One Day Maybe We'll Meet Again

di Ronnie02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue and Welcome New Life ***
Capitolo 2: *** You Drive Me Crazy ***
Capitolo 3: *** A Night Life ***
Capitolo 4: *** Everything that Letos like ***
Capitolo 5: *** Vicky! Oh, my Vicky! ***
Capitolo 6: *** Memories ***
Capitolo 7: *** Maybe From Mars ***
Capitolo 8: *** Into the Infinity ***
Capitolo 9: *** Darkness falls... ***
Capitolo 10: *** A Night to Remember ***
Capitolo 11: *** Full ***
Capitolo 12: *** 25th God's first, 26th my birth ***
Capitolo 13: *** Principle of Entropy ***
Capitolo 14: *** Soulless Is Everywhere ***
Capitolo 15: *** Bottom Of The Ocean ***
Capitolo 16: *** Revenge ***
Capitolo 17: *** Say it, Jared, say it to me! ***
Capitolo 18: *** I Lost Myself In Here ***
Capitolo 19: *** Here Comes The Rain ***
Capitolo 20: *** Is This Who You Are? ***
Capitolo 21: *** Triad, Air, Latin ***
Capitolo 22: *** Time To Go To War ***
Capitolo 23: *** Who I Belong To? ***
Capitolo 24: *** You lie to me! Again! ***
Capitolo 25: *** The Hangover ***
Capitolo 26: *** With you, forever ***
Capitolo 27: *** Can You Imagine? ***
Capitolo 28: *** Hi. Get the fuck off! ***
Capitolo 29: *** Here we are at the start ***
Capitolo 30: *** Before Hate... Now Love ***
Capitolo 31: *** Three... Two... One... ***
Capitolo 32: *** Place That I Can't Stand ***
Capitolo 33: *** Fight For... What? ***
Capitolo 34: *** No Life Without You ***
Capitolo 35: *** Egoistic ***
Capitolo 36: *** Solon The Savior ***
Capitolo 37: *** The Offbeats' Power ***
Capitolo 38: *** Rebirth. Again. ***
Capitolo 39: *** The Beating Of Our Heart ***
Capitolo 40: *** Epilogue. This Never Ending Story ***



Capitolo 1
*** Prologue and Welcome New Life ***


Salve, o popolo di EFP. 
E già, sono qui con un'altra storia. Ma stavolta nella mia collezione di visioni mentali ho voluto aggiungere una storia sulla mia band preferita: i 30 Seconds To Mars.
Loro che mi ispirano sempre mentre scrivo, loro che mi aiutano nelle verifiche (Santo Tomo preghiamo per te), loro che con i loro sorrisi mi riavvivano la giornata.
Loro: Jared, Shannon e (anche se non in questi primi capitoli) Tomo.



Prologue

 
A volte mi chiedevo a che cosa mi servisse andare a scuola. Insegnavano cose talmente inutili; cose che nessuno su questa terra mi avrebbe mai chiesto al di fuori di questo edificio.
Come se per lavorare mi servisse sapere, un giorno, che Uranio è un Gigante di ghiaccio o che Venere ha un periodo di rotazione enormemente inferiore rispetto a quello terrestre. Oppure che Marte ha due satelliti, al contrario della Terra che ne ha solamente uno.
Io non volevo fare l’astronauta e  viaggiare per l’universo con una tuta super ingombrate attaccata con un filo gigante alla navicella spaziale. O perfino diventare una fisica laureata alla migliore università e passare il resto della mia vita a pensare ai numeri, invece che alla vera realtà terrestre.
Allora a cosa serviva studiare tutto questo se dopo due mesi te lo dimentichi già, non essendoci realmente interessata? A niente.
O almeno così credevo, in quel momento, in quella classe grigia e triste che rispecchiava da morire il mio stato d’animo, piena di persone che avrei dovuto conoscere come il palmo delle mie mani ma invece erano a me totalmente estranee, anche se ero stata costretta a viverci vicino per cinque lunghi anni.
Ma forse, in realtà, alla fine tutto questo mi sarebbe servito. Almeno in piccola, o piccolissima parte.
Soprattutto l’ultimo quesito… Marte.


Capitolo 1. Welcome new life!

 
“Sono così triste al pensiero che non ti rivedrò fino a Natale”, mi disse la mia migliore amica, Andrea – anche se io la chiamavo Andy –, all’aeroporto. Eravamo entrambe in partenza per riorganizzare da zero e, soprattutto, da sole la nostra vita. Io sarei partita per la Louisiana, nella sconosciuta cittadina di Bossier City per lavorare e vivere una vita migliore, mentre lei partiva per Francoforte, in Germania. Avrebbe lavorato e studiato lì, vista la sua passione per il tedesco.
Non ci saremmo più riviste fino a Natale, quando avremmo pagato a metà il suo viaggio di andata e ritorno per venirmi a trovare. Nel frattempo la tecnologia ci avrebbe aiutato a tenerci in contatto, visto che non eravamo abituate a certe enormi distanze.
“Credo che dovrai sopportarmi via Skype per tutto il resto della tua vita, tesoro”, le sorrisi abbracciandola forte. Mi sarebbe mancata davvero tanto.
“Meno male, non avrei resistito a non vedere la tua bella faccina pazza per quattro mesi!”, mi prese in giro, tirandomi la coda alta che avevo fatto per resistere al caldo asfissiante di agosto nella bella e caotica città di Milano.
Che estate era stata quella! L’avevamo passata sui libri per superare l’imminente esame di maturità e agli inizi di luglio eravamo impazzite a causa degli orali.
Ma alla fine eravamo andate bene: un 87 per lei e un 76 per me. Non mi lamentavo, anzi.
“I voli per New York, Francoforte, Londra e Rio de Janeiro stanno per partire”, gracchiò l’altoparlante. Bene, era ora.
“Sei sicura che riuscirai ad arrivare a Bossier City sana e salva?”, mi chiese per la trentesima volta riguardo il mio scalo, non essendoci un diretto come il suo.
“Stai tranquilla, ce la farò!”, ridacchiai abbracciandola di nuovo, mentre gli occhi si lucidavano un pochino. Mi era mai piaciuto dire addio, o comunque arrivederci.
“Bene, allora ripeti la rotta con me: prima la mitica e famosa New York e poi la piccola e insulta Bossier City. Per arrivare a casa dovrai prendere il taxi, ricordi?”, ridacchiò facendo la solita maestrina.
“La vuoi smettere?! Se continuiamo perdiamo entrambe l’aereo, e il mio viaggio sarà abbastanza lungo, perciò non voglio rischiare di dover rimandare ancora più tempo perché non stai zitta”, la zittii facendola sorridere e poi salutandoci per l’ultima volta.
“Voglio essere sicura che tu stia bene”, mi disse lei, con la dolcezza che sapevo la caratterizzava.
“Io starò benissimo, anche se mi mancherai da morire”, le risposi con un sorriso. “E vedi di non combinare danni a Francoforte! Io non ti pago la cauzione per evadere!”.
“Come se fossi io la ribelle casinista”, mi prese in giro, accogliendo di buon grado la giusta risposta alla mia insulta battuta. “Anzi, cerca di non uccidere il tuo capo e di fare la brava!”.
“Sì, sì farò la brava bambina”, dissi per poi spingerla un po’ via. “Ora vai o perdiamo i voli! Ti voglio bene”.
“Anche io, tesoro. Ci vediamo a Natale, Vero”, mi salutò andandosene lontana, muovendo la mano, ornata dallo smalto bluastro che si era messa sulle unghie.
“Salutami la Germania, Andy”, risposi io tintinnando con tutti i braccialetti che avevo ai polsi.
Ora ero veramente sola, così feci un paio di respiri e mi diressi verso il giusto gate. C’era tantissima gente che doveva partire e forse dovevo aspettarmelo. Il primo volo su cui sarei salita era per New York ed eravamo ad agosto; molti attendevano proprio questo periodo per partire e fare la vacanza dei loro sogni.
Loro scappavano dalle realtà giornaliera per passare una o due settimane all’insegna del riposo o delle gite culturali; io scappavo dalla mia vecchia e tragica vita italiana per avviarmi nella foresta del futuro nei grandi e famosi Stati Uniti d’America.
Welcome new life!
 
“I’m sorry, miss, can I sit there?”, mi chiese un uomo abbastanza alto, con i capelli riccioli e neri, con la pelle marroncina-biancastra. Per l’accento con cui aveva parlato inglese poteva benissimo essere spagnolo, ma anche portoghese per quel che ne sapevo.
Gli feci segno di accomodarsi e lui mi sorrise mettendosi comodo. Ero sull’aereo che mi avrebbe portata verso il Barksdale Airport, nella periferia di Bossier City, e molti posti ora erano vuoti. Quando ero salita su quello per New York facevamo quasi fatica a salire tutti e non era  stata quella grande ed educativa esperienza di vita: l’agenda che mi ero portata in borsa era stata riempita di scritte, canzoni, disegni o scarabocchi vari in meno di quattro ore e le seguenti due e mezza dovetti arrangiarmi con quell’aggeggio di “ultima generazione” chiamato lettore mp3. Tutti, da due anni prima a quel momento, erano impazziti e ne avevano comprato uno. Il mio era uno dei nuovi, appena uscito, ed era un regalo per la promozione da mio fratello. I miei genitori non mi avevano onorata di un loro regalo, ci mancherebbe…
Le duecento canzoni che a malapena ci stavano lì dentro le sentii così tante volte che a fine viaggio potevo cantarle come se fossi l’autrice, da tanto le conoscevo bene.
“The plane is gonna be land, I hope you have a good travel with us”, diceva la voce fintamente gentile e premurosa della hostess dietro di noi, mentre tutti mi mettevano la cintura e si preparavano ad atterrare.
Mi tolsi le cuffiette, spensi tutto e misi anche io la cintura. L’aereo si cominciò ad inclinare, piano piano, e ad entrare nella foschia della città. Strano, non era sereno il tempo ed eravamo nel sud! Forse ero io che portavo sfortuna.
Risi della mia insana logica e guardai fuori dal finestrino proprio al mio fianco. Giù, sempre più in giù, le abitazioni si facevano sempre più vistose, le strade cominciavano ad ingrandirsi. Giù, ancora più in giù, vedevo l’aeroporto, le personcine pronte ad accoglierci.
Ba bam! Le ruote toccarono il terreno e il motore rallentò pian piano, fino a fermarsi del tutto.
Le hostess parlarono ancora e ci dissero che potevamo scendere, così si formò una grande fila indiana per uscire da quella gabbia volante.
Scesa di lì, andai a prendere i bagagli, che arrivarono immediatamente, e uscii dall’aeroporto e presi un taxi per casa mia.
Era un appartamentino vicino al ristorante dove avevo trovato lavoro, nel piccolo centro della città e i miei genitori avevano deciso di comprarmelo, sotto quasi obbligo della nonna che si preoccupava per la mia partenza da marzo, quando avevo annunciato a tutti la mia decisione. A luglio infatti avevamo spedito tutti gli scatoloni e ora era arrivata l’ora di sistemarli. Sarebbe stata una lunghissima giornata!
“Eccoci qua, Delhi Street 9”, mi disse in inglese in taxista. Bè, non avevo così tanti problemi di comunicazione come tanti mi avevano anticipato. Al diavolo loro e i loro discorsi! “Fanno quindici dollari”.
Gli diedi i soldi, aggiungendo anche cinque dollari di mancia, sapendo che lì erano abbastanza fissati e poi scesi dall’auto, prendendo tutti i miei vari bagagli.
Eccomi qui, in una di quelle tipiche casine a schiera americane, fatte di legno, quel materiale che se le toccavi anche solo con un dito cadevano a terra.
Ma era mia. Solo mia… e l’adoravo già.
Mi feci coraggio per partire con la mia nuova vita e camminai lungo il piccolo vialetto che portava alla porta d’ingresso, contornata da una piccola veranda, come nei film. L’aprii e mi ritrovai nel salotto, pieno zeppo di scatoloni impilati e scritti. I mobili, almeno, erano già montati ed erano fantastici.
Per la prima volta nella loro vita, i miei genitori avevano sborsato per me una grande cifra. Questo dava loro parecchi punti che non si erano guadagnati in passato.
Andai al piano di sopra, dove una c’era una semplice camera da letto, con solo un letto, un armadio e una scrivania, e un piccolo bagno, ma perfetto visto che ero da sola. Era tutto un po’ troppo semplice per ora, ma sarebbe bastato aprire gli scatoloni e rimettere tutto al solo posto per portare un po’ di movimento e allegria alla casa. Non c’era nemmeno bisogno di ridipingere, perché non era così messa male come avevo avuto paura che fosse nelle ultime tre settimane.
“Bene… al mio tre, tutti pronti”, parlai a me stessa posando i bagagli vicino al letto e facendo altri due respiri profondi per prepararmi al peggio. “Uno… due… tre!”.
Scesi di sotto e cominciai a prendere lo scatolone con scritto “cucina”: lì c’erano aggeggi quali il microonde, la macchina del caffè o roba varia che venne subito posizionata in maniera piuttosto decente sui piani di lavoro del mobile della cucina. Non ero una maga nelle faccende pratiche, ma infilare una spina nella presa non doveva poi essere così difficile!
Dopo la cucina passai ad “accessori sala”: lì c’erano i cuscini o i rivestimenti per il divano, oppure tutti quelli oggettini che abbelliscono una stanza. In più ci avevo messo dentro qualche quadro. Ci ritrovai anche il dipinto che mi aveva fatto Milena, la mia amica fiorentina, qualche anno fa. Lo misi con gli altri sul muro della sala.
Poi passai allo scatolone rinominato “camera mia 1”: lì dentro c’erano altri cuscini, le varie coperte e le lenzuola, e tutti i vestiti che ero riuscita ad infilarci dentro. Poi c’erano anche altre foto di quando ero piccola o quando facevo ancora danza moderna. Avevo sedici anni… mi sentivo vecchia a guardare quelle foto, anche se ora ne avevo solo tre in più e non venticinque!
Scesi di nuovo e presi “camera mia 2”: ovvero la lampada da mettere sulla scrivania, i vari accessori da mettere sulle mensole, piccoli e pochi pupazzi che mi ricordavano la mia infanzia, la quantità indecente di libri con cui riempii subito la libreria e lo stereo che mi ero portata dietro. La mia vita senza uno stereo in camera non esisteva. La musica per me era troppo importante.
In fondo a quello scatolone avevo creato un piccolo spazietto, quasi segreto e nascosto, che avevo rinominato “Vero&Andy”. Lì dentro c’erano tutte le foto di me e della mia migliore amica, da quando ci eravamo conosciute a nove anni fino al nostro diploma. Le appiccicai subito sull’armadio in modo un po’ disordinato ma abbastanza artistico. In fondo ero sempre stata brava a fare queste cose.
Alla fine, poi, schiacciai tutti gli scatoloni vuoti e li misi sopra l’armadio, in modo che potessero essere riutilizzati in un probabile futuro. O forse anche no.
Poi, l’ultimo rimasto era “bagno”, ma ci misi così poco tempo a sistemare tutto che non lo presi nemmeno in considerazione.
Quando finii anche quello tornai in cucina e mi mangiucchiai qualcosina, che avevo messo nella borsa. Avrei dovuto fare la spesa perciò guardai l’orologio per vedere se potevano ancora essere aperti i negozi: la una e mezza di notte.
Oddio! Non mi ero nemmeno accorta di averci messo un giorno intero a sistemare tutto – che in effetti era relativamente poco – e il tempo era volato via. Tutto il sabato a sistemare casa e lunedì dovevo già presentarmi al lavoro. Meno male che avevo il giorno dopo libero. Santa domenica, ti ringrazio di esistere!
Per il frigo pieno ci avrei pensato poi, o avrei vagabondato alla ricerca di un supermarket per tutto il giorno o avrei mangiato in giro. Così avrei visto come funzionava il mondo dei bar e dei ristoranti americani.
Sospirai e poi andai a lavarmi e a mettermi il pigiama. Direi che era ora di andare a dormire. Sempre la solita smemorata, Vero!
La mattina successiva non mi svegliai prima delle otto e mezza, ovvero quando il sole mattutino riuscii ad entrare nella finestra di camera mia. Mi misi seduta e mi stropicciai gli occhi prima di aprirli. Wow, era così strano essere lì; avevo pensato che fosse stato tutto solo un sogno e che la mattina mi sarei di nuovo trovata nella mia vecchia casa. E invece era tutto vero, per fortuna.
Mi alzai e andai a fare colazione di sotto con quel poco cibo che mi era rimasto. Sia lodato il Signore che di solito non mangiavo praticamente niente o sarei morta di fame. Al contrario di mio fratello, che mangiava come non so cosa, io spizzicavo qua è là qualcosa ed ero già piena. La differenza che, anche se mangiavamo quantità diverse di cibo, eravamo magri uguali.
Finito il mini pasto tornai di sopra per farmi una doccia veloce e pulirmi i denti. L’acqua fredda mi sciolse un po’ dal caldo che oggi si era presentato a casa. Finalmente sembrava davvero un agosto nel sud degli Staties.
Poi tornai in camera e m’infilai una canottiera blu e dei pantaloncini della tuta verdastri. Abbinati ovviamente alle mie immancabili Vans a scacchi verdi e neri, anche se ormai erano talmente scritte che il colore contava poco!
Ora… che fare? Casa era sistemata, perciò decisi di uscire un po’ dalle nuove quattro mura e vedere un po’ la vera luce del sole.
Scesi al piano terra e uscii dalla porta d’ingresso trovandomi nella veranda. Intorno a me c’erano degli alberelli bassi, che definivano il contorno della mia proprietà dalle altre, ma erano tutti un po’ smorti.
Mi voltai, cerando qualcosa che potesse contenere dell’acqua per innaffiarli. Scoprii che gli aggeggi per il giardino erano dietro, dove un minuscolo spazio di terra e erba definiva la fine della casa. Non era liscio quel pezzo, forse perché il vecchio proprietario ci aveva lavorato e poi l’aveva abbandonato a se stesso.
Comunque, riempii l’innaffiatoio e feci il giro di tutte le piante per ridare loro un po’di colore, sperando di non averle perse per sempre.
“Ehi, sei la nuova proprietaria, non è così?”, parlò una voce femminile. Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti una donna sulla cinquantina, bionda – forse tinta – e con gli occhi chiari. Forse era una mia nuova vicina.
“Ehm, sì, sono io”, spiccicai due parole in croce, come se fosse in ansia. Di solito non ero così nervosa a parlare con degli estranei del genere, ovvero non troppo spaventosi.
“Oh, piacere! Sono felice che questa casetta abbia un nuovo padrone. È sempre stata una bella casa e speravo proprio che qualcuno la riprendesse”, disse tenera come se stesse parlando di un animale domestico invece che di una casa.
“Oh, be sono felice. Sì, è davvero messa bene”, continuai sorridendo.
“In più avrò una bella e giovane vicina!”, si complimentò. Mi sembrava di stare con mia nonna paterna, che si divertiva a mettermi in imbarazzo presentandomi a tutte le sue amiche e facendomi vedere. “Oh, ma che sbadata. Io mi chiamo Constance”.
“Veronica. Veronica McLogan”, risposi dandole la mano pulita, visto che l’altra teneva l’innaffiatoio ed era un po’ bagnaticcia.
“Sei inglese?”.                                                                                         
“No, italiana”, corressi sapendo il perché. Il mio cognome non rispettava esattamente la mia provenienza. “Dei miei parenti però erano scozzesi”.
“Wow, ho sempre amato l’Italia, ma ho avuto la sfortuna di non poterci mai andare”, commentò lei quasi triste. “Penso sia un paese davvero bello”.
“Sì, lo è”, sorrisi pensando che da noi invece si pensava lo stesso ma riferito agli Stati Uniti. Chi non ha il pane, ha i denti; chi non ha i denti, ha il pane…
“Bè, ti lascio al tuo lavoro, oggi i miei figli vengono qui a pranzo e devi preparare da mangiare”, mi disse. “Anzi, ti va di venire da noi? Magari non hai avuto tempo di conoscere un po’ di gente visto che ti vedo solo ora. Quando sei arrivata?”.
“Ecco… ieri dopo pranzo e ho passato tutto il pomeriggio e la sera fino alle due a sistemare casa”, sorrisi.
“Oh, allora non sarei nemmeno riuscita a prendere qualcosa!”, indovinò. “Quindi sei ufficialmente invitata. Spero solo che quei due non ti infastidiscano troppo. Venti nove anni il più piccolo e sono ancora delle pesti!”.
“Ok, va bene”, ridacchiai salutandola e promettendole di andare da lei alla una e mezza. Era gentile, forse anche troppo visto che per lei ero una sconosciuta, perciò mi faceva piacere esaudire un suo desiderio.
Finii il mio lavoro e poi tornai in casa per fare il resoconto di ciò che dovevo fare, tra la casa e il pranzo dalla signora Constance.
 
 
 ...
Note dell'autrice:
Io sono solita a cercare un rapporto con i miei lettori, quindi vorrei ricominciare le presentazioni anche in questa storia.
Mi chiamo Greta e anche se nel mio nickname c'è il nome della protagonista questa NON è una storia autobiografica di un sogno: non ho capelli rossi, non ho occhi verdi, non abito in America, non conosco nè Constance nè i Leto, non faccio la ballerina e non ho gambe mozzafiato (questo però mi piacerebbe fosse vero xD).
Ho solo voluto inserire qualcosa di personale per farla sentire davvero mia. <3
Per il resto amo cantare, amo scrivere e spero che questa storia vi piaccia perchè ci sto lavorando duramente.

Con tutto l'affetto che la reale Ronnie02 vi può dare.... alla prossima!

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Capitolo 2
*** You Drive Me Crazy ***


    Ciao Echelon! Bentornati a questa storia. Sono rimasta impressionata con il primo capitolo per i 48 mi piace tramite Facebook... un record per me! Questo vuol dire che, anche se molta gente non ha recinsito perchè non ha un account EFP, ha letto e gli è piaciuta.... GRAZIE!
Quindi, felice e sorridente, vi lascio al nuovo secondo capitolo, dove arrivano.... bè, non ve lo dico, tanto lo sapete già xD



Chapter 2. You Drive Me Crazy
 
 

Lavata, pulita, truccata e profumata. Mancava… vestita! Ero di nuovo in asciugamano – me e le mie fissazioni sul fare costantemente la doccia ogni volta che mi sporcavo anche minimamente – e me ne stavo in camera mia senza fare assolutamente nulla. Ore: una  e dieci. Ad arrivare a casa della mia vicina ci avrei messo meno di sessanta secondi, perciò potevo dire di essere anche in anticipo.
Mi avvicinai all’armadio e l’aprii, cercando qualcosa di casual, ma non troppo, ma nemmeno di elegante, anche se qualcosina ci stava.
Alla fine decisi per una camicia rossa e dei pantaloncini neri, accompagnati dalle mie amate All Stars basse e nere. Raccolsi i capelli in due treccine basse e mi rimisi i miei milioni di braccialetti, i miei usuali tre anelli per mano, i miei orecchini a stella neri e le mie solite quattro collanine al collo. No, non ero fissata con gli accessori, no!
Scesi di sotto e guardai il mio orologio nero, che avevo ormai da due anni da un regalo di mia zia. Ero in anticipo ancora di dieci minuti.
Controllai in giro che tutte fosse al proprio ordine, sistemai freneticamente i quadri della sala aspettando che il tempo passasse, e alla fine uscii di casa, mettendo la chiave nella tasca destra dei pantaloni, mentre nell’altra misi il telefono.
Una e ventisette: dlin dlon!
“Oh, ciao cara! Accomodati prego, sei ancora la prima che arriva”, mi aprì la porta la donna bionda facendomi segno di entrare. Ero la prima?! Ma se mancavano tre minuti a e mezza? “Ti mostro la casa, così non ti annoi mentre li aspettiamo. Dovrebbero arrivare a momenti”.
Si vedeva che Constance era paziente e conosceva i suoi figli. Capivo che anche se diceva così, dentro di sé non li aspettava davvero prima delle due, ma ovviamente non voleva essere scortese.
Pure io di solito ero ritardataria, perciò la cosa non mi diede fastidio. Era solo quando uscivo con qualcuno la prima volta o comunque con un estraneo che cercavo di arrivare in anticipo, visto che non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione.
La casa di Constance era bellissima. Aveva un salotto grande ed elegante, con un bel caminetto, ora spento, a governare la scena. In cucina ora erano presenti tutti i cibi che avremmo dovuto mangiare e già mi sentii male. Era davvero troppa roba, avrebbe potuto sfamare dei nomadi egizi che viaggiavano per anni senza vitto!
Poi mi fece vedere lo studio barra camera della musica. A quanto pareva i suoi figli suonavano la chitarra e la batteria e usavano quella per strimpellare un po’. Avevano una piccola band ma non ancora un album di debutto o roba del genere.
“Non ho idea del perché le tengano ancora qui, visto che ora abitano da soli. Forse perché queste sono le prime che hanno usato”, commentò lei, quando le chiesi perché erano lì. “Infatti per la maggior parte delle volte vengono qui a suonare, anche se ora non lo fanno così spesso”.
“Non suonano più?”.
“No, anzi, ma ci sono problemi di membri e il più delle volte vengono qui solo per sapere un mio commento se devono fare un piccolo concerto nei dintorni. Spero che riescano in questa impresa, la musica è sempre stata nei loro cuori”, sorrise. “Quando erano piccoli non si addormentavano con le storie, ma solo con le canzoni”.
Ridacchiai con lei e poi salimmo al piano superiore. Era una casa simile alla mia come struttura, ma altamente più bella.
Come me, aveva il bagno e le camere, ma tutti erano arredati benissimo. La prima camera era la sua, con un letto matrimoniale e una grande finestra da cui, molto in lontananza, se stringevi gli occhi, potevi vedere il Red River.
Poi dall’altra parte c’era una stanza più grande, divisa in due, rispettivamente dei due suoi figli. Erano completamente anonime, come la camera della donna. Non c’erano aspetti caratteriali. Erano come la mia, appena entrai in casa. Piatte.
Il campanello suonò una seconda volta e Constance fece un sorrisone, scendendo subito di sotto e invitandomi a fare lo stesso. Diedi un’ultima occhiata alla camera e notai le uniche due note caratteristiche: una foto di due bambini con i testa dei sacchetti di carta, appesa al divisorio verticale, e quattro strani simboli scritti in pennarello indelebile sotto di essa. Chissà che volevano dire…
Scossi la testa e scesi da Constance.
“Eccola qui! Ragazzi, vi presento Veronica McLogan, la mia nuova vicina di casa”, mi presentò mentre scendevo ancora le scale, attenta a dove mettessi i piedi. “Sta nella casa qui a fianco, dove c’era il vecchio Billy”.
Alzai lo sguardo immediatamente, sentendomi chiamata in causa, e mi accorsi della presenza di due ragazzi accanto alla mia nuova e unica “amica”. Uno era alto, pallidino, con i capelli scuri e un po’ lunghi, e con due occhi azzurro-grigi come la madre. L’altro era più basso, meno muscoloso, occhi verde-marroni, con i capelli cortissimi e scuri, e con i tratti facciali tutti i Constance.
“Loro sono i miei figli Shannon e Jared”, mi disse sorridendo e indicandoli uno ad uno.
“Piacere”, dissero in coro avvicinandosi per porgermi la mano. Io strinsi loro le mani e poi gli sorrisi, forse per non sentirmi così estranea alla situazione. In fondo era una specie di pranzo di famiglia e io non c’entravo una beata mazza.
“Come hai detto che ti chiami?”, chiese quello dallo sguardo di ghiaccio, Jared.
“Veronica. Ma di solito mi chiamano Vero”, risposi in un sorriso, di nuovo.
“Vero? E che soprannome è Vero?”, si stupì facendo una smorfia. La madre sgranò gli occhi, ma io ridacchiai.
“Nah, hai sì la faccia da Veronica”, disse l’altro, Shannon, sottolineando il mio nome con un tipico accento americano. Mi faceva ridere il mio nome così, ma sapevo che dovevo attendere una decina d’anni e se fossi rimasta lì l’avrei pronunciato nello stesso modo. “Ma non da Vero. Jay, dai, scervellati e troviamo un nickname per Veronica. Veronica… Ve… ro… ni… ca…”.
“Ronnie!”, esultò Jared sorridendo e battendo le mani. Cosa aveva detto Constance quella mattina? Ventinove anni il più piccolo e sono ancora delle pesti!
“Già! E bravo il mio fratellino”, si complimentò Shannon, senza nemmeno prendermi in considerazione. Ehi, era il mio nickname! “Che ne dici… Ronnie?!”.
Ah, ecco. “Non lo so, fate come vi pare”, dissi aggiungendo mentalmente “tanto mi chiamerebbero così ugualmente”.
“Avete finito, voi due? Lasciatela un po’ in pace o si spaventa e mi abbandona di nuovo, lasciandomi da sola”, li zittì Constance, indicandoci il tavolo da pranzo per cominciare a mangiare. Mi sedetti vicino a Constance e di fronte a Shannon.
“Allora, come ci sei finita in quella baracca?”, mi chiese Jared sporgendosi un po’ oltre suo fratello per focalizzarmi.
“Ehm… mi sono trasferita ieri qui da Milano, dopo aver finito gli esami e aver preso il diploma di un liceo scientifico-linguistico”, raccontai in breve. “Volevo una nuova vita, visto che anche mio fratello, che ha ventisei anni, si è trasferito da un bel po’”.
“Quanti anni hai tu?”.
“Diciannove”, sorrisi vedendo gli occhi di Shannon sgranarsi.
“Sembri più grande, sai?”.
“E tu sembravi più intelligente! Ti ha detto che ha appena preso il diploma!”, ribatté Jared facendo la faccia da come fa questo ad essere mio fratello?. “Aspetta, però, qui il liceo di finisce a diciotto anni. Ti hanno bocciata?”.
“No, noi facciamo cinque anni, non quattro”, specificai io. Era vero, gli americani arrivavano fino al quarto anno di high school, e non cinque come noi.
“Wow… che storia”, commentarono insieme. Se non fosse che si vedeva altamente dall’aspetto fisico, avrei giurato che fossero gemelli. Poche volte che li avevo sentiti parlare, dicevano le stesse cose insieme.
“Eccoci qui!”, arrivò Constance a farli stare zitti ancora una volta, con in mano un vassoio che portava fin troppe cose buone. Shannon e Jared sorrisero e cominciarono a mangiarsi il cibo con gli occhi.
“Buoni voi, prima le signore”, sorrise lei facendo loro una specie di linguaccia. Risi a vedere i bronci dei figli sostituire i precedenti sorrisi.
Odiavo lasciare le cose nel piatto, anche se mi succedeva spesso, soprattutto quando mi ospitavano, perciò evitai di farmi dare porzioni megagalattiche di cibo e mi obbligai a mangiarle tutte.
“Sul serio mangi così poco?”, chiese Constance il mio piatto mezzo vuoto e quelli trasbordanti dei suoi figli.
“Si vede, è magra come uno stecchino ed è pallida come un cadavere”, commentò Jared.
“Parla quello abbronzato”, sussurrai anche se mi sentii. Fece per aprire la bocca, ma poi la richiuse, non sapendo controbattere.
“Oddio, hai zittito Jared Joseph Leto!”, si stupì Shannon. “Ti prego, sposami!”.
Sgrani gli occhi, manco avessi salvato la vita di qualcuno, e non seppi più cosa dire. Constance si mise a ridere, chiedendo al figlio di smetterla di fare l’idiota, Shannon mi sorrise come a farmi capire che stava scherzando e Jared sbuffò, continuando a fissare il suo piatto, facendo cadere dei capelli davanti al viso quasi a formare una barriera.
“Oh, povero piccolo Jay”, lo prese in giro il fratello. “Mi dispiace tanto, ti abbiamo offeso?!”.
“Vaffanculo”, rispose  lui non spostandosi di un centimetro. Uh, permaloso il ragazzo.
“Eddai, piccolo Jay, non fare il cattivo”, continuò Shannon ridendo sotto i baffi. Constance sbuffò e tornò in cucina. Mi alzai e la seguii.
“Capisci perché non averli intorno a volte è un bene?”, ridacchiò tirando fuori dal forno in prossimo pasto. Oddio, ma mi voleva uccidere? Sarei morta con tutto quel cibo, e avrei risolto il problema di non fare la cena quella stessa sera.
“Sono sempre così?”, chiesi cercando di aiutarla in qualche modo.
“Sempre. Lo erano, lo sono e, ne sono sicura al cento per cento, continueranno ad esserlo per il resto dei loro giorni. Prima o poi mi faranno diventare pazza”, disse indicandomi di tornare al tavolo, visto che aveva fatto tutto da sola. “Grazie comunque”.
Al nostro ritorno Jared e Shannon erano ritornati due bravi fratelli e parlavano di varie possibili canzoni che avrebbero voluto incidere se un giorno ne avrebbero avuto la possibilità.
“Ma voi che fate oltre a suonare?”, chiesi intromettendomi nei loro discorsi.
“Qualche lavoretto in giro, niente di troppo complicato, oltre ai soliti concerti che qualcuno ci offre”, disse Shannon.
“Io invece ho fatto un film! Si chiama Requiem For A Dream, uscirà il 27 ottobre”, si montò la testa il fratello. Ma era simpatico, ed era giusto che si pavoneggiasse per una sua meta, anche se non troppo. In quel caso avrei provveduto io stessa a spaccargli la faccia.
“Wow, com’è girare un film?”, chiesi interessata. Da piccole io ed Andy ci divertivamo a creare nostri film e a fare finta di essere persone che mai saremmo diventate: una maestra, uno spazzino, un avvocato, persino una bambolina ed un carillon.
“Fantastico! Ma estremamente difficile… a proposito mamma, portami un po’ di zucchero!”, chiese sorridendo Jared.
Feci una faccia confusa e Shannon non tardò con la spiegazione. “Il regista gli ha chiesto di astenersi a diverse cose, tra cui lo zucchero per qualche mese”.
“Forte”, commentai, anche se non avevo la benché minima idea per il quale avrebbe dovuto farlo.
“Magari se questi due non ti hanno fatto ancora scappare, potreste andarlo a vedere insieme”, disse Constance, dopo aver fatto una smorfia al figlio come per dirgli non cominciare a fare l’idiota.
“Sarebbe divertente”, commentò subito Jared, che già aveva finito di mangiare il secondo e aveva mezza bocca piena. Si sentii un colpo e, ci avrei potuto giurare l’anima, qualcuno pestò i piedi al ragazzo. Strinse le labbra e chiuse gli occhi per qualche secondo, evitando di parlare ancora.
“Sì, ma ora è presto, manca ancora un sacco di tempo”, riprese Shannon evitando di ridere. “Tu invece che fai?”.
“Lavoro qua vicino. Alla pizzeria e ristorante L’italiano”, ridacchiai. Oh, il fato cosa mi portava a fare. “Penso che mi abbiamo presa solo per il fatto che vengo dall’Italia”.
“Eri di Milano, no?”, chiese la donna.
“Nei dintorni”, corressi.
I seguenti minuti furono stranamente tranquilli e silenziosi. Vedevo Jared ticchettare con le dita sull’altro braccio, mentre io ero calma. A molte persone il silenzio mette imbarazzo se si è in due o più, invece a me piaceva. Molte volte, a degli appuntamenti, rimanevo ferma  fissare il cielo restando zitta e molti ragazzi si lamentavano per questo, come fosse un difetto.
“Come mai qui?”, chiese Shannon all’improvviso.
“Cosa?”.
“Come mai ti sei trasferita qui a Bossier City?”, continuò. “Voglio dire, di solito si scelgono città come New York, Los Angeles o Seattle… non una piccola cittadina come Bossier City”.
“Non mi sono mai piaciute le grandi città”, riposi semplicemente. “O almeno non per viverci tutti i giorni per il resto della mia vita”.
“Ottima scelta, brava”, sorrise Constance. “Noi invece siamo qui da quando è nato Shannon, più o meno”.
“Già, abbiamo fatto un po’ di avanti e indietro per gli Staties, ma alla fine mamma è tornata qui”, riprese Jared. “Io e Shan per ora abbiamo trovato una casa qui, ma presto andremo a Los Angeles… è meglio per la band”.
“E magari per altri film, no?”.
“Certo!”.
“Progetti futuri oltre al ristorante?”, mi chiese Constance, come una mamma preoccupata.
“Ci penserò nel futuro”, sorrisi. Per ora andava bene così, magari l’anno dopo mi sarei iscritta a qualche college, visto che ora non avevo abbastanza soldi, e avrei ripreso a studiare. Sapevo che avrei dovuto saltare un anno, se mi fosse trasferita, ma avevo deciso così lo stesso. Andy invece sarebbe andata subito all’università di Arte e Cultura di Francoforte.
“Non sono abituata a farmi grandi progetti di vita, non li ho mai fatti”, specificai dopo qualche secondo. “Già decidere il giusto liceo fu traumatico, non avevo idea di che avrei voluto fare da grande e le scelte possono sempre cambiare, così scelsi un miscuglio: scienze e lingue. Non mi piace abbattere delle possibilità, perché non sai quale sarà la migliore”.
“Ma bisogna sempre fare delle scelte”, commentò Jared.
“Certo, per esempio ho dovuto scegliere tra Milano e Bossier City. Forse lì avrei trovato la mia anima gemella e ora invece resterò sola. O forse la troverò qui. Magari qui troverò la carriera e se fossi rimasta a Milano chissà che avrei fatto”, risposi. “Ma perché prendere scelte per il futuro, se tutto può cambiare da un momento all’altro?”.
“Che vicina saggia!”, rise Constance per evitar un’atmosfera troppo pressante. Me lo diceva sempre la mia prof di italiano che mi facevo troppi problemi! Avrei dovuto fare la filosofa…
“Già… però è una bella filosofia”, commentò Jared. Appunto.
“Come se lui conoscesse qualcosa sulla filosofia”, ribatté il fratello facendomi ridere. “Non mi sapresti dire nemmeno il nome di un filosofo”.
“Cosa?”, s’offese Jared. “Tu… brutto figlio di… scusa mamma!”.
Lei scosse la testa, disperata e volse lo sguardo verso di me, come a dire perdonami per averti fatto conoscere questi due.
“Dai, prova”, lo sfidò Shannon.
“Ma che ne so io!”, sbuffò lui. Appunto. “Questo non vuol dire che non possa essere un filosofo!”
“Ah ah… divertente questa, come se tu avresti la capacità di ragionare un pensiero intelligente”, scherzò il fratello maggiore.
“In verità in greci pensavano che ogni persona che è capace di pensare – in pratica tutti – potesse essere in grado di comporre una teoria filosofica”, feci la saputella, visto che me lo ricordavo ancora, grazie al recente esame.
“Ah! Visto? Maledetto te, fratello”, disse Jared battendo il suo palmo contro il mio e ridendo.
“Ma dovevi proprio dirlo?”, mi supplicò Shannon sbuffando.
“Scusa”, scherzai , guardando Jared battere le mani e parlottare da solo su quanto fosse bravo o inveire contro il fratello.
“Ragazzi finitela… anzi, ora porto il dolce così state zitti”, se ne andò di nuovo Constance. Ma voleva stare ferma qualche minuto quella santa donna?
“Oh, buono! Dolce…”, finse di sbavare, Jared, facendomi ridere. Mentre Shannon si mise subito dritto sulle sedia, per provare a sbirciare dentro la cucina.
Nel mentre un ricciolo rosso mi cadde sugli occhi e lo rimisi al suo posto, dietro l’orecchio.
“Hai dei capelli fantastici!”, commentò Jared, che si era distratto dal dolce. “Non sono rossi, ma nemmeno marroni… sembrano fatti di rame”.
Risi. Avevo sempre odiato il colore dei miei capelli. Nel medioevo, le rosse erano considerate le streghe per eccellenza perché quella sfumatura così inusuale riportava alla mente il fuoco dell’inferno.
"A te non piacciono?”, chiese il fratello notando che avevo fatto una smorfia.
“Le persone con capelli del genere vengono abbastanza prese in giro”, commentai evitando la spiegazione storica e da nerd. Meno male, arrivò Constance a salvarmi da altri commenti.
“La torta preferita dei ragazzi: la torta al cioccolato e le pere”, annunciò Constance mettendo in tavola la meraviglia. I ragazzi ne mangiarono una tonnellata – praticamente la finirono solo loro – mentre io e la loro mamma ne mangiammo al massimo due fette.
“Fanno schifo”, sussurrò Constance in un sorriso. “E io che credevo si sarebbe comportati decentemente in presenza di una ragazza”.
La guardai curiosa. “Cosa? Adesso sono offesa”.
Lei mi guardò, e vedendo il mio sorriso, ridacchiò. “Mi dispiace di averti usata per trasformare questi due in persone decenti, ma a quanto pare è stato tutto inutile. Ma almeno tu hai conosciuto qualcuno”.
“Già, due pazzi”, continuai, vedendo che Shannon prendeva l’ultima fetta e Jared che gli saltò quasi addosso dicendo che era la sua.
Constance prese il piatto, ora vuoto, e tornò in cucina, dicendomi di stare pure seduta che faceva da sola.
“A che ora dobbiamo andare, Shan?”, chiese Jared perdente, visto che il fratello si era aggiudicato la torta.
“Tra dieci minuti partiamo, calmati. E se arriviamo in ritardo fatti suoi, tanto senza di noi non può fare niente”, disse con fare malefico, riferendosi a non so chi.
“Tu che fai oggi, occhi-belli?”, mi chiese Jared voltandosi verso di me.  Cosa?
“Hai già trovato un nuovo soprannome?”, chiesi fingendomi scocciata… e in effetti lo ero. Come mi aveva chiamata?
“Hai dei begli occhi… Ronnie. Allora che fai?”.
“Oggi starò a casa, mentre domani comincio alle sei il turno di lavoro. Mi tocca il turno serale agli inizi e visto che è estate c’è anche più gente”, dissi cercando di capire cosa aveva in mente.
“Buono a sapersi”, tagliò corto Shannon diventando un po’ irrequieto e tagliando i tempi. “Ora ci conviene andare, va”.
“Ma avevi detto dieci minuti!”, s’intestardì Jared facendo il broncio come un bimbi di cinque anni.
“E ora dico che andiamo. Se no ti prendi le tue gambine e torni da solo”, sbuffò Shannon alzandosi e andando a salutare sua madre. Quando  fece leva con il braccio destro sul tavolo per alzarsi, mi stupii: non avevo notato la muscolatura che aveva sulle braccia, all’inizio. Doveva essere lui il batterista di famiglia.
“Che gli è preso?”, chiesi a Jared che guardava il fratello salutare Constance. Come mai all’improvviso voleva subito andarsene?
“Non chiederlo a me, a volte è tutto fuori”, disse facendo una smorfia e alzandosi anche lui. “Mi sa che mi tocca andare”.
Mi alzai e gli porsi la mano per salutarlo. “Mi sono divertita oggi, siete davvero simpatici”.
“Sì, anche tu. Magari ci vediamo in giro”, disse stringendo la mia mano e non mollandola. “Sappiamo dove abiti”.
“E’ una minaccia?”, ridacchiai facendo scivolare le mie dita dalle sue senza essere troppo rude.
“No, scherzo. Ora vado a salutare mamma”, disse per poi dileguarsi con il fratello.
“Ciao Ronnie”, mi salutarono tutti e due, quando uscirono.
“Ciao”.
Chissà che gli era preso…


...
Note dell'autrice:
Ma Shanimal, cosa mi combini! Cosa mi combini! Che avrà da essere tanto arrabbiato.... mah, lo scopriremo nella prossima puntata xD

Riguardo il discorso 'conoscenze' di cui ho parlato l'altra volta, vorrei chiedervi una cosetta: se poteste avere un giorno con i Mars, da sole/i, che fareste? Che chiedereste loro? Cosa gli direste?
Io... io... io li abbraccerei senza mollarli più, perchè hanno illuminato la mia vita, mi hanno fatta sorridere e mi hanno sostenuta, anche nel poco tempo da cui li ho conosciuti. Sono il mio portafortuna mattiniero xD 

Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 3
*** A Night Life ***


Ehilà, sono tornata! In ritardo, perchè sono passate due settimane (si vergogna amaramente per ciò che ha combinato) ma sono tornata! E con me anche quei due strafighi dei Leto e la loro nuova amichetta. 
Oggi però eviteremo di parlare un pochino dei musicisti, presentiamo una persona tanto tanto importante.... ma chi sarà dovreste scoprirlo voi! Muahaha, come sono cattiva xD
Bene, mi sembra di aver detto ciò che volevo dirvi e... see you soon, in fondo xD



         Chapter 3. A Night Life

         

“E così tu sei… Veronica McLogan, giusto?”, mi chiese un uomo sulla mezza età quando mi presentai al lavoro, lunedì sera.
“Sì”, risposi semplicemente.
“Bene, allora qui funziona in questo modo: ogni cameriere ha diversi tavoli e deve servire solo quelli, così c’è più ordine e la gente non deve strillare per chiedere anche solo un tovagliolo”, mi spiegò. “Resta sempre sull’orbita di quei tavoli e allontanati solo se devi venire in cucina a prendere i piatti. Tutti hanno sempre qualcosa da ridire, anche solo per la musica, per cui non starai mai troppo ferma”.
“Tutto chiaro. I precisi tavoli, stare vicini a quelli, allontanarsi solo per le portate”, confermai ritrovandomi a ripensare alle ore passate a studiare astronomia, con le orbite e i pianeti…
“Perfetto. Tu dovrai occuparti dei tavoli sei, due, sette a e sette b, che sono stati divisi per la posizione, ma quello non è un tuo problema. Pensa a sei, due, sette, sette”, mi disse chiaramente, credendo che fossi scema o che non capissi ancora così bene l’inglese. Erano numeri, si facevano alle elementari! Dovevo solo ricordarmi sei, due, sette a e sette b. Non mi sembrava così difficile.
“Ok, tutto chiaro”, ricapitolai di nuovo, facendo annuire il capo.          
“Bene, se hai bisogno chiamami Sean, e starò principalmente in cucina, ma se non è davvero importante chiedi pure ai tuoi colleghi che sanno tutto”, mi disse chiamando a se due ragazze e un ragazzo. “Loro sono Vicky, Lucy e Brad. Ragazzi, lei è Veronica”.
“Piacere”, dicemmo tutti, uno alla volta, presentandoci di nuovo da soli.
“Bene, direi che se è tutto chiaro puoi cominciare. La mancia la puoi tenere tu e sono problemi tuoi, non sono un capo cattivo, tranquilla”, ridacchio Sean. “Ti lascio con loro, buon lavoro novellina”.
L’uomo se ne andò e il ragazzo, Brad, scappò via con Lucy per tornare al lavoro. La prima ragazza, Vicky, invece rimase con me.
“Benvenuta, spero ti troverai bene”, mi disse sorridendomi. Sembrava molto simpatica. Era un po’ più bassa di me, con i capelli e gli occhi abbastanza scuri. La pelle era abbronzata e si era truccata gli occhi molto bene. Aveva dei jeans corti, le scarpe da ginnastica nere e la maglietta del locale, che Sean aveva dato anche a me. Fortuna che non era un’intera divisa.
“Vado a cambiarmi, così comincio subito”, le dissi. Lei mi indicò il bagno del personale e mi sorrise, tornando al lavoro. Feci di fretta, mettendo via la borsa in quegli strani armadietti e cambiandomi subito. Legai di nuovo i capelli con le trecce e tornai dai clienti.
Il tavolo “due” era stato appena occupato e Brad, che stava vicino alla cassa, mi fece segno di prendere le ordinazioni.
Tempo di prendere carta e penna e mi impiantai davanti ad una famigliola di cinque persone: genitori, due gemelli sulla decina d’anni ed una piccolina che avrà avuto qualche anno.
“Buonasera signori, benvenuti a L’italiano, desiderate già ordinare?”, chiesi ripetendo le parole che nei bar tutti ripetevano sempre a me ai tempi in cui io ero la cliente e loro i camerieri.
“Certo, vorremmo due pastasciutte e due di porzione ridotta. Potremmo usare le nostre pappine per la piccola, vero?”, mi disse la madre, una donna sulla trentina d’anni, bionda con gli occhi marroni.
“Assolutamente sì”, sorrisi alla piccola, che m’indicò con un sorriso e facendo un solito mugugno da neonato felice. “Che bella… e da bere?”.
“Faccia una bottiglia di acqua naturale e una gasata”, disse ancora la donna prima che il marito potesse parlare.
“Ok, scritto tutto. Arriviamo presto”, dissi notando che il tavolo “sette b” stava attirando l’attenzione di due giovani sulla soglia del locale.
Tornai da Brad e gli diedi le ordinazione, dicendomi di aspettarlo per le bibite, mentre poi avrei potuto servire altri prima di portare i piatti al tavolo “due”. 
In pochi secondi mi diede un vassoio, mettendoci sopra le due bottiglie e quattro bicchieri. Aggiunse anche un piattino e un cucchiaio.
“La bimba”, mimò ad un mio sguardo perplesso e io annuii svelta per poi portare le bibite alla famiglia.
“Grazie mille”, disse l’uomo. Sembrava mio padre: capelli brizzolati, riccioli e la pelle chiara. Era vestito con un completo, segno che forse era appena tornato dal lavoro.
Sorrisi e mi avvicinai al “sette b”, dove alla fine i due ragazzi si erano seduti.
“Aspettiamo degli amici, tranquilla”, disse la ragazza, sorridendomi alla mia solita domanda. Era abbronzatissima, con i capelli neri e gli occhi marrone cioccolato.
“Ci porti cinque coca-cole intanto, però”, corresse il ragazzo.
Annuii e mi diressi verso Brad, che stava preparando un’ordinazione di Lucy. Lei era castana, con gli occhi quasi neri, e anche lei come la ragazza al tavolo “sette b”, era abbronzatissima. In più aveva due gambe d’invidia. Appena Brad le sistemò tutto nel vassoio lei se ne andò con aria altezzosa.
Hey, bella, abbassa le alette! Hai due gambe da favola ma sei una cameriera di Bossier City, non Miss Universo!
Brad sbuffò, prendendo le mie ordinazioni e preparò le coca-cole. Lui era alto, anche lui abbronzato – svegliati sei solo tu che ad agosto sei chiara come se fossimo ad aprile! – e aveva i capelli biondi, con gli occhi marrone chiaro.
“Sei veloce”, notò. “A Sean piacerà il fatto che lavori bene e veloce”.
Lo ringraziai, prendendo il mio vassoio e, facendo attenzione a non far cadere nulla, portai le bibite dai ragazzi, a cui ora si era aggiunta un’altra ragazza.
Tornai da Brad, che mi disse di andare in cucina a prendere le due pastasciutte di mezza porzione per i gemelli. Annuii e feci come mi aveva detto.
Sean, il capo, stava guardando i  cinque chef che lavoravano per far da mangiare per tutti e talvolta controllava se tutto andava bene. Gli domandai delle paste e mi diede due fondine, dicendomi di andare via. Evidentemente non gli piaceva che la gente entrasse nella sua cucina.
Così uscii e portai da mangiare ai gemelli, che cominciarono a mangiare. La madre mi ringraziò e continuò a sporgersi verso la bambina per farla mangiare. Mi sorrise e la salutai con la mano, facendo tintinnare apposta i bracciali. Lei ingoiò la pappa e poi batté le mani.
“Hai fratellini?”, mi chiese la donna ad un tratto.
“No, ma ho fatto la baby-sitter per qualche anno”, risposi di fretta salutando di nuovo la piccola, mostrandole meglio il braccialetto a cui era interessata. “Come si chiama?”.
“Claire. Ha un anno e mezzo”, rispose sua madre continuando a guardarla.
“Papà, mi puoi passare l’acqua?”, chiese uno dei bambini, distogliendo la mia attenzione da Claire e la sua mamma. Il padre sbuffò, prese il bicchiere del piccolo e ci versò dentro l’acqua, senza nascondere lo sforzo che dovette fare. La donna abbassò gli occhi e continuò ad invogliare Claire a mangiare.
Toccai i capelli alla bambina e li salutai, pregandoli di chiamarmi qual’ora avessero voluto altro. Poi mi trasferii di nuovo al tavolo “sette b”, dove ora erano tutti in cinque.
“Ora siete pronti?”, chiesi di nuovo alla ragazza che mi aveva risposto prima.
Uno dei nuovi sgranò gli occhi, mentre la ragazza che era arrivata prima di lui sbuffò. “Quattro pizze con prosciutto cotto e una vegetariana”, tagliò corto la terza ragazza.
“Ottima scelta”, mi scappò per sbaglio.
“Che intende dire?”, sbuffò arrogante. Senti, marmocchia di quattordici anni frena gli ormoni e stattene buona!
“Che anche io sono vegetariana, quindi apprezzo la scelta”, spiegai con calma. Stai buona, Vero, non vuoi perdere il posto la prima sera, no?
Lei sospirò veloce, come se si sentisse superiore, e io chiesi se avevano bisogno d’altro. Appena mi dissero di no, me ne andai per dare le ordinazioni a Brad.
“Quella è Joy Florens, la figlia di un noto imprenditore di New Orleans. I suoi sono separati e vive qui con la madre. Ma è talmente ricca che potrebbe vivere anche ai Caraibi, se volesse”, mi disse Brad quando arrivai da lui sbuffando. “E’ di un’antipatia mai vista, ma tu dalle torto e il mondo ti odierà. Quindi stai calma e non finire nei guai”.
“Grazie del consiglio, Brad”, gli risposi sedendomi sui seggiolini davanti alla penisola.
“Tranquilla, non potevi saperlo”, mi sorrise. “Come sta andando, per il resto?”.
“Credo di aver fatto colpo su quella bimba, aver notato una crisi famigliare in corso e aver quasi litigato con la principessina Joy Florens”, ridacchiai. “Tu che dici?”.
“Ehi, che ti lamenti?”, scherzò lui. “Il mio primo giorno sono caduto, rovesciandomi tutti i piatti addosso!”.
“Oddio!”, commentai mettendomi una mano sul viso e ridendo sotto i baffi.
“Può capitare e la gente che viene qui dentro è imprevedibile. È come conoscere tante piccole parti di mondo per pochi secondi”, mi disse cercando di consolarmi. “Spero che non scapperai via subito”.
“Perché tutti credete che scapperò via?”, chiesi riferendomi anche a Constance e ai suoi figli. “Lascia perdere, va”.
“Come vuoi, ma se vuoi dopo la chiusura alle undici noi andiamo a farci un giro e a bere qualcosa. Ci stai?”, mi chiese.
“Qui c’è il divieto di bere fino ai ventun’anni e io ne ho ancora diciannove”, commentai.
“Non ci conosci ancora bene. Tu vieni con noi, poi provvediamo a tutto sul momento”, mi sorrise. Accettai, curiosa di cosa implicasse.
Non ero un tipo da chiudermi in casa troppo spesso e uscire non mi faceva mica male.
Avrei conosciuto meglio i miei colleghi e forse avrei fatto abbassare la cresta a Lucy.
 
“Come ti senti?”, mi chiese Vicky nel bagno della discoteca dove mi avevano portato. Fanculo, la prossima volta non sarei più uscita con loro!
“Non così bene”, dissi per poi vomitare di nuovo l’anima per la terza volta. “Mi gira la testa… che ore sono?”.
“Credo le tre e mezza… ma che ti hanno fatto bere?”, mi chiese. Lei non era con noi, stava insieme ad un gruppo di ragazze che stavano antipatiche a Lucy, perciò la moretta mi trascinò dall’altra parte della pista. Ma, quando mi ritrovai a cadere per terra e ad avere conati di vomito per qualche fottuta cazzata che Brad e uno dei suoi amici mi aveva portato, era stata Vicky a trascinarmi lontana da loro.
“Non lo so, Lucy me l’ha quasi fatto ingoiare a forza e Brad era abbastanza fatto”, dissi isterica prima di ripetere quell’azione schifosa e innaturale definita rimettere. Fortunatamente avevo Vicky vicino, che mi tranquillizzava e mi teneva i capelli.
“Calmati ora, forse è meglio che torniamo a casa, ti do io un passaggio”, disse cercando di rimettermi in piedi senza che mi accasciassi ancora sul water, unico sostegno durante la precedente mezz’ora.
  Riuscii a restare eretta e mi appoggiai al lavandino per pulirmi la faccia. “Giuro, io lo uccido…”.
“Veronica, non ucciderai nessuno. Solo ricordati di evitare di uscire con loro la prossima volta”, ridacchiò chiamando una sua amica e dicendole che sarei tornata a casa con lei.
L’amica di Vicky annuì e mi aiutò anche lei a camminare. Perché loro erano così gentili? Perché avevo seguito quella stupida di Lucy?
Mi misero in macchina e la ragazza sconosciuta ritornò al buio della discoteca. “Grazie Vicky… sei un’amica”, borbottai prima di non riuscire a fermare gli occhi dal chiudersi e perdere conoscenza.
“Ne ha trovata una buona finalmente”, sentii commentare, ma non ero sicura se fosse davvero lei o la mia coscienza che mi sgridava per ciò che era appena successo.
 
Aprii gli occhi così piano che pensai di avere qualche malattia paralizzante. Poi la mia mente si riappropriò del corpo e della memoria, ricordandomi che avevo fatto la figura dell’idiota con Vicky e che mi ero bevuta chissà cosa che mi aveva svuotata del tutto.
Stropicciai gli occhi e stavolta li riaprii velocemente… spaventandomi a morte! Che diavolo… quella non era la mia stanza, poco ma sicuro. Dove diavolo ero? Che ci facevo qui? … che cavolo di fine aveva fatto Vicky e perché mi aveva portata in questa stanza sconosciuta?
Vi voltai, toccandomi veloce la testa visto che me la sentii come cadere, e notai degli strani simboli… i simboli che avevo visto a casa di Constance qualche giorno prima, quando avevo mangiato da lei. E, proprio come in quella camera, c’era un foto di due bambini. Che ci facevano anche lì? Oppure…
“Ben svegliata, dormigliona!”, sentii una voce femminile in lontananza, anche se con gli occhi vedevo la figura di Constance molto più vicina di quanto la sentissi.
Oh no… oh no, ditemi che non era vero... Vicky!
“Stai tranquilla, non è successo niente”, disse mettendomi una mano sulla fronte e mettendo il vassoio per terra, per tenermi ferme le mani che cominciavano a tremare. La voce restava distante.
“La tua amica Vicky ti ha portata a casa, ma non trovava le chiavi, a quel punto ha chiesto ai vicini e l’unica che ti conosceva già ero io, perciò ti ho preso in custodia. È venuta qui stamattina a controllare se davvero stavi bene”, mi raccontò, sperando che la cosa mi calmasse. In effetti sentivo la sua voce avvicinarsi al suo corpo e la vista si schiarì. Ma le mani continuavano a tremare. “E’ un ottima amica, ha detto che ti aspetta stasera al bar e che se non ci sarai prenderà lei il suo posto e puoi stare tranquilla”.
 No… no, non doveva dirmelo! Odiavo quando la gente si prendeva cura di me dopo che avevo sbagliato alla grande. Come in questo caso.
L’essere ospitata nella camera dei figli di Constance, il fatto che si sia presa cura di me, Vicky che mi copre il turno e che mi aiuta in discoteca… odiavo essere così fottutamente fragile!
Constance, non vedendo il miglioramento e i miei occhi chiudersi, mi carezzò le guance e cominciò a canticchiare una canzoncina, come si fa ai bambini malati quando sentono dolore.
“Basta”, riuscii a dire aprendo gli occhi e sbattendo tante volte le palpebre. I colori e le orme tornarono al loro posto, la voce di Constance si fermò e le mie mani si frenarono pian piano. “Non devi sentirti obbligata”.
“Cosa?”, chiese e annuii, felice che la sua voce corrispondeva alla lontananza che davvero aveva da me.
“Sono una stupida, quindi non trattarmi come una reginetta”, sbottai appoggiando la schiena e la testa al divisorio bianco. “Non mi merito la vostra generosità”.
“Non hai fatto niente di male, Ronnie”, sorrise. “Sai quante volte Jared o Shannon sono tornati a casa ubriachi? L’ importante è che non ti sei messa a guidare e in fondo prima di svenire eri abbastanza cosciente”.
“Sarei dovuta uscire con Vicky…”.
“La prossima volta lo farai, sapendo che è la cosa giusta. Hai tentato e hai preso la strada sbagliata. Non importa, può capitare”, mi disse mettendomi sulle gambe la colazione e invitandomi a mangiare. La guardai male: c’era di nuovo troppa roba! Ma cosa mangiavano i suoi figli alla mia età?
“E se anche trasferirmi qui fosse la scelta sbagliata?”, chiesi allungando la mano, lentamente, attirata da un biscotto con le gocce di cioccolato.
“Quando lo capirai, tornerai a casa e ricomincerai di nuovo. Di tempo se ne ha sempre abbastanza. Non è mai troppo tardi per niente”, sorrise vedendomi addentare qualcosa di sano. “Ma spero che non accada”.
“Perché sei qui da sola?”, chiesi prima di accorgermi che poteva essere intesa come domanda personale. Ma rispose prima che me ne potessi accorgere.
“Il mio primo marito non era l’uomo che credevo”, cominciò a raccontare, facendomi capire che non era una domanda così tragica. “E dopo che nacque Jared se ne andò via. Incontrai il mio secondo marito, da cui i ragazzi presero il cognome perché lo sentivano più vicino, e con lui passai anni meravigliosi. Morì l’anno scorso”.
“Mi dispiace”, dissi chiudendo gli occhi per un instante. Perché ero stata così insensibile da chiederlelo?
“Tranquilla, le cose accadono. E sebbene mi sento sola so che è qui con me anche solo con l’anima… aveva gli occhi verdi come i tuoi…”, rispose guardandomi dolce.
“E’ per questo che ti preoccupi per me? Perché ti ricordo tuo marito?”, chiesi curiosa, e non arrabbiata. No, per niente arrabbiata, era normale.
Annuì, senza dire niente e mi guardò negli occhi. “Hai gli stessi smeraldi incastonati in faccia. Sembrano quasi liquidi i tuoi, mentre i suoi erano freddi e fermi come quelli di Jay, anche se di un colore di verso e sebbene non fosse suo padre naturale”.
“Sono felice di poterti essere d’aiuto”, sorrisi. “Ma mi dispiace averti incasinato la vita tra stanotte e stamattina”.
“Non fa niente, mi fa piacere la tua compagnia”, rispose lasciandomi poi mangiare in pace. “Ma cambia comitiva se vuoi fare una vita notturna, d’ora in poi”.
“Lo farò”, assicurai, mentre lei scendeva le scale. Oddio, era tutto così strano!

 
 
 
...
Nota dell'autore:
Ooooooh, ma che tenera Constance! Che si preoccupa di Ronnie *.*
E ma non si fa, bella mia, queste cose non si fanno xD Ok, la smetto di sembrare una totale idiota alla Leto e facciamo le cose seriamente.
..
..
..
ok non ce la posso fare, è escluso xD Se mi volete sono così e basta xD
Ma ehy, sono troppo happy perchè oggi... CI SONO I 300!!! I nostri tre stupendissimi uomoni entreranno nei record e io sono troppo fiera di loro! Non ci rivedremo "soon", lo so e piango, ma appena tornerete, perchè sono sicura che senza di noi non potete stare (:D), sarò pronta a riabbracciarvi. 
Thank guys!

Ronnie02

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Capitolo 4
*** Everything that Letos like ***


Ragazzi che faticaccia questi giorni!!! Dai, Ronnie, mancano solo due giorni di sole lezioni e poi... VACANZEEE!!! 
In realtà volevo che i capitoli combaciassero con la realtà, mettendo il capitolo di Natale, ma a meno che non pubblichi ogni giorno un capitolo non credo potrei farcela :) Pace, godetevi la giiiiiiiiiiitaaaaaaaa xD
Bene, ora questa echelon la smetterà di stressarvi e vi farà leggere! Buona lettura!



Chapter 4. Everything that Letos like

 

Avevo mangiato ciò che Constance mi aveva preparato, e mi ero sentita molto meglio, però la testa non aveva smesso di girarmi, così mi ero sdraiata di nuovo e avevo chiuso gli occhi per riaddormentarmi.
Finii presto tra le braccia di Morfeo e la sua voce avviò la mia mente verso uno strano sogno.
Ero con Andy, su una strada molto affollata ma anche sconosciuta, e mentre io scrivevo un messaggio, lei canticchiava. Poi la scena cambiava e io mi trovavo in una grande sala, piena di gente urlante e mi girava forte la testa. Andy stava di fianco a me e sorrideva preoccupata, come se avesse in mente una verità che non voleva rivelarmi. 
Un nuovo cambio e mi ritrovai su un divano. Intorno mi sembrava ci fosse casa mia, qui a Bossier City, ma i mobili erano tutti diversi e di fianco a me Andy parlava con una donna bionda, dicendole che era meglio per lui che non si faceva vedere per i prossimi giorni o lei stessa l’avrebbe picchiato. Di chi stavano parlando? Che volevano dire quei sogni? E perché Andy mi sembrava un po’ diversa da come la ricordavo?
Arrivai alla fine del mio viaggio e mi ritrovai nel dormiveglia. Bene, era ora di aprire gli occhi e tornare a casa, ringraziando quella santa donna di avermi ospitata.
Mi voltai e…                      
“Alleluia ti sei svegliata”, mi ritrovai la faccia di Jared davanti agli occhi, mentre Shannon era appoggiato allo stipite della porta con addosso gli occhiali da sole.
Urlai, senza accorgemene, per lo spavento della sua vicinanza e mi misi seduta, portando tutto il peso sul braccio destro, mentre quello sinistro toccò la fronte. Mi era venuto un piccolo capogiro, a causa della velocità con cui mi ero mossa.
“Wow, lo reggi proprio da schifo l’alcool”, commentò sorridendo tristemente Shannon, senza che potessi vedere la sua vera espressione, coperta dagli occhiali. Non sembrava così felice di vedermi… bè, forse perché ero nella sua vecchia camera. Io, un’intrusa.
“Lasciala stare, poverina!”, disse Jared continuando a fissarmi strano, come ammirato, e poi mi sorrise. Ma che diavolo aveva di strano quel ragazzo? Aveva mangiato la vernice da piccolo e gli era andato in palla il cervello?
“Sto bene, è vostra madre che si è offerta di prendersi cura di me senza lasciarmi fuori di casa svenuta”, ricordai fredda, soprattutto a Shannon che guardò dall’altra parte. Ma che cavolo…?
“Ehm… bè ma adesso stai bene, e noi andiamo a farci una gita con il resto della band al Caddo Lake, vicino a Oil City. Ti va di farci compagnia?”, mi propose. Un’altra uscita di gruppo? Però conoscevo i Leto, o almeno più di Brad o Lucy, e ora avrei evitato qualsiasi cosa avrebbe potuto farmi male.
“Che farete al Caddo Lake?”, chiesi informandomi.
“Ci facciamo un bagno e strimpelliamo un po’. Magari ci esce anche una bella canzone”, disse muovendo la testa e sorridendo. “Allora ti va di fare un’ uscita culturale e musicale?”.
Ridacchiai e annuii. “Lasciami andare a casa a farmi una doccia e a cambiarmi, allora”.
Lui si alzò, sorridendo contento, e mi offrì la mano, aiutandomi a mettermi in piedi. Ehi… non ero tanto fuori come sospettavo.
“Forza, ci vediamo qui tra mezz’ora, così poi andiamo a prendere i ragazzi  e partiamo subito”, disse Shannon scendendo di sotto.
“Quanto ci mettiamo?”, chiesi a suo fratello, evitando di sentirmi in colpa del suo freddo comportamento. Era egoistico pensare che potessi essere io la causa, ma non trovavo altre spiegazioni logiche.
“Non molto, venti minuti in macchina, se guida Solon poi ci mettiamo anche meno”, sorrise accompagnandomi di sotto.
“Ehilà, Ronnie. Dormicchiato bene?”, mi salutò Constance.
“Benissimo, grazie di tutto davvero. Ora  vado a casa a cambiarmi”, disse tastando il mio corpo alla ricerca delle chiavi. “Aspetta… dov’è la mia borsa?”.
“Lì, sulla poltrona. L’ha lasciata lì Vicky stanotte”, mi indicò il punto, dove c’era la ma borsa nera in bella vista. “Le dirai di sostituirti stasera?”.
“Penso di sì. Recupererò il mio turno domani, facendo mattino e sera”, pensai, anche se mi dispiaceva. Già il secondo giorno non mi presentavo e Vicky si sarebbe presa la sgridata… ma volevo uscire un po’ con i ragazzi e non volevo vedere Brad e Lucy.
La chiamai subito, mentre salutavo i Leto con la mano e mi dirigevo verso casa.
“Ehi, Vicky”, dissi quando rispose.
“Ciao Veronica, come stai?”, mi chiese felice, e di sicuro stava sorridendo.
“Meglio”, dissi piano. Presi un respiro profondo e poi affrontai la questione. “Senti, mi hanno invitata fuori stasera, ti va di coprirmi? Faccio il doppio turno io domani”.
“Certo, stai tranquilla. Lo facevo anche prima che arrivassi tu, per una sera non morirò mica. Vai e divertiti”, mi permise. “Ehi… ma con chi esci? Non sapevo conoscessi qualcun altro”.
“I figli della signora da cui mi hai portato stanotte”, le spiegai. “Ah, grazie di tutto, Vicky, senza di te non saprei proprio come avrei fatto”.
“I Leto?”, si stupì non sentendo nemmeno le mie scuse. “Ragazza, non sapevo frequentassi le rockstar di Bossier City… dovremmo uscire di più insieme!”.
Ridacchiai e aspettai che continuasse. Allora non erano così insulsi come band. “Comunque divertiti, ci vediamo domani”.
“Ciao Vicky, e grazie ancora”, la salutai prima che riattaccasse. Poi chiusi del tutto la chiamata e misi il telefono nella borsa.
Frugai nel mezzo per trovare le chiavi, e quando le trovai entrai in casa e salii in camera. Oh, quanto mi era mancata! Buttai sul letto la sacca e mi andai a fare la doccia.
Fortunatamente avevo un costume e dei vestiti leggeri, adatti ad una gita al mare o anche ad un lago. Così, finita la doccia, mi vestii con quelli e mi truccai pochissimo con dei trucchi resistenti all’acqua. Lasciai i capelli sciolti stavolta; mi sembrava abbastanza inutile legarli. Così tutti i riccioli si liberarono e formarono una piccola e lunga cascata rosso fuoco attorno al mio viso e al mio collo, per poi scendere fino a metà schiena.
Mi misi poi i miei soliti accessori, senza però gli orecchini o altrimenti si sarebbero distrutti, e poi misi i sandali. Non avevo idea se servisse altro e ormai la mezz’ora di tempo stava per scadere, così non mi feci altri problemi, presi di nuovo la borsa e scesi giù. Uscii, chiudendo la porta d’entrata con la chiave, e mi avviai verso casa Leto.
Una macchina nera lucida era già davanti al vialetto, con alla guida un ragazzo che non conoscevo, con i capelli scuri. Doveva essere quel Solon di cui mi aveva parlato prima Jared.
Shannon scese dalla macchina, salutandomi con la mano e facendomi segno di avvicinarmi. Sorrideva e sembrava abbastanza contento di vedermi. Ma allora che gli era preso nei giorni precedenti?
“Perfetto orario”, mi disse facendomi sedere in macchina, di fianco a lui.  Davanti invece c’era Jared e l’altro ragazzo guidava.
“Solon, questa è Ronnie, una nostra nuova amica. Ronnie questo è Solon, il chitarrista della band”, ci presentò il Leto più piccolo.
“Piacere di conoscerti”, mi disse Solon spostando lo sguardo vero di me per un secondo. Poi tornò a concentrarsi sulla strada.
Mi guardai intorno. Dietro di me, dal bagagliaio, vedevo spuntare due manici di chitarra, di fianco Shannon se ne stava seduto a ticchettare sul suo telefono, mentre davanti a me i ragazzi parlottavano. Decisi di imitare Shannon e mandare un messaggio ad Andy.
Le scrissi: Ehi, Deutsch, come va la vita a Francoforte? Spero bene e sarei felice se tu mi scrivessi ogni tanto! Scherzi a parte che combini? Non indovinerai mai le cose che mi sono accadute… in effetti sono stati dei giorni abbastanza strani. Spero di sentirti presto; baci, Vero.
Inviai il messaggio e guardai fuori dal finestrino: il paesaggio era già cambiato, non essendoci più case o negozi, ma grandi praterie e davvero poche abitazioni.
In pochi secondi arrivò la risposta. Wow, che velocità, Andy! Diceva: Dear american, qui tutto bene, ho conosciuto già alcune mie compagne di università e sembrano essere simpatiche. Ma non saranno mai alla tua altezza (ora voglio le lacrime). In giro c’è un sacco di gente e ieri ho fatto un po’ di spesa, tanto per abbellire l’appartamento che divido con Linda, una ragazza spagnola. Che hai fatto, combina guai?! Guarda che io non ti vengo a salvare! Sono curiosa, scrivimi! Con affetto, Andy.
Sorrisi e decisi di mandarle l’ultimo messaggio, tanto per umiliarmi un po’. Era così che si faceva tra di noi: niente segreti, anche se fosse la cosa più imbarazzante del pianeta.
Ho conosciuto i figli della mia vicina e ora sto andando con loro verso non mi ricordo che lago. Sono simpatici. Ma non è questo il problema: l’altra sera sono uscita con i miei colleghi e ho scoperto che è meglio non farlo più. Meno male che c’era Vicky, un’altra mia collega più sana. Ringrazia lei per il fatto che sono tornata a casa sana e salva! A parte questo la vita americana va avanti. Non vedo l’ora di Natale, Vero.
Tenni il telefono in mano, sapendo che Andy mi rispondeva sempre.
Era il tipo di ragazza a cui piaceva avere l’ultimo saluto e l’ultima parola. E infatti dopo poco tempo arrivò l’ultimo nostro messaggio della giornata. Davvero l’ultimo.
Wow, tu sei matta! Dì a questa Vicky che la ringrazio e anche che la mia migliore amica è un po’ fuori! Scherzo, sono felice che stia bene, ma stai attenta. Ti lascio alla tua gita al lago, allora. Io vado a farmi un giro in città! Salutami gli amici, Andy.
Sorrisi, pensando alla sua faccina contenta che se ne andava in giro per Francoforte a fare spesa e sapevo che lei pensava lo stesso di me su una riva di un lago.
Misi a posto il telefono nella borsa e adocchiai di nuovo fuori dal finestrino. Alla mia destra un orizzonte bluastro si apriva davanti a noi, non mostrando la fine delle sue coste. Ma più ci avvicinavamo più una riga leggermente più scura si vedeva in lontananza. Doveva essere davvero grande!
“Siamo arrivati, gente!”, esultò Solon, indicandoci il lago azzurro. Era davvero un bel posto!
Altri tre minuti in macchina e poi trovammo un parcheggio vicinissimo alla piccola spiaggetta che si formava sulla riva. Jared scese subito dalla macchina e prese le cose nel bagagliaio.
Lo imitammo tutti e presto prendemmo tutto: Jared le due chitarre, Shannon i due tamburi che non avevo notato, Solon una scatola con le cose da mangiare e io il resto, come coperte su cui sedersi e roba varia.
Ci mettemmo vicino all’acqua e io poggiai le coperte. Una andò a servire solo gli strumenti, per evitare che si bagnassero o si riempissero di sabbia, diventando inutili per il resto della loro vita.
“Che ore sono?”, chiesi quando ci sedemmo tutti in cerchio senza scarpe, completamente in silenzio.
“Io direi che…”, cominciò il chitarrista. “E’ presto per mangiare e anche per suonare. Cosa ci resta?”.
“Non ci resta che… buttare Ronnie in acqua!”, propose Jared. Io mi voltai verso di lui, sperando che scherzasse, ma appena capii che faceva sul serio mi alzai, con l’intenzione di scappare via subito.
“Al mio tre?”, chiese Shannon sorridendo. Tutti annuirono e io feci qualche passo indietro. Avevano tutti quella maledetta faccia da puoi correre quanto vuoi, tanto ti prendiamo. “Uno… due… Tre!”.
Si alzarono in piedi di fretta e io cominciai a correre. La sabbia era una rottura e faceva attrito contro i miei piedi, frenandomi fin troppo. I ragazzi mi avrebbero raggiunto entro pochi secondi… ma non se entravo in acqua di mia spontanea volontà. Almeno evitavo un tuffo.
Mi voltai, rimanendo ferma per tre secondi, verso l’acqua e ci mancava poco che Solon riuscì a sfiorarmi il braccio. Poi scattai veloce in quella direzione.
“No, non è giusto”, sbottò Jared, che cominciò a farsi più veloce. Lo sentivo dietro di me, con la mano in avanti per cercare di prendermi. Ma perché non divertirci ancora di più?
Appena l’acqua mi toccò i piedi e Jared mi sfiorò la schiena girai di botto verso sinistra, cosicché lui si spinse comunque in avanti e cadde con la faccia in acqua. Gli altri invece riuscirono a fermarsi e cominciarono a ridere con me.
“Mai sfidare Veronica McLogan, Jared Leto”, commentai incrociando le braccia al petto e facendo un’espressione da so tutto io. Shannon e Solon quasi cadevano dal ridere e Jared si alzò, pulendosi la faccia dalla sabbia bagnata.
“Mai ribattere contro Jared Leto, Veronica McLogan”, rispose lui, avvicinandosi tutto bagnato e sporco di terra. “Potrebbe non essere poi così divertente”.
Senza che potessi rendermene conto, si slanciò verso di me, facendomi cadere a terra e cominciando a farmi il solletico, sporcandomi i vestiti.
Cercai di liberarmi, ridendo come una matta. Ero una di quelle persone che soffrivano ovunque il solletico anche solo a sfiorarmi, ma ero anche una di quelle persone che mentre le si facevano il solletico si dimenavano come pazze e scalciavano ovunque. Quindi quasi mai nessuno era stato così fuori di testa da provarci.
Cominciai a tirare calci e a muovermi, tanto che un ginocchio finì nella pancia di Jared e lui la smise di torturarmi, per circondarsi il busto con le braccia.
“Merda… maledetta questa te la faccio pagare”, disse alzandosi e allontanandosi da me. Io mi alzai e ridacchiai.
“McLogan 2 – Leto 0”, li feci la linguaccia. Poi indietreggiai fino ad arrivare l’acqua e mi buttai dentro con un salto. A volte la danza che avevo fatto fino all’anno prima ritornava utile per non sembrare un elefante invece che una ragazza. “Ma cosa siamo venuti qui a fare se poi voi rimanete lì fuori?”.
Solon e Shannon risero e mi seguirono, lasciando Jared da solo, che si sedette un po’ sulle coperte.
Nuotai un pochino, da sola, chiudendo gli occhi e sentendo il sole perforarmi la pelle e renderla leggermente più scura. Poi mi guardai di nuovo intorno e vidi Jared ancora seduto da solo.
Mi venne un po’ di compassione  a vederlo così, perciò uscii di fretta dall’acqua per andargli accanto. Faceva un po’ freddo, visto che il sole non era più quello di mezzogiorno, ma lo si poteva sopportare bene.
“Non nuoti?”, chiesi sedendomi a gambe incrociate, notando che non mi ero tolta i vestiti e dalla maglietta gialla s’intravedeva il costume bianco e verde. Mi legai la maglietta, formando una specie di top, e lasciai la pancia scoperta ad asciugarsi.
“Non avevo notato il tatuaggio”, disse voltandosi verso di me e guardandomi il fianco destro, dove la scritta Follow your dreams and believe in them spuntava fiera in un carattere elegante. Ce l’aveva anche Andy, ma lei ce l’aveva sul polso sinistro.
Sorrisi. “L’ho fatto l’anno scorso. È stato il mio regalo di compleanno dalla mia migliore amica”.
“Mi piacciono i tatuaggi, mi piacciono quelli con particolari significati”, commentò lui, senza sapere bene perché.
“Non nuoti?”, chiesi ancora io, notando che non mi aveva risposto la prima volta.
“Mi hai quasi ucciso ficcandomi un ginocchio in pancia che mi ha fatto arrivare lo stomaco in gola e mi chiedi perché non nuoto?!”, si stupì ridendo.
“Sono passati più di dieci minuti! Sai reggere davvero poco il dolore, allora”, commentai sbuffando. Mi voltai, vedendo comparire un sorriso sul suo volto e i suoi capelli muoversi leggermente come i miei, spostanti dal vento. “Eddai, non si può venire a fare una gita qui senza nemmeno entrare davvero in acqua”.
“Come mai oggi niente treccine?”, mi chiese stupendomi. Che razza di domanda era quella?
“A volte preferisco lasciarli sciolti”, risposi semplicemente cercando di capire dove volesse arrivare.
“Fai bene, stai molto meglio”, continuò guardandomi e prendendo una ciocca di capelli bagnati. “E continuo a pensare che sia un colore fantastico”.
“Potresti farli così un giorno”, ridacchiai immaginandolo rosso. Nah, stava bene anche così.
“Forse un giorno”, annuì deciso. Oddio, che idea gli avevo dato?! “O anche blu! Non ti piacerebbero blu?”.
“Ti confonderebbero con il cielo”, commentai. Poi mi coprii gli occhi, come se stessi giocando con un bimbo. “Oddio, dov’è Jared? Dov’è finito? Ecco dov’è!”.
“Non ho cinque anni, sai?”, disse arcuando le sopracciglia.
“Sicuro? Ha visto bambini di cinque anni reggere un pizzicotto meglio di te”, lo presi in giro.
“Appunto un pizzicotto, non un ginocchiata!”.
“Dettagli, Jared, dettagli!”, risposi io muovendo le mani, come a cancellare qualcosa nell’aria.
“E poi tu come fai a sapere che un bimbo regge il dolore meglio di me? Tuo fratello non era mica più grande?”, mi chiese sorpreso.
“Sì, Marco è più grande, ma io ho fatto la baby-sitter quando avevo diciassette anni per racimolare qualche soldo”, spiegai ricordandomi delle piccole pesti che dovevo tenere a bada durante quei mesi.
“Forte”, commentò lui, guardando gli altri due componenti della band continuare a fare la sfida a chi stava più tempo in apnea. “Dovremmo raggiungerli?”.
“Oh, finalmente l’hai capita!”, scherzai io, alzandomi di fretta, togliendomi la maglietta e i pantaloncini e correndo verso l’acqua. “E vedi di non ricominciare con le sfide, siamo ancora due a zero, bello mio!”.
Lui scosse la testa per un attimo, poi si sfilò la maglietta restando a torso nudo. Però… Constance ci aveva messo impegno!
Arrivai di nuovo all’acqua e mi tuffai, arrivando subito a toccare il fondo un po’ sassoso e a spingermi in avanti spostando la sabbia. Aprii gli occhi, guardando il blu sottomarino. L’acqua era pulitissima e si potevano vedere le mini onde avanzare verso la riva e il suolo abbassarsi sempre di più.
Quando fui abbastanza lontana tornai a galla, scuotendo la testa per liberarmi dai riccioli bagnati che si appiattivano sulla faccia. I Leto e Solon erano rimasti dov’erano prima, ovvero abbastanza vicino alla riva, e mi guardavano sorpresi.
“Chi arriva più lontano?”, urlai per farmi sentire, provocando sorrisini che potevo vedere pure io. Solon partì in quarta, arrivando a metà strada con un quarto di forza con cui era partito, Jared si mise in marcia raggiungendomi in poco tempo, mentre Shannon ci mise un po’ di più.
“Bene, lo vedete quel tronco, lì in mezzo? Nel tempo in cui ero sulla spiaggia ho notato che resta sempre fermo, quindi facciamo così”, decretai indicando a tutti l’arrivo. “Chi arriva per ultimo al tronco deve portare tutti gli altri a riva uno alla volta in spalla, continuando a fare avanti indietro, mentre gli altri si godono il giro. Io faccio l’arbitro”.
Tutti annuirono subito, anche se Solon ci pensò un attimo prima. Si vedeva che non era molto in gamba con il nuoto.
“Bene, ora vado, quando dovete partire faccio un segno con le braccia se non mi sentite”, specificai ancora. Loro annuirono di nuovo e io mi spinsi verso fondo per nuotare in apnea. Lo preferivo e a volte mi facilitava la corsa.
Guardai in alto e dopo qualche minuto notai il tronco che avevo indicato ai ragazzi. Salii in superficie e scossi ancora i capelli. Jared mi salutò con la mano quando rivide la mia testolina sana e salva.
“Allora, pronti… partenza…”, urlai a squarciagola muovendo le mani, fino a far cadere il braccio perpendicolarmente all’acqua e immergerlo. “Via!”.
Tutti partirono appena urlai e ben presto Solon rimase ultimo. Il più grande dei Leto si impossessò presto del primo posto, grazie alle braccia che lavoravano al posto di tutto il corpo, mentre Jared stava in mezzo tra i due. Ma all’improvviso Solon rimontò – non seppi mai bene con che forza lo fece, ma ci riuscì – superando Jared e arrivando fino a  toccare Shannon.
Ma ormai il batterista mi aveva raggiunta e aveva circondato il piccolo tronco con un braccio, annaspando aria per la fatica. Solon batté il palmo sull’acqua e gridò felice un yes!, mentre Jared, che arrivò pochi secondi dopo, fece finta di svenire.
“Fratello, ora ti tocca… cavolo, meno male perché mi facevano male le gambe”, rise Shannon avvicinandosi al fratello. “Su, su, voglio andare in braccio!”.
“E poi sarei io il bimbo di cinque anni?”, mi chiese retoricamente Jared cercando un mio sostegno.
“I’m sorry. Hai perso, ora paghi”, dissi ridendo. “Su, la strada la sai”.
Lui scosse la testa, prese suo fratello in spalla e cominciò, con molta calma, ad allontanarsi. Solon si sdraiò sul filo dell’acqua, facendo il morto, e cominciò a ridacchiare.
“E così sei la famosa vicina rossa di Constance”, sussurrò Solon mentre guardando Jared arrancare fino alla riva e buttare Shannon in acqua.
“Cosa?”.
“I ragazzi hanno parlato di te diverse volte, gli stai davvero simpatica, sai? Jared non è il tipo che parla spesso di una sola ragazza, anche se a volte Shannon sbuffava quando ne parlava”, mi disse.
“Perché avrebbero dovuto parlare di me? E perché sbuffare?!”, chiesi voltandomi verso di lui, che nuotava in cerchio attorno a me come uno squalo.
“Perché, come ti ho già detto, gli stai simpatica. E forse sbuffava perché non voleva che Jared si affezionasse troppo a te”, continuò non sapendo di darmi risposte abbastanza enigmatiche.
“E questo che significa?”.
“Significa che Jared ha dieci anni in più di te, bambolina, e l’unico motivo per cui un uomo si avvicina ad una ragazzina, di solito, è per farsela”, mi disse fermando la sua corsa. “Shannon non vuole che succeda, perché forse ti vede come una piccola sorella da proteggere della fratello cattivo”.
Ora le cose si facevano più chiare: Shannon si era arrabbiato quando Jared mi aveva chiesto cosa facevo dopo il pranzo da Constance, o, quando mi avevano ritrovata in camera loro, perché suo fratello continuava a fissarmi.
E Jared… che intenzioni aveva per me? Era davvero come diceva Solon, voleva solo che andassi a letto con lui? Era davvero così meschino?
“Forza, muoviti, tocca a te”, arrivò Jared. Parli del diavolo e spuntano le corna… “Giusto, Ronnie?”.
“Io mi chiamo Veronica!”, gridai senza sapere bene cosa dire. “E fai come vuoi, guarda”.
Detto questo li lasciai lì, stupefatti, e tornai indietro, verso Shannon, che ci guardava sorridendo ignaro di cosa mi aveva detto Solon. Certo, potevano essere tutte balle, ma combaciava troppo ogni cosa per dubitarne.
“Ho vinto!”, esultò quando mi vide uscire dall’acqua, offrendomi un asciugamano pulito da mettermi addosso, evitando che mi venisse pure un’accidenti.
“Sì, certo, ottimo lavoro”, borbottai di fretta, andando verso la macchina e prendendo la mia borsa, per prendere vestiti meno bagnati. Ma la mia mente bacata non li aveva portati, perciò tornai indietro e misi ad asciugare la maglietta e i pantaloncini di prima, sperando che il sole al tramonto bastasse.
“Hey, che c’è?”, mi disse Shannon quando si sedette di fianco a me, guardando in lontananza Jared arrivare con in spalla Solon.
“Cosa sono per voi?”, chiesi all’improvviso fermandomi del tutto e voltandomi verso di lui, con aria arrabbiata.
“Cosa?”.
“Che cosa sono io per voi?”, ribadii isterica.
Lui si stupì un attimo della domanda, ma evitò di perdere tempo per via del fratello che stava arrivando. “Un’amica. Una buona amica”.
“No, voglio la verità!”, chiesi di nuovo, ancora più arrabbiata. “Tu e tuo fratello credevate che alla fine non ci sarei arrivata? Che ero solo il vostro ultimo giocattolino? La troietta per lui e il bambolotto per te? Davvero pensavate che non l’avrei scoperto?”.
“Ma che cosa stai dicendo? Che troietta, che bambolotto? Scoprire che cosa?”, mi domandò di rimando lui.
“Non sono una stupida, sai?! Solon mi ha detto tutto: perché tu eri arrabbiato con me e perché Jared continua a chiedere sulla mia vita. Se mi volete rovinare, anche se non ne so bene il motivo, almeno ditemelo”, urlai alzandomi in piedi.
Jared intanto era arrivato e si voltò verso il ragazzo che avevo nominato, anche se non aveva capito il resto della frase. Solon sgranò gli occhi, capendo forse di avermi detto troppo.
“Non ti vogliamo rovinare, ma che stai dicendo?”, mi disse Shannon cercando di calmarmi. Mi coprì la visuale sugli altri due e mi tenne ferme le mani. “Non ti parlavo perché sì, avevo paura di cosa avrebbe potuto combinare mio fratello, ma ora non è ho più il motivo, o oggi non ti avrei sorriso già dalla partenza! Jared mi ha giurato di stare tranquillo e gli credo. Su cosa lo dovrai sapere da sola, non sono fatti miei questi.
“E poi, scusa, come faresti tu ad essere il nostro giocattolino se nemmeno riusciamo a tenerti testa in un inseguimento o a farti il solletico?”.
Lo guardai negli occhi, cercando qualcosa che mi provasse la sua sincerità. Lo trovai.
“Vorremmo solo qualcuno al di fuori della band che ci capisca sul serio”, finì tranquillo, lasciandomi le mani. “Solo un’amica che non ci parli di canzoni, album o ci metta fretta ed ansia per il tempo che passiamo a fare le prove e quello utile per trovare un vero manager”.
“Mi dispiace averti urlato addosso”, sussurrai dopo un minuto buono di silenzio, guardando in basso.
“Tranquilla, può capitare. Sei abbastanza impulsiva, Ronnie non me lo sarei mai aspettato”, ridacchiò alzando la voce per farsi sentire, per far capire che era tutto a posto. “Allora ci stai come amica?”.
“Sarà il tuo premio per aver vinto la corsa”, lo presi in giro tirandogli un piccolo pugno sulla spalla. Lui rise, visto che a quanto pare non gli avevo fatto niente, e si voltò verso gli altri.
“Penso sia ora di mangiare”, urlò e Jared corse subito verso di noi, seguito a ruota da Solon. Porca miseria, non si stancava mai! Avrei dovuto farlo faticare di più…
Ci sedemmo tutti in cerchio, come avevamo fatto all’inizio e cominciammo a mangiare quello che la santa donna di Constance aveva preparato per ognuno di noi quella mattina.
Alla fine aiutai a sistemare e passai a Jared la chitarra, mentre gli altri due fecero da soli. “Allora, ragazzi, che facciamo?”, chiese Shannon.
“Ehm…  proviamo qualcosa di nuovo”, disse Solon toccando le corde della chitarra. “Prova a iniziare Shan, io ti seguo”.
Shannon annuì e cominciò a picchiettare un po’ contro i tamburelli, sorridendo quando uscì qualcosa di abbastanza uniforme. Tara, taratara, taratara, tara, taratara…
Jared annuì, cercando una possibile associazione e Solon partì. Ta, ta ta ta. Ta, ta ta…
Jared sorrise e continuò sulla stessa scia. Poi cominciò a cantare.
Be a hero , kill your ego. It doesn't matter it's all just a pack of lies. Build a new base. Steal a new face, it doesn't matter it's all just to save you. We'll never fade away”, canticchiò leggermente. Poi rise e annuì ancora, come a dirsi da solo che aveva fatto un buon lavoro.
“Forza Jay, ancora”, lo spronò Shannon continuando a battere sui tamburi, mentre Solon suonava sorridendo e muovendo la testa e il piede a tempo.
I will stand by your ground, I will tear down myself… I won't fade”, provai a continuare io, visto che Jared non parlava più e stringeva le labbra come se pensasse intensamente. Appena mi sentì cantare smise di strimpellare.
“Wow, che voce! Mi piace!”, rise Shannon.“Cos’altro ci nascondi, eh Ronnie?”.
“Già, è vero, piace anche a come canti!”, notò Jared.
Mi misi la testa fra le mani e ridacchiai, manco avessi cinque anni. Sì, Andy mi diceva spesso che avevo una bella voce, anzi non solo lei, ma non l’avevo mai presa sul serio.
Mi piaceva la musica, mi piaceva cantare, ma imitarli e contare solo su quello? Un sogno sì, ma stavolta irrealizzabile.
“Che c’è vi siete ammutoliti? Forza, stava venendo bene!”, li incoraggiai io. “Muovete le manine e create una canzone, su su!”.
“Canta con me”, mi disse Jared.
“Oh, non ci contare. Forza, strimpella e canta! Me ne vado se non cominciate”, evitai ridendo. Shannon scosse la testa e ricominciò a battere sui tamburi, Solon pizzicò le corde e Jared lo seguì, riprendendo a cantare.
We’ll never fade away…”.
 
 



Ed.... eccoci qua! Ah, volevo già dire che per questa storia per ora mi sono ispirata a 3 canzoni, che avrete forse già capito. Bè, ovviamente la mia amata "Closer To The Edge", la meravigliosa "Year Zero" come vedete qui, e più avanti "Vox Populi". 
Ehi, ma voi che fate a Natale, visto che vorrei tirarmi un pò su di morale evitando di pensare che sarò l'unica sfigata a non fare niente di particolarmente divertente e interessante? xD Ok, vado a nascondermi prima che mi fuciliate xD

Con Affetto e TAAAAAAAAAAAAAAANTI auguri, Ronnie02

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Capitolo 5
*** Vicky! Oh, my Vicky! ***


Echelooooooon! Sono tornata, un pò in ritardo, ma sono tornata! Com'è andato il Capodanno? A proposito di questo, avrei tanto voluto mettere un capitolo per il nostro oramai tanto amato Babu, ma mi sono rifiutata per non entrare nel ridicolo xD Chi ha Twitter mi può capire, quante cazzate abbiamo sparato ieri sera?!?! ahhhaah
Ora vi lascio leggere che è meglio! 


  Chapter 5. Vicky, oh my Vicky



“In effetti è un po’ grandino, non credi?”, continuò Andy, al telefono per la quarta volta.
Dopo aver cantato un po’, più o meno alle dieci e mezza, avevamo deciso di tornare a casa e così alle undici ero entrata nel mio salotto, notando una chiamata persa di Andy. Così avevo telefonato prima a Vicky per sapere come era andata la serata e mi aveva detto che Sean le avrebbe dato la sera successiva libera, facendo lavorare me per lei. Un giusto accordo.
Poi mi ero cambiata, fatta la doccia per togliermi tutta la sabbia che mi era rimasta ed ero corsa a letto. Appena sveglia, ovvero verso le dieci, decisi di richiamare Andy per sapere come stava, visto che la sera prima di certo non mi avrebbe risposto per il fuso orario. Da lei erano circa le cinque di pomeriggio o giù di lì.
“Dio, Andy non me lo devo sposare, è solo un amico!”, ribattei io mentre facevo colazione con caffèlatte e brioche. Ero nella mia cucina, in pantaloni della tuta e top stracciato, senza calze, con il telefono all’orecchio e davanti la mia colazione. Era come sentirti libera!
“Sì, solo un amico, eh?”, disse lei non convinta. “Non mi freghi te, voglio vedere se a Natale sei ancora single!”.
“Sì, va bé lasciamo stare. Tu che combini, tedesca?”, le chiesi evitando scommesse stupide. Non che ci contassi, ma non era nei miei principi scommettere su queste cose.
“Niente di che, ieri sono uscita con Linda. È una piaga, quella ragazza!”, mi raccontò ridendo. “E’ una perfettina so tutto io che vuole sempre avere ragione. Poi se è arrabbiata comincia a parlare in spagnolo e io non ci capisco più una mazza. Così o mi chiudo in camera mia con le cuffie, o esco con le ragazze dell’università”.
“Oddio mio, che tipo!”, risi e rabbrividì al pensiero di essere al suo posto. Odiavo le persone attente ai minimi particolari! “E la scuola com’è? Le tue compagne?”.
“Simpatiche, ci aiutiamo un po’ a vicenda. La scuola è forte! Ci sono un sacco di aule strafighe come quella di ballo, canto, musica classica o perfino composizione. Il teatro dove proviamo è meraviglioso!”, esaltò la sua scuola, Andy. “Ti devo mandare le foto, Vero. Questo posto è leggendario!”.
“Vorrei essere lì con te, sai?”.
“Oh, anche io vorrei che tu fossi qui, o che tu mi ospitassi lì prima di Natale! Sono curiosa di come si svolgeranno i fatti!”, disse come se fosse la ragazza più pettegola del mondo intero.
“Ma finiscila, stupida!”, risi incrociando le gambe sopra la sedia e mettendomi comoda. “Ora che fai?”.
“Studierò Storia della Musica, c’è l’esame a fine settembre ed è un mattone!”, concluse quasi depressa. “E’ il primo esame, ho paurissima!”.
“Ma perché sono già iniziati i corsi? Siamo alla fine di agosto”, mi stupii ancora una volta.
“Di nuovo?! Te l’ho già detto mille volte, qui è tutto diverso, punto e basta. Non c’è un perché razionale, filosofa”, mi disse scherzando. “Ora ti devo lasciare o spreco tutti i soldi in una volta. Ti voglio bene”.
“Ti voglio bene anche io, Andy! Ti terrò aggiornata”, sorrisi chiudendo la conversazione e mettendo il telefono sul tavolo. Finii la mia colazione e mi appoggiai allo schienale della sedia, appoggiando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi. Rividi i momenti insieme ad Andy, a casa e vicino a scuola, e sorrisi al ricordo. Mi sarebbe mancata davvero!
Il campanello suonò, svegliandomi dal dormiveglia in cui ero caduta senza accorgemene. Mi alzai, senza ricordarmi del top praticamente inesistente, e aprii la porta di ingresso.
“Ehi, scusami, volevo solo dirti che… carina!”, commentò un Solon di corsa, con il fiatone, fermandosi a guardarmi. Io sgranai gli occhi e mi guardai la maglietta. Merda!
“Oddio… che ci fai qui?”, chiesi cercando qualcosa da mettermi addosso, ma non c’era. Ma perché capitavano tutte a me?
“Scusami, sono passato per scusarmi di quello che ti ho detto ieri, sai… bè, hai capito”, cercò di dire timido. Alzai le sopracciglia, come se non capissi dove volesse arrivare.
“Che vorresti dirmi, Solon?”, arrivai al dunque.
“Che Jared e Shannon non sono le brutte persone che forse ho fatto passate quando eravamo soli nel lago. Soprattutto Jared”, mi chiarì, facendomi annuire.
“Sì, ok. Vi perdono tutti quanti, non tengo mai il muso per molto tempo. E voi avete tutti il maledetto potere di fare degli occhi dolci che ti sciolgono anche se avreste commesso un omicidio”, ridacchiai gesticolando.
“Bene, mi fa piacere”, sorrise un po’ più tranquillo. “Senti, ti va di venire alle prove. Volevamo un consiglio sulle canzoni, e visto che quei due erano come sempre in ritardo, ho voluto fargli una sorpresa”.
“Certo… lasciami solo cambiare”, risi facendo un segno di scuse con la mano e lasciandolo lì sulla porta aperta.
Salii di sopra, così velocemente che inciampai e per poco non finivo con un naso rotto, e cercai dei vestiti decenti. Ottimo, un vestito estivo color acqua marina e dei sandali con un po’ di tacco potevano andare più che bene. Mi misi tutti i trecento soliti accessori, mi truccai un po’ e legai i capelli in una coda alta per non morire di caldo. La cosa che adoravo della coda di cavallo era che i ricci prendevano la forza di una cascata di fuoco, tutta in movimento. La adoravo!
Scesi altrettanto di corsa, stavolta un pochino più attenta,  per evitare che Solon invecchiasse durante l’attesa e morisse davanti alla mia porta d’ingresso, senza aver vissuto appieno la sua breve vita.
“Ehi, scusa se ci ho messo tanto, ci sono”, dissi arrivando a razzo sulla porta e fermandomi con una specie di strisciata. Mi sistemai e sorrisi.
“Tranquilla, non ci hai messo nemmeno tanto”, rise lui guardandomi e indicando poi il telefono. “Ho detto ai ragazzi che avevo dimenticato una cosa a casa perciò abbiamo ancora tutto il tempo che volgiamo”.
“Bene, ma è meglio andare subito dai!”, risi io chiudendo a chiave la porta e saltellando verso la sua auto. Ricordandomi di come guidava, saremmo arrivati in poco tempo anche in Alaska e io volevo sentirli suonare.
“Cintura… ok, vedo che hai capito che stare davanti può presentare dei pericoli”, ridacchiò quando entrammo in macchina e mi preparai al peggio.
“Devo chiamare la mia migliore amica dicendole che le ho sempre voluto bene?”, chiesi ironica sorridendo.
“Nah, andrà tutto bene… ma tieni pronto il numero dell’ambulanza”, m’avvertì.
Io scoppiai a ridere e presi in mano il telefono, tenendo il gioco stupido che si era venuto a creare. Lui accese la macchina e partì in quarta.
Come avevo predetto non ci volle molto, solo il tempo di notare Solon mandare un messaggio a Shannon che sarebbe – in verità saremmo – arrivato presto. Mise il telefono in tasca e cominciò a guardarsi intorno. Girò a destra e poi seguì la strada per cinque minuti buoni, dopo di che svolto ancora a sinistra e parcheggiò davanti ad un edificio abbastanza anonimo. Era una semplice casa, messa forse un po’ meglio della mia, e con un garage.
Uscii dalla macchina e Solon mi disse di restare ferma. Appena mi “nascosi” dietro l’auto vidi Shannon uscire dalla casa e chiamare Jared, che arrivò con un altro ragazzo, dal garage, con in mano una chitarra elettrica bianca.
 “Bene, così possiamo iniziare”, disse Shannon avvicinandosi a Solon e abbracciandolo con un braccio per le spalle. Uh, mi era appena venuta un’idea!
“Già, vedo che è arrivato anche Kevin”, rispose il chitarrista indicando quello che non conoscevo. “Così abbiamo anche il basso, perfetto”.
Ottimo, ora sapevo pure chi era Kevin il bassista.
Senza cercare di farmi vedere, mi mossi leonina verso il cofano dell’auto, abbassandomi per evitare di far vedere riccioli insanguinati o far sentire i tacchi dei sandali.
“Okay, direi che possiamo andare, no?”, chiese il ragazzo nuovo, Kevin. Aveva una voce strana, quasi alta e stridula.
Sì, aspettate solo un piccolo momento… mi avvicinai ancora più lentamente alla figura voltata di schiena del batterista.
Tre…
Due…
Uno…
“Bu!”, gridai alzandomi di colpo e colpendolo con i palmi sulle scapole, facendolo saltare in aria di almeno dieci centimetri, se non oltre, e mettendomi a ridere come una pazza quando urlò impazzito.
“Tu sei matta!”, mi offese con una mano sul cuore, dallo spavento, e con gli occhi sgranati. Solon intanto si era piegato dal ridere, per nulla spaventato sapendo che in qualche modo mi sarei fatta vedere, mentre Jared mi guardava come se fossi un fantasma comparso dal passato. Il bassista invece aveva un sopracciglio arcuato, come se fosse incredulo e annoiato dal nostro comportarci da ragazzini.
Ma godersi un po’ la vita, gente?
“Ma che ci fai qui?”, chiese Jared venendomi incontro, toccando freneticamente la sua chitarra, come se fosse nervoso.
“Ho voluto mostrarle un po’ come viviamo noi rockstar”, scherzò Solon rispondendo al mio posto. “Bè, pre-rockstar, diciamo!”.
Ridemmo un po’ e poi mi accompagnarono nel garage, dove trovai la batteria di Shannon, l’altra chitarra di Solon e il basso di Kevin. Erano strumenti bellissimi, soprattutto la batteria, sulla quale c’erano stampate tantissime foto di Jared e Shannon da piccoli.
“E’ meravigliosa”, commentai sussurrando quando mi abbassai a vedere tutte le piccole immagini. “Come eravate carini!”.
“Eravamo? Carini?”, si stupì ironico Shannon facendo un’espressione offesa. “Ma guarda te, questa ingrata!”.
“Noi eravamo dei gran fighi già a quattro anni”, intervenne Jared, con la sua chitarra ancora in braccio. “Siamo quasi delle dive”.
“Wow”, commentai arcuando le sopracciglia e alzando gli occhi al cielo. Ma pensa te, questo!
“Ci muoviamo o cosa?”, chiese Kevin impaziente, abbracciando il suo basso e aspettando che anche i Leto prendessero posizione.
Superandomi, Shannon si sedette dietro la batteria e prese le sue bacchette, Jared si mise davanti al microfono, tossendo un po’ per schiarire la voce, e Solon imitò Kevin, prendendo la sua chitarra e strimpellandola un po’ per controllare gli accordi.
“Non ti conviene starmi vicino”, ridacchiò Shannon vedendomi ancora appollaiata a guardare le foto. “E meglio che vai là a sederti”.
Mi girai e notai che dal lato da cui entrammo c’erano vari divanetti con un tavolo in mezzo, forse per sedersi durante le pause o per le feste. Gli sorrisi e feci come mi aveva detto, salvando i miei timpani e non restando sorda per il resto della mia vita.
Quando mi sedetti, accavallando le gambe e appoggiando il gomito su di esse per tenere la testa, Jared fece un segno a Shannon, che ridacchio e diede il tempo per iniziare. Uno, due, tre e quattro…
La musica cominciò a riempire lo spazio disponibile, occupando tutto l’ossigeno che poteva di un’energia nuova. Non mi dava fastidio, erano bravi. Molto bravi.
E poi inizio Jared a cantare. “The enemy arrives, escape into the night. Everybody run now, everybody run now. Break into another time…”.
 
“Siete davvero bravi”, commentai quando finirono l’ultima delle cinque canzoni che avevano scritto.
Mancava quella che avevamo – o meglio avevano – abbozzato al lago, poiché mancava ancora una parte del testo su cui il piccolo Leto stava lavorando e un pezzo di musica, soprattutto su quello che sarebbe diventato il bridge.
“Davvero?”, chiese Solon mettendo la chitarra appoggiata al muro, attento a non sfiorarla nemmeno.
“Certo, mi piacciono molto queste canzoni, mi dovrete dare un cd o mi deprimerò a non sentirle”, scherzai quando si misero tutti intorno a me, per sedersi un po’.
“Oh, ma come sei gentile”, mi prese in giro Shannon trattandomi come una bambina.
“Prima o poi ce l’avranno tutti un nostro cd. O almeno lo vedranno o lo sentiranno”, concluse Jared deciso mentre Solon abbassava lo sguardo, come se si fosse intristito. “Fosse l’ultima cosa che faccio”.
“Allora fatelo ora”, commentai svelta. E per risultato mi ritrovai con otto occhi abbastanza arrabbiati a fissarmi. “Intendo dire, nessuno può assicurarvi un contratto senza prima ascoltarvi e sono poche le persone che si prendono la briga di venire a sentire ogni band che li chiama, giusto?”.
“Sì, infatti è per quello che…”.
“Appunto”, interruppi Kevin che cercava di parlare. “Allora come potreste fare un cd a me, lo fate per lui e lo portate quando vi chiama per il provino o quello che vi chiede”.
“Non abbiamo uno studio di registrazione e non credo potremmo permettercelo”, finì freddo Shannon per chiudere il discorso. La nostra litigata-conversazione mi ritornò in mente: Solo un’amica che non ci parli di canzoni, album o ci metta fretta ed ansia per il tempo che passiamo a fare le prove e quello utile per trovare un vero manager.
Ok, niente più discussioni, l’argomento musica e band era loro privato ed era giusto così. Come uscirne? Fortunatamente conoscevo qualcosa che li avrebbe distratti un po’.
“Ok”, cominciai in un sorriso. “Allora facciamo merenda?”.
Jared e Shannon si guardarono e sorrisero e poi li seguimmo in casa, dove in salotto ci mettemmo a mangiucchiare qualcosa e a vedere un po’ di tv, come avevo sempre immaginato di fare per un tipico pomeriggio americano.
Non facemmo più accenno a dei cd o a manager a cui fare una proposta di ingaggio, non mi intromisi più. Preferivo scherzare invece che litigare con loro.
Con piacere notai che la casa dei piccoli Leto non era molto più grande della mia, ma per mio sconforto mi dissero che era solo una sistemazione momentanea per risparmiare qualche dollaro. Poi, quando avrebbero racimolato una somma abbastanza grossa sarebbero ritornati in California.
“La prima volta che andammo lì, quando girai Requem For A Dream avevo solo 500 dollari in tasca. Infatti dopo qualche mese tornai a casa, avrei dovuto trovarmi un lavoro e a LA non è così facile”, mi aveva raccontato Jared quando nella sua stanza avevo visto una foto di Hollywood vicino al comodino.
La sua stanza stavolta era divisa da quella di Shannon, ma era piccolissima. Ci stava a malapena il letto e l’armadio, credo. Da basso invece c’era una grande salotto, dove accanto al muro ci stavano le chitarre. La batteria era rimasta in garage.
“Allora, Ronnie… quanto dobbiamo aspettare prima di farti un complimento per come stai messa oggi?”, esordì Shannon facendomi la radiografia con gli occhi e sparando cavolate. Ecco, ci mancava proprio.
“Ma la vuoi piantare?!”, chiesi ridendo e mangiando un biscotto di quelli che avevamo messo sul tavolino.
“Oh, come se non sapessi che sei un figurino. Adesso scopriamo pure che magari facevi la ballerina per quelle gambe che ti ritrovi”, continuò Solon squadrandomi. Avrei voluto tirargli uno schiaffo, ma il biscotto mi andò di traverso per colpa di quello che aveva detto.
“No… non ci credo!”, sorrise Shannon mettendosi poi a ridere a crepapelle. “Manco lo avesse fatto apposta!”.
“Davvero sei una ballerina?”, chiese Kevin sorridendo.
“Ho fatto danza moderna per parecchi anni. Diciamo dai nove ai diciotto anni”, raccontai con un sorriso, contagiata da quei tre. “Ma poi le cose si fecero complicate e mi misero davanti ad una scelta: continuare e diventare ballerina di professione o studiare”.
“E sei venuta qui per trovare lavoro per danza?”, mi chiese Solon curioso.
“No, scelsi la scuola. Non ero così brava da dedicarci la mia vita e nemmeno volevo. Era solo un hobby, qualcosa con cui sfogarmi, ma mai l’avevo visto come uno stile di vita”, finii il racconto stupendo tutti a vedere le loro facce.
“Continuo a non capire cosa ti abbia attirata a Bossier City”, ripeté Shannon.
“Volevo solo qualcosa che non mi ricordasse niente del passato. Ora l’unica cosa che potrebbe portarmi indietro sarebbe la mia migliore amica e va bene così”, dissi continuando a parlare. Perché gli raccontavo tutti i miei problemi? Che stavo facendo? “Non voglio che niente mi faccia pensare al prima”.
“Come mai?”.
“Problemi che preferisco non raccontare, o la conversazione andrebbe sul drammatico e non sono in vena”, deviai il discorso per evitare piagnistei inutili. “Anzi, devo proprio scappare. Devo lavorare anche per Vicky, che mi ha coperto ieri”.
“Oh, ci vediamo domani, ok?”, mi chiese speranzoso Jared intristendosi. Se la cosa non mi avesse lasciata abbastanza perplessa avrei detto che fu molto tenero.
“Come vuoi, sapete dove abito”, sorrisi. “Ehm… ma io non so dove sono ora”.
Shannon continuò in una nuova risata e Jared mi si piantò davanti offrendomi la mano. “Vieni, ti porto io”.
“Grazie”, sorrisi alzandomi e seguendolo fuori, dove trovai la sua macchina vicino a quella di Solon.
 Entrammo in macchina, in silenzio, e per il resto del viaggio non facemmo che restare così, immobili. A volte lui fischiettava, o io muovevo freneticamente la gamba destra seguendo un ritmo tutto mio per il nervoso. Certo, il silenzio era fantastico, mi piaceva, ma con Jared era diverso. Perché? Non ne avevo la minima idea…
“Eccoci qui”, disse quando ci ritrovammo davanti a casa mia, con il tramonto alle spalle. Ero leggermente in ritardo. “Arrivati a destinazione”.
E ora? Una stretta di mano bastava? Un abbraccio? Non che lui fosse speciale, mi sarei posta le stesse domande se al suo posto ci fosse stato suo fratello, ma lui era capitato a caso e non sapevo cosa fare.
In alternativa, come solo io avrei potuto fare, non mi avvicinai nemmeno. Ovvio, no?
“Grazie, ci vediamo domani”, dissi uscendo dall’auto di corsa cercando di non inciampare. “Ti devo un favore, ciao”.
E corsi in casa, cercando le chiavi e sentendo il suo sguardo penetrarmi la schiena per vedere cosa stessi combinando. Aprii la porta e mi infilai svelta in casa, chiudendola dietro di me e salendo al piano di sopra.
Mi vestii di fretta con la maglietta-divisa del locale e una felpa per evitare il vento alla sera, visto che ormai agosto stava per passare. Era sempre meglio portarla, in ogni caso.
Presi la borsa e uscì di nuovo, guardandomi in giro. Non c’era nessuno, per fortuna, ma la felice vocetta di Constance in lontananza mi faceva capire che Jared le aveva fatto visita.
Mi misi in marcia e andai al lavoro.
 
“Oh, scusami, tesoro”, sentivo la vocina stridula di Lucy parlarmi da lontano. Che diavolo mi era successo?
Aprii gli occhi e mi ritrovai sul pavimento bagnato del locale, piena zeppa di gelato alla vaniglia misto ad una bella lavata di coca-cola. Fantastico gli ordini che Lucy aveva preso mi erano finiti addosso facendomi cadere.
Per quel che ricordavo avevo finito di servire del tutto il tavolo “sei”, prendendo la mancia e dando il conto a Brad che lo mise in cassa. Poi era arrivata la mora, aveva preso i suoi ordini e mi era casualmente venuta addosso, facendomi cadere e picchiare la testa.
Tutto perché? A quanto pare aveva sentito il mezzo-complimento che un ragazzo sui vent’anni mi aveva fatto qualche minuto prima a cui io non avevo dato minimamente ascolto. Ma lei sì e sapevo che la sua reputazione da reginetta del locale era stata intaccata. Che cazzata…
Ora era davanti a me, come tutti del resto, con quel faccino di finte scuse da prendere a sberle. Brad era accanto a lei, come a difenderla in caso mi fossi trasformata in una furia formato ragazza, mentre Sean mi guardava come se fossi una sciagura: avevo fatto la figura dell’idiota davanti ai clienti, facendomi prendere eternamente in giro.
Grazie, Lucy, sei contenta ora? Vaffanculo.
“Vai a casa, cambiati i vestiti e torna domani. Preferibilmente pulita”, mi disse il mio capo congedandomi e andandosene in cucina. Brad e Lucy tornarono ai loro affari, anche se notai un malefico sorriso sul visino abbronzato di lei, e qualcuno mi aiutò a tirarmi su.
Era il ragazzo di prima, che dopo avermi messo in piedi andò da Brad e pagò il conto, anche se non aveva finito. “Ti accompagno a casa, vieni”.
Annuì e lo ringraziai della cortesia. Presi la mia borsa, mi lavai un po’ la maglietta per togliere almeno in gelato e poi misi la felpa per evitare di ammalarmi e farmi licenziare in tronco.
Mi accompagnò fuori e cominciammo a camminare. Era carino, non c’era che dire: aveva i capelli biondi chiarissimi e gli occhi color nocciola, profondissimi. La pelle era stata scurita dal sole d’estate.
“Allora, sei la nuova nemica di Lucy?”, ridacchiò quando fummo abbastanza lontani.
“Già… che bello, eh?”, sorrisi guardando in alto. Le stelle illuminavano la notte e la luna era alta e splendente. “Comunque io sono Veronica”.
“Carl”, mi porse la mano. Gliela strinsi e sorrisi, raggomitolandomi ancora di più nella felpa calda, anche se mezza bagnata.
Svoltammo e in lontananza vidi casa mia. “Eccola là, non ci vuole molto”.
“Oh, abiti vicino alla signora Leto”, constatò non troppo felice.
“Sì, perché? È una signora stupenda”, la difesi dal suo tono freddo.
“Non lo metto in dubbio. Ma girano voci sui suoi figli”, mi raccontò lui credendo ne fossi a conoscenza. Appena mi guardò capì che non era così e andò avanti con la storia. “Niente di speciale, storielle di paese che volano. Sai, i padri, il loro viaggio a Los Angeles, il film del più piccolo… tutti pensano che tra qualche anno finiranno in qualche giro e non si faranno più vedere. Sono strani… come se venissero da un altro pianeta”.
“Io li trovo molto simpatici, invece”, borbottai arrivando davanti al vialetto di casa. “Ci vediamo, Carl”.
“Lo spero”, sorrise lui restando fuori dalla mia proprietà. Ecco, cominciamo bene. “E stai attenta alle persone con cui fai amicizia”.
Credimi, lo sto già facendo, volevo rispondergli ma le parole rimasero nella mia testa mentre aprivo la porta, entravo in casa, e la richiudevo a chiave.
Corsi subito verso il bagno, per farmi una bella doccia calda e dimenticare tutto quello che era successo in quella strana serata. Meglio dimenticare: Lucy, Carl, i pettegolezzi su Jared e Shannon… basta, non contava più niente, solo l’acqua che mi scaldava la pelle e mi rilassava i muscoli, lasciandomi libera di dormire nei minuti successivi.
La mattina dopo e il pomeriggio che ne seguì li passai a casa di Constance o a casa di Jared e Shannon, tra la musica e risate. La loro mamma era la persona più dolce dell’universo e quasi l’invidiai di aver avuto una donna del genere a crescerli.
Così, arrivò presto la sera e, grazie a Dio, tutto sembrava più facile: prima di tutto, si era pulito e asciugato tutto cosicché Sean non avrebbe ridetto nulla, e secondo Vicky sarebbe tornata a farmi un po’ di sana compagnia.
Non la vedevo da due o tre giorni e già ne sentivo la mancanza.
Infatti la prima cosa che fu quando entrai nel locale fu scovarla tra la gente. E la trovai, al tavolo “quattro”, uno ai quali era stata affidata. Poi andai a cambiarmi e mi misi al lavoro.
Lucy non si scusò sinceramente con me, ma fece ancora più la smorfiosa o la reginetta. Dio, quanto avrei voluto prendere un piatto di pizza e spiaccicarlelo in faccia!
Vicky mi sorrideva, dandomi conforto, quando vedeva il fumo uscirmi dalle orecchie, perfetto stile cartone animato. Così mi calmavo e tornavo al mio lavoro.
Mi resi conto che man mano l’estate finiva e i giorni passavano le gente scarseggiava e il lavoro diminuiva, tanto che una per un bel quarto d’ora non ebbi da fare, così aiutai Vicky con i suoi, che erano comunque pochi.
Quando finimmo e Sean chiuse il locale erano le undici e Lucy e Brad andarono in una discoteca, forse la stessa dove avevano portato me la volta precedente. Non mi invitarono neanche, così non dovetti nemmeno declinare l’offerta.
Invece uscii con Vicky a fare un po’ di camminata, non restando lontane comunque dalla zona.
“E così mia sorella ti fa impazzire, eh?”.
“Cosa?”.
“Mia sorella, Lucy”, chiarì prendendomi alla sprovvista. Cosa?!?!
“Lucy è tua sorella?!”, urlai vedendo lei che annuiva e sorrideva tristemente nello stesso tempo. “No, non può essere, è impossibile!”.
“E invece è vero. Certe volte vorrei che la tua opinione fosse reale, ma in verità Lucy è proprio mia sorella”.
“No… ma dai, quanti anni avete di differenza avete, scusa?”, chiesi stupita.
“Ha ventitré anni compiuti. E più invecchia più diventa scema”, scherzò facendomi ridere a crepapelle. “Mentre io ne ho diciassette, e lavoro per riuscire a pagarmi in futuro il college a New York”.
“Quindi tra due anni ti trasferisci?”, chiesi facendo il labbruccio triste per scherzare. “Come farò senza di te?! Vicky, o la mia Vicky! Senza come farò?”.
“Ma dai, sei grande e vaccinata! A proposito, scusa, tu quanti ne hai?”, chiese stupita.
“Diciannove”, ridacchiai sentendomi vecchia. “Ormai ho finito il mio tempo, cara piccola Vicky. Alla tua età io…!”.
“Sì, va bene, nonna, lasciamo stare”, disse abbracciandomi le spalle con un sorriso. Cavolo, ora mi sentivo pure bassa!
La misi sul ridere e tornammo a casa verso casa mia. Poi la mia testa si riempì di domande.
“Mi hai stupito con quella notizia cavolo! Devi raccontarmi tutto, te ne prego!”, le chiesi scherzando.
“Va bene, entriamo che ti racconto la mia vita. Tanto il mio coprifuoco scade a mezzanotte”, scherzò. “Sei sicura? Voi morire così giovane?”.
Ridacchiai e la invitai dentro. Sì, volevo proprio morire così giovane!




... Note dell'Autrice:
Come mai ci nasconderà Vicky? Mah, lo scopriremo nella prossima puntata, che sarà non prima del 9 perchè i miei genitori mi vogliono imprigionare andando in montagna, dove NON c'è Internet! e ora come mi aggiorno su Babu!?!?!?!

Ahaha passando a cose serie, se siete  amantissime del nostro Shanimal vi consiglierei di leggere la mia nuova OS
"Sidney Or Mars?" che ho pubblicato per capodanno. Spero vi piaccia, come questo capitolo!!!

Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 6
*** Memories ***


Ciao GENTE!!!! Sono tanto felice di risentirvi e probabilmente andare incontro alla morte visto che mi uccidrete visto il ritardo con cui ho postato. Faccio schifo, lo so, scusatemi, ammazzatemi, tiratemi una drumstick di Shannon in testa... non lo so, fate quello che volete ahhaa
Allora ci siamo lasciati a..... dopo le storie Ronnie va a lavoro. Chissà che farà!
Buona lettura, Echelon



Chapter 7. Memories





Arrivata al locale notai Vicky, appoggiata sulla porta d’ingresso, come se fosse un buttafuori. Mi avvicinai e vidi che aveva una manica mezza stracciata e anche un labbro gonfio. Che cavolo…?
“Ehi, che ti è successo Vicky?”, mi spaventai correndole incontro agitata. Lei alzò lo sguardo, sentendo la mia voce, e sorrise piano, per poi toccarsi la bocca. Forse le bruciava la pelle.
“Rissa scolastica, lascia perdere”, ridacchiò quasi malefica. “Tu cerchi di calmare le persone e queste cominciano a fare a pugni”.
“Oddio, ma sei matta?”, risposi controllando sotto il taglio della maglietta e vedendo il graffio rosso che nascondeva, già quasi cicatrizzato.
“La prossima volta ci penseranno due volte a toccarmi. Ho solo difeso mia sorella”, rise ancora, facendomi quasi paura. “Potrà essere anche antipatica, ma dille qualcosa e ti riduco in tanti piccoli pezzetti… tu sei esonerata, te lo concedo”.
“Che onore!”, scherzai ridendo e entrando nel ristorante. “Vieni, mettiamoci del ghiaccio, almeno sul labbro visto che il braccio si sta riprendendo bene”.
“Ok… mammina”, mi prese in giro seguendomi e avvicinandosi di fretta alla cassa, dove Brad stava già prendendo il conto di qualcuno. Lo salutammo, sorpassandolo, e andammo vicino alle bibite. Sotto il bancone c’era un piccolo frigorifero contenente i pezzi di ghiaccio da mettere nei bicchieri.
“Come mai non ti sei sistemata a casa?”, chiesi notando che il labbro si faceva meno gonfio man mano il freddo invadeva la pelle.
“Non credo che dalle tue parti se menavi qualcuno nell’orario scolastico riuscivi a passarla liscia, sai?”, cercò di dire contro il cubetto e io mi misi a ridere. In effetti… “Mi hanno messa in punizione e sono uscita circa un quarto d’ora fa e la scuola non è lontana”.
Quando vidi che il ghiaccio non faceva più effetto lo buttai via e mandai a chiamare la ragazza che mi aveva voluto coprire il pomeriggio. Lei andò a casa sorridente e io mi misi in moto. Già al tavolo due era arrivato qualcuno.
“Ehi, Veronica”, mi salutò di nuovo Brad quando finii di prendere le ordinazioni. Mi avvicinai e gli consegnai il foglietto, pensando che si volesse lamentare di qualcosa.
“Che c’è?”, chiesi poi quando lui mise il foglietto da parte, senza darmi nessuna delle bibite che i clienti avevano ordinato.
“Sai, ti volevo chiedere se dopo ti va di uscire”, mi disse avvicinandosi pericolosamente. Che voleva da me quel tipetto a cui piaceva rovinare le relazioni come quella tra Lucy e Carl?
“E stare di nuovo male?”, chiesi sorridendo cattiva e fredda. “No, grazie ma passo”.
“No, niente discoteca, oggi non mi va”, mi prese la mano quando mi voltai per tornare indietro. “Magari vieni un attimo da me, abito qui vicino…”.
“No, grazie ma passo”, ripetei marcando di più la risposta. “E ora dammi le ordinazioni, ho da lavorare io”.
Lui sbuffò, mollandomi il braccio bruscamente, e si voltò per prendere i bicchieri e riempirli. Ma guarda te questo! Chi si credeva di essere?
Alla fine mi porse il vassoio pieno e mi lasciò andare, sotto lo sguardo arrabbiato di Lucy, che potevo vedere in un angolo del bar a prendere un ordine. E quindi stavano insieme? O forse per lei, oltre la piccola notte da tradimento, c’era qualcos’altro? Che io fossi, stavolta, l’amante? Di chi poi, di Brad? Se lo poteva scordare…
Tornai al mio lavoro e cercai di non pensare a niente, tranne qualche piccola battuta con Vicky nei momenti vuoti o qualche chiacchiera con dei clienti mentre ordinavano.
“Veronica?”, mi chiamò Sean quasi a fine turno. Mi voltai e mi scusai con i consumatori che stavo servendo.
“Sì, che c’è?”, ripetei a lui. Ma che volevano tutti stasera?
“Volevo chiederti se domani potresti di nuovo lasciare il turno alla ragazza di oggi, ma anche di sera”, mi domandò. “Però ovviamente devo toglierti un giorno di paga”.
Che fare? Accettai, tanto una serata non mi cambiava la vita e a quanto pare quella ragazza ce la stava mettendo tutta per pagarsi quel college.
“Va bene, tranquillo”.
“Ah, potresti venire un attimo in cucina? Dovrei chiederti una cosa riguardo ad un piatto”, sorrise mostrandomi la strada. Alzai le spalle e lo seguii, senza sapere che voleva.
La cucina l’avevo già vista altre volte, ma non ci ero mai restata abbastanza a lungo per notarne tutti i particolari. E il primo che colsi fu che… era veramente enorme!
“Sei una brava cuoca, Veronica?”, mi chiese di nuovo sorridente, facendomi avanzare verso un uomo sui trent’anni che preparava una pizza con pomodoro e funghi. Bè, cercava.
“Direi di sì”, continuai esaminando i punti errati nella preparazione. Punto uno: pasta troppo alta, sembrava quasi una focaccia. Punto due: in teoria ci doveva essere una mozzarella, ma a quanto pare era invisibile. Punto tre: i funghi non erano dei migliori.
“Fantastico, prendi cappello e grembiule e vediamo che sai fare”, mi disse svegliandomi dalla mia verifica.
“Cosa?”.
“Un cuoco si è licenziato da una settimana, quella ragazza ha bisogno di turni completi, tu hai bisogno di un lavoro e io di un nuovo chef. So che non hai una laurea o che so io in cucina, ma sei italiana e hai detto che sai cucinare”, mi spiegò meglio. “Sei arruolata, vediamo che sai fare”.
   Così mi avvicinai alla postazione vuota che mi indicò, mi vestii con quello che mi porse e guardai il bigliettino che era appiccicato ad un lato. Un ordine che avevo preso, e nemmeno così difficile.
Sorrisi e mi misi al lavoro. Non sarebbe stato così male e, anche se non avrei visto Vicky se non alla chiusura, avrei evitato le richieste di Brad e le occhiatacce di Lucy.
Sia lodato il Signore!
 
Quando Sean decise che era ora di chiudere andai a cambiarmi veloce e uscii da quel posto. Avevo solo voglia di andare a casa, mettermi tra le coperte e dormicchiare un po’, sperando che gli incubi non arrivassero.
“Grazie per la cura, Veronica”, mi salutò Vicky, che andò via per prima. “Ci vediamo domani, e in bocca al lupo in cucina!”
“Ciao Vicky e grazie”, la salutai con la mano mentre la vedevo allontanarsi.
Casa mia era dall’altra parte di dove andava, così decisi di sistemarmi la borsa in spalla e di cominciare a camminare. La strada era illuminata abbastanza bene e in fondo era tutta dritta, fino a che al supermercato avrei dovuto girare.
Ma una mano da un punto non ben definito mi spinse contro un muro oscurato, all’interno di un mezzo vicolo, tra una casa e l’altra. Non vedevo niente, ma sentivo la presa sul braccio destro aumentare e, ad un certo punto, anche la pressione di una mano sulla bocca. Che cavolo voleva? Dov’ero? Con chi ero?
“E così sei stata promossa”, sussurrò… Brad? Che ci faceva lì? “Una settimana circa e già la nostra Veronica ha superato tutti. Credi di essere migliore solo perché Sean sa da dove vieni?”.
Mugugnai, cercando di scappare o mordere la mano che mi impediva di parlare. Mossi anche il corpo, ma forse fu l’errore peggiore.
“Hai voglia di muoverti?”, chiese ridendo e alzandomi il maglione che mi ero messa. Brutto figlio di buona donna, che cazzo aveva intenzione di fare? In quel momento pensai a così tante parolacce che mi bastarono per sempre; in italiano, inglese, perfino in spagnolo.
“Ora ti senti tanto superiore?”, domandò ancora quando mi spinse il polso contro il muro, facendolo scricchiolare. Fottuto bastardo! “Credi ancora di essere più brava?”.
Cercai di muovere le mani, ma ovviamente era più forte e mi teneva ferma. “Pensi ancora di potermi rifiutare, piccola incosciente?”.
Fece lo spiritoso ancora per un po’, forse per spaventarmi ancora di più, ma aveva dimenticato un dettaglio. A scuola ci avevano fatto un corso di autodifesa e io mi trovai a gambe libere davanti a ciò che più l’avrebbe intontito. Mi mancava solo l’occasione migliore prima che si decidesse. E fortunatamente non tardò ad arrivare.
“Brad?!”, gracchiò la voce di… Lucy sotto la luce del lampione sul vialone centrale.
Brad si voltò, credendo di non essere notato, ma pochi secondi dopo si ritrovò accasciato a terra. Un calcio perfetto nel bassoventre era l’arma letale di ogni donna in pericolo.
Corsi verso la luce, evitando che mi riacciuffasse per i piedi, e mi avvicinai verso Lucy.
“Grazie”, sussurrai appena le andai vicino. Di sicuri d’ora in poi non l’avrei presa in giro così tanto…
“Va a casa”, mi rispose entrando nel vicolo. Poi, quando cominciai a correre, sentii gli insulti vocali della ragazza arrivare forti e chiari e alla fine anche lei uscii dal vicolo, tornando verso la via di casa.
Continuai a correre, voltata per vedere cosa c’era davanti a me ed evitare di andare a sbattere contro un palo. Non era proprio la serata giusta per causarmi anche un trauma cranico.
Vidi le insegne del supermarket e di fretta svoltai, entrando nella mia via. Mancavano pochi metri… pochissimi metri a casa.
“Ehi”, sentii dire quando, ad occhi chiusi, mi ritrovai addosso a qualcuno. Ti prego, fa che non sia… “Ronnie che succede?”.
E gridai.
 
“Non ho idea di cosa possa essere successo”
“Sarai così brutto da averla fatta spaventare”
“Ha parlato Mister Bellezza Innata”
“Finitela voi due, e rispiegami che è successo”
“Non lo so, mi è venuta addosso, mi ha guardato, ha gridato ed è svenuta. Non ci capisco più niente…”
“Hai usato troppo il cervello fratello, lascialo riposare o va in tilt del tutto”
“Cretino”.
Troppe voci. Tante, troppe voci vicino a me continuavano a risuonare senza lasciarmi il magnifico silenzio di cui avevo bisogno.
Troppe voci. Tante, troppe voci vicino a me sembravano realmente preoccupate e ansiose.
Troppe voci. Tante, troppe voci vicino a me volevano farsi riconoscere ma il mio cervello non era ancora pronto. A parte una, una voce maschile che avevo sentito l’ultima volta che avevo aperto bocca. Quella la ricordavo, ma non riuscivo ancora a collegare il volto.
Ero come intrappolata di nuovo dentro la mia testa senza trovare la chiave. La Veronica che era racchiusa lì si alzò cercando di trovare la via d’uscita, ma era come se fosse in una stanza infinita, di quelle dei cartoni animati, tutte bianche e senza muri. Camminare sembrava inutile, ma continuava imperterrita, trovando in lontananza qualcosa che sembrava diverso dall’infinito.
“Quanto ha dormito?
“Bè, l’ho portata qui che erano le undici e mezza e ora sono le dieci di mattina… mezza giornata?
“Non capisco cosa può essere successo…”
“Crisi di nervi?”
“Sì, ma a quale causa?”.
Ancora quelle voci. Ancora quella voce.
Devi uscire, Veronica, forza e coraggio! Uscire dalla propria mente non dovrebbe essere difficile, no? Siamo come in un cartone animato, e cosa ricordi che fanno i personaggi dei cartoni quando si trovano in questo stato?
Tornano come indietro nel tempo. Devi tornare indietro, prima dello svenimento. Pensa, Veronica, pensa a che era successo… ricorda.
Vicky… cucina… Brad. Brad e Lucy… Jared.
Ecco la ricostruzione del viso a quale apparteneva la voce. Era Jared, quella voce. E le altre due?
Torna più indietro, Veronica. Più indietro.
Sveglia… Carl… Constance. Constance e Shannon. Le nostre storie.
Ecco di chi erano le altre due voci: Constance e Shannon. Che ci facevano accanto a me questi tre personaggi? Dov’ero? Perché  ero intrappolata?
Pensa, Veronica, pensa. Cosa ti può aver portato ad uno stato di finto coma del genere. Crisi di nervi? Dovuta a cosa?
A  Brad. E perché svenire davanti a Jared? Perché non tornare a casa con un scusa? Sarà la prima cosa che mi chiederanno quando riuscirò ad aprire gli occhi. Che rispondere?
Ho bisogno di un sostegno… ho bisogno di Vicky, di Andy… di nonna o di Marco. Ho bisogno di aiuto.
“Non migliora?”
“Resta sempre immobile, ma è cambiato qualcosa, me lo sento”.
“Che cosa, fratello?”
“Non lo so, ho la sensazione che può sentirci… come se però non riuscisse a comunicarlo”
“Veronica? Veronica ti prego cerca di farci capire che ci senti, ti prego”
“Mamma sembri un po’ strana, sai? Sembra che stai parlando al telefono con qualcuno che non risponde”.
Devo rispondere. Ma come? Veronica, trova la via per tornare alla realtà, veloce. Non può essere difficile, la chiave è di sicuro alla mia portata, devo solo capire qual è. Qual è il ricordo che mi fa sempre svegliare, in ogni caso?
Mi odiai per questa idea, ma non avevo scelta. Avrei avuto gli incubi da qui all’eternità, ma dovevo uscire di lì.
Ricorda, Veronica, ricorda quella sera. La sera in cui tutto è cambiato, la sera in cui ogni cosa è andata persa.
 
“Tesoro, non c’è un perché. La vita è fatta di alti e bassi, e a volte l’amore non basta per superare le difficoltà”, disse mia madre, dopo la festa di compleanno della mia migliore amica.
Credevo sarebbe stata la sera migliore della mia vita… ma mi sbagliavo, e anche di grosso.
“Che vuoi dire? Che significa che l’amore non basta?”, chiesi sussurrando, prima di scoppiare definitivamente. Avevo l’orribile dono di capire cosa intendessero dire le persone già dal loro tono e quello di mia madre non prometteva niente di buono.
“Negli ultimi tempi io e tuo padre ci siamo divisi troppo, e mi sono resa conto che per quanto ci ho vissuto insieme… io non lo conosco per niente”, mi disse cercando di carezzarmi la guancia. Mi spostai, arrabbiata e con le mani strette a pugno. No, non fino a questo punto.
“Quindi…”.
“Quindi abbiamo deciso che è ora di ricominciare. Divorziamo, tesoro, e devi decidere come e con chi continuare la tua vita”, mi informò con una tranquillità disarmante.
“Cosa?”, urlai. Eccola, la bomba era esplosa, e io non ero più capace di intendere e di volere. “No, non potete farlo, non ve lo permetto! Voi siete fuori di testa! E perché poi? Per un trasferimento? Credevo vi facesse piacere non averci più fra i piedi!”.
“Non dire queste cose, non è per Marco. Siamo noi”, cercò di farmi capire mia madre. Troppo tardi.
“Oh, non osare. Cos’è, ora usi i cliché adolescenziali per finire una storia con me? Cos’è, non siete degni l’uno dell’altra? Non sono io, ma siete voi? Non vi riconoscete più?”, vocalizzai isterica. “Oh, ma non farmi il piacere. Voglio la realtà: chi ha un altro? Immagino te, visto come tratti di solito papà!”.
“Veronica!”, mi urlò tirandomi uno schiaffo. “Non osare dirmi certe cose! Questi non sono affari tuoi, decidi solo dove vuoi stare e riferiscilo entro un mese, perché tuo padre ha già trovato un nuovo lavoro a Torino”.
“A Torino?”, chiesi stupita. Oh, fantastico. Nuova vita, nuovo lavoro, nuova casa. Ma dove avevano il cervello questi due? “Oh, sai che ti dico? Basta, con me avete chiuso. Tutti e due! Vado da nonna e prima o poi seguirò l’esempio di mio fratello. E a quel punto che farete, geni delle relazioni? Litigherete anche con i vostri nuovi compagni perché vostra figlia si è trasferita? … mi fate pena!”.
Fermai il palmo di mia madre che stava finendo un’altra volta sulla mia guancia e me ne andai in camera mia, per fare le valigie. Entro un mese? Ah, a me bastavano anche ventiquattro ore.
Era finita. Finita del tutto. Grazie, bella serata, mamma e papà!
 
E gridai, svegliandomi con il fiatone. Ce l’avevo fatta! Ero riuscita ad uscire dall’infinito!
“Ronnie! Ronnie tranquilla”, mi calmò Jared abbracciandomi e sentendo il ritmo fin troppo accelerato del mio cuore. “Ehi, va tutto bene, calmati”.
“Ronnie, ci hai fatto prendere uno spavento”, sorrise tenero Shannon salutandomi con la mano. “Stai bene?”.
“Non esattamente”, confessai poggiando la testa sulla parete dietro di me. Eccoci di nuovo, sdraiata per la seconda volta nel letto dei piccoli Leto. Oh, Constance, come hai fatto e fai ancora a sopportarmi?!
“Ora stai calma, io e Shannon scendiamo di sotto a portarti qualcosa da sgranocchiare”, sorrise.
“No, ti prego, torno a casa e preparo qualcosa”, dissi cercando di alzarmi, ma Jared, ancora a pochi centimetri da me, me lo proibì.
“Stai ferma, non dai nessun problema”, mi rispose lei, portandosi dietro suo figlio maggiore. “Ti lascio la compagnia, tanto”.
E così mi abbandonarono da sola con Jared per l’ennesima volta, scendendo le scale e scomparendo al piano di sotto.
Io mi rimpicciolii nel letto e appoggiai la testa sul cuscino, annusando l’odore di pulito che emanava la stoffa.
“Dovresti finirla di ricordare certe cose”, commentò lui facendomi impallidire. Oddio, non potevo aver parlato anche in quel sonno! “Ti fa solo male”.
“Cosa?”.
“Non sei la sola che ha sofferto una separazione, Ronnie”, mi sorrise dolce, anche se l’argomento non era certo il migliore. “Certo, devo essere stato molto più piccolo, ma gli incubi venivano anche a me e so cosa vuol dire svegliarsi nel bel mezzo della notte”.
“Torneranno senza che io lo desideri, in ogni caso”, dissi e lui annuì piano, come a confermare la mia teoria. Lui lo sapeva, lui l’aveva provato, proprio come me.
“Mi spieghi che ti ho fatto, per farti svenire tra le mie braccia?”, ridacchiò ricordandosi il motivo per cui ero lì.
“Incidente di percorso”, risposi sorridendo. Spaventarsi a morte o prenderla sul ridere? Preferivo la seconda, avevo già i miei problemi e non ero intenzionata a deprimermi per il resto della mia vita. “Ho avuto un incontro ravvicinato con un ragazzo che ho rifiutato, ma niente di grave… lo sai che mi hanno promossa a cuoca?”.
“Sul serio?”, accettò di deviare il discorso.
“Chi vuole morire così giovane da promuoverti cuoca?”, entrò Shannon con in mano un vassoio, sempre sorridente. Già avevo dimenticato lo Shannon arrabbiato con me…
“Come siamo simpatici!”, lo schernii stiracchiandomi e appoggiando la colazione sulle ginocchia. “Dovrebbero darti un premio Nobel per la simpatia, guarda”.
“Ma quanto sei dolce, Ronnie”, disse lui sedendosi vicino al fratello e scherzando. Shannon non avrebbe mai fatto una conversazione seria in tutta la sua vita, ci avrei giurato l’anima.
Io scossi la testa e lasciai perdere, cominciando poi a mangiucchiare ciò che Constance mi aveva preparato. Ormai mangiavo più da lei che a casa mia, era impressionante!
“La devo smettere”, sussurrai scuotendo la testa.
“Di fare cosa?”, chiese Jared stupendomi. Non credevo sarebbe riuscito a sentirmi.
“Di farmi mantenere da vostra madre manco fossi di famiglia!”, spiegai.
“Ma tu sei di famiglia”, concluse Shannon come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Certo, non ti conosciamo da una vita, non ti abbiamo mai vista da piccola, magari non sappiamo cosa sognavi di diventare da grande o il tuo colore preferito… ma fai stare bene noi e nostra madre e questo ci basta”.
“Grazie”, finii sorridendo e allargando le braccia. “Ehi, ora non posso avere un abbraccio?!”.
“No, è solo per le Ronnie tristi”, decretò Shannon prima che Jared se ne fregasse e mi strinse stretta. Lui allora alzò le spalle e, con il suo solito sorrisone, si buttò nella mischia. Avrei mai visto Shannon senza sorriso d’ora in poi? Ne dubitavo.
“Come farei senza di voi, ragazzi?”, chiesi retoricamente ridendo. Certo, c’era Vicky, ma non era la stessa cosa. Con i Leto era diverso, quasi speciale ed unico.
“Saresti completamente persa”, si pavoneggiò Jared, prendendosi di conseguenza un pugno sul braccio dalla sottoscritta. Poi diedi il cinque a  Shannon, che ancora continuava a ridere.
In quel momento sentivo dentro di me solo una cosa: avevo fatto la scelta giusta.
Bossier City era stata la scelta migliore che avessi fatto, o almeno così credevo, e mi aveva ridato la libertà che cercavo ormai da troppo tempo. Era ora di aggiornare Andy!
 


