel petto. Gli faceva sempre quell’effetto, parlare con lui, come se fosse sempre pronto per sapere tutta la vita di John, senza che nessuno lo avesse autorizzato a farlo. Si sentiva a disagio e agitato –anche triste, ma quella era una sensazione che lo seguiva da giorni e che non sembrava voler terminare. « Scrivevo, in realtà. Ora non ho niente da raccontare. »  « Deve essere dura, John, riesco solo a immaginare quanto possa esserlo. Vivere insieme, condividere tutto… »  John scosse la testa, colpito in pieno da tutti quei ricordi che premevano per uscire. Fece cenno a Victor di fermarsi, prendendo un bel respiro e osservando il vetro appannato e bagnato. « Era molto più di questo. »  Disse John in un sussurro. Vide con la coda dell’occhio l’altro agitarsi piano sul divano, prima di ritornare immobile, l’attenzione puntata tutta su di lui.
« Lo amavo, in verità. Ha avuto una parte di me già dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti. Anche se non c’è più e non c’è alcuna possibilità che lui ritorni indietro, non verrà dimenticato, non da me. Il dispiacere più grande è di non avere avuto una chance, di essere stati troppo prudenti anche solo per abbracciarci o per tenerci per mano senza pericoli in agguato. Non potrò vederlo invecchiare, perché è troppo tardi e la vita ha scelto per noi, ma mi sarebbe piaciuto tanto. Avrei voluto essere il suo compagno più di qualunque altra cosa. »  Non sapeva perché glielo stava confessando, non sapeva neanche perché avesse le lacrime agli occhi o perché continuasse a far finta che andasse tutto bene –perché, dannazione, non c’era proprio niente che andava bene, ormai. Aveva solo voglia di confidarsi con qualcuno, di togliersi un peso dal cuore che non gli faceva chiudere gli occhi la notte e che gli incurvava le spalle di giorno. Victor aprì le labbra, ma non ne uscì alcun suono, le mani unite in preghiera sopra le ginocchia –di preghiere ce n’erano state fin troppe. Un lampo squarciò il cielo e John trovò la forza di continuare quel discorso che sembrava essersi perso nel nulla. « I primi giorni in cui lui è morto, quando ritornavo a casa da lavoro, pensavo di sentire il suono del suo violino e allora salivo gli scalini a due a due fino a spalancare la porta e rendermi conto che non c’era più nessuno ad aspettare. » 
Victor aveva lo sguardo disperato, di quelli che corrodevano dentro. « John, senti, io devo… »  « Scusa, non ti ho nemmeno chiesto se desideri qualcosa da bere o mangiare. Posso farti del tè? »  Victor annuì, prendendo il cellulare dalla tasca e digitando frettolosamente sui tasti. John mise l’acqua nel bollitore, l’occhio che andava a spiare le mosse di Victor, nella stanza accanto. Sembrava nervoso, come se qualcosa l’avesse scosso. Sperava di non averlo turbato con le sue parole, né altro. Lo vide passarsi una mano tra i capelli e poi entrare in  cucina, insieme a lui. « Qualcosa non va? »  Chiese, rimanendo discreto. « No, è solo che questa storia mi rende un po' triste, in realtà. Insomma, la morte non è mai una bella cosa da affrontare. » John annuì, d’accordo con Victor.
« A volte mi chiedo come tutta questa oscurità ci abbia trovato. »  Sbottò, tutto d’un tratto Victor, le dita che tamburellavano sul tavolo della cucina, pieno di graffi e macchie di ogni genere. John gli puntò gli occhi addosso, interessato. Gli era sembrato un buon ascoltatore, nel breve periodo da quando era piombato nel suo appartamento senza che sapesse nulla, ed ora sembrava in procinto di dire qualcosa di importante e John non voleva perderselo per nulla al mondo. « Insomma, questa oscurità, questa malinconia, come ci ha trovato? »  John scosse la testa, confuso. Non lo sapeva, non era lui quello che sapeva tutto. « Si è messa nelle nostre vite e noi abbiamo solo dovuto abbracciarla fin quando noi stessi incominciamo a cercarla e ad adattare la nostra vita ad essa? Forse…ogni volta che qualcuno esce di casa, è come se fossimo in guerra, speriamo in un loro ritorno, speriamo che non facciano scelte sbagliate, che non cambino rotta in una destinazione lontana da noi. Sherlock ha solo perso la sua strada, per un momento. Ha dovuto scegliere in fretta e ha scelto la via più facile, da una parte, ma molto più difficile dall’altra. Tu sei un uomo forte, John, un uomo che credo abbia avuto un punto speciale nell’animo di Sherlock. Puoi superare tutto questo, puoi andare avanti. »  Victor gli mise una mano sulla spalla, un sorriso che gli increspava il volto e faceva nascere rughe d’espressione vicino alla bocca.
Gli era grato, se ne accorse come se fosse un lampo a ciel sereno. Di essere lì, con lui, quando aveva allontanato tutti. Di ascoltarlo per davvero, senza nessun pregiudizio o cattiveria, con il solo intento di farlo stare meglio e di disinfettare le ferite. John gli sorrise, cercando di essere il più convincente possibile. « Sentirsi speciale è forse una delle peggiori gabbie che una persona possa costruirsi, Victor. L’ho imparato a mie spese quando sei venuto qui la prima volta. »  John spense l’acqua e svuotò la teiera, mettendoci dentro quasi tre grammi di foglioline di tè. Victor aggrottò la fronte, perplesso. « In che senso? »  John si graffiò la pelle del pollice con l’indice, a disagio –fare scenate di gelosia davanti ad un potenziale amico di Sherlock? Brutta idea. « Diciamo che Sherlock non mi aveva mai parlato di te. »  « Oh. »  Disse Victor, tormentandosi la felpa con le dita. « Oh! »  Ripetè ancora, stavolta con più enfasi. « Se ti può consolare, credo che considerasse un  po’ differenti le due amicizie, per questo non ha mai fatto parola di me. »  John sorrise, improvvisamente imbarazzato. Era un complimento? Gli piaceva pensarlo. « Non hai mai provato a rintracciarlo dopo che vi siete separati? »  « Ci sentivamo, ogni tanto, quando io non ero impegnato in… »  Victor sorrise, furbo, deviando lo sguardo di John e prendendo due tazze dal mobile in legno –da quanto non preparava il tè per due persone? Un mese. Triste. « …in affari privati, chiamiamoli così, e lui non era impegnato in quei casi che lo eccitavano tanto. Da quando ha conosciuto te non si è fatto più sentire. A buona causa, aggiungerei. »  John versò il tè nelle tazze e le portò in salotto, attento a non scottarsi. Il rombo dei tuoni che ancora faceva tremare le finestre e illuminava Londra ad intermittenza. « Come… »  John si schiarì la gola, cercando il modo giusto per dirlo –esisteva? E lui aveva davvero la forza per sentire la risposta?. Victor si sedette per terra, la schiena poggiata al divano e la gamba sinistra lievemente piegata. « Com’era Sherlock prima? Quando eravate amici? »  Victor sembrò trovare la domanda particolarmente divertente perché si mise a ridere di gusto, il tè che rischiava di strabordare dalla tazza. « Beh, era Sherlock! Solitario, introverso, arrogante e disgustosamente intelligente! »  John rise con lui, sedendosi a sua volta per terra e poggiando la tazza vuota sul basso tavolino accanto a loro. « Credo fosse anche più…fragile, in qualche modo. Era giovane ed era pieno di vita, ma si riusciva a vedere quanto tutte le parole cattive non fossero completamente gettate nel fuoco. Insomma, era un essere umano anche lui. » 
« Lui più di tutti, già. »  Mormorò John, massaggiandosi per un momento la gamba che aveva incominciato a pulsare dolorosamente. « Una persona, l’altra sera, mi ha detto che stare lontano da una persona che ami, non significa amarla di meno, ma amarla così tanto da rinunciare alla propria felicità, mettendosi in gioco fino alla fine. »  John aggrottò la fronte, cercando di capire il senso di quella frase. Ora capiva perché quei due erano stati amici, ai tempi. Lo stesso, dannato vizio di parlare per metafore o concetti mentali che lui non riusciva nemmeno a comprendere. Annuì lo stesso, facendo finta di aver capito a fondo il senso di quelle parole. « E’ sempre stato più forte di me e di tutti quelli che gli stavano intorno. »  Continuò Victor, poggiando la testa dietro di sé, contro al divano. « Gli bastava una sola parola per ferire le persone. Anzi, a volte anche meno: un silenzio, un’occhiata, uno sguardo rivolto altrove. Potevi sbraitare e dimenarti per ore, passare alle ingiurie, mentre a lui bastava una piccola e semplice smorfia per sconfiggerti, fatta con un angolo del labbro. »  John scosse la testa, abbattuto da quella descrizione così veritiera della vita di Sherlock Holmes e della propria –della loro, di quella che non c’era più.
Gli serviva dell’alcool, ma non voleva annebbiare tutto, non voleva aggiungere a quel momento quel particolare che avrebbe solamente rovinato ogni cosa. « E’ meglio che vada, ho fatto la persona solidale e umana per un’intera vita, parlando con te stasera. Sono pur sempre un uomo! »  Victor sorrise ma John non se la sentì di contraccambiare, già perso ad osservare nuovamente la pioggia scrosciante fuori dalla finestra –perché tutti se ne sarebbero andati, da quell’appartamento, e chi sarebbe dovuto restare aveva deciso di abbandonarlo, tradendo la sua fiducia.
« Non rattristirti troppo, John. Andrà tutto bene prima che tu possa accorgertene. Ricorda che il mio numero è sempre disponibile, per te. »  Victor se ne andò, non prima di avere dato la solita stretta alla spalla di John, stavolta smorzata dal rumore della pioggia, ancora più violento di prima. Avrebbe voluto dirgli di fermarsi a cena, avrebbe voluto dirgli di aspettare perché la tempesta là fuori non sembrava promettere niente di buono, avrebbe voluto parlargli ancora e avere una mano a cui aggrapparsi, nel caso cedesse, nel cuore della notte. Ma tutte quelle cose gli sembravano improponibili –non ora, forse mai– e lo avevano fatto stare zitto, facendolo andare via.
Ciò che gli rimaneva era il silenzio che aveva il volto di tutte le cose che aveva perduto** –Sherlock, Sherlock, ti prego, torna.  
 
 
 
« Ho letto il blog di John mentre venivo qui in taxi. » Victor si sentiva sempre un po’ sotto osservazione quando stava nella stessa stanza con Sherlock –una sensazione che gli ricordava i vecchi tempi in maniera non proprio positiva. Certo, era tutto diverso dallo stare in presenza di John: almeno lui ci provava, a fare il simpatico quando non era colpito dalla tristezza –ovvero molto raramente. « Buon per te, Victor. »  Rispose Sherlock, accucciato su una poltrona davanti al camino con addosso cappotto e sciarpa, le gambe strette al petto e lo sguardo lontano –smarrito? Lo era? Perso senza John, probabilmente, un pezzo fondamentale del suo puzzle. Victor si posizionò sul divano, com’era solito fare nei loro incontri, dopo essere stato da John. Si sentiva meschino a fare quel doppiogioco eppure, vedendo quelle due anime in difficoltà, non riusciva a dire di no. « Nell’ultimo aggiornamento ha scritto: “Lui era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.” Sherlock serrò gli occhi, facendogli un gesto brusco con la mano. « Non mi interessa cosa ha scritto sull’argomento. »  « Sembra un brav’uomo, il tuo John, non credo si meriti questo. »  Sherlock raddrizzò le spalle e mise giù i piedi dalla poltrona, ritornando la persona composta e imperturbabile di sempre. « Non è più mio. »  Victor sorrise impercettibilmente, ricordando le parole di John a proposito di cosa provasse davvero per Sherlock. Stupidi, tutti e due. « Io non credo lui la pensi allo stesso modo. »  Buttò lì, cercando di restare il più vago possibile. Sherlock si fermò per un momento dal muovere nervosamente il piede avanti e indietro, l’attenzione improvvisamente tutta su Victor.
« Ti ha detto qualcosa? »  « Forse. »  Sherlock strinse gli occhi in due fessure ghiacciate, alzandosi dalla sua postazione e mettendosi davanti a Victor che sorrideva, beato. « Sbrigati, la pazienza non è uno dei miei pregi. »  « Nemmeno la simpatia, a quanto pare. »  Sherlock alzò gli occhi al cielo e si sedette affianco al compagno, in attesa. « Avanti, parla. »  « Okay, beh, credo solo che, da come lui mi ha parlato di te, e ha parlato veramente tanto –un ghigno si formò sul viso di Sherlock a quella rivelazione–, sì, credo che lui ti consideri davvero molto molto speciale. »  Sherlock sembrò soppesare ogni singola parola e farla sua, prima di abbassare per un secondo lo sguardo sulle sue mani intrecciate. « Non c’è una remota possibilità che tu possa andare da lui? »  « No, non ora. Sarebbe troppo pericoloso e troppo affrettato. »  « Ma potresti, che ne so, mandargli un messaggio, fargli capire che sei ancora vivo. A lui andrebbe bene. »  Sherlock sbuffò, infastidito dalla continua invadenza dell’altro. Noioso, noioso e sentimentale peggio di John Watson. Si tolse il cappotto in un moto di irritazione, alzandosi nuovamente in piedi. « Ho detto di no. Sarebbe disastroso, è un pessimo bugiardo e non aspetterebbe due secondi prima di venire a cercarmi. Lo rintraccerò quando sarà il momento più opportuno. »  Victor lo osservò, lo sguardo che spariva oltre la finestra –così diversi, così uguali–, le braccia incrociate al petto, appoggiato contro un vecchio mobile di plastica arancione –orribile e terrificante, quel posto l’avrebbe fatto uscire pazzo.
« Il momento opportuno per te o per John? »  Chiese d’un tratto, sapendo bene che la frecciata sarebbe andata a buon segno. Si girò a fissarlo in quel modo che aveva sempre messo in soggezione tutti quanti, tranne lui. « Non vedo come questi siano affari tuoi, Victor. Sei qui per svolgere un lavoro, non farti distrarre. »  « Hai paura della sua reazione, non è così? »  Sherlock sbuffò, accennando appena ad una risata sarcastica. « Ovvio che non è così, Victor. Non ho paura di niente. »  « Lo stai ingannando, Sherlock. » « Non si può dire che un’illusione sia un inganno; è piuttosto un abbaglio, una verità a termine che dura finché nella bolla sospesa in aria dura l’ossigeno. »  Victor scrollò le spalle, non prendendo nemmeno in considerazione l’idea di rispondergli. Si strofinò le mani tra loro, cercando di scaldarle, quando il suo telefono squillò e la pesante cortina di silenzio che si era creata tra loro si spezzò. Sherlock ritornò a posare gli occhi su di lui, cercando di capire se fosse John o qualcuno che non valeva la pena nemmeno conoscere. « E’ John. »  Disse ad un tratto Victor, continuando a fissare il cellulare, in attesa di chissà cosa. « Imposta l’altoparlante. »  Sherlock raddrizzò un po’ la schiena quando si sentì la voce di John inondare la stanza. Una voce che non era più destinata  a lui –morte, così irrimediabile, così imprevedibile.
 