.... 
 Note dell'Autrice:
Brad ma lo sai che mi stai sulle palle in una maniera assurda?!?! Perchè poi non è finita qui, e no care mie! To be continued...

Comunque vi è piaciuto il capitolo? Era come pensavate? Spero di sì, visto che l'altra volta avete messo 3 recensioni *.* (me che sviene di nuovo felice ripensandoci). Vi voglio un mondo di bene, famiglia.
Con affetto, marsHug. Ronnie02

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Capitolo 7
*** Maybe From Mars ***


Allora io vi do il permesso di uccidermi. Avrei dovuto aggiornare lunedì, e posto oggi. Sono da rinchiudere in manicomio.... ma almeno per ora no dico "Soon!", quindi siate clementi xD
Quindi Ronnie - sia quella vera che quella immaginaria - è tornata! Io vi auguro buona lettura, lei continuerà a raccontare. Spero vi piaccia!


Chapter 6. Maybe from Mars     



“Allora, raccontami tutto, sono troppo curiosa”, risi quando fummo in casa, sdraiate sul divano con degli stuzzichini davanti a noi. Lei sorrise e cominciò a raccontare.
“Vediamo… bè, in verità non sono nata qui, ma nella grande e meravigliosa New Orleans. I miei genitori non mi aspettavano, credevano che dopo una tipetta come Lucy sarei stata ancora peggio, ma mi tennero con loro, presi dal mio sguardo magnetico, o così dicono.
“Vissi laggiù fino all’età di dodici anni e amavo davvero quella città, era favolosa e conoscevo un sacco di gente. Mi piaceva e l’idea di abbandonarla per un misero paesino della periferia come Bossier City mi rattristava. Non ci sarebbero state più grandi vie trafficate, la velocità che travolge la città in movimento, i mille rumori cittadini che a volte ti innervosiscono e a volte ti rilassano in un assurdo accordo. Ora solo le campagne, la tranquillità e il silenzio.
“Iniziai qui la scuola e conobbi un po’ di gente, mentre Lucy tenne il muso fino a che non la obbligarono a trovarsi un lavoro. È ancora arrabbiata con i miei per esserci trasferiti qui, non le è mai andata a genio la cosa”, narrò come se fosse la millesima volta che lo ripeteva. Era quasi travolgente il modo con cui parlava della sua vita. “Ma le bastarono uno specchio, un ragazzo e un lavoro in un locale abbastanza in voga, alla fine, per risollevarle il morale. Poi si lasciò con lui, ma questo è un altro discorso.
“Sta di fatto che la scuola occupò la mia vita per il resto degli anni, fino a che chiesi anche io un contratto nel locale in cui lavorava Lucy, in modo da tenerla sott’occhio. La stessa estate, ovvero la scorsa, presi la decisione. Finita la high school sarei andata al college di New York e mi sarei trasferita lì.
“Mi piace l’idea e non vedo l’ora che arrivi quel momento: niente mamma o papà, niente vecchi amici pettegoli, niente storie false di paese, niente Brad o Sean e sopra ogni santissima cosa… niente Lucy”.
“Conosco la sensazione, sai? È lo stesso motivo che mi ha spinto fino a qui. Ma di certo tu hai un bel rapporto con i tuoi, al contrario mio, da quello che ho capito, no?”, chiesi controllando l’ora. Undici e mezza: avevamo ancora un po’ di tempo.
“Certo, i miei genitori morirebbero per me, sono il loro capolavoro, credo. Quando comunicai loro la mia scelta, come prima reazione mi ritrovai facce tristi e deluse; ovvio volevano che il momento del trasferimento arrivasse molto molto molto più tardi che a diciotto anni, visto che Lucy è ancora qui”, ridacchiò raccontandomi. “Ma io non sono come lei e di certo non voglio restare qui per sempre. Magari quando finirò l’università a New York, tornerò a New Orleans, che ne so!”.
“Mi mancherai sul serio, sei già una mia grande amica”, commentai quasi ci stessimo per lasciare adesso.
“Oh, non dirmi invece che tu rimarrai qui in eterno a fare la cameriera! Non me la dai a bere, McLogan!”, rise di gusto tirandosi in piedi e indicandomi cattiva. “Tu, signorina, tra dieci anni sarai qualcuno! Te lo posso anche giurare!”.
“Sì certo, è per cosa?”, chiesi.
“Magari sarai solo importante per un uomo e forse per dei piccoli monelli che ti distruggeranno casa, ma di certo non resterai a Bossier City”, disse buttando giù il cuscino, ridendo come se fosse anche lei una piccola monella. “Venti dollari che tra dieci anni ti sei trasferita”.
“Sfida accettata!”, dissi convinta. Ma mai andare contro il tempo! Anzi, mai andare contro il destino!
“Dai, è meglio che torni a casa, o i miei stavolta non mi lasceranno più uscire sul serio”, rise prendendo la sua giacca e la borda. “Cerca di non combinare guai, piccola peste”.
“Io? Te stai attenta a scuola, va!”, le rinfacciai accompagnandola alla porta e poi salutandola. “Buona notte, Vicky. E non salutarmi tua sorella”.
“Sarà fatto”, rise andandosene. “Buona notte, Veronica”.
E così rientrai, chiusi tutto per bene – maniaca com’ero anche della sicurezza – e salii di sopra. Era ora di dormire, baby!
Mi cambiai con il pigiama a mi misi a dormire. Chissà cosa mi sarei trovata il giorno dopo. Quali nuove storie avrei sentito e se mi sarei stupita come con quella di Vicky…
Il mattino dopo mi risvegliai più stanca di come mi ero addormentata la sera prima. Gli incubi mi avevano fatto visita e se Constane non mi aveva fatta arrestare per disturbo del sonno pubblico nel bel mezzo della notte a causa dei miei urli, potevo stare tranquilla almeno da sveglia. La cosa più brutta di me era che parlavo nel sonno, e di conseguenza urlavo se ciò che vedevo non era così piacevole.
Andai di sotto, stavolta con una maglietta meno bucata in caso arrivasse qualche pazzo con una chitarra in mano a chiedermi di vedere la sua band. Preparai la colazione e intanto ripensai alla storia che Vicky mi aveva raccontato ieri: New Orleans, Lucy, New York…
Mi aveva stupita, non c’è che dire. Lei e Lucy sorelle… era come se la Luna e il Sole fossero in realtà strettamente imparentati! Era assurdo e quasi ironico, vista la loro enorme diversità caratteriale. In quanto ad aspetto fisico… bè a quello invece ci potevo arrivare: stesso colore di occhi e capelli, stessa statura… e come ogni sorella o fratello non si usciva mai con gli amici e le amiche dell’altra o dell’altro.
Risi della mia strana mente che non ci era arrivata e andai a cambiarmi. Era il giorno della spesa! Wow, non vedevo l’ora da tutta la settimana…
Mi vestii decentemente e uscii di casa, dirigendomi verso il vicino supermarket all’incrocio. Io amavo il mio quartiere!
Arrivata lì, cominciai a prendere ciò che mi serviva e finii in fretta per poi tornare a casa e rilassarmi. A quel punto mi avviai la cassa per pagare. Diedi i soldi e mi misi la spallina della borsa sulla spalla destra.
“Bisogno di aiuto, madame?”, chiese dietro di me una voce che non riconobbi quando uscii dall’edificio, ritrovandomi nel parcheggio. Mi voltai e vidi il faccino di Carl sorridere a pochi centimetri dal mio.
“No, grazie, va bene così”, sorrisi allontanandomi da lui e cominciando a incamminarmi verso casa. “Non ho bisogno di aiuto, ce la faccio”.
“Ehi, senti, mi dispiace ok?”, mi inseguì. Oddio, ma che testone! “Se è per quello che ho detto, mi dispiace. I Leto sono tuoi amici e hai fatto bene a difenderli”.
“Allora che cosa vuoi?!”, gracchiai voltandomi di scatto verso di lui, tanto da farlo indietreggiare.  Che voleva da me quel ragazzo sconosciuto? Che avevano tutti in questa maledetta cittadina?
“Vendetta. Su Lucy” disse con un sorriso malefico. “E solo tu puoi aiutarmi”.
“Cosa? Che vuoi da Lucy?”, mi stupii. Vedetta? Che diavolo aveva in mente quel pazzoide? “E poi io che c’entro?”.
“Lei ti crede una nemica, Veronica! Non hai visto che ti ha fatto la scorsa volta? Ti ha ridotto in uno straccio sporco! Appena ti vede con me impazzisce”, mi fece capire. “Voglio che provi ciò che ha fatto provare a me, che provi ciò che ho passato io per colpa sua”.
“Tu… cosa…? Tu e Lucy?”, chiesi confusa riprendendo a camminare davanti a lui. Come ovvio mi seguì come un cagnolino da riporto.
“Bè… ci mettemmo insieme quando arrivò qui in città con la sua famiglia, qualche anno fa. Eravamo fidanzati, insieme eravamo forti e quasi perfetti. Ma poi, per colpa anche della pressione dei suoi, decise di cominciare a lavorare e trovò il posto in quel locale. Sean accoglie volentieri i giovani. Fu l’inizio della fine”, mi raccontò la storia della sua vita mentre io alzavo un sopracciglio, facendogli notare che aveva ciarlato fino a casa mia. “Incontrò Brad e alla fine cominciò una storia segreta anche con lui. Mi tradì e non le la perdonai mai. Vicky notava che ci stavamo separando sempre di più e trovò il modo di farmelo scoprire. La mollai in tronco, ma ancora dichiaro vendetta”.
“Ok, va bene… ma continuo a non capire cosa c’entro io in questa storia”.
“Se accetti avrai il compito più importante di tutti”, mi disse, per poi aspettare che annuissi. Gli feci segno di andare avanti, senza dargli una risposta precisa. Lui sorrise e cominciò a parlare: “Veronica McLogan… vuoi essere la mia finta fidanzata?”.
“Oh… no!”, rifiutai arrabbiata. Ma chi cavolo si credeva di essere questo? “Scordatelo bello, non ci pensare nemmeno! Io non faccio queste cose, non sono una falsa, puoi togliertelo da quella malsana testolina!”.
Perché la mia vita si era fatta ad un tratto più complicata? Che aveva questa cittadina? Che aveva l’intera America?!
Entrai in casa, furiosa come non mai e lasciandolo fuori deluso. Poi, quando si decise a lasciarmi vivere in santa pace, mi sentii più tranquilla e sistemai le cose che avevo comprato. Finito quello mi misi sul divano a guardare la tv e ad aspettare un ora decente per mangiare.
Ma ovviamente dopo una decina di minuti suonò il campanello. No, ma sul serio, che cavolo avevano le persone qui?!
Aprii la porta e mi ritrovai davanti la faccia felice e sorridente di Constance. Oh no.
“Ehilà, vicina! Che ne dici di venire da me a pranzo? Ci sono anche i ragazzi, dai!”, mi propose immediatamente mentre io cercavo una scusa plausibile. Ma, in fondo, come potevo mentire alla forse unica persona sana di mente di questo posto? Ho detto forse.
Per stavolta mi toccava di nuovo ingrassare, vista l’esperienza precedente che non avevo ancora del tutto smaltito. Maledetta cucina di Constance!
“Posso rifiutarmi?”, chiesi per sicurezza.
“Non credo tesoro. E poi non posso affrontare quei due da sola, mi servi!”, mi rispose sorridendo e congiungendo le mani a mo’ di preghiera.
Risi e annuii con la testa. In fondo, la poveretta non aveva tutti i torti e dopo ventinove anni di guai le serviva una mano. “Ora sì che mi sento rispettata! Devo fare pure da balia a due bambini troppo cresciuti! Va bene, ci sarò, ma dammi un quarto d’ora”.
Detto questo mi salutò e tornò a casa sua in fretta e furia, forse a cominciare a preparare la mia morte, lentamente e in un forno caldo magari.
Evitai di continuare a pensarci e mi diressi in bagno per rinfrescarmi un po’. Poi mi trasferii in camera e mi cambiai, mettendomi un vestito verde acqua leggero, con le balze, legandomi i capelli in una grande coda alta e mettendomi delle ballerine bianche.
Uscii di casa, attraversai il poco spazio che divideva i due edifici e sperai di essere arrivata in tempo. Stranamente la macchina dei piccoli Leto era già appostata davanti al vialetto, segno che per una volta nella loro vita erano arrivati in orario.
Svelta, corsi verso la porta e suonai il campanello.
“Ma ciao! Come mai da queste parti, miss Ronnie?”, si fece vedere Shannon, vestito con un’assurda maglietta a maniche corte con disegni astratti e dei pantaloni fino al ginocchio che lo faceva somigliare all’ottavo nano di Biancaneve.
“Io devo andare ad un pranzo, tesoro… tu invece devi andare a fare un po’ di sano shopping, o ti conviene nasconderti!”, scherzai sperando che poi mi facesse entrare.
“Senti…”, cominciò senza saper ribattere, ma ostacolandomi il passaggio verso la casa.
“Lascialo stare, è scemo e non ha il minimo gusto nel vestire”, vidi Jared avvicinarsi e portarlo via, per farmi spazio e invitarmi ad entrare in casa. “Ma ormai dovresti saperlo, no?”.
 Ridi della battuta ed entrai in casa. I due Leto si misero subito a tavola, parlando di come Kevin aveva dato loro buca per il pomeriggio e quindi niente ennesime prove a vuoto. Io lasciai perdere, e invece di incitarli a fare qualcosa di serio, andai in cucina a salutare Constance.
“Ehilà tesoro”, mi salutò dalla sua postazione vicino al forno. Si accucciò di fronte e lo aprì, per poi sfornare il pranzo. Pizza? “Sei italiana, quindi potrai, e dovrai, darmi dei consigli per le altre due teglie”.
“Vuoi uccidermi, per caso?”, chiesi impaurita quando mi mostrò il resto del pranzo che aveva o stava preparando.
“Credimi: se bastano è un miracolo!”, ridacchiò prendendo l’unica teglia pronta e spostandosi in cucina. La seguii, mettendomi poi seduta di fianco a Jared e di fronte a Constance.
“Dai, provala: devi dirmi cosa ne pensi”, si esaltò la donna, guardandomi ansiosa e felice.
“Ti avverto: la pizza  è il mio piatto preferito in assoluto”, le risposi in tono di sfida. Lei annuì sicura e Jared mi guardò come se volesse avvertirmi di aspettare a parlare.
Sorridente, presi un pezzo e ne strappai una parte. Poi ingoiai e mandai giù. “E’… buona! Davvero. Voglio dire, non è il massimo, ci possiamo lavorare un pochino, ma partiamo con il piede giusto”.
“Non è il massimo? Tu stai male”, mi riprese Shannon cominciando ad ingozzarsi.
“Vai a Napoli e poi ne riparliamo. Questa in confronto è immangiabile e la mia sarebbe stata ancora peggio… senza offesa alla qui presente cuoca”, scherzai giustificandomi.
“Sei stata a Napoli?”, chiese Jared curioso come al solito.
“Sì… quattro anni fa, mi sembra. Ero in vacanza con delle mie amiche”, risposi riprendendo a mangiare e a ricordare. Strano, Jared non stava mangiando niente, al contrario del fratello… “Certo, ci eravamo portate dietro i genitori, avevamo solo quindici anni, ma mentre loro andavano a fare le gite di cultura noi ce la spassavamo in giro”.
“Ah, eri una ribelle!”, ridacchiò Shannon. “No, aspetta… quindici anni? Come facevi ad avere quindici anni, quattro anni fa? Sembra così strano…”.
“Ehi, non è colpa mia se tu sei vecchio”, dissi nascondendomi per quello che potevo dietro a Jared per evitare che il suo pazzo fratello mi bagnasse con l’acqua.
Constance riprese a mangiare, come se fosse abituata a questi scenari, e così fece il suo figlio più grande quando finì di minacciarmi.
“Ehi, sei a dieta?”, dissi al piccolo Leto notando che non aveva nemmeno il piatto pieno.
“E’ vegano… mangia la seconda teglia: pizza vegetariana”, rabbrividì Shannon come se fosse un orrore.
“Pizza vegetariana? Sul serio?”, m’illuminai io. “Che bello! Parli con una vegetariana super convinta. Anche se non vegana… no, vegana non ce la farei”.
“Davvero, sei vegetariana?”, sorrise Jared, come se avesse finalmente trovato un alleato nella sua battaglia. Risi e annuì convinta.
“Favoloso… un’altra pazza”, scosse la testa Shannon. Jared gli tirò addosso un pezzo di pane per ripicca e Constance si limitò a rimproverarli debolmente , sapendo che in ogni caso non le avrebbero mai dato retta e quindi non sarebbe servito a molto.
E così continuammo in quel modo, tranquilli, tra consigli sulle pizze e ricordi sul proprio motivo del vegetarianismo o le opinione contrarie, e anche novità sulle canzone. Shannon aveva trovato un bel motivo di batteria che ispirava parecchio Jared, anche se non trovava parole adatte, per quel che mi dissero.
Sta di fatto che verso il primo pomeriggio ci trovammo noi tre nella loro vecchia camera a parlare e scherzare sul passato.
“Ma la vuoi finire?”, chiese ridendo Shannon, mentre se ne stava sdraiato comodamente con i piedi a penzoloni sul letto e raccontava le marachelle e gli scherzi che lui e suo fratello facevano patire ai poveri primini al liceo. “E’ da quando siamo saliti qui che continui a guardare quella foto ininterrottamente”.
“Bè, siete tenerissimi… e poi mi ricorda sempre la stessa domanda, che mi rimbomba nel cervello”, dissi senza pensare e continuando a fissare la foto e i simboli.
“Ovvero?”, chiese di nuovo curioso.
“E’ l’unico elemento caratterizzante di questa stanza. Se non ci fosse diventerebbe piatta, anonima… molto più di quanto già non sia”, rivelai io senza ancora distogliere lo sguardo. “E in più sembrano quasi collegati quei simboli e la foto, non so spiegarlo…”.
“Perché in effetti hanno una specie di legame”, mi rispose Jared mentre sua fratello si lamentava della mia convinzione sull’anonimia della loro stanza. “Voglio dire, quelli sono i simboli della nostra band, quelli ufficiali per lo meno. Guarda qui”, continuò avvicinandosi e indicandoli uno a uno muovendo il dito. “Il primo sono due tre intrecciati e sta ad indicare Thirty. Poi, questo è una sorta di orologio che sta a simboleggiare Seconds. Il terzo è invece quasi un effetto ottico. Devi guardare come se ciò che cerchi si nasconda nello sfondo, e non nel pennarello colorato”.
“Devo guardare lo sfondo?”, chiesi stupita e quando lui annuì sorridendo, socchiusi gli occhi per capirci qualcosa. Era… “Un due in numeri romani?”.
“Brava! Esattamente un due in numeri romani e due si pronuncia come la preposizione To. E infine c’è quello più simile al concetto che simboleggia. Il pianeta con i suoi satelliti, ovvero Mars”, finì guardandoli sorridente. “In più Phobos e Deimos, sarebbero la rappresentazione di me e Shannon”.
“Ed eccoli qui: Thirty. Seconds. To. Mars”, concluse Mr. Leto Senior riprendendoli tutti. “Praticamente i primi simboli non erano questi, li aveva disegnati Jared tempo fa, ma poi non ci erano piaciuti così tanto e decidemmo di cambiarli. Ne facemmo due a testa: io ho fatto Thirty e Mars, lui ha disegnato Seconds e To”.
“Solon e Kevin?”, chiesi.
“Non erano ancora nella band. Li cambiammo dopo poco e Solon e Kevin sono relativamente i nuovi arrivati. Soprattutto Kevin”, chiarì Jared. “E comunque li abbiamo scritti sotto la foto perché ci sembrava un modo per dire che siamo sempre gli stessi, anche se a volte sembriamo o sembreremo diversi. Siamo ancora i due ragazzini della Louisiana”.
“Ricordo che quando la scattammo Peter ci aveva promesso che se avessimo fatto i bravi ci avrebbe portato alle giostre”, rise Shannon mettendosi di nuovo comodo sul letto.
“Peter?”, chiesi curiosa. E ora chi era questo Peter?
“Nostro padre, il primo marito di nostra madre”, sussurrò lui, quasi tristemente, e perdendo il sorriso. Che avevo detto?
“Facciamo un patto”, decretò Jared. “Ormai hai colto abbastanza informazioni da mettere insieme parte della nostra storia. Quindi ora ti schiariamo un po’ le idee con quella vera”.
Wow, prima Vicky ora i Leto. Agli americani piaceva raccontare la propria vita a quanto pareva. “Che rischio io?”.
“Che poi tu ci racconti la tua. Certe volte non capisco niente dei ricordi che ci racconti, sono troppo contorti”, ridacchiò Shannon prendendo parola.
Fantastico! Che fare?... “Non è una storia piacevole, già ve lo anticipo… ma sono curiosa, va bene. Raccontatemi tutto!”.
 
Mi parlarono dei loro viaggi, delle loro esperienze, del divorzio dei loro genitori e il cambio di cognome verso i dieci anni. Mi spiegarono della scuola, come fossero dei teppistelli ma sufficientemente bravi a scuola. Ripresero a scherzare ricordando i vari scherzi che avevano fatto, l’inizio del loro amore per la musica, i primi concertini per mamma e papà, le prime canzoni che erano riusciti a suonare insieme. Poi andarono più avanti nel tempo, con le prime canzoni, le prime chiamate in certi locali e alla fine il viaggio verso LA. La fallita impresa musicale ma la riuscita del film di Jared. Fino ad arrivare all’entrata dei ragazzi nuovi nella band ed al ritorno a Bossier City.
Guardai l’ora: 17.46.
“Non ci pensare, non te ne vai finchè non ci hai raccontato la tua storia. Non vale se no!”, mi riprese Shannon sapendo che avevo intenzione di usare la scusa del lavoro. Ma era troppo presto, mancavano ancora due ore all’inizio del turno di stasera, visto che una ragazza che lavorava lì al pomeriggio aveva deciso di restare fino a tardi per guadagnare un po’ di più in vista del college.
“Va bene, va bene”, scherzai mettendomi comoda davanti a loro e prendendo fiato. “Da dove devo partire?”.
“O mio Dio”, rise Shannon buttandosi all’indietro e sdraiandosi ancora una volta sul letto.
“Direi che il giorno in cui sei nata va bene, tre ore bastano per diciannove anni di vita visto che noi ne abbiamo raccontate due da ventinove e trenta in due ore e mezza”, mi disse Jared. Nah, non era giusto.
“Ok, va bene. Allora, sono nata in un paese mezzo sconosciuto vicino a Milano, chiamato Monza, il 9 giugno del 1981”, scherzai facendoli ridere un po’. “Ovviamente sono cresciuta lì e ho fatto l’asilo, seguito da scuola elementare, media – che da voi non credo esista, ma sono tre anni prima della high school – e poi ho fatto il liceo scientifico linguistico, come altre volte vi avevo detto. Dopo aver preso la maturità mi sono trasferita qui e il resto lo sapete.
“Ho conosciuto la mia migliore amica tanti anni fa e da quel momento non siamo mai state molto separate, abitando anche abbastanza vicino. Era ilo mio sostegno, in qualunque situazione. Rideva e scherzava per tirarmi su di morale se avevo litigato con i miei o con i miei compagni, oppure mi dava consigli se ne avevo bisogno. E così facevo io con lei se la situazione era invertita.
“Con mio fratello andavo d’accordo e non litigavamo troppo spesso, ma poi lui si trasferì e mi lasciò sola a casa con i miei. L’ho sentito qualche mese fa per il mio compleanno… mi chiedeva come poteva fare a chiedere alla sua ragazza di sposarlo. Spero ci sia riuscito perché io adoro quei due!
“Con la scuola ero abbastanza brava, nella media e niente di eccezionale, anche perché non ero per niente motivata vista la mia opinione su certi argomenti, totalmente inutili, e sui miei compagni… gente su cui provo molta stima… lasciamo stare. E così… sì, credo di aver detto tutto”, finii dopo aver parlato per… mezz’ora?! Ci avevo messo pochissimo!
“No, aspetta. Eviti sempre il discorso dei tuoi genitori”, notò Shannon e Jared annuì. Cavolo, mi avevano proprio incastrata.
“Volete proprio sentire la parte brutta, eh?”, la presi sul ridere prima di sospirare e ricominciare a parlare. Sarebbe stata lunga stavolta. “Ecco, tutto cambiò dopo il trasferimento di mio fratello. I miei genitori, che già litigavano da anni, ricominciarono ad urlarsi addosso per colpa di chi glielo aveva permesso e chi no: mia madre voleva che Marco restasse a casa mentre mio padre l’avrebbe lasciato andare.
“Alla fine tutte le vecchie discussione ritornarono a galla e finirono per optare sul divorzio. Si separarono, ognuno prese un pezzo di tutto e io finii a vivere da mia nonna. Non sono mai andata d’accordo sulle loro decisioni e man mano che crescevo i litigi anche con me si facevano più forti, perciò preferii andare via.
“Mi ripromisi di andarmene prima possibile e così feci. Non cambiai città o regione, o persino stato. No, non mi bastava. Cambiai pure continente e va bene così”, finii in bellezza, in modo quasi ironico.
Shannon si ammutolì, capendo forse che aveva sbagliato ad insistere, mentre Jared, dopo qualche secondo, mi abbracciò si scatto, senza dirmi niente.
Mi stupii, non aveva mai eliminato le distanze così tanto e non me l’aspettavo a dire il vero, così mi irrigidii per un primo istante. Ma poi lasciai che finisse di preoccuparsi inutilmente e mi rallegrai nel suo abbraccio. Era una bella sensazione, in fondo, averlo vicino, sentirmi davvero protetta…
“Ehi”, sussurrai quando mi lasciò andare, sorridendo e facendo ridere entrambi, calmandoli un po’.
“Come va? Meglio?”, chiese Jared senza la solita superbia che metteva in questo genere di domande. Gli interessava davvero, non cercava di farsi vedere come al solito.
“Andava bene anche prima… ma grazie comunque”, sorrisi mentre sentivo i passi, molto probabilmente, di Constance salire sulla scala ed avvicinarsi a noi. Mi ravvivai i capelli con una mano, mentre Shannon si tirò su in modo composto.
“Allora, tutto a posto?”, chiese la loro mamma, entrando piano nella loro stanza, quasi in punta di piedi, e mostrando solo la testa. Che cavolo pensava stessimo facendo?!
“Tutto perfetto, tranquilla”, la dileguò Jared, quasi freddo o forse solo stufo. Forse gli dava fastidio che si comportasse con loro come se fossero ancora sedicenni.
 Lei tornò di sotto e noi ricominciammo a guardarci e tornammo nel breve silenzio che prima si era creato.
“Sai, a volte non sembri normale… in modo positivo ovviamente”, prese parola Jared mentre suo fratello si stampò una mano in faccia al sentire l’ultimo pezzo di frase. “Ti comporti diversamente da come farebbero gli altri… una ragazza normale non credo sarebbe qui a ridere dopo una cosa del genere. E’ come se venissi da un altro pianeta”.
 “Forse da Marte”, scherzai per rispondere alla sua domanda e  riguardando i simboli. “E comunque non è una situazione così deprimente, succede. È successo anche a voi e non mi sembra che siate casi disperati di depressione acuta”.
“Sì, hai ragione”, ammise per poi guardare l’orologio. “Ma anche se vieni da Marte, marziana dei miei stivali, se non ti sbrighi arriverai tardi al lavoro!”.
“Oddio, hai ragione pure tu!”, esclamai alzandomi di botto in piedi e facendo quasi cadere Shannon, il quale mi guardò prima malissimo e poi mi sorrise. “Ci vediamo domani, promesso! Anzi vi do il mio numero, facciamo prima”.
Presi un pennarello e, non avendo un pezzo di carta a disposizione, scrissi il mio numero sulla parte opposta dei segni sul divisorio.  Poi lo buttai sul letto e mi avvicinai alla porta.
“Attenta a non farti riconoscere, marziana”, mi avvisò Shannon salutandomi con la mano.
“Signorsì, signor capitano!”, risposi con il gesto militare, portandomi la mano in fronte e sbattendo il piede per terra. “Il nostro segreto è al sicuro, capitano”.
Loro risero e li salutai decentemente, per poi scendere da Constance e salutare anche lei, prima di dirigermi verso casa mia.
A quel punto, entrai nella mia amata dimora e salii le scale, notando il letto mezzo disfatto. Era finita anche stavolta, avevo raccontato tutto, mi ero liberata di ogni cosa.
Ma come ogni volta, anche oggi avrei riavuto gli incubi.
 
 
 ...
Nota dell'Autrice:
ogni dettaglio delle storie di Vicky o dei Leto sono puramente inventati da me - forse veri sono nel fatto che i Leto sono stati adottati e suo padre se n'è andato - quindi non prendeteli come verità. 
Detto questo... vi è piaciuto?!? Spero di sì. 
ci vediamo alla prossima, bellezze! <3

Ronnie02

 
 

 
 
 

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Capitolo 8
*** Into the Infinity ***


Hola Peopleeee!
Come va con la neve? Qui sta attaccando, il che vuol dire che se tutto va come previsto (Santo Tomo ce la mandi buona) domani.... NO SCUOLAAA!!! Balliamo tutti insieme ahaha.
Ok, Ronnie basta o li spaventerai.
Sì, ecco, prima di abbandonarvi alla lettura volevo dirvi una cosa: non spaventatevi da qui fino alla fine della storia se ci sono grandi salti temporali. Io scrivo così, anche perchè sti poveretti non possono avere un problema ogni santo giorno. Quindi keep calm!
Detto questo, Buona Lettura!


Chapter 8. Into the Infinity
 



Era finita l’estate. Era finito settembre. La fine di ottobre era alle porte. L’autunno si faceva strada nei giorni travolgendo l’intero Sud con una leggera brezza fredda che al mattino e alla sera ti faceva gelare del tutto.
La scuola era ricominciata e Brad, Lucy e Vicky avevano ripreso la loro noiosa e monotona vita da studente che non mi mancava affatto. Però nessuno aveva mollato il proprio posto di lavoro e questo significava vederli ogni giorno come sempre. A questo proposito, Jared e Shannon, scoperti i particolari del mio “incidente di percorso” con Brad mesi prima, si erano intestarditi a venirmi a prendere tutte le sere. Avevamo litigato parecchio, ma alla fine avevano vinto, convincendomi del fatto che alle undici, in questi mesi freddi, era meglio tornare in macchina.
Vicky però non aveva avuto ancora l’occasione di parlarci, anche se li aveva visti più volte dentro l’auto quando uscivo dal lavoro. Era, per un certo verso, un bene. Noi tre pazzi già bastavamo e avanzavamo, non volevo far perdere la testa anche a quella povera buona ragazza.
E a proposito di ragazze che erano impazzite al mio fianco, Andy se la cavava alla grande a Francoforte. L’esame di Storia della Musica, a settembre, era andato alla grande ed era uscita con un ottimo voto. Ora avrebbe dovuto prepararsi per esibirsi, ai primi di novembre, allo spettacolo organizzato dal corso di teatro su La Bella e la Bestia. Sarebbe andata alla grande, ne ero certa.
Jared aveva già prenotato i biglietti della prima nel cinema di Bossier City per il suo film e saremmo andati a vederlo anche con Solon (Kevin ci aveva scaricati per un altro impegno, facendo storcere il naso un po’ a tutti quanti). Era un po’ teso in realtà, ma non vedeva l’ora di farci vedere il suo grande capolavoro, o così diceva. Tanto ormai mancava davvero pochissimo.
Per quanto riguardava la band cercavano di provare tutti i giorni e qualcuno gli aveva ingaggiati per una festa a fine mese, per Halloween. E anche se non avrebbero suonato per tutta la sera, visto che c’erano altre due band, si sarebbero divertiti a ballare, così avevano invitato anche me.
Il mio lavoro invece andava benone: in cucina mi divertivo parecchio e non c’era giorno in cui non ringraziavo Sean per avermi promossa. L’unica nota negativa era che non parlavo mai con nessuno per tutta la durata della serata, ma non era un dettaglio importante. Tanto poi parlavo con Vicky all’uscita o prima di lavorare.
Ed eccomi qui, così, al venticinque di ottobre, ancora viva nella strana e americana vita a Bossier City.
“Ehi, Terra chiama Veronica!”, mi chiamò Vicky muovendo la mano davanti ai miei occhi per svegliarmi. Ero uscita con lei per… ah giusto, per poi andare a lavorare.
“Si scusa, ci sono”, scossi la testa. Stavo fissando, dalla panchina dove eravamo sedute, il fiume che scorreva veloce, accompagnato dal vento freddo. Di fianco a noi c’era un sempreverde enorme, che scuoteva le foglie e le muoveva elegantemente. Sembrava una ballerina che danzava su una melodia di pianoforte e si librava leggiadra.
“Non mi sembra”, scherzò ancora una volta Vicky, visto che mi persi di nuovo.
“Scusa sul serio, ma oggi ho la mente altrove”, ridacchiai voltandomi e vedendo che si era raggomitolata su se stessa per trovare un po’ di caldo. “Ehi, ma stai gelando”.
“No, sto bene”, disse addosso alla sua sciarpa. Una nuvoletta di caldo vapore uscì dalla sua bocca.
“Sì, come no”, la presi in giro alzandomi e prendendole la mano. “O vieni al caldo o vieni al caldo, decidi”.
Lei rise, tirò la mia mano per mettersi in piedi e cominciammo a camminare in direzione del locale. Mancava ancora mezz’ora al nostro turno, ma almeno ci saremmo scaldate un po’.
“E così venerdì sera le rockstar ti portano al cinema”, commentò voltandosi verso di me.
“Così pare”, ridacchiai. “Ce l’avrai con me ancora per molto riguardo a questo?”.
“No, solo non capisco questa tua ossessione a non farmeli conoscere, ecco. Potremmo uscire tutti insieme o che so io”, mi ripeté per la millesima volta. Ormai non smetteva un giorno di chiedermelo.
“Non è un’ossessione, e che non c’è stata ancora la giusta occasione”, mentii spudoratamente mentre lei mi guardava storto. “E poi sono troppo grandi per te”.
“Oh, come se tu invece fossi molto più vecchia di me! Ma fammi il piacere”, rise di gusto prendendomi in giro. In effetti era una scusa stupida.
“Vicky, li conoscerai quando sarà il momento adatto”, decretai alla fine.
“Sì, ma tu esci con i più fichi di Bossier City e io resto a casa da sola”, si lamentò ancora.
“Meglio, studierai di più”, la presi in giro e accelerando il passo, vedendo che le nuvole cominciavano a farsi pesanti. “Vedrò che posso fare, ma ora andiamo o ci prendiamo una bella lavata, te lo dico io”.
“Oh, tanto i tuoi paladini ti verrebbero subito a prendere per non farti venire il raffreddore, vero?”, mi voltò le spalle, fintamente offesa.
“Adesso vedi!”, la minacciai prendendole da dietro il cappello che aveva addosso e lasciandole la testa scoperta e al gelo, visto che aveva i capelli piuttosto corti.
“No, ti prego… no, Veronica!”, mi gridò rincorrendomi con i capelli tutti scompigliati. Mancavano pochi metri e saremmo arrivate.
“Se mi prendi prima dell’arrivo domani ti farò conoscere Shannon e Jared”, dissi, facendo sì che lei si velocizzò tantissimo.
Peccato che prima che avesse l’occasione di acciuffarmi, aprii la porta del locale di Sean di fretta e mi catapultai dentro, tenendo in alto il suo cappello in segno di vittoria.
“No, non vale, cavolo!”, si lamentò Vicky entrando e sbattendo i piedi.
“I’m sorry, baby. Non si può avere tutto dalla vita”, la presi in giro ridandole in cappello.
Sean ci guardò male, così mi sistemai e feci la persona seria nell’unico momento in cui potevo. Di certo con i Leto la serietà non era ben vista…
“Veronica, ci vediamo dopo, vado ai tavoli”, mi salutò Vicky sorridendomi. Con lei il soprannome Ronnie non era mai usato. In realtà non ne conosceva nemmeno l’esistenza.
“Ok, ci vediamo all’uscita!”, le sorrisi andando in cucina. Ma mi sorpresi: seduto di fianco alla mia postazione c’era un ragazzo tra i sedici e i diciassette anni che si guardava in giro, con aria curiosa. E questo chi era?
“Veronica, ti presento Colin. È un apprendista, starà qui fino alla fine del mese, poi andrà in un altro ristorante”, me lo presentò Sean quando mi avvicinai lenta verso il mio posto.
Sorrisi, togliendomi il cappello e liberando i riccioli sciolti che mi riscaldavano il collo. Addio momenti di caldo estivo e code alte!
“Piacere, Veronica”, mi presentai.
“Colin”, rispose sobrio il ragazzo.
Con lui che mi guardava mi sistemai e cominciai a guardare gli ordini che presto sarebbero arrivati. Per ora non era ancora in mio turno, perciò avevo qualche minuto di libertà.
“Quanti anni hai Colin?”, chiesi cercando di essere più gentile possibile.
“Ventuno”, mi rispose fiero. Un risolino mi scappò dalla bocca, involontariamente, e lui mi guardò male. “Sul serio”.
Cosa? Come poteva avere ventun’anni? Era fisicamente impossibile che un tappetto del genere fosse più grande di me!
“Sì, certo…”, tossicchiai sperando di alzare di poco la mia reputazione. Che figura di…
“Come mai qui?”, continuai evitando di cadere in un silenzio, stavolta abbastanza tragico e imbarazzante.
“Imparo come si fa il cuoco?”, chiese quasi prendendomi in giro, come se fosse una cosa ovvia. Infatti lo era, Veronica, svegliati!
“Tavolo sei, ecco gli ordini”, arrivò Lucy con la sua aria da strafottente con un foglio in mano. Con lei i rapporti non erano migliorati, ma almeno riuscivo a conviverci senza ritrovarmi del gelato addosso. Io la rispettavo, cercando di ringraziarla per quello che aveva fatto quella sera, e lei aveva capito che i ragazzi non erano il mio unico scopo nella vita e quindi aveva via libera.
Sorridendole presi il foglio e lei si dileguò. Bene, non era così difficile e perciò mi misi al lavoro. Ma ragazzi, gli occhi di quel ragazzo mi davano un fastidio tremendo.
Erano come due pezzi di legno che mi seguivano ovunque, attorniati da pelle scura e capelli neri. Che seccatura!
“Ti disturbo?”, chiese dopo il mio ennesimo sbuffo, che mascheravo come colpa del lavoro. No, figurati, continua pure a squadrarmi come se mi dovessi comprare, non c’è problema! Sei qui per imparare, non per rimorchiare, bello mio.
“No, ma è meglio se rimani seduto. E guarda che se guardi gli altri non ti mangiano mica”, dissi cercando di non sembrare troppo rude.
Lui alzò le sopracciglia e si mise seduto, come prima, e rimase lì fermo. Il problema era che non smise un secondo di fissarmi.
Ma che diavolo…!
Grazie a Dio arrivarono le undici più in fretta di quanto chiedessi e appena Sean ci avvisò della chiusura, finii l’ultimo pasto e poi andai a cambiarmi.
“Vai a casa a piedi?”, mi si piantò davanti quella lagna umana di Colin facendomi mandare in bestia.
“No, mi vengono a prendere degli amici”, sbuffai fregandomene di cosa pensasse. Mi aveva davvero stufato.
“E poi uscite insieme?”, chiese ancora. Sicuro di avere ventun’anni? Aveva la maturità di un adolescente fatto e finito!
“Senti, ma che vuoi?”, andai al sodo mettendomi il cappello e prendendo la borsa, pronta a scappare da Shannon e Jared.
“Esci con me e non ti infastidirò mai più”, propose.
“Cinque giorni di sguardi interrotti sono sopportabili, non credere che sia una facile, hai preso la persona sbagliata”, risposi senza alcuna paura levandolo di torno e avvicinandomi a Vicky, che mi guardava curiosa e preoccupata allo stesso tempo.
“Lo vedremo, rossa”, mi disse lui avvicinandosi al mio orecchio più di quanto gli era permesso.
“Non scherzare con McLogan, Colin”, dissi ripensando agli scherzi con Jared, che avevo e continuavo a vincere. “Ci hanno già provato e molta gente si è fatta male”.
“Sei un mostro della notte? Un vampiro? Mi berrai il sangue?”, chiese ridendo.
“Non scherzare su queste cose”, gli risposi gutturale. “I capelli rossi non sono sempre simbolo di positività”.
Poi, lasciandolo lì a guardarsi in giro, me ne andai da Vicky, che mi chiese chi fosse.
“Un apprendista idiota che vuole uscire con me”, la feci breve, evitando di approfondire la questione. “Che deficiente”.
“Tanto ormai gli unici esseri umani maschili che possono chiedere una parte del tuo tempo sono i Leto, non è così?”, disse scherzando ancora. Ma che palle!
“Ma perché dovrei picchiarti?”, le chiesi uscendo dal locale e notando la macchina di Jared sul viale, già posteggiata e con le luci accese.
“Ma perché dovrei mentire?”, ripeté guardandomi con un sorriso malefico. In fondo non potevo darle torto, anche se quello che intendevo io non era certo quello che credeva lei.
“Ci vediamo, eh”, la salutai per l’ultima volta dirigendomi verso la macchina.
Jared abbassò il finestrino e si fece vedere, con gli occhi chiari e la pelle diafana come la mia. Era vestito per uscire, quindi addio serata a casa a rilassarmi.
“Tuo fratello è morto?”, chiesi scherzando vedendo che eravamo noi due da soli. Lui sorrise e partì, superando in pochi secondi la figura di Vicky, che ci stava guardando curiosa.
“No, è già alla festa”, commentò vago e senza guardarmi. “E la tua amica ha una voglia sfrenata di seguirci, a quanto sembra”.
“Cosa?”, chiesi sorpresa.
“Niente, sta guardando verso di noi da quando sono partito”, rispose ridendo e svoltando. “Bene, ora nessuno ci vede”.
Ridacchiai, immaginando una Vicky gelosa perché avrebbe voluto venire con me al posto che tornare a casa con Lucy. A volte sapevo che se la situazione fosse inversa mi avrebbe dato talmente fastidio da arrabbiarmi sul serio, ma per ora non volevo farle conoscere i ragazzi.
Loro erano il mio passatempo, lei era il mio aiuto al lavoro e una buona amica. Erano due cose diverse, in momenti diversi, con situazioni diverse. Andavano giustamente separati… o almeno era quello che pensavo.
“Allora, come hai passato la serata, Ronnie?”, chiese per fare conversazione, quando mi sistemai comoda sul sedile e lo guardai. Il sorriso gli comparì sul viso e si spettinò i capelli con una mano.
“Niente di che, solo un idiota che continuava a fissarmi”, raccontai senza pensare. “Dice che continuerà a infastidirmi fino a che non gli permetterò di uscire con me o fino alla fine del mese, quando se ne andrà via”.
Lui smise di sorridere e mise entrambe le mani forzate sul volante, come se fosse nervoso. Che cosa…?
“Cinque giorni non sono poi tanti, no?”, mi chiese senza voltarsi e accelerando la corsa. Ma che gli prendeva? “Tanto hai detto che è solo un idiota, giusto?”.
“Infatti, è esattamente ciò che gli ho detto”, dissi fissandolo. Lui finse di concentrarsi sulla strada – lo conoscevo abbastanza bene da sapere che la guida non era un gran problema per lui e non doveva nemmeno starci così attento – e non mi rispose.
“Come mai andiamo ad una festa?”, chiesi cercando di rifarlo sorridere. Non mi piaceva vederlo nervoso.
“Sii paziente, Ronnie”, commentò girandosi e allentando la presa sul volante, tranquillizzandomi un po’. Ma ancora non spuntava nessun sorriso. “La sorpresa è l’essenza della vita, in fondo, no?”.
Io risi, scuotendo la testa e rimettendomi composta. Poi notai che Jared accostò l’auto di fianco ad una casa tutta illuminata e alla fine si fermò. Anche se ero in auto potevo già sentire lievemente la musica che proveniva dall’edificio.
“Arrivati”, disse sorridendo – alleluia! – e uscendo dalla macchina. Feci per scendere da me, ma lui mi anticipò e mi aprì la portiera. Evitai di farmi aiutare ad alzarmi, non avevo due anni e non eravamo nel milleottocento. Le maniere galanti non erano la mia passione.
“Andiamo?”, chiesi quando chiuse la macchina. Mi guardai i vestiti, schifata. Non era decisamente un abbigliamento da festa! Non potevano avvisarmi?!
“Vai benissimo, tranquilla”, mi sussurrò all’orecchio senza che mi accorsi della sua vicinanza e mi spinse verso la porta. Ma oggi erano tutti fissati con le mie orecchie?
Lui, senza suonare nessun campanello o avvisare qualcuno, entrò indisturbato e mi accompagnò dentro. La musica si impossessò delle mie orecchie e notai Shannon vicino alle casse, che ballava con una biondina abbastanza svestita. Sì, ero decisamente inadatta per una festa… e che diavolo faceva Shannon?!
“Ehilà, Ronnie!”, mi salutò Solon abbracciandomi. Da dove era sbucato? Le luci erano quasi accecanti… “Oh, ma guarda chi c’è! Ragazzi, è arrivato il festeggiato!”.
Senza che io ci capissi qualcosa Solon prese Jared con la forza e lo spintonò divertito al centro della pista. Festeggiato? Non sapevo fosse il suo compleanno…
“A Jared! Che la carriera di attori cominci bene…”, cominciò Shannon facendo di fretta un brindisi e salutandomi con un sorriso per non fermarsi. Ah, stavano festeggiando il film! “…e finisca presto per la gioia di tutti noi!”.
Ridemmo tutti e Jared andò a far finta di picchiare suo fratello, per poi abbracciarlo con un sorriso.
“A Jared! Che qualunque cosa faccia continui a credere nei suoi sogni e che continui a realizzarli!”, brindò ancora Solon.
“A Jared, che ci aiuti a portare la band in alto”, concluse Kevin. Jared allora li spinse tutti vicini e li abbracciò tutti, con fare fraterno. A volte erano davvero troppo teneri.
“A tutti noi che dovremo sorbirci per i prossimi giorni visite al cinema solo per farlo contento”, aggiunsi io alla fine, facendo voltare i musicisti e annuire gli invitati con allegria. Jared sorrise, ma in modo diverso da come lo aveva fatto con i ragazzi. Era quasi ammirato… “Ma sperando che la smetta presto di fare l’ altezzoso come Miss Universo!”.
Gli invitati risero ancora di più e Shannon prese l’occasione di portare una torta con scritto “Jared For A Dream”. Era favolosa ma, con mia grande disapprovazione, gliela tirò in faccia quando si girò ad abbracciarlo. Cavolo sembrava buona!
“Ehi, marziana!”, mi chiamò Solon, così mi avvicinai a lui. “Bel discorso, hai centrato il punto”.
Risi e continuai a guardare i ragazzi scherzare, fino a quando tutti tornarono a ballare, Solon andò al pianobar, Shannon alla musica, Kevin sui divanetti e Jared a ciarlare con qualcuna.
“Vieni con me”, sentii la sua voce quando una mano mi prese il braccio e mi spinse verso un angolo della stanza.
“Ehi, che fai?”, chiesi ridendo. Mi aveva presa alla sprovvista.
“Ho finito la canzone”, disse voltandosi verso di me con un foglio in mano. Le parole be a hero, kill your ego, mi fecero capire di cosa stesse parlando.
La lessi tutta e, cavolo, era stupenda! “E’ meravigliosa… l’hai scritta tutta tu?”.
“L’abbiamo scritta noi”, disse sottolineando con un dito la parte che avevo cantato in spiaggia. L’aveva inserita, alla fine. “Come ti sembra?”.
“Te l’ho già detto, è fantastica”, dissi rileggendola ancora. Poi mi guardai intorno. Ero stretta contro al muro, con Jared davanti a me e non riuscivo a vedere nessun altro.
Fissai allora l’unica persona che potevo guardare e i suoi occhi oceano mi colpirono peggio del solito. Era come nuotare dentro l’infinito…
“Perché tutto questo segreto?”, chiesi per distogliere l’attenzione su quegli occhi.
“Bo, mi piace fare sorprese”, si giustificò. E che cavolo di scusa era quella?
“E quindi hai fatto a me la sorpresa di non dirmi di una festa a tuo onore perché ti piace fare stare sulle spine la gente?!”, chiesi alla fine arcuando il sopracciglio. “Ti facevo un po’ più intelligente”.
“Sempre la solita simpaticona”, commentò lui ridendo mentre un ciuffo gli coprì gli occhi. No, era un peccato… Veronica, ma che cavolo stai pensando! È Jared, solo Jared… appunto, è Jared.
E se tutti avessero ragione e io avevo gli occhi coperti di prosciutti? E se Vicky, Andy, i ragazzi, Constance avessero ragione? In fondo appena potevano ci lasciavano da soli e quelle due streghe di amiche che mi ritrovavo continuavano a dirmi che c’era una certa possibilità.
“Che hai?”, mi chiese riportandomi alla realtà. Forse, in questa situazione, era meglio che rimanessi all’oscuro sul vero effetto che Jared Leto poteva avere su di me.
Primo sintomo: chiedere cose stupide.
“Perché non vai dai tuoi amici?”, domandai in risposta con la mente vuota. In fondo era la sua festa, no? Era una domanda lecita.
“Non mi vuoi?”.
Secondo sintomo: pura idiozia con balbettio.
“No… voglio dire, sarebbe meglio che andassi… è la tua festa, ma… ecco, io intendo dire che…”, cominciai a parlare. Ma che cavolo mi stava succedendo? Veronica, dove hai la testa?!
“Ehi, frena non ti capisco”, ridacchiò lui, facendomi sentire calda sulle guance. No, Veronica non ci devi nemmeno provare ad arrossire! No! “Ti va se usciamo a fare un giro? Qui c’è troppo casino”.
Dì di no, dì di no!
Terzo sintomo: fare cose stupide.
“Ok”, sussurrai sorridendo e facendolo spostare. Nessuno, per quando potevo notare, non aveva visto o notato nulla, impegnati com’erano nelle loro faccende.
Jared mi prese la mano e mi portò dalla parte opposta a dove eravamo entrati e aprì una porta che portava alla taverna, per quello che ne sapevo.
“E’ una piramide?”, chiesi quando ci trovammo di fronte ad un'altra porta. Lui rise e l’aprì. No, c’era il garage; uguale uscita secondaria. “E tu come facevi a saperlo?”.
“E’ una vecchia casa di famiglia”, spiegò cominciando a camminare e guardandomi. “Mamma la vorrebbe vendere, ma da adolescente Shannon ci portava i ragazzini per farli spaventare ed è passata alla storia come la casa degli spettri di Bossier City. Figurati che non poco tempo fa abbiamo visto un ragazzo sui quindici anni scappare via! Dopo una vita da quando noi abbiamo finito il liceo”.
“Shannon si sarà fatto quattro risate”, commentai io immaginandomi questo povero Cristo che moriva di paura a causa delle finte leggende di quel matto.
“Oh, ci puoi giurare”, ridacchiò lui. Ormai eravamo praticamente ritornati davanti all’ingresso, sul prato davanti alla casa.
Io mi spostai, per appoggiarmi sul ramo basso dell’alto albero che di giorno avrebbe dovuto fare ombra. Ora però, quando Jared mi seguì, persi del tutto la vista. Era davvero scuro ed era una notte di luna calante, se non del tutto nuova.  
“Auguri”, dissi io, quando sentii il suo respiro anche troppo vicino.
“Che cosa?”, chiese come se avesse la mente altrove. Che aveva intenzione di fare?
“E’ una festa, no?”, mi spiegai con un sorriso. “Quindi auguri”.
“Auguri che mi fanno sperare che ti piacerà quel film”, continuò lui stesso.
“Continui a ripeterlo. Cos’ha che non va?”, chiesi ancora.
“E’ un po’ forte, magari non è il tuo genere”.
“Gli unici generi che non mi dovrai mai far vedere sono gli horror con decisamente troppo sangue e i film da ragazzine”, lo informai facendolo ridere. Mi piaceva il suono della sua risata. “Per il resto hai via libera”.
“Buono a sapersi”, commentò lui. Lo sentivo vicino, ancora più vicino di prima. Infatti quando mossi in avanti la mano sentii la stoffa della sua camicia.
“Dovremmo tornare”, dissi cercando di rompere quell’avvicinamento. Mi mandava il pappa il cervello, ora che mi capivo, sentirlo così vicino.
“Ti porto a casa, tranquilla”, disse prendendo la mia mano per la seconda volta e portandomi fuori dalle tenebre. Di certo non era chiaro, ma almeno riconoscevo le forme e riuscivo a vedere i suoi contorni.
“E la tua festa?”.
“Il mio film era solo un pretesto, volevano tutti ubriacarsi o rimorchiare qualcuna”, mi spiegò aprendo la portiera. Ancora?! “Anche se non fossi andato avrebbero festeggiato comunque”.
“Oh, povero piccolo Jared!”, scherzai spettinandogli i capelli. “A quanto pare nessuno ti vuole bene”.
“No, sono sicuro che qualcuna c’è”, finì sorridendo dolce. Qualcuna?


...
Note dell'Autrice:
mmm, Jay sta rivelando troppo! Ahhahah comunque ogni volta che rileggo questo capitolo mi convinco sempre di più che ho fatto un buon lavoro. è uscito così, semplicemente, ma è proprio quello che volevo. Voi che ne pensate? Era quello che vi aspettavate o ora mi ucciderete per "oddio ma li vuoi far mettere insieme o no?!". Tranquille, abbiate pazienza ahahaa
Poi volevo dirvi altre due cosette se non mi abbandonate subito visto che ora avete letto.
1) Questa è la prima volta che metto che titolo di un capitolo un verso di una canzone dei Mars. Bene, non è messo a caso. D'ora in poi ce ne saranno molti così e tra loro c'è un carino nesso logico. Voglio vedere quanto ci mettete a capirlo ahhaha (ora non buttatevi, dovrete aspettare un pò per capirlo ahahah SOON!)
2) Se volete leggere qualche cosa di mio sui Mars, anche se meno serio di questa storia, mi piacerebbe sentire cosa ne pensate di questa OS. E' un pò strana, ma mi sono divertita a scriverla <3

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=938953&i=1 NULLA E' REALE. TUTTO E' LECITO


Bene, ora posso anche andarmene, bacioni e MarsHug a tutte! Ronnie02

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Capitolo 9
*** Darkness falls... ***


Hei Echelon! E' passata una settimana e mezza ma sono tornata, baby! Vi sono mancata? No? Bè io sono tornata lo stesso ahahahh *in realtà si sta deprimendo ahah*
Ora, lasciatemi perdere perchè ho l'influenza e la testa che scoppia quindi potrei dire tante di quelle cretinate che nemmeno i Leto mi batterebbero *sto messa male seriamente allora!*
Intanto ecco il capitolo 9. Buona Lettura, famiglia



Chapter 9. Darkness falls...




“Perché non lo vuoi ammettere?”, mi chiese Andy stanca della solito storia. Come se non lo avessi fatto! L’avevo chiamata apposta per quello!
“Andy, ma mi stai ascoltando?”, chiesi seria ticchettando le dita sul tavolo della mia cucina.
“Sì, e l’unica cosa che mi hai detto è stata: ho capito che forse non è solo un amico”, mi ripeté convinta e senza sbagliare. “E questo non è ammettere, è raggirare il problema. Da quello che mi hai detto abbia fatto ieri sera si capisce benissimo che per lui non sei solo un amica: insomma, si è imbambolato per il tuo intervento, ti ha portato lontano dagli altri per parlarti della canzone, ti ha offerto una passeggiata sotto le stelle e, cosa assolutamente più importante, eravate a due millimetri di distanza contro un albero. No, Vero, questa non è amicizia, per nessuno dei due”.
“Non so cosa fare, Andy!”, supplicai frignando. Oh, andiamo bene, ora cominciavo pure a piangere per i ragazzi. Che mi aveva fatto l’America?!
“Non puoi semplicemente dirglielo?”,chiese come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“No!”.
“Perché no?”, chiese urlando, stremata dalla mia testardaggine.
“Perché forse ho ancora paura che le parole di Solon non siano così false!”, confessai alla fine ricordandole cosa le avevo riferito riguardo alla mia conversazione con il chitarrista, alla gita al lago.
“Uno che vorrebbe solo farsi una ragazza non continuerebbe a starle dietro per così tanto tempo. Li conosci da quasi due mesi ormai!”, mi fece capire. “E sono certa che Jared non sia così. O almeno non vuole esserlo con te”.
“Mi manchi sai?”, me ne uscì senza ragione. Però era maledettamente vero.
“Lo so, anche qui si sente la mancanza delle tue risate”, ridacchiò facendomi sorridere. “Ma vedrai che alla fine il 18 dicembre arriverà in fretta e potremmo riabbracciarci”.
“A proposito, tu che combini laggiù?”, chiesi visto che a quanto pareva l’unica che aveva dei problemi ero sempre io.
“Studio. Tranquilla se accadesse qualsiasi cosa saresti la prima a saperlo, fossero anche le tre di notte da te”.
“Terrò il telefono acceso allora”, commentai sentendola ridere dall’altra parte della cornetta e del mondo.
“Ora vado, c’è una riunione riguardo allo spettacolo, per decidere i giorni in cui presentarlo e tutte quelle cose”, si scusò. “Vedi di tenermi aggiornata per ogni cosa, intesi?”.
“Sarai la prima a saperlo, fossero anche le tre di notte da te”, scherzai ripetendo le sue parole. “Ciao Andy, vedi di recitare bene!”.
Poi chiusi la conversazione, misi il telefono in tasca e decisi di sistemare un po’ in giro, visto che non era certo il posto più ordinato del mondo.
Finito il tutto controllai l’ora. Circa mezzogiorno, quindi ci avevo messo un’oretta.
Cominciai a preparare il pranzo e mi sentii quasi felice. A volte era una soddisfazione poter usare la mia cucina, viste le volte in cui Constance mi aveva imposto di andare da lei. Più che altro mi usava come esca, poiché da quando ero arrivata i suoi figli venivano a trovarla più spesso.
Ci impiegai una mezz’oretta e poi mi misi a mangiare. Intanto pensai a cosa fare il pomeriggio. Uscire con i ragazzi? Era meglio avvisarli ora, magari con finto raffreddore che magicamente sarebbe sparito il giorno dopo per il cinema. Mi dispiaceva, ma per ora non volevo ritrovarmi sola con Jared senza sapere che diavolo fare.
Chiamare Vicky? Oggi sarebbe rimasta a scuola fino a un’ ora prima del turno perché doveva finire una ricerca e i suoi la voleva in casa per almeno quel poco tempo.
Andare a fare un giro? Era fuori discussione, visto il freddo che il mattino si era portato dietro e non avevo nessunissima intenzione di ammalarmi davvero.
Che rimaneva? Restare in casa?
Annuii controvoglia e mi alzai, pronta a cominciare a sistemare le cose che avevo usato e passare un noioso pomeriggio da sola. Quando finii, salii al piano di sopra, entrai in camera mia e mi buttai subito sul letto.
Per prima cosa chiamai i ragazzi, per evitare che venissero qui e scoprissero l’inganno. Feci il numero e aspettai.
“Ronnie! Pronta per farti un giro e venire alle prove?”, mi rispose Shannon facendomi ridere e sospirare allo stesso tempo. Almeno non era suo fratello.
“Mi dispiace, Shan”, tossicchiai chiamandolo con il nomignolo con cui lo chiamavano tutti, datogli da Constance. “Non sto molto bene ed è meglio che resti a casa se voglio venire con voi domani”.
“Oh… vuoi che veniamo noi da te?”, chiese dopo un po’. Perché avevo la sensazione che avesse il vivavoce e che quel disgraziato di Jared stesse sentendo tutto dando idee stupide?
“Sì, certo, e portate qui la batteria? Non dire stupidate”, li presi in giro tossendo ancora. Non eccessivamente però o avrebbero scoperto tutto. E per fortuna che sapevo essere credibile.
“Se vuoi passiamo dopo, così ti accompagniamo anche al lavoro, guarda che non disturbi, lo sai”, continuò ancora. Merda, il lavoro…
“No, guarda, chiederò a Sean di sostituirmi per stasera, tranquillo”, mentii sperando che non mi beccassero nelle ore successive ad uscire a lavorare. Un senso di colpa mi colpì, ma lo respinsi sapendo che era meglio così.
“Come vuoi. Sei sicura allora? Se vuoi chiedo a mamma di venire da te”, propose ancora. Oh, ma che palle!
“No, Shannon è tutto okay”, chiusi il discorso sperando che non avvisassero comunque Constance. “Ci vediamo domani, non ti preoccupare. Sarò solo un po’ stanca”.
“Bene, allora dormi”, ridacchiò salutandomi. “Ci vediamo domani, Ronnie”.
Li salutai un’ultima volta con voce un po’ smorta e poi buttai il telefono sul comodino, cercando qualcosa da fare.
Frugai nello zaino che mi ero portata dietro dall’Italia e notai il libro di filosofia, la mia materia preferita ovviamente. Mi piaceva andare a rileggere le stupidate dei primi filosofi o cercare di capire le congetture di quelli più moderni. Era come un allenamento mentale.
E così cominciai. Sfoglia, leggi, sfoglia, leggi. Poi, verso la metà del libro, trovai un piccolo foglietto bianco. Così presi una penna e cominciai a scarabocchiarci sopra, tanto non avevo niente da fare.
Ma al posto che disegni, scrissi delle lettere, formando parole e frasi, quasi ritmate nella mia mente. Una canzone?
                            
I’m mixed up, I’m mixed
Someone can clean my mind with a piece of advice?
The problems are follwing me
And I try to run away, but I’m too slow
 
I’m mixed up, I’m mixed up
Can you free me from my fears?
Look in my eyes and make me smile
Do it and everything gonna be fine
 
La penna cadde dal letto e mi risvegliai di colpo. Mi ero addormentata? Che stavo facendo?
Guardai il libro e il foglio e cominciai a ricordare qualcosa. Forse mi ero assonnata dopo aver riletto mille volte le parole che avevo scritto, cercando di collegarle alla realtà che stavo vivendo. La musica diceva ciò che provavi, quindi era quello che io stavo provando?
No, non avevo voglia di scervellarmi di nuovo e guardai l’ora. Cazzo ero in ritardo! Mi cambiai di fretta, mettendomi cose a casaccio ma con una certa logica, per poi correre fuori di casa. Bene, di Constance nessuna traccia, a meno che non mi stesse spiando dietro le tende di casa, così cominciai a camminare piuttosto in fretta.
Andavo veloce, guardandomi da tutte le parti per controllare che i Leto non mi vedessero. Sembravo quasi una carcerata appena evasa di prigione, ma non ci tenevo proprio a farmi scoprire.
In pochi minuti arrivai sul viale che mi avrebbe portata al locale e in lontananza notai Vicky parlare con il guidatore di una macchina che non conoscevo. Era appoggiata alla portiera e si allungava verso il volante.
“Hey, Vicky!”, la salutai quando la macchina partì lasciandola davanti al locale da sola ed io fui abbastanza vicina.
“Veronica! Come stai?”, mi chiese sorridendomi ed entrando insieme.
“Bene, ma se vedi i Leto dimmelo”, la informai tenendola comunque all’oscuro della mia rivelazione su me stessa. Ma quanto mi sentivo ridicola?
“Non ho la minima idea per cui me lo dici e non lo voglio sapere”, scherzò mentre Sean diceva di muoverci. Il solito simpaticone… “Ma sarai la prima a venirlo a sapere se li vedo”.
“Grazie”.
Entrai in bagno per cambiarmi e poi andai in cucina, salutando Vicky per andava verso Brad, e quindi ai tavoli.
Invece io camminai verso la mia postazione, trovando con mia grande gioia quel disgraziato di Colin che mi aspettava con un sorriso cattivo.
“Sei sicura di non voler accettare?”, mi chiese venendomi vicino. Dio, quanto lo stavo già odiando!
“Mai stata più certa di qualcosa”, risposi fredda. “Nano finto ventunenne dei miei stivali”.
“Vedo che sei simpatica, oltre ad essere una gran figa”, commentò senza tenere a controllo il volume della voce. Sorrisi, prendendo il ragù bollente e lanciandone casualmente una goccia sulla sua faccia. “Ahi! Merda, che cos’era?!”.
“Sì, certo e questo vuole fare pure il cuoco”, dissi nel suo stesso modo andando avanti con il mio lavoro. In fondo non sarebbe stato tanto male se si sarebbe fatto prendere in giro così.
“Continua a scherzare e ti farai male”, mi minacciò senza farmi la minima paura.
“Per ora ti stai facendo male solo tu, nano”, lo presi in giro, dando a Sean la pasta che mi aveva chiesto e cominciando a fare altro. “E non inventarti età, quando sei alto come l’ottavo nano di Bruttaneve”.
“Fottiti!”, mi insultò. No, questo non doveva farlo e a quel punto la mia mano partì da sola, facendogli una guancia viola.
“Non. Provarci. Mai. Più”, lo minacciai sul serio, facendolo sedere e zittendolo una volta per sempre. Alleluia!
Per tutti il resto della serata restò lì, a fissarmi, ma senza dire una parola o facendo apprezzamenti che gli avrebbero provocato un bel male. Già la guancia non era messa bene, quindi evitò.
Quando Sean ci diede il via libera per tornare a casa, lo sorpassai e andai a cambiarmi. Guardai Vicky, che mi sorrise e fece “no” con la testa, rispondendo alla mia domanda mentale. Bene, avevo il via libera.
“Oggi vai a piedi?”, mi chiese quando uscimmo insieme e notò che nessuna macchina mi aspettava.
“Spero proprio di sì”, risi facendole alzare gli occhi al cielo.
“A volte sei proprio strana”, ridacchiò prima di salutarmi e andare per la sua strada, verso casa.
La imitai, andando per la mia e, per la prima volta da quando i Leto mi accompagnavano, tornai a casa tutta intera. In più nessuno doveva avermi vista.
Entrai in casa e buttai la borsa sul divano, ma presi il telefono, notando che mi era arrivato un messaggio. Forse era stata Andy, mentre mi ero addormentata.
Fai sogni d’oro, domani devi assistermi. Jay.
Tenni il telefono in mano per un quarto d’ora buono senza muovermi, senza pensare a niente. Che mi stava facendo quel ragazzo? Perché mi sentivo come se fossi alla prima cotta? Forse perché per la prima volta poteva essere una cosa seria…
Andai a dormire, tenendo il telefono vicino, sul comodino. Non serviva una risposta, era stato tenero e bastava questo.
Grazie Jay, disse la mia mente prima di cadere nell’oblio.
 
Era mattina. Lo capivo dal calore che mi scaldava il viso, dato che dormivo sempre con la faccia rivolta verso la finestra.
Era mattina. Quel giorno sarei dovuta uscire con i Leto o mi avrebbero di certo uccisa.
Era mattina. E non avevo la minima idea di come comportarmi.
Basta, mi ero stufata di nascondermi, mentire e sentirmi fragile! Gli avrei parlato come prima, gli sarei stata vicina come prima. Ormai la frittata era fatta, avevo capito che mi piaceva, ma questo non poteva rovinare la nostra amicizia. Non potevo evitarlo e continuare a non parlargli.
Mi alzai e mi infilai direttamente nella doccia, scaldandomi del tutto grazie alle bollenti gocce d’acqua che cadevano a pioggia dal disco. Era la sensazione più bella del mondo.
Finito il processo di rilassamento totale, uscì dal bagno e mi preparai per andare a fare un giro, tanto per passare il tempo. Sfortunatamente Vicky oggi aveva scuola…
Mi misi dei jeans stretti, una camicia a scacchi bianca e verde e una giacca pesante bianca. Poi misi il mio fantastico cappellino color menta e le All Star.
Poteva andare bene, pensai guardandomi allo specchio. Sì, poteva andare.
Scesi al piano terra, presi la borsa con dentro anche i soldi nel portafoglio e uscii di casa, notando Constance intenta a pulire il tavolino e le sedie sulla veranda. La salutai con la mano e lei ricambiò con un sorriso, poi cominciai a camminare.
Sapevo che in centro c’era un ottimo bar, così andai a fare colazione lì e passai il resto della mattinata nel parco vicino. Mi sedetti sulla panchina, misi le cuffie, incrociai le gambe e, sentendo la mia amata musica, chiusi gli occhi.
Il suono di un piano prese possesso della mia testa, per poi accompagnare una chitarra classica che suonava leggera.
Cambio canzone. Una  batteria comincia a battere a ritmo, facendo muovere i piedi a tempo, e una chitarra elettrica e un basso cominciano a seguire il suo suono. Alla fine una voce melodica chiuse il tutto in bellezza.
Cambio canzone. Un violino comincia a fare strada, facendo muovermi la testa come le onde del mare.
“Bu!”, mi spaventò un idiota, facendomi saltare da seduta e a farmi cadere le cuffie dalle orecchie. Mi voltai arrabbiata e cercai lo stupido che mi aveva fatto perdere dieci anni di vita.
“Brutto figlio di…”, cominciai. “Shannon!”.
“Mi dispiace, ma per ora non sono padre e… che cavolo come osi insultarmi!”, cominciò a farmi il solletico, facendomi ridere. Molte persone si voltarono, ma non ce ne preoccupammo. “Comunque, che ci fai qui?”.
“Volevo fare un giro”, mi giustificai spegnendo il lettore mp3 e mettendolo in tasca.
“Cioè fammi capire, venire con noi a fare le prove in casa no… ma fare un giro al freddo della mattina sì”, si chiese a solo accarezzandosi il mento alla Sherlock Holmes.
“Avevo bisogno di riposo… ho riposato tutto ieri”, dissi come se fosse logico. Lui scosse la testa e poi si sedette di fianco a me, continuano a fissare il mio berretto. “Non hai mai visto un cappello?”.
“Non stavo guardando il cappello, Ronnie”, ridacchiò lui, quasi per provocarmi. “Per una volta aveva ragione…”.
“Chi?”, chiesi non capendo la seconda frase. Chi aveva ragione? Su cosa?
“Lascia perdere, il mio cervello va senza chiudere la bocca”, concluse lui con un sorriso. "Che fai ora?”.
“Immagino che mi obblighiate a venire a pranzo da voi ora che mi avete beccata, non è così?”, indovinai sbuffando. “Comunque che ci facevi qui?”.
“Cavolo ci hai beccati, volevamo proprio invitarti!”, disse schioccando le dita. “E sono qui perché non sopportavo più la presenza asfissiante di mio fratello”.
Bene, allora eravamo in due!
“Facciamo così: ogni volta che non riusciamo più a sopportare Jared, ci troviamo qui, ok?”, proposi, dimenticando che lui non sapeva del perché io fossi lì.
“Ci sto”, annuì. “Anche se questo implica che tu sia qui per una ragione simile… o sbaglio?”.
“Ti dispiace se ti dico che non voglio rivelartelo?”.
“No, capisco… o almeno so che a volte è meglio non sapere niente o si combinano danni”, sorrise lui abbracciandomi le spalle con un braccio muscoloso. Lui e la sua maledetta batteria, un suo braccio valeva due dei miei!
 “Come vanno le prove?”, chiesi voltandomi verso di lui.
“Bene, e magari riusciamo pure a guadagnarci tutta la serata di Halloween… ricordi?”, mi disse con voce fiera.
Risi. Sì, ormai lo ripetevano ogni giorno. “Bè, qualcuno riesce sempre a trovare il modo per farmelo tornare in mente!”.
“Già”, ridacchiò. Poi si alzò e mi offrì la mano. “Forza, andiamo a casa nostra, se non te ne sei accorta è già l’una!”.
“E tu ovviamente muori di fame come al solito”, dissi tirandomi su con il suo aiuto. “Sempre la stessa storia, Leto, sempre la stessa storia”.
 
“O mio Dio, ma lei è l’attore protagonista!”, urlò come una ragazzina la commessa a cui avevamo chiesto i biglietti del cinema. O per l’amore del cielo! “O per favore, mi fareste un autografo? Anzi due… no tre… faccia quattro che devo darlo alle mie amiche o non mi crederanno mai!”.
“Senta, ci firmi lei quattro biglietti del cinema e faccia la finita”, sbuffò Solon mentre ticchettava nervoso le mani sul bancone bianco della biglietteria.
“Sì, scusate, ora li faccio subito… o mamma mia, ho incontrato un attore famoso… o mamma mia”, esclamò ancora.
“Sì, sì, Jared Leto”, finii io prendendo i biglietti e portando via gli altri. “Quando avete finito di flirtare ditemelo. Io vado a guardarmi un film”.
Shannon e Solon mi seguirono di fretta, ridendo e prendendo in giro Jared su come riuscisse a fare colpo sulle brutte e relativamente vecchie commesse di un cinema.
“No, dove andate… aspetti lei, stia calma… no, Ronnie!”, mi chiamò nervoso e io accelerai il passo. Risi, dalla voce sembrava che la ragazza fosse diventata una piovra e lo stesse divorando vivo. “Eddai ragazzi, aspettatemi! Ok, basta, lei la finisca di tenermi la manica, devo andare!”.
Shannon cominciò a correre e a ridere e noi lo seguimmo. Avevamo noi i biglietti e se fossimo entrati prima di Jared lui sarebbe rimasto fuori da solo, obbligato a rifare la fila con quella arpia.
“Ah ah! Beccati! Non siete così veloci”, disse il cantante raggiungendomi e sfilandomi i biglietti dalla mano. Poi si avvicinò a me, come aveva fatto alla festa. “Soprattutto tu, piccolo demonietto”.
 “Meglio demonietto vivo, che umano strangolato da una fan urlante”, lo presi in giro liberandomi e avvicinando al tipo che timbrava i biglietti.
Solon scosse la testa, mentre il grande Leto rise, come sempre. Alla fine riuscimmo ad entrare nella sala sani e salvi e già ci preparammo ai commenti come oddio è lui o c’è il protagonista! oppure ancora o per l’amor del cielo mi sono seduta vicino a Jared Leto!.
Così per evitare cose del genere creammo una barriera stile bodyguard attorno a lui e facendolo sedere in mezzo. Eravamo quindi Solon, io, Jared e Shannon.
“Tu osa aprire bocca e farti scoprire, che ti ficco la mano in gola e ti strappo le corde vocali”, lo minacciò Shannon muovendo le mani.
“E chi canta poi al mio posto?”, chiese sussurrando Jared, preoccupatissimo.
“Ronnie è più brava di te”, s’intromise Solon dandogli una pacca sul collo e facendolo frignare per finta. Dio, se erano bambini!
“Se non la finite mi sposto, chiaro?”, stabilì ammutolendo tutti. “Sta per iniziare e non voglio sentire più le vostre brutte vocine”.
“Sì, maestra”, risposero in coro come una classe delle elementari.
Risi, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, ma poi mi concentrai sulle grandi immagini che lo schermo stava proiettando.
Shannon si mise come al solito stravaccato sul sedile, cercando di essere più comodo possibile, infastidendo anche qualche persona di fianco a lui. Solon  appoggiò la testa e cercò di rilassarsi e guardare il film in pace.
Jared invece continuava a muoversi, senza fermarsi un attimo, cercando una posizione che lo tranquillizzasse. Non riusciva a stare calmo e le tenebre che erano scese su di noi non lo aiutavano. La luce del grande schermo mostrava un lato chiaro, abbastanza teso e preoccupato. Aveva gli occhi bianchi, a causa della strana luce, e sbarrati appena il suo nome apparve sullo schermo nei titoli di testa. Poi cominciò a sbattere le ciglia freneticamente o a muovere la testa come a levarsi un brutto ricordo dalla testa. Come feci io il giorno in cui mio padre scappò a Torino…
“Ehi, ehi Jay, calmati”, sussurrai mettendo la mia mano sulla sua e fermando il ticchettio che le sue unghie stavano provocando.
“Scusa”, rispose nervoso senza fermare nessun movimento frenetico.
“Ancora preoccupato per quello che vedrò?”, gli chiesi con un sorriso mentre le voci dei personaggi cominciavano a presentare la storia. “Non devi andare in panico, te l’ho già detto”.
“Per me è importante quello che pensi”, concluse fermando la testa, voltandosi e guardandomi. Un suo occhio finì nelle tenebre, mentre l’altro, bianco, continuò a fissarmi. Faceva quasi paura…
“Allora lascia che sia io a decidere se è un brutto film o invece no, okay?”, dissi calmandolo. “Non angosciarti per niente, sta calmo”.
Così annuì, si voltò verso lo schermo e cercò di stare fermo, anche se sapevo che continuava a sbirciare nella mia direzione per vedere le mie reazioni.
Faceva male perché il film era davvero bello, la sua interpretazione mi piacque un sacco e la storia era molto carina. Non era un genere che odiavo e già questo era una cosa buona.
L’intervallo del primo tempo lo passammo a mangiare popcorn e Shannon cominciò  a tirarli verso lo schermo, urlando che il personaggio di Jared faceva schifo. Molte ragazze lo insultarono sibilando, ma lui non ci fece caso e andò avanti fino a che spensero di nuovo lei luci. Jared non aveva commentato, aveva promesso di non parlare riguardo di sé sul film e nessuno lo aveva riconosciuto, ma a casa di certo avrebbero fatto una piccola lotta, ne ero certa.
Il secondo tempo mi piacque quanto il primo e alla fine ne uscii soddisfatta. Avevo speso bene i miei soldi, il mio tempo, e mi ero pure divertita.
Quando uscimmo dalla sala e ci avviammo verso il parcheggio vedevo Jared continuare a guardarmi, silenzioso. Sapevo che gli dovevo una risposta.
“Ottimo lavoro”.
“Cosa?”, chiese strabuzzando gli occhi. Risi.
“Ottimo lavoro, è stato davvero bello, grazie di avermi portata a vederlo”, continuai avvicinandomi a lui. Sorrise e, come aveva fatto suo fratello quella stessa mattina al parco, mi abbracciò le spalle con un braccio e mi strinse a sé. Solo che lui non era Shannon e se ci avesse riprovato gli sarei morta addosso.
“Ora che si fa?”, chiese Solon quando arrivammo alle macchine. Lui era venuto qui da solo.
“Ti va di fare un giro?”, mi chiese Jared, come l’altra sera alla festa che avevano fatto. Qual era il terzo sintomo? Fare cose stupide? Appunto.
“Sì, certo”, risposi. Avevo appena detto sì ad una passeggiata romantica che sarebbe finita dove sapevamo tutti…
“Bene, io vado a casa, devo togliermi dalla mente quel capellone di attore che mi sono visto per due ore… bleah!”, lo prese in giro Shannon facendo sbuffare Jared. “Scherzo fratello, lo sai che ti sostengo sempre e sei stato bravo! Solo che io ho modi diversi per esprimerlo”.
“Sì, certo come no”, lo liquidò Solon. “Vado pure io, ho voglia di riposarmi un po’. Ci si vede ragazzi”.
“Andiamo?”, mi domandò ancora Jared. Annuii e cominciammo a camminare verso l’uscita del parcheggio, verso la strada di casa. Non era così lontano. “Allora sono andato bene?”.
“Sì”, ridacchiai. Bel modo di cominciare un discorso, Leto, sul serio.
“Che c’è?”, chiese ridendo e togliendosi i capelli dalla faccia.
“Ti piace proprio vantarti, vero?”, chiesi fermandomi un attimo, quando fummo vicino ad un piccolo spazio verde sulla strada. “Sei impressionate…”.
“Non è vero, ero solo preoccupato”.
“Perché? Che ti sarebbe importato se non mi fosse piaciuto? È un film, non sei davvero tu, non è parte del tuo essere”, gli spiegai quando si avvicinò. “Jared Leto era il protagonista del film, ma il protagonista del film non è Jared Leto”.
“Che vuoi dire?”, mi chiese non capendo la mia frase. Ero così filosoficamente contraddittoria?
“Che stasera non ho visto Jared Leto rapportarsi con il sesso o con la droga. Quello non era il vero te, perciò cosa importa?”, mi chiarii meglio.
“Ma recitare fa parte di me”, concluse lui.
“Potrai avere milioni di personaggi, Jared, coprirti con decine di migliaia di maschere, dichiarare sentimenti che in realtà non provi per centinaia di volte… ma quello non sarai mai tu, Jared, e non voglio conoscere una maschera”.
“Allora cosa vuoi?”, mi chiese prendendomi le mani e stringendole di fianco alle mie gambe.
“Voglio stare con l’uomo bambino che ho conosciuto per mezzo di una donna che mi ha invitato a pranzo il primo giorno qui in America”, confessai. “Voglio conoscere ogni sfaccettatura di lui, non di qualche personaggio sul grande schermo. Voglio che si preoccupi per quello che penso sulle sue parole e non sui suoi film. E tu che cosa vuoi?”.
“Voglio sapere cosa cambierà d’ora in poi ed essere totalmente sicuro che non è un sogno o uno sbaglio”, mi disse abbassando la testa, per raggiungere la mia. Ormai il gioco è fatto, Veronica, ci sei e non puoi più tirarti indietro. Andy ha vinto la scommessa… “Voglio sapere cosa rende felice una rossa canterina, cosa la far star male così da evitare di ferirla, cosa la fa ridere e cosa le piacerebbe diventare”.
“Sei più filosofo di quanto tu creda”, commentai mentre si avvicinava.
“Ho imparato dalla migliore”, concluse togliendo la presa da una mia mano e poggiandola sulla mia schiena, per stringermi di più a sé. Sentivo il suo respiro vicino, molto più vicino di due sere prima.
Un suo labbro toccò il mio e a quel punto diedi di matto. Sfilai la mano dalla sua e la intrecciai svelta ai suoi capelli scuri per avvicinarlo mentre lui apriva le mie labbra.
Sì, Andy ci aveva visto giusto. Sì, Vicky aveva ragione. Sì, tutti avevano capito cosa stava succedendo dall’inizio. Mentre io no, povera ragazza cieca, non mi ero accorta di niente. No, non mi ero accorta degli sguardi che lui mi riservava, di quanto fosse protettivo. No, non mi ero accorta che aveva tolto la maschera del divo e si era mostrato per quello che era.
Jay.
 





....
Note Dell'Autrice:
ALLELUIA SIA LODATO IL SIGNORE!!!! CHE SUONINO LE CAMPANE A FESTA, CE L'HANNO FATTAA!!! ahahahah *non sono a posto, ricordate?*
Va bè, a parte questa cosa che mi pentirò subito di aver scritto, vi piace il capitolo? Sapevo che molte li volevano finalmente insieme e tranquilli quindi.... bè per ora sono insieme, poi sistemeremo anche i tranquilli... FORSE xD
Ah, ricordate il numero 9, è importante per la storia dei capitoli che vi ho detto l'altra volta (secondo me quando lo scoprire mi tirate qualcosa in testa perchè è una cazzata ma a me piace xD ahhah *sono misteriosa muhahah*)
Voi avete visto Requiem For A Dream? Io sì, è bellissimo anche se pesantino *-*

Sperando che io guarisca presto, vi mando un MarsHug senza contagio ahahahha
Ronnie02

 

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Capitolo 10
*** A Night to Remember ***


Ciaoooooooooo!! Sì, sono già qui, quindi ammiratemi e onoratemi *si sente molto DivaH* haha Oggi ho deciso che non avevo voglia di studiare quindi, dopo un bel chissene frega a come andrà domani la scuola, posto il capitolo. Felici?! Dai, tanto lo so che siete felici :)
Va bene, ora la presente Ronnie vi augura buona lettura, e la Ronnie della storia vedrà di non combinare guai. Forse, se ha voglia ahhahah
Buona lettura, sorelle



Chapter 10. A night to remember

 

 Il mattino seguente ero in camera mia, con mezze coperte addosso e mezze per terra, abbracciata al cuscino, pensando a quello che era successo. Non ci credevo, non era possibile.
Secondo la mia logica quel giorno era ancora la mattina del 27 ottobre, ma il calendario non era d’accordo.
Quindi era tutto vero.
Quindi ieri avevo davvero detto tutte quelle cose a Jared.
Quindi ieri ci eravamo davvero baciati su una specie di marciapiede, ovvero il posto meno romantico dell’intero universo conosciuto.
Quindi ieri mi aveva davvero accompagnata a casa sua per divertirci un po’ anche con quel pazzo di Shannon con la mano intrecciata alla mia e, quando poi mi aveva riportato a casa, mi aveva baciata ancora.
Quindi ieri davvero non avevo dormito niente ripensandoci.
“Sono davvero un’idiota”, sussurrai a me stessa.
Non era da me comportarmi da ragazzina innamorata persa come in tutti i film d’amore. Molte mi definivano cinica, io sapevo di conoscere il mondo e la realtà.
L’amore era fin troppo fittizio per i miei gusti, troppo poco tangibile per potersi fidare.
Ma ora era diverso. Lo sentivo, lo percepivo. E Jared ormai era qualcosa di molto più che un amico a cui volevo bene. Ci tenevo davvero.
Perciò se non era amicizia non poteva che essere amore.
“Andy mi riderebbe in faccia se sentisse a cosa sto pensando”, continuai a rimproverarmi, voltandomi e guardando dalla finestra il sole alto nel cielo, che cercava di scaldare oltre la brezza autunnale.
Ormai non facevo altro che alzarmi tardi, ma oggi almeno andavo a lavorare. Ieri Sean mi aveva permesso di saltare il turno, ma al sabato non potevo mancare. In più era l’ultima sera prima che chiudesse il locale per il ponte di ognissanti. E, con mia enorme gioia, i giorni che avevo previsto con quell’idiota di Colin, si erano ridotti a uno. Potevo evitarlo per l’ultima sera? Però mi sarebbe mancato… ora chi avrei preso in giro?
Bene, era decisamente ora di uscire e continuare con la mia vita. Non era poi cambiato tanto, no? No?
Mi alzai e andai a farmi una doccia, per rilassarmi ed evitare di pensare ancora alla stessa cosa. Finito quella mi asciugai per bene ogni singolo ricciolo rosso, evitando una simpaticissima bronchite, e poi mi infilai la tuta. Mi guardai le mani… ci voleva una seduta di smalto nero!
Ritornai svelta nella mia camera e presi l’enorme astuccio che conteneva le boccette colorate e mi sedetti sulla scrivania. Mi tolsi quello vecchio, che ormai aveva superato la settimana e mezza di vita, e cominciai a dipingere con il piccolo pennellino impregnato di color pece.
Pian piano tutte le unghie diventarono scure abbastanza e così tornai in bagno, accelerando la cosa con una bella ventilata fredda di phon. Tre minuti e mezzo in cui sentii la musica, e diventarono asciutte. E anche questa era fatta!
Alla fine riuscii a scendere a fare colazione all’alba della… dieci e diciassette. O mamma!
“Pronto?”, chiesi quando il mio telefono squillò e feci partire la telefonata.
“Ehi ragazza!”, mi parlò quella disgraziata di Vicky. Oddio… e ora che le raccontavo?! “Come è andata ieri con Mister Voce da Sballo?”.
Appunto.
“Ecco… è stato un bel film, sì davvero bello”, cominciai non sapendo che dirle. Mi avrebbe riso in faccia, ne ero sicura.
“Sì, dai passa alla parte interessate che tanto del film mi importa poco o niente, lo sai… ieri sera poi non hai nemmeno fatto il turno di lavoro”, commentò misteriosa.
No, no, “No, non lo pensare nemmeno, sono andata a casa loro solo per qualche oretta e passare un venerdì sera tranquillo con i ragazzi… tutti i ragazzi. Puoi chiedere a Shannon, ho un alibi a prova di bomba!”, mi difesi in primis, evitando che si facesse strane idee da strapazzo.
“Se lo conoscessi…”, si lamentò ancora una volta, ma senza accentuarlo troppo, visto che sapeva come la pensavo. “Ma comunque resta il fatto che non ti credo. Anche riguardo alla festa sono in dubbio… dai non puoi seriamente dirmi che non è successo niente ed è tutto come prima! È impossibile”.
Veronica, sei un’idiota. Perché cavolo le avevo raccontato tutto?! 
“Ok, in verità… ecco non posso negare che…”.
“Eccolo, ci siamo, brava, così mi piaci!”, mi incitò facendomi ridere. Non eravamo allo stadio, era una cosa seria, per la miseriaccia! “Ok, glielo hai detto?”.
“Sì”, sussurrai anche se sapevo che l’avrebbe sentito subito.
“Evvai! E lui?”.
“Non gliel’ho proprio detto… stavamo facendo un discorso sul film e da lì è partito tutto, ma… sì, me l’ha detto anche lui”, confessai.
“E brava la mia Veronica!”, esultò. Stava saltellando; non la potevo vedere ma ci avrei giurato l’anima che stava saltellando. “E dopo che vi siete, diciamo, dichiarati…”
“Sì, Vicky, mi ha baciata, non continuare con questa storia ridicola!”, l’accontentai sapendo che era l’unica cosa a cui tenesse davvero. “E’ successo, ora non farne un evento nazionale, ti prego”.
“Ah ah! Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!”, continuò a zampettare in giro. Ormai sentivo i suoi piedi svolazzare per la sua camera, o da dove mi chiamava. “Non posso credere che la mia amica Veronica sta con quel figo di Jared Leto”.
“Ma se non lo conosci nemmeno!”, protestai.
“Sì ma l’ho visto… e le voci girano…”, insinuò.
“Ok, la vuoi smettere?!”, supplicai. “Non è un avvenimento secolare, lo sapevi già”.
“Sì, ma finalmente ce l’hai fatta! Erano due mesi che continuavate con questa storia, era ora che vi mettavate insieme!”, continuò. Poi capii dal suo tono di voce che si era fermata dal trotterellare in giro. “Ora passiamo a cose serie: la sera di Halloween”.
“Suonano, lo sai benissimo”, rifiutai in partenza qualsiasi cosa avesse in mente.
“Non tutta la sera, lo sai benissimo”, ripeté fregandomi. Dovevo smetterla di raccontarle ogni cosa. “E in più non fa mai male provocare un po’, non ti sembra?”.
“Che hai in mente, piccolo demonio?”, chiesi anche leggermente curiosa.   
“Tu sappi che le ore precedenti alla notte delle streghe resterai barricata a casa mia. Quel faccino fin troppo pallido per una volta ti servirà a qualcosa!”.
“Sono obbligata, vero?”, chiesi per sicurezza avendo una mezza idea di fuggire.
“Oh sì tesoro”, rise malefica facendo passare il buon umore. Di sicuro si stava beffando di me preparando tutte le torture peggiori al mondo. Maledizione! “Sarà una lunga giornata, vedrai”.
“Che bello!”, risposi non molto felice. Aveva assolutamente ragione, mi stavo preparando per una morte lenta e dolorosa.
Avrei dovuto avere paura? Sì e anche tanta…
 
“Perché non ti posso venire a prendere?”, mi chiese Jared per la millesima volta la sera prima del 31 ottobre, quando gli dissi che non mi serviva il passaggio.
“Prima di tutto voi dovrete essere lì due ore prima”, cominciai mentre mi godevo la sensazione del suo abbraccio intorno ai fianchi. “E in più ci vengo con un’ amica. Ci prepariamo insieme e mi ha categoricamente escluso di farmi vedere”.
“E’ la ragazza del locale?”, mi chiese ricordandosi di Vicky la sera della festa. Spostò una mano dai miei fianchi e la portò in alto, sul mio viso, per spostare un riccio ribelle e per accarezzarmi una guancia. Poi la rimise al suo posto.
Era ancora così strano sentirlo così vicino…
“Sì, ha già preso un vestito, i trucchi e gli accessori… o così mi ha detto”, sorrisi fingendomi seriamente preoccupata. “Per la prima volta nella mia vita ho da aver paura della mattina del 31 ottobre, invece che della notte”.
“Ti divertirai”, commentò sorridendo. “Anche se non potrò vederti fino alle otto di sera”.
“La fai troppo tragica, Jay. Non stai andando al patibolo… bè, a meno che non canterai bene”, lo minacciai. “In quel caso sappi che aiuterò tuo fratello ha ridurti in mille pezzi, scambiando il tutto per uno scherzo ben riuscito di Halloween!”.
Lui fece sparire il suo sorriso dal viso. “Ma vedo che non ti sei ancora riappacificata con la simpatia, a quanto pare!”.
Io risi e mi slacciai dalla sua presa, sentendo delle voci da fuori il garage. Eravamo a casa dei piccoli Leto ed era la prova generale del concerto che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Erano nervosi, per questo Jared avrebbe preferito avermi vicina tutto il tempo. O così almeno mi aveva detto.
“Basta, ne ho già abbastanza di voi due insieme”, commentò Shannon quando Jared mi riacchiappò e mi diede un bacio sul collo, come fosse un vampiro affamato. “Proprio della nostra unica amica sana dovevi innamorarti?! Ora è diventata fuori di testa pure lei…”.
“Ehi!”, gridai io cercando di levarmi di dosso la sanguisuga.
“Ah, quindi ora state insieme?”, chiese dubbioso Kevin, che ormai si era perso mezza storia.
“Sveglia bassista!”, disse Shannon tirandogli sorridente una bacchetta in testa. Non gli fece male, ma Kevin si lagnò lo stesso. Che piaga…
“Bene, ora che tutti hanno appreso che Ronnie ha imboccato la via della pazzia e della sventura… possiamo suonare o cosa?”, chiese Solon, unico elemento intelligente in quella sottospecie di band.
Io annuii, dando un lieve bacio a fior di labbra a Jared e abbandonandolo prima che mi riprendesse ancora. Scappai sul divano e mi sedetti sopra, a gambe incrociate, mettendomi calorosamente la sciarpa sulla bocca. Era un gesto automatico, senza significato, che facevo sempre.
“Com’on!”, gridò Shannon quando tutti furono al loro posto, battendo le bacchette. “One, two, three, four…”
 
Here we are searching for a sign
Here we are searching for a sign
It's the end here today
But I will build a new beginning
Take some time, find a place
And I will start my own religion
As the day divides the night
Here we are searching for a sign
 
Non credo, Oh, invece ci avrei giurato!, Ce ne hai messo però di tempo, eh?, Aspetta… ho vinto la scommessa!.
Ecco cosa mi era toccato sentire di prima mattina quando una telefonata di Andy mi aveva colpita nel pieno del sonno. Ricordandomi oltretutto che ero anche leggermente in ritardo per andare a casa di Vicky.
Infatti come l’americana, Andy aveva già previsto che io e Jared alla fine ci saremmo messi insieme. Era così prevedibile? Non lo volevo sapere.
L’unica cosa su cui però Andy non era d’accordo, se così possiamo dire, era l’età. Dieci anni sono tanti, bella mia, e non puoi dissolverli con tanta facilità, mi aveva detto. Forse ora non lo noti, ma più avanti non potrai negarlo.
Non mi posi il problema. Il mio pessimismo mi diceva che forse nemmeno ci sarebbe stato un più avanti, quindi valeva la pena vivere questa cosa e lasciare i problemi ai futuri Veronica e Jared. Loro se la sarebbero cavata meglio.
Finita la discussione con la mia migliore amica uscii subito di casa, vestita con jeans e maglione, senza nemmeno un filo di trucco o i capelli legati. Avrebbe fatto Vicky, era inutile toglierli del lavoro, si sarebbe solo lamentata.
Cominciai a camminare, facendo una tappa prima a prendere una semplice brioche a colazione. E lì, ovviamente visto che la sfiga ti perseguita sempre, incontrai Colin.
L’ultima sera mi aveva lasciata perdere, continuando a fissare i tavoli, più precisamente, poi l’avevo capito, Lucy. Osservava ogni suo movimento e, per quel che poteva, non la perdeva di vista un attimo.
Lo lasciai fare; non erano fatti miei e l’importante era che non rompesse le scatole a me mentre lavoravo.
“Ehi, Veronica”, mi salutò con la mano, avvicinandosi. Era simpatico, o almeno faceva il simpatico.
“Colin”, dissi cercando di sorridere.
“Senti, mi dispiace per gli sguardi e l’uscita obbligata… non avrei dovuto”, si scusò riacquistando un po’ di punti. “E avevi ragione: ho diciotto anni, non ventuno”.
Bè, era già più grande di quello che pensavo… ma almeno aveva ammesso. Era già qualcosa.
“Sono felice che tu abbia detto la verità. Mentire non fa mai bene, ricordatelo”, gli consigliai pagando il mio conto e voltandomi verso l’uscita.
“Aspetta!”, mi chiamò. E ora che voleva?
“Che vuoi?”.
“Sai se Lucy ha un ragazzo?”, mi chiese sottovoce, timido. Oh, quindi ora tutto tornava al loro posto. Non gli frega niente scusarsi con me, voleva informazioni su Lucy. Bè, io non do notizie di cui non sono sicura.
“Non ne ho la minima idea”, gli dissi sorridendo e andandomene via, uscendo dal bar e prendendo la via per la casa di Vicky.
Non era lontana, perciò ci misi qualche minuto in cui il mio mp3 fece il suo ottimo lavoro come al solito, facendomi ascoltare le mie quattro canzoni preferite. Cavolo, mi ero dimenticata di farmi dare da Jared le loro canzoni! Dovevano averle registrate in qualche modo, no?
 Ed eccomi davanti alla porta di Vicky.
“Ehi, Veronica!”, mi salutò dal primo piano, forse dalla sua camera. Poi la porta si aprì e una donna dall’aspetto di un angelo mi accolse in casa. Non poteva essere la madre di Vicky… occhi completamente azzurri, biondi capelli lisci e lunghi, alta un metro… e un altro metro!
“Buongiorno, mia figlia mi ha parlato molto di te”, disse con voce alta, da soprano.
“Sonya, portala in camera mia”, sentii forte la voce di Vicky dal primo piano.
“Vieni con me”, mi invitò facendo entrare in casa e avvicinandosi alle scale. “Mia figlia mi ha detto che sei una sua collega”.
“Sì, lavoriamo insieme da un po’”.
“Oh, ne sono lieta. Da quanto John ci ha trasferiti qui pensavo che mia figlia non si ambientasse come voleva… è fragile”, mi disse cercando di essere quasi convincente per sé stessa.
“John?”, chiesi.
“Mio marito. Certo, sono passati anni ma Vicky è sempre stata un po’ controcorrente e molte persone non accettano queste caratteristiche”, mi spiegò meglio.
“Ma una volta l’ho vista in discoteca con un bel gruppo di amiche”, ricordai evitando di parlare di come era finita quella serata. Quanto tempo era passato?! Una vita…
“Sì, ma non ce ne ha mai parlato così tanto. È come se tu fossi una seconda sorella per lei… anzi nemmeno con Lucy ha avuto un simile rapporto. Forse perché sono sorelle reali e sono adolescenti”, commentò quasi da sola, in cima alle scale. Poi mi sorrise e mi indicò una porta aperta, da cui potevo scorgere la figura di Vicky aspettarmi. “Buon divertimento e buon Halloween signorine!”.
Entrai e la ragazza mi indicò subito la scrivania. Era piena di trucchi… mannaggia!
“Dimmi che tua madre si è truccata per Halloween da angelo”, la supplicai guardandomi ancora indietro. Era scomparsa, puf!
“L’hai notato, vero? Assomigliamo così tanto a nostro padre che ce lo dicono tutti. Ma volte mamma si arrabbia, ma poi si riprende subito”, rispose ridendo e chiudendo la porta con una lieve spinta.
“La chiami per sempre nome?”, chiesi curiosa. Mi ricordava qualcuno… io?! Ma no…. E invece sì.
“No, solo qualche volta. Ha un bel nome”, mi rispose sorridendo. Ah, ora notavo la differenza. Io invece li chiamavo per nome perché volevo sentirli… distaccati? Sì era la parola giusta. “Comunque non cercare di cambiare discorso. Dobbiamo prepararci entrambe e sarà dura. Per pranzo mamma ci porterà qualcosa in camera, per non distrarci. È tutto pronto ti ho fatto anche il vestito. Ci ho messo una vita visto che è stato un po’ improvviso, ma…”.
“Aspetta, aspetta, aspetta, ragazza mia. Tu mi hai fatto un vestito?!”, chiesi stupida da ciò che aveva detto.
“Sì, anche il mio. Li faccio tutti io i vestiti con cui mi travesto ad Halloween o Carnevale. Il mio era già pronto da un pezzo, quindi ho avuto modo di concentrarmi sul tuo”, mi rispose come se fosse niente.
“Posso vederlo?”, chiesi curiosissima.
“Non ci pensare nemmeno. C’è un motivo per cui il tuo bel Jared non lo deve vedere prima della festa, ed è meglio che non lo veda pure tu!”, s’intestardì indicandomi la sedia. Maledizione! “Ora non rompere e mettiti seduta. Partiremo dal viso, poi ai capelli e alla fine potrai metterti quel benedetto vestito… oh, non hai idea degli accessori che ti ho trovato!”.
“Quanto ti dovrò pagare alla fine per tutto quello che mi farai indossare?”, chiesi seria.
“Non ci pensare nemmeno. Consideralo un regalo di fidanzamento o comunque per esserti svegliata a metterti con lui”, scherzò. “Ora siediti per la miseria!”.
Risi e mi tolsi la borsa, che Vicky poggiò di fianco al letto. Mi fece togliere anche sciarpa, giacca e felpa, facendomi restare il T-shirt leggera e jeans stretti. “Bene, cominciamo”.
Chiusi gli occhi, stringendo la sedia per farmi forza, e lasciai che Vicky compisse la sua opera d’arte.
 
Pelle ancora più bianca di quella che già avevo. Occhi adornati da ombretto marrone, con la sfumatura rossa allungata. Mascara e eyeliner nero che risaltavano gli occhi verdi smeraldo.
Guancia sbucciata, labbro tagliato, rossetto bordeaux e un finto rivolo di sangue che spuntava da esso. Mani e polsi con qualche vena risaltata, unghie con  nuovo smalto nero-vinaccia.
Capelli legati in alto a chignon da cui partiva una piccola cascata rossa e riccioluta, dalla quale si liberavano ai lati del viso due ciuffi penzolanti. In testa un piccolo cerchietto nero con delle minirose bianche, ma alcune sporche di rosso, come insanguinate.
Era arrivato il momento, toccava al vestito.
“Eccoci qui”, disse una strega di nome Vicky. Anche lei si era già truccata sul verde violaceo e si era messa un piccolo basco nero in testa, controcorrente al vecchio e tradizionale cappello a punta. Si era fatta un vestitino nero, con le rifiniture del corsetto viola e verdi scure, e si era messa dei tacchi allucinanti che, ormai ne ero certa, mi sarei dovuta infilare pure io. Lei non aveva sangue finto in giro, la vampira ero io.
“Dai, voglio vederlo!”, chiesi supplicando. Non era giusto, si era preparata tutta a puntino prima lei solo per vedermi soffrire. Maledetta streghetta!
“Arriva, arriva”, disse aprendo di nuovo il suo armadio e tirando fuori il fatidico vesto. Era… era…
“Assolutamente meraviglioso”, sussurrai meravigliata.
Era un vestito da sposa, corto, con un corpetto bianco senza spalline e la gonna che arrivava sopra le ginocchia. Aveva una cinturina lucente nera, da cui penzolavano dei teschietti, apposta per Halloween. La fine era spezzettata e ricoperta di piccole e incredibilmente artistiche gocce di sangue fresco e anche sulla scollatura era presente il rosso. Ai piedi mi toccava mettere i tacchi, ma almeno le scarpe erano abbastanza normali, tranne il fatto che sul lucido comparivano ancora degli schizzi, come se le avessi usate per staccare la testa di qualcuno.
Gli orecchini ovviamente erano neri, a forma di teschio, e alle braccia una retina nera di pizzo al polso destro, mentre milioni di bracciali neri e bianchi, con sempre qualcosa di rosso, in quello sinistro. Al collo avevo due mie collane più una nuova, con scritto Dark in nero.
“Allora ti piace?”, chiese ancora speranzosa.
“Lo amo!”, dissi abbracciandola. Oh, sì, Jared avrebbe dato di matto.
“Che bello! L’ho fatto corto perché con le gambe che ti ritrovi non potevo metterci una gonna lunga, mi sarei torturata da sola. Ma sembri comunque una bellissima sposa vampira cadavere”, sorrise scherzando.
“Sono un mix di qualunque cosa riguardi questa notte”, ripresi guardandomi, stavolta completamente pronta, ancora allo specchio. Ero impressionante… e fantastica!
“Forza andiamo”, disse prendendo la mia mano e trascinandomi fuori dalla sua stanza, verso l’uscita. Sarei morta di freddo, ci avrei scommesso.
“Mamma mia!”, dissi infatti congelando appena aprì la porta. Vicky ebbe la stessa impressione, ma non ci arrendemmo. Corremmo verso la macchina e la mia amica prese il posto di guida. Con i tacchi non ero un genio nel guidare.
“Festa… stiamo arrivando!”, rise partendo in quarta e uscendo dal suo vialetto. Cominciammo a girovagare per la città, andando verso la periferia. Stavo quasi per chiedere dove diavolo fossimo quando notai delle luci grottesche accendersi verso di noi. Eccola.
Vicky sorrise, accostando con la macchina e parcheggiando lì davanti. Lucy e Brad erano fuori a parlare. O mio dio, c’era tutta Bossier City per caso?
“Non provare a tirarti indietro”, mi minacciò aprendo la portiera e uscendo dalla macchina.
“Non ci penso nemmeno”, risposi imitandola e lasciandole chiudere a chiave il veicolo. Lucy mi squadrò del tutto, arrabbiandosi un po’. Ora capiva a chi era destinato quell’abito!
Vicky mi prese la mano e corse dentro, evitando una malattia che ci avrebbe fatto star male di certo. Le luci ci accecarono un secondo all’entrata, tutte di colori scuri, tranne forse il rosso fuoco, che nascondeva la sfumatura dei miei capelli.
“Salve mostri!”, sentii dire. Vicky urlò e s’incamminò verso il centro della pista. Io la salutai e cercai di avvicinarmi al palco, che comunque era nei paraggi. Riuscivo ancora a vederla. “Qui è il vostro Dan che vi parla!”.
Oh, era il dj.
“Cominciamo la serata con la band che ci accompagnerà per la prossima mezz’ora con il suo rock d’oltremondo. Dal pianeta rosso, sono qui con noi i…”, cominciò a dire, ma sapevo già la risposta. Thirty Seconds To Mars. “…Thirty Seconds To Mars!”.
Ma che caso, avevo indovinato! Gridai e Vicky si volse verso di me, urlando anche lei come tutti e facendomi l’occhiolino. Che strega!
“Salve gente! Speriamo di farvi divertire un po’”, urlò Jared al microfono quando salì sul palco. Lui non mi vide, ma io sì.
Era vestito da maggiordomo zombie, ma con lo smoking mezzo distrutto e in faccia ogni tipo di taglio. Era realistico… davvero tanto realistico!
Shannon aveva una maglietta nera, piena di sangue finto e stracciata in vari punti, truccato anche lui da zombie. Solon era vestito simile a Shannon, solo messo ancora peggio, e quindi ancora più realistico, mentre Kevin era andato sul leggero, truccandosi poco.
Il più grande dei Leto diede l’attacco e Jared partì con una canzone che conoscevo bene ormai. Quella a cui finalmente aveva dato un titolo: Year Zero.
Cantarono, suonarono, si divertirono e impazzirono come veri e propri demoni della notte, ma dopo quattro o cinque canzoni dovettero smettere per lasciare il posto alla seconda band. Jared salutò il pubblico e scesero dal palco, andando nel backstage.
“Potrei entrare?”, chiesi al ragazzo che stava davanti alla porta di quelle che dovevano essere i dietro le quinte.
“Fa parte di una band? Non credo”, ripose lui freddo.
“Sono un’amica dei Thirty Seconds To Mars, può andare a chiederlo se vuole”, ribeccai arrabbiata.
“Quei quattro usciranno a momenti, aspetti un attimo e si vada a bere qualcosa”, disse chiudendomi l’accesso. Maledetto stronzo!
Mi allontanai arrabbiata, evitando di creare una rissa con quell’idiota e andai a bermi sul serio qualcosa. Ok Veronica, sta calma. Stanno per uscire, non farne un dramma. Anche se ora sei da sola, perché a quanto sembrava Vicky era a ballare con un tipo che non riconoscevo.
“Cerca di non ubriacarti troppo stavolta”, sentii la voce divertita di Shannon venire verso di me. Mi voltai veloce con una risata e lì vidi tutti e quattro sorridenti. E poi si immobilizzarono. Che diavolo…?
“Sei… sei…”, balbettò Jared trovando la forza di avvicinarsi. Oh no, no, non poteva partire già con i complimenti!
“Sexy!”, finì Shannon, beccandosi una sberla sulla spalla da suo fratello geloso.
“Vampira”, commentò ancora Solon.
“Carina”, minimizzò Kevin.
Ok, dopo un balbettio, un sexy e un vampira, il mio ego in questo momento accentuato non permetteva l’aggettivo carina. Anche Vicky l’avrebbe ridotto in mille pezzi. Dopo una giornata intera di preparazione!
“Ma sei scemo?!”, rise scioccato Jared, d’accordo con i miei pensieri nascosti. “Ma no, dico: l’hai vista bene? Nemmeno un gay convinto direbbe che è solo carina!”.
“Finiscila”, commentai ridendo. Ora non esageriamo…
“Io dico solo la verità”, mi riprese, sfiorandomi le labbra con le sue, senza però quasi toccarle realmente. No, così non era valido!
“Ok, cominciano a fare i fidanzatini felici. È finita la pacchia ragazzi, andiamo a divertirci”, si dileguò Shannon ridendo. Solon gli diede una pacca sulle spalle e poi lo seguì a ruota. Kevin invece rimase lì, adocchiando un po’ di bibite.
“Andiamo, dai”, mi alzai dalla sedia con un piccolo salto e presi la mano di Jared, spostandomi verso uno dei tavoli liberi.
“Era per questo che non dovevo vederti?”, chiese ridendo. “Non si sbircia mai la sposa prima della cerimonia”.
“Penso di sì… Vicky è tutta fuori”, scherzai ridendo. Lui annuì e mi abbracciò, cingendomi i fianchi come faceva sempre e avvicinandomi a lui.
“Mi sei mancata oggi”, commentò toccandomi ancora la guancia, proprio sul finto graffio. “Ti sei fatta male, per caso?”.
“Anche tu”, risposi sorridendo. “No, tranquillo. Sono solo andata un po’ a caccia, ma certi umani graffiano!”.
“Oh, povera piccola vampira! E che gran festa di addio al nubilato, no? Una bella caccia notturna all’insegna del sangue”, scherzò seriamente.
“Non aspettavo altro da tutta la vita”, commentai mentre dalla guancia passava al labbro fintamente tagliato, baciandolo come per guarirlo.
Finii il gioco, baciando le sue labbra dolci, fregandomene del trucco o di ciò che ci eravamo messi in faccia per renderci mostri. Come al solito intrecciai le mani ai suoi capelli lunghi e mi aggrappai ad essi, anche se stavolta ero alta quanto lui con i tacchi.
“Oh, sì, mi sei davvero mancata”, commentò staccandosi un attimo e muovendo le mani verso le mie gambe. “Questo è un matrimonio, giusto?”.
Eh, Jared, sapevo che l’avresti pensato! “Ehi, chi ti dice che tu sia lo sposo, caro damerino?!”.
“Se mai diventerai un’attrice, di certo non sarai una delle migliori”, mi schernì. “Con me non sai recitare proprio per niente!”.
“Forse perché non voglio”, commentai lasciandolo un attimo sorpreso, per poi baciarlo di nuovo.
“Un giorno sarai davvero vestita così… e non per Halloween!”, disse convinto, incominciando un altro discorso. “Ma per ora ricordiamoci questa di notte”.
“Magari un giorno sì, ma chissà con chi”, sognai ad occhi aperti per prenderlo in giro. Andy aveva ragione in fondo, lui non era così lontano all’idea del matrimonio, mentre io sì.
“Così mi offendi, sai?!”, gracchiò infatti. Mi sentii un po’ in colpa, ma lasciai perdere e risi, come se volessi cancellare la frase precedente. In fondo il destino non era così prevedibile, poteva capitare qualsiasi cosa. Ma forse, per quella sera, era andato a farsi una vacanza ai Caraibi e aveva trovato il sostituto più scontato che esista nell’universo.
 

 
 ...
Note dell'Autrice.
Sì, sono troppo teneri, io li amo *-* ahhaah Ma stiamo attente, c'è sempre il guaio in agguato.
Ma soprattutto... chi ama Vicky alzi la mano! *alza pure quelle del suo gatto perchè l'adora* 
Alla prossima, babies, Ronnie02 

 

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Capitolo 11
*** Full ***


Hola people!! Come state, Echelon mie adorate? Scusate innanzitutto per lo schifo di ritardo, ma con la scuola non ce l'ho fatta. Ma indovinate un pò? Visto che i miei compagni se ne vanno a Salamanca per una settimana senza di me, starò a casa fino a domenica prossima a cazzeggiare beatamente. Ora, che dovrebbe interessare a voi? Bè, magari per farmi perdonare a questo ritardo mi sa che aggiornerò prima, ok? :)

Ora vi lascio alla lettura, visto che avete aspettato tanto. ci vediamo in fondo

 


Chapter 11. Full




“Non è possibile. Non è possibile”, ridacchiai divertita. Sul serio, non era possibile.
“Che hai?”, si voltò a guardami lui, che sorrideva.
“Non è possibile che ogni volta dobbiamo isolarci da tutto il resto dell’umanità, andandocene a farci un giro”, spiegai ancora con il sorriso mentre camminavo di fianco al muro del locale, per poi appoggiarmici.
“Vuoi rientrare?”, mi chiese allora mettendosi davanti a me e chiudendomi il passaggio poggiando le mani sul muro.
“Io non ho mai detto questo”, sorrisi avvicinandomi ancora alle sue labbra e toccandole piano. Mi piaceva stuzzicarlo così, senza baciarlo davvero… impazziva.
“Sei davvero un demonio”, mi prese in giro carezzandomi la guancia bianca.
“Oh, ma allora ho sbagliato vestito! Avrei dovuto coprirmi tutta di stracci senza nemmeno far vedere un pezzo di pelle”, continuai il gioco face dogli fare una smorfia.
“Rettifico: un sexy demonio”, si corresse baciandomi il collo come il giorno prima, alle prove. Era fissato allora!
“In teoria sarei io che ti dovrei mordere e bere il tuo sangue arterioso”, conclusi cercando di tenere una mente lucida mentre sentivo le sue labbra sulla pelle.
“Non sarebbe così divertente…”, sussurrò lui scendendo con la mano sul vestito, toccando il seno leggermente e arrivando alla pancia piatta.
Ok, stavo letteralmente dando di matto. Ok, era il posto più orrendo per impazzire. Ok, avevo il cervello in pappa.
“Brutto figlio di puttana!”, sentii urlare e Jared si allontanò subito, spaventato dal grido. Ci voltammo entrambi e vidi una Lucy insanguinata sulle braccia e sul labbro. No, non era finto.
Di fianco a lei Brad aveva le mani attorno al collo di Colin, che cercava di liberarsi e digrignava di rabbia. Oh, merda!
Sai se Lucy ha un ragazzo?   Non ne ho la minima idea
Tu e Lucy?    Eravamo felici, ma mi tradì con il barista del locale
Oh merda, merda, merda, merda!
“Non osare mai più toccare la mia ragazza, nemmeno guardarla, chiaro?”, gli urlò Brad in faccia, arrabbiato e anche abbastanza bevuto. Come quando mi aveva fatta star male la prima sera di lavoro, come la notte in cui  Lucy mi aveva salvata. Le dovevo un favore.
“Non è la tua ragazza, stronzo! La usi solo come un giocattolo, ma lei è molto di più”, gli rinfacciò Colin, dandogli un calcio sugli stinchi. Ma Brad era più grande, era più forte, e continuava a stringerlo.
“Fatti i cazzi tuoi, chiaro?!”, spuntò lanciandolo per terra e cominciando a picchiarlo. “Fatti i cazzi tuoi!”.
“Brad, smettila, smettila”, gridò Lucy e a quel punto capii che stava succedendo. Guardai Jared, che assisteva immobile, non sapendo che fare.
“Stronza! Non osare difenderlo o farai la stessa fine!”, si voltò, lasciando tre secondi di respiro a Colin, che inspirava affannosamente.
Mi slacciai dalla presa di Jared, che si era rafforzata per la paura, e camminai avanti decisa. I tacchi risuonavano rumorosamente e Brad si voltò.
“Ronnie torna indietro”, mi chiamò Jared.
“Vattene via, ti prego”, m’incitarono Colin e Lucy insieme.
Parole al vento, non m’importava. Quel coglione doveva finirla di trattare così la gente, aveva decisamente rotto. Me, Lucy, Colin… era ora di smetterla.
“Uh, la grande cuoca è venuta a giocare”, commentò quasi dolce Brad mentre Jared mi pregava ancora un volta di tornare indietro. “Vuoi vendicarti? Pensi di potermi superare?”.
“L’ho già fatto una volta, stronzo”, lo insultai facendolo arrabbiare ancora di più. Fosse stato un cartone animato sarebbe diventato viola di rabbia, con il fumo che usciva dalle orecchie.
“Stavolta ti pentirai di avermi provocato, bellezza”, urlò facendo automaticamente avanzare Jared di qualche passo, impaurito. “Stavolta urlerai sul serio mentre ti farò male”.
Jared si fiondò dietro di me, prendendomi le mani e provando a portarmi indietro. “No!”, urlai liberandomi e voltandomi verso di lui. Sapevo di sembrare diversa. I miei occhi erano diversi quando mi arrabbiavo: erano cattivi, sadici, desiderosi di sangue… una vera vampira e lui indietreggiò quasi impaurito.
Avanzai verso Brad, facendo impallidire anche lui, ma solo per poco. Si avvicinò e cercò di tirarmi uno schiaffo mentre io lo fermai e gli morsi un pezzo di pelle, lasciandogli i segni dei denti.
“Ahia!”, urlò. “Maledetta, adesso vedrai”. Così mi staccò dal suo braccio e con un pungo in pancia mi allontanò, facendomi inciampare per terra. Merda!
Guardai la mia mano e il mio braccio: sangue. Toccai la mia bocca: sangue.
“Questa me la paghi, figlio di puttana! Non devi nemmeno azzardarti a sfiorarla!”, gridò Jared, ad un tratto davanti a me, facendo indietreggiare Brad e cominciando a tirare pugni a destra e a manca. Lucy venne in mio aiuto, cercando di farmi alzare e portarmi via, mentre Colin cercò di dividere Jared e Brad.
“Lui non c’entra”, gridò il ragazzo fermando il mio fidanzato e immobilizzandolo. “Se vuoi qualcuno con cui prendertela, lotta con me!”.
Presi la mano di Jared e lo portai verso di me, che mi abbracciò subito fin troppo stretta, preso dall’ansia e dall’adrenalina del momento. Notai i buttafuori, i quali evitarono che Brad ricominciasse a menare Colin e lo portarono via, chiamando la polizia. Lucy prese il telefono, facendo il 911. Shannon, Solon e Kevin erano usciti per vedere dov’eravamo finiti e si erano avvicinati per controllare la situazione.
“Ehi come stai?”, mi chiese un infermiere quando arrivò l’ambulanza e la polizia. Jared andò a chiarire quello che era successo riguardante la nostra implicazione alla faccenda.
“Niente di grave, signore. Posso anche andare a casa a fasciarmi il braccio da sola”, risposi gentile, evitando che mi portassero in ospedale.
“Bene”, sorrise, per poi rivolgersi a Shannon, che mi stava affianco e mi teneva dritta, prima che cadessi. “Lei è un amico?”.
“Mia madre è la sua vicina di casa, la terremo d’occhio noi, signore”, rispose deciso, mentre Solon controllava i graffi.
“Per le ferite alle mani e alle braccia servirà solo un po’ di disinfettante e delle fasciature; guariranno in fretta”, disse l’infermiere dando tutte le indicazioni utili. “Per la bocca mettetele del ghiaccio finchè il sangue non avrà finito di uscire, poi evitate che si tocchi troppo le labbra”.
Oh per me non era un problema. Dovevano dirlo a Jared! A proposito, dov’era finito?
L’infermiere si dileguò verso Lucy e poi l’accompagnò sull’ambulanza, con Colin al suo seguito. Brad aveva fatto loro molto più male. Quel disgraziato invece fu accompagnato all’ospedale dalla polizia e poi avrebbero preso dei provvedimenti. Primo dei quali, il licenziamento dal locale. Vicky l’avrebbe sostituito e io e Lucy non avremmo più avuto problemi.
“Ehi, come stai, piccola?”, mi chiese ancora Jared. Piccola?! E da quando mi chiamava piccola?! Sorrisi, in fondo era carino e quel suo faccino da uomo bimbo lo rendeva ancora più tenero.
“Meglio… dov’è Vicky? Voglio tornare a casa”, sussurrai guardandomi intorno.
“E’ andata a cercarla Solon, avvisandola anche su sua sorella. Ha detto che potevamo portarti a casa noi e che ti avrebbe subito chiamato appena ti saresti ripresa un po’”, mi spiegò meglio. Poi Shannon mi lasciò a Jared, il quale mi prese in braccio e mi portò nella loro macchina.
“Peso leggermente di più che una chitarra”, commentai quando salì dall’altra parte. Shannon rise e ingranò la marcia.
“Per quanto non ci avrei mai creduto in passato… una chitarra non mi rende così felice come te”, mi sussurrò baciandomi la fronte.
“Una chitarra non fa a botte con un idiota, spinta da una strana voglia di sangue”, ridacchiai quasi stordita.
“Questo è vero”, accordò lui ridendo. “Mi hai davvero fatto paura, sai?”.
“I trucchi del mestiere”, conclusi io cercando di baciarlo, prima che una finta tosse di Shannon mi fece ricordare che non eravamo soli. Ormai avevo già dimenticato la condizione dell’infermiere riguardo alle mie labbra. Non l’avrei comunque mai rispettata.
“Vi abbandono qui se ci provate di nuovo, intesi?”, ci minacciò il batterista facendoci ridere.
“E’ ancora una notte da ricordare?”, mi chiese Jared sottovoce, dopo aver rassicurato il fratello che non l’avrebbe fatto.
“Ovvio. Ho morso un idiota e tu vorresti dimenticarlo?!”, mi offesi scherzando. “Che ti serva da avvertimento per il futuro”.
“A questo punto io avrei paura di farla arrabbiare, Jay”, rise di gusto Shannon, mentre vedevo già il supermercato vicino a casa mia. Ma quanto guidavano veloci?!
“Già, la vampira Ronnie potrebbe scatenare un massacro da un momento all’altro”, mi prese in giro il mio ragazzo. Maledetto!
“Così starete più attenti”, bisbigliai cercando di rimanere sveglia ed evitare di farmi ospitare per la terza volta nel letto di Jared a casa di Constance. Non era decisamente il caso.
Arrivammo presto a casa mia, Jared cercò di prendermi in braccio un’altra volta ma mi rifiutai categoricamente, tenendomi comunque attaccata al suo braccio. Mi faceva male lo stomaco…
“Dove sono le chiavi?”, mi chiese gentile. Eravamo da soli, Shannon era rimasto in macchina.
“Borsa”, risposi soltanto notando che in macchina Solon aveva messo anche la mia borsa. Doveva avergliela data Vicky, visto che l’avevo messa con la sua nell’appendiabiti del locale. Lui annuì e, lasciandomi aggrappata al muro, tornò in dietro, prese la borsa e ci frugò dentro, trovando alla fine le chiavi che aprivano la porta d’ingresso. Fece girare due volte e spinse la maniglia.
“Eccoci a casa”, canticchiò come se fosse una ninna nanna. Buttò, come facevo sempre anche io, la borsa sulla poltrona del salotto, la quale si afflosciò sulla stoffa colorata. Poi mi spinse verso le scale. “Adesso andiamo a nanna, piccola Ronnie”.
La sua voce mi stava facendo quasi addormentare, ma non ne avevo la minima intenzione. Spostai il mio guardo dai gradini ai suoi occhi. Mossa sbagliata: rischiai di inciampare, ma quel santo di ragazzo mi riacchiappò in tempo.
“Ehi, guarda dove messi i piedi, demonietto”, mi prese in giro arrivando in cima alle scale e girando dalla parte giusta. Aprii  la porta, sperando che non ci fosse dentro un disastro e mi feci accompagnare fino al letto. Arrivata lì mi sedetti, con gli occhi chiusi, aspettando che andasse via.
“Dov’è il ghiaccio?”, chiese invece stupendomi.
“Cosa?”, aprii gli occhi e lo vidi sorridere.
“Non ti libererai di me, piccola”, mi scoprii. “E ti serve del ghiaccio per le labbra e il disinfettante per mani e gomiti”.
“Maledetto Shannon”, commentai spingendomi verso l’interno del letto e appoggiando la schiena e la testa sulla testiera.
“Già”, rise lui, guardando poi fuori dalla finestra. “Mi ha pure abbandonato qui”.
“Cosa?”, spalancai gli occhi, di nuovo stupita. E come prima, lui si mise a ridere. Ero così divertente?!
“Allora dove è il ghiaccio e il disinfettante?”, s’intestardì ancora. Sbuffai e mi convinsi che non avrebbe smesso fino a che non gli avessi dato risposta. Maledetto pure lui!
“Ghiaccio: frigorifero in cucina. Disinfettante: secondo cassetto a destra del bagno”, gli spiegai con voce spezzata. Poi mi coprii lo stomaco con la mano; mi faceva ancora male.
“Vado anche a prenderti qualcosa da mangiare”, disse dandomi un bacio sulla fronte. Gli presi la mano, guardandolo negli occhi. Non avevo mai sentivo ciò che provavo ora, o meglio una volta sola in tutta la vita. Era il completo bisogno di aiuto, perché voleva dire che stavo affogando nel vuoto.
Era capitato anche quella volta, quella notte, ma nessuno era venuto a salvarmi. Quella volta Jared non c’era.
 
“Marco… Marco… Marco… Marco…”, continuavo a balbettare, ma sapevo che non sarebbe mai arrivato. Era troppo lontano per sentirmi… non mi sentivo nemmeno io.
La televisione rumoreggiava dall’altro lato della stanza; mia madre la stava guardando con in mano una bottiglia di birra. Non beveva mai la birra da sola…
Mio padre non c’era, non era rincasato quella notte. Aveva preferito trasferirsi da sua madre, dove poi avrei abitato io non appena lui sarebbe partito per Torino.
Andy… non potevo rovinarle il suo compleanno, mi sarei odiata ancora di più. Non era giusto farle prendere questa responsabilità. Accudire una matta non è così facile.
“Marco… Marco… Marco…”, gracchiai un po’ più forte. Tanto ormai nessuno mi avrebbero più sentito, nemmeno se avessi urlato. Mi strinsi le gambe nelle braccia e cominciai a dondolare, per scacciare i pensieri ed evitare di impazzire.
Cercai di muovere le mani, per prendere il telefono e chiamare mio fratello, ma appena la guardai notai che tremava freneticamente. Non solo la mano tremava. Tutto il mio corpo, che apparentemente dondolava per terra, stava tremando come un ossesso e i miei occhi si spalancarono.
“Marco… Marco…”, ripetei ancora, ma la voce si spezzò presto. Il respiro mi divenne affannato, gli occhi secchi e le orecchie sorde. La televisione ora era muta, ma sapevo che in realtà non era vero. No, dovevo essere forte, non potevo abbattermi! A scuola ero sempre stata il sostegno di tutti, la roccia fredda che accoglie il dolore altrui per trasformarlo in forza. Ora… ora avevo io bisogno di un cinico che mi abbracciasse.
“Tutto... andrà… bene… vedrai”, mi dissi, ricordando le ultime parole di Marco prima di ripartire ancora una volta. Mi aveva giurato che non avrei più sofferto, che mamma e papà avrebbero finito di litigare, che il sorriso sarebbe tornato presto sul mio viso anche a casa.
“Mi hai mentito!”, gridai, terrorizzando anche me stessa. “Tu… tu mi hai mentito…”.
Mi fissai intorno, gli occhi lacrimanti e offuscati, e il mio corpo si alzò senza che me ne resi conto. Ad un tratto mi ritrovai in bagno, cercando non so cosa nei mille cassetti. Veronica, riprendi il controllo, svelta.
“Mi… hai… mentito… tutti mi avete… mentito”, continuavo a digrignare. “Tutti!”.
Trovai quello che cercavo: una limetta.
No, non sarei caduta così in basso… non potevo farlo, dovevo svegliarmi! Era tutto un incubo, un incubo!
“No… no!”, gridai, lanciando via la limetta, sperando di riuscire a prendere conoscenza. “Ahia!”.
Merda, merda! Mi guardai il polso: avevo preso male la mira.
L’odore di sale e ruggine riempì il mio cervello e il dolore cominciò ad invadere ogni centimetro del mio corpo. Mi sedetti per terra, ritornando nella posizione iniziale e ricominciai a tremare, con il polso insanguinato.
“Io vi odio…. Io vi odio!”, gridai sperando che la stronza in salotto mi sentisse, con le lacrime agli occhi. Ero piena. Piena di odio.
Svegliati, Veronica… è un sogno, deve essere un sogno!
 
 E invece non lo era. Era stato tutto vero e la mattina dopo mi svegliai ancora più pallida del solito. Mi misi in piedi e, senza dire niente a nessuno andai all’ospedale, facendo passare la faccenda per l’incidente che in realtà era stato.
Mia madre, al mio ritorno, era ancora svenuta sul divano come la sera precedente, con la bottiglia rotta per terra, forse spaccata in un momento di incoscienza.
Me ne andai subito da nonna, o mi sarei fatta male. Presi la valigia che avevo fatto la sera prima, i miei effetti personali e le chiavi della macchina. Era quella di mia madre, ma in quel momento non mi interessava più di niente. Guidai per un ora e mezza, con una steccatura al polso, fino ad arrivare a destinazione, mentre mio padre stava uscendo da quella casa. Scesi dalla macchina, gli tirai le chiavi addosso, e, senza nemmeno guardarlo, entrai in casa con le mie valigie.
Nonna mi aveva controllato ancora una volta il polso, senza dire niente, e alla fine mi aveva lasciato da sola in stanza, finalmente al sicuro.
Per la prima volta dopo tanto, troppo, tempo dormì tranquilla quella notte.
“Ronnie, sono qui, non avere paura”, mi portò alla realtà Jared, mentre i miei occhi facevano fuoco sul suo volto al posto che vedere il passato, con mia nonna accanto a me. “Sono qui, calmati”.
Non era andato in cucina, non si era mosso di un millimetro. Io invece tremavo ancora, gli occhi lucidi, fissi sul mio polso – dove ora regnava una righettina così bianca da mischiarsi con la mia carnagione – e l’espressione terrorizzata. Doveva essere una serata da ricordare, una notte per farlo impazzire, una festa di Halloween… invece era tutto andato in fumo per colpa di quell’idiota di Brad e dei miei stupidi ricordi!
“Mi dispiace”, riuscii a scusarmi cercando il suo abbraccio, che non tardò ad arrivare. Mi piaceva il lato dolce e tenero di Jared, mi confortava e mi teneva al sicuro, lontana dai miei incubi.
“Non hai colpa di niente, né ora né nel passato, Ronnie”, mi rassicurò ancora stretto a me, o meglio lo stritolavo con le braccia attorno al suo collo.
“Tu non sei ridotto così male”, provai a ridere, ma ne uscì solo una brutta smorfia.
“E’ passato tanto tempo…”, commentò slacciando la presa e guardandomi negli occhi. Poi mi toccò il cuore. “Qui la tua ferita è ancora aperta e sanguinante. Ha bisogno di cure”.
“Tu sei la mia cura”, mi convinsi toccando la sua fronte con la mia.
“Farò del mio meglio”, ridacchiò per poi azzerare le distanze e poggiando le sue labbra sulle mie. Non fu passionale, non fu desideroso di altro.
Dopo un attimo di dolcezza che fece da galleggiante per farmi tornare in superficie, si staccò e si sdraiò di fianco a me, cantandomi una specie di ninna nanna per farmi dormire.
Mi agganciai alla sua camicia e non mi mossi più, chiudendo gli occhi e obbligandomi a rivedere solo le immagini dei ricordi di questi mesi in America. Solo pensieri felici, che arrivati al momento in cui Jared mi aveva dato il nostro primo bacio, mi accompagnarono definitivamente tra le braccia di Morfeo.
“Non te ne andare mai”, sussurrai senza nemmeno rendermene conto.
“Non posso vivere senza di te”, concluse baciandomi la testa e i ricci rossi con tenerezza. E calò la notte.
Il mattino dopo mi svegliai tranquilla, dopo una notte senza né incubi né sogni.  Ero stata al sicuro e sapevo grazie a cosa, o meglio a chi. Jared.
 Per la prima volta dopo tanto tempo ricordai perfettamente ogni tipo di avvenimento accaduto la sera prima e ne fui sollevata. Almeno ora ero certa che la mia memoria non era del tutto andata.
“Good morning, my little angel”, canticchiò Jared vedendomi sveglia.
“Smettila”, mugugnai ridendo. A volte rimaneva comunque troppo dolciastro!
Rise, lasciandomi ancora un po’ aggrappata alla sua camicia da zombie con gli occhi chiusi, per rimanere immobile a ricordare quel suono.
 “Ok, oggi che abbiamo da fare?”, chiese cercando di mettersi seduto sul letto, slacciando la mia mano dai suoi vestiti.
“Abbiamo?”, sottolineai imitandolo e trovandomi pericolosamente ancora una volta troppo vicina a lui. Prima o poi avrei ceduto, ne ero assolutamente sicura.
“Vorresti abbandonarmi qui per caso?”, si finse offeso facendo gli occhi da cucciolo.
“L’idea era quella”, lo presi in giro sfiorandogli il naso come un bambino piccolo. “Sei stato un bimbo molto cattivo, Jay, ti meriti proprio una bella punizione: quindi niente merenda!”.
“Sei matta”. Sì, non te n’eri accorto?! “Non ti ha fatto bene fare la babysitter… perché ti comporti come se fossi un poppante?”.
“Riflesso involontario di fronte alla tipica ignoranza e innocenza infantile”, sorrisi professionale.
“Ignoranza e innocenza? Ignoranza e innocenza?!”, si stupì con uno sguardo all’improvviso malefico. “Te la faccio vedere io l’ignoranza e l’innocenza!”.
Mi spinse in giù e in pochi secondi mi ritrovai sdraiata sul letto, con i vestiti della serata prima, e Jared sopra di me, che non smetteva di adocchiare ogni millimetro di pelle scoperta o non.
Si allungò, riuscendo ad arrivare con il suo viso sopra il mio e mi baciò. E di certo non era un bacio tranquillo e casto… no, era uno alla Jared: ovvero stava ad indicare che non avevi più via di scampo.
“Dimmi sì o no”, mi diede un’ultima chance, come sempre dalla prima sera insieme a questa parte.
Lo guardai per qualche minuto, in silenzio, cercando una soluzione. Vicky mi avrebbe detto di pensare meno e fare di più, non c’erano dubbi, Andy avrebbe fatto una smorfia e poi avrebbe detto che se era importante perché no?
Ed io?
“Devo fasciarmi le ferite”, commentai. Primo e terzo sintomo: dire e fare cose stupide. Ok, il mio cervello non stava bene…
Mi guardò storto, per controllarmi i graffi, e storse il naso. “Giusto, me n’ero dimenticato!”.
Si alzò e si picchiò la mano sulla fronte, come se fosse una cosa di vitale importanza, e si spostò fuori dal letto. Mi diede un bacio sulla fronte e poi andò fuori a prendere ghiaccio e disinfettante.
Chiusi gli occhi, scuotendo la testa. Non potevo andare avanti così, non era giusto nemmeno per lui. Insomma… poteva pensare che non mi fregava niente di lui, che sarebbe finita presto e che era inutile fare un passo del genere.
In fondo non l’avevo davvero pensato dopo quello che mi aveva detto Andy sull’età? Davvero credevo che non sarebbe durata questa storia e che era un modo per non pensare ai miei problemi? Ero così meschina da usare i miei sentimenti e quelli di Jared per fare bene solo a me?
Il modo in cui mi abbracciava, il modo in cui ieri mi aveva difesa… no, basta dovevo decidere che fare. Non potevo andare avanti pensando che lui fosse un orsacchiotto da stringere durante una notte di incubi e temporali.
Lo guardai rientrare, sorridente. Come potevo dirgli cosa mi stava capitando nella testa? Potevo sul serio dirgli è finita?
Ora era davanti a me, a fissarmi. Era lì, potevo dirgli qualsiasi cosa mi passava per la mente. Erano due parole, no? Le avevo dette ai miei genitori, perché era così difficile dirle ad un ragazzo che conoscevo da pochi mesi?
“Ehi, che succede?”, si preoccupò pensando che fossi ricaduta nei ricordi, visto che stavo immobile e zitta. Mi sedetti sul letto, inginocchiandomi per evitare di incrociare le gambe.
Mi morsi il labbro, cercando le parole da dirgli. Ma le avevo già, erano due, erano facili: è finita.
Sarebbe successo prima o poi, quindi perché aspettare per farlo soffrire ancora di più? Perché far sentire bene me per poi far star male lui? Perché starebbe stato male, anche se non mi amava; si sarebbe affezionato ed è la cosa peggiore se la fine è certa.
Però quelle parole non uscivano. Vederlo fuori dalla mia vita era impossibile, non riuscivo nemmeno a pensarlo. Jared e suo fratello, con anche la sua band e Vicky, erano diventati il mio tutto e basta togliere un elemento che ogni cosa si distrugge. E Jared non era un elemento da poco, soprattutto riguardo alla cura per i miei ricordi.
Ogni volta che era successo c’erano stato lui a farmi tornare a galla.
“Sono una maledetta egoista”, mi accasciai mettendomi le mani in faccia e strizzando gli occhi. Sentii le cose che Jared aveva preso schiantarsi a terra e dei passi veloci arrivare verso di me.
“Che stai dicendo, Ronnie?”, disse la sua voce invisibile, mentre il tocco della sua mano stava sui miei capelli. Poi arrivò un abbraccio e cominciai a tremare. No, non doveva fare così proprio ora!
“Non… Jared…”, balbettai cercando di slacciare il suo abbraccio, lasciandolo un po’ sconvolto. “Non starmi così vicino, non cercare di vedermi come l’unica persona al mondo degna di importanza!”.
“Non cerco di vederti così, perché lo sei già”, disse come se volesse consolarmi. Oh bè, era una frana!
“No! No, Jared, no! Non devi pensarlo, smettila”, dissi allontanandomi da lui, scendendo dal letto e urtando la schiena contro il muro. “Non so che mi succede, non so che cosa provo. Ho paura che questo sia solo un mio modo per illudermi che tutto vada bene… ma niente va bene e finirò per farti del male se continui a pensare a me come la persona migliore del mondo! Io non lo sono!”.
“Non è vero, non devi pensarlo, Ronnie”, mi disse alzandosi anche lui.
“Non capisci? È stata tutta colpa mia!”, urlai in preda al panico. No, non potevo uscire di testa di nuovo. Non ero una pazza, potevo controllarmi. “I miei genitori, il divorzio, l’America! È stata tutta colpa mia, solo mia!”.
“Cosa c’entri tu con i tuoi genitori, Ronnie?! Non prenderti colpe che non hai”, mi disse abbracciandomi forte, ignorando la mia richiesta di spazio. “Non puoi permetterti di pensare che è colpa tua, chiaro?”.
“Le loro urla… parlavano di me, Jared! Non lo facevano davvero, ma era come se i suoni cambiassero e chiamassero il mio nome”, piansi lasciandomi abbracciare. Ricordai di aver pensato che ci fossero dei fantasmi, perché le voci cambiavano di continuo. “Non sono matta, vero? Non sto impazzendo, giusto?”.
“No, non lo sei, Ronnie. Non lo sei mai stata e nemmeno lo sarai”, mi rassicurò.
“Ho paura di impazzire”, confessai fermando le lacrime, stringendo a pugno la sua camicia con le mani, e affogando il mio viso nel suo petto caldo. “Ho paura di perdermi in quei ricordi…”.
“Non lo farai, Ronnie. Tu non ti perderai mai, non impazzirai mai”, si staccò un attimo guardandomi negli occhi. Azzurro nello smeraldo. Io dovevo fidarmi di quell’azzurro.
Il suo volto si fece calmo, cosicché lo imitai respirando forte e aprendo le mani, creando un sorrisone. “E poi non potrei mai finirla, neanche se tu fossi matta”.
“Dovresti”, consigliai. Gli stavo dando l’opportunità di scappare? Ma che aveva di strano il mio cervello? Un’idea coerente, no?!
“Ti amo troppo per lasciarti andare”, mi disse come se fosse niente.
“Ripetilo”.
“Ti amo troppo per…”.                                
“Anch’io ti amo”, lo fermai sorridendo. “E l’unica cosa che potrebbe portarti via sarebbe la cura ai ricordi… ma farò in modo che non arrivi mai”.
Sorrise sghembo, con un effetto molto sexy, e mi baciò.
 

....
Note dell'Autrice:
Sì, ora cominciamo ad addentrarci meglio nei ricordi di Ronnie, del perchè ce l'ha tanto con i suoi eccetera. Sì, ora cominciamo a vederla fare a pugni (Hell Yeah!). Sì, ora cominciamo a vederli fare sul serio. Ma... non preoccupatevi, non dovrete attendere a lungo per importanti sviluppi (If you understand what I mean xD)
Va bene, ora mi dileguo, e vi lascio in pace. Bacioni e grazie a tutte le anime pie che leggono/recensiscono/pubblicano il link sulle loro pagine (vi adoro) o che si ricordano di questa storia. You're a big part of me, babies *-*

Ronnie02
 

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Capitolo 12
*** 25th God's first, 26th my birth ***


HO AGGIORNATO! Echelon non sapete che faticaccia trovare tempo per aggiornare, ma eccomi qua. Ci sono e il capitolo è lunghetto, per vostro piacere (spero xD). E' arrivato il gran momento, è un capitolo abbastanza importante e il titolo... bè, la DivaH è sempre la DivaH (leggendo capirete :D)
Quindi... buona lettura.


Chapter 12. 25th God’s first, 26th my birth!





“Devi stare calma”, continuava a sussurrarmi Jared all’aeroporto, il 18 dicembre. Ricorda qualcosa? Oh sì, Andy arrivava a Bossier City per le vacanze natalizie!
Stavo saltellando sul posto, accompagnata da Jared e Solon che non riuscivano a farmi stare ferma. Era toccato al povero chitarrista fare da spalla a Jared, visto che suo fratello se l’era filata e Vicky non aveva ancora il mio permesso di conoscere i Leto. Sì, mi stava davvero odiando, quindi avevo deciso che le li avrei presentati dopo Natale, visto che era andata a New York con Lucy per farsi un giro pre-università.
“Sì, certo, vallo a dire a qualcun altro”, disse Solon guardandomi e scuotendo la testa. “Questa nemmeno ti sta guardando”.
“Ehi!”, gridò offeso, ma appena notò che non lo avevo minimamente difeso ma stavo decisamente su un altro pianeta, si zittì e capì che era meglio tacere. Solon aveva ragione: ormai contava solo il tabellone che dava le notizie sull’aereo di Andy.
Mancava poco, pochissimo, ormai era praticamente qui. Non potevo ancora crederci… e questa non arrivava!
“Perché non arriva? Perché non arriva? Perché. Non. Arriva?!”, continuai a chiedere facendo sclerare del tutto Solon.
“Ok! Io vado a prendere qualcosa da mangiare!”, cercò di dileguarsi.
“No!”, lo fermammo io e Jared. Lui perché aveva bisogno di un sostegno morale al mio momentaneo abbandono, io perché dovevo avere attorno persone normali per non andare in completo stato di demenza. Non poteva abbandonarci qui!
Ma la nostra voce fu poco coperta da quella dell’altoparlante, la quale affermava che…
“E’ atterrato! E’ atterrato, è atterrato!”, urlai facendo voltare delle persone. O fottetevi stronze! Io ho voglia di urlare e lo faccio!
“No, ti prego”, si lagnò Solon. Se continuava così sarebbe diventato antipatico in pochi secondi. Lo guardai male e capì che doveva stare zitto, mentre Jared cominciava a ridacchiare. Guardai anche lui, cercando di capire che cavolo c’era di così divertente.
“Bè, ma che bella accoglienza! Nemmeno mi consideri”, sentii una voce che conoscevo fin troppo bene e che ero stanca di sentire solo al telefono. “Allora, vuoi che torni a Francoforte?!”.
“Andy!”, urlai girandomi ed abbracciandola di colpo, facendole cadere la borsa, mentre Solon faceva il gentile prendendole la valigia. Lei ringraziò tra le mie braccia e cercò di sganciarsi per respirare. Ah, bella battuta! Non ci doveva pensare nemmeno.
“Tesoro, io ti voglio tanto bene, ma se poi mi uccidi la colpa è tua”, scherzò cominciando a farmi il solletico, sapendo che così sarei saltata in aria e si sarebbe liberata. E infatti aveva ragione.
“Ah!”, gracchiai spostandomi e andando a finire vicino a Jared. Lei mi guardò curiosa, sapendo benissimo dove voleva farmi arrivare. Lo stava praticamente squadrando da capo a piedi e la sua espressione diceva una cosa sola, conoscendola: ottimo lavoro, bella mia!
“Piacere, Jared Leto” si presentò da solo visto che io mi ero imbambolata. Idiota…
“Piacere tutto mio. Andy Mercia”, disse non insistendo molto sul cognome, visto che lo odiava particolarmente. Non era abbastanza internazionale, diceva lei.
“Ehm… Solon Bixler”, si presentò l’ultimo dandole la mano. Lei ricambiò e poi si rimise a posto la borsa.
“Possiamo andare?”, chiese facendomi annuire. Cominciammo a camminare verso l’uscita, senza smettere un attimo di parlare. Non la vedevo da troppo, ma sapevo che non avremmo mai parlato lì o in macchina di quello che realmente le importava.
Dovette arrivare la sera, quando Colui-Che-Non-Doveva-Sentire se ne andò da casa mia, lasciandoci beatamente da sole a guardarci negli occhi, senza prendere realmente la parola.
Scoppiai a ridere isterica, presa d’improvviso da quello strano silenzio. Di solito non ci fermavamo un secondo.
“Allora è lui il famoso Jared Leto”, cominciò lei, molto diretta al punto, come al solito. Ricominciai a ridere, sentendomi tanto Shannon in quel momento. Dai, non potevo finire come quel pazzo, dovevo fare la seria.
“Già, ecco il famoso Jared Leto”, ripetei facendola sorridere.
“Sul serio? Sai dirmi davvero solo questo?!”, mi insultò ridendo e cercando qualche informazione in più. Ok, lo meritava. In fondo non avevo fatto altro che parlare di lui mentre a lei fregava più di altro, per esempio se mi ero ambientata nella società americana e balle varie.
“Ok, ok. Dimmi che vuoi sapere”, dettai legge.
Lei si mise comoda, sorridendo particolarmente spietata, e si schiarì la gola, come se dovesse fare un discorso superimportante.
“E’ supercarino, questo lo devo ammettere”, cominciò con la descrizione dettagliata. Bene! “Cavolo ha degli occhi da fare invidia agli angeli ed un faccino che ucciderebbero in molti per averlo! E poi ha un bel fisico. Insomma facciamola breve. Ha tutto perfetto, tranne un piccolo particolare”.
“Lo so, è un po’ troppo grande, me l’hai già detto”, mi preparai io, sapendo dove volesse arrivare. A parte che l’aveva visto anche troppo bene. Oh, quello era il mio ragazzo! “Ma ti prego non soffermarti su questo!”.
“Infatti non mi interessa dell’età, quello verrà poi, quando parlerete di cose serie ed importanti. Parlo di quello che evidentemente prova per te”, mi spiegò meglio stupendomi. Che voleva dire? “Vero, vacci piano, okay? È totalmente preso e devi stare attenta”.
“Andy so che vuoi dire”, dissi sorridendo e abbassando gli occhi, vergognandomi un po’. “E’ già successo: ho già dato di matto in sua presenza. Ma non importa: lui mi aiuterà, me l’ha promesso”.
“Non intendevo dire che sei matta, perché non lo sei. Ma volevo solo dire che non devi mollare tutto perché hai paura di essere egoista. Sai che lo farai ma non ci devi nemmeno provare. Soffrireste tutti e due!”.
“Ecco…”.
“No”, ridacchiò risollevando il morale. “Non ci posso credere! Lo volevi proprio mettere alla prova, Vero, no?”.
“Senti, piccola presuntuosa, tu mi stai facendo troppe domande, il che vuol dire che mi nascondi qualcosa! Qualcosa di grosso oltretutto!”, mi imposi cambiando argomento e prendendola in pieno. Ah ah! Ora mi vendicavo.
“Non pensare che sia qualcosa di romantico, ma è solo ambito lavorativo”, cominciò a introdurre la novità facendomi un po’ spaventare. Che?! “Mi… hanno dato la parte di protagonista per lo spettacolo di mezzo anno!”.
“Cosa?! È fantastico, Andy!”, esultai, cominciando a urlare con lei manco fossimo delle quindicenni che hanno dato il loro primo bacio. Mi facevo schifo da sola.
“Non te l’ho detto perché volevo vederti”, si scusò sorridente.
“Tranquilla, sono felicissima! Dio, sarai bravissima, te lo giuro!”, le promisi. “Però vorrei essere lì con te”.
“Ed è qui che ti sbagli!”, mi riprese facendomi incuriosire.“Veronica McLogan tieniti forte e apri bene le orecchie perché questa notizia ti sconvolgerà la vita! Il musical si terrà a… New York!”.
“A New York?! Stai scherzando?! È fantastico!”, urlai di nuovo, ma guardandola capii che non era finita. “Che succede?”.
“E se tutto andrà bene…”.
“E se tutto andrà bene?”, non la lasciai finire, super agitata.
“Mi trasferiscono con una borsa di studio alla scuola più importante di Danza, Musica e Recitazione di New York per finire gli studi!”, mi annunciò solenne lei, per poi finire sepolta da un mio abbraccio.
“Oddio Andy! Devi andare superbene, devi lasciarli a bocca aperta, devono mangiare le mosche!”, dissi così velocemente che quasi non capii io stessa cosa avevo detto.
“Mi serve il tuo aiuto per il ballo però”, strinse le labbra, come se stesse chiedendo il mondo alla persona più povera dell’universo conosciuto e sconosciuto.
“Questa vacanza è finita”, dissi triste, facendola andare in panico. Poi sorrisi e gridai: “Forza pigrona, siamo già in ritardo di una giornata! Al lavoro!”.
Lei rise e si alzò, andando verso la borsa. “Mi hanno già dato i passi delle coreografie: dacci un’occhiata”.
Prese i fogli, ovvero un bel mazzo di fogli, e me li lanciò. “Però… leggeri!”.
“Pensa che devo impararli tutti a memoria”, sorrise.
“Ce la puoi fare”, conclusi io guardando lo script del musical. Non era così difficile da ricordare e le coreografie non erano impossibili. “Dai, è credibile. Domani ti faccio vedere tutto, imparerai in un attimo”.
“Lo spero”, sussurrò preoccupata.
“Andy… che ti serve un’amica ballerina e schizzata se non la puoi usare nei momenti di bisogno?!”, scherzai “Fidati di me”.
“Mi fido”, disse abbracciandomi. Aveva paura, lo vedevo. Aveva paura che il musical finisse in disastro e che New York rimanesse un sogno. No, dovevamo farcela, non era difficile.
Era il nostro sogno, e noi dovevamo solo crederci. Guardai i nostri tatuaggi e sorrisi. Sì, crederci.
 
“Uno, due, tre e quattro”, contai dandole il ritmo. “Abbassati Andy, più veloce. Brava… cinque, sei, sette, otto”.
“Vero, ti prego sono stanca”, supplicò ridendo fermandosi. Io mi voltai, spengendo la musica e guardandola male.
“Cosa?”.
“Lo so, non dobbiamo fermarci finchè non è perfetto ma io non ho la tua resistenza e sto per morire di stanchezza”, ridacchiò facendo la ruffiana e facendomi ridere. “Fammi vedere come si fa!”.
“Tutta?”, chiesi sbuffando e rimettendo da capo la canzone. Lei annuì e io sorrisi, mettendomi in posizione.
Le note del pianoforte cominciarono a suonare e nella mia testa iniziarono a farsi sentire i numeri. Uno, due, tre e quattro; cinque, sei, sette e otto! Reapet! Uno, due, tre e quattro…
I piedi cominciarono a diventare leggeri, la testa perdersi nel suono e gli occhi chiudersi per concentrarsi. Avevo fatto quella coreografia per un saggio, al mio terzo anno di danza. Certo, la versione che Andy doveva fare era più facile visto che doveva anche recitare nel mentre, ma avevo insistito a fargliela imparare tutta. Ci avrebbe fatto bella figura!
“Cazzo se è brava!”, sentii dire e mi distrassi. Dalla trottola che stavo facendo persi il controllo e, muovendo le braccia per fermare la caduta, mi ritrovai per terra con la mano stortata. Merda!
“Oh, mio dio Ronnie, come stai?”, mi venne subito vicino Jared mentre Andy ridacchiò, spegnendo la musica. Quanto la odiavo in quel momento!
“Sto bene, Jay, è solo una slogatura. Mi serve una fascia”, controllai muovendo il polso. Che male!
“Come fai ad esserne certa? Potrebbe essere rotto”, si preoccupò inutilmente mentre Andy entrava in casa a prendere ciò che serviva. Notai dietro di Jay la figura di Solon mentre si scusava e gli sorrisi, come a perdonarlo. In fondo non aveva fatto niente di male.
“Jared mi sono slogata il polso o le caviglie così tante volte da stabilire un record: fidati è una slogatura”, risi facendomi aiutare ad alzarmi con l’altra mano e tenendo quella stortata sullo stomaco.
Andy arrivò e mi passò le cose. Pulii le mani, misi la pomata e mi fasciai il polso. Più semplice di così!
“Due giorni ed è a posto, niente di grave”, tranquillizzai tutti con un sorriso. “Ho visto di peggio”.
“Due giorni? Ma oggi è il ventiquattro di dicembre!”, si lamentò Jared sconfortato. E già, era già arrivato quasi Natale. O meglio era già arrivato quasi il suo compleanno!
“E questo vuol dire che…?”, chiese Andy sorridendo, mentre Solon continuava a fissarmi disperato la mano.
“Alla festa avrà una mano fasciata”, spiegò con il labbruccio triste. Oh, povero Jared, che dramma! Io risi.
“Saprai riconoscermi”, risposi semplicemente. Giusto, la sua festa in maschera per il suo Natale-compleanno non poteva essere rovinata! Ci avevamo lavorato giorno e notte, sui dettagli e sugli invitati. Alla fine la regola era semplicemente venire mascherati e Shannon aveva mandato l’invito all’intera Bossier City. Persino Constance aveva ricevuto la lettera… che ovviamente riconsegnò al figlio pregandolo di non farlo mai più. Aveva riso, ma colsi nella sua voce l’istinto omicida che lo terrorizzava.
“Sì, certo!”, commentò lui abbracciandomi e baciandomi la testa. Perché lo stronzo era più alto di me? Mi sentivo tanto nana…
“Gente!”, urlò il vero nano. Oh, era arrivato Shannon! “Gente, gente, gente non sapete la novità!”.
“Dicci”, rispose Solon quando Shan arrivò da noi, salutando tutti con la mano. Andy gli sorrise, sentendosi un po’ estranea. Avevo fatto di tutto per farla inserire e pian piano ci stavo riuscendo. Ai ragazzi piaceva.
“Forse ci hanno ingaggiato per una festa a Capodanno. Ci spiegano tutto tra qualche giorno. Ehi, ma che ha fatto la rossa?”, si distrasse come al solito notando la mano appena fasciata. La rossa… mi chiamava così da quando aveva perso una scommessa e l’avevo cominciato a chiamare nano. Povero, non era colpa sua…
“Solon ha fatto apprezzamenti inopportuni”, spiegò Andy sorridente mentre il chitarrista avrebbe preferito nascondersi sotto terra.
“Stavo ballando e non l’ho sentiti arrivare”, lo difesi riprendendo l’attenzione di Shannon. “Tranquillo, non è rotto”.
“No, vuoi dirmi che mi sono perso la grande Ronnie ballare?”, si chiese stupito. “Non potevate chiamarmi, brutti…?”.
Diede una sberla sul collo a Jared e cominciarono a rincorrersi come bambini, come al solito. Io andai vicino ad Andy e Solon si aggiunse a noi.
“Quando la smetteranno?”, si chiese a voce alta scherzando.
“Mai, Solon. Non la smetteranno mai”, sorrisi guardandoli mentre Jared si nascondeva dietro un albero e Shannon inciampava per terra.
Quella sera mangiammo tutti a casa mia, senza di nuovo Kevin – ormai stava con noi solo nelle prove della band – che si era dato per malato, e parlammo di qualunque cosa ci capitasse in testa.
Saltò fuori che anche Andy aveva visto Requiem For A Dream            e Jared ovviamente cominciò a fare il grandioso su come fosse stato un mito nella recitazione. Andy era interessata, può che altro per capire le differenze tra cinema e teatro e dei consigli su come ricordare le battute.
“Fino a quando resterà qui Andy?”, mi chiese Shannon mentre lei stava ancora ciarlando con il fratello.
“Credo che resti fino a dopo Capodanno. Già il tre ha lezione, quindi non molto”, gli riferii triste. Maledetta scuola con strani orari e vacanze!
“Oh, così poco…”, divagò senza darmi una vera ragione per il suo interesse improvviso.
Scrollai le spalle e parlammo di altro. A quanto pare Jared aveva deciso di parlare con Kevin e dirgli che cosa voleva fare. In fondo il legame si stava spezzando e quando pensavano ad un possibile tour, l’idea di averlo vicino ogni santo giorno non era così eclatante.
“Non è parte integrante della band, è come se avesse un entità propria”, mi spiegò Solon mentre Shannon e Jared annuivano completamente d’accordo.
E così, passammo la serata, mangiando e chiacchierando. Il giorno dopo Andy, come Vicky ad Halloween, mi aveva proibito di mostrarmi a Jay prima della festa, perciò l’ “addio” di quella sera fu abbastanza lungo. Tanto che tra un po’ Shannon ci sparava con una mitragliatrice e Solon si tagliava le vene con la carta.
Insomma ci saremmo preparate tutto il giorno e già alla sera il bagno era pronto, con trucchi e pettini, per entrare in azione. Ci mettemmo a letto, continuammo a parlare un po’, e poi ci addormentammo beate.
Mancavano sette o otto giorni alla sua partenza e mi sembravano fin troppo pochi. Avevo bisogno di lei…
“Sveglia pigrona!!”, mi urlò nell’orecchio quella voce che in quel momento avrei strozzato con forza. Dio mio, che risveglio gratificante!
“Andy potrei uccidere messa come sto, quindi evita di urlare”, l’avvertii mentre lei si metteva a ridere. “Non è divertente!”.
“Sì che lo è perché ho il modo perfetto di svegliarti”, disse tirando fuori il telefono come se fosse un’arma. “Una bella foto di una Ronnie appena sveglia piacerà a Jared!”.
“Mi ha già vista appena sveglia, idiota”, la presi in giro.
“Sì ma non come ti ho conciata ora!”, rispose malefica. Oddio, che mi aveva fatto?!
Mi alzai di scatto e mi precipitai nel bagno. Che diavolo…? La pelle era pulita, gli occhi erano stanchi ma normali, la tuta-pigiama era a posto i capelli non perfetti ma non orripilanti. Quindi… oh, ora capivo.
“Ma lo sai che non sei affatto simpatica?”, dissi camminando lentamente tornando i camera e guardandola male. E mi stava già facendo il letto, sicura che mi ci sarei riaffondata di nuovo!
Ma io avevo sonno…
“Sì, come no, ora muoviti, c’è molto lavoro da fare!”, mi disse indicandomi la sedia. Perché tutto mi ricordava la sera di Halloween? Non potevo essermi fatta incastrare per due volte di fila, dai! Non ci credevo, dovevo essere più furba!
“A patto che non passiamo tutta la giornata chiuse in casa o ti uccido”, convenni.
“Alle nove dovremmo essere dai ragazzi quindi staremo qui solo un pezzo di mattina, visto che la dormigliona ha dormito fino alle dieci e mezza, e un bel po’ del pomeriggio”, mi spiegò.
“Ovvero tutta la giornata, e quindi io ti uccido”, risposi tranquilla, ma sedendomi sotto i suoi ordini e guardandomi allo specchio. Si vedeva che ero appena sveglia, ragazzi! “Aspetta, ma la colazione?”.
“Sono le dieci e mezza e tu vuoi fare colazione?! Non puoi aspettare due ore e pranzare?”.
“No!”, mi arrabbiai. Lei ridacchiò, cosa che mi fece capire che non avevo possibilità di vittoria, e andò avanti con il suo lavoro. “Come ti trovi qui, Andy?”.
“Cosa?”,  mi domandò stupita della domanda.
“Niente, ti chiedevo soltanto come andava al vacanza, se va tutto bene”, commentai sorridendo. “Ho paura di vederti esclusa e che il mio tempo con Jared mi impedisca di passare una vera vacanza con te”.
“Cosa?! Stai scherzando? Secondo me quel povero ragazzo pensa che tu lo stia evitando! E comunque sto benissimo, i tuoi amici sono davvero favolosi”, mi rassicurò. Bene, ero più tranquilla. “Insomma, Jared è bellissimo e a modo suo è il ragazzo giusto per te: tenero, non troppo appiccicoso, ribelle, fantasioso e soprattutto canterino. Solon è davvero simpatico, mi fa sorridere ed è così timido! Come ieri che ti sei fatta male; avrebbe preferito morire!”.
“Sì, si preoccupa un po’ per tutto. Anche se a volte invece parla senza pensare”, scherzai. “Ma deve sempre trovare il modo per far tornare tutto al suo posto, fosse l’ultima cosa che fa”.
“Immagino”, rispose. “E poi c’è Shannon, no? È molto carino, voglio dire ci tiene a te… e anche a suo fratello! Molto più di quanto lo dia a vedere a parere mio. E la band… credo che per lui sia tutta la vita, o sbaglio?”.
“No, dici benissimo. Jared è il suo fratellino, e anche quando fanno la lotta lo vede piccolo e bisognoso di attenzioni o si fa male. Lo prendiamo in giro spesso per questo! E la band… Shannon morirebbe per la band”, spiegai sorridendo. Shannon era il mio appoggio, il sorriso vivente che mi tirava sempre su di morale.
“E poi… non ho mai visto questo Kevin!”, si disse da sola, finendomi di truccare gli occhi. Aveva messo un ombretto leggero, sul marroncino pelle brillante, e molto mascara e eye-liner. Bè, i miei occhi erano assolutamente perfetti ora.
“Non è mai stato molto presente”, chiusi il discorso in fretta.
“Vero, sai che io sono realista e questo ti potrà anche mettere tristezza, ma te lo devo dire… ti stai affezionando troppo”, sputò il rospo Andy guardandomi come se mi avesse confessato di aver ucciso qualcuno.
“Che vuoi dire?”.                                            
“Voglio dire che sono bravi, sono davvero bravi a quanto mi dici. E vista la tua passione per la musica e ha capirla davvero mi posso fidare del tuo parere. E se tornassero a Los Angeles tra poco? E se davvero facessero strada?”, mi spiegò.
“Non cambierebbe nulla, Andy”, le spiegai con calma, evitando di pensare a un Jared lontano da me, a chilometri e chilometri di distanza.
“Sei sicura?”.
“Ne sono totalmente certa, stai tranquilla. Non cambierebbe niente e comunque non voglio farmi problemi per poi dirgli che tanto vale finirla qui”, le risposi e lei annuì.
“Sì, hai ragione”, sorrise e finì il viso. “E per fortuna, perché se tu lo lasciassi a cosa servirebbe tutto questo mio lavoro?!”.
“A niente, quindi muta”, ridacchiai e lei rise con me, continuando a riprendermi e a dirmi di stare ferma: toccava ai capelli ora!
 
“Sei fenomenale”, mi sussurrò Jared all’orecchio, abbracciandomi.
Eravamo arrivate nella “casa degli spettri” di proprietà dei Leto verso le nove e mezzo ed era quasi tutto pronto.
“E non hai ancora visto il vestito”, feci l’occhiolino, slacciandomi da lui e correndo via, verso Andy che stava parlando a Solon di come vedeva la stanza.
“No, quella decorazione lì fa schifo”, continuava a dire, mentre il povero chitarrista continuava a spostare tutto da un angolo all’altro. Shan intanto era seduto a guardare. Mi sedetti accanto a lui, seguita dal mio cagnolino personale dagli occhi di ghiaccio.
“Pronto a festeggiare?”, chiesi sorridendo.
“No, se quello da festeggiare è mio fratello”, lo prese in giro guardandolo male mentre io scoppiai a ridere.
“E chi ti dice che noi festeggiamo lui?”, gli chiesi seria. Jared fece una faccia shoccata e cominciò a deprimersi. “Noi festeggiamo Natale, bello mio!”.
“Giusto, Natale…”, si disse mentre faceva un segno a Jared e improvvisamente persi la vista. Bene, ora avevo un motivo per ucciderli!
“Mollatemi, o vi tirò così tanti calci da farvi andare all’ospedale”, dissi cercando di uscire dalle grinfie del mio ragazzo che con una mano mi teneva ferma e dall’altra mi oscurava la vista.
“Merry Christmas, Ronnie!”, urlò Shannon e suo fratello mi liberò, facendomi vedere un nanetto, con Solon e Andy di fianco a lui, con una scatolina in mano. No, non era possibile.
“Sappiamo che l’accordo era niente regali a Natale, al massimo a Jay perché se no si mette a frignare”, cominciò Solon scherzando.
“Ma non potevamo passare il primo Natale insieme senza nemmeno lasciare un ricordo tangibile per la miglior amica, fidanzata, cantante, pazzoide che conosciamo”, finì Shannon porgendomi la scatolina.
“Oddio, voi siete tutti matti!”, risi con le lacrime agli occhi. No, non potevo piangere, ero truccata! No, Ronnie contieniti.
Aprii la scatola e ci ritrovai due orecchini pendenti formati ognuno da una piccola cascata di fili o dischi d’argento. Sui cerchi, in particolare quattro, erano incisi i simboli della band.
“Buon Natale marziano, Ronnie!”, esultarono tutti, mentre Andy sorrise e mi venne ad abbracciare, sapendo che avevo le lacrime agli occhi. Erano stati troppo carini!
“Te l’ho detto che hai degli amici meravigliosi”, sorrise lei sussurrandomi all’orecchio. “Ma tu osa rovinarti il trucco e sei morta”.
Risi e poi andai ad abbracciare anche i ragazzi.
“Dio, Shannon, io ti adoro!”, confessai stringendolo forte per qualche minuto, in cui lo sentii ridacchiare.
“E Solon! L’immancabile Solon… grazie davvero”, continuai mentre lui mi avvicinava.
“Tu… tu sei un brutto figlio di puttana, scusa Constance, che non mi hai detto niente!”, finii indicando Jared, che sbuffò facendomi ridere. Sì, un po’ ero ingiusta dai. “Ma sei il migliore, perché ti amo e quindi ho la gran pazienza di perdonarti”.
Mi buttai fra le sue braccia in meno di trenta secondi e lui mi cinse i fianchi, per quello che poteva visto che era ancora seduto sul divano. Poi mi spinse giù con lui e cominciò a farmi il solletico.
“Adesso che cos’è che sono?!”, richiese cercando di farmi paura. Ma, sfortunatamente per lui, non ci riusciva affatto.
“Oh, mio Dio, che paura! Davvero Jared, abbi pietà di me”, tenni il gioco con una recitazione così pessima da far scuotere la testa ad Andy, che rideva felice.
“Sì, va bè, noi torniamo a lavorare”, ridacchiò Solon facendoci un cenno di saluto e portandosi via Shan e Andy. “Quando avete finito fateci un fischio”.
Risi e mi tolsi di dosso Jared, che si spostò i capelli con la mano e mi sorrise, con quegli occhi da far invidia ad un angelo. Maledizione!
“E ora che hai?”.
“Sei bellissima… sul serio”, disse avvicinandosi e baciandomi leggermente, toccando per qualche secondo le mie labbra ma ritraendosi subito dopo. “Non li metti?”.
“Sì, certo”, dissi sorridente, prendendo la scatolina e guardando ancora una volta quei pendenti. Erano bellissimi.
Mi voltai un secondo a controllare tutti quanti, come a cercare di spiegare loro con uno sguardo che li adoravo troppo, e poi mi misi i gioielli in fretta e attenzione. Bene, non erano nemmeno pesanti.
“Sono perfetti Jared”, sorrisi scuotendo la testa e sentendo il tintinnio dei dischi sui fili. “Quando li avete presi?”.
“Prima di andare al cinema per vedere Requiem For A Dream. Li ho visti in una vetrina e non potevo non prenderli”, mi spiegò. Cavolo, da quanto tempo me l’avevano tenuto nascosto quei pazzi? “Così gli ho comprati e Shannon ha dato l’idea dei simboli. Solon li ha portati a far incidere e io sono andato a prenderli. Non sapevo quando regalarteli e visto che ci avevamo messo tutti del nostro abbiamo deciso che Natale sarebbe stato perfetto, no?”.
“Sì, completamente perfetto”, dissi dandogli un bacio veloce. “Ti amo, Jay”.
“Ti amo, Ronnie”, sussurrò, mentre una risata mista ad un urlo si levò nell’aria, colpendo i nostri sensi.
Ci voltammo e notammo i nostri tre amici ridere come dei matti: Solon aveva le decorazioni per la casa addosso e Shannon teneva in mano un barattolo di colla liquida quasi come arma. Erano tutti e due contro Andy, che cercava di trovare una via di uscita.
“No, vi prego, scherzavo! Scherzavo, vi supplico, scherzavo”, rise scappando via appena Solon cominciò a rincorrerla. Riuscirono ad acchiapparla e in quel momento i suoi vestiti diventarono tutti appiccicosi e brillanti. Shannon l’aveva incollata tutta e Solon aveva sfilacciato tutti i fili brillanti su di lei per far cadere gli aghetti colorati.
Mi guardai in giro, mentre Jared mi cinse i fianchi e cominciò a ridere con gli altri. Tutte le decorazioni erano completamente cambiate, tutti i mobili spostati. Oh, Andy aveva osato dire che non la convinceva!
“Se in questo momento avesse avuto addosso il vestito sareste entrambi già sotto terra senza la testa”, li avvisai ridacchiando mentre Andy si alzava, cerando disperatamente di togliersi gli aghetti, ma muoveva la colla e le finirono sulle mani. “Stai ferma o combinerai un danno!”.
Andai da lei e le stoppai le mani, mentre mi guardava triste e sull’orlo della crisi isterica. Oh, povera Andy, lei che odiava la colla…
“Ragazze, andate a cambiarvi, tra poco arriveranno gli invitati e non avendo la minima voglia di rispostare tutto, siamo a posto”, ci invitò Shannon sorridendo.
“Voi non vi cambiate?”, chiese lei stupita.
“Noi ci mettiamo la metà di voi, quindi, filate!”, ci ricordò Jared ridendo e cacciandoci dalla sala. E poi ero io quella antipatica! Ma pensa te questo!
Scuotendo la testa andammo nelle camere di sopra, dove avevamo poggiato i vestiti, e pian piano ci aiutammo a metterli. Andy li aveva proprio scelti complicati!
Il mio soprattutto: era un vestito lungo, a doppia stoffa. La prima era sul marrone grigiastro, ma si apriva a triangolo sulla gonna e sulle braccia mostrando la parte azzurra. Non aveva le spalline, ma era chiuso sulla parte inferiore delle spalle con una scollatura orizzontale, e le maniche erano strette, come il bustino chiuso a stile ottocentesco con i nastri intrecciati davanti. Sotto ovviamente mi toccò mettere dei tacchi, ma evitai di pensarci. Alle mani e al collo comunque nessuno mi impedì di mettere i miei milioni di accessori, che ora c’erano anche sulle orecchie grazie al regalo di Natale.
Lei aveva un vestito più regale, anche se non molto più lungo del mio, color bordeaux rifinito di pizzi finto oro. Aveva le spalline leggere, collegate alle maniche strette con la fine larga, da tipica strega.
“Ore?”, chiesi quando sentii la musica pompare dal piano di sotto. Okay, dovevano essere arrivati tutti quanti.
“Ora di scendere, bella mia. Si festeggia!”, sorrise spingendomi e facendomi camminare. Risi e scesi di fretta in salone, dove c’era così tanta gente che appena mi voltai, non vidi più la figura di Andy. Dove cavolo si era andata a cacciare?!
Cinque secondi prima era dietro di me e subito dopo era sparita. Puf!
“Hai la mano steccata, hai i capelli rossi, hai gli orecchini e niente maschera”, mi sentii dire dalla voce migliore del mondo. La voce che avrei riconosciuto ovunque anche dopo vent’anni di assenza. Ovviamente, Jared. “Sei totalmente riconoscibile”.
Ma anche lui lo era: si era vestito veramente elegante, ma in faccia non aveva niente, come me. Ero riuscita a convincere Andy di evitarlo, visto che non era una sera per rimorchiare. Il mio obiettivo lo avevo già.
“Oh, ha parlato Mister Miglior Maschera dell’Anno”, scherzai sorridendo e abbracciandolo forte.
Lui mi strinse, ridendo, e cominciò a muoversi lentamente, in quel che sembrava una specie di danza. “Ehm… ecco…”.
“Che c’è?”, chiesi alzando la testa e notando il viso disperato di lui tendere all’imbarazzo.
“Non so ballare”, sussurrò piano, quasi che non lo sentii nemmeno, mentre abbassava gli occhi, cercando di non farsi vedere.
Gli presi una mano e me la misi sul fianco, sorridente e cercando i suoi occhi, poi agguantai l’altra e la portai in avanti, con la mia. Lui alzò gli occhi, stupefatto, e cominciò a guardare curioso cosa facevo.
Poi cominciai a muovermi. E uno, due, tre e quattro, e giro.
“Che cos’è?”, chiese mentre lo facevo ballare un po’. Peccato che i ruoli erano un  po’ diversi, visto che di solito è l’uomo a guidare.
“Un perfetto walzer per una festa in maschera, my Lord”, scherzai attaccando con la musica la nuova ballata. Uno, due, tre via, e ricomincia.
“Dovresti dare lezioni a pagamento”, mi consigliò seguendo i  miei passi. Andava benone, visto che riusciva a non pestarmi i piedi come invece era capitato. Oh sì, che era capitato!
“Tra te ed Andy diventerei subito milionaria allora”, lo presi un po’ in giro facendolo imbarazzare. Sorrisi e mi accucciai sul suo petto. “Ma non sei affatto male”.
“Mamma ci voleva obbligare a prendere lezioni di ballo prima delle feste scolastiche”, mi raccontò senza uno scopo preciso. “Ci siamo sempre salvati, in qualche modo. Una volta era riuscita a portarci fino ai corsi ma poi siamo riusciti a scappare, facendo finta che Shannon avesse sbattuto la testa e perso la memoria”.
“Vostra madre è una santa”, risi.
“E tu pensa che lo portò pure all’ospedale tanto eravamo stati bravi! E quando il dottore capì l’inganno ci sostenne dicendo che sarebbe passata nel giro di poche ore”, continuò. Sentivo il suo petto alzarsi e abbassarsi, seguendo il suono della sua risata. “Anche lui odiava il ballo”.
“Siete delle pesti! Lo eravate e continuerete ad esserlo, Constance ha perfettamente ragione!”, ricordai una vecchia conversazione con la donna. Era una santa, avrei continuato a dirlo in eterno.
“Seriamente, ci immagini con le ballerine ai piedi e il tutù?”, scherzò facendomi scoppiare a ridere immaginandomi la scena. Oddio mio, non avrei dormito quella notte vedendomi i Leto, soprattutto quella massa muscolosa di Shannon, stare sulle punte con il tutù e ballare in giro.
“Non avresti mai dovuto dirlo! Ora sì che avrò dei veri e orripilanti incubi la notte!”, risposi fermandomi, visto che la canzone era finita da un bel pezzo, sostituita da qualcosa di più moderno. Eravamo gli unici ormai che ballavano il walzer.
E ancora non avevo idea di dove fosse Andy…
“Bella musica stasera, vero?”, mi chiese Jared per trovare qualcosa da dire, mentre mi guardavo intorno.
“Sì, tuo fratello ha fatto un buon lavoro. È un bravo dj”, risposi sicura.
“No, ti sbagli”, rise. “E’ un amico di Kevin che si occupa delle canzoni. L’abbiamo invitato apposta”.
“E allora dov’è tuo fratello?”, domandai curiosa. Non era possibile! Che fine avevano fato tutti?! Andy, Solon, Shannon… c’era troppa gente.
“Sarà a rimorchiare qualcuna come suo solito”, ipotizzò prendendomi le mani e riportando la mia attenzione su di lui.
“Che ore sono?”.
La musica mi diede la risposta. Si fermò del tutto, facendo calare il silenzio, e la chiesa vicina ci fece sentire il battito delle campane. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici… dodici!
“25th God’s first, 26th my birth”, mi sussurrò Jared all’orecchio facendomi ridere. Lui e le sue solite manie di protagonismo!
“Happy birthday to you!”, cominciarono a cantare tutti lentamente, aprendo un varco dalla stazione del dj, dove c’erano tutti tranne Andy con una mega torta in mano, e noi. Era tutto scuro, con solo le candele della torta ad illuminare l’atmosfera. “Happy birthday to you! Happy birthday, dear Jared, happy birthday to you!”.
Lo spinsi veloce verso la torta e lui si mise a festeggiare con i suoi amici, mentre io lentamente mi avvicinavo. Ma cercavo soprattutto Andy… dov’era finita?! Si perdeva la parte migliore!
“Ehi, Ronnie!”, mi salutò Shannon abbracciandomi mentre suo fratello ringraziava gli altri, quasi commosso.
“Dov’eri finito?”, chiesi curiosa. Prima non c’era e poi puf! compariva. Ma che avevano tutti stasera?!
“Ero con una ragazza… sai di qualcuna che si chiama Rea?”, mi domandò sinceramente preoccupato. “Non ho riconosciuto nessuno dal viso, per via della maschera, ma aveva una voce molto familiare”.
“Rea? No, nessuna Rea”, conclusi svelta, senza notare un particolare fin troppo importante.
“Oh, va bè, tranquilla. Ora festeggiamo Jay, poi ci penserò”, sorrise, quasi deluso, guardando suo fratello venire verso di lui e, con un sorriso davvero sincero, abbracciarlo forte.
Poi si staccò e quel pazzo venne verso di me, sempre ridacchiando, e mi baciò davanti a tutti, i quali si misero ad applaudire con ogni tipo di esclamazione stupida quale aww o dolci!.
Dopo un minidiscorso da parte di Jared a tutti, ringraziandoli della partecipazione, e specialmente a noi, per essergli così vicini ed importanti nella sua vita, tutti tornarono ai loro posti, adocchiando la torta.
“E così sarei la tua Musa?”, lo presi in giro quando ce ne andammo dalla massa, avvicinandoci alle scale, riguardo quello che aveva detto.
“E’ merito tuo se esiste Year Zero. È merito tuo qualunque cosa stia provando in questo momento”, mi disse.
“Conosci una Rea per caso?”, mi venne in mente di punto in bianco, per poi scoppiare a ridere.
“Che c’entra?!”, mi chiese stupefatto scuotendo la testa con un sorriso abbastanza sconvolto. “E comunque no”.
“Oh, peccato. Cioè non peccato per me, ma per qualcun altro che mi chiedeva chi fosse perché… insomma questo qualcuno aveva sentito il nome di questa Rea e…”, cominciai a dire, ma mi fermò con un bacio.
“Hai finito di parlare a vanvera o no?”, mi derise senza realmente volerlo con un sorriso.
“Hai finito di continuare a staccarti o no?”, continuai riprendendo a baciarlo. Lui ridacchiò sulle mie labbra e poi non fiatò più per alcuni istante. In realtà entrambi i nostri respiri andarono a farsi benedire per alcuni momenti.
“Vieni con me”, mi disse prendendo la mia mano e portandomi nell’oscurità della scale. Era già la seconda volta… avrebbe dovuto aggiornarsi!
Salimmo di sopra, dove  sapevo c’erano le camere, ma le luci erano tutte spente e mi ci volle un attimo ad abituare i miei occhi al buio. Ma quando questo accadde Jared mi aveva già portata dentro una delle due camere ed aveva chiuso la porta a chiave.
“Sei proprio un bambino cattivo, Jay”, lo presi in giro capendo le sue intenzioni. E no, stavolta il mio cervello sarebbe andato in stand-by, lasciandomi fare quello che volevo. Ci avrei pensato più tardi alle conseguenze.
“E come pensa di punirmi, miss McLogan?”, chiese con voce roca, perfettamente malefica ed eccitante, in un certo senso.
“Oh, non lo so, ci devo pensare”, dissi mentre sentivo le sue mani salire dalle mie braccia e le sue labbra poggiarsi sul lato destro delle mie. Vicino, molto vicino.
“Facciamo che per stavolta scelgo io, ci sta?”, disse cambiando rotta delle mani e arrivando sul mio corpetto, alla ricerca del nodo magico da slegare. Lo trovò subito. “Lei mi guida a ballare, io la guido ad amare”.
“Ma come siamo poetici, mister Leto”, dissi mentre il bustino divenne più largo, implicando una discesa verso il terreno causa forza di gravità.
“L’amore… cambia le persone”, sorrise lui prima di affondare nelle mie labbra e spingermi dolcemente sul letto. Il vestito, intanto, aveva preso la strada del peccato, lasciandosi cadere sul pavimento freddo e rimanendo solo. No, poverino, gli servivano degli amici.
Rimediai subito, togliendogli la giacca e buttandomi sui bottoni della camicia, aprendoli in fretta.
Avevo le mani tremanti, mi sentivo abbastanza ridicola. Perché? Era il primo, in assoluto.
Capì in pieno, come sempre, e, mezzo nudo, fermò le mie mani con un gesto secco e rapido. Alzò il viso e mi guardò negli occhi, con un sorriso da mozzare il fiato.
“Non ti succederà niente di male”, mi promise fermando il tremore e baciandomi la testa. “Non devi avere paura”.
“Non ho paura”, continuai avvinghiandomi a lui il più possibile, sentendolo davvero vicino, fisicamente che mentalmente. “Mi fido di te”.
Sorrise, facendomi sentire chiaramente la sua risata, e togliemmo ciò che ci era rimasto addosso.
Ero sua. Sul serio, davvero, in tutti i sensi possibili e immaginabili.
Era mio. Sul serio, davvero, in tutti i sensi possibili e immaginabili.
“Happy birthday, Jay”, gli diedi un bacio, alla fine, quando ormai i suoi occhi stavamo per chiudersi, mentre mi stringeva forte contro il suo petto.
“Thanks for the awesome gift, Ronnie. I love you”, mi rispose prima di cadere nei suoi sogni con una voce totalmente sincera. Ci credetti, mi fidai. Lo amavo.
Chiusi gli occhi e lasciai che il ricordo spazzasse via i vecchi e orrendi incubi. Avevo trovato la cura.
 


...
Note dell'Autrice:
allora, sono stata brava o no?! xD Vi piace Andy, o preferite Vicky?
Bè.... io sono imparziale, amando tutti i personaggi ahahaha (No, Brad, a te ti odio lo stessso, rassegnati)
Ok, prima che io impazzisca seriamente voglio dirvi una cosa: di solito alle persone che recensiscono mando un email appena aggiorno. Se qualcuno vuole che lo faccia anche per lui/lei lasci una recensione o me lo dica via messaggio alla mia pagina di EFP. Ok? così siete sempre aggiornati *-*
Grazie mille per quelli che leggono, recensiscono o che la ricordano, come sempre. Vi adoro.

MarsHug, Ronnie02

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Capitolo 13
*** Principle of Entropy ***


CIAO GENTEEEEEEEE! Bene, devo essere sincera? Sì, quindi lo dico in ogni caso. Io.... vi amo xD Sì, vi amo perchè nonostante  la lunghezza estenuate di ogni capitolo e tutti gli eventi drammatici o meno - vedrete nel corso di questa, già ve lo dico, luuuuuuuuuuuuuuunga storia - siete sempre qui a leggere e a commentare. GRAZIE.
E ringrazio soprattutto Hellionor, margheformmars96, che recesiscono sempre. O anchee Sophie1123, che anche se non l'ho sentita queste ultime volte so che avrà tempo.... e che mi ucciderà davvero leggendo questo capitolo ;) 
E anche tutte i nuovi recensori. Vi adoro!!!
Ora vi lascio alla lettura, mi sembra giusto......*non picchiatemi*




 Chapter 13. Principle of Entropy
 




 “Pronto?”, chiesi assonnata quando il mio telefono cominciò a vibrare.
“Mi spieghi dove cavolo sei finita?!”, domandò la voce isterica di… Andy.
“Aspetta, aspetta, aspetta. Dove sono finita io? Tu dove cavolo ti eri cacciata ieri sera, bella mia?”, risposi altrettanto nervosa e preoccupata.
“Ho bisogno di parlarti adesso, per favore”, mi disse. Sembrava agitata, molto agitata… era totalmente in crisi. “E poi dovrai ovviamente dirmi tutto, signorina! Non puoi andare a letto con un Leto a caso e non dirmi niente!”
Oddio! No, non poteva essere vero! Beccata, beccata in pieno. “Di cosa devi parlarmi?”.
“Vieni a casa, non posso dirtelo al telefono e domani parto!”, gracchiò preoccupata.
“Arrivo, Andy, arrivo. Stai tranquilla, non sclerare, calmati! Fatti un bagno caldo o una camomilla, non lo so. Ma calmati”, l’avvisai alzandomi dal letto e liberandomi della braccia di Jared attorno al mio corpo, ancora nello stesso stato della sera precedente.
Lei mi salutò nervosa, d’accordo con i miei consigli, e chiuse la conversazione. Quella era la stanza in cui non ci eravamo cambiate, quindi la borsa era nell’altra stanza. Ma ovviamente Andy se l’aveva di certo portata a casa. Ma tentar non nuoce, perciò mi rivestii con l’intimo della sera prima e m’infilai di fretta il vestito. No, di sicuro in giro non potevo andare con quello.
Aprii la porta e notai quella del bagno aperta. Entrai e vidi con gioia i miei jeans e la mia camicia, con una felpa pensante, sulla sedia e il borsone con le scarpe per terra. Andy era un mito. Io la adoravo!
Mi cambiai velocemente e andai in camera a prendere ciò che avevo lasciato lì e ha salutare Jared. Però dormiva ancora, quel piccolo demonio.
“Ehi, Jay”, dissi accarezzandogli i capelli. I suoi occhi si aprirono all’istante, come se fosse partita la sveglia.
“Che c’è?”, rispose con la voce impastata dal sonno.
“Andy mi ha chiamata, ha bisogno di me a casa per non so che cosa”, lo avvisai mentre annuiva addormentato. “Vado, ti chiamo va bene?”.
“Ci sentiamo allora”, finì buttando comicamente la testa sul cuscino, stanco morto. “Ti amo, Ronnie”.
“Anche io ti amo”, gli diedi un bacio leggero prima di andarmene. “Ci vediamo oggi pomeriggio, trent’enne!”.
E così uscii di casa, velocemente, preoccupata della chiamata della mia migliore amica. Ma anche un po’ dispiaciuta: non era esattamente il tipo di risveglio che mi sarei aspettata dopo la mia prima volta.
In più in fretta possibile andai a casa e dopo una decina di minuti arrivai. Constance era fuori a sistemare il giardino, tranquilla e ignara di tutto. Mi salutò con la mano e io la imitai.
“Andy? Andy ci sei?”, chiesi quando aprii la porta di casa. E sì c’era, seduta sul divano, con le braccia attorno alle gambe. Oh no, non andava mai bene niente se ci si metteva in quella situazione. “Ehi, baby, che succede?”.
“Ieri sera sono tornata a casa presto, non volevo disturbarti, ecco… ma non mi piace stare qui da sola. Non mi sento a mio agio”, confessò liberando le gambe e facendomi sedere vicino a lei. Misi il borsone per terra e la guardai.
“Non ti ho più vista… perché sei tornata prima?”, chiesi curiosa.
“Quando siamo scese c’era troppa gente e ti ho persa. Continuavo a cercarti, ma forse era già arrivato Jared e non riuscivo a farmi sentire con tutta quella musica. Mi sono scontrata con un ragazzo e mi ha invitata a ballare”, mi raccontò, ma stoppò i miei ovviamente sorpresi commenti di sorpresa. “E’ stato carino e poi alla fine ci siamo messi a parlare fuori, lontani dalla musica. Aveva una voce che avevo già sentito… roca… e alla fine mi ha baciata”.
“Cosa?!”, mi stupì letteralmente.
“Non lo so, non stavo pensando e mi ha baciata. Poi il mio cervello si è riattivato e sono corsa dentro, andando a cambiarmi e tornando a casa, spaventata. Lui è tornato alla festa e quando le campane hanno cominciato a suonare, da perfetta Cenerentola, sono arrivata a casa. Le chiavi le avevi lasciate nei pantaloni”.
“Aspetta, aspetta, aspetta. Perché te ne sei andata così?!”, le domandai.
“Ma dai, sul serio poteva essere una cosa seria, Ronnie?”, mi chiese quasi ironica. “E’ stato solo un bacio, ad una festa, in America… volevo solo tornare a casa per pensare un po’ e per dormire”.
“Niente rimorsi? Niente ‘Vorrei tornare indietro per sapere chi è’?”, chiesi curiosa. “Non sei nemmeno un po’ interessata di sapere chi era?”
“No, va bene così”, disse tranquilla, accennando ad un sorriso. “In fondo se è intelligente capirà chi sono”.
“Che vuoi dire?”.
“Niente, lascia stare. Piuttosto, è arrivato il tuo turno di raccontare i fatti. Voglio sapere ogni cosa, ti ho fatto svegliare apposta, no?”, mi prese in giro, rischiando la morte. Cosa aveva fatto lei?!
“Dobbiamo proprio parlarne?! Dai, ti prego, non potrei raccontarti una cosa ancora più imbarazzante di questa!”, la supplicai ma la sua espressione non mi lasciava molta scelta. “Ti dico solo una cosa: Jared è… è tutto quello che mi serviva per tornare a galla”.
“Bene, perché è quello che ti serve, piccola Vero!”, mi abbracciò prima che suonassero al campanello. E ora chi era?
Lasciai Andy seduta sul divano e andai ad aprire la porta. Era la figura di Shannon, vestito a puntino, sorridente che guardava in giro. Aveva già visto casa mia, settimane prima… che gli prendeva?
“Ronnie! Oh, ciao Andy, come va?”, prese a parlare facendomi insospettire. Era successo qualcosa, me lo sentivo… non sapevo cosa, ma di sicuro era successo. “Jared è riuscito a risvegliarsi e si è maledetto del viaggio che ti sei dovuta fare da sola, quindi si voleva far perdonare. Ti va di…”.
“Mangiare da Constance? Alla fine non siete così imprevedibili, sapete?”, lo bloccai sapendo quello che mi veniva a dire. No, per niente inaspettati!
“Mamma ti ha vista stamattina e voleva vederti. Jared voleva farsi perdonare. Io non potevo starmene a casa da solo”, si difese Shannon con un sorriso.
“E certo, figuriamoci se il povero e piccolo dolce Shan sta per i fatti suoi una volta nella sua vita. Poi arrivano i fantasmi e lo mangiano magari”, scherzai. “Senti, và da quella santa di tua madre. Sistemo le cose e arriviamo”.
“Bene, allora avviso anche Jared. Doveva andare a casa a prendere una cosa”, mi disse prendendo il telefono in mano, per scrivere un messaggio, e salutandomi con la mano.
Io risposi al saluto e chiusi la porta. Mi voltai, squadrando bene la mia migliore amica e ripensando a cosa era successo. Mmm… doveva essere accaduto qualcosa, ma cosa?! C’era un particolare che mi sfuggiva, ma era di sicuro davanti ai miei occhi, maledizione!
“Allora, ci muoviamo o no?”, mi chiese ridendo Andy. Sherlock, per ora tieni le tue congetture per te!
“Vado a portare di sopra i vestiti di sopra, a farmi una doccia e a vestirmi… wait, che ore sono?”, domandai alla fine.
“Quasi mezzogiorno dormigliona”, mi prese in giro. “Fai pazzie la sera e ti ritrovi a dormire fino a tardi…”.
“Cosa…? O ma guarda te questa!”, sbuffai facendole la linguaccia e salendo di sopra.
Andai i camera mia, presi tutto il necessario e mi trasferii in bagno. Mi tolsi i vestiti ed entrai in doccia. In un primo momento mi guardai attentamente per poi alzare le spalle e lasciar perdere.
Si cambia dopo la prima volta, è come se la parte infantile di te vola via, mi avevano detto tante volte, persone più grandi o della mia età. Bè, non mi sembrava esattamente così.
Se lo fosse stato, Jared Leto e company sarebbero dovuti rimanere vergini per il resto della loro esistenza, avendo in abbondanza una parte infantile. In più non credevo possibile che io avessi ancora quell’innocenza, non dopo il divorzio. L’avevo eliminata, poiché piena di ricordi infelici. Non era più in me da tanto tempo.
“Fuck!”, ridacchiai pensando a loro. Se lo consideravano voleva dire che non era stata una cosa seria.
Uscii lavata e tranquilla dopo poco, raccogliendomi i capelli in una coda alta laterale e mi cominciai a vestire con pantaloni lunghi e maglietta a maniche corte. Sì, poteva andare.
Mi truccai un po’, mi rimisi tutti i miei accessori e poi scesi, vedendo che anche Andy si era cambiata e aveva messo una minigonna con delle leggins nere e una camicia rossa.
“Carina”, commentai scherzando.
“Possiamo evitare?”, chiese sorridendo e lasciando perdere il mio intervento. Annuii e mi avviai verso la porta, con lei dietro. “Sei stata fortunata a prendere questa casa”.
“Credimi, lo so”, commentai sorridendo notando Shannon e Jared abbracciare Constance sul vialetto di casa e poi voltarsi verso di noi. Non c’era speranza, ormai sapevo che ogni volta che incrociavamo i nostri sguardi andavamo entrambi in panne, ma quello che mi stupii furono i nostri amici.
Shannon si era come imbambolato e Andy guardava per terra, muovendo le mani nervosa. Mi voltai verso di lei, a capire che aveva, ma mi spinse in avanti per fare strada.
“Ronnie! Oh, tesoro da quanto che non ci vediamo!”, mi accolse Constance abbracciandomi. È vero, cominciavo a passare più tempo a casa di Jared che ormai mangiavamo da sua madre solo qualche volta. In un certo senso era meglio: non sarei diventata una palla vagante.
“Ciao Constance!”, la salutai sciogliendo l’abbraccio. “Ma ti prego dimmi che non mi ucciderai”.
“Ecco… mangerà Jared per te, se proprio insisti”, sorrise come se si volesse scusare ma anche come se avesse pianificato tutto. Ci avrei giurato, quella voleva imbottirmi di cibo fino a star male!
“Buon giorno signora Leto”, la salutò stringendo la mano, Andy. La donna la guardò prima male e poi le sorrise. Tipico di Constance.
“Chiamami Constance tesoro, se no mi sembra di essere troppo vecchia!”, ridacchiò mentre Andy sorrideva. “Tu sei Andy, non è così?”.
“Sì, signora”, sbagliò di nuovo la mia migliore amica facendo ridere me e Shannon. “Ehm… Constance, giusto”.
“Forza entriamo”, ci spinse Jay evitando di creare un silenzio imbarazzante, facendo tranquillizzare Andy.
Ridemmo e lo seguimmo in casa, dove era già tutto in tavola. Almeno stavolta quella santa donna sarebbe rimasta con noi per tutto il tempo, e non avrebbe fatto avanti e indietro centocinquanta volte.
“Mi dispiace non averti accompagnata a casa”, mi sussurrò Jared sedendosi di fianco a me, prendendo la mia mano da sotto il tavolo. Sorrisi.
“Mi dispiace averti lasciato lì da solo”, mi voltai a guardarlo. “Senza offesa a nessuno… ma siamo due disastri!”.
“Sì, lo penso anche io”, rise lui.
“Sul serio dovremmo fare qualcosa!”, continuai a prenderci in giro per farlo ridere. Non gioiva spesso, o almeno non seriamente come ora. Shannon era senza dubbio più svagato che Jared, rideva per qualsiasi cosa e aveva le stupidate nel sangue. “Soprattutto tu, poi! Mi hai lasciata andare a casa da sola… che disgraziato!”.
“Già, sono proprio un idiota”, continuò a sogghignare. “Ma tu mi hai addirittura lasciato da solo. Povero piccolo, sono stato abbandonato!”.
“Sì, hai ragione, tenero e piccino Jared”, dissi face dogli una carezza sulla guancia con un espressione divertita. Mi sembrava di fare ancora una volta  la babysitter. No, decisamente il suo lato infantile c’era ancora, e anche troppo.
Un colpo di tosse evitò che la nostra sceneggiata andasse avanti e Constance diede un po’ di cibo a tutti. Un po’… una porzione che ti faceva ingrassare solo a guardarla.
Mi decisi a cominciare a mangiare, completamente determinata a finirla del tutto, ma a metà il mio stomaco chiese pietà e mi fermai. No, non era gusto! Non anche stavolta.
“Mangi troppo poco”, commentò Jared quando mi vide guardarmi in giro evitando di fissare il mio piatto. Avrei dovuto cambiare strategia!
“Io mangio… non molto ma mangio! E poi tua madre ha deciso di uccidermi ancora”, mi difesi nervosa.
“Tu mangi? No, scusami, primo sei vegetariana e fin qui è tutto ok, ma appena metti in bocca qualcosa sei piena! Io sono vegano ma almeno mi mangio tonnellate di cibo”, mi riproverò facendomi notare la sua porzione. Maledetto mangione!
“Se il tuo stomaco è grande quanto questa casa non è colpa mia”, lo accusai ritrovandolo con una faccia perplessa. Ok, forse ero io quella con lo stomaco anormale ma restava il fatto che ero piena. “Rimani mangione lo stesso! Prima o poi non entrerai più dalla porta. Tu e tuo fratello!”.
“Ehi!”, si sentì tirato in causa Shannon anche se stava fissando Andy e non aveva ascoltato nemmeno una parola di quello che avevo detto. Il mio cervello cominciò ad ingranare, ma non trovò ancora delle soluzioni sulla sera precedente. Sherlock, continui ad indagare…
“Cosa? Così mi offendi!”, urlò Jared arrabbiato e preoccupato, cominciando a guardare male il suo cibo. Ah ah, ora ridevo io! “Io resterò per sempre un figurino!”.
“Convinto tu… io non ne sarei così sicura”, ammisi mentre lo guardavo prendere un boccone di cibo e rimetterlo subito al suo posto con fare indeciso.
“Jared, che hai?”, chiese Constance guardandolo meravigliata. Non era normale che non mangiasse niente.
“Non ho fame”, commentò. Sua madre, suo fratello e la mia migliore amica restarono a bocca aperta. Io risi.
“Che ne hai fatto di mio fratello?”, mi chiese immediatamente Shannon con voce cattiva e preoccupata. Era realmente spaventato, poveretto!
“Ho solo fatto un’ipotesi…”, chiarii vaga ridendo. Andy scosse la testa, ormai sapeva che non avevo più speranze. Ero completamente andata.
“Non ho niente, tranquilli”, la finì Jared guardandomi, facendomi la linguaccia e tornando a mangiare. “La psicologia inversa non funziona, bella mia”.
“Psicologia inversa? Se avessi usato quella ti avrei detto ‘mangia, Jay, mangia che ti fa bene’”, ridacchiai. “Vedo che la cultura ti ha lasciato da un pezzo”.
“Secchiona”, mi prese in giro sbuffando. “Resta il fatto che non diventerò mai ciccione, cadesse il mondo!”.
“I Maya allora hanno ragione!”, mi preoccupai fintamente mettendo una mano davanti alla bocca e sgranando gli occhi. “Moriremo tutti, io lo sapevo…”
Shannon cominciò a ridere, Constance mi guardò come a dire ‘abbiamo perso anche lei’, mentre Andy mi sorrideva. Adoravo queste giornate, avrei voluto che non finissero mai.
“Ehi, oggi che si fa?”, se ne uscì Shan per evitare che Jared, preso da un calo di autostima, si conficcasse il coltello nel cuore.
“Io e Vero facciamo un giro per negozi, o le mie compagne di università mi ammazzano se non porto loro niente”, disse Andy mentre io annuivo.
Risultato: due diverse risposte, una stupida e una intelligente. Non è difficile capire di chi sia una e l’altra.
“Vediamo anche noi, dai”, disse Shannon facendo annuire anche Andy. Risposta 1. Quella intelligente.
“Tu e chi?!”, si stupì… Jared, facendomi sbattere il palmo della mano sulla faccia, amareggiata. Risposta 2. Quella stupida.
“Io e Vero… cioè io e Ronnie! Giusto mi devo ancora abituare a quel soprannome”, ridacchiò Andy mentre Jared capiva il senso della frase e si accordò con Shannon sul venire con noi.
“Mi spieghi come ho fatto ad innamorarmi di uno come te?”, chiesi stupita guardandolo ancora una volta. Una ragione c’era, anzi tante, ma in quel momento vedevo solo la sua idiozia.
“Sono troppo bello”, si vantò. Osservazione più che ragionevole, pensai, ma non esattamente la più importante.
“Solo bello? Cavolo, vorrà dire che ti dovrò lasciare”, scossi la testa storcendo le labbra.
“Sono un musicista”, cercò di rimediare. Cavolo, Jared, sul serio non sai fare di meglio. Feci di nuovo segno di no. “Ehm… divertente? Stupido? Ti faccio sentire bene? Non lo so, Ronnie, basta…”
Risi, mentre suo fratello si stava innervosendo. Sapevo che queste sceneggiate non erano proprio di suo gradimento. Secondo lui Jared aveva rovinato la loro rara opportunità di avere un’amica seria, a cui poter raccontare di tutto, per farne la sua ragazza, che ovviamente avrebbe portato alla pazzia a causa del dna Leto.
“Quanto mi diverto a farti fondere quel cervello già poco sviluppato”, ridacchiai malefica. “Dovrei farlo più spesso”.
“Osa e scatenerai la mia ira”, rispose Shannon ufficialmente stufo, mentre Jared mi guardava mezzo divertito e mezzo sfinito. “Possiamo andare?!”.
“Sì, sì andiamo”, dissi alzandomi e aiutando a sparecchiare a Constance, la quale mi buttò letteralmente fuori dalla sua cucina obbligandomi a divertirmi e a fare buone compere.
Erano tutti fuori di testa, qui.
 
“E’. Stu-pen-do”, sillabò Andy, appiccicata ad un vetrina di un negozio di vestiti, a guardare un completo lungo, elegante e molto vecchio stile. Era come il mio vestito di Halloween, ma blu elettrico e fino alle caviglie.
Ridacchiai. Era decisamente il suo genere, ma d’altro canto costava un occhio della testa.
“Ti piace?”, chiese Shannon curioso, analizzando il vestito e probabilmente immaginandolo su Andy, da come la guardava. Intanto Sherlock osservava la scena. Oh sì, il mistero si stava risolvendo, mancava solo qualche dettaglio. Ma cosa?!
“E’ bellissimo, ragazzi!”, rispose lei, con la voce flebile, ammirata.
“Secondo me sarebbe perfetto per qualche spettacolo”, conclusi io aumentandole la voglia di comprarlo.
“Hai ragione, cavolo! Uffa, ma guarda quanto costa!”, si lamentò indicando il prezzo. “E’ tantissimo, non posso permettermelo”.
Shannon guardò il costo e strabuzzò gli occhi. Sì, era decisamente troppo. “Vedrai che ne troverai uno simile a meno. Non esiste solo questo, dai!”.
Andy annuì, staccandosi con rammarico dalla vetrina, e togliendo lo sguardo. Via il dente, via il dolore. Tanto valeva sperarci, quel vestito non lo avrebbe mai avuto.
“Uh, guarda lì”, indicai il negozio successivo. Entrammo e il mondo dei trucchi si aprì alle nostre vite. Ma la cosa che colpì di più era uno smalto: verde smeraldo. “L’ho trovato!”.
“Che è?”, chiese Jared, non capendo cosa volessi dire.
“Questo smalto! Non l’ho mai trovato della giusta totalità. Era ora che qualcuno lo fabbricasse!”, dissi prendendolo. Poi notai un altro: era di un colore strano, tra il viola, l’indaco e il blu. “Guarda qui, Andy”.
“Mio!”, disse sorridendo. “Questo è mio!”.
“Ma cos’è questa ossessione per gli smalti?”, chiese Shannon ridendo e guardandoci come se fossimo diventate pazze.
“In più tu lo metti sempre nero, Ronnie”, commentò Jared guardando le mie mani. “Non ti ho mai vista con un colore diverso”.
“Il nero è il migliore, ma non vuol dire che sia l’unico”, sorrisi. In effetti da quando l’avevo comprato la prima volta, a quattordici anni, lo smalto nero era stato quello che usavo di più. Mi piaceva, mi faceva sentire più forte. Di certo non ero una ragazza da smalti colorati o complicati disegni della Nails Art. No, a me bastava il mio smalto nero.
Andammo a pagare e uscimmo subito. Poi cominciammo a camminare un po’ per le vie di Bossier City, ritrovandoci alla fine al parchetto dove ci eravamo incontrati io e Shannon prima di andare a vedere Requiem For A Dream. Ora gli alberi erano innevati un po’, da una nevicata di una settimana circa fa, e il laghetto era ghiacciato. Davano degli stivaletti da pattinaggio per qualche ora a pagamento.
“Andiamo?”, chiesi indicando la gente che tentava di stare in piedi in equilibrio sull’enorme lastra scivolosa.
“Sei matta?! Non sono capace”, si lamentò Jared mentre Andy sorrise, felice dell’idea.
“Oh, dai! Sarà divertente!”, ci spinse verso l’entrata. Shannon non provò a contraddirla, ma si vedeva dal volto che era d’accordo con il fratello.
Prendemmo i nostri pattini e pagammo per mezz’ora, visto che i ragazzi ci supplicarono una cosa veloce e indolore. I primi che entrarono fummo io e Jared.
“Fidati”, dissi prendendo le sue mani tra le mie e spingendolo verso di me, mentre mi dirigevo verso il centro della pista. “Stavolta sono io che guido”.
“Oh, sono sicuro che non ti sia dispiaciuto ieri sera”, si vantò cercando di avvicinarsi troppo a me. Scivolò per un attimo e, dopo esserci rimesso in equilibrio, abbandonò l’impresa.
“No, lo ammetto, hai ragione”, dissi fermandomi e allacciando le mie braccia al suo collo. “Non sia mai che critichi le tue… abilità?”.
“Sei un po’ in imbarazzo o sbaglio riguardo a questo argomento?”, sorrise prendendomi in giro.
“Futuro ciccione, non mi provocare”, lo ammonii staccandomi subito e sorridendogli malefica. “Ora, prova a prendermi!”.
Mi allontanai e cominciai a pattinare veloce, sempre di più, facendo il perimetro del lago, riavvicinandomi ancora e roteando intorno a lui sorridendo. Jared, intanto, mi guardava meravigliato.
Me ne andai un’altra volta, spostandomi verso il perfetto centro del lago, notando anche Shannon e Andy che si erano fermati vicino ai lati per vedermi, e cominciai a saltellare un po’.
Canticchiai, cercando di darmi il ritmo, e mossi i piedi di conseguenza. L’aderenza tra i pattini e il ghiaccio era tale alle calze leggere sul parquet dove ballavo da bambina, perciò ricopiai i movimenti, con un po’ di attenzione. Non era difficile, non come immaginavo quando guardavo i gran galà del pattinaggio in tv.
Finito lo spettacolino – quando finì la mia canzone mentale – tornai da Jared, che ormai era stupefatto. Sorrisi, nervosa.
“Dove hai imparato?”, mi chiese.                                                            
“In una sala da ballo a nove anni”, ironizzai. “Non è tanto diverso, in fondo”.
“Quando la finirai di stupirmi?”, domandò retorico avvicinandosi a me, mentre riallacciavo le mie braccia attorno a lui. Mi cinse i fianchi, per tenermi stretta.
“Quando la smetterò di volerti vicino a me”.
“Allora non farlo mai”, concluse baciandomi. Le sue labbra, fredde a causa del gelo invernale, si posarono sulle mie, un po’ più calde  per la fatica della piccola esibizione. Adoravo baciare Jared: era come avere l’assoluta certezza che qualcuno tenesse a me, volesse me, desiderasse solo me.
Infatti quando si staccò feci un mugolio di disaccordo e lui si mise a ridere, carezzandomi la guancia, rossa per il vento freddo.
Piano piano poi arrivarono anche gli altri due disgraziati e decidemmo di fare ancora qualche giro lentamente e andare a casa. Alla fine della mezz’ora però Jared riuscì a fare qualche passo da solo, senza appoggiarsi alle mie mani, e Shannon riuscì a non cadere nemmeno una volta. Miracolo!
“Dai… è stato divertente!”, ammise alla fine Jared, tornando a casa per farsi una doccia, prima di lasciarmi davanti alla mia con un altro bacio. Lo adoravo!
 
Il penultimo giorno in America, per Andy, era già arrivato al primo pomeriggio e dopo mangiato i Leto ci avevano invitato ad andare a vederli provare, come al solito. Ci eravamo preparate ed eravamo uscite, per poi salire in macchina di Solon e partire verso casa Leto.
Solon era diventato un po’ meno timido con Andy e così cominciarono a parlottare, mentre io messaggiavo con Vicky per sapere come andava a New York. Si stava divertendo e sarebbe tornata presto.
Arrivammo lì in pochi minuti, ovviamente, e andammo subito in garage, che aveva la porta aperta. C’era un clima strano, troppo su di giri...
Shannon stava nervosamente battendo una bacchetta su un piatto e il piede in una cassa, creando una melodia abbastanza irritante. Non era giornata, a quanto pareva. Jared accordava la chitarra elettrica in un angolo continuando a sbuffare, vedendo che il rumore non era perfetto come voleva. Kevin invece non stava facendo niente, restando seduto sul divano.
“Se ti preparassi ci metteremmo di meno, sai?”, sbuffò Jay alzando la testa e fermandosi un attimo, stoppando anche il ritmo del fratello.
“E allora, Jared?! Hai paura che se non smettiamo entro una certa ora non riuscirai a passare abbastanza tempo con la tua ragazza?”, rispose freddo il bassista continuando a non fare niente.
Solon andò vicino a Jared, cercando di calmarlo, mentre io ed Andy guardammo stupite la scena. Oh oh, questa era la goccia che faceva traboccare il vaso.
“E ma sai, abbiamo così tanti impegni come musicisti che se non finiamo entro una certa ora tutto andrà in palla! I fan, la stampa, i concerti… e sì, Jared, come si fa?!”, continuò  ad interferire.
“Che cosa intendi dire Kevin?”, insinuò Shannon fin troppo nervoso. Non era un buon segno, non era affatto un buon segno.
“Che qui facciamo prove su prove ma nessun risultato! Sarebbe ora di prendere la situazione in mano o mollare!”, spiegò gridando mostrando gli strumenti. “In più non facciamo nemmeno delle serate intere: ad Halloween abbiamo suonato per mezz’ora!”.
“Quello non c’entra, non parlare per niente!”, lo fermò Solon mentre Jared respirava affannato. Era arrabbiato.
“Ah giusto! E vogliamo spiegare il motivo di quella mezz’ora? Dai, Jared, dicci perché abbiamo rinunciato alla proposta di una serata completamente nostra, forza”, lo incitò provocandolo. Poi mi indicò. “E’ lei. Lei è la causa! Perché, poverino, volevi passare la serata con la tua stupida ragazza! E dimmi, come è finita? Con una cazzo di rissa con un suo ex collega! Bella merda, Jared, davvero!”.
Cosa?                                                                                         
“Che volete dire? Mi volete spiegare per piacere?”, chiesi mentre Jared si infuriò, sorpassando Solon e scagliandosi contro Kevin, sbattendolo contro il muro.
“Prova a ripete quello che hai detto su di lei e ti butto fuori. Chiaro?”, urlò per fargli paura, ma Kevin ridacchiò.
“Ma che fifa! Tanto non andremo da nessuna parte se continuiamo così, Leto. Ti ha  reso una femminuccia…”, rispose facendo leva sul mio ragazzo e liberandosi. “…quella stupida della tua ragazza”.
Jared sospirò arrabbiato e alzò il braccio. Un pugnò finì sul naso del bassista, rompendo dei vasi sanguigni e facendo uscire il liquido rosso vinaccia dalle narici. L’odore di sale e ruggine mi colpì in pieno.
“Hai detto qualcosa?”, lo provocò ancora mentre cercava di rialzarsi.
“Sei un’idiota, Jared! Mandare a fanculo tutto per lei! È solo una maledetta ragazza, tra due mesi non ricorderai nemmeno più il suo nome!”, lo insultò Kevin.
Jared alzò il braccio, ma non lo toccò più. “Vattene via. Vattene via, adesso. Sei fuori dalla band, Kevin, non osare farti mai più vedere. Sono stato chiaro?!”.
“Hai perso una grande opportunità, Leto. E per cosa? Per una ragazza”, lo insultò ancora, allontanandosi per prendere le sue cose e il basso e andarsene via, sbattendo la porta.
Jared si voltò verso di me e deglutii più volte. Chiusi gli occhi per qualche secondo, mentre tutti mi fissavano, e poi uscii dal garage.
“Ronnie! Ronnie, ti prego, fermati!”, sentii la voce di Jared seguirmi fuori e cercare di raggiungermi.
“Ha ragione lui, sei stato un idiota!”, mi arrabbiai continuando a camminare. Aveva buttato via un’occasione per me. Perché poi?
“Sì, va bene, sono un idiota”, mi prese il braccio quando riuscì a annullare il distacco. Mi fermai, voltandomi con il broncio. Aveva gli occhi lucidi. Stava perdendo tutto, o almeno così credeva: me, la band, la musica… “Sono un idiota, un coglione, il più stupido della Terra, un futuro ciccione… ma preferisco essere tutto questo e avere te, che essere perfetto senza di te. Perché quella sarebbe una vita inutile”.
“Prometti che non rinuncerai mai, mai, mai più a niente a causa mia”, gli chiesi vedendolo sinceramente preoccupato. “Giuralo”.
Aspettai qualche istante, in cui lui respirava con il fiatone e aveva le labbra tremanti. Stava scegliendo. “Ok, va bene, lo giuro. Ma ti prego, non te ne andare”.
“Sei davvero un idiota, Jared Leto!”, lo abbracciai facendo immergere il suo volto nei miei capelli e facendomi stringere così forte da perdere i fiato. Mi tirò su da terra per qualche istante, per poi farmi ricadere in piedi ancora.
“Ho solo paura che prima o poi il tempo che avremo insieme finirà troppo presto e non potrò più vederti”, confessò, ancora abbracciato a me, senza la minima intenzione di lasciarmi andare.
“Il futuro lo decidiamo noi, Jay. Non avere paura di esso, possiamo sempre domarlo”.
“Come?”, mi chiese spaventato, guardandomi negli occhi.
“Siamo noi che decidiamo le nostre azioni, nessuno ha il diritto di portarcele via. In base ad esse il futuro si aprirà davanti ai nostri occhi. È semplice, devo solo prendere la decisione giusta”, gli spiegai. Mi sembrava di essere tornata al primo pranzo da Constance, quando gli aveva esposte le mie teorie sulle scelte.
“E se alla fine quella che mi sembrava giusta fosse quella sbagliata? E se a quel punto non potessi più tornare indietro?”.
“Il tempo non si può cambiare, ma il destino fa quello che vuole. Se vuole che vecchie situazioni riemergano, prima o poi riuscirà a ricrearle a suo piacimento”, dissi carezzandogli una guancia. “Non devi avere paura, soprattutto se è inutile”.
“Lo sai che ti amo? Che non potrei mai vivere troppo lontano da te ora?”, mi chiese.
“Sì, diciamo che potrei averne una vaga idea”, scherzai per tirarlo un po’ su di morale. Gli diedi un leggero bacio e poi continuai. “Ora andiamo dagli altri o ci daranno per dispersi”.
“Credo che ormai si siano abituati alle nostre uscite fuori programma”, mi prese in giro abbracciandomi ancora per poco e poi limitandosi a prendermi la mano.
“Bè, penso che ora vogliano sapere che ti ho ucciso o se sono scappata”.
“Perché l’opzione reale non c’è?”, chiese.
“Perché Shannon spera ancora che apra gli occhi e veda solamente l’idiota che c’è in te!”, risi cominciando ad accelerare. “Peccato che anche se ho aperto gli occhi non posso evitare di amarti”.
“Evvai! Uno a zero per il fratello figo! Shannon prendi questa!”, esultò appena entrammo in garage, facendo sobbalzare gli altri.
E ora? Che avremmo fatto con la band?
 
“Non voglio che tu te ne vada, Andy”, l’abbracciai ancora una volta quando ci ritrovammo, dopo qualche settimana da quando era arrivata, all’aeroporto nella periferia di Bossier City.
“Nemmeno io! Ma abbi fede e vedrai che a febbraio ci vediamo a New York, e se tutto va bene ci rimango”, cercò di tirarmi su il morale, senza riuscirci.
“Due mesi?! E come faccio per due mesi?”.
“Come hai fatto da agosto a due settimane fa! In più ora hai Jared, non ti lamentare, signorina!”, mi disse quasi materna, rimproverandomi.
“Fai buon viaggio, okay?”, conclusi abbracciandola ancora una volta quando l’altoparlante ci annunciò che il volo per New York stava per partire.
“Tienila d’occhio, signorino”, disse poi a Jared, abbracciando anche lui.
“Certo”, ridacchiò in risposta lasciandola andare, per poi salutare Shannon che era un po’ triste all’idea di non vedermi più in compagnia della mia migliore amica.
“Ciao Shannon”, disse Andy.
“Ciao”, rispose lui abbracciandola e lasciandola andare visto che la fila per il gate cominciò a crescere.
“Vado! Ciao a tutti!”, ci salutò con la manina. “Fate i miei saluti anche a Solon!”.
Già, il chitarrista ci aveva dato buca, salutandola prima, perché aveva avuto un impegno importante all’ultimo minuto. La tranquillizzammo e le facemmo segno di ciao da lontano. Poi, quando la sua figura scomparve, mi voltai verso i fratelli Leto.
“Ora che si fa?”, chiesi con un sorriso mentre Jared mi abbracciava, capendo che non ero molto in vena di scherzare. Una parte di me era appena partita in direzione di Francoforte.
Ma almeno un’altra grande parte di me mi stava stringendo forte a sé.
“Sì, che hai Solon?”, sentii dire da Shannon. Aveva il telefono in mano, preoccupato. Poi, dopo aver ascoltato tutto, mise via l’aggeggio e ci guardò. “E’ meglio se andiamo a casa, Solon ci deve parlare”.
 
Arrivammo nel loro solito garage in fretta, a causa della insolita velocità di guida del più grande dei Leto. Era teso, ma non capivo perché. Nemmeno Jared sembrava aver colto la novità, ma non ci vedeva niente di buono.
Che fosse per la partenza di Andy? Impossibile, doveva c’entrate per forza con quella telefonata, non c’erano altre spiegazioni.
“Shannon ti prego, dicci qualcosa!”, chiesi per favore, ma l’unica cosa che fece fu deglutire, come se trattenesse le lacrime, e stringere le dita sul volante, accelerando.
Ed eccolo accostare, uscire dalla macchina ed entrare nel garage. Jared mi aiutò a scendere e, prendendomi la mano, andammo insieme a seguire suo fratello.
Dentro, Solon era davanti a noi, in piedi, e Shannon lo guardava impassibile, senza farci capire nulla. Che diavolo sta succedendo?
Il chitarrista si avvicinò a me e a Jared, allungando una mano. C’era una lettera, in quella mano, ed era intestata… ai Thirty Seconds To Mars.
“E’ arrivata qualche minuto fa”, si giustificò Solon passandocela.
Jared la prese e l’aprì, facendola leggere anche a me.
 
Carisssimi Jared Leto, Shannon Leto, Solon Bixler, Kevin Drake, ovvero i Thirty Seconds To Mars.
Siamo lieti di annunciarvi che giorni fa abbiamo trovato la vostra proposta di firmare un contratto con noi e, sentendo una vostra canzone da nostre fonti, abbiamo deciso di vedere come ve la cavate davanti a noi.
Vi preghiamo dunque di presentarvi entro qualche giorno ai nostri uffici a Los Angeles dei quali vi comunicheremo l’indirizzo in fondo a questa lettera.
Sperando di aver esaudito un grande sogno.
Bob Erzin
 
“Chi è Bob Erzin?”, chiesi io, paurosa di quello che quella lettera potesse significare. Presentarsi a Los Angeles?!
“E’ un famoso produttore che avevamo cercato di contattare mesi fa, qualche settimana dopo il tuo arrivo, credo”, mi spiegò abbastanza entusiasta Solon. “Ho mandato loro un nostro video e a quanto pare hanno apprezzato. Cavolo, si torna a casa!”.
“A casa?!”.
“Lui è di LA. È venuto qui solo per stare con noi e le prove. Sapevamo che prima o poi saremmo dovuti tornare nella città delle stelle, in fondo, no?”, chiese Shannon. Sì, me l’avevano detto… ma era prima che Jared mi dicesse tutto, prima che potessi sentirmi veramente parte di qualcosa, prima… prima della notte del suo compleanno!
“Che volete dire? Che vi trasferite?”, domandai seria, staccandomi dalla presa forte di Jared e allontanandomi.
“Ronnie, lo sapevi!”, mi calmò Jared cercando di riprendermi.
“Sapevo che sarebbe successo, ma sperando più in un poi, che in un prima”, confessai. “Non voglio perderti”.
“Tu non mi perderai!”, disse quasi convincendomi. “E poi hai detto tu stessa che non avrei mai dovuto lasciare andare un occasione del genere! L’hai detto ieri!”.
“Tu non mi farai ritornare nello stato di abbandono in cui ero messa per colpa dei miei, chiaro? Tu non devi nemmeno provare a fami ricadere nel buio”, sussurrai facendo cadere le braccia di fianco alle gambe e arrendendomi. Aveva ragione e, in un futuro, se non l’avesse fatto poi mi sarei rimangiata questo momento a vita.
“Non succederà, Ronnie, te lo prometto”, mi disse venendomi incontro e abbracciandomi forte. Non poteva essere vero! Non ancora, non con lui…
Ricordai di aver studiato, a scuola, un principio riguardo al tempo. Come si chiamava…? D’entropia! Il principio di entropia! Il quale diceva che l’universo tendeva all’espansione, ma se un giorno la gravità o la forza energetica fossero state troppo deboli per bilanciare questa espansione, sarebbe arrivata la Grande Crisi. Nessuno sa esattamente cosa sia questa Grande Crisi, nessuno ne sa gli effetti o le conseguenze.
Sappiamo solo che riguarderà il tempo. E se forse fosse capace di cambiare la direzione del tempo? Andrebbe al contrario?
In quel momento sperai con tutto il cuore che l’universo mi ascoltasse e che il tempo tornasse indietro. Che la Grande Crisi arrivasse senza preavviso e mi riportasse ai tempi felici di qualche mese fa… di qualche giorno fa!
Mi bastava restare per sempre in quelle ore, con Jared, con Andy, ed evitare il continuo trascorrere del tempo che, da sola, avrei dovuto affrontare tra qualche giorno.
Ma perché invece nessuno mi ascoltava?!
“Devi andare a Los Angeles”, finì, completamente vinta, tra le sue braccia. Era giusto così, non potevo vincere contro il destino.
Un’altra vittoria persa per Veronica McLogan.
 

 
....
Note dell'autrice:
Lo so, il testo della lettera fa altamente schifo, ma non me ne intendo, sfortunatamente, di contratti musicali, quindi ho cercato di immaginare. Comprendetemi.
Bene, relazione a distanza... che ne pensate? Io non ve lo dico, o vi svelerei il seguito, quindi [cit.] lascio ai posteri l'ardua sentenza.
Grazie di aver letto, siete sempre fantastiche.
Bacioni e MarsHug a tutte, Ronnie02

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Capitolo 14
*** Soulless Is Everywhere ***


Donne, è arrivato il capitolo!! Ok, questa era penosa, ma comprendetemi. Sono le nove e mezza e oggi ho fatto ripetizione di chimica alle mie compagne fino alle cinque e mezza, sono arrivata a casa alle sette meno un quarto e ho fatto i compiti. Domani verifica di francese, che ovviamente non sopporto. AIUTO!
Va be, basta annoiarvi con i miei problemi, visto che qui ne parliamo troppo. Infatti so che mi ucciderete alla fine. Ma come ho detto varie volte, questa è una lunga storia e questo capitolo non è la fine, è solo un checkpoint. Jared, una cosa: sparati!




Chapter 14. Soulless is everywhere 

 


“Posso rimanere qui, se vuoi”, continuò a dirmi Jared per la tredicesima volta quando rimase a casa mia. Eravamo sul letto, a gambe incrociate, a parlare da fin troppo tempo di questa cosa.
“Ti ho detto di no! Cavolo Jared mi avevi promesso che…”.
“Che non avrei mai rifiutato una proposta del genere, lo so”, mi fermò, senza che capisse realmente ciò che volevo dire.
“Che avresti fatto un cd, fosse l’ultima cosa che facevi. Me l’hai detto il primo giorno in cui hai cantato con la band davanti a me, l’hai promesso a tutti quanti. Non tirarti indietro solo per me”, gli ricordai andandogli vicino e abbracciandolo. “Non mi perdonerei mai un giorno, se saresti infelice per questa scelta sbagliata”.
“Ti amo, Ronnie! Ti amo per quello che sei, per quello che dici e per quello che fai”, mi strinse ancora più forte. “Ce la faremo, te lo prometto! Te lo giuro, noi non ci separeremo mai”.
“Non fare promesse che non puoi mantenere”, mi staccai, un po’ malinconica. “Ho già sentito così tanti giuramenti non esauditi da averne la testa piena”.
“Stavolta è diverso! Stavolta ti fidi di me, devi fidarti di me!”, mi disse avvicinandosi. “Io so che ce la possiamo fare. Perché ti amo, Ronnie, come non ho mai fatto con altre”.
“Come siamo romantici”, sorrisi vedendo che si muoveva felino per farmi sdraiare sotto di lui. Interessante, Leto, molto interessante…
“Non è una frase perfetta?”, chiese ironico.
“Perfetta come te”, conclusi cominciando a baciarlo, lasciando poi che finisse lui il lavoro.
 
 “Dovrebbe essere tutto okay, no?”, mi chiesero i fratelli Leto facendomi vedere i loro bagagli, pronti per la partenza. Quel entro qualche giorno era arrivato e la quantità indecente di abiti che si volevano portar dietro mi facevano credere, e deprimere, che sarebbero rimasti laggiù per tanto, troppo tempo.
“Assolutamente sbagliato”, dissi tirando fuori certi abiti che avrebbero fatto impressione persino ad un cieco. “Di solito non vi vestite così male!”.
“E’ questo il punto! Tante persone dicono che la gente che si veste male sembra appena arrivata da Marte. Si chiama messaggio subliminale, Ronnie”, mi fece capire Shannon come se parlasse ad una bambina.
“Si chiama essere idioti! È un’opportunità unica e non potete andare conciati così! E comunque sbagli in ogni caso, genio, perché è To Mars, non From Mars!”, lo corressi facendogli la linguaccia.
“Ma come siamo pignoli!”.
“Ma come siamo stupidi!”.
“Ah ah, vedo che la simpatia è ancora in vacanza!”, riprese.
“Ah ah, vedo che l’ignoranza è rimasta”, lo presi di nuovo in giro.
“La volete finire?!”, urlò Jared, senza nessuno scherzo. “Sto andando nel puro panico perché sto per incontrare l’uomo che ci porterà molto probabilmente a cantare in stadi pieni di fan urlanti e non sono in vena di scherzare!”.
“Ehi, calmati, bro!”, sdrammatizzò suo fratello prendendo quello che sembrava con cappellino con le antenne e svolazzando in giro per la sala di casa loro.
“Questo per esempio lo lasci qui!”, glielo presi e lo misi dietro la schiena, cercando di non farglielo riprendere. Poi andai ad abbracciare Jared, tenendo il cappello tra i nostri petti. “E tu sta tranquillo, non succederà niente di male”.
“Ho paura di pretendere la strada sbagliata”, mi disse stringendomi forte mentre il fratello vomitava fintamente e se ne andava in cucina a farsi gli affaracci suoi.
“Potrai sempre tornare indietro. Io sono sempre qui”, lo baciai sulla guancia, facendolo sorridere.
“Perché non vieni con noi a Los Angeles?”, mi chiese ancora una volta. Da posso restare io era passato a vieni tu con me.
“Non posso lo sai. La casa, il lavoro… sto cercando qualcosa di stabile, dopo diciannove anni di inferno. Non posso mollare tutto ora”, mi scusai mentre lui annuiva. Mi capiva, o meglio dire, immaginava come avrei potuto sentirmi.
“Mi mancherai”, confessò. “Mi mancherai da morire”.
“Vorrà dire che ti verrò a trovare se ne uscirà una bella notizia”, lo feci sorrise, staccandosi un po’ da me ma non mollando il mio viso dal suo sguardo. “Ehi, anno nuovo vita nuova, no? Domani è Capodanno”.
“E non lo festeggiamo nemmeno insieme”, si  angosciò ancora di più.
“Sarà per l’anno prossimo”, gli diedi un leggero bacio a fior di labbra.
“Sei la migliore, lo sai?”, mi chiese. Ma ovviamente, prima che potessi fare qualsiasi cosa, quell’idiota di suo fratello entrò di nuovo in sala con addosso delle alette rosa che in realtà erano insieme al cappellino. No, che visione oscena!
“Sì, lo sai lei, lo so io, lo sai tu, lo sanno tutti”, rispose per me camminando stile pinguino – strisciando – e muovendo la testa per riuscire a muovere le ali.
“Sappiamo cosa? Che sembri un idiota?”, chiese Jared, di nuovo con il sorriso. Bè, almeno qualcosa di buon Shannon l’aveva fatto.
“Oh non cominciare anche tu, eh!”, rispose quell’insetto fastidioso.
“Sì, poverino… dici che se lo schiacciamo fa effetto cimice o andiamo sul sicuro?”, risi, mentre il batterista metteva il muso. “No, sinceramente, io ve li lascio anche portare perché fate morire dal ridere, ma vi prego non metteteli la prima volta”.
“Ma…”.
“Solamente la prima volta, vi supplico!”, li pregai.
“Va bene, va bene!”, dissero in coro, mentre Shannon si toglieva le alette e le metteva in valigia. Gli passai il cappello e sistemò anche quello. No, non potevo vedere quelle cose!
Secondo me all’aeroporto li avrebbero arrestati per chissà cosa con quelle in valigia. Non era normale avere un paio di ali rosa nel bagaglio!
“E’ ora?”, chiesi dopo qualche minuto.
“E’ ora”, mi rispose Jared, triste. Sì, Andy mi aveva detto che in questi due mesi ci sarebbe stato lui con me, e invece se ne andava anche lui. Era un giorno malinconico quello, per entrambi, per quanto fosse stupenda la meta da raggiungere.
Non volevo vederlo camminare verso il gate e salire su quell’aggeggio volante. Non volevo vederlo andare via.
Ma lo fece, qualche ora dopo. E tornare in taxi a casa mia fu drammatico, così tanto che dovetti chiamare Andy perché i messaggi non bastavano.
Avevo bisogno di una voce vera che mi dicesse che tutti andava bene, e meno male che c’era anche Constance. Quella sera infatti mangiai da lei, parlando un po’ di tutto.
Anche il suo tempo con i ragazzi era finito, ma per lei era un’abitudine non vederli a lungo, anche se le dispiaceva parecchio saperli lontani dopo sei mesi vicini.
Mia madre non l’avrebbe mai fatto. Lei era diversa.
Non era cattiva, no quello no, ma non si sapeva gestire. Seguiva l’istinto, quello che lei definiva cuore mentre io parlavo di desiderio. Era pronta a finire sempre nei guai, non controllava le parole o le mani. Era impulsiva, troppo, e decisamente lunatica.
Era tante cose, ma di certo non era… premurosa.
Se stavo un giorno senza farmi vedere, Constance mi veniva almeno a salutare, per sapere come stavo, mentre una volta andai da una mia amica per il week-end a dormire, senza dire niente a nessuno, e per poco non se ne accorse. Infatti quando tornai a casa realizzò il tutto e partì la sfuriata lunatica e impulsiva.
Non mi era mai piaciuto stare sola con mia madre, non era la mamma-migliore amica che molte hanno, era riservata e io lo ero verso di lei. Non le avevo mai rivelato una cotta, il mio primo ragazzo, il mio primo bacio… non le avrei mai raccontato di Jared, se avessimo abitato ancora sotto lo stesso tetto.
Ma lui era davvero importante per me, era la mia cura, il mio stare bene, il mio appartenere a qualcosa di vero e reale, senza rimpianti o rimorsi. Stavo davvero bene… stavo.
Quella notte infatti non riuscii a dormire. Chiudevo gli occhi e vedevo i suoi, azzurri e freddi, che si scioglievano in un lago brillante, coperto da un leggero strato di ghiaccio su cui ballavo.
Era lontano, nei pochi momenti in cui dormivo. Non lo vedevo vicino, non riuscivo a raggiungerlo.
Soprattutto, non era un immagine nitida, che non gli rendeva affatto giustizia. Ma io avevo bisogno di lui, adesso, subito in quel momento. E non sopportavo saperlo lontano, in California… un altro mondo rispetto alla tipica vita cittadina del Sud.
E come quella notte, anche Capodanno passò veloce, guardandomi dalla finestra della mia camera e mostrandomi le sue stelle. Non andai da Constance, non chiamai né Andy né Vicky, mandai a Jay solo un messaggio di auguri per la festa e per il provino del giorno dopo. Basta, mi stavo già isolando e la cosa non andava per niente bene… no, decisamente no.
 
“Dovrai uscire da quella casa prima o poi”.
“Io esco di casa, Vicky! Devo lavorare se te lo sei dimenticata”, le risposi a quella tipetta che era appena tornata da New York.
E sì, Sean ci aveva di nuovo reclutato per l’anno seguente e fin da subito, visto che le sue vacanze erano finite e la gente c’era abbastanza da poter riaprire e riguadagnare. Favoloso! Almeno avevo uno svago che non fosse chiudermi in casa. Sì, Vicky aveva ragione in fondo.
“Forza facciamo qualcosa! Domani possiamo uscire, magari al parco!”, propose. Sì, il parco… e magari anche a pattinare, eh Vicky?!
“No”.
“Va bene, evitiamo il parco. Hai bisogno di vestiti nuovi, potremmo fare shopping! Niente smalti o robe varie, solo qualche accessorio nuovo”, continuò. Come se di anelli o collane non ne avessi già abbastanza!
“Senti Vicky io…”.
“No senti tu! Basta, sembri un’ameba! Non puoi continuare a startene chiusa in casa, è normale che ogni luogo abbia un pezzo di lui… è vissuto qui!”, mi si piantò davanti, mentre cercavo di prendere la via per tornare a casa dopo il lavoro. “E non puoi continuare con miliardi di messaggi, ti serve lui in carne ed ossa!”.
“E che dovrei fare, genio?”, chiesi guardandola stupita.
“Fatti dare un anticipo da Sean che tanto te lo meriti per tutto il tempo che lavori e fatti un viaggetto nella città delle stelle! Non hai mai desiderato scappare a Los Angeles?!”, consigliò sorridendo malefica. Io? A Los Angeles? Questa era buona!
“Sì certo, e magari chiedo anche lavoro e mi trasferisco lì. No, senti qua, magari divento pure famosa! Non siamo in una favola, Vicky, questa è la vita reale!”, bocciai l’offerta.
“Vita reale?! E dimmi qual è la tua vita reale ora? La tua camera?”, mi chiese sapendo che stava per averla vinta. Maledetta! “Fatti un giro, te ne prego, non ti posso vedere sempre chiusa in casa, non sei la Veronica che ho conosciuto mesi fa! Su con la vita, non vi siete mica lasciati!”.
“Sinceramente mi vedi volare verso Los Angeles?”, chiesi sfinita, non vedendo altre alternative.
“Pensaci Veronica, non se l’aspetterà mai e se ti ha detto che è andato tutto bene con il produttore non vedrà l’ora di riabbracciarti”, mi disse sorridendo dolce. “Sarà felicissimo di vederti”.
“Quindi niente avviso?”, chiesi  facendola illuminare. Sì, era contenta che mi levassi di torno per un po’, che buon’amica!
“No no! Surprise, baby! Andiamo a casa, voglio subito vedere i voli e i costi! Mamma mia, posso venire anche io?”.
“No, tu hai appena cominciato scuola, quindi zitta e studia!”, la rimproverai scherzando. Lei fece il muso e cominciammo a dirigerci verso casa mia.
Constance era fuori nella sua veranda, con un maglione pesante e uno scialle di lana. Era sulla sedia e leggeva un libro. La salutai e lei ricambiò il saluto. Mi ripromisi di andarla a salutare il giorno dopo.
 “Eccoci qui, gli ho trovati!”, esultò la ragazzina appena accese il mio computer e la rete Internet, che andava ad una lentezza stratosferica. Feci in tempo ad andare di sotto e preparare due cioccolate intanto che Vicky smanettava con tasti e mouse. “Oh, grazie ne avevo proprio bisogno”.
Le passai la tazzina e ci soffiò un po’ sopra. Controllai fuori. Oh, oh, problema in arrivo. “Hai lo zaino qui?”.
“Che?”.
“Comincia a nevicare. Controlliamo e torna a casa, prima che sia tardi”, l’avvisai.
“Veronica… siamo nel Sud degli States! Domani ci sarà già il sole”, mi guardò male.
“Vicky, tu fidati e torna a casa, poi ti voglio vedere domani con la canottiera e degli shorts in giro per Bossier City in mezzo alla bufera di neve!”, la sfidai.
“Ok, ok, facciamo questa cosa”, evitò di accettare e mi fece vedere cosa aveva trovato. Un volo non eccessivamente costoso per Los Angeles partiva dall’aeroporto fuori dalla cittadina entro due giorni, verso le sei di sera. Sarei arrivata lì per le dieci e un quarto.
“Direi che può andar bene”, decisi e Vicky non perse tempo. Prenotò il volo e mi diede tutte le informazioni che mi servivano per partire tranquilla. Non che non lo avessi già fatto: in qualche modo ero già arrivata qui a Bossier City sana e salva, quindi ce la potevo fare.
 
“Vestiti? Check! Trucchi? Check! Scarpe? Check! Beautycase?  Check! Borsa? Check! Veronica… ok, anche tu ci sei!”, controllò Vicky scrupolosamente.
Avevo tutto, ero pronta per partire, mancavano due ore alla partenza ed ero ancora a casa. Non che fosse tardi, ma nemmeno presto.
“Uh, i caricabatterie?! Ok, check anche questi!”, si ricordò, ma presi già cosa aveva detto. Avevo già preparato tutto, ma lei si era intestardita a sistemare le cose. Come io avevo fatto con Jay e Shannon prima della loro partenza… bè, io non mi portavo dietro alette rosa o capellini con le antenne!
“Ok, per le prossime ore vedi di rilassarti, il tuo hotel è prenotato per tre giorni quindi fa con comodo e riguardo al volo di ritorno ti ho già prenotato tutto, basta che mi avvisi prima del giorno”, mi rispiegò da capo. Inutile dirle che avevo capito, non sarebbe servito a nulla. “Sean alla fine è d’accordo?”.
“Mi ha detto di fare buon viaggio e di divertirmi. In realtà ha detto che è meglio che mi ubriachi un po’ per rivitalizzarmi un po’ quindi credo che sì, sia d’accordo”, scherzai ricordandomi la conversazione avuta con lui il giorno prima, per avvisarlo della partenza.
“Fantastico, perfetto… e sì, di a Jared che ha tutto il mio permesso per farti uscire di testa in questi giorni, ti serve una bella sbronza!”, si convinse mentre io scuotevo la testa.
“Dai, andiamo, non ho voglia di restare qui a controllare altro, so di aver portato tutto!”, dissi stufa prendendo la mia valigia, la mia borsa e Vicky, per poi trascinarla sul taxi e dirigerci verso l’aeroporto.
“Seriamente non è giusto! Io domani sarò seduta su un banco e sentire una noiosa lezione mentre tu te la spasserai a Hollywood, in California! Lo sai che ti odio, vero?”, chiese mentre entravamo nell’edificio e notavamo che… era abbastanza vuoto.
“Sì, ti voglio bene anche io, tesoro, e mi mancherai da morire”, l’abbracciai ridendo.
“Sì lo so, senza di me non vivi, sono la roccia che tiene salda la tua vita, sono l’unica che ti capisce e bla bla bla”, si vantò.
“Ehm… sul serio? Io credevo che quella fosse Andy!”.
“Cosa?!”, si offese.
Scoppiai a ridere lasciando che mi voltasse le spalle e facesse finta di andarsene, per poi girarsi e correre verso di me. Allargò le braccia e fece per abbracciarmi ma la evitai, facendola quasi cadere per terra. Si poteva ridere ancora di più? Sì e lo feci.
“Sai che sei proprio antipatica?!”, si arrabbiò ancora, ma poi mi decisi ad abbracciarla sul serio. Non eravamo normali.
“Dai, torna a casa, che tra un po’ tocca a me”, le dissi salutandola. Lei mi sorrise e poi cominciò davvero ad andarsene, salutandomi con la mano.
“Ci sentiamo, Veronica! See you soon… and enjoy yourself!”, mi consigliò prima di scomparire e lasciarmi sola lì dentro. Bene, potevamo andare.
Con calma, visto che mancava ancora un po’, superai il check-in e andai verso i negozi e i ristoranti sempre presenti negli aeroporti. Andai  a prendere qualche cosa da mangiare, tanto per evitare di svenire lì visto che sarei arrivata alle dieci.
“Buongiorno”, mi disse un uomo sui trenta o quarant’anni, totalmente sconosciuto. “Prende il volo per Los Angeles?”.
“Che cosa vuole?”, chiesi di rimando, allontanandomi. Non era affidabile, lo sentivo a pelle.
“Mi scusi se sono stato scortese, ma mi sembrava di averla già vista da qualche parte. Forse… con qualcuno di importante”,  sussurrò. Notai che la mano destra toccava una borsa a tracolla. Non era una borsa normale, era una custodia. Un macchina fotografica?
Che voleva da me un paparazzo?
“Vado a Los Angeles, ma da sola”, chiarì in primis. “E no, sono una semplice mortale, non una di quelle fortunate stelle che possono avere qualunque cosa. Quelle stelle che lei perseguita”.
“Mi scusi, mi sembrava solo inusuale che una giovane e bella ragazza stesse aspettando il volo per Hollywood da sola e in questo periodo dell’anno”, sospettò. Ma che cazzo voleva da me?!
“Senta io le vacanze posso farmele quando voglio! E se permette, ora dovrei prepararmi, il mio aereo sta per partire”, dissi fredda scomparendo in un negozietto di souvenir per evitare che mi si presentasse di nuovo.
Girai un po’ e trovai delle cose davvero carine: non potevo avvisarli dell’arrivo, ma un piccolo regalo non era proibito.
A Shannon andai sul sicuro, prendendo un capellino stile quello con le antenne, tanto che la commessa mi guardò male. La capivo: era totalmente fuori quel ragazzo.
Mentre a Jared ero indecisa: non c’era niente che mi convinceva. Non c’era niente di particolare… ma eccolo. Era un piccolo plettro dorato, con al centro dei piccoli disegni astratti. Sul cartellino c’era scritto che dietro vi poteva incidere quello che si voleva.
“Vuole scrivere qualcosa?”, mi chiese infatti la commessa quando andai a pagare gli oggetti, dopo un’occhiataccia per colpa del capello. Sì, sapevo cosa scrivere.
“Se riesce vorrei incidere Year Zero”, le rispose. Lei sorrise e annuì, scomparendo un attimo in una stanzetta dietro la cassa. Mancavano trenta minuti alla partenza e in quel momento l’altoparlante chiese di prepararsi al volo.
Ticchettai le dita sul tavolo e in un batter d’occhio la cassiera tornò sorridendo ancora, mostrandomi il risultato. Ottimo.
La ringraziai e pagai il tutto, scappando di fretta verso l’uscita per andare al gate, dove avrei preso l’aereo. Del paparazzo nessuna traccia.
“Allacciate le cinture di sicurezza per la partenza. Have a nice travel with us!”, disse la hostess con voce elettronica nell’altoparlante quando salii sul mezzo e mi sedetti vicino al finestrino. Bene, non era completamente pieno. Fece quello che aveva detto e mi preparai al decollo, che avvenne dopo una decina di minuti.
Lettore mp3, ti lascio nelle tue mani!
 
Stasera andiamo ad una festa alla casa del nostro nuovo produttore, per festeggiare un po’. Tranquilla non succederà niente, Solon ci tiene a bada, mi aveva risposto per niente confuso dopo la mia richiesta per messaggio di sapere dov’erano. Bene, ora bastava sapere dov’era la casa del suo produttore.
Non fu difficile, i vip non sono così nascosti a Beverly Hills e le case dei personaggi famosi sono conosciute da tutti. Così, dopo aver capito dove sarebbero andati, tornai in albergo.
Feci la doccia, rilassandomi dal viaggio, misi il vestito che mi ero portata, tanto non faceva molto freddo, mi truccai e pettinai, mi ricontrollai per l’ultima volta e poi misi la giacca. Uscii dell’hotel, sorridendo al portinaio, e chiamai un taxi.
Era così strano: tutto era illuminato ed era come se ci fosse il sole alle undici di sera. Non faceva al caso mio, ma era assolutamente perfetto per una vacanza. Sarei dovuta venire più spesso a Hollywood!
A fine corsa pagai il taxista, che mi guardò bene, pensando che fossi un’invitata. Cavolo, non ci avevo pensato! Come avrei fatto ad entrare?
Due omoni megagiganti se ne stavano davanti alla porta, lasciando però libera la via dal giardino, anche se il loro sguardo guardava d’ovunque. Avrei dovuto chiamare i ragazzi e addio sorpresa, uffa!
“Nominativo”, mi chiese uno di quelli vedendomi incerta.
“Ehm… Veronica McLogan. Non sono invitata, ma… sono un’amica dei Thirty Seconds To Mars”.
“Sì, certo. Tutti vorremmo essere amici di personaggi famosi, ora smamma ragazzina”, mi disse, prendendo la mia mano.
“Non mi tocchi”, chiesi cercando di liberarmi. “Non mi tocchi ho detto!”.
“Ronnie?!”, sentii la voce di… Solon! Oh grazie al cielo, qualcuno mi ascolta da lassù! “Lasciatela andare è davvero con me”.
I ragazzoni mi guardarono male, fissarono Solon per un attimo e poi mi mollarono, facendomi irritare parecchio. Non ero una maledetta bugiarda, al diavolo loro!
“Solon!”, andai ad abbracciarlo. “Anche se non è la situazione migliore… Sorpresa!”.
“Ehm, ciao Ronnie, che diavolo ci fai qui?!”, mi chiese sconvolto entrando in casa e mostrandomi la pista da ballo. Non del tutto però, perché mi copriva un po’ la visuale. Come se non volesse farmi vedere qualcosa.
“Bossier City non è eccitante come Los Angeles, volevo solo farmi un giro dai miei amici”, spiegai felice. Cavolo mi era mancato davvero un sacco. “Dov’è Shannon? E Jared?”.
“Ecco… io…”.
“Ronnie?!”, esclamò il grande Leto. Che succedeva? Non erano contenti che fossi lì? “Che sorpresa… voglio dire, wow!”.
“Ehi, guarda qui”, gli passai il regalo. “Così aumenti la tua collezione”.
Lui sgranò gli occhi e poi scoppiò in una risata. “No, è fantastico! Cavolo adesso lo metterò sempre, grazie!”.
Risi, pensandolo in giro per Hollywood con quel coso in testa. Era totalmente andato, poverino. “Ti riconosceranno di sicuro tutti quanti, sappilo. Ehi, ma tuo fratello?”.
“Ehm… non lo so… ti va se ci facciamo un giro?”, chiese all’improvviso nervoso. No, non volevo fare un giro, ero venuta qui per Jared… che succedeva?
“Cosa mi nascondete voi due?”, chiesi superandoli e facendomi strada fra la folla. Solon mi prese il braccio, facendomi voltare, ma lo fulminai con lo sguardo e mi liberai dalla presa. “Lasciami stare!”.
Andai al centro della pista, ma di Jared nessuna traccia. Eddai, non poteva essere così difficile trovare il proprio ragazzo ad una festa a suo onore, no?!
“E già, faremo un disco… figo, no?”, sentii la sua voce strascicata verso destra.
Era… era Jared, con i capelli tinti di biondi sui lati, lasciando la ricrescita nera, con… con due biondine attaccate a lui. E non di certo da amiche. Non succederà niente, eh Jared?!
“Ehi, moretta”, si voltò verso di me, con gli occhi quasi appannati; non riusciva ad inquadrarmi bene. Mi avvicinai involontariamente, come se mi aspettassi che fosse un incubo e quelle due galline sparissero dalla faccia della terra. “Come siamo carine… se vuoi ti puoi unire alla festa, Leto apprezza le novità”.
“Che stai dicendo Jared?”, chiesi sconvolta mentre una gli sussurrava qualcosa all’orecchio. Lui si voltò, sorridendo malizioso, per poi tornare di nuovo a me.
“Vieni qui, non fare la timida…”, mi chiamò a sé, mentre le due stronzette ridevano ubriache. Lo toccavano, gli accarezzavano il petto. Eh, no, non ci siamo, mettete quelle vostre fottute mani a posto! “Non sono occupato tutta la notte, sai?”.
“Oh Jared, sono davvero stanca… andiamo a casa mia?”, chiese una delle due, mentre l’altra annuiva.
“So che Bob ha le camera anche di sopra, se proprio siete stanche… ci vediamo moretta”, disse malizioso vicino alla bocca di una bionda per poi andarsene via, guardandosi indietro.
Buttai il plettro per terra, che si spezzò sull’angolo acuto, e sentii le lacrime scendere veloce. No… no, lui non era una cura. Era un’altra fottuta maledizione.
No… no, nessuno mi stava ascoltando. Tutti volevano solo che io soffrissi.
No… no, non potevo restare qui. Ora sì che mi sarei seriamente chiusa in camera mia.
“Ronnie”, arrivò Shannon mettendomi una mano sulla spalla e cercando di abbracciarmi. “Ronnie non è…”
“Vattene via, Leto. Vattene via e non osate farvi più sentire. Non vi voglio più nella mia vita: non chiamatemi, non scrivetemi, non fatevi vedere. Avete chiuso con me”, sussurrai allontanandomi. “E osa scusarlo che vi ammazzo tutti e due. Fanculo lui, fanculo te, fanculo la vostra cazzo di musica!”.
E scappai, tornando a casa. Ormai avrei dovuto saperlo: i senza cuore sono dappertutto.



...
Note dell'Autrice:
Il titolo è preso da "New Born", dei Muse. Amo quella canzone e dovevo inserirla, questo capitolo era perfetto così l'ho messa nel titolo. Riguardo al capitolo non mi sembra niente di così strano, so che avreste voluto più calma e magari più tempo per il rapporto Ronnie-Andy ma così va la vita xD Avremo modo di parlarne nei prossimi capitoli.
I misteri di questa sera sono infiniti, non credete di aver capito tutto su Jared come Ronnie :) verranno sveltati più tardi.
Bacioni, 
Ronnie02

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Capitolo 15
*** Bottom Of The Ocean ***


Ed eccomi qua, ancora. Come promesso questo capitolo è arrivato in fretta, ma come promesso, la sua lunghezza non è come la solita. Queste tre piccole pagine di Word però sono importanti per capire come Ronnie potesse sentirsi. In fondo la sua cura è diventata l'ennesimo dolore. E ora?
Il capitolo si basa su una canzone di
Miley Cyrus "Bottom Of The Ocean", da cui prende il titolo. Vi pregherei, mentre leggete, di sentirla comunque, anche se Miley non vi piace. Vi farà provare le stesse emozioni, spero, ed è lo scopo di questo capitolo, visto che senza questa canzone non sarebbe mai esistito. Grazie.


 

Chapter 15. Bottom of the Ocean

 


It's been in the past for a while
I get a flash and I smile
Am I crazy? Still miss you, baby
It was real , It was right
But it burned too hot to survive
All that's left is, All these ashes

 
Sono di nuovo a casa, il mio telefono spento, senza nessun contatto con persone o mondo. Basta, è finita. Non posso più rischiare di farmi male. Appartengo al mio passato, lo vedo, gli sorrido anche se è doloroso. Sono matta? Mi manchi ancora troppo…
Credevo che fosse giusto, che fosse reale. Ma invece era solo una bugia, una bellissima bugia che hai portato via. Jared, perché mi hai fatto questo? Avevi detto di amarmi, ma mi hai mentito.
E quelle parole fanno male, bruciano e non mi lasciano vivere. Il nostro amore è lì, in quelle ceneri.

 
Where does the love go? I don't know
When it's all set and done
How could I be losing you forever,
After all the time we spent together?
I have to know why I had to lose you
Now you've just become like everything
I'll never find again
At the bottom of the ocean

 
Dove è finito quello che provavamo? Non ne ho idea. Forse davvero l’essere famosi ti cambia, ti rende peggiore. Perché te ne sei andato allora? Perché ti ho lasciato andare? Ti ho perso per sempre, anche dopo tutto il tempo che abbiamo passato insieme. So perché ti ho perso, io e le mie fissazioni e paure… ora sarai come tutto quello che mi ha fatto male.
Nascosto, nel fondo dell’oceano.
 

In a dream, you appear
For a while, you were here
So I keep sleeping, Just to keep you with me
I'll draw a map, Connect the dots
With all the memories that I got
What I'm missing, I'll keep reliving

 
Mi addormento e ti vedo. Sei lì, del tutto moro, e ti posso toccare, sentire vicino, sei qui con me. Cerco di restare in quel sogno, voglio rimanere lì con te. Mi farà male, al risveglio, saperti lontano, con delle sconosciute e magari felice di non avermi fra i piedi, ma non importa.
Sei troppo importante e ricorderò sempre questi mesi. Li disegnerò, li scriverò o semplicemente li terrò a mente. Non li voglio dimenticare, anche se dovrei, anche se sarebbe la cosa giusta. Continuerò a riviverli.
 

You don't have to love me for me
To baby ever understand
Just know I love the time we both had
And I don't ever want to see you sad
Be happy

 
Non devi ritornare da me solo per parlarmi e chiarirmi le idee, o solo perché io sia felice. Non voglio, non voglio vederti qui.
Ma non riesco ad odiarti completamente, ti amo troppo e amo i momenti che abbiamo passato insieme. Vorrei che non fossero mai finiti, ma tu hai deciso così.  Non essere triste in ogni caso. Sii felice, sempre, e fai quello che credi giusto.
 

And I don't wanna hold you
If you don't wanna tell me you love me babe
Just know I'm gonna have to walk away
I'll be big enough for both of us to say
Be happy

 
Non voglio che tu torni, non voglio che tu resti attaccato al passato, come farò io, persa in un presente troppo duro per superarlo. E non dirmi che mi ami, se non è vero, se lo dici solo per farmi contenta. Non è quello che voglio, non potrei sopportare troppe bugie.
Ora lasciami andare, sono grande abbastanza per sopportare questo dolore… credo. Sono più matura di te, e di questo ne sarò sempre certa. E per quanto in questo momento io possa odiarti, disprezzarti e detestarti… voglio che tu sia felice.
Be happy…
 
La neve cadde. La sentivo fredda sulla mia pelle. Sentivo che i miei pattini noleggiati non erano preparati a sopportare il freddo e gli ostacoli nevosi. I piedi mi facevano male.
Caddi. La mano destra si fece male, ma non dissi niente e mi rialzai, continuando a pattinare, senza fermarmi mai. Mani, piedi, fianchi, testa, collo… ormai avevo colpito tutto a furia di cadere sulla lastra ghiacciata e stavo diventando un ghiacciolo. Ero lì dalle otto del mattino, avevo pagato per tutta la giornata.
Non avevo mangiato. Che senso aveva? Non avevo fame, potevo resistere anche senza. Ormai il pranzo lo saltavo costantemente.
Caddi di nuovo, come la fredda neve dalle grigie o nere nuvole, in mezzo alla nebbia.
Mi tirai su, ma una mano mi fermò. “Basta”, mi ordinò una voce non del tutto sconosciuta. Nella nebbia, vidi il viso di… Carl.
“Lasciami in pace”, dissi con voce non molto ferma.
“Allora hai ancora l’abilità della parola! Si dice che le tue corde vocali siano state mangiate da un orso polare”, scherzò, senza farmi ridere.
“Che vuoi da me?”.
“Perché invece di star male e sopportare, non lotti? Ribellati Veronica, non lasciarti sopprimere”, mi consigliò.
Me ne andai, lasciandolo lì, senza risposta. E quando mai mi ero ribellata a qualcosa più grande di me. Sono brava a dire tante cose, ma quando scoppiavo era la fine. Tutti i problemi che avevo lasciato laggiù, nel fondo dell’oceano, erano tornati a galla e mi trascinavano nell’oblio come degli zombie che mi volevano trasformare in un mostro.
Mi hanno presa, hanno vinto. Sono finita nel fondo dell’oceano, nel passato… mi hanno trasformata.
Lasciatemi nel mio silenzio, dite quel che volete, avrei voluto urlargli in faccia, ma il povero Carl non c’entrava niente, era solo capitato nel momento peggiore. Non capiva, non sapeva. Nessuno poteva.




...
Note dell'autrice:
Sì, siamo già qui. E qui si chiude la breve prima parte della storia. La seconda comprenderà la bellezza di 24 capitoli più l'epilogo. Quindi ragazze, non allarmatevi, la strada è lunga, i problemi molteplici e questo è solo l'inizio.
Spero che sia il capitolo che la canzone vi siano piaciuti! *sono felice perchè l'esame d'inglese forse è andato bene :)* 
Ci vediamo, martedì, penso, per prossimo.

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Capitolo 16
*** Revenge ***


Ho detto martedì ed eccomi qui! Sono stata brava, vero?
Allora, spero che lo scorso capitolo vi sia piaciuto, anche se ha avuto solo due recensioni (recensiteeeeeee :D) ma ora è tempo di andare avanti. Se ci sono cose che non capite, tranquille arriveranno gli approfondimenti. Ogni dubbio avrà il suo chiarimento durante la storia.
Ora vi lascio alla lettura, mentre io cerco disperatamente di sbloccare il mio iPod (D':) e cerco di smetterla di ridere per colpa della MarsClipMonday di Boston. Lo so, sono strana. :)




Chapter 16. Revenge   

 




“Lien, muoviti!”, urlai scherzai facendo alzare quella ragazzina e facendola ballare come doveva. “Uno, due, tre e quattro! Dai che manca poco, ragazze!”.
Lei si alzò, con un mezzo sbuffo e un mezzo sorriso. Non aveva la minima voglia di ballare oggi, lo potevo vedere, ma sapeva che davvero tra poco sarebbe finita la tortura e sarebbe andata a fare il suo giro per il set, tutta felice.
“Uno, due, tre e quattro e giro. Uno, due, tre e quattro, di nuovo, andate a ritmo!”, ripresi mettendomi in mezzo e aiutandole con i passi, mentre la musica pompava. Le note di Pink con “So What” ripresero a suonare e noi a ballare su di loro.
Le mosse erano carine, veloci, spassosi e non lasciavano tempo al respiro nemmeno per un secondo. Dovevamo essere veloci, e per me significava divertimento puro.
Uno, due, tre e quattro he’s gonna start to fight!  
Il balletto stava andando bene, lo provavamo da giorni, sarebbe stato in una delle scene esattamente con la stessa canzone, l’unica non scritta apposta per il film. No, no… I don’t wanna you tonight
Ed eccoci alla fine, mancava poco. Uno, due, tre, quattro ta ra tata tada! Prr!
“Finito!”, urlò Glory, che si alzò dalla posizione accucciata free style che aveva scelto per la fine e alzò le braccia in segno di vittoria. “Non dovremo riprovarla mai più, vero Ronnie?”.
“Bè, solo quando faremo la scena. Per il resto basta, siete state brave, davvero”, sorrisi lasciandole andare. Ormai provavamo da quella mattina e la parte del ballo era la più avanti di tutte. Ci eravamo messe al lavoro in fretta, nel frattempo che il casting definiva le ultime parti. Oggi sarebbe dovuto arrivare il personaggio maschile protagonista.
Mi immaginai il genere: presuntuoso, permaloso, rompipalle, che si arrabbia e chiama il suo manager perché non gli viene un semplice passo di danza secondo lui inutile. Ma fammi il piacere…
“Ronnie!”, urlò una vocina nel mio telefono quando lo accesi e notai le chiamate. Oddio, era proprio fissata.
“Andy! Ma ti rendi conto che siamo tutte due a New York e invece che venirmi a trovare di persona tu mi chiami?! È assurdo!”, risposi ridendo.
“Lo sai, non posso fare a meno di usare il mio nuovo bellissimo Blackberry, dai!”, si fece perdonare facendomi scoppiare in una risata davanti al regista che si stava avvicinando. Ora delle presentazioni?
“E’ già tanto che non te lo sposi solo perché ancora nuovo. Tra due mesi… no scusa, due giorni lo butterai in giro come se ne avesse dieci di anni!”, la presi in giro, notando che il mio manager e produttore stava ciarlando con qualcuno, nascosto dalla porta che dava sulla sala da ballo.
“Veronica! Sei un mito, ho visto il balletto e che dire? È meraviglioso!”, si complimentò il regista ancora una volta battendo le mani. Risi e gli chiesi di aspettare un secondo.
“Senti, se hai finito di parlare da sola su quanto non sia vero – anche se lo sappiamo tutte e due che ho ragione – io dovrei andare a lavorare, come dovresti fare anche tu”, la salutai.
“Oh, ma come siamo simpatiche! Si vede che la California non ti fa bene, meno male che ora sei qui a New York. Dimmi quando sei libera, ho voglia di fare un giro”.
“Ma certo! Ora ti saluto, sorella, ci sentiamo!”, la salutai di nuovo mentre lei mi rispondeva sopra la mia voce. “E vai a lavorare, fissata!”.
Sorridendo, chiusi la conversazione e misi il telefono di nuovo nella borsa, visto che la tuta non aveva le tasche. Tuta… diciamo che  canottiera e leggins potevano dirsi una tuta.
“Scusa, mi hai beccata in un momento sbagliato”, scherzai con il regista.
“Non fa niente, tranquilla. Volevo parlarti del film per qualche minuto se avevi tempo, va bene?”, mi chiese mentre io annuivo. “Se per te va bene domani possiamo cominciare a provare sul set e tra qualche giorno vorrei iniziare con le registrazione durante il pomeriggio. Come vanno le coreografie?”.
So What è pronta, appena registriamo le altre canzoni mi metto al lavoro”, concordai prendendo le mie cose e mettendo una felpa pesante addosso.
“Ok, perfetto. Allora ci vediamo dopo a cena”, mi salutò prima che prendessi il mio iPhone e mandassi un messaggio alla mia seconda migliore amica, in preda alle disgrazie della preparazione di un matrimonio.
Ho mandato il disegno del vestito alla tua e-mail, dimmi cosa ne pensi così lo faccio cucire, scrissi veloce, non guardando cosa stava ancora facendo il mio manager barra produttore barra miglior amico. Era di tutto lui.
“Che…”, sentii sussurrare, ma il trillo del mio telefono evitò che mi voltassi e mandassi al diavolo il solito idiota che commentava le mie gambe.
Tu sei… tu sei un mito. Io ti amo, Veronica McLogan, che Dio ti benedica!, mi rispose con un miliardo di grazie e di faccine sorridenti o tanti cuori. Oh, mamma mia, com’era complicata quella donna!
Sì, va bene, come vuoi! Dopo ti mando anche quello del tuo favoloso futuro maritino. Ora ho solo voglia di farmi una bella doccia e dormire un po’, mandai il messaggio in un attimo e andai nella mia roulotte, proprio a fare quello che avevo detto.
Buttai il telefono e la borsa sulla piccola poltrona all’entrata e mi diressi, togliendomi la felpa, verso il minibagno. In questo set avevamo escluso l’albergo, non c’erano abbastanza soldi essendo di piccolo budget. Sarebbe toccato a noi attori fare leva sui fan per portare il film in alto. O così mi avevano detto.
Mi guardai allo specchio. Era passato così tanto tempo da quando riuscivo a prendermi una vera pausa da tutto. Quasi tre anni…
Tre anni di cambiamenti, di nuove esperienze, di soddisfazioni e realizzazioni di sogni… ma anche tre anni di incubi, perché quelli non se n’erano mai andati. Soprattutto il suo, soprattutto in questo periodo.
Ma perché ancora? Erano passati… quanti? Dieci anni? Dieci anni da quella stupida sera che mi aveva portata per la prima volta nella città dove ora vivevo e lavoravo.
Ormai la mia pelle era invecchiata, le mie forze meno presenti, il mio corpo più adulto, la mia mente più sviluppata. Ero cresciuta e cambiata così tante volte da farmi paura.
Dieci anni da quando avevo visto per l’ultima volta i Leto.
Basta, evitai ancora di pensarci e mi infilai nella doccia, canticchiando la canzone che avevo per lungo ballato quel giorno. Ormai non avrei più potuto togliermela dalla testa, ci avevo lavorato troppo. Ripensai ai passi, ai movimenti da perfezionare.
Non che non lo fosse, ma ora più che mai tendevo ad oltre la perfezione. Era diventata una cosa troppo importante.
Uscii in fretta mettendomi qualcosa addosso e, cercando di non bagnare il pavimento con i lunghi capelli umidi, tornai alla mia postazione davanti allo specchio.
Dio, non sembravo nemmeno io. Per questo film mi avevano completamente lisciato i capelli, lasciando almeno il colore naturale, ma senza i ricci a cui mi ero abituata per circa ventinove anni era davvero strano. Anche Andy la prima volta si era spaventata, ma poi si era decisa a dirmi che in fondo stavo davvero bene anche liscia.
Infatti misi a scaldare la piastra per una ritoccatina post-doccia e andai, in biancheria intima, a prendere dei vestiti decenti.
Era la fine di aprile e a New York faceva ancora un po’ freddino, perfetto per il film ma non esattamente carino per noi attori. Così mi misi dei pantaloni blu elettrici lunghi e attillati con un maglioncino leggero verde con scollo a v.
Tornai in bagno e notai che la piastra era pronta. Perfetto.
Cominciai a prendere le ciocche lisce e passarle in mezzo alla piastra lentamente, facendole scaldare per bene. Ci volle un po’, ma alla fine, verso le nove, avevo fatto tutto e uscii, con il telefono in tasca per ogni evenienza, per andare alla cena con tutti.
“Ronnie!”, mi chiamò Dorothy, una ballerina dell’età di Lien,  facendomi segno di sedermi con loro, appena entrai nella “sala mensa”. Mi sembrava di essere tornata a scuola, cavolo!
Le salutai, ma evitai di andare con loro. Avevano sedici anni e sapevo che la mia presenza era della solita adulta che ci controlla ma di cui possiamo fare a meno. Così andai a sedermi con il regista, la sceneggiatrice e il mio carissimo manager, che mi sorrise. Non parlò, il che era davvero strano.
Il regista ad un tratto però si alzò, e andò incontro a tre ragazzi che non avevo mai visto sul set. Ma questo non implicava che non li conoscessi.
“Mia cara Ronnie, vieni qui, te ne prego”, mi chiamò cercando di essere più formale possibile.
Lentamente mi alzai, misi una mano sulla spalla del mio manager e gli strinsi forte per un attimo la camicia. Poi mollai la presa e mi avvicinai al mio temporaneo capo.
“Abbiamo finalmente trovato il protagonista maschile, che ti accompagnerà per i prossimi mesi in pratica”, mi disse presentandomi un biondino sorridente dagli occhi azzurro ghiaccio e le labbra rosse, mezze piene. “Ti presento il tuo nuovo collega… Jared Leto”.
Panico. Assoluto e assurdo panico.
“Ronnie?”, mi richiamò all’attenti il regista. Mi svegliai, presa da un forte mal di testa. L’avevo capito, non ero stupida. Ecco perché avevo stretto la camicia del mio manager.  Ma avevo sperato fino alla fine che fosse un’allucinazione, una brutta visione.
“Sì, certo. Benvenuto nel cast, Jared”, pronunciai il suo nome con tono abbastanza freddo, che fece levare sospetti al mio capo. Poi sorrisi, malefica, a dire quasi ora te la vedrai direttamente con me, bello. “Lien, che ne dici di un bel karaoke?”.
Lien amava la musica, soprattutto la mia musica. Il che, in questo preciso instante, non era che la cosa più bella e utile che potessi mai chiedere. Infatti si alzò immediatamente e salì correndo sul piccolo palco, sorridente come sempre, muovendo i suoi lunghi capelli biondi in grandi ondate.
“Signori e signore, attori e attrici, vi presento la nostra, l’unica, la più grande… Ronnie! E ovviamente mi presento da sola, visto che canterò con lei. Io!”, rise facendo un inchino.
Scoppiai a ridere, seguita dai due ragazzi dietro il nuovo protagonista maschile – che ancora non riuscivo a chiamare per nome – e mi diressi verso quella pazza.
“Che cantano?”, sentii dire dal biondino.
“Conoscendole, l’album di Ronnie… Memories”, gli rispose il mio manager, alzandosi e andando verso di lui. Bè, ci mancò poco che il traditore non svenne quando lo vide, perché la verità era che lo conosceva fin troppo bene.
 
 
Jared
 
 “Il suo album?”, chiesi a… Solon, che si era avvicinato a noi sorridente mentre Ronnie se ne andava via sculettando. Cristo, se era diventata bella! Ancora più bella di quanto la ricordassi, anche se la preferivo riccia. “E tu che cavolo ci fai qui?!”.
“Ehi, calma, dude!”, fece il simpatico senza risultati. “Bè, direi che le risposte sono collegate. Circa tre anni fa l’ho incontrata a Boston, in vacanza con una sua amica e ci siamo messi a parlare. In pratica mi ha fatto leggere delle sue canzoni e ho deciso di farle da manager e produttore, quindi eccomi qui!”.
“Tu sei il suo manager?!”, urlai, intanto che lei prendeva in mano il microfono, da vera professionista, e fece un leggero inchino piegando le gambe. “E quando pensavi di dirmelo?!”.
“Mai? Jared ti vuole tenere lontano, se non l’hai ancora capito! In quel maledetto disco parla solo di quanto tu l’abbia fatta soffrire per quelle due troie che ti sei fatto”, mi rinfacciò tutto quanto sussurrando.
Le mani cominciarono a tremare, perché nello stesso istante in cui lui aveva smesso di farmi sentire un totale buono a nulla, lei aveva dato il via alla musica e la sua voce si espanse per tutta la sala, facendo cantare tutti quanti.
Era una voce diversa, adulta, matura, sexy.
“You’re a really fucking bastard, you think that everyone turn around only you. This is not the truth, this is only a dream. Keep that in mind: soulless is everywhere!”, iniziò a cantare, mentre Solon mi guardava deciso e Shannon deglutiva.
Non era così che mi ero aspettato questo giorno, non era così che doveva andare. Ma sapevo che non c’era altra scelta.
Take your things and go away from me, take your fake love and give it to another dreamer girl. It’s over, ‘cuz I realise that soulless is everwhere”, continuò la ragazzina che aveva chiamato con lei… Lien mi sembrava.
Ormai era inutile pensarci sopra: parlava di me, ero io il senza cuore, ero io che dovevo andarmene via. Peccato che era stata lei a scappare quella notte, senza lasciarmi il tempo di spiegare, visto che aveva obbligato Shannon a non farmi più vedere. We’ll never fade away… sì certo, come no.
“Perché non le parli ora che sei qui”, mi consigliò Shannon sussurrando, per non farsi sentire. “Ne hai l’occasione, coglila al volo”.
“Non mi lascerà mai parlare”, dissi senza staccare gli occhi da quel viso più truccato di dieci anni fa, da quei capelli rossi ma lisci come spaghetti, da quelle gambe sempre slanciate, da quegli occhi verdi che non lasciavano scappare. “Hai visto come mi ha risposto? Sembrava avesse visto la morte in faccia!”.
“Sei invecchiato, bro. Magari aveva davvero paura”, ridacchiò facendo sorridere anche quell’idiota di Tomo, che lo sosteneva sempre.
“Non siete per niente simpatici, sapete?!”, mi voltai verso di loro, con sguardo cattivo. “Soprattutto tu… bro!”.
One day you told me ‘I love you’ and I believed in you. But now, here, in front of me… it was real, soulless?”, cantò come finale, lasciando che la musica finisse tranquilla. Sì, era reale, Ronnie, reale come non lo avrei mai immaginato.
Ma perché non potevo dirtelo?!
“Ti ho sempre detto che posso andare a dirle la verità quando vuoi”, mi rispose Shannon serio, per una volta nella sua vita.
“E pensi che ti crederebbe?! Non l’ha fatto quella notte, non lo farà mai ora. Sono un senza cuore, Shan, non sono fatto per amare”, scossi la testa.
“Eppure ami la tua vita, ami i tuoi fan, ami il tuo lavoro, ami la band… questo non è amore? Che cambia?”, s’intromise Tomo, con la sua solita saggezza. “Non credo che non ti lascerebbe parlare, ormai sono passati dieci anni, Jared!”.
“E quella canzone l’ha scritta due mesi dopo quella sera… non è così attuale, diciamo”, mi informò Solon. Era così strano riaverlo vicino… non ci ero più abituato cavolo!
“Non cambia niente! Che sia ora o dieci anni fa, l’ho persa per sempre”, piagnucolai sedendomi sulla prima sedia libera che trovai, guardando Ronnie abbracciare la ragazza e battere il palmo contro il suo, sorridente.
Poi scese dal palco, guardò un attimo nella mia direzione, e ci venne incontro, prendendo il suo telefono, un iPhone con una cover rosso fuoco, in mano.
“Credo che questo sia perfetto”, disse sorridente, guardando il nostro chitarrista e mostrandogli una foto in faccia. Era un… vestito da cerimonia. “Ti starebbe meravigliosamente”.
Shannon la guardò stupito, io cercai di collegare un vestito da cerimonia a Tomo e a Ronnie nello stesso filo conduttore, mentre lui deglutiva e faceva finta di non capire.
“E’ molto bello… già”, annuì indeciso, come se non sapesse di cosa stesse parlando Ronnie.
“Sì, ho già capito che lo chiedo a chi è più esperto di te”, sorrise lei, rimettendosi il telefono in tasca. “Cavolo, Tomo, di solito non sei così sulle nuvole. Terra chiama Tomo!”.
“Oh, capito, stai ferma con quella mano”, sorrise spensierato per un secondo, prendendole la mano e rimettendola vicino al fianco, per poi ritornare al suo posto con un’espressione io-non-so-nulla.
“Non dovresti frequentare certa gente così spesso… ti rovina”, commentò fissandomi per un attimo e poi voltandosi. “Ci vediamo alle prove!”.
Se ne andò a parlare con una ragazza mora, più piccola di lei forse, e non tornò più. Intanto però Tomo era nervoso e teso… qualcosa non quadrava.
“Se ti serviva un vestito potevi chiedere anche ad un normale stilista, non la mia ex ragazza! E poi come fai a conoscerla?!”, chiesi alzando di un tono la voce man mano che arrivavo alla fine della frase. “Non è divertente, Tomo, non lo è affatto”.
“Non è niente, Jared, non arrabbiarti”, cercò di giustificarsi. “Vado a fumarmi una sigaretta, tu beviti una camomilla”.
“Tomo!”, lo riprese Shannon.
“Senti, non mi frega niente, ho bisogno di una sigaretta e mi fumo una sigaretta. L’operazione fine fumo si completerà più in là”, se ne andò via, lasciandomi arrabbiato. No, non me la contava affatto giusta!
“Tu ne sai qualcosa?!”, chiesi a mio fratello, che era evidentemente scocciato.
“So solo che dovresti piantarla di parlare con me e andare da lei a sistemare le cose”, disse andando verso il bar, per bere qualcosa.
Rimaneva solo… ehi, dov’era finito Solon?! Oh, fantastico, esce dalla band dopo il primo disco, ha ritrovato la mia ex ragazza senza dirmi niente e ora che mi potrebbe aiutare se ne va! Davvero, ottimo amico!
“Signor Leto”, mi chiamò il regista, facendomi avvicinare ancora una volta a Ronnie.
“Mi chiami pure Jared”, semplificai.
“Bene, Jared, domani cominceremo le riprese, il copione ce l’ha già a quanto mi risulta, mentre alla sera è libero, se abbiamo finito. Ormai dovrebbe essere pratico al sistema cinematografico”, mi spiegò mentre io annuivo a tutto. Poi si rivolse a lei. “Per te è meglio che cominciamo subito con le canzoni. Domani pomeriggio in sala prove e dopodomani registriamo. Jared, per una canzone ci servi anche tu. E, cosa più importante, appena le canzoni saranno registrate dovrete ballarle. Tutti e due, sul set”.
No… no… no! No, ballare, no! No, ballare con Ronnie, no!
“Dovrei insegnare a… Jared le mie coreografie?!”, si stupì Ronnie come se gli avesse chiesto di morire per me. Una volta lo avrebbe fatto, prima che io facessi il coglione.
“Sei qui per questo, non ti sembra?”, sorrise il regista lasciandoci soli e in silenzio. Ronnie aveva gli occhi spalancati, la bocca mezza aperta e le labbra tremanti. Poi si voltò.
“Jared Leto, sei stato sfortunato ad entrare in questo cast, oh sì! Non oserai sbagliare un passo, non proferirai parola durante le prove, non mi rivolgerai mai la parola se non in caso di morte… anzi nemmeno in quello e, sopra ogni cosa, non impicciarti dei miei affari”, mi bisbigliò prepotente indicandomi con il dito, manco fossi il mostro più terribile dell’universo. “E’ tempo di vendetta, Leto. La mia vendetta”.
Bene, ero nella merda.
 
“Come può essere così maledettamente difficile, Connor?”, mi stava chiedendo, ma ovviamente non lo stava dicendo realmente a me. E al contrario di come avevo sempre creduto… se la cavava bene con la recitazione, fin troppo bene.
“Non credo che possiamo cambiarlo, Jackie”, risposi chiamandola con un nome che faceva a pugni con il suo aspetto. Non era lei, non era la vera Ronnie.
“Finiscila di farti prendere dalle paure e dai doveri!”, urlò seguendo il copione, ma parlando davvero, o almeno lo credevo. “Non credi che la vita debba essere conquistata?! Non dobbiamo seguire quello che ci propongono gli altri, dobbiamo decidere noi la nostra strada!”.
“Non voglio rimanere solo, non posso”, confessai.
“Sei così infantile e bambino, Connor? Credi davvero di restare solo? Non sarai mai solo se credi nei tuoi sogni!”, mi disse prendendo la mia mano e sorridendomi, sorriso che arrivò agli occhi per un attimo.
Ma poi il regista chiuse la scena e Ronnie si allontanò in fretta da me, per andare a sapere com’era andata.
“Fantastici ragazzi, siete meravigliosi, ottimo lavoro!”, si complimentò lui facendola saltare di gioia, seriamente stavolta. “Solo una cosa, Jared: sii un po’ più presente, sembravi pensare ad altro in questi ultimi cinque minuti”.
“Lo terrò a mente”, dissi per poi dirigendomi verso i miei amici, che guardavano la scena prendendomi in giro però. Ma perché me li ero portati dietro?!
“Non posso credere di aver davvero fermato il tour per sopportarvi anche qui… possiamo tornare a suonare?!”, supplicai sedendomi tra loro, stanco. Non sapevo che fare.
“E’ l’occasione giusta”, continuò a dirmi Shannon senza realmente guardarmi. Ma la piantava? Aveva il chiodo fisso ormai! “Arriva!”.
E infatti, appena mi voltai, vidi Ronnie, pronta per l’altra scena con shorts bianchi e maglietta slargata rossa, accucciarsi vicino a Tomo. E no, non ancora, eh!
“La tua dolce metà mi ha appena confermato gli abiti. Manderò i disegni ai sarti. Dovrebbero essere pronti qualche settimana prima del matrimonio”, lo avvisò lei sorridente. “You’re welcome!”.
“No, no, wait! Matrimonio? Dolce metà?”, la fermò Shannon facendola sorridere come una maestra che si diverte a vedere l’ignoranza dei suoi piccoli alunni.
“Mai pensato che la Vicky di cui vi parlavo era la stessa Vicky che questo bel Dio ha conquistato?”, ci chiese dando un piccolo pugno sulla spalla di Tomo. “Intelligenti i tuoi amici, Mofo”.
“Già… ci vediamo dopo, Ronnie, ciao”, la mandò via, mentre lei rideva e si univa al gruppo che avrebbe dovuto ballare.
“E così tu la conoscevi già… e non ce lo hai mai detto… ed è la migliore amica di Vicky!”, cominciai ad arrabbiarmi sul serio.
“Ragazzi, mi hanno pregato in ginocchio, non potevo fare niente!”, si scusò. Non era abbastanza, non era fottutamente abbastanza!
“Sei il nostro miglior amico, dovevi dircelo comunque! Allora è per lei che non ci inviti al matrimonio, è così? Tutte quelle cazzate da ‘abbiamo tutti da fare’ o ‘vorrei che fosse più intimo possibile’… stronzate Tomo, solo stronzate”, urlai alzandomi e sbattendo per terra la sedia. Ronnie si voltò. “Hai sempre saputo che mi sono rimangiato quella notte, hai sempre detto che speravi in un’occasione in cui io potessi di nuovo rivederla… e ora mi vieni a dire che la conosci?! Come fai ad essere così falso, me lo spieghi? Io proprio non ci arrivo, mi dispiace!”.
“Jared, sai che mi dispiace, ma che avrei dovuto fare? Fartela vedere contro ogni sua volontà e dirti ‘hey, hai spezzato il cuore di questa ragazza e non ti vuole più nemmeno sentir nominare, non è che visto che l’ho portata qui con la forza, le menti di nuovo?’. Lo sai che non potevo”, si difese lui, cercando di calmarmi. No, non poteva calmarmi, maledizione!
“Credi quello che vuoi… tanto con lei sei un amico, no? Il piccolo Tomo ha trovato una nuova amica con cui giocare! Fottiti!”, lo insultai andandomene. Non volevo farlo sul serio, non volevo creare tragedie, ma non potevo farne a meno.
Avevo bisogno di stare solo, con la mia chitarra, con le mie canzoni.
 
Come break me down
Bury me, bury me
I am finished with you
Look in my eyes
You're killing me, killing me
All I wanted was…  you
 
 
 
...
Note dell'Autrice:
 TATADATA!!! Ecco l'entrata in scena del nostro Tomino! Ciao, sei arrivato! E pure facendo arrabbiare Jared hahaha Tomo sa ogni cosa, è un Dio, mi sembrava ovvio xD
E altra novità: da questo capitolo, ovvero dalla seconda parte di questa storia, i capitoli saranno divisi in due POV, quello di Ronnie e anche quello di Jared. Quando l'ho deciso ero in crisi: volevo una storia di un solo punto di vista, ma il mistero della sera non avrebbe dato abbastanza indizi. Jared sapeva cos'era successo, ovviamente, e dovevo far capire cosa provava a vedere Ronnie dopo tanto tempo. E' stata tragica, ma alla fine ho capito che dovevo aggiungerlo e così la divisione è rimasta per sempre.
Vi avverto i POV saranno solo loro, non di Shan o Andy o Tomo o Vicky o Solon. Solo Ronnie e Jared.
Grazie in anticipo per le recensioni! 
Bacioni e MarsHug, Ronnie02

 

 

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Capitolo 17
*** Say it, Jared, say it to me! ***


Salve gente e buona domenica! Spero che vada tutto bene e che abbiate il tempo di leggere anche la mia storia. Avevo detto che forse l'avrei aggiornata nel weekend e visto che un impegno è saltato ho trovato il tempo di mantenere la promessia :)
Grazie a tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, mi ha fatto davvero piacere (recensiteeeeeee :D). Sono contenta che il salto temporale di prima sia stato preso in maniera positiva e che siate d'accordo con me: ora Jared, tira fuori le palle xD
Detto questo, vi lascio alla lettura, dopo vi do una bella novità :)




Chapter 17. Say it, Jared, say it to me!