 
« Victor?” « Ehi, John! Qualche problema? »  « No, no, figurati. Sei impegnato? »  John continuò a fissare le tazze da tè della signora Hudson –o quello che ne era rimasto–, tutto intorno a lui. Le aveva fatto cadere o le aveva gettate in un momento di rabbia? Non se lo ricordava molto bene, ma appena la governante se ne sarebbe accorta gli avrebbe fatto una bella ramanzina, seguita da un aumento dell’affitto per il prossimo mese. Seguì una pausa di Victor, prima che continuasse a parlare. « No, non proprio. Cosa stai facendo? »  « Sto, uhm, pulendo un po’, ma sto per andare a letto. Tu? »  « Sono a casa di un amico. »  « Oh, scusami allora. »  John si diede mentalmente dell’idiota per averlo chiamato. « No, figurati, è irritante come l’orticaria, mi hai salvato. »  John rise appena e sentì Victor fare lo stesso, con un rumore attutito in sottofondo.
Lanciò un’ultima occhiata ai cocci per terra, prima di lasciar perdere tutto e salire le scale, verso la sua stanza. « E’ un amico tanto antipatico? »  Chiese John, infilandosi direttamente nel letto senza accendere la luce della stanza –il buio andava bene, il buio lo faceva sentire protetto. « Abbastanza, ma il problema è che cocciuto come un mulo. » John sorrise ancora, poggiando la testa sul cuscino e sospirando piano. « Conosco il tipo, posso capirti. »  Poté sentire l’incertezza di Victor dopo quelle parole, nonostante non fosse lì con lui. Una brutta area in cui camminare, piena di mine pronte a esplodere. « Mi dispiace, non volevo… »  « Tranquillo, è tutto okay. »  No, non era okay, per niente, ma far finta che lo fosse andava bene sia lui che agli altri. « John, devo andare ora, ci sentiamo domani? »  « Certo, buonanotte! »  « Buonanotte, John. » 
John si passò stancamente una mano sugli occhi, prima di chiudere la telefonata. Degli strani rumori lo fermarono in tempo, il pollice che sfiorava il tasto rosso per terminare la chiamata mentre la curiosità prendeva il sopravvento sulla ragione. Si riportò il cellulare all’orecchio, in attesa. « Mi sembrava molto triste. »  « Lo è, ovviamente. Grazie per la tua precisazione inutile, Victor. »  Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il cuore che incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di fare il proprio lavoro.
« Dovresti smetterla di essere così duro nei confronti di questa situazione. »  « E tu dovresti smetterla di improvvisarti Cupido, è stupido e noioso. » 
John si premette una mano sulla bocca, nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano annidando nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo in tilt. « Sei un robot. »  Mormorò Victor, in lontananza. « Vorrei tanto poterlo essere. » Sherlock. Sherlock.
« Sherlock? »  John riempì la stanza di quel nome, la voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava provando. Il silenzio che riempì le orecchie di John, gli fece capire che l’avevano sentito. Sherlock. Vivo.
Sherlock era vivo.
 
 
 
Note:
* Citazione da Via Paolo Frabbri 43
** Citazione da Mogol, Paolo Limiti

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
 
Share my life, take me for what I am
Cause I'll never change all my colours for you
Take my love, I'll never ask for too much
Just all that you are and everything that you do
I don't want to have to go where you don't follow
I won't hold it back again, this passion inside
I don't wanna hurt anymore
Stay in my arms if you dare
Or must I imagine you there?
Don't walk away from me...
I have nothing, nothing, nothing
If I don't have you
 
Whitney Houston
 
 
 
 
 
Sherlock. Sherlock. Sherlock. Vivo. John pensava che quelle due parole non potessero stare più insieme –era morto, l’aveva visto con i suoi stessi occhi, non era pazzo!– e invece ora scopriva che era vivo. L’aveva sentito, era lui, avrebbe riconosciuto la sua voce anche tra mille altre.
« John, ehi, ehm, cosa stavi dicendo? Pensavo avessi riattaccato! » Victor. L’avevano riempito di bugie su bugie, infarcendole con sorrisi finti e stupide parole di conforto. « Sherlock. C’è Sherlock lì con te, non è vero? » Aveva parlato in modo sicuro mentre, in realtà, si sentiva cadere a pezzi un po’ per volta, dolorosamente. La mano che non reggeva il cellulare era abbandonata sul suo petto, tremando leggermente. Si mise a sedere, respirando profondamente e imponendosi la calma. « No, cosa dici? John, Sherlock è morto, lo sai! » No, no che non lo sapeva, perché evidentemente c’era in gioco più di quanto gli era concesso sapere. « Giurami che non c’è Sherlock lì con te, giuramelo sulla cosa che hai di più caro, Victor, e allora ti crederò. » Victor esitò, dall’altra parte dalla cornetta, e John si sentì in dovere di farlo sentire in colpa nei suoi confronti –era così strano che volesse sapere la verità? Che volesse sapere se il suo dannato migliore amico avesse solo fatto finta, per un dannato mese, di essere dannatissimamente morto?. « Victor, per favore, dimmi la verità, ho bisogno che qualcuno sia sincero con me, per una volta. Se Sherlock è vivo, dimmelo. » Altro silenzio, altra attesa. « Aspetta un momento, John, ti richiamo più tardi. » Prima che potesse protestare, la telefonata venne interrotta e tutto ciò che gli restò furono dubbi e certezze.
La certezza di averlo riconosciuto, il dubbio di essere diventato pazzo, la certezza di essere stato ingannato –da lui, ancora. Gliel’avrebbe fatta passare liscia, questa volta? Non ne era sicuro–, il dubbio del perché lo avesse fatto. Si alzò dal letto, girando per la stanza in preda a una di quelle irritazioni epiche che si ricordavano per il resto della vita.
Traditore, bugiardo, calcolatore. Bugiardo, calcolatore, traditore. Lanciò un’occhiata al cellulare che non accennava a squillare –squilla, squilla, per favore, ne ho bisogno– prima di buttare tutte le coperte a terra, in un moto di rabbia. Lanciò il cuscino dall’altra parte della stanza, strappò via il lenzuolo, stropicciandolo e facendolo finire sull’orrendo comodino d’epoca, vicino all’armadio. Infuriato, ecco com’era.
Non gli importava che fosse vivo, in quel momento, voleva solamente averlo lì di fronte, sincerarsi che stesse bene e poi picchiarlo così forte da fargli rimanere i lividi per i successivi sette mesi. Si sedette sul pavimento, nel mare di caos che lui stesso aveva creato, sentendo agitarsi nel petto milioni di emozioni contrastanti che creavano una guerra, distruggevano ciò che era rimasto in piedi dalla morte –finta morte– di Sherlock e creavano ipotesi, speranze e castelli di sabbia dentro al suo cervello. Si prese la testa tra le mani, cercando di calmare il clamoroso mal di testa che si era impossessato di lui dopo quella telefonata. Quanto avrebbe realmente aspettato Sherlock a ripresentarsi da lui, se non avesse lasciato aperta la chiamata? E, soprattutto, sarebbe ritornato o avrebbe lasciato tutto così com’era, non preoccupandosi più di lui? Il telefonino prese a vibrare e suonare e non aspettò nemmeno il terzo squillo prima di alzarsi e rispondere. Aveva bisogno con tutto se stesso di sapere la verità. « Victor? » « John, ehi. » John, ehi? Era tutto ciò che aveva da dirgli? John strinse tra le mani il bordo del comodino, cercando rimasugli di calma dentro di lui. « Spero che tu e il tuo compagno di avventure abbiate le idee chiare, ora. » « Senti, non è semplice come credi. » « E’ ancora lì? » Inspira, espira, non arrabbiarti prima del dovuto, si disse, cercando un appiglio, un qualcosa dove poter fare breccia e trovare finalmente una risposta –un mese, un mese. « No, non è qui. Non c’è nessuno qui. » Mentiva, anche se era bravo a fingere tanto quanto a dar sollievo ai poveri coinquilini lasciati soli. Tutto uno squallido piano architettato alla perfezione, il solo pensiero gli fece venire la nausea. « Voglio parlargli, passamelo. » Victor sospirò, dall’altra parte della cornetta, prima di rispondergli. « Aspetta. » Aspettare, aspettare, aspettare, non faceva altro, ormai.
Si alzò dalla posizione accovacciata in cui si era messo senza accorgersene, camminando per la stanza e dando un calcio al cuscino, per terra. « John? » Ancora la voce di Victor –diamine, voleva la voce di Sherlock, voleva gridargli addosso quanto diavolo lo odiasse!. « Non crede sia il momento più opportuno per parlare. » « Oh, pensavo non ci fosse nessuno lì con te, Victor. » Sarcasmo: gli usciva bene quando era particolarmente agitato; fiotti di veleno che non avevano nessun argine. Liberatorio, almeno. « Non è come credi, è…complicato. » « Complicato? Oh, certo. » A John scappò una risata che non aveva nulla di divertente. Si stava arrabbiando, sentiva che tutta la tristezza che l’aveva accompagnato come una seconda pelle per quei giorni, ora si stava tramutando in altro, forse in qualcosa di ancora più letale.
« Passamelo. Voglio sentire la sua voce. » « Non si può, John, ti prego! Questa telefonata potrebbe essere ascoltata! » John sbuffò, sentendo i muscoli tendersi e dolere nello sforzo di mantenere un minimo di calma. Avrebbe voluto non saperlo in questo modo. Avrebbe voluto avere lì davanti quel deficiente e poterlo sistemare bene, come gli era stato insegnato quando era in guerra, sfigurare quel viso di porcellana e romperlo in mille pezzi, come aveva fatto Sherlock con lui. « Va bene, va bene. » Concesse John mentre percepiva Victor sospirare di sollievo dall’altra parte della linea. « Grazie, John, mi fa piacere che tu… » « No. No, non hai capito. Vorrà dire che verrò io lì, ovunque voi siate. Subito, immediatamente. » Victor gemette, frustrato, la mente di John che lavorava da sola, senza freni, in un misto di agitazione, furia e qualcos’altro, che gli faceva pulsare le tempie e torcere lo stomaco. « John…per favore. » « Dimmelo. Verrò a cercarlo per tutta Londra se necessario, sappilo, e informerò tutti, Lestrade, Mrs Hudson, Molly e Mycroft, farò uscire tutti i giornalisti fino a che non lo troveranno. » Silenzio. Sapeva che qualunque cosa fosse successa, quello era il momento giusto per insistere fino a mordere. « Victor… » « John, sai che la decisione non aspetta a me, io…non sono io a scegliere, mi dispiace. » « Beh, allora dì a quel… » John si impose la calma, stringendo forte i denti fino a sentire male alle gengive. « Allora digli che, se non verrà da me ora, non avrà più qualcuno da cui tornare, mai più. Digli che questo è definitivo: o si fa vivo o per me è morto per sempre. » Riuscì a chiudere la chiamata prima che qualcos’altro potesse alimentare la fiamma incessante dentro al suo petto.
Non voleva sapere niente, in quel momento, voleva solo che lui si presentasse lì e respirasse e battesse le palpebre e avesse le pulsazioni regolari per far capire a John che quello non era un sogno o un’allucinazione, che era davvero umano e pieno di vita. Strinse di più la presa sul telefono, lo rigirò tra le mani, lo mise sul comodino e poi sul letto sfatto, prima di decidersi a fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non diventare pazzo d’ansia in quella camera. Scese le scale in fretta, lasciando la camera nel caos totale che aveva creato lui stesso, girò per il salotto ed entrò in cucina, tamburellando con le dita sul tavolo. Nervoso, agitato, in attesa di qualcuno che non sapeva nemmeno sarebbe ricomparso –voleva? Lo sperava. Sherlock, Sherlock, Sherlock.
Sentiva il cuore scoppiargli nel petto e la vista farsi appannata, le mani che incominciavano a formicolare, tanto che dovette sedersi su una sedia e mandare giù un paio di cucchiai ricolmi di zucchero –odio, odio per quello stato in cui era caduto, odio per lui che non stava arrivando–, ispirando ed espirando lentamente, socchiudendo gli occhi e facendo una lista dei pro e dei contro di tutta quella faccenda e rinunciando all’impresa al secondo punto di quel delirio. Avvertiva lo stupido impulso di alzarsi e correre fino al cellulare, fare il numero di Victor e implorargli di passargli Sherlock –perché ne ho bisogno, perché lui mi sta mancando come l’aria e tu non puoi capire–, ma il suo lato duro, quello saldo e indistruttibile, non glielo permise. Non sarebbe andato lui da Sherlock, non quella volta, non quando l’aveva fatto vivere in una bugia per un mese, non quando l’aveva piegato fino a farlo rompere, non quando aveva avuto quel ti amo sulle labbra, ma non era mai riuscito a dirgli niente, per paura di rovinare tutto.
Improvvisamente, tutti i vecchi e i nuovi rancori collegati a Sherlock si stavano coagulando, diventando una sfera insostenibile, creando una rabbia smisurata che lo corrodeva dentro a poco a poco, ma intensamente. Aveva subìto abbastanza, John, aveva subìto troppo e la goccia –una cascata, in realtà– che aveva fatto traboccare il vaso era arrivata, scombinando le carte in tavola. Guardò l’orologio, notando che la mezzanotte era passata da un pezzo e che gli occhi cominciavano a bruciare, complice l’ora tarda e la delusione. Non era venuto, quindi –aveva mai preso in considerazione di venire? Forse no, forse non gliene fregava niente. Dolore.
Aveva deciso al suo posto, ancora una volta. Aveva fatto di testa sua, incurante del fatto che qualcuno gli avesse dato dei limiti, una scelta da fare e una dimostrazione da dare –se ci tieni a me, vieni, altrimenti va’ al diavolo. Dolore, straziante.
 John si tenette la testa con la mano, il braccio che sembrava aver perso consistenza e il gomito che sfregava, insofferente, contro il legno del tavolo. Tutta quell’ansia che solo qualche tempo prima lo aveva scosso, affogandogli il corpo di quella scarica di adrenalina di cui aveva costantemente bisogno, si era affievolita, spegnendosi a poco a poco, come un fuocherello sotto la pioggia battente. Perché non era arrivato a Baker Street e probabilmente quello era il suo modo di chiudere la faccenda. Victor gli aveva detto che era pericoloso, Victor gli aveva detto che non si poteva, Victor gli aveva detto che proprio non era il momento giusto per parlare con il suo migliore amico morto. Bugie, ancora. Bugie belle e buone.
Il pericolo lo avevano affrontato tutti i giorni, prima, il pericolo era sempre andato bene a tutti e due. Se Sherlock non era ritornato a casa, allora era quella la sua scelta. Il tacito accordo del mai più rivederci –per sempre felici e contenti? Pessima idiozia. Si alzò dalla sedia, stiracchiandosi le gambe indolenzite e versandosi un po’ di acqua fresca. Inutile illudersi ancora, inutile ritardare la cruda verità che gli si era mostrata senza pietà. Mise il bicchiere nel lavandino e spense la luce della cucina, avviandosi verso le scale e fermandosi al bivio. Senza pensarci, scese gli scalini fino alla porta d’ingresso, prese un respiro profondo, e abbassò la maniglia, arrivando a contatto con l’aria pungente della notte. Nessuno, ovviamente. Non sapeva nemmeno perché l’avesse fatto, sperando fino all’ultimo in qualcosa che, maledizione, non esisteva. Lanciò un’ultima occhiata alla via deserta, prima di tornare dentro e chiudere il portone. Si premette contro il legno per qualche secondo, in un gesto di resa.
Ci gettava la spugna, con Sherlock Holmes, lui e i suoi stupidi trucchetti di magia, lui e la sua sociopatia, lui e i suoi trabocchetti, lui e basta. John Watson stava smettendo di lottare perché non c’era più nulla per cui farlo. Ritornò su, nella sua camera da letto, tenendosi al corrimano come se fosse la sua personale fune per la salvezza. Arrivato dinanzi alla stanza, lo prese un immotivato panico. Era tutto fuori posto, non andava bene, non andava bene niente. Come avrebbe fatto a dormire in quel caos? Come avrebbe potuto rimettere a posto? Le lacrime premettero per uscire, ma le rispinse dentro, deciso. Niente più lacrime, non per lui –ma stava male per il letto, per il letto disfatto, non per Sherlock che non si era presentato.
Calma. Entrò in quel disordine e afferrò il cellulare che lampeggiava deciso sopra il materasso. Un messaggio, non aveva voglia di leggerlo, chiunque fosse –chi vuoi che sia, John Watson? Di certo non Sherlock. Mai lui. Mai più. Si guardò per un momento intorno, prima di optare per la fuga; si chiuse la porta alle spalle –ancora, la sua vita stava diventando tutta una questione di porte chiuse e ferite aperte– e andò in soggiorno, stendendosi sopra al divano scomodo e girandosi su un fianco, coprendosi la visuale di tutto premendo la faccia contro un cuscino.
Dio, si sentiva uno schifo. Tutta quella serata aveva fatto schifo, in realtà. Anzi, l’intero mese era stato un totale, gigantesco, immane schifo. Nella sua testa continuavano ad affollarsi migliaia di domande che non trovavano alcuna risposta e quell’assenza, quel silenzio, gli bruciava dentro come acido. Si girò supino, l’imbottitura sotto di lui che non gli dava tregua e lo faceva rimanere rigido. Era giusto così, si disse, andava bene stare allerta, essere vigili e non sopprimere tutto nel dormiveglia. Agguantò il cellulare, ai piedi del divano, e premette il tasto al centro, aprendo finalmente il messaggio. Victor.
Diceva: ‘Mi dispiace, davvero. Sappi che è per la tua protezione, non si può esporre. Ti prego, cerca di capire, non è come pensi tu. Se non è di troppo disturbo, domani verrò a casa tua. Ti vuole bene, credici’.  John rise, una risata secca e distruttiva. Gli voleva bene, certo. Gli voleva bene così tanto da non avere nemmeno il coraggio di parlargli, ma sapeva benissimo come fingersi morto per giorni che sembravano anni. Imprecò, buttando malamente il telefonino sul tappeto, non curandosi del fatto che avrebbe potuto rompersi. Lo infarcivano di bugie, gli facevano credere che era tutto per proteggere lui, che lui avrebbe dovuto ringraziare e chinare la testa –lui, il capitano John Watson!–, che tutto si sarebbe risolto, mentre lui brancolava nel buio del lutto –finto, un finto lutto del cavolo. Beh, John non ci stava. Non si sarebbe sottomesso alle regole di Sherlock Holmes e non avrebbe fatto come diamine voleva lui, non quella volta, non dopo tutto quello che aveva causato dentro John e attorno a lui. Spense il cellulare e spense anche i pensieri, chiudendo gli occhi e inalando ossigeno solo per semplice istinto di sopravvivenza.
Qualcosa era inesorabilmente morto, quella notte, qualcosa che aveva a che fare con il senso di legame che era sopravvissuto dopo la caduta, quel senso di alleanza e quella fiducia che prima sembravano a prova di proiettile e che ora restavano a terra, a pezzi. Scivolò in un dormiveglia tormentato, fatto di edifici troppo alti e marciapiedi coperti di sangue, fatto di ossa che stridono e dolore alla nuca, fatto di sentimenti che mutano e fioriscono e appassiscono e si spezzano. Fatto di lutto, questa volta in commemorazione di John.
 