 




Ronnie
 
E sì, gli avevo sentiti, avevo visto ogni cosa. Era colpa mia? Non mi interessava. L’unica cosa che poteva importarmi era che Tomo, dopo la grande uscita di scena della stella del cinema, era rimasto a fissare il vuoto per un minuto buono.
Ero stata cattiva? Io l’avevo avvisato che mi sarei vendicata. Costi quel che costi, era arrivato il mio momento.
“Ronnie… Ronnie, sei pronta? Dobbiamo finalmente registrare questo dannatissimo ballo, possiamo andare avanti?”, mi riprese Dorothy muovendo la mano davanti al mio viso.
Scossi la testa e annuì, pronta a partire. Il set non era certo liscio, piatto e sicuro come la pista da ballo, ma non era difficile. Riprovammo in fretta i passi e poi chiamammo Will, il regista, per cominciare.
Tre… due… uno… azione!
Il ritmo e la musica presero possesso della mia mente, lasciando fuori tutto il resto. Contava solo la canzone e i passi che avevo creato. Io e nessun altro. Erano miei.
Al diavolo Jared, al diavolo quello che provavo io, lui, o chiunque altro. Al diavolo la mia vedetta, al diavolo il matrimonio. Non contava più niente.
I problemi? Risolti, per un attimo solo. Le paure? Scivolate via, in un batter d’occhio. Gli incubi? Scacciati, immediatamente.
Ma quando toccava fermarsi era una complicazione. Perché nel preciso istante in cui mi fermai, Tomo picchiò il pugno contro il tavolino, imprecando, e se ne andò. Gesto raro in Tomo, sempre calmo e simpatico.
“Ronnie, muoviti!”, mi spinsero da dietro, quando toccò il mio turno. Mi ripresi, improvvisando per evitare che sembrassi davvero sovrappensiero, e ricominciai a ballare.
Ma stavolta la musica non fece nessun effetto, quell’immagine, mescolata a quella della fuga di Jared di poco prima, non volevano andarsene. Avevo davvero combinato un casino…
“Stop!”, urlò Will, facendomi sospirare. “Andava bene, perfette. Ehi, Ronnie, bene l’improvvisazione, ma evitiamo che ricapiti, ok?”.
“Afferrato, capo”, sorrisi, per poi scappare a bere qualcosa. Dovevo riprendermi un attimo, prima di ricominciare a recitare.
Un trillo. Un messaggio sul mio iPhone rosso fuoco da parte di Vicky… oh, mancava solo lei! Sei un disastro, Veronica McLogan, lo dirò sempre e con fierezza.
Oh bene, il Dio in terra aveva già provveduto ad avvisare la sua dolce futura mogliettina che l’avevo fatto impazzire. Ma che simpaticone! Se…
Ma farsi gli affari propri mai?! Pensa al matrimonio, pazza, non a me, risposi di fretta, controllando che nessuno mi chiamasse.
Il mio è già quasi tutto preparato. Ora pensiamo al tuo… magari con un certo musicista che si vuol far perdonare…, scrisse facendomi arrabbiare. No, basta, non ci si poteva mettere anche lei!
Fatti i fatti tuoi.
Ma che aveva il mondo? Aveva fatto cose buone per dieci anni e ora, tutto ad un tratto, aveva deciso di mandarmi fuori di testa?! No!
Misi il cellulare nella borsa, scazzata, cercando di dimenticare cosa era successo. Mi serviva qualcosa per rilassarmi: la musica. Dalla borsa presi le cuffie e le infilai nel telefono, mettendole nelle orecchie e azionando il congegno.
Niente a che vedere con primi lettori mp3, come quello che avevo portato con me qui in America la prima volta. Ora sentivo il ritmo vicino a me, come se fossi ad un vero concerto.
 “Ronnie?”, mi ticchettò qualcuno sulla spalla. Mi voltai lentamente, controvoglia di parlare con qualcuno che non fosse il nulla, e guardai la figura di Will chiedermi di ascoltarlo.
“Ti sento, parla”, risposi impassibile, senza tono. No, Ronnie cambia rotta o capirà che c’è qualcosa che non va.
“Bene, volevo dirti che una canzone è pronta, se vuoi andiamo a provarla in sala di registrazione”, mi informò. Oh, alleluia! Erano passate due settimane e ancora non avevamo fatto nulla. Tra la scelta del cast e la musica questo film stava davvero rallentando.
“Perfetto. Ti seguo”, sorrisi evitando di creare dubbi. Lui, soddisfatto della mia voglia di fare, cominciò a farmi strada. La sala era fuori dalla location che avevamo deciso per oggi, ma grazie a Dio dei tecnici ne avevano costruita una in prova fuori dal set per evitare di farci ogni volta mezz’ora di macchina per andare in centro New York.
“Marc, l’autore, sarà qui a momenti e ti dirà tutto quello che devi sapere su musica, tonalità e ritmo. Sarà una passeggiata vedrai”, mi mollò lì da sola. Gentile! “Te lo mando a chiamare”.
Lo salutai facendo un sorriso forzato e mi addentrai nella piccola casetta che avevano costruito. Era divisa in tre stanze: due sale da registrazione e una in mezzo, come una specie di stanza di attesa. Per averla costruita in poco tempo erano stati bravi.
Entrai in quella a destra, quella con la porta chiara e la scritta Instruments in bassorilievo. Feci qualche passo, toccando la console per modificare i suoni, quella che conoscevo meglio delle mie tasche dal troppo tempo che ci avevo passato davanti con Solon tre anni prima.
Guardai dietro il vetro insonorizzato, buio. Era vuota, ero la prima che metteva piede in quella stanza. Faceva anche freddo.
Però di fianco alla console c’era un fila di cinque chitarre, una più bella dell’altra, tre elettriche e due acustiche.
Mi avvicinai e guardai l’ultima. Era favolosa, incisa sui lati, sui bordi, sul manico, all’interno, sul retro. Erano tutti disegni astratti, rami con fiori appena sbocciati, parole forse tratte da canzoni. L’ultima, quella sul manico, era la più bella. Was It A Dream?
“Ci abbiamo messo una vita per fare quella chitarra quindi potresti evitare di respirarci perfino sopra?”, mi chiese una voce, facendomi spaventare, spostando di poco lo strumento e facendomi venire il terrore che si rompesse. Fortunatamente la rimisi tutta intera al suo posto.
“Scusa, non volevo, non sapevo che fosse di qualcuno, io…”, dissi per poi voltarmi, scusandomi sul serio. Ma… “Shannon?”.
“Cavolo, nemmeno riconosci più la mia voce? Siamo messi male, McLogan!”, mi rimproverò facendomi ridere. No, Ronnie è un Leto, mantieni un contegno!
“E’ tua? Non sapevo suonassi anche la chitarra”, chiesi riguardandola di nuovo.
“No, non è mia”, sorrise per poi sedersi e invitandomi a fare lo stesso di fianco a lui. “Guarda che non mangio mica, sai?”.
Ridacchiai, senza farci nemmeno caso. Inutile dirlo: mi era mancato troppo, non riuscivo ad essere arrabbiata con lui. “Sei bravo a far cedere le persone al tuo potere, vero?”.
“Faccio Socrate di secondo nome”, mi rispose facendomi ridere.
“E da quando sei un appassionato di filosofia?”, chiesi sedendomi e voltandomi verso la console per armeggiare con i tastini, anche se non c’era nessuna melodia da cambiare.
“Da quando una filosofa continuava a dirci che è la cosa migliore della vita”, mi prese in giro, arruffandomi i capelli. Io misi il broncio e li sistemai, per poi voltarmi verso di lui e cominciai ridere.
Era cambiato, cresciuto, invecchiato. Non ne avevo idea e nello stesso tempo lo sapevo benissimo, sta di fatto che non era lo Shannon che ricordavo. Era passato tanto, troppo tempo, un tempo che speravo e nello stesso tempo avevo paura che non finisse mai.
“Come?”, chiese all’improvviso, mentre lo stavo praticamente squadrando dalla testa ai piedi.
“Cosa?”, risposi imbarazzata pensando di averlo infastidito con i miei sguardi.
“Come sei arrivata fino a qui? Voglio dire Solon mi ha detto che vi siete incontrati a Boston, ma…”, domandò curioso. Sapevo che prima o poi o lui o suo fratello me l’avrebbe chiesto. Era ovvio.
“Tre anni fa Vicky e Tomo mi invitarono ad una gita a Boston, così mentre loro facevano i piccioncini io avrei lavorato per alcune foto. In quel tempo lavoravo a New York, con lei ed Andy, a un negozio di fotografia. Ma poi io ho incontrato Solon, lei si sta per sposare con Tomo ed Andy ha fatto la sua carriera da attrice”, dissi cominciando a raccontare e vedendolo molto attento. “Era un giorno vuoto, vagavo in giro senza trovare niente di particolarmente ispirante che avrei potuto mettere in vetrina, e ad un certo punto lo vedo: Solon Bixler mi stava guardando come se fossi un mostro. È stato divertente”.
“Cavolo, mi immagino la scena”, sorrise per poi farmi andare avanti a raccontare.
“Così, visto che i tuoi tesori non sarebbero tornati prima di tre ore andammo a bere qualcosa nel bar più vicino. Mi chiese come andava, cosa facevo, se stavo bene. Tutto nella solita routine da ritrovamento dopo lungo tempo, devo dire. Poi cominciai a ticchettare una mia canzone sul bancone e mi chiese spiegazioni. Di lì il resto della giornata lo puoi capire. Tutto è cambiato.
“Al ritorno a New York scoprii che la sua casa non era così lontana e cominciammo ad incontrarci per sistemare i testi, per migliorare i suoni e le cose varie. Dopo sei mesi avevamo perfezionato fino allo sfinimento un bel numero di diciotto canzoni”, raccontai di quei tempi lontani. I miei ultimi mesi di anonimato. “Qualche settimana dopo mi presentò l’affare con la casa discografica: la fortuna stava nel fatto che lui sarebbe rimasto con me come manager e produttore, il che mi dava un immenso conforto. Non penso l’avrei mai fatto se mi avesse abbandonato.
“Così passò un mese e poi cominciai le registrazioni. Ogni giorno un piccolo pezzo, piano piano, modificando e perfezionando la voce con esercizi vocali o dando dritte ai musicisti per renderla come la volevo nella mia testa. Ci vollero due mesi e mezzo, ma alla fine fu fatta. Quasi un anno e poi, il 22 agosto, uscì il mio primo album di debutto e da lì cambiò tutto quanto”.
“Il 22 agosto? Ma non è il giorno in cui sei arrivata in America?”, chiese stupito.
“Sì, l’ho fatto apposta. Con la scusa che non ero assolutamente sicura, Solon è riuscito ad allungare i tempi e l’ho pubblicato quel giorno. Come quella volta, fu un nuovo inizio”, spiegai.
“Sono felice per te, Ronnie, davvero”, mi sorrise, abbracciandomi. E, al contrario di quello che pensavo all’inizio, andava bene. Shannon non c’entrava niente, o almeno non completamente, quindi perché arrabbiarsi? Con Solon non mi ero arrabbiata, anzi!
“Dimmi solo una cosa”, chiarii. “Dimmi perché cercasti di fermare me dal vederlo e non hai fermato lui dal tradirmi”.
Esplicita. Chiara. Forte. Aggressiva, se serve. Questo era quello che avevo imparato in questi anni, in qualsiasi situazione.
“Non lo so, davvero Ronnie, non lo so. Forse ero bevuto… ma anche se mi prendo la colpa di tutto, perché in fondo è davvero solo colpa mia, non spetta a me raccontarti questa parte della storia”, si scusò senza che capissi. “Ma sappi che da quando te ne sei andata non siamo più gli stessi, lui non è lo stesso e… mi dispiace. Non avrei dovuto farlo”.
“Cosa? Che c’entri tu, cosa non avresti dovuto fare?”, chiesi svelta mentre vedevo l’uomo che dovevo incontrare con il regista avvicinarsi a noi.
“Parlagli e lo scoprirai”, disse salutandomi con la mano e andandosene via. Oh, di aiuto, Leto, davvero!
… e adesso?
 
Jared
                
“Fottiti! Fottiti! Fottiti! Fottiti!”, continuavo ad urlare.
Le mie nocche ormai sanguinavano, i miei pugni non volevano fermarsi, gli occhi avevano un velo di lacrime che voleva scendere, la voce era roca. Vaffanculo, da quando ero così fottutamente fragile?!
Io ero Jared Leto, non potevo essere fragile, no!
Eppure lo ero, solo per il fatto che potevo vederla ma non potevo parlarle realmente, solo per il fatto che il mio miglior amico mi aveva fatto… ingelosire della sua amicizia con lei. Non mi sarei mai aspettato di dirlo, ma, in un certo senso, ero geloso di Tomo. Com’era possibile?
“Jared ti prego, posso parlarti?”, sentii bussare fuori dalla porta. E come diceva il detto: parli del diavolo e spuntano le corna… in questo caso i capelli!
La mano si bloccò, la testa si volse verso la porta e non seppi che fare. Non ero definitivamente arrabbiato con lui, in fondo lo capivo ed aveva ragione, ma cavolo… l’idea che avrei potuto vederla prima mi mandava in bestia!
“Jared!”, mi richiamò ancora, ma stavo già aprendo la porta e mi stava guardando stupito.
“Senti, mi dispiace, io… avrei dovuto fartela vedere, o almeno dirtelo, ti prego non incazzarti”, si scusò.
“Vieni, non ti mangio, parliamo un attimo”, gli dissi facendo un mezzo sorriso, tra una crisi isterica e la voglia di abbracciarlo e tornare a pochi giorni prima.
“Che hai fatto alle mani, Jay?”, mi chiese mentre gli offrivo la mano per farlo salire sulla roulotte. “Jared, che hai fatto?!”.
Continuai a camminare imperterrito, andandomi a sedere sul divano e accavallare le gambe. Il mio solito comportamento da divah menefreghista forse l’avrebbe calmato.
“Jared mi dispiace, ok? Vorresti per favore usare quella cazzo di voce per rispondermi?!”, disse finendo ad urlare. No, non lo avevo per niente calmato. “Che cavolo, se l’avessi saputo non mi sarei di certo buttato in questo casino!”.
“Tomo, finiscila di urlare o mi manderai in pappa il cervello!”, gli chiesi sussurrando, mettendomi in una posizione decente e appoggiando i gomiti sulle ginocchia, per poi affondare la testa nelle mani.
“Oh grazie al cielo parli!”, riprese parlando normalmente e sedendomi di fianco a me, continuando a guardare le mani. “Allora mi vuoi dire che cavolo hai fatto o finirai a metterti i tuoi guantini rosa per nascondere tutto?”.
Ma che simpatico! Aveva sempre odiato quei guanti, ma non erano così male, stavano bene con la mia cresta non rosa. “Vedrò che posso fare per evitare che i paparazzi mi diano seriamente dell’emo con delle prove”.
“No, ti prego, non ancora”, scherzò mettendomi una mano sulla spalla. “Ma seriamente, amico, mi dispiace”.
“Non è colpa tua, sta calmo. È colpa mia, non sarei dovuto partire fin dall’inizio, sarei dovuto rimanere a Bossier City”, scossi la testa. I will never regret… bè forse non esattamente.
“E cosa avresti perso? Pensa alla vita che stai facendo, Jared; so che non vorresti mai perderla. Perché rinunciare a tutto questo per lei quando puoi avere entrambi?!”, mi disse, saggio come sempre. Perché sapeva sempre la cosa giusta?
“Come potrei farmi perdonare?!”, chiesi sfinito, prendendo in mano il ciondolo che tenevo segretamente nascosto sotto le magliette da dieci lunghi anni. Il plettro, il plettro che mi aveva portato quella notte e che aveva rotto dalla rabbia.
Shannon era riuscito a recuperarlo e io l’avevo fatto aggiustare. Lo tenevo sempre, mascherandolo con le altre varie collane tra cui quella con la mia amata Triad. Ma era sempre lì, con me.
“Dicendole la verità. Tutta la verità”, sbottò facendomi risalire la rabbia e la tristezza. No, non potevo dirle la verità, non potevo. “E’ inutile che cerchi di evitarlo, lo farai prima o poi, dovrai farlo! E se non lo fai tu, lo farà qualcun altro!”.
“Chi? Tu o Shannon? Solon? Non gliel’ha detto per tre anni, non lo farà di certo ora”, dissi alzandomi e cominciando a camminare nervoso avanti e indietro.
“Ora ha un buon motivo per farlo. Ti crederà e, per quanto vergognoso possa essere, per la miseria, tocca a te farlo!”.
“No! Non posso dirle che…”, cercai di sputare il rospo ad alta voce.
“Che cosa? Che eri cosa?! Dillo, Jared! Dillo a me, così riuscirai a dirlo anche a lei. Dillo!”, mi invogliò facendomi salire i nervi alle stelle. Merda!
“Finiscila! Basta, Tomo, basta, ti prego! Non le dirò niente, non c’è niente da dire. In ogni caso non mi crederà e di certo se glielo dicessi non cadrebbe tra le mie braccia, anzi!”, lo fermai subito andando verso la porta. “E voglio restare solo!”.
Io sono un maledettissimo idiota. Sono fottutissimo idiota, ma stavolta sì che solo anche solo. I’m a selfish bastard but at least I’m not alone
 
La sala di registrazione che avevano costruito vicino alla location non era male, anche se quella che avevo a casa era oltremondo migliore. A quanto sentivo la sala a sinistra era occupata, ma sentivo solo la voce del tecnico che modificava il suono.
L’altra, quella dedicata alla registrazione degli strumenti era vuota, ma con la luce accesa. Segno che qualcuno era stato lì prima di me. Forse quel tecnico dell’altra stanza.
Notai che la mia chitarra si era un po’ spostata. Cavolo, costava un patrimonio, non dovevano nemmeno avvicinarsi! Ci avevo messo una vita a farla fare, era la mia preferita, quella che non usavo mai per paura persino di romperle una corda. Non aveva un nome, la mia immaginazione era andata in vacanza in quel periodo, ma era dedicata ad una persona. A quella persona.
Perciò per la maggior parte delle volte la chiamavo She. A volte Shannon mi dava del pazzo sclerato, ma anche la sua batteria aveva un nome, quindi non poteva lamentarsi.
La presi in mano, con un attenzione quasi ossessiva e mi sedetti sul seggiolino davanti alla console. Le mie mani si mossero leggere sulle corde, abituate a quella sensazione, e composero una melodia nota. I feel apart, but got back up again…
‘Alibi’ era una delle canzoni che mi piacevano di più dell’ultimo disco. Era leggera, una ninna nanna, un ricordo che avanzava nella mia mente sottovoce, in punta di piedi. Una canzone che culla e addolcisce l’animo. L’avevo completata in una notte insonne, mentre disegnavo i tratti della chitarra che stavo suonando.
Chiusi gli occhi, continuando a suonare. Mi rilassai, pensando anche a quello che in quei giorni era accaduto. Com’era cambiata la mia vita in pochi secondi, solo rivedendo il suo sguardo, anche se arrabbiato e vendicativo?
We both could see
Crystal clear
That the inevitable end was near
 
Made our choice
Trial by fire
To battle is the only way we feel alive
Tomo aveva ragione.
Era inutile credere che era meglio non partire per Los Angeles, avrei perso per sempre un’ occasione coi fiocchi, l’occasione di una vita. Come avrei fatto senza le mie canzoni, la nostra band, la nostra famiglia? Non avrei mai potuto rinunciare a questo.
Ma sapevo davvero che era finita? No, non l’avrei mai pensato, non l’avevo mai fatto. Anche quel giorno, prima di quella festa. Mi sembrava così vicino ma anche così maledettamente lontano…
Non avrei dovuto seguire il consiglio di Shannon, avevo esagerato, ero andato anche oltre all’esagerazione. Ero stato uno stupido e l’avevo fatta soffrire. Lei, che già era completamente a pezzi, l’avevo ridotta ancora peggio. Io, che le avevo fatto credere di essere la sua cura, ero diventato una nuova paura e dolore.
Fare le nostre scelte, andare e rimanere, era stata dura. Volevamo solo stare insieme ma alla fine ci siamo dovuti comunque separare. E a quale prezzo? A finire bruciati con il fuoco.
Abbiamo dovuto lottare per sopravvivere. Lei soprattutto, con quel peso aggiuntivo che si ritrovava. Sola, a combattere contro i ricordi di un passato doloroso. Che razza di persona ero?
Perché l’avevo fatto? Perché non mi ero fermato? Perché non l’ho riconosciuta? Perché non l’ho chiamata?
If I could end the quest for fire
For truth, for love, for my desire
my desire...
Se tutto si potesse sistemare ancora con il fuoco…
Solo con  l’amore, con la verità, con un piccolo desiderio. Il mio desiderio di riaverla, di riabbracciarla, di farle capire che la guerra era finita e avevamo vinto. Doveva smettere di soffrire e sebbene io non fossi nessuno per dire che lei si tormentava ancora a causa mia, sapevo che l’antico dolore non se n’era mai andato. Lo dicevano le sue canzoni, i suoi atteggiamenti, il suo modo di fare… lo diceva lei stessa.
But got back up again…
La canzone finì ed io riaprii gli occhi, controllando il miracolo che avevo in mano. Che avrei fatto senza la mia chitarra?!
Ridacchiai e mi alzai per sistemarla al suo posto, bene e senza farla cadere o urtare da qualche parte.
“Ora vediamo come te la cavi con gli strumenti visto che la voce è perfetta”, sentii dire da qualcuno. Merda, meglio filarsela in fretta, prima che mi facessero una sfuriata.
Mi sembrava di stare di nuovo a scuola, peccato che invece avevo trentanove anni. Ero davvero così infantile, allora?
Appena finì di controllare tutte le chitarre la porta si aprì ed entrò un ragazzo sui trentadue anni, vestito stranamente troppo leggero per il tempo di quel giorno, girato con la testa verso qualcun altro.
Qualcun’altra.
“Ok, ho capito che non ci credi che sappia suonare, ma non sei simpatico, Marcus!”, entrò Ronnie, sorridente come al solito. Aveva i capelli lunghi e lisci legati un enorme treccia rossa che le scendeva fino in fondo alla schiena ed era vestita con pantaloni neri stretti e lunghi, con una cintura borchiata. Il maglione accollato blu elettrico le teneva caldo, anche se comunque aveva le braccia conserte come se fosse in una tempesta di neve, e risaltava le sue curve.
“Oh, signor Leto non mi avevano detto che era qui a provare. Nuova canzone?”, mi chiese sorridendo. Oh, niente predica, per fortuna.
“No, mi mancava la mia chitarra”, risposi gentile toccando il manico di quella che stavo suonando prima. “Ma ora dovrei andare quindi fate pure, tolgo il disturbo”.
“No, rimanga rimanga! Ci fa piacere se un esperto vede il nostro lavoro, è una buona occasione”, mi invitò mentre Ronnie borbottò qualcosa come ‘e certo, perché io sono la prima cantante che passa per strada!’.
Questo Marcus la fece accomodare all’interno della cabina e attivò la console. Lei prese la chitarra all’interno e si sedette sul seggiolino. Era l’unico strumento non di proprietà dei Mars, molto probabilmente.
Avvicinò il microfono, toccò un po’ le corde e alla fine incominciò la canzone, chiudendo gli occhi.
“Everyday I think about the past, about I had to fight. And every night I realise that it’s not important. I’m just lookin’ at the future. I wanna discover the world. I wanna do it with you”, cantò mentre le sue dita pizzicavano le corde. Per un attimo la cosa non mi stupì più di tanto, ma poi cominciai a pensare.
E da quando Ronnie sapeva suonare la chitarra?!
“Allora, signor Leto, cosa ne pensa?”, mi risvegliò dai miei pensieri Marcus, che si voltò verso di me, lasciando Ronnie a suonare e cantare in pace.
“E’ un ottima canzone, adatta al film devo dire”, mi complimentai visto che immaginavo che lui fosse l’autore. Non l’avevo mai visto e se era esperto della sala voleva dire qualcosa.
“Grazie mille signore”, mi ringraziò. Dio quanto odiavo essere chiamato così! Non ero un vecchietto raggrinzito, porca puttana, ero bello e sveglio come un ventenne! E i quaranta erano ancora lontani… più o meno.
Ronnie finì presto la canzone, che forse andava ancora modificata o allungata, e poi mise giù la chitarra, stando seduta. “Allora com’era?”, chiese al microfono.
“Perfetta, puoi andare”, la liberò Marcus.
“Vado anche io, sono già in ritardo: i ragazzi si chiederanno dove sarò finito”, lo salutai prendendo, con molta calma, la strada verso la porta. E infatti dopo qualche secondo lei mi affiancò, frettolosa di uscire.
“Si vuole muovere… signor Leto”, sottolineò mentre, sempre con molta calma, aprivo la porta e mi dirigevo fuori, nella specie di stanza d’aspetto.
“Dimmi da quanto suoni”, chiesi evitando che mi superasse. Se Marcus ci stava guardando non mi importava, ma di sicuro ci avrebbe dato dei malati di mente. A me soprattutto.
“Io le avevo detto di non parlarmi nemmeno in caso di morte”, si lamentò lei. “E soprattutto di non impicciarsi dei miei affari”.
“Ho una memoria a breve termine, mi dispiace signorina”, feci finta di scusarmi, per poi voltarmi di scatto e prendendole le mani, per avvicinarla. Fortunatamente non c’era nessuno. “Ma chi è lei ancora lo ricordo bene”.
“Strano, perché l’ultima volta oltre che smemorato era pure cieco… le ricorda niente moretta?”, mi sputò in faccia. Moretta… stando alle parole di Shannon l’avevo chiamata così quella sera. Che idiota…
“Mi stai parlando”, cercai di evitare il discorso, sorridendo.
“Sì ha ragione, quindi addio”, si staccò in fretta e, senza che riuscissi a riacchiapparla, scappò via. Sempre meno coraggiosa la ragazza, devo dire!


...
Note dell'autrice:
Allora la situazione si complica :) cosa ci nasconde Shannon? Cosa no riescie a dire Jared? Perchè Tomo è convinta che dovrebbe rivelarle tutto?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e così volevo lasciarvi, per chi vuole leggerlo, con un piccolo spoiler del capitolo 18.

Avrei dovuto coprire quei maledettissimi occhi, per la miseria!
“Veronica McLogan, è ufficiale: sei una grandissima cogliona!”, mi insultai da sola, mentre....

 

Che succederà? Alla prossima puntata, 
MarsHug, Ronnie02 :)

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Capitolo 18
*** I Lost Myself In Here ***


Salve genteeeeeeeeee! Scusate il ritardo ma domani parto e ho dovuto sistemare le cose anche riguardo alla scuola. Roma... preparati, arriva Ronnie!! E so' cazzi xD
Allora qui abbiamo il 18° capitolo, tutto sta tornando al suo posto, ma non del tutto. Mi piace ta morire la scena del caravan *-* xD Bè... leggete e capirete hahaa




Chapter 18. I lost myself in here

 


Jared
 
“Davvero suona la chitarra?! Non ci posso credere!”, si stupì Shannon quando tornai al mio camper e trovai quei due dementi dei miei compagni di band. Tomo era silenzioso…
“C’è il tuo zampino, vero?”, gli chiesi battendo i piedi per terra. Non ero arrabbiato, ma se gli chiedevo di dirmi tutto io volevo che mi dicesse tutto!
“No… forse… non del tutto… sì, va bene c’è il mio zampino! Ma non solo”, si giustificò dopo svariati tentativi di discolpa. “Quando Ronnie ha cominciato a perfezionare le canzoni con Solon gli ha chiesto se poteva insegnarle a suonare la chitarra, per suonarle da sola. Così ha imparato, in circa sei mesi. Poi, quando siamo andati a trovarla a New York, cosicché Vicky potesse aiutarla con il lavoro, mi chiese di perfezionare la sua tecnica. Allora l’ho aiutata”.
“Oddio avrà imparato tutti i tominismi!”, lo prese in giro Shannon, riguardo al fatto che per lui Tomo suonava in un modo strano, modo che io ritenevo normalissimo. Ma solo Shannon poteva capirsi….
“Ma fottiti mezzo truzzo che non sei altro! È colpa tua se Hurricane è per metà patrimonio dei tamarri!”, rispose Tomo sbuffando. Altro dettaglio per me insignificante. A me piaceva la melodia di Hurricane, era diversa.
“Ma pensa te questo! Almeno io non sono il santo del gruppo”, riprese Shannon. Non avrebbero mai finito di questo passo…
“E te ne vanti pure?! Io sono fiero del mio essere santo! Brutto animale che non sei altro”, ribatté il chitarrista mentre Shannon lo prendeva sul serio e cominciò a ringhiare. “Jared, portalo a fare la passeggiata, ho paura che debba fare i bisogni”.
“Ma fottiti!”, rispose subito il batterista smettendola e andando le minicucina a prendere qualcosa da mangiare. Ormai eravamo abituati ai pullman, ci abitavamo per la metà della nostra esistenza.
“E allora le hai parlato”, confermò Tomo quando Shannon uscì davvero a farsi un giro, forse a cercare qualcuna che gli aggradasse.
“Diciamo che mi ha detto che non devo rivolgerle mai più la parola”, specificai per chiarirgli in concetto.
“Sei un idiota. Dovevi dirglielo”, concluse Tomo incrociando le braccia e mettendosi comodo sul divanetto. Brutto saputello!
“Oh, mi hanno detto che siamo simpatici oggi, eh?!”, lo presi in giro sbuffando.
“Quando pensi che arrivi il momento giusto? Quando avreste finito il film e ve ne ritornerete alle vostra vite? La tua occasione è ora, Jared, non scordartelo!”, mi continuò a dire.
“Non ho paura di mettermi allo scoperto, Tomo; facendo l’idiota lo farei comunque. Non ho paura di dirle ciò che è successo quella sera… ho paura che scappi ancora”.
“Non lo farà. Vuole solo la verità, Jared. La verità”, mi disse sorridendomi e mettendomi una mano sulla spalla come al solito. La verità… era così facile dirlo così!
 
 
Ronnie
 
Quanto mi dava sui nervi! Dio, non so cosa avrei potuto fare se solo non sapessi che in quel momento serviva troppo per il film.
Quello stupidissimo… vestito troppo stretto che non si decideva ad entrare! E per la miseria, io non ero mica una balena!
Maledetto Will, questa me la pagava!
Mi fermai un secondo, respirai forte per qualche istante e chiusi gli occhi. Ok, non era così complicato, dovevo solo stare calma. Era un fottutissimo body, non un costume olimpionico!
Me lo sfilai dalle gambe un’altra volta, lo riguardai per scoprirne i punti deboli come se fosse un avversario di wrestling e poi decisi di riprovare.
Forza, Ronnie, ce la puoi fare! Senza toccare faccia e capelli, ce la puoi fare. Dai, dai, dai ce la fai!
“Sì!”, esultai quando mi voltai verso lo specchio per chiudere la cerniera e girarmi su me stessa per ammirarmi. Bè, stretto ma veramente bello! Sì, forse avrei potuto perdonare il regista… forse.
Mi infilai gli stivali e mi misi tutti i miei accessori, come mio solito. Un film non mi avrebbe di certo obbligata a staccarmi dalle cose più importanti della mia vita!
“Tu, meravigliosa creatura, ci sono le prove”, mi chiamò Solon prendendomi in giro. Bene, oggi prove in sala per insegnare i passi che avevo pensato tutta la notte.
Niente di eccezionale, se non fosse che il biondino e i suoi scagnozzi sarebbero venuti. Dover spiegargli le mie coreografie era una tortura!
“Tu, manager idiota, sappi che sono pronta”, sorrisi facendomi abbracciare con un braccio e andammo verso la sala da ballo.
Chi non ci conosceva o chi ci avrebbe visto da fuori, avrebbe potuto benissimo dire che eravamo una coppia meravigliosa, e a volte ci comportavamo anche come tali. Abbracciati a ridere e scherzare, vicini quanto bastava per destare sospetti.
Ma… no, Solon non lo vedevo e mai l’avevo visto in quel genere di modo. Gli volevo bene, davvero, e mi sarei buttata da una cima altissima per lui, ma era un amore fraterno. Era il mio secondo big bro.
Era il mio migliore amico, il mio manager, il mio produttore, il mio insegnate di chitarra, il mio anti-stress, il mio fratellone acquisito. Era tutto… tranne che ragazzo. No, mai l’avrei visto come il mio ragazzo.
“Hey Jared, ti trovo bene stamattina!”, urlò appena scorse il biondino arrivare nella nostra direzione. Era vestito con dei pantaloni neri attillati e una maglietta slargata, che mostrava buona parte del petto nudo e magro. Fin troppo magro.
“Ehi… sì, ci voleva una dormita…”, disse venendoci incontro. Io sorrisi a Solon e lo salutai, facendo per andarmene verso la sala, lì vicino. “Ti posso parlare… da solo?”.
Merda. Merda, merdissima merda! No, Ronnie, non puoi lasciarlo parlare, o andrai in palla e la testa andrà a quel paese. Dì di no. Ora.
“Devo lavorare. E sarei felice che anche lei cominciasse”, feci la maestra severa. Non mi era mai piaciuto farlo, ma mi sembrava il modo migliore di comportarmi.
Cadere tra le sue braccia o rimanere fredda come il ghiaccio? Mi dispiace ma avevo scelto la seconda. Era l’unico modo se volevo sopravvivere a questo film senza ritrovarmi ancora a dipendere da qualcuno per poi farmi male. E mi sarei fatta male, lo sapevo; ormai ci ero abituata.
Facendomi seguire senza dire una parola entrammo tutti e tre nella palestra, dove delle ragazze stavano già facendo stretching per accelerare i tempi. In un angolo Shannon e Tomo erano seduti a guardare e ad ascoltare la musica che lo stereo cantava. Era la mia canzone, quella per il film. Wow, l’avevano già registrata per benino!
“Forza donne, è ora di lavorare!”, le chiamai all’attenti, anche se Leto non era d’aiuto. Lien per poco non svenne e Dorothy cominciò a fare ciò che sapeva fare meglio: la civetta.
“Cosa balliamo, capo?”, chiese Leto Junior per evitare il silenzio che si era venuto a creare. Dio, che nervi!
“Quello che sta sentendo”, gli risposi fredda rimanendo fissata a quella terza persona che sapevo gli dava fastidio. “Ma ha ragione: ragazze ballare, non sbavare! Incominciamo”.
Le misi tutte in una fila orizzontale, mentre il signorino preferì mettersi vicino al muro a squadrarmi. Mi sembrava di essere tornata a lavorare a Bossier City per Sean. Come si chiamava quel ragazzino che mi aveva dato tanto sui nervi? …Colin!
“Bene, ora vi faccio vedere la coreografia e cercate di seguirmi perché dopo la proviamo già insieme. E sarà a coppie, quindi Hope vieni qui e vediamo se riesci a starmi dietro”, dissi chiamando una ballerina del mio piccolo corpo di ballo del tour. Era brava, ci intendevamo bene e l’anno prima era stata un ulteriore sostegno oltre a Solon per le mie crisi di pessimo umore.
“Al rapporto RonRon”, cominciò a chiamarmi come faceva in tour. La guardai malissimo e lei rise: sapeva quanto odiassi quel nomignolo ma insisteva a fregarsene.
“Uno, due, tre e quattro”, contai appena accesi lo stereo e la canzone partiva a palla.
Era una canzone decisamente non troppo movimentata, niente rock scatenato o cose simili, ma avevo deciso di fare lo stesso un ballo veloce e ritmico. Non amavo particolarmente le canzoni lente e di conseguenza i balli lenti – anche se dipendeva dalle parole della canzone e dal suo ritmo – e perciò evitai la solita coreografia dolce.
Hope era davvero migliorata, mi stava dietro facilmente sebbene gli dicessi i passi pochi secondi prima di compierli, essendo solo nella mia testa, e così venne abbastanza bene.
“Ok, ci siete almeno un po’?”, chiesi quando finì e lo stereo si spense. Hope riprese fiato e andò a sistemarsi tra le altre come prima, sorridente e soddisfatta. Leto, invece, era scioccato. Bene, la prossima sfida sarebbe stata fargli una scenata per aver sbagliato le mie sacre coreografie.
“Non è difficile, So What l’avevi fatta più complicata”, commentò Karen, annuendo. Lien, Corinne e Beth fecero di conseguenza. Ottimo, era fatta allora.
“Riproviamo?”, chiesi io mettendole in coppie separate. Però io restavo da sola… uffa. “Signor Leto se la sente di provare o aspetta il prossimo giro?”
Le ragazze ridettero sottovoce e io sorrisi malefica. Lui fissò Shannon e Tomo, ma loro alzarono le spalle. Deglutì e si avvicinò. “Forse ho capito qualcosa”.
“Oh, ma nessuno è perfetto, vediamo che possiamo fare”, dissi facendolo avvicinare. Tutto petto ma coraggio zero… cavolo, ma che avevo avuto in testa dieci anni prima?
“Prepara le orecchie, Rothy, qui comincerà a sclerare appena sbaglia qualcosa”, sentii dire da Beth mentre… Jared si posizionava vicino a me guardandosi intorno preoccupato. Shannon tirò un fischio e Tomo scoppiò a ridere. No, non nelle mie ore cavolo! Ronnie, basta fare la maestra….
“Bene. Uno, due, tre e quattro!”, cominciai facendo partire la musica.
Cavolo… non ce l’avrebbe mai fatta. Mai e poi mai. Non era fatto per il ballo! Avrebbe anche potuto sbizzarrirsi durante i suoi concerti, ma ballare… vade retro!
Per poco non si ammazzava o cadeva addosso a qualcuno, e fu un miracolo che alla fine aveva ancora tutto a posto. Stava invecchiando, seriamente.
“Ok, ok, ok, ok”, lo fermai, spegnendo lo stereo. E le voci da ecco che parte dalle ragazze iniziarono a fermentare. “Lasciamo stare, per oggi è meglio che proviamo solo noi. Ragazze vi dico i passi e vi aiuto, voglio vedere voi”.
Tutte mi guardarono come se fossi impazzita. Dio mio, ma non era possibile che fossi davvero così tremenda! Risi, evitando di pensarci, e feci loro segno di partire.
Fecero un bel lavoro, non c’era che dire. Una prova, due prove, tre prove… alla una potevo dichiararmi soddisfatta anche se ovviamente c’era qualcosa da perfezionare. Non solo con loro, ma anche con certi passi che avevo in mente.
“Jared mi passi il tutù! Così facciamo coppia e balliamo per tutta la sera”, lo prese in giro Shannon quando presi le mie robe e mi voltai verso l’uscita. Però…
“Finitela, non siete simpatici”, disse lui andando vicino a loro e sedendosi. Prese il suo Blackberry e cominciò a digitare come un ossesso.
“Ehi, Ronnie!”, mi salutò Tomo, vedendomi arrivare con calma. Mi fece segno con la mano e all’improvviso Jared si fermò, anche se non staccò gli occhi dallo schermo.
“Ciao, capellone. Ho sentito Vicky ieri sera, per degli arrangiamenti al vestito. Ti stupirà”, lo informai facendolo innervosire. Sapevo quanto desiderasse vedere tutta la preparazione, e invece era l’unico a non sapere niente.
“Grazie della notizia, Ronnie, davvero”, rispose acido, ma poi gli ritornò il sorriso. Tipico di Tomo.
“Tua sorella ha già scelto il vestito? Vorrei tanto vederla!”, gli chiesi accucciandomi davanti a loro.
“Non ne ho idea, ma credo di no. Farà all’ultimo come al solito, conoscendola”.
“Bene, allora è tempo di darmi la sua mail”, chiesi prendendo dalla borsa il mio iPhone. “Con me non si arriva mai all’ultimo minuto”.
“Ma siamo ancora ad aprile, è già tanto che si ricorda chi sono io!”, si lamentò.
“Siamo alla fine di aprile, Tomo, e non c’è tempo da perdere. Avresti dovuto fermare Vicky dal chiedermi di organizzare tutto”, scherzai mentre lui prendeva il mio telefono e scriveva qualcosa. Sorrisi, soddisfatta del risultato.
“Facciamo amicizia?”, chiese qualcuno. Solon era venuto a trovarci.
“Sto evitando che Ivana arrivi in pigiama al matrimonio di suo fratello”, mi scusai riprendendo il telefono e controllando che Tomo non avessi scritto cazzate. Infatti… gli ridiedi il telefono e lo guardai male, notando che Shannon rideva. Non andavano affatto bene insieme, quei due.
“Povera, ora dovrà sorbirsi la tua ira per i prossimi mesi, cavolo”, rispose ridendo.
“Ehy!”, mi offesi riprendendo brusca il mio telefono, notando che Shannon si era intrufolato a leggere i miei messaggi, rimettendolo nella borsa e mettendomi la felpa. “Visto che fai tanto il simpaticone non ti farò sentire la nuova canzone”.
“L’hai provata finora, cara”, ridacchiò. E certo, perché io ero stupida!
“Non per il film, caro. Per l’album nuovo”, gli feci la linguaccia e me ne andai, lasciandolo a bocca aperta. Era da mesi che mi stressava dicendo che dovevo spicciarmi a lavorare per il nuovo disco.
“No, no, no, no! Ronnie torna qui! Ora!”, mi ricorse mentre io mi fermavo sulla porta, con la mano sulla maniglia. “Ti prego… ti supplico… ti scongiuro…”
Risi, vedendolo pregarmi come se ne dipendesse la sua vita, e così respirai forte e gli feci segni di seguirmi. Peccato che vennero tutti e quattro maledizione!
“Di che parla? Com’è? Hai solo la voce, solo la chitarra o solo il testo? O tutti insieme? È finita? Possiamo già registrarla?”, continuava a chiedermi Solon facendomi andare sui nervi.
“Senti già camminare con questi stivali è un impresa e pensare che dovrò metterli anche in scena mi viene da star male, se poi tu mi stressi rischi che ti faccia davvero male”, lo fermai quando ormai fummo davanti all’entrata. “Now shut up. Shut. Up”.
Lui sorrise, annuendo, e mi fece entrare. Direzione, stanza degli strumenti.
La cosa lo rallegrò parecchio.
Entrammo tutti e io presi una chitarra, andandomi a sedere poi dentro la cabina e avvicinando il microfono. Solon mi fece segno di partire e, dopo essermi schiarita la voce, cominciai.
It’s a wild thing, before you can’t be tamed and after you’re again alone. It’s a wild thing, you decide to live your dream and someone always stop you. It’s a wild thing, sadness go away and you return the queen”, cantai lentamente, anche se non era quello che poi volevo uscisse fuori. Per ora limitiamoci alla versione acustica. “Take your choice, destroy the world. Decide your live, kick the haters. Live is your, don’t be a robot!”.
Vedevo Solon muovere la testa a ritmo della mia chitarra, immaginandosi di sicuro il ritmo di basso che sospettavo avesse già in mente. Shannon avrebbe potuto aiutarmi con la batteria, ora che potevo vederlo.
Don’t be false, don’t try to change for other people. Be yourself, be rebel, be different”, continuai ancora, senza fermarmi. Oh sì, Solon sarebbe stato contento. Era ora di muoversi o la casa discografica mi avrebbe ucciso seriamente. “I’m sorry if you think to live forever in a world of magic and fantasies. This is the truth: people can’t wait the best moment to make fun of you. Don’t matter of them: be healty and fuck everyone! Live is your, don’t be a robot!”.
Ed ecco il bridge musicale. Solon ci aveva messo una vita a farmi perfezionare il mio metodo per fare tutta una canzone in modo decente e finalmente ero riuscita a mettere in una mia canzone l’accordo che mi aveva fatto vedere mesi, forse anni, prima. Era come quando saprai fare questo sarai arrivata. Bè, ero arrivata.
It’s a wild thing, change so many times and don’t understand who you really are. It’s a wild thing, believe in so many things and don’t manage choosing the best. It’s a wild thing, hope to free from the cage of the world”.
Finì di cantare, mi morsicai il labbro inferiore e appoggiai la chitarra per terra, tenendola per il manico in alto, con entrambe le mani. Poi guardia Solon, che sorrideva.
Bene, gli piaceva. Gli piaceva. Gli piaceva!
Uscii di fretta e, dopo aver sistemato la mia compagna tra le sue amiche, mi voltai muta verso di lui. Era il momento del verdetto.
“E’…”.
“Cazzo, è meravigliosa!”, urlò Jared fermandolo e credendo che in tal modo mi sarei sciolta come un ghiacciolo a sole. Lo feci, in effetti, maledicendomi perfino in greco antico, ma non lo diedi a vedere.
“Oh, cavolo, quindi fa schifo?!”, commentai arrabbiata.
“Ma finiscila, scema. Ha ragione, è fantastica”, mi disse Solon abbracciandomi e arruffandomi i capelli. Bene, ora potevo ucciderlo.
“E senti qui”, disse Shannon spostandomi ed entrando in cabina, dove in un angolo, con cinquanta microfoni circa vicini, c’era una batteria fantastica. La sua, con le foto di lui e suo fratello da piccoli. Quella che anche io avevo ammirato tanto tempo prima.
Cominciò a suonare quello che aveva pensato durante la mia esibizione, muovendo la testa a ritmo. Le mani cominciarono a diventare invisibili, le bacchette molli, e i capelli, anche se erano molto più corti di quelli del fratello, svolazzarono in giro. Era… fantastico.
“You are amazing!”, dissi quando finì e mi guardò, come per sentire il mio parere. In fondo era pur sempre la mia canzone. “Ma dove lo trovo un batterista che riesca a suonarla così?”.
“Se vuoi cambio band, non c’è problema!”, disse ridendo. Tomo fece finta di offendersi, per poi cominciare a ridere con un ma per piacere!, mentre Jared sbuffò per prenderlo in giro.
“No, penso che abbiano bisogno di te”, ridacchiai. “Ma mi piace, sul serio”.
“Grazie, tesoro”, disse facendomi scoppiare a ridere.
“Bene, ora te l’ho fatta sentire acustica, se vuoi domani guardo un po’ la chitarra elettrica e Shannon fa la batteria, così sei contento. Posso andare a cambiarmi? Questo body è fottutamente scomodo!”, pregai Solon mostrando la mia figura, coperta fino ai fianchi dalla felpa. Peccato che per il resto si vedesse tutto e, anche se non avrebbe per niente dovuto farmi piacere, Jared per poco non cadeva dalla sedia.
“Vai, vai, ballerina. Ma domani proviamo, cadesse il mondo o il film andasse in rovina!”, mi minacciò mentre uscivo.
Cazzo, cazzo, cazzo! Dove erano andati a finire i miei fantastici piani contro i Leto?
Dovevo essere vendicativa, eppure avevo perdonato Shannon in meno di due secondi. Dovevo essere cattiva, eppure ci avevo passato la giornata insieme. Dovevo farmi valere, eppure Jared continuava a farmi lo stesso effetto che mi faceva dieci anni prima.
Non ero cambiata davvero, almeno non riguardo a questo. Inutile chiamarlo come un signore o per cognome, inutile fare finta che la band fosse solo composta da Tomo e Shannon, inutile lottare per non ricominciare a soffrire. Mi stavo perdendo qui…
Avrei dovuto coprire quei maledettissimi occhi, per la miseria!
“Veronica McLogan, è ufficiale: sei una grandissima cogliona!”, mi insultai da sola, mentre entravo nella mia roulotte, prima che notai la chiamata della mia migliore amica newyorkese. Finalmente un aiuto!
 
 
Jared
 
“Veronica McLogan, è ufficiale: sei una grandissima cogliona!”, sentii dire quando mi nascosi dietro il suo caravan, prima che entrasse e non riuscii più a seguirla.
Oh fantastico! Ci avrei giurato che prima o poi si sarebbe pentita di aver perdonato Shannon.
A me non dispiaceva affatto in fondo; grazie a questo oggi avevamo passato tutto il giorno insieme tra prove di ballo – che per ragioni oltremondo logiche era meglio dimenticare e abbandonare negli abissi della mia mente – e prove di canto.
Ma era da Ronnie fare qualcosa e poi pentirsene. Forse ingiustamente, ma lo faceva da sempre. Chissà se credeva ancora di essere la causa di quella stupida separazione… l’ultima volta di certo lo pensava.
Mi sedetti per terra, con la schiena contro la fiancata della roulotte, sperando di sentire qualcosa, anche solo le calde gocce d’acqua di una doccia – sempre il solito, Leto Junior! – o la sua voce che canticchiava allegra. Ma niente, era come se fosse tutto insonorizzato.
Mi misi la mano al collo e frugai sotto la maglietta per trovarla: la collana con il plettro. Risi ripensando a come la tenevo nascosta, oppure a come la toglievo per poco quando andavo a fare le foto dal mio amico newyorkese Terry.
L’unico momento in cui gli Echelon avrebbero potuto immortalarla era ai concerti, quando mi toglievo la maglietta per una canzone intera o anche solo per pochi istanti. Era divertente farlo, era divertente vedere le mie adorabili fan andare in delirio.
Il delirio era bello, il delirio andava bene.
“Cosa?!”, sentii gridare da dentro la casa mobile e mi preoccupai. Sopra di me c’era una finestra: mi sarei odiato se mi avesse beccato, ne ero certo, ma ero troppo curioso e anche un po’ preoccupato.
Mi sporsi un po’, solo per vederci qualcosa, e lei era lì: stava parlando con il suo iPhone sul piccolo divano del caravan e aveva le gambe accavallate. Il piede superiore si muoveva a ritmo, anche se non era ben definito, mentre l’altra mano muoveva i capelli, appena sciolti dalla treccia e leggermente più ricci; l’effetto della piastra se ne stava andando.
Gli occhi erano spensierati, le labbra aperte in un sorriso che in pochi istanti si trasformò in una risata. Questo voleva dire che l’urlo di prima stava ad indicare una cosa buona. Magari aveva vinto qualche premio, o era stata invitata a qualche festa ed ora lo stava riferendo a qualcuno.
A Vicky forse. A Andy forse.
Andy… la sua migliore amica, che avevo conosciuto nel periodo di Natale dell’anno in cui Ronnie era stata parte della mia vita. Era simpatica, divertente, molto pazza e perfetta per Ronnie. Di sicuro era la persona giusta per una ragazza con problemi alle spalle.
Shannon era rimasto colpito da lei, anche se il suo amore nascosto rimaneva la ragazza che aveva baciato al mio compleanno. Non aveva idea di chi fosse, sapeva solo il suo nome: Rea. Il fatto strano era che nessuna Rea era stata invitata, e nessuno sembrava conoscerla. Era come un angelo apparso all’improvviso, e così a lui piace immaginare.
Io cercavo di dimenticare la notte del mio trentesimo compleanno: non perché non fu stupenda, anzi fu il contrario, ma mi faceva male e aumentava il mio desiderio di riaverla, in tutti i modi possibili e immaginabili.
Erano passati dieci anni eppure mi sembrava ieri che partivo per Los Angeles e la tranquillizzavo con un bacio sulla fronte di come tutto sarebbe andato bene. O la sera in cui le mandai il messaggio prima della festa, prima di…
Fanculo Jared, l’hai seguita fino a qui non per sembrare uno stalker ma per dirle la verità, quindi aspetti che finisca quella telefonata, muovi il culo e le vai a parlare! Non doveva essere tanto difficile, no?
Controllai di nuovo, ma sfortunatamente si stava voltando precisamente contro di me, perciò mi abbassai in fretta e mi sedetti di nuovo per terra. Cavolo, i miei bellissimi pantaloni!
Chiusi gli occhi, evitando di pensare a tutte quelle cose materiali che erano diventate la mia vita come il pensiero precedente, e mi lasciai trasportare dal silenzio. All’improvviso, nel buio delle mie palpebre, spuntò un pianoforte e le mie mani presero a suonare una nuova melodia, tutta diversa dal solito.
Non era lenta come Alibi, non era come A beautiful Lie. Non riuscii a trovare parole per descriverla, non riuscii a trovare parole da inserirle. Mi piaceva così, strumentale e basta.
“Mi vuoi spiegare perché la tua mente bacata ti continua a far rimanere sotto il diluvio universale senza ombrello o almeno una felpa con un cappuccio?!”, sentii una voce, la sua voce, entrarmi in testa.
Aprii gli occhi e me la trovai danti, con un giaccone addosso e la mano rivolta verso di me. Tesi la mia di conseguenza e notai che la mia pelle era completamente fradicia. Mi guardai intorno: pioveva a catinelle e ora non solo i miei pantaloni erano sporchi di terra, ma anche bagnati di fango. Bleah…
Mi prese la mano e quel contatto fu… non dirò magico e non dirò perfetto o diventerei il ragazzo più ridicolo sulla faccia della terra, ma fu pieno di ricordi. Questo sì, ma non di più. In fondo non contava niente.
Mi alzai e la vidi farmi cenno di seguirla, come se fossi un idiota a non averlo capito subito. Mi scrollai i capelli e poi entrai nella sua minicasa. Era come la mia, ovviamente, solo che era un pochino più ordinata. Ma non di molto.
“Che ci facevi qui?”, arrivò subito al sodo dopo avermi portato un asciugamano.
“Perché mi aiuti?”.
“Perché sono una persona per bene, primo. Secondo, Constance non te l’ha insegnato? Non si risponde ad una domanda con una domanda”, mi fece la predica continuando a fissarmi, in attesa di una risposta decente.
“Niente, io volevo solo… lascia stare”, evitai di parlare. Perché? L’ho già detto che ero un idiota? No, forse era stato Tomo a dirlo per me.
“No, non lascio stare, chiaro? Puoi fare la diva quanto vuoi fuori da questo set, lontano da me, ai tuoi concerti. Ma non qui, non con me. E perciò ora mi dici perché cazzo era fuori a infradiciarti!”, mi fece la predica. Era una Ronnie molto più determinata, questo era evidente ormai… il che la faceva diventare ancora più sexy e bella.
“Non mi ero accorto che pioveva, stavo creando”, risposi ricordandomi la melodia.
“Non è quello che ti ho chiesto, mister”, mi interruppe mordendosi il labbro inferiore, arrabbiata. Avrei dovuto calmarla o avrebbe cominciato a sanguinare.
“Volevo parlarti… parlarti di quella sera. Volevo dirti la verità”, confessai guardandola finalmente negli occhi, quegli occhi che appena cominciai a parlare si fecero freddi di nuovo.
“Bene, perché sono curiosa! Sai com’è, era da tanto che ormai non la ricordavo e grazie a te ora di certo non mi si toglierà più dalla testa per i prossimi mesi. Grazie”, si arrabbiò. Non mi stupì; era tipico di Ronnie essere molto lunatica. “Qual è questa favolosa verità, allora? Perché Shannon l’altro giorno mi è venuto a dire che è tutta colpa sua e balle varie… cos’è, l’hai pagato perché potessi cambiare idea su di te?”.
Cosa aveva appena detto?!
“Tu… tu… cosa?!  Credi che io abbia pagato mio fratello per dire una cosa che nemmeno è falsa mentre non avevo nemmeno idea di dove fosse, invece che pensare che forse ha ragione?!”, mi infuriai. E no, questo non lo doveva fare.
“Sarebbe solito per uno come te”.
“Uno come me?! Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Ok, ho sbagliato, sono un fottutissimo idiota, ma come puoi pensare certe cose, cazzo!”, presi ad urlai sbattendo per terra l’asciugamano e andando verso la porta. Mi sarei odiato poi, lo sapevo, ma non ora. “Sai una cosa, principessina voglio tutto e subito? Basta, non mi interessa più niente di niente! Fai quel cazzo che vuoi, pensa quello che credi giusto. Non mi importa!”.
E così uscii da quella maledetta roulotte.   
Tornai da dove  ero venuto, entrai nel mio caravan e mi sdraiai senza fregarmene di niente, senza ascoltare le lamentele di quei due. Basta, non ne potevo più.
“Jared, tutto ok?”, chiese Tomo preoccupato.
“Oh, alla grande, amico! Grazie alla tua grande idea, ora sto da Dio! E sai qual è la cosa migliore che ho pensato, pochi secondi fa, uscendo dalla sua roulotte?”.
“Che è tornato tutto come prima?”, chiese Shannon. L’hai pagato perché potessi cambiare idea su di te?
“No, caro fratellino che farebbe bene a tacere per una volta in vita sua, no. Ho deciso che è ora di tornare in tour, qui ho chiuso. Rivoglio la mia chitarra, troveranno qualcuno meglio di me”, decisi andando verso le camere, divise con una porta dalla piccola sala.
“Cosa?!”.
 


 ...
Note dell'Autrice:
JARED COSA CIPPA COMBINI?!???!!?! Bah, è pazzo xD e Ronnie è lunatica. Basta, è deciso.
haahahaaha io che insulto i miei personaggi... siamo messi male!! 
Cmq cosa ne pensate, belle mie?

Auguratemi buon viaggio :) *se non rispondo subito alle recensione è perchè sono via, sorry :3*
BACIONI E BUONA PASQUA, Ronnie02

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Capitolo 19
*** Here Comes The Rain ***


Echelon, Echelon, Echelon..... FORSE PRENDO IL VyRT DOMANI!! Ahaha sono troppo esaltata perchè quei tre mi mancano da morire e vederli ancora mi fa impazzire! Che poi Jared potrebbe farmi una telefonatina tenera tenera, eh! 
Comunque, torniamo a noi. Eccomi qui, sono tornata da Roma (vacanza troppo figa!) e avevo voglia di aggiornare anzichè fare francese. In più voi state aspettando da una vita, povere le mie diveH :)
Quindi... eravamo rimaste a Jared che dava di matto e se ne voleva andare. Tranquille, vedrete che alla fine farà il bravo.... *ma quando mai i Leto fanno i bravi?!*
Buona lettura!



Capitolo 19. Here comes the rain

 
 

Ronnie
 
Era andato via, in pochi secondi, davanti ai miei occhi. In teoria ne sarei dovuta rimanere felice: mi avrebbe lasciato in pace, non mi avrebbe più parlato, tutto sarebbe tornato come prima. Era buona cosa, i miei piani sarebbero andati a buon fine.
Allora perché cavolo dentro stavo morendo, vedendolo andare via?
Perché vedevo me, diciannovenne, in lui: vedevo me, ferita e distrutta da quello che mi aveva fatto. Me, delusa.
L’avevo deluso, avevo detto cose stupide, senza senso. Ma ero fuori di me, odiavo solo sentire nominare quella sera; davo di matto sopra ogni logica.
Ma non era comunque questo il motivo per cui stavo male. Era solo una piccola parte che, giorni prima, non mi avrebbe scalfito di un millimetro. Anzi, mi sarebbe sadicamente piaciuto vendicarmi così.
Io… ero… curiosa. Maledettamente curiosa di cosa fosse successo quella dannatissima notte! Shannon che diceva che la colpa era solamente sua, Jared che cercava di dirmi qualcosa, ma non si decideva a parlare… Solon che mi illudeva a qualcosa mentre creavamo il disco.
Cosa continuava a dirmi?
Pensa a cosa provi, Veronica! Scrivere non è difficile e suonare è ancora più facile. Non ti servono anni di esperienza. Ti serve l’emozione, l’amore… la rabbia! Anche se ingiustificata, anche se sbagliata… la rabbia.
Perché aveva usato quegli aggettivi? Perché sottolinearli così intensamente? Lui sapeva qualcosa, qualcosa che nessuno voleva rivelarmi. Qualcosa che solo Jared aveva il diritto di dirmi.
Ma cosa?            
Mandai a fanculo ogni cosa, i miei piani, il film, Andy, Vicky, il matrimonio, la musica, e corsi fuori dalla mia roulotte. Pioveva, mi bagnai da cima a fondo, mi sarei presa un raffreddore e addio registrazione e prove. Mandai a fanculo tutto per la seconda volta e cominciai a correre. Direzione: la minicasa di Marte.
“Ehi! Ehi!”, urlai battendo la mano sulla porta. Sapevo che era lì dentro, sapevo che stava frignando sul suo letto, come avevo fatto io al mio ritorno a Bossier City. Era lì, lo sapevo. “Apri questa cazzo di porta, adesso!”.
“Hai finito?”, mi chiese… Shannon aprendo la porta. Era arrabbiato, con gli occhi mezzi chiusi, la voce roca.
“Dov’è tuo fratello?”, chiesi di fretta, sputando acqua. Simpatici a lasciarmi affogare nel bel mezzo di una tempesta!
“Ronnie, và via. È il tuo turno stavolta: non farti più vedere, non farti più sentire”, mi rispose cattivo. Erano le mie stesse parole. “L’ho visto soffrire troppe volte, ma solo due di queste furono davvero tremende. E la colpa è sempre stata tua. Esci dalla sua vita, una volta per tutte. Era quello che volevi, no? Và”.
“Shannon, fammi parlare con tuo fratello”, implorai al gelo, prima che chiudesse la porta. “Mi sembra di star cercando un mistero storico invece che un semplice racconto di una serata! Ditemi quello che è successo, e poi, se non mi vorrà più vedere, andrò via”.
“Ronnie… ha mollato il film. È in centro New York per stabilire le prossime date, di intermezzo tra ora e gli EMA di Madrid”, mi rispose aprendo la porta e mostrandomi la saletta vuota, con Tomo che telefonava a Vicky in cucina per dirgli che si sarebbero visti un’altra volta. “Torna alla tua roulotte, cerca un altro protagonista, inventa i tuoi passi, fa la tua musica. Ma lasciaci in pace”.
In quel momento mi stoppai e Shannon prese lì occasione per chiudere la porta, lasciandomi sotto la pioggia. Quella pioggia che avrei tanto voluto pulisse il mio corpo dalla rabbia, dalla tristezza, dal dolore. Un dolore che sapevo non sarebbe mai andato via.
No, non potevo finirla lì. Non potevo lasciare tutto com’era. Aveva ragione Vicky: non ero felice, non stavo bene. Era tutta una finta.
Ripresi a correre e andai a cercare Solon. Era con i produttori del film e con il regista, per cercare un compromesso per accelerare le riprese che si stavano facendo troppo lunghe.
“E così potrete capire che la situazione si sta un po’ degenerando, ma abbiamo tutto sotto controllo, state tranquilli, rispetteremo i tempi e…”, stava ciarlando, difendendosi dagli attacchi. Scusami, Solon, ti prego.
“Ehi, Bixler, ho bisogno di te!”, mi scaraventai letteralmente dentro la stanza, spaventando parecchie persone. Solon perse circa dieci anni di vita a mio parere.
“Ronnie, che cavolo ci fai qui? Non sei ammessa!”, mi disse vendendomi incontro, nascondendomi dai suoi capi.
“Ho bisogno della tua auto”.
“Un altro giro per New York con Andy? Qui sto cercando di risparmiare tempo, se non hai capito!”, mi ricordò il primo avvenimento di questo cast. Ma grazie, amico!
“No, Solon, ma ho bisogno di andare in città”, lo corressi.
“Perché?”.
“A suonare. A scrivere. A provare di nuovo emozioni, Solon”, dissi rispondendo al suo indizio. “Vado a riprendere il controllo della mia vita”.
Lui sospirò piano e forte, storse un po’ le labbra e poi frugò nelle tasche. Eccole: le chiavi della sua macchina.
Me le consegnò in fretta, dandomi un bacio fraterno sulla fronte. “Ti rivoglio qui entro le dieci e mezza, Cenerentola, chiaro?”.
“Sì, papà”, lo presi in giro abbracciandolo. Poi mi voltai verso i produttori. “Ehilà, gente! Ma lo sapete che quest’uomo è un mito?”.
Sì, era da me, non ci potevo fare niente.
Scattai fuori dalla stanza e corsi fuori dal set, superando i caravan, guardando per un secondo quello dei Thirty Seconds To Mars. Era da tanto che Shannon non si arrabbiava con me, e la cosa non mi piaceva affatto.
“Ci penserò più tardi”, mi dissi entrando in macchina, bagnata fradicia, e mettendo in moto. Dal set al centro della città ci volevano al massimo venti minuti, ma grazie a Dio negli ultimi tre anni avevo vissuto a stretto contatto con Solon Bixler.
Premetti l’acceleratore così violentemente che ebbi paura di spaccarla e subire la povera ira del proprietario, ma alla fine riuscii nel mio intento. Andai più veloce della luce, superando qualsiasi cosa. La pioggia non aiutava, avrei fatto facilmente un incidente a quella velocità se non stavo attenta. Ma c’era qualcosa di più forte, come se mi fossi fatta di qualche sostanza illegale: l’adrenalina.
Mi scorreva nelle vene per qualche strano motivo. Ecco perché ricercavo Jared, ecco perché alla fine i miei piani erano andati a farsi fottere.
In questi dieci anni, anche nei fantastici ultimi tre, tutto si era trasformato in monotonia. Perfino il tour dell’anno precedente, dopo centoquaranta due tappe, era diventato una routine.
Invece ora, in meno che una settimana, o forse poco più, la mia vita era diversa ogni santo giorno. Non ero più capace di decidere le mie giornate, programmare qualcosa.
E questo mi piaceva, mi mandava in estasi completa.
In un quarto d’ora arrivai alla strada principale e feci mente locale per capire dove potrebbe essere quel disastro. In fondo aveva un vantaggio di mezz’ora circa, non di più, contando il tempo che impiegai a svegliarmi, a parlare con Shannon e con Solon. Forse anche meno.
E’ in centro New York per stabilire le nuove date… quindi stava parlando con la casa discografica.
Presi il telefono in mano e mi fiondai in rete. Fortunatamente prendeva e riuscivo a connettermi. Google, Wikipedia, Thirty Seconds To Mars… Emi.
Sapevo benissimo dove si trovava la loro sede, nella quale gli artisti prendevano decisioni con gli organizzatori. Ci ero stava una volta, con Solon, tanto per farmi un idea del mondo in cui stavo entrando.
Ripresi marcia e, più lentamente per evitare multe o incidenti seriamente pericolosi, mi diressi verso l’edificio che ospitava gli uffici della Emi. Non era molto lontana.
Era lì. Nel parcheggio del palazzo. Ero riuscita a velocizzarmi, ero riuscita a trovarlo prima che combinasse un guaio.
“Jared Joseph Leto, non ti muovere”, urlai uscendo dalla macchina e chiudendola con un click alle chiavi. L’uomo biondino che avevo preso di mira si fermò, senza voltarsi.
No, Jared, stavolta non scappo. Stavolta si combatte.
“E così sei andata dai ragazzi. Cos’è, volevi sapere se avevo pagato anche Tomo per averti lasciato organizzare il matrimonio?”, mi insultò voltandosi e uscendo dal portico in cui stava camminando, infradiciandosi come la sottoscritta.
“Dimmi cosa è successo quella sera. Dimmi quello che ho interrotto prima. Dimmi la verità”, lo scongiurai, muovendomi verso di lui, guardandolo negli occhi. “Ti prego”.
“Sai una cosa? Perché dovrei farlo? Perché dovrei farmi prendere ancora in giro per poi finire a pezzi come dieci anni fa o più semplicemente come mezz’ora fa. Perché?”, mi chiese passandosi una mano sulle labbra, per provare ad asciugarsele dalla pioggia. Gesto stupido, visto che si ribagnarono in un secondo.
“Voglio sapere la verità. Voglio capire cosa ho sbagliato, cosa potevo evitare, cosa potevamo costruire se non fossi andata via”, risposi pregandolo ancora.
Lui sorrise, quasi malefico, e scosse la testa. “Vuoi sapere la verità, non è così?”. Io annuii, un po’ spaventata dal suo tono: rigido, freddo, distaccato. “Io ero… fottutamente… ubriaco. Visto, sei contento Tomo ora? L’ho detto, sì, ero completamente bevuto e forse anche un po’ fatto. Ma non è questo il punto. Sai perché è successo? Sai perché Shannon mi ha offerto quei drink?”.
Scossi la testa, lentamente. Mi tremavano le mani e di sicuro non avevo più voce.
“Perché da quando ero arrivato a Los Angeles sembravo un morto che camminava! L’unica cosa che avevo fatto era parlare con la Emi e cercare di portare a termine qualcosa. Ma non uscivo, non parlavo, non scrivevo, non suonavo. Non facevo… niente. Vivevo per inerzia”, mi spiegò quasi piangendo. O forse lo immaginavo, confusa dalla pioggia che batteva. “E così Shannon si stufò di vedermi stare così male, e mi portò a quella festa. Fece le sue bravate con Solon e alla fine, mentre io stavo seduto a sentire la musica, mi portò un bicchiere. ‘Non ti farà niente, bro!’, mi disse. Ma uno diventarono due, e due tre, e tre quattro… finchè non capii più niente”.
“Non sei l’unico che ha vissuto rinchiuso in quei giorni”, cercai di dire ma lui continuò a ridacchiare. Mi faceva seriamente paura, sembrava quasi posseduto.
“Ma la storia ancora non è finita, cara la mia Veronica. Lo sai cosa mi fa più ridere di questo ricordo? Il fatto che avevo deciso di portarti lì con me, una volta per tutte. Ti avevo comprato un fottutissimo biglietto aereo per Los Angeles e mi ero ripromesso di parlartene il giorno dopo”, si arrabbiò urlando e sbattendo i piedi per terra. Alcuni passanti si spaventarono e decisero che era meglio evitare di intervenire. Io ero ferma, immobile. Aveva comprato un biglietto aereo, per me, per la California… “Ma il giorno dopo non fu come l’avevo prefissato. Mi risvegliai accanto a ragazze che, giuro, avevo sognato fossi tu per tutta la notte. Continuavo a ripetere il tuo nome e quelle due cretine manco si offesero. Andai da Shannon e mi disse tutto. Non gli rivolsi più la parola per due mesi, fino a che decisi che ormai la frittata era fatta e che alla fine aveva solo cercato di farmi stare meglio”.
“E mi hai dimenticata del tutto”, conclusi in bellezza il racconto che ora si componeva in tutte le sue parti.
“Seriamente, Ronnie, hai mai sentito qualche nostra canzone? Sono tutte per te, nessuna esclusa, anche solo implicitamente. Ora te lo posso anche dire, ormai che… the secret is out”, rivelò sorridendo. Era tranquillo, ma si vedeva che non era molto stabile.
“Non sei il tipo che si ferma solo per una richiesta. Perché non sei venuto a cercarmi?”.
“Lo feci. Ma… quando tornai a Bossier City ti vidi al parco, su quei pattini. Continuavi a cadere, a farti male e io mi volevo tanto uccidere per il dolore che ti avevo causato”, mi rivelò. E perché io non avevo visto lui?! “Ma poi un ragazzo ti aiutò a alzarti e presi quel gesto come un simbolo. Lui ti avrebbe aiutata… e invece come sempre mi sbagliavo di grosso”.
“Sei un maledetto idiota, Jared Leto”, lo insultai, ormai a poca distanza da lui. La pioggia ormai ci aveva bagnati tutti, era scontato che staremmo stati malissimo nei giorni successivi. “Avresti dovuto rialzarmi tu e darmi quel maledettissimo biglietto”.
“Se vuoi al ritorno a Los Angeles te lo do. È ancora a casa mia, in un cassetto nella mia camera”, sorrise indietreggiando e facendosi seguire, cosicché mi ritrovai al coperto. “Ma questa è sempre qui con me”.
La collana con il plettro.
Era rotta, a causa della caduta dalle mie mani, ma era lì, rimessa a nuovo. Era perfetta come la ricordavo e quel piccolo triangolo era… magnifico.
“Jared… io dovrei… essere felice, dovrei baciarti come sempre fanno in quei film…”, cominciai facendolo immobilizzare. “Ma ora che so tutto, la curiosità che avevo per questa storia se n’è andata via… ed è tornata di nuovo la paura. Ho paura che se ci riproviamo ci faremo solamente del male… Shannon mi ha detto come stavi quando sono scappata via. Mi ha detto di uscire dalla tua vita… e ho paura che se non lo faccio, tra qualche mese ci ritroveremo di nuovo a soffrire entrambi”.
“Quindi vuoi continuare a vivere nella monotonia, nella felicità apparente? L’amore è tutta una sfida, è elettrizzante proprio perché non sai cosa ti potrà succedere!”, mi disse con un sorriso, avvicinandosi. Ronnie, che cavolo ti era saltato in mente di venire qui?! “Bisogna mettersi in gioco e tentare! Be Closer To The Edge!”.
“Non sono più in grado di mettermi in gioco, Jared. Ho troppa paura!”, mi difesi, cercando di fargli capire quanto mi costasse questa sfida.
“La paura è solo apparenza, Ronnie. Te ne puoi liberare, è così facile!”, si esaltò sorridendo, stavolta sembrando fuori di testa in modo un po’ più positivo. “Era da anni che non sentivo l’adrenalina scorrermi delle vene e l’eccitazione andarmi alle stelle! I concerti sono pieni zeppi di sensazioni come queste, ma così al limite… non lo puoi provare se non stai sul filo del rasoio. E la paura è l’unico modo per tenere l’incertezza al massimo”.
“Non voglio soffrire, non voglio farti soffrire!”, continuai imperterrita, anche se le sue parole erano esattamente quello che avevo provato in macchina.
“Non lo sapremo mai, Ronnie. Ricordi quando sei arrivata in America e parlavi delle scelte? Non sapremo mai qual è la scelta migliore, ma dobbiamo provarci!”, mi ricordò. Ed io ricordai che quando tornai a Bossier City mi convinsi che sarei dovuta andarmene a Francoforte da Andy per qualche mese e che l’America era stata solo un grosso errore. Ma poi ci ripensai e ringraziai il cielo di non essermene andata.
L’America era la cosa migliore che avessi mai fatto, avevo scelto bene, mi ero buttata… ero stata vicino al limite, forse superandolo anche di molto.
“Allora che mi dici, soulless? Era tutto vero o mi prendevi in giro?”, chiesi sorridendo, riprendendo le parole di una mia canzone.
Avevano ragione tutti, l’avevano sempre avuta. Eravamo impressionanti. Non ci eravamo mai davvero allontanati, non era mai davvero finita. Le nostre canzoni ci permettevano di parlare ancora insieme.
“Era la cosa più vera che avessi mai lontanamente provato”, disse sorridendo per un secondo.
Poi, finalmente o maledettamente, poggiò le sue labbra bagnate sulle mie, mandando tutti i miei stupidi piani al diavolo ancora una volta. Ormai l’avevo immaginato. Veronica McLogan non avrebbe mai tenuto testa a Jared Leto, inutile intestardirsi.
Era come chiedere al sole di non tramontare o alle stelle di non brillare. O come dire al destino fermati! Non interferire con la mia vita, hai già fatto abbastanza!, perché non lo farà mai. Ti guarderà sghignazzando, superiore, e ti stravolgerà ancora una volta la vita, tanto per divertirsi un po’.
Il tempo non si può cambiare, ma il destino fa quello che vuole. Se vuole che vecchie situazioni riemergano, prima o poi riuscirà a ricrearle a suo piacimento.
L’avevo detto io, prima che Jared trovasse la lettera del loro produttore. Manco l’avessi fatto apposta. Stupido destino…
 
 
Jared
 
Ce l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta. Ce. L’avevo. Fatta!
Basta litigi, basta pianti, basta discussioni, basta tutto. Ce l’avevo fatta, era di nuovo la mia Ronnie. Era di nuovo vicino a me…
E cavolo mi erano davvero mancate le sue labbra! Erano diverse da tutte quelle altre che egoisticamente avevo baciato in quegli ultimi dieci anni, senza tener davvero conto di chi fossero.
Forse era per quello, forse erano fantastiche perché erano le sue. E finalmente erano di nuovo mie, tutte e solamente mie!
One day maybe we’ll meet again!
Se avessi saputo cosa davvero sarebbe successo avrei scritto quella canzone molto prima. La canzone degli Echelon, la mia canzone. La canzone che era regina di tutte.
Parlava di me, di Ronnie, di quella sera. Di quello che non avrei dimenticato, di quello di cui non mi sarei pentito. No, no, no, no! Era tutto così collegato…
“Siamo davvero così masochisti a cercare il dolore?”, mi sorrise quando mi staccai malvolentieri da lei. Risi, perché in fondo aveva ragione.
“Siamo fatti così, soffriamo rimanendo lontani, soffriamo restando insieme”, conclusi dandole un bacio sulla guancia, vicino alle labbra. “E quindi tanto vale prendersi la parte migliore della cosa”.
Sorrise sulle mie labbra e sentii il calore del suo respiro. La più ovvia parte di me esplose e la mia solita voglia di prenderla in quel momento si fece fin troppo grande.
Ma non ero con una bionda qualsiasi in un afterparty con la quale divertirmi un po’ per poi tornare alla mia solita vita. Ero con la mia Ronnie, dovevo calmarmi.
Però ero pur sempre il solito vecchio Jared Leto e i miei pensieri potevo farli quando e come volevo!
“Cazzo!”, tossicchiò lei all’improvviso, facendomi spaventare. Ehi, che succedeva? “Solon mi ucciderà!”.
“Per esserti fatta un giro di un ora a New York? Ma se oggi era giornata libera per tutti?”, chiesi preoccupandomi. Conoscevo Solon e ora quando le stava vicino era diventato quasi ossessivo nei suoi confronti. Non le avrebbe torto un capello, ma mi dava fastidio che continuasse ad avere così paura per tutto.
“No, per non avere più un minimo di voce e dover registrare tre canzoni più la mia e recitare una miriade di scene!”, mi spiegò ridendo, con effettivamente una voce un po’ roca, prendendomi per idiota.
“Vieni, torniamo indietro”, dissi indicandole la mia macchina. Lei si fermò e prese qualcosa dalla  tasca. Mi fece vedere delle chiavi e me le tintinnò davanti agli occhi. Oh, giusto, lei aveva la sua… no, aspetta, quella era la macchina di Solon! “Ehi, gli hai fregato l’auto?”.
“No, me l’ha prestata per seguire un idiota che voleva fare cazzate!”, mi rispose puntandomi il dito. “Oh wait! Non hai fatto cazzate, vero?”.
“No, fortunatamente mi hai fermato in tempo”, sorrisi. In verità avevo un voglia matta di tornare in tour, mi mancavano i miei Echelon, ma sarei dovuto tornare lontano da lei e, ora in questo preciso instante, era la cosa peggiore al mondo.
“Bene, allora torniamo al set, devo avvisare Andy che sono fuggita e mi deve aspettare”, disse andando in macchina, senza darmi spiegazioni. Andy era sul set?!
In un certo senso avevo paura di vederla. Dopo quello che avevo fatto alla sua migliore amica mi avrebbe di certo voluto morto e sepolto lentamente e con molto dolore.
Certo, Vicky non era stata così cattiva – ero ancora vivo – ma lei aveva Tomo e perciò per vie traverse non poteva volermi morto. Servivo alla band, avevano bisogno di me. Come potevano resistere i Thirty Seconds To Mars con un cantante come Shannon o Tomo?! Sarebbero morti all’istante, poverini.
Ad Andy poteva non importare niente e poteva farmi fuori in pochi secondi. Bè forse si sarebbe calmata visto che Ronnie ora era tornata da me senza desiderio di vendetta, ma un bello schiaffo non era certo escluso.
Deglutii, salendo in macchina in fretta e mettendo in moto. L’ultima volta che ero stato seduto lì ero arrabbiato, deluso, e non avevo ancora detto la verità.
Ora mi sentivo meglio, felice, libero di pensare e dire quello che volevo.
Sapevo che non saremmo potuti tornare a dieci anni prima, un certo periodo di tempo non si può cancellare così in fretta, ma eravamo insieme, ci stavamo provando e andava bene così.
Notai che guidava veloce, segno che Solon l’aveva contagiata con la sua guida fuori di testa, e che infatti arrivammo a destinazione in poco tempo. All’andata ci avevo messo venti minuti, al ritorno quindici. Era un buon risultato.
Parcheggiai di fianco a dove la lasciò lei, nel parcheggio del set, e spensi il motore. Uscii e chiusi a chiave l’auto.
“Ci vediamo stasera a cena, vado a dare le chiavi a Solon e cercare di calmare Andy per il ritardo”, mi salutò con la mano, cercando di scappare. Era abituata male, la signorina…
“E dove scappi?!”, dissi correndo e prendendole il braccio, facendola girare. Sorrisi e le diedi un leggero bacio sulle labbra, godendomi ancora il sapore di pioggia e profumo.
“Devo andare… seriamente!”, rise quando si staccò da me, correndo via un’altra volta. Però stavolta non per sempre. Era qui, con me.
 
 
 
...
Note dell'Autore:
Sono o non sono troppo brava?! ahha scherzo, è Jared che è il migliore xD 
Allora vi è piaciuto il capitolo?! (recensiteeeeeeeeeeeee xD )
Bene, altro evento importante = NOME DEL CAPITOLO IMPORTANTE, se vi ricordate il rompicapo sui capitoli. Qui c'è il secondo indizio! mi picchierete quando lo capirete, ma io vi voglio bene e voglio far andare il vostro cervellino tanto tenero :)
Ok, vado che è meglio!
Baci, Ronnie02

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Capitolo 20
*** Is This Who You Are? ***


Salve Echelon! Sono tornata ad aggiornare, visto che ormai è passata una bella settimana e vi ho lasciate con troppi pochi problemi. Insomma, questa è una storia, e una storia senza colpi di scena che storia è?!
Quindi... BAM!, eccovi il vostro colpo di scena di oggi :D
A parte questo volevo darvi una nota sulla FF in generale, vedete voi se prenderla per una buona o cattiva notizia, per me è entrambe: siamo ufficialmente a META'. 
Ora vi lascio leggere. Buona lettura, donzelle :)




Capitolo 20. Is this who you are?

 
 


Jared
 
Dopo averla vista entrare nella sala dove sicuramente si trovava ancora Solon, mi diressi verso la mia roulotte, sperando che Shannon non mi uccidesse.
Era stato carino a difendermi, un vero fratello, ma ora non volevo che si comportasse così con Ronnie. Mi aveva fatto soffrire, tutto vero, ma io di certo non  ero l’unica vittima, anzi.
Bussai tre volte alla porta e aprì, notando che Tomo era seduto sul divano a leggere uno dei libri che Vicky gli aveva regalato, mentre Shannon era di fianco a lui a giocherellare sul suo iPhone, probabilmente scrivendo stupidate come le mie su Twitter.
“Allora, quando partiamo e dove?”, mi chiese Shannon senza staccare gli occhi dal telefono. Sorrisi.
“Tomo… ti ho trovato i tuoi due nuovi testimoni di nozze!”, annunciai entrando nel piccolo salottino facendo scattare la testa in alto ad entrambi.
“Che cosa?!”, urlò il capellone sorridendo.
“Le ho detto tutto, mi sono bagnato fradicio, domani starò di cane… ma le ho detto tutto!”, sorrisi ancora entrando e vedendo che Tomo era al settimo cielo. “Mi ha beccato prima che entrassi alla sede newyorkese della Emi”.
“E…?”.
“E niente… ci riproviamo!”, mi esaltai facendomi abbracciare da Tomo, mentre Shannon rimase a bocca aperta. Era stupito… ma non in bene.
“Perfetto. Sai una cosa? Quando ti troverai in un letto a frignare per lei per la terza volta, fatti consolare da Mister Santo”, disse alzandosi e chiudendosi dietro la porta.
Tomo si staccò e storse le labbra. Io annuì e seguii mio fratello nella sua stanza. Ci serviva una bella chiacchierata, non volevo che questa situazione degenerasse, non era decisamente il caso.
“Ehi”, sussurrai entrando nella stanzetta. Shannon era seduto sul bordo del letto, l’iPhone buttato al centro, e le mani battevano nervosamente sulle ginocchia, che salivano e scendevano a ritmo.
“Senti, Jared, lo so che sto rovinando tutto e…”.
“Ti ringrazio”, sorrisi. Lui si voltò stupido e muto, anche se la sua espressione faceva comparire un grande cosa?. “Sei un fratello eccezionale e ti ringrazio per starmi sempre vicino. Tu vuoi solo il meglio per me, senza farmi soffrire”.
“Ma?”, chiese lui, indovinando il mio tono.
“Ma con Ronnie non ci sarà mai la sicurezza di un periodo di completa pace. Quando mai l’abbiamo avuta, anche dieci anni fa?”, sorrisi vedendo che lui era seriamente preoccupato della mia sanità mentale… bè, ormai avrebbe dovuto arrendersi!
“Non volevo essere cattivo con lei, ma mi fa terribilmente incazzare il fatto che si prenda gioco di te così, tanto per fare! Certo, era ovvio che non capisse un accidente di quello che le stavamo dicendo tra le righe, ma ci sono modi e modi”, disse lui guardando fuori dalla piccola finestrella. “Ma lei rimarrà comunque Ronnie… la mia impacciatissima amica Ronnie”.
“Che ha portato sul set Andy per farle fare un giro”, tossì fintamente, cosicché il mio fuso fratellone si voltò di scatto, con gli occhi sgranati. Eheh, ci avevo scommesso l’anima che non se l’era dimenticata, per niente. “Forza, torna da Tomo e vedi di non fare drammi, io vado a farmi una doccia… puzzo di pioggia”.
“Eccolo che fa la divah… spero che Ronnie ti dia una bella svegliata, vecchio mio”, sorrise alzandosi insieme a me, per poi guardarmi sorridente. “Sono felice che siate insieme, comunque, non ti preoccupare. Dovevo solo abituarmi all’idea… insomma dieci anni ha sopportare le tue lamentele su quanto tu fossi stato coglione non se ne vanno via così velocemente!”.
“Sei fantastico”, lo abbracciai, senza fare smorfie come ero solito duranti gli abbracci in pubblico, tanto per far divertire gli Echelon. Shan in questo era molto più serio, a lui non piaceva fare moine perché un abbraccio per lui era importante.
“Cerchiamo di vestirci da terrestre stasera, magari. Dobbiamo fare bella figura con due marziane in visita, soprattutto tu signorino”, mi disse quando rise e andò fuori dalla stanza.
Io presi le mie cose e di fretta entrai nella mini doccia. Dio mio, ma lì era tutto mini?! Avevo bisogno di casa mia! Ormai era già troppo tempo che non mettevo piede nella mia adorata casetta, ne sentivo la nostalgia.
Ormai il mondo era diventato il mio rifugio, non avevo più un posto realmente stabile, se non il pensiero di quella grande piscina, la sala di registrazione e la mia camera…
“Jared! Siamo in un fottuto ritardo, spicciati!”, sentii urlare da Tomo dall’altra stanza. Mi svegliai dal coma rievocativo e mi fiondai fuori, con i capelli tinti biondi bagnati e spettinati. Devo dire che avevo fatto bene a farli così, mi piaceva davvero.
“Senti divah, lo specchio non comincerà a parlarti né ora né mai, quindi muoviti a vestirti”, disse Shannon, già pronto con vestiti abbastanza decente. Bè, eravamo sempre noi, non potevamo farci niente.
Io mi misi i miei pantaloni stretti neri, la t-shirt strappata su una spalla e la mia giacca, quella che avevo messo nel video di King And Queens, con la Triad dietro. Le scarpe… quelle di Hurricane!
“Sì, può andare”, studiò Tomo vedendomi uscire, ovviamente con gli occhiali da sole, come mio fratello e anche lui. Ci facevamo ridere da soli a mettere gli occhiali scuri mentre pioveva, ma stile era stile.
Uscimmo e notammo che diluviava ancora, quindi prendemmo velocemente un ombrello e scattammo fuori di fretta, correndo per evitare di bagnarci ancora. La pioggia era bella solo quando potevi stare chiuso in casa a guardare fuori, altrimenti era solo una rottura!
Entrammo nella sala mensa, come quelle delle scuole o anche dei vecchi circhi che viaggiavano con i treni, e ci sedemmo dove avevo notato i rossi e, sfortunatamente, ancora troppo lisci capelli di Ronnie legati in una cosa alta, che le scendeva fino a metà schiena. Quanto cavolo erano lunghi?!
Sotto lo sguardo indagatore di una Andy un po’ diversa da come la ricordavo, mi sedetti sorridente di fianco a lei, un po’ imbarazzata dalla scena. Tomo si mise a capotavola, mentre Shannon vicino ad Andy… come ovvio.
“Andy, ti ricordi dei Leto?”, iniziò confusa Ronnie mostrando me e Shannon con una mano, accompagnata da una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso. “E poi, bè, Tomo lo conosci già”.
“Piacere di rivederti, Shannon!”, esultò allegra voltandosi verso di lui e salutandolo con la mano. Poi guardò me. “Jared”.
“Ciao Andy, come stai?”.
“Io benissimo… tu non lo so”, sussurrò sorridendo, quasi cattiva e vendicativa. Sì, voleva uccidermi.
“Andy! Trovato il vestito per la cerimonia?”, chiese Tomo sbattendo una mano sul tavolo per attirare l’attenzione della ragazza, mentre Ronnie si voltò verso di me mordendo il labbro.
“No, lo deve ancora disegnare… ancora non capisco la sua ossessione nel dover creare abiti! Lo fanno già gli stilisti, perché complicarsi la vita e spendere dieci volte di più?”, disse rivoltandosi verso di noi e facendo una smorfia. “Sei matta…”.
“Dovrà essere l’evento del secolo e ci vuole un abito appropriato! La cosa migliore era farlo fare o non sarebbe stato abbastanza straordinario, finiscila di lamentarti!”, rise Ronnie facendole la linguaccia.
“Ehi, ehi, ehi, evento del secolo? Ma con Vicky non avevi parlato di cerimonia semplice con solo persone amiche e fidate?”, sottolineò lui. Ecco perché all’inizio Ronnie non mi voleva al matrimonio: non ero una persona né amica né fidata.
“Piccoli dettagli, Tomo, non ti scaldare. Tu pensa alla tua ragazza, al resto ci penso io”, lo zittì la rossa.
“Sì, dettagli…”, sbuffò Tomo, ormai sfinito di controbattere. Gli aveva dato l’opportunità peggiore del mondo e ormai non ne poteva più uscire.
“So, com’on! Che vogliamo fare? Ordiniamo o no?”, chiese Shannon facendo ridere tutti. Ordiniamo? Shan non siamo in un ristorante!
“Vado a prendere qualcosa per tutti”, disse Ronnie ridendo. Si alzò e io feci per imitarla di conseguenza. “Ce la faccio”.
“Per cinque? Che ti costa farti aiutare?”, chiesi alzandomi lo stesso. Lei alzò gli occhi sbuffando, ma mi lasciò andare con lei, sotto lo sguardo di Andy che controllava ogni mia mossa.
Prese due vassoi e li mise davanti a sé, proprio come una mensa scolastica. “Questo per Shannon, quello per Tomo… uh, questo piacerà a Andy! Dolce per Tomo, qualcosa di sfizioso per Shannon, quello lì per te, con anche quell’altro. Ad Andy prenderò questo”, cominciò ad elencare.
“E per te?”, chiesi curioso, visto che aveva preso tutto per tutti tranne che per lei stessa. Che succedeva?
“Oh, io non mangio. Ho pranzato oggi mezzogiorno”, si scusò come se fosse una cosa normale. Eh?
“Sì, lo so, ma anche io ho pranzato. Questo non vuol dire che tu non debba cenare?! Solon ti ha messo in punizione per l’uscita di oggi?”, chiesi sperando che scherzasse. L’avrei rinchiusa nella sua roulotte se fosse stato vero.
“Io mangio a pranzo o a cena, ormai sono abituata così, Jared, non fare storie”, sussurrò senza guardarmi. Poi indicò uno yogurt bianco, davanti a lei. “Perfino se mangiassi questo coso rischierei di rimettere tutto… non ci sta”.
“Ti devo riportare da mia madre? Stai scherzando, vero?! Come puoi pretendere di ballare e cantare tutto il giorno se non mangi niente?”, cominciai a fare storie. Ovvio, per forza era uno scricciolo! Adesso mi venne la paura che se la toccavo si sarebbe spezzata subito.
“Jared, la vuoi smettere?! È dieci anni che continuo, se non sono ancora morta vuol dire che è ok!”, parlò sottovoce, anche se avrebbe di certo preferito urlare.
“No, non è ok!... Aspetta, dieci anni?! Vuol dire che se tu non mangi è colpa mia?!”, dissi cercando qualcosa per impiccarmi. Ma quanto ero coglione?
“Non avevo così tanto bisogno di mangiare…”, sussurrò come per affermare ciò che avevo detto.
“Non mangi più di una volta al giorno dal momento in cui sei tornata da Los Angeles?! Come hai fatto a fare un tour in quello stato?”, diedi di matto. Lei mi guardò male.
“Lo sapevo che non ti dovevo invitare a mangiare con noi…”, commentò non guardandomi e prendendo da bere. “Senti, nessuno tranne me e te lo sa ora, ok? Quindi non fare danni e non cambiare la mia vita! In tour sono stata male solo una volta, all’inizio, ed era perché ero super stressata dai live…”.
“E perché non mangiavi”.
“E dalla vita on the road! Ce l’ho sempre fatta e ora, anche se volessi, non riuscirei volontariamente a diventare cicciona, vomiterei il ‘superfluo’ ogni due per tre”, mi spiegò. Che avevo combinato?
“Perché? Io ce l’ho fatta!”, ricordai.
“Cosa?!”.
“Ricordi che avevamo fatto quella scommessa in cui dicevi che sarei diventato un futuro ciccione? Bè, hai vinto McLogan!”, le dissi facendola diventare curiosa, ma sempre convinta della sua teoria. “Per il film Chapter 27 dovetti ingrassare tantissimo. Ovvio, ora mi vedi figurino perché il tour ci ammazza, ma se guardi anche solo il video di The Kill non sono così magro”.
“Wow… ho vinto!”, esultò per un attimo. “Però ho anche perso una scommessa con Vicky, ora che mi ci fai pensare. E va bè, le dovrò dieci dollari. Resta il fatto che non mangio”.
“Dai solo un panino!”, la incitai.
Lei ridacchiò e sbruffò. “Jared… ho già mangiato prima di arrivare, avevo fame”. Di sicuro era la scusa che accaparrava a Solon per non farla scoprire. E sul serio le credeva?! Avrei dovuto parlarci…
Pagò le cose prese e la seguii al posto in cui gli altri erano seduti. Nel mentre la squadrai ancora una volta: ora mi sembrava ancora più magra di quello che forse era seriamente. Le gambe erano lunghe e fin troppo snelle, tanto che le cosce facevano un po’ fatica a toccarsi davvero, mentre i polpacci erano abbastanza proporzionati visto il lavoro che faceva. Le braccia erano magroline ed esili, le mani lunghe e affusolati, con la solita carnagione biancastra - cadaverica. Ovvio, era vegetariana e non mangiava!
“Alleluia, pensavo di chiamare i soccorritori o darvi per dispersi alla polizia locale”, disse Shannon aggiuntando le cose che Ronnie dichiarò di sua  proprietà in meno di due millisecondi.
Tomo ed Andy la ringraziarono e, con molta più calma, presero le loro cose. Poi mi sedetti e presi anche io da mangiare.
“E la rossa?”, chiese mio fratello, con il nomignolo che le aveva dato dieci anni prima, negli ultimi tempi insieme.
“Già mangiato, non preoccuparti”, rispose lei prima che potessi aprire bocca. Maledetta, questa me l’avrebbe pagata! Non poteva farsi una cosa del genere, sarebbe di sicuro finita in cura per anoressia se avrebbe continuato così.
“Non ci posso credere”, commentò Tomo ridacchiando con Shannon mentre mangiavano. “Sul serio, sarebbe da fare un video…”
“Ma che state complottando voi due?!”, chiesi dopo qualche minuto in cui mi fecero girare i nervi.
“Tanto vale dirtelo se non reagisci, inutile giocare, anche se mi sembra impossibile. Jay… dov’è il tuo Blackberry?”, mi chiese Shannon ridendo a Tomo.
Il mio… Blackberry? Il mio Blackberry!
“Oddio, oddio, oddio, dove avete nascosto il mio piccolino? Voi… gente malsana, ridatemi il mio BB! Ne ho bisogno ragazzi, vi prego, vi supplico, vi scongiuro, farò tutto quello che volete… ma datemi il mio Blackberry!”, urlai sporgendomi verso di loro per strangolarli. La mia non più unica ragione di vita!
“Finalmente! Pensavamo che Ronnie ti avesse fatto un buon lavaggio del cervello rendendoti normale… cavolo, e invece sei rimasto idiota”, mi prese in giro l’uomo che meno di un ora prima avevo ritenuto un buon fratello maggiore. In quel momento l’avrei preso volentieri a sberle!
“E’ nella roulotte, stai tranquillo e mangia. Seriamente, ci stavamo preoccupando”, disse Tomo facendo sedere e rimettendomi a mangiare, triste. Il mio Blackberry… da solo, al buio….
“Ditemi che non è sempre così”, sussurrò Ronnie sorridendo a Tomo.
“E’ già tanto che non se lo sposa, ragazza. Superata da un telefono… io mi offenderei, fossi in te”, rispose invece Shannon mentre Andy rideva con Tomo. Ovviamente si conoscevano già tramite il matrimonio, avrei dovuto immaginarlo.
“Non ne sono ossessionato… ne ho solo bisogno!”, cercai di scagionarmi.
“E allora questa cambia ogni cosa!”, mi ridicolizzò lei ridendo. Però in fondo in queste ultime ore non mi era servito. Non ci avevo nemmeno pensato, non lo avevo nemmeno preso in mano.
Un record in confronto a quanto lo usavo di solito. Insomma, Twitter, il blog, le foto… roba importante! Non importante quanto lei, adesso.
Mi misi a mangiare quello che mi aveva preso e gli altri mi imitarono, tornando seri e improvvisando dei discorsi al momento, tanto per parlare di qualcosa. Ronnie intanto guardava il suo telefono.
“Io ne sono ossessionato, eh?”, chiesi vedendo che era su Twitter a postare qualcosa. Eating with friends… so fun!. Sì, proprio ‘eating’!
“Stavo solo aggiornando i miei fans. Attendono trepidanti i miei tweet, scherzi?”, ridacchiò lei.
“Anche la nostra famiglia. Di solito ci stracarica di menzioni”, dissi fiero. “Gli Echelon sono i migliori”.
“I migliori in assoluto!”, decretò Shannon intromettendomi. “Io li amo, anche se a volte non scrivono in inglese e non capisco nulla”.
“Forse perché ti stanno prendendo in giro! La prossima volta usa Google Traduttore”, gli consigliò Tomo ridendo.
Shannon illuminò gli occhi e poi, ridendo, ritornò al suo piatto, così come il chitarrista.
“Famiglia? Echelon?”, chiese Ronnie confusa.
“Echelon è il nome delle persone che credono in noi. Non ci piace chiamarli fan… loro sono la nostra famiglia, ogni singolo marziano fa parte di noi”, spiegai, per quello che riuscivo. Sperai che capisse. “Yes, this is a cult”.
“Forte. E’ bello che abbiate un così forte legame”, sorrise lei. Bene, lei era una persona che poteva capire… perfetta.
“Ti hanno già risposto in trecento immagino”, commentai notando le sue mani muoversi veloce sul touch screen.
“Mi piacerebbe rispondere a tutti, ma non penso di riuscirci. Perciò guardo solo i tweet migliori, o più originali”, mi disse senza guardarmi e continuando a cliccare. “Per esempio Be happy, you deserve this. Say hellooo to your friends for me. And remember: you’re the fucking best!. Li amo”.
“Che scrivi?”.
“La risposta: @AnotherDreamerGirl Thanks baby! I can laugh for you too… hi! And remember: I love your nickname :)”.
“E’ una parte di una tua canzone quel nome?”, dissi cercando di ricordare quella che aveva cantato la prima volta che l’avevo vista su quel set.
“Sì… sai, ho proprio voglia di fare un nuovo album. Ci vuole un po’ di tranquillità, oltre alla rabbia e al dolore del primo”, disse alzandosi ed andando via con un sorriso, lasciandomi lì per andare da Solon. Per sbaglio, o forse no, dimenticò l’iPhone sul tavolo, sulla pagina delle menzioni al tweet originale.
You’re awesome. The people who hate you or hurt you are only a bastard!
I’m happy to see you happy. We love you
I can’t wait to your next concert or album. I need to hear your voice again, or your laugh! #memoriesofLove&HateTour
Enjoy yourself, Ronnie! The Offbeats love you!
Love&Hate Tour… The Offbeats?
“Jared, posso parlarti?”, chiese Andy, facendomi svegliare e togliendomi l’attenzione da   quelle parole.
“Certo”, dissi mentre si alzava e mi indicava di seguirla. Shannon e Tomo guardarono confusi ma lei continuò a muoversi verso l’uscita. Che voleva fare sotto la pioggia?!
Arrivò alla porta e lì si fermò, mettendo con la schiena contro il muro e guardandomi in faccia. Ok… che voleva?
“Sappi che se le torci anche solo un capello ti verrò a cercare e cadesse il mondo ti uccido. Non mi frega niente se hai una band, se Ronnie starebbe male per te, o se i ragazzi mi odierebbero. Ti uccido”, disse chiaro e tondo.
Deglutii.  “Certo Andy, è giusto”.
“Bene… quindi vedi di comportarti come si deve e non fare sceneggiate sui suoi comportamenti. Lei è fatta così, non cercare di cambiarla o vi farete male”, disse. Lei lo sapeva che non mangiava? Ma Ronnie aveva detto che ora solo io e lei ne eravamo al corrente…
“Chi sono i Offbeats?”, chiesi senza pensare.
“Sono gli anticonformisti, i fan di Ronnie. Li chiamano così”, mi rispose lei. “E’ diversa dalle altre star e come lei i suoi fan. Nei concerti fa salire dei fan e li fa cantare con lei per strofe intere, si fa dare consigli su canzoni se al momento ha un’illuminazione, passa in transenna a chiedere se è piaciuto lo spettacolo e li abbraccia quasi tutti.
“Mentre durante gli eventi o i servizi fotografici si veste a suo modo, senza stilista, come le va. Una volta volevano metterla in bikini e invece lei è arrivata con delle AllStars, pantaloncini di jeans e maglietta, dicendo ‘o così o niente’.
“Non rispetta le regole, le crea. E così sono i suoi fan, fuori dagli schemi, desiderosi di formare una nuova società, migliore”, mi spiegò.
Ridacchiai. In fondo gli Echelon e noi non eravamo molto diversi, e mi sembrò strano che non l’abbiano mai paragonata a noi. O forse l’hanno fatto e non mi era giunta voce. Ma perché?
Come avevamo fatto a non vederla agli eventi mondani della musica per tre anni? Lei e Solon di certo avevano pianificato ogni cosa per evitare che ci scontrassimo, ne ero certo.
“Andy, mi dispiace per quello che ho combinato, sul serio! Non hai idea di come mi senta mentre la guardo… mi dispiace, ma non odiarmi, okay?”, chiesi prima che scappasse via per tornare al suo posto.
“Qualunque cosa tu faccia, Jared Leto, lei ti amerà per sempre. E qualunque cosa tu faccia, la renderà felice. Non posso odiarti… anche se la rabbia potrebbe ucciderti”, disse sorridendo alla fine, ricordandomi il discorso di prima. “Siete legati, non dimenticarlo”.
La lasciai andare e in poco tempo tornò seduta al suo posto, per ridere e scherzare ancora con i miei amici.
“Ehilà, solitario”, mi disse Ronnie, venendo verso di me. “Che ci fai qui?”.
“Niente, lascia perdere”, risposi facendomi abbracciare e stringendola a me, avvicinando il viso. “Ho voglia di un po’ di Ronnie…”.
“Non ci contare bello, non qui”, disse slacciandosi immediatamente e scappando via, ridendo e prendendomi in giro. Cattiva, ragazza! Non si facevano queste cose!
 
 
Ronnie
 
Era l’ultima settimana sul set, Dio mio.
Non ci potevo credere seriamente che dopo quel giorno Will si era svegliato e avevamo lavorato così duramente che alla sera mi ritrovavo sfinita come quando ero on the road. Mancavano poche riprese da completare, una coreografia da registrare e delle basi musicale da perfezionare. Insomma, era quasi la fine ed erano passato più di un mese e mezzo.
“Ehi quasi ventinovenne!”, mi salutò Andy, di nuovo sul set visto che lei aveva terminato il suo film, in attesa delle premiere o di un altro lavoro. Già… era il 6 di giugno e il 9 sarebbe stato il mio compleanno. Non vedevo l’ora…
“Ehi, quasi vincitrice del prossimo premio sulla recitazione che non ricordo come Miglior Attrice Protagonista di stasera!”, dissi io voltandomi e guardando il suo sorriso spegnersi man mano che i secondi passavano. E già, stasera c’era un non so che premiazione per la recitazione in cui Andy era stata candidata e di certo avrebbe vinto, ne ero sicura.
“Si chiamano MTV Movie Award e non credo proprio: Kristen Stewart non la batte nessuno!”, disse con voce ammirata. Quella ragazza, sebbene nemica in carriera e più piccola in età, era l’idolo di Andy. Era brava sullo schermo, aveva una forte personalità nella vita reale, un bel ragazzo (non lo scordiamo) e numerosissimi lavori cinematografici.
“Ha vinto già l’anno scorso, magari stavolta riuscirà a darti un posticino”, risi pensando ad Andy che batteva la Stewart. L’avevo conosciuta in passato, o almeno l’avevo vista e un’intervistatrice ci aveva fatto parlare un po’ e mi era parsa simpatica, ma la mia migliore amica l’avrei sostenuta sempre e comunque.
“Speriamo! Forza, andiamo a cambiarci, ho un bisogno disperato di un consiglio sull’abito”, disse mettendomi le mani addosso e spingendomi fuori dalla sala di registrazione, dove stavo facendo delle prove vocali per la nuova canzone. Bello, avevo pure fatto la rima! “Tra due ore dovremmo essere in centro New York! Muoviti!”.
Risi e la seguii di spontanea volontà, uscendo da quella casetta e camminando verso la mia roulotte, che ora dividevo con Andy visto che non voleva andare in albergo e farsi sempre il viaggio di andata e ritorno dal set.
“Ferme là! Siete dichiarate in arresto per… per pazzia incontrollata”, ci trovammo davanti Jared, Shannon e il povero Tomo che doveva sopportarli e sostenerli sotto tortura. “Siete pregate, ovvero obbligate, di seguirci alla centrale per fare degli accertamenti”.
“Senti, mister sono talmente idiota che mi ritengono persino intelligente, abbiamo da fare”, eliminai con lo sguardo Jared che fece subito una smorfia, avvicinandosi.
Andy mi guardò assassina, indicandomi che non dovevo farmi toccare o saremmo rimaste lì una vita. Così mi scostai come ogni santa volta con un sorriso di scuse. “I’m sorry, I have to go!”.
Andy mi prese la mano e di fretta li evitammo tutti e tre, mentre ridevano e ci guardavano andare via. Sarebbero venuti anche loro alla premiazione, per fortuna, ma non ci avrebbero messo il nostro stesso tempo per prepararsi, anche se erano in tre.
“Sempre appiccicati voi due, eh?”, mi chiese retorica quando entrammo nella mia minicasa e si fiondò verso il bagno. Segno che voleva parlare lo stesso, quindi mi misi contro la porta chiusa mentre sentivo l’acqua scendere.
“Cosa? Ma se appena mi sfiora arrivate in quaranta a fermarci! Ormai penso che Jared abbia passato la sua più grande crisi di astinenza di tutta la sua vita”, dissi incrociando le braccia, facendo il broncio.
“Questo non è vero!”, si difese lei.
“Cosa?! Mi vuoi prendere in giro? Mi sembra di essere finita in un liceo di suore in cui alle ragazze è categoricamente vietato persino guardare di nascosto un maschio! Manco fosse una creatura leggendaria e maligna”, mi lamentai io, sentendo di conseguenza una sua copiosa risata attraverso l’acqua.
Mi facevano davvero venire i nervi, tutti quanti!
Da quando avevamo cenato insieme, la sera in cui Andy era arrivata la prima volta,  avevamo sempre cercato di starcene un po’ da soli, per i fatti nostri a parlare di questi dieci anni separati, e perderci a passeggiare all’insaputa del mondo come prima, ma non ci eravamo mai riusciti. Il motivo? Tutto il mondo!
Appena cercavamo di darcela a gambe, Tomo – no, voglio dire… Tomo! – mi chiedeva cose impossibili e inimmaginabili sul matrimonio e sull’organizzazione. Appena ci sfioravamo in qualcosa di più di un semplice abbraccio Andy mi faceva il solletico o Shannon si metteva a giocare come un deficiente con il fratello. Se poi, non l’avessimo mai fatto, mi fossi fermata da loro oltre le undici di sera, molto casualmente Will entrava nella loro roulotte come un ispettore sanitario per avvisarci cosa avremmo fatto il giorno dopo, ovviamente beccandomi in pieno e mandandomi a “casa”.
Un mese e mezzo di nuovo insieme ed era tanto se ci baciavamo. Mi sembrava davvero che fosse una totale esagerazione.
“Davvero, mi spiegate perché lo fate?”, chiesi sentendo l’acqua fermarsi.
“Tu esageri la cosa, non stiamo facendo niente di niente, bellezza”, disse sbloccando la porta e aprendola, mostrandosi in biancheria intima e capelli mossi, abbastanza corti biondicci, tutti bagnati.
“Cosa mi stai nascondendo, Andy?”, chiesi mentre se la filava nelle camere di fretta, lasciandomi libero il bagno. Poi le urlai, per farmi sentire: “Tanto prima o poi lo scoprirò!”.
Entrai in bagno, mi svestii e mi infilai nella doccia. L’acqua calda era rilassante, pura, portava via tutte le preoccupazioni. Quella serata in fondo sarebbe stata lunga e in realtà non avevo nessuna voglia di presentarmi. Sarebbe stata una rottura star seduta per due ore a vedere gente consegnare premi all’infinito.
Almeno c’erano i ragazzi. Ovvero, come loro solito avrebbero fatto casino e io mi sarei divertita almeno un po’, evitando di far innervosire ancora di più Andy già stressata con la mia noia.
Uscii dalla doccia e mi vestii con la biancheria nuova che mi ero presa, per poi guardarmi un attimo allo specchio.
Ero cambiata, rispetto di certo a come Jared mi ricordava. I miei capelli si erano allungati parecchio e i riccioli, ora non presenti, si erano fatti ancora più boccolosi, ma mai crespi. Il rossore non se n’era mai andato, ma era diventato più scuro rendendoli ramati invece che più arancione carota.
Il viso si era fatto più magro, come il resto del corpo, ma senza perdere nessun fascino. In più i miei grandi occhioni verdi erano più evidenti, facendo navigare tutti in pozze profonde.
Le braccia, la pancia e le gambe si erano magicamente ridotte, causa poco cibo ingoiato e lavoro duro tra set e tour. Le braccia erano magre la metà di quelle che ricordavo avessi dieci anni prima, le cosce facevano fatica a toccarsi e la pancia era piattissima. Ma non mi preoccupai, in fondo era una bella visione.
Sapevo perché si era preoccupato, era il motivo per cui non l’avevo mai detto a nessuno e per il quale continuava ad arrabbiarsi ogni santo giorno che passava.
Sarei stata male prima o poi, oppure nel peggiore dei casi mi avrebbero ricoverata dopo chissà che svenimento. Io stessa avevo sempre paura di esagerare per finire come al mio terzo concerto. Tornata sul bus  quella volta ero riuscita a malapena a camminare verso il mio letto, per poi svenire davanti ad esso, tra le braccia di Solon.
Avevo dato la colpa allo stress e da quel momento non mi esaltai così tanto durante i concerti. Ballare e divertirsi sì, ma gare di salti continui o movimenti troppo veloci no, mi davano alla testa.
Pensavo che conoscendo i miei limiti tutto si sarebbe risolto, in fondo non era un così grande problema. Però la paura di un nuovo svenimento, e il male post dormita, mi mandavano in ansia.
“Ronnie?”, mi chiamò Andy, svegliandomi dai miei pensieri.
“Arrivo!”, risposi scuotendo la testa. Inutile pensare alle cose peggiori, non contava niente sarei stata benissimo. In fondo anche andare a questa festa poteva essere dannoso: una fan scatenata e fanatica avrebbe anche potuto uccidermi per tenere i miei organi per ricordo.
Era una cosa ridicola, ma se si pensava a tutto in negativo sarebbe davvero potuto succedere. Quindi evitai di farmi ulteriori problemi e uscii.
“Alleluia, sei sopravvissuta ad una doccia! Forza, vieni e consiglia”, disse portandomi in camera e prendendo la valigia. L’aprì e notai che dentro c’erano solo abiti. Ma che cavolo…? “Dopo sceglieremo il tuo… e ti voglio tanto sexy!”.
“Tanto non potrei fare niente comunque, vero superiora?”, dissi facendo finta di essere una suora. “Voi e la vostra stupidissima congiura! Vi beccherò prima o poi!”.
Lei sbuffò, evitando di ricominciare a parlare del mio argomento preferito nelle ultime settimane, e cominciò a tirare fuori vestiti. Tutti diversi: diverso colore, corti o lungo, con o senza spalline, larghi o attillati…
“Quello”, dissi subito indicando l’ultimo che stava buttando sul mio letto, per passare a quello successivo. Lei si fermò, riprendendolo in mano e analizzandolo con me.
Era un abito lungo, elegante, di colore rosso sangue, scollato fino alla cinturina a vita alta di seta rossa. Era abbastanza largo sulle gambe, mentre sulla vita si elasticizzava per abbracciare il corpo. Dalla scollatura poi, fino alla fine delle spalle, partivano le sottili spalline che si univano alla stoffa appena sopra alla fine della schiena, lasciandola completamente aperta. Era giugno, ce lo potevamo permettere.
Lei annuì contenta e andò a metterselo veloce mentre io cercavo in quel piccolo guardaroba portatile delle scarpe da abbinare. Eccole.
Delle decolté nere, con i lati in pizzo nero, accompagnato da un fiocco dello stesso colore e dello stesso materiale sulla punta, aperta ovviamente. Con esse ci abbinai una pochette nera, con fiocco grande sul davanti. Andy era una tipa che di certo le sarebbe piaciuto.
“Allora?”, disse entrando in camera, bella da irradiare. “O mio dio, tu sì che mi capisci!”. Si fiondò sulle scarpe e la borsa, vestendosi ora a puntino. “Perfette, proprio come pensavo… trucco fatto e capelli li lascio sciolti, stanno meglio”.
“Bene”.
“No, bene niente, ora passiamo a te. Và a truccarti con colori neutri, ti farò una sorpresa”, disse scacciandomi via.
“Favoloso!”, esultai fintamente. Per quanto ricordavo eravamo a tre. Tre volte che o lei o Vicky si erano improvvisate mie stiliste: era tutta colpa di Jared, non mi facevo mai fregare quando ero da sola! Merda…
Andai a truccarmi come mi aveva ordinato e scelsi il solito nero matita e mascara, senza andare sul pesante, e poi un ombretto marroncino chiaro. Misi un po’ di fard per coprire un po’ di occhiaie e il lucidalabbra. Non era la giusta occasione per il rossetto rosso. Mi ripassai lo smalto nero, lo feci asciugare e poi mi decisi a tornare in camera.
Oddio.
“This is it, my little sexy angel!”, disse cantilenando mostrandomi il mio abito.
Era un vestitino senza spalline, con un corpetto piccolo di lustrini argentati che illuminavano la stanza, e con la gonna a balze di stoffa alternata definita o a pizzo di color panna, che ovviamente finiva molto prima del ginocchio, evidenziando le mie gambe. Le scarpe erano tutte di lustrini dorati chiari e la borsa era bianca-marroncina.
Sospirai e andai a vestirmi, tanto non c’era speranza. Oh almeno così credeva Andy. C’era sempre quella stupida festa chiamata… afterparty!
Quando fui vestita e finii di farmi la coda alta, lasciando i miei capelli farmi il solletico alla schiena, tornai da lei. Intanto che si meravigliò della mia bellezza, prima, e si stupì di cosa stessi facendo, dopo, preparai il mio borsone.
“Che cavolo stai facendo?”, mi chiese. Appunto.
“I miei fan non si chiamano Offbeats per niente, baby”, dissi mostrandole delle leggins nere strappate, una canottiera leggera con lustrini blu elettrico e le mie amate AllStar alte blu, infilandole poi nel borsone. “Io non resto in questo stato e con questi trampoli mortali per quattro ore se non di più!”.
   “Che palle che sei!”, si lamentò senza però fermarsi. Sapeva che sarei sclerata con i tacchi. In fondo ero sempre Ronnie.
Appena tutto fu pronto ci guardammo di nuovo nello specchio in bagno e poi uscimmo, dove davanti a noi, l’auto era parcheggiata di fretta con Solon al voltante e i ragazzi dietro.
Shannon e Jared smisero di respirare per qualche secondo, poco ma sicuro.
                                                        
“Uh guarda! Che idioti!”, disse Shannon per la trentesima volta prendendo per il culo ogni singolo presentatore dei premi, e di conseguenza anche i premiati. “Ma dai, ma vi vedete?! Chi cavolo sei?”.
Andy aveva già minacciato tutti di stare zitti o se ne sarebbe andata, molti avevano insultato i Leto Bros sottovoce, Tomo continuava a scivolare più in basso della poltrona come i cartoni animati alla io questi non li conosco. Io… io ridevo come Solon a guardare quei due idioti prendere in giro altri idioti.
“Shannon se apri un’altra volta la bocca io giuro che ti ammazzo! Lo faccio con le mie stesse mani: prendo le scarpe e ti conficco il tacco in gola”, lo minacciò di nuovo la mia migliora amica che stava per avere una crisi isterica sebbene il presentatore continuasse a far ridere e tranquillizzare il pubblico, beccandosi stupidi commenti dai nostri amici.
Shannon ovviamente decise che era ora di finirla, facendo ridere Jared e rialzare Tomo ad una posizione più comoda e consona. Lei sospirò soddisfatta e riguardò il suo telefono, per controllare che fosse tutto okay.
“Lo sai che sei bellissima, stasera?”, chiese Jared avvicinandosi al mio orecchio quando, stanca, misi la testa sulla sua spalla. Senza le prese in giro la serata si stava facendo sinceramente noiosa.
“E tu un leccapiedi”.
“Dieci anni e ancora hai lo stesso umorismo. Le persone cambiano davvero così poco?”, domandò ancora ridendo.
“Infatti tu sei ancora un idiota. E tuo fratello pure”, lo presi il giro guardando in alto e vedendo i suoi occhi illuminarsi, accompagnati dalla sua risata. Avrei potuto essere la persona più arrabbiata del mondo, ma mi era mancato davvero tanto quel suono.
Le luci si spensero, mostrando per la millesima volta i candidati al premio che avevano annunciato. Stando alla scaletta iniziale dopo questi ci sarebbe stato il premio di Andy.
“Bel tatuaggio”, dissi vedendo la sua mano destra e notando che sul polso il primo simbolo di quelli della band era tatuato in rosso, con i contorni neri.
“Ci vorrebbe una giornata intera per spiegarti tutto ciò che riguarda la band ormai. I simboli sono la cosa primaria… ma quante cose abbiamo fatto dopo quel trasferimento a Los Angeles!”, disse più a se stesso che a me.
“Raccontamele allora”, lo invitai.
“Lo farò”, mi disse dandomi un bacio sui capelli approfittando dell’ultimo momento di buio. Dio mio, era fin troppo casto! Avevo davvero bisogno di lui in tutti i sensi…
Potevo sembrare anche troppo volgare, ma non mi chiamavano Offbeat per niente! Certo, non per quello, ma nella definizione c’entrava anche quello.
“Ed è ora di annunciare i candidati alla categoria Best Female!”, disse la presentatrice dell’ultimo premio. Oddio, mi ero persa la sua entrata. Andy andò su di giri, così le presi la mano, abbandonando la spalla di Jared.
“Stai tranquilla, andrà tutto bene”, la calmai mentre mi stritolava la mano. “E in ogni caso il tuo film è grandioso e questo premio è una merdata!”.
Lei mi guardò male, mentre i nomi delle altre tre candidate si facevano vedere illuminati in bianco, contro l’oscurità della sala.
“E dal nuovissimo film More than Anyone… Andrea Mercia!”, annunciò la voce facendo vedere vari fotogrammi e clips del film di Andy. Oh wait… Sherlock si era risvegliato ed aveva trovato la soluzione!
Poco importa che le luci si riaccesero e la presentatrice rivelò che la vincitrice, come l’anno prima, fu Kristen Stewart, che con un gran sorriso salì sul palco a prendere il suo premio, ringraziando tutti i suoi fan. Poco importa che Andy si morse il labbro, ma continuando ad applaudire per quella ragazza, leale in ogni caso. Poco importa che eravamo andati lì per niente alla fine.
Capimmo il mistero.
“Rea”, sussurrammo io, Shannon e Jared guardando la mia migliore amica. Era lei allora la ragazza misteriosa della festa!
 
 
 
 ...
Note Dell'Autrice: 
ci sarebbero una marea di cose da dire su questo capitolo, è tutto così concentrato che quello che mi ero appuntata di dirvi è svanito. Quindi, partiamo dall'inizio: Secondo voi è giusta la reazione di Shannon? E quella d Andy?
Ovviamente non sono mai stata ad un evento come i EMA's o gli MMA's, ciò che ho scritto riguardo le premiazioni è solo cioè che sono riuscita a capire guardandoli. Come vi sembrano i Leto versione prendiamo-in-giro-i-presentatori? 
Ultima cosina: Kristen Stewart apparirà per un altro breve secondo, ma fondamentale, nel prossimo capitolo. Non distruggerà nulla (anche perchè lei ha quel figone di Robert), quindi non insultatemela, potrei diventare mooooooooooooooooolto cattiva! ahhahaha La mia Stew doveva esserci per forza.

Ah ah, ferme lì. Ho voglia di darvi uno spoiler, vedete voi se leggerlo o meno :D

- "Terra chiama Jared! Marte è occupato, riprovate più tardi”, dissi scuotendo la mano davanti ai suoi occhi, ridendo. Lui si riprese, scrollando la testa e muovendo i corti capelli biondi, per poi sorridermi e tossicchiare. Oh, grande discorso in arrivo. - 


Spero che vi sia piaciuto,
MarsHug, Ronnie02
 
 
 

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Capitolo 21
*** Triad, Air, Latin ***


Salve Echelon! Vediamo di aggiornare un pò, visto che è passata una settimana. In più oggi sono super contenta e penso lo siate anche voi. Vi dice qualcosa This Is... FOUR?!?! Ieri i nostri re sono tornati su Marte, e noi con loro.
Bene, però ora torniamo alla storia, che se no comincio a parlare e non la smetto più :D 
Vi lascio a Jared e Ronnie. Buona lettura, gente!




Capitolo 21. Triad, Air, Latin

 



 
Ronnie
 
Appena finirono gli applausi ed Andy, Rea, capì di essere osservata, mi guardò in segno di scuse e scappò via, senza che nessuno avesse la forza di capirci qualcosa.
Era ovvio che alla fine in ragazzo che aveva baciato quella sera era Shannon. In fondo se è intelligente capirà chi sono, mi aveva detto la mattina successiva. Ma il poverino non poteva sapere che il suo vero nome non era Andy, ma Andrea. Rea.
Dovevo ammettere che era stata una genialità. La piccola Andy si era fatta furba e inventiva!
 “Ronnie”, mi fermò il braccio Jared, poiché senza rendermene conto mi ero mossa verso di lei per seguirla. Invece lasciò via libera al fratello, che di corsa, salendo gli scalini della sala a due a due, la rincorse.
“Avrei dovuto capirlo prima. Io conoscevo il suo vero nome… come ho fatto a non capirlo?”, mi chiesi pensando a tutto quello che avevo considerato… tutto tranne la cosa più semplice.
“Ora non fartene una ragione. E poi era giusto che lo scoprisse Shannon da solo”, mi disse abbracciandomi mentre la festa andava avanti, Kristen Stewart scese dal palco ed tornò al suo posto.
“E’ cresciuta”, considerò Jared. Che?!
“Cosa?”.
“Nel 2002 ho fatto un film con lei… Panic Room. Credo avesse dodici anni. Sembra strano vederla ora prendere un premio importante”, disse come un papà che vede la figlia prendere il diploma.
“Il solito romanticone paterno…”, sorrisi io guardandolo sgranare gli occhi, vergognoso. “Il che mi piace”.
“Sul serio?”, chiese tornando normale, forse fiero.
“Sì”, dissi avvicinandomi al suo viso. Ma ovviamente Solon tossì, ricordandomi che già quell’abbraccio sarebbe potuto essere fotografato e inteso male, ovvero bene. Ma male perché così tutti l’avrebbero scoperto, ma bene perché in fondo era la verità…
Insomma, non potevo fare niente come al solito e quindi mi staccai completamente da Jared e mi misi a braccia incrociate contro la poltrona, con il broncio.
Dio, quando volevo che quella serata finisse. Andy, dove cavolo ti sei cacciata!
Ma la mia preghiera non servì a nulla, quella non si fece vedere, Shannon non tornò al suo posto. Mi stavo incuriosendo davvero tanto a sapere che diavolo si stessero dicendo, ma ovviamente non potevo muovermi o Jared mi avrebbe intercettata. Quando avrei voluto essere ancora la sua nemica per un attimo solo, per scappare il libertà!
Ma… “Dove vai?”, mi disse infatti appena cercai di muovermi. “La serata sta per finire, non ti puoi perdere il finale!”.
“C’è l’afterparty e se permetti dovrei andare ai servizi”, mentii vedendolo pensarci su e analizzarmi come se potesse capire se stavo fingendo. Ringraziai il cielo di essere una brava attrice.
Storse il naso ma decise che ero abbastanza convincente per mandarmi via. Così presi l’occasione al volo e scattai in piedi, dirigendomi fuori.
Bene, avevo dieci minuti di scarto prima che Jared o Solon capissero che in verità avevo fatto ben altro, quindi come una ladra corsi in giro per i corridoi cercando quei due pazzi. Bene, dentro non erano, il red carpet era escluso visto che qualche fotografo era ancora in giro, se erano nei bagni gli avrei presi a schiaffi seriamente. Unica soluzione, erano fuori da qualche parte.
Con tutta la forza di volontà e la resistenza al venticello estivo notturno uscii dal palazzo dall’entrata posteriore e lì, a scannarsi vivi, li trovai davanti a me, a solo qualche metro di distanza.
Mi misi in ascolto.
“Che senso ha avuto restare nel segreto?”, le chiese Shannon mentre Andy aveva le braccia incrociate, come a difendere se stessa da una forza pressante. “Perché cambiare nome, Andy?”.
“Te l’ho già detto, non lo so, ero in ansia!”, si giustificò lei, evitando di guardarlo negli occhi. Avevo ancora cinque minuti prima che mi venissero a cercare.
“Sì, in quel momento! Ma poi? Perché non dirmelo?”.
“Sapevo che eri innamorato perso di lei, anche se non ne sapevi niente, ma solo il nome”, si giustificò. “Me l’aveva detto una volta Kevin, dopo la festa…”.
“E infatti il suo nome fa parte del tuo. Sei la stessa persona, allora perché farti certi problemi, Andy? Voglio solo capire”, la interrogò di nuovo. No, mossa sbagliata, batterista.
“In bagno, eh!”, mi spinse qualcuno dentro l’edificio tirandomi per il braccio. Una scossa nel sentire quella voce s’insinuò lungo la schiena facendomi rabbrividire. Ma non di freddo.
“Mi ero persa e…”, dissi sorridendo trovando la prima scusa buona.
“Sei pessima”, disse Jared ridendo di gusto, chiudendo la porta e lasciando quei due da soli di nuovo. “Con me eri e sarai sempre pessima, McLogan. Non sai mentirmi”.
“La sta mandando in crisi chiedendole continuamente perché”, commentai guardando la porta chiusa.
“Troveranno una soluzione. Non hanno bisogno di te, Ronnie”, disse avvicinandosi al mio viso e spingendomi contro il muro. Shannon ed Andy erano occupati, Solon e Tomo si stavano godendo la festa… era ora che ci lasciassero in pace!
“Nessuno ha bisogno di me”, dissi con il broncio facendomi abbracciare e graffiando la sua schiena. Altri brividi.
“Oh, sono certo che qualcuno ha un disperato bisogno di te, ma sfortunatamente non è il luogo ne il momento”, si giustificò lui dandomi un bacio leggero e cercando di liberarsi. Aumentai la presa sulle scapole e lo spinsi verso di me.
“Non dobbiamo per forza eccedere. Ho solo bisogno di alcuni minuti da sola con te… completamente sola con te”, spiegai mentre mi toccava i fianchi, giocherellando con i lustrini argentati.
“E tu credi che con questo coso addosso io riesca a guardarti e parlarti e basta? Sei impazzita per caso?!”, rise baciandomi ancora, stavolta con più foga, facendomi perdere la testa.
“Spiegami”, scesi in accordi quando mi fece prendere un secondo di fiato. “Gli Echelon, la band, i tuoi tatuaggi… spiegami”.
Lui rise, prendendomi la mano e portandomi lontano dalla porta. Andy, ci vediamo dopo.
Arrivammo alle scale che portavano alla parte superiore della platea, dove ci stavano principalmente i fortunati fan che si erano permessi di pagare una fortuna per partecipare.
Si sedette su uno scalino, mettendo la schiena contro il muro che attorniava le scale, e mi mimò di imitarlo. Mi sedetti nella sua stessa posizione, dall’altra parte della scalinata, ma i gradini erano così piccoli che i nostri ginocchi, piegati, si sfioravano. Accavallai le gambe, stendendole, e mi dispiacqui di non essermi ancora cambiata. Il che aveva una parte negativa ed una positiva: appena mi muovevo il vestito andava per i fatti suoi ed ero scomodissima, però Andy aveva avuto la sua vittoria, visto che Jared mi stava praticamente mangiando con gli occhi.
“Allora?”, mi svegliai a dire quando ormai mi aveva squadrata per benino.
“E’?”. Idiota.
“Terra chiama Jared! Marte è occupato, riprovate più tardi”, dissi scuotendo la mano davanti ai suoi occhi, ridendo. Lui si riprese, scrollando la testa e muovendo i corti capelli biondi, per poi sorridermi e tossicchiare. Oh, grande discorso in arrivo.
“Allora, da dove comincio? Ormai abbiamo così tanti simboli, motti o parole chiavi che potrei farci un libro!”, disse mettendosi una mano fra i capelli. Non lo interruppi. “Bene, ehm… cominciamo dai tatuaggi? Direi che il primo, questo”, disse tirandosi su la manica e mostrandomi il polso destro, “è il primo dei glyphics, che già conosci. Il secondo”, continuò sistemandosi la manica destra e tirando su fino al gomito quella sinistra, mostrando uno strano simbolo che non avevo mai visto. “è il simbolo degli Echelon. E tra poco avevo una mezza idea di tatuarmi delle Triad sui gomiti. Forse Terry me le disegnerà, così poi decido…”.
“Triad?”.
Ridacchiando mi chiese l’iPhone, così, senza capire, presi la borsa e glielo passai, evitando che cadesse. Lui cominciò a toccare lo schermo, freneticamente, e alla fine fece delle linee più regolari. Quando ebbe finito mi mostrò il suo lavoro.
Era un foglio di un app per disegnare. Ed era un… triangolo con una barra in mezzo?
“Ecco la Triad. È il simbolo dell’aria nell’alchimia, il che ci riporta al simbolo del nostro primo album. Una fenice, la Mithra. Rappresenta uno dei nostri motti principali: Provehito in Altum, in latino ‘puntare in alto’. Nel secondo album invece c’è Trinity, un cerchio con all’interno tre teschi e tre frecce che puntano verso il centro, dove si trova il primo glyphics”, continuò a dirmi, disegnando quelli che dovevano essere i simboli. Alla fine storse le labbra, rassegnato, e si mise a cercarli su Internet, mostrandomi delle foto decenti. Oh, carini.
“Belli, ma… quanti sono!”, esclamai.
“Mancano gli Echelon, giusto?”, mi chiese come conferma, senza farmi seriamente parlare, partendo subito in quarta. Ma io dovevo chiedergli una cosa! “Come ti ho già detto, noi crediamo che gli Echelon siano molto più che dei fans, loro sono la nostra… famiglia. Sono piccoli gradini che messi uno sopra l'altro possono rendere onore a Provehito in Altum. Sono il mezzo, gli unici promotori di un mondo migliore costruito sulla base dei nostri sogni. E'... difficile da spiegare. Lo senti dentro. Lo senti scorrere nelle viscere, nel sangue ed è energia pura. Nei concerti lo provi ancora di più… gli Echelon sono come una droga: ti fa stare bene e felice, dandoti tutta l’energia che ti serve. Un’adrenalina che non ha controindicazioni, se non l’ossessione”.
“Devono essere tutti meravigliosi”, sussurrai pensando al mio rapporto con i fans. Erano ammiratori, non li avevo mai pensati come fratelli…
Certo, volevo loro un bene dell’anima, era tutto merito loro, ma una famiglia? No, non l’avevo mai vista così, ma era davvero una cosa strepitosa.
“Lo sono. Viviamo per loro, siamo in tour da quasi due interi anni per loro, ci stanchiamo fino allo sfinimento per vedere i loro sorrisi, cerchiamo di dare il massimo per loro”, mi disse togliendo lo sguardo da me e poggiando la testa sul muro, alzandola per fissare il soffitto. “A volte penso che forse faccio troppo l’idiota e che mi molleranno tutti”.
“Non lo faranno mai. Sei un idiota troppo bravo per passare inosservato”, dissi riavendo la sua attenzione. Si avvicinò, alzando il corpo e piegandosi verso di me.
“Per te passo inosservato?”.
“Difficile a dirsi in questo modo”, deglutii mentre sentivo le sue labbra baciarmi il collo, sempre più in su, arrivando dietro l’orecchio e farmi una specie di solletico con la lingua. Era fastidiosamente eccitante, porca miseria! “Ma credo che con quei capelli ti si noterebbe lontano un miglio”.
“E questo è niente! Dovevi vedere la Pomawk!”, sorrise avvicinandosi alla mia guancia. Sentii le labbra aprirsi e i denti toccare la mia pelle, facendo uscire un lento e gioioso respiro.
“La che cosa?”.
“La mia cresta pomegranate!”, si staccò un secondo da me con volto stupito. La cresta come?
“Hai inventato un nuovo colore? No, aspetta, non puoi dirmi che ti sei fatto una cresta ros…”.
“Non era rosa! Era pomegranate e le radici biondissime!”, si difese interrompendomi. Bene, si era fatto una cresta rosa. Ma perche?! “Gli Echelon la amavano, un sacco mi hanno imitato! Cavolo Ronnie, ti sei persa le mie migliori acconciature!”.
“Wow… illuminami!”, scherzai ripensandolo con una cresta rosa. No, scusa… cos’è che aveva detto? Pomegranate!
“Allora”, disse prendendo il suo magico Blackberry e andando a frugare su Internet, staccandosi da me e sedendosi sul grandino sopra. Ma uffa! “Questa era appunto la Pomawk”, esordì mostrandomi una foto in cui sinceramente faticavo a riconoscerlo. Però dovevo ammetterlo, non stava male. Anzi. “Poi c’è l’acconciatura Capricorn”, disse mostrandomi la foto di come l’avevo visto quella sera. Sì, Jay, me la ricordo quella... fin troppo bene, la ricordo. “Dopo di importante abbiamo lo stile From Yesterday”, continuò facendomi vedere il suo visino attorniato da lunghi capelli neri come ricordavo, ma con le punte rosse.
“Alla fine l’idea che ti avevo dato sui capelli rossi si è avverata! Ora la domanda è: perché?!”, lo presi in giro.
“Primo, ero un fottutissimo strafigo, lo devi ammettere”, disse senza che gli rispondessi. Infatti mi mise davanti il telefono facendomi vedere la cosa più obbrobriosa dell’interno universo, conosciuto o sconosciuto. Jared Leto… Puffo.
“Oddio, i capelli blu no!”, dissi mettendomi le mani davanti alla faccia. “Non è possibile, non puoi seriamente averlo fatto davvero, Jared!”.
“Ed invece è tutto perfettamente vero. Dai, stavo troppo da Dio, ero un piccolo grande puffo!”, disse per poi stupirmi. “Mi mimetizzavo con il cielo. Dov’è Jared? Dov’è? Eccolo qui!”.
Aveva rifatto gli stessi versi e le stesse espressioni di quello che avevo detto io, dieci anni fa, alla gita al lago. Erano passati tanti di quei giorni che in realtà mi sarei dovuta dimenticare, ma ogni secondo passato con lui era dolosamente marchiato a fuoco nella mia memoria.
“Tu sei tutto matto, lo sai?”, gli chiesi scuotendo la testa mentre lui cercava altre foto. “Non puoi esserti seriamente tinto i capelli di blu!”.
“E invece è così! E ripeto: erano fantastici! Uh, guarda qui: i capelli alla Beatles!”, disse facendomi impaurire seriamente.
Non. Era. Possibile. “Ma sei diventato tutto scemo? No, ti prego non puoi avere fatto una cosa del genere”.
“Tutto vero, bella mia, tutto vero”, si rimise a cercare.
Ero scioccata. I suoi poveri capelli avevano dovuto subire le pene dell’inferno, poverini.
“Ti prego, fammi vedere una foto con una normale capigliatura. Ti supplico”.
“Guarda, sono buono e te ne faccio vedere addirittura due: versione Hugo Boss”, disse facendomi vedere una foto. Bè… mannaggia perché non li aveva ancora così? Stava maledettamente troppo bene! “E alla Kings&Queens”.
Mi stupì. Erano semplicemente stupendi!
“Perché non li hai ancora così?! Stavi benissimo!”, lo insultai dandogli un pugno sul braccio.
“Ehi, calma ballerina, fai male!”, disse fermandomi e massaggiandosi la parte picchiata. “Volevo solo sperimentare un pochino, lasciami un po’ di tregua”.
“Ma stavi bene…”.
“Magari dopo questi proverò a rifarli… va bene?”, mi disse facendomi l’occhiolino. Sorrisi, come una bambina che ha avuto il suo regalo di Natale e lui si sporse di nuovo contro di me, come prima che cominciasse a ciarlare dei suoi preziosissimi capelli.
“Dovremmo andare, staranno per uscire tutti ora”, dissi mettendo una mano sul suo petto, quasi per spingerlo via. Ma non mi sentii, continuò imperterrito a stuzzicarmi continuando a baciare la pelle dall’orecchio ai lati delle labbra, quasi a prendermi in giro.
“Non mi toccare! Cazzo, non mi toccare!”, urlò la voce di Andy facendoci prendere un infarto, mentre all’improvviso vedevo comparire la sua figura. Aveva aperto la porta, ed ora stava correndo in direzione dei bagni. Cinque secondi dopo comparve anche Shannon, con le mani a pugno e chiuse la porta con un calcio, facendola sbattere violentemente. Poi anche lui se ne andò, dirigendosi però verso la sala.
Jared mi guardò un secondo e poi annuimmo. Io andai verso Andy, di corsa, mentre lui seguì suo fratello.
Entrai nei bagni e sentii dei piagnistei continui. “Andy? Andy sono Ronnie, ti va di uscire?”.
“No”, disse dalla terza porta a destra.
Mi poggiai alla porta e cercai di farla ragionare, come se fossimo ad un ballo del liceo e un ragazzo l’avesse appena rifiutata. Che aveva combinato Leto Senior?
“Non ti fa schifo rimanere lì seduta, con quel meraviglioso vestito che hai addosso? Si sporcherà”.
“Pace”, controbatté lei, pronta. Mannaggia.
“I bagni non sono il luogo migliore per deprimersi, sai?”, ridacchiai mentre sentivo i respiri strozzati farsi più regolari. “Perché non mi racconti un po’?”.
Silenzio. Silenzio assoluto per qualche minuto se non per i brusii che sentivo da fuori, segno che la serata stava finendo e ci sarebbe presto stato l’afterparty. Il problema che tra pochi minuti il bagno si sarebbe riempito all’inverosimile visto che la maggior parte delle persone se ne andavano a casa, o se restavano si cambiavano.
“Andy? Dai, non può essere stato così tragico! Che ti ha fatto? Ti ha picchiata?”.
“Ma va, sei matta?!”, mi rispose incredula, non aggiungendo altro.
“Ti ha insultata?”.
“Non si sarebbe mai permesso”, concluse di nuovo.
“Allora mi vuoi dire che ha fatto di tanto grave per essersi beccato una sgridata?”, le chiesi stremata, senza idee. Maledetto Jared, se lui non si fosse intromesso…
“Mi ha baciata, Ronnie!”, confessò alla fine, mentre sentivo la sua testa sbattere contro il muro, come aveva fatto prima anche Jared. “Mi ha baciata, ecco quel che ha fatto!”.
“E questo è un male, Andy? Perché mandarlo via?”, chiesi decisamente persa. “Vuoi aprire questa porta?!”.
“Non è quello che volevo”, disse con il broncio aprendo la porta con la gamba. Era seduta sul water, con le braccia attorno alle gambe, con il vestito che copriva tutto e che scendeva fino a toccare quasi il pavimento. Il trucco era un pochino sbavato, ma si sarebbe rimesso a nuovo in pochi secondi.
“E allora che cosa vuoi da Shannon?”, le chiesi porgendole la mano e facendola alzare in piedi. L’accompagnai verso lo specchio, dove mi appoggiai al lavandino mentre lei, calmandosi, si sistemava il viso.
“Che intendi dire?”.
“Intendo dire che non siete fatti per restare amici, Andy!”, le dissi non lasciandola intervenire. “Chiede sempre di te, è triste quando non ci sei, scherza in continuazione quando sa che puoi vederlo. E non lo fa da quando ho iniziato questo film o da quando sei famosa! Persino a Bossier City, dieci anni fa, era triste quando seppe che dovevi andare via, o ti guardava come se fossi un angelo quando ti vedeva”.
“Crede che sia Rea, mi chiama così”, mi disse.
“Tu sei Rea! E porca miseria, l’ha appena scoperto! Per lui quella ragazza, tu, è sempre stata un sogno, un’apparizione”, le rivelai. “Sai che vuol dire vedersi un miracolo comparire davanti agli occhi, rendendolo davvero possibile? Tu sei la sua grazia. Tu, Andy. Andrea, Rea”.
“Non lo so, Ronnie. E’ come se non parlasse con me, ma con un’altra ragazza. Come se desiderasse che io sia lei”, disse finendo l’opera e guardando in basso, sfinita.
“Andy… tu sei quella ragazza, non devi diventarlo. E se lo vuoi, prenditelo, è tuo. Non è di nessun’altra, non devi tenere testa a nessuno. Lui vuole te, qualunque sia il tuo nome. Te!”, le dissi prendendole il viso per farla sorridere. Lei mi accontentò e annuì.
Bene, altra coppia in arrivo.
 