 
La prima cosa di che percepì John appena si svegliò, fu un lancinante dolore alla schiena che gli fece stringere ancora di più le palpebre chiuse e impastate,  ricordandogli immediatamente dove avesse passato le ultime ore.
Victor. Telefonata. Sherlock. Attesa. Sherlock. Rabbia. Sherlock. Delusione. Sherlock. Sherlock che era vivo, ma che aveva deciso di restare morto –a John tanto non importava, sarebbe andato avanti con la sua vita, lo avrebbe fatto sul serio, questa volta. Provò a stirare i muscoli, riuscendo a toccare con la pianta dei piedi il bracciolo del divano dopo di lui e sentendo parecchie ossa scricchiolare fastidiosamente. Aprì gli occhi, scontrandosi con il soffitto verde scuro e lievemente scrostato del suo appartamento. Silenzio, imperioso e inutile quanto banale. Si mise a sedere, massaggiando piano la spalla destra e notando che qualcuno era seduto sulla poltrona nera che un tempo era appartenuta a Sherlock.
Il suo cuore perse un colpo, notando i capelli riccioluti e corti, ma dovette ritornare a fare i conti con la realtà, osservando quel viso che non apparteneva al suo migliore amico –sciocco anche solo pensarlo, sciocco anche solo sperarci– ma a qualcun altro, qualcuno che in quel momento non aveva nessuna intenzione di vedere.
« Prima che mi cacci fuori di casa brandendo una pistola, sappi che sono venuto in pace! » Alzò le mani davanti al viso, un accenno di sorriso sul viso pulito. John si chiese come diavolo avesse potuto anche solo pensare di dare corda ad un ex probabile amico di Sherlock Holmes. « Mi hai mentito. » Riuscì solamente a dire, trovando la forza di alzarsi dal divano e fare qualche passo verso la cucina. « Ho dovuto farlo, lo sai benissimo anche tu. » « Non puoi sapere cosa penso. » « Ma sono certo che non mi hai ancora sparato e questo è un ottimo segno! » John lo guardò in tralice, sopprimendo un sorriso. Non doveva ridere, Victor era stato falso con lui, era stato dalla parte di Sherlock ancora prima di conoscere lui. « Sono qui solo per specificare che non è solo per aiutare lui che ho condiviso con te questi ultimi giorni. Provo un sincero affetto per te, così forte e così simile a ciò che ero io tanti anni fa. Non credere che ciò di cui abbiamo discusso sia solo una bugia, non farlo. » John abbassò lo sguardo, frustrato.
Era tutta una serie di sensazioni negative, quella che provava da un mese a quella parte. Una tristezza sopra l’altra, un castello che barcollava e cadeva sempre, rovesciando tutto e bloccando il respiro. « Potevi dirmelo, anzi, dovevi dirmelo. Sherlock è il mio migliore amico, dannazione! Ho aspettato un mese, un mese! Ma no, perché informare il patetico John Watson che Sh- » Victor gli mise una mano sulla bocca, fulminandolo con i suoi occhi azzurro acqua. « Fai silenzio. » Sillabò, allontanandosi subito dopo, tornando alla sua postazione originale. « Tu non puoi capire molte cose e io non posso spiegartele, ritieniti fortunato nel sapere ciò che sai. » John spalancò gli occhi, allibito da ciò che aveva pronunciato Victor.
Fortunato? Davvero? Era finito in un manicomio per pazzi, ecco il problema. Credevano fosse tutto rose e fiori, che basta sapere che Sherlock fosse vivo per far ritornare tutto alla normalità? Beh, si sbagliavano di grosso. « Tu non puoi capire, nessuno di voi può! Siete solamente dei bugiardi che giocano con i miei sentimenti e con la mia vita! Vattene, non voglio che tu stia in casa mia. » Fece dietro front ed entrò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle. Cercò di regolare il respiro, fallendo miseramente e facendolo entrare in iperventilazione. Oltre al danno anche la beffa, oltre all’abbandono anche la delusione e poi l’affronto.
Fortunato. Lui che aveva visto morire il suo migliore amico in diretta. Lui che aveva passato di tutto, in quei giorni schifosi dove nessuno era riuscito a fare niente per farlo stare meglio. Dove anche il sentirsi speciale per essere stato l’unico veramente vicino a Sherlock in tutta la sua vita era andato in frantumi all’arrivo di Victor. John era stato ripagato con una mezza verità, una nuova delusione e tanto fumo.
Se era quello che significava essere fortunati, allora non osava immaginare come sarebbe stato essere sfortunati –un soffitto che crollava in testa, forse. Saltare in aria con una bomba, uno psicopatico e un sociopatico in una dannata piscina, forse.
« Posso? » Chiese Victor, poco dopo, affacciandosi al vano della porta. « No. » « John, non pensare che Sherlock non ti voglia bene solo perché non è venuto da te, ieri sera.” « Odio la gente che mi dice cosa posso pensare o non posso pensare. » Victor si fece un po’ più vicino, posandogli una mano sulla spalla. « Lo capisco, davvero. Posso capire il tuo punto di vista. E’ difficile. E’ doloroso. Ti sei sentito morire quando non l’hai visto arrivare, non è così? » John lo fissò negli occhi e sentì tutte le emozioni salirgli su in gola, creandogli il magone. « Vorrei potertelo far incontrare, John, più di ogni altra cosa al mondo. » « No. No, non voglio. » Victor aggrottò le sopracciglia, confuso.
« Non voglio vederlo. Non stavo scherzando, ieri sera. Gli avevo dato un ultimatum e lui non l’ha rispettato, ha fatto la sua scelta e a me sta bene. » « Non capisci, ora come ora. » John si tolse dalla presa di Victor, aggirando il tavolo e ritornando in salotto. « No, è la mia scelta, per la prima volta ho preso una decisione e sono deciso a rispettarla. Ho la mia vita a cui pensare e lui ha deciso di non farne più parte. » Victor sbuffò, alzando gli occhi al cielo. « Smettila di fare il bambino. » John lo ignorò, avvicinandosi alla finestra e osservando la strada sottostante. « Potresti andartene, ora? Sono stanco. » Non sentì alcun rumore alle sue spalle, ma non se ne curò, appoggiando la tempia sopra al vetro freddo. « John? » « Per favore, no…vai e basta. » Vide il riflesso di Victor tentennare, i denti che mordevano il labbro inferiore e l’indecisione scritta negli occhi. « Sherlock mi ammazzerà, ne sono sicuro. » Proruppe infine, massaggiandosi la fronte e avvicinandosi a John. « In che senso? » « Nel senso… » Incominciò Victor, prendendo dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare e digitando in fretta sullo schermo. « …che sto per fare una cosa che mi farà rischiare quasi certamente la morte. » Si mise un momento il telefono all’orecchio, prima di passarlo a John. Sentì il cuore perdere un battito, non riusciva più ad avere la capacità di manovrare il proprio corpo, in preda ad un’ondata di emozioni così intensa da lasciarlo paralizzato.
Stava per parlare con Sherlock? Perché lui non voleva farlo, no davvero. Sherlock non se lo meritava, affatto.
Prese il cellulare in mano, cercando di frenare il leggero tremito che lo scuoteva tutto. Oh Dio, oh Dio, non voleva parlarci, non voleva sentire più la sua voce, aveva una dannatissima paura delle conseguenze che avrebbe portato quella telefonata. « Victor, perché mi hai chiamato? C’è qualche problema? » John si posò una mano sulla bocca, in un curioso déjà-vu della serata precedente. Sherlock, mio Dio. Sherlock, vivo –il miracolo era giunto e sentiva i pezzi di se stesso vorticare e ferire tutte le parti nascoste di lui. « Victor, sei tu, vero? » Mormorò stizzito Sherlock, dall’altra parte della cornetta. John non riuscì a far altro che guardare Victor negli occhi, sentendosi come un cucciolo abbandonato per strada. « No, non sono Victor. » Riuscì a dire, il tono duro che non lasciava trapelare nulla. Poteva sentirsi scosso quanto voleva, ma non avrebbe mai permesso a Sherlock di vederlo o sentirlo debole. Non gli avrebbe più permesso niente. « John. Ovviamente dare un ordine a Victor è come darlo al muro. » La rabbia incominciò a montargli dentro, distruggendo qualunque altro sentimento. Furia omicida. « Stai facendo anche il sarcastico? Stai davvero cercando di far finta di niente? » Aveva alzato il volume della voce, la mano che non reggeva il telefono era aggrappata al davanzale della finestra, invocando la santa pazienza che gli era stata affidata alla nascita. « Non mi sembra il momento giusto per parlarne. Non dovremmo nemmeno parlare, in realtà. » Odio. Victor dovette vedere che le cose si stavano complicando perché prese in mano la situazione. « Sherlock, senti… » La voce di Victor morì subito mentre quella di Sherlock riusciva ad arrivare anche a John, tanto era alta. « Dimmi dov’è. » Sussurrò John a Victor che scosse la testa, afflitto dalla marea di parole che Sherlock gli stava versando addosso. « Per favore, dimmelo. Devi dirmelo, se qualcosa di vero c’è stato tra di noi, dimmelo. » John lo guardò, in attesa.
Non avrebbe mollato, non ora che l’aveva sentito parlare. Doveva sfogarsi di tutto, doveva poterlo vedere e poterlo aggredire, vedere il suo viso mentre gli sputava tutto il rancore che lo stava perseguitando da giorni. Voleva potergli dire addio guardandolo dritto negli occhi e poi farlo sparire per sempre insieme al peso che gli opprimeva i polmoni. « Washington Street, 46. Ti prego, fai attenzione. » Riuscì solo a dire Victor mentre la voce di Sherlock si alzava ancora, scandendo bene le parole ‘Gli hai detto dove sono? Victor, dannazione!’, prima che John salisse in fretta le scale che portavano alla sua camera, indossando una felpa con il cappuccio, una di quelle sciarpe che non aveva mai messo e un paio di jeans scoloriti –sto arrivando, sto arrivando da te.
Guardò per un momento il disordine che ancora aleggiava in quella stanza, ma durò poco, troppo preso dalla miriade di input e pensieri che il suo corpo e il suo cervello continuavano a concedergli, senza sosta. Scese le scale, osservando Victor che faceva avanti e indietro nel salotto, cercando di aprire bocca per ribattere ma non riuscendo a proferire parola. Un po’ gli dispiaceva per lui, ma lo ammirava e lo stimava per essere andato contro il volere di Sherlock ed aver fatto per conto proprio, nonostante sapesse delle conseguenze irreversibili del suo gesto. Glielo avrebbe detto, dopo aver visto Sherlock –Dio, lo avrebbe ripetuto all’infinito. Sto andando da Sherlock Holmes, sto andando da Sherlock Holmes. Appena si chiuse il grosso portone alle spalle, John si alzò il cappuccio sulla testa, fino a coprire metà volto. Notò una macchina nera e lucida posteggiata davanti a lui e si inquietò subito. Familiare, assurdamente familiare. E irritante. Che cosa voleva Mycroft da lui, ora? Non aveva tempo da perdere. « La prego di salire su quest’auto, dottor Watson. » Disse un uomo in abito elegante, in piedi sul marciapiede. « Se questa messinscena è per evitare che io vada da lui, allora potete risparmiarvela. Stavolta non sono d’accordo, stavolta non cedo. » « Salga in macchina, dottor Watson. » John sbuffò, guardandosi nervosamente attorno. Non sarebbe riuscito a crearsi una via di fuga se Mycroft voleva che non la trovasse, questo era garantito.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare era assecondare le manie di quell’uomo e poi tornare al punto principale, ovvero stanare Sherlock ovunque si trovasse. Salì in macchina, cercando di non pensare a niente –perché pensare gli dava rabbia e, grazie tante, di rabbia ne aveva già abbastanza per conto suo. Il suo telefono squillò nella tasca della felpa, il nome di Mycroft che lampeggiava prepotente sullo schermo luminoso. « Pronto? » « Dottor Watson, che piacevole sorpresa risentirla dopo tutto questo tempo. » Sorpresa? John si massaggiò la tempia, già stanco della conversazione. Mycroft aveva il fantastico dono di farlo arrabbiare a livelli cosmici senza nemmeno stargli davanti. « Vorrei poter dire lo stesso.” « Si sta chiedendo dove è diretto, John? » « In qualche edificio abbandonato dove potrà cercare di parlarmi di non so cosa? » Domandò, ostentando una calma che non sentiva di possedere. « Lo sa bene di cosa potrei parlare, con lei. »
Allora lo sapeva anche lui. Perfetto. Giusto. Magnifico. Era stato un idiota a pensare che Mycroft Holmes, chiamato anche Governo britannico, non sapesse che il suo amato fratellino fosse vivo. A quanto pareva, l’unico ad essere rimasto nel buio era John, il perché era ancora un mistero –o forse non lo era, ma faceva troppo male per prendere in considerazione anche solo l’idea. « Comunque, questo pomeriggio noi non dovremmo incontrarci, dottor Watson. Verrà portato in un’ala ben precisa in un edificio ad alta sicurezza dove potrà aspettare il momento più opportuno per ricevere la visita che anela con così tanto…ardore e sentimento. » Ironico. Ironico e tagliente, il vecchio e pomposo Mycroft era ritornato nella sua vita –ci sarebbe tornato anche il fratello? Sperava di sì. O no. Non ne era sicuro.
Cercò di seguire il percorso della macchina tra le vie di Londra, ma si perse tra un vicolo e una rotonda, l’agonia dell’attesa che lo stava facendo diventare un fascio di nervi, pronto a scattare al minimo cenno.  « Siamo arrivati, dottor Watson. » Disse il conducente con voce atona. John aprì lo sportello, finendo davanti ad un paio di scalini che portavano ad un grosso portone di ciliegio con un’anta spalancata. « Grazie per il passaggio. » Mormorò John, uscendo all’aria aperta. Aspettò qualche secondo in cerca di una risposta qualsiasi o un congedo, ma l’uomo restò in silenzio e John decise di lasciar perdere. Si guardò intorno, con il grande giardino pieno di alberi e una fontana rotonda al centro –come nelle peggiori sit-com americane, si disse–, tutto colorato con i colori romantici del tramonto. Sembrava tutto curato in maniera maniacale, cosa che fece pensare a John che quella enorme reggia dovesse essere di proprietà di Mycroft. Salì gli scalini ed entrò, titubante, nel grande salone d’ingresso, pieno di corridoi e persone  vestite di scuro. Inquietante. « Il dottor Watson? » Una giovane donna mai vista prima gli comparì davanti, il cellulare tra le mani –probabilmente era un requisito per tutti coloro che lavoravano con Mycroft– e una smorfia simile ad un sorriso sul viso truccato. « Sì, sono io. » La donna incominciò a camminare per un lungo corridoio con le piastrelle in lucida ceramica grigia, i tacchi alti che rimbombavano nel silenzio assoluto della casa. John la seguì, le mani che prima si nascondevano nelle tasche e poi si posavano sui suoi fianchi, le braccia che si incrociavano contro al petto mentre si mordeva l’interno guancia, agitato. 
Si sentiva agitato fino ai limiti e la sensazione non era propriamente positiva. Si tolse il cappuccio dalla testa, cercando di respirare in modo regolare, impostando il viso in un’espressione di assoluta impassibilità e concentrandosi per far smettere il cuore di battere così forte. Era andato in Afghanistan, dannazione. Era stato in ospedale due settimane per un proiettile nella spalla, dannazione. Aveva passato delle dannate terapie inutili, aveva incontrato Sherlock Holmes e Mycroft, aveva sparato ad un tassista solo per salvare la vita ad un ipotetico sconosciuto. Quello non era niente, a confronto –forse, o forse era tutto. Forse era la fine di tutto. La ragazza si era fermata davanti ad una porta blu scuro, l’attenzione tutta concentrata sul suo Iphone di ultima generazione. Se fosse stato veramente in sé, John ci avrebbe provato con una delle solite battute che usava per conquistare una ragazza, qualche sorriso luminoso e via. Ma quella non era una situazione normale e avere una fidanzata era l’ultimo dei suoi pensieri.
Era già arrivato? Dio, sperava di no. Non era pronto, non voleva entrare. Non voleva vedere la prova tangibile che Sherlock era vivo, la prova tangibile di tutte le bugie, e non voleva sbattere la testa contro la verità nuda e cruda che, in quel mese, la tristezza che aveva cullato e che l’aveva cullato non era stato altro che inutilità sprecata, un qualcosa di finto, una ferita lancinante e mortale fatta da un oggetto che non esisteva. Recita, inganno. Allungò la mano verso la maniglia e prese un respiro profondo, prima di decidersi ad abbassarla e a spingere, avendo la visuale di una stanza vuota. Non c’era –stavolta si sarebbe presentato? Non sapeva più cosa sperare. Non sapeva più niente. La stanza era spoglia, se non per un piccolo tavolino di vetro con sopra un vassoio di biscotti –biscotti, davvero?– e due sedie in plastica. Una grande finestra faceva entrare gli ultimi raggi di sole e John si ritrovò a pensare di essere entrato in un patetico romanzetto rosa, con la principessa che aspetta il principe chiusa in una stanza del castello. Patetico e fuori moda. Incominciò a girare in tondo, provando spiare dalla finestra l’ingresso, ma non vedendo nessuno né arrivare né andarsene. Non era mai riuscito a gestire il nervosismo, John, era una cosa che andava oltre di lui e che lo faceva impazzire.
Aspettare. Aspettare sempre. Aspettare cosa? Gli aveva dato un ultimatum la sera prima e lui non l’aveva rispettato, che cosa c’era ancora da chiarire? Nulla. John in realtà non lo voleva vedere, ecco. Si sarebbe accertato del suo stato di salute, gli avrebbe tirato un pugno su quel viso perfetto –no, non perfetto, John concentrati!– e poi se ne sarebbe tornato a casa, avrebbe buttato via tutti gli scatoloni riguardanti la loro vita passata e sarebbe andato avanti. Sì, sarebbe andata così. Era un soldato, sapeva mantenere la calma, sapeva conquistare il controllo con la forza, se necessario. Non era spaventato, nient’affatto. Per niente. Forse un po’, non tanto. Magari un po’ troppo. Okay, stava per urlare dall’ansia, ma avrebbe mantenuto l’espressione impassibile e neutra, ne era capace. Non gli sarebbe di certo saltato addosso, piangendo e stringendolo. Oddio, stava per morire di crepacuore e quella porta chiusa gli stava facendo venire la nausea. Quando vide la maniglia abbassarsi a John saltò il cuore in gola, i polmoni che smettevano di fare il loro lavoro, le mani sudate e il cervello in tilt.
Gli sembrò di vedere la scena a rallenty, con la porta che si apriva così lentamente da poter morire, e poi intravide il bordo scuro del cappotto e le scarpe costose, le mani bianche, la camicia chiara, il collo lungo, i nei –stava per svenire, lo sentiva– e poi il viso. Sherlock. Sherlock. Sherlock. Come si faceva a respirare? Sherlock. Sherlock. « John, respira. » A John tremavano le mani, veramente, e di respirare proprio non se ne parlava. Era vivo. Era lì, era lui. Fece qualche passo dentro la stanza, chiudendosi la porta alle spalle e scandagliandolo con i suoi occhi chiari. Era bellissimo, come sempre. Forse un po’ più magro e con le occhiaie più accentuate, ma era sempre lui. Gli sembrava di non vederlo da una vita. Improvvisamente, tutte le parole e tutte le azioni che aveva premeditato di dire o di fare, erano scomparse nel nulla, cancellate su due piedi, senza pensarci. Cosa sarebbe successo? « Sei qui. » Riuscì a dire, con una voce che non riconobbe come sua. « Per colpa di Victor. Non sarei nemmeno dovuto venire qui, ma ormai era fatta. » La bolla in cui John era caduto da quando era entrato Sherlock esplose fragorosamente a quelle parole, riportandolo alla realtà. « Per colpa? Sherlock, ti sei finto morto per un mese! E, a quanto pare, ero l’unico ad essere all’oscuro di tutta questa macchinazione! » Sherlock distolse lo sguardo, l’espressione indecifrabile come sempre. « Perfetta deduzione, John. Saresti dovuto restare all’oscuro di tutto, se qualcuno non avesse rovinato il piano. Non è in gioco solo la mia reputazione, sono in gioco delle vite, ma questo qualcuno non l’ha voluto capire. » Disse velenoso, colpendolo in pieno. Non gli era mancato, per niente. Non era neanche un minimo contento di vederlo? Preferiva proseguire davvero con il suo piano e lasciarlo in disparte a morire? John gli diede le spalle, cercando di trattenere quelle emozioni che gli facevano appannare la vista. Sii forte, sii forte. « Bene, allora puoi anche andartene. » Proruppe John, con tono incolore. Era troppo, quella situazione. Nella sua testa era andata diversamente, nella sua testa aveva immaginato un altro Sherlock, uno Sherlock che chiedeva scusa, uno Sherlock umano che in quel momento sembrava non esistere. « Mi hai voluto incontrare per niente? » Chiese, la sua voce che sembrava essersi fatta più vicina. « No, no, non è per questo, in realtà. Non è per niente, in realtà. Questa situazione, questa… » John cercò di prendere fiato, sentendo la rabbia affiorare incontrollabile.
« Ti sei reso conto di cosa hai fatto, Sherlock? Ti rendi conto di ciò che hai causato alle persone intorno a te? E’ stato terribile! Ha fatto male ogni singolo giorno di questo dannato mese! Hai avvertito tutti, hai avvertito un tuo vecchio amico di cui nemmeno sapevo l’esistenza e non hai avvertito me, il tuo migliore amico! Abbiamo passato diciotto mesi insieme e tu ci hai sputato sopra senza tanti pensieri, creando un magnifico piano per salvare il mondo. Beh, bene! Puoi ritornare al tuo cavolo di lavoro che ti interessa tanto, puoi andartene e non tornare più da me! Ho la mia vita, ora, ho tutto ciò che mi serve. » Sherlock lo guardava immobile, davanti a lui. Non sapeva nemmeno se lo stava ascoltando, veramente. « Pensavo di essere diventato importante. » Non seppe nemmeno John perché quella frase gli uscì dalle labbra, svicolando da tutti i controlli, ma sortì su Sherlock un effetto diverso, che lo risvegliò dal torpore. « Sei in pericolo di vita, non credi che questo sia importante? » « Ma tu sei importante per me e ti sei finto morto. » « Ho dovuto farlo. » « Potevi dirmelo. » « No, non potevo. » « Perché? »
Sherlock distolse nuovamente lo sguardo dal suo, puntandolo sui biscotti accanto a loro. « Non potevo e basta. » John gli si avvicinò un po’ di più, il senso reale dell’averlo lì davanti che prendeva forma secondo dopo secondo. « Parla con me. » John avvicinò piano una mano a quella dell’altro, in cerca di un minimo contatto. Ne aveva bisogno, ora. Lo sentiva necessario come l’ossigeno. Appena sfiorò il dorso della sua mano, però, Sherlock la ritrasse, turbato. Sembrava che si stessero studiando a vicenda, pronti per azzannarsi o per lasciarsi andare –c’era una terza opzione?. « Puoi fidarti di me, lo sai che puoi. » Sherlock puntò gli occhi dritti nei suoi, prima di decidersi a parlare. « Non sei arrabbiato con me? » « Certo che lo sono! Sono furioso con te e non te la farò passare liscia per tutto l’oro del mondo! » Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. « Mi hai toccato la mano, prima. » « Questo non significa che io non sia almeno un po’ felice di vederti vivo, Sherlock. Sono qui per te, sono sempre stato qui per te. »
Successe molto velocemente, con Sherlock che prima era fermo davanti a lui e poi tutto intorno a John, con le braccia che lo circondavano e le mani che stringevano la stoffa della felpa, dietro la schiena. Non se lo aspettava di certo, non da uno come lui, ma questo non gli fece godere di meno il momento. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, abbracciandolo a sua volta. Odore di casa, gli era mancata quella fragranza. « Mi sei mancato tanto. » Borbottò John, strofinando il naso contro la pelle tesa del collo. « Victor è un idiota. » Disse Sherlock, sciogliendo l’abbraccio mentre John si staccava a sua volta, deluso che quel contatto fosse durato così poco. « Invece è un bravo ragazzo. » Sherlock inarcò le sopracciglia e alzò gli occhi al cielo. « Certo, come no. » « Dovrai ancora rimanere nascosto? » Domandò John, dando voce a quella domanda che aleggiava nella sua testa da un po’ di tempo. « Sì, fin quando non prenderemo tutti i componenti del gruppo di Moriarty. » « Ti aiuterò. » Asserì John, immediatamente. « No, tu non farai proprio un bel niente. Adesso andrai a casa e farai finta di non avermi mai incontrato, è così che funziona. Questa è stata solo una circostanza speciale che non si ripeterà. » « Mi stai dicendo che dovrò aspettare ancora non so quanto tempo prima di rivederti mentre tu sarai in missioni suicide da qualche parte nel mondo? » « Esattamente. » « Tu sei pazzo! Non se ne parla assolutamente. » « John, si fa come dico io. Non ti voglio tra i piedi. » « Sherlock, no! Stavolta non ti farai ammazzare senza che io non possa fare niente per proteggerti! » Sherlock restò un momento in silenzio, prima di sospirare e abbassare lo sguardo giusto un attimo, per poi tornare glaciale come sempre. « Smettila. » Disse, indurendo la mascella. « Di fare cosa? » « Di fare la moglie protettiva e amorevole. Smettila, mi irrita. » John sentì qualcosa rompersi dentro di sé, ma non ci fece caso. « Ti sto solo dicendo che non voglio che tu muoia di nuovo! E’ così difficile da comprendere? E’ stato un mese d’inferno! » « Sì, beh, io ho da fare al momento e tu mi intralceresti solo il lavoro con le tue preoccupazioni inutili. Quindi ritorna a casa e rincomincia la tua vita. » « No. No, non se ne parla. Io vengo insieme a te. » « John! » Lo prese per le braccia, in una morsa dolorosa, gli occhi che erano diventati quasi trasparenti dopo quell’urlo. « Io non ti voglio. »
Crack. Bum. Sentì le ginocchia piegarsi dopo quella frase, sotto il peso di qualcosa di troppo grande. « Non ti voglio come collega, né come amico. Adesso ho il mio lavoro e quello mi basta, è chiaro? » Gli lasciò la presa dalle braccia e John quasi cadde, non sorretto da quelle mani. « Spero di essere stato abbastanza chiaro. » John lo vide raggiungere la porta con ampie falcate, girarsi un momento verso di lui e poi andarsene, in una nuvola di nero.
Appena la porta sbattè, John sentì le forze venire meno e si ritrovò incollato al pavimento, le lacrime che ora perdevano il controllo e infuriavano contro di lui.
Non ti voglio.
Il problema, forse, era che John voleva Sherlock il doppio di quanto consentito. Il problema, forse, stava nel fatto che Sherlock non gli aveva detto tutte quelle cose che John aveva sperato di sentirsi dire. Il problema, forse, era solo che John si era ritrovato con il cuore in mano davanti a Sherlock Holmes, un’altra volta, e lui l’aveva gettato a terra senza pensarci due volte.
Il problema, alla fine, era che faceva male e basta, senza Sherlock, semplicemente, non era vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
What if I let you in?
What if I make it right it?
What if I give it up?
What if I want to try?
What if you take a chance?
What if I learn to love?
What if, what if we start again?
 