 
Jared
 
“Ehi, ti vuoi fermare o pensi che girerai il mondo interno incazzato?”, urlai per riuscire a parlargli civilmente. Ormai avevamo sorpassato la sala, per arrivare quasi al red carpet.
Avevo appena lasciato Ronnie, diretta da Andy, e mi ero fiondato su mio fratello.
“Che cazzo vuoi, Jared?”, disse voltandosi di scatto, arrabbiato più che mai. Non poteva essere andata tanto male, no? Insomma, cosa poteva aver detto Andy di così ingiusto e cattivo?
“Sapere perché mio fratello sta male e forse cercare di sistemare la situazione”, cercai in compromesso.
“Vattene dalla tua ragazza, la mia vita non è affar tuo”, mi insultò cercando un posto in cui nascondersi ed abbandonarsi, magari chiamando Antoine per farsi chiamare delle… brave donzelle per accorrere in suo aiuto.
“Sei mio fratello, sei il batterista della band, hai il mio stesso dna. Sì, la tua vita è anche affar mio, quindi fai il piacere di spiegarmi”, dissi raggiungendolo e prendendo la sua spalla per farlo voltare.
“Spiegarti? Spiegare che cosa, che ho rovinato tutto? Che sono un coglione?”, disse arrabbiato. Ma non con me, non con Andy. Per qualche strano motivo era arrabbiato con se stesso.
“Che è successo?”, gli chiesi ancora una volta.
“La mia mente bacata ha collegato Andy a Rea e ha continuato a chiamarla così e alla fine si è arrabbiata… anche perché l’ho baciata”, mi disse prima urlando e poi aggiungendo l’ultima precisazione sottovoce. Raro in Shannon, che si pentisse anche solo di un semplice bacio. Raro in Shannon, che gli importasse davvero di una, all’apparenza, semplice ragazza comune.
Raro in entrambi, che riusciamo a… innamorarci, dopo la vita che abbiamo fatto e che facciamo tutt’ora.
Era successo solo una volta, dopo Ronnie, tanto tempo fa. Cameron… ero innamorato di lei, ma… ma non era andata come mi ero aspettato. Eravamo entrambi presi da qualsiasi cosa, pensavamo ad altro ed alla fine passavamo più tempo separati che insieme. Io avrei rivoluto una storia come quella con Ronnie, ne sentivo la mancanza, il bisogno, ed ero rimasto deluso. L’amore, credevo, non faceva più per me.
Ma ora erano tornate da noi, come dieci anni fa. Questo però non riportava tutto nel mondo perfetto. Ora tutti noi avevamo fan, paparazzi e gossip da sostenere.
Non eravamo noi. Eravamo noi e il mondo.
Ma poco importava. Avevo ritrovato Ronnie e me l’ero ripresa. Ora toccava al mio fratellone fare lo stesso. Era suo dovere e diritto essere felice.
“Shannon è passato pochissimo tempo da quando l’hai rivista. Sono passati pochi minuti da quando hai scoperto che la dea della mia festa, Rea, era Andy. Lasciala respirare. Respira anche tu”, dissi abbracciandolo. “Ma tranquillizzati perché andrà tutto bene. Te lo prometto”.
“Come fai ad esserne così sicuro?”.
“Perché un mese e mezzo fa la ragazza che amo non mi poteva vedere, se non per dirmi quando mi odiava o quanto l’avevo fatta soffrire”, gli dissi. “Ma alla fine è andato tutto bene, no? Vai e prenditela Shan, nessuno te lo impedisce”.
Lui mi guardò, un po’ più convinto e mi abbracciò più stretto. Ok, adesso non esageriamo, va bene che sei mio fratello, ma…
“Smettila di rognare, schizzinoso”, indovinò in miei pensieri, staccandosi, spettinandomi i capelli e andandosene via, tornando da dove era scappato e lasciandomi di nuovo all’entrata della sala.
Ora le luci erano spente e gli invitati si erano diretti all’afterparty, perciò andai a riprendere Ronnie per divertirci un po’.
Vagai un po’ per l’edificio, evitando costantemente il red carpet dove tutt’ora dei paparazzi volenterosi attendevano le star che festeggiavano per immortalare qualche scatto o per cercare un entrata per la festa.
“Once upon a time, a crazy man was walking in a strange land...”, canticchiò una voce fin troppo conosciuta. Oh, ma facevamo le simpatiche, pure a coprirmi gli occhi!
“He was a stranger… in that stange land”, ridacchiai prendendole le mani e voltandomi. Cosa?! Si era cambiata! Bè… non che mi dispiacesse: le leggins stracciate modellavano perfettamente le sue gambe, lunghe e perfette, la maglietta, sebbene un po’ larga, non nascondeva niente e le scarpe… era Ronnie non potevo pretendere troppo. “Ora mi rubi pure le parole delle mie canzoni, piccolo demonietto?”.
“Mi mancava questo soprannome”, sorrise dandomi un bacio a fior di labbra. Bene, questo perbenismo doveva essere eliminato!
“Andiamo a ballare?”, chiesi prendendo la sua mano e andando verso la sala per l’afterparty. Lei camminò al mio fianco, appiccandosi al mio braccio con l’altra mano.
Entrammo e notammo che avevano completamente riprodotto una discoteca di New York, una delle più famose a quanto sapevo. Il dj era davanti a noi, in fondo al locale, e sceglieva la musica. Le luci colorate andavano ad intermittenza e la gente ballava.
Mi ricordava la serata degli EMA’s a Madrid, dove però Ronnie non era venuta perché aveva da finire delle canzoni o delle riprese notturne per il film. Però aveva vinto il best Pop e qualche altro premio, mi sembrava di ricordare. Aveva mandato un messaggio ai fan e la cosa era finita lì.
“Ehi”, mi svegliò Ronnie indicandomi la porta da cui ci eravamo allontanati, spinti dalla folla. Andy e Shannon stavano entrando, molto vicini, e intenti in una conversazione. Ridevano, il che mi fece sperare in bene. “Finalmente l’hanno capita!”.
“Se lo meritano”.
“Che se lo meritino o no, da oggi in poi dovremmo evitare che si sfiorino. Cavolo, una qualche vendetta dovrò pur prendermela prima o poi”, rise.
Già, in questo mese e mezzo insieme i momenti da soli si erano ridotti a quelli in cui recitavamo e basta, il che non era il massimo. Qualcuno trovava sempre qualche scusa per separarci, ma non lo facevano con cattiveria.
Infatti quello che Ronnie non sapeva era che era colpa di Andy… e mia. Avevamo deciso insieme di fare in modo che non fossimo troppo da soli, perché avevo paura che in qualche modo esagerassi.
Non che non ci avessi pensato, non che non volessi. La volevo da dieci anni e di certo ora non ero più santo di prima. Però non volevo che fosse trasportata in un certo livello dopo quello che le avevo fatto passare.
In più Andy mi aveva minacciato che se l’avessi toccata per poi andarmene mi avrebbe castrato. Il che non era affatto una buona cosa…
“Tu ne sai qualcosa, bugiardo?”, continuò guardandomi sorridere senza dire niente. Ops, beccato.
“Io… e che c’entro io con i problemi mentali dei nostri amici!”, mi difesi, ma lei sbuffò. Ma poi scosse la testa e sorrise, poggiandola sulla mia spalla. Si era fatta anche un po’ più alta, a quanto vedevo, ma di certo non abbastanza da raggiungermi.
“You make me feel… like I’m the only girl in the world”, cantava Rihanna, dalla console e le casse.
Ronnie ridacchiò e per qualche secondo voltò la testa verso di me, come per guardarmi meglio. Mi girai verso di lei per sorriderle, ma ritornò al suo posto, ridendo ancora.
“Ti va uno stuzzichino?”, le chiesi andando vicino al rinfresco. C’erano tante cose buone, qualcuna doveva pur sempre piacerle!
“Jared ho già mangiato, non cominciare”, riprese con la sua stupida teoria. Me maledetto.
“Sì, oggi mezzogiorno, quindi ora mangi qualcosa. Una pizzetta? Dai, non puoi lasciarle qui, le hanno fatte con tanto amore e dedizione!”, la pregai mentre lei rideva e faceva no con la testa.
“Non ho due anni, non mi convincerai a mangiare cose che non voglio. Mi dispiace, ma continuerai a perdere su questo fronte” mi disse spingendoci verso dei tavoli, dove certi vip stavano mangiando qualcosa, parlando, o canticchiando dal posto.
“Prima o poi vincerò questa battaglia”, sussurrai.
“Quando ci crederai seriamente fammi un fischio”, mi prese in giro fermandosi a pensare. “Mmm… per ora che ne dici se invece provi solo a prendermi?”.
La luce scomparve come al solito e l’attimo dopo una sua risatina non la vidi più. Maledetta intermittenza!
Mi voltai un po’ e notai Shannon seduto con Andy ad un tavolo, con Tomo, che mangiavano qualcosa. Aveva la mano destra attorno alle spalle di lei, e la mano sinistra in quella di Andy. Alleluia!
Mi voltai ancora e notai i lustrini blu della canottiera di Ronnie illuminare un pezzo di muro. Corsi verso quel punto, ma quando arrivai era già andata via. Però aveva lasciato qualcosa: una Triad disegnata con l’indelebile.
Ed eccola di nuovo, verso le scale che portavano alle luci, mentre si girava verso di me e mi sorrideva, quasi malefica. La rincorsi veloce, spostando chiunque mi arrivasse davanti. Attenzione!, ehy, ma sei matto?, guarda dove metti i piedi, pazzoide.
Parlate, parlate, a me non importa.
Arrivai all’inizio delle scale. Scomparsa, ma come prima, un altro simbolo segnava il suo passaggio. I glyphics.
Li toccai, senza quasi rendermene conto, e mossi automaticamente il polso destro, come a prendere una sorta di scossa. La musica cambiò, le luci tornarono a colorare la sala, sempre alternandosi con l’oscurità.
Ed eccola sopra le scale, che camminava lentamente, attenta a non cadere giù dall’impalcatura. Allargò le mani, come una bambina che cammina sull’orlo del marciapiede. … Closer To The Edge ...
Strizzai gli occhi un attimo e all’improvviso cominciai a salire, facendo gli scalini a due a due per arrivare prima. Mi ricordò di quando mi arrampicavo nei concerti, mentre gli Echelon cantavano con me, o quando mi buttavo in mezzo a loro.
“Alleluia, stranger”, disse ridacchiando maliziosa, scomparendo di nuovo. Una freccia comparve sul muro al posto suo. Provehito In Altum.
La cosa era altamente sexy e non ce l’avrei più fatta. Basta giochetti, basta patti. Era mia e la dovevo avere.
Continuai a camminare lentamente cercando di trovarla. Cavolo eravamo su un’impalcatura, non doveva essere tanto difficile!
There is a fire inside of this heart and a riot is about to esplode in the flames
“Ti va di giocare un po’, stranger?”, sentii la sua voce dietro di me, voltandomi di scatto e cercando di prenderla nel buio. Eravamo sopra le luci, stavolta era difficile vederla.
“Demonietto… vieni qui”, implorai mentre notavo che davanti a me non c’era nessuno. Feci un passo indietro, ma sbagliai di grosso. Stavolta non ero io a governare la situazione, come in Hurricane.
This hurricane’s chasing us all underground…
Mi fece lo sgambetto da dietro e mi ritrovai in ginocchio. Uh, interessante…
“Hai fatto il bambino cattivo, Jared Joseph. Ti spetta una bella punizione”, sussurrò nel mio orecchio, baciandomi il collo e facendo venire i brividi alla schiena. Eh no, io non mi faccio usare così!
Presi la mano che aveva sulla mia spalla per tenermi inginocchiato e mi voltai, ritrovandomi a pochi millimetri dal suo viso, caratterizzato da un sorrisino che ispirava tutt’altro che pensieri puri e casti.
Do you really want me?
Mi prese la camicia e ci spinse entrambi contro il muro, prendendo un colpo alla schiena. Misi le mani sulla parete, evitandole vie di uscita, e cominciai a baciarla, senza il solito perbenismo o la fottuta gentilezza. No, non stavolta, non stanotte.
Le sue mani cominciarono a slacciare la mia camicia e il mio cervello andò completamene in tilt. Non perché stavo facendo sesso, non perché sentivo che mi voleva più di qualsiasi altra cosa, non perché ne avevo sinceramente troppa voglia.
Ma perché quelle tre cose erano rivolte a lei. Ronnie.
“Non osare mai più andartene”, sussurrò mentre le baciavo il collo e le accarezzavo la schiena, tirandole su la canottiera. I brividi partirono anche per lei. Poco importasse dove eravamo, se non eravamo completamente soli… a chi sarebbe venuto in mente di guardare lassù prima della fine della serata?!
“Non resisterei un’altra volta senza di te”, dissi con la voce roca mentre prendevo le sue cosce e le portavo attorno ai miei fianchi e mi avvicinai ancora di più, tanto che mise le mani nei miei capelli e li strinse forte, baciandomi ancora.
Incrociò le gambe e si sfilò le All Stars, facendole cadere dietro di noi, ma senza rischiare di lanciarle giù dall’impalcatura. La mia camicia in meno di un minuto andò a fare loro compagnia e Ronnie si fermò un attimo a guardarmi, quasi ammaliata.
“Non puoi essere vero. Dimmi che questo mese e mezzo non è solo un sogno ma sei davvero tornato da me… ti prego”, sussurrò in panico con un po’ di fiatone.
Le carezzai la guancia, baciandole le labbra, stavolta un pochino più dolcemente. “Non devi avere paura. Mai più, okay? Ora non c’è niente che possa separarci: né un film, né un disco. Non ti lascio più andare, Veronica McLogan”.
Salii dalle gambe e presi l’elastico delle leggins, riportandolo in basso, liberando prima una gamba e poi l’altra, mentre la mia cintura non fece una buona fine, andando a far festa con il resto.
Stavo impazzendo, sentivo il suo profumo ovunque. In fretta e furia le sue mutandine fecero la fine delle leggins e anche i miei vestiti andarono a completare la massa informe dietro di noi.
Rise, forse per metà seriamente eccitata e per metà timida come sempre, e mi guardò per un attimo, prima che mi baciasse ancora mentre entrai in lei.
Di nuovo. Per sempre. Una cosa sola fino alla fine.
Eravamo trasparenti agli occhi degli altri, nascosti nel buio. Eravamo aria, che sospirava e gemeva insieme. Eravamo insieme.
Running away from the light…
 

...
Nota dell'Autrice:
eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeh! Ma guarda te questi porcelli in giro per gli MMA's! Ma sì può?! No, solo io potevo inventarmi una cosa simile! ahhaahahah e dai che ci scappa anche una Shan-Andy! :D
Alllora vi è piaciuto? Spero di sì!

In più stavolta volevo darvi dei link:
Questo è il mio profilo di FB (mandatemi un messaggio dicendo che siete di EFP): 
http://www.facebook.com/RonnieMezza
E questo è il mio account di Twitter:  https://twitter.com/#!/RonnieAly
*non è per avere più amici/followers, semplicemente vorrei conoscervi un pò :D*

Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 22
*** Time To Go To War ***


Vi ho promesso che avrei aggiornato il 30 e infatti sono qui :)
Ragazzi ad ogni aggiornamento ci avviciniamo alla fine e pensare che tra una decina di capitoli questa FF si concluderà mi fa piangere un pò. MA...
non siamo alla fine, non ancora, quindi non disperiamo!
Ci stiamo addentrando nella parte più divertente: il tour. Quindi, mettetevi comode, prendete i pop corn (?) e leggete.
Buona lettura :)




Capitolo 22. Time to go to War



 
 
Ronnie
 
“Questa mi piace”, disse Solon guardando il testo dell’ultima canzone che la mia mente un po’ bacata aveva generato. “Ho chiamato gli altri produttori: con le premiere del film viaggerai fino a dicembre. Ma dopo vogliono le registrazioni. Anno nuovo, album nuovo”.
“Dicembre?”, mi stupì sedendomi meglio. Oggi, l’ultimo giorno di riprese per esaminare le scene, mi stavo godendo per l’ultima volta la mia minicasa. “Staremo in giro fino a dicembre?!”.
“E’ qui che capisci che Solon è un genio”, s’intromise Jared, entrando dalla porta.
“Tu potresti evitare di spiarmi ogni cinque minuti, sai?”, mi finsi offesa.
“E’ il mio lavoro, baby. E comunque il qui presente miglior manager del mondo e mio ex chitarrista è un mito”, continuò senza spiegarmi nulla.
“I ragazzi staranno in tour fino alla fine di novembre e visto che per separarvi già per due minuti vi lagnate ho pensato a questo”, incominciò mandandomi su di giri. La paura che Jared mi mollasse durante il tour era forte, anche perché Vicky ed Andy sarebbero andate con loro e io sarei rimasta da sola. “Ci sarà un altro bus, per te, Andy e Vicky, con cui seguirete i ragazzi. Io non verrò, ma dovrai sempre tenermi aggiornato sulle nuove canzoni, cosicché possa dare la musica ai ragazzi della band”.
“Io… in tour… con i 30 Seconds To Mars?!”, urlai alzandomi e andando ad abbracciare Jared, che era rimasto in piedi di fianco alla porta.
“Sì. Così appena loro finiscono tornate a Los Angeles e registri le canzoni. Un mese e l’album è pronto e i primi di gennaio lo inviamo ai negozi”, mi informò di tutto. Certo, trenta giorni per le registrazioni era pesante, avremmo dovuto lavorare parecchio, ma avevo mesi e mesi per provare e magari per registrare qualcosina in giro per il mondo. “E il 17 e il 18 giugno vorrei che cantassi anche qualcosa con loro magari”.
“Perché, dove si va?”, chiesi curiosa.
“Roma e Milano”, mi rispose Jared, ancora appiccicato a me, baciandomi la testa prima che potessi scoppiare.
In Italia? Io… in Italia?
Certo, avevo fatto un concerto in Italia, a Roma, ma Milano… Milano era… casa. Ricordi, passato, paure, dolori… Tutto a Milano.
“Aprirai i loro concerti, così magari le Echelon ti vedranno un po’ meglio, no?”, scherzò Solon.
Dio mio, lasciamo perdere! Dagli MMA’s erano uscite delle foto che beccavano Jared a tenermi la mano prima di entrare all’afterparty e quelle ragazze erano partite dai Social Network a parlare e giudicare. Certo, non dicevano cose cattive o mi minacciavano tramite Twitter, cosa che sapevo essere successa ad altri vip, ma non era stata comunque una bella cosa, né per me che per Jared.
Alla fine la presero alla leggerla, come una montatura dei giornali, ma sapevo che appena Jared lo avesse detto in giro le Echelon sarebbero rimaste morte stecchite. Povere… io volevo tanto fare parte della loro famiglia, però. E anche Andy, che però non avevano beccato.
“Allora, ci stai?”, chiese Jared felice. Ma che me ne importava del mio passato! Avevo lui, il suo sorriso, la nostra musica e la nostra vita. Bastava quello e sarei stata sempre bene.
“Scherzi? È meraviglioso, ragazzi!”, mi esaltai abbracciandoli tutti e due velocemente. “Siete fantastici, vi adoro!”.
drin, drin!
“Rispondi pure, tranquilla”, mi disse Solon staccandosi sorridendomi, mentre Jared mi fece rimanere vicina. Era Vicky, ovviamente.
“Ronnie!”, senti urlare nel mio iPhone. Dio, non si poteva chiuderle quella cazzo di bocca?! No, povera Vicky, era solo stressata. “Come stai quasi ventinovenne?! Domani è il grande giorno”.
Ma che carina! Ricordarmi che dovevo invecchiare…
“E il tuo grande giorno quando arriva?”, le ricordai cattiva, facendola impazzire. Vendetta!
“Diamine Ronnie, sto sclerando, tu mi devi aiutare! Per i vestiti dicono che arriveranno a metà di giugno, i fiori non arriveranno prima della fine di quel mese, gli invitati ancora non hanno deciso, tranne te, Andy e i ragazzi… ho paura”, cominciò ad elencare. Oh, povera Vicky!
“Ma lo sai che tu ti sposi all’inizio di luglio? Che ti importa se arrivano prima?! Mi preoccuperei se arrivassero dopo”, risi mentre lei di certo stava diventando viola di rabbia. Ok, Ronnie, non farla impazzire. “Gli invitati li chiamerò io, o manderò un e-mail, non lo so. I fiori mi hanno avvisato che è tutto ok, i vestiti anche. Stai calma, respira, prenditi una camomilla e fatti un sonnellino, ne hai bisogno. Guarda che se poi dimagrisci ti cade il vestito!”.
“Cosa?! Non sia mai, poi dovrei rimandarlo indietro per farlo accorciare. Non ci penso nemmeno, scordatelo!”, disse di fretta. O mamma mia!
“Vicky. Stai. Calma!”, le dissi sbuffando e ridendo. “Non devi preoccuparti di nulla, farò tutto io. Se hai problemi, chiamami, ma stai calma!”.
Jared rise e forse Vicky lo sentì perché sbuffò. “Va bene, va bene… Solon che dice?”.
“Se vuoi sapere se so che sai che dobbiamo andare in tour, lo so”, feci uno scioglilingua, mentre Jared mi guardava strana. Ma era nostro solito parlarci così.
“Quindi sai che so. Sono felice di sapere che sai allora”, continuò lei facendomi ridere ancora. “Ora ti saluto, mamma è venuta a trovarmi”.
“Salutami l’angelo in terra allora. Ciao Vicky”, la salutai.
“Angelo in terra?”, mi chiese Jared quando misi il telefono in tasca.
“Tu hai mai visto la madre di Vicky?”, gli chiesi. Scosse la testa e io ridacchiai. Poverino non capiva. “Appunto, lascia stare”.
Lui scosse la testa e mi diede un bacio mentre Solon prese la penna e cominciò ad analizzare la canzone. Curiosa gli andai vicino, sempre con il bodyguard biondo a seguirmi.
“Ancora tanti errori?”, chiesi ricordando tutte le correzioni che aveva fatto nei miei primi testi.
“No, per niente”, sorrise guardandomi fiero. “Anche i pochi accordi di chitarra che hai messo… sono giusti, perfetti, idonei. Direi che hai imparato, sweetie”.
“Grazie maestro”, lo ringraziai abbracciandolo ancora. Oggi eravamo tutti abbastanza coccoloni.
“Ehia! Cavolo, non state facendo cose degne di una foto da mandare ad un paparazzo!”, entrò Shannon saltando oltre la porta con una macchina fotografica in mano e un mantello rosso addosso. Andy entrò per seconda alzando gli occhi al cielo.
“La porta è aperta. Solon è qui. Sei fumato per caso?”, disse Jared prendendo la fotocamera e guardando le foto di suo fratello. “Basta foto truzze, ti prego!”.
“Gliele cancellerò mentre dorme, tranquillo. Ho già un piano”, sussurrò Andy da dietro. Shannon si voltò sconvolto e lei gli sorrise innocente.
“Non oseresti!”.
“A fare cosa? Io non ho detto niente. Era la macchina fotografica che ha parlato. Non sopporta più quelle foto dentro di sé”, scherzò indicando le mani di Jared.
“Voi non capite!”, si difese.
“Nessuno ti capisce”, finii io prendendolo in giro. Lui si offese, nascondendosi nel mantello come un vampirla… vampiro scusate.
“Si torna a casa”, sorrise poi Andy, dopo qualche minuto di silenzio. Per lei sì che era casa… per me era solo Milano. Casa era Bossier City, casa era Los Angeles, casa era l’America.
“Già…”, sussurrai guardando in basso. “Vado a farmi una doccia, arrivo”.
Veloce mi dileguai, senza destare sospetti, verso il bagno. Presi le cose necessarie e mi diressi verso la doccia.
Non volevo tornare lì… non ce la facevo… sarebbe stata una lunga giornata quella a Milano. E sapevo che sarebbe successo qualcosa. Succedeva sempre qualcosa.
 
 
Jared
 
“Happy birthday to you! Happy birthday to you!”, cantammo tutti insieme mentre Ronnie, in top e pantaloni della tuta, con una treccina tutta disordinata, si metteva le mani in faccia. Un bel risveglio!
“Happy birthday, my dear Ronnie!”, cantai io offrendole una mano e facendola alzare dal letto. Per prima cosa mi tirò un pugno – che bello avere una ragazza, eh! – ma poi mi abbracciò, cercando di nascondersi, visto che era praticamente in pigiama.
“Happy birthday to you!”, finirono gli altri mentre lei si girava e li insultava uno ad uno per poi andare ad abbracciarli.
“Siete degli idioti! Degli stramaledettissimi idioti!”, disse quasi con le lacrime agli occhi. “Avevamo detto niente esagerazioni!”.
“Lo sai che non devi crederci, scusa. Se tu continui a cascarci non è colpa mia, bellezza”, disse Shannon abbracciandola ancora. Mi piaceva vederli insieme, mi piaceva che mio fratello la considerasse ancora la sua migliore amica.
“Questo è per te”, disse Tomo prendendosela e mostrandole un pacchetto incartato. Per poco non venne tranciato vivo dalla mia ragazza.
“Cosa?! Ma state scherzando, vero?! Voi siete tutti dei pazzi!”, ci insultò ancora. Quello che non sapeva era che quello era il regalo di Tomo. Il che implicava che non fosse l’unico… anzi.
Lo scartò mezza arrabbiata e mezza eccitata, guardando tutti mentre apriva il pacchetto. La mia stessa collana con la Triad.
“Non ci credo! Dio mio voi siete tutti matti!”, disse abbracciando Tomo e infilandosi la collana. Stava benissimo.
“Non è nemmeno finita”, dissero in coro Shannon e Andy, che le avevano fatto un regalo in comune. Lei li guardò malissimo per poi prendere la scatola incartata da blu e abbracciarli forte.
“Ti ricordi il tuo regalo del mio diciassettesimo compleanno?”, chiese Andy fiera. “Volevo farti capire che per me sei davvero importante”.
Ronnie cominciò a lacrimare, ma di gioia, e guardò il pacchetto. Lo scartò e si stupì.
“Era un bracciale con le nostre iniziali”, continuò Andy, mostrando il braccio. “Ora mi sembrava più gusto renderti il favore”.  Era una collana, di quelle che si aprivano con le foto all’interno.
Dentro c’era una foto di tutti noi insieme, che avevamo scattato prima di finire il film. Di fianco, una frase che le diceva sempre Vicky, visto che lei mancava nella fotografia, “Buttati e credi nell’impossibile. Si avvererà” e il titolo “Closer To The Edge”.
“Voi siete fantastici. Siete meravigliosi, tutti quanti!”, disse pulendosi le lacrime con la mano, mandando qualcuno al diavolo. “Dai, perché mi dovete far piangere così!?”.
Io tossicchiai, in modo che lei si voltasse e notasse la mia figura appostata sulla sua cabina armadio con in mano il mio regalo. Peccato che era una trappola.
Si avvicinò lentamente a me, prese il biglietto attaccato al mio palmo e scuotendo la testa, sorridente, lesse il contenuto. Segui i tuoi sogni.
“Questo è il mio regalo?”, chiese amareggiata. Povera, non capiva.
“E’ un indizio verso il tuo regalo”, sorrisi pensando che di sicuro ci sarebbe arrivata subito. Era fin troppo facile.
“Fammi pensare… i sogni, quindi ciò che aspiriamo. E i nostri sogni in parte si sono avverati grazie alla musica. Alla musica in particolare al canto… la sala di registrazione!”, disse prendendo il post-it e fiondandosi giù dalle scale di casa mia. Già, finito il film ci avevano sfrattato dal set e quindi fino al giorno dopo, in cui saremmo ripartiti tutti per il tour, eravamo tornati a Los Angeles. Andy da Shannon e Ronnie da me. Però avevo deciso di darle un camera da sola, anche se poi alla fine o io andavo da lei o lei veniva da me.
La seguimmo e lì la trovammo mentre pensava con le labbra storse, intenta a risolvere un nuovo enigma. Mi guardava male, arrabbiata, ma abbastanza curiosa.
Aveva trovato il nuovo post-it.  E’ tempo di buttare Ronnie in…
“Questa è fin troppo facile”, commentò lei. Sì, in effetti non mi ero sprecato molto di fantasia.
Volò subito fuori di casa, ricordando che dissi quella frase alla nostra prima gita al Caddo Lake, i primi giorni che si era trasferita.
La seguimmo di nuovo e infatti era sui bordi della piscina, che controllava dove fosse il nuovo post-it o il regalo. “Lo sai che sei uno stronzo?”, commentò quando vide che l’avevo messo nell’acqua e ora vagava al centro della mia piscina.
“Nuota”, la prese in giro Shannon ma lei li fece la linguaccia e cercò un modo per non bagnarsi. Si guardò intorno e notò che la mia mente non geniale non aveva sistemato gli attrezzi per pulire la piscina. Ovvio, non li usavo mai, era già tanto se sapevo della loro esistenza.
Con furbizia riuscì a tirare fuori dall’acqua il foglio e lo lesse ad alta voce. Segui la fenice
Non si mosse, come infatti doveva, e guardò immediatamente in alto, cercando qualcosa nel cielo. Poi, trovando solo nuvole naturali, abbassò di poco lo sguardo.
“Cioè tu mi fai venire giù fino alla tua piscina per poi dirmi di andare in camera tua? Ma lo sai che sei davvero un idiota?”, chiese retoricamente ridendo e cominciando a correre. “Chi arriva ultimo è peggio di Jared Leto!”.
E ovviamente Shannon partì in quarta, prendendosi gioco di me.
Alla fine arrivammo nella mia camera, stamattina stranamente in ordine, visto che mi ero casualmente ritrovato a dormire con Ronnie, e lei cominciò a guardare in giro.
Ecco l’ultimo post-it. Pitagora credeva che il tutto si concentrasse nei numeri.
“Pitagora?”, chiese stupita, non capendo. Shannon fece un ahh, okay, quando capì l’indizio, Tomo annuì, Andy non ci capiva niente e Ronnie guardò male i primi due.
“Pitagora credeva che il tutto si concentrasse sui numeri… Pitagora e i numeri...”, sussurrò cercando di capire, andando avanti e indietro per la mia stanza.
Si fermò, appena davanti alle mie chitarre elettriche. Toccò Artemis per qualche secondo e poi guardò… Pythagoras.
“La chitarra!”, esultò controllando ogni singolo centimetro bianco del mio amato strumento. “Sì, ma che vuol dire? Mi regali la chitarra?!”.
Scossi la testa, non dandole nessun indizio, così lei si mise a pensare, ricordando ancora l’indizio. “Bene, abbiamo trovato Pitagora, ora capiamo i numeri”.
“Jared sei sicuro di non aver dimenticato un indizio?”, mi chiese Shannon, che si era perso, dopo che aveva capito di guardare la chitarra.
“No, è tutto al posto giusto”, sottolineai, mentre Ronnie schioccava le dita.
“E’ messa storta!”, disse notando che Pythagoras non era poggiata dritta come Artemis, ma barcollava un pochino con il manico ad una certa inclinazione. “E questo è il numero. È messa ad ore due, ed indica la tua libreria”.
Si avvicinò alla libreria, ma non trovò apparentemente nulla. Si voltò verso di me, con il broncio, ma io sorrisi e le dissi di andare avanti a cercare. Era tutto nell’indizio.
“Pitagora e i numeri. Ok, pensiamo. Pitagora lavorava con i numeri finiti e perfetti, quindi deve essere un numero dispari. Bene, ma così il due di prima non c’entra niente!”, si lamentò non trovando una soluzione.
“Ora chi è il genio, McLogan?”, la presi un po’ in giro.
“Sempre io perché questa cosa è impossibile. Le altre erano fin troppo facili!”, continuò a lagnarsi. Però era vero, Shannon o Tomo non avrebbero capito tutti i segnali.
Continuò a fissare la libreria. “Ok, ce la possiamo fare. La chitarra ci fa vedere dove potrebbe trovare questo maledetto regalo, perché non vedo più post-it, ma non vuol dire che il due ora conti qualcosa”, cominciò a ipotizzare. “Vediamo…”.
Mosse determinati libri, seguendo una tutta sua logica, ma giusta. “Il due è la fila di dove potrebbe trovarsi. La chitarra ha sei corde, quindi potrebbe essere il numero del libro. Non sono dispari, ma in fondo niente è perfetto”.
Annuii mentre lei spostava un libro ogni due e quando tolse in sesto notò che dietro di esso c’era un buco, occupato da un pacchetto al posto di altri.
“Beccato!”, sorrise alzando il regalo in alto.
“Come cavolo ha fatto?!”, si stupì mio fratello non seguendo tutti i ragionamenti. Sinceramente nemmeno io non ci sarei mai arrivato se non l’avessi fatto di proposito.
Lei arrivò verso di noi e cominciò a strappare la carta. Ma io ci avevo messo tanto impegno!
“O. mio. Dio!”, sussurrò quando aprì il pacchetto.
Era… la felpa nera con il testo di 100 Suns scritto dietro e davanti il nome della nostra band.
“Benvenuta in famiglia, Ronnie”, disse Shannon, abbracciando anche Andy che sorrideva, mentre lei ci guardava tutti quasi in lacrime.
“Voi siete fantastici!”, sussurrò abbracciandomi all’improvviso. “Io vi adoro, sul serio!”.
“Così se stasera hai freddo, avrai qualcosa da mettermi, anche se non credo visto siamo a Los Angeles ed è il 9 di giugno”, sparlò Tomo sorridendo.
“Stasera?”, disse Ronnie guardandolo male. “Che c’è stasera?”.
“Stasera arriva l’ultimo regalo”, rispose svelta Andy per recuperare la situazione mentre Ronnie stava già per dare di matto.   
Sarebbe stata un lungo giorno!
 
“Perché non lo posso sapere?”, mi chiese ancora una volta mentre stavamo camminando per Los Angeles, vicino al porto con il luna park. Fortunatamente in giro non vedevo paparazzi, e sperai che fosse vero, visto che non avevo la minima voglia di altri superscoop.
“Perché non c’è niente da sapere”, conclusi per la millesima volta. In teoria c’era qualcosa da sapere riguardo a quella sera, ma il mio compito era tenerla all’oscuro di ogni dettaglio riguardo a quelle ore.
Capiva che stavamo tramando qualcosa, ci offendeva, ma la poveretta non poteva conoscere cosa le aspettava. Pazienza, Ronnie, pazienza.
“Ancora non comprendo perché dobbiate fare tutte queste tragedie greche per il mio compleanno. È solo il mio compleanno, non la venuta del Signore!”, si lamentò. Dio mio, da quando era così noiosa?!
“O mamma mia, Ronnie, lo scoprirai presto… very soon”, la presi in giro sapendo quanto di solito queste due parole mandassero in ansia gli Echelon e mi piaceva farli entrare in delirio. Però stavolta l’avrebbe scoperto davvero presto. “Ora però possiamo fregarcene di quello che stanno combinando quei pazzi e pensare un po’ a noi?”.
“Non ci casco, finto romanticone bisognoso di aiuto. Che succede stasera?”, chiese ancora una volta.
“Ok”, dissi fingendomi offeso prendendo e andandomene da solo verso la strada opposta. La sentii ridere e cominciare a chiamarmi, ma non mi voltai.
“Preso!”, disse quando mi venne addosso, salendomi sulla schiena con un agile salto. “Te l’ho detto che non mi scappi più”.
Le presi le gambe per tenerla al suo posto e cominciai a camminare così, tanto non pesava niente. “Comoda?!”.
“Scherzi? Ora dovrai farlo sempre, non muoverò più un piede”, ridacchiò mentre scendevamo dal porto e andavamo verso la spiaggia. Il sole stava tramontando e il cielo si faceva sempre più rossastro. “Sai mi mancava LA…”.
“Anche a me. È fantastica, vero?”, dissi mentre lei scendeva dalla mia schiena ed andava trotterellando verso il mare. La seguii, ma quella stupida sabbietta mi entrò nelle scarpe, infastidendomi un po’.
“Dov’è ora Constance?”, chiese guardando fisso verso l’orizzonte.
“Qui, in periferia però”, la stupii.
“Non è più a Bossier City?!”, disse voltandosi verso di me, strabuzzando gli occhi. “Ma che è, si sono trasferiti tutti?!”.
“A quanto pare sì!”, ridacchiai. “Era più comodo per tutti. Anche se a volte torniamo, tipo per Natale se non abbiamo troppi impegni o il tour come l’anno scorso”.
“Come sta? Dio, è dieci anni che non la vedo, sembra passata una vita!”, sorrise tornando a guardare il panorama, sedendosi sulla sabbia con le gambe incrociate.
“Bene”, risposi soltanto, senza sapere altro da dire. In realtà non passavo un po’ di tempo con mia madre da una vita…
“Mio padre si è risposato, sai? Adesso ho una sorellastra di sei anni che si crede Miss Universo e che tra una settimana andrà a Londra per fare una sfilata per bambini”, cominciò a raccontare, senza che glielo chiedessi. Mi sedetti accanto a lei e l’abbracciai. “E’ l’amore di papà…”.
“No, non è vero. Tu sei migliore di lei”, le dissi. Mi mancavano le sue crisi, per uno strano motivo le attendevo, per farle capire che io ci sarei stato, qualunque cosa sarebbe accaduta.
“Anche Marco ha avuto un figlio, Lucas. È bellissimo, ha due anni e mezzo e già parla”, continuò. “Ma ovviamente appena mamma ha saputo che lui voleva farmi diventare la sua madrina ha cominciato a litigare.
“L’ho lasciata fare, anche se mio fratello non ha mai apprezzato, crede che da quando sono famosa me ne frego della famiglia… anche se in verità volevo solo finirla con le litigate.
“Lei abita ancora a Milano, con chissà chi… per questo all’inizio non ero troppo felice di aprire lì un concerto. Ho paura che quella città mi ricordi esperienze che non voglio rivivere”, concluse.
“Non lo devi fare per forza”, la consolai.
“No, perché non dovrei? Ho capito che in fin dei conti non mi importa di loro. Possono essere, dire o fare quello che vogliono. Io posso essere, dire o fare quello che voglio! È la mia vita… e nessuno può più portarmela via. Voglio vivere tutto nel migliore dei modi… con te”, sorrise stringendosi a me, con le mani sulla mia maglietta.
“Forever?”.
“Until I won’t listen the beating of our hearts together”, sussurrò facendo cadere le nostre voci in un piccolo silenzio di qualche minuto, mentre le onde cantavano per noi e il cielo divenne scuro.
Era ora.
Le baciai la fronte e lei si spostò. Mi alzai, prendendole la mano e tirandola su di peso, mentre lei si asciugò le piccole lacrime che erano scese e fece un grande sorrisone. Così mi piaceva, la mia piccola Veronica!
Arriviamo, mandai un veloce messaggio a Shannon mentre lei si puliva la felpa nuova, che aveva messo sopra i pantaloncini di jeans e un top. Solita mania da mettere tutto subito, come aveva fatto anche con la Triad e il ciondolo.
“Allora adesso lo posso sapere?”, chiese di nuovo in prossimità di casa mia. Oh, mamma mia che nervi! Quasi quasi la preferivo addolorata e abbracciata a me.
“Che ti cambia se lo vedi tra meno di un minuto?”, le chiesi stupito.
“Che faccio prima ad arrivare su Marte e tornare! Voglio la mia sorpresa!”, disse facendomi scoppiare a ridere. Era fin troppo Echelon, ora.
Aprii la porta, chiudendole di scatto gli occhi. E mentre lei cercava disperatamente di liberarsi mordendomi la mano – tanto ero un vampiro e non sentivo il dolore… più o meno! – Andy spinse in avanti…
“Ronnie!”.
 
 
Ronnie
 
“Vicky?!”, urlai liberandomi dalla gioia e saltando addosso alla futura signora Milicevic. “O mio Dio, da quanto sei qui?!”.
Vicky cercò di respirare chiedendomi aiuto, ma non mi staccai da lei, ridendo. “Se non mi uccidi te lo spiego anche volentieri”.
“No”.
“Ok, va bene, allora sto zitta e torno a casa, combina guai! Guarda te, ti lascio sola qualche mese e tu disfi il mondo!”, mi prese in giro Vicky, mentre mi decidevo a lasciarla andare.
 “Parla”, la obbligai quando tornai vicino a Jared, stringendomi alla mia felpa nuova come per proteggermi dall’accusa della mia amica.
“Ok, ok. Semplicemente stavo delirando da sola a casa e, visto che eri qui, visto che è il tuo compleanno e visto che tra un po’ partiamo… eccomi qui ventinovenne!”, esordì sorridendo. “Tanti auguri!”.
“Tu sei matta?! No, pure due, stiamo scherzando?!”, dissi vedendo che Vicky mi mostrava le mani, piene ognuna di un regalo.
“Uno è di Solon, lo sai che non è potuto venire per impegni ma ti fa tanti tanti tanti tanti auguri… e ti dice di scrivere altrettanti canzoni o ti ammazza quando torniamo”, mi avviso dandomi i pacchetti.
Prima aprii quello di Solon, dove nel biglietto c’erano miliardi di piccoli disegni. “Sarai sempre la mia piccola fatina che non sa suonare, qualsiasi cosa tu diventi. Ti voglio bene”, con una foto di quando stavamo festeggiando Carnevale, tre anni prima. Mi ero vestita – tutta colpa sua! – da fata e all’improvviso mi aveva messo in mano una chitarra dicendomi ora suona. Ero rimasta scioccata e avevo provato a strimpellare qualcosa. Ma fui un disastro e così da quel giorno cominciò ad insegnarmi seriamente come suonarla.
Sorridente ed ancora fottutamente troppo commossa presi il pacchetto in mano e feci un respirone. Chissà che mi aveva regalato quell’idiota.
Era una… macchina fotografica professionale ultimo modello. O mio Dio! Era matto?!
“Cavolo, è magnifica!”, urlò Vicky mentre io rimanevo ferma immobile con la fotocamera in mano.
“In onore dei vecchi tempi, bella mia”, sorrise Andy avvicinandosi e staccandosi da Shannon – che carini che erano! – per la prima volta in quel giorno.    
“Già…”, sorrisi accendendola e vedendo le foto caricate. Ce n’erano tre: la prima era la foto del biglietto d’auguri, la seconda era una foto di Vicky che faceva la linguaccia e la terza era la foto dei nostri due tatuaggi.
Quello che avevamo fatto insieme, la notte in cui avevo firmato il contratto discografico. Che pazzia…
“E questo da dove spunta?”, chiese Jared guardando meglio la foto e guardando la mia scapola destra per controllare. “E questo da dove spunta?”.
“Devi dirlo ancora?”, scherzai prendendolo in giro.
“E questo da dove spunta?!”, ripeté scandalizzato e cominciai a ridere.
“Tre anni fa, la sera in cui firmammo l’accordo per il disco, uscimmo a bere qualcosa e, forse un po’ troppo poco lucidi, decidemmo di farci un tatuaggio uguale. Era come incidere anche nella pelle la promessa di fare qualcosa di grande”, raccontai prendendo la mano di Jared e toccando l’inchiostro fisso. “Il mio sulla scapola destra e lui sul polso sinistro: Life, perché musica è vita”.
La parola era circondata da note musicali su un leggero pentagramma. Era fantastico e non mi ero mai pentita di averlo fatto, soprattutto con lui: il mio manager, il mio sostegno, il mio migliore amico.
“E come mai non me ne sono mai accorto?”, si stupì il mio ragazzo.
“Se sei cieco non è colpa mia”, sorrisi voltandomi verso il suo viso e guardandolo in quei dannati occhi di ghiaccio che mi avrebbero sempre fatto loro schiava. Lui sorrise e mi immobilizzò ancora, come se miliardi di pezzi di acciaio mi tenessero in stretto legame con quel fottutissimo viso troppo bello per appartenere a me, una normale mortale.
“E questo è solo l’inizio”, mi riportò Vicky nella vita reale facendomi svegliare e muovere gli occhi verso il suo regalo.
Così misi da parte la macchina fotografica e presi in mano il suo pacchettino, privo di biglietto. Strappai la carta, come mio solito, e sbirciai subito nel buchino che avevo creato, per poi allargarlo e disfando tutto il pacchetto.
“Voi siete gli amici più stronzi del mondo”, li insultai, ma con molta dolcezza, guardando il regalo e abbracciando la mia amica.
Avete presente la batteria di Shannon, Christine? Davanti a me avevo una borsa fatta nello stesso modo, con milioni di foto di me, Andy e Vicky, con qualche vecchia foto con i ragazzi.
“E’ fantastica, davvero!”, continuai.
“Sapevo che ti sarebbe piaciuta! Ma ora devi fare una foto a tutto! Solon non ammette che quando torniamo tu abbia la memoria vuota, scordatelo!”, disse Vicky facendomi l’occhiolino. Dio, se mi era mancata.
“Scherzi?! Devo anche farti un photoshoot tutto per te e Tomo al vostro matrimonio!”, ricordai mentre lei sorrise.
“Giusto… no, non ricordarmelo per l’amor del santissimo cielo”, m’implorò facendomi ridere.
“Ecco, allora visto che nessuno vuole ricordarlo… mangiamo?!”, chiese Shannon ridendo e portandomi verso la cucina, addobbata tutta con luci, cartoncini, scritte ovunque. Ma quello che contava di più era un maxi stereo che stava vicino alla porta finestra che dava alla piscina. “Ti va una mini festa in disco?”.
Risi, ma ancora non sapevo cosa mi aspettava. Tomo scosse la testa, disperato, Jared cominciò scherzosamente a pregare per le sue orecchie e Vicky cercava di consolarli. Ma Shannon andò ad accendere la musica.
“Ehi, muddafuggaz, ballate o no?”, chiese. Che?
“Ma che è, un termine marziano?”, si stupì Andy che allontanò ridendo Shannon quando le si avvicinò, facendogli fare il broncio.
“Lascia perdere, ti prego. Non fare domande, potrebbe far male alla tua salute psicofisica”, lo prese di nuovo in giro Jay che intanto mi aveva arpionata da dietro e mi stringeva contro di lui. Mi rimpicciolii nella felpa, anche se stavo morendo di caldo e lasciai che le sue labbra si stampassero suoi miei finalmente di nuovo ricci capelli rossi.
“Non importa, ragazzi, davvero, lasciatelo divertire”, risi vedendolo ancora ballare come il più tamarro dell’intero universo. “E’ una serata grandiosa, che ricorderò a vita e… vi voglio bene”.
“Oh, alla fine è arrivato il momento sciogliamoci tutti, devo fare un discorso teneroso”, disse Andy cercando di abbracciarmi, ma Jared non mi mollò quindi alla fine facemmo un mega abbraccione di gruppo.
“Vorrei che questi momenti non finissero mai”, sussurrai nel mezzo, nel momento in cui tutti risero e si dileguarono per colpa di Shan che aveva cominciato a cantare. Bè, cantare…
“Non lo faranno mai più, te lo prometto”, mi rispose Jared all’orecchio, facendomi sorridere e venire la pelle d’oca.
 
“Il mio smalto nero… dov’è finito il mio smalto nero?”, sentivo Jared sussurrare disperato mentre io ridevo come una matta. Certo che era proprio andato in questi dieci anni, tra smalti neri e creste rosa.
Si voltò verso di me, arrabbiato, come se avesse intercettato i miei pensieri sulla sua stupendissima cresta ros… pomegranate, e mi studiò per bene.
“Mi nascondi qualcosa, piccola ladra?”, mi chiese.
“Ho il mio, non ho bisogno di rubartelo… Dio, certo che sono caduta in basso se devo rassicurare il mio ragazzo perché ha perso il suo smalto nero”, mi lamentai andando in camera mia barra nostra per sistemare le ultime cose delle due valigie. Due, già troppe per i miei gusti ma giuste se devi andare in tour. Per fortuna anche Jared aveva solo due valigie. Di questo passo avevo paura che si sarebbe portato dietro casa.
“Trovato!”, lo sentii esultare mentre scuotevo la testa. Tre secondi dopo era di fianco a me, muovendo la boccetta davanti ai miei occhi come per farmi venire invidia. Lo mise nel mio beauty case – lui poteva mettersi uno smalto e essere vero uomo, ma avere una miniborsa per non romperlo poteva compromettere il suo orgoglio maschile… ovvio – e mi abbracciò.
“Pronta ad andare su Marte?”, chiese mentre l’auto di Shannon si fece sentire, di sotto. Dovevamo partire, era ora di raggiungere l’aeroporto.
“Sono nata pronta”, lo presi in giro e lui rise.
“Bene… perché ora preparati ad essere catapultata into the wild!”, disse baciandomi di fretta, prendendo le borse e cominciando a camminare. Sì, ero pronta, tra poco saremmo partiti. Non dovevo essere nervosa, non avrei dovuto esibirmi… ma era come entrare a far parte appieno di quella famiglia. Strinsi la felpa nelle mie mani, la misi nella mia ultima valigia, chiusi la zip e feci un respiro profondo. Sorrisi e scesi le scale.  Si va in scena, si parte per la guerra.



...
Note Dell'Autrice:
Oh yes! I concerti italiani ci sono e anche se, ovviamente, Ronnie nella realtà non c'era avevo bisogno che cantasse per far capire che un rapporto Echelon-Offbeats si può creare. :) Voi come trovate l'idea?
Vedrete poi nel prossimo capitolo, tutto il concerto.
Per quanto riguarda i regali di Ronnie sono ciò che io stessa desidero: insomma, chi non vorrebbe quella dannatissima felpa di 100 Suns?!!!? Poi per la caccia al tesoro... perdonatemi stavo guardando "Il Mistero Dei Templari" e l'ho scritto così :D

Riguardo l'ultima scena.... la divaH è sempre la DIVAH! :D

Bacioni, Ronnie02 *che vorrei farvi sapere è diventata SMURF come Jared :D*

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Capitolo 23
*** Who I Belong To? ***


Ciao Echelon! Scusate per il ritardo, faccio davvero schifo, ma questa settimana sono stata impegnatissima. PERDONATEMI! 
Spero che questo capitolo vi piaccia come sempre e non vi dico nulla o vi spoilerei tutto :D Una cosa sola: qualcuno è passato dalla parte dei nemici. E qui capirete chi. 
Grazie mille per l'attesa e per chi su twitter/FB mi ha fatto gli auguri. Vi voglio bene gente *-*
Buona lettura. Ronnie




Capitolo 23. Who I belong to?

 



 
Ronnie
 
Thrity Seconds To Mars, stasera, ore 22.00, ecco cosa dicevano i cartelli in giro per Milano, con sotto indirizzo e numeri telefonici per ordinare i biglietti. Wow… dopo dieci anni di America e inglese era così strano ritrovarsi a dover parlare italiano.
Già durante il mio tour avevo dovuto sbiascicare qualcosa per necessità, ma ero uscita così poco che non ci avevo nemmeno fatto caso.
“Wow… sono cambiate un sacco di cose!”, disse Andy guardando fuori dal finestrino del bus appena entrammo in città, verso le nove e mezza del mattino.
Shannon era sdraiato sul suo letto e mormorava qualcosa di incomprensibile, per farci stare zitte.
Quella notte avevamo lasciato l’altro bus per Tomo e Vicky, che ormai non si vedevano da una vita e avevamo passato la serata a ridere e scherzare. Ma purtroppo alla fine il fuso orario si era fatto sentire ed eravamo crollati verso le cinque del mattino.
“Ronnie, guarda! Da quando lì c’è quel ristorante? E quel negozio? Oddio, ma lì non c’era Claudia?!”, continuò Andy indicando vari posti lungo la strada. “Cavolo… ma siamo sicure che siamo nel posto giusto?”.
“Sì, siamo nel posto giusto! Dormite”, ci tirò un cuscino Jared.
“Ehy, chi è questa Claudia?”, chiese Shannon ridendo, con la conseguenza che Andy gli tirò il cuscino che Jared aveva tirato a noi.
Lui continuò a ridacchiare e si mise a pancia in giù, per non sentirci, mentre Jared si sedette sul miniletto e si stropicciò gli occhi.  Scosse la testa, così che i capelli – che ora erano del normale color castano scuro e finalmente della capigliatura che avevo amato in foto nella notte degli MMA’s – si scompigliarono ancora di più.
“Se avevate intenzione di svegliarmi ci siete riuscite”, si lamentò scendendo dal letto e sedendosi di fianco a me, su quello di Andy, abbracciandomi. “Che dice Milano?”.
“Dio mio, ma vi state un po’ zitti?!”, chiese Shannon prendendo il cuscino e mettendoselo in testa.
“Che è cambiata troppo per i miei gusti”, sussurrai facendomi piccola nel suo petto, come sempre. Era una bella sensazione, stare lì con lui, protetta. Finalmente.
“Qual è il programma per oggi?”, chiese Andy alzando la voce apposta, e quindi Shannon prese di nuovo il cuscino e senza nemmeno guardare glielo tirò dritto in testa. Che mira!
“Siamo completamente liberi fino alle tre del pomeriggio, quando cominceremo il soundcheck anche con Ronnie, fino alle cinque credo. Poi liberi di nuovo fino allo spettacolo”, ci spiegò Jared a bassa voce. Bè, alla fine non era tanto diverso dalla mia solita routine del tour.
“Fico. Anche perché ho voglia di girare un po’!”,  si esaltò Andy mandando un messaggio a Vicky. Svegliaaaaa!. Che simpaticona!
“Mi ricordo che quando finimmo l’esame scappammo qui per farci un giro”, ricordai mentre Andy annuiva. “Uh, siamo state anche in questo quartiere! Lì per esempio abbiamo presi la metro e poi laggiù abbiamo pranzato!”.
“C’era anche Luca con noi! Mamma mia, te lo ricordi?”, disse Andy facendo incuriosire Jared. Risi.
“Chi?”.
“Luca Donati. Un tipo supersfigato che si credeva il re del mondo. In pratica ci aveva obbligato a invitarlo ad uscire”, gli spiegai.
“Era stracotto di te!”, mi prese in giro Andy, mentre Jared sgranò gli occhi. “Mi aveva pregato di farlo uscire con noi per stare con te: diceva che quel giorno ti saresti resa conto quanto fosse bello e perfettamente idoneo per una come te”.
“Può andare a fanculo! Lo odiavo quel tipo; sempre a mettersi in mostra”.
“Mai pensato che volesse solo fare colpo?”, chiese Andy mentre il mio ragazzo non ci capiva più niente. Poverino, un attacco di crisi di gelosia.
“Provarci con una ragazza: lo stai facendo nel modo sbagliato”, lo bocciai io. “E poi chissene frega, sono passati dieci anni dall’ultima volta che l’ho visto!”.
“Magari ora è un tuo fan… anzi di sicuro”, mi prese ancora in giro.
“Ma che simpatica! Guarda, mi hai rallegrato la giornata, adesso puoi anche tacere”, dissi. Jared ancora non parlava.
“Simpatia portala via”, rispose Andy. Io risi e scossi la testa, chiudendo il discorso.
“Stai bene?”, chiesi ridendo a Jared che ci guardava confuso.
“Ho capito che dei tuoi ex non devi più far parola”, mi spiegò riacquistando il dono della vista e guardandomi negli occhi e non più nel vuoto.
“Non è un mio ex!”.
“Fa niente, di qualsiasi essere umano di sesso maschile che ti si sia avvicinato tranne i Leto o Tomo!”, si corresse facendo scoppiare Andy a ridere e sorridere me.
“Povera Ronnie. Pensa che ora dovrai sopportarlo così per sempre”, sussurrò Shannon appena sveglio, sbadigliando e sedendosi vicino alla mia migliore amica.
“Voi siete pazzi”, commentai alla fine continuando a guardare fuori.
Per qualche minuto nessuno parlò, fermi nei propri pensieri sulla città, sullo show, sugli ex o sulla vita. Poi l’autista ci disse che eravamo arrivati e così scendemmo a riprendere il controllo delle gambe, ormai addormentate da tredici ore circa.
“Tu sei una stronza”, esordì Vicky appena scendemmo, venendoci incontro arrabbiata. A quanto pare il loro bus era davanti al nostro ed era arrivato prima. “Mi hai svegliato!”.
“I’m so sorry, baby!”, la prese in giro Andy cercando di abbracciarla ma lei si scanso. “Mamma mia, non ricordavo che fossi così permalosa”.
“Ha chiamato Lorelay quando ero sul bus”, ci avvisò nervosa. O santissimo Dio che sei nei cieli, no! “Ha detto che ritarderà di qualche giorno la consegna degli abiti! Io ti avevo detto che dovevamo comprarli, Ron!”.
“Chi è Lorelay? Ron?!”, chiese Jared. Già, lui non sapeva che durante il tour quelle disgraziate delle mie due o tre ballerine o Vicky mi chiamavano così o RonRon.
“Tutti le avevamo detto di comprarli”, continuò Andy cercando di consolare Vicky. “Così ci mettono il doppio”.
“Il doppio?! Cosa? No, Ron, te lo scordi, se non arrivano il tempo io ti uccido!”.
“Calmati, Vicky! Calmatevi tutti!”, urlai mentre quella andava in crisi isterica. “E’ tutto sotto controllo, cazzo, state calmi! Non ci metteranno il doppio e anche se ritardano di qualche giorno arriveranno in tempo. E ve lo scordate che li compro, quindi ora zitti e muti. Tutti quanti, non voglio sentire più nessuno che sclera per questo matrimonio. Dirò a Lorelay di chiamare solo me, cazzo”.
“Wow Ronnie, che parole!”, mi prese in giro Shannon.
“Stai zitto!”, lo rimproverai mentre si ammutolì e Andy ridacchiò. “E, Vicky, che ti ho detto sullo stress?”.
“Sì, calma… devo stare calma…”, si ripeté da sola mentre Tomo l’abbraccio tranquillizzandola. Certo lui era calmo, come tutti i futuri mariti: quelle che davano di matto erano le ragazze e Vicky era una delle peggiori. Non perché fosse precisa, ma perché ci teneva così tanto da aver paura che tutto andasse a rotoli. Ma non ne aveva bisogno, c’ero io.
“Bene, così, respira”, la calmai io sorridendole. “Andrà tutto bene, Vicky, sarai bellissima e li stenderai tutti. Però devi assolutamente calmarti”.
“Certo, ce la posso fare”, respirò forte. “Ok, ci sono, andrà tutto bene”.
“Ok”, dissi scompigliandole i capelli. “Ora, possiamo sclerare meno e fare un giro per Milano?”, chiesi io ridendo. Tutti annuirono, lasciando in pace gli autisti e seguendo me ed Andy per la città.
 
“Jared Joseph Leto!”, urlò una bionda bassina appena arrivammo nell’arena dove si sarebbe svolto il concerto. “Per tua informazione il tuo Blackberry è stato creato per rispondere alle chiamate urgenti, e non solo a postare foto sul tuo cazzo di blog!”.
“Ehm… ciao Emma!”, rispose imbarazzatissimo Jared mentre io guardavo curiosa la scena. Shannon rise e con Tomo andò a preparare gli strumenti. Vicky e Andy rimasero con me.
“Sei un fottuto figlio di puttana, lo sai? Una fottuta settimana che ti cerco e ne vieni fuori con ehm… ciao Emma? Sai che pacco che mi sono fatta per dire ai giornali di dimenticare la storia degli MMA’s, don Giovanni?”, tirò fuori gli artigli urlandogli in faccia. Che cazzo…?
“Che cosa hai fatto tu?”, chiese Jared altrettanto nervoso di quello che aveva detto… a proposito chi cazzo era quella?!
“Quello che dovevo fare da brava segretaria ben pagata per il duro lavoro che deve fare”, rispose fredda e decisa. Ma poi Vicky tossì apposta e la bionda si voltò verso di noi, stampando gli occhi di me. “Oh, ma a quanto pare ora te le porti pure in tour! Che cazzo hai in testa, idiota?!”.
“Emma… stai zitta, per piacere?”, esordì Jared arrabbiandosi seriamente. Sì, Emma, stai zitta?! “Quella è…”.
“So chi è”.
“No, tu non sai un cazzo, chiaro?!”, s’infuriò facendo tornare suo fratello, che di certo non si aspettava questa scena. Infatti si mise tra noi sussurrando un oh oh. “Lei è Ronnie, la mia ragazza. Quindi fai il cazzo di piacere di cucirti la bocca e fare solo ciò che ti chiedo di fare!”.
“La tua…”, sussurrò scioccata la bionda.
“Ragazza. Sì, la mia ragazza”, sottolineò Jared. “E ora lasciaci lavorare, dobbiamo preparare lo spettacolo e lei apre il concerto, quindi poi andare nel backstage”.
Emma lo guardò male, per poi quasi ringhiare contro di me, ma poi se ne andò via prendendo in mano il suo telefono e facendo qualche chiamata.
“Non l’ho mandata via perché voi mi guardiate così. Lavoriamo o no?”, chiese mentre nessuno di noi sapeva che fare. Tomo e Shannon tossicchiarono e andarono verso i loro strumenti. Andy e Vicky andarono si sedettero lì vicino per vederli meglio mentre io restai lì, immobile.
Jared mi guardò strano, come se non capisse a cosa stessi pensando, e poi si mosse in avanti, verso di me. Rimasi ferma, com’ero.
“Ronnie… che succede?”, chiese ancora mentre mi prese la mano.
“E così hai una bionda, carina e giovane segretaria che ti segue ovunque tu vada?”, domandai mettendola sul ridere. “Questo non lo sapevo…”.
“Non essere gelosa”, rispose soltanto facendo un sorrisone. Forse pensava che fossi andata ancora in crisi?
“Dovrei? Sicuro?”.
“No, non devi essere gelosa, Ronnie. È solo Emma, non devi preoccuparti lei, chiaro?”, mi rassicurò. Bene, solo Emma.. “Certo se dicesse meno cazzate anche io non dovrei preoccuparmi di urlarle addosso, ma stavolta ha superato il limite”.
“Ti ha sopportato da più anni di me, dovresti farle un monumento. E se ci fosse rimasta male?”, ridacchiai. Era solo Emma, perché preoccuparsi?
“Pace all’anima sua. Tu non sei come le altre, affatto, e lei non deve impicciarsi nei miei affari privati. D’ora in poi lavoro e intimo saranno ben distanziati”, disse come se definisse una linea immaginaria nella sua mente.
“Prima non lo erano?”, chiesi curiosa.
“Prima la mia vita privata era mio fratello… cioè voglio dire, non che io e Shannon, hai capito insomma…”.
“Jared?”, chiesi fermandolo.
“Sì?”.
“Stai vaneggiando”, risi tappandogli la bocca mentre Shannon cominciava a battere le casse della batteria. Lo abbracciai e lo lasciai andare dai suoi amici.
Mi sedetti vicino alle ragazze e loro cominciarono le loro canzoni. Ma sfortunatamente, come avevo già predetto, cominciò ad andare storto qualcosa.
“Pronto?”, risposi al telefono, allontanandomi dai ragazzi.
“Ronnie, sono Solon. Tutto okay lì?”, chiese la voce del mio miglior amico nella cornetta.
“Sì, tutto okay, tu? Perché mi hai chiamata?”, domandai mentre vedevo Emma giocare ad Angry Bird sul suo iPhone nuovo. Wow, che lavoro.
 “Niente, volevo salutarti. Qui è noioso senza di te”, mi rispose. Oh, com’era dolce, il mio Solon.
“Dovevi venire”, risi prendendolo in giro.
“E certo, e poi ti organizzi da sola! Come se avessi il tempo di andare in giro per il mondo fino a dicembre”, mi disse.
“Ah proposito, la prima premiere per il film?”, chiesi.
“Fammi controllare”, rispose pensieroso, lasciandomi in silenzio alcuni minuti. “Vediamo… dal calendario che mi ha mandato Will dovrebbe essere il 26 di giugno, ma devo richiamarlo perché non ho il posto. Che cavolo, ma un lavoro giusto, no eh?”.
“Va bene, fammi sapere appena puoi”, dissi per poi salutarlo e mettere giù. Bene, e anche questa era andata.
Emma tossì – ma che avevano tutti oggi? – e mi voltai a guardarla, quasi scocciata. Aveva messo via l’iPhone e mi fissava.
“Ha bisogno di qualcosa?”, chiesi mentre lei scuoteva la testa e si voltava. Mamma mia, ma una più simpatica Jared non la poteva trovare?!
Tornai dai ragazzi e mi godetti le loro esibizioni, conoscendo meglio i testi e le canzoni. Non fecero le canzoni che ricordavo, il che mi intristì un po’. Soprattutto per Year Zero.
Però Jared aveva ragione: molte cose di quelle canzoni mi rispecchiavano e quando erano plateali si voltava verso di me e sorrideva, quasi complice.
Alla fine si erano fatte le cinque e mezza, avevamo quindi circa quattro ore e qualcosa per girare un po’. Andy volle andare a fare un giro in centro, per i negozi e comprare qualcosa – ma alla fine non prese nulla perché non la convincevano o così disse – mentre  Vicky votò per una visita turistica, come vedere il Duomo o il castello Sforzesco. Poi andammo a mangiare in una pizzeria, dove mentre attendavamo l’ordinazione, tutti tirarono fuori il telefono. Jared andò sul suo blog a postare la foto di una pizza, Shannon, Tomo e Vicky a scrivere qualcosa su Twitter, Andy a messaggiare e io a guardare delle news. Che tristezza.
“Ok, la cosa sta andando sul ridicolo. Mettiamo via questi aggeggi, dai”, disse alla fine Andy battendo le mani sul tavolo.
“Giusto, Andy ha ragione”, concluse Tomo prendendo anche il telefono di Vicky e mettendolo con il suo nella borsa della ragazza. Lei fece una linguaccia ma poi non disse nulla.
“Hey gente, che si fa dopo il concerto?”, chiesi io mentre vedevo che arrivava il cameriere con tre pizze. Toccò alla mia, a quella di Shannon e di Vicky.
“Partiamo alla volta di Roma, credo. No?”, chiese Jay, facendo una foto alla mia pizza, sorridendomi. Sbuffai ridendo e andai avanti, aspettando che arrivassero anche le altre.
“Sì almeno ci facciamo un giro lì e dormiamo un po’”, disse Shannon che in realtà stava già cominciando a mangiare ma si era fermato per non sembrare l’unico idiota scortese.
“Dormiremo solo quando saremo morti!”, affermò il mio ragazzo appena arrivarono anche le altre portate e il cameriere lo guardò male.
“Allora preparati a dormire, baby. Mangia, che sei magro peggio di me!”, dissi facendolo stare zitto e guardandomi male, ancora una volta, per la mia affermazione.
“Meglio che non parli”, lasciò cadere il discorso Jared indicandomi con la forchetta per poi augurare a tutti buon pranzo e incominciare a mangiare.
Andy sorrise e cominciò a mangiare anche lei, provando anche la pizza di Shannon e così lui. Li guardai tenera e poi fissai fuori dalla finestra accanto a me. Qualcuno mi stava osservando da lontano, ma non capii che fosse, così mi voltai, sperando che non fosse un paparazzo.   
“Che succede?”, chiese Vicky, seduta di fianco a me, mentre mi faceva tornare alla realtà della mia pizza vegetariana.
“Niente, mi sembrava di aver visto… qualcosa”, vaneggiai sorridendole. Jared intanto continuava a parlare, Shannon guardava Andy senza ascoltarlo minimamente, Tomo cercava di attirare l’attenzione di Vicky per non sentirlo e lei lasciò che lui le parlasse.
Tutto finì tranquillo, pagammo il conto e andammo di nuovo a camminare un po’. Il tipo che mi guardava dalla panchina che dava sulla finestra dove stavo io era scomparso.
Verso le nove e mezza tornammo all’arena, passando dall’entrata posteriore. C’erano già delle urla dalla platea. Già migliaia di Echelon erano entrati e attendevano l’ultima mezz’ora prima dello show.
Appena arrivati nel backstage Jared prese una bottiglia di acqua e se la sgolò tutta, mentre Tomo e Shannon presero degli spuntini. Vicky ed Andy si sedettero comode sui divanetti.
“Stai tranquilla. Non devi farlo se non vuoi”, mi disse Jared abbracciandomi da dietro e poggiando la testa sulla mia spalla. “Non sei obbligata”.
Presi fiato, girai il viso e gli baciai una guancia, sorridendo. “Ma io voglio farlo. Sono solo un po’ nervosa: agli MMA’s ci tenevamo per mano e ora apro due vostri concerti e rimango con voi per tutto il tour. Non è un po’ strano?”.
“Che pensino quello che vogliono, non mi importa. Sono la mia famiglia, capiranno”, disse mettendosi davanti a me e baciandomi, prima calmo per tranquillizzarmi e poi sempre più intenso, facendomi svanire ogni singolo pensiero.
“Veronica McLogan”, mi chiamò Emma facendomi staccare da Jared, che fece una risata mentre io diventavo viola. Lei scosse la testa e ritornò professionale. “Si può andare a cambiare, tra poco entra in scena”.
“Certo, vado subito… sì”, dissi tirandomi indietro i capelli nervosa e dando un ultimo e veloce bacio a Jared, per poi andare a cambiarmi.
Non era un mio concerto, ma di certo non potevo andare con i vestiti che avevo indosso. Misi degli shorts – si moriva di caldo a giugno, a Milano! – con una canottiera colorata e con disegni astratti che assomigliavano al tatuaggio di Shannon. Ai piedi degli stivali estivi color nero sporco e in testa il mio capello a scacchi. Jared ne aveva uno uguale, ma lo aveva lasciato in California.
Quando fui pronta, con anche tutto il trucco, i capelli sistemati e i miei soliti mille e più accessori, uscii dal camerino e Emma mi lanciò un microfono. Lo presi per miracolo e sospirai, chiudendo un attimo gli occhi. Da quando ero così fottutamente nervosa?! Ronnie, riprenditi!
Sorpassai i ragazzi e li salutai, mentre le luci fuori si oscuravano e la musica del cd della band si abbassò fino a spegnersi. Non essendoci la mia adorata band avrei fatto una canzone acustica, e poi Shannon – che era già pronto vicino alla batteria non illuminata – mi avrebbe aiutata con il brano che avevo scritto durante il film.
Scossi le dita, facendole scrocchiare, e poi entrai in scena, con la mia chitarra in mano. Milioni di ragazzi urlarono al mio ingresso: alcuni erano strafelici di vedermi, altri curiosi, altri stupiti e altri ancora scioccati.
“I’m here tonight… to introduce you a great band”, dissi nel microfono facendoli gridare ancora. Cuore fermati, non è così complicato, devo solo dire quattro cose, cantare due canzoni e andare fuori dai coglioni. Ce la potevo fare. Cazzo, facevo concerti da sola di due ore, di solito! “They called 30 Seconds To Mars, and I’m so glad to be here. But now… do you wanna listen some of my songs?”.
Urlarono ancora felici, il che mi fece piacere, e con un okay sussurrato e mi sedetti sulla sedia e imbracciai la chitarra. “This song is called Souls”.
 
We said goodbye too early
So young, I didn’t know how
Live without you.
But a thought left me alive:
we were and we ever be together
By hearts and souls
 
Qualcuno cantava con me – i miei Offbeats! –mentre qualcuno chiuse gli occhi e si godette la musica, per quel che potevo vedere. Era fantastico, mi piaceva così tanto essere tornata a cantare davanti a tutta quella gente. La sua adorata famiglia.
“Do you liked that?”, chiesi e mi ritrovai miliardi di grida in mio supporto. Bene. “Oh thank you, guys. But now… let me introduce you one of my awesome friend. He will play my next new song with me and his name is… Shannon Leto!”
La batteria si illuminò e Shannon sorrise indicandomi con una delle bacchette. Io risi e presi una chitarra elettrica che mi stava passando un ragazzo della crew, mentre io gli davo quella acustica. “This song is called So wild. Let’s begin!”.
Cantai suonando la chitarra e Shannon mi seguiva con la sua musica. Mi piaceva da matti il suono che stavamo creando, era proprio quello che mi ero sempre immaginata nella mia testa.
Tutti urlavano e quando mi voltai vidi Shannon che rideva, con gli occhi chiusi, mentre suonava. Io mi rivoltai verso la folla e ripresi a cantare, guardando la gente che s’intravedeva nei fasci di luce.
“Thanks you guys! I love you all, but… Now I have the awesome pleasure to say: are you ready to meet… 30 Seconds To Mars?!”, urlai facendoli gridare di rimando mentre Shannon partiva con un altro ragazzo con la batteria sulle note di Escape.
L’avevano già provata quel pomeriggio e… wow, era grandiosa anche se un po’ corta!
Uscii dal palco di corsa, infilandomi di fretta nel backstage. Jared stava correndo per andare sotto le scale che l’avrebbero portato alla Triad gigante dietro Shannon.
“Ehy! Sei stata grandiosa!”, mi disse fermandosi per qualche secondo e baciandomi veloce. Risi. “Ti amo, ricordatelo!”.
Mi stoppai lì a metà strada stordita. Sbaglio o quella era la prima volta che me lo diceva da dopo che ci eravamo lasciati? No, non sbagliavo.
 
 
Jared
 
Ero preso dal momento, volevo solo farle sapere che era stata stupenda e che mi era piaciuta da morire. Entrambe le canzoni, fantastiche.
Ma perché proprio ti amo? Perché era vero ed era da troppo tempo che volevo dirlo.
Così per un breve tempo lasciai perdere, con un sorriso in faccia, e salii sulla pedana che mi fece salire davanti alla Triad illuminata. Miliardi di Echelon cominciarono ad urlare.
Time to escape…
“This night is… something very special, guys. I have to be honest with you”, dissi appena 100 Suns finì e vedevo Ronnie sorridere nel backstage, con la felpa in mano. “This night is the very first night since a long time that I sing… completely happy. So… I wanna that you jump high! I wanna that you touch the sky with me! Com’on!”.
I miei cari fratelli e sorelle urlarono. “I believe in you, you believe in me… Com’on jump!”.
Grab your guns…
 
“Fratello dovresti finirla di coccolare quel plettro, non servirà a niente”, disse Shannon entrando in sala, mentre stavo cercando di scrivere qualcosa.
“La riporterà qui. Lo so, lo sento”, ripetei testardo per la millesima volta. Sapevo che sarebbe tornata. Lei doveva tornare da me. Non era finita, dovevamo solo parlare… tutto sarebbe stato come prima, ne ero certo.
“Come? Non sai nemmeno dov’è, come sta, cosa fa ora!”, mi ricordò facendomi maledettamente male. “Ronnie non è più tua. Che fai se la rivedi fidanzata? Oppure sposata?”.
“Senti, non è colpa mia, chiaro?”, urlai alzandomi in piedi. “Non sono Gesù, ma nemmeno tu amico, quindi fai poco il sapientino! Vorrei cercarla… ma anche distruggerla per non farmi più del male. In milioni di piccoli pezzi, presi da lei”.
“E poi?”, disse sorridendo. Ma che cazzo aveva al posto del cervello?! Gli piaceva vedermi soffrire.
Non mi vergogno. Ma vorrei solo stringerla per un’ultima volta… sentire il suo profumo, vedere i suoi occhi. E poi lasciarla andarese è quello che vuole. Lasciarla andare…”, dissi abbassando la testa, quasi con gli occhi lucidi. “A million little pieces I've stolen from you…”.
“E poi?”, chiese di nuovo. Ma ora capivo che cosa voleva. Stavo creando… lui lo sapeva.
Search And Destroy! A million little pieces… A million little pieces… to start”, cantai tirandomi un po’ su di morale. “Ti adoro, lo sai?”.
“Lo sentirà, Jay. Prima o poi lei lo sentirà”, mi abbracciò mio fratello.
 
SaD. Come se in quel momento non fossi già abbastanza triste per lei. Era come se il destino fosse contro di me. Quel destino che poi, anni dopo, l’aveva fatta tornare al mio fianco.
Ma ora era tempo di cantare, di suonare, di credere, di sognare. Di certo non di intristirsi.
  Mentre intanto Shannon e Tomo facevano le loro musiche sulle note di L490 io andai veloce dall’altra parte dell’arena, dove avevano messo un piccolo podio, con la mia chitarra acustica. Era lei. She.
Mi sedetti senza che nessuno mi notasse e guardai mio fratello e il mio amico che, in mezzo alle luci blu, suonavano insieme. Erano bravi, davvero bravi. Poi finirono e le preghiere dei monaci buddisti che ci avevano aiutato a registrare invasero la stanza.
Ma dopo toccò a me.
“Hi!”, li salutai facendoli voltare verso di me, sorridenti, mentre Shannon e Tomo si prendevano una pausa. “What’s up? Do you like the show?”. Tutti urlarono e io accordai la chitarra. “Now… I wanna play a song that remind me some mounth ago, when I was on set. This song is called… Alibi. And I wanna listen your voice sing with me, okay?”.
Gli Echelon urlarono e cominciai a suonare, mentre ancora una volta la mia mente andò a farsi fottere.
 
No warning sign, no alibi…”, scrissi sul foglio, intonando una silenziosa melodia leggera. Shannon era andato via per una festa con il suo amico Antoine, mentre Tomo era con me, a giocare con la mia piscina sentendomi cantare. Vicky era andata dai suoi e lui non sapeva cosa fare.
“Carina… non nel nostro stile, ma… sì mi piace”, mi disse sorridendomi.
We both could see, crystal clear… that the inevitable end was near”, continuai togliendo le mani dalla chitarra e guardai davanti a me, fermo immobile.
“Jared… io non so chi sia”, disse un attimo confuso. “Lei deve essere stata importante per te, ma perché non provare a dimenticarla. Ti fa troppo soffrire”.
Cosa?! “Dimenticarla? No, Tomo, non posso dimenticarla, fa parte di me, anche se siamo stati insieme per poco. Lei è… è stata tutto quello che potevo desiderare”.
“Ma…”, cercò ancora di convincermi. Perché?
“Ma niente, Tomo. Non puoi capire, non la conosci”, finii il discorso tornando alle mie note. “I feel apart, but got back up again yeah…”.
“Sì, certo, come no”, sussurrò lui, senza che io capissi cosa intendesse.
 
L’avevo capito dopo, quando l’avevo ritrovata. Ma lui l’aveva fatto per lei ed era inutile arrabbiarsi. Aveva fatto la cosa giusta e basta.
E così la canzone finì, tra le voci della mia famiglia, gli scatti e le luci delle loro macchine fotografiche, le loro grida che facevano complimenti e la musica della mia chitarra. La tenevo ancora con cura, ma mi ero sentito in dovere di doverla usare questa volta.
“Ok, you’re awesome… but now I wanna sing with you a song… a song that we don’t play so much in live. Com’on, follow me”, dissi prendendo i primi accordi. “Your defenses were on high, your walls built deep inside”.
Tutti urlarono e mi seguirono a cantare, ricordando tutte le parole e trovando il tempo con la mia chitarra. “Was it a dream? Is this the only evidence that proves it… A photograph of you and I… in love”.
Finii la canzone, lasciando che le ultime note invasero la stanza con la stessa velocità dell’ossigeno. Loro lasciarono finire la canzone e poi ricominciarono ad urlare e ad applaudire. Sicuramente alla fine della serata non avrebbero avuto più voce.
“Look at that!”, urlai indicano davanti a me, dove Shannon e Tomo si erano rimessi al loro posto, pronti a partire. “Guess the next song, guys! I remember that it begins like this: What if I wanted to break, laugh it all off in your face…”. E così cominciò anche The Kill, prima acustica e poi full band.
 
“Io amo questo film!”, urlò Shannon dopo la millesima scena di Shining. Sì, lo sapevamo tutti ormai.
“Shannon ormai sei così prevedibile” ridacchiò Vicky, abbracciata a Tomo a guardare con noi.
Look in my eyes, you’re killing me, killing me. All I wanted was… you”, sussurrai mentre mio fratello si voltava verso di me, stupito. “This is who I really am”.
“Cosa?”, chiese Tomo, quasi ridendo.
“Non lo so… mi è venuto così”, scherzai.
“Io lo sapevo che questo film ispira da morire, fratello! Forza, crea, crea!”, mi incitò. Ridacchiai e andai avanti.
Come, break me down… bury me, bury me”. Bè, non è che fosse così felice come cosa. Ma stavo pur sempre vedendo un film dell’orrore.
“Se proprio ci tieni, amico, possiamo scavare in giardino”, mi prese in giro Tomo, così li feci la linguaccia.
“No, a me piace! Carina… The Kill”, sussurrò Shannon di rimando mentre Vicky annuiva. “Ci sta come titolo, no? The Kill…”.
“Sì… e bravo, bro”, dissi facendo battere il mio palmo contro il suo. The Kill
 
“Reapet No no no no!”, urlai appena Shannon introdusse Closer To The Edge. “I wanna see you dance, okay? Com’on guys, raise your hands up and touch the sky, Milan! Jump!”.
Inutile dire per chi fosse quella canzone. Non l’avevo provata apposta nel soundcheck per non farlela sentire prima dello show. Doveva sentire le urla degli Echelon con me, l’adrenalina del gruppo che suonava saltando ovunque. Era per lei.
L’avevo scritta… non mi ricordavo nemmeno. Tutto quando pensavo così intensamente a quegli occhi andava a fottersi e rimanevo solo io con i miei pensieri. Ma sapevo che sarebbe tornata da me, prima o poi. Doveva farlo.
One day, maybe we’ll meet again. “Closer to the edge!”, cantai urlando e seguendo i loro no. “Closer to… the egde! Thank you, guys!”.
Shannon fece la sua rullata di batteria, seguito poi dall’assolo di Tomo, mentre ci preparammo alla prossima canzone.
“How many of you, guys, love our first album? Raise your hands!”, urlai facendo alzare le mani ad un sacco di ragazzi, insieme alle loro urla pazze. Bene, meglio di quello che pensassi, in realtà. “Awesome, really. I wanna play a song… all of us, I think… a song called Year Zero”, annunciai facendoli urlare più del solito. “Do you remember that song? Do you want listen it?”. Altre urla. Bene… “Ok, com’on! Scream with me, com’on!”.
“Be a hero, kill your ego!”, cominciai a cantare. Voce sacrosanta che mi assisti ogni giorno, abbi pietà di me! Dovevo tenere duro e non stonare, almeno per questa. Era per lei, dovevo farla perfetta e fino alla fine. “We’ll never fade away! Com’on, jump and sing louder than you can! We’ll never fade away!”.
Mi voltai verso il backstage, notando il faccino fiero della mia ragazza che mi guardava, sorridente. Lo sai che è per te, vero?, pensai tra me e me, quasi sperando che mi sentisse. Volevo che mi sentisse, che annuisse e corresse qui a cantare con me, come quel pomeriggio al lago. Un giorno lo avrebbe fatto, forse quando avrei detto a tutti la verità.
“I will stand by your ground, I will tear down myself, I won't fade!”, cantai allargando le mani, indicando senza dar sospetti quella faccetta dolce. “We’ll never fade away!”.
Urlai l’ultimo verso e poi lasciai che Shannon e Tomo finissero la canzone con i loro strumenti. Evvai! Ce l’avevo fatta.
Senza parlare di altro, ricominciammo un’altra canzone. A Modern Myth, un’altra canzone che non facevamo spesso. Ma stasera era speciale, d’ora in poi sarebbero state tutte notti speciali. 
 
“Sono felice di averti rivista”, diceva Shannon ad una ragazza biondina, sulla porta di casa. Ero andato a trovarlo, tanto per pensare a qualcosa di nuovo. “Ma… sai che non posso. Non me la sento, mi dispiace”.
Glory. Era la ragazza che stava frequentando, ma ovviamente appena lei cominciò a parlare di una storia seria, eccetera, Shannon cominciò a chiudere la cosa.
Stupido, perché Andy, o questa strana Rea, non sarebbe tornata. Stupido, come me, perché pensavamo entrambi che avremmo rivisto le persone a cui più tenevamo al mondo. Stupido, perché con lei avrebbe potuto creare qualcosa. Ma tutti sapevamo che prima o poi avrebbero capito che non era quella giusta.
“Goodbye”, disse abbracciando la ragazza. Lei si asciugò un attimo gli occhi e poi annuì, andandosene via.
Goodbye. Shannon salvati prima di soffrire ancora come me, lascia perdere il passato e vai con lei, volevo urlargli, ma non sarebbe servito a nulla. Save yourself!.
“Jared… ti va di uscire un po’?”, chiese tornando in casa, dove ero io. The secret is out. “Ho bisogno di non pensare”.
“Andiamo”, accordai sorridendogli e prendendo la mia felpa.
 
“Guys! Com’on”, dissi mentre urlavano ancora. Non avrebbero avuto più voce, ci avrei giurato. “Now, it’s time to sing. Now, it’s time to forget about everything. It’s time to play… Kings And Queens!”.
Shannon mi venne di fianco, aiutando i ragazzi a salire sul palco e sistemarsi dietro di noi, mentre Tomo dava il cinque a tutti.
Era bello che fossero lì con noi per quella canzone, la nostra canzone, anche se per una piccola parte.
E appena tutti furono pronti, Shannon saltò sul suo podio, si sistemò e cominciò a battere sui piatti. Era ora.
“We were the kings and queens of promise!”, cantai. Risi, era bello essere tornato dalla mia famiglia.
 
 
Ronnie
 
“Tu sei un mito”, gli saltai addosso appena rientrò nel backstage, allacciandomi al suo collo e ridendo.
“Ronnie”, sorrise  mentre gli toglievo il fiato. “Sono sudato, non penso sia una bella cosa, sai?”.
“Fottiti”, risposi pronta senza muovermi. Lui, prendendomi in giro, ridacchiò e mi strinse ancora di più a sé. Sì, era sudato, ma non mi interessava niente. Aveva suonato Year Zero, aveva suonato Closer To The Edge. L’aveva fatto per me.
“Ti amo”, sussurrò, facendomi bagnare gli occhi.
“Anche io ti amo, idiota!”, dissi staccandomi di qualche centimetro e ritrovandosi davanti ai suoi occhi stupendi, prima che mi baciasse ancora una volta, facendomi dimenticare tutto.
“No… no, lei non può entrare qui, non è autorizzato!”, sentimmo la voce isterica di Emma. Che succedeva? “Non mi interessa chi sia, non è autorizzato!”.
Ma qualcuno entrò lo stesso. Ed era la stessa persona che avevo visto al ristorante. Però ora capivo chi era. E non mi piacque.
“E così hai ritrovato la tua nuova famiglia, è così?”, chiese in italiano, arrabbiato. No, non mi piaceva quando era arrabbiato… Mi staccai da Jared, tenendolo comunque per mano. “Devi essere felice, non è così… sorellina?”.
E ora? A chi appartenevo, ora?
 

 
 
 
 ....
Note dell'Autore:
Spero che tutte abbiate capito le parti in inglese :D ma so che le Echelon sono brave linguiste quindi ho evitato di mettere la traduzione. Mi è piaciuto mettere i ricordi di quando Jared ha scritto ogni rispettiva canzone e riguardo alla scaletta ho preso spunto dai 300. 
Le canzoni di Ronnie sono tutte scritte da me, per quello che si vede qui, spero che vi piacciano.
Riguardo ad Emma... santa donna, ma io non la sopporto, perdonatemi! ahhhaha

E riguardo anche l'indizio che vi avevo detto sopra: è arrivato il traditore, nelle ultime righe!

Ps. il prossimo capitolo sarà a Roma.... non perdetevelo, vi dico solo una cosa: PINGUINI!
Bacioni, Ronnie02 :D

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Capitolo 24
*** You lie to me! Again! ***


Echelon mie adorate, lo so che sono in ritardo ma date la colpa a quella stramaledetta autorità chiamata SCUOLA! Bleah, voglio fare l'artista indipendente hahahaha
Vabbuò, visto che il tempo stringe per me (mi tocca la cena :D) vi lascio subito leggere in pace. 
Buona lettura, Ronnie02





Capitolo 24. You lie to me! Again!





 
Ronnie
 
Non era possibile, non ci potevo credere. Non potevano essere qui, tutti. Non volevo che fossero qui. Perché le mie paure dovevano sempre avverarsi?
“Allora… non parli più? Però prima mi sembrava che cantassi ancora molto bene”, fece il simpatico.
“Marco…”, sussurrai.
Ed eccolo lì, mio fratello, a pochi passi da me. Con i capelli scompigliati, più scuri di quello che ricordavo, e i miei stessi occhi, ma più cattivi. Era passato al nemico, poco ma sicuro.
“Che c’è, non ti andava di far visita alla famiglia?”, chiese mentre Emma, completamente fuori controllo, non riusciva a fermare mia madre dall’entrare nel backstage. Che cavolo ci facevano lì? Perché?
“Tesoro mio bello…”.
“Non chiamarmi tesoro. Che volete da me?”, chiesi fermandola. Mi irritava la sua voce, non volevo nemmeno sentirla.
“Solo vederti. È passato così tanto tempo! Lucas ormai riesce a dire anche il tuo nome, volevo che lo sapessi”, continuò mio fratello cercando di intenerirmi.
“E’ arrivato il momento uccidi-fidanzato nel quale si conoscono i genitori della ragazza?”, mi sussurrò all’orecchio Jared, preoccupato.
“No! No, quel momento per te non arriverà mai perché io non ho genitori, chiaro?”, dissi in inglese. Ma poi continuai in italiano. “Voi… non mettetela sul piano sentimentale e tu, Marco, non osare nemmeno nominare il nome di tuo figlio davanti a me per intenerirmi. Non avrei mai pensato che gli avresti sostenuti… che avresti sostenuto lei!”.
“E’ tua madre, Veronica, qualunque cosa accada lei rimane la donna che ti ha fatto nascere”, rispose mio fratello. “Hai ventinove anni ormai, hai una vita. Non ti sembra che sia infantile continuare a rinnegare le proprie origini?”.
“Fanculo Marco! Lei è mia madre, sì, ma mi vergogno di doverlo dire! Merda, tu lo sai che cazzo ho passato per colpa sua e ora mi vieni da dire di perdonarla? Fottiti!”, urlai, mentre la stretta di Jared – che capiva che le cose si facevano pericolose – si fece più solida. “Tu… tu credi che io possa dimenticare le notti insonni? Il mio taglio sul polso?! Cazzo, Marco, io mi sono tagliata le vene perché questa cazzo di maledetta donna mi ha rovinato la vita!”.
Andy sgranò gli occhi. Lei capiva e la spiegazione che le avevo dato, undici anni prima era stata ‘il mio gatto ha preso male la mira, povero piccolo, non ha fatto apposta’. E invece non era così.
“Veronica!”.
“Veronica un cazzo, avete stramaledettamente rotto!”, urlai senza paura di niente. Era ora di sistemare le cose. “Prima tutti i litigi mentre io sentivo, poi la separazione, tutto il male che mi avete fatto, poi Devonne o Lucas! Ora anche questo? No, non mi porterete ancora via quella piccola libertà che ho conquistato, non ancora, chiaro?
“Uscite da qui, dalla mia vita! Non faccio più parte della vostra cazzo di famiglia, dimenticatemi, non vi voglio più vedere! Questa”, dissi indicando tutti i miei amici. “è la mia famiglia. Loro, non voi. Loro che mi hanno sempre aiutata, protetta, consolata, fatta sorridere! Loro… voi invece avete solo aumentato il mio dolore! Andatevene via, vi prego, una volta per tutte. Fatemi questo ultimo favore… andate via e non tornate mai più”.
“Veronica, non fare di tutto una tragedia, tu hai voluto andartene, nessuno ti ha mai obbligata, lo sai”, disse mia mad… quella donna.
“Non osare dire il mio nome!”, chiusi il discorso con lei. Non sapeva niente e parlava. “E tu”, continuai indicando quello che credevo mio fratello. “Mi hai mentito, ancora una volta! Mi hai sempre mentito, dicendomi che tutto si sarebbe risolto con loro, che sarebbe tutto tornato al posto giusto. Mi hai mentito e continui a farlo ogni giorno che passa, perché solo al pensiero di rivedervi io sto male! Non voglio più sentire nemmeno la vostra voce! Mi hai mentito e non voglio avere più nulla a che fare con voi. Pensate quello che volete”.
Detto questo mi spinsi contro di loro per uscire ma Lucas mi toccò la schiena, dalla spalla di sua madre. L’unica donna che mai avrei rifiutato in quella famiglia. “Tu e tua madre dovrete essere forti. Fallo per me, piccolino, no lasciarti mai abbattere”, sussurrai prima di togliere la sua manina. Lui sussurrò il nome Ronnie e sorridente, ignaro, mi lasciò andare. Poco dopo però arrivo Jared, fuori dall’arena, dove il pullman per Roma ci attendeva.
Con un volto disperato e rigato dall’ennesime lacrime mi sedetti violentemente a terra, alzando la testa verso il cielo. Guardate quanto è rossa la Luna stanotte! Sembra quasi Marte!, aveva detto Jared al concerto di stasera. Era vero ed era bellissima, contornata dalle sue brillanti stelle luminose.
La mano del mio ragazzo alla fine prese la mia e mi tirò su di peso, senza che io mi rifiutassi. Lui mi strinse forte a sé, non lasciandomi andare mentre chiudevo gli occhi e bagnavo la sua maglietta con le lacrime e la stropicciavo stringendo la stoffa nelle mie mani chiuse a pugno.
“Ti amo, Ronnie”, sussurrò sui miei capelli. “Ora la tua famiglia siamo noi, non dovrai mai più soffrire. Te lo prometto, te lo giuro!”.
“Ho paura, Jay… ho paura che prima o poi ricadrò nel burrone”, bisbigliai con la voce rotta dalle lacrime.
“Ci sono io con te. E stavolta per sempre… ci sarò per sempre, Ronnie, non avere paura”, mi strinse ancora di più, baciando la mia testa e carezzando la mia schiena.
Deglutii e cercai di calmare il respiro, riuscendoci solo per qualche istante. “Ti amo, Jared… non te ne andare più, ti prego”.
“No, non ti lascio sola. Non più, baby”, concluse staccandosi un po’ da me quel tanto per afferrare le mie gambe e prendermi in braccio. Sorrisi e mi strinsi al suo collo, accucciandomi tra le sue braccia e appoggiando la testa alla sua spalla.
Sentivo la sua voce parlare all’autista, lo sentivo muoversi imbranato tra il disastro che avevamo lasciato sul bus e mettermi dolce sul letto e coprirmi con le coperte leggere, per poi sdraiarsi accanto a me.
Cantò il ritornello di Kings And Queens, per poi lasciare che mi addormentassi tra le sue braccia. “No, non me ne vado”, sussurrò quando ormai ero nel mondo dei sogni.
La mattina dopo, quando mi svegliai, Jared aveva uno strano pigiama addosso – segno che si era ovviamente fatto una sana doccia – e aveva un braccio attorno al mio corpo e il naso che sfiorava la mia spalla sinistra.
Mi voltai, sperando di non svegliarlo, e gli baciai la fronte, coperta con qualche ciuffo moro ribelle. Alzai la mano, sistemandoli, e poi gli carezzai la guancia. Era strano vedere il suo volto fermo così a lungo, quasi per contemplarlo. Con la sua grande e rotonda forma degli occhi, un po’ vicini tra di loro, il nasino perfetto, un pochino all’insù, le labbra poco piene e fini, le guancie ora abbastanza magre, la fronte alta e la barbetta ispida che cominciava a spuntare. Le labbra, in quel momento, erano piegate all’insù, in uno dei suoi soliti dolcissimi sorrisi da sciogliere qualsiasi cosa. Avrei dato l’anima per vedere i suoi occhioni in quell’istante: sarebbero stati di quell’azzurro chiaro, intenso, che ti fa capire ogni suo pensiero, da bambino felice.
Respirai forte e la mia Triad, legata al collo, si spostò un attimo, andando a finire vicino alla sua, legata un po’ più stretta, al contrario del plettro dorato. Sorrisi e decisi di voltarmi leggermente verso il finestrino sopra di me, per vedere dove eravamo.
Era…un parcheggio? Battei le palpebre e cercai di prendere il mio iPhone nella testa posteriore degli shorts. Lo afferrai e lo sbloccai con la password. No, stava scherzando, vero?
12.45
Era l’una meno un quarto?! Avevamo dormito così tanto?
Jared si mosse nel sonno, stringendomi ancora di più e per qualche minuto mi accoccolai ancora sul suo petto caldo, tanto per tranquillizzarmi e vivere in Paradiso per un po’.
“Come siamo coccolose stamattina”, sussurrò Jared ridacchiando, con la voce un po’ impastata per il sonno, baciandomi la testa, per poi cercare un po’ più sotto.
“Ronnie tanto bisogno di coccole. Tanto”, dissi come una bambina alzando la testa e baciando le sue labbra, leggermente, lasciando che lui prendesse un po’ il controllo della situazione.
“Ah sì?”, disse sulle mie labbra, facendomi annuire sorridendo. Lui riprese a baciarmi, appoggiandosi su un braccio e cercando di non pesarmi mentre me lo ritrovai sopra di me. “Vediamo se c’è qualcuno”.
Detto fatto. Alzò lo sguardo sul comodino dietro le mia testa e vide una lampada. Sorrise quasi malefico e con uno schiaffo la scaraventò per terra, facendo un rumore assordante. Uno… due… tre… nessuno venne a controllare.
“Ma guarda te che caso, non c’è proprio nessuno”, dissi ridacchiando e appoggiandomi sui gomiti, per arrivare a baciarlo senza che si abbassasse. “Jared, Ronnie tanto bisogno di coccole…”.
“Eh già, povera piccola. Lei tante coccole”, ripeté ridendo e facendomi calare di nuovo. Una sua mano si fece strada sotto la mia maglietta, toccando ogni singolo centimetro di pelle, fino ad arrivare alla stoffa colorata del mio reggiseno. Girò attorno ad esso, arrivando dietro la schiena e trovando l’aggancio. In meno di tre secondi era già finito per terra, insieme alla lampada. “Questo non ci serve per le coccole, giusto?”, sussurrò lussurioso prendendo anche il bordo della maglietta e tirandola verso l’alto. Appena fu fuori gioco riprese a baciarmi, spostandosi dalla mia bocca al mio collo e più in giù, facendo su e giù  dai miei fianchi o il solletico sulla pancia e l’ombelico.
“Neanche questa serve, vero?”, dissi afferrando la spallina della sua maglietta slargata che usava come una specie di pigiama. Lui rialzò la faccia e mi permise di levargliela, lasciando in mostra – come se prima non si vedesse – il suo petto colorato un po’ dal sole, muscoloso al punto giusto e dannatamente bello.
Aprii le gambe quasi di scatto appena disegnò con la lingua il contorno dei miei pantaloncini e mi resi conto di non aver le scarpe. Cosa… Ronnie, ma che cavolo pensi?! I miei pensieri in certi momenti non si potevano ritenere normali e razionali…
Intanto Jared si era messo comodamente in mezzo ai miei arti inferiori e quando lo guardai fece un risolino, quasi di sfida. Lentamente sfilò la cintura di pelle e pian piano aprì i bottoni degli shorts di jeans per poi lanciarli dietro di sé.
Ero in mutande, sotto Jared, in un bus da tour, con tutti i vestiti per terra e qualcuno avrebbe potuto salire in qualsiasi momento. Oppure, ancora peggio, qualche paparazzo poteva fare foto indecenti se riusciva ad arrampicarsi su un albero. Ronnie, fatti meno seghe mentali, non arriverà nessuno, pensò la mia coscienza e, attirata da Jared che, come una presa in giro, giocherellava con le mie mutandine, lasciai che avesse ragione.
Alla fine mi fece felice e lanciò via quell’inutile – in questo caso – indumento e mi guardò da capo a piedi. Odiavo quando faceva così, sembrava quasi che volesse analizzarmi per decidere se comprarmi o no.
“Ronnie bisogno coccole, non sguardi”, risi alzandomi e lanciandomi verso il suo viso, baciando le sue labbra ancora una volta. Le sue mani intanto toccavano le mie spalle, spingendomi in giù, poi i fianchi per finire ad arrivare a destinazione. Jared, Jared… non sarebbe mai cambiato.
Quel bacio mi stava mandando a morte, togliendomi il respiro, e Jay finì il gioco facendomi venire una miriade di piacevoli brividi appena sentii due sue dita dentro di me. Cazzo.
“Ronnie piace coccole?”, chiese  ridendo sulle mie labbra, senza fermare il bacio. Mi voleva morta, ormai ci avrei giurato.
Con le mani tremanti arrivai al suo petto, quasi graffiandolo. Lui rise, uscì da me, dandomi un attimo di pace, e mi diede il tempo di riprendere fiato.
Ma le mie mani non erano d’accordo su questa pausa e infatti navigarono verso i suoi pantaloni. Bene, niente cintura, qualcosa in meno.
“Ronnie bisogno coccole, no giochi”, rettificai di nuovo facendolo ridere e accarezzandomi ancora la schiena, mentre mi aiutava a togliere di mezzo quei cazzo di pantaloni. Ma dormire in mutande come tutti, no?
Nel frattempo che volarono via anche i boxer, continuai a guardare i  suoi occhi, toccando la sua spalla, muovendo la mano sul suo tatuaggio nuovo, che aveva fatto prima di tornare in tour. Provehito in Altum.
“Ronnie pronta per coccole?”, scherzò di nuovo, baciandomi in fretta per non farmi urlare mentre tornava dentro di me, ma stavolta non con le dita. Scivolai più volte con i piedi sulle coperte, mentre tremavo, completamente presa da brividi. “Oggi non ti si può toccare che ti ecciti subito, demonietto”.
“Prendi poco per il culo, stronzo”, dissi facendogli la linguaccia. Lui si avvicinò ancora di più e mi morse senza farmi male il labbro inferiore, per poi riprendere il controllo della situazione. Perché era così maledettamente bravo a farmi uscire di testa?
Spinse veloce, così da farsi provocare graffi sulle scapole dalle mie dita sulla sua schiena, ma poi rallentò, perché dessi completamente di matto.
Alla fine una sensazione che avevo provato praticamente – e anche teoricamente – solo con lui mi pervase ovunque, lasciandomi sfinita e felice. Jared arrivò un secondo dopo, per poi baciarmi dolcemente e sdraiandosi di nuovo di fianco a me, stavolta con gli occhi aperti che mi fissavano come io avevo fatto con lui prima che si svegliasse.
“Shh, voglio sapere che fanno”, sentii la voce di Shannon vicino al pullman. Cazzo.
“Dai, non fare l’idiota”, scherzò Andy.
Mi alzai di botto, facendo rotolare giù Jared dal letto, e, mentre morivo dal ridere vedendolo nudo e spiaccicato per terra, cercai di prendere più vestiti che potevo. Mi infilai subito l’intimo, mentre passavo al mio ragazzo le sue cose e mi buttai nel letto. Jared si mise i boxer e la maglietta e mi venne di fianco.
“Che cazz...? Che avete fatto alla mia lampada?!”, urlò Andy entrando di fretta. Fiù, c’era mancato pochissimo. “Ronnie! Che avete fatto alla mia lampada?”.
Si piantò davanti al nostro letto e mi prese la coperta, togliendola e facendomi venire un freddo cane. Era giugno sì, ma ero in mutande e reggiseno, cazzo.
“Andy!”, mi lamentai mentre Jared si stiracchiò come solo un attore o un gatto sa fare.
“Non me ne frega niente di quello che possiate aver fatto dalle undici di questa mattina ad ora…”. Undici? Ah ah, bella questa!
“A me frega!”, disse Shannon mentre suo fratello gli diede un pugno su una gamba.
“Ma voglio sapere che cavolo vi ha fatto la mia lampada per essere stata ridotta così!”, finì  Andy come se fosse morto qualcuno. Dio mio, era solo una lampada e in questo momento l’unica cosa che c’era nella mia testa era quello che Jared mi aveva appena fatto passare. Se avessero potuto leggere i miei pensieri si sarebbero schifati entrambi, ne ero certa.
“Non lo so, magari mi sono mossa mentre dormivo e l’ho fatta cadere”, dissi spostandomi tra le coperte per darle una dimostrazione.
“Sì certo, mentre dormivi…”, commentò Shannon, prima che Jared avesse un attacco di chissà cosa e gli saltò addosso, chiudendogli gli occhi.
“Che fai? Sbirci?”, lo accusò mentre il fratello grande se lo levava di dosso e scosse la testa.
“Uno così cretino non l’ho mai visto. Mi spiace Ronnie, ma sinceramente come fai a sopportarlo tutto il tempo?!”, mi chiese facendomi scoppiare a ridere.
“Forza idioti. Vestitevi decentemente che usciamo a mangiare”, finì Andy spingendo fuori Shannon con un sorriso e lasciandoci ancora soli.
“Ma io ho ancora voglia di coccole!”, disse Jared frignando. Gli tirai un cuscino addosso e lui mi prese per la vita, avvicinandomi a sé e mi bacio le scapole, toccando il tatuaggio. No, non poteva farmi di nuovo uscire di testa!
“Seriamente Jay, dobbiamo andare”, cercai di uscire dalle sue grinfie mentre mi teneva ancora ferma. Mi spinsi ancora in avanti e all’improvviso mi lasciò andare, facendomi cadere per terra.
“Questo è per la caduta in acqua di dieci anni fa, McLogan!”, mi disse saltando giù dal letto e andando verso la sua valigia per prendere qualcosa da mettersi addosso.
“Maledetto!”, dissi tirandogli ancora un altro cuscino. Lui rise e s’infilò una maglietta nera e i pantaloni stretti dello stesso colore, con delle piccole cerniere in disordine su di essi. No, aspetta…
“Dimmi che non è un invito a guardare sopra”, gli chiesi ridendo, indicando i suoi polpacci. Dio mio, mente mia dove sei scappata?!
“Che cosa?”, chiese lui voltandosi. Non stava capendo una mazza di quello che gli stavo dicendo e, povero, aveva ragione. Facevo fatica a comprendermi io da sola! Però lui aveva la colpa: non me li aveva fatti vedere agli MMA’s, ecco…
“I tatuaggi a freccia! Non li avevo mai visti”, ridacchiai prima che lui sbuffasse e giustamente evitò di rispondermi, tenendo da conto la sua sanità mentale. Quel giorno ormai la mia era andata a farsi fottere.
Cercando disperatamente di tornare seria, decisi di cominciare a cambiarmi e così mi misi una canottiera leggera verde e una minigonna bianca, con delle AllStar dello stesso colore. Mi legai i capelli in una coda alta e boccolosa e mi truccai un po’.
“E poi mi dici che non mi so controllare! E tutta colpa tua”, mi prese in giro prima di aiutarmi a scendere dalle scalette del bus.
“Se volevi dire: hey, tesoro, stai da Dio oggi, grazie”, lo corressi andando verso i nostri amici. Vicky era un po’ su di giri: aveva visto il Colosseo e i Fori imperiali e le erano piaciute da matti.
Abbracciai la mia nuova e fantastica nuova famiglia e, a braccetto con Vicky che continuava a straparlare di non-so-cosa, andammo alla volta di Roma.
In primis andammo a mangiare. Tomo scovò uno di quei locali carini e molto tradizionali e così decidemmo di fermarci lì. Alcuni di noi ripresero la pizza, visto che così non l’avrebbero mai più assaggiata, mentre persone come me, Vicky o Shannon si diedero ad altri piatti. Quando poi alla fine tutti finimmo di mangiare pagammo il conto e uscimmo per tornare nelle vie di Roma, ammirati da tutti quei capolavori moderni, ma soprattutto antichi.
Mi piaceva da matti quella città, ma sfortunatamente ci ero stata poche volte nella mia vita: a dieci anni, a diciassette in gita con la scuola e l’anno prima in compagnia di Solon per il tour.
“Adesso ti mangia”, scherzò Shannon mentre Tomo infilava la mano, pauroso, nella Bocca della Verità, sperando nel buon vecchio Dio che non gli accadesse nulla di male. E fortunatamente non perse la sua preziosa manina virtuosa. “Cavolo, quasi ci speravo!”.
Vicky fece la linguaccia e Andy si piantò davanti a Tomo, per giocherellare un po’. Così, dopo che scoprimmo che davvero non aveva mai fatto uso di sostanze illegali – Shannon e le sue stupide scommesse idiote – potemmo andare avanti.
Facemmo un sacco di foto davanti alla Fontana di Trevi e Vicky e Tomo buttarono insieme la monetina, sperando che fosse di buon augurio per il matrimonio. Jared invece la lanciò con la promessa di tornare, un giorno, in quel luogo e chiedere la stessa cosa dei primi due. Lo abbracciai e lui mi strinse.
“Ehy, guys! Guardate qui!”, ci chiamò Andy indicando uno spazio pubblicitario. Era la pubblicità di un parco giochi fuori città, specializzato in… montagne russe.
“O. Mio. Dio!”, esultai. Cavolo, io adoravo quei posti. “Dobbiamo andarci! No, per favore, dobbiamo andare!”.
“Concordo, ci divertiremo un mondo!”, mi sostenne Shannon battendomi il cinque.
“Mon… montagne… russe? Quelle alte?”, chiese Tomo rabbrividendo. Oh, il nostro piccolo Tomo aveva paura?
“Sì, tanto alte! Così alte che lo stomaco ti salirà fino in gola, che te le ricorderai a vita e che dopo avrai paura anche a salire su una scala di due gradini!”, lo presi in giro mentre lui si stropicciava la tasca dei pantaloni.
“Così alte e spaventose che non sai mai cosa potrebbe accaderti una volta che sei lì sopra”, lo spaventò ancora di più Jared, cosicché Vicky cercò di farlo calmare. “Magari il tuo cuore potrebbe non reggere o il tuo fegato scoppiare e tutt’ad un tratto… BUM! Tomislav non c’è più, puf!”.
“Puf?”, chiese impaurito. “Io… no, io non ci voglio andare!”
“Tomo?”, chiese Vicky disperata, come se si trovasse a parlare con un bimbo di cinque anni invece che con un uomo adulto. “Sono due cretini quei due. Non devi ascoltarli. Noi andremo da qualche altra parte del parco, tranquillo”.
Lui annuì, non proprio del tutto convinto, e così noi altri esultammo felici. “Deal! Domani giornata di divertimento e… paura, guys!”, disse Andy mentre Shannon prendeva le informazioni importanti da dare all’autista dal cartello per scriverle sul telefono.
“Cavolo, mi dispiace che però Solon non ci sarà, quel brutto pauroso”, commentò Leto Senior.
“Oh, tranquillo, ci penserò io a farlo spaventare per bene domani”, scherzai mentre lui annuiva complice, ridendo, e batteva il cinque contro la mia mano.
“Bene, ora andiamo, dai”, disse Jared prendendo in mano la situazione e portandoci in un posto che avrebbe tirato su di morale quel poveraccio di Tomo. Gelateria artigianale!
E ovviamente lui prese il gusto Puffo, dicendo che gli mancavano i capelli di quel colore. Il solito idiota…
Facemmo ancora qualche giro per la città e poi alle nove e mezza, come il giorno prima, tornammo all’arena, per prepararci allo show. Appena arrivati Vicky e Tomo andarono a sedersi sui divanetti, con anche Andy che scattava qualche foto con la mia nuova fotocamera.
“Allora, tutti pronti?”, chiese Shannon facendo urlare Jared e Tomo, che poi scoppiarono a ridere. “Ronnie?”.
“Prontissima”, dissi respirando forte e sorridendo. Scusandomi andai a cambiarmi, con vestiti più o meno in stile Milano, per poi riuscire e vedere Jared che strimpellava un po’.
Presi il microfono, che mi diede un ragazzo della crew visto che Emma se l’era filata già in America per  affari a quanto aveva detto, e mi preparai a partire.
Mi voltai e Jared mi guardò, per poi strizzarmi l’occhio. Gli fece la linguaccia e uscì sul palco.
“Hi guys! Are you happy if we spend this last twenty minutes together?”, urlai mentre una folla indefinita in un arena aperta gridava con me, facendomi sorridere. Ciao, famiglia.
 
 
Jared
 
“Fuck! That was awesome!”, urlai scendendo dalla giostra su cui Ronnie ci aveva spinto ad entrare. Mi stavo divertendo troppo, cavolo, non avrei avuto più voce a gridare così, e la cosa non era così simpatica.
“Faresti meglio a non urlare, Jay. Già ieri sera mi sembrava che avessi mal di gola”, disse infatti lei, aggrappandosi al mio braccio.
“Non era niente…”.
“Ma se devi ringraziare gli Echelon per non aver fatto un concerto ammutolito? Quei poveri fan italiani si sono beccati un Jared ammalato!”, rise Andy, prendendomi in giro.
“Io sto bene! Cioè, mi brucia un po’ la gola, ma sto bene”, mi lamentai.
“Allora smettila di urlare o non ti faccio più salire con me”, mi minacciò la mia ragazza. Era diventata malefica sul serio in questi dieci anni, eh!
“Va bene, va bene. Sussurro”, compromisi mentre lei sorrideva e mi dava un bacio leggero.
Almeno oggi non c’erano stati paparazzi ed avevamo potuto divertirci senza preoccupazioni. Avevamo potuto stare insieme senza paura di finire su una copertina di gossip. E non andava bene.
“Tomo!”, gridò Shannon ridendo dall’alto della giostra in cui stavamo salendo. Era arrivato prima e ci aveva superati nella fila.
Tomo guardò in alto e vide il mio fratello volare in giro, spintonato in aria, e sgranò gli occhi, impaurendosi. “Non andrete lassù, vero? Dio, non dirmi che andrete lassù, Ronnie! Non voglio partecipare al vostro funerale prima del mio matrimonio!”.
“Tomo… calmati, respira, chiudi gli occhi e stai calmo”, scherzò la mia ragazza. Oh, povera donna. Prima c’era Vicky che dava di matto per il matrimonio ora lui per delle montagne russe! “Non ci succederà niente, tranquillo. Guarda, ci sono anche dei bambini di dodici anni, con lui, che si divertono come matti!”.
“No. Voi non ci salite!”, disse prima che fu il nostro turno e Ronnie lo salutò con la mano, quasi a prenderlo in giro. Shannon scese e andò ad abbracciarlo, ridendo come un matto, mentre noi salimmo sui nostri posti. Andy si mise nel posto davanti, mentre io e Ronnie dietro di lei.
Tre… due… uno… Via!
Lo stomaco mi salì nella gola, senza scherzare, e mi venne un breve conato di vomito per qualche secondo. Appena mi sentii meglio mi voltai verso Ronnie, che si era sporta un po’ in avanti per urlare nell’orecchio di Andy. La sua amica si voltò e le disse un Fuck!, ma purtroppo lo fece appena scattarono la foto.
Ronnie si mise a ridere e si lasciò spingere indietro dall’aria veloce che sbatteva contro di noi. Mosse le gambe, come una bambina, ma cercò di non fare cadere le scarpe, visto che eravamo legati solo per il torace.
Appena finimmo il giro, il semaforo diventò rosso e tornammo sulla terra ferma, lasciando il posto agli altri. Andy camminava un po’ storta, così Shannon – che si era ripreso e già puntava ad un nuovo gioco – la aiutò a mettersi bene in piedi ridendo.
Ronnie invece corse da Vicky e, strattonandola con il braccio, andarono a vedere le foto. Era una delle poche giornate in cui la vedevo così euforica, come se l’accaduto di Milano non fosse mai avvenuto.
“Voi siete matti! Ve lo scordate che io paghi per quella roba! Non ci penso neanche!”, si lamentò Andy appena guardò la foto sui piccoli televisori dietro la cassa.
“Allora pago io. Senti, ci siamo anche io e Jay, e quindi la prendo”, le rinfacciò Ronnie con una linguaccia facendomi ridere. Indicai al commesso la foto e lei disse il numero in quello che credevo fosse italiano e pagò in euro, che aveva cambiato appena eravamo atterrati.
Il telefono di Ronnie suonò all’improvviso e appena notò il mittente della chiamata ci disse di stare muti: era Solon e doveva fargli lo scherzo, con l’aiuto di Shannon.
“Solon! Aiutami, ti prego! Aiuto!”, urlò lei spaventatissima, tanto che sentii io stesso il Ronnie, che cazzo succede? Ronnie?! di Solon.
Lei sbiascicò qualcosa e poi lanciò il telefono a quel dannato di mio fratello. “Solon, Solon, mi senti?”. Un sì, Shannon, che merda succede?, fu la risposta. “Dio, è salita su una giostra ed è caduta! Era difettosa e si è spaccata la gamba destra e il braccio sinistro, credo che abbia anche qualche costola incrinata!”. Bastardo.
Cosa? Merda… dove siete, ancora a Roma? Merda, lo sa che su quelle trappole non ci deve salire!, sentii urlare dal telefono. Ronnie rise senza emettere suoni.
“Sì, lo so, ma non siamo riusciti a fermarla. Abbiamo chiamato l’ambulanza ma non arriverà prima di un quarto d’ora”, lo prese ancora per il culo. Un quarto d’ora? Ma sono coglioni?! No, Shannon non è possibile, richiamali. “Ci ho provato, ma non hanno più disponibili auto d’emergenza… Dio, sta urlando come non so cosa, l’abbiamo fatta sdraiare su un tavolino, ma le fa male”. Passamela! Shannon, passamela!
Shannon rise anche lui silenziosamente e passò il telefono a Ronnie, che sbuffò e tornò seria. “Solon! Solon! Cavolo questo tavolino è di uno scomodo!”. Ronnie, tranquilla, arriveranno. Ti fa male?. “Cosa? I piedi? Sì, non hai idea. Sai, sono qui con i tacchi a ballare sopra un tavolino… quindi sì, un po’ sì! Oh, grazie dei 20 dollari! Una lap dance privata? E perché no?! Solon, ti richiamo!”. Stupida.
Cosa? Lap dance? Ronnie, che cazzo succede?!
“Scherzetto, mio dolce e caro manager!”, scoppiò a ridere. “Scusa, ma volevamo che prendessi un colpo”. Ci sei riuscita, cazzo! Lo sai che ‘ste cose non le devi fare! “Va tutto bene?”. Sì, ma stai attenta! Mi fai preoccupare, lo sai. “Come sei dolce… sì, lo so. Ora andiamo dai, bacioni Solon!”. Ciao pazzoide!
Shannon scoppiò a ridere e, messo via il telefono, andò ad abbracciare Ronnie, che rideva come tutti noi come una pazza. Povero Solon…
“Siamo due geni del crimine!”, sbraitò per poi andarsene. Intanto il commesso disse che tra poco sarebbero state pronte le foto. Bene.
Alla fine Shannon tornò. Si avvicinò a me e, cercando di non farsi sentire da nessuno, mi sussurrò all’orecchio il suo piano, mentre con la mano faceva segno a Tomo.
“Che caldo, ragazzi”, dissi attirando l’attenzione di tutti, anche Ronnie che, presa la foto, la stava mettendo nella borsa a tracolla verde che si era portata.
“Sì, Jared ha ragione!”, continuò Shannon mentre anche gli altri annuivano. “Quasi quasi mi è venuta voglia di un altro gelato come ieri!”.
“Già… prima ho visto che in un bar nel parco vendevano gelati. Non è lontano da qui, possiamo farci un salto”, pensò Andy, tenendoci a sua insaputa il gioco, se tutto andava bene.
“Andiamo allora”, disse Vicky prendendo Tomo. No, questo non andava bene, Vicky tieni le mani a posto!
“Ehm… facciamo una cosa: cominciate andare voi, ragazze. Noi sappiamo dov’è e Shannon aveva visto un negozio e voleva farci vedere una cosa”, dissi mentre mio fratello, bastardo fino in fondo, annuiva e si avvicinava al nostro ignaro amico, che mollò Vicky. “Vi raggiungiamo appena abbiamo finito”.
Ronnie e le altre si guardarono per qualche istante, forse certe che ci saremmo persi, ma poi non rifiutarono. “Per noi va bene, ma state attenti”.
Annuii ridendo, manco avessi dodici anni, e andai nella direzione opposta a quella in cui le ragazze si misero in cammino. Shannon intanto distraeva Tomo ridendo e scherzando, ma non fu più possibile dopo qualche minuto.
Un pinguino gigante occupò la mia visuale sul resto del parco e potevo vedere una giostra molto veloce che gli passava intorno. Pinguini più montagne russe… mio fratello era decisamente sadico, ma non era la prima volta che ‘torturavamo’ Tomo.
“Aiuto! No, che volete fare voi?!”, urlò Tomo appena capì cosa in realtà volevamo fare con lui. Risi e aiutai Shannon a non farlo scappare.
“Dai, Tomo, sarà divertente!”, cercai disperatamente di convincerlo. Cavolo era maledettamente forte, il chitarrista! “Non ti preoccupare”.
“Io lì non ci salgo. No, ho detto di no!”, cercò di uscire dalle nostre grinfie, ma arrivammo all’entrata. Non c’era coda: bene. “Maledetti Leto! Vi avverto, se lo fate lascio la band! Lo faccio, oh sì che lo faccio!”.
“Sì, Tomo, ci crediamo”, disse Shannon mentre lo spinse sui sedili per farlo stare fermo. Mi sedetti di fianco a mio fratello e aspettai che arrivasse il tipo a sistemare le cinture di sicurezza. Appena sistemò Tomo, gli venne una crisi isterica.
“Voglio scendere! Voglio scendere, vi prego, fatemi scendere!”, urlò, ma nessuno gli diede retta. Meno male che eravamo in un paese straniero o in America ci avrebbero arrestato per sequestro di persona.
“Il mondo gelato dei pinguini vi aspetta! Tante avventure insieme e tanti salti nell’oceano ci attendono!”, gracchiò la vocina della giostra, prima di prendere velocità e partire.
Fortunatamente per noi, andava abbastanza veloce e – causa bambini a bordo – i pinguini erano ben visibili per far divertire i piccoli passeggeri. Sfortunatamente per Tomo, entrambi le cose non erano a suo favore.
“Pin… ping… pinguini”, sussurrò Tomo quando, dopo un veloce e, per lui,  traumatizzante giro, la giostra cominciò a rallentare, per fermarsi al punto di partenza. “Io… io vi… io vi odio”.
“Dai, è stato troppo divertente!”, lo prese in giro Shannon staccandosi dalle protezioni e saltando fuori, per lasciare il posto ad altri. Lo imitai e poi tirai su di peso il mio amico, che sembrava in stato di coma perenne.
“Io vi odio”, continuava a sussurrare mentre uscivamo da quel posto e ritornavamo vicino a dove avevamo lasciato le ragazze. Bene, dove aveva detto che ci trovavamo Andy?
“Sì, sì, va bene? Ora possiamo andare? So davvero dov’è il bar”, disse mio fratello salvandoci e guidandoci verso il locale. Tomo camminava piano e storto, con ancora gli occhi sgranati e bloccati dalla paura. Oh, che tragedie per dei pinguini!
“Ragazzi, alleluia! Quanto ci avete me… ehy, che ha Tomo?”, disse Andy venendoci incontro e portandoci al tavolo su cui anche Ronnie e Vicky si erano sedute. Appena Tomo guardò la sua futura moglie lei diede di matto.
“Ok, ve lo scordate che ve lo lascio un’altra volta da solo! Che gli avete fatto?”, urlò mentre Ronnie se la rideva sotto i baffi. Andai vicino a lei e la presi in braccio, per sedermi. Mi fece la linguaccia ma non si spostò di un centimetro.
“Alte… paurose…”, balbettò il chitarrista.
“L’avete mandato su delle montagne russe? Ma che avete nel cervello?”, ci chiese mentre Andy andava ad ordinare un gelato per noi, forse due per Tomo che doveva riprendersi.
“Alte… paurose… pinguini…”.
“Pinguini? Che c’entrano ora i pinguini?”, si stupì, fermando un sorriso – c’era! L’ho visto, ha riso anche lei! – e guardandoci curiosa.
“Era una fottutissima giostra con dei fottutissimi pinguini che apparivano da tutte le parti!”, spiegò Tomo abbracciando Vicky, mentre lei ci dava dei cretini mimando e in realtà sorrideva.
“Lasciali perdere, lo sai che sono dei coglioni”, disse lei abbracciandolo per poi farlo sedere tranquillo, mentre ancora lui ci guardava male.
“Eddai Tomo, perdonaci, non ti sei divertito?!”, chiese Shannon ridendo, quasi a prenderlo in giro.
“Fanculo”, lo apostrofò.
“Ecco qui i vostri gelati”, arrivò Andy dandoci da mangiare. “Ora fate i bravi e zitti”.
Ridemmo e Ronnie si mise seduta comoda sulle mie gambe. “Io vorrei fare un brindisi, anche se non siamo ovviamente ad una cena e con dell’ottimo vino in mano, ma… va bè. A Tomo e Vicky, che possano passare con calma questi ultimi giorni da soli fidanzati e che possano godersi un fantastico matrimonio da qui… all’eternità!”.
Sorrisi e ‘brindai’ con gli altri. “A Tomo e a Vicky”, gioimmo insieme.



...
Note Dell'Autrice:
ecco svelato il mistero. Marco Marchino si è fottuto il cervello! Alè!
Va bè, peggio per lui, noi intanto ridiamo con Tomo! AHHAHAHAHA bella la giostra eh?
E così si arriva al "brindisi".... sappiate solo che il prossimo capitolo...