Red



 
 
 
 
Un mese dopo
 
John aveva appena finito il suo turno all’ambulatorio, aveva sorriso, salutato con la mano Sarah, ancora sua collega e amica, e aveva lasciato l’edificio con l’armonia di un uomo qualunque.
Stava passeggiando verso casa, le mani nelle tasche dei pantaloni per proteggerle dal freddo e gli occhi che restavano fissi sull’asfalto. Non prestava attenzione alla gente intorno a lui, preferiva camminare a testa bassa, consapevole del macigno nascosto che si trascinava dietro da giorni. Si sentiva pesante, confuso, assurdamente triste, nonostante le apparenze. « E’ stato assolutamente inaspettato, questo detective morto e risorto! » John si fermò un momento, il sangue che si ghiacciava nelle vene, tutta la via intorno a lui che diventava uno stupido contorno, gli occhi che si puntavano sulla persona che aveva pronunciato quelle parole, davanti ad un’edicola. « Insomma, non che io ci creda molto, a questo svitato! » Aggiunse la signora, accennando ad una risata. Le gambe di John si mossero da sole, spostandosi dal semaforo ancora rosso, davanti alle strisce pedonali, fino ad arrivare all’edicola, gli occhi puntati, ora, sui due signori che parlottavano ignari del suo tumulto interiore. « Scusi, vorrei quel giornale, per favore. » Disse, quasi senza accorgersene, indicando ciò che aveva in mano la donna. « Anche lei un appassionato di miracolati? » Disse l’edicolante, con un sorriso divertito sul volto.
Certo, ero così appassionato da volerlo vedere morto su un marciapiede, avrebbe voluto dirgli, ma si trattenne, sopprimendo l’impulso di cadere a pezzi. Aveva capito, era andato avanti, non aveva più nessun altro a cui pensare e gli andava bene così. Non rispose alla domanda dello sconosciuto, tirando fuori pochi spiccioli dalla tasca e cercando di formare una sorta di sorriso, mal riuscito.
Era più difficile fingere, quando non era chiuso nelle pareti confortanti della clinica. Era più difficile fingere, quando nessuno più si ricordava dello scapolo John Watson, compagno inseparabile di Sherlock Holmes. Ma lui non lo voleva più e la situazione era totalmente cambiata –in meglio? Decisamente no. Prese in fretta il giornale, arrotolandolo stretto e mettendoselo sotto braccio, facendogli scudo con esso. Non voleva che potenziali stalker –ed era sicuro ci fossero, conoscendo Mycroft Holmes– si facessero idee sbagliate sul suo ultimo acquisto.
Lui non aveva nessuna curiosità su tutto ciò che riguardasse Sherlock né aveva voglia di ritornare da lui, nonostante l’articolo in prima pagina. Era solo mero interesse, come un qualunque cittadino che ascolta una storia qualsiasi alla televisione, una bella favola da leggere e riporre lontano da se stessi. Si avviò a passo svelto lungo i vicoli semideserti, la luce scura del pomeriggio che perdeva sempre più colore, spruzzando il cielo di blu scuro. John, in un qualunque giorno di un anno fa, se la sarebbe presa comoda, camminando con il naso all’insù, ringraziando madre natura per avergli restituito la vita che il congedo in Afghanistan gli aveva strappato, e un sorriso impresso sul volto, nel suo personale campo di battaglia.
Ora camminava a testa bassa, il mondo che non lo conosceva e lui che non aveva più voglia di conoscere il mondo, i capelli più grigi, le occhiaie più marcate, il peso sul cuore sempre più pesante, la falsità sempre più all’ordine del giorno. Era strano, era ingiusto, ma andava così e John non aveva più forza di combattere. Lui aveva vinto la battaglia e John sentiva di aver miseramente perso, un limbo in cui non trovava via d’uscita. Si accorse di aver sorpassato il condominio dove ora abitava, una vecchia palazzina con l’intonaco rosa antico scrostato e appartamenti grandi quanto una gabbia –gli andava bene, gli andava bene tutto, ormai. Ritornò indietro, prendendo le chiavi dalla tasca del cappotto e infilandone una nella serratura. Insistette un po’, fino a quando la porta cedette e John potè ripararsi dal vento gelido che aveva incominciato a turbinare fuori. Salì fino al secondo piano ed entrò in casa propria, restando fermo per qualche secondo sul tappetino d’ingresso, immobile. Ogni volta che entrava in quell’appartamento, si sentiva trascinato via da quel posto, troppo angusto e troppo buio e troppo spoglio per essere definito come casa. Era asettico, monocromatico e banale. Un’accozzaglia di cose in un bilocale che non era vissuto veramente –triste, solitario, come il proprietario.
Appena dopo aver avuto l’ultima discussione con Sherlock, John si era deciso a voltare pagina, o almeno a provarci. Aveva lasciato Baker Street, nonostante le proteste della signora Hudson, e si era rintanato in quel buco, sorridendo ai pazienti, sorridendo ai colleghi e piangendo nel cuore. Faceva finta di andare avanti, ogni giorno, rifiutava le chiamate di Victor sempre più insistenti e soffocanti. Non voleva nessuno, gli piaceva quella vita, davvero, checché ne dicessero gli altri.
Si tolse le scarpe e posò il giornale sul tavolo, lanciandogli un’occhiata astiosa e dirigendosi nell’angolo che faceva da cucina, prendendosi una birra dal frigorifero. Gli serviva qualcosa di forte per affrontare ciò che stava per leggere, ma, purtroppo, si era severamente vietato l’alcool dalla prima volta in cui aveva visto sua sorella vomitare l’anima nel bagno della loro casa di famiglia, quindi si sarebbe dovuto arrangiare –come sempre, come per  tutto. Stappò la bottiglia con i denti e si sedette sull’ unica sedia in legno affianco al tavolo –triste, anche quello. Mandò giù un lungo sorso, gustandosi il sapore sulla lingua, prima di fare i conti con il giornale ancora piegato davanti a lui. Su, forza e coraggio, si disse, tamburellando piano le dita sulla superficie del tavolo.
 E’ solo un giornale, nulla di particolarmente pericoloso, pensò, ingoiando un’altra sorsata e decidendosi a leggere. Un titolo in grassetto, sulla prima pagina, diceva chiaramente ‘Il super-scienziato Sherlock Holmes riscatta la sua fama. Sarà vero?’ Dio, gli stava salendo la nausea. Dio, aveva voglia di bruciare quella dannata pagina e stendersi su un letto, cercando di somigliare ad un vegetale.
Lesse l’articolo velocemente, le parole di Sherlock sembravano distorte, di certo non da lui, manipolate dai giornalisti affamati di scoop esilaranti. John si fermò a leggere una domanda particolarmente interessante che avevano rivolto a Sherlock e che aveva attirato tutta la sua attenzione. ‘E di John Watson, il suo compagno, che cosa ci dice? Ritornerete di nuovo insieme? Lo ha già perdonato?’ John respirò a fondo, prima di leggere la risposta, il cuore che palpitava più forte, fregandosene del controllo che il padrone cercava di imporgli. Chiuse per un momento gli occhi, sentendosi come uno stupido bambino di due anni che aveva paura del verdetto della propria mamma, e li riaprì subito, incentrandoli sulle parole di Sherlock. ‘Il signor Holmes evita la domanda, decretando che gli affari privati riguardanti lui e John Watson non sono questioni rilevanti con il tema dell’intervista.’ Ovviamente, era ovvio –perché lui non lo voleva, né come collega né come amico.
Prese il giornale e lo buttò nella pattumiera, chiedendosi perché diavolo avesse speso soldi per quella spazzatura visto che tanto non gli importava. Era inutile, era anche ridicolo averci pensato, a una dichiarazione pubblica o a una ammissione di colpa. Non sarebbe mai cambiato, sempre il solito egocentrico, sempre il solito arrogante. Finì la bottiglia di birra e la lasciò lì, andando a lavarsi il viso con l’acqua fredda. Il rumore del citofono lo distolse dai suoi pensieri, facendolo distogliere dal suo stesso riflesso, davanti al lavandino –il volto di un altro, uno sconosciuto impossessato del suo corpo, gli occhi delusi che avevano perso luce, imbrunendo ogni cosa. Aggrottò le sopracciglia, chiedendosi chi cavolo fosse all’ora di cena. Sperava non fosse Victor, in realtà. Quel ragazzo era una vera e propria piaga quando ci si metteva di impegno e più di una volta aveva dovuto cambiare strada all’improvviso pur di non incrociarlo. Non voleva più nessuno che fosse in contatto con Sherlock e, dopo tutto ciò che era successo, sperava che tutti capissero l’antifona e lo lasciassero in pace. Si diresse spedito verso il citofono, affianco alla porta d’ingresso, mentre qualcuno continuava a scampanellare senza sosta. Prese il ricevitore con aria furibonda, fino a quando non si accorse del soggetto di tutto quel rumore, al videocitofono. Oh mio Dio. Riccioli, occhi chiari, aria annoiata di chi già si è pentito di aver compiuto quel gesto. Sherlock. Cosa ci faceva Sherlock sotto casa sua? Panico.
Si schiarì la voce, cercando di non far trasparire l’emozione dal tono. « Chi è? » « Lo sai chi sono, hai un videocitofono. » John arricciò il labbro, infastidito. Se era quello l’atteggiamento che aveva in serbo per lui –dopo tutto quello che gli aveva fatto, dopo tutto quello che aveva sentito e quello, ancora più importante, che non si era permesso– poteva benissimo andarsene a quel paese e non tornare mai più. « Bene, cosa vuoi? » Sbottò, giocando con il filo del ricevitore.
Anche solo pensarlo, ormai, gli provocava il nervoso –Dio, gli doveva una medaglia per tutta la pazienza che stava avendo con quell’uomo. « Posso salire o dobbiamo parlare in questo modo? » Disse, osservando qualcosa che non riusciva a entrare anche nel suo campo visivo. Stava cercando un punto di fuga? « Preferisco parlare così, non ho nessuna voglia di vederti dal vivo. » « In realtà tu puoi vedermi dal citofono mentre io devo parlare a questo…aggeggio. » « Fidati, è per la tua salute che io non sia lì davanti a te, ora. » John vide Sherlock sbuffare piano, continuando a deviare lo sguardo da un posto all’altro, come se lui fosse veramente davanti a lui e non volesse incrociare il suo sguardo. Restò in silenzio mentre John incominciava a spazientirsi. « Quindi? » « Quindi cosa? » John gemette, frustato. « Quindi cosa vuoi, Sherlock! Perché sei sotto casa mia a quest’ora? » « Ho visto che hai comprato il giornale con l’intervista. » Ah, ecco, giusto per avere le idee chiare sul chi, in realtà, lo avesse pedinato in quei giorni. Sherlock, Sherlock che non aveva più il sapore di Sherlock, nelle sue corde vocali. « Avevo voglia di leggere un po’ di favole, nulla di importante. » Rispose con tono acido e maligno, non riconoscendosi nemmeno. 
Sentiva troppo dolore, ancora, una pena viscerale che gli faceva dolere i muscoli la mattina e gli toglieva il sonno alla notte. Se lo meritava, tutto quel veleno, perché sapeva che per Sherlock Holmes facevano più male le parole che i cazzotti. « Sei ancora arrabbiato, quindi. » « Sherlock, parla chiaro e dimmi che cosa vuoi da me. » Si sforzò di dire, in un impeto di coraggio che in quel momento sembrava scarseggiare. « Insomma, pensavo che… » Lo osservò muoversi agitato davanti al citofono, gli occhi che ancora non fissavano la videocamera. « Pensavo dovessimo parlare riguardo ciò che è successo l’ultima volta che ci siamo incontrati, ecco. Dovresti aver già sbollito la rabbia, ormai. Possiamo continuare da dove abbiamo terminato e… » Sherlock fermò il suo monologo che a John sembravano solo frasi in ordine casuale e senza significato. Cosa stava dicendo? A lui non era passata affatto, quella furia. A lui non era passato nemmeno il dolore della perdita, seppur finta –davvero? Perché lui la sentiva vera, sulla pelle, il legame che si era spezzato e un amico che se n’era andato–, e di certo non avrebbe fatto finta di niente, non dopo ciò che gli aveva detto. « Non posso, Sherlock. »
Finalmente, gli occhi di Sherlock si focalizzarono nella videocamera e John si pentì di aver desiderato quel gesto, perché ora le sue iridi erano puntate su di lui, nonostante la schermata fosse in bianco e nero, e la cosa lo stava alquanto agitando. « Cosa vuol dire ‘non posso’, John? » Lo sapeva bene, cosa volesse dire, ma voleva che John glielo dicesse. Era testardo, nonostante leggesse qualcosa, in quei occhi, qualcosa che era umano e tangibile e che graffiava la pelle di John fino a farlo sanguinare. « Non posso, Sherlock. Non posso lasciare ancora la mia vita per te, lasciare tutto quello che sto cercando di costruire, per ritornare insieme a te fino a quando non ci sarà un altro criminale che ti farà fare cose stupide. Non posso sacrificarmi ancora, non posso fare questo, non posso farmi questo. Mi sono fatto tanto di quel male che tu non te lo puoi nemmeno immaginare. Non posso fare finta che sia tutto okay, capisci? Hai bisogno di…hai bisogno di stare da solo, ora, tu stesso mi hai detto che vuoi che sia così. Per favore…per favore, vattene. Non posso, vattene. » Gli occhi di Sherlock erano la peggiore punizione che potesse avere da chiunque stesse manovrando le loro vite, c’era tutto, in quelle iridi, tutto quello che a parole non sarebbe stato capace di dire.
Tutti i sentimenti che stava provando strabordavano dai suoi bulbi e investivano John come uno tsunami, facendogli venire la nausea. Sentiva le gambe molli e si accorse di avere una lacrima solitaria sullo zigomo solo quando chiuse gli occhi e li sentì umidi. Dolore, dolore che non accennava a scemare, ma che, anzi, continuava a muoversi impetuoso in lui, così tanto da farlo morire dentro, ancora e ancora. « Io l’ho fatto per te. » Mormorò Sherlock, non c’era nulla delle emozioni che sembravano creare ombre lungo tutto il suo viso, c’era solo rabbia –la rabbia che muoveva ogni cosa, da due mesi. « Ho fatto tutto questo per te, ho salvato la tua vita e tu dici che hai la tua vita a cui pensare. » John non sapeva cosa dire, la gola così secca da rasentare l’irrealtà. Lo sapeva cosa stava succedendo a Sherlock, in quel momento: combattere tutti gli altri sentimenti per far posto alla cattiveria, alla furia. « Addio John. »
Lo vide sparire come un fulmine, lasciando il buio davanti a John. John che non riusciva più a reggersi in piedi, John che aveva urlato il nome di Sherlock mentre sentiva l’anima in ginocchio, cercando di farlo restare perché, diavolo, no che non voleva vederlo in quello stato, nonostante tutto –la persona più umana di questo mondo ed era quella la verità. Se n’era andato prima di mostrare le sue debolezze, cercando di rimanere forte, cercando di non finire in mille pezzi, come era finito John non appena aveva visto il cadavere di Sherlock riverso in una pozza di sangue. Rimise la cornetta al proprio posto, prendendo un respiro profondo e scacciando quella foschia che gli appannava la vista e lo faceva barcollare –l’unica volta che l’aveva fatto era stato riempito di esplosivo. Era la stessa, medesima, struggente situazione. Cercò di calmarsi, si mise a riordinare i pochi libri che aveva portato dall’appartamento a Baker Street –la sua vera casa. Non pensarci, non pensarci.
Si sentiva come se avesse perso qualcosa di non rimpiazzabile, aveva amato troppo quell’uomo e ora aveva perduto tutto –poteva andare peggio?. Ci aveva provato, John, aveva provato finché aveva potuto, era andato anche oltre i suoi limiti, contro la sua eterosessualità, contro i suoi principi, contro le malelingue, era andato contro la polizia, contro al mondo intero e ciò che gli era rimasto in mano erano briciole di qualcosa che non esisteva più. Si sentiva così stanco, ora. Prosciugato di tutte le energie che servivano per sopravvivere, ridotto come un’ombra confusa su un vetro appannato. Aveva finalmente ottenuto la sua vendetta, fargli provare almeno un minimo di quel dolore che aveva sentito lui in quei due mesi, eppure sentiva di non aver conquistato niente. Nessuna gloria, nessun amore, nessuna felicità, solo il triste capolinea di qualcosa di irrisolto, ma già perduto –perso qualcosa che non si poteva rimpiazzare, l’amore di sempre, il contorno di tutti suoi giorni, la nitidezza della sua intera esistenza. Si trascinò fino al letto, ancora sfatto dalla nottata precedente.
Provò a dare un paio di colpi al cuscino, fece gli angoli al lenzuolo e provò ad annullare tutti i pensieri, fallendo. Era lui, era Sherlock, radicato dentro di lui dal primo secondo in cui aveva posato gli occhi su di lui. Bellissimo in tutto il suo essere speciale. Si mise sotto le coperte ancora vestito, coprendosi fino al mento e affondando la testa nel cuscino. A tutti serviva qualcosa per vincere la notte, fosse anche il più piccolo spiraglio di speranza.* John si sentiva così perdente, da restare con gli occhi sbarrati contro al soffitto, le parole di Sherlock che affioravano nella sua mente e bruciavano tutto. Sherlock, Sherlock, il mio Sherlock. Scoppiò a piangere, in un curioso déjà-vu della sua vita dopo l’incidente in Afghanistan.
I singhiozzi che gli scuotevano il petto, Sherlock che appariva chiaro davanti a lui, impresso nella sua retina a fuoco. Sherlock con i suoi occhi ghiacciati, Sherlock in un mare di lava, qualche momento prima. Sherlock che rideva, Sherlock sull’orlo di una crisi di nervi. Sherlock sempre, Sherlock che aveva deciso di lasciare alle sue spalle, ma che sapeva, non avrebbe mai avuto il coraggio di dimenticare. Sherlock. Sherlock che amava, Sherlock che avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni.
Si sentiva invisibile, inadatto, incompreso. Era il destino di tutti quelli che sentivano troppo. Il destino di tutti quelli che amavano troppo. La via obbligata del troppo pensare era veder svanire, sotto un velo di incomprensibilità, quell’ illogico mondo e restare irrimediabilmente soli.** Solo. Ancora.
 