*spolier*

sarà tratto dal film "Una Notte Da Leoni" sia 1 che 2. Fate vobis le vostre conclusioni! ahhahaa
Bacioni, Ronni02

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Capitolo 25
*** The Hangover ***


Ok, ragazze. Ora, ho scritto questo capitolo prendendo spunto dal film Una Notte Da Leoni (sia 1 che 2; se non li avete mai visti FATELO! ahahah) e spero che sia divertente quanto gli originali. Quindi mettetevi comode, prendete i popcorn e godetevi questi casinisti al loro addio al celibato!
Io ho già detto troppo... do la parola al capitolo :D


 




Capitolo 25. The Hangover

 



 
Ronnie
 
Candia. La città più popolare di Creta. Il tre luglio.
“Questo sì che si può definire un Paradiso!”, urlò Shannon mentre beveva un frappé al cioccolato sulla spiaggia. Risi, mentre controllavo ogni singolo centimetro di sabbia.
Jared era con Tomo, a decidere chissà cosa per la loro notte di addio al celibato, Vicky era con Andy a sistemare le ultime cose pratiche come il vestito. Io e Shannon guardavamo se tutto era al posto giusto nel luogo in cui si sarebbe svolta la cerimonia.
La spiaggia di Candia.
Quei due amavano il mare, Vicky mi aveva sempre detto di sognare un matrimonio in un posto del genere, Tomo ama il calore del sole. Li ho accontentati, facendo capire loro quanto siano importanti per me.
“Eddai, Ronnie! Resta un po’ con me!”, disse Shannon sdraiandosi sulla sabbia quando finì da bere e si mise gli occhiali da sole. Strano che non li avesse già su. “Sono ore che cammini avanti e indietro con in mano il telefono. È un posto da sogno, tutto sarà perfetto dopodomani”.
“Voglio essere sicura che nessuno compia errori. Ricominciamo”, disse mentre lui rideva. Odiava la mia mania alla perfezione e lo sapevo bene. “Vestiti?”.
“Arrivati ieri nel tuo armadio chiuso a chiave per evitare che Tomo sbirci”, rispose pronto.
“Bene. Fiori?”.
“Arrivati stamattina con tutte le altre decorazioni, le sedie, l’altare e il baldacchino di rose bianche sopra di esso”, continuò.
“Bravo!”, risi vedendo che mi stava guardando male. Sapeva che era tutto a posto e preferiva giocare o farsi una nuotata in quel mare da sogno, ma, con gran cuore, se ne stava lì a sopportare me. “Prete?”.
“E’ scappato con la suora!”, mi prese in giro. Gli tirai un mucchio di sabbia. “Dio mio, Ronnie scherzavo! Merda mi è finita sui capelli! Io ti uccido!”.
Detto fatto, il nano bagongo – sì, mi divertivo troppo a chiamarlo così ormai – si alzò e mi venne incontro.
“No, no, no Shannon non ci provare, no!”, scherzai buttando a terra il foglio con la lista di cose da controllare. Mancava solo invitati ma sapevo che avevano accettato tutti. “Shannon! Non ti faccio fare il testimone!”.
“Maledetta! Questa me la paghi!”, disse inseguendomi. Cominciai a correre ma stavolta la furbizia di dieci anni prima era rimasta in America e riuscì a prendermi facilmente.
Mi afferrò dai fianchi e mi tirò su di peso, mettendo sulla sua spalla stile sacco di patate. “No! Shannon cattivo! Shannon cattivo!”.
“Smettila di parlarmi come se avessi due anni. Ora tocca a te la punizione”, scherzò mentre si avvicinava all’acqua. “Uno… due…”.
“No, oddio, Shannon, no!”, urlai prima che lui arrivo al tre e mi lanciò in acqua, molto più lontana di quel che pensassi. Lui e le sue maledette braccia forzute.
Arrivai a toccare il fondo con il sedere e tornai in fretta in superficie, vedendolo tuffarsi e venire contro di me. Il vestito leggero che avevo addosso divenne trasparente e il costume bianco che avevo messo quella mattina per la nuotata di gruppo si inzuppò. Meno male che eravamo abituati ad averlo sempre addosso, restando molto tempo vicini alla spiaggia.
“Io ti odio!”, dissi andandogli vicino a cominciando a schizzargli addosso. Lui rise, si immerse e mi prese dalle gambe, facendomi salire di botto e buttandomi in acqua con la schiena un’altra volta. “Fanculo!”.
“Così impari a provocarmi, bambolina!”, rise allontanandosi.
“Adesso vedi!”, lo minacciai insultandolo e cominciando a giocarci insieme. Era divertente passare un po’ di tempo da sola con lui, senza Jared o gli altri.
Non che mi dispiacesse avere il mio ragazzo attorno, ma a volte mi piaceva gustarmi questa simpatia che caratterizzava così tanto Shannon ma che sfortunatamente poche volte emergeva.
“Dio mio, tu non molli mai!”, si esasperò Shannon mentre tentava disperatamente di farsi una sana nuotata mentre io gli rompevo santamente le scatole. Era il mio lavoro farlo.
“No, no”, lo presi in giro, facendogli la linguaccia. Poi sorrisi e cambiai argomento, cominciando a nuotare con lui seriamente. “Allora dove trascinerete Tomo, stasera?”.
“Non ti impicciare!”, si difese lui ridendo.
“Non dirò niente a Vicky, lo giuro! Tanto lo so che starete qui a far baldoria invece di tornare in albergo a Canea”, li presi in giro.
“Ancora non ho capito perché hai prenotato un albergo a Canea per farti circa mezz’ora di macchina per arrivare qui”, deviò il discorso, ma non ci sarebbe riuscito.
“Perché amo queste due città e non essendoci il tempo per visitarle tutte due, ve le ho mostrate, diciamo con la forza. In più sapevo che non avreste voluto noi fra i piedi”, mi giustificai per la millesima volta.
“Ancora credi che impazziremo? Siamo tre ragazzi occupati ora, siamo diventati seri e responsabili”, scherzò.
“Sai che mi fido di voi; ma, primo, siete dei maschi e non si è mai sicuri al cento per cento quando si ha a che fare con esseri come voi”, incominciai contando sulle dita mentre Shannon scoppiava a ridere mentre faceva una bracciata che valeva quattro delle mie. Fuck. “Secondo, siete dei neofidanzati dopo chissà quanto tempo e anche se Tomo vi dicesse di non fare qualcosa posso stare sicura che non lo ascolterete”, continuai mentre lui diceva qualcosa come grazie della fiducia, eh!. “Terzo, se noi usciamo e vi becchiamo diventerebbe la cosa più triste dell’universo conosciuto e sconosciuto”, riprese mentre lui annuiva, giustamente. “Quarto, è ovvio che impazzirete! Siete ad un addio al celibato! Spero solo che non andrete in strip club troppo osceni…”.
“Mi stupisce l’alta considerazione che hai di noi”, mi rispose ridendo e fermandosi per tornare verso riva. Lo seguii.
“Dimmi che non combinerete guai”, gli chiesi seria. Doveva essere un giorno perfetto, quello del cinque di luglio, e se lo avessero rovinato gli avrei uccisi. “Promettimelo”.
“Ronnie ti prego! È ovvio che faremo i bravi: ci teniamo alla nostra salute”, scherzò. Ma questa era una cosa seria.
“Per favore, Shannon, non voglio avere brutte sorprese e basta. Ho lavorato mesi e mesi per quella giornata e tutto deve andare come dico io”, rincarai la dose. “Giuramelo”.
“Te lo dico, te lo prometto, te lo giuro. Non combineremo guai”, disse serio. Bene.
Io annuii e lui mi sorrise, come a tranquillizzarmi di quello che sarebbe successo. Mi fidai e lasciai perdere. Avrebbero fatto i bravi, che perché se succedeva qualcosa li avrei linciati.
In teoria ormai avrei dovuto saperlo bene. E invece ancora non capivo che di quella razza non bisognava mai fidarsi…
 
 
Jared
 
“Bob!”, chiamai il mio fratellastro per farci vedere, fuori dal bar a cui ci eravamo dati appuntamento. Tutti, in maglietta e pantaloncini – anche io per una volta – per l’addio al celibato del caro Tomislav.
“Ehilà, gente!”, ci disse arrivando da noi e salutandoci tutti. “Allora che si fa stasera?”.
“Niente di così strano, fratello”, cominciò Shannon. “Anche perché quelle ci uccidono se facciamo qualche danno. Stiamo un po’ qui, beviamo qualcosa, e poi facciamo un falò sulla spiaggia magari… ci hanno detto che possiamo”.
“Dio mio… un falò?! Ragazzi, che vi hanno fatto?”, ci prese in giro mentre Tomo ci faceva strada nel bar.
“Non chiedercelo. Non lo sappiamo nemmeno noi”, rise Shannon mentre una cameriera ci indicava il tavolo, mentre faceva l’occhiolino a Bob. Wow…
Appena seduti cominciammo a parlare di un po’ di tutto, del più e del meno e robe varie, così Bob decise di cominciare a ravvivare la serata andando a prendere da bere al bancone.
“Perché hai portato Bob?”, chiese Tomo un po’ scettico. Non è che gli andasse molto a genio.
“Era nei paraggi e l’ho invitato. Stai tranquillo, Tomo, non succederà nulla e domattina tornerai bello che riposato dalla tua futura mogliettina”, dissi calmandolo. “Per stanotte Ronnie ha prenotato una suite in un famoso albergo di qui. Quindi… grazie!”.
“Grazie Ronnie, oh tu che vegli sempre su di noi”, risposero in coro mio fratello e il mio amico. Che pazzi.
“Hai trovato un tesoro, Jared. Quella donna è un demonio, ha la pazzia e la cattiveria in sé… ed è capace di tirarla fuori. Hai trovato un tesoro, amico, hai trovato un tesoro”, mi prese in giro Shannon. Io scossi la testa, sbuffai e guardare il mio fratellastro arrivare, mentre Tomo rideva della battuta.
“Amici miei… pronti a brindare?”, chiese Bob arrivando al tavolo, dandoci tre bicchierini e tenendone uno per sé. Li riempì tutti e prese il suo, alzandolo in aria. “A questa coppia di calmi sposini… che questo addio al celibato non sia il peggiore a cui ho partecipato in tutta la mia vita! Scherzo… a Tomo e Vicky!”.
Tomo sorrise e Shannon mi guardò. Ero più bravo nei discorsi, lui si sarebbe incasinato e non voleva. “Questa sera sia… una fantastica e un po’ pazza notte tra amici, prima che Tomo viva il giorno migliore della sua vita con la sua Vicky”, cominciai facendo fare a Tomo un altro dei suoi dolci sorrisoni. “Alla notte che ricorderemo per sempre. A Tomo e a Vicky!”.
Ridemmo tutti insieme e, con un colpo solo, ognuno bevve la sua porzione di alcol. Così Bob riempì di nuovo i bicchieri e ridendo ci fece bere di nuovo. E di nuovo, e di nuovo, e di nuovo…
 
Aprire gli occhi non era mai stato così faticoso. E così strano… dove cavolo ero?!
Ero abbastanza sicuro che quella fosse la suite che Ronnie aveva prenotato per noi il giorno prima, ma era… completamente distrutta.
“Oh santissima cacca”, sentii borbottare da mio fratello.
Mi voltai e sentii il cervello andare addosso alle pareti craniche della mia testa. Dio, che sbronza! Che cazzo era successo quella notte?
Ero sdraiato sul divano, in boxer e con il tappeto addosso al posto che un comune lenzuolo. Cercai di alzarmi, per trovare qualche segno dei miei vestiti e non lontano da dov’ero li vidi.
Per miracolo mi misi in piedi e li raggiunsi, sperando che non fossero un miraggio, e li indossai. Poi continuai a cercare Shannon.
Era caduto per terra, con la schiena, dietro al divano. Causa: una… palla da bowling?
“Jared… che cavolo…? Dio mio, non mi ricordo niente! Che abbiamo fatto stanotte?”, si preoccupò notando la palla. Ma non era l’unica: poco più lontano, incastrata nel pavimento come se fosse stata lanciata di peso, ce n’era un’altra. Ma la cosa preoccupate era che se fosse filata dritta per terra avrebbe centrato in pieno delle bottiglie di perfetto champagne messe in ordine come dei birilli. Che strike!
“Non ne ho la minima idea! Nemmeno io ricordo qualcosa… com’è possibile, scusa? Abbiamo solo bevuto uno o due bicchierini ieri sera!”, mi passai una mano fra i capelli. Un mugolio mi svegliò dalla mia paura.
Shannon scattò in piedi e, prendendo i suoi occhiali da sole che erano caduti per terra con lui, andò verso la camera di Bob. Dio, Ronnie mi avrebbe ucciso… mezzo capitale per pagare un disastro del genere! Merda, ero fottuto!
“Bob?”, chiesi io mentre vedevo una figura informe tra le lenzuola. L’armadio era completamente aperto e svuotato, i vestiti ovunque… e quella era una bambola gonfiabile con addosso i suoi vestiti?! Che cazzo..?
“Ragazzi! Oh cazzo, che è successo?”, ridacchiò come se fosse una cosa divertente. Merda, merda, merda! “Sarà meglio filarcela da qui”.
“Sì, sì, Jared, Bob  ha ragione, filiamocela e torniamo dalle ragazze, ti prego”, disse Shannon seriamente preoccupato. “Vado a chiamare Tomo e ce ne andiamo!”.
Lui se ne andò, mentre Bob, vestito con un top rosa e i boxer, si alzava dal letto. “Oh cazzo! Che è sta roba?!”, urlò appena notò i suoi vestiti. Risi, quasi senza controllo. Che casino…
“Jared… Jared, non trovo Tomo!”, rientrò Shannon, completamente in crisi. “Ho guardato in tutte le stanze, Jared. Non c’è! Non c’è in nessuna stanza, tutte vuote!”.
“Ok, ok, calmiamoci. Ora andiamo giù al bar, facciamo colazione e facciamo il punto della situazione”, dissi dando dei vestiti decenti a Bob e prendendo il braccio di Shan. “Tu calmo, è un uomo adulto, si sta per sposare. Sarà andato a farsi un giro”.
Shannon annuì e, quando anche l’altro fratello fu pronto, andammo giù al bar per mangiare qualcosa e cercare di far andare il cervello. Ma sfortunatamente, non ne uscì niente di buono…
“Merda! Ma che cazzo è successo stanotte?”, chiese Bob mentre beveva un po’ di succo d’arancia. Shannon stava bevendo un caffè, ma era abbastanza su di giri.
“Ok, cosa ricordate della notte scorsa? Qual è ultimo ricordo che avete?”, chiesi.
“Ehm… il bar, dove abbiamo bevuto un po’”, disse Shannon mentre io prendevo carta e penna e scrivevo. “Saranno state le undici e mezza e ovviamente Tomo era con noi. Poi, siamo andati in spiaggia, ma ricordo solo di aver portato un po’ di legna, non il falò accesso”.
“No, l’abbiamo acceso, sono sicuro”, disse l’altro mio fratello guardandosi la manica della camicia che aveva anche la sera prima. “E lo so perché Tomo ha sbagliato, accendendo il fuoco con la benzina e mi sono bruciato un po’. Però alla fine ha fatto una bella fiammata!”.
“Io non mi ricordo nemmeno più di essere usciti dal bar! Cazzo, mai avuta una sbronza del genere!”, commentai guardando in aria e poi di nuovo il foglio. “Bene, l’ultimo ricordo è all’una e mezza, quando eravamo al falò… quindi abbiamo nove ore in cui potremmo averlo perso… cazzo!”.
“Ehi, Jay… Ronnie fa dei bei succhiotti, devo dire, eh!”, scherzò Bob, non guardando la gravità della situazione. No, che? “Qui, sul collo, sei tutto rosso”.
“Merda, questo non è un fottuto succhiotto, cretino!”, commentò Shannon guardando meglio. “E’ una reazione allergica. Vuol dire che siamo stati vicino a quel maledetto fiore”.
“No, non è possibile”, cercai di toccarmi il punto infetto. Sentivo la pelle ruvida e pulsante. Merda. “Non mi ricordo mai come si chiama: solo che è un maledetto fiore che molti mettono in casa per abbellire le stanze…”.
“Il fiore!”, esultò Shannon. “Jared, ieri sera siamo andati da qualche altra parte dopo il falò! Guarda qui”, disse tirando fuori qualcosa dalla sua tasca. Un biglietto da visita una discoteca del luogo. “Ricordo le luci, e tu che guardavi quel fiore… nient’ altro”.
“Ok, allora andiamo a vedere se troviamo Tomo, tentar non nuoce”, dissi mordendo l’ultimo pezzo di brioche e alzandomi. Gli altri due mi seguirono ed uscimmo da quell’albergo. 
  Cominciammo a camminare per le strade della città, cercando la via che, in greco, era scritta sul cartellino che Shannon aveva trovato in tasca… tasca. Le tasche!
“Ragazzi, guardate nelle tasche se trovate qualcosa di utile, anche nei telefoni! Che so, numeri nuovi, messaggi o chiamate”, dissi facendoli annuire. Niente: le mie tasche erano vuote, c’era stata una chiamata persa di Ronnie di questa mattina. Shannon oltre al biglietto trovò un po’ di sabbia – derivante forse dal falò – e qualche spicciolo, nel telefono niente di niente.
“Guardate qui!”, ci disse dandoci uno scontrino. Pagamento di alcolici e giochi d’azzardo ad un hotel del centro. “Come ci siamo finiti? Dio, chissà se abbiamo vinto qualcosa”.
“Bene, vorrà dire che passeremo anche lì più tardi… eccola qua!”, indicò Shannon. In inglese, stando al cartello luminoso di fianco all’entrata, doveva intitolarsi Notte da Leoni. Come prenderci per il culo, grazie!
“Entriamo?”, chiese Bob, quasi scettico.
“Dobbiamo”, dissi aprendo la porta, mentre le luci si fecero completamente buie, tranne per quelle intermittenti colorate e la musica a palla. Davanti a noi, in fondo al locale, e ai lati c’erano dei cubi dove le ballerine si muovevano sensuali. Un woo di Bob mi fece innervosire.
“My men!”, mi venne addosso un uomo, abbracciandomi. What the fuck?! “Ti sono mancato? Eh, volete divertirvi ancora? Jackie vi è mancato?”.
“Wait, wait. Tu ci conosci?”, chiese Shannon mentre abbracciava anche lui e poi passava a Bob, come se fossimo suoi amici d’infanzia.
“Ok, è ovvio che siamo stati qui stanotte, Jackie”, continuai mentre l’uomo rideva e picchiava la mia spalla. Ma che era, fumato? “Ci puoi spiegare che è successo? Ti ricordi se c’era qualcuno con noi?”.
“Ragazzi, voi siete le persone più pazze, ma più pazze che ho mai incontrato!”, rise ancora portandoci in mezzo alla pista, dove ancora un sacco di gente ballava. “Voi avete fatto festa grande ieri sera! Tanto divertimento verso le tre di notte. E sì, c’era anche un altro ragazzo con voi: alto come una montagna, barba e capelli lunghi e neri come Santo Signore nostro”.
“Ok, è Tomo”, ridacchiò Bob adocchiando qualche ragazza che gli faceva l’occhiolino mentre si strusciava su quei cazzo di pali.
“Già… è qui?”.
“Qui? Davvero non lo ricordate?”, ci disse l’uomo, Jackie.
“No, non ricordiamo nulla!”, spiegò Shannon. “Non lo troviamo più, ci puoi spiegare qualcosa? Che abbiamo fatto qui?”.
“Venite con me, Karol vi spiegherà tutto”, continuò allora ridendo, portandoci di nuovo lontano dalla pista, verso la sorta di backstage, o i camerini delle ragazze.
“Karol?”, chiese Bob mentre entravamo nella piccola stanza piena di specchi e armadietti, dove una dozzina di ragazze vestite succinte si preparavano a salire sul ‘palco’ per ballare.
“Lei è Karol!”, disse Jackie piantandoci davanti ad una biondina tinta sui vent’anni, con gli occhi scuri e la pelle abbronzata.
“Oh, volete divertirvi ancora un po’?”, chiese la ragazza con un pessimo accento inglese, venendo verso di me. No, che voleva dire?
“Karol, carissima… ci puoi dire che abbiamo combinato stanotte?”, chiese Bob abbracciandola sulle spalle. Aveva ragione Tomo; perché me l’ero portato dietro?!
“Mi prendete in giro?”, rise lei. Ma perché qui tutti sembravano divertirsi a scherzare su di noi? “Avete fatto baldoria, cari miei. Così tanta baldoria che non avevo mai visto gente così svitata!”. Grazie. “E poi, avete pagato per tre lap dance con me, nell’altra stanza, all’opposto di questa”.
“Lap… lap dance?”, chiesi balbettando. No, non poteva essere successo di nuovo! No! Ronnie mi avrebbe ucciso, mi avrebbe bandito per sempre, mi avrebbe fatto stare lontano mille miglia da lei, stavolta.
“Sì. Tu dicevi di sentirti tanto solo e bisognoso di coccole, ma alla fine solo guardato me. No toccata, anche se non mi sarebbe dispiaciuto, sai?”, disse sorridendo. Oh, santissimo Dio che sei nel cielo, sia grazia!
“Quindi… non è successo nulla di male, no? Cioè, tu sei bellissima, non fraintendermi, ma, ecco..”, balbettò Shannon, anche lui preoccupato.
“Tu sei stato tanto dolce, chiamato me in modo strano e mi hai anche chiesto di sposarmi!”, disse allegramente mentre Shannon sgranava gli occhi e quasi non sveniva. “Ma sapevo che era tutto uno scherzo. Si vedeva che eravate tutti, tutti, tutti fuori! Fuori come balcone!”.
“Bene”, sussurrò Shannon poggiando una mano sulla mia spalla, come a voler conforto. C’era mancato un pelo…
“Però voi guardato me mentre mi divertivo con vostro amico”, continuò prima che Shannon sputasse il caffè che aveva bevuto quella mattina.
“Il nostro amico?!”, urlò. “Nostro amico… Tomo?”.
“No, l’uomo orso restato lì con voi a bere. Io parlavo di lui”, disse indicando Bob, che sorrideva con un eh eh, ci so fare. Coglione. “Tanto bravo a fare uscire di testa Karol! Tu fatto anche video”, indicò Shannon che quasi non si sotterrò. “Ma obbligato a cancellarlo. Jackie non ammette certe cose qui”.
“Fa bene!”, sussurrò Shannon. Io risi e Bob continuò a riprovarci con la biondina.
“Ok, Karol, grazie del racconto. Ma non troviamo il nostro amico, ti ricordi se ti abbiamo detto qualcosa su cosa dovevamo fare o su dove saremmo andati, usciti di qui?”, chiesi.
“No, mi dispiace”, disse mentre il proprietario, il tipo di prima, la chiamò al rapporto. “Ora devo andare, è il mio turno”. Si controllò il rossetto allo specchio, schioccò le labbra e sorrise, andando verso l’uomo, mettendosi in fila con le altre e uscendo dalla stanza.
“Grazie dell’aiuto”, dicemmo a Jackie, quando ci fece strada per uscire. “Almeno ora sappiamo che alle tre Tomo era con noi sano e salvo”.
Lui ci salutò e noi tornammo per strada. E ora?
“Jared!”, urlò Bob facendomi voltare. Un coltello mi sfiorò il braccio e si conficcò sull’insegna del locale. Che cazzo?!
Mi girai di nuovo verso chi l’aveva lanciato e mi sembrò di ritornare sul set di Hurricane, solo che stavolta era vero.
Due uomini abbastanza cicciottelli, con il viso coperto e delle pistole in mano, erano davanti a noi. Merda, e chi erano quelli?!
“Φέρτε μου τα λεφτά μου πίσω”, urlò uno con tono scontroso. Che?
“Scusa, amico, non ti capisco, che hai detto?”, chiese Bob avvicinandosi. Il tipo gli puntò la pistola addosso così alzò le braccia e non parò più.
“Bring me my money back! Now!” , urlò in inglese, stavolta. I soldi? Che soldi? Chi cavolo erano loro?
“Ehy, amico, calma, possiamo sistemare tutto, ok?”, cercò di calmarli Shannon, stranamente calmo. Da quando ci eravamo svegliati era un onda di irritazione negatività che camminava di fianco a noi.
“No calma! Soldi, voglio i miei soldi!”, continuò ad urlare mentre l’altro ci puntava. Ma che era, una mania?
“Che soldi?”, chiese ancora ma il tipo non gli diede retta.
“Ok, calmiamoci o voi non riavrete indietro niente e la situazione non si sistemerà mai”, dissi io mentre loro continuavano ad urlare. Fanculo, ero Jared Leto, cantavo davanti ad una folla immensa, potevo fare qualsiasi cosa. “Noi non ricordiamo niente della notte scorsa. Se ci dite esattamente che volete, riavrete indietro tutto ciò che ci chiedete”.
Il tipo che urlava la smise, guardando  il suo compagno, che mise via la pistola e ci guardò come un mafioso. Rabbrividì, mi faceva davvero paura tutta questa storia.
“Vi abbiamo incontrati stanotte alle quattro, eravate così fuori, ma avete giocato bene. Il casinò di Candia vi è debitore, abbiamo vinto novanta mila dollari americani”, disse serio l’uomo che aveva le pistole. Casinò di Candia?
“Bè, è una cosa buona, no?”, chiese Bob scioccato. Porca vacca, novanta mila dollari non erano mica da buttare!
“Certo… ma voi avete regalato tutto a me come regalo di amicizia. Io ero felice di questo, eravate tanto simpatici, ma poi voi siete scappati via con i miei soldi. Questo non piace a Lon Devis”, continuò. Ops.
“Scappati? No, non è nel nostro stile, bello!”, rise Bob mentre il tipo ricominciava ad urlare. O merda, okay, okay, calma.
“Va bene, eravamo fatti ieri sera, ci dispiace”, continuai attirando l’attenzione di quello che ci aveva spiegato la situazione. Era lui Lon Devis? “Vi ridaremo i soldi, tranquilli. Lasciateceli prendere”.
“Rivolete il vostro amico? Ci vediamo domattina nel retro del casinò”, aggiunse annuendo. Shannon sgranò gli occhi. Aveva Tomo?
“Avete Tomo?”, urlai. “Allora perché aspettate domattina, facciamo ora! Vi prego, lasciatelo andare!”.
“Ora Lon Devis ha affari da completare”, ci spiegò calmo. Dio, c’era in ballo una vita non un pupazzo! Rivolevo il mio amico, ora! “E il vostro compagno sta bene… ci si vede domattina. E se non avete i soldi, il coltello non vi sfiorerà più soltanto…”.
Detto questo si voltarono, tranquilli, verso una macchina che non avevo notato, all’oscuro. Entrarono e sgasarono, per poi ripartire a tutta velocità, quasi investendo Bob, che saltò in aria per evitarli.
“O merda! Merda!”, urlò Shannon, di nuovo nervoso. “Jared, dove cazzo li troviamo novanta mila dollari? Dal nostro conto? Sì, certo, già la casa discografica ci odia, già le ragazze ci uccideranno per aver perso Tomo, ora buttiamo via una montagna di soldi! Che cazzo è successo, ieri sera, merda?!”.
“Shannon, calmati, un modo lo troveremo, dai”, cercai di calmarlo. “E non ho idea di quello che abbiamo fatto, ma sistemeremo ogni cosa, abbiamo una giornata intera”.
“Vi va uno spuntino? Ci aiuterà a ragionare”, disse Bob facendomi annuire. Sorrisi a mio fratello e cercai di muoverlo, per farlo poi camminare per inerzia dietro di me.
Tomo, dove cavolo sei finito per farti rapire?!
Vagando un po’ per le strade greche alla fine trovammo un fast food nei paraggi. Avevamo mangiato cucina tipica già da troppo tempo, mi serviva qualcosa di americano per rimanere lucido.
“Due hamburger con carne, bacon e salse, più uno vegetariano, grazie”, ordinò Bob quando fummo in cassa. Pagammo subito e, appena arrivò il vassoio cercammo un posto vicino alla finestra per sederci.
“Non ci posso credere… è totalmente assurdo. E cosa diciamo stasera alle ragazze? ‘Mi spiace ma abbiamo perso tuo futuro marito e domani mattina forse, se rapiniamo una banca, lo ritroviamo. E’ meglio che non ti prepari, non sarei così sicuro che tu possa sposarti oggi’. Siamo nella merda, Jay”, sottolineò Shannon, come se non lo sapessi. “Nella più totale merda”.
“Sto solo cercando di capire come può essere possibile…”, dissi mentre mio fratello di sangue poggiava la testa sulle braccia, stanco morto. Ehi… “Shan, quello è… oddio, Shan quello è un braccialetto dell’ospedale di Candia!”.
“Che?”, chiese alzandosi, con gli occhi socchiusi. Gli indicai il braccio e lui vide cosa intendevo. “Dio… cazzo… che mi è successo?”.
“Stai bene?”, chiese Bob.
“Certo, coglione che sto bene! Non sono io che sono stato rapito da due pazzi!”, rispose arrabbiato.
“Ok, calma voi due. Shannon sta calmo, lo salveremo, lo so. Bob, ci può portare di sicuro ad un indizio. Non ai soldi, ma a qualcosa di sicuro… e poi scopriremo che cavolo è successo stanotte per finire all’ospedale”.
Bob annuì e così uscimmo tutti per dirigerci verso l’ospedale. Non fu tanto difficile trovare la strada, si capivano abbastanza bene le indicazioni che i poveracci tentavano di darci con il loro strano inglese.
Entrammo e ci mandarono da un dottore dal cognome incomprensibile e per me impronunciabile. Beato lui che lo sapeva dire!
“Mister Leto, arrivato qui alle cinque del mattino con mal di testa, cicatrici e un piccolo trauma cranico, ma tutto regolare”, ci spiegò in fretta, quasi a volerci mandar via, quando lo trovammo.
“Non sa dirci nulla di più? In quanti eravamo? Che dicevamo?”, chiese Bob. Il dottore scosse la testa ma un bigliettone da cento dollari gli passò sotto gli occhi. Ci pensò e poi, sconfitto, lo prese.
“In effetti eravate tutti abbastanza fuori e soprattutto c’era un ragazzo in più”, ci confermò. Allora a che ora avevano preso Tomo, quei pazzi?
“E lui che…”.
“Non mi frega un cazzo di chi vuoi cerchiate e nemmeno perché. In più non mi stupisco più di tanto. È ovvio che non ricordiate nulla. Negli esami del sangue del signor Leto abbiamo trovato del Ruphilyn”, continuò. “E’ una droga diffusa, fa perdere la memoria e ti fa fare pazzie, viene detta anche droga dello stupro”.
“Droga dello stupro? Che… che… e che significa questo, mi scusi?”, si preoccupò Shannon.
“Nulla, non abbiamo trovato nulla che potesse portarci ad un vero stupro, si calmi. Ma qualcuno vi ha drogati. Non so come, non so quando, ma vi ha drogati”, disse alla fine, voltandosi. Poi però, per un secondo, si girò ancora. “Oh, dicevate di voler andare in spiaggia a buttare qualche regalo”.
“A buttare qualche regalo? O santissimo Signore, i soldi!”, disse Shannon urlandomi in faccia. Sì, l’avevo capito anche da solo, non serviva fare queste cose.
“Grazie, dottore”, urlò Bob prima che lo trascinammo fuori dall’ospedale, per poi correre fuori in direzione della spiaggia. Non potevamo realmente essere così stupidi da aver buttato via novanta mila dollari!
Arrivammo con il fiatone, ma arrivammo e subito ci mettemmo a cercare in qualsiasi punto per trovare qualcosa. ma ovviamente ogni granello di sabbia nascondeva solo un altro granello di sabbia e verso le tre e mezza di pomeriggio ancora non sapevamo cosa fare.
“Guardate qui”, ci chiamò Shannon.
“L’hai trovato?”, dissi andandogli vicino di corsa. Ma non aveva nulla in mano che somigliassero a novanta mila dollari.
 “No, ma… ora sappiamo che sta gelando tra quei fottuti pistoleri e che non si sposerà”, mi rispose con un tono tombale. Davanti a lui, per terra, c’era la giacca di pelle di Tomo – forse l’aveva lasciata lì dopo il falò – e il cartello con la scritta ‘Il giorno 5 luglio la spiaggia sarà occupata e non disponibile per una celebrazione religiosa. Grazie’. L’avevano messo i vigili quando il prete li aveva avvisati che il matrimonio si sarebbe svolto su luogo pubblico. Nessun problema, in fondo la spiaggia era immensa e quel tanto bastava. “Cavolo, Jay, ancora non capisco come è potuto succedere! Chi cazzo può averci drogato?”.
“Mi dispiace, non volevo, ragazzi”, borbottò Bob dietro di noi. Insieme, scioccati, io e Shannon ci voltammo a bocca aperta. Cosa?
“Tu cosa?”, trasformò i miei pensieri in realtà Shannon.
“Sapete, quando sono andato a prendere da bere io… ecco… insomma, non pensavo fosse quella roba, non pensavo di dimenticare tutto e fare questo casino, volevo solo farci divertire un po’! Volevate fare un falò! Voglio dire: un falò. Ad un addio al celibato”, cercò scuse mentre Shannon fremeva.
“Quindi ci hai drogato?”, urlò. “Sei un fottuto coglione, Bob! Cazzo, guarda che hai combinato! Abbiamo perso Tomo, potrebbe non sposarsi, domani!”.
“E’ stato solo un’incidente…”.
“Ecco perché non volevamo fare niente di particolare, Bob, ma solo una birra ed un falò. Perché è ora di mettere la testa a posto! Sai cosa sarebbe successo se io o Shannon avessimo fatto porcate con quella cazzo di troia che per fortuna ti sei fatto solo tu? O se l’avesse fatto Tomo? Ora saremmo in mezzo alla strada, con un’ordinanza di stare lontani da loro per almeno cinquanta chilometri!”, dissi disperato. Che cavolo di idea gli era venuta? “E’ questione di priorità di vita, Bob, e ora la mia priorità, la nostra priorità, non è bere, divertirci e cazzeggiare. Ora la nostra priorità è vivere meglio che posso, finalmente, con la ragazza che amo. Chiamami coglione, a me non mi frega niente”.
“Mi dispiace, ragazzi, io non volevo…”, disse cercando scuse.
“Ora è inutile, Bob, tutti commettiamo cazzate. Solo che stavolta abbiamo perso Tomo e dobbiamo recuperare novanta mila dollari per liberarlo entro domattina. Diamoci da fare”, dissi prendendo la giacca di Tomo e girandomi, verso l’uscita della spiaggia.
“Aspettate, ho un’idea!”, ripartì il mio fratellastro. “Ok non guardatemi così… stavolta è buona!”.
“Ok, sentiamo quest’idea. Ormai sono le quattro del pomeriggio, siamo in uno stato disperato”, ripose Shannon, ritornato abbastanza normale. Abbastanza.
“Abbiamo vinto novanta mila dollari una volta…”, cominciò attirando la mia attenzione. “Che cosa costa riprovare? Contare le carte nel Blackjack è un modo infallibile”.
“E illegale”, ritornò all’attacco Shannon. “Ci vuoi proprio mandare in galera?”.
“Sarà fin troppo facile”, sorrise lui, non promettendo nulla di buono.
Alla fine, fidandoci maledettamente di quel piano, aspettammo la sera, ci preparammo e tornammo, chiedendo la strada, al casinò più grande di Candia.
Entrammo senza che nessuno ci disse nulla e puntammo al tavolo da Blackjack. Prima Bob e Shannon, sedendosi e cominciando un po’ a giocare. Poi, quando lui cominciava a guadagnare, arrivai io.
“Posso giocare?”, chiesi mentre l’uomo dall’altro capo del tavolo annuì. “Perfetto. Ora si gioca. Attenzione, gente, forse è meglio che torniate a casa”. Scena, ovviamente.
Il gioco ripartì e in poco tempo Bob – con qualche strana legge del mondo – cominciò a guadagnare sempre di più, sempre di più, fino a fare insospettire qualcuno. Io intanto li distraevo facendo l’idiota nel gioco o provandoci con qualche ragazza che perdeva.
Ma alla fine qualcuno venne a controllare così partì la sceneggiata: meno male che facevo l’attore.
“Oddio!”, urlai.
“Si sente bene, signore?”, chiese l’uomo che dava le carte. Bene, ha abboccato!
Boccheggiai un po’, tenendomi la mano sul cuore, per poi lasciarmi scivolare giù dalla sedia come se avessi un infarto. Sentii i passi che si avvicinavano a me.
“Signore, signore!”. Era il tipo che stava per controllare. “Ora chiamate l’ambulanza, io…”.
“No, si fermi”, disse Shannon. Sentivo i suoi passi arrivare. “Mi dispiace ma devo interromperla. Non serve l’ambulanza, sono un medico e dico che quest’uomo ha solo bisogno un attimo di attenzione. Ecco, si fermi qui. Vede, già muove gli occhi. Dove va, resti, deve capire che il mondo attorno a lui va tutto alla grande!”.
Che cazzata, volevo ridergli in faccia!
Ma ovviamente non potevo, così, piano piano, aprii gli occhi, respirano prima affannato e poi più regolarmente, prima che Shannon si guardò indietro e annuì. “Oh, si sente meglio? Facciamo una cosa, visto che il signore qui non è sicuro, la porto all’ospedale qui vicino, ok? Bene, andiamo”.
Mi prese a braccetto e, con un passo piuttosto spedito, riuscimmo ad uscire dal casinò abbastanza in fretta. Passando ancora una volta totalmente indisturbati davanti ai buttafuori.
Tra gli alberi del giardino, c’era Bob, che contava i soldi velocemente, più volte.
“Allora?”, chiedemmo mentre lui rideva, ci abbracciava e camminava in avanti, allontanandosi da quel posto.
“E’ salvo”, ci mostrò il denaro. “Novanta mila dollari e seicento, belli miei!”.
“Tu sei un genio!”, gridammo, tornando verso l’hotel in cui eravamo stati quella notte. Visto che la suite era stata messa in sistemazione, chissà perché, prenotammo a nome Leto una piccola stanza che avremmo diviso. Meglio non prenotare a nome McLogan, o ci avrebbero fucilato.
A proposito, ormai il mio BB aveva più chiamate e messaggi di Ronnie che mie foto, ma per ora evitai di chiamarla. Mi avrebbe ucciso, ma era meglio prima prendere Tomo, portarlo al sicuro.
E così, grazie a Bob – in parte – quella notte dormì tranquillo, senza essere drogato. Avremmo trovato Tomo,  ne ero certo.
“Jared!”, mi svegliò Shannon alle cinque e mezzo della mattina. Che cazzo? Di già?
“Muovi il culo, Tomo ci aspetta!”, mi fece alzare. Ci cambiammo, dopo aver svegliato anche Bob, prendemmo i soldi e uscimmo, pagando il conto della stanza subito. Niente colazione, Tomo ci aspettava.
Infatti tornammo ancora una volta al casinò, camminando fino al retro e ritrovando l’auto del giorno prima. Appena arrivammo i due uomini scesero dall’auto.
“Lon Devis vuole liberare il loro amico”, disse il pistolero, lasciando che quello che ci aveva urlato addosso stesse zitto. Alcuni scagnozzi aprirono la portiera, ma nessuno uscì. “Prima soldi”.
Guardai Shannon, ma lui evitò il mio sguardo. Non gli fregava niente, voleva solo Tomo indietro, come me alla fine. Avevamo paura per lui… doveva tornare a casa.
Bob mugugnò qualcosa ma Shannon lanciò i soldi al pistolero, che li afferrò e controllò la cifra.
Ma ad un tratto ci sorrise… e scappò via. “Voi rubato me, io rubato voi! Non ho il vostro stupido amico, ma ora ho di nuovo i miei dollari!”.
Di fretta, prima che potessimo fare qualcosa, salirono tutti in auto e curvarono per andarsene, mentre alcuni spari vennero verso di noi. Di nuovo, Bob fu sfiorato da una pallottola, ma non lo colpì.
“Merda!”, urlò Shannon. “Cazzo, e ora? Ora che si fa, ricominciamo da capo?”.
“Non lo so… Shannon, io…”.
“Io chiamo Ronnie. Basta, è ora di dirle tutto. Dammi il telefono”, s’intestardì. Ma aveva ragione e così gli passai il mio Blackberry e lui fece il numero, attendendo che lei rispondesse.
“Lo troveremo, Jared. Magari rimanderanno il matrimonio, ma lo troveremo”, mi consolò Bob, mettendomi una mano sulla spalla.
La mano sulla spalla… questo non è un fottuto succhiotto, è quel maledetto fiore!, il fiore, ricordo che stavi annusando il fioreMatti come balcone.
Matti come… i fiori erano sul…
“SHAN!”, urlai saltandogli praticamente addosso. Gli presi il telefono e sentii forte e chiaro un suo ‘che cazzo?’ e un ‘che cazzo succede, idioti?’ di Ronnie al telefono. “Amore! Chi si sente!”.
“Amore un cazzo. Che vuol dire, non troviamo Tomo?”, chiese. Oh, sì, era incazzata. E tanto.
“Che era tutto un gioco. Stai tranquilla: ci hanno offerto una notte in più all’hotel e così volevamo riposare, ma senza infastidirti. In più Shannon aveva messo il mio telefono in silenzioso. Cattivo Shannon”, dissi scusandomi mimicamente con lui, che non ci capiva più niente, ovviamente. “So che il matrimonio sarà tra due ore, quindi tranquilla, ci saremo. Porta i vestiti all’hotel, portali a mio nome. Saremo lì a momenti!”.
“Sono già all’hotel con i vestiti. Lasciamo stare, te li hanno messi via a tuo nome, va bene. Guarda che se arrivate in ritardo, io giuro che ti uccido. Vicky è fuori di sé!”, mi avvertì buttando giù la chiamata. Sorrisi, adorandola, e misi il telefono in tasca.
“Mi spieghi che cazzo vuoi fare? Non c’è Tomo!”, urlò Shannon mentre era arrivato anche Bob a sentire.
“So dov’è, Shan!”, lo fermai sorridendo, esaltato. “E’ sul balcone! È sul balcone!”. Risi, quasi senza controllo, mentre lo tiravo su in piedi, incamminandoci verso l’hotel. “Non capisci? Quella ragazza diceva che eravamo fuori come dei balconi! E quel fiore era sul balcone della nostra stanza”.
“Cosa… e secondo te lo troveremo sul balcone della suite che abbiamo distrutto?”, chiese Bob un po’ sospettoso.  
“C’è un unico modo per scoprirlo”, continuai quasi in tono di sfida.
“Muoviti!”, riprese Shannon cominciando a correre, facendosi inseguire da me e Bob.
Ci mettemmo qualche minuto, andando più veloci che potevamo, ma alla fine arrivammo all’hotel. Di corsa entrammo nella hall, dove la portinaia ci riconobbe all’istante, anche se non credo fosse una cosa positiva.
Prendemmo i vestiti che Ronnie ci aveva portato e, pregando la segretaria per qualche minuto, ottenemmo le chiavi per la vecchia stanza, salendo di corsa. Entrammo, e ci fiondammo a controllare tutti i balconi, ogni singola mattonella.
“Tomo!”, urlai sfinito, sorridendo, quando lo vidi, sdraiato per terra, accaldato, ma all’ombra. Sì, era proprio lui, e stava bene. “E’ qui”.
Arrivarono anche gli altri in fretta, chiedendogli come stava e facendolo sorridere un po’. Lo aiutammo ad alzarsi e cominciò a parlare: “Che giorno è? Che è successo? Io mi devo sposare!”.
“Ehm, sì e sei anche un po’ in ritardo”, sorrisi io mentre lui scattava come un omicida, fermato dai miei fratelloni. “Eh calmo, è tutto a posto, Tomo. Ora cambiati, Vicky ti aspetta!”.
Alla fine mi sorrise, sorrise a tutti. E tutti noi ricambiammo. Ce l’avevamo fatta. Era davanti a noi, sano e salvo.
E pronto a sposarsi!



...
Nota dell'Autrice: Bene ragazzi, direi che Bob si merita una sculacciata! (?)
ahahha comunque vi è piaciuto? spero di sì perchè ci ho messo una vita a pensare a tutti gli indizi :)

Direi che non c'è altro da dire, visto che in questo capitolo perdono solo Tomo :D 
Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 26
*** With you, forever ***


Salve dolcezze. Perdonatemi il ritardo, but it's not my fault. Prendetevela con quelle gentilissime persone quanto odiose dei miei carissimi genitori (se non avete letto il sarcasmo... leggetelo xD)
Sì, non si nota che sono arrabbiata.... ANYWAY
questo post non è per deprimervi con i miei innumerevoli problemi famigliari (chiediamoci poi perchè Ronnie odia così tanto i suoi...) MA, per aggiornare.
Eravamo arrivati al matrimonio di Mr. Milicevic, quindi.... CONGRATULAZIONI!
Buona lettura :)





Capitolo 26. With you, forever




 
 
Jared
 
Eravamo pronti, vestiti, pettinati e lavati. Peccato che eravamo già venti minuti in ritardo e, per la quarta volta, Ronnie aveva chiamato per urlarci addosso. Ora era toccato a Shannon calmarla, io l’avevo già fatto due volte e ora ero occupato a sistemarmi lo smoking.
Tomo era perfetto.
Perfetto vestito, perfetti capelli, perfetta calma. Più o meno, visto che qualche volta aveva ancora un istinto omicida e ci attaccava assassino.
“Jared…”, cominciò e mi impaurii.
“Non mi uccidere, ti supplico, non è stata colpa mia: uccidi Bob!”, pregai mentre il mio fratellastro sgranava gli occhi. Tomo rise, il che alla fine mi tranquillizzò, ma aveva una nota nervosa. “Che succede?”.
“Ho un po’ paura”, confessò. “Ovvio no? Uno suona davanti a migliaia di persone per centinaia di volte e poi alla fine ha il terrore di vedersi la sua fidanzata venirgli incontro vestita di bianco”.
Il destino ironico. Sì, ne sapevo qualcosa.
“Tomo, la ami?”, chiesi.
“Sì certo, perché me lo dici?”.
“Vuoi davvero sposarla? Sei sicuro?”, sottolineai l’ultima domanda, cercando di farlo pensare. Non volevo che mi dicesse di no, non volevo che mi dicesse subito di sì. Volevo qualcosa di profondo.
“Io…”, balbettò all’inizio. “Credo di sì, Jay. Sì, voglio davvero sposarla. Io la amo, è giusto, e voglio farlo”.
“Allora fallo”, sorrisi io abbracciandolo. “Pensa a quello che vuoi, Tomo. Non a quello che possono pensare gli altri. Pensa a te… e ora pensa anche  a Vicky”.
“Andiamo. Sono pronto”, sorrise mentre Bob si infilava le scarpe, io mi sistemai i capelli e Shannon avvisò la mia ragazza – un mostro che ci comandava a bacchetta – che saremmo arrivati a momenti. Tomo sospirò profondamente e uscimmo dalla stanza, dirigendoci verso la spiaggia, che distava solo una decina di minuti.
“Tu! Sei un bastardo figlio di puttana!”, mi spinsero contro Ronnie mentre ci avvicinammo alla battigia. Tutto era pronto, gli invitati si erano girati e ora sorridevano. Riconobbi anche Ivana, la sorella di Tomo, vestita in un elegante vestito lungo, blu elettrico, senza spalline. Ottimo lavoro Ronnie.
Mancava solo Vicky.
“Mi dispiace, davvero!”, dissi abbracciandola di colpo e stringendola forte, in modo da non permetterle di scappare. “E mi sei mancata da morire! Se ci fossi stata tu ci avremmo messo un attimo a ritrovarlo”.
“Sì sì, bla bla bla!”, disse spingendosi via, così la lasciai andare, ridendo. Si voltò verso lo sposo. “Stai bene? Sì, certo che stai bene. Forza, andiamo. Tu mettiti lì, voi al suo lato. Dall’altro lato c’è già Andy, io entro con Vicky e suo padre, quindi vado a mettermi veloce il vestito. Veloci!”.
Mi diede un veloce bacio sulle labbra, per poi sorridermi e farci camminare verso l’altare, sulla spiaggia mattutina. Io e Shannon ci mettemmo a semicerchio intorno a Tomo, mentre Bob si andò a sedere tra gli invitati, augurando buona fortuna al mio amico.
Poco da immaginare: Shannon fissò lo sguardo su Andy e non la mollò più. Però aveva un buon motivo: Ronnie aveva fatto un lavoro magnifico.
Era vestita con un abito corto fino al ginocchio, di color rosa salmone, con un corpetto di seta lucida decorato con brillantini ai lati e sui bordi. La gonna che scendeva era a balze dello stesso colore e davano un po’ di movimento. Ai piedi non aveva delle scarpe, ma dei trampoli. Sandali con tacco molto alto, legati al piede solo con dei laccetti di seta, che lasciavano comunque le dita libere. In testa aveva i capelli un po’ più chiari – forse merito del sole greco – e acconciati in una lunga coda liscia.
Dopo pochi minuti, in cui analizzai la migliore amica della mia ragazza, la musica partì e Tomo cominciò a muovere nervosamente le mani. Cinque secondi di attesa ed entrò Vicky, a braccetto con suo padre, mentre dietro di loro camminava Ronnie, con le fedi in mano.
Se Tomo rimase abbagliato per Vicky io lo feci con Ronnie. Ora capivo l’importanza dei vestiti non comprati… erano meravigliosi.
La sposa era vestita con un lungo vestito bianco – che nascondeva le scarpe con il tacco e slanciava la minuta figura di Vicky – con delle leggere spalline che le circondavano le spalle e finivano dietro, e stretto sul torace, con disegni astratti dello stesso materiale. La gonna non era pomposa ma era leggera e racchiudeva alla perfezione le gambe di Vicky. Quando arrivò, notai anche il dietro. Le spalline erano gli unici pezzi di stoffa che tenevano salda al corpo di Vicky una scollatura enorme fino alla fine della schiena, decorata ai bordi con un filo di seta nera e con brillantini bianchi luccicanti. Era ben truccata, leggermente, e i capelli erano raccolti a chioccia, con un piccolo cerchietto bianco a tiara tra di essi.
Ronnie… Ronnie era la più bella. Prendetelo pure come parere personale, ma nemmeno la sposa era in grado di superarla. Era stupefacente.
I capelli rossi, di nuovo superboccolosi, erano raccolti in una fintamente disordinata treccia laterale, che le circondava il collo, lasciandole il viso libero. Quel volto che mi faceva impazzire: truccato poco, ma soprattutto sugli occhi, facendoli sembrare due smeraldi vivi, le labbra rosee e piene, e la pelle un po’ più scuretta del solito.
Il vestito era di un perfetto verde acqua marina, senza maniche, ma dal piccolo corpetto – che racchiudeva solo i seni per poi dare libero sfogo alla gonna – partivano tre o quattro fili che si legavano dietro il collo, lasciando la stoffa penzolare per la schiena libera fino a metà. La gonna che partiva, davanti, era corta fino a prima delle ginocchia, ma poi si  allungava sempre di più, arrivando dietro a toccare per terra. Era abbastanza attillato ma rispecchiava bene l’idea di vacanza al mare. Il tessuto era in lino, leggero, e le dava un aspetto da Musa greca.
Quando fu arrivata a destinazione, Vicky si mise di fianco a Tomo, suo padre tornò a sedersi e Ronnie restò in piedi accanto ad Andy, restando in equilibrio in un paio di sandali neri con un probabilissimo tacco quindici.
“Vuoi tu, Tomislav Milicevic, prendere Vicky Bosanko come tua legittima sposa, amandola e onorandola per tutta la vita?”, chiese il prete al mio amico. Tomislav… usavamo chiamarlo così solo per prenderlo in giro e sentirlo dire in certe occasioni in realtà faceva ridere. Ma non era proprio il caso.
“Sì, lo voglio”, disse deciso. Bravo, Tomislav.
“Vuoi tu, Vicky Bosanko, prendere Tomislav Milicevic come tuo legittimo sposo, amandolo e onorandolo per tutta la vita?”, continuò rivolgendosi al Vicky.
“Sì, lo voglio”, confermò anche lei, emozionata alle lacrime.
“Allora, con il potere conferitomi dalla chiesa… vi dichiaro marito e moglie. Può baciare la sposa”, concluse sorridendo il prete mentre tutti annuivano, Tomo lo accontentava abbracciando Vicky e dandole un veloce e tenero bacio a fior di labbra. Le ho viste le piccole lacrime, Milicevic, le ho viste!
 
 
Ronnie
 
“Ehi!”, mi chiamò Tomo dopo aver ballato con la sua dama, come da tradizione. E come da tradizione il secondo ballo era con i testimoni, infatti Vicky andò da Jared e poi da suo fratello.
“Finalmente! Ora basta, questo stress è concluso”, lo presi in giro mentre attaccava una nuova canzone e cominciai a ballare con lui. Era bravo non c’è che dire.
“Ballare con te fa uno strano effetto. Ti senti inferiore”, rise lui guardando il mio modo di muovermi e il suo. In effetti era comica come cosa. “Ma grazie. È stato tutto così tremendamente perfetto e i vestiti… wow, spettacolari. Sei un mito, dolcezza. Sei un mito”.
“Grazie. Figurati, questo e altro per i Milicevic, lo sai benissimo!”, gli risposi guardandolo. Aveva gli occhi lucidi, brillanti. Era felice. “Ma che è successo ieri sera, se di grazia posso saperlo?”.
“Non ne ho la minima idea! A quanto pare Bob ci ha drogato per farci divertire un po’, lo abbiamo guardato in atteggiamenti molto intimi con una ragazza e abbiamo perso, riguadagnato e riperso novanta mila dollari. Shannon è pure finito all’ospedale”, mi raccontò. Wow… e io che mi ero fidata di Shannon mentre mi diceva di stare tranquilla! “Ah, e magicamente mi hanno perso sul balcone, dove c’erano i fiori allergici per Jared. Bah… che nottata! Grazie ragazzi per l’addio al celibato di cui non ricorderò nulla!”.
Risi, ma poi vidi Bob chiamare Shannon e Jared per venire verso di noi con in mano la giacca di pelle di Tomo. Che cavolo?
“Guardare nelle tasche, no?”, disse ridendo, aprendo una cerniera interna e tirando fuori un mare di soldi. “Non li avevamo buttati in acqua, li aveva Tomo!”.
“Ragazzi… settimana prossima a Las Vegas!”, esultò Shannon scherzando… forse. “Li stendiamo tutti, ci portiamo a casa una marea di soldi!”.
Risero tutti e alla fine decisero di dare quei soldi a Tomo, come perdono per averlo abbandonato sul balcone e per regalo di matrimonio. Lui li abbracciò e poi, finita la canzone, abbandonò me per andare un po’ da Andy.
Jared invece mi prese ridendo e mi portò ai lati della spiaggia, lontano dalla pista da ballo che avevamo allestito, lontano dalla musica. Lontano a tutti, come sempre.
“Come siamo silenziosi”, notai guardandolo zitto, che mi teneva per i fianchi, stretta a sé. Di solito non era così calmo e taciturno. “Qualcosa non va?”.
“Stavo solo pensando…”, disse fermandosi all’improvviso, prendendomi la mano sinistra, allungandola in quella direzione, e stringendomi ancora di più contro il suo petto, facendomi dondolare. Un walzer? “E sappi che sei meravigliosa oggi. Sei bellissima”.
“Sì, hanno fatto un buon lavoro quei sarti”, commentai, guardando anche il suo perfetto smoking con cui stava da Dio. Era stupendo.
“Ma le idee sono tutte tue e sono… non lo so, sono davvero stupefacenti. E l’idea della spiaggia, di mattina… è andato tutto perfetto ed è tutto grazie a te”, disse baciandomi leggermente, per poi continuare in quel ballo ancora più comico di quello con Tomo.
“Dove vuoi arrivare Leto?”, chiesi ridendo.
“Oh, madonna mia. Nessuno ti può dire niente che trovi secondi fini?”, rise non fermandosi e cominciando ad intonare ridendo la melodia del walzer, stonando con ciò che il cantante stava cantando agli invitati in quel momento. “E sappi che sono deluso: siamo tutti musicisti e tu mandi a chiamare un ragazzetto qualsiasi”.
“Se vuoi perderti tutto il divertimento andando a lavorare, fai pure. Io preferisco evitare, almeno al matrimonio della mia migliore amica”, lo presi in giro mentre lui faceva una smorfia, dandomi ragione.
“Va bene, un punto per te”, mi concesse guardandomi dolce. C’era qualcosa che non andava, ne ero certa. Era troppo calmo, troppo… mansueto.
“Sei sicuro che Bob non ti abbia ancora drogato?”, chiesi leggermente più seria.
“No, Ronnie, non mi ha drogato”, ribatté. “Sono solo felice, molto felice. È una vita che Vicky e Tomo stanno insieme, era ora che si sposassero! In più…”.
“In più…?”, lo esortai ad andare avanti, facendolo sorridere, dolcemente.
“In più sono felice di essere qui con te. Dopo anni di completa vita dedicata alla band per evitare di pensare, ora posso liberarmi di tutta quell’angoscia e ricominciare a respirare, perché tu sei qui con me”, mi rispose mentre faceva uno strano ma molto carino sorriso sghembo.
“Già… questo sarà un evento da ricordare anche per noi, no? La prima cerimonia ufficiale insieme”, sorrisi guardandolo negli occhioni azzurri. “E pensare che se me l’avessero chiesto anni fa, avrei fatto di tutto pur di non vederti”.
“E facevi bene. Sono stato un idiota”, commentò. Sì… ma non solo lui aveva la colpa.
“E io ho fatto male a scappare e chiudermi in me stessa creando la barriera che ti ha trascinato fuori dalla mia vita per dieci anni. Avrei dovuto farti una scenata, magari urlare… ma mi avresti spiegato che era davvero successo e la cosa si sarebbe chiusa lì, come è chiusa ora”, spiegai togliendo la mano sinistra dalla sua e accucciandomi completamente sul suo petto. Lui mi strinse, baciandomi i capelli. “Non ho pensato a quello che ho perso, non ho pensato che così facendo mi sarei fatta male da sola”.
“Tu non soffrirai più, okay? Io non ti farò più del male, te lo prometto, Ronnie. Sono finiti quei tempi”, mi consolò, accarezzandomi la schiena scoperta.
“Perché sei tornato da me”, conclusi.
“E mi dovrai sopportare in eterno. E un giorno ci saremo noi, laggiù, a festeggiare ed a prometterci davanti a Dio fedeltà e amore per sempre”, disse quasi senza pensare. Di nuovo? Mi sembrava di essere tornata alla festa di Halloween, quando ero vestita da sposa cadavere-vampira.
“E’ una proposta di matrimonio questa, Jared Joseph Leto?”, chiesi sorridendo, pensandoci seriamente per alcuni istanti. Un flash di me vestita come Vicky s’impossessò per alcuni secondi della mia mente e poi volò via.
“No, non sono così squallido. Voglio solo che tu sappia cosa ti riserva il futuro”, mi guardò negli occhi, poggiando la testa contro la mia, restando serio. “Ho trentanove anni, devo sistemare la mia vita. E voglio stare con te, piccola. Non ho bisogno d’altro”.
“E perché sposarsi?”.
“Perché Tomo e Vicky l’hanno fatto? Perché avevano voglia di spendere soldi? No, perché si amano e vogliono che il loro desiderio di restare insieme diventi ufficiale”.
“E lo vuoi anche tu?”, chiesi, capendolo. In fondo non era tanto male pensare di rimanere per tutta la vita con Jared, seriamente, con matrimonio e famiglia.
“Mi hai sentito a Roma, alla Fontana di Trevi, no?”, chiese retoricamente. Annuii – ovvio che l’avevo ascoltato e mi ero pure commossa cerando di non darlo a vedere – e mi avvicinai alle sue labbra, baciandole per alcuni istanti che mi sembravano infiniti.
“Non sarebbe una brutta idea”, conclusi sorridendo e vedendo il suo volto quasi illuminarsi. Era come se gli avessero detto che aveva vinto il premio per miglior cantante, attore e musicista tutto insieme… sprizzava gioia ovunque.
 
“Questi cosi saranno la mia morte”, mi lamentai le scarpe oscene che avevo abbinato al vestito. Maledetto tacco quindici, volevo suicidarmi.
“Smettila di lagnarti, sei perfetta”, sorrise Andy, sedendosi al tavolo dei testimoni e gli sposi per la cena. Eravamo seduti lì da ore e io stavo scoppiando.
“Sarà, ma rivoglio le mie amate Converse!”, piagnucolai ancora mentre Vicky e Tomo ritornavano a sedersi dopo alcune chiacchiere con parenti o amici.
“Allora, come va, bellezze?”, ci chiese Vicky, con quello sguardo raggiante che illuminava tutta l’atmosfera. Era così strana vederla in abito da sera, bianco. Era bellissima.
“Diciamo che va!”, scherzai. “Mi ha appena chiamato Solon: nuova data della premiere. Il 10 di luglio a Madrid”.
“Perfetto. Noi suoniamo il 9 a Bilbao”, mi ricordò Tomo sorridendomi tenero. Come cavolo faceva a ricordarsi tutte le date?! Io non ne ero capace. “Appena finiamo con il bus andiamo a Madrid e dovresti arrivare in tempo”.
“La scorsa volta non è stata così divertente, a Praga… erano totalmente fuori”, s’intromise Jared storcendo le labbra, dopo che smise di parlare con Ivana su non so che. “Una mi voleva tagliare una ciocca di capelli per ricordo! No, voglio dire… i miei capelli! I miei capelli sono sacri peggio di quelli di Tomislav!”.
“La finirete un giorno?”, chiese lui facendo un verso simile ad uno sbuffo ma mischiato ad un sorriso. Cose che solo una divinità come Tomo Milicevic poteva fare.
“Mi dispiace Tomislav, ma è stato troppo divertente”, sorrise trattenendosi Shannon, mentre Andy gli tirò un pugno sul braccio, facendosi praticamente male da sola. Lui sghignazzò guardando il broncio tenero della mia migliore amica.
“Dai, lasciatelo stare. È stanco morto”, sorrise Vicky sedendosi di fianco a me mentre ci servivano un altro pasto. Ma da dove arrivava tutta quella roba?!
Jared e Shannon ricominciarono a mangiare mentre Tomo e Vicky spizzicarono in giro. Io ed Andy passammo.
“Tu invece no?”, la presi un po’ in giro. Meno male che aveva il trucco o le occhiaie non avrebbero tardato ad arrivate. Povera donna!
“Già… e domani dobbiamo di nuovo fermarci ad Atene… quando finirà questo tour?!”, chiese sorridendo, chiudendo per qualche secondo gli occhi e riaprirli in fretta per evitare di dormire sul serio.
“Domani dormo fino all’inizio dello spettacolo. A farsi fottere il soundcheck, l’abbiamo fatto miliardi di volte, non ci serve”, commentò sempre fine come al solito il dolce animale Shannon. “Non vorrei svenire su Christine. Poverina”.
Andy scosse la testa, ridendo, mentre Vicky annuiva senza però davvero ascoltare. Il suo cervello aveva davvero bisogno di riposo e a quanto pare non tardò a farlo presente. Dopo pochi secondi la vidi appoggiare completamente la testa sul braccio, così la scossi un po’, facendola risvegliare. Non poteva addormentarsi nel bel mezzo della cena del suo matrimonio.
“Sì, sì sono sveglia! Tu pensa a mangiare, stecchino!”, mi rimproverò di scatto cercando di non rovinare i capelli. Ridacchiai e mi decisi a stuzzicare qualcosa da Jared. Di certo non avrei mangiato tutta quella roba, sarei scoppiata. Era peggio che un invito da Constance…
“Ehy, ma non ho ancora sentito quella santa di Constance! Mi manca”, me ne uscii all’improvviso, cosicché Jared e Shannon rimasero un po’ spaesati.
“Sì, hai ragione. Magari per il compleanno di Jay avremo finito il tour e andremo a festeggiare da lei”, sorrise Shannon. Magari?! Come magari?!
“Sperate di averlo finito e vi uccido”, commentò Vicky, quasi cattiva e stanca morta. “Io non ci penso proprio a fare Natale e Capodanno in giro per il mondo o da sola. Quindi muovete il culo, lavorate e finite presto!”.
Scoppiai a ridere e poi continuammo per un po’ a ciarlare, fino a che non mi scusai e tornai fuori dal ristorante, dirigendomi verso la spiaggia. Appena arrivata sulla sabbia tolsi le scarpe e le tenni in mano, sporcando l’orlo del vestito di sabbia. Pace.
Era rilassante stare lì, verso le dieci e mezza di sera, forse anche più tardi, sentendo le onde del mare come una ninna nanna e guardano le stelle sorriderti.
Dopo aver ballato con lo sposo e dopo aver parlato con Jared, ero tornata alla festa. Avevo spizzicato qualcosina e bevuto uno o due bicchieri, per poi ballare ancora un po’. Shannon mi aveva fatta danzare per qualche minuto, lasciando Andy per Vicky o Tomo, e continuava a sorridere. Era felice per l’amico.
Andy era piuttosto allegra, non so se fu per gli alcolici, per l’evento o per il suo ragazzo. Ma stranamente non si era mai lamentata di niente e aveva avuto il sorriso in faccia per ogni istante.
Tomo era al settimo cielo. Non riuscivo nemmeno a descriverla la sua gioia, era qualcosa di veramente troppo grande e reale per esprimerla a parole.
Vicky…
“Bella serata per guardare le stelle”, sentii la sua voce dietro di me e notai che anche lei era con i tacchi in mano. “Magari riesci anche a vedere Marte”.
“Ti rovinerai il vestito”, commentai ridendo. Che ci faceva qui? Era il suo matrimonio, doveva stare alla festa.
“Anche tu”.
“Il mio non ha la stessa importanza del tuo. Quello lo ricorderai a vita, questo è solo un semplice abito”, scherzai mentre lei sbuffava e mi veniva incontro.
“Non è bagnata. Andrà via”, concluse guardando in alto, di fianco a me, senza dire niente.
“Come mai sei qui?”, chiesi alla fine visto che nessuna delle due spiccicava parola.
“Non lo so, sai? Volevo pensare, respirare un po’ e svegliarmi. Volevo… evitare di mentire di nuovo”, confessò facendomi voltare di scatto. Mentire?
“Che intendi dire?”, domandai preoccupata.
“Non intendo dire che non amo Tomo e lo faccio solo per soldi o robe varie, sta tranquilla”, mi sorrise, senza realmente guardarmi, immersa in qualche strano ricordo. “Ma c’è qualcosa che ti devo dire. Non ce la faccio a tenermelo dentro. Ti ha già causato troppo male”.
Non capivo. E soprattutto non comprendevo il fatto che la mia mente collegasse le sue parole al mio passato, all’Italia, alla mia vecchia famiglia, al mio vero dolore.
“Spiegami, non capisco”.
“Ricordi mia sorella Lucy, no? La sera di Halloween, quando Brad ha picchiato Colin”, cominciò. “E poi senza volerlo siete finiti in mezzo anche tu e Jared. Bè… io non volevo fare niente di male, lo giuro, ma…”.
“Ma?”.
“Sono stata io a dire a Brad di uscire con Lucy mentre stava con Carl, sono stata io a chiedergli di sedurla per farli lasciare. Sono io che ho detto a Colin di provarci e poi sono stata io a dire tutto a Brad”, mi disse velocemente mentre io sgranavo gli occhi. Cosa?! “Solo che… Brad mi sembrava quello giusto per mia sorella, volevo che lo capisse anche lei e…”.
“Non era tuo diritto farlo, Vicky! Quello era il peggior essere umano sulla faccia della Terra, nemmeno Lucy meritava un ragazzo del genere, scusami”, la sgridai mentre la vidi respirare debolmente. No, non doveva piangere, non al suo matrimonio. “Va bè, lasciamo perdere, ormai è fatta. Ma questo che c’entra con me?”.
“Che non l’ho fatto solo con mia sorella. Non capisci, Ronnie?”, mi chiese mentre io scuotevo la testa. “Ho convinto Solon a fare in modo che Jared fosse accettato nel cast, a qualunque costo. I tempi si stavano allungando, non volevi vederlo e io ho sempre saputo che lui sarebbe stato perfetto per te. Mancava solo l’occasione per farvi parlare. E ormai erano passati dieci anni, non potevo aspettare ancora, sarebbe stato troppo tardi, capisci? Magari tu ti saresti sposata o che so io. No, dovevo fare qualcosa”.
“Cosa?! Tu hai pagato qualcuno perché io rivedessi Jared?! Perché?! Che ha di male la tua testolina bacata, Vicky?”, le dissi mentre lei abbassava gli occhi. “Voglio dire, ora ti ringrazio, solo felice, ma… mesi fa ti avrei uccisa! E io che credevo fosse il destino… non esiste il destino, è solo una stupida invenzione! Tutti programmano ogni cosa, non esiste una conoscenza superiore che sa tutto di noi”.
“Questo non è vero”, ribatté guardandomi negli occhi stavolta. “Io volevo solo rivedervi insieme ancora una volta, ma chi mi assicurava che alla fine sarebbe finita così? Sei talmente testarda che avevo paura mandassi tutto a monte. E lui è così maledettamente orgoglioso che poteva benissimo evitare di vederti, oltre al lavoro. Nessuno sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Ho solo accelerato i tempi”.
“Promettimi… no, giurami, che non lo farai mai più. Con nessuno, Vicky. Mai più”, dissi fermamente mentre lei annuiva. “Non puoi governare la vita delle persone così. Questa volta è andata bene, ma potrebbe non riaccadere di nuovo. Giuramelo”.
“Sì, va bene, te lo giuro”, mi promise sorridendo. L’abbracciai e ridemmo insieme. D’ora in poi tutto sarebbe andato bene, niente più intoppi.
Non c’erano più problemi, non c’erano più dolori. Era tutto okay.
…chissà se il destino stavolta era in vacanza o gli piaceva vedermi soffrire e lottare con le unghie e con i denti per una stabilità. Forse non ero così sicura che tutto andasse bene…
 
 
 
 ...
Note dell'Autrice:
i vestiti li ho idealizzati io, spero che vi siano piaciuti. 
Per il discorso "matrimonio" tra Ronnie/Jared non preoccupatevi... non finisce qui xD Riguardo il discorso "comando io" di Vicky, bè, volevo farla partecipe del ritorno di fiamma dei due, anche se in un modo un pò cattivello :D 
Vi è piaciuto? Avete visto i soldi che fine hanno fatto?!... bè, non li useranno solo per le nozze, ma questo lo vedrete poi (MUHAHAHAA)

Ora vado, ciao a tutteeeeee

Ronnie02

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Capitolo 27
*** Can You Imagine? ***


Salve ECHELON! manca una settimana alla fine della  scuola e io sono strapiena di verifiche *prof maledetti!* Anyway, io aggiorno così almeno mi rilasso un attimo.

Questo capitolo, come vedrete, è uno dei pochi tenerosi, ma davvero tenerosi, ma DAVVERO tenerosi (?) della storia,

e per questo lo voglio dedicare a quella grande strafiga di throughureyes 

perchè è.... IL SUO COMPLEANNO!!! Auguri my lil baby :)

Detto questo, vi lascio leggere. Buona lettura *auguriiiiiiiiii :D*




Capitolo 27. Can you imagine?




 
 
Jared
 
This is war! This is war! This is war!, cantavano gli Echelon, fuori dal backstage, eccitati come poche altre volte. Era arrivato il momento, dopo giorni, mesi, anni… avevamo stabilito un record. Più di 300 concerti, e oggi ci premiavano con il Guinness dei Primati.
New York, ancora. Era come tornare a casa, per un ultimo grande concerto. Mi sarebbero mancati quei ragazzi, la mia vita prevedeva anche in gran parte loro… la mia famiglia.
Ma era anche vero che finalmente ora potevo rilassarmi un po’ con Ronnie dopo sere di musica a non finire e pomeriggi di fotografie per le premiere.
Già… quelli stupidi eventi in cui i fotografi morirebbero pur di farti una foto, e già in giro la coppia Jonnie – non chiedetemi il perché del nomignolo da giornalini per bambine – era tornata all’attacco. Stavolta Emma non aveva ribattuto niente e i giornali si erano dati alla pazza gioia.
Gli Echelon erano effettivamente abbastanza confusi e stupiti, ma sapevo che dopo questo tour il mio blog si sarebbe riempito di mie foto con Ronnie o con tutto il gruppo. Alla fine avrebbero capito da soli.
Sia io che Shannon ci saremmo smascherati. Peccato, avrei voluto vedere le loro facce mentre capivano che ora i Mars non erano più a disposizione. Sarebbe stato un brutto colpo per le mie povere Echelon.
“Dieci minuti ragazzi”, ci disse Emma, che era venuta per l’occasione, mentre io saltellavo e respiravo per prepararmi. Mi guardai attorno e mi sembrò di rivivere From Yesterday. Io ero davanti uno specchio a saltellare, Tomo che accordava la chitarra vicino a Vicky, sorridente e stanca, Shannon che batteva le bacchette facendo muovere la testolina biondiccia di Andy, e Ronnie che era china su un foglio, intenta a scrivere una canzone.
Era la dodicesima da quando eravamo partiti, all’inizio di giugno. Era la sesta che scriveva su di noi. Era la decima con un ritmo abbastanza simile al nostro, vista l’influenza del tour.
Ero fiero di lei. Erano dodici capolavori e ogni sera l’aiutavo a perfezionarli, anche se non c’era molto da correggere, come aveva già detto Solon.
This is war! This is war! This is war!, urlavano a non finire. Dio, perché ero così nervoso?! Era solo un concerto.
Tossii e mi portai una mano al collo, dove all’interno le mie povere corde vocali chiedevano pietà.
“Ti fa male la gola?”, chiese Ronnie, vedendomi a fianco. Strano, in questo ultimo periodo era sempre zittina, lasciandomi ai miei pensieri. Non che ci fosse qualcosa di male, ma sembrava un po’ distante. A Parigi, soprattutto, non ne aveva voluto sapere di uscire dall’albergo o parlare con qualcuno nemmeno per il concerto. Era rimasta in camera ad aspettarmi. Non avevo ancora capito il perché…
“Non così tanto, posso sopravvivere”, dissi baciandole la testa, prima che mi sorrise e si spostò, tornando veloce con Andy e Vicky nell’altra stanza. Era tornato il cameraman che mostrava tutto in via mondiale tramite VyRT. Quel piccolo ma complicato programma era stato l’invenzione del secolo e stava funzionando a meraviglia. Il suo unico difetto? Il solo momento in cui potevo stare con Ronnie – ovvero ora – era completamente andato a farsi fottere.
Presi il mio microfono e cominciai a parlare davanti alla telecamera, mettendomi tra Shannon e Tomo, vicini al cibo, e bevendo un po’ d’acqua. Quando fu tempo di andare facemmo delle foto mentre ci abbracciavamo – ovviamente io non feci facce normali, dovevo mantenere la mia pazzia intatta davanti alla mia famiglia – e poi, nervosi, ci dirigemmo verso il sottopalco, con addosso la videocamera.
Shannon scappò per cominciare a suonare Escape e Tomo girò alcune volte vagabondando, per poi salire con la sua chitarra per aiutare mio fratello. Io mi misi di fianco al piccolo ascensorino che mi avrebbe portato davanti alla Triad illuminata. Per l’ultima volta.
Mi faceva male solo a pensarlo.
Un giro di batteria, due, tre, li contavo muovendomi avanti e indietro e salutando gli Echelon a casa, davanti ai computer. Finiti i giri cominciai a cantare, mettendomi sull’ascensore che pian piano mi mostrava al pubblico, che andò in delirio.
It’s time to pay…
Il suono provocato da quel soffio di vento nella mia gola era come droga per quei ragazzi. Ne volevano sempre di più e mi preparai ad una lunga nottata.
Di certo avrei dovuto stonare qualcosa, era inevitabile. Lo capivo, ormai la mia voce era troppo stanca, avevo seriamente bisogno di riposo. Ma voltandomi, vedevo ciò che mi faceva andare avanti. Di fronte a me quei ragazzi, ai lati mio fratello e il mio amico, nel backstage Ronnie. Ovunque guardassi c’era qualcosa per cui valeva la pena tirare fuori anche l’ultimo respiro che potessi emettere.
Era la nostra serata, dovevamo dare il meglio di noi.
 
“What’s your name?”, chiesi al più piccolo dei baby Echelon che avevano portato sul palco. Era piccolino, con i pochi capelli scuri e una faccina tanto dolce.
“Scott”, borbottò il bimbo, abbastanza timido, guardandomi come se davvero fossi un marziano. Era tenerissimo.
“Are you doing there, buddy?”, cominciai accucciandomi davanti a lui e abbracciandolo con un braccio, mentre nell’altra mano tenevo il microfono. “There’s a lot of people, are there? Trust me, they’re not that scared. I know… how much I scared you?”.
Lo vedevo ancora titubante, immobile e imbarazzato con una sicura voglia di tornare tra le braccia della sua mamma. Gli feci una pernacchia, sorridendo, per farlo tranquillizzare un po’.
“Is good to see you… ehm, where are you from? Where you live?”, chiesi cercando di risentire la sua voce un po’ gutturale, sebbene fosse piccolo.
Gli puntai il microfono ma si ritrasse, spostando il volto evidentemente imbarazzato. “You know what? I don’t live anywhere either, so… Thanks for coming at the show, did you have fun?”.
Gli toccai il pancino con l’indice più volte, ovviamente senza fargli male. Lui sorrise per un millisecondo, toccandosi la magliettina bianca con stampata una grande Triad nera. Annuì deciso. “Yeah? You have a good time?”. Annuì ancora e dentro di me mi sciolsi. Era davvero tenerissimo. “This guy is so cute. This is the next generation of Echelon!”.
Tutti urlarono e io cominciai a giocherellare con l’orecchio di quel bimbo, sempre per farlo tranquillizzare e farlo sentire a suo agio. Non parlava, ma mi aveva annuito, stava meglio.
“You know what we’re gonna do right now?”, chiesi accarezzandogli la testolina e portandomi vicino anche l’altra bimba, Jasmine mi aveva detto. “We’re gonna break a brunch of people up on stage for Kings And Queens”.
Altri urli, che sapevo sarebbero arrivati, facendogli un sorrisone per qualche secondo.
“Do you wanna break here your mom… or your dad up there? Com’on, come here guys”, gli invitai alzandomi e scomigliandogli ancora i capelli, mentre scappava dalla sua mamma.
Ricominciai il concerto, tornando vicino ai miei compagni mentre lo staff aiutava i ragazzi a salire sul palco. Che serata, ragazzi miei!
Me la sarei ricordata a vita.
 
 
Ronnie
 
“Un awww non basta per descriverlo”, sorrise Andy mentre vedeva Jared, dal backstage, che giocherellava con quel bambino prima dell’ultima canzone.
Ero come incantata.
Non l’avevo mai visto con dei bambini e Andy aveva stramaledettamente ragione: era fantastico!
“Sinceramente, ma non avete mai pensato di fare un piccolo Leto, Ronnie?”, chiese la mia migliore amica, facendomi voltare di scatto verso di lei, con gli occhi a palla.
“Cosa?”.
“Eddai, sareste dei genitori meravigliosi! Tu vivi per i bambini, quando facevi la babysitter ti amavano tutti! Mi ricordo che quel nanetto di Daniele ti faceva pure la corte. Che tenero, la sua prima cotta!”, mi prese in giro, anche se aveva ragione. Quando la sua mamma mi aveva avvisata che ora potevo anche liberarmi del suo impegno, essendo più libera a casa per badare a lui, il piccolino si era messo a piangere prendendo l’orlo della mia gonna. “E poi lui… guardalo Ronnie, è fatto per avere in braccio un piccolo pazzo marziano con capelli e occhi da favola!”.
“Non lo so, Andy, sono passati sono otto mesi e mezzo da quando ci siamo rimessi insieme e Solon vuole un nuovo disco, che ovviamente comporterà un tour”, replicai.
“Il tour lo puoi fare anche nove mesi dopo l’uscita del disco, sai che importa! E l’album lo puoi fare tranquillamente”, mi corresse mentre io la guardavo storta. “Con questo non ti sto dicendo muovi il culo, trascinalo a casa e fate un bambino, anche se sono certa che non ci sarebbero problemi in quel senso”.
Stupita, aprii la bocca a O e poi le tirai una sberla sul braccio, facendola scoppiare a ridere. “Tu stai zitta, Miss Shanimal. Dio solo sa cosa voi due combiniate in camera vostra!”.
“Ma guarda te. Sto zitta che è meglio, parla la puritana di turno”, mi fece la linguaccia, nello stesso momento in cui Jared la fece al bambino, di sicuro per metterlo a suo agio. Come non poteva guardando quei dolcissimi occhioni azzurri?
“Ma io lo so”, sorrisi fregandola mentre lei se ne uscì con un applauso dicendomi brava, brava, ovviamente per prendermi in giro. Che graziosa migliore amica avevo, vero?
“Finitela voi due!”, ci rimproverò Vicky. Oh, adesso perché era sposata si metteva a comandare. Era ancora due anni più piccola di noi, non poteva permettersi di decidere per tutti, anche se ormai sapevo fosse un vizio da tempo. “Uh, ma che cosa abbiamo qui! Hold me”.
“Che cazzo… ehy è la mia canzone!”, dissi lanciandomi verso di lei e cercando di prendere quel dannato pezzo di carta mentre lei rideva. Alla fine ebbi la meglio, ma intanto aveva già letto tutto.
“Oh, ma come sei tenera. Don’t leave me, you’re my cure!  Hold me, whatever happen in this fucking crazy life”, blaterò senza nessun ritmo, solo parlando.
“Basta!”, la fermai prima che parlasse troppo. “Non è finita, non voglio che nessuno la legga. Chiaro?”. Tutte e due annuirono, di colpo. Sapevo essere autoritaria quando volevo e le mie canzoni erano sacrosante, nessuno poteva toccarle se non erano completate.
Era sempre stato così, non facevo mai vedere i miei testi prima di averli resi il più perfetto possibile, se non a Solon o Jared. Era qualcosa a cui tenevo particolarmente, quasi come se fossi obbligata o niente sarebbe andato per il verso giusto.
“Smettila di fare la superstiziosa, Dio mio”, commentò Vicky, rimettendosi a leggere un libro che si era portata dietro. Ora, sinceramente, come cazzo si fa a leggere un libro mentre fuori stanno ballando tra le fiamme dell’inferno in un concerto?! Non lo capivo.
“Io non sono superstiziosa, basta con questa storia! È semplicemente un mio rito e voglio che lo rispettiate, ok?”, chiesi mentre Andy ridacchio.
“Rito, superstizione… chiamalo come vuoi. È una cazzata”, continuò imperterrita Vicky senza voltare pagina e muovendo le mani come se cliccassero dei tastini. Che… “Oh, guarda, i tuoi fan accettano il fatto che tu sia dannatamente superstiziosa!”.
“Cosa?!”, chiesi saltandole addosso di nuovo per rubarle il telefono dalla mano. Lo lasciò andare e finì sul mio palmo, aperto sulla sua Home di Twitter, con in bella vista il suo messaggio. “Che cazzo hai fatto?!”.
O Dio santissimo venuto in Terra a salvarci. Mi voleva morta, per caso?!?!
‘You mustn’t read my songs if I don’t finish it!’ @Ronnie’s please, stop being so fanatic and supertitious!!, aveva scritto citandomi. Ok, l’ammazzavo, adesso la uccidevo. Che cazzo le era saltato in mente?! Altro che leggere un libro, quelle due complottavano contro di me!
La guardai male e lei mi indicò le risposte che erano già comparse con un sorriso. La incenerii con lo sguardo e poi lessi.
Is she so crazy?! Yeah, we know!!! Ahah, @Ronnie’s we fucking love you and I wanna listen your songs!
Crazyyyy Ronnie! You’re the best! Vicky, how can you stay with her and remain healty?!
I can’t understand why @Ronnie’s doesn’t want that we read her songs. I think that they’re awesome! And maybe, maybe… they talk about someone crazy like her! Maybe…
Ma che cavolo di fan avevo?! Che capivano tutto, che mi dicevano queste cose… io amavo gli Offbeats. Io lo amavo!
Sapevano che ora ero felice e, soprattutto riguardo all’ultimo messaggio, che qualcuno mi aveva salvata. Pazzo come lei… ovviamente sapevano chi era. Nessuno è più pazzo di me se non Jared Joseph Leto.
Controllai anche le altre risposte, sperando che pure gli Echelon avessero risposto alla neosposina del loro beniamino. Infatti eccoli lì, a leggere ogni minima parola che i Mars o Vicky scrivevano.
Vicky, I’m sure that you know something that Jared doesn’t want tell us, so… TELL US!
Seriously, what’s going on, guys?! Vicky… is it a good song?
I’ll be so happy if 30STM and Ronnie sing a song together, I love them! @Ronnie’s think about it!
...I’m sure that something is gonna happen between Ronnie and a martian…
Bene, anche le Echelon a quanto pare stavano capendo che cavolo stava succedendo. E, un secondo… un duetto?
Era un’idea carina, possibile, ma a volte mi sembrava abbastanza strana. Cantare con loro era sempre stato un divertimento, uno sfogo. Farlo per un disco sarebbe stato diverso.
Ma in fondo era successa la stessa cosa con il canto in generale, durante tutti questi tre anni. Da hobby era diventato il mio lavoro.
Sì, ci avrei pensato. Magari una canzone sarebbe stata perfetta da suonare insieme. Mi sarebbe piaciuto…
“Allora, posso rimanere viva o mi ucciderai?”, chiese supplicando Vicky, riprendendosi il telefono.
“Se lo rifai un’altra volta giuro che finisci male”, le risposi guardandola cattiva. “Vedila un po’ come vuoi”.
“Oddio, santissimo! Salvatemi! Come farò senza il perdono della grande Veronica McLogan?! Aiuto”, mi prese in giro mentre io mi alzavo e andavo verso l’uscio per vedere i ragazzi scatenarsi con altri cinquanta Echelon circa che cantavano con loro.
We are the phantoms of ourselves, cantavo sottovoce con Jared, che urlava con le sue povere e stanche corde vocali sul palco gremito. Ormai avevo partecipato a tutti i loro concerti da giugno in poi e le canzoni erano entrate nella mia mente e nel mio cuore. L’effetto di Marte colpiva ancora.
Bè, a certi in verità non ero stata proprio a tutti. Nel minitour in Francia mi ero chiusa in me stessa sparando bugie a Jared come ‘non mi sento molto bene’. La realtà però era un’altra. La Francia mi faceva male. Ancora troppo male…
“Ehi! Riaccendete le luci”, si spaventò a morte Vicky, facendomi aprire gli occhi, che avevo chiuso per qualche secondo per i ricordi, e trovando una spiegazione.
La voce di Jared continuava a ripetere necessario Pronto Intervento qui, adesso. Forza ragazzi, serve il Pronto Intervento, adesso. La sua voce era apparentemente tranquilla, ma era parecchio preoccupato.
La musica si era fermata, Shannon era tornato nel backstage e stava andando da Emma (che riuscivo a vedere solo per la luce dei telefoni, computer o iPad), Tomo era di fianco a lui, per tranquillizzare un po’ tutti, qualcuno chiamò il 911, i ragazzi si ammutolirono, aspettando.
“Starà bene, non preoccuparti”, sentii la sua voce, accompagnata da un abbraccio sui fianchi. Non l’avevo né visto né sentito, perciò urlai e feci un piccolo salto, prima di calmarmi.
“Cazzo, Jared! Se mi volevi morta facevi prima a piantarmi un coltello nello stomaco”, mi lamentai mentre mi girava verso di lui. Con la poca luce riuscivo comunque a vedere i suoi occhioni guardarmi serio.
“Come potrei ucciderti? Non avrebbe alcun senso”, ridacchiò mentre io mi voltai con il volto verso la folla, verso la crew che con una pila si erano fatti uno spazio attorno ad una ragazza per portarla via. “Sta tranquilla, andrà tutto bene. Appena la porteranno in ospedale  chiameranno Emma per sapere se sta bene e noi riprenderemo il concerto”.
Infatti appena parlò la crew cominciò a portarla fuori dal pubblico, verso un’ambulanza forse. Ora almeno riusciva a respirare senza avere tutti addosso.
“Se vuoi dopo possiamo passare a trovarla, così sei sicura che sta bene, okay?”, chiese ancora facendomi girare verso il suo volto, trovandolo completamente al buio. Avevano di nuovo tolto la luce.
“Andy aveva ragione”, sussurrai appoggiandomi al suo petto caldo e forse un po’ appiccicaticcio. Certo, non era la cosa migliore del mondo, ma era una bella sensazione. Sensazione di casa, di amore, di protezione e di serenità. Sensazione di sapere di essere vicino a qualcuno su cui contare per sempre.
“Che cosa intendi dire?”, chiese visto che mi aveva sentito. Mi baciò i riccioli, per poi abbassarsi verso la guancia.
“Che sei meraviglioso”, dissi alzandomi sulle punte dei piedi e aggrappandomi al suo collo, giocherellando con i lunghi capelli della mullet. Mi ero arrabbiata quando aveva deciso di abbandonare il taglio che preferivo, ma alla fine avevo ceduto. Sembrava tanto scolaretto, conciato così. “E che saresti un ottimo papà”.
“Cosa?”, ridacchiò stupefatto. Lo guardai senza dire nulla, non sapendo se la sua risata era un buon o cattivo segno. Ma poi lui continuò a parlare. “Wow… il grande Jared Leto, il migliore e più figo ex scapolo dell’universo insieme a suo fratello Shannon… papà? Sul serio?”.
“Non ti piacerebbe?”, chiesi.
“Non lo so, sì, forse… voglio dire, mi ci immagini, papà?! È già tanto che so badare a me stesso!”, replicò senza essere totalmente in disaccordo.
“Jared… guardati”, dissi semplicemente. “Gli Echelon sono la tua famiglia e quei ragazzi, o quei bambini, sono come tuoi figli. Tu li cresci, li educhi, li vuoi bene. Non serve una laurea per essere un buon padre. Serve solo amore”.
“E poi sono fidanzato con un’esperta babysitter, no?”, mi prese in giro, alzandomi il mento e avvicinandosi. Anche al buio, lo sentivo arrivare. Era meglio così, mi sarei imbarazzata a parlargli di figli o bambini alla luce, anche se non ne capivo bene il motivo.
“Scemo. Secondo me te la caveresti benissimo anche da solo… sei fantastico”, ridacchiai ritornando per qualche secondo alla sua altezza e sentendo le sue labbra sul lato destro delle mie. “Anche se la cosa è un po’ strana”.
“Cosa?”.
“Guardaci. Siamo insieme da meno di un anno e già parliamo di matrimonio o figli. A volte credo che stiamo correndo un po’ troppo, mentre altre mi sembra di andare al rallentatore”, confessai appena le sue labbra si poggiarono per un secondo sulle mie.
“Al massimo siamo di nuovo insieme”, mi corresse ridendo. “Ronnie, non capisci? Sono dieci anni che ti conosco! Mi sembrava di sapere tutto di te da quando ti ho vista scendere dalle scale di quella vecchia casa di mia madre a Bossier City il tuo primo giorno in questi pazzi Stati Uniti! Forse ci sarà sempre qualcosa che non capirò di te, anzi sicuramente, ma non posso sapere tutto. E nemmeno voglio. Mi basta solo la tua fiducia e il mio amore per te, e potrei fare qualsiasi cosa tu voglia. Non mi servono anni, ma solo uno sguardo!”.
Mi strinse più stretta e, sorridente, non smisi di guardarlo nemmeno un secondo. Poi parlai. “Io ho sempre detto che sei fantastico. Anche con i discorsi”.
Rise e poi si riprese. “Ehy, sai cosa mi manca? Il tuo straparlare da filosofa. È da un sacco di tempo che non lo fai”.
“Non mi serve più”, dissi cominciando il mio nuovo discorso filosofico. Lo voleva? Sarebbe arrivato subito. “La filosofia serve a capire cosa succede al mondo, come è nato, il perché delle cose che accadono. Prima ne avevo bisogno, ero alla disperata ricerca del perché mi stesse succedendo quello. Ora non ne ho motivo di cercarlo. Voglio solo vivere la mia vita, felice com’è”.
“Ecco. Ora sto meglio”, mi rispose facendomi ridere. “Ma forse devi ancora trovare dei perché, mi piace troppo il tuo fare la filosofa perché tu lo abbandoni”.
“Ci proverò”, promisi mentre le luci si riaccendevano, Emma diceva che tutto era a posto, Shannon e Tomo corsero sul palco per riabbracciare i loro strumenti e la crew si dava da fare. “Devi andare”.
“Dopo stanotte non avrai più modo di mandarmi via”, disse baciandomi per un ultima volta.
“E chi ha mai detto che io ti voglia mandare via?”, scherzai sulle sue labbra prima di spingerlo fuori, a continuare l’ultima canzone.
Erano passati venti minuti buoni e, per la trecentesima volta, Kings And Queens invase l’aria attorno a noi, sprizzando di allegria sempre nuova, con una carica stupefacente.
“Devo confessare che comunque, alla fine, mi mancherà non andare più in giro per il mondo”, disse Vicky sorridendomi e vendendomi vicino. “Mi chiedo che faranno per il resto della giornata se non hanno da preparare uno show”.
“Fammi pensare…”, intervenne Andy. “Jared si stravaccherà sul divano per tutto il giorno, magari a contemplare al sua bellezza infinita o pubblicare foto stupide sul suo blog. Tomo starà un po’ con te e finalmente farete un degno viaggio di nozze – alleluia! – e Shannon andrà, sotto mia ovvia sorveglianza, a fare casino con Antoine”.
“Sono così prevedibili!”, rise Vicky guardando il suo maritino impazzire con la sua amata chitarra. Stava per finire la serata più magica dell’anno.
“Ma tanto quando loro finiscono il tour, Ronnie farà il disco e, in men che non si dica, ci ritroveremo di nuovo per strada”, commentò Andy ridendo.
“Veronica?”, mi sentii chiamare. Era Emma e in mano aveva il suo telefono. Che cosa voleva da me? “C’è Solon per te”.
“Ma com’è che appena parli del diavolo, spuntano le corna?”, lo prese in giro sussurrando Andy mentre io ridevo, le facevo la linguaccia e rispondevo al mio manager, amico, produttore… insomma, a Solon.
“Sono Ronnie, che c’è Solon?”, chiesi prendendo il telefono in mano e sentendo la sua voce rispondermi.
“Ehilà, bellissima! Come vanno i 300?”, mi chiese sorridente. Da quando era così attivo e allegro a mezzanotte inoltrata?!
“Bene. Hai bevuto per caso?”, scherzai.
“No, ho solo una fantastica notizia!  Ma prima dimmi, come vanno le canzoni?”, mi domandò. Sapevo che me l’avrebbe chiesto, era ovvio visto che il tempo stava per scadere. Appena saremmo tornati a Los Angeles mi avrebbe catapultata in sala registrazione.
“Ho scritto la dodicesima, ma devo perfezionarla”, commentai. “Lo so, scusami Solon, sono pochissime dodici, ma mi dispiace!”.
“Ronnie, sono abbastanza favolose per essere cantate agli Offbeats? Credi che le ameranno?”, mi chiese senza farmi la ramanzina. Sapevo già la risposta, l’avevo letta su Twitter, nei messaggi per Vicky.
“Sì, ne sono certa. Credo in loro e… anche nelle mie canzoni”, dissi decisa, sorridendo, mentre Jared salutava il pubblico e veniva da noi. Mi prese in braccio, da dietro, facendomi urlare.
“Ronnie, che succede?”, sentii dire da Solon al telefono. Jared me lo tolse di mano e parlò lui. Cercai di fermarlo, ma non ci riuscii.
“Oh, niente, tesoro. Qui è tutto okay!”, mi prese in giro il mio ragazzo facendo la voce da ragazza e dandomi un bacio sulla scapola, dove avevo il tatuaggio.
“Ma ciao, Jared! Come va la vita? Sai, quasi quasi mi mancavi ma credo di aver appena cambiato idea”, sentii dire da Solon, facendo mettere il broncio a Jared. Risi.
“Oh, ma come siamo simpatici, eh?”, s’offese Jared mentre riuscii a scorgere Tomo che batteva il cinque a qualche Echelon e Shan, ancora sul palco, che lanciava le bacchette.
“Ti prego, Jared, puoi passarmi Ronnie?”, chiese Solon supplicandolo mentre lui faceva l’idiota come al solito, borbottando qualcosa senza mollare il telefono.
Cercai di prenderlo, muovendomi tra le sue braccia, ma se lo tolse dall’orecchio e lo portò in alto, alzando le mani
“Wooo, Provehito In Altum!”, scherzò mentre Shannon rientrava nel backstage, con il suo asciugamano, per abbracciare e baciare Andy. Se non fosse che il mio cretino di un ragazzo non mi voleva dare il telefono mi sarebbe sfuggito un awww.
“Io un idiota come te non l’ho mai incontrato!”, ribattei saltellando per raggiungere la sua mano.
“Jump and touch the sky, Ronnie!”, continuò.
“Sei davvero sicura di voler rimanere con lui per sempre?”, chiese Tomo guardandoci male, mentre sentivo Solon dire “Jared, dai quel cazzo di telefono a Ronnie! Ora!”.
“Jared!”, urlai fermandomi. Lui sbuffò e alla fine mi diede il telefono, dandomi un bacio sulla guancia e andando in un’altra stanza con i ragazzi, per continuare il VyRT.
Il ricordo di una sua frase mi colpì in pieno. Mi ci immagini papà? Voglio dire, è già tanto che so badare a me stesso!
Sì, era un bambino troppo cresciuto, ma lo era sempre stato. E sebbene molti avrebbero detto che avere un figlio da un personaggio del genere sarebbe stata una catastrofe, io mi sarei divertita.
Me lo immaginavo prendere in braccio un piccolo Leto dai grandi occhi azzurri, farlo giocare, fargli imparare a suonare la chitarra, sempre scherzando e restando bambini. Insieme.
“Ronnie, sto parlando con te o con quell’idiota di Jared?”, mi chiamò Solon, al telefono.
“Sono io, Solon. Dimmi pure”, ripresi mettendo il telefono vicino all’orecchio. “Mi parlavi di una grande notizia”
“La casa discografica ti vuole scattante al tuo ritorno, ed è perfetto visto che hai già tutte le canzoni. Ora… sei pronta?”, chiese lasciandomi sulle spine.
“Sì, Solon, dimmi!”, risposi annuendo, anche se lui non poteva vedermi.
“Un duetto!”, esultò. Oddio, che avesse visto le malsane idee delle Offbeats? Jared mi avrebbe detto qualcosa in quel caso, no? “Con… Justin Timberlake!”.
“CHE COSA?!?!”, urlai io, ma anche Vicky e Andy, che avevano sentito la felicità di Solon dal telefono, mi guardarono spiazzate. Un duetto… con Justin Timberlake?!
“Ronnie? Non sei contenta?”, mi chiese Solon.
“Non vedi? Sprizzo di felicità”, commentai senza tono, in mezzo ad un impasse quasi ridicola. Wow… un’idea davvero da sconvolgere il mondo.
 
“Ah, è così, allora?”, ridacchiò Jared quando tornammo nella nostra camera d’albergo a New York. Stavolta niente lettini scomodi del bus, niente amici furbetti e guardoni, niente concerti da fare.
“Già… povera me”, dissi facendo un sorriso sghembo mentre lui chiudeva la porta a chiave e mi guardava felino, spingendomi senza toccarmi verso il lettone.
Mi sembrava di vivere la canzone Night Of The Hunter, mentre il cacciatore sta abbordando la preda per poi saltarle addosso e mangiarsela.
Mossi piano i piedi, andando sempre indietro e guardandolo in tono di sfida, mentre lui non la smetteva di ridacchiare. “Sai, non mi piace questa cosa: eliminiamo Timberlake e mettiamo Leto”.
Risi. Ma perché tutti volevano che facessi un duetto con Jared?! Si era sparsa la voce, per caso?
“Perché Leto non viene qua ora?”, lo incitai ridendo con l’indice della mano, mentre lui scosse la testa, come a dirmi di non provocarlo, e scattò verso di me. Davvero leonino, Leto, ma non abbastanza per prendermi!
Infatti cominciammo a rincorrerci per la stanza, alle due e mezza di notte, facendo anche cadere un tavolino barra comodino che c’era di fianco alla porta del bagno.
“Oddio! Adesso svegliamo tutti l’hotel, Jared!”, scoppiai a ridere mentre lui mi acciuffava e mi stringeva per i fianchi, ridendo.
“Beccata, piccolo demonietto”, mi prese in giro lasciando perdere ciò che avevamo fatto cadere e mi trascinò, ridendo malefico, verso la sua meta. “Cavolo, tutte queste cose mi mancano da morire!”.
“Dieci anni non sono abbastanza per dimenticarle, però”, gli feci l’occhiolino mentre raggiungevamo la destinazione. In meno di trenta secondi, manco lo facessi apposta, mi ritrovai sdraiata su un morbido copriletto bluastro. Sopra di me, Jared continuava a baciarmi il collo, con le mani strette sui miei fianchi, dirette verso la schiena.
“Si, okay, okay…”, rise lui guardandomi un attimo negli occhi. “Ora però vediamo di occupare questa bella bocca”.
“Oh, ma come siamo poetici, Leto! Immagino che ti sia impegnato per trovare una frase del genere, eh!”, dissi alzandomi di poco sugli addominali e prendendo la maglietta nera che aveva addosso.
“Non sai quanto”, finì prima di baciarmi veloce, quasi violentemente, ma senza esagerare. Ridacchiai sulle sue labbra, ma non terminai nulla, lasciando la mia mano sulla maglietta e facendola scendere verso l’orlo. In pochi attimi mi ritrovai la figura di Jared mezza nuda, con il suo petto fin troppo perfetto per sembrare vero, che mi guardava quasi volesse mangiarmi.
“Sul serio, Constance ci ha messo davvero impegno”, dissi. Era una frase che avevo già pensato, anche agli inizi di tutto. In quella gita, al Caddo Lake… quante cose erano successe in quelle ore!
Scoppiò a ridere, prima di guardare pensieroso la mia camicia a scacchi verdi e bianchi e cominciando a sbottonarla. Man mano che i bottoni si aprivano lui controllava ogni millimetro di pelle e poi, quando la tolse del tutto, mi disse il risultato della radiografia. “Bè, per quanto tu possa odiarli… anche i tuoi genitori hanno fatto un buon lavoro!”.
“Per una volta sì”, sorrisi cercando di cambiare argomento. “Anche se tu ti sei arreso alle mie abitudini alimentari, a quanto vedo”.
“Non sperarci troppo”, commentò, toccando la pelle che copriva poco le costole, un po’ in evidenza. “Ma per ora voglio essere io l’affamato”.
Risi e ricominciai a baciarlo, togliendomi le scarpe con i piedi e immergendo le mani nei suoi mori capelli mezzi lunghi, graffiandogli un po’ il collo.
Era bello fare l’amore con lui. Era come se stessimo giocando. Anche in quel contesto Jared riusciva a sembrare un bambino, ridendo e scherzando.
E io lo amavo. Era mio, per sempre.
 

 



 ...
Note Dell'Autrice:
Oggi vi rompo un pò perchè questo è uno dei miei preferiti. Prima di tutto perchè i Mars300 è stato il mio primo concerto Mars, sebbene non avessi davvero il VyRT e non fossi lì ma mi sono sentita nel loro cuore mentre correvano e saltavano per il palco *-*
In secondo luogo, io AMO quel video con Jared e Scott e spero di averlo riscritto tutto giusto perchè è troppo tenero. Riguardo al duetto mi serviva qualcuno e mi è venuto in mente solo lui ahhahahah ma servirà più avanti, non è messo a caso! E almeno vediamo Jared in veste "sono un padre figo" e "mi sto incazzando perchè sono geloso". OH YEAH!
Per l'ultima scena... bè le parole parlano da sole ahhhahaha

Grazie come sempre, anche per le vostre sempre buone accette recensioni e i vostri commenti che mi fanno sentire più importante di quello che sono.
Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 28
*** Hi. Get the fuck off! ***


Salve Echelon!!! Lo so, lo so, sono in ritardo ancora una volta, chiedo venia. Ma vi giuro che d'ora in poi sarò puntale adesso che sono.... IN VACANZAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!! 

Non ci posso ancora credere, ma God damn it, lo sono davvero! Spero che questo mi aiuti ad essere più veloce con gli aggiornamenti. E be.. un pò mi dispiace perchè più ritardo più la fine si allontana, anche se manca ancora un pò.

Anyway, vi lascio leggere perchè so che siete curiose. Nel caso non ve lo ricordiate eravamo rimasti ai Mars300 con il duetto di Solon e la notte... capitemi a me xD

Buona lettura :)





Capitolo 28. Hi. Get the fuck off!

 



 
Ronnie
 
“Perfetta! Ora puoi andare a riposarti un po’, in cabina voglio vedere un po’ la chitarra”, disse Solon quando finii la canzone che stavo provando, Like a Rebirth. Una delle mie preferite, scritta agli inizi dell’estate, quell’estate che si era rivelata la migliore di tutta la mia vita.
Uscii dalla cabina sorridendo e battendo il cinque a Carter, il mio chitarrista, lasciandolo entrare. Accordò la chitarra mentre mi mettevo comoda vicino a Solon e poi ci fece segno di partire.
Si mise le cuffie e, seguendo gli accordi che avevo scritto, cominciò a suonare.
“Allora? Com’è stavolta?”, mi chiese. Già mi aveva fatto quella domanda, tre anni prima. La mia risposta era stata ‘fuggitiva, mi sento come una fuggitiva’, e in realtà nemmeno io avevo mai capito se l’avevo detto in senso buono o cattivo.
“Come una rinascita”, scherzai ridendo, mentre lui mi abbracciava le spalle, mentre la musica si espandeva intorno a noi. “Grazie, Solon”.
“Di che?”.
“Di tutto, da sempre”, gli dissi guardandolo e stringendomi a lui, il mio fratellone acquisito. “Ci sei sempre stato per me e nessuno, se non Andy, l’aveva mai fatto”.
“Anche Jared, da lontano di certo…”.
“Jared non c’entra. Non gli rinfaccio nulla, non più. Entrambi abbiamo capito i nostri errori e va bene così”, cominciai. “E in ogni caso, Jared è il mio ragazzo.
“Tu… non avevi nessun obbligo verso di me, se così vogliamo chiamarlo. Tu potevi anche salutarmi, quel giorno, leggere le mie canzoni e dire ‘wow, sei brava!’, ma non farmi fare nulla.
“Invece no, di sei fidato di me, mi hai sostenuta, hai creduto nelle mie possibilità. È questo che cerco in un amico, è questo quello di cui avevo bisogno”.
“Sei fantastica, lo sai?”, disse facendomi ridere. Era il momento dei complimenti? Povero Carter, suonare mentre noi ci facevamo i fatti nostri. “Devi sempre ringraziare per nulla. E devi sempre incolparti per nulla”.
“E’ il mio difetto, lo sai”, terminai il discorso di fretta voltandomi verso il chitarrista, impegnato nelle sue corde.  Chiusi gli occhi e poggiai la testa sulla sedia, sentendo la musica e muovendo la bocca per mimare le parole della canzone.
It’s just like a rebirth! See you here, see you with me.
Like a rebirth, my heart starts beating again, beating stronger.
Like a rebirth, my mind drives crazy, drives crazy for your voice.
“Credi che noteranno questo cambio di rotta gli Offbeats?”, chiese Solon quando Carter finì la canzone, ma ci disse che la riprovava un’altra volta ancora per perfezionarla. Bene.
“Oh, credimi. Hanno già capito tutto, forse anche il suo nome”, ridacchiai lasciandolo stupito.
“Starti lontano per un’estate intera non va affatto bene, cara mia”, commentò scuotendo la testa, per poi ridere con me. “Seriamente che avete combinato?!”.
“Lascia stare, guarda! Figurati che hanno perso pure Tomo a Candia!”, dissi mettendomi una mano in faccia, come se fossi disperata. Perché, non lo ero davvero?!
“Non lo abbiamo perso!”, sentii la voce di Shannon lamentarsi e mi voltai. Eccole lì, le tre Marie versione rockstar maschili. Wow.
“Ah già, era sul balcone della vostra suite distrutta con un sacco di dollari in tasca, rubati ad un mafioso greco. Già, che stupida, come ho fatto a dimenticarlo!”, mi corressi mentre salutavo Jared con un bacio a fior di labbra, ridendo.
“Grazie ragazzi, non mi avete nemmeno invitato”, s’offese Solon.
“Tu ti saresti fatto il viaggio fino in Grecia solo per una sera? Ti conosco Solon, non metti il piede fuori di casa nemmeno a pagarti, quindi non prenderci in giro”, intervenne Jared.
“Concordo, hanno ragione”, li sostenni mentre lui faceva il broncio e si voltava verso Carter.
“E lui chi è?”, chiese Shannon. “Uno dei tuoi musicisti?”.
“Sì, sta provando Like a Rebirth”, spiegai imitando Solon e  mettendo i gomiti sulla console e poggiando la testa tra le mani, assonnata. Guardavo Carter, il suo modo di suonare, cercando di apprendere ogni piccolo particolare che mi avrebbe aiutata a migliorare la mia tecnica. A volte aggiungeva o modificava gli accordi originali, ma senza rovinare il complesso.
La provò ancora una volta e alla fine, dopo più di un quarto d’ora, Solon stoppò il ragazzo. “Perfetto!”, disse prima che un esserino tanto vanitoso arrivasse.
“Solon! Amico mio!”, arrivò un uomo che non conoscevo. Dietro di lui l’idolo di molte ragazzine. Signori e signore… Justin Timberlake! Wow.
“Chris! Dios mío, quando tempo!”, parlò Solon abbracciandolo. In spagnolo?! “Mi ricordo ancora la nostra vacanza in Messico!”.
“E’ vero! Che spasso. È da lì che cominciasti a parlarmi in spagnolo, vero?”, disse. Ah, ok.
“Sì, ma solo con te. Certa gente”, e nel dirlo urlò guardando me. Ma io che c’entravo ora, scusa?! “…non apprezzerebbe!”.
Scoppiarono entrambi a ridere e Justin si avvicinò a noi, guardando Jared curioso. In effetti lui non avrebbe dovuto essere qui.
“Ciao, sono Justin”, si presentò mostrandomi la mano.
“Piacere, Ronnie”, gliela strinsi decisa e con un sorriso. Determinata ma mai antipatica. Il motto di Solon per i duetti commerciali.
Il mio manager si decise a terminare la sua conversazione da teenager e cominciò a venire verso di noi, sempre ridendo con il suo vecchio amico.
“Senti, noi ci facciamo un giro per Los Angeles, tanto per vedere un po’ casa. Ci vediamo, Ron!”, mi salutò Shannon con un bacio sulla guancia e Tomo con un sorriso e con un saluto della mano. Bene, anche loro stavano prendendo la fissa di quel minisoprannome. No, bene un cazzo!
“Stai attenta, baby. Chiamami quando finisci”, mi sorrise un po’ triste Jared, baciandomi veloce ma passionale. Tanto per delineare il suo territorio.
Stupido gattino... adesso avrebbe fatto anche pipì attorno a me? Sperai vivamente di no.
Lo salutai con la mano vedendolo andare via e poi mi voltai verso Carter che usciva dalla sala di registrazione e andava a bersi qualcosa. Mi appoggiai alla console, stanca, abitudine presa da Solon.
“E così tu sei la superfamosa new entry nel firmamento delle star?”, mi disse girandosi verso di me. Mi voltai e lo guardai in faccia. Mi sembrava simpatico, molto di più del suo manager.
“E tu sei un esperto di quel firmamento, non è così?”, sorrisi un po’ stanca.
“Così dicono. Ci viaggio spesso, questo è vero”, ridacchiò mentre Chris appoggiò le sue mani sulle spalle di Justin.
“Il mio ragazzo è qui per lavoro, tesoro mio”, mi sorrise. Sì, guarda, invece io sto qui a rimorchiare! Che pessimo. “A proposito, chi ha il testo?”.
“E’ nella mia borsa, vado subito a prenderlo”, risposi scusandomi un momento. Corsi verso la tracolla e ne estrassi un foglio scritto a computer, ordinato dentro una cartellina di plastica, con tutti anche gli altri miei testi. “Eccolo qui”.
Chris cominciò ad esaminarlo, senza notare la faccia sorridente e orgogliosa di Solon, che guardava lui attendendo il verdetto. “Vedo che hai già segnato anche le parti…”.
“Sì, era solo la mia idea, non devono per forza…”, mi interruppe maleducato. Sbuffai e Justin mi guardò ridendo, abituato al suo manager.
“Sì, sì, va bene. Senti, le tue parti puoi anche tenerle così, ma vorrei modificare alcune cose su quelle del mio ragazzo, se per te va bene Solon”, finì lasciandomi stupita. Cosa?!
“Aspetta, Chris, fammi vedere”, prese per mano le carte Timberlake, sorridendo a quello che leggeva. “Io credo invece che sia buono come testo. Perché cambiarlo?”.
“Perché non deve essere buono. Deve essere perfetto, chiaro?”, sottolineò il concetto. “Va bene così per oggi. Vado a casa a sistemare questa roba, domani possiamo registrarla”.
Questa roba? Vaffanculo, stronzo, io scrivo quello che mi pare!
Solon mi guardò in segno di scuse e io, incazzata, mi alzai e uscii da quel posto, andando a camminare nel piccolo giardino fuori. Respirai profondamente ma alla fine mi accorsi di non essere sola.
“Mi spiace. È sempre così, ma non è cattivo”, si scusò Justin.
“Sembra che parli di un cane”, risposi voltandomi e mettendo le braccia incrociate sul petto.
“Vedila come vuoi”, sorrise. Aveva un bel sorriso, contagioso, ma non stupendo come quello di Jared. Il suono della sua risata non ti faceva sentire bene come quella provocata dalle corde vocali del mio ragazzo.
“Perché sei qui?”.
“Perché volevo dirti che hai tutto il mio permesso di mandarlo a fanculo, ma ti prego, fallo dopo la registrazione, quando sei sicura che non lo vedrai mai più”, riprese a scherzare.
Un risolino sfuggì dalle mie labbra e decisi di sciogliermi un po’. Buttai le braccia di fianco alle gambe, liberandomi il petto, e gli andai vicino, guardandolo negli occhi. “Seriamente, come fai a sopportarlo?”, chiesi dandogli un pugnetto simpatico sul torace.
“Tanti anni di pazienza”, rispose. “Tu, invece? Con Solon non c’è il rapporto dittatorio da manager?”.
“Non prenderla come una raccomandazione, ma diciamo che Solon è un vecchio amico a cui voglio un mondo di bene”, dissi abbassando un attimo gli occhi per poi rialzarli e scoppiare a ridere.
“Ci sei andata a letto? No, perché a volte è quello che intendono molte per vecchio amico a cui voglio bene”, chiese scherzando. Peccato che non la presi bene.
“Senti, fighettino, se sei venuto qui per farti vedere o per dirmi che sono una troia poi benissimo tornartene a casa tua e andare a farti benedire con il tuo cazzo di manager so-tutto-io!”, urlai voltandomi e andando via, sbuffando. Ma che razza di…
“Ehi, ehi, stavo scherzando, dai!”, disse prendendomi il braccio. Mi voltai e per poco non gli mollai uno schiaffo, ma poi guardai i suoi occhi e mi fermai. “Che cambi d’umore, ragazza mia!”.
“Scusami, non volevo”, dissi svelta.
“Che hai? Non stai bene? Sembri su di giri, e anche parecchio”, mi chiese. Sembrava realmente interessato.
Lo fissai e poi mi avvicinai, lentamente, al suo viso. “Prometti di non dirlo a nessuno? Mai. Rimarrà un nostro segreto?”, chiesi mentre lui mi guardava a metà fra il curioso e l’interessato.
Perché lui? Uno sconosciuto passato di lì. Non era a lui che avrei dovuto dire certe cose. Ma era lì, ed io stavo scoppiando.
 
 
Jared
 
“Sbaglio, o Ronnie è un po’ nervosetta in questo periodo?”, chiese Tomo mentre camminavamo per le strade di Los Angeles, appena usciti dalla sala di registrazione. Non mi piaceva quel tipo, non mi piaceva per niente e l’idea che lei doveva passarci la giornata mi andava sempre meno. Insomma, potevo farlo io un duetto con lei! Perché chiamare uno sfigato come Justin Timberlake?! Già il nome dava l’idea di quanto fosse messo male…
“Sì, in effetti, Tomo, hai ragione”, concordò mio fratello mentre io non avevo nemmeno capito quello che stavano dicendo. “Insomma, dieci secondi prima ti sta abbracciando e alla minima puntualizzazione che le fai ti tratta come se l’avessi presa a calci”.
“Sì, anche… ma la vedo strana. Bah, forse è per il cd che deve uscire e ha paura della reazione dei fan”, ipotizzò Tomo di nuovo. Che poi non capivo, che ci trovavo le donne in quel tipo? Per me non era possibile da comprendere. “Tu, Jared, che ne dici? Ti parla mai del disco?”.
“Eh?”, chiesi sentendo il mio nome e voltandomi dovunque, per poi notare la faccia di Tomo che mi guardava tra lo stupito e il deluso. Che volevano da me?
“Sei fra noi, Jared?”, chiese Shannon ridendo. “Ti ha chiesto se Ronnie è stressata per l’album o se sta impazzendo”.
“Quindi l’avete notato pure voi?”, chiesi preoccupato mentre Tomo scoppiò a ridere. Era tanto divertente che Ronnie si stressasse?! “Voglio dire non ho idea se sia colpa dell’album o cosa, ma prendete per esempio ieri sera. Ho proposto una bella seratina tranquilla sul divano con pop-corn e film a casa e lei sussurra ‘e certo, tanto ormai se sono annoiata tanto vale finirla lì’. Però nel mentre mi dice che è stata una cosa carina e le è piaciuta. Io non capisco”.
“Tu non capisci per principio, non è colpa della tua ragazza”, scherzò Shannon, che si meritò un mio pugno sul suo braccio. Tanto non sentì nulla.
“Però ha ragione. Boh, è come se scattasse sempre qualcosa”, pensò Tomo, mentre vedemmo di esserci spinti lontani e decidemmo di tornare indietro. “Magari deve riprendersi ancora dai suoi. Serve tempo e forse troppo tranquillità la manda in crisi”.
“Paura che succeda qualcosa? Sì, può darsi”, conclusi io. “Ha i sensi all’erta. Sa che non può permettersi di sbagliare nulla. Povera piccola… dovrò prepararle qualcosa di speciale appena torniamo”.
“Oh, ma che romanticone”, mi prese di nuovo in giro Shannon.
“E tu, con Andy?”, chiese Tomo, facendo la stessa domanda che mi stavo ponendo io.
“Impicciatevi dei fatti vostri”, disse mettendosi gli occhiali da sole e andando avanti a camminare. Lo seguimmo imploranti.
“No, adesso ce lo dici!”, canticchiammo in coretto più volte, supplicandolo fino allo sfinimento.
“No!”.
“Sì!”, continuammo noi.
“Non ci penso proprio”, ripeté cercando un’altra via per scappare dalle nostre voci fastidiose.
“Diccelo! Diccelo! Diccelo!”, cominciammo a ripetere all’infinito, ridendo insieme. E io volevo fare un figlio? Ma mi vedevo? Lui sarebbe stato più maturo di me anche appena uscito dalla pancia di sua madre. Devo dire che in quel caso sarei stato geloso… Jared, evita di fare questi pensieri stupidamente erotici, basta.
“Oddio!”, gridò esasperato dopo qualche minuto. “Se ve lo dico ve ne state zitti?”.
“Ovvio!”, annuimmo ridendo insieme.
“Ok, ve lo dico”, sbuffò per poi cominciare a camminare ancora, tranquillo. Davvero credeva di fregarci così?
“Allora?”, chiese Tomo.
“Io ve lo dico… non ho mai detto quando, però”, sorrise soddisfatto.
Io e Tomo ci guardammo, fissammo lui per un po’ e poi attaccammo con la nuova cantilena. “Diccelo… ora! Diccelo… ora! Diccelo… ora!”.
“O madre santa di Dio!”, imprecò. “Ma la volete finire?! Avete rotto quelle fottute palle, chiaro?!”.
“Diccelo… ora! Diccelo… ora! Diccelo… ora!”, continuammo imperterriti, quasi arrivati a destinazione. Una volta lì Shannon era salvo, ma non sarebbe accaduto. Aumentammo la velocità.
“Ok, ok, dannazione”, ammise prima di entrare. Io e Tomo sorridemmo felice. “Va tutto alla grande, okay? Sono strafelice, lei è meravigliosa…”.
“Ma?”.
“Ma cosa?”, chiese.
“Andiamo, Shannon, quando uno parla così vuol dire che c’è sempre un ma. Qual è il tuo ma?”, spiegò Tomo.
“Ma… deve partire tra qualche mese per Londra a girare un film”, si rattristò abbassando gli occhi.
Io risi, senza accorgemene, e lui mi uccise con lo sguardo. “Shannon, sarebbe questo il tuo ma? Cazzo, siamo in vacanza. Se lei va a Londra a girare un film, tu seguila e basta!”.
 “Come faccio?”, chiese stupido.
“Come fai? Prendi un aereo e te ne vai in Inghilterra, ecco come fai”, sorrise Tomo scuotendo la testa. Entrammo nell’edificio e andammo verso la sala di registrazione.
“E Antoine? In teoria dovrei fare il tour con lui”, ci ricordò. Mi stava prendendo per il culo, per caso?
“No, fammi capire. Tu non vai a Londra con Andy… perché te la devi spassare con Antoine?!”, lo presi in giro. “Che poi, sai che divertimento ora che non puoi più fare niente!”.
“Sì, lo so… ma mollarlo così di punto in bianco mi dispiace”.
“Oddio santissimo, quanto la fai complicata”, commentò Tomo aprendo la porta. “Digli: ehy, ho una ragazza, quindi voglio stare con lei, mi dispiace. Punto, hai risolto”.
Shannon scosse la testa divertito ma poi, come al solito, capì che in fondo aveva ragione. “Va bene, va bene”.
“Ehy, ma dov’è Ronnie?”, chiesi quando notai che nella stanza non c’era anima viva. Nemmeno nella cabina di registrazione. Nessuno, tutto vuoto.
“Forse hanno già finito e sta tornando a casa”,  ipotizzò Shannon controllando anche lui.
“Impossibile, mi avrebbe chiamato e, cosa più importante, qui c’è la sua borsa”, notai.
“E qui i suoi testi”, completò Tomo, vicino alla console, prendendo in mano una cartellina di plastica piena di fogli. “Ordinata, la ragazza”.
“Solo per quello”, scherzai ridendo.
“Ragazzi! Ciao!”, sentii dire da Solon. Era entrato con un caffè in mano e ci salutava con l’altra mano. Ricambiammo il gesto e sorridemmo anche noi. “Che c’è?”.
“Dov’è Ronnie? Avete già finito?”.
“Nemmeno iniziato, sfortunatamente. Chris vuole cambiare il testo per Justin e dice che canteranno domani. Ho paura di quello che può fare… a me piaceva tanto quello che aveva scritto Ronnie”, ci spiegò sedendosi di fianco a Tomo, vicino alla console.
“Perché dovrebbe cambiarlo?”, chiesi io. Che voleva lui dalla canzone di Ronnie?! Se non gli piaceva poteva anche fare il favore di andarsene fuori dai coglioni!
“Non lo so, ma lui è fatto così. Infatti lo stava per uccidere quando le l’ha detto”, sorrise, forse immaginandosi la scena.
“E dov’è ora?”, domandai di nuovo mentre Tomo e Shannon giocavano come se avessero due anni. Poverini…
“In giardino, voleva prendere un po’ d’aria. Magari riesci a farla calmare… in questi giorni è un po’ su di giri”, mi informò lui facendo fermare i ragazzi che dissero in coro ‘L’hai notato anche tu, allora!’.
Scossi la testa, salutandoli, e mi diressi di fuori, dove sapevo c’era un giardinetto. Di sicuro era lì: era Ronnie, che si rifugia sempre nella natura per trovare conforto. Come a Milano, che dopo la sfuriata si era seduta per terra, abbracciata dal cielo e dalle sue stelle.
Ma stavolta non erano le stelle ad abbracciarla. Stavolta c’era quell’idiota che Solon aveva pagato per cantare con lei a consolarla. Che poi consolarla… era tutto da vedere.
“Scusate… ho interrotto qualcosa?”, chiesi facendomi sentire e avvicinandomi a loro. Ronnie si voltò verso di me, staccandosi da Timberlake e sorridendo. Era un sorriso vero, sincero, ma per un qualche stupido motivo non mi convinceva. Era tesa.
“Jared!”, mi sorrise, vendendomi incontro. Mi scansai, mentre lei mi guardò storto, senza capirne il motivo. “Che succede, amore?”.
“Forse sarei dovuto arrivare più tardi, mi spiace”, mi scusai con il broncio mentre loro si guardavano.
“Che intendi dire, scusa?”, ridacchiò Ronnie, come se stessi parlando per assurdo.
“No, sai com’è… è una gioia vederti stare lì appiccicata stile koala ad un idiota del suo livello. No, fa pure, tranquilla”, cominciai deciso. Ero… geloso?! Sì, cazzo! Ero fottutamente geloso, ma anche impaurito di perderla perché quell’idiota era più giovane di me e a lei avrebbe potuto dare, forse, molto di più.
“Jared, non stavamo facendo niente, non dire stupidaggini, io…”.
“Tu. E tu di solito non sei quella che abbraccia sconosciuti così a caso, Ronnie! Che succede, mi spieghi?”, mi arrabbiai mentre lei s’impauriva, scuotendo freneticamente la testa.
“Non succede niente, Jared! Non stavo facendo niente, cavolo. Non capisci?”, mi chiese quasi in lacrime. Jared… perché stai sempre a combinare disastri? “Avevo solo bisogno di un attimo di conforto, tu non c’eri e Justin è un bravo ragazzo. Che c’è di male, è solo un abbraccio!”.
“Non lo so, Ronnie, è che…”, cominciai.
“Cosa?! È che cosa? Non ti fidi di me, ora? Cos’è, vuoi la ripicca per dieci anni fa?! Ma ti sembra che io vada con il primo che passi per strada, dopo tutto quello che ti ho detto, dopo tutto quello che ho fatto?!”, urlò arrabbiata mentre vedevo i ragazzi uscire e avvicinarsi verso di noi. Timberlake intanto fissava la situazione, impassibile.
“Non sto dicendo questo, io…”.
“Invece a me pare proprio che tu stia dicendo questo, Jared”, disse quasi calmandosi, ma respirando forte. “Sai, una cosa. Sono stanca, torno a casa. Quando hai finito di sparare cazzate e ti sei rimessi in pista vienimi a parlare”.
“Ronnie!”, dissi mentre mi spostava con un colpo di spalla, andandosene a prendere la borsa e la giacca di pelle nera, per poi superare tutti ed andare via. Aveva il telefono in mano, forse a chiamare Vicky o Andy.
“Jared….”, iniziò Timberlake, mentre mi voltavo e lo uccidevo con lo sguardo. “Ok, ti prego, non voglio fare nulla. Solo… non stavamo davvero facendo niente! In realtà si parlava di te”.
“Di me?!”, chiesi stupito. Bello, ora si sparlava pure.
“C’è una cosa abbastanza importante che sta provando a dirti da settimane, Jared, ma non sa come fare…”, mi disse.
“Cosa?! Cosa sta provando a dirmi?”, chiesi io mentre prendeva qualcosa da terra, nel punto in cui erano prima. Era un fogliettino.
“Prima di tutto… tanti auguri”, finì porgendomi il pezzo di carta e sorridendomi in tono di scuse. “Spero che tu capisca. Ne sarebbe davvero felice. E seriamente… è tua. Anche volendo non potrei mai rubartela, è fatta per te”.
E se ne andò anche lui, lasciandomi leggere le parole che poi avrebbero cambiato la mia vita.
 
Hi baby! Forty fit you so well, you know?!
I mean, you are awesome, you can always understand what I feel and, believe me, this is the most important thing, for me. Your music alwayshelp me when I can’t stand the situation. Your happiness make me happy, when I look at you, I understand why I am near you. Because this is the right place for me. I have to be with you.
Today we celebrate your birthday andI am veryproud of you, little crazy stupid man! I loveyou, remember it forever!
Without you, sometimes, I think that I couldn’tbe what Iamtoday, and this is not so good. I feel like, without you, crazy, kind, idiot, naive, great man… I’ll be finished.
For the pain of  my parents or what happened to me in all this years, I have to thank you for be with me and make me smile. I love when you call me ‘little demon girl’or make funof me jokingly.
But now… there is something that you have to know, and someone call it ‘The Wow Factor!’.
Read it again and discover it!

 
Era un biglietto di auguri per il mio prossimo compleanno, che effettivamente era tra una settimana. Questi due giorni erano gli ultimi prima delle ufficiali vacanze di Natale per il mondo e di certo quei pazzi mi stavano preparando qualcosa di brutto per i miei quarant’anni. No, i miei 30+10 anni.
Sapevo che Ronnie volesse farmi qualcosa di speciale, visto che l’ultimo compleanno insieme è stato meraviglioso, sia il mio che il suo, ma non capivo il senso di questo biglietto.
Erano parole vere, bellissime come suo solito. Ma non erano ordinate, non seguivano un discorso logico e ben distribuito. E questo non era nel suo genere.
E poi perché certe lettere erano calcate, che mi stava a dire ‘Rileggilo e scoprilo’? Non capivo e non mi piaceva affatto.
Essere così misteriosi non andava mai bene.
“Wow… parecchio strano. Sicuro che l’abbia scritto lei?”, chiese Shannon sbirciando mentre io ero in coma remunerativo, cercando di capirci qualcosa.
“Sì, è la scrittura di Ronnie. Ho visto così tanti suoi pasticci che ci potrei giurare la testa”, confermò Solon, mentre dava anche lui uno sguardo. “Solo non capisco le lettere calcate. Di solito calca quando sbaglia, ma qui non vedo tanti errori”.
“Devo andare da lei!”, dissi all’improvviso dando quasi un pungo a Tomo nel voltarmi e misi il foglietto in tasca. “Devo dirle che mi dispiace, che sono stato uno stramaledetto idiota, come al solito, e che la amo da morire!”.
“Prova a tornare a casa”, ipotizzò Tomo, di nuovo.
“No, non è lì. Non è il tipo da rinchiudersi in casa quando è arrabbiata”, evitai. “L’ha detto solo per mettermi alla prova e sono certo che si sbaglia, se pensa che non la trovi”.
I ragazzi mi guardarono stupiti e feci loro segno di lasciar perdere. Poi mi misi a correre, verso una direzione che conoscevo ormai a memoria. Los Angeles era la mia città, conoscevo tutto di lei. E Ronnie era la mia ragazza, quella che amavo e che capivo sempre, anche se a volte con un po’ di ritardo.
In una decina di minuti mi ritrovai davanti al luogo in cui ero certa si fosse nascosta. La spiaggia.
Quella che avevamo visitato prima della sua festa, quella che ammirava sempre o di cui aveva nostalgia quando eravamo in tour.
Ed eccola lì, in piedi, con le mani incrociate sul petto. La vedevo, anche se di spalle, e guardavo i suoi capelli volteggiare ricciolosi con il vento.
“Sapevo che mi avresti trovata alla fine”, disse senza voltarsi, quando fui distante da lei solo un paio di passi. “Ma non sono così sicura su come dovrei sentirmi ora”.
“Mi dispiace, Ron”, andai dritto al punto togliendo tutte le distanze e abbracciandola forte da dietro, cingendole i fianchi. “Mi dispiace, sono un idiota. Faccio sempre la cosa sbagliata, non capisco mai niente e ti faccio soffrire. Mi dispiace, ti prego”.
“Tu non mi fai soffrire”, disse voltandosi e facendomi un sorriso sghembo, per poi cambiarlo in un broncio. “Ma mi fai incazzare! Come puoi seriamente pensare che con te come fidanzato io vada a prendere Timberlake?!”.
“E’più vicino alla tua età”.
“Cosa?! E questa sarebbe la tua grande scusa? Tu sembri un ventenne e hai il cervello di un decenne!”, scoppiò a ridere. “Non è l’età quello che mi importa. Dieci anni, sai che mi frega! Tu sei quello che voglio, tu sei quello di cui ho bisogno. Nessun altro, Jared. Non ci potrà mai essere nessun altro”.
“Lo so, ma a volte è difficile non essere geloso, sai?”, scherzai.
“E lo vieni a dire a me, quando so che l’intero universo popolato da  Echelon, me compresa, vorrebbe saltarti addosso!”, mi spiegò. Lei compresa?! Questo era un aspetto molto interessante. “Non devi essere geloso, Jay. Non devi essere troppo impulsivo”.
“Va bene”, accordai.
“Ora, posso dare un abbraccio al mio ragazzo, visto che prima se l’era squagliata mentre desideravo uccidere e bere il sangue di quel cazzo di manager da strapazzo?”, chiese facendomi ridere.
“Con molto piacere, my Lady”, dissi abbracciandola stretta, mentre lei si appollaiò come suo solito sul mio petto, lasciando che il vento le spostasse i capelli.
“Tra un po’ sarà ora di tagliarli, sai?”, dissi notando che si erano ancora più allungati di quanto già non fossero. Ora erano fino alla fine della schiena, ricci. Non volevo immaginare come sarebbero stati se li avesse piastrati ancora.
“Parla per te”, borbottò.
“Tra un po’ ritornerò al codino. Un’altra pettinatura bellissima che ti sei persa”, ricordai il discorso degli MMA’s sorridendo.
Lei scoppiò a ridere. “Ok, fai come vuoi. Ma finiscila di rompere sui miei poveri capelli”,
“Ti amo, Ronnie”, me ne uscii, guardando il sole che tramontava.
“Anche se non so perché hai questa vena romantica ora… anche io ti amo, Jared”, ridacchiò alzando il viso e incastonando i suoi smeraldi vivi nei miei occhi azzurri.
 

....
Note Dell'Autrice:
se avete capito il messaggio siete delle fighe, anche se in teoria dovreste dimenticarvelo xD ahhhhhahahahahah detto questo: DIMENTICATEVELO! ps. "the wow factor" vuol dire "effetto a sorpresa". E ora ribadisco: dimenticatevelo :D
Spero che vi sia piaciuto come al solito e spero che l'intruso non vi abbia infastidito. Ora che ha fatto quello che doveva fare se ne potrà beatamente andarsene dalle palle (??)
Ora, oggi sono buona, quindi... chi vuole un minispoiler?!

....

“Se un giorno ti perderò ora potrò ricordarti e renderti giustizia”, commentò quasi triste. “Le volte che la mia mente faceva la ribelle ed evitava la salda regola di non pensarti, non creava un’immagine realistica. Non voglio che riaccada, devo ricordarti esattamente come sei, nei più precisi dettagli”.
“Tu non mi perderai, Ronnie. Né ora né mai”

....

 


Bene, spero vi abbia incuriosito :D 
Bacioni e MarsHug, Ronnie02

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Capitolo 29
*** Here we are at the start ***


Salve miei adorati Echelon!!
Il caldo sta uccidendo anche voi? Spero di no, dai; anche se io sono qui in pantaloncini e top, letteralmente sciogliendomi dal caldo.
E la scuola? tutto bene? Spero di sì, a me è andata più che bene, così avrò tempo per scrivere :)
Ora però, mettetevi comodi, prendete di fazzoletti perchè, almeno stavolta, piangerete di gioia! *stavolta* ahahhahaha
Dai, buona lettura gente





Capitolo 29. Here we are at the start

 
 




Ronnie
 
Dove era finito?! Merda, dove l’avevo cacciato?! Ora mi sarebbe toccato rifare tutto da capo. Il che non era semplicissimo visto che la prima volta ci avevo messo una vita.
Ce l’avevo il giorno della registrazione, nel giardinetto… oddio non potevo averlo perso lì! No, doveva essere qui da qualche parte!
Macché, nella borsa non c’era traccia, nella giacca di pelle nemmeno, nei jeans men che meno. Non potevo averlo perso, no, mi rifiutavo di pensarlo!
“Hey, che c’è, piccola?”, entrò Jared, vestito a festa, con un sorrisone che per un attimo mi fece passare l’angoscia. Sì, per un attimo perché subito dopo ricominciai a guardarmi attorno.
“Non trovo una cosa importante”, dissi vaga, cercando di non destare sospetti.
“La cercherai domani, dai. Ora siamo un pochino in ritardo”, mi sussurrò avvicinandosi e baciandomi a fior di labbra.
“Non posso ancora crederci che faremo un cenone di Natale tutti insieme, anche con Constance. Non era mai successo”, continuai aggrappandomi al suo collo. Pace, avrei trovato un altro modo per rivelarglielo. O mamma mia…
“Sì, è vero. Mancava sempre qualcuno all’appello”, ridacchiò abbracciandomi e fianchi e dandomi un vero bacio alla Leto.
Ma ovviamente, visto che la sfiga non se ne va mai, ci dovemmo fermare per colpa di uno stupido Blackberry che ci avvisava di una chiamata da parte di mamma Constance.
Jared sorrise, dandomi un bacio sulla guancia, e rispose veloce “Ehi, donna! Sì, ci siamo. Sì, arriviamo. Mamma sì! O per l’amore del cielo, siamo già praticamente lì. Non mi vedi? Ecco brava, cambia occhiali allora! Dai lo sai che ti voglio bene. Ok… sì, sì mamma! Mamma se continui a parlare io non salgo in macchina e non guido. Va bene… sì… Sì, okay! Ciao… ciao!”.
“Non vedo l’ora di rivederla”, scoppiai a ridere nel momento stesso in cui Jared, con uno sbuffo affaticato, mise in tasca il telefono.
“Nemmeno lei quindi sarà meglio andare o mi strozzerà per il ritardo, baby”, mi disse prendendomi la borsa e passandomela. Ci guardammo entrambi allo specchio – non sia mai che un suo capello fosse in disordine – e scendemmo di corsa, salendo sull’auto.
Per l’occasione Jared si era messo una camicia bianca e dei pantaloni eleganti, da vero uomo adulto qual era – che battuta! –, mentre io avevo un vestito lungo, a mezze maniche con lo scollo a V, di colore rosso. Niente di eccessivo, niente di troppo casual.
Una cosa però mi ero messa. Una cosa che appena Jared notò fece una sorriso che mi ammaliò per un ora buona.
Gli orecchini che mi avevano regalato al nostro primo, e per ora unico, Natale insieme. Quelli con i simboli della band.
Quando lui se n’era andato li avevo racchiusi e sigillati in un cofanetto, nascosto tra tanti cassetti della mia stanza a Bossier City, e poi anche a Los Angeles, e sopra avevo inciso la parola Don’t! per evitare di toccarli e deprimermi per i ricordi.
Non li avevo mai più aperti da quella volta e sembrava così strano guardarli di nuovo, toccarli e perfino indossarli.
Ma ormai era tutto passato, tutto concluso. Avevo buttato la scatola, piena di brutti pensieri e li avevo infilati nei lobi, voltami verso Jared e illuminandolo appunto di gioia.
Ero felice di averli indossati, ma in quel momento c’era qualcosa che mi preoccupava di più di un paio di orecchini.
 “Che succede? Sembri tesa”, mi chiese mentre eravamo in macchina, guardando me per un secondo e fermando il ticchettio della mia mano sinistra con la sua. Sembro? Ero in crisi esistenziale senza quel maledetto… accidenti!
“No, tutto tranquillo”, mentii sfacciatamente ironica sorridendogli e guardando fuori dal finestrino, mentre lui non toglieva la sua mano dalla mia.
Stando a quello che mi aveva detto Jared, Constance abitava nella periferia di Los Angeles, ma eravamo in macchina da mezz’ora e ancora non mi sembrava intenzionato a fermarsi. Dove cavolo eravamo?
Accese la radio, sperando che mi tranquillizzasse e cominciò a canticchiare ogni canzone che ne usciva, anche se alcune non le sapeva e inventava. Appena diedero Stop my heart, una mia canzone del primo album che parlava ovviamente di lui, si fermò e cominciai a canticchiare io.


Can you remember when time were easy?
We were laughin’ together,
We face the world without any fear!
But one day you decide to break everything
You decide to stop my heart!
And my mind force to think
That was only a nightmare
And one day we’ll come back to laugh


“Come facevi a saperlo?”.
“A sapere che cosa?”, chiesi appena finì la canzone, sostituita da un’altra da discoteca.
“Che saremmo tornati a sorridere”, mi spiegò guardandomi e sorridendo.
“Ho sempre creduto che la perfezione si raggiunge quando la rabbia è cessata. Sarei stata perfetta solo nel mondo in cui ti avrei perdonato, ovvero quando saremmo tornati a ridere”, gli dissi mentre notavo che finalmente svoltava in una stradina, indicandomi la casa di sua madre. Eravamo arrivati finalmente.
“Io l’ho sempre saputo che tu eri perfetta”, mi prese in giro dandomi un veloce bacio sulla guancia.
“Perfetta con te”, sottolineai uscendo dall’auto e notando la figura di Constance ad aspettarci all’entrata di casa sua.
Appena Jared uscì, chiudendo l’auto e avvicinandosi a me, lei ci corse incontro frenetica, con un grande sorrisone in faccia. Era invecchiata, anche se era comunque scalmanata come dieci anni prima. E chi la fermava?!
“Ronnie! Oddio santissimo, come sei cresciuta!”, mi abbracciò di colpo mentre io temevo più che altro cosa mi avesse preparato. Infatti non avevo mangiato il pranzo, sotto lo sguardo arrabbiato di Jared, sapendo che quella sera mi avrebbe riempito come un elefante. “Ronnie, non ci siamo proprio! Che scherzo è mai questo? Sei diventata uno scheletro!”.
Appunto.
“Constance, ho già paura per la cena, non cominciare”, la avvisai con un sorriso, staccandomi da lei per permetterle di salutare suo figlio.
“Sì, certo come no. Vedi tu adesso come ti sistemo”, mi minacciò convinta. Poi si voltò verso Jared. “Come stai, tesoro? Non ti vedo da un sacco di tempo! Che hai combinato, oltre a ritrovare questa pazza?”.
“Ehi!”, mi offesi io mentre quei due scoppiarono a ridere.
“Lo sai che ti voglio bene come ad una figlia. E come tale ho il dovere di prenderti in giro come con i miei figli. Andy l’ha presa meglio di te”, mi rinfacciò. E così Andy le aveva detto che era la ragazza di Shannon… ci stavano andando seriamente quei due.
“Oh, bè grazie!”.
“Tesoro, non fare così”, scherzò ridendo tornando ad abbracciarmi mentre io ridevo di me stessa. “Lo sai che per me sarai sempre la ragazzina che sveniva di continuo a casa mia!”.
“Già… bei tempi, quelli”, ricordò Jared con un sorriso.
“Già”, concordai io mentre Andy apriva la porta d’ingresso e ci faceva segno di entrare, con un sorriso. Le dovevo per forza parlare e subito anche. “Andy!”.
Mettendola sul piano oddio quanto mi sei mancata anche se non ci vedevamo solo da una settimana, me la portai via insieme a Vicky, mentre i ragazzi aiutarono Constance a portare tutto in tavola. Dei flashback dei pranzi insieme a Bossier City mi invasero la mente portandomi un sorriso in faccia, ma che scomparve subito.
“L’ho perso!”, piagnucolai quando fui sicura che nessuno potesse sentirci.
“Cosa?! Non è possibile, hai cercato bene?”, chiese Andy capendo al volo e spiegandolo a Vicky, che non intendeva a cosa alludessi.
“Sì ovunque e non lo trovo! Dio, non posso dargli il regalo così. Ora che faccio?”, mi disperai.
“Calma, troveremo una soluzione…”, cercò di consolarmi Vicky.
“Potresti cantargli la canzone che volevi cantare alla fine”, disse Andy indicando la chitarra acustica di fianco a me. L’aveva portata Tomo sotto ordine di Vicky, ovvero mio.
“Oddio, ma come faccio?”, mi vergognai da morire.
“Calmati piccola”, scherzò Vicky. “E’ una bella cosa, non devi preoccuparti, dai”.
“Fottiti, non devi dirlo a Tomo tu!”, le rinfacciai facendole ridere entrambe.
“Spero di farlo il più presto possibile”, commentò e io non potei trattenermi dall’abbracciarla.
“Lo farai, te lo prometto”.
Andy ci avvisò che stava arrivando Constance e così ci ricomponemmo tutte e tre e le andammo incontro, preparandomi alla mia morte.
E appena entrai in cucina mi sentii svenire. Ben tornata tradizione!
 
C’erano portate che avrebbero sfamato mezza Africa e dovetti mandarle giù tutte per colpa di quella donna che diceva fossi troppo magra. Forse aveva ragione, ma per i prossimi giorni non avrei mangiato nemmeno più la colazione.
Il mio povero stomaco non reggeva più e alla fine scoppiai, evitando di mangiare il dolce per non vomitare tutto in bagno.
Stava arrivando la mezzanotte e io continuavo a guardare verso la chitarra, nervosa. Andy mi toccava la mano da sotto il tavolo, per tranquillizzarmi e Jared si stava insospettendo parecchio.
Per la millesima volta evitai spiegazioni donandogli un semplice sguardo, ma sapevo che non era per niente di conforto. A mezzanotte meno venti decidemmo di aprire i regali. Prima quelli di Natale, poi, allo scoccare delle dodici avremmo festeggiato Jared con i suoi.
Andy trovò nei pacchetti un vestito blu elettrico, lungo ma senza maniche da parte di Vicky e Tomo, un anellino con le iniziali AS da parte di Shannon ovviamente, un libro da Constance e una videocamera da parte mia e di Jared. Così oltre a recitare diventi regista, avevamo detto facendola ridere.
Shannon trovò degli accessori per la batteria e dei nuovi piatti da parte di Jared e Tomo, una maglietta nera con la scritta Sweat sweat muddafuggaz sweat da parte di Vicky e me (siamo delle grandi!), uno stereo nuovo da Constance e da Andy un nuovo capellino a forma di panda.
Tomo ebbe un po’ meno regali, perché io, Andy e Shannon gli regalammo insieme il gioco di Guitar Hero, Jared gli diede una nuova giacca di pelle e invece Vicky un quadro raffigurante Candia, da mettere in camera loro.
Vicky ricevette da me e Jared un nuovo sexy completino bianco (idea sua non mia) che la fece imbarazzare da morire, da Andy un piccolo ciondolo a forma di stella marina, da Shannon un libro di cucina (sempre a fare lo spiritoso lui!), mentre Tomo le regalò un bracciale con scritto Finally forever.
Io… io li volevo uccidere perché ovviamente non fui esonerata anche se come sempre avevo chiesto niente regali. Ma Tomo e Vicky mi regalarono una nuova chitarra elettrica, che chiamai subito Destiny, Shannon mi stupì regalandomi la collezione di dvd di Harry Potter (non so da dove abbia capito che io e Andy lo guardavamo sempre nelle caldi notti estive quando il liceo non ci affaticava più… oh giusto, da Andy!), la mia migliore amica mi donò un nuovo tatuaggio che voleva che facessi con Jared, da Constance ebbi un piccolo gattino di cristallo con gli occhi smeraldo. Jared fece il misterioso, facendomi anche abbastanza arrabbiare, ma stavolta evitò la caccia al tesoro, facendomi vedere subito il regalo. Era un testo che, con consenso di tutta la band, aveva scritto per cantarlo insieme. Si era già messo d’accordo con Solon e l’avremmo registrato il giorno dopo, visto che le canzoni stavano già per essere pubblicate in anteprima in quella settimana.
L’avrei voluto uccidere, seriamente, ma sfortunatamente non potevo.
Alla fine rimase Constance, a cui i piccoli Leto regalarono un viaggio per qualsiasi meta in qualsiasi momento, io e Andy un piccolo cuore di vetro di Murano con i colori dell’arcobaleno (visto che sapevo quanto amava il made in Italy), mentre Tomo e Vicky le regalarono una camicetta bianca, con i bordi in pizzo e una fasciatura rossa sotto il seno.
“Mancano esattamente… nove, otto, sette”, cominciò a contare al rovescio Shannon appena sua madre abbracciò tutti per la gioia, guardando l’orologio.
La mia tensione cresceva intanto, indirettamente proporzionale ai numeri che Leto Senior pronunciava. Tre, due… uno…
“Happy birthday, Jay! Benvenuto negli anta!”, scherzò il fratello abbracciandolo stretto con un grande sorriso.
“Grazie, Shannon… seriamente, davvero!”, mise per un attimo il broncio, prima di abbracciare tutti e poi stringermi a sé mentre scartava i suoi regali.
O merda, o merda, o merda…
“Grazie!”, esultò ultrafelice quando dentro il pacchetto di Tomo e Shannon trovò un nuovo e fiammante Blackberry nero. Oddio mio santissimo, cosa avevano combinato…
I due si misero a ridere e io presi il telefono dalle sue mani, rimettendolo nella scatola e portandola via, per incitarlo a prestare attenzione agli altri regali. Gli uomini sono così bambini!
Il regalo di Constance era un completo blu di Dolce e Gabbana, molto simile a quello bianco che avevo visto nel suo armadio ma che ancora non avevo avuto il piacere di vederglielo indosso. Quello di Vicky e Andy era il profumo di Hugo Boss, al quale lui aveva fatto da testimonial, e una foto della pubblicità con la scritta Hey… ricordati che ormai sei a metà della tua vita!.
“Madre mia ragazze, siete simpatiche!”, disse lui buttando il foglio dietro di sé scherzando e guardando il profumo. “Uhm, me lo ricordavo diverso. Bè, grazie comunque!”.
“Che finezza!”, lo presero in giro le ragazze.
“No, dai grazie davvero”, sorrise lui, mentre tutti guardavano me come a dirmi che era arrivato il momento. Anche Jared mi fissò.
“Basta, mangiamo qualcosa?”, chiesi io prendendolo in giro. “Che vuoi da me? Non vedi, sono finiti i regali!”.
“Non mi freghi, vieni qui e dammi il mio regalo!”, mi prese il braccio portandomi fin troppo vicina a lui e toccando gli orecchini, ridendo.
Bene, inutile rimandare, tanto in qualche modo avrei dovuto dirglielo e ora almeno poteva essere la migliore occasione che avevo di renderlo ancora più felice della cosa.
Lo guardai un’ultima volta e poi mi feci peso sulla sua spalla per alzarmi, sorridendogli e voltandomi di scatto, in tensione.
Così supportata dalle mie migliori amiche e dai loro ragazzi, andai a prendere la chitarra acustica. Quando rientrai nella sala da pranzo presi una sedia e mi sedetti, mettendo la chitarra sulle gambe.
 

The Wow Factor
I can’t believe that this is real
So many times we talk about this
But I never thought
That in the end
It happen so early
I wanna that you know what I feel
What I keep… inside of me!
Damn, it’s so complicated to me!
 
Try try try!
Try to understand me when I talk to you
Try try try!
Try to support me on this complicated choice
Try try try!
To make this news a really real dream

 
Finii la canzone. Non capii molto se aveva inteso il motivo per cui l’avevo scritta e il suo significato, ma posai la chitarra e cominciai aguardarlo.
Lui sorrise, si mise la mano nella tasca della giacca di pelle e come se niente fosse ne estrasse un piccolo foglio di carta ripiegato e stropicciato.
O. mio. Dio.
“H..e..r..e. T..h..e..r..e. I..s. Y..o..u..r. B..i..r..t..h..d..a..y. P..r..e..s..e..n..t. I..m. F..u..c..k..i..n..g. P..r..e..g..n..a..n..t”,  lesse attentamente le lettere in grassetto, con calma, capendo finalmente perché erano così calcate.
Tirai su con il naso e i miei occhi s’inumidirono, insieme anche a quelli delle mie amiche, solite piagnucolone.
“Tu… tu sei…”, chiese senza finire la frase mentre io annuivo con un mezzo sorriso. “Oddio sei incita!”.
Con un sorriso che gli illuminava il volto si alzò di scatto in piedi e venne ad abbracciarmi, tirandomi su di peso e facendomi fare un giro abbracciata a lui. “Non ci credo! Dio, sono così contento!”.
“Non è mica finita, sai?”, dissi appena mi mollò giù per evitare di farmi girare la testa. Gli feci l’occhiolino e Andy mi passò un sacchettino che aveva accuratamente nascosto da tutti.
Con un sorriso, mentre lo passavo a Jared, notavo gli sguardi commossi di tutti, specialmente di Constance.
“Tu sei un mostro… vuoi proprio uccidermi felice, eh?”, chiese con un filo di voce spezzata il mio ragazzo mentre vedeva il contenuto. Ne estrasse una piccola scarpetta da neonato blu puffo con i disegni dei personaggi di Topolino e Paperino.
Gli sorrisi e ancora una volta mi abbracciò, inondando la testa nei miei boccoli. “You are the reason I can’t control myself. Sappi che hai reso questo giorno il migliore di tutta la mia intera esistenza!”.
Il sussurro delle sue parole mi provocò dei brividi di freddo alla schiena, brividi di gioia immensa.
“Oddio, diventeremo zii!”, si dissero Tomo e Shannon scherzando.
“No, sono troppo giovane per essere zia!”, commentò Andy per poi ridere con Vicky.
“Alleluia, non vedevo l’ora di un nipotino, disgraziati!”, sorrise Constance.
Jared mi baciò felice e fu il bacio più dolce che mi abbia mai dato in tutti i mesi insieme.   
 
 
Jared
 
Incinta. Ronnie era… incinta. Ancora faticavo a crederci.
Quando, la sera in cui la trovai in spiaggia, avevo riletto il biglietto avevo intuito che i calchi non fossero semplici errori di scrittura, ma segnali. Però non mi ci ero soffermato, forse pensando che non era il momento.
Ma poi quella canzone era oltre l’ovvietà. Solo per il fatto che parlasse di qualcosa di inaspettato, o di qualcosa di cui avevamo parlato a lungo. E soprattutto di quello che teneva dentro di lei.
Incinta. Ronnie era… incinta.
Era la cosa più bella che mi sarebbe potuta capitare. Era… strano, molto strano, insomma ero Jared Leto, il bambino per eccellenza, ma mi piaceva l’idea. Mi ci vedevo a stringere un fagottino da cullare che strilla per aver appena capito come si respira.
“…e quindi credo che posticiperemo il tour, ma Solon non penso faccia problemi”, continuò a parlare Ronnie.
Eravamo sdraiati, nel mio letto, abbracciati a parlare del più o del meno, ricordando la serata appena passata da mia madre. Erano le quattro di mattina e ancora non eravamo riusciti a prendere sonno.
“Da quanto lo sai?”, chiesi all’improvviso.
“Cosa?”.
“Da quanto lo sai? E chi lo sa già?”, specificai.
“Vedo che mi stavi ascoltando, eh?”, mi prese in giro sorridendo. Dio, se era bella. A volte non capivo come avevo fatto a perdere un angelo del genere. “Qualche settimana fa mi sentivo strana, ero altamente su di giri, forse solo leggermente più affamata, ma pensavo fosse la febbre o che so io. Bè, Vicky decise che era meglio dare un’occhiata e così il dottore mi rivelò che non c’era nessuna febbre. Ringrazia il cielo che non sono una di quelle che vomita dal mattino alla sera”.
“Che fortuna!”, scherzai. “Quindi lo sapevi tu, Vicky…”.
“Andy e Solon. A Tomo e Shannon non potevo dirlo, ti avrebbero riferito tutto all’istante e non volevo”, mi informò. Anche Solon?! “Era il regalo perfetto, no?”.
“Oh, non avresti potuto fare di meglio”.
Mi sorrise, dolce, e chiuse per un attimo gli occhi, mettendosi la mano sulla pancia. Voleva dirmi eccolo, è qui e lo sento, sai?. Ma era un momento tutto suo e non volevo rovinare niente.
“E’… una bella sensazione”, ridacchiò alla fine aprendo gli occhi, prendendo la mia mano e mettendola al posto della sua. Si avvicinò a me e mi baciò, mentre restavo attaccato alla sua pancia.
Non sentivo nulla da lì, era ovviamente troppo presto, ma sapevo che c’era. Ed era frutto di noi, insieme. Era nostro. O sì che lo era.
“Ho solo paura di essere una cattiva mamma”, confessò allontanandosi un po’, timida.
“Non lo sarai, sarai perfetta. Tu i bambini li capisci al volo, sai tutto di loro e grazie a quello che hai vissuto ora puoi decidere più lucidamente cosa è giusto o cosa sbagliato”, la consolai abbracciandola stretta e annusando il profumo di lavanda dei suoi riccioli. “Spero abbia i tuoi capelli”.
“Tu sei sempre stato fissato con i miei capelli”, ridacchiò lei. Era vero, già dal primo giorno in cui l’avevo vista, a casa di mamma a Bossier City, le avevo detto quanto quei riccioli e quel rosso mi faceva impazzire.
Non sapevo dire se mi avesse già colpito da quel momento, ma durò poco la fase in cui la volevo solamente come amica. Lei non sarebbe mai stata solo mia amica.
“Che c’è?”, continuò chiedendomi.
“Stavo pensando”, sorrisi. “Ai vecchi tempi, a Bossier City, o anche  a questa novità. Se ci pensi sembra assurdo”.
“A volte mi chiedo come possa essere già passato più di mezzo anno da quando ti ho rivisto. E ringrazio Vicky ogni giorno”, disse ridacchiando e guardandomi negli occhi.
“Vicky?”.
“Lunga storia tra noi. Non devo e non ho nemmeno la voglia di raccontartela tutta o finiremo domani sera”, scherzò per poi ammutolirsi e continuando il contatto visivo.
Senza infatti staccarsi alzò il braccio e mise la mano sulla mia guancia, accarezzandola dolcemente. Sorrise e cominciò a fare dei disegni astratti con il pollice su di essa, arrivando a toccare il naso o le labbra.
“Ti stai divertendo?”, chiesi sorridendo e le sue dita passarono per pochi secondi sulla mia bocca.
“Se un giorno ti perderò ora potrò ricordarti e renderti giustizia”, commentò quasi triste. “Le volte che la mia mente faceva la ribelle ed evitava la salda regola di non pensarti, non creava un’immagine realistica. Non voglio che riaccada, devo ricordarti esattamente come sei, nei più precisi dettagli”.
“Tu non mi perderai, Ronnie. Né ora né mai”, dissi prendendo la sua mano e baciandole le dita per poi stringerla tra le mie. “E non posso nemmeno pensare ad altri anni, mesi, settimane, giorni o persino ore senza di te. Stavolta non posso rischiare di perderti”.
“Mi hai sempre vista come un qualcosa che necessiti con tutta la forza e non ho mai capito perché. Io non sono nulla di speciale”, disse, portando avanti un discorso che forse avevamo già chiarito anni e anni prima. La solita Ronnie lunatica.
“Tu… tu sei più che speciale. Sei l’unica persona al mondo che mi riesca a sopportarmi, che mi fa sentire vivo, elettrizzato, quasi completamente e permanentemente saturo di adrenalina. Le mie migliori canzoni – ovvero tutte – parlano di te, ogni musica è ispirata a te. Sei… sei come Marte: tu sei casa”.
Lei sorrise, senza dire nulla per qualche minuto. Dio, ma avevo parlato io? A volte mi sembrava essere fin troppo smielato e diabetico per dire o pensare certe cose, ma forse era semplicemente l’effetto che quei due occhi verdi mi provocavano. Erano provocanti, in un certo senso.
“Come mai solo con me sei in versione tenero e coccoloso?”, chiese ridendo alla fine. Appunto.
“Forse perché gli altri non si chiamano Veronica McLogan”, la misi sul ridere, mentre vedevo le sue palpebre farsi pesanti. Ma lei, testarda come sempre, tentò di tenerle aperte e continuare a fissarmi. “Hai sonno”.
“Non è vero”.
“Sì, che è vero”, risi della sua poca logica.
“No… voglio restare sveglia”, si obbligò da sola. “Voglio stare con te, voglio continuare a guardarti. Potresti scomparire da un momento all’altro”.
“Ronnie… sono qui e non vado da nessuna parte. Da quando hai paura che scappi via?”.
“Ho paura, una stupidissima paura fottuta, che tu te ne vada lasciandomi così. E non lo so perché: so che ti prenderai le tue responsabilità, so che mi ami… ma come al solito, ho paura”, confessò mentre io la stringevo forte a me, affondandola nel mio petto. “E… io mi sono rotta di avere paura, Jared…”.
“Sono qui, Ronnie. Non devi avere paura perché sono qui con te, okay?”.
Annuì lentamente e, mentre le accarezzavo i capelli e le cantavo qualcosina per tranquillizzarla, si addormentò. I suoi respiri si fecero più pesanti e regolari, le palpebre per ora non si riaprirono più.
Mi sembrava diversa…
Non fisicamente, e forse nemmeno mentalmente. Aveva solo un qualcosa in più. Sorrisi, pensando che forse era la consapevolezza di non essere più in due, ma in tre.
Che ne sarebbe stata della nostra vita, della nostra intimità, dei nostri progetti? Nulla.
Ma, stranamente, ciò non mi diede fastidio ne mi preoccupò molto; ero tranquillo. Come li avevamo fatti una volta, li avremmo potuti cambiare e rifare una seconda volta. E poi una terza o una quarta o una quinta se era necessario, e così via.
Sarebbe andato tutto bene. E tra meno di nove mesi un piccolo Leto sarebbe finito tra le mie braccia, sorridente.
 

...
Note dell'autrice:
Oh bè gente... dal prossimo capitolo mancheranno esattamente 10 capitoli compreso l'epilogo alla fine *piange disperata* già mi mancano questi due pazzi! 
Dai, c'è ancora tempo, però, quindi ALLEGRIA!!!