 
 
 
 
Sveglia. Borbottio. Ciglia attaccate l’una all’altra. Bagno. Doccia. Caffè, senza zucchero. Respirare. Far battere il cuore.
John si sentiva come un automa quella mattina, la mano che si muoveva da sola per mischiare il secondo caffe della giornata, in ambulatorio. Sarah gliel’aveva gentilmente offerto vedendo il suo stato di semi incoscienza in cui era caduto, gli occhi fissi sul muro di fronte e il paziente che aspettava la ricetta per le medicine. Era stanco, non aveva dormito praticamente niente per tutta la notte, in una continua lotta con se stesso, ciò che provava e ciò che non voleva più provare. Si passò una mano sugli occhi, cercando di cacciare quella spossatezza che lo rendeva nervoso e intrattabile. Non era colpa degli ammalati e nemmeno dei suoi colleghi se lui conosceva Sherlock Holmes –era colpa del destino e, in buona percentuale, di Mike Stamford.
Buttò il bicchiere di plastica nel cestino e si preparò per il prossimo paziente, cercando di focalizzare tutta la sua attenzione sul suo posto di lavoro e non altrove –chissà dove, si stava già facendo ammazzare da altri criminali? Senza di lui? No, basta. La dottoressa che anticipava i pazienti nel suo studio, arrivò tutta trafelata, il camice sgualcito e lo sguardo confuso. « Dottor Watson, c’è un ragazzo che dice di stare molto male, ha rimesso nelle ultime quarantotto ore e dice di non riuscire a reggersi nemmeno in piedi. Lo faccio entrare? » John avrebbe voluto rispondergli con una nota sarcastica –no, lo lasci pure fuori, a morire sul pavimento!–, ma si trattenne, facendo un gesto sbrigativo con la testa e alzandosi dalla sedia, pronto per sorreggere il nuovo arrivato.
Si diede dello stupido, più e più volte, quando il paziente entrò nel suo campo visivo e riconobbe la figura accartocciata di Victor –ovvio, l’arte di mentire, ingannare e recitare era insidiata in tutti loro. Strinse le labbra, arrabbiato, mentre la ragazza sorreggeva Victor per un braccio, con l’ansia a trasformarle il volto. John rimase fermo a braccia conserte, gli occhi di Victor che si muovevano veloci dal pavimento, al viso dell’infermiera fino a lui, con il sottofondo ironico che li caratterizzava sempre.
Si accasciò sul lettino, privo di forze, mentre la ragazza gli scostava i capelli, arrossiva e se ne andava, sbattendo la porta alle sue spalle. « Siete davvero le persone più spregevoli su questa Terra. » Proruppe John, ad un tratto, facendo nascere una sentita risata da parte dell’altro. « Tu non rispondevi al cellulare e mi evitavi, non mi hai lasciato scelta. » Sbuffò, mettendosi finalmente a sedere e ritornando la persona composta e piena di salute di sempre. « Ho saputo cos’è successo ieri sera. » Come giravano le voci a Londra non succedeva da nessun’altra parte, pensò, distogliendo lo sguardo da lui e affondandolo fuori dalla finestra. « C’è stato solo un disguido, tutto risolto. » Victor alzò un sopracciglio, accigliato. « A quanto ho capito, non c’è nulla di risolto in tutta questa faccenda. » « Non sono affari tuoi.” « Invece sì. » John stesse in silenzio, cercando di non fare una sfuriata in piena regola. Victor scese dal lettino e si avvicinò a lui, gli occhi fissi sul suo viso che non volevano farlo respirare.
« John, senti, lo so che è difficile. E’ dura, è Sherlock, è sempre stato così. Io ti ho tenuto nascosto ciò che era giusto nascondere, ma tu sei come un fratello per me, un amico… » Ritornò a posare gli occhi su di lui, sentendo quelle parole entrare dentro e riscaldarlo. « Hai parlato con lui? » Chiese John, appoggiandosi alla scrivania, seguito subito da Victor. « Sì, mi ha mandato un messaggio e io sono andato da lui. Era sconvolto, anche se faceva finta di niente, sembrava crollare a pezzi dietro tutta la sua immobilità e non ha spiccicato una parola. Mi aveva detto che sarebbe venuto da te…ha rovinato tutto come sempre? »
John non sapeva più come si parlasse, immaginando Sherlock nel loro appartamento a Baker Street, solo come lo era stato lui solo un mese prima, con un comportamento che rasentava quello tenuto a Baskerville. Triste, era in quello stato anche lui. « E’ venuto a parlare con me. » Incominciò, cercando di mantenere una posa rilassata e neutra, ma non riuscendoci. Era Victor, era un suo amico, nonostante tutto, e John era stanco di nascondersi dietro a belle facciate. « Non l’ho fatto salire, abbiamo parlato al citofono. » Victor sgranò un momento gli occhi, ma non parlò, cosa che rincuorò enormemente John. « Lui mi ha chiesto di tornare con lui, nel suo modo contorto, e io gli ho detto di no. Non posso, non voglio. E’…troppo presto, ancora. Doloroso. Lui mi ha detto addio e se n’è andato. » Era stato sintetico, non aveva voluto veramente dire cos’era successo, cos’aveva visto dal videocitofono –la tormenta negli occhi di lui che crepava il cuore di John, ancora, ancora e ancora.
« E a te sta bene così? » Chiese Victor, con una punta di rabbia nella voce. « Certo che mi sta bene così! Ti devo forse ricordare cos’ha fatto? » « Ora deve solo capire se vuoi continuare a vivere nei rancori del passato o pensare al presente e al tuo possibile futuro. Sei disposto a lasciarlo andare per davvero? » Victor prese in mano il fermacarte dalla scrivania, incominciando a passarselo da una mano all’altra, gli occhi che continuavano ad incentrarsi su di lui.
Certo che lo voleva lasciare andare, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare in quei mesi. Voleva punirlo, fargli capire come si stava da soli, smarriti e abbandonati. Voleva che, finalmente, pronunciasse qualche parola di vero sentimento, tanto da convincerlo a ritornare da lui, piano piano.
Ma era Sherlock e tutti quei desideri si tramutavano solo in fumo incolore e insapore, riempiendolo nuovamente di delusione. « Se sei sicuro di volerlo lasciare andare, sicuro al cento per cento, allora io non vi fermerò e lascerò che ricominciate a vivere separatamente, ma se c’è anche solo una piccolissima parte di te che si sta pentendo di non averlo fatto salire a parlare con te, se solo c’è una parte che ha mancanza di Sherlock, allora è mio dovere di amico fare in modo che ritorniate uniti, insieme. La scelta è tua, però. Spetta a te decidere. » Victor rimise a posto il fermacarte, dandogli una solidale pacca sulla spalla e facendo per uscire dallo studio. « E comunque… » Disse ad un tratto, aprendo la porta in plastica lucida e ritornando a guardare John. « Anche Sherlock è rimasto in silenzio. » Se ne andò via, lasciandolo in un mare di confusione che non gli piaceva per niente. Cosa aveva voluto dire con quella frase? Che Sherlock era disposto a riprovarci un’altra volta, mister non-mi-piace-nessuno-in-questo-mondo-idiota? Brividi. L’infermiera ritornò dentro, accompagnando una madre con la sua bambina di qualche anno mentre la mente di John era ormai persa, alla deriva di pensieri troppo grandi. Lavoro, sei al lavoro, John Watson, riprenditi, pensò, aprendo la bocca alla bimba con lunghi riccioli neri. Sherlock. « Respira profondamente, brava. » Sherlock. « Stenditi, ecco, sei bravissima!” Sherlock. Sherlock. « Ora prova a tossire un po’ e poi abbiamo finito, su. » Sherlock. Lasciò una carezza sulla testa della piccola, sorprendentemente silenziosa, e prese la sua decisione, sperando che quell’idiota non avesse cambiato numero di cellulare in tutto quel tempo di lontananza.
 