Riguardo al capitolo devo dire che "The Wow Factor" è un modo di dire americano/inglese per esprimere un fatto davvero sorprendente, che ti lascia di stucco. e così è Jared, che anche se qualcosa aveva capito, non si immaginava esattamente questo.
Plus, le canzoni sono di mio pugno e, abbiate pietà se non sono perfette e molto carine. Io ci provo *della seconda non sono convinta per niente ma così è uscita e consì rimane* xD
Furthermore (inoltre), i regali ho cercato di capire cosa potesse interessare all'interessato (:S) e così sono venuti.... Guitar Hero per Tomo l'ho messo quasi come scherzo... ce lo vedo già a giocare con la chitarra finta ahhahaha 
Vabbbuò, In the end, spero che vi sia piaciuto e spero che abbiate letto anche tutta sta paccata di roba :D

Bacioni, Ronnie02

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Capitolo 30
*** Before Hate... Now Love ***


Echelon, sono già qui :D 
Grondante di caldo, dopo aver finito un libro che adoro (è già finito... sigh sigh...). Non avevo nulla da fare, quindi ho deciso di aggiornare.
Plus, siete state stupende, ad aver scritto ben 7 recensioni allo scorso capitolo. Mi è venuto un colpo, sul serio! E' stato fantastico :D
Bè, ora vi lascio alla lettura. Grazie di tutto come sempre, siete stupende! 
*in caso... scusate gli errori*



  Capitolo 30. Before hate. Now love  

 



 
Ronnie
 
“Jared… Jared dove sei?”, chiedevo anche se tutto intorno a me vedevo il vuoto, l’oscurità e un forte sentimento di paura e angoscia. Che mi era successo? “Jared?”.
“Ciao”, sentii una vocina flebile chiamarmi. Mi voltai, ma non c’era nessuno dietro di me, e nemmeno attorno a me. “Quaggiù”.
La gonna del vestito che avevo indosso, di un blu elettrico forte, si tirò e appena mi mossi per capirne la causa, notai un piccolo bambino con la pelle diafana, i capelli neri e gli occhi azzurri. Sorrideva e  mi guardava dolce.
“Ciao, piccolino. Come ti chiami?”, mi accucciai di fronte a lui. Prima di chiedergli qualcosa lo avrei almeno messo a suo agio o sarebbe scappato via.
“Ciao”, non mi rispose facendomi segno con la manina, dove sul polso aveva una voglia a forma quasi di mela. Continuava a sorridere ma più lo fissavo più sembrava scomparire.
“Dove siamo, piccolino?”, chiesi di nuovo, visto che non parlava e muoveva la testolina verso destra o sinistra, per guardarmi.
“Non lo so. Prima c’ero, ora non più”, disse semplicemente con gli occhi che si rattristavano.
“Che vuoi dire?”.
“Brum ha fatto bum!”, versò quasi giocando. “Bum bum! E io qui”.
Che voleva dire? Dove mi ero cacciata? Perché non mi diceva chi era o dov’era Jared?!
“Ciao ciao”, mi salutò con la manina, mentre vedevo i suoi capelli neri prendere il colore dell’oscurità attorno a noi, e man mano anche la sua pelle diventò più scura, o più trasparente.
“Ehi, non te ne andare! Non mi hai detto dove mi trovo!”, lo chiamai, cercando di non farlo andare via. Vedevo solo la sua manina ormai, che mi salutava frenetica. “Non te ne andare!”.
Mi svegliai di botto, colta di sorpresa da Jared che muoveva il mio braccio per capire che avevo. Avevo urlato anche nella realtà, a quanto pare.
“Ronnie, ehy, calma”, mi cullò con la sua voce. Finalmente riuscivo a vederlo davvero, anche se i suoi occhi erano fin troppo simili a quelli del bambino misterioso.
“Scusa, ho solo fatto un brutto sogno”, mi giustificai con un sorriso, mettendomi seduta accanto a lui tra le coperte e poggiandomi una mano sulla fronte. Ero un po’ sudata…
“Come stai?”, chiese dopo un po’, indeciso se voler sapere cosa avevo sognato o no. Scelta giusta, Leto.
“Bene, sto bene, Jay, tranquillo”, lo calmai guardandolo e sorridendogli. “Tu come hai dormito?”.
“Meravigliosamente”, mi baciò la testa, sorridente. In quel momento notai che la sua mano destra si era spostata dal mio braccio ed era finita sulla pancia, disegnando disegnini astratti con il pollice. Sorrisi. “E oggi si va a registrare, giusto?”.
Già, oggi Shannon, Tomo e Solon sarebbero venuti qui per farci registrare la canzone che mi aveva “regalato” Jared a Natale e ringraziai il cielo che sarei dovuta rimanere in casa.
Certo fuori non faceva fredda, ormai in questi quasi quattro anni mi ero abituata a un Natale assolato in California, ma la voglia di uscire era sparita. Sperai che questa non fosse l’inizio di una pigrizia cronica!
“Già, quindi in pieni signorino, c’è da lavorare!”, scherzai alzandomi di scatto in piedi sul letto e porgendogli la mano. Lui la prese e si tirò su, dandomi un bacio leggero. “Hop, hop!”.
Saltai giù, facendomi seguire, e scesi al piano di sotto dove c’era la cucina e il salotto. Mi prese per i fianchi, facendomi un po’ il solletico, e andammo verso il frigo così appiccicati. Arrivati a destinazione mi lasciò andare e preparai la colazione per tutti e due, anche se io andai sul leggero.
“Ora che sei incinta non puoi rifiutarti di mangiare anche la sera! Devi ingozzarti per due”, cercò di vincere la solita battaglia.
“Jared non sono incinta da ieri e non mi sembra che in queste settimane io abbia cambiato la mia dieta”, gli feci l’occhiolino mentre lui cominciò a mettere il broncio. “Va bene così, non cambierò solo perché sono incinta”.
“Infatti non dovresti farlo perché sei incinta ma perché ti farebbe bene!”, mi rimproverò di nuovo.
“Sempre la stessa storia, Leto? Bla bla bla, sì va bene”, finì il discorso mentre lui scuoteva la testa e ricominciava a mangiare. “Continui a dirmi che sbaglio ma continui anche a perdere. Mi frega poco, te l’ho già detto”.
“Non capisco questa tua ossessione al non mangiare. Sei magra come uno stecchino!”, mi disse indicandomi, come se volesse mostrarmi l’evidenza. Grazie, come se non conoscevo il mio corpo!
“Non è per la linea”.
“Allora per cosa? Tra un pochino ti verrà il pancione tanto dolce e che farai, smetterai di mangiare definitivamente?”, chiese facendomi sorridere per via del risolino che aveva fatto pronunciando pancione tanto dolce.
“Te l’ho detto: non è per la linea. È che proprio il cibo non mi va giù, non mi piace mangiare!”, dissi semplicemente. “Per alcune persone, tante, il cibo è l’unica ragione di vita. Per me è solo qualcosa che devo fare per sopravvivere. Così lo faccio restando sull’indispensabile”.
“Sei l’unica persona al mondo a cui non piace rimpinzarsi”, sorrise di nuovo. “No, rettifico: sei l’unica persona nell’intero universo a cui non piace rimpinzarsi dopo essere stata a magiare da mia madre”.
Scoppiai a ridere e finì la mia colazione, mettendo tutto da lavare nella lavastoviglie e rimettendomi seduta. “Anche gli alieni hanno mangiato da Constance?”.
“Bè, diciamo che ci assomigliano parecchio”, si corresse di nuovo ridendo con me. Si alzò anche lui a sistemare, facendomi l’occhiolino, e poi, quando ebbe finito, mi abbracciò da dietro, abbassandosi verso di me, seduta sulla sedia. “Ti amo, lo sai?”.
“Seriamente Jared, da quando sei così smanioso di farmi venire il diabete?”, scherzai facendolo sbuffare.
“Non ti posso mai dire qualcosa di carino! Lo so che è strano, credimi non ci sono per niente abituato dopo dieci anni tra intermezzi da single o robe non importanti… però mi piace, mi piace farlo con te”.
“Oh, ma come sei dolce!”, lo presi in giro di nuovo ridendo. “Ma non eri così a ventinove anni! Sei ancora più smieloso di prima”.
Scoppiò a ridere, sciogliendomi come un ghiacciolo al sole al sentire la sua risata.
“Ora non è come dieci anni fa”, disse portando la mano che aveva sotto il mio seno un po’ più in giù, giocherellando con la stoffa leggera della piccola camicia da notte che si trovava sopra la mia pancia. “Ora devo crescere un po’ anche io e fare meno il cretino”.
“Cosa? Stai scherzando, vero?”, urlai facendolo saltare in aria visto che gli avevo praticamente gridato nell’orecchio.
“Ehi! Che succede? Che ho detto di male?”.
“Non devi nemmeno osare dire che crescerai, che non farai il cretino”, dissi convinta sebbene mi sembrasse il discorso più ridicolo che avessimo mai affrontato. “Gli Echelon amano la tua stupidità, io amo la tua stupidità. Sei sempre stato un piccolo bambino monello e perché dovresti cambiare ora?! Perché c’è un vero bambino in arrivo? Vi divertirete un sacco insieme e mi mancherebbe il vero te. Tu non sei il solito padre in completo che ha mille impegni, Jay! Tu sarai lo strambo e simpatico papà che canta davanti a milioni di pazzi urlanti e che lo fa ridere ogni giorno”.
“Wow… questo sì che è un bel discorso, my Lady”, disse facendomi ridere e tornando da me, riabbracciandomi.
“Non voglio cambiarti, Jared. Tu vai bene così come sei, e sarai perfetto anche per lui”, sussurrai prima che girasse la mia sedia e, sorridendomi, mise le sue labbra sulle mie.
No, non sarebbe mai dovuto cambiare!
 
“Oddio!”, scoppiai a ridere per la millesima volta in quelle misere quattro ore di prove.
Erano arrivati Shannon e Tomo, era arrivato Solon, ci eravamo messi all’opera, ma l’unica cosa che avevamo ottenuto erano registrazioni piene di risate.
Shannon si era vestito in una maniera assurda e solo a vederlo non potevi evitare di ridergli in faccia. Era decisamente assurdo con quei pantaloni con il cavallo sulle ginocchia, la maglia nera e la felpa larga slacciata. E poi le calze… le calze mezze lunghe nere stile nonno dei primi anni del Novecento accompagnate da quelle oscene scarpe color arcobaleno. Dio santo.
Tomo non era vestito molto meglio, con quel suo completo nero con i pantaloni fino alle caviglie che mostravano calze oscene quanto quelle dell’amico. Ma almeno se lo vedevi in faccia potevi stare seria, al contrario di Shannon.
In più i Leto avevano deciso di rendermi la giornata un inferno continuando a fare facce stupide per farmi ridere. Solon, il caro e vecchio saggio Solon, aveva provato a farmi cantare da sola, mandandoli via, ma sentivo i loro sghignazzi avendo comunque le cuffie ed essendo nella cabina di registrazione. Era seriamente assurdo.
Almeno lui non perdeva la calma. Adoravo Solon per questo: mentre la casa discografica mi metteva fretta e ansia, lui mi capiva e diceva che se oggi non avrei sistemato nulla il giorno dopo tutto sarebbe andato al proprio posto. Quindi prese abbastanza bene le interferenze di quei due.
Quello più difficile da gestire fu l’esserino che albergava vicino al mio stomaco che, per quando assurdamente piccolo fosse, mi sembrava di sentirlo vagare per la mia pancia. A volte non riuscivo a trattenermi e scappavo in bagno a rimettere, con Jared appresso che insisteva ad aiutarmi anche se avrei preferito fare da sola.
Quello era uno dei momenti in cui il dannato piccolo marziano si era fatto sentire ed ero appena tornata dal bagno. Jared mi stringeva a sé, quasi pauroso che svenissi dato la poca quantità di forze che mi era rimasta. Che strano… avevo vomitato poco le prime settimane invece ora si facevano più sentire. Bah!
Shannon invece aveva scherzato con Tomo sulla natura mostruosa che avrebbe avuto il piccolo visto il cervello poco dotato del padre. Facevano versetti e smorfie e così ero scoppiata a ridere.
“Ok, ragazzi, possiamo lavorare seriamente? Non abbiamo ancora registrato niente e dovremmo mandare il pezzo domani pomeriggio alla casa discografica! Per piacere”, ci chiamò Solon all’attenti.
“Già e io non voglio passare la notte in questa cabina perché la voce non va bene. Muovete il culo”, li ripresi anche io, sorridendo e andando verso la sala di registrazione.
Diedi il cinque a Solon ed entrai, mettendomi davanti allo strano microfono che si usava per incidere i brani. Almeno registrava che era una meraviglia!
Appena anche Jared si mise al mio fianco, indossando le cuffie, partì la canzone, inondandomi la testa di note.
 
I want you!
I want you since I looked into your eyes
That sparkled with a brilliant light
I want you since your voice said my name
And your lips found mine
I want, want, want…
I want you again.
 
Era una bella canzone. Non la tipica dei 30 Seconds To Mars, e nemmeno una delle mie. Di certo non era Buddha For Mary, ma il pop era ben lontano, grazie al cielo.
Non volevo diventare, o far diventare loro, le ex rockstar che si sono ritrovate a canticchiare canzoncine per l’estate da far ascoltare a adolescenti in calore in discoteca.
Quella non era musica, quello era guadagno.
La cosa che preferivo di quest’album era il totale cambiamento rispetto al primo. In quello precedente parlavo di amori illusori, tenebre, tristezze, sconfitte e delusioni. Questo invece era una ventata di felicità, di allegria, di amicizie ritrovate e amori rinati. Entrambi erano la mia vita, come la musica in sé in generale.
“Alleluia! Si comincia a lavorare su qualcosa di buono”, esultò Solon quando finimmo mentre Shannon lo imitava da dietro di lui. Appena l’ex chitarrista si voltò per guardarlo male il batterista si mise composto, come un bambino di dieci anni.
Scoppiai a ridere e Jared con me, mentre Tomo scuoteva al testa e andava a rispondere al telefono. Probabilmente, anzi di sicuro, era Vicky che chiedeva quando sarebbe dovuta passare di qui con Andy per il pranzo insieme.
“Ti prego, Ronnie, possiamo lavorare seriamente?”, mi supplicò il mio manager unendo le mani. Sorrisi e annuii, rimettendomi le cuffie e invitando Jared ad ignorare Shannon e le sue cretinate.
La provammo ancora una volta, due, tre. Alla fine, alla quarta, Solon disse che era perfetta e ci lasciò liberi in pace. Ora toccava a Shannon fare la base di batteria e poi Tomo avrebbe sistemato la chitarra.
Mi misi seduta vicino a Solon e, come lui e come sempre, mi appoggiai alla console che avevo davanti.
“Siete quasi impressionanti”, sorrise Jared, facendoci una foto da quel suo maledetto nuovo Blackberry. Solon sbuffò ma non disse una parola e non si mosse, mentre io mi voltai per fargli la linguaccia e poi tornare al mio posto.
Sapevo che sarebbe finita su quel suo maledettissimo blog dove ormai quelle povere sante delle Echelon non capivano più che stava succedendo tra me e Jared. Gli Offbeats avevano visto delle foto, avevano sentito le anteprime di qualche mia canzone, avevano letto qualche mio tweet e alla fine ci erano arrivati.
Infatti, tanto per passare il tempo mentre Shannon riprovava per la seconda volta, modificando qualche battito, la canzone, mi rifugiai nel mondo virtuale di Twitter, per vedere un po’ la situazione.
Recording a surprise for you, baby!! Are you ready for the new album, Offbeats?, scrissi mettendo anche una foto di Solon appoggiato alla console. Ci mancavo pure io.
Aspettai qualche minuto e guardai un po’ di menzioni, attinenti o no all’ultimo tweet. Risi, guardando quanto erano fantastici i miei ragazzi!
I can’t fucking wait, @Ronnie’s! Holy shit, I’m getting crazy because I want to listen to your voice, now!.
A surprise? What kind a surprise? I’m curious, @Ronnie’s, I wanna know what are you doing
What’s wrong with u? @Ronnie’s stop to get us crazy with this sentence! What are you doing, are you singing a new song?!
...I think that will be a great surprise. Maybe another duet for the album! And maybe with a crazy fucking and alien man
Ok, ok, ok… wait. I don’t understand! Are you recording now?! I wanna hear your album!!
Lessi ancora un po’ di menzioni e poi mi soffermai su quella di Vicky, che aveva risposto ad un tweet che avevo scritto io a lei.
Ehy, baby! How you doing? Eheh… well, I think that we can come there at midday, all right? See you later @Ronnie’s, diceva. Guardai l’orologio e notai che ormai erano l’una meno un quarto. Forse era esattamente Vicky, prima al telefono con Tomo per ritardare il pranzo.
“Bene, Shan. È stato registrato tutto ed è perfetto. Tomo vieni tu che così dopo abbiamo finito?”, chiese Solon mentre Tomo arrivò allegro.
Mi voltai verso Jared, intento a fare foto a qualsiasi cosa tanto per provare la nuova fotocamera del telefono, e lo guardai un po’. Cominciò a scattare foto divertito e sorridente e io lo lasciai fare, senza la minima voglia di dirgli di finirla. Tanto non mi avrebbe ascoltato comunque.
Intanto che lui mi faceva un suo personale servizio fotografico, Tomo prendeva la sua dolce e amata chitarra, la sua ‘bimba’, e andò in cabina, mettendosi ben seduto, tappandosi le orecchie con le cuffie e cominciando a suonare. Era bravissimo: quando mi aveva insegnato come suonare la chitarra era stato bravo, calmo e mi spiegava con facilità; ora stava dando il meglio di sé ed era eccezionale!
“Hei, siete arrivate finalmente”, disse Shannon dietro di me, nascondendo ai miei occhi le due figure femminili che erano appena entrate.
Andy lo abbracciò e rimase così attaccata a lui per una decina di minuti buona mentre Vicky si mise a guardare Tomo e a salutarci tutti con un gran sorriso. Non mi ero mai soffermata troppo a guardare le altre coppie del nostro strano mondo parallelo, ma avevo sbagliato.
Vicky e Tomo erano… erano qualcosa di inspiegabile. Si amavano più della loro stessa vita ed avevano quasi un legame mentale tra di loro. Se uno dei due stava male l’altro lo capiva immediatamente, come se avesse avuto una scossa. Cercavano sempre di essere migliori per se stessi e per l’altro e mai, mai, mai li avevo visti litigare o alzare la voce. Mai.
Andy e Shannon erano più… umani, diciamo. Non avevano quel legame mentale che Vicky e Tomo avevano, no, erano semplicemente persi tra loro. Quando uscivamo insieme non c’era verso di staccarli, se non per loro volontà come quella volta a Roma nel parco di divertimenti. Era come se fossero legati fisicamente e non si perdevano mai di vista, avevano gli occhi sempre a stretto contatto.
In un certo senso mi ero meravigliata di questo. Conoscevo bene le storie sul passato di Shannon con i Thirty Seconds To Mars, sapevo benissimo che non era uno da ragazza stabile ma sesso notturno avventuroso. E Andy in questi dieci anni di certo non si era depressa o aveva abbandonato l’amore come me: ne aveva avuti di ragazzi, erano stati anche carini, ma di certo non erano come Shannon. Di certo non la rendevano felice come mi sembrava lo facesse lui. Era il suo sole, il suo orsacchiotto. Il mio nanerottolo che diventava il suo principe azzurro con un bacio. Ok, in realtà avrebbe dovuto essere una rana, però rimanendo nano non mi sembrava così intelligente il paragone.
“Sta andando bene”, commentò Solon guardando il mio amico suonare. “A volte mi manca essere un marziano…”
Jared si voltò di scatto, ma cercando di lasciarci un po’ da soli, andò a fare fotografie a Shannon e Andy. Che significava?
“Non capisco. Non mi hai mai detto il motivo per cui te ne sei andato”, ricordai guardandolo. Non sorrideva, non era triste. Era come in impasse.
“Non lo so, stava iniziando il tour, la pressione era alta, i fan aumentavano, Jared e i suoi festini erano allucinanti…”, cominciò.
“Ehm… cosa? Jared e cosa?”, chiesi stupita. Lui sbiancò quasi, forse capendo di avermi detto troppo.
“Niente, è che…”.
“Solon!”.
“Ok, ok, tanto lo so che quando ormai ti ho incuriosita su una cosa me la tirerai fuori a forza!”, si lamentò mentre io sorridevo soddisfatta. “E’ che durante il primo tour Jared aveva finito di piangersi addosso per quella serata. E si sa che dopo il dolore scoppia la rabbia. Era arrabbiato un po’ con chiunque anche se non lo dava mai a vedere e alla fine decise di completare l’opera, facendo festini sul tour bus a base di…”.
“Sesso, droga e rock’n’roll”, completai intuendo mentre lui annuiva. Non sapevo cosa dire.
“L’idea era quella”.
“E ovviamente riuscita”, continuai mentre lui non la smetteva di annuire. Dovevo essere arrabbiata? Solo perché io non mi ero data alla pazza gioia credevo davvero che Jared avesse fatto la stessa cosa?
Si sapeva per fama che Jared Leto era il ‘Re della scopata’, sapevo benissimo di poter essere definita una delle tante che si portava a letto vista da fuori.
Sapevo che era così, non ero stupida, e lui più volte aveva fatto in modo, grazie alle foto e ai post su Twitter, di far capire che stavolta era importante, che stavolta sarebbe durata per sempre.
“Non avrei dovuto dirtelo”, finì Solon dicendo a Tomo di rifarla per un’ultima volta. Controllai l’orologio, due e mezza.
“E io dovrei essere arrabbiata”, commentai sorridendo. Lui si voltò stupito e scioccato dalla mia affermazione.
“Non lo sei?”.
“E’ tanto strano?”, chiesi. Ma prima che lui dicesse qualcosa io andai avanti. “L’hai detto anche tu, era arrabbiato. E alla fine hanno smesso, no? Insomma… in più sono passati dieci anni! Chi sono io per dirgli quello che deve o non deve fare. La vita è sua, è adulto e sa cosa è giusto o sbagliato. Non tocca a me decidere per lui”.
“A volte mi chiedo che fine farà tuo figlio. Insomma… sei troppo concessiva, non dai mai ordini. Neppure in tour, durante le prove: l’unica cosa che dicevi era ‘volete saltare, correre o urlare? Fatelo! Fate quel che vi pare! Basta che non mi finite addosso o non uccidete gli Offbeats. Siamo qui per divertirci, no?’. Lo ricordo come se fosse ieri da tanto mi ero divertito in tour con te”.
“Non sarò mai una madre dittatrice. Non so come sarò, non so nemmeno come dovrei essere. Non ricordo come si comportava mia madre quando avevo due anni; non mi ricordo com’ero io a due anni! Ma di certo so cosa non devo fare quando sarà più grande, quando comincerà a volere la sua indipendenza o quando mi chiederà dei nonni”, dissi stringendo una mano a pugno. “Non esisteranno per lui e farò tutto quello che hanno fatto con me al contrario. So che vedo la faccenda con gli occhi da figlia e forse quando sarò madre capirò… ma mi hanno fatto male e non riesco, non posso e non voglio perdonarli”.
“Nessuno ti ha chiesto di farlo. E per quanto tu sei apprensiva, so che sarai una madre perfetta”, mi sorrise abbracciandomi, per poi guardarmi la pancia e toccandola un attimo. “Vero, piccolo? Certo se mangiasse di più forse sarebbe meglio, ma è meravigliosa lo stesso, no?”.
“Ma smettila”, scoppiai a ridere.
Mi voltai e notai Tomo che stava finendo l’ultimo accordo della canzone e Solon gli fece segno che era andato alla grande. Gli sorrisi e attesi che finisse.
Ma non avevo notato Vicky che muoveva le mani nervosa e aveva il sorriso più falso che potesse esistere nell’universo.
Uscì dalla cabina tutto contento, prese Vicky tra le braccia e venne verso di noi. “Allora, abbiamo finito? Si può sentire?”.
“Secondo me sei stato fantastico”, gli risposi io mentre Solon sorrideva e vedeva se c’era il modo per mandare il file allo stereo e risentire la melodia.
“Sì… mi è piaciuto”, sorrise Vicky. Poi prese un respiro profondo e, mentre Solon esclamava un yeah per aver fatto partire la musica, si fece coraggio. “Anche ad un piccolo Milicevic è piaciuta, daddy”.
Il mio sorriso svanì.
Solon stoppò in automatico la musica e si voltò verso quei due.
Persino Jared, Shannon ed Andy avevano sentito e si erano girati nella nostra direzione. Vedevo Jared con in mano il telefono e lo sguardo perso e ringraziai che il Blackberry non gli fosse scivolato di mano dalla sorpresa.
Tomo era… non lo so, non c’erano parole per descrivere come guardava Vicky.
Aveva la bocca mezza aperta per la sorpresa, gli occhi sconvolti ma evidentemente felici, le mani protese verso di lei e il respiro lento se non invisibile, come se fosse una statua.
Tutti sembravamo delle statue, scioccati come eravamo, fino a che…
“Sei incinta!”, urlammo di gioia io ed Andy appiccicandoci a lei come due koala. Continuavamo a ridere e, anche se sapevamo che in teoria era Tomo che si sarebbe dovuto attaccare a lei stile koala, non riuscivamo a mollarla.  
“Tu… sei incita?”, chiese Shannon vicino a Tomo, mettendogli una mano sulla spalla. “Amico mio, bel lavoro!”.
“Oddio, la famiglia si allarga ancora!”, esultò felice Jared, che scherzava con l’amico sull’essere padri insieme. Lui, d’altro canto, sembrava non sentire una parola di quello che dicevamo. Era fermo, immobile, senza riuscire a dire nemmeno una parola.
Alla fine, guardai Vicky e capii che non eravamo noi che lei voleva vedere esultare. Non voleva le grida mie e di Andy, non voleva la felicità di Shannon e Jared, o i sorrisi di Solon.
“Sei incinta”, sussurrò scioccato Tomo, impassibile peggio di prima, lasciando la povera Vicky un po’ sconvolta.
“Non… non te lo aspettavi? Voglio dire… tu non… non…”, balbettò quasi supplicando e guardai Tomo sperando che capisse quello che doveva fare.
“Tu sei incinta”, disse di nuovo, stavolta con un mezzo sorriso esterrefatto in volto. Mollai Vicky e Andy mi imitò, appena in tempo perché Tomo si fosse già materializzato tra le braccia di Vicky e la stringesse forte.
Era come rivivere la festa di Natale, solo da un’altra prospettiva. E mi piacque tanto.
 
 
Jared
 
Anche Vicky era incinta. Cavolo, ma che stava succedendo?! Me lo avessero detto undici mesi prima non ci avrei mai creduto. Avrei detto: ‘Tomo sposato e con figli? Sei andato?! E soprattutto, io con figli? Con una relazione duratura e felice?! Forse ti sei ubriacato e anche pesantemente, bello mio!’.
Non ci potevo credere, era quasi assurdo. Ma era bello e mi piaceva da matti quest’idea.
“Allora… incinta, eh?”, chiesi a Tomo quando le ragazze andarono non so dove e Solon e Shannon si misero a parlare di un motivetto di batteria da provare.
“Io… non è che non sia felice, Jared, lo sono, ma…”, cercò di scusarsi. Che cosa intendeva? “Non lo so, forse pensavo che i bambini sarebbero arrivati più tardi, con calma. Ho visto gli occhi lucidi di Vicky quando Ronnie ti aveva detto che era incinta, sapevo che era una cosa che voleva tanto… ma non pensavo ora”.
“Ora, domani, tra due anni… che problema c’è, Tomo? Mi hai sempre detto che la tua vita sarebbe stata perfetta appena le tue famiglie, la band e Vicky, sarebbero state felici”, dissi facendolo annuire. “La band va alla grande, siamo in pausa per un bel po’, è il momento migliore per pensare a figli e famiglia. E con Vicky andrà tutto alla grande. Sarà una brava mamma e tu il padre più capelluto e figo dell’universo! Sei un marziano, fatti coraggio, fratello!”.
“Questo non è tutto frutto del tuo sacco, vero?”, disse voltandosi verso di me con un sorriso.
“Nah, Ronnie mi ha detto una cosa simile quando anche io avevo paura della sua gravidanza”, scherzai. “E non è che ora sono calmo, non lo sarò mai. La nascita, la crescita e tutte quelle balle… è il primo e non so nemmeno da dove cominciare. Io stesso sono un bambino da seguire o fa minchiate. Ma c’è lei, mi fido di quello che pensa e lei saprà dirmi cosa fare. Fidati di Vicky”.
“Mi fido di lei. Però…”.
“Hai paura. Una paura fottuta. Lo so, ce l’ho anch’io. Ma sai cosa ti toglierà quella paura?”, chiesi retoricamente mentre lui annuiva. “Gli occhi felici di Vicky e un piccoletto tra le tue braccia tra nove mesi”.
“Ronnie ti fa bene, sai? Sei molto più saggio ora”, mi prese in giro abbracciandomi. Il mio Tomo tenerone! “Mi piace confidarmi con te, fratello. Grazie!”.
“Va bene, grande yeti di colore”, scherzai di nuovo. “Ora andiamo dalle ragazze”.
 

 

...
Note dell'autrice:
Ok, vediamo di dire tutto senza farvi disperare. Riguardo al sogno del bimbo iniziale tenetelo in mente perchè ci perseguiterà sino alla fine della storia, letteralmente. In più, riguardo alla registrazione credo che i Leto facciano davvero a gara a scherzare al posto di suonare :D 
La storia di Solon la approfondiremo più avanti, in altre situazioni *vi spiegherò poi xD* mentre i piccoli Milicevic.... amo Tomo versione Daddy come amo tutti loro. -Tomo spicciati a procreare! ok?!-

Ok, dopo questa pazzia.... piccolo spoiler, per chi vuole xD


“Vivete la vostra vita, respirate, guardate i raggi del sole, ricordate le belle cose che avete vissuto e andate avanti, pensando a voi e a cosa vi farà sentire meglio. Non pensiate di essere egoisti, ma solo rispettosi verso i vostri sogni”.
 

Bene, ora vi saluto
Ronnie02

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Capitolo 31
*** Three... Two... One... ***


Allora gente.... dio, posso essere sincera? io non volevo aggiornare.... sta finendo troppo in fretta :(
Lo so, così vi deprimo e poi c'è ancora una piccola sorpresa da dirvi (ma ora non vela dico perchè sono cattiva :D), ma.... ma... ma siamo già al 31esimo capitolo!!!
Oh, Ronnie finiscila *parlo da sola, BENEEEEEEEEEEE*.
Ok ora, vediamo di sclerare meno e di leggere di più. Non vi dico altro, dovrete scoprire tutto da soli :)
Buona lettura, Echelon




Capitolo 31. Three…two…one…

 
 



Ronnie
 
“Allora, Veronica. Passiamo alla domanda successiva”, mi chiese l’intervistatrice davanti ad una telecamera, in una stanzetta anonima. Era la solita intervista per l’album, in cui parlavo delle canzoni, del loro significato e dei sentimenti che volevo far trasmettere. Il brutto era che qualcuno non era riuscito ad evitare la presenta asfissiante di questa donna. Avrei preferito mille volte parlare da sola, di quello che volevo, sapendo di comunicare ai miei fan e non a lei.
Poi lei l’avrebbero tagliata, come sempre, lasciando solo le mie risposte nel video e facendolo venire come io lo pensavo. Ma mi sentivo in dovere di darle un peso, quindi era come se lei fosse mia portavoce ai fan, e questo non mi piaceva.
“Il tuo album è uscito due settimane fa, i cd sono andati a ruba, il mondo ti ama. Come l’hai presa questa novità?”, mi chiese.
Avrei tanto voluto risponderle che il mondo non mi amava, il mondo amava la moda e in questo momento, per sfortuna, io mi trovavo nei paraggi e mi avevano messa al centro dell’attenzione. Non che non ne fossi felice, ma non vedevo l’ora che la mia musica restasse solo mia e dei miei veri fan.
E poi, che i miei dischi vendessero e che ero famosa non era una novità. Ci avevo fatto una certa abitudine in questi tre anni al lavoro, ai paparazzi, ai fan scatenati, agli autografi, alle presenze televisive.
La novità per me era il piccolo che cresceva nella mia pancia e avrei voluto gridarlo al mondo, farlo sentire amato anche dai miei amati Offbeats, ma non era possibile e me ne rendevo conto.
Solon aveva detto che ne avrei parlato dopo qualche mese, magari a fine Febbraio, o Marzo, quando sarebbe stata più visibile la pancia. Ma  non ora.
“Credo che non sia importante la fama o quanto il mondo ti desideri, non è il mio obiettivo. Questo album parla di qualcosa che non provavo da tempo.
“Non ho mai detto che la mia vita sia stata facile, la vita di nessuno lo è e il periodo in cui ho scritto e pubblicato Memories non era affatto piacevole”, confessai guardando la telecamera e cercando di parlare con i miei fan. “Ma è tutto una ruota e prima o poi la vita torna a sorriderci. Anche se abbiamo perso qualcuno, anche se la nostra vita sembra la peggiore o piena di delusioni, noi sappiamo e dobbiamo tirarci su, guardare in alto.
Memories parla del passato, perché quando ci ho lavorato non mi piaceva pensare al presente. Non era un buon periodo. Ora è diverso. Con Sunshine so di aver cambiato rotta, di essere ripartita da zero e rivalutato tutta la mia musica”.
“I titoli dei tuoi album rispettano ciò che esprimi all’interno con le tue canzoni. Spiegalo”, continuò a domandarmi la donna con un sorriso. Bè, forse non mi dava poi questo gran fastidio.
“So che i miei album non portano mai il nome di una canzone. Sono solo una traccia per il disco, qualcosa che vivo. Appunto con Memories vedevo la mia vita rispecchiata nei ricordi: cosa avevo sbagliato, in cosa avevo creduto, come mi ero comportata, con chi mi ero relazionata… ma niente è riferito a quel periodo”, dissi fluida, come se fosse preparato. E invece non era così. Mi sentivo solo libera perché stavo parlando con i miei Offbeats e a loro potevo dire di tutto. “Ora tutto è cambiato. Con Sunshine la vita è tornata un po’ a… risplendere!
“Non è tutto rose e fiori, i problemi non si sono dissolti, ma ho persone accanto a me che mi fanno andare avanti sempre con il sorriso. Ora sono sul punto più alto della ruota e va bene così”.
“Ci sono vari duetti da quello che sappiamo. Cosa ti ha spinto a condividere quelle canzoni?”, mi chiese sorridente. Ecco, la domanda tagliente.
“Ci sono due duetti in Sunshine. Uno si chiama You Will Stay With Me, è una canzone che parla principalmente di amicizia e non importa tanto con chi l’abbia cantata, anche se lo ringrazio immensamente. Quella canzone è dedicata ad una persona per me molto importante, il mio migliore amico, che qualunque cosa io faccia, so che per me ci sarà sempre”, spiegai pensando a Solon. “L’ho scritta qualche giorno dopo essere stata in Italia, per aprire un concerto. In particolare una sera mi sono sentita soffocare, avevo dei pesanti ricordi nella testa e sebbene altre persone fossero lì con me, mi mancava al sua presenza.
“E’ sempre stato con me in questi tre anni e durante l’estate era come se qualcosa mancasse. Quella sera fu traumatica e durante la notte ci telefonammo e mi tirò su di morale. Ero più tranquilla e volevo solo ringraziarlo per essere stato con me come al solito.
“Così scrissi la canzone e al mio ritorno gliela feci sentire. Decidemmo poi per il duetto, perché in fondo era una sorta di dialogo fra noi due, e poi la incidemmo”.
“E la seconda?”. Ahia, dovevo per forza rispondere. Bè, prima o poi l’avrei dovuto fare in ogni caso.
“La seconda si chiama Again e parla di un amore perso e ritrovato dopo tanti anni. I protagonisti non sono il tipico esempio da favola in cui tutto si sistema, non era quello che volevo. Ognuno aveva i propri difetti quando si sono persi e ora non se ne sono andati. Hanno solo provato a vincerli”, spiegai parlando in terza persona. Sapevo che non sarebbe passato inosservato ma era meglio che dire hai miei fan: ‘ehy, sono fidanzata da aprile e sono incinta!’. No decisamente sbagliato. “E’ un duetto con la band di cui ho aperto i concerti in Italia. Sono fantastici e volevo davvero provare a suonare con loro.
“Non sono del mio stesso genere, io sono un po’ più sul Pop rispetto al loro Alternative Rock, ma mi piace come suonano, è quello a cui vorrei arrivare un giorno anche io. Non mi sono mai piaciute le canzoni da pubblicità televisive o da discoteca.
“Io amo il rock, i concerti pieni di gente fuori di testa che canta con te, che urla e che fa quel che vuole. Io per prima, anche da teenager, non sono mai stata la ragazza tranquilla e rispettosa. Facevo di tutto e mi piaceva così, avevo la mia pura e felice indipendenza”.
“Molte persone criticano album e musica, di qualsiasi genere, senza pretesti e tu ne parli, anche solo implicitamente, in So wild. Cosa ne pensi?”.
“Quella canzone parla di seguire i propri istinti, di fare ciò che più ci piace, senza permettere agli altri di comandarci. Non siamo i robot di nessuno e per quanto a volte ci sembra impossibile noi siamo più liberi di ciò che crediamo.
“Possiamo fare qualsiasi cosa se ci crediamo davvero, se siamo abbastanza coraggiosi. Quando sono venuta in America non sapevo niente: ho solo detto ‘voglio ricominciare!’, e così ho fatto. Ho avvisato i miei parenti, ho preso i biglietti aerei, la casa e ho trovato un lavoro. Ad agosto ero in America.
“Molte persone mi hanno definita pazza, incosciente, perfino irrispettosa della vita che avrebbe potuto offrirmi l’Italia. È vero, sarei potuta rimanere là e fare una vita altrettanto bella, ma non avrei vissuto le esperienze che sto vivendo qui e in un certo senso mi mancherebbero”, sorrisi immaginandomi a Milano, magari a lavorare in un negozio come commessa. Nah, non mi ci vedevo per niente! “Non bisogna mai cambiare idea o peggio ancora cambiare se stessi per ciò che gli altri vengono a dirci.
“Vivete la vostra vita, respirate, guardate i raggi del sole, ricordate le belle cose che avete vissuto e andate avanti, pensando a voi e a cosa vi farà sentire meglio. Non pensiate di essere egoisti, ma solo rispettosi verso i vostri sogni”.
“Grazie”, disse la donna facendo segno al cameraman di poter spegnere al telecamera davanti a me. Oddio, era seriamente finita?! Sì!
“Arrivederci signorina McLogan, so che arriverà lontano, si fidi di me”, continuò prima di sorridere e andarsene con i suoi tacchi dodici e un vestito di Armani nuovo di pacca.
Sorrisi e misi la mia giacca di pelle, per poi uscire dall’edificio in cui si era svolta l’intervista.
Lì fuori, come i vecchi tempi a Bossier City, c’era Jared in macchina ad aspettarmi. Non si vedeva attraverso i finestrini oscurati ma riconoscevo l’auto.
Mi avvicinai e la portiera si aprì, mostrandomi un Jared piegato in avanti per raggiungere la maniglia, sorridente nel vedermi come un tempo.
Scoppiai a ridere ed entrai in macchina, lasciando perdere alcuni flash che erano iniziati a comparire, ma senza dare troppo fastidio. Mi sedetti sul mio sedile e lo guardai, mentre faceva partire l’auto, ingranando la marcia.
“Che c’è?”, chiese divertito voltandosi verso di me mentre svoltava per le vie di Los Angeles per tornare verso casa. Ormai non era più casa sua, visto che avevamo venduto il mio appartamento iniziale e mi ero trasferita da lui. L’idea era nata a Natale, quando ormai ci eravamo accorti che era inutile fare avanti e indietro ogni giorno per una semplice cosa: non avevo i vestiti da lui e dovevo tornare a casa mia a prenderli.
Era una rottura così, prima di andare da Constance, ne parlammo e decidemmo di evitare il problema. Fu un miracolo, visto che io sapevo già del piccolo.
“Niente, pensavo e basta”, gli sorrisi toccandomi la pancia da sopra la giacca di pelle, mentre girandomi gli orecchini fecero rumore. Erano quelli con i simboli della band. E sì, li avevo messi apposta sapendo di essere inquadrata.
“Sai, tra un po’ è Capodanno”, eluse sorridente, continuando a guardare la strada. “Ed è il primo Capodanno che passiamo insieme visto che l’altra volta… ecco…”.
“Lo passiamo con gli altri?”, chiesi subito evitando il discorso periodo in cui ci siamo lasciati. Sapevo che si sarebbe depresso o avrebbe cominciato a scusarsi non finendo più, quindi era meglio evitare.
“Sì, io e Shan volevamo far suonare il suo amico Becks in una discoteca dove passare la serata fino a mezzanotte, così lo festeggiamo tutti insieme”, cominciò. “Però ho in mente qualcos’altro per la mattina successiva”.
“No, non un’altra sorpresa!”, esclamai guardando la sua espressione divertita. Me la paghi, Leto, oh sì se me la paghi! “Lo sai che ti odio?”.
“Perché? Sei l’unica ragazza che odia le sorprese dal suo ragazzo”, mi prese in giro mentre io incrociavo le braccia, con il muso.
“E tu sei l’unico ragazzo che si diverte a fare sorprese alla sua ragazza anche se sa perfettamente che la sua ragazza odia profondamente le sorprese, soprattutto se vengono dal suo ragazzo”, girai la frase.
“Che cosa?”, gracchiò scoppiando a ridere.
“Hai capito benissimo”, misi il muso mentre lui parcheggiava la macchina e cercava il mio volto. Sentivo il suo respiro farsi sempre più vicino, lo percepivo sul mio collo scoperto.
Dannazione, aveva un buon piano per farsi perdonare, il ragazzo!
“Non provarci nemmeno”, dissi fredda mentre sentivo il suo nasino percorrere leggermente il tratto di pelle scoperta dal collo alla mascella.
“A fare che?”, sorrise lui innocente. Sì, innocente sto cazzo!
“A farmi perdere la testa!”.
Al sentirmelo dire, fece una risata soddisfatta e sostituì il movimento del mento con la bocca, passando le labbra sulla mia pelle, baciandola su punti in cui non riuscivo a resistere.
“Ah sì? È così allora?”, chiese  fiero di sé. Mannaggia a lui, porca miseria!
Mi voltai di scatto, cosicché alzasse lo sguardo. Sorrise, quasi vittorioso, mentre io lo guardavo malissimo. Ma dopo qualche millesimo di secondo in cui riuscii a reggere il suo sguardo vincente, mi persi nel suono della sua risata.
Scoppiai a ridere e un secondo dopo, non so come, mi ritrovai le sue labbra mezze piene sulle mie. E le aprii, cercando la sua lingua, che cominciò a giocare allegra con la mia, mentre si portava in avanti con tutto il corpo.
Mi ritrovai schiacciata contro il finestrino, con le sue mani al mio fianco, che come al solito mi impedivano la fuga. Come se io avessi voluto scappare…
Sentivo il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, per il respiro affannato, e mi avvicinai alla sua maglietta, cercando il modo più comodo per tirargliela via. Nei pochi attimi in cui si staccava ridevo quasi isterica, mentre mi guardava e mi accarezzava la guancia, per poi ripiombare nelle mie labbra.
Appena riuscii a togliergliela quasi del tutto, si fermò, prendendo le mie mani. Lo guardai stupita, vedendolo sorridermi e tornare calmo al suo posto.
“Che c’è?”, chiese lui, prendendo le sue cose e mettendo la giacca, come se fosse intenzionato a scendere. Io ero ancora contro il finestrino, con il sapore delle sue labbra in bocca, che lo guardavo come se fosse un alieno.
“Tu… ecco… voglio dire… quindi niente?”, chiesi alla fine, imbarazzata come poche altre volte. Non volevo passare per la ossessionata del sesso – come lui, fra l’altro – anche se in realtà in quel momento non stavo pensando che a quello.
“Io… insomma, Ronnie, non qui”, disse nervoso, ma sapevo che nascondeva qualcosa. Allora annuii, sistemai la giacca e uscii dall’auto, in tono di sfida.
Andai verso la sua direzione e gli aprii la portiera, mentre mi guardava scioccato. “Andiamo su?”, chiesi con un sorrisetto malizioso. No, che malizia, lì c’era solo lussuria e basta.
“Ronnie…”.
“Che succede?! Leto Junior che rifiuta il sesso? Sei fumato?”, lo presi in giro, poggiando tutto il peso sulla gamba destra.
“No, non voglio… non voglio fargli male”, confessò lasciandomi impressionata. Cosa? Fargli male?
“Jared, l’abbiamo già fatto da quando sono incinta, e non farai male a nessuno”, dissi avvicinandomi a lui, mentre scendeva dall’auto con gli occhi bassi, quasi colpevoli. “Farai sentire bene me, e di conseguenza farai sentire bene lui… ma come mai questa convinzione?”.
“Non lo so, ci stavo pensando oggi mentre eri all’intervista. Stavo facendo un giro, anche alla spiaggia, e mi è venuto in mente. Insomma… potrei…”, disse impacciato evitando il mio sguardo.
Girai il volto per riuscire a guardarlo negli occhi e, appena ci riuscii, gli ridacchiai in faccia, facendolo sorridere. “Tu non farai del male proprio a nessuno. Non saresti capace nemmeno ad uccidere una zanzara”.
“Quella fu colpa di Shannon: diceva che era suo figlia, avendo il suo sangue”, disse senza che ne capissi il senso.
“Cosa?”.
“Storia lunga, mio fratello è un idiota”, rise abbracciandomi. “Però ora mi sento tanto un idiota anche io”.
“No… sei solo il futuro padre più tenero che abbia mai visto in vita mia”, gli risposi abbracciandogli la schiena e profondando nella sua giacca, mentre camminava in avanti per trascinarmi in casa.
 
 
Jared
 
“Mi chiedo come tu abbiate fatto a convincere Andy e Ronnie a venire stasera. Almeno Vicky è abituata a voi due pazzi scatenati, ma loro no, poverette”, ci prese  in giro Tomo mentre eravamo a casa sua. Le ragazze erano andate a fare l’ultimo giro di shopping del 2011. A quel punto i novanta mila dollari che avevamo perso, riguadagnato e poi ancora perso e poi di nuovo ritrovati a Candia ci sarebbero stati utili. Ma sfortunatamente erano finiti a coprire le spese della luna di miele dei piccioncini e per i futuri bisogni della famiglia Milicevic.
“Senti, saputello, io le ho solo detto: hai in mente Becks, sì l’amico dj con cui suono? Ti va di venire?”, riprese Shannon facendogli la linguaccia. “E ha detto che andava bene, almeno lo sistemava per bene per farmi tornare normale”.
“Wow, che lavoro che gli spetta”, lo presi in giro.
“Io penso sia stata molto carina”, sorrise Tomo. “Si vede che ci tiene a te”.
“Ci tiene? Lei mi ama!”, si pavoneggiò mio fratello, mentre io sorridevo. Era da una vita interna che non lo vedevo così… innamorato. Voglio dire, uno Shannon Leto innamorato non si vede molto in giro!
“E tu?”.
“Io… lei è tutto. Quando al mattino mi sveglio e lei ancora addormentata, che resta ferma immobile con quell’espressione felice, con gli occhi chiusi… è come se mi sentissi a casa”, ci disse. “Sono troppo smieloso, vero?”.
“No… la ami e non c’è nulla di male, fratello”, lo abbracciai con un braccio ricordando di quando avevo la stessa paura con Ronnie. “Anzi, era ora che mettessimo la testa a posto!”.
“Ma tu con Ronnie è diverso. Non lo so, è come se siete nati per stare insieme. Combaciate in un modo perfetto. E’ l’amore che tutti hanno sempre sognato il vostro”, mi spiegò facendomi sorridere. “Mentre io ed Andy siamo la tipica coppia che deve sopportare i difetti dell’altro, deve cercare di modellare il suo pezzo per finire il puzzle”.
“Non sono sicuro di essere perfetto, Shan, però so che quello che provi è fantastico e ti farà bene. Perché sapete modellare il vostro pezzo e alla fine sarà un puzzle meraviglioso”.
“Tu sei un poeta”, s’intromise Tomo, sorridendo.
“No, io sono Jared. E tu sei il futuro papà di un Milicevic”, scherzai abbracciando un po’ anche lui.
“E tu di un piccolo Leto”, corresse lui.
“E tu, Shan? Mai pensato… con Andy… di…”, chiesi io a mio fratello.
“Non lo so, sinceramente non ne abbiamo mai parlato. Però va bene così, per ora lasciaci diventare zii. E poi ve le immaginate tutte e tre incinte, che disastro?! No vanno bene già due”, scoppiò a ridere spingendoci poi tutti sul divano immenso della Milicevic Home, con le sue braccione.
“Quindi, stasera con Becks?”, rettificò Tomo mentre accedevo la televisione, in cerca di qualcosa da fare prima del ritorno delle ragazze. Ovviamente tutti parlavano di Capodanno.
“Spero solo che non suderai troppo o seriamente Andy ti darà buca stavolta”, presi in giro mio fratello dopo che annuì alla domanda di Tomo.
“Ah ah ah! Certo che la simpatia a te fa proprio schifo! Ronnie ti ha contagiato?”, fece la linguaccia guardando l’ora. 17.53… dove si erano cacciate quelle tre?
“Smettetela bambini! E ora fatemi rilassare, stasera sarà una lunga notte”.
 
“Raise your fucking hands in the air!”, urlò Becks mentre metteva un po’ di musica moderna, da discoteca. Non era il mio genere, anche se in fondo non era poi così male.
“Raise your hands! Oh yeah, Ronnie!”, rise Andy, un po’ sull’ubriaco andante, con un Bloody Mary in mano mentre ballava con le altre due pazze.
Erano vestite con quello che avevano preso quel pomeriggio, e sembravano averlo fatto apposta per farci andare fuori di testa, mannaggia a loro!
Vicky aveva un vestitino rosso sangue, corto ben prima delle ginocchia, con una scollatura ampia, che faceva vedere bene a Tomo, o a chiunque le si avvicinasse, cosa potesse offrire.
Ovviamente lui le stava più vicino possibile. Era sposata, certo, ma con Ronnie ed Andy di mezzo, la serata, come aveva predetto il mio amico, poteva rivelarsi molto lunga.
Andy non risparmiava le vecchie abitudini di Shannon. Lo Shanimal che era in lui si era ribellato e non c’era momento in cui non notassi nei suoi occhi la voglia di prenderla e portarla a casa a fare chissà cosa.
Con i suoi tacchi alti portava un vestitino nero pece, che lasciava la schiena nuda completamente in vista, allacciando le due  spalline dietro il collo.
“I wanna dance… with you”, sbiascicò Ronnie ridendo. Ovviamente lei e Vicky non avevano bevuto quasi niente, se non analcolici, per via della gravidanza, ma erano fuori di natura quindi non potevano non sembrare quasi ubriache. E ora era davvero felice ed estasiata, ballando con le amiche.
E ovviamente anche lei voleva uccidermi. Almeno però si era data allo sportivo, mettendo dei minishort di jeans che lasciavano poco spazio all’immaginazione delle sue super bellissime gambe, con una con un top senza spalline nero, contornato di perline ai lati.
I capelli li aveva legati in una coda alta, lasciando qualche boccolo rosso cadere sul viso in un modo ben oltre il seducente, mentre il resto dei ricci ballava a ritmo con lei.
“Yeah, I totally wanna dance with you”, disse di nuovo avvicinandosi, quando Andy si portò via Shannon, che continuava a guardarla quasi la volesse mangiare.
Scoppiai a ridere e le abbracciai le spalle, mentre prendeva la mia mano e poggiava al testa sul mio petto. “Sei stanca, ballerina provocatrice?”.
“Mai stata così sveglia, bello mio”, mi fece l’occhiolino, prendendomi entrambi le mani, arrivati in pista, e cominciando a ballare. Avevo sempre avuto ragione: ballare con lei era la cosa più deprimente del mondo. Era troppo brava, anche solo a farlo per divertimento, dannazione!
“Allora, come va la pubblicità per il disco?”, chiesi così tanto per fare. Sinceramente, ma che merda di domande erano?
“Lo sai benissimo: stanno andando abbastanza bene, domani pomeriggio ci sarà l’ultima conferenza, e poi decideremo per il tour”, ricominciò a dire per la millesima volta.
“E se un giorno dovesse capitare di fare i tour nello stesso momento?”, mi preoccupai all’improvviso, pensando che ora ero in pausa, ma non lo sarei stato per sempre.
“Jared… Solon stabilisce tutto in base alla mia vita. Non mi obbliga a fare niente, se non voglio. E non penso di rifare un disco presto e voi ora non siete in tour”, mi spiegò con un sorriso. “Anche se voi andaste in tour per dieci anni, vi seguirei ovunque”.
Poi si fermò, sorrise e toccò la pancia, per poi ricominciare. “Vi seguiremmo ovunque. E poi magari farò io un tour, non lo so”.
“Come stavolta? Finito io, cominci tu? Visiterà il mondo”, commentai.
“E so che questo può avere anche un lato negativo. Voglio dire, zero vita sociale, nessun amico, nessun attimo di sfogo… ma sono sicura che viaggiare gli farà bene. Apre la mente”, concluse.
“Nemmeno io ho avuto un’infanzia molto stabile, Ronnie, ma non sono cresciuto così male, no?”, chiesi scherzando, mentre lei però cominciò a prenderla sul serio.
“Bah, se vuoi concentrarti sui lati positivi sì, ma ovviamente sei un perenne solitario senza amici, a parte Terry, che cerca di fare di tutto pur di soddisfare il suo bisogno di attenzioni. Tu che pensi?”, mi prese in giro seria, per poi scoppiare a ridere mentre la musica rallentava un pochino, permettendoci di parlare più tranquillamente anche nel bel mezzo della folla.
“I wanna thank all my friends! Here with me, there is… Shannon Leto and his awesome girlfriend, Andrea Mercia!”, chiamò Antonie, facendo sgranare gli occhi a tutti. O merda!
Shannon salì sul palco con Andy, imbarazzata da morire, indicandola e alla fine dandole un bacio sulla guancia. Le diede in mano le bacchette e, molto gentilmente, l’aiutò a battere sui piatti e sulle casse. Cominciarono a ridere, Antoine rimise la musica, e tutti ricominciarono a ballare, lasciando perdere la novità e dandosene una ragione.
“Dovremmo dirlo”, commentò lei, lasciando perdere la presa in giro precedente.
“Perché?”.
“Perché?! Jared, cazzo, sono incinta! E non voglio essere presa per la troietta che si è fatta Jared Leto dopo aver aperto i suoi concerti ed essere rimasta incinta”, mi spiegò terrorizzata. Ne andava della sua reputazione, dei suoi fan, della sua musica.
“Ok, calma. E allora?”, chiesi io. Era la mia, la nostra vita, perché avrei dovuto urlarla ai quattro vento solo perché ero famoso? “Farai scandalo? Saremo presi in giro? Venderemo meno dischi? ...E allora? Noi sappiamo la verità, no?”.
Lei annuì, tirando su con il naso, e l’abbracciai. “Non mi interessa cosa pensa la gente, piccola. So solo che ti amo, voglio stare con te e che tra meno di meno di nove mesi avrò un piccolo Leto tra le braccia. Che devo volere di più?”.
“Una ragazza meno problematica?”.
“Sarà, ma io amo questa ragazza problematica”, dissi stringendola ancora di più,  mentre giocherellava con il codino che avevo fatto, visto che i capelli cominciavano ad allungarsi, con suo grande piacere. “E’ normale che tu pensi agli altri, l’hai sempre fatto. Ma per me gli altri non esistono: ci sei tu, la band e gli Echelon. Basta, la mia vita finisce lì”.
“Quante volte ti ho già detto di non dirlo?”, mi chiese con un sorriso non ancora del tutto convinto. “Non devi nemmeno pensare che io sia la cosa più importante al mondo, Jared”.
“Sono passati più di dieci anni ma continui a darti dell’egoista, vero?”, chiesi fermando il nostro ballo, guardandola negli occhi e sperando di sbagliarmi. Ma avevo ragione.
“Io…”.
“No, no, non ci pensare nemmeno, io! Dimmi che mi sbaglio, ti prego, non ancora”, sorrisi prendendole le mani e tenendole strette. “Tu sei la persona più fantastica del pianeta. Fai sognare milioni di persone, hai reso il matrimonio di Tomo e Vicky un evento galattico, senza di te Andy e Shan non si sarebbero mai trovati…”.
“Non sono così perfetta”, ribatté.
“E chi lo è? Nessuno di noi è perfetto. Ma questo non vuol dire che siamo dei disastri! Quello che hai passato, gli errori che forse hai fatto, non ti rendono peggiore”.
Mi guardò, quasi persa nei suoi pensieri, e poi si aggrappò alle mie braccia, scoppiando quasi in lacrime. “Perché non ho chiesto a Solon di farci incontrare prima?!”.
Risi, accarezzandole i capelli, e poi la feci girare, sentendo una sua risata sopra il suono della musica. “Manca poco!”.
Infatti nell’esatto momento in cui la rimisi giù, Shannon e Andy tornarono da noi, accompagnati anche da Tomo e Vicky che se l’erano filata da soli.
“Goodbye old year! Com’on, all together! Ten… nine… eight… seven…”, urlò Antoine fermando la musica, indicando il grande orologio dietro di lui e battendo le mani a tempo.
“Six!”. Shannon.
“Five!”. Andy.
“Four!”. Vicky.
“Three!”. Tomo.
“Two!”. Io.
“One!”. Ronnie.
“Happy new fucking year, baby!”, urlammo tutti quando, baciando ognuno la propria dama e ridendo alla fine.
Ma nessuno sapeva cosa ci avrebbe offerto quell’anno tanto strambo, ma per ora preferivamo non pensarci, godendoci una serata tra amici e amori.
Benvenuto 2012!
 


...
Note dell'autrice:
Vorrei dire poche cose, tanto per lasciarvi pensare alla storia e non al mio commento :)
Prima di tutto spero che il mio Jared non sia troppo sdolcinato. Spesso riscrivo i suoi discorsi perchè mi sembra una cascata di miele e spero di non renderlo davvero ridicolo. Riguardo al sesso mentre Ronnie è incinta, so che fa bene farlo durante la gravidanza ma volevo mettere un Jared un pò in difficoltà
In fine, per il Capodanno ho pensato a Becks perchè in fondo Shannon non sarebbe il nostro Shannon senza di lui, quindi ho voluto nominarlo anche solo una volta.
Spero che vi sia piaciuto
Ronnie02

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Capitolo 32
*** Place That I Can't Stand ***


Salve Echelon! Ok, ok, sono un pochino in ritardo scusatemi! 
Ma ora sono qui e con il nuovo capitolo, anche abbastanza lungo, quindi PERDONATEMI!
Ahahah spero che le vacanze vadano bene, ma che abbiate anche il tempo per leggere la storia :D (e recensirla se vi va, anche se non vi piace, così magari la miglioro!)
Ora, siamo arrivati all'arrivo del 2012. Cosa ci serberà quest'anno?
Buona lettura, Ronnie




Capitolo 32. Place that I can’t stand





 
 
Ronnie
 
“Alleluia! Era ora che tornassimo a casa, non ce la facevo più, Jared!”, mi lamentai per la millesima volta. Il mio ragazzo era semplicemente impossibile: avevo dovuto volare fino a Berlino solo per assistere alla sfilata di Hugo Boss. Non sia mai che non avesse partecipato, visto che era stato un loro testimonial. Maledetto profumo…
“Suvvia, Veronica, vedrai che ora ti rilasserai”, mi fece l’occhiolino Babu, facendomi venire qualche dubbio sulla sua sanità mentale. Bè, in realtà era Bob, il fratellastro di Jared, ma dopo una battuta su Twitter di quello stupido del mio ragazzo ormai tutti lo chiamavamo così. Babu ormai era diventato una leggenda con il pannolino!
“Tu zitto. Mi devi ancora la rovina del matrimonio di Tomo”, gli rinfacciai con un sorriso mentre stavamo andando verso il gate per tornare a Los Angeles.
“O Ronnie, ti ho chiesto scusa tante di quelle volte!”, si lamentò mentre Jared si guardava in giro nervoso. Che gli prendeva?
“Sto scherzando, dai!”, scoppiai a ridere, per poi fissarli tutti e due, furtiva. Cavolo si assomigliavano davvero, ma ora quello che mi preoccupava era che avevano una faccia troppo complice.
“Credo che le nostre strade si dividano qui, allora”, parlò Jared, prendendomi la mano, e cercando di spintonarmi dall’altra parte. Che?
“Non torniamo a casa? Maledetto, dove mi vuoi portare?”, chiesi mentre Babu si allontanava dalla mia vista con un sorrisino malefico e con un Buon viaggio! che non prometteva nulla di buono.
Jared mi spinse fino a fuori l’aeroporto, scendendo verso dove erano appostati gli aerei senza passare dal controllo dei biglietti all’interno. Avevo intravisto una guardia, avendo paura che ci dicesse qualcosa o che peggio ancora ci arrestasse, ma ci aveva fatto passare indisturbati.
Quando attraversammo quasi metà pista di atterraggio, un uomo sulla cinquantina ci venne incontro, prendendo la mia valigia per gentilezza.
“Quando volete, signori Leto, siamo pronti al decollo”, lo informò l’uomo.
“Signori Leto?”, chiesi sperando di avere sentito male.
“Che c’è, ti suona così male?”, sorrise lui senza darmi una risposta e trascinandomi dietro a quello che mi sembrava un pilota, fino a portarmi davanti ad un bellissimo… jet privato.
“Tu continui a darmi messaggi subliminali, ma soprattutto continui a farmi sorprese mentre io ti specifico il mio odio verso di esse”, mi lamentai mentre il pilota ci aprì lo sportello per entrare. “Ti odio, Leto”.
“Me l’hai già detto tante volte, baby. Forza; anno nuovo, vita nuova”, cercò di giustificarsi mentre entravo. Dio mio, sembrava una di quelle suite superaccessoriate degli hotel famosi. Era... meravigliosa! Ma anche eccessiva.
“Tu sei matto, quando ti è venuto a costare?!”.
“Non sono fatti tuoi questi”, mi fece la linguaccia per poi baciarmi allegramente. Appena il comandante salì a bordo, si staccò e gli fece segno di via libera per partire.
“La meta la posso sapere?”, chiesi io.
“Non essere così curiosa”, mi ammonì, portandomi a sedere in una di quelle comodissime sedie che mi attiravano parecchio dopo una serata con i tacchi. Volevo morire.
“Non essere così timido e vergognoso”, lo pregai. “Dimmi dove andiamo, dai!”.
“No, ora dormi, non ci vorrà molto”, mi disse lasciando trapassare un indizio che comunque il mio cervello non riuscì ad assimilare, cadendo in uno stato di dormiveglia.
Feci uno strano sogno: era come se fossi in mezzo ad una tempesta e dovevo tornare al sicuro. Mi rifugiavo dappertutto, cercando di non bagnarmi e di vedere dove andavo. Ma qualunque cosa facessi tornavo sempre sotto lo stesso porticato di marmo rosso del punto di partenza.
Che mi stava ad indicare?!
Mi svegliai di getto, guardando fuori dal finestrino. Dovevo aver dormito poco, perché era ancora scuro il cielo.
“Hey, baby!”, mi chiamò Jared sussurrando e venendo a sedersi accanto a me, invece che di fronte.
“Sai, ho la strana impressione che tu mi stia per far fare una brutta gita nella città della torre di ferro”, dissi mentre lui sgranava gli occhi. Era la sua ossessione, quella Francia, e chissà perché avevo la sensazione di aver colpito il bersaglio.
“Non ti piacerebbe?”.
“Devo essere sincera?”, chiesi guardandolo aspettare. “Per niente”.
“P-Perché?”, chiese veloce, come se fosse questione di minuti, prima di prendere il telefono, scrivere qualcosina e poi rimetterlo sul tavolino davanti a noi. Forse erano i ragazzi che si chiedevano dove fossimo.
“E’ successo tutto tanto tempo fa, prima ancora di venire in America, prima ancora che Marco si trasferisse”, cominciai a raccontare, vedendolo interessato e anche un po’ preoccupato. “Avevo diciassette anni e con Andy e la sua famiglia avevamo deciso di fare una vacanza a Parigi. Ma fu l’inizio della fine”
 
“Ci può essere qualcosa di più bello?”, chiesi ad Andy appena mi affacciai dall’ultimo piano della Torre Eiffel, guardando l’intera città di Parigi espandersi ai miei piedi.
“No… è magnifica”, sussurrò lei prima di scoppiare a ridere. “E ne è valsa la pena”.
Ne era valsa la pena scappare dai nostri genitori che ci credevano in hotel con la tosse mentre loro erano in giro per la città, per vedere quella meraviglia. Era stupefacente.
“Ora, dove pensi di andare, guida?”, mi disse mentre vedeva anche gli altri turisti cominciare a scendere, per lasciare spazio al secondo gruppo.
Li seguimmo, visto che sapevamo cosa voleva dire aspettare ore e ore per salire su una torre di ferro famosa. Andy era estasiata dalla sua bellezza, anche strutturale e architettonica; io invece mi ero innamorata di quella magnifica visuale che poteva offrire.
“Non lo so, facciamo un giro e vediamo cosa troviamo”, escogitai mentre annuiva. Arrivammo con i piedi per terra e cominciammo ad avviarci verso l’uscita, per trovarci nella bellissima immensa piazza davanti alla torre. Cominciammo a camminare.
“Allora, Marco quando parte?”, mi chiese Andy mentre ci guardavamo in giro, ridendo e scherzando.
“Ha appena preso i biglietti aerei per lui e la sua ragazza. Partono tra qualche mese”, risposi ridendo. Finalmente avrei avuto casa tutta per me! Niente genitori, al lavoro, e niente fratello, trasferito, per tutto il giorno. Mi sentivo benissimo solo al pensiero.
“Ehi, guarda là”, disse indicando dall’altra parte della strada, in cui passavano diverse macchine. “Quel negozio!”.
Seguii la sua mano e notai un bellissimo negozio di abiti da sera, i preferiti di Andy. Le sorrisi e le feci segno di cominciare ad andare.
Ma la mia testolina non pensò di guardare le macchine in arrivo.
La mia testolina non pensò di schiacciare il pulsante del semaforo.
La mia testolina mi fece un gran male.
“Veronica!”.
 
“Io te l’avevo detto! Ci aveva mentito, come sempre! Continua a mentire, in continuazione, per fare i suoi comodi”, sentivo la voce di mia madre urlare, facendomi male alla testa. Non riuscivo ad aprire gli occhi, non ne ero ancora capace.
“E’ solo andata a farsi un giro con Andy, cavolo!”.
“Solo?! Per te è sempre e solo un ‘solo’, non è così?”, continuò ad urlare facendomi impazzire dal dolore. Ma voleva tacere? Che aveva ancora da ridire?! “Tra un po’ questa ragazza la ritroveremo a fumare, a farsi di chissà cosa… e per te rimarrà ‘solo’ un’esperienza di vita, non è così, genio?”.
“Ti prego, non fare la melodrammatica, ora! Anche Andy ha mentito e non mi sembra che i suoi genitori ne abbiano fatto un dramma”, mi difese mio padre. “Sono a Parigi, hanno diciassette anni, per l’amor di Dio!”.
Alzai di scatto la mano, per qualche centimetro, con un forte desiderio di farli tacere. Mi bruciava la testa, che cavolo era successo? Dov’ero finita?
“Zitti”, cercai di sussurrare, ma erano troppo occupati a scannarsi addosso come al solito per cercare di pensare a me.
“Io non ce la faccio più, chiaro?!”, urlò mia madre. Lei?! “Io non so più come prenderla. Marco si è ribellato alla sua età, certo, ma poi si è calmato. Ora se ne andrà… ma io Veronica proprio a volte non riesco a domarla”.
“Perché non è quello che devi fare! Non devi essere il suo capo, non devi solo impartirle ordini per farle fare ciò che vuoi!”.
“Cosa?! È questo ciò che credi che io faccia? E il mio spaccarmi la schiena dal mattino alla sera per tirarla su un po’ decentemente? Oh, ma chiaro, poi arrivi tu con i tuoi soliti ‘solo’!”.
“Sei sempre e solo tu quella che conta, no?! Ma tu senti? Sei impressionante, davvero!”, urlò mio padre.
Sussurravo di smetterla, mi scoppiava la testa, mi faceva male ovunque e più mi sforzavo di aprire gli occhi più vedevo quelle facce che mi facevano solo arrabbiare.
Poi, a salvarmi, arrivò un infermiera, che forse leggeva nella mia mente e capiva che non ce la facevo più.
“Signori, vostra figlia si è svegliata, e sono certa che le urla non siano ciò di cui ha bisogno”, disse gentile zittendoli. “Se potete lasciare un attimo la stanza, io medicherò vostra figlia”.
Annuendo e liberandomi, se ne andarono, forse a riprendere il litigio altrove. Lei si avvicinò con un sorriso, silenziosa come doveva, e prese a liberarmi dalle coperte.
Ero in ospedale, in un fottuto letto bianco. Dov’era Andy?
“Lo dica pure: sono dei pessimi genitori. Glielo leggo in faccia”, dissi guardando fuori dalla finestra, vedendo Parigi assolata. Maledetta città… volevo solo tornare a casa.
“Sono sicura che le vogliono molto bene, sebbene non lo dimostrino in modo eclatante”.
“Beata lei che ne è sicura”, sorrisi ironica. “Lei sa dov’è la mia amica? Ero con lei quando è successo l’incidente”.
“Sì, vi ha portate qui l’autista. Era disperato, pensava di averti fatto molto male”, mi spiegò. “Ma poi ha parlato con i tuoi genitori e se la sono sbrigata loro. La tua amica è qua fuori ad aspettarti”.
La guardai, evitando di fissare fuori. Fossi stata a casa tutta questa merda non  sarebbe successa. Parigi, la città delle meraviglie… sì, certo…
Mi stava alzando la maglietta, togliendomi la fascia e mostrandomi uno squarcio sul fianco sinistro, con una grande cicatrice verticale. Mi aveva aperto in due?!
“Tranquilla, passerà senza rimanere nulla. Sei stata fortunata, molte di questi cicatrici rischiano di essere perenni”, mi sorrise per poi ritornare nel suo silenzio. Quando finì uscì con passo veloce, e al suo posto, alla porta, comparve Andy.
“E’ tutta colpa mia!”, mi venne addosso abbracciandomi.
“Non dirlo nemmeno per scherzo, sono stata io a non guardare la strada”, dissi carezzandole i capelli. Non doveva nemmeno osare darsi la colpa.
“Farò tutto ciò che vuoi, per sempre!”.
“Se vuoi ti chiederò di farne solamente una, e solo per stavolta”, chiesi, guardando la porta.
“Tutto ciò che vuoi, bellezza”, sorrise dolce.
“Torniamo a casa… odio Parigi, non ci voglio più stare, ne tornare!”.
 
“Ma non è stata Parigi a farti litigare con i tuoi”, cercò di scusarsi. Ovvio, lui amava quella città, e per quanto io la odiassi capivo che era una cosa stupida ed infantile.
“Non chiedermi perché lo penso, ma è così. So che appena metto piede in quella città, succederà qualcosa di brutto”, dissi stringendomi nelle spalle. “Prima la litigata con i miei, dopo il concerto andato male”.
“Cosa?”.
“Nel vecchio tour ho fatto una tappa a Parigi, ma non mi sono mai pentita così tanto, anche se mi dispiace”, sorrisi ironica. “Il concerto è andato bene, ma c’erano parecchie ragazze venute lì solo per fare casino e alla fine una ha tirato su un cartellone Ti credi figa solo perché hai una bella voce?. Le ho risposto ‘più di te di sicuro!’ e è cominciata una specie di rivolta.
“Ma lo sai come sono fatta, io non riesco a non rispondere e quella ragazza mi sembrava si credesse la regina del mondo! Così quando la situazione fu dichiarata critica da Solon, decisero di lasciar perdere, facendomi fare l’ultima canzone e andandocene dopo solo un’ora di concerto. ‘Grazie della serata, bellezze. So che non siete tutte così, ma è meglio che stasera finiamo qui. Spero di rivedervi presto, voi che credete davvero in me’, dissi andandomene e lasciandomi la faccenda alle spalle”.
“Non sono state corrette, hai fatto bene, ma…”.
“Ma niente. Non lo so, Jared, ma anche se potresti difenderla con tutte le ragioni del mondo… non voglio che succeda niente”, non lo lasciai finire. “E magari succederà lo stesso qualcosa, magari non è la Francia ad odiarmi… ma meglio prevenire che curare, giusto?”.
Lui annuì, dandomi un bacio leggero, e dicendomi di riposare ancora un po’. Si alzò e andò non so dove, mentre io cadevo per la seconda volta tra le braccia di Morfeo, sempre a girare in tondo trovando l’uscita da quel portico di marmo rosso.
La seconda volta però mi svegliai più tranquilla, con il sole che mi perforava la pelle delle palpebre. Ma non era una luce forte.
Aprii gli occhi e mi voltai, notando il finestrino abbassato. Forse era per quello che la luce del sole che mi aveva svegliato non era così forte.
Evitando di svegliare Jared, addormentato davanti a me con la testa appoggiata alla parete dell’aereo e le mani sui braccioli di fianco al fedele Blackberry, alzai la piccola tendina di stoffa giallognola e guardai fuori.
Il panorama era… affascinante. Erano le cinque e mezza di mattina, a quanto diceva il mio iPhone rosso fuoco e il cielo era una tavolozza di pennelli con sfumature dal rosso roseo al giallo. Era l’alba.
Sotto di noi, governava l’acqua, il che voleva dire che stavamo lasciando il continente europeo, attraversando l’Atlantico. Quindi Parigi era sta esclusa.
Dove mi voleva davvero portare quel maniaco addormentato davanti ai miei occhi?
Avrei potuto prendere il suo telefono e controllare messaggi e telefonate, ma Jared aveva la capacità di controllare ogni suo spostamento e, ci avrei giurato l’anima, se ne sarebbe accorto.
Forse mi aveva preso in giro e saremmo davvero tornati a LA, ma allora perché non andare con Babu? Voleva stare da solo con me? Bè, mossa sbagliata visto che avevamo solo parlato dei miei ricordi orrendi e poi ci eravamo entrambi addormentati.
Una vacanza? Magari alle Hawaii, dove mi aveva detto che aveva abitato da piccolo con Shan e Constance? No, non mi ci vedevo proprio su spiagge bianche e acqua azzurra limpida, ma con mille e cinquecento paparazzi a scrutare ogni nostro movimento.
Evitai di pensarci o mi sarei fissata troppo. Presi la borsa e ne estrassi il libro che avevo già finito dal viaggio di partenza, rileggendolo in ogni caso con le cuffie accese con la musica a basso volume.
Cominciai a rileggere le prime pagine  concentrandomi sui personaggi che iniziavano le loro avventure, cercando di entrare nelle loro menti e vivendo le loro avventure.
Era bello leggere, era bello avere quella sensazione, alla fine, di aver provato tutto quello che hanno provato loro, di aver fatto quello che hanno fatto loro. E in quel momento non mi trovato su un aereo diretto chissà dove, ero sulle spiagge del North Carolina a cantare canzoni con la chitarra in attesa che il mio vero e unico amore arrivasse.
Ma non mi rendevo conto che il mio vero amore si era svegliato, in realtà, e mi stava fissando con un sorriso, quasi fosse fiero di me.
“Non dovrebbe mancare ancora molto”, disse alla fine, facendomi alzare la testa dall’inchiostro nero.
“Non posso ancora sapere dove siamo diretti, vero?”, gli chiesi chiudendo il libro e abbandonandomi sulla poltrona comoda, sotto il suo sguardo divertito.
“Mi sembra ancora impossibile che tu non l’abbia capito, sai?”, rispose pronto indicando il finestrino. Socchiusi gli occhi, fissandolo curiosa. Che intendeva dire?
Mi avvicinai al vetro, tolsi la piccola tendina e guardai fuori. C’era la terra e stavamo volando piuttosto a bassa quota. Riconoscevo quei paesaggi pieni di prati e campagne, con solo qualche piccola città. Era il Sud.
“Direi che siamo pronti ad atterrare”, sorrise, mentre quasi a comando l’aereo cominciò a scendere, facendo illuminare un tastino vicino a me. Dovevamo mettere le cinture.
Sorrisi e feci quello che dovevo fare, mentre Jared se ne fregò e rimase comodo comodo sul sedile, guardando fuori. Era un aria nostalgica quella che vedevo nel suo sguardo?
Scendeva, scendevamo sempre di più, ma non ci volle molto prima che i miei occhi riuscirono a distinguere la pista d’atterraggio e gli addetti pronti ad attenderci.
In pochi secondi ci fu lo scontro con il terreno e l’aereo cominciò a frenare sul cemento, per poi, dopo poco più di un minuto, si fermò.
“Signori Leto, ora potete scendere”, sorrise l’uomo di prima, uscito un attimo dalla cabina di pilotaggio, per poi rimettere la testa lì dentro. Ancora con questa storia?
Ridacchiai mentre scendemmo dalle scale mobili che erano spuntate dal jet e notai la scritta.
Welcome in Bossier City.
 
 
Jared
 
“Bossier City?!”, chiese ridendo ancora di più mentre correva giù per terra e faceva un giro lento su sé stessa per vedere il panorama. Mi imbambolai a vederla, così mi venne a riprendere, e correndo a recuperare i bagagli.
Quando fummo pronti uscimmo da quel posto e prendemmo un taxi, verso la nostra meta.
“La casa dell’orrore?”, scoppiò a ridere quando pagai l’autista e uscimmo da quel buco di macchina, con duecento borse in mano. “No, seriamente qui stiamo?”.
“Che c’è, non ti piace?”, chiesi ridendo. In realtà era l’unica cosa che mi era venuta in mente, visto che sia io che lei e perfino mia madre avevamo dato via la casa lì e un albergo non mi sembrava il caso. Rimaneva solo lei.
“E’ perfetta. Hai avuto un idea geniale!”, sorrise entrando in casa. Meno male che si era svegliata e mi aveva raccontato di quanto non volesse andare a Parigi, così avevo potuto cambiare i miei piani.
Anche se Andy mi aveva avvertito, un po’ di tempo prima di partire per Berlino. Parigi? Jared, non sono sicura che sia una buona idea, sai? Dovresti farle qualche sorpresa più… tradizionale
E aveva ragione come sempre. Più tradizionale che tornare a casa non c’era nulla. Ma avevo fatto bene: sembrava il ritratto della felicità. Non l’avevo mai vista così contenta.
Entrai, guardandomi intorno e ricordando le volte che ero stato lì con lei. Troppe, tantissime, ma quella più vivida era quella della notte del mio compleanno di dieci anni prima.
“Non è cambiato nulla”, la sentii sussurrare mentre silenziosamente e lentamente andava avanti verso la sala, toccando tutto quello che poteva, per assicurarsi che fosse vero.
“Ci sono ancora delle decorazioni del tuo compleanno, guarda! Oddio, questo l’avevano usato Solon e Shannon per imbrattare Andy!”, scoppiò a ridere. “Non ci posso credere…”.
Misi i bagagli all’entrata e mi diressi verso la cucina, per vedere cosa dovevamo comprare. Bè… tutto.
“Allora preparati: non c’è niente da mangiare”, scherzai tornando da lei e abbracciandola.
“Non possiamo andare a fare la spesa? Se non hanno spostato nulla, deve essere nei paraggi il supermarket”, ricordò guardandomi con i suoi grandi occhi verdi.
“Nah… ti porto fuori a mangiare stasera”, semplificai.
“Ma che ore sono?”, chiese divertita cercando ovunque un orologio.
“Mmm… secondo il mio telefono sono le cinque e mezza del pomeriggio. Sistemiamo un po’ qui e poi andiamo a farci un giro per la città?”, chiesi io.
Lei annuì, ancora molto contenta. Si staccò da me e andò verso i bagagli, prendendoli in mano e andando verso la scala che portava alle camera. A quella camera.
“Quale delle due?”, domandò divertita e con un cipiglio mezzo malizioso. Ronnie, Ronnie…
“Smettila”, l’avvisai ridendo e spingendola verso la porta della stanza giusta e facendola entrare. Non era cambiato nulla. Mamma aveva sistemato le lenzuola e  i cuscini nell’armadio prima di andarsene, i materassi erano posati sul letto e lo specchio aveva sopra uno strato di plastica per non impolverarsi.
“Facciamo che prima ci mettiamo al lavoro. Usciremo stasera”, disse indicando quest’ultimo e strappando la plastica. Soffiò sopra, pulendolo, e si guardò. Dalla faccia, ai capelli, ai vestiti… alla pancia.
“Sei ancora uno schianto, non farti i problemi esistenziali”, gli ricordai poggiando le valigie  di fianco al letto e aprendo l’armadio.
“”Mi sto solo preparando il discorso. Sai non è facile fare un’intervista e dire ah, scusate. In caso non l’aveste capito sto con Jared Leto e, guardate un po’, sono pure incinta!. Devo lavorarci”, si scusò toccandosi lo stomaco e inclinando la testa a destra.
“Andrà tutto bene”, le sorrisi prima che le lenzuola mi caddero praticamente tutte in testa. Merda.
“Ma che fai?!”, si girò scoppiando a ridere nel vedermi con una federa in testa e il resto sul pavimento. “Rimetti tutto a posto, prima bisogna pulire, scemo”.
“Vedo che siamo simpatiche!”, la presi in giro buttandomi verso di lei, prendendola per i fianchi e facendole il solletico.
“No!”, urlò ridendo come una matta. “No, ti supplico, non ce la posso fare!”.
Mi fermai appena cademmo entrambi per terra, visto che non riusciva a tenersi in piedi dal ridere, così l’aiutai a tirarsi su dal casino che c’era nella stanza e lasciai che mi guardasse male.
“Muoviti, idiota! Qui c’è del lavoro da fare”, sorrise poi tirandomi un pugno amichevole sulla spalla. Annuii e pian piano cominciammo a pulire tutto.
La sala non era così ridotta male e con una passata di aspirapolvere (io) e lo straccio sui mobili (lei), riuscimmo a cavarcela dopo un quarto d’ora. La cucina era come la sala, tranne che l’aiutai con i mobili visto che c’era il doppio di cose da fare.
Intanto che io finivo lì, poi, le si trasferì con l’aspirapolvere nelle camere e le pulì entrambe prima che io salii.   
“Ehi, non fare tutto tu. Non va bene, non devi strafare”, la presi per i fianchi e le diedi un bacio sul collo appena riuscii a trovarmela davanti.
“Sono incinta, Jared, non ho perso un braccio e una gamba. Posso fare quello che voglio. Chiaro?”, si lamentò liberandosi dalla mia presa e facendomi l’occhiolino. Sono incinta, Jared… dovevo ancora abituarmi a quella frase. “Ti muovi o no?!”.
Per la seconda volta nella giornata mi ritrovai con qualcosa in testa: stavolta lo straccio che Ronnie mi aveva passato e che non avevo visto arrivare.
Scoppiò a ridere e si rintanò nella stanza. La seguii e, dopo averla ammirata un pochino, mi misi al lavoro, mentre lei faceva il letto e sistemava il macello che avevo fatto con l’armadio prima.
Finimmo verso le sette e mezza e, visto che aveva già fame, ci preparammo per uscire. Via i vestiti da viaggio e su nuovi abiti da sera. Io con jeans neri, camicia nera e polsini, tanto per andare sul casual; lei con vestitino largo a mezze maniche verde con le leggins nere, accompagnati da degli stivali neri con i tacchi.
“Pronta! Andiamo, tappetto?”, sorrise appena notò che, come sempre, quando si metteva i tacchi non era tanto più  bassa di me.
“Ha parlato la stangona”, la presi in giro dandole un bacio sulla guancia, passandole il portafoglio per metterlo nella sua borsa, e andando al piano di sotto.
Lei corse verso l’uscita e, aperta la porta, mi fece segno di seguirla. Era dannatamente euforica stando qui, ma la cosa che mi spaventava era la sua capacità di correre e saltare tranquillamente su quei trampoli.
 
“Mi porti sempre nei posti più raffinati, Jared”, ridacchiò appena entrammo in un ristorante che ormai conosceva bene. Era dove lavorava quando ci eravamo conosciuti. “Fammi pensare: che tavoli? Sei, due o sette, sette?”.
“Cosa?”, sgranai gli occhi. Cosa…?
“I numeri dei tavoli che avevo in consegna quando lavoravo qui”, disse tranquillamente andando poi a chiedere un posto al bancone. I numeri dei tavoli? Sei due sette sette?!
Era destinata allora a stare con noi! Sei, due, sette, sette. M, a, r, s.
“Di qui”, tornò indietro a svegliarmi dalle mie fantasie, trascinandomi verso il tavolo su cui sopra regnava la targhetta 2 con i colori verde, bianco e rosso.
“Allora, com’è essere serviti, invece che servire?”, la presi in giro per sciogliere l’atmosfera, toccandomi la tasca dei pantaloni. Non ancora, Jared…
“Strano. Anzi da pazzi”, scherzò ridendo e guardandosi intorno. “Ehy, io non avevo la stessa divisa. Forse Sean ha venduto. E lì non c’era mai stato quel quadro di Milano… carino”.
Risi e notai una ragazza che guardava verso di noi, forse decidendo se lasciarci mangiare in pace o venirci a parlare. Magari era un Echelon o un Offbeat.
Alla fine si alzò, timida, prendendo un foglio e una penna dalla borsa che aveva con sé. Appena fosse abbastanza vicina tossì per farsi sentire e entrambi ci voltammo verso di lei, Ronnie più curiosa di me.
“Scusate… ecco, io vi ascolto sempre, vi adoro e… insomma il vostro duetto è stato fantastico… siete ecco, la mia band preferita e la mia cantante preferita e…”, introdusse balbettando e indicandoci il foglio che si era portata dietro. Era una Echelon-Offbeat… una Echebeat?! “Ecco… potreste firmarmelo entrambi?”.
“Ma certo”, esclamò in un sorriso Ronnie prendendo il foglietto e la penna. Scrisse Even if it hurts, remember the past, to improve your future. Ronnie.
“Grazie, è perfetta”, arrossì la ragazza, senza capire che per Ronnie ricordare il passato non era una cosa facile. Ma quel passato, lì a Bossier City era bello ricordarlo.
Sorridente, la mia ragazza passò il foglio a me e decisi di scrivere qualcosa anche io, invece di fare la solita firma. You can do what you dream, so fight for it. Più quel disegno asimmetrico con la freccia di Provehito In Altum che facevo passare per il mio autografo.
“Bè, il mio sogno sarebbe vedervi insieme, essendo le persone che… bè, io vi adoro e… lasciate stare”, s’imbarazzò ridacchiando. “Grazie mille, siete stati davvero carini”.
Ronnie però la fermò prima di andar via e tirò fuori dalla sua  borsa la macchina fotografica che si era portata dietro per fare mille foto a Bossier City. “So che magari non hai qualcosa per fare foto, quindi ora la faccio io e poi la metto su Twitter, così la prendi da lì. Ok?”.
Lei, imbarazzata, fece un sorriso a trentadue denti e annuì svelta. Ronnie la invitò a mettersi tra noi due e chiamò un cameriere. Il ragazzo arrivò e, gentilmente, fece la foto, per poi riconsegnarci la fotocamera e tornando al lavoro.
“Grazie, sul serio. Aspetto il tuo tweet!”, disse la ragazza dando un bacio sulla guancia di fretta a Ronnie, per poi scappare via al suo tavolo con carta e penna che si era portata.
“Che matta”, sussurrò Ronnie ridacchiando. Chiamai di nuovo il cameriere e ordinammo da mangiare. Niente di speciale, niente di eccessivo. Ma Ronnie aveva pianificato tutto, non mangiando a pranzo. Maledetta.
“Uffa… devo aspettare di collegare la fotocamera al pc prima di metterla su Twitter”, disse mentre, finito di mangiare, riguardavamo insieme le foto che avevamo fatto prima.
Alzò le spalle e andò avanti. Dopo una manciata di foto ritrovò quella che le avevo fatto io, al parco. C’era di nuovo il ghiaccio, come negli anni prima, e si poteva ancora pattinare.
Nella foto lei stava sui pattini, ma era presa all’ombra, mentre il sole mandava i suoi raggi arancioni e rossi al cielo e proprio sulla sua pancia ancora abbastanza piatta.
“E’ bellissima”, commentò sorridendo.
E’ ora, Jared. Forza, respira e fai quello che devi fare, pensai toccando ancora la tasca dei pantaloni. Feci un respiro profondo e incominciai.
“Ronnie, io… ecco, ti ho portato qui per chiederti una cosa”, dissi alzandomi e guardandola negli occhi. “Io sono stato molto fortunato a ritrovarti e sono stato l’uomo più felice del mondo quando tu mi hai perdonata. Io ti amo e…”.
“Veronica?! Veronica McLogan?”, mi interruppe un ragazzo mentre stavo per dirle quella cosa. Ronnie, spaventata dalla sua voce, si voltò verso di lui, lasciandomi perdere.
Ma merda!
“Colin? Il pazzo Colin?”, chiese lei, quasi stupita. E adesso chi cazzo era questo?!”
“Oddio, ho sentito la ragazza di prima che ti chiedeva l’autografo!”, disse lui abbracciandola dopo che lei si era alzata. “E’ da una vita che non ti vedo: da quando hai preso il volo per New York!”.
“Sì, la vita cambia, eh! Ora sto a Los Angeles”, continuò lei sorridendogli. “Tu sempre qui?”.
“Sì, io non vado in giro per il mondo per i miei concerti”, la prese un po’ in giro. “Ho ascoltato il tuo ultimo disco. Fantastico! Metto sempre un po’ della tua musica qui, soprattutto nelle serate a tema”.
“Serate a tema? Da quando qui ci sono serate a tema?”.
“Da quando mi sono fatto il culo e invece di provarci con cuoche come te, ho imparato il mestiere”, le fece l’occhiolino per poi ridere. “E quando Sean mi ha detto che non ne poteva più di questa routine, abbiamo deciso che invece di buttare l’attività l’avrebbe lasciata a me”.
“Ora tu comandi la baracca?!”, si stupì Ronnie.
“Già! Non ho cambiato molto, ma c’è un po’ più di organizzazione e in più dalle undici alle due di mattina i sabati, i venerdì sera e alle feste metto su delle feste”, disse orgoglioso della sua attività. “Ovviamente musica taggata Ronnie!”.
“Sul serio?! Grazie!”, sorrise la mia ragazza. “Ma non ci posso credere! Insomma, ti avrei visto meglio a fare… che so, l’avvocato! Ti ricordi alla festa di Halloween, dieci anni fa? Insomma le avevi prese ma ci avevi messo impegno a difendere Lucy!”.
Ah, ecco chi era! Era il nanetto che quell’idiota, che aveva fatto male poi a Ronnie, stava menando! Ora tutto andava al suo posto. Forse aveva lavorato qui con lei, per conoscere anche la sorella di Vicky.
“Già… Lucy”.
“Che c’è? Vi ho lasciati che stavate insieme da tre anni e volevi sposartela”, gli chiese Ronnie, un po’ meno esaltata.
“Non lo sai? Oh, credevo che Vicky te l’avesse detto, visto che siete così amiche”, si meravigliò anche lui. “Bè, ci siamo lasciati dopo un po’ che Vicky venne con te a NY per quel negozio di fotografia. Voleva viaggiare, litigammo perché diceva che sua sorella, che era andata a New Orleans e poi nella Grande Mela, aveva vissuto meglio di lei e che io la chiudevo in gabbia.
“Alla fine rompemmo e io mi misi a lavorare seriamente. Invece lei se ne andò per un periodo a Nashville, a cercare casa e roba varia. Ma non riuscì a darsi stabilità così tornò qui e, presa dallo sconforto di essere peggio della sorella, cadde in depressione…”.
“Lucy?! Lucy in depressione?!”, esclamò Ronnie scioccata.
“Sì… l’andai a trovare ma non si risolse niente. Io, mentre lei era andata via, avevo trovato Cassie, la mia ragazza, e lei non volle ascoltarmi. La tua vita è perfetta, cosa vuoi da me?! Io non vado bene a nessuno, sono una buona a nulla. Così mi cacciò via”, ricordò tristemente. “Ora è in comunità, non lontano da qui”.
“Comunità?!”.
“Anoressia”.
Ronnie rimase immobile per alcuni minuti, in cui Colin la salutò con un sorriso, abbracciandola, e andandosene con la scusa del lavoro in cucina. Ma lei non si mosse.
“Ehy”, l’abbracciai evitando di ricominciare il discorso. Non era il momento.
“Devo andarla a trovare, Jared”.
 


...
Note dell'Autrice:
Eccoci qua, i vecchi personaggi riemergono. Per poco, ma riemergono. Lucy la vedremo bene nel prossimo capitolo, e la vedrete decisamente diversa. Colin invece basta, ha avuto il suo momento di gloria qui e ci resterà :D
Allora, prima cosa volevo dire che il questo capitolo ho usato 2 frasi da "Highway" un film di Jared che mi piace da morire (chi le trova verrà adorata/o) ahahahaha e il libro che Ronnie legge in aereo è "The Notebook" di Sparks (chi l'ha letto verrà adorata/o) xD
Per Parigi.... bè sì è una bella città, ma, come Ronnie, ho brutte esperienze francesi e poi volevo farla pagare a Jared per quel minitour! ahahah
Bene, direi che ho detto tutto.

Alla prossima,  Ronnie02

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Capitolo 33
*** Fight For... What? ***


Salve Echelon! Sì, sono tornata e fa troppo caldo a questo mondo! 
In più non sto tanto bene *ma ci si può ammalare a luglio?! BAH!*. Sono la solita sfigata -.-"
Bè almeno vi ho portato il nuovo capitolo, e ho saputo che parto tra due settimane quindi dopo questo ci sarà un altro aggiornamento, appena prima di partire :D 
Sooooooooooooooooo *so che poi mi ucciderete quindi al commento finale non dilungo molto* vi lascio leggere.
Buona lettura




Capitolo 33. Fight for…what?




 
 
Ronnie
 
Era passata una settimana dal nostro arrivo in quella città che mi aveva adottata tanti anni prima e mi ero divertita un mondo a riscoprirla con Jared. Era come tornare diciannovenne e rivissi tutto quell’autunno in cui avevo conosciuto l’America, Vicky, Jared, Shannon, Solon… e anche Kevin!
Ma ancora non ero andata a trovare Lucy Bosanko.
“Devi smetterla di torturati, non è colpa tua se è in comunità, ok?”, disse Jared, abbracciandomi, per la millesima volta da quando avevo parlato con Colin, sulla soglia di quella che in questi giorni era diventata la nostra casa.
“Lo so, ma insomma… Vicky è andata a New Orleans e poi, per aiutare me, è  tornata a New York dopo esserci andata per studiare. Se fosse rimasta là ora Lucy magari starebbe bene”, continuai ad incolparmi, anche se sapevo che era inutile. Jared me l’aveva già detto mille volte ma sapeva che ero fatta così.
“Se lei non fosse tornata, tu non saresti andata Boston, non avresti rivisto Solon, non saresti diventata cantante e attrice, non saresti stata presa al film e non ci saremmo più rivisti. E questo non mi sembra affatto una buona cosa”, mi contraddisse lui. La Ronnie di un anno fa forse ne sarebbe rimasta felice però, avrei detto con un sorriso se la situazione fosse stata diversa, ma ora non ne avevo voglia e non volevo farlo intristire.
“Sì, forse hai ragione”, semplificai sorridendo.
“Certo che ho ragione. Ed ora stai andando da lei, vedrai che andrà tutto bene”, mi diede un bacio leggero, tenendomi il viso con le mani grandi, dolcemente. “Il taxi è arrivato, l’indirizzo ce l’hai. Io ti aspetterò qui sistemando delle cose per Emma, o quella mi uccide”.
“E’ tanto che non la vedo”, commentai.
“Sì sì, guarda che non ci credo nemmeno con quegli occhi da cucciolo se mi dici che ti manca”, sorrise prendendomi in giro. “Dai, vai e torna presto”.
Lo salutai con un bacio e mi allontanai dal vialetto, salendo sul taxi che aveva chiamato e dandogli l’indirizzo per l’edificio in cui avevamo scoperto c’era la comunità che teneva d’occhio Lucy.
“Va a trovare un parente?”, chiese l’autista appena capì dove avevo intenzione di andare.
“Un’amica che non vedo da tanto”, dissi prendendo dalla mia borsa il telefono e le cuffie. “Magari a darle un ragione per tirarsi su di morale”.
“E’ messa male?”, chiese ancora, mentre io mettevo le cuffie.
“Non lo so”. Chiusi il discorso è accesi la musica.
Al mio ritorno a Los Angeles tutti si erano presi il mio telefono per infilarci più musica possibile, tanto per farmi un ‘regalo’ come dicevano loro.
Jared e Tomo mi avevano messo tutto il repertorio dei Mars, ovviamente, più le loro canzoni preferite. Shannon si era preso la libertà di infilare qualcosa di Michael Jackson e, soprattutto, le canzoni del suo superamico Beck. Ora erano rinchiuse in una playlist rinominata “Depressione”. L’aveva vista e ci era rimasto così male che ero scoppiata a  ridere, dopo averlo abbracciato.
Mi fece il solletico come punizione, ma almeno lui dimenticò la faccenda e la mia playlist rimase intatta.
Vicky e Andy avevo scaricato tutte le mie stesse canzoni più le loro preferite, obbligandomi a sentirle tutti i giorni. Anche Solon ci aveva messo mano, ma in fondo non erano così pessime come avevo paura che fossero.
Ma nel bel mezzo di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana mi fermai, sentendo quella frase che potrebbe aver condannato Lucy alla depressione.
I’m worst at what I do best.
Era plateale che i Bosanko amassero Vicky senza pretese e con un amore infinito. Da lei avevano avuto tutto: una buona figlia, studiosa, con successi evidenti ed ora una famiglia felice che stava crescendo.
Da Lucy invece erano sempre rimasti delusi: a scuola non andava bene, si era diplomata per fortuna, aveva tenuto il muso dopo il trasferimento, lavorava  come voleva e non aveva rapporti stabili.
La capivo un po’ mentre si rispecchiava in Vicky, capendo che tutto quello che stava facendo la sorella minore l’avrebbe fatto meglio. Lei era come se la copiasse e nemmeno nel modo migliore.
Sono peggio in tutto quello che faccio meglio. I suoi genitori aiutavano Vicky, sapendo ovviamente che lei avrebbe rispettato le aspettative.
Nemmeno i miei genitori hanno prestato molta attenzione a quello che facevamo. D’altro canto nemmeno Marco era stato preso sul serio, lasciandolo andar via senza chiedergli il motivo. Vai? Fai come vuoi.
“Signorina, siamo arrivati”, mi risvegliò dai miei pensieri l’autista, voltandosi verso di me.
“Oh, grazie mille”, gli risposi togliendomi le cuffie, sistemando tutto nella borsa e pagando la corsa. Me ne fregai del resto e scesi dall’auto, con calma.
Sistemai nervosamente le pieghe del mio vestito e scricchiolando le mani feci un respiro profondo, prima di incamminarmi, con i ticchettii dei miei stivali a mo’ di accompagnamento, verso l’entrata.
Era una grande casa a tre piani, molto sobria ma nemmeno tenuta male. La porta d’ingresso era a due ante, in vetro, con la maniglia grigia. Aprii e mi ritrovai all’interno.
“Buongiorno signora, desidera qualcosa?”, disse la signora dai capelli biondo tinti e truccata troppo per la sua apparente età al bancone dell’assistenza.
“Sì, so che qui c’è Lucy Bosanko”, dissi mentre lei annuiva e controllava il monitor del computer che si trovava al suo fianco. “Vorrei sapere se posso andarla a trovare”.
“O ma certo”, mi sorrise. “E’ nella stanza 209 all’ultimo piano”.
“Grazie mille”, ringraziai voltandomi per andarmene.
“Ah, si ricordi che ha appena finito di mangiare, quindi non la faccia muovere. Ogni movimento è perdita di calorie e non va bene”, mi disse sorridente.
Annuii e andai verso le scale. Non poteva nemmeno muoversi…
Primo piano, passato. Secondo piano, passato. Terzo piano, eccomi. Stanza 200, 201, 202, 203, 204, 205… doveva essere l’ultima del corridoio bianco e grigio. 206, 207, 208…
Eccola. Con la porta biancastra la stanza 209 era davanti a me e chiedeva di essere aperta. Dall’altra parte Lucy di certo doveva essere sdraiata da qualche parte a non fare nulla. Che le avrei detto, una volta entrata?!  Io non sarei dovuta essere lì.
Oh, muoviti e piantala!, sussurrò una voce dentro di me. Bene, era ora di seguirla.
Piano spinsi la maniglia della porta in giù e mi feci avanti per entrare nella stanza. Davanti a me vedevo una camera vera e propria, anche se ovviamente capivi che ci si trovava in una specie di ospedale. Lei, Lucy, era seduta sul letto bianco, con un cuscino dietro la schiena, a cambiare canale della piccola televisione davanti a lei. Non muoveva niente, se non il muscolo del pollice destro ed era… impressionante.
Si voltò di scatto e sgranò gli occhi. No, quella non era Lucy, non poteva essere Lucy…
“Veronica McLogan?”, chiese con voce flebile, quasi stanca, muovendo quelle labbra bianche, che un tempo erano piene, mentre ora erano quasi invisibili.
“Lucy…”, sussurrai avvicinandomi a lei, notando meglio le sue piccole braccia, dove la pelle funzionava solo da piccolo strato protettivo, lasciando visibile l’osso. Un tempo quelle braccia erano piene e libere attraverso canottiere estive.
“Che c’è? Ti ha detto Vicky di venirmi a trovare?”, mi chiese mentre fissavo anche il suo volto. I bei capelli di dieci anni prima si erano scuriti fino a diventare quasi color mogano e si erano sfibrati parecchio. Ora li aveva legati in una piccolissima treccia laterale. Erano anche più corti.
“No, lei non mi ha detto nulla”, risposi solamente. I suoi occhi si erano stancati, li muoveva a fatica. Ed intorno ad essi non c’erano i soliti occhiali da sole che metteva per fare un figurino, ma solo ombre di calorie non presenti. Erano infossati e potevo vedere la forma del cranio.
“Allora chi?”, mi chiese di nuovo. Forse voleva essere arrogante come un tempo, come quando si divertita a tirarmi del gelato in faccia, ma non ci riusciva e sapevo perché. Anche io, come sua sorella, ero riuscita a fare qualcosa. Lei no. I’m worst at what I do best.
“Colin. L’ho incontrato una settimana fa al ristorante con Jared e… bè mi ha detto che eri qui. Volevo vedere come stavi”, dissi cercando di non farla arrabbiare. Mi sembrava troppo fragile.
“Bè… grazie”, mi sorrise. Lucy Bosanko che mi sorride?! Non era una cosa da tutti i giorni quindi cercai di farla rimanere in testa. “Sapevo che Vicky non te l’aveva detto. Insomma… le ho chiesto io di stare lontana dalla mia vita”.
“Perché?!”.
“Perché lei ha tutto quello che una ragazza normale può desiderare, Veronica! Ha degli amici fantastici, ha il suo ragazzo, mamma e papà sono fieri di lei, ha uno studio di fotografia ed è felice. Non le serve una sorella psicopatica da accudire”, mi rispose quasi ironicamente felice. Ma lei non era felice, non lo era per niente. “Io… insomma è mia sorella e per quanto possiamo aver litigato in passato o per quanto possa essere gelosa di lei, lo rimane. E se le situazioni fossero ribaltate io non mi prenderei cura di lei. Non voglio la sua pietà”.
“Non sarebbe pietà, Lucy. Lei vuole aiutarti, ne sono certa. Non farla uscire dalla tua vita”, dissi cercando di convincerla.
“E che dovrei fare? Obbligarla a tornare qui a Bossier City?! Non so nemmeno dove abiti ora, non la sradicherò via di nuovo solo per prendersi cura di me. Lo fanno già loro”, disse indicando un infermiere che era entrato senza che me ne rendessi conto.
Aumentò la dose nella flebo, sapendo che forse si sarebbe mossa più di quel che doveva, e se ne andò, silenzioso com’era entrato.
“Davvero non te ne vuoi andare da qui?”, chiesi io scioccata.
“Perché dovrei? Non mi piace andare a chiedere ogni cosa agli altri e so che ricadrei di nuovo nel buio”.
“Invece no, Lucy! Ce la puoi fare, ne sono certa”, dissi sedendomi vicino a lei. Le sue mani, una volta decorate perfettamente da smalti di ogni genere e da anelli brillanti, erano ora spoglie e magre. Delle ossa libere. “Sai quante volte ho avuto l’impressione di affogare? Ma ce l’ho fatta. Sono ancora qui, sana e salva”.
“Tu hai una ragione per cui credere”, rispose come se fosse ovvio. “Io a cosa dovrei credere?! Per cosa dovrei combattere?!
“Per l’amore? Nessuno mi vuole, anche Colin alla fine si è rotto di stare con me e con le mie pretese. Ora ha Cassie e sono felice per lui, stanno bene insieme.
“Oppure per la mia famiglia? No, ci ho rinunciato. Non tolgo nulla ai miei, sono persone meravigliose, mi vengono a trovare spesso e va bene così. Ma non mi tirerò su per vedere un loro sorriso. Vicky li fa gioire abbastanza anche per me.
“Allora per cosa dovrei combattere? Per cosa dovrei ricominciare a vivere, Veronica?!”.
“E così ti lascerai uccidere così? Come se niente fosse? Lasciando che le tue ossa escano dalla pelle e il tuo cuore decida che è venuto il suo momento? Non farai niente per impedirlo?”, chiesi.
“L’ho sempre fatto, Veronica. Il nulla è ciò che ho…”.
“Oh, ma smettila! Tutti abbiamo qualcosa per cui lottare, anche quando ci sembra impossibile!”, la sgridai. Non poteva finire così, non l’avrei permesso. “Non hai sessant’anni e i momenti in cui ti mostravi bella al mondo e sorridevi non sono finiti!”.
“Oddio, Veronica, non posso mica combattere per tornare a fare la stronza che crede di essere migliori degli altri o che si fa guardare solo dai ragazzi!”, ribatté.
“Bè, se tu rimani in questo stato la gente che ti vedeva prima rimarrà con la forte convinzione che tu sia rimasta quella ragazza. Che tu sia in questo stato perché ormai non c’erano più ragazzi da abbindolare, non c’erano più ragazze da sovrastare!”, le feci capire il concetto. “Vuoi essere considerata così per sempre?!”
“No…”.
“Allora combatti, ritorna come prima e va’ a dire a quegli idioti che sei cambiata, che ti sei rotta il cazzo dei loro pregiudizi e che cambierai vita. Starai meglio e farai quello che vuoi”, continuai.
“Non so se ce la farò”, rispose.
“Provaci… tu provaci”, la invogliai. Aspettai la sua risposta, che però sembrava non arrivasse mai. Stava ferma, immobile come quando ero entrata, a fissarmi con quegli occhi che non riuscivo a credere che fossero i suoi.
Poi, ad un tratto, dopo quelle che mi sembravano ore, fece un piccolo movimento con la testa. Annuì.
Sorrisi e aspettai ancora che prendesse parola.
“Allora, come va la tua vita?”, mi chiese come se fossi appena entrata, dimenticando il discorso lottare.
“Bene”, lasciai cadere il discorso su di me.
“So che hai fatto successo. Vicky una volta mi ha portato il tuo disco e un anno fa ho visto un tuo film alla televisione. Sei brava”, commentò tranquilla, come se non le importasse. “Raccontami cosa mi sto perdendo”.
“Bè… riguardo a tua sorella le ho organizzato un matrimonio con Tomo a Candia, in Grecia, il 5 di luglio. E ora è incinta”, sorrisi mentre lei sgranava gli occhi, per poi sorridere anche lei. “Viviamo tutti a Los Angeles per gli impegni che abbiamo…”.
“Ricordo che avevi detto a Vicky di odiare Los Angeles”, mi interruppe. “Non volle dirmi perché, però. È successo qualcosa con Jared? L’hai nominato prima”.
“Sì… ci eravamo lasciati in quel mio viaggio”, ricordai. “Ma ad Aprile ci siamo rivisti dopo tanto tempo in effetti, e alla fine ci siamo rimessi insieme. Ora… ora va bene”.
“Anche lui e suo fratello sono famosi, no? Tutta questa gente che diceva che sarebbe diventato un fallito o un drogato alla fine non hanno avuto la loro vittoria”.
“No, non l’hanno avuta”, dissi quasi ringraziando il cielo che avesse ragione. “Ora loro hanno finito il tour e il mio secondo disco è uscito, quindi devo un po’ vedere come muovermi”.
“Sono contenta per te. E per mia sorella. Sono felice che si sia sposata… ed incinta! Dev’essere grandioso”, esultò sorridendo. Era più felice di quando ero entrata, e per me era un successo.
“Credo che sia ora di andare, Lucy. Tra un po’ partiamo per tornare a casa e…”, dissi mentre lei annuiva. “Combatterai?”.
“Sì, te lo prometto”, rispose. Mi alzai e la salutai con la mano, evitando di toccarla per paura di spezzarla. “E, Veronica?”.
“Sì?”, mi voltai verso di lei, ormai sulla soglia della porta che l’infermiere aveva lasciato aperta.
“Dì a Vicky che le voglio bene”.
 
Dopo essere uscita dalla sua stanza camminai verso le scale, riguardando i numeri sulle camere, stavolta all’indietro. Scesi la prima rampa, guardandomi in giro, più tranquilla di quando ero salita.
E notai la scritta.
C’era un foglio di carta tutto colorato, con tantissime farfalle disegnate all’interno. Al centro regnava la scritta “Butterfly Children”.
Entrai, senza aver nessuno permesso, e mi guardai intorno. Era un ospedale pediatrico anche?
Mi incamminai attraverso le camere, stavolta aperte con finestre che davano sul corridoio e solo alcune chiuse con delle tende. La camera davanti a me, appena mi fermai di botto, era la numero 135.
C’era un bimbo, all’interno, seduto sul letto blu cielo, coperto da una strana tutina gialla. Era piccolo, forse aveva quattro o cinque anni, e stava fermo, a giocare con una pallina. Però non la tirava, la lanciava poco in alto e riusciva a prenderla in fretta, senza muoversi molto.
“Signorina, desidera qualcosa?”, mi sorprese una dottoressa, in camice bianco.
“No, io… ecco”, non seppi cosa dire. Sparai la prima frase che mi venne in mente. “Perché c’è scritto Bambini Farfalla sulla porta?”.
“Bè, perché loro sono dei Bambini Farfalla, signorina”, mi rispose quasi scocciata. “Questi bambini hanno una malattia ereditaria che rende la loro pelle molto fragile, come appunto le ali di una farfalla. Con quella tutina riusciamo un po’ a evitare gli sfregamenti con i vestiari, ma purtroppo vengono comunque delle ferite. Per questo non si muovono molto”.
“Non si possono curare?”, chiesi ritornando a fissare quel bambino. Non avrebbe mai potuto stare fuori al sole, a nuotare nel mare, non avrebbe mai potuto rotolarsi nell’erba e sentire il suo profumo, non avrebbe mai giocato con i suoi amici.
Mi toccai la pancia, pregando che stesse bene.
  “Ci sono dei trattamenti che provano a rafforzare la pelle, la ricerca va avanti ma qui non abbiamo né i mezzi né i fondi per aiutarli a dovere. Li teniamo d’occhio, cercando di aiutarli più che possiamo”, mi spiegò cercando di capire cosa volessi. Né i mezzi né i fondi
“Quanto vi serve?”, chiesi di botto.
“Tanto, cifre inimmaginabili”, rispose sempre più curiosa di cosa volessi.
“Bè, quando ha deciso di dirmelo…”, dissi tirando fuori il portafoglio, con il libretto degli assegni. Scrissi il mio nome e le passai foglio e penna. “Scriva la cifra per i macchinari più urgenti. Si calmi, se voglio, posso permettermelo”.
Lei capì all’istante che non ero una signor nessuno e scrisse una cifra sulla carta colorata, per poi ripassarmi tutto. Erano… un sacco di soldi, ma Solon mi avrebbe appoggiato.
“Bene, di certo questo posso coprirlo. Tenga pure e ordini ciò che deve. Non li lasci morire, non è quello che vorrei sentirmi dire”, mormorai strappando il foglio e lasciandolo nelle sue mani. Lei mi ringraziò e, dopo un ultimo sguardo a quel bimbo, uscii dal reparto.
Chiamai un taxi, salutai la signora al bancone dell’assistenza e uscii dall’edificio. Pochi minuti dopo ecco il taxi, pronto a riportarmi a casa.
Avrei dovuto spiegare parecchie cose a Jared, perciò durante il viaggio rimisi le cuffie, senza spettegolare con l’autista di turno, e mi preparai il discorso. Non mi pentii dei soldi donati a quel reparto, quei bambini avevano bisogno di me.
Mi toccai la pancia, carezzandola per tutto il tempo, sperando che non avesse niente di male. Tu stai bene, vero? Noi ti amiamo, hai tutto ciò che ti serve…
“Signorina? Signorina?”, mi chiamò il tizio davanti a me, cercando di svegliarmi. Alzai lo sguardo e notai che eravamo davanti alla casa stregata di Bossier City. Arrivati a destinazione. “Fanno venti dollari”.
“Oh, certo, mi scusi”, dissi svegliandomi dal coma remunerativo e pagando la corsa.
“Si figuri, buona giornata”, disse prima che chiusi la portiera e lui scappò via sulle strade della Louisiana.
Bene, era arrivato il momento della verità. Stavo camminando verso il vialetto, respiravo profondamente. Ehi, ma in fondo non avevo fatto nulla di male, no? Forza, Ronnie, non hai ucciso nessuno!.
“Sei tornata!”, sentii la voce di Jared mentre lo vedevo aprire la porta d’ingresso e venirmi incontro.
Mi abbracciò di scatto, coprendosi il volto nei miei capelli e stringendomi forte. Ricambiai, appoggiandomi alle sue scapole, e non parlai. Eravamo perfetti così.
“Allora, com’è andata?”, mi chiese dopo qualche minuto, staccandosi da me. Prese la mia mano e mi trascinò all’interno della casa, dove tutto era ancora in ordine, quasi apposta per dirmi che era ora di andare a casa.
“Bene. Ecco sono successe un po’ di cose questo pomeriggio”, dissi mentre ci sedavamo sul divano in sala. Mi guardò curioso. “Insomma, Lucy fa paura, ma forse l’ho convinta a non lasciarsi andare e cercare di vincere l’anoressia”.
“Brava la mia piccolina”, sorrise dandomi un bacio sulla guancia, dolcemente.
“E… ecco, al piano sotto il suo c’erano dei bambini affetti da una grave malattia e… ho dato loro dei soldi per comprare uno dei macchinari essenziali per curarli”, dissi di fretta dicendogli anche il costo. “So che può essere eccessivo, ma dovevi vederli, non potevano nemmeno muoversi e…”.
“Sei stata meravigliosa”, mi interruppe, non lasciandomi finire.
“Cosa?”.
“Tu sei la persona più meravigliosa che io abbia mai visto. Non so ancora come fai a definirti egoista, Ronnie”, sorrise quasi incredulo, giocando con la stoffa del mio vestito sulla pancia. “Tu fai tutto per gli altri e oggi hai superato te stessa. Hai dato a Lucy qualcosa per cui combattere e hai dato a quei bambini un briciolo di possibilità in più di vivere”.
“Vorrei fare qualcosa di davvero concreto per loro”, continuai.
“Parlane con Solon, magari puoi mettere su qualcosa di più per loro”, mi diedi un idea. “Ora però ci tocca sistemare, o l’aereo parte senza di noi. Stavolta, con tua grande gioia immagino, aereo normale”.
“Sì!”, esultai ridendo e scattando in piedi. Presi la sua mano e provai a tirarlo su. Poi fece da solo, prendendomi in giro.
“Cosa non capisci della frase: non ti devi sforzare?”, mi chiesi abbracciandomi dai fianchi.
“E tu cosa non capisci della frase: non sto per morire quindi faccio quel che mi pare?!”, ribeccai.
Scoppiò a ridere e, tornando seri, ci mettemmo davvero a sistemare tutto. Disfammo i letti, pulimmo in giro, tirammo giù le tapparelle, rimettemmo la plastica sullo specchio, facemmo le valigie e, dopo un oretta e mezza in tutto, ci ritrovammo al punto di partenza. Il divano della sala.
“Mettiti la giacca”, disse passandomi la sua giacca di pelle, con la Triad gigante e bianca sulla schiena. “La tua lo so che è in valigia e non mi frega niente se hai caldo, la metti lo stesso”.
“Sei impressionante”, sorrisi prima di infilarmela e notare che il taxi era arrivato e ci aspettava fuori. Mi piaceva vederlo così protettivo e responsabile.
“Forza, è ora di tornare a casa”, mi invogliò, prendendo i bagagli e portandoli fuori di casa. Si fece aiutare dall’autista a metterli tutti nel bagagliaio e poi si voltò, cercandomi.
Ero uscita, ma stavo ancora fissando la casa, con il giardino dove ancora regnava quell’albero. Il ramo su cui mi ero appoggiata quella sera, alla festa per il film di Jared di tanto tempo fa, c’era ancora.
“Se fossimo persone normali come dieci anni fa non perderei un minuto di tempo a chiederti di trasferirci qui, sai?”, dissi sentendolo arrivare.
“Possiamo farlo, se vuoi”.
“E come? Non possiamo mollare la musica o la recitazione per venire qui. In più per vedere i ragazzi dovremmo fare ore di aereo. No, siamo una squadra, dobbiamo stare tutti uniti”, dissi scuotendo la testa. Era un bel sogno abitare lì, far crescere il nostro bambino a Bossier City… ma non era possibile.
Con un sorriso gli presi la mano e andammo verso l’auto che ci attendeva. Salimmo e Jared gli disse di andare verso l’aeroporto. Entro poche ore avrei rivisto le mie amiche, avrei abbracciato i ragazzi e tutto sarebbe andato bene.
“Guarda qui”, mi disse Jared mentre poggiavo la mia testa sulla sua spalla. Mi mostrava il suo Blackberry, con una conversazione appena aperta con Tomo.
Appena tornati dalla visita. Sono gemelli :’)
 
Il viaggio in aereo durò relativamente poco, contando il fatto che mi addormentai più volte e il resto del tempo sentii la musica. Ero elettrizzata e volevo tornare a casa il prima possibile ad abbracciare quei due e anche Jared sembrava pensarla come me.
Appena l’aereo atterrò cercammo di svignarcela prima che qualsiasi paparazzo notasse la nostra presenza, prendendo i bagagli e li mettemmo di fretta in macchina. Era lì da quando eravamo partiti per Berlino, una settimana prima, ma non essendo una limosine o una all’ultimo grido nessuno avrebbe mai pensato che appartenesse a Jared Leto.
“Pronta per tornare a casa?”, mi chiese con un bacio quando salimmo nell’auto e mi spaparanzai beatamente sul sedile accanto a lui, tenendomi caldo con la giacca e chiudendo gli occhi. Mi allacciai la cintura, come lui, e aspettai che partisse.
Non avrebbe dovuto essere un lungo viaggio, ma si rivelò il peggiore in tutta la mia vita.
Perché un idiota si era messo a guidare in autostrada ubriaco e viaggiava contromano. Perché non si accorse che davanti a lui le auto sfrecciavano a grande velocità.
Perché non si accorse che noi viaggiavamo davanti a lui a grande velocità.
Infatti, quella sera, l’ultima cosa che vidi furono due luci accecanti. L’ultima cosa che sentii fu un’imprecazione di Jared, nel tentativo di salvarci. L’ultima cosa che provai fu un dolore atroce… alla pancia.
E poi il vuoto, seguito da un eterno buio.


...
Note dell'Autrice:
vorrei lasciarvi così, senza aggiungere altro. Se avete domande sul capitolo (tranne l'ultima parte) vi risponderò tramite risposta alla recensione. Non parlerò dell'ultima parte perchè ci sarà il prossimo capitolo, o non sarebbe servito scriverlo :)
Spero vi sia piaciuto, Ronnie 02

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Capitolo 34
*** No Life Without You ***


Echelon cari.. io sono troppo buona xD Allora, visto che mercoledì parto, aggiorno oggi e in via del tutto SPECIALE aggiornerò anche martedì (genitori premettendo) quindi non disperate.
Ok, lo scorso capitolo era una batosta e vi avviso che questo non sarà da meno. Sarà tutto POV JARED, ed io stessa a scrivere questi capitoli ho pianto come una fontata. "Allora perchè lo fai?", vi chiederete. Perchè così è la storia, e così va la vita. Non l'ho fatto per rovinare loro, per intristire voi o me e dare un tocco Angst alla storia. Semplicemente questa FF si basa anche sul dolore di Ronnie e su tutte le possibilità che la vita può dare (come anche l'anoressia di Lucy). Era un campo che volevo esplorare e l'ho fatto. I motivi per cui l'ho fatto, inseriti nella storia, li capirete leggendo i prossimi capitoli. Quindi abbiate pietà di me.
Detto  tutto questo tema che spero leggiate perchè MOLTO IMPORTANTE, buona lettura





Capitolo 34. No life without you  





 
 
Jared
 
Che cazzo era successo?!
L’ultima cosa ricordavo era una luce accecante, una manovra poco delicata e Ronnie che urlava. Ronnie… dov’era?! Dov’ero io?!
Come se all’improvviso avessi trovato il modo per aprire i miei occhi, sbattei più volte e velocemente le palpebre e cercai di vedere qualcosa.
Mi facevano male però e continuavo a strizzarli. Scossi la testa e mi decisi di aprirli del tutto. Ciò che vedevo non fu esattamente ciò che mi aspettavo.
Non ero a casa mia, né a Bossier City, ma in una stanza assolutamente anonima, colorata di un bianco vomitevole e priva di ogni genere di elementi. L’unica cosa presente era una piccola televisione, probabilmente del dopoguerra visto come era messa, su una mensola di legno che sembrava reggerla ancora per poco.
Poi ovviamente c’era il letto dove mi trovavo sdraiato. Bianco, ovviamente, con lenzuola che assurdamente puzzavano di troppo pulito e… sbarre?!
“Ehi! Ti sei svegliato!”, mi ritrovai la forza della braccia di mio fratello attorno alle spalle. Ma ero felice di sentirlo vicino, era qualcuno su cui potevo contare sempre e mi avrebbe spiegato tutto. “Bro non sai che fottuta paura ho avuto!”.
“Che cosa?! Che è successo?”, mi preoccupai cercando di sedermi, ma riuscii solo a sentire un odiosissimo mal di testa, così mi sdraiai di nuovo, guardando mio fratello. Era nervoso e preoccupato.
Lo conoscevo fin troppo bene e sapevo che quell’espressione che lui mascherava con un sono in pena per te era in verità un sì, sono in pena per te ma so anche qualcosa che però non ti posso o non ti voglio dire.
“Shannon, dimmi che è successo, ti prego? Dov’è Ronnie? Come sta?”, lo invogliai a parlare. Ma appena feci il nome della mia ragazza lui, proprio lui, Shannon Leto, cominciò ad avere gli occhi lucidi. Che…?
“Io… io… Jared mi dispiace, davvero”, disse scoppiando in lacrime come un bambino mentre io lo guardavo senza capirci nulla. Gli dispiaceva cosa?! Perché non mi diceva che diavolo era successo?!
“Shannon, ti prego, mi stai facendo preoccupare. Che cazzo è successo?!”, urlai, con conseguente mal di testa e Shannon che non la finiva di piangere. Era… assurdo!
“Ecco… a quanto pare mentre stavate guidando… ecco, avete fatto un incidente e…”, cercò di dirmi. Che…? Incidente?! Era per quello che ricordavo le luci? Ero andato addosso a qualcuno?!
“Signor Leto”, disse una voce fermando il suo racconto. Ci voltammo entrambi e Shannon si pulì gli occhi di fretta, tirando su con il naso. Era un uomo alto, magro, con i capelli neri e gli occhi scuri. Aveva il camice da dottore. “Vedo che si è svegliato. Potrei parlare un momento con lei… da solo?”.
Shannon si alzò subito in piedi, ligio al dovere, e prima di andare fuori dalla stanza mi guardò triste. “Ci vediamo dopo, ok bro?”.
“Sì… ci vediamo dopo Shan”, lo salutai ancora confuso. Stavo bene, perché essere così tristi e piangere? Io stavo bene e Ronnie… Ronnie stava bene, no?
“Bene, signor Leto, vedo che sta bene”, disse il dottore venendo di fianco al mio lettino d’ospedale, controllandomi braccia e viso. “La vista come va?”.
“Un po’ male all’inizio ma ok. Che è succ…?”.
“Bene, vuol dire che si sta rimettendo alla grande”, sorrise il dottore non lasciandomi finire. “Credo che dovrà stare qui ancora per poco visto che si è svegliato in perfette condizioni. Respirazione?”.
“Ok, ma Veronica McLog…?”.
“Sì, lo vedo che va bene”, disse ancora senza darmi la risposta che volevo. “Ora devo andare, arriveranno le infermiere tra qualche ora a vedere come sta e, se riesce a rimettersi in piedi, credo che stanotte potrebbe anche andare a casa”.
“Non mi frega niente di andare a casa!”, gridai, cercando di controllare la testa che scoppiava. Lui si fermò, capendo che non l’avrei mandato via senza una risposta. “Dov’è. Veronica. McLogan. E voglio saperlo adesso!”.
“Questo è un argomento che vorrei posticipare, se me lo permette. Lei non è nelle condizioni ideali per…”.
“No, non glielo permetto e non me ne frega niente delle mie condizioni”, ripetei di nuovo, ora seriamente arrabbiato. Dovevo sapere la verità! “Ora mi dica che cosa è successo, per favore”.
Lui tornò vicino a me e sospirò forte, come per dire l’ha voluto lei, mi dispiace. “E’ stato in coma per una settimana, signor Leto, a causa di un incidente stradale. Una macchina, guidata da un autista ubriaco che ora vaga in libertà, visto che non si è fermato a prestare soccorso, andava in contromano sull’autostrada dove lei e la sua compagna stavate viaggiando.
“Penso che la sua compagna abbia urlato alla vista dei fari dell’auto davanti a voi e lei, per istinto di sopravvivenza certamente, abbia sterzato in una manovra tutt’altro che utile.
“Ecco… la vostra auto si è voltata dalla parte sbagliata, facendo attutire il colpo preso dal veicolo davanti a voi ad estrema velocità alla parte destra. La parte dove sedeva Veronica”.
“Questo vuol dire che…”, cominciai mentre capivo le lacrime di Shannon, mentre capivo perché nessuno voleva dirmi nulla, perché solo al suo nome tutti cambiavano discorso. L’avevo… l’avevo uccisa cercando di salvarla?!
“Significa che appena l’ambulanza è stata chiamata da un automobilista di buon cuore sono corsi sul posto e vi hanno portati qui, cercando di rianimarvi. Abbiamo chiamato i vostri amici, ma la situazione si è rivelata peggiore di quello che pensavamo.
“Abbiamo fatto cadere lei in coma farmacologico per curare al meglio la sua botta alla testa, che effettivamente è passata, ma Veronica è stata più… complicata.
“L’auto non si è solo schiantata su di lei, mandandola in coma… ha colpito principalmente la carrozzeria, schiacciando il punto più delicato della sua compagna. È stata presa in pieno utero e arrivati qui i suoi amici hanno dovuto prendere una decisione per voi. Avevamo il 70% di salvare lei… ma solo il 10% di salvare anche vostro figlio”
“No. No, non può dirmi che… no”, sussurrai capendo la situazione. Il dieci per cento. Il… dieci percento…
“Hanno chiesto di fare il possibile per salvare entrambi”, mi chiarii le idee prima di uccidermi del tutto. “Ma appena abbiamo provato ad entrare nell’utero… ha smesso di respirare. Veronica è viva, signor Leto, starà bene e siamo riusciti a evitare che diventasse sterile.
“Avrete la possibilità di riprovarci, qual’ora lo vogliate, grazie all’operazione effettuata con successo. Potrete avere altri bambini, ne sono certo, c’è ancora un alta percentuale del 68% di possibilità di rimanere ancora incinta, per Veronica.
“Ma per ora… per ora possiamo definire questa gravidanza terminata, mi dispiace”. E detto questo si alzò e se ne andò dalla mia stanza, impassibile, come se mi avesse detto che il sole tramonta la sera e sorge la mattina. Tranquillo.
Bè io non ero tranquillo.
Porca puttana, no che non lo ero, era… morto mio figlio per colpa di un emerito coglione che si credeva tanto figo andando in giro ubriaco ad ammazzare gente! Che ora magari stava scopando con qualche stronza mentre io avrei dovuto cercare di tirare su di morale Ronnie appena si sarebbe svegliata!
E non sarebbe stavo per niente facile. Quel bambino era stata l’unica cosa in grado di cucire le ferite nel suo cuore provocate dai suoi, nemmeno io ero stato capace quanto lui di curarla. E ora anche lui se n’era andato. Via, puff.
Una piccola anima incompleta e senza nome ora vagava persa, senza che io potessi fare niente. Anzi, ho provveduto miseramente a mandarla all’altro mondo! Io e il mio dannato istinto di sopravvivenza!
Mi guardai intorno, tutto era vuoto e maledettamente bianco. Mi ritrovai con i pugni stretti, così li riaprii e tentai disperatamente di rialzarmi in piedi.
Non ci riuscii subito, dovetti tenermi alle sbarre laterali del letto per non cadere più volte, visto che tremavo come una foglia. Le mie gambe, fasciate come dal resto del corpo da uno strato leggero di lana che identificai come uno dei miei pigiami mai usati, non mi reggevano in piedi.
Loro, le mie tanto fedeli compagne di salto negli ultimi trecento concerti dell’ Into the wild tour, se n’erano andate a puttane dalla paura e dalla depressione imminente.
Già immaginavo i discorsi. Aveva sempre creduto di essere un egoista, che era sempre tutto colpa sua… e ora? Ora non si sarebbe risollevata facilmente, anzi sarebbe andata sempre più in giù.
E io avevo paura di affogare con lei.
No, avrei imparato a nuotare, ci sarei riuscito e alla fine mi sarei allenato così tanto da portare di nuovo a galla anche lei, e farle prendere un po’ di sano ossigeno. Glielo dovevo dopo tutto quello che lei aveva sempre fatto e continuava a fare per me.
“Jared… no”, sentii la voce di mio fratello fermarmi appena riuscii a stare in piedi e raggiungere la porta. “Non andare da lei”.
“Cosa?”, chiesi scioccato. “Non andare da lei?! Ma ti rendi conto di quello che è successo, Shannon? Io non ce la faccio a stare lì da solo ad aspettare che lei apra gli occhi. Per vedere cosa poi? Nessuno? O un dottore che le dica che suo figlio non c’è più?! Io devo andare da lei, deve vedere me”.
“Lo so, ma di certo non si sveglierà tanto in fretta. Jared, è in coma naturale, non come te!”, mi chiarii le idee. In pratica avrebbe anche potuto non risvegliarsi più.
In pratica il dottore mi aveva detto che tutto andava bene, che avremmo avuto una ‘alta’ percentuale di riprovarci, che l’operazione era riuscita… ma lei era in coma.
“Shannon… non puoi capire, se Andy andasse in coma che faresti?!”, gli chiesi e vidi uno sguardo triste sul suo volto. Oh.
“Non voglio che tu non vada da lei… solo, lasciale parlare un po’”, concluse mentre io mi calmavo, capendo che stare vicino ad Andy in questo momento non doveva essere tanto facile nemmeno per lui. Era la sua migliore amica, un pezzo di lei se n’era andato insieme al sorriso di Ronnie.
“Come sta?”, chiesi appoggiandomi a lui, mentre camminavamo verso le poltrone fuori dalle stanze, dove prima, mi aveva detto, c’erano seduti anche Vicky e Tomo.
“Come vuoi che stia? Appena ci hanno chiamati stavamo mangiando tranquilli, ridendo, e quando lei ha messo giù il telefono le ho visto la morte in faccia. Pochi secondi dopo, senza nemmeno rendercene conto eravamo in macchina e mi ha spiegato tutto.
“Piangeva come non so che cosa, non sapevo come consolarla, Jared. Sono più unite di quello che immaginavo, che chiunque potesse immaginare”, mi spiegò. “Era come se lei fosse in pericolo di vita, perché quello che prova una lo prova anche l’altra, anche se non so come.
“E arrivati lì abbiamo visto anche Tomo e Vicky. Ci hanno portato a vedervi… eri pieno di ferite, che un po’ ti si sono cicatrizzate e andranno via in fretta, non ti sei fatto quasi nulla ma quando mi hanno detto della botta in testa sono quasi svenuto. Ti hanno messo in coma temporaneo per vedere come ti riprendevi e fortunatamente è andato tutto bene”.
“E… Ronnie?”, mi feci raccontare ancora la storia, sebbene dentro volessi morire. Morire come avevo fatto morire mio figlio.
“Ronnie fu… traumatica”, si prese coraggio con un sospiro. “Andy, appena la vide ricominciò a piangere. Non aveva tanti graffi, anzi meno che te stranamente, ma si vedeva che era cambiato qualcosa. aveva il vestito che le copriva la pancia in maniera strana. Era… anormale. Vicky capì subito che era la messa peggio e anche il perché.
“Appena il dottore ci spiegò la situazione lei annuì, mentre Andy… bè andò in panico. Tu non potevi decidere e lei men che meno, quindi noi dovevamo decidere per voi. E se avessimo fatto la scelta sbagliata?
“Ci dissero che provare a salvare solo il bambino era un suicidio, perché ormai non c’erano quasi più possibilità per lui, visto che era ancora piccolissimo, e anche se ci avrebbero provato il tempo dedicato a Ronnie sarebbe stato troppo poco per salvarla. Tentare con lei invece era molto più fattibile, le possibilità erano di gran lunga superiori ma le conseguenze erano difficili da prevedere.
“Tomo prese la decisione: chiese di salvare prima di tutto lei, sapendo che avresti dato di matto a stare senza di lei, ma poi cercare anche un modo di far continuare la gravidanza. Bè… la seconda non ha avuto successo”.
“E’ colpa mia… se non avessi sterzato, io…”.
“Tu saresti morto e Ronnie anche”, mi fermò Shannon spiegandomi qualcosa che il dottore aveva dimenticato di dirmi. “Nell’impatto, grazie alla tua sterzata, è finita solo la parte destra dell’auto, colpendo per lo più la portiera. Certo, poi l’ha distrutta e ha fatto quello che ha fatto.
“Ma se tu non avresti fatto nulla la macchina davanti a voi vi sarebbe venuta in faccia a una così grande velocità che vi avrebbe uccisi entrambi, senza pietà. Volevi questo?! Sai che avrebbe significato perdervi tutti e due per noi? Per me?!”.
Sorrisi, anche se non ero del tutto felice, ovviamente, e lasciai un po’ di silenzio fra di noi. Non c’era bisogno di parlare, anche se alla fine uscirono comunque le parole.
“Sei mio fratello… anche se sei un idiota fissato con gli smalti, con le tinte strambe, con il vegetarianismo o con Ronnie… sei mio fratello e non permetterò mai a nessuno di farti del male”, disse mentre io lo abbracciavo.
“E sei il miglior fratello che esista. Sul serio, Shannon, sei il migliore!”, gli risposi. “E per Andy sei il miglior ragazzo che esista. Non avrei mai pensato di dirlo, ma è vero”.
Lui si staccò da me e tirò su con il naso, sorridendo imbarazzato, stropicciandosi gli occhi. Quale altro fratello avrebbe fatto questo per me?! Bob non era qui, c’era solo Shannon.
“Già… chi ci avrebbe mai creduto, eh?! I Leto sistemati… nemmeno mamma l’avrebbe pensato”, si prese in giro da solo. “Siamo diventati bravi a stupire le persone, eh JaJo?”.
“Oddio, no, non ricominciare con quel nome”, ridacchiai, ricordandomi che da piccolo mi chiamava così. Era un mix dei miei nomi: Jared Joseph. JaJo.
“Perché?! Non ha niente di male, anzi avrò qualcosa da raccontare a… Ronnie quando si sveglierà, per farla ridere”, disse correggendosi, ma sapevo che il destinatario che intendeva Shannon non era Ronnie, ma qualcuno che non c’era più.
“Già… insieme a BumBum”, sorrisi a fatica io, ricordando come mamma lo chiamava per prenderlo in giro. La storia era iniziata perché quando aveva incominciato a suonare la batteria diceva voglio fare bum bum! Bum bum! e da lì il resto fu storia. A volte mamma lo usava ancora per far in modo che Shannon fosse mollato dalle stupide ragazze da cotta prese dallo sconforto di uscire con un mammone chiamato BumBum.
“Non ci provare”, mi  minacciò ridendo. Io mi voltai, cercando con lo sguardo, senza saperlo, la camera di Ronnie. “Numero 33”.
“Cosa?”, chiesi guardando di nuovo Shannon che sorrideva tristemente.
“Stanza numero 33”, disse solamente. “Hai bisogno di lei, te lo leggo in faccia. Andy ha avuto tutto il suo tempo”.
“Grazie”, dissi battendo piano il mio pugno contro il suo. Mi alzai e, con molta calma, presi a camminare in avanti. Voltandomi vidi Shannon andarsene verso il balcone dall’altra parte di dove stavo andando io. Sperai che non avesse ripreso a fumare o l’avrei ucciso davvero stavolta.
30… 31… 32… 33. Eccola.
Sospirai e misi la mano sulla maniglia, ma appena la scostai un po’ la voce di Andy mi fermò, lasciandomi ascoltare. Era quasi straziante, anche se però non capivo cosa diceva.
Non l’avevo mai sentita parlare in italiano e la sua voce era un po’ diversa. La volta che Ronnie aveva parlato in italiano era quando i suoi genitori erano venuti al concerto di Milano. Era stata dura, decisa, e la melodia di quella lingua rafforzava il concetto. Mentre la voce di Andy, sebbene in lacrime, ora risultava più dolce.
“…siamo sorelle, no? Avevamo sempre detto che avremmo condiviso tutto ma non è mai stato così. Non mi fai mai partecipe di nulla, Ronnie! Hai questo stramaledettissimo vizio di tenerti tutto dentro, da sempre”, piangeva e non capivo cosa diceva. Ma che era distrutta potevo intenderlo. Era anche quasi arrabbiata. “Hai sempre voluto tenermi nascosta la parte più brutta di tutto. Ti rendi conto?! Sono venuta a sapere la vera natura di quel maledetto taglio sul polso a Milano dopo quanti anni? Undici, dodici?! È ridicolo!
“E ora? Ora ti richiuderai ovviamente in te stessa, non lasciando entrare nessuno, nemmeno Jared scommetto. Mi spieghi come potrai andare avanti, tenendoti tutto dentro?! Non è umano, Ronnie, non puoi credere di farcela da sola, lo sai che non puoi. Devi parlarmi… ti prego, stavolta parlami, condividi con me, ci sto male se ti tieni tutto dentro…”.
“Ehi”, dissi entrando piano, cercando di non cadere con le gambe ancora un po’ intorpidite. Andy si voltò di scatto, con gli occhi gonfi e rossi di pianto. Si asciugò le lacrime e guardò voltando la testa più volte sia me che Ronnie.
“Ti sei svegliato, finalmente”, si spostò, capendo per cosa ero andato lì a fare. “E’ stabile, ma non si muove. Dicono che parlarle può svegliarla ma è una settimana che ci provo…”.
Ma non la stavo a sentire, anche se ora la capivo. Stavo guardando Ronnie. Il corpo, quindi anche la pancia, era ricoperto dalle stesse lenzuola bianche che c’erano pure nella mia stanza. Le spalle, le braccia e il volto erano liberi invece.
Le braccia erano appoggiate lungo il corpo e potevo vedere i tanti e soliti braccialetti che le fasciavano i polsi. Ma riuscivo anche a scorgere, in quello destro, dei punti viola o verdastri. Ematomi.
Dalle spalle vedevo il pigiama bianco con i bordi rosei che aveva indosso. Era uno di quelli che si era portata a Bossier City, infatti poco più in là c’era la sua valigia, mezza distrutta.
Guardarla il viso fu particolarmente difficile, senza che cominciassi a tremare. Aveva la bocca chiusa, le labbra quasi bianche e la pelle pallida. Gli occhi erano chiusi e qualcuno, forse Andy, l’aveva struccata. Oppure non si era truccata lei quel giorno, non riuscivo a ricordare.
I capelli rossi erano come spenti e le circondavano il viso. I ricci si erano come appiattiti, come se volessero dormire, imitando la loro padrona.
“Non darti la colpa, almeno tu”, mi chiese poi, capendo forse che non la stavo ad ascoltare. “Lo farà già lei, quindi ti prego… ti prego, ti prego, ti prego, ti prego, non buttarti giù”.
“Sei una brava amica, Andy…”.
“Non è quello che voglio sentirmi dire, Jared”, mi fermò.
“E hai ragione. Ma tu aiutami, non posso fare tutto io, non riuscirò mai a tirarla su di morale da solo”, la pregai mentre mi sedetti di fronte a lei, di fianco a Ronnie. Le toccai la testa, ravvivando un po’ quei riccioli rosso sangue.
“Jared… non lo so. Lo sai com’è, non parlerà più per un bel po’ ora, ne sono certa. La aiuteremo tutti, ovvio, ma…”, si disse quasi delusa da sé stessa. “Ora come ora non so come possa tirarle su il morale. Non è ho proprio idea”.
“Andy tu la conosci meglio di chiunque altro, tu…”.
“Io non sapevo nemmeno che si fosse tagliata le vene per la disperazione dei suoi genitori! Io non sapevo cosa davvero accadeva in quella casa, io non sapevo nulla”, urlò. Cosa?! “Lei crede di farmi un piacere a tenermi tutto nascosto, per non farmi soffrire o che so io e sono certa che lo fa anche con te, ma non è un buon modo. La conosco bene quanto te Jared…”.
“Quando troveranno quell’idiota starà meglio…”, dissi credendoci davvero, ma lei rise ironica.
“Sapere che hanno trovato quel coglione non le riporterà indietro suo figlio, Jared. Ho solo paura per lei… per quello che potrebbe fare appena lo scopre”, rispose. “Si è tagliata la vena una volta, potrebbe completare l’opera facilmente ora. E… e ho tremendamente paura che lo faccia. Paura di perderla del tutto, ancora”.
“Non lo farà”, dissi mentre con un occhio guardavo il braccio che mi aveva indicato. Nascosta dalla pelle candida ecco una lineetta biancastra e fredda. “La terrò d’occhio. Non lo farà”.
“Lo spero, Jared… lo spero. Perché darei di matto a saperla morta”, disse Andy alzandosi, dandole un bacio sulla guancia e andandosene verso la porta. “Tu parlale, magari a te risponde”.
Uscì, di sicuro per andare da mio fratello a farsi abbracciare visto lo stato in cui era quando ero entrato, lasciandomi solo con Ronnie.
“Lo sai che sarà dura, vero?”, chiesi a nessuno guardando i suoi occhi chiusi. Avevo bisogno del suo verde però, avevo bisogno di sciogliermi nello smeraldo. “Ha ragione Andy. Non puoi pensare di non parlare più con nessuno, non te lo permetto. So che ce la puoi fare…
“Io… ho bisogno di sentire la tua voce, Ronnie. Voglio dire, mi sembra di non sentirla da una vita, ho paura di dimenticarla. E ho paura che dimenticherò il suono della tua risata.
“Non quella ironica, triste e anche un po’ arrabbiata che di sicuro farai appena scoprirai questo guaio, però. Mi mancherà sentire la risata che non ti lasciava mai dal nostro arrivo a Bossier City fino a quell’urlo. Come posso farti ridere ancora, me lo spieghi?”.
La guardai. Non dava segno di movimento. E non era come quelle volte, di troppi anni fa, in cui sveniva e mamma la portava nei nostri vecchi letti anonimi. Quelle volte restavo sempre con lei e capivo subito quando c’era qualche cambiamento.
Invece stavolta no. Era immobile e non capivo come comportarmi. Che potevo dirle se lei nemmeno mi sentiva? Prima di partire verso Bossier City dicevo che ora niente avrebbe potuto andare storto… e adesso? Cosa mi rimaneva?
Ora dovevo tirarmi su le maniche e lavorare a più non posso per cercare di non rovinare tutto.
“Ti prego… rispondimi, Ronnie. Ho bisogno di te, lo sai. Non sono bravo a gestire queste situazioni, sei sempre stata tua ad essere quella forte e sicura di sé. Ronnie…”, pregai senza avere nessuna risposta. Ora capivo Andy, anche solo il suo tono, mentre ero entrato. Era quasi snervante. “Ti ho aspettato per dieci anni Ronnie… ti ho perso una volta, non puoi andartene ancora. Non c’è vita senza di te. Non puoi farmi questo”. E finito di dire questo non avevo altro da fare. Non riuscivo più a parlare, così feci quello che facevo meglio. Cominciai a cantare.
 

We'll never fade away
I will stand by your ground
I will tear down myself
I won't fade
 
It was a a thousand to one and a million to two
Time to go down in flames and I'm taking you
Closer to the edge

 

...
Note dell'Autrice:
NON UCCIDETEMI! ricordate ciò che vi ho detto sopra. Tranquilli, prendete fiato, andrà tutto bene. Lo so che sono stata cattiva, potevo evitare tutto questo e bla bla bla.... ma non è così. Vedrete, servirà a qualcosa, quindi abbiate pietà e un pò di pazienza.
E visto che sono buona ("ma dove?!" so già che direte) vi lascio un grande spoiler del prossimo capitolo

....
"Ricordi quella donazione a Bossier City? Forse uno di quei bambini sarebbe andato a fare compagnia al nostro se non ci fossi stata tu! Certo, non è bello avere perso nostro figlio, ma intanto pensa di aver dato la possibilità ad altri di avere una vita migliore. E non mi importa quello che potrebbe accadermi standoti vicino. A me non importa quanto dovrò soffrire. So solo che i momenti tristi passeranno, Ronnie, perché passano sempre, mentre gli anni felici che vivremo insieme ce li ricorderemo per sempre e saranno di gran lunga maggiori dei piccoli momenti tristi!”.
....


ci vediamo martedì bellezze, Ronnie02

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Capitolo 35
*** Egoistic ***


Ed eccoci qui ragazzi :) Nel mentre sto ascoltando Far Away quindi se scoppio a piangere abbiate pietà di me ;) 

Anyway, come promesso ho aggiornato e l'ho fatto di mattina poichè oggi pomeriggio DEVO fare i compiti (sono in fase -manca-poco-tempo-e-non-ho-fatto-ancora-un-cazzo- e mi è venuta la paura XD) così eccoci qui. Come detto in precedenza questo è un capitolo che riprende lo scorso, ma maggiormente dalla parte di Ronnie. Ora, buona lettura, vi aspetto in fondo :)





Capitolo 35. Egoistic





 
 
Ronnie
 
Mani. Mani fin troppo fredde per non darmi fastidio si posavano sulla mia pelle, vicino al braccio, senza che potessi sapere di chi fossero o perché mi toccavano. Non riuscivo nemmeno a chiedere di smetterla. Oppure a capire di chi fossero. Di certo non era Jared, conoscevo fin troppo bene la sensazione delle sue mani sulla mia pelle e quelle non erano le sue. Forse erano quelle di Vicky.
Voci. Voci lontane e talmente incomprensibili da non farmi capire cosa stavano dicendo. Non riuscivo nemmeno a indovinare chi fossero i loro proprietari. Forse erano degli sconosciuti, per quello non le riconoscevo. Ma… dove mi trovavo?
Odori. Odore di pulito, troppo pulito, mischiato ad un profumo diverso, forse da donna, proveniente da destra. Non avevo idea di chi fosse, non avevo mai sentivo quel profumo, e non mi piaceva per niente. Forse fragranza di limone? Io odiavo il limone.
Cercai di aprire gli occhi, ma ero come immobilizzata. Non era la stessa cosa che mi accadeva quando svenivo, dove rimanevo quasi intrappolata nella mi stessa testa. Ora capivo, o meglio cercavo di capire, cosa c’era attorno a me o cosa accedeva, ma non riuscivo ad usare il mio corpo.
Era orribile. Volevo farmi sentire, volevo aprire gli occhi, alzarmi da dove stavo, abbracciare Jared…
Jared. Come stava Jared? Che ci era successo, quanto tempo era passato?
L’ultima cosa che ricordavo erano le nostre risate, con la musica da discoteca alla radio, mentre tornavamo a casa. Poi… poi una luce forte a colpirmi gli occhi, una frenata troppo veloce che mi fece sbattere contro la portiera… e una forte botta, come se mi avessero tirato un pugno grande quanto un tronco d’albero, in pancia.
La pancia… che era successo?
Dio mio, volevo uscire di lì, come potevo starmene lì ferma e immobile senza sapere cosa era successo, cosa stava accadendo, chi c’era intorno a me o cosa stava facendo?!
“Ronnie… è una settimana che ti parlo, ormai, quindi non penso che tu possa ascoltarmi, però…”, sentii forte e chiaro la voce di Jared. Questa volta la sentivo decisa, forte e chiara, come se l’orecchio stesse riprendendo a funzionare. “Non voglio ripeterlo, perché più lo dico più lo rendo reale e mi fa male. Sì, sono un idiota a pensarlo, visto che è reale e dovrei rassegnarmi, ma… cavolo, Ronnie, non ce la faccio più senza di te”.
Che stava dicendo?! A cosa doveva rassegnarsi? Cazzo, aveva bisogno di me, dovevo uscire di lì.
“Ti prego svegliati… ho bisogno dei tuoi occhi, Ronnie, e del tuo sorriso, ti prego. Io… non voglio perderti di nuovo, te l’ho già detto anche se ovviamente non mi hai sentito”, continuò quasi piangendo, senza che capissi il perché. No, non potevo lasciarlo solo in quello stato, che razza di persona sarei stata? “Ogni tanto ti canto Year Zero e Closer To The Edge per tirarmi su. Pensavo che grazie a quelle canzoni ti saresti svegliata, ma… insomma Ronnie, che devo fare?!”.
Lo sentii sospirare, mentre io piangevo dentro per non poterlo aiutare e per sentirmi completamente persa. Insomma, l’unica cosa che potevo fare era sentirlo. Non potevo toccarlo ne vederlo.
E se fossi rimasta così per sempre?! No… no, uccidetemi piuttosto, vi prego! Jared, ti supplico, non lasciarmi in questo stato, tirami fuori!
Poi lo sentii cantare.

I’ve been thinking
Of everything I used to want to be
I’ve been thinking
Of everything of me of you and me

 

This is the story of my life
(These are the lies I have created)

“Ja… Jay?”.
“Ronnie?!”, esultò lui di scatto, prendendomi la mano. Sentivo la sua pelle contro la mia. Ero riuscita, con tutta la forza che avevo per la tristezza di non poterlo aiutare, a muovermi un po’.
Avevo ritrovato le mani, la bocca… ma ancora non riuscivo a vedere i suoi grandi e stupendi occhioni color del cielo. Jared… dove sei?
“Ronnie? Ronnie mi senti?”, mi chiese vedendo che non davo altri segni di vitalità. Mossi di nuovo la mano, stringendo un poco la sua, rendendomi conto delle poche forze che avevo, per fargli capire che ero lì con lui.
“Jared…”, sussurrai ancora. Jared, dove sei? Ho bisogno anche io di vederti! “Non… vedo…”.
Sentii la presa della sua mano farsi più forte, paurosa di quello che la mia frase potesse intendere, e chiamò a squarciagola l’infermiera, per venire da noi.
Le ciabatte di plastica fecero un rumore sempre più forte, le sentivo sempre più vicino, fino a che non si ammutolirono. Una mano sconosciuta, però, prese a toccarmi il viso.
“Non è una cosa permanente, vero? Non rimarrà… cieca, vero?!”, chiese tutto impaurito Jared, senza mollare la presa alla mia mano, che invece strinse ancora di più.
“No… non credo”.
Non credo?!
“Lei non crede?!”, chiese anche Jared, arrabbiato. “Che significa che non crede?! Mi dia risposte certe, ora!”.
“Signor Leto l’operazione è andata a buon fine, ma la sua compagna è stata in coma fino a questo momento. Nessuno può prevedere le conseguenze di un coma. Non dovrebbe perdere l’uso della vista, magari quello che ha sentito è stato solo un riflesso involontario”, spiegò la donna, quasi impaurita dalla durezza del mio ragazzo.
Coma?! Ero in coma?!
“Riflesso involontario?! Ma la vede la mia mano? Non me la sono stretta da solo, sa?”, chiese ancora infuriato. Ma forse aveva solo paura visto che sapevo come andava in panico in certe situazioni. “E l’ho sentita! Mi ha parlato, ha detto il mio nome. Ha detto: non vedo!”.
“Signor Leto…”.
“Non… vedo!”, cercai di dire di nuovo, sforzandomi di usare la bocca, che non voleva muoversi.
L’infermiera non parlò più, Jared nemmeno. Sentii dei fogli cadere, forse a causa di un brusco movimento. “Dottore!”, chiamò l’infermiera, terrorizzata quasi.
I pochi attimi successivi furono apatici. Nessuno mi toccò, se non la mano di Jared che mi teneva stretta, nessuno parlò, nessun odore cambiò. Poi all’improvviso ci furono dei passi sempre più presenti e la voce di un uomo si fece sentire. Jared spiegava la situazione e l’infermiera chiariva ciò che avevo detto.
Poi delle altre mani mi toccarono il viso. Appena però cercò di farmi aprire le palpebre provai un fastidio tale che mi sforzai a stringere gli occhi. Le mani si tolsero e pochi secondi dopo stavo aprendo gli occhi, cercando di capire che stava succedendo.
Di fianco a me, collegato alla sensazione di tatto alla mano, c’era Jared. Era magro peggio di prima, pallido, con delle occhiaie allucinanti e vestito con un vecchio pigiama mai usato. La frangetta si era un po’ allungata, come il resto dei capelli, ed era tutta in disordine.
 Dall’altro lato del letto, più lontani. Il dottore e l’infermiera, vestiti con i camici e tutti a puntino, mi guardavano sbalorditi, ma anche un po’ sorridenti.
Poco dopo i loro sorrisi se ne andarono, Jared cominciò ad avere gli occhi lucidi e l’infermiera se la svignò. Anche io mi sentivo strana… come, come se mi mancasse qualcosa.
Quel vuoto che avevo provato appena era arrivato lo scontro era tornato. Che…?
“Bentornata fra noi, signorina McLogan”, sorrise forzatamente il dottore, mentre Jared mi guardava la mano, ovviamente in lacrime. Che gli succedeva? Perché non mi guardava?
“Ero in coma, vero? L’ho sentito prima”, sussurrai, mentre la bocca faceva ancora un po’ fatica a lavorare.
“Sì, per due settimane. Ma ha sempre avuto un ottima compagnia. È una ragazza molto fortunata”, continuò mentre Jared stringeva ancora più forte. Notai che alla parola fortunata fece una smorfia.
“Che è successo?”, chiesi guardando entrambi. Il dottore deglutì e Jared si girò finalmente verso il mio viso. Era parecchio stanco e… piangeva.
“Faccio io”, disse facendo annuire il dottore, che se ne andò lasciandoci soli. Che era successo, perché piangeva?
“E’ successo un casino, Ronnie”, cominciò facendo nascere altre lacrime che gli inondarono gli occhi. “E’ successo un gran casino”.
 
Non ero più incinta.
Era tutto finito, dentro di me non c’era più niente, se non un ammasso di organi che per un soffio non andavano all’altro mondo insieme a quello che io e Jared avevamo creato.
Puff, se n’era andato com’era venuto. Senza farsi vedere, senza nessun rumore. Non ero più incinta.
Jared stava malissimo, non riusciva a smettere di piangere, era una fontana ambulante. Appena vedeva i miei occhi, i suoi si appannavano di lacrime. Sapeva che quello che era diventato il suo sogno in questi ultimi mesi per ora non si sarebbe realizzato.
Non ero più incinta.
Grazie ad un operazione, mi aveva detto, tutto quello che mi serviva era stato rimesso a posto, così da poter avere altre opportunità. Ma sia io che Jared sapevamo che, anche se ci avremmo riprovato, non sarebbe mai stato lo stesso. Non sarebbe mai stato lui.
Lui era volato via, un angioletto non ancora del tutto formato, se ne andava in giro in quello che molti chiamano Paradiso.
Dopo quello che era successo con i miei raramente pregavo. Dio era qualcosa di… troppo effimero per riuscire ad aggrapparmici. Ma stavolta pregai perché lui raggiungesse quella dimensione. Non aveva colpa, lui. Era il più adatto per stare lassù.
E io… io non ero più incinta.
Che dovevo fare? Non ci potevo credere. Ancora una volta, tutto il mio mondo era caduto in un istante. Così, in un attimo.
E perché? Perché invece che starsene a casa a farsi chi cazzo voleva, un idiota aveva deciso che si sarebbe fatto di adrenalina andando a una velocità pazzesca in autostrada, per di più in contro mano. E ci era venuto addosso.
Perché noi? O meglio, anche se proprio a noi… perché adesso?! Se fosse successo ad ottobre ci saremmo salvati tutti e due, no? Invece ora il terzo se n’era andato.
E non ero più incinta.
“Posso?”, chiese una voce che mi tolse di vista il viso sfigurato dalle lacrime di Jared. Si era ammutolito, non sapendo più cosa dire, e io non gli avevo mollato la mano. Non parlai, non ne avevo il coraggio.
Ma quella voce… era l’ultima che avrei voluto sentire in quel brutto giorno da incubo. Mia madre.
Jared mi guardò e poi annuì, lasciandomi la mano mentre io disperatamente cercavo di tenerlo con me. Uscii dalla stanza a testa bassa, come mai prima di quel momento.
“Che ci fai qui?”, cominciai a parlare di nuovo in italiano, quasi stranamente. Lei odiava l’inglese.
“Sono tua madre e tu hai perso un bambino. È giusto che…”.
“Come sai che… come sai quello che è successo?”, dissi evitando di ripetere le sue parole. Faceva troppo male. E lei non mi aiutava affatto: sentivo la rabbia montarmi dentro. “Che ci fai qui? Chi ti ha mandata?”.
“Andy mi ha chiamata una settimana fa. E dopo un’attenta riflessione ho deciso di venire. Sento che come madre, devo…”, cercò ancora di dire qualcosa, ma la fermai. Proprio non riuscivo a starla a sentire.
“Prendere le tue responsabilità ed ammettere che quello che è successo più di dieci anni fa è solo colpa tua?”, continuai. Ma lei abbassò la testa e capii che non era quello che voleva dire. “Ma certo. Mi sembra ovvio. Tu non puoi mai prenderti le tue responsabilità! Tu non hai mai la colpa! Tu sei perfetta”.
“Io non sono perfetta, e ora so che la cosa giusta da fare…”.
“E’ tornartene a casa perché qui non sei ben accetta”, finii, ribadendo il concetto che avevo detto a Milano. Possibile che proprio non ci arrivassero? “Ve l’ho già detto. Andatevene dalla mia vita, non vi voglio con me, voi non siete più la mia famiglia. Voi mi avete fatta soffrire e…”.
“Oh, ma per l’amor del cielo,Veronica! Io o tuo fratello non ti abbiamo abbandonata per venire a Los Angeles a farci due troie in un afterparty. Come invece so che ha fatto il tuo adoratissimo Jared”, mi rinfacciò.
Cercai di mettermi seduta sul letto, arrabbiatissima. Sentii il battito del mio cuore, monitorato da una qualche macchina che faceva bip, aumentava a dismisura.
“Cosa?! Ok, non so come tu abbia fatto a scoprirlo, ma, prima di tutto, non sono assolutamente fatti tuoi! Come ti permetti di criticare Jared?!
“Ah, giusto, tu sei la sola che può giudicare perché sei perfetta, no? Gli altri sono tutti delle merde al tuo confronto, persino tua figlia fa così schifo”, urlai. Finalmente la mia voce ricominciava a funzionare e io stavo dando di matto. Ma come osava?! “Secondo, è vero. Sì, Jared mi ha fatta soffrire, ma… ma non arriverà mai al vostro livello. Mai!
“Lui si è scusato appena mi ha rivista e ha cercato in ogni modo di farsi perdonare. Tu che hai fatto?! Niente, come sempre. Perché tu non puoi permetterti di abbassare i tuoi livelli e farti perdonare. Tu devi perdonare gli altri, o non ti va bene. Perché ovviamente solo loro hanno qualche colpa, giusto?”.
“Sei patetica! Sono tua madre, pretendo  rispetto”.
“Rispetto?! Non sai nemmeno dove sta di casa il rispetto, tu! E smettila di dire che sei mia madre, non lo voglio sentire!”, urlai.
Vidi la figura di Andy, abbastanza dispiaciuta, comparire sulla porta e invitare mia… lei ad andarsene.
“Vattene via… vattene via”, scoppiai, mentre Andy entrava nella stanza e chiudeva bene la porta. Mi guardò prendermi la testa fra le mani e chiudermi in me stessa.
“Mi dispiace… io non pensavo volasse fino a qui… io…”, cercò di difendersi.
“Va via, Andy… va via, per piacere”, le chiesi, senza muovermi di un millimetro.
“Ronnie, no! Non ti permetterò di chiuderti di nuovo in te stessa, non di nuovo. Combatti!”, mi disse venendomi a togliere le mani dal viso. Ma notò solo grandi lacrimoni che scendevano sulla mia pelle.
“Combattere?! Qui non si tratta di combattere, Andy! Qui si tratta di accettare la sconfitta!”, urlai, facendola anche un po’ spaventare. “Non voglio parlarne. Ti prego, chiama Jared, ho bisogno di lui”.
“Ok…”, annuì mordendosi il labbro. Si alzò e andò verso la porta, facendo ciò che le avevo chiesto.
“Ehi…”, la chiamai. Si voltò, con gli occhi lucidi che vedevo anche da qui. “Non fartene una colpa: hai fatto quello cha hai fatto, ma lei ha sbagliato a venire. Non sono arrabbiata con te. Non potrei mai esserlo, sorella”.
Lei sorrise, annuendo di nuovo, e uscì dalla mia camera. Ci furono dei minuti di totale silenzio, in cui pensai di tutto tranne che asciugarmi le lacrime. Sarebbero scese ancora comunque.
E in più stavo pensando a quando mi sarei ritrovata ancora davanti a Jared. Di sicuro non si era ripreso, ma magari Shannon e Tomo lo avevano consolato un po’. Avevo bisogno di lui, e ne avevo bisogno in fretta.
 
 
Jared
 
Ero entrato nella stanza e vedevo Ronnie seduta sul letto, mani sul volto. Aveva pianto, quella dannata donna l’aveva fatta piangere ancora.
Mi sarei vendicato su di lei un giorno, non importava niente che fosse sua madre. Non poteva farla soffrire così ogni santa volta che la vedeva, non ne aveva il diritto.
Mi avvicinai lentamente, cercando di non fare rumore, mentre lei muoveva i piedi intorpiditi in mezzo alle lenzuola bianche. Stava riprendendo i movimenti dopo l’uscita dal coma. Mi sembravano anni, ma in verità erano passate solo poche ore.
Era normale che il tempo andasse così piano quando succede una disgrazia?
“Ehi”, dissi quando la raggiunsi. Mi sedetti accanto a lei, sul letto, e le baciai i capelli, stringendo le sue spalle verso di me. La sua testa si appoggiò al mio petto, le sue mani furono sul mio pigiama e lo strinsero forte, per impedirmi di scappare. Le lacrime cominciarono a scendere.
“Jared… mi dispiace! Davvero, mi dispiace, sono stata un’idiota…”, cominciò quello che infatti avevo già previsto. Darsi la colpa.
Però anche se l’avevo previsto non sapevo ancora che dirle. Ci avevo pensato, ovviamente, ma con la sua testardaggine non mi avrebbe comunque dato retta.
“No, Ronnie, non è colpa tua. Non darti colpe che non hai. Non hai fatto nulla di male, come avresti potuto sapere quello che…”, cercai di dirle ma le sue lacrime raddoppiarono senza che io potessi fare nulla per impedirlo.
“E’ proprio questo il punto, Jared! Non capisci?”, mi chiese alzando la testa. No, non capivo. Che voleva dire? “Io lo sapevo che sarebbe successo! Io lo sapevo! E non ho fatto nulla, nulla, nulla per impedirlo!”.
“Questo è ridicolo, Ronnie! Come avresti fatto a saperlo, scusa?”, mi stupii. Almeno che mi teneva nascosto il fatto che fosse una veggente piuttosto credibile, non era possibile che lo sapesse.
“Non lo è invece, Jared”, disse quasi più calma. Ma era una calma apparente. In realtà la conoscevo fin troppo bene per sapere che quella calma sarebbe durata poco, trasformandosi in lacrime. Ed eccole, gonfiarsi nei suoi occhi. “Io… ti ricordi la notte di Natale, dove ti dissi che ero incinta?”.
Come dimenticarla? Era stata una delle notti migliori della mia vita, ma poi era finita così. Non era giusto, come poteva il mondo andare così maledettamente da schifo? “Sì… sì la ricordo”.
“Ricordi che la notte stessa feci un incubo? Però non ti rivelai cosa avevo visto, no?”.
“No, ma ricordo che dicevi ‘resta qui, parlami! Resta qui’. non avevo capito il perché, però”, risposi. In effetti quella mattina si era svegliata sudata, di soprassalto e impaurita. Che aveva visto?!
“Era lui, Jared”, disse scioccandomi. Non… non era possibile. Non… lei non poteva aver… “Era lui, con dei grandi occhioni azzurri e dei capelli neri, scompigliati come i tuoi”.
“No… no, Ronnie, no… non è possibile”, decisi. Lei mi guardò storto ma cercò di capirmi, continuando a parlarmi.
“Mi trovavo al buio e ti stavo cercando. Non sapevo dov’eri e facevo il tuo nome, senza fermarmi. Poi qualcosa mi tira la gonna del vestito, e vedo questi due occhioni color del cielo che mi fissano con un sorriso”, mi raccontò, in lacrime. “Non mi diceva nient’altro che ciao e salutava con la manina pallida”.
“Allora come fai a dire che lo sapevi?! Non è detto che fosse lui, ti diceva solo ciao! Era solo un sogno, Ronnie!”.
“No Jared! Lasciami finire, non era solo un sogno, io… non lo so, come faccio a credere che sia stato solo un sogno?”, mi fermò, sempre più triste. Non riuscivo a vederla così, il mio cuore andava in pezzi sempre più freneticamente. “Dopo un po’ mi disse che… prima c’era e poi non c’era più”.
“Che… che vuoi dire?”.
“Ha detto: brum ha fatto bum! bum bum e io non c’ero più”, finii il racconto. “Non capisci, Jared? Brum ha fatto bum! La macchina è scoppiata! E dopo lui se n’è andato, come nel mio sogno, diventando man mano più trasparente… lasciandomi sola”.
“Ronnie…”.
“No, Ronnie niente, Jared. Non capisci?”, mi chiese di nuovo. Cercai di attirarla verso di me, abbracciandola, ma si ritrasse. “Hai ragione: sono destinata a Marte. No, anzi sono destinata ad essere come Phobos e Deimos”.
“Che vuoi dire?”, chiesi curioso. Perché era destinata ad essere come due satelliti?
“Phobos e Deimos sono due satelliti anormali, Jared. La forza di gravità marziana in teoria non sarebbe in grado di tenere così distanti due corpi che girano attorno al pianeta, per questo si ha paura che prima o poi si schiantino contro la superficie rossa. Io sono anormale come loro e…”
“Tu non sei anormale, Ronnie, non…”.
“Lasciami finire”, tirò su con il naso, piangendo ancora. Perché mi faceva questo? Perché si lasciava andare senza che io potessi fare nulla per aiutarla? Ora capivo come si sentiva Andy. “Phobos e Deimos sono i nomi greci per identificare… paura e terrore. Non capisci, Jared? Io sono come Marte, perché l’unica cosa che riesco ad attrarre a me senza farlo schiantare o allontanare troppo sono paura e terrore. Solo loro sono una costante nella mia vita. Tutto il resto… o se ne va, o viene eliminato con dolore. E ho paura che tu e gli altri facciate la stessa fine”.
“Ronnie… questo non è vero! E anche se fosse, credi che ora scapperei via urlando? O che gli altri non ti rivolgano più la parola?”, domandai io mentre l’abbracciavo a forza, finchè non smise di resistere e cominciò a piangere sulla stoffa del mio pigiama. La coccolai, carezzandole il viso e i capelli, cercando di toglierle almeno un po’ del dolore troppo forte che sentiva dentro. “Non importa nulla ciò che sei, nemmeno se fossi Marte.
“Tu non attiri solo paura e terrore. Tu attiri i raggi del sole, fai sorridere persone che forse non avrebbero mai capito come farlo! Ricordi quella donazione a Bossier City?
“Forse uno di quei bambini sarebbe andato a fare compagnia al nostro se non ci fossi stata tu! Certo, non è bello avere perso nostro figlio, ma intanto pensa di aver dato la possibilità ad altri di avere una vita migliore.
“E non mi importa quello che potrebbe accadermi standoti vicino. A me non importa quanto dovrò soffrire. So solo che i momenti tristi passeranno, Ronnie, perché passano sempre, mentre gli anni felici che vivremo insieme ce li ricorderemo per sempre e saranno di gran lunga maggiori dei piccoli momenti tristi!”.
“Non voglio farti soffrire, Jared”, piagnucolò.
“Lo dicesti anche quel giorno, sotto la pioggia, a New York. Ma è inevitabile che un po’ di sofferenza ci sia. La vita non è rose e fiori, lo sai”, la consolai. “Però almeno voglio prendere il meglio che mi offre. E quel meglio sei tu”.
“Aiutami”.
“Sono qui”.
 
 

...
Note dell'Autrice:
ve l'avevo detto che il sogno tornarva!!! E così anche la madre (odio profondo). Anyway, spero che vi sia piaciuto, soprattutto la parte di Marte e dei satelliti perchè a volte è quello che penso anche di me, quindi inserirlo è stato quasi.... diciamo personale anche se non so se possa essere l'aggettivo giusto (sto sentendo Beautiful di Eminem, ora, sono modalità depressione xD (stupido iPod)). 
Ok, comunque, visto che salterò il prossimo aggiornamento (MI MANCHERETE UN CASINO!!!! *lo dico sul serio*) vi mando taaaaaaaaanti bacioni... e anche uno spoilerino per farvi stare meglio mentre io sono in vacanza :) *e poi dite che sono cattiva, eh!* ahahaha


....
“Perché è impensabile, punto e basta. No, non ti credo”, s’intestardì, sul divano di casa, continuando a fare zapping mentre conversavamo.
“Sei cattiva”, feci la faccia da cucciolo. Lei rise. [...]. “Cosa?! Guarda che Bart è dentro di me”, mi offesi.
....

“Sandy”, dissi frettolosa.
“Sandy?”, chiese Jared ridendo.
“Sì, Sandy. Ha il pelo rossiccio e bianco come la sabbia”, 
...

 

eccoci qui. Piaciuti i DUE spoiler? (sono troppo buona xD). Dal tono giocoso potete immaginare che, anche seci sarà tristezza, non saranno più deprimenti come questi due. Abbiate fede e aspettate che torni :)
Buone vacanze a tutte quante, I LOVE YOU! ahha
Ci si sente tra due settimane bellezze
Ronnie02

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Capitolo 36
*** Solon The Savior ***


Salve gente!!! Allora avete il permesso di uccidermi ma non potevo rinunciare appena mi hanno proposto un'altra settimana di mare dopo due anni che non ci andavo. Scusate! Ora sono in montagna (portatemi viaaaaaaaaa) ma sono riuscita a collegarmi *-*
Ora, visto che vi ho lasciato di merda e avete aspettato (mi siete mancate un sacco) vi lascio subito leggere. Buona lettura




Capitolo 36. Solon the Savior





 
 
Jared
 
Era passata una settimana dal giorno in cui Ronnie si era svegliata, aveva scoperto tutta la verità, aveva affrontato ancora una volta quella che non era degna di essere definita sua madre, mi aveva parlato del sogno e di Marte.
Era passata una settimana nel quale mi avevano buttato fuori dall’ospedale perché stavo evidentemente benissimo ma anche nel quale avevo fatto impazzire i medici visto che stavo con Ronnie 24 ore su 24.
Lei non era stata dimessa, così gli altri facevano a turno a tenerci compagnia, visto che io non mi muovevo da lì nemmeno per mangiare. Di solito veniva Shannon a pranzo e Andy a cena, così loro mi portavano quelle bontà vegane che mi servivano e che sono loro conoscevano la provenienza.
Ronnie aveva escogitato un piano per non mangiare e ovviamente io non ero d’accordo. Semplicemente o rifilava a me le pastine che le facevano mangiare o, se erano roba come carne o latticini, finiva tutto in mano all’accompagnatore di turno che lo portava alla mensa dei poveri non lontano dall’ospedale.
Infatti stava dimagrendo perché mentre magari io uscivo un secondo dalla camera lei buttava via anche il pranzo che le avevo obbligato di mangiare. Ma in fondo dovevo prevederlo, non mangiava normalmente, figuriamoci ora.
Così mi ero ripromesso che ad ogni pranzo l’avrei controllata nei minimi particolari, così che non avesse vie di scampo. La cena ormai era una battaglia persa, quindi evitai di farmi dei problemi.
“Dovresti andare a casa”, sussurrò mentre vedevo i suoi occhi aprirsi, all’alba delle dieci, voltandosi verso di me. “C’è qui Andy, non devi stare qui per forza”.
“Non sono qui per forza. Voglio stare qui”, le dissi sorridendole e spostandole una ciocca di capelli. “E poi che vuoi che faccia a casa? Me ne starei in camera a pensare a come stai e alla fine me ne tornerei qui”.
“Ma lo so che ti fa stare male, Jay. Domani mi dimettono, per favore, almeno stanotte va a casa a dormire nel letto e non su una sedia scomoda”, si preoccupò come al solito per niente.
“Sto bene, Ronnie. Stai calma”, le sorrisi mentre lei fece una smorfia, che voleva mascherare per un’imitazione riuscita male di una mezza risata.
“Sai… a volte mi immagino come sarebbe stato, se il mio sogno fosse realistico. Che carattere avrebbe avuto e magari cosa avrebbe fatto da grande e…”, cominciò a dire con le lacrime che tornavano. Era sempre così.
Ogni mattina. Ogni sera. Ogni volta che ci guardavamo e sapevamo che ciò che avevamo creato era morto.
“Ronnie… basta, per favore”, le chiesi supplicando. Dovevo essere forte per lei, ma così non mi rendeva le cose facili. “Basta!”.
“Cosa?! Basta, cosa, Jared? Vuoi dimenticare tutto, facendo finta che non sia successo nulla? Dimenticandoti di tuo figlio che è morto?”, disse arrabbiata voltandosi dall’altra parte.
La richiamai verso di me, beccandomi un’occhiataccia. “Credi che per me sia facile?! Che mi sia dimenticato ogni cosa appena ho saputo? Ronnie non è difficile solo per te, io sarei diventato padre!”, dissi spaventandola un po’. Mi calmai. “Lo so che ti piacerebbe avere ancora la convinzione di averlo vicino. Lo so che vorresti vederlo nascere, crescere, riconoscere cosa avrebbe preso da me o da te, cosa avrebbe fatto da grande… ma non succederà Ronnie e così facendo distruggi te stessa e anche me”.
“Non posso dimenticarlo, Jared. Io…”.
“Non ti sto chiedendo questo. Nessuno di noi lo dimenticherà, come potremmo? Ma non rendermi la cosa più difficile… per favore”, supplicai le carezzai una guancia, mentre lei distoglieva lo sguardo.
“Ti sto facendo del male, come sempre. Ha fatto bene a morire, almeno non dovrà subirsi una madre del genere”, cominciò a piangere. Era intrattabile, lunatica e illogica… ma già l’avevo previsto e non potevo farci nulla.
“Non dirlo, Ronnie. Ti prego, non dirlo”, le presi il mento, facendola voltare verso di me. Tirò sul con il naso e notai il tremolio delle sue labbra. “Tu sei perfetta, solo che hai subito troppo. Ma la supereremo Ronnie, insieme. Però… però devi lasciarlo andare”.
“Non posso”, scoppiò buttandosi contro il mio petto.
“Non ti sto chiedendo di farlo adesso, so che non puoi. Nemmeno io riesco”, la consolai abbracciandola e baciandole i riccioli insanguinati e lucenti. “Ma provaci”.
“Sarebbe come arrendermi”, sussurrò.
“Arrendersi a cosa, Ronnie?! Arrendersi alla vita è continuare a pensare a lui e lo sai! Pensa a te, a come stai ora, a rimetterti in sesto. Poi magari anticiperemo il tour, e più tardi ci riproveremo”, le dissi, stringendola ancora. “Ma tenerlo tra noi ossessivamente non è arrendersi, è illudersi. E tu non sei un’ illusa”.
“Resta con me”.
 
“Come sta?”, chiese Tomo, che era arrivato con Vicky dopo che Andy se n’era andata per riposare a casa. Shannon era rimasto, stava parlando con la signora Milicevic sul balcone del piano.
“Come credi che stia? Stabile ma la sua mente è caduta in basso”, risposi chiudendo la porta. Ronnie dormiva, ma era meglio non farle sentire nulla in caso si svegliasse o imbrogliasse.
“Mi dispiace. Anche Andy non pensava che sua madre venisse fin qui”, si stupì.
“Non l’ha fatto per essere gentile, l’ha fatto per mostrarsi ancora migliore, nel momento perfetto, mentre Ronnie non era in grado di sostenerla”, scossi la testa, arrabbiato. Come poteva una creatura bella e pura come Ronnie derivare da una persona del genere?
“Mi dispiace Jared. Davvero, da quando vi siete svegliati non abbiamo mai parlato da soli, ma… mi dispiace. Non avrebbe dovuto succedere”, mi abbracciò. Era Tomo, il mio fratello marziano, il mio sostegno. Che avrei fatto senza Tomo?
“Non fa niente. È successo, non si può tornare indietro, ora pensiamo a star bene”, dissi staccandomi da lui. Aveva gli occhi lucidi: ormai era un’abitudine in questo periodo per tutti,  e non andava affatto bene. “E tu?”.
“Jared… che ti posso dire? Mi sarebbe piaciuto che i nostri figli fossero coetanei”, si stropicciò gli occhi, facendomi tremare le mani e le labbra, per evitare le lacrime. “In più non tocco la macchina da quella notte”.
“Cosa intendi dire?”, chiesi scioccato.
“Che ho chiuso con la macchina fino a che non saranno passati nove mesi”, decretò Tomo.  Era serio, molto serio, il che mi fece paura.
“Cosa?! Tomo, non farti prendere dal panico, non accadrà anche a te e non puoi andare in giro per nove mesi senza macchina, sei matto?”, chiesi stupito.
“Jared lo so che non succederà di nuovo, ma, se permetti, ho paura”, mi disse più tranquillo. “Lei è già impazzita per Ronnie e, davvero mi dispiace da morire, ma non posso fare finta di niente. Devo stare attento, non posso permettere che le accada niente”.
“Come avrei dovuto fare io”, abbassai gli occhi.
“Jared tu hai fatto di tutto per lei, l’hai sempre consolata, l’hai fatta sorridere anche dopo dieci anni di distanza. Ma di certo non potevi prevedere questo”, mi disse, stavolta aiutando me. “Nessuno lo avrebbe mai immaginato”.
“Lei sì”.
“Cosa?”, mi chiese stupito. Ma nemmeno io riuscivo a spiegarmelo, non era possibile. Che facesse sogni rivelatori? Era il primo o l’ultimo di una lunga serie?
“Non lo so, dice di aver sognato un bambino che le diceva che una macchina sarebbe scoppiata, per poi scomparire e lasciandola sola”, spiegai. “Crede che sia lui, una versione di lui nata e cresciuta verso i due anni”.
“Jared… può darsi, a volte si fanno sogni del genere. Ma questo complica la situazione”, mi disse. “Potrebbe attaccarsi talmente tanto a quell’immagine sfuocata da crederla vera, ovunque vada. Diventerebbe ossessionata da quel volto, convincendosi di averlo a fianco”.
“Come posso impedirlo?”.
“Purtroppo continuandole a ricordare che era solo un sogno e che la realtà è questa. Ma, Jared, quando starà meglio ti ringrazierà di non averla fatta affogare nella fantasia”, mi disse impassivo. Lo capivo.
“Vivi, muori, sanguini per la fantasia? Automatico: immagino, credo”, canticchiai senza sorridere. Quanto potevano essere vere quelle parole, scritte da me stesso in un'altra epoca, a quanto mi sembrava.
“Cerca di non fare diventare quella canzone una realtà, Jared. Non possiamo permettercelo”, mi sorrise. “Falla pensare ai vostri momenti insieme, ai concerti passati, alle cazzate che facevate o fatti raccontare quelle che faceva con noi. Dille che gli Offbeats la amano più di tutto il resto, che Destiny rivuole indietro la sua proprietaria, che deve ancora farsi il tatuaggio che Andy le ha regalato a Natale, fate una nottaccia a guardarvi tutti i film di Harry Potter, cantate insieme”.
“Che avete combinato voi?”, ridacchiai capendo che aveva ragione. Lei aveva bisogno solo della realtà, le avrei fatto dimenticare il resto, dovevo farla stare bene.
“Fattelo raccontare”, mi fece l’occhiolino mentre mi dava una pacca sulla spalla e se ne andava verso il balcone, con Shan e Vicky, tirandoli su un po’ di morale.
Aprii la porta. Ronnie aveva gli occhi aperti e guardava fuori dalla finestra, senza sorridere, sbattendo qualche volta gli occhi e toccando la Triad che aveva sempre avuto al collo dal giorno in cui Tomo gliel’aveva regalata.
“Ti va un po’ di conversazione?”, chiesi con un sorriso andandole vicino. Lei si voltò, fissandomi curiosa.
“Che vuoi dire?”.
“Non so, dimmi qualcosa. Quello che vuoi”, le dissi mentre mi faceva spazio e ci sedemmo vicini. La macchina che controllava il suo cuore era regolare e scandiva il tempo peggio di un rumoroso orologio. “Comincio io? Va bene, allora ti racconto di come noi abbiamo conosciuto quel pazzoide di Tomo”.
“Lo so già”, ridacchiò. Mi stupì, e ne fui molto contento. Sorrideva già, senza ironia. Ci stava lavorando, lo faceva per me.
“E chi te l’ha detto?!”.
“Fammici pensare… Tomo?!”, scherzò toccandosi ancora la Triad con un sorriso. Era bello rivederla così dopo una settimana di lacrime.
“Oh, cattivo bambino”, lo sgridai provocandole un sorriso. Di solito sarebbe scoppiata a ridere, ma anche solo quell’accenno di felicità, ora, era la luce che illuminava la giornata.
“Puoi raccontarmi qualcosa d’altro”, mi incitò, cercando un abbraccio che arrivò subito. Poggiò la testa sul mio petto, cercando di sentire anche il ritmo del mio cuore.
“Ti dirò come ho conosciuto Solon. La sai anche questa?”, chiesi sorridendo.
“No, stranamente no, e sono anche curiosa”, sorrise restando stretta. Non la vedevo, sapevo che si era nascosta gli occhi apposta, ma sapevo che anche se provava ad essere felice e ridere, non ce la faceva.
Ma ce l’avrebbe fatta, bastava lavorarci. Insieme.
 
“No, non ti credo”.
“Cosa?! E perché ti dovrei mentire, scusa?”, cercai di convincerla.
“Perché è impensabile, punto e basta. No, non ti credo”, s’intestardì, sul divano di casa, continuando a fare zapping mentre conversavamo.
“Sei cattiva”, feci la faccia da cucciolo. Lei rise.
E rise davvero, anche se solo per poco. “Sei patetico Jared. No, non ti credo. Non posso credere che tu abbia inventato un nome così assurdo per un assurdo alterego!”.
“Cosa?! Guarda che Bart è dentro di me”, mi offesi mentre lei smetteva di ridere e lasciava su un canale con un gioco a quiz.
Si portò le braccia attorno alle gambe e mise la testa sulle ginocchia, per poi voltare il viso e guardarmi. Alcuni riccioli rossi ballonzolarono di fianco agli occhi.
“Quindi io sarei innamorata anche di questo Cubbins?”, chiese evidentemente incredula. “Non ho mai creduto agli alterego, Jared”.
“No, ma solo perché tu sei lunatica da te”, la presi in giro. Lei alzò la testa e formò una O con la bocca.
“Come ti permetti?!”, mi disse sporgendosi verso di me e tirandomi un cuscino. “Sei un idiota, Jared Leto!”.
Accettai di buon grado quella stupidaggine, mentre mi prendeva a cuscinate. Tomo aveva ragione, parlare di altro, facendola restare nella realtà le aveva fatto bene, anche se i primi giorni vedeva ancora quel bambino e ancora oggi non riusciva a non pensarci.
La sera soprattutto, mentre andavamo a dormire, era un dramma. Mentre prima le tenebre erano fonte di ispirazione e di gioco, adesso erano terrore per Ronnie. Erano l’ennesimo buio in cui cadeva.
“Ti va un po’ di tè?”, chiesi io. Faceva un po’ freddo e in questo periodo anche Los Angeles risentiva della pioggia. E il tè era una delle cose che la tranquillizzavano.
“Certo, sto qui a sentire il rumore della pioggia io”, sorrise togliendo di scatto il volume del televisione e facendomi spazio per andare in cucina.
La lasciai lì, a sentire l’acqua scrosciare sui vetri e schiantarsi per terra, oppure quella che finiva nella tazza  e riscaldata nel microonde. Appena fu bollente infilai la bustina e lasciai che il colore arancino rossastro, come i suoi capelli, si spargesse in tutto il liquido. Misi un po’ di zucchero e mischiai.
Tornai da lei con il vassoio e lo misi sul tavolino davanti alla tv, ora del tutto spenta. Si era rimessa con le braccia attorno alle gambe, e aveva abbassato la testa, coprendola con anche i capelli.
“Hey… hey, che succede?”, mi sedetti accanto a lei, cercando di abbracciarla. Ma appena la toccai lei si mosse di scatto.
Aveva i lacrimoni, gli occhi gonfi e le guancie rosse. Le mani tremavano e stringevano il maglione che aveva indosso.
“Non ne ho più voglia. Scusami”, si dileguò con voce rotta.
Sospirai e buttai la testa indietro, chiudendo gli occhi e cercando il telecomando. Appena riaccesi la televisione guardai che aveva combinato.
Sì, lei rideva. Sì, era cosciente della realtà. Sì, cercava di riprendersi.
Ma ogni volta che poteva, cercando di non farsi vedere, toglieva il volume della televisione e andava su un canale che parlava di bambini.
E lei scoppiava, spegneva di botto la tv e si chiudeva in camera.
L’avevo scoperta poco dopo il ritorno a casa, dopo una settimana circa, e da allora non aveva smesso. Cercava ogni scusa per mandarmi via e saziare la sua sete materna.
Spensi di nuovo il televisore, intenzionato ad andare da lei, ma il campanello suonò. Respirai per qualche minuto, guardando prima la scala, che portava alle camere, e poi la porta.
Risuonò il campanello così decisi di aprire a quel povero disgraziato che ci chiamava fuori, sotto la pioggia.
“Jared!”, esultò Vicky, appena le aprii. Che ci faceva Vicky qui? E da sola per giunta, quando Tomo provava a non lasciarla mai da sola per tenerla d’occhio.
“Che ci fai sotto il diluvio universale?”, chiesi invitandola ad entrare velocemente. “Ti prenderai un raffreddore bello e buono!”.
“Oh, Jared, non mi verrà nulla”, ridacchiò entrando in casa. Notai solo in quel momento che in mano, sotto la giacca pesante e l’ombrello fradicio, aveva una piccola scatola bucherellata. E lei vide il mio sguardo posarsi su di essa. “Mi devi fare un favore, Jared”.
“Che succede? Che cos’è?”, domandai prima che lei poggiasse l’ombrello. Le presi la giacca, mettendola sull’appendiabiti, mentre lei si accucciò a terra e poggiò la scatola al suo fianco.
“Ho pensato che avrebbe fatto bene a Ronnie”, disse guardandomi e invitandomi a sedermi accanto a lei. “In più Milo e Felix non hanno voglia di altra compagnia, non vorrei fargli del male”.
E sotto il mio sguardo curioso, sorrise e aprì la scatola bucherellata. Lì dentro, appallottolato e congelato come una pallina da tennis, c’era un piccolissimo micino di colore rossastro e le striature color panna.
“Deve avere circa una settimana visto quanto è piccolo. L’ho trovato venti minuti fa sotto casa mia. Ho paura che qualcuno voleva disfarsene in questa tempesta”, disse tristemente.
“E’ terribile”.
“Già. Ma io non posso tenerlo, Jared”, mi spiegò. “Un cucciolo fa sempre bene all’anima e Ronnie adora gli animali. Ti va di dargli una casa? È pure rosso come lei!”.
Risi e annuii. “Devi solo portarlo dal veterinario appena puoi. Ti dirà lui cosa fare e cosa comprare”, mi ricordò ancora.
“Certo. Grazie Vicky, è… un regalo perfetto”, sorrisi guardando il piccolino ancora addormentato. Mosse le zampette, come ad indicare che si stava scaldando.
“Sono felice che lo pensi”, esultò lei. “E sono altrettanto felice che abbia una casa. Ora devo andare, Tomo si starà chiedendo dove sono finita”.
“Ancora iperprotettivo?”, ritornai serio.
“So perché lo fa, e gliene sono grata. Solo che a volte è stressante”, annuì lei alzandosi e andando a prendere la giacca. “Chiamateci se avete bisogno per il nuovo arrivato, okay?”.
“Sì, certo. E tu cerca di non affogare”, le dissi passandole l’ombrello.
“Oh, grazie mille. Certo, meno male che so nuotare!”, mi prese in giro. “Ah, per il nome… è una lei, chiaro?”.
“Oh, sicuro”, annuii mentre usciva.
La guardai uscire dal vialetto di casa nostra, passare i cancelli e poi chiusi la porta, sperando che Tomo non impazzisse per il ritardo. Mi concentrai anche però su quella minuscola palla di pelo ancora appallottolata dentro la scatola.
Mi misi davanti e la osservai. Era viva, vedevo la piccola pancia muoversi ad un ritmo veloce.
“Andiamo a fare una sorpresa a Ronnie?”, chiesi sorridendo. Provai ad avvicinarmi e a toccargli il pelo rossiccio. Appena sentii la morbidezza fredda lui… lei aprì gli occhi mostrando quel azzurro misto verde che nascondevano.
Mi guardò come se avesse appena visto il sole e cominciò a fare le fusa all’improvviso. Ridacchiai e la presi in mano. Dio mio, era minuscola! Mi stava a malapena in una mano.
Con lei in ‘braccio’ salii le scale, andando verso la camera con la porta chiusa. Bussai due volte.
“Ronnie, c’è una sorpresa per te”, dissi veloce, mettendo già in bella vista la piccola micina tra le mie mani.
Sentii dei piedi toccare il pavimento e muoversi lentamente verso la porta. Poi delle mani toccarono la maniglia e l’aprirono.
“Jared, lo so che sbaglio ma io…”, cominciò a dire, per poi fermarsi appena notò quello che volevo vedesse.
“L’ha appena portata Vicky. La stavano facendo morire di freddo e così ha pensato di darla a noi”, le spiegai mentre si stropicciava gli occhi, togliendo le lacrime passate e sorridendo di gioia.
“E’…”, cercò di dire.
 
 
Ronnie
 
“E’ bellissima”, sbottai io guardando quella piccola palla di pelo tra le mani di Jared. Doveva avere solo qualche giorno perché stava in una mano e aveva il pelo rosso e bianco con degli occhi azzurro-verdi.
“Vuoi darle un nome?”, chiese lui. Un nome… come se fosse una bambina. E sapevo che Vicky aveva colto l’occasione al volo.
Sì, il mio piccolo non c’era più, ma un’altra mamma gatta aveva lasciato il suo a me e mi stava chiedendo di proteggerlo. Avrei trovato un modo più sano per tirarmi su di morale.
“Sandy”, dissi frettolosa.
“Sandy?”, chiese Jared ridendo.
“Sì, Sandy. Ha il pelo rossiccio e bianco come la sabbia”, spiegai con un sorriso, prendendo in braccio quella piccola gattina e strapazzandola di coccole.
Incominciò subito a fare le fusa e per il resto della giornata non ci fu un momento in cui io e Jared smettemmo di giocarci insieme.
 
Qualche giorno dopo Sandy cominciò a prendere peso, il pelo divenne più lucido e le forze sembravano tornare. Con il freddo che aveva preso era già tanto che non era morta.
Grazie a Jared e, soprattutto, Vicky avevo trovato qualcosa di cui occuparmi. Le davo da mangiare regolarmente, giocavo con lei ogni volta che potevo, la coccolavo se faceva le fusa e la guardavo dormire sul nostro letto.
Jared aveva chiesto disperatamente di evitarlo, ma anche se provavamo a farla scendere, la mattina dopo lei era di nuovo sulle coperte. Per lo più si era affezionata al petto di Jared, che dormiva sempre a pancia all’aria, oppure, se io occupavo il suo posto tenendomi il mio ragazzo per me, si metteva con la testa su una delle nostre gambe, come se fosse un cuscino, e il resto sulle coperte.
Alla fine, ovvero quella sera, si era arreso e appena era salita non tentò nemmeno di farla scendere.
Ora l’aveva portata dal veterinario, visto che non voleva farmi uscire e io nemmeno ne avevo la voglia, così stavo preparando il pranzo per quando sarebbe tornato.
Sentivo il forno fare un lieve rumore, l’aria all’esterno muovere un po’ gli alberi, visto che la pioggia era finita e finalmente stava tornando il tipico caldo californiano, i suoni provenienti dalla tv.
La tv. Non guardavo più la televisione da quel giorno, mi ero imposta di non accenderla, di non guardarla, di non girare canale, di non cercare quel programma.
Ma la mia testolina bacata si era imparata a memoria gli orari e sapeva benissimo che era a quell’ora e mi bastava girare per qualche secondo per vedere un sorriso di un bambino. Solo un minuto, Jared non lo sarebbe mai venuto a sapere.
Tremando, misi da parte il pranzo senza rendermene conto. Camminai verso il rumore della tv. Non era a casa, potevo stare tranquilla… solo uno sguardo e poi basta. Uno solo…
Dlin dlon
O merda, e ora chi era?!
Andai dritta verso la meta e, senza prendere il telecomando, spensi tutto di fretta. Poi respirai e andai verso la porta. Non poteva essere già a casa, era presto, e poi non avrebbe suonato alla porta.
Infatti non era Jared.
“Ronnie!”, mi salutò Solon, con una giacca pesante addosso e una sciarpa al collo. E da quando Solon era freddoloso? Un secondo dopo starnutì.
“Entra!”, lo invitai prendendolo per la manica e spingendolo dentro, dove quasi inciampò in un giocattolino di Sandy, che ci aveva portato Tomo. “Che ti è successo?”.
“Quella tempesta maledetta! Mai stato così male, Ronnie!”, mi informò facendomi ridere appena starnutì di nuovo. Era buffo.
“Scusa ma ci sono un po’ di giochi in giro. Sai, Vicky ha trovato una gattina e così ce l’ha regalata”, lo informai appena guardò un topino di peluche in giro per casa.
“Oh, ma che cosa carina!”, disse, per poi guardarmi, distogliere lo sguardo due secondi dopo e contorcersi le mani.
“Dimmi”.
“Che?”, chiese stupito.
“Quando fai così capisco che mi devi dire qualcosa. Dimmelo”,  lo invogliai, facendolo sospirare.
“L’hanno preso. Dovremmo essere in tribunale alle nove di mattina, il diciotto di febbraio per testimoniare contro di lui”, disse tutto d’un fiato. Mi fermai di botto. Ecco l’incubo che ritorna, di nuovo, ancora. No, lo stavo superando, ora…
“Oh”, riuscii solo a pronunciare.
“Non è obbligatorio che tu sia presente e nemmeno Jared. L’avvocato ha un attacco stracciante, lo faremo marcire in galera. Ma deve esserci qualcuno che porti la tua testimonianza”, mi informò ancora.
“Bene, vai tu”, semplificai andando verso la cucina e facendomi seguire.
“Oh, certo, posso farlo. Conosco bene i fatti”, disse per poi fermarsi di colpo. Non sentii più i passi e  mi voltai. Aveva la testa bassa. “E mi dispiace, davvero”.
“Non è stata colpa tua”, commentai cercando di non impazzire di nuovo. Jared, dove sei?!
“Non per quello che è successo, sai che mi dispiace e che devi stare tranquilla, perché potrai riprovarci”, mi spiegò. Sì, riprovarci… “Mi dispiace di non esserti venuto a trovare mentre eri in coma o mentre stavi male”.
Ad un tratto il mio stato d’animo tornò stabile. Ed era merito di Solon, come ogni volta.
Sorrisi e andai ad abbracciarlo.
“Sei stavo via per lavoro, non sei venuto perché non potevi, non perché non volevi”, lo strinsi forte, mentre ripensavo a quei giorni. Jared era stato la mia unica forza, ma Dio sa quanto avevo bisogno anche del mio migliore amico! “Sei stato con me con il pensiero, lo so che ti sei preso un colpo”.
“Sono quasi morto, sai? Figurati, sono impazzito quando a Roma mi avevi preso in giro dicendo che ti eri spaccata non so cosa!”, mi tirò su di peso, facendomi sentire… a casa, davvero a casa. “Non voglio perderti, Ronnie. Nessuno di noi ha mai voluto perderti. Ti rendi conto della monotona e triste vita che trascorreremmo se tu non ci fossi più?”.
“Secondo me le cose andrebbero tutte molto meglio”, sussurrai.
“No, non saremmo completi. Mancheresti tu”, disse una voce dietro di noi. Jared, con in mano Sandy che sonnecchiava felice, mi stava sorridendo.
 
Era il 18 di febbraio ed ero a casa, coccolando Sandy, mentre Andy mi faceva compagnia.
Jared aveva deciso di accompagnare Solon in tribunale, dove in questo preciso momento era in corso il processo. Solon mi aveva promesso che lo avrebbe tenuto a bada: sapevo fin troppo bene che appena avesse visto in faccia quello stronzo gli sarebbe saltato addosso, ma sperai che facesse andare il cervello, usando un po’ di ragione.
“Sandy no!”, urlò Andy entrando in salotto. La mia gatta si spaventò e scese di fretta dalla sedia su cui si era appollaiata per dormire.
“Perché la fai salire sui mobili?”, chiese la mia migliore amica continuando mentre io andavo a prendere Sandy e tranquillizzarla.
“Perché se è comoda e sta bene è okay”, alzai le spalle. “Perché dovrebbe preoccuparmi dove dorme la mia gatta? Ormai ci ho rinunciato”.
“Sempre la solita Ronnie”, disse sedendosi vicino a me e guardando Sandy che faceva le fusa, tutta contenta delle nuove attenzioni.
“Avete anche lo stesso nome quasi. Andy, Sandy, Andy, Sandy”, scherzai io guardando in basso. Lei scoppiò a ridere e cominciò a giocherellare con la sua quasi omonima.
Drrrr. La vibrazione del mio telefono, segno che mi era arrivato un messaggio. Lo sbloccai e mi mostrò la conversazione aperta con Jared. C’era una frase nuova.
Abbiamo vinto.
E per un attimo sentii che forse il mondo stava tornando al suo posto, che la giustizia una volta tanto aveva fatto qualcosa di buono. Ma di certo, appena lo dissi ad Andy, come lei, capii che questo non mi avrebbe ridato mio figlio.
No, lui non sarebbe tornato da me. Mai più.


...
Note dell'Autrice:
le cose si stanno pian piano riappacificando e vi possso dire che manca poco alla fine.... ma non disperate, tra poco (soooooooooooooooon xD) vi svelerò una sorpresa :)
Allora che dire, mi siete mancate un sacco e sono di fretta quindi i commenti della storia ditemeli voi per recensione e vi chiarirò tutto tramite telefono :)
Spero vi sia piaciuto, 
con tutto l'amore dopo due settimane di assenza vi saluto
Ronnie02

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Capitolo 37
*** The Offbeats' Power ***


Salve Echelon! Sì, sono sempre in ritardo -.-"
Perdonatemi e siate misericordiosi..... io lo sono stata visto che questo capitolo porterà nuove scoperte. Ok, no si sitemerà solo un pò la situazione. Ma, come al concerto dei Mars a Milano, con questo ho voluto mettere i ricordi della protagonista. Chissà se vi piacciono, miei prodi (???)
Sono stanchissima, gente, quindi vi dirò tutto sotto e SCUSATEMI DAVVERO se ci sono errori ma non ho la forza alle 22.30
Buona lettura




Capitolo 37. The Offbeats’ Power






 
 
Jared
 
“Vestiti?”, chiese Ronnie controllando di nuovo tutto quello che doveva prendere. Sarà stata almeno la terza volta.
“Presi”, confermai.
“Chitarra? Oddio, dov’è la mia Des?!”, si preoccupò, dopo la terza volta che le dicevo dov’era.
“Ancora? È già in macchina, non preoccuparti”, la tranquillizzai.
“Oh, giusto. Sandy?”, chiese guardando il piccolo tappetino dove Sandy dormiva. Finalmente si era decisa a dormire per terra e lasciarci in pace sul letto. Era stata una conquista.
“Da Vicky, anche se ciò implica che sia con quel matto di Felix. Meno male che l’abbiamo sterilizzata, non ci tengo proprio ad avere in casa sangue proveniente da un Milicevic”, scherzai.
Lei rise e, mentre sistemò le ultime cose, mi tirò un cuscino.
“Se il solito idiota”.
“Mi ami anche per questo”, le dissi prendendola da dietro e abbracciandola. Le diedi un bacio sulla guancia e lei sorrise.
“Sì, anche per questo”.
Lei si voltò e per qualche minuto restammo lì abbracciati. Ci aspettavano mesi di prove, serate e musica a tutto spiano, con l’unico vantaggio di occuparle la mente.
Sì, perché Solon aveva programmato un nuovo tour per Ronnie, non dovendo aspettare più il bimbo. In più gli Offbeats l’avrebbero tenuta allegra.
“Quando torneremo a casa?”, chiesi di nuovo mentre andava a ricontrollare la scaletta dei prossimi concerti e le tappe da percorrere.
.“A Settembre, precisi per l’arrivo delle pesti che di cognome faranno Milicevic”, sorrise cercando di nascondere la tristezza che però vedevo nei suoi occhi. Vicky, al contrario suo, avrebbe presto avuto il pancione e al nostro ritorno due piccoli da coccolare.
“Perfetto”, continuai. “Avete già deciso per i nomi?”.
“Vicky ha qualche idea, ma non vuole dirci nulla. E poi deve parlarne con Tomo”, mi rispose.
“Sì, certo. Come se li decidesse lui; li sceglierete tu, Vicky e Andy alla fine”, cercai di renderla facile. Lei sorrise ancora, riguardando le date. “Roma?”.
“Non è Milano. E non potevo non tornare in Italia”, si giustificò. In realtà sperai che non avesse più intenzione di tornarci mai più, ma in fondo aveva ragione. Era la sua terra, era nata e cresciuta laggiù, e quel posto era magnifico.
“Ti proteggo io, qualunque cosa succeda”, me la strinsi di nuovo contro il mio petto. Sentii la stoffa finire in mezzo ai suoi pugni e le diedi un bacio sui capelli rossi.
“Sai che ne ho bisogno”, sussurrò così piano che mi persi qualche parola.
“Sono qui per questo, lo sai”, la rassicurai alzandole il viso e sorridendole. “E sai chi c’è la fuori ad aspettarti? Gli Offbeats! Quei pazzoidi che urlano le tue canzoni e aspettano solo te!”.
“Ho paura di combinare un casino”, distolse lo sguardo. Le presi il mento e la invitai a fissarmi di nuovo. Non mi piaceva non vedere i suoi occhi, non erano degni di rivolgersi solo al pavimento.
“Non è la prima volta che vai in tour, Ronnie! Non succederà nulla”, le dissi stringendola. “Tu non combinerai niente di male, anzi renderai felici un sacco di persone”.
“Grazie”, rispose dopo qualche minuti di silenzio che mi sembrò durare un’eternità. “Di tutto. Da sempre. Per ogni cosa”.
“E’ il mio dovere, baby”, mi vantai un po’ facendola ridere, stavolta con una risata che colpì un poco anche gli occhi. “Ora andiamo, dobbiamo andare a prendere anche Shannon e Andy”.
“Già… quei due a Londra. Chissà che cavolo combineranno”, si staccò da me per prendere le valigie e ci dirigemmo insieme verso l’uscita. Mi ricordava un po’ la scena dell’addio alla casa di Bossier City.
Ciao, per qualche mese rimarrai disabitata, casetta. Spero che non ti mancheremo troppo.
“Già… Londra. E partiamo pure il giorno del compleanno di Shannon!”, commentai. Avevamo festeggiato il nostro Shanimal qualche giorno prima, ma i fatidici quarantadue erano arrivati quel giorno e li avremmo passati in aeroporto!
“In effetti non è una cosa bellissima, ma almeno lo passiamo insieme. Mancano solo gli altri due piccioncini, ma gli avranno già fatto gli auguri e li avranno già salutati”, disse salendo in macchina, mettendosi la cintura.
I suoi occhi erano vigili, attenti a tutti… impauriti.
Mi sedetti al suo fianco e feci partire l’auto. Parlammo ancora un po’ sulle date, durante il viaggio, su dove saremmo andati, delle visite e sui posti che invece conoscevamo bene essendoci già stati entrambi nei precendenti tour. Parlammo anche di Tomo e Vicky, su cose se l’avrebbero cavata con Sandy e Felix, o su Shan e Andy, su come andavano le cose.
Alla fine arrivammo a casa di mio fratello, dove Andy stava seduta sull’amaca attaccata a due alberi in giardino – idea di Shannon, ovviamente – con le cuffie nelle orecchie. Dondolava lentamente, e sembrava certi monaci tibetani in preghiera.
Quando suonammo il campanello Shannon uscì di casa, vestito leggero e con un cappello rosso. Sorrideva e aveva in mano due valige rosse più uno zainetto nero. Andy si svegliò e andò ad aiutarlo velocemente, prendendo entrambe le valigie e salutandoci con la mano.
Shannon tornò dentro e dopo pochi minuti tornò con altre due valigie, per lui. Chiusero la porta a chiave dietro di loro e si avvicinarono a noi.
“Auguri vecchio!”, lo salutai abbracciandolo. “Pronto per la città della pioggia?”.
“Ma come siamo simpatici!”, ridacchiò lui per poi staccarsi. “E fammi salutare la mia Ronnie adorata, va”.
Ronnie sorrise e lo abbracciò volentieri, attaccandosi alla maglietta e lasciandosi stritolare dai muscoli di mio fratello. “Tanti auguri, Shanimal”.
“Grazie, tesoro!”, rispose lui sorridendo. Si staccarono e Shannon venne ad aiutare me con le valigie, mentre le ragazze restarono lontane a parlare per un po’.
“Quindi non gliel’hai ancora detto da Bossier City?”, mi chiese, facendomi capire subito cosa intendesse con un gesto della mano.
“No… come faccio Shannon? No, non è il momento”, risposi triste, e vedendolo annuire. “Insomma prima Lucy, ora il bimbo… ogni volta che provo a tirare fuori l’argomento succede qualcosa di brutto. Forse mi sto sbagliando o forse sbaglio ad aspettare e dovrei chiederglielo”.
“Non aspettare. Voi due siete perfetti e sarebbe una cosa stupenda”.
“Lo so”, lasciai correre visto che le ragazze stavano tornando verso da noi, chiedendoci della partenza. Sistemammo le ultime valigie e poi entrammo tutti e quattro in macchina. Destinazione… aeroporto!
Da lì, Shannon e Andy sarebbero partiti per una vacanza-lavoro di tre mesi per Londra, mentre io e Ronnie per ora saremmo andati  a Seattle per la prima data.
 
 
Ronnie
 
L’avevo già fatto tante volte. Ma quella volta era diverso; io ero diversa. Insomma erano cambiate così tante cose dall’ultimo concerto che avevo fatto. Jared, il matrimonio di Tomo e Vicky, Lucy… il bambino.
Ma non potevo abbattermi, non ancora. Dovevo uscire fuori davanti a quella folla e cantare, gridare, saltare fino a perdere la voce con quei ragazzi. Glielo dovevo.
“Pronta?”, mi chiese Jared nel backstage passandomi il cappello a scacchi rossi e neri che mettevo sempre. Lo indossai e andai ad abbracciarlo. Ora toccava lui attendere in quella stanza mentre io andavo fuori a fare baldoria.
“Prontissima”, sussurrai stretta a lui.
“Bene, perché se non le senti da sola, le urla danno un forte segnale che ti stanno aspettando”, ridacchiò lui facendomi staccare. Infatti il tecnico mi chiamò e io salutai Jared.
“RonRon”, si mise in posizione Hope, che era tornata nel mio piccolo corpo di ballo anche per questo tour, sul palco. Intorno a noi solo oscurità e ci orientavamo per i nostri vestiti neri, con luci colorate appiccicate addosso. Notai i fan, che illuminavano lo stadio con i loro telefonini.
“Hope”, risposi sorridendo, senza che lei lo notasse. Non ne sapeva nulla lei, come tutti gli altri, ma aveva capito, da come fuggivo via verso Jared alla fine delle prove, che non andava tutto rose e fiori.
Che fossi insieme a Jared non fu una novità per nessuno. I gossip andavano in giro per il mondo alla velocità della luce e ormai tutti avevano capito che McLogan e Leto ora erano una coppia.
Ci mettemmo in posizione, come se stessimo per partire in una gara di corsa, con le gambe indietro, appoggiati sulle mani.
Tre… due… uno…
“Like… like… like a rebirth, rebirth”,  cominciai a cantare, come se fosse una mezza nuova versione remixata della canzone. Il titolo dell’album era Sunshine, e di fatto una luce mi colpì in pieno, mentre altri tanti piccoli spiragli degli spotlight irradiavano il palco e i fan.
“How do you feel tonight, Seattle?!”, urlai mentre il batterista continuava  a musicare il ritmo di Like A Rebirth. Tutti gridarono con me e vidi Hope che cominciò a girare, illuminando con il suo vestito i dieci centimetri intorno a lei.
Appena si fermò mise una mano sulla testa e l’altra sulla spalla della ballerina al suo fianco.
“Are you ready to begin?”, chiesi mentre dietro di me la luce stava arrivando fino all’ultima persona. “I wanna see every single person, ok? So, stand up and jump!”.
Quando i ragazzi finirono la catena attaccò la chitarra elettrica sopra la batteria e alla fine anche il basso. A quel punto, quando fu il mio turno cominciai a cantare.
La mia voce era limpida, precisa, non commettevo sbagli. Dopo la prima catena di luce decisa per il titolo dell’album anche i ragazzi e le ragazze si sciolsero e cominciarono a ballare per conto loro.
“It’s just like a rebirth!”, urlai allungando le vocali e piegandomi in avanti, mentre mi appoggiavo sulla spalla del chitarrista con una mano. Lui ridacchiò e appena mi tirai su mi diede il cinque di sfuggita, per poi rimettere le mani sulle corde.
Salii i pochi gradini che c’erano dietro di me e mi fiondai veloce verso il batterista, che picchiava contro i tamburi divertito. Appena fece la rullata finale scossi la testa, muovendo la chioma rosso sangue e poi lo imitai per l’ultima nota.
“I love drums….”, sussurrai nel microfono mentre milioni di ragazzi, forse, stavano urlando per me. Era… elettrizzante! Era come tornare al vecchio tour, per loro non era cambiato niente. E per me? Insomma sì erano successe un sacco di cose, ma in fondo ero sempre io, con un buco nel cuore. Un buco che tutti avevano provato a riempire, ma solo io potevo decidere se farmi aiutare o no.
Non ti dimentico, ma devo lasciarti andare, lo sai, sussurrai a me stessa guardando in alto. Chiusi gli occhi per pochi secondi e poi picchiai con il microfono sul tamburo più vicino a me.
Incominciò la seconda canzone e cominciai a scatenarmi di nuovo, saltando anche con Hope, o facendo cantare i miei Offbeats.
 
“I love you so much!”, mi disse una ragazza sui sedici anni abbracciandomi stretta, dopo che l’avevo chiamata sul palco. Si era messa in piedi sopra le spalle di due suoi amici, e aveva una maglietta con la scritta Jonnie is the way, con una foto di me e Jared. Era davvero tutto così assurdo che mi misi a ridere.
“You mustn’t cry, everything is ok”, la coccolai dondolando, mentre Hope abbracciava Caroline, un’altra ballerina che rideva.
“Yeah, I know. It’s… this is the best night ever!”, piagnucolò di felicità ancora un po’, mentre io mi staccavo di qualche centimetro da lei e le sussurrai qualcosa all’orecchio.
“Pronta?”, chiesi poi facendomi sentire da tutti. Questa era una cosa che avevo rubacchiato da Jared, nei concerti con i Mars.
Annuì e si voltò verso i suoi amici. “Are you ready for Ice Eyes?!”. E cominciò la canzone che ispirò il mio primo video.
 
“Ronnie?!”, mi chiamò Andy, cercandomi. Mi ero nascosta in giardino con Solon, per scrivere qualcosa. “Senti, io vado al negozio, ci vediamo stasera, ovunque tu sia”.
La sentimmo uscire di casa e percorrere il vialetto. Ci spostammo più al centro del cortile e ci sdraiammo in mezzo all’erba. Cominciai a ridere, quasi impazzita. Mi stavo divertendo troppo.
“Sei tutta fuori, Ronnie”, mi prese in giro lui. Mi tirai su, ma appena riuscii a sistemarmi per guardarlo male, Solon mi spinse verso di lui, facendomi cadere.
Gli finii addosso, ma riuscii a pararmi all’ultimo secondo mettendo i palmi delle mani a terra.
Ero a qualche millimetro dalla sua faccia e per qualche secondo notai il suo viso farsi sempre più vicino. Sperai che fosse solo un effetto ottico, ma appena sentii il suo respiro sulle labbra, scattai in alto. Mi alzai in piedi, guardandolo strano.
I suoi occhi… marroni e scuri. Non erano gli occhi che vedevo di notte, nei miei sogni-incubi. Non erano occhi di ghiaccio. Non erano i suoi.
“Ronnie…”, cercò di dire venendomi vicino. Intercettai la chitarra e sperai di evitare una figuraccia degna di un Oscar.
La presi di scatto e mi sedetti di nuovo. “Forget it, okay? Mi hai fatto venire un’ idea”.
Cominciai a suonare, mettendo parole a caso. Ma pian piano che andavo avanti iniziarono ad avere un senso e Solon propose di metterla nel disco. La chiamammo ‘Ice Eyes’. Come i suoi occhi.
 
Stavo cantando ancora e gli Offbeats urlavano, ballavano, saltavano, facevano foto, ridevano. Tutto, pur di divertirci, insieme.
“Tonight is a very special night, because this is the very first show of this tour”, cominciai facendo urlare i miei amati fan. “I have to be honest with you, I had some problems in the last two month, but now, here with you, guys, everything is okay. And I must thank you for everything. So I wanna sing a song, from the new album, that is called… Under the sky”.
Tutti urlarono di nuovo mentre una chitarra acustica mi veniva vicino, e io cominciai a cantare con Carter, il chitarrista, che strimpellava gli accordi.
 
Stavo correndo felice, in mezzo al prato di un parco nei dintorni di Norimberga. Eravamo lì per il tour dei ragazzi, era agosto e ci stavamo godendo una bella sana gita pre-spettacolo.
“Ti piace qui?”, mi chiese Jared, abbracciandomi da dietro all’improvviso e facendo dondolare tutti e due, mentre mi toccava il collo con le labbra.
“E’ stupendo. La Germania ha un certo fascino”, commentai lasciando che facesse quello che voleva.
Gli altri se ne andarono per i  fatti loro: Tomo e Vicky su delle panchine a parlare abbracciati mentre Shan e Andy seduti vicino ad un albero a baciarsi.
“Ovunque andiamo per te tutto ha un certo fascino”, disse lui, mentre io pensavo a ‘Parigi no’. Ma lasciai perdere, per evitare di raccontargli quella lunga e brutta storia, e sbuffai.
“Il mondo è bello perché è vario”, risposi.
“E usare i proverbi è una cosa da nonne”, mi prese in giro, mentre io feci la linguaccia.
Lui scoppiò a ridere, così colsi l’occasione per farci dondolare più forte e farci cadere, dalla sua parte ovviamente, per terra. Finii con tutto il mio dolce peso sulla spalla e sul fianco di Jared, che si lamentò all’istante.
“Ahia!”, disse con il broncio, mentre ci mettevamo seduti. Si toccò il braccio, così gli sorrisi e glielo massaggiai un pochino. Appena cominciai lo vidi sorridere come un bambino. “Sì, bua”. Appunto.
“Smettila!”, risi. “E poi mi dici che mi ha fatto male fare la babysitter! Meno male che lo sono stata, o adesso saremmo nei guai!”.
“Io non l’ho mai detto che fare la babysitter ti ha fatto male!”, credette mentre io alzai il sopracciglio, incredula.
“Me lo dici ogni santa volta che ti tratto come un bambino e la prima volta che me lo hai detto è stato dieci anni fa, al Caddo Lake!”, ribattei pronta.
“Ah già, è vero”, rise ricordandosi. “E’ strano, vero? A volte non riesco a ricordarmi degli impegni del giorno dopo, ma tutto quello che abbiamo fatto insieme lo rivivo come se fosse ieri. E sono passati anche dieci anni!”.
“La mente umana va a modo suo! Chi la capisce è bravo”, sintetizzai io picchiando piano il pugno sulla testa di Jared.
“In effetti non mi importa molto il perché. L’importante è non dimenticare”, sorrise sdraiandosi e chiudendo gli occhi.
Lo guardai rilassarsi per un bel po’ di tempo. Era così tranquillo, così calmo. Così mi stesi accanto a lui e cominciai a dire: “Staying under the sky everything is fine. Close your eyes and think about your life. Breathe and tell me you’re right. Staying under the sky”.
“Come sempre, riesci sempre a sorprendermi”, sussurrò Jared, con gli occhi ancora chiusi, voltandosi verso di me e abbracciandomi. Mi accoccolai e sorrisi.
 
Sta per finire, vedevo Carter sudato a suonare la sua amata Colles, come aveva chiamato la sua chitarra. Oppure Jens, che batteva sulla sua batteria stanco morto, ma con quella adrenalina che solo un concerto ti poteva dare. E più in fondo Chris, che si divertiva a ballare con Caroline con il suo basso.
Hope e Fren stavano ballando per conto loro, saltando e incitando la folla, ma i loro salti erano bassi e senza molta energia.
Gli Offbeats avevano la voce roca, più che cantare urlavano con me, e le mani alzate andavano e venivano, stanche.
E così partii con un’altra canzone acustica, del primo album: As long as I live.
 
Erano passati anni da quella sera e ancora non riuscivo a dimenticarlo. Tutto, tutto, tutto, tutto, mi ricordava di lui. Ovunque andassi, qualsiasi cosa facessi, vedevo la sua immagine sbiadita davanti a me, con i capelli tinti, aggrappato a quelle due stronze.
Andy era riuscita ad ottenere la borsa di studio a New York, ma sebbene anche fosse in America, ci vedevamo solo a Natale o nelle vacanze lunghe.
Vicky aveva fatto quello che già aveva deciso di fare l’anno in cui l’avevo conosciuta. Andava a New York a scuola e d’estate andava a vivere nella vecchia casa dei suoi a New Orleans, a lavorare o per stare con gli amici. Non la vedevo da tanto, troppo tempo.
Avrei dovuto seguire il suo consiglio. Me ne sarei dovuta andare, subito, appena tornata da Los Angeles.
Ma non ci riuscivo, nemmeno ora. Perché per quanto io lo odiassi per il male che mi aveva fatto, per quanto lo detestassi per avermi tenuto tutto nascosto o per non essermi venuto a spiegare nulla… io ero ossessionata dalle sfuocate visioni che avevo di lui a Bossier City.
Perché quando andavo al parco rivedevo me e Shannon abbracciati ad ottobre che ridavamo amichevoli, o quando entravo a lavorare da Sean cercavo con lo sguardo Vicky oppure quell’impacciato di Colin. Una volta andai a cercare persino Brad, sperando che forse qualcuno, lui, mi sarebbe venuto a salvare.
Ma poi mi ero arresa ed ero tornata a casa. Quella casa che mi uccideva perché ogni mattina mi permetteva di vedere Constance.
Non so per quanto non le rivolsi la parola. Un cenno di saluto, con la testa o con la mano, un sorriso; quelli sì, era da manuale dell’educazione. Ma nessun’altra cena, nessun altro pranzo, nessun’altra parola, nessun altro abbraccio.
“Dovresti smetterla di guardare fuori dalla finestra, Ronnie. Non tornerò, lo sai”. Chiusi gli occhi, distogliendoli dal vialetto di casa Leto.
“Vattene”, sussurrai, obbligandomi a non voltarmi, a non aprire gli occhi… a non rimanere delusa, ancora una volta, trovando casa mia schifosamente vuota.
“Sono nella tua testa, me ne andrò solo quando tu deciderai che dovrò andarmene”, continuò. Strizzai gli occhi.
“Io voglio che tu te ne vada”, gracchiai. Non dovevo aprire gli occhi. Ma sentivo le mie mani tremare.
“Non devi dirlo a me”, andò avanti. Aprii di scatto la bocca, facendo uscire tutto il fiato che avevo e annaspando aria. I miei polmoni tremavano, dentro di me. Il mio cuore si stava rompendo.
“Mi hai tradito, maledetto stronzo!”, urlai, in preda al panico. Mi alzai dal divano su cui ero seduta, aprii gli occhi e mi scagliai su non sapevo cosa. Non c’era nessuno… stavo parlando da sola. “Io ti amavo… io ti amavo”.
“Lo so”, continuò la voce, senza che capissi da dove venisse. Perché mi faceva del male? Non poteva andarsene via?!
“E per colpa tua lo farò fino a che vivrò. Sai anche questo?”, mi arrabbiai, fino a che le mie lacrime sgorgarono dai miei occhi. “As long as I live”.
E poi ci fu solo silenzio.
 
“We love you, Ronnie!”, sentii urlare mentre Jens faceva la rullata di batteria finale, mentre io uscivo di scena. Mandai un bacio a tutti e mi addentrai nel backstage.
Dove ad aspettarmi c’era lui. Jared.
“Ciao, bellissima”, disse venendomi incontro e stringendomi subito, quasi togliendomi il respiro. Ma riuscii ad incanalare nei polmoni, ora funzionanti, il suo profumo.
Era vero, era reale. E non se ne sarebbe mai più andato.
“Ti amo, Jared”, sussurrai stringendomi ancora più forte a lui, prendendo nei pugni la sua maglietta, mentre lui non faceva storie, accucciando la testa nei miei capelli.
“Lo so”, disse facendomi venire i brividi. Lo so…
“Lo sai che cosa dobbiamo fare allora?”, deviai il discorso, cercando di guardarlo in faccia. I suoi occhi… erano bellissimi.
“Cosa?”.
“Ho ancora un regalo da usare, sai?”, ammiccai, mentre lui cercava di ricordare cosa non avevo fatto.
 
“Non ci credo”, commentò Jared quando ci trovammo davanti all’ingresso.
“E invece sì”, ribattei entrando. Le campanelline suonarono mentre noi entravamo e un tizio con un grande sorriso ci diede il benvenuto.
“Oddio! Questo è un dono dal cielo! Oh, grazie Signore! La famosa Ronnie. E il famoso Jared Leto!”, ci riconobbe. “Cosa posso fare per voi? Qualsiasi cosa, non esitate a chiedere”.
“Vorrei un tatuaggio, sa una mia amica me l’ha regalato”, sorrisi mentre lui pendeva dalle mie labbra.
“Certo. E lei?” si rivolse a Jared.
“No, lui mi ha solo acco…”, intervenni.
“Quello che farà a lei. Ma prima, prego, si occupi di Ronnie”, disse mentre io lo guardavo sconvolta. Poi mi sussurrò. “Che c’è? Solo Solon può farsi un tatuaggio con te?!”.
Scoppiai a ridere e alla fine dissi al tatuatore, che a quanto pare di chiamava Carlos, che volevo il finto anello a forma di cuore sull’anulare destro. All’interno, le iniziali JL.
Essendo di piccole dimensioni ci impiegò un quarto d’ora, o venti minuti massimo, a finire il tutto. Poi, quando lo ringraziai e ammirai il mio nuovo tattoo, Carlos fissò Jared.
“Ora tocca a lei. Mi dica”, sentenziò. Jared ci pensò su, guardando anche me, che però fissavo l’inchiostro nero sul mio dito.
“Voglio le iniziali VM , sulla caviglia destra”, specificò tirandosi su per qualche centimetro i pantaloni, senza far vedere l’inizio delle frecce di Provehito in Altum.
“Attorno?”.
“Nulla, le voglio semplici”, disse. “Perchè non ha bisogno di lussi, lei è lei. Semplice anche nel suo nome”. Non rivelò di chi stava parlando, ma ovviamente Carlos, mentre disegnava la pelle di Jared, guardava me.
E quando finì, Jared fece le foto e le postò sul suo blog. Era come renderlo ufficiale. Sì, stiamo insieme
 
 

...
Note dell'autrice:
il tatuaggio so che è abbastanza penoso e Jared Leto non se lo farebbe mai, nemmeno se si fosse fottuto il cervello per una ragazza come in questo caso. Ma qui su EFP tutto è possibile quindi chissene frega, così la mia mente ha voluto.
Il ricordo per "As Long As I Live" è per me il più significativo. Non l'ho provato per un ragazzo, ma insieme ad un altro, è stato uno dei miei incubi ricorrenti della mia vita e riguarda una persona che non vorrei mai rivedere. Non era proprio così reale come per Ronnie ma il senso era quello.
Be penso che abbiate capito cosa voleva dire Shannon e su questo torneremo MOLTO PRESTO, anzi PRESTISSIMO. E per il concerto non so se è proprio stile rock, ma la catena di luce è una cosa che mi scompiffera (??) da sempre hahahah quindi accettatela.
Al prossimo capitolo, essendo il penultimo senza contare l'epilogo, vi svelerò finalmente alcune cose riguardo cosa farò dopo questa storia, tanto per aggiornarvi un pò, ma abbiate fede.
Grazie per aver letto, è IMPORTANTE :D 
Ok, baci e buona notte per chi sta leggendo ora. 
Ronnie02

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Capitolo 38
*** Rebirth. Again. ***


SALVE GENTEEEEE! Ok, sono in ritardo di qualche ora ma perdonatemi ;)

Dopodomani si parte, ma keep calm, resto via solo per il week-end. Destinazione... *rullo di tamburiiiii* BUDAPEST! In bus... AIUTO!

Anyway, passiamo alle cose "serie"... ecco il capitolo xD Le cose davvero importanti ve le dico in fondo, per quanto riguarda il "dopo" di questa storia. Per ora godetevi il capitolo.. il penultimo senza contare l'epilogo *piange disperata*

Ok, buona lettura ;)





Capitolo 38. Rebirth. Again

 





Ronnie
 
New York. In un certo senso era come ritornare a casa.
Dopo quasi quattro mesi dalla primissima tappa di Seattle, ovvero da quando era cominciato il tour, ero arrivata nella città che mi aveva accolta per anni, prima che incontrassi Solon.
Andy mi aveva pregata di fare mille e mille foto, sempre con la macchina fotografica professionale che quasi un anno prima mi aveva regalato quel pazzo del mio migliore amico.
L’avrei rivista ad Agosto, quando lei avrebbe quasi finito il film, dopo fin troppe registrazioni, e io avrei fatto tappa a Londra. Non vedevo l’ora.
“Io amo questa città!”, commentò Jared quando scese dall’aereo, guardando amorevolmente tutti gli edifici al di fuori dell’aeroporto. Appena fummo fuori, Jared chiamò un taxi e ci dirigemmo svelti verso l’hotel che Solon ci aveva prenotato. Per questo tour, essendo di poche tappe e abbastanza lontane fra loro, Solon aveva evitato il tour bus, almeno in America, così invece di dormire in scomodo letti senza un minimo di privacy, potevamo avere una stanza tutta a nostra completa disposizione.
“Sai, mi mancava la cara e vecchia New York”, dissi appena ci trovammo di fronte all’hotel. Ovviamente era uno di quelli super lussuosi che avrebbero ucciso pur di essere a disposizione di non uno, ma ben due superstar in visita. Sinceramente avrei preferito il mio piccolo appartamento condiviso con Andy che dava su Central Park West.
“La Signora in Grigio ha sempre il suo fascino”, ridacchiò. La signorina alla hall ci sorride, dandoci la camera numero 209. Di nuovo quel numero… era anche la camera di Lucy.
Jared per tutta risposta scoppiò a ridere, chiedendo alla ragazza se non lo stesse prendendo in giro. Lei prese la domanda come una superbia da vip e lo lasciò perdere. Al posto suo, mi feci dare le chiavi e lo trascinai nell’ascensore, sperando che smettesse di ridere.
“Ma si può sapere cos’hai?”, chiesi io, guardando l’ora. Le undici e due minuti.
“Niente, niente. Solo coincidenze”, disse sbirciando l’orologio del mio iPhone. “Uh, meno di un’ora. Preparati, domani sei tutta mia”.
“Dovrei avere paura?”, domandai non appena le porta si aprirono e cominciai a cercare la stanza. Non era lontana e la trovai abbastanza in fretta.
Infilai le chiavi e girai la serratura. “No… credo”, sorrise malandrino lui, facendomi venire qualche dubbio.
“Non so perché ma non ti credo, sai?”, ridacchiai entrando nella stanza. Era… enorme. Perché Solon pagava per queste camere quando sapeva che amavo le cose semplici e tranquille?
Non ha bisogno di lussi, lei è lei. Semplice anche nel suo nome, aveva detto Jared. Lo stesso Jared che forse ci aveva messo lo zampino…
“Forza, dormi, che domani sarà una giornata davvero speciale”, mi disse baciandomi la carne dietro l’orecchio, facendomi sentire dei brividi che da quel giorno erano davvero rari.
“Perché? Sarà l’ennesima prova che sto invecchiando, mentre tu con qualche misterioso gene del tuo stronzo dna, rimani sempre il solito gran figo”, misi il broncio, buttandomi sul letto, stanca del viaggio.
Vidi i suoi occhi balzare dai miei capelli, sparsi come fiumi concentrici di sangue, alla mia maglietta rialzata di qualche centimetro, mostrando la pancia orribilmente piatta.
“Tu rimarrai sempre stupenda. E Dio, se amo i tuoi capelli”, disse ridendo e sdraiandosi di fianco a me, cominciando a giocare con i boccoli. Non avevo idea del perché quelle curve potessero farlo eccitare così tanto, ma era sempre successo.
“Sempre il solito spara complimenti a raffica”, risposi aggrappandomi alle sue spalle, mentre lui mi abbracciava mettendo una mano alla fine della mia schiena e spingendomi verso di lui.
“Certe bellezze vanno apprezzate”, ridacchiò lui, baciandomi dolce sulla fronte, fino a che, davvero stanca, non cascai tra le braccia di un dio chiamato Morfeo.
La mattina dopo, però, non ero di certo messa meglio. Anche se il sole batteva forte e caldo sui miei occhi, non volevo svegliarmi. Era stata una bella nottata: Jared non mi aveva mollata un solo secondo e il calore del suo corpo era la medicina a qualsiasi cosa.
“So che il tuo cervellino si è svegliato e sta producendo pensieri”, esordì Jared, mentre sentivo una mano carezzarmi la guancia. “E’ il gran giorno, piccola. Forza, apri quegli occhi”.
Mugugnai, provando a girarmi dall’altro lato, ma sentii il suo corpo stringermi quasi in una morsa. Mugugnai più forte e per lo meno riuscii a voltarmi con la testa.
“Io ho passato i qu… ok, ora vado deciso”, si prese in giro da solo mentre io sorridevo, lontano dalla sua vista. “Io sono riuscito a superare il giorno dei miei qua… quaran… senti, gli anni che ho, quindi tu muovi il tuo bel culetto e ti svegli, affrontando i trenta!”.
“Odio i trenta”, brontolai con le labbra contro la stoffa del cuscino.
“E io odio i quaranta. Ecco, bene, l’ho detto: io ho qua… ok, no, non ci riesco”, continuò facendomi scoppiare a ridere. Lo stava facendo apposta, solo per me… forse.
Mi voltai con il sorriso e guardai quei tanto amati occhi color del cielo estivo. Lui fece un sorriso sghembo, mi spettinò un po’ i capelli, lasciando che io muovessi i suoi.
Aveva di nuovo cambiato acconciatura: erano lunghi e alzati come quando aveva girato Kings And Queens, ma con la sola differenza che ai lati erano un po’ più corti. Era una mezza cresta. A volte vorrei rifarmi la Pomawk, molte persone vogliono che ritorni lo stile Pomawk… ma ormai è passato. L’ho già sperimentato. Quindi vediamo di mescolare la cosa, si era giustificato al ritorno dal parrucchiere. Avevo scosso la testa, ridendo, e l’avevo lasciato fare.
Per me sarebbe stato bene anche con i capelli arancioni!
“Ti aspettano tante sorprese oggi, sai?”, mi disse cercando di convincermi a svegliarmi. E maledizione, lo sapeva che io odiavo le sorprese!
“Va bene, va bene, mi alzo”, cedetti mentre lui scattava in piedi e prendeva… no, non era possibile.
“Mi dispiace, ti tocca”, mi sorrise porgendomi un vassoio sul quale, in bella vista, c’era di tutto. Dalle brioches al cioccolato al cappuccino, allo yogurt alla fragola al succo di frutta alla mela verde.
“Wow… ma che combinazioni sono, Jay?”, lo presi in giro mentre si sedeva accanto a me e mi dava un bacio sulla guancia.
“Mangia!”, mi ordinò mentre, senza che me lo dicesse lui, ingoiai un pezzetto di brioche, evitando di sporcarmi tutta di cioccolato. Una volta avevo combinato un disastro, in aeroporto, prima di partire per un viaggio lungo molte ore. Non mi ero mai sentita così stupida!
Poi bevvi il cappuccino, mentre lui andava a cambiarsi e prendere dei vestiti anche per me: un nuovo vestito color prugna, dalle spalline leggere, stretto sotto il seno e con balze libere fino a metà coscia.
“Ti piace?”, chiese guardandolo un po’ male, non convinto.
“Non l’hai preso tu, vero?”, risposi io, mandando al diavolo la regola non si risponde ad una domanda con una domanda.
“No… in realtà questo è il regalo da Constance”, sussurrò quasi incerto se dirmelo o meno.
“Bè… è un genio”, lo tranquillizzai facendolo venire verso di me e porgendomi la stoffa. Era assolutamente ben fatto. Certo, il colore non era dei miei preferiti, ma non potevo avere sempre vestiti uguali, era perfetto! “Mi piace un sacco! Adoro i modelli così!”.
“Fiù! Meno male, o mamma mi uccideva”, disse passandosi comicamente una mano sulla fronte. “Non faceva che ripetere: oh, ma sarà un regalo troppo banale, oh ma poi cosa dirà, oh ma per Ronnie queste cose non vanno bene. E’ stato tragico convincerla che doveva stare calma”.
“Dille che è perfetto. Sul serio, è bellissimo”, sorrisi bevendo il succo, per poi infine passare allo yogurt. Erano una bella colazione sostanziosa, ma andava bene, visto che come sempre non mangiavo dal pranzo del giorno prima. In più la sera dopo ci sarebbe stato lo show newyorkese e volevo essere pronta al cento per cento.
“Bene, perché questo è solo l’inizio”, sorrise malefico Jared, portandomi via il vassoio appena ebbi finito e sdraiandosi su di me, sopra le coperte. Mi baciò dolce, per un primo momento, ma appena cercai di andare sul passionale si fermò, come a ricordarsi che avevamo da fare.
“Che…?”.
“Non c’è divertimento se parti dalla fine”, mi precisò. Mmm… quindi la fine prevedeva qualcosa di simile? Bene, bene. Molto bene.
Alla fine fui costretta ad alzarmi dal letto, così corsi in bagno, mi feci una doccia superveloce, mi legai i ricci in una coda alta e poi mi misi il vestito di Constance. Mi stava che era una meraviglia, se non fosse che stonava un po’ con i capelli. Rimediai mettendomi delle ballerine rosso fuoco.
“Sei stupenda”, mi sussurrò Jared all’orecchio, facendomi diventare dello stesso colore del mio vestito. Mi sentivo tanto quattordicenne quando arrossivo per colpa di Jared.
E invece quel giorno ne compivo trenta… oddio.
“Prima tappa?”, chiesi quando uscimmo dall’hotel, ritrovandoci nel bel mezzo della monotona vita newyorkese.
“Sorpresa”, mi sorrise, baciandomi dietro l’orecchio.
 
Era un idiota quell’uomo.
No, sul serio, non poteva farmi queste cose! In tutto il giorno visitammo, non so in quale strano modo, quasi tutta New York nel suo aspetto migliore.
Secondo me, avevamo volato in un certo momento. Era fisicamente impossibile, però ci eravamo riusciti.
Ed ora quel pazzoide mi stava chiudendo gli occhi con le sue mani, guidandomi a tentoni in mezzo alla strada. Era un pazzo!
“Dai, dimmelo! Sei cattivo!”, mi lamentai cercando di mordergli la mano, ma invano visto che dentro la mia bocca sentivo solo l’aria.
“No, no, no! È una SOR. PRE. SA!”, sillabò ridendo. Facemmo ancora qualche passo, per poi fermarci del tutto. “Oh, eccoci arrivati. Ti è costato tanto aspettare?”.
“Sì”, dissi mentre mi toglieva le mani di dosso. Ma poi notai dove ci eravamo cacciati. Oh… “Mio. Dio. È…”.
“Andy e Vicky mi hanno detto dov’era. È di nuovo in vendita, possiamo entrare”, disse lui facendomi entrare nel… mio vecchio negozio di fotografia. Era così strano! Erano passati quattro anni ormai!
“Sul serio possiamo entrare? Sei totalmente sicuro di quello che fai?”, chiesi io mentre girovagavo per quello che ricordavo fossero le pareti divisorie in cartongesso su cui appendevamo le foto migliori.
Il nostro negozio era quasi una mostra di fotografia sempre aperta. E poi, alla fine, c’era il bancone della cassa, dove, come in ogni negozio, potevi pagare la foto che dovevamo fare al cliente, oppure anche acquistare uno dei nostri lavori.
“Totalmente sicuro, non ci succederà nulla”,  mi promise Jared, e così cominciai ad avere paura. Risi della mia battuta, sentendomi un po’ cattiva nei suoi confronti.
Ma non era colpa di nessuno: Jared era una di quelle persone buone come il pane che provano sempre a fare del bene, ma per qualche strana ragione sconosciuta all’umanità, ogni cosa che faceva portava a qualche guaio.
Sentii un rumore assordante e lo vidi ironicamente per terra, coperto di fogli e da mezza scrivania. “Ma che hai combinato?”, scoppiai a ridere prima di avanzare a tentoni e aiutarlo a tirarsi su.
“Inciampato!”, mugugnò lui offeso. Prese la mia mano e cercò disperatamente di tirarsi su, ma aveva la gamba incastrata in un pezzo di scrivania. Non me n’ero accorta, ma a quanto pare mentre io lo spingevo lui soffriva come un cane.
“Oddio, scusami!”, urlai mollando la mano e cercando di tirare su il mobile. Dopo qualche minuto si liberò e così gli tolsi la scarpa e cominciai a massaggiargli la caviglia. “Ma lo vedi che sei un disastro?”.
“Non sono un disastro”, fece il muso, incrociando le braccia.
“Ah giusto, sei peggio di un disastro”, completai l’insulto, lasciandogli il piede e avvicinandomi a lui.
Misi le mani fianco al suo corpo, per tenermi in equilibrio, e mi spinsi verso il suo viso. Lui fece un sorrisino sghembo e mi aiutò l’impresa prendendomi il volto fra le mani affusolate e baciandomi con quelle labbra poco piene ma tanto calde.
“Potrebbe arrivare qualcuno”, mi staccai quando sentii un rumore. Ma non era nessuno: Jared si era spostato di qualche centimetro facendo cadere qualcosa dalla scrivania.
“Smettila di pensare agli altri”, ridacchiò lui dandomi un secondo bacio a fior di labbra. Poi ci alzammo entrambi e continuammo il nostro giretto.
Quando finimmo di guardare il mio vecchio negozio uscimmo a mangiare un gelato. Ovviamente, quasi come a prendersi in giro da solo, lui lo prese al puffo. Come quella volta a Milano.
“Vorrei rifarmi i capelli blu puffo. Cosa ne pensi?”, disse mentre leccava il gelato fresco.
“Che saresti un pazzo”, lo smontai in fretta facendogli venire il broncio, di nuovo.
“Ma perché?!”, chiese ridendo, mentre si avvicinava all’entrata di un piccolo parco senza molta gente in giro. Un po’ tutti ci stavano a fissare, soprattutto quando ci sedemmo sulla panchina appiccicati, con le mie gambe intrecciate alle sue.
“Perché mi piacciono così”, risposi alla fine, mangiando il mio gelato.
“Ma così ce l’hanno tutti. È fin troppo semplice, comune… banale!”, mi spiegò lui.
“Le persone comuni o semplici non devono essere per forza banali, Jared!”, ribattei pronta. Lui stava per rispondere ma lo fermai. “E poi anche Katy Perry si è fatta i capelli blu”.
“E’ rimasta abbagliata dal fascino Leto, mi sembra ovvio”, si vantò parlandomi vicino all’orecchio, facendomi il suo respiro caldo sulla pelle.
“Ma vaffanculo!”, scoppiai a ridere mentre lui rideva con me. Era una bella giornata. Bella dopo tanto tempo.
Era il momento di ricominciare a vivere, a ridere di gusto, a guardare il sole e sapere che niente sarebbe andato storto.
Non avrei mai dimenticato, non potevo e mai ne avrei avuto la forza, ma quel piccolo che tempo prima era stato dentro di me mi aveva fatto capire cosa ne stavo facendo io della mia vita.
Ora avevo tempo di sistemare le cose con Jared, con la casa discografica, con i miei fan. Sapevo cosa volevo e cosa doveva fare. Poi sarebbe arrivato il momento di riprovarci.
Ma per ora mi bastava sapere che, a trent’anni, ero rinata. Per la terza volta. E come per la seconda, era stato solo merito di Jared.
“Grazie”, sussurrai. Poco importava che forse lo avrebbe inteso per il mio compleanno, a lui avrei donato tutti i miei grazie da qui all’eternità.
“Manca ancora l’ultima tappa”, sorrise alzandosi.
Uscimmo dal parco, sempre stretti nelle mani o abbracciati, e ci dirigemmo, con anche qualche scorta di paparazzi che ci lanciavano fastidiosi flash, verso l’albergo.
Non avevo idea di cosa avesse in mente, ma sapevo dove voleva arrivare.
Non c’è divertimento se parti dalla fine…E non vedevo l’ora di viverla quella serata!
Jared cominciò a canticchiare mentre prendevo le chiavi della stanza, sotto un sorriso abbagliante della ragazza al bancone, e camminammo verso l’ascensore.
Non smise nemmeno salendo ne mentre continuavamo verso la stanza. Smisi di ascoltarlo, sorridendo a me stessa, e aprii la porta. C’era la luce spenta e, appena accesi l’interruttore, Jared smise di cantare, facendo una faccia fiera di sé.
Oh. Mio. Dio. Come aveva fatto a…?
Tutta la stanza era decorata con rose rosse, bianche e blu – le mie preferite – e l’atmosfera era incantevole grazie anche alle piccole lampadine che scendevano dai muri come una cascata di luce. Erano leggeri fili e se li toccavi ricreavi lo stesso movimento della candela. Sul letto c’erano rose ovunque e il profumo mi colpì immediatamente. Sul tavolo, dall’altro lato, invece c’erano cibi di qualsiasi tipo. A mezzogiorno mi ero rifiutata di mangiare, sapendo che poi mi avrebbe incastrato di sera, così mi staccai dalla mano di Jared e andai a sedermi.
Lui mi seguii compiaciuto del suo lavoro e si mise di fronte a me, cominciando a stuzzicare qualcosa. Mi guardava quasi affascinato, preso da pensieri tutti suoi.
“Da quanto organizzi questa cosa?”, ridacchiai mentre osservavo in giro per la millesima volta. Era tutto così assolutamente perfetto.
“Da quanto ho saputo che al tuo compleanno avremmo fatto tappa a New York. Il posto perfetto nel giorno perfetto”, sorrise semplicemente, come se gli avessi chiesto di dirmi un accordo di chitarra.
“Sei il migliore”, commentai felice mentre lui alzava gli occhi al cielo e rideva. Poi continuammo a mangiare, tanto che alla fine mi sembrava di non riuscire nemmeno ad alzarmi, cosa se fossi ingrassata tutta di un colpo.
“Chiudi gli occhi”, disse alla fine Jared fissandomi strano, quando ingoiai l’ultimo boccone.
“No”, sorrisi malefica. Qualunque cosa volesse farmi, odiavo le sorprese e lui lo sapeva. Stavolta occhi aperti.
“Chiudi gli occhi”, ribatté convinto.
“No!”, insistei mettendo le mani suoi fianchi.
“Come preferisci”, disse alla fine alzando le spalle, completamente indifferente. Si alzò e, dopo aver portato via solo i piatti, sorpassò il tavolo, in direzione della stanza dove c’era il letto pieno di rose.
“Ehi, dove vai da solo?!”, mi alzai ridendo, quasi per inseguirlo. Ma lui, come di sorpresa, si voltò di scatto, a pochissimi millimetri dalle mie labbra.
Lasciai perdere la mia testardaggine e chiusi gli occhi, cercando di avvicinarmi alla sua bocca. Ma all’improvviso mi sentii prendere dalle gambe e tirarmi su di peso.
“Jared! Lasciami andare!”, urlai scalmanata scoppiando a ridere. Tirando calci ovunque e muovendo le mani che avevo a penzoloni lungo la sua schiena, cercavo di liberarmi dalla sua stretta.
“La prossima volta accetta prima le condizioni”, scherzò ritornando nella direzione del letto.
Rise di gusto e poi, dolcemente, mi fece sdraiare sulle coperte morbide e leggere, colorate di un intenso blu elettrico.
Per qualche secondo l’unica cosa che vidi, nel perfetto silenzio, erano quegli occhi color del cielo che mi guardavano ammirati. Contraccambiai lo stesso sguardo, fiera che fossero rivolti solo a me. Tutto di lui era solo per me.
Così, quasi senza rendermene nemmeno conto, mi ritrovai con un pezzo della sua camicia in un mio pugno, mentre lo spingevo verso di me. Sentivo il suo respiro sulla mia pelle, i brividi lungo la schiena, i suoi capelli solleticarmi le guancie… e capii una cosa.
Mi era mancato davvero troppo.
Dopo il bambino non eravamo mai andati davvero a fondo. Avevamo giocato, come facevamo spesso, ma poi io mi sentivo morire nell’anima per quella perdita e Jared si spostava, sorridendomi e abbracciandomi, in modo da cullarmi e farmi addormentare.
A volte mi dispiaceva, insomma era comunque Jared Leto. Ma sapevo che non potevo evitarlo, era ancora troppo presto, faceva ancora troppo male.
Stavolta no, era diverso. Ora lo volevo, non mi sentivo infelice. Ogni centimetro che scompariva tra i nostri corpi mi faceva venire ancora più voglia di sentirlo.
“Jared”, sospirai, mentre vedevo la sua camicia prendere il volo, mentre il mio ragazzo spingeva in su il mio vestito nuovo con calma, toccandomi la pelle con le mani calde e provocando altri soliti brividi. Alla fine anche quello si tolse e, anche per il resto, il tempo fu molto più che veloce.
“Mi sei mancata, baby”, mi disse dolcemente dietro l’orecchio mentre entrava in me, facendomi graffiare la sua pelle, in circostanza delle spalle su cui mi appoggiavo.
Era assurdo come certe volte gli rimanevano i segni delle mie unghie, ma sembrava non farci caso, anzi ne andava pure fiero. Diceva che Sandy, al mio confronto, lasciava meno segni quando faceva la lotta con lei.
Ma non potevo farci niente, lo volevo vicino, avevo un disperato bisogno di lui. Era mio e potevo fargli ciò che volevo.
“Ti amo”, dissi cercando di non urlare, completamente assuefatta di nuovo dal suo profumo, dal suo corpo, da quello che mi faceva provare. Dal suo amore che mi dimostrava ogni giorno ciò che sarebbe arrivato a fare per me.
Tutto.
 
 
Jared
 
Non ce la facevo più, ero seriamente troppo stanco. Mi buttai sul letto e non mi mossi per almeno un quarto d’ora mentre Ronnie andava a farsi una doccia. Aveva lo spettacolo quella sera e non avevo la minima idea di come sarebbe riuscita a farlo.
Anche io certe volte arrivavo ai nostri concerti distrutto, ma cercavo comunque di dare il meglio. Ma così stanco… nemmeno per Hurricane, visto che l’avevamo spezzettato in tre giorni. No, questo tutto in una decina di ore.
Ma doveva farlo. C’era Andy e Shannon lì con noi stavolta, e lei era decisa a fare il miglior concerto della sua carriera. E non so perché…. ma sapevo che ce l’avrebbe fatta.
Eravamo a Londra e da quella mattina fino a dieci minuti prima eravamo stati occupati con le prove del suo nuovo video. Era semplice, l’avevamo pensato insieme.
Iniziava con Ronnie che suonava la chitarra in un teatro londinese, e poi Andy cominciava a ballare tra gli spalti, intorno alle poltrone per sedersi.
Alla fine Andy arrivava sotto il palco e Ronnie lasciava la chitarra, proprio mentre nella canzone c’era il pezzo nel completo silenzio. Appena ricominciava, Ronnie ed Andy ballavano insieme, con dei video che comparivano e le ritraevano da piccole. Ci avevo messo una vita a trovarli, ma alla fine ce l’avevo fatta.
Quel video, come la canzone (che in realtà era quella con Justin Timberlake e dedicata a Solon) era un elogio alla loro amicizia. Per dimostrare che non sono cambiate con la fama, nessuna delle due.
Mi piaceva far vedere la loro amicizia anche ai fan: perché era vera, reale e completamente fiduciosa. Il genere di amicizia che uno desidera, un legame quasi fraterno.
Come io avevo provato con Tomo, appena era arrivato nella band.
“Domani dormo tutto il giorno”, commentò Ronnie fintamente scocciata, uscendo dal bagno già vestita e solo con i capelli bagnati. Era agosto e, sebbene fossimo in Inghilterra, faceva un caldo terribile.
  Ridacchiai e l’aiutai a prendere tutto. Per quanto fossimo stanchi, dovevamo cantare, oggi insieme con la canzone che avevamo inciso a Natale. Era un idea di Shannon, visto che sapeva le mie intenzioni per la serata.
Quella serata che doveva andare come io avevo programmato.
Dopo un’oretta circa riuscimmo a finire e così lasciammo la stanza d’albergo. Scendemmo le scale, salutammo la ragazza al bancone della receptionist e lasciammo lì le chiavi, per il momento.
Prendemmo un taxi e ci dirigemmo verso l’arena, entrando dalla porta secondaria per evitare di vedere anche la folla scatenata. Ronnie era già satura di adrenalina, lo vedevo da come si muoveva.
Era fantastico. Riusciva sempre ad eccitarsi ad ogni concerto, senza mai vederlo come qualcosa di monotono.
A quel punto Ronnie trovò Andy e Shannon nel backstage e si portò l’amica di fretta nel camerino per un consiglio sul vestiario del concerto. Io restai quindi con mio fratello.
“Pronto?”, chiese come se fosse la prima volta. In effetti…
“Penso”, commentai.
“Pensi?!”, si scioccò, scoppiando a ridere, come suo solito. Era raro che Shannon prendesse davvero seriamente un problema. Per lui tutto aveva una soluzione veloce.
“Sì… voglio dire… Shannon non lo so!”, risi seguendolo. E io non riuscivo a non scherzare con lui, anche con in mezzo qualcosa di spaventoso o stressante.
“Jared… calmati. Va tutto bene, okay?”, mi chiarii le idee Shannon prendendomi per le spalle. Annuii piano e così cominciò a ripetermi quello che avevo scritto di dire, facendomi ripassare tutto.
“Grazie fratello” lo ringraziai abbracciandolo forte.
“Figurati. È la cosa migliore al mondo, sai?”, mi disse, per poi staccarsi visto che le ragazze stavano tornando. Belle come sempre.
E poi, come sempre, quasi fosse assillante, l’ora dell’inizio scattò e Ronnie dovette correre fuori, in mezzo a tutta quella folla. Quella stessa folla che poi avrebbe dovuto ascoltare il mio discorso.
“Iniziato”, esultò Andy cominciando a guardare il palco, dove la mia ragazza si stava totalmente scatenando.
E poi toccò a me.
Verso la fine del concerto Ronnie fermò tutti gli strumenti, mettendosi a suonare una delle sue canzoni acustiche.
Aveva una voce incredibile e quelle parole ti restavano nella mente come se venissero marchiate a fuoco.
Ma erano dolci, leggere, come quel tipo di venticello che non porta freddo, ma solo aria rinfrescante nelle giornate afose di piena estate. Erano bellissime.
“And now… I have the honor to introduce you the most awesome man in the all wold. Ladies, Gentlemen… Offbeats! He is… Jared Leto”,  disse indicandomi nel back stage.
Io uscii allo scoperto, salutando con la mano e avvicinandomi a Ronnie, mentre già la batteria cominciava a dare il tempo della nostra canzone.
Ronnie infatti partì spedita con la sua strofa, convinta e sorridente, mentre al mio turno… mi fermai. Ero come imbambolato e lasciai che la musica si fermasse. Erano tutto stupiti. Pensavano avessi dimenticato le parole della canzone?
Poi però parlai agli Offbeats.
“Ragazzi… ma quanto non è stupenda questa ragazza?”, ridacchiai mentre una folla cominciò ad urlare. “Voi lo sapete che stiamo insieme, no? Perché chiunque la tocchi, sappia che lo aspetto all’uscita con un manganello. Sono un po’ geloso, sì”, dissi da solo mentre alcuni ragazzi alzarono la mano. We love you!, gridò qualcuno. E io continuai. “Già… così geloso che non posso pensare di rischiare di perderla ancora. Non posso permettermi di non rivedere quei capelli rossi e quegli occhi verdi che amo. Non posso stare senza di lei”. Sentii fischiare, così scoppiai a ridere nel microfono.
Ma poi, seriamente, schiarii la gola, guardai un secondo Shannon e Andy nel backstage e mi feci forza.  
“Per questo, Veronica McLogan, nata a Monza, il 9 giugno del 1982, cantante ammirata e sognata da milioni di fan, ragazza perfetta per un disgraziato come me…”, cominciai tenendo il microfono con una mano sola, un po’ impacciato, inginocchiandomi ai suoi piedi e prendendo dalle tasche dei pantaloni una scatolina che ormai conoscevo meglio di qualunque altra cosa al mondo. Ora era tempo di mostrargliela. “Dammi il permesso di amarti per sempre. Dimmi di sì: sposami”.
E ci fu silenzio.
“Sì”, sussurrò dopo qualche secondo.
 Appena disse quella mini parola gli Offbeats reagirono alla notizia urlando, facendo video o foto a dismisura, piangendo e cantando. Cominciarono ad intonare alcune canzoni, tra le quali ‘You’re my sunshine, my only sunshine…’, che ovviamente non era di Ronnie ma riprendeva il titolo del suo ultimo album.
Sì, lei era il mio raggio di sole. Lei era il mio tutto.
Ronnie, quasi presa di una crisi isterica, si coprì il volto, imbarazzata. Ma poi si tuffò tra le mie braccia e pianse di gioia mentre il piccolo anellino si infilava nel suo anulare sinistro. “Ti amo, stupido idiota!”.
“Ti amo anch’io, bellezza”, la strinsi forte. 



...
Note dell'Autrice: IMPORTANTE
Ok, questo capitolo è superimportante anche perchè.. bè... ALLELUIA SI SPOSANO *è stata dura ma ce l'hanno fatta, o yeah!*
Allora, passiamo alle cose serie:
nuuuuuuuuuuuuuuuuuuumero 1. la storia, per vostra fortuna o sfortuna (vedetevela come vi pare :D), NON FINISCE QUI. Sì, c'è un seguito.
nuuuuuuuuuuuuuuuuuuumero 2. non è un seguito "normale", mi spiego: non sarà una storia continua a questa, ma sarà una raccolta di eventi, capirete meglio nell'epilogo, non disperate.
nuuuuuuuuuuuuuuuuuuumero 3. non mi ricordo... ve lo dico al prossimo capitolo se mi viene in mente (smemorata me ahahahaha)
nuuuuuuuuuuuuuuuuuuumero 4. VI ADORO! xD No seriamente vi adoro, quando mi fate i complimenti mi sciolgo xD

ok, la smetto di assillarvi :D Alla prossima

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Capitolo 39
*** The Beating Of Our Heart ***


 

 Echelon miei cari.... oddio devo per forza aggiornare?! Vi prego, no, vi prego!!! 

Ok, la smetto di dire idiozie ma cavolo, è stato un viaggio, una cosa che non dimenticherò in fretta e grazie a voi che mi siete stati vicini. Come ho già detto questa non è la fine, manca ancora l'epilogo e il sequel, ma sarà breve quindi è come se fosse un extra. 
La storia, la storia vera, finisce qui, e santo Signore che mi sostiene, mi mancherà da morire.
Intanto vorrei ringraziarvi tutti, dal primo all'ultimo, recensioni e non, tutti voi lettori. Perchè siete la mia forza, qualunque sia il vostro nome, la vostra età o il vostro paese. GRAZIE!
Ci vediamo sotto, buona lettura.



 Capitolo 39. The beating of our heart

 



Jared
 
“Ragazzi!”, ci salutò Solon abbracciandoci sorridente dopo circa sette mesi di lontananza. 
“Solon! Dio, se mi sei mancato! Come stai? Los Angeles ti fa ancora dannare?”, disse Ronnie buttandosi nelle sue braccia velocemente mentre io andavo a sistemare le borse nel bagagliaio dell'auto che guidava Solon. 
“Non è Los Angeles che mi fa impazzire, tesoro", ridacchiò l' ex chitarrista facendo ridere Ronnie.
Capivo perché: prima di tutto Andy e Shannon erano tornati a casa dopo il film, ad agosto, e solo Dio sa cosa già loro da soli potessero combinare. Erano delle bombe in movimento, non sapevano stare fermi e avranno obbligato il poverino a sopportarli in quei giorni.
Da fratello, sapevo che Shannon era una botta di vita che ti travolge anche quando tu avresti preferito buttarti a dormire sul divano. 
In più Vicky aveva partorito da due giorni, il 9 di settembre, niente di meno che due gemelli e per questo Ronnie si era decisa a non rimanere on the road solo come turista ancora a lungo.
Così, finito l'ultimo spettacolo, avevamo preso il primo volo disponibile per Los Angeles. Eravamo curiosi di sapere come stavano Tomo e Vicky e magari aiutarli con le pesti.
Non sapevamo ancora i nomi, quando Tomo ci aveva chiamato dopo il parto era riuscito solo a dire che Vicky era stanca morta e che erano tutti sani. Avevamo preferito non parlare molto, ma lasciarli riposare un po’ dopo un esperienza del genere, visto che comunque con i piccoli le ore di sonno si sarebbero ridotte parecchio. 
Così avevamo passato le ore in aereo cercando di non pensare ai gemelli, o Ronnie sarebbe stata capace di entrare nella cabina del pilota, sebbene non fosse nemmeno legale, per urlargli di muoversi ed arrivare prima.
Era veramente felice per la sua amica e nemmeno troppo sconvolta dal parto che lei per ora non avrebbe avuto. 
Ma alla fine avrei dovuto capirlo: lei evitava sempre di pensare a se stessa o ai suoi problemi per aiutare gli altri, per essere felice con gli altri. Ed era la migliore proprio per quello.
Infatti non vedevamo l'ora di vedere i piccolini. Saranno stati scalmanati, piagnucoloni, già pazzi e completamente innamorati della loro mamma. 
Chissà se Tomo si era già ingelosito dei nuovi arrivati! A volte lo prendevamo in giro, dicendo che Vicky si sarebbe dimenticata di lui, così presa dai bambini. Che lui sarebbe stato solo il povero uomo che la sopportava dopo la depressione post parto che la rendeva nervosa. Ma sapevamo che Vicky non ne avrebbe sofferto, non era il tipo. 
Però erano loro il vero problema di Solon, che di sicuro doveva rassicurare Tomo dalla sorpresa della nuova vita. 
“Come stanno?”, chiese Ronnie curiosa ed eccitata. Mi sorprendeva ancora ma ero felice per lei. 
“Oggi tornano dall'ospedale, Andy e Shannon sono già andati a trovarlo ieri. Mi hanno detto che sono tenerissimi”, peggiorò la situazione.
Ronnie scoppiò in un gridolino di gioia ed entrò veloce in macchina, prendendo la mia camicia e spingendomi di fianco a lei, per farmi muovere. Non voleva perdere tempo, anche se comunque oggi non saremmo potuti andarli a trovare.
Io e Solon ci mettemmo a ridere e andammo in macchina. Solon si sedette al posto di guida mentre io andai ad abbracciare Ronnie. 
Il viaggio fu simile a quello in aereo, ma fortunatamente fu più veloce. 
“Cos'ha Solon?”, mi chiese ad un tratto la mia ragazza. Mi stupii, visto che non avevo notato nulla. 
“Solon?”, domandai curioso.
Lei guardò il guidatore e si accorse che era al telefono. Sorrise e mi sussurrò: “Sì, è strano, come se mi nascondesse qualcosa. Lo conosco meglio di chiunque, sono certa che con gli altri ha combinato uno dei loro guai”.
Scoppiai a ridere, completamente d'accordo. Avevano di certo preparato qualcosa, o non sarebbero stati loro. 
“Sì, probabilmente hai ragione”, risi scuotendo la testa. 
Solon poi mise via il telefono e così Ronnie finì di parlare di lui. 
L'abbracciai e la lasciai dormicchiare un po', visto che la notte passata in viaggio non aveva fatto altro che messaggiare con Vicky o sopportare il jet lag. 
Ma dopo una decina di minuti Solon svoltò verso casa nostra con uno strano sorrisino. Ronnie aveva ragione, ma preferivo concentrarmi sull'edificio che mi era mancato di più in questi giorni. Casa. 
“Ehy Ron”, la chiamai dandole un bacio sui capelli rossi, legati in una grande e folta treccia di lato. “Siamo arrivati a casa”.
Lei stropicciò gli occhi e si svegliò svogliatamente. Solon spense l'auto, dopo averla parcheggiata davanti al portone d'ingresso. 
“Lasciala dormire”, mi sussurrò mentre Ronnie ricadeva nel dormiveglia. Era stravolta, non riusciva a lasciare gli occhi aperti per più di due secondi. 
Io annuii, scendendo dall'auto e prendendo i bagagli e portandoli nel nostro salotto. Li poggiai all'entrata, senza nemmeno avere la forza di guardarla. 
Tornai alla macchina e vidi Ronnie, addormentata come quando l'aveva lasciata pochi secondi prima. 
Ci pensai un secondo, storcendo le labbra per decidere, e poi mi incurvai nell'auto e la sollevai di peso. Non era pesante, magra com'era, così la portai fuori, lasciando a Solon la sua auto. 
Lo salutai con un sorriso e lo lasciai andare a casa sua. Ci aveva già fatto un enorme favore a venirci a prendere. Lo vidi ridere mentre se ne andava e io ricambiai con un sorriso, trascinandomi verso l'ingresso con Ronnie. 
Presi le chiavi dalla tasca dei jeans e le misi nella serratura, facendo scattare il meccanismo. Le rimisi in tasca e aprii la porta con il piede, entrando nel salone. 
La casa era... Non c'erano aggettivi adatti per descriverla. Ebbi paura di aver sbagliato porta per qualche secondo; ma no, era quella giusta ed era casa mia. 
Ronnie ci aveva visto giusto. 
Quei disgraziati avevano cambiato un bel po' di mobili e avevano spostato i pochi rimasti. In più avevano ripitturato la nostra stanza di un violetto che di certo avevo scelto Andy. 
E, sempre nella nostra stanza, appoggiato ad una parete, c'era un grande baldacchino sul classico, con anche le tendine, al quale era attaccato un biglietto. Congratulazioni ragazzi! Vi vogliamo bene
Accanto al biglietto c'era un piccolo ciondolo... No, era un ciuccio. 
Opera di Vicky, non c'erano dubbi, per farla impazzire ancora di più forse. 
Sorrisi e poggiai finalmente Ronnie sulle coperte, coprendola e lasciandola dormire. Poi sistemai il biglietto e il ciuccio sul comò. 
Quando ebbi finito di sistemare anche i bagagli tornai da Ronnie e cominciai a guardarla. 
Alla fine sorrisi e mi sistemai sul letto di fianco a lei, sentendo il suo profumo e il suono del suo respiro. 
“Tu non sai quanto tempo ho atteso questo momento”, sussurrai toccandole l'anello che le avevo regalato e ricordando quella festa di Halloween di tanti anni fa.
Lei... Stupenda nel suo vestito da sposa vampira che Vicky le aveva fatto. 
“Da quando ho visto i tuoi occhi sorridere e brillare”, mi rispose girandosi e attaccandosi a me in un abbraccio. La strinsi ancora più forte e sperai di non lasciarla mai.
“Tu sei parte di me”, dissi nei suoi capelli. 
“E io ho bisogno di te”, mi rispose sorridendo. 
 
“Eccolo qui il mio ragazzo!”, mi abbracciò Tomo quando arrivammo a casa loro. 
Come con casa nostra, avevano risistemato tutto il mobilio e ora la sala principale era un parco divertimenti per neonati, con culla, fasciatoio e seggiolone incluso. 
“Hey papà, come va la vita?”, dissi sentendomi felice per lui, ma anche completamente fuori posto e svuotato da dentro. 
In fondo se nessuno ci avrebbe quasi ucciso, beccandosi un ergastolo per omicidio, omissione di soccorso e guida in stato di ebbrezza da alcol e droga, ora anche io e Ronnie saremmo stati in quella situazione. 
La guardai salutare felice Vicky con uno dei suoi abbracci strangolatori, eccitata per i gemelli, ma nel suo sguardo capivo che qualcosa non andava.
Forse stava sprofondando di nuovo e di nascosto in quella pozza di dolore e ricordi che la perseguitava da tutta una vita. 
Ma appena si cominciarono a parlare se ne andarono per i fatti loro, congedandosi senza un motivo preciso. 'Cose da ragazze', pensai senza darci troppo peso. 
Così Tomo mi portò in cucina, dove su un piccolo tappetino colorato e pieno di giochi si stavano divertendo due bimbi.
Erano bellissimi: due gocce d'acqua, tranne per il sesso. Il maschietto vestito con una tutina bluastra e la bambina con una di colore verde e rosa. 
Erano diversi fisicamente solo per un piccolo particolare: una voglia. 
La bambina aveva una macchiolina a forma di pianeta color caffè sulla parte bassa della guancia destra, mentre suo fratello ne aveva una più sul rossiccia a forma di ellisse sul polso sinistro. 
“Vicky ha fatto un bel lavoro”, scherzai facendolo scoppiare a ridere.
Lui si sedette sul tappetino con i bambini, mentre loro si voltavano e ridacchiavano. 
Era bello vederlo giocare con dei piccoli marmocchi. L'avevo sempre visto come papà. 
“Sai, prima pensavo che tutto sarebbe cambiato; ma a parte qualche alzataccia notturna, è stato il miglior regalo di compleanno di sempre”, sorrise, sperando di non farmi intristire. Era vero, lui aveva compiuto 33 anni il 3 di settembre, mentre loro erano nati il 9. “Mi dispiace per quello che ti è successo ma devo parlarne con qualcuno e so che Shannon la metterebbe solo sul ridere. Non dico che non sia un ottimo amico, ma non è adatto a questa situazione”.
“Quale situazione?”, chiesi sospettoso. 
“Che sono... totalmente preso da questi due. Voglio dire, l'amore per Vicky è eccitante, avventuriero, vivace... Con loro invece provo un amore paterno così dolce che non posso descriverlo. Aspettarli è stato bello, ma averli è... stupefacente”.
“Lo capisco. Cioè no, ora non lo posso capire ma ci sono quasi arrivato e mi aspettavo tutto questo”, dissi, cercando di non scoppiare. 
“Non è stata colpa tua, Jared. Sono sicuro che ci riuscirete di nuovo e così avrete il tempo di fare tutto con calma con il matrimonio”, mi consolò, sapendo che non era facile. 
“Sono bellissimi”, cambiai discorso voltandomi e guardando gli occhi dei piccoli. Non erano particolari, ma erano pozze di cioccolato così dolci da farti sciogliere. 
“Grazie”, sorrise Tomo, giustamente fiero del suo lavoro. Poi scoppiò a ridere e cambiò di nuovo discorso. “E tu? Come stai dopo la faticaccia del tour di Ronnie?”. 
“Contro ogni previsione di qualche anni fa... Mi sto per sposare”, ridacchiai. 
“Oh già. Fossi in te comincerei ad avere paura. Vicky sta già organizzando la cosa, Andy sta già decidendo gli invitati e Shannon sta guardando i vari posti”, m'informò. Non era una sorpresa a dirla tutta. “Secondo me verso gennaio sarai sposato. Vicky vuole la neve, come contrasto con il nostro sole. Se Shannon decidesse di chiederlo a Andy chissà quale altra stagione cercheranno”.
“Bè non mi faccio problemi se c'è poco tempo”, scoppiai a ridere. 
“Già, non riuscirai mai a stare all'oscuro di tutto per tanto tempo come me”, mi prese in giro. “Ti immagini già Ronnie con un vestito bianco?”. 
“Oh, non faccio così fatica”, lo sorpresi ridendo. Lui fece una faccia curiosa e così cominciai a spiegargli. “Quando festeggiammo Halloween a Bossier City, Vicky la vestì da sposa vampira. Già ai tempi le dissi che l'avrei sposata”.
“Prima di conoscere Ronnie faticavo a immaginarti nei ricordi romanticosi che mi raccontavi tu o Shannon quando pensavi a lei”, mi confessò prendendo in braccio la piccola e giocando un po’ con lei, mentre il ragazzino su avvicinò a me. Mi guardava con quei suoi due grandi occhioni marroni e sorrisi a vederlo. Lo feci ridere un po’ e mi sembrò di rinascere nella sua risata. “Ma poi Vicky me la presentò e, sebbene lei fosse arrabbiata con te, vedevo che era una persona stupenda. E che prima o poi ti avrebbe perdonato, solo doveva trovare il suo tempo”.
“E alla fine l'ha fatto”, sorrisi fiero. 
“E ora vi sposate”, aggiunse guardando la bimba cercare di gattonare verso il fratello e alla fine spingerlo lontano da me. Mi guardò sorridente e mi allungò la sua manina. La presi e lei allungò anche l'altra. 
“Vuole che la prendi in braccio. Sai, a Shannon non si sono avvicinati così in fretta. Vuol dire che stai loro molto simpatico”, scoppiò a ridere Tomo mentre prendevo la bimba in braccio e lei mi abbracciava di scatto, con le sue braccine minuscole. Aveva solo una settimana, ma sapeva già fare molte cose. 
“Oh signorina, anche lei mi sta molto simpatica”, le toccai la testolina con pochi capelli scuri. Suo fratello spostò la testa di lato e io scoppiai a ridere. “Oh non si preoccupi, my lord, pure lei ha un certo carisma”. 
Tomo mi seguì ridendo e cominciò a far giocare i piccoli. La bimba si staccò da me e mi guardò con in suoi occhioni, perfettamente identici a quelli di suo fratello. Sì, non ero padre, ma con Shannon sarei stato lo zio più figo del mondo. 
 
 
Ronnie
 
Quando notai Jared andare con Tomo dai piccoli mi venne un crampo allo stomaco. 
Andammo nel bagno della sua stanza, tutto in ordine e pulito. Vicky si poggiò sul lavandino, per niente stanca, mentre io mi sedetti sul bordo della vasca da bagno. 
“Allora come stai?”, chiesi sorridente. Ero davvero felice per lei,
anche se un po’ mi faceva male. Ma questo era il suo momento e i miei problemi non erano inclusi. 
“Stanca morta”, scoppiò a ridere sebbene non lo sembrasse affatto da come si presentava. “Sono delle pesti! Si svegliano in continuazione, mangiano in continuazione, piangono in continuazione, devi cambiarli in continuazione...”. 
“Ma...?”, chiesi ridendo. Sapevo che mi parlava solo della parte negativa per farmi stare meglio, ma io stavo già meglio. E una grande parte era dovuta al nuovo anello che occupava il mio anulare. 
“Ma sono bellissimi”, rise capendo che ora poteva parlare liberamente. “Sono sì delle pesti ma quando ti fanno quella loro risata dopo averli fatti giocare o quando ti guardano con quegli occhioni mi passa tutto. Due sono tanti da gestire, ma ho sopportato la band e i loro problemi fino ad ora... due gemelli sono una passeggiata”.
Scoppiai a ridere per il paragone e per qualche secondo la conversazione cadde lì. Qualche secondo in cui Vicky capì abbastanza di quello che mi passava per la testa in quei giorni. 
“Parla”, mi scoprì infatti guardandomi curiosa. 
“Cosa? No, sono solo nervosa... Sai il matrimonio è stato una sorpresa”.
Ma le mie speranze in cui Vicky ci cascasse erano basse e cedettero all'istante. In fondo era una delle mie due migliori amiche e se lei non mi capiva mi sarei dovuta preoccupare. 
“Parla”, mi disse infatti sapendo che non era quello il problema. Per di più era una scusa stupida, visto che per il matrimonio avrei dovuto solo occuparmi dei vestiti perché per il resto avrebbero fatto tutto i ragazzi, a parte Jared ovviamente. 
Vicky avrebbe preferito ricambiare il favore che le avevo fatto per il suo matrimonio, ma poi avevamo deciso che almeno i vestiti volevo disegnarli io. Per il resto avrebbero avuto completa carta bianca e, se per ora andava bene, sapevo che presto me ne sarei pentita amaramente. 
“Vicky sul serio...”, cercai di deviare ancora il discorso sebbene avessi la necessità di dirlo a qualcuno. 
“Sul serio Ronnie, parla”, sbuffò ridendo, mentre io feci un respiro forte, decidendo cosa fare. 
“Ok... Non mi sento molto bene”, sputai il rospo guardando in basso e aspettando che capisse. “E no, non ho la febbre”.
Lei rimase un po’ interdetta per qualche secondo cercando di comprendere cosa volessi dire, ma poi il suo cervello cominciò a ragionare. 
“O mio dio! O mio dio!”, urlò saltellando sul posto e facendomi spaventare; ma subito la zittii per evitare che venissero da noi Tomo e Jared. 
“Non urlare!”, sussurrai vedendola muoversi le mani davanti alla faccia per prendere aria. Che attrice! 
“E’ che sono contenta!”, gracchiò senza urlare. “Ma lui lo sa? Voglio dire glielo hai detto, no?”. 
“Ecco... Io non ne sono così sicura, sto solo un po’ male. Se avessi cercato di capire qualcosa di più, lui se ne sarebbe accorto", dissi timidamente. 
“Ringrazia il Signore che io ne abbia ancora perfino due, così siamo sicure al cento per cento”, mi rispose frugando in un cassetto. Prese una borsa colorata e ne estrasse quello che ci serviva. 
Stavo male al pensiero di quello che avrebbe potuto significare. Avevo paura che qualcosa potesse andare ancora storto. Avevo però anche paura di essermi sbagliata e aver avuto speranze vane. 
“Coraggio”, mi abbracciò Vicky con un sorriso. “Vado a vedere se miei bambini sono ancora vivi con quei due, così ti lascio fare”.
“Ho paura”.
“Andrà tutto bene, qualunque cosa ti dica”, mi sussurrò facendomi l'occhiolino e uscendo dal suo bagno. Sentii i passi andare verso la cucina e la sentii ridere. Aveva raggiunto i piccoli, forse li stava facendo giocare con Tomo e Jared. 
Jared... Cosa poteva succedere? Sapevo che in caso l'avrebbe presa bene oppure non glielo avrei detto, evitando la mia stessa delusione. In fondo ero io che non funzionavo più tanto bene da quell'incidente. 
“Non fare la stupida Ronnie!”, mi dissi guardando ciò che mi aveva dato Vicky. “Tu non sei una vigliacca, chiaro. Ora muovi il culo e fai quello che devi fare”. 
Respirai forte e mi decisi. Qualche minuto e tutto sarebbe finito... forse. 

“Ronnie?”, mi chiamò Vicky da fuori la porta, dopo qualche minuto da quando avevo finito. “Sono Vicky, posso entrare?”.
“Sì certo”, mi limitai a dire a bassa voce, sperando che sentisse. 
La maniglia cominciò a girare e, dopo quella che per me sembrò un eternità, notai la sua faccina entrare nella stanza. 
“Come stai?”, mi chiese un po’ preoccupata. 
Ero in piedi, davanti allo specchio, con le mani poggiate sul lavandino per reggere il peso del mio corpo, la testa piegata in giù. Sembrava stessi per vomitare, ma dentro il lavandino non c'era nulla, tranne che quelle due stecchette che parlavano da sole.
“Cosa dicono?”, chiese ancora preoccupata. Di questo passo le sarebbe venuto un infarto, ne ero certa. 
“Guarda te”, dissi con gli occhi chiusi, senza avere il coraggio di aprirli. 
“Oddio potevi chiamarmi prima! Sei stata qui dieci minuti solo per cercare di vedere qualcosa?”, mi prese un po’ in giro. Sorrisi e aprii gli occhi, deviando però la vista solo su Vicky. 
Lei scosse la testa e si fece spazio, mentre io mi risedevo sul bordo della vasca, in attesa del risultato. 
“Sei sicura di aver fatto tutto bene?”, chiese mettendomi ansia. 
“Sì Vicky, non è la prima volta che lo faccio, dai!”, risposi nervosa. 
“Bè perché hai fatto cento”, mi disse. Ovvero entrambi avevano lo stesso risultato, cinquanta percento di probabilità da uno e cinquanta percento dell'altro. Cento per cento di sicurezza. Ma sicurezza su cosa?
E i suoi occhi mi fecero capire la risposta. 
 
“Com'è che siete state tutto il giorno a farvi gli affaracci vostri, tu e Vicky?”, mi chiese Jared quella sera. 
“Voleva dirmi delle cose sul matrimonio; sai che tu non puoi sentire”, mentii spudoratamente. 
“Ah. E i vestiti? Riesci a disegnarli? Sei sicura di non volerli comprare?”, mi chiese cascandoci. Wow, stavo migliorando. Di solito mentire a lui era una faticaccia. 
“Prima di tutto voglio un vestito completamente mio, non uno che altre migliaia di ragazze potrebbero avere”, specificai facendolo sorridere. “In più non potrei dare soldi ad un negozio così che tu possa andare a sbirciare il versamento e capire il vestito che ho comprato. No, ragazzo mio, non lo vedrai fino a quel momento”. 
“Spero che arrivi prestissimo, allora”, mi baciò dietro l'orecchio, come sempre, mentre mi stavo pettinando, in camera nostra. “La mia futura signora Veronica Leto”. 
“Sai non suona molto bene, secondo me non ti dovrei nemmeno sposare, il tuo cognome non mi si addice”, scherzai mentre lui faceva l'offeso e mi tirava una cuscinata in testa, rovinando la treccia che stavo facendo. 
“Ma come osi?”, mi finsi arrabbiata prendendo il mio cuscino e tirandolo verso di lui, beccandogli la spalla destra. 
“Se ti prendo finisci male!”, mi minacciò lasciando il cuscino e preparandosi a scattare. 
“Prima però devi riuscire a prendermi!”, risi cominciando a scappare ovunque mentre lui mi inseguiva. 
Mi sembrava di essere tornata al Caddo Lake nei primi giorni in cui ci eravamo conosciuti. Era strano, ogni cosa che accadeva mi ricordava quella giornata. Forse era stata molto più importante di quello che pensavo quando avevo accettato di andare con loro. 
E ad un certo punto della corsa.. Bum!
“Ahia”, borbottai trovandomi spiaccicata sul divano nuovo della nostra sala dopo esserci volata sopra. Non l'avevo visto, persa com'ero nei ricordi, ed ero inciampata sul lungo schienale per poi ribaltarmi dall'altra parte. 
Dietro di me sentii Jared scoppiare a ridere fino a star male, ma appena provai ad alzarmi per ricominciare l'inseguimento, mi placcò, buttandomi indietro e facendomi il solletico. 
“Presa, piccola distratta!”, mi prese in giro mentre si avvicinava per baciarmi. 
Mossa sbagliata; il mio stomaco, o forse non propriamente lui, non approvò e di corsa scansai Jared, facendolo cadere per terra, e corsi in bagno. 
“Ronnie?! Ronnie che succede?”, mi chiese da fuori la porta mentre svuotavo me stessa nel modo peggiore che l'essere umano conosca. Dio, se odiavo rimettere!
“Ronnie?”, continuò quando aprii la porta e mi guardò sconvolto. Non dovevo essere molto carina in quel momento.
“Non è niente, tranquillo”, dissi senza convincerlo. “Avrò mangiato qualcosa di avariato”.
“O forse non hai proprio mangiato”, sottolineò. 
“Se così fosse non riuscirei a rimettere", ribattei per non tornare sull'argomento. 
“Come stai ora?”, mi chiese quando ebbi finito. Mi aiutò ad alzarmi e mi sedetti sul gabinetto. Però, che posto romantico!
“Meglio grazie”, sussurrai un po’ stordita. 
“Vuoi andare dal dottore?”, mi chiese preoccupato. 
“No!”, esclamai preoccupata. No, andare in ospedale era la scelta peggiore che potessi fare. “Sono sicura che se ci dormo sopra starò benissimo fidati”.
“Come vuoi", mi diede un bacio sulla fronte, aiutandomi ad andare in camera nostra. 
Andammo a dormire e io mi appiccicai a lui per tutta la notte. Non volevo lasciarlo andare, non volevo perderlo. 
La mattina dopo però, dopo la colazione, stetti ancora male, ma per fortuna Jared era andato da Shannon dopo una sua telefonata. A quanto pare Constance non si era sentita molto bene e volevano decidere cosa fare. 
Pregai che non fosse niente di male e, appena Jared tornò a casa stravolto, mi tranquillizzai. 
Erano andati all'ospedale e i dottori avevano detto che andava tutto bene. Stava invecchiando e il suo corpo non era più lo stesso, ma non rischiava nulla. 
“Va tutto bene, Jay, sta tranquillo”, gli dissi prima di andare a dormire. Lui annuì, sorridente ma ancora un po’ teso. Lo abbracciai e restammo così fino a che entrambi non cademmo nel mondo dei sogni, dove tutto andava bene.
Ma il mattino dopo i problemi tornarono, complicandomi l’esistenza.
“Basta, ora ti porto dal dottore!”, disse Jared quando dopo la colazione mi ritrovai di nuovo in bagno. 
“No! No, ti prego Jared, sto bene”, cercai di dirgli alzandomi e barcollando verso di lui. “Per favore”.
“Dimmi cos'hai, Ronnie”, mi pregò lui abbracciandomi e stringendomi contro di lui. Sentii il suo respiro tra i miei capelli, come amava fare, e capii che gli faceva male non sapere. “Io non ce la faccio a vederti stare male, non posso stare solo a guadare. Già con mamma io...”. 
“Jared sto bene”, lo strinsi ancora di più. “Non è niente di grave”.
“Allora perché vomiti?”, chiese toccando i miei capelli e restando così. 
Era ora. 
“Perche non sono sola”, dissi prendendo una sua mano e, guardando il suo viso un po’ lacrimante, la poggiai sulla mia pancia, diventando rossa d'imbarazzo. 
“Sei... sei incinta?”, mi chiese stupito asciugandosi gli occhi con l'altra mano e facendo comparire un sorrisone sul suo viso. Mi alzò il volto e mi fece capire che non dovevo vergognarmi.
“Tu… tu sei incinta!”, urlò ricominciando a piangere, anche se di felicità ora. Si vedeva che era stato stressato in questi giorni, era un continuo piangere. 
“Già, sono incinta”, sussurrai prima che mi baciò felice e mi tirò su di peso. Gli circondai il collo con le braccia e lo strinsi ancora di più a me, continuando a baciarlo. 
“Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo!”, continuò a dire quando ci staccammo e mi rimise per terra, a tempo dei veloci battiti dei nostri cuori. “Anzi, vi amo!”.
Sorrisi e lo baciai di nuovo. “Anche io ti amo, Jared. E lo farò per sempre”.
 
 
 ....
Note dell'autrice:
Sì, lo so sono cattiva e sono perfida, sto piangendo anche io come una disperata. I nomi e tutto li scoprirete settimana prossima con l'epilogo *che vi permetterà di capire bene anche la modalità con cui ho affrontato il seguel*.
Il sequel avrà come titolo "I Will Never Regret" sempre da Closer To The Edge e verrà pubblicato la settimana dopo l'epilogo e chi vorrà riceverà la solita email di aggiornamento anche per quello.
Ora, non credo ci sia molto da dire.
Innanzitutto il rompicapo di cui vi avevo parlato nel capitolo 9 *oddio epoche fa!* era che ogni capitolo contenente il numero 9 ha una frase di Vox Populi e sono praticamente due frasi mette insieme. In pù i capitoli contenenti il 9 sono i più importanti: si mettono insieme, si lasciano, figlio e altro figlio.
Ogni numero di questa storia ritorna al nove, come delle camere d'albergo (quella di Lucy e Ronnie all'ospedale) ecc. Insomma, TUTTA la storia è basata sul nove ;) 

E detto questo vorrei solo... RINGRAZIARVI. Di tutto, come sempre. Perchè siete stupendi, siete fantastici e senza di voi sarei una povera pazza che scrivere per un signor nessuno. Grazie  Grazie Grazie GRAZIE!
Vi amo tutti ragazzi, dal primo all'ultimo.
 Ronnie02 

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Capitolo 40
*** Epilogue. This Never Ending Story ***


Ci siamo gente. Sul serio sto piangendo ma ci siamo. E' arrivata la fine.
Non dico che sia tutto finito, perchè c'è il sequel... ma in fondo questa è la vera fine della storia. Quello sarà solo una serie di extra che vi faranno capire meglio questa storia, se vorreste rileggerla un giorno.
Ora vi lascio e vi faccio il discorsone poi, perchè sto piangendo :') 



   Epilogue. This never ending story 







“Mi ha mentito!”, dissi incrociando le braccia al petto e facendo il broncio. 
“Ma sentilo! Sei alquanto ridicolo, lo sai?”, mi rispose il clone dai lunghi e lisci capelli marroni scuri. 
“E tu evita di dire paroloni come alquanto, sorella”, disse l'altro clone, con i capelli corti, ma dello stesso colore della prima. 
“Lo dico solo perché io, al contrario vostro, sono una persona colta”, ribatté la ragazza finto fare altezzoso che non convinceva nessuno.
Avevano un anno in più di me, ma ci conoscevamo da quando avevamo il pannolino. 
Erano come dei cugini acquisiti, anche perché di cugina veramente di sangue ne avevo solo una e, oggi come tutti i giorni, aveva deciso di andare a casa a piedi per fare delle foto.
Lei e la sua macchina fotografica! I miei gliel'avevano regalata l'anno scorso, per il suo quattordicesimo compleanno, e ormai era distrutta. La portava ovunque, anche se in teoria la fotografa non era esattamente il lavoro che voleva fare da grande.
Tutti noi in realtà sognavamo di fare il lavoro dei nostri genitori. 
“Guarda che fai solo ridere. Oh, ti ho raccontato la novità, bro?", mi chiese il clone ridendo. Scossi la testa e lui cominciò a ridere. “Settimana scorsa la grande persona colta qui presente si è fatta beccare a saltare il coprifuoco”. 
“Dilettante. I miei ormai l’hanno abolito, non ci speravano più”, ridacchiai passandomi una mano tra i capelli scuri, segnati dal caldo asfissiante della California. 
“Questo non è giusto! Tu puoi perché tuo padre da giovane, ma comunque anche ora vorrei sottolineare, era un disgraziato. E tua madre non è il tipo da proibizioni a lunga scala”, si lamentò la mora, incrociando le braccia come me. “Se mio padre venisse a sapere cosa combina questo qui, lo manderebbe sul primo treno diretto in una scuola militare, senza passare dal via”.
“Ma finiscila, non ci credo che papà era un santo da giovane”, disse l'altro clone. “Bè, oddio, l'aspetto da santo ce l'ha di sicuro!”.
Scoppiammo a ridere e chiamammo la fermata, per poi scendere dallo scuolabus e incamminarci verso casa. 
“Oggi c'è la riunione di famiglia?”, sentii una voce alta, ma non stridula. Mia cugina era dietro di noi, per niente affannata e con la sua fotocamera in mano. Come riuscisse a stare dietro ad un pullman lo sapeva solo lei. 
“Come ogni mese", ripose quella più grande. “Ringrazia che tra un po’ andranno di nuovo in tour”.
“Casa libera per mesi o anni...”, disse il moro cosa fare nostalgico. 
Ci guardammo tutti per qualche minuto, per vedere le altre reazioni, ma alla fine concludemmo solo una cosa.
“Party time!”, urlammo tutti per poi scoppiare a ridere. 
Dall'anno scorso, ovvero da quando i gemelli avevano compiuto sedici anni e avevano preso la patente, avevamo chiesto tutti di evitare i tour supergalattici, così per i viaggi più lunghi noi restavamo a casa. La cosa che li aveva