Stasera, nel mio appartamento. Dobbiamo parlare. JW
 
Lasciò il cellulare sulla scrivania, il peso dal cuore che diminuiva lentamente, lasciando posto ad un sorriso appena nervoso. Lanciò un’occhiata all’orologio fissato al muro mentre regalava una caramella al gusto di menta alla bimba. La resa dei conti che, imperterrita, si avvicinava.
 
 
 
 
 
« Come va, consulente investigativo? » Chiese Victor con evidente scherno, guardando Sherlock seduto sul pavimento dell’appartamento a Baker Street, contornato da fogli e foto. « Non ho tempo da perdere con te e le tue stupide chiacchiere, Victor. Sono impegnato. » « Oh, beh, quindi non vuoi sapere che sono appena stato da John. » La testa di Sherlock si alzò di scatto, intrappolandolo sul posto con le sue iridi chiare. « Infatti, non mi importa. » « Oddio, smettetela di fare i bambini! » Sherlock lasciò perdere, ritornando a fissare un’immagine zoomata di un braccio.
« Ha detto che ha pensato molto a quello che vi siete detti… » Provò, cercando di attirare la sua attenzione, ma Sherlock sembrava ostinato a dimenticare la sua esistenza in quel luogo. « Insomma, non sei un minimo curioso di ciò che sta provando lontano da te? » « Ti sorprenderà la mia risposta, ma no. Ho chiuso con…John Watson. E’ anche meglio, visto che ora la mia concentrazione è tutta sul lavoro. » Victor alzò gli occhi al cielo, spazientito.
Se parlare con John era stato potenzialmente duro –almeno ad arrivarci a parlare con lui, visto che aveva dovuto ricorrere a trucchetti idioti per raggiungerlo–, provare ad avere un discorso serio con Sherlock Holmes senza arrivare alle mani era quantomeno un’impresa titanica. « Ha detto che ti vuole bene. » Sherlock si arrestò per un momento, facendo cadere una nuova foto dalle mani, per poi riprendersi nuovamente, gli occhi che non accennavano ad alzarsi da terra.
Eccolo lì, il punto debole. Voleva sentirselo dire, voleva che glielo dicesse John perché ne aveva un disperato bisogno. Idioti, pensò Victor, sedendosi in mezzo alle scartoffie di Sherlock, davanti a lui. « Ti vuole molto bene, in realtà. Solo che ora è molto ferito e tu lo sai bene perché. » « Non mi trattare come un bambino perché non lo sono. » Sembrava un bimbo sperduto dopo una particolare sgridata della mamma, con i riccioli che gli nascondevano il viso e il borbottio arrabbiato. « Forse anche lui vorrebbe sapere che gli vuoi bene. » Si decise ad alzare il viso verso il suo, una punta di irritazione nello sguardo. « Te l’ho mai detto che non ti sopporto? »
Victor piegò le labbra in un accenno di sorriso, sentendo che era la cosa giusta, che Sherlock aveva capito che non avrebbe affrontato la realtà nascondendosi dietro una bugia. « Me l’hai detto un paio di volte, sì. » Anche Sherlock ghignò, ritornando a prestare attenzione al suo lavoro. Okay, il suo lavoro per quel giorno l’aveva fatto, si disse, alzandosi e stirandosi i jeans scuri con le mani –se esisteva un paradiso, pretendeva il posto d’onore.
Un lieve rumore lo distrasse dall’osservare il suo eccentrico e vecchio amico d’avventure, facendogli spostare lo sguardo sul tavolino pieno di cartellette aperte. Rintracciò il telefono di Sherlock sotto il marasma e sbloccò la schermata, pieno di positività per quel nuovo messaggio –sapeva che la rubrica di Sherlock era molto scarna e il nome che era apparso gli faceva presagire il meglio. Finalmente. 
Un sorriso pieno gli riempì il viso non notato da Sherlock, mentre leggeva il resoconto stretto che John aveva scritto all’altro. Perfetto, stupendo. Alla buon ora, soprattutto. « Credo che qualcuno abbia fatto il primo passo. » Borbottò, lasciando il cellulare nella sua postazione originale e dirigendosi verso la porta. Sherlock mormorò qualcosa, ma non accennò a distogliere l’attenzione dallo schema che aveva appena afferrato. Uscì piano, socchiudendo la porta e restando a vedere uno Sherlock che, dopo pochi minuti, afferrava il cellulare e leggeva avidamente ciò che John gli aveva scritto. Sorrise insieme a Victor, ancora nascosto, prima di poggiare il telefonino tra le sue gambe, la bocca che non accennava a spegnere quella manifestazione di gioia, per una volta. Victor si decise a scendere le scale, orgoglioso di se stesso. In fondo, gli esseri umani erano tutti dannatamente, odiosamente e irrimediabilmente sentimentali. E nessuno faceva eccezione.
 
 
 
 
 
Stava impazzendo, in quel maledetto bilocale asettico. Improvvisamente, tutto quello che aveva reputato banale e di nessuna importanza aveva incominciato a valere più di qualunque altra cosa nella sua vita.
Da quel tavolino poteva capire che aveva pianto dopo aver parlato con lui, qualche giorno fa? Dalla riga sul parquet poteva arrivare a definire la sua vita inutile fino a quel giorno? Dio, Dio, Dio. Non gli aveva dato un orario preciso e si odiava per quello, sobbalzando ogni volta che qualcuno muoveva qualcosa fuori dalla sua porta. Non doveva preoccuparsi, si diceva, sei nella tua area di gioco, sei in casa tua e lui partirà svantaggiato per questo, ma sapeva che, invece, era tutto il contrario. Oddio, stava per vomitare la cena che non aveva mai ingerito.
Un bussare la porta gli fece rompere il bicchiere che stava pulendo, gli occhi puntati improvvisamente all’ingresso come un cervo davanti alla luce. Pericolo, una dannata paura che la conversazione degeneri, ritrovandosi nuovamente al punto di partenza. Cercò di raggruppare i cocci in un angolo, prima di aprire la porta, sciogliendo i muscoli contratti delle spalle con una mano. « Ti ho spaventato. » Annunciò, restando fermo nel corridoio del condominio. « No, ero solo…sovrappensiero. » Mormorò, puntando gli occhi sul suo collo –pessima, orrenda idea– pur di non incontrare i suoi. « Ho preferito arrivare direttamente qui, in caso avessi cambiato idea e non volessi aprirmi la porta d’ingresso. » Oh, oh sì. John annuì, cercando di riattaccare la spina del cervello a tutto il resto del corpo. « Entra pure. » Gli fece spazio ed entrò, portando alle narici di John il profumo intenso che aveva sempre contraddistinto la loro casa, ai tempi in cui vivevano insieme –e anche dopo, c’era sempre stato, nei suoi ricordi.
Sherlock si fermò in mezzo al salotto, lo sguardo che vagava da tutte le parti e raccoglieva dati. Imbarazzante. Tutta quella situazione era imbarazzante, tanto che si pentì di non avergli dato appuntamento in un bar o ristorante o qualunque altro posto popolato da gente. « Carino. » Sussurrò Sherlock, poco convinto. « E’ quello che si ottiene con un lavoro minimo e una pensione ai limiti dell’umano. » Un silenzio insopportabile scese nella stanza, lasciando John camminare avanti e indietro davanti alla porta della sua camera da letto con Sherlock che lo inseguiva con lo sguardo, ancora fermo al centro del salotto. « Quindi? » « Quindi cosa? » John ebbe un déjà-vu –ancora. La sua vita ormai sembrava tutta un trito e ritrito di cose già vissute, di cose che facevano male. « Se mi hai fatto venire qui ci dev’essere un motivo. » Sì, sì, era giunto il momento. O adesso o mai più, John Watson. « Vuoi…vuoi sederti? » Mormorò John, indicando il piccolo sofà lì vicino. Sherlock non sembrava voler accettare quella proposta, ma lo fece lo stesso, aiutandolo a sbollire un po’ di ansia. « Okay, beh… » Incominciò, stropicciandosi le mani e mettendosi davanti a lui.
« Ecco, vedi, sono stati dei giorni orribili, per me. Giorni che preferirei non fossero mai avvenuti, ma ci sono, sono tra noi e sono reali. Io…io non so se potrò mai perdonare ciò che hai fatto. » Sherlock aggrottò le sopracciglia, a metà tra il confuso e l’irritato. « Mi hai fatto venire qui per ribadire ciò che già so? Bene, non ce n’era bisogno. » Si alzò dal divano, stringendosi i lembi del cappotto –cosa ci faceva ancora con il cappotto?– più vicino al petto. John si avvicinò di più a lui –pessima, orrenda, cattivissima idea– e lo ammonì con gli occhi. « Non ho finito. Siediti. » Sherlock sembrava più docile degli altri giorni e fece come gli era stato chiesto, continuando a tenere gli occhi puntati su di lui. « Dicevo, non credo di poter mai perdonare il tuo gesto. Hai finto un suicidio, mi hai riempito di bugie e hai fatto sì che rimanessi da solo per un mese, non accennando a farmi sapere che eri in vita. Se non fosse stato per Victor, non so nemmeno per quanto tempo avresti dilungato questa situazione e ciò mi fa paura. E’ stato duro, no, Dio, è stato come morire. Tu non c’eri e io non sapevo più che fare. Questo, questo non potrò mai dimenticarlo, non potrà mai far tornare il nostro rapporto come prima. » Si fermò per un momento, sentendo il magone fluire su per la gola.
« E’ tutto? » Domandò Sherlock, l’espressione indecifrabile come sempre. « Dimmelo tu. » « Non mi piacciono gli indovinelli. » Rispose calmo, fulminandolo con gli occhi. John stava per gettare la spugna, con quel tipo. Era tutto frasi dette e non dette che lo lasciavano stordito ogni volta, lasciandolo in bilico. « C’è qualcosa che vorresti dire a proposito? » Riprovò John, cercando di fargli sputare fuori quelle parole che era restio a dire –non ci pensava nemmeno a confessare tutto lui, lasciandolo fuori da tutti i problemi. Stavolta doveva mettersi in gioco anche lui. Sherlock restò in silenzio con gli occhi fissi nei suoi. Parlami, parlami, ti prego. « Sono venuto da te e tu mi hai respinto, non ho più nient’altro da aggiungere. » John sbattè la mano sul muro contro il quale si era appoggiato poco prima. « Smettila di fare così! Non sei la vittima della situazione! » « Ho già ripetuto le mie motivazioni, non so cosa tu voglia sentirti dire! » Sbottò anche lui, alzandosi dal divano. « Forse se tu la smettessi di fissarmi dal tuo stupido piedistallo e mi guardassi davvero in faccia, capiresti ciò che voglio sentirmi dire! » « Hai detto che non volevi più vedermi. » « Ero arrabbiato! » « Ora non lo sei più? » John aprì e chiuse la bocca, cercando le parole adatte con cui rispondergli. Sherlock si era fatto più vicino, nella foga di quel discorso, e ora guardarlo negli occhi gli creava non poca difficoltà. « Potresti smetterla di far finta che non t’importi? » Mormorò John, stanco di quel continuo litigare che lo tormentava ogni volta che incontrava Sherlock. « Devi dirmi quello che vuoi, Sherlock. Devi dirmi se hai bisogno di me o se preferisci restare tu e il tuo lavoro. Devi dirmi se t’importa veramente di me o è solo per avere al tuo fianco un leccapiedi che ti farà tutti i complimenti che il tuo ego desidera. Devi dirmi la verità perché me lo devi. Mi devi tutto, Sherlock. »
Sherlock abbassò le palpebre e le strizzò con forza, insieme ai pugni. « Che cosa vuoi sapere? » « Perché mi hai respinto, perché te ne sei andato quando io avevo bisogno di te. » « Potevi morire e la pista era troppo flebile per farla svanire da uno stupido errore. Dovevi stare lontano perché dovevo rimanere nascosto. E’ stato l’unico modo. » Lo sapeva che si stava sforzando e lo apprezzava davvero.
Era stupendo, con la testa un po’ abbassata e i capelli vaporosi, come una nuvola. Era fantastico anche con il cappotto dopo tutto quel tempo chiuso nel suo appartamento. Magnifico mentre cercava di andare contro la sua natura, per John. « Volevo starti vicino. » Disse John, frenando l’impulso di allungare la mano verso il suo viso scurito dalla vergogna per tutte quelle emozioni che andavano fuori dal DNA che si era imposto. « Devi per forza pensare al passato, John? » Sbuffò stizzito, Sherlock, stringendo forte i denti. « O mi perdoni o lasciamo perdere, non esiste una terza opzione. » Abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un caldo soffocante nel suo maglione a righe bianche e nere. Avrebbe voluto rispondergli scortesemente –non mostrarti troppo preso da come andrà a finire la nostra amicizia, mi raccomando!–, ma la voce sembrava averlo abbandonato, seccandogli la lingua. « Il problema non sta nel cosa voglio io, Sherlock! » Riuscì a mormorare, spazientito. « Tutto sta nel cosa vuoi tu. Non posso giocare da solo, non questa volta. » « Non ti farò una dichiarazione romantica, non pensarci nemmeno. » John sbuffò, facendo un passo indietro e facendo distanziare i loro corpi. « Non è questo che ti sto chiedendo. » Sbotta di nuovo John, cercando di non fantasticare in quali momenti gli avrebbe potuto fare una dichiarazione romantica –letto e Sherlock nella stessa frase non erano proprio il miglior modo per restare concentrati. « Vorrei che…vorrei che potessi avere ancora un coinquilino su cui fare affidamento. » Ammise, distogliendo lo sguardo dal suo. « Non so se mi basta. » « Te l’ho detto, nessuna dichiarazione romantica uscirà dalla mia bocca. » « No, non in quel senso. Non so se mi basta essere solo un coinquilino, per te. » John si morse la lingua, imbarazzato.
Era stato azzardato, stavano giusto per riequilibrare le cose e lui aveva alzato nuovamente un altro polverone, confondendo tutto. Idiota. Stupido idiota. Sherlock aggrottò le sopracciglia, prima di dipanare le rughe della fronte in una espressione sconfitta. « Sì, va bene, non solo come coinquilino, lo sai. » A John balzò il cuore in gola, sorpreso dalla ventata di avvenenza che Sherlock stava sfoggiando con così tanta calma. Era giunto forse il momento? « Lo sai che siamo anche…legati in una relazione di amicizia reciproca a tempo indeterminato. » Detta così sembrava tanto un punto di accordo in un qualsiasi contratto –cinico come il peggiore degli scienziati. John non riuscì a trattenere un gemito di delusione alle parole di Sherlock –amicizia? Solo amicizia? Perché amicizia?.
« Ho detto qualcosa che non va? Insomma, sai cosa volevo dire! » « No, è tutto okay. » Provò a dire, cercando di non far trasparire nessun segno sul suo corpo, in modo da non far dedurre a Sherlock il suo stato d’animo. Inutilmente. « Non ti stavi riferendo all’amicizia, non è così? » « No, senti, lascia stare. Va bene, essere amici, va bene. Possiamo provarci di nuovo, sì. »
 John si sentiva così in imbarazzo da voler affondare nel pavimento e non tornare a galla mai più. Sherlock, ora, sembrava aver preso coscienza del segreto più importante del mondo –oddio, doveva scappare da lì, subito, immediatamente. « Dovremmo….dovresti, insomma, andare a casa. E’ tardi, è buio, continueremo il discorso domani, okay? » Avrebbe voluto potersi dividere in due persone per poter vedere la faccia di assoluta idiozia che stava sfoggiando in quel momento, sotto la radiografia di Sherlock che non accennava a muoversi. « John… » C’era per forza bisogno di parlare?, si chiese frustato, passandosi la mano tra i capelli e osservando la porta d’ingresso con particolare interesse. « John, lo sai cosa penso riguardo queste cose… » Sembrava incerto, come se stesse camminando su una sottile lastra di ghiaccio pronta a spezzarsi al minimo movimento  brusco. « No, non ti stavo chiedendo…no. » Provò a negare, scuotendo la testa energicamente e muovendo con enfasi le braccia.
Dannazione, dannazione, dannazione. Dannazione a lui e alla sua boccaccia e dannazione anche a Sherlock, che continuava a far finta che niente e nessuno intaccasse la sua personale bolla di cinica solidità. Sherlock scrollò le spalle, raddrizzando appena la schiena. « Okay, bene. » La patina di imbarazzo che sembrava essersi dissolta solo pochi minuti prima ora era ritornata compatta tra di loro, come un muro invisibile che li faceva rimanere su isole diverse. John si ritrovò, per la prima, senza parole da dirgli. Provava una strana sensazione, qualcosa come una mano trasparente che schiacciava il cuore in una stretta letale, impedendogli di mentire come aveva sempre fatto da quando l’aveva conosciuto. Si ritrovò immobilizzato e stanco, mentre Sherlock si avvicinava alla porta di casa e si sistemava ancora una volta il cappotto.
Si sentì stufo, incredibilmente irritato nel dover continuare a dire bugie e nascondersi e far tacere i suoi sentimenti solo per paura, paura che niente potesse migliore e tutto potesse, miseramente, peggiorare. Inutile era stato tenere al riparo dai tempi il germoglio di qualcosa che sbocciava prepotente dentro di lui, inutile scalciare e smentire le insinuazioni della gente, nella vana speranza di far smettere di crescere anche ai suoi, di pensieri.
Quello che provava per Sherlock –amore, amore, più di amore, era sempre più di tutto, quando c’era lui di mezzo– era mutato senza freno, da una salda fiducia all’amicizia più pura, fino a diventare altro –altro di sbagliato. Scorretto. Così tanto ingiusto?–, un ridimensionamento di se stesso che cercava di scacciare via con tutte le sue forze. Era arrivato al punto di non ritorno, non voleva più lasciare tutto al caso, non ora che aveva davvero rischiato di perderlo per sempre. « Quindi, ti aspetto a Baker Street domani pomeriggio. Lestrade mi ha lasciato il primo caso, smettendola di farmi il broncio ogni volta che lo incrociavo. Potresti anche smetterla di pagare per questo posto orrendo e ritornare lì, se ne hai voglia. Non che io ne abbia, ovviamente. » Mormorò alla fine, borbottando più con se stesso che con John.
Sherlock aprì la porta e le parole uscirono dalla bocca prima ancora che potesse pensare a cosa dire. Prima ancora di respirare. « Io ti odio. » Un fiotto di aria calda, una frase così impercettibile che quasi sembrò che John non l’avesse pronunciata, in un imperturbabile silenzio che, invece, diceva tutto il contrario. Sherlock rimase fermo lì, una mano sulla maniglia, la porta socchiusa che gli faceva smuovere dolcemente i capelli, e le spalle irrigidite. Tutto sembrava morto, ma John sentiva di dover andare avanti o non l’avrebbe fatto mai più. Dirgli tutto e dirglielo subito o sarebbe marcito nel pentimento di un sentimento. « Mi hai lasciato da solo, uno stupido che credeva in un uomo, un bugiardo. » John si fermò un momento, riempì i polmoni d’aria e si sforzò di non far tremare le mani –tutto, tutto, tutto o niente, niente più mezze misure.
« Mi sono fidato di te, fidato quando nessuno era stato in grado di farmi provare un minimo di amicizia, dopo il congedo in Afghanistan. Te ne sei andato nel peggiore dei modi. E’ questo, questo che odio. »  « Pensavo avessimo chiarito, John. » Sbottò, stizzito, girandosi verso di lui e John notò la durezza dei suoi lineamenti. « Non c’era davvero bisogno che mi ricordassi ciò che ho fatto perché me lo ricordo bene anche io, ma grazie per lo spunto. » Prima che John potesse dire qualcosa per fermarlo –non capiva mai niente, quell’idiota, e non gli faceva mai finire un discorso senza che lui ne deducesse il finale. Sbagliando. Odiava anche quello–, Sherlock aveva già sbattuto la porta alle sue spalle, lasciandolo da solo nella stanza. No, no, no, non ancora. « Sherlock? Sherlock! » John gli corse dietro, trovandolo a metà scalinata e afferrandolo per il cappotto. « Ehi, aspetta, non hai capito niente! » Sherlock si girò verso di lui e gli lanciò un’occhiata di fuoco, strattonando il braccio con cui aveva stoppato la sua fuga. « Io capisco sempre tutto, se te lo fossi dimenticato. »
« Quindi hai capito anche che non ti odio realmente? Hai capito che, quello che volevo dire, è che vorrei odiarti, vorrei odiarti per tutte queste cose che mi fanno uscire fuori di testa, ma tu sei tu e io…io non sono più io, quando si parla di te. Non mi hai fatto scegliere, se avessi potuto, per l’ennesima volta, avrei scelto te. Il problema sta nel fatto che sceglierei te anche ora. » Sherlock dipanò piano le rughe in mezzo alle sopracciglia, gli occhi che si fondevano insieme a quelli di John, spezzando un legame e creandone un altro. « Dopo tutto quello che mi hai fatto, volevo davvero non perdonarti, stare lontano da te e fare una vita normale. Ti sei finto morto e io questo non riuscivo ad accettarlo. Ma tu sei qui e sei Sherlock e non posso, davvero, non posso pensare al fatto che tu sia vivo ma lontano da me. » John si sentiva come una stupida ragazzina di quei film romantici e adolescenziali che aveva evitato come la peste per tutta la vita. Un allarme continuava a lampeggiargli in testa, urlandogli che era uno stupido idiota ad essersi esposto così tanto, scoprendo il suo tallone d’Achille.
Poteva sentire le valvole del cervello di Sherlock muoversi veloci, alla ricerca del giusto senso per quelle parole. « Non ti stavi riferendo all’amicizia, prima. E’ così. » Disse dopo un momento interminabile, salendo uno scalino e arrivando vicinissimo a John. Il dottore si sentiva fremere ogni muscolo del corpo, guardando Sherlock da un po’ più in alto rispetto al solito, ringraziando mentalmente le scale che gli davano un vantaggio in altezza. John non rispose, preso com’era a trovare il coraggio di fare ciò che andava fatto, ciò che voleva fare da mesi, sentendo i loro sguardi farsi carne e unirli in un abbraccio che non si sarebbero dati di nuovo –respira, respira, non andare in iperventilazione!.  John chiuse gli occhi, chiuse le mani a pugno lungo i fianchi e recluse tutti i pensieri in fondo alla sua testa, premendo le labbra contro quelle secche di Sherlock. Durò giusto un paio di secondi, il momento di assaporarne la consistenza, per poi ragionare sul gesto completamente sconsiderato che aveva commesso, facendolo staccare in fretta e sgranare gli occhi, pronto per la risposta di Sherlock. Sherlock che stava immobile. Sherlock che non parlava, non muoveva nessun muscolo e lo fissava. Sherlock che, John temeva, non respirava nemmeno. « Non…è che, non…io, solo… » Si sarebbe picchiato, se non si fosse trovato in quella situazione. L’aveva spaventato –l’aveva spaventato? Dio, sperava di no. « Sherlock, credimi, non ho nessuna intenzione di chiederti cose che non…va bene, essere amici. Non so cosa mi sia preso. » « Facciamo finta che non sia successo niente, okay? » Chiese Sherlock, mordendosi il labbro inferiore. John sentì il cuore spezzarsi, ma annuì solamente, risoluto. Andava bene, non aveva nulla del quale rimproverarsi; ci aveva provato, almeno. « Va bene, va benissimo. » John fece per risalire, quando la mano bianca di Sherlock si posò dietro al suo collo e le sue labbra tornarono sopra le sue. Rimase sbalordito per un po’, finchè non si rese conto che Sherlock lo stava baciando –Dio santissimo, Dio santissimo– e che quel miracolo stava accadendo a lui. Premette più forte la bocca contro la sua, poggiandogli le braccia sulle spalle e accarezzandogli i capelli. Bello, bellissimo, perfetto. Incredibile come avesse passato la sua vita cercando di nascondere i suoi sentimenti dietro un muro di spavalderia, orgoglio e testardaggine, per poi ridursi tutto in un istante. Rimasero lì per un tempo indefinito, con Sherlock che brontolava per ogni cosa –John, John, ahia, mi stai tirando i capelli! John, smettila di mordermi il labbro! John, scendi da questo scalino, è noioso!– e John che sorrideva e lo continuava a baciare, impertinente. Tutto, in quell’unico attimo.
 
 
 
 
 
« Ehi, Victor, come stai? » « John! Ho sentito che qualcuno ha pomiciato sulle scale di un condominio! » John arrossì di botto, orgoglioso del fatto che l’altro non potesse vederlo. Si premette il cellulare contro l’orecchio, finendo di mettere a posto le sue poche cose nei cartoni scuri. « Spero non te l’abbia detto Sherlock! » « No, me l’ha detto Mycroft, insomma, un minimo di pudore! » Lo sentiva ridere come non mai e la cosa lo infastidiva e divertiva allo stesso tempo. « Stai tornando a Baker Street, allora? » « Sì, è giusto così, dopotutto. » « Pensi che potremmo…rivederci? » Borbottò Victor, improvvisamente serio. « Ovviamente, Sherlock non vede l’ora che io abbia qualche altro amico per il quale essere irritantemente geloso. » « L’irritante consulente investigativo, che Dio ce ne scampi! » John rise, sentendo bussare alla porta del suo appartamento, prima di veder comparire Sherlock. « John, hai finito? Non devi portare dietro anche la polvere di questo posto immondo. » « John, ti lascio al tuo sfortunato destino! Ci sentiamo più tardi. » John fece per terminare la chiamata quando sentì la voce di Victor richiamarlo. « Sono davvero felice per voi, volevo dirtelo.” « Grazie per tutto quanto, Victor. » « Dai, John! Dai! Noia! » Girò per l’appartamento come se fosse in gabbia, prima di riuscire dalla porta d’ingresso. John si sistemò il cellulare nella tasca dei jeans, prendendo i due cartoni pieni di roba –non sia mai che Sherlock lo aiuti a fare qualcosa di così poco interessante come aiutarlo in qualcosa– e dirigendosi verso l’uscita. Si guardò per l’ultima volta indietro, in quella casa che non era mai stata veramente sua. Così triste, così solo. Un periodo buio, un periodo che non si sarebbe mai scordato, ma che aveva bisogno di essere riposto nello scaffale dei vecchi ricordi dolorosi. « John! » Chiamò una voce petulante dal vano delle scale. « Arrivo! » Era ora di andare a vivere con Sherlock, di nuovo, in un modo tutto diverso. Lo stesso Sherlock, come lo sarebbe sempre stato, ma con quell’aggettivo possessivo –suo– che rendeva l’emozione forte e viva come se fosse la prima volta. « John, sto per andarmene! » Chiuse la porta di casa e tirò un sospiro di sollievo, sentendo il peso di mesi crollare via. Chi restava non lo diceva, si soffermava suoi tuoi occhi e con gli occhi te lo gridava, con tutto l’amore che aveva dentro. Chi restava non voltava il viso lontano dal tuo. E alla fine, ciò che a John importava, era che Sherlock fosse tornato per restare. Insieme.
 
 
 
 
Note:
 
* Citazione di Mary Alice Young                      
** Citazione di Anton Vanligt
 
Questa storia è finalmente giunta al termine. Ha visto luce come una one-shot, passando per una mini-long di due capitoli, di tre, fino ad arrivare a credere che non potesse finire mai. Ma è finita e sono veramente contenta di come io abbia saputo gestire qualcosa di diverso.
Un grazie particolare va a Claudia che è stata la portatrice di quell’incentivo giusto che mi serviva per partire, a Sabrina, Natasa, Jessie, Cristina, Monica, Glass, Greta, Caroline e tutte le altre bellissime ragazze che ho conosciuto, che sono state il supporto per il mio ego e per me stessa. Spero che questo capitolo non deluda nessuna aspettativa. Un abbraccio con affetto ad ognuna delle mie lettrici.

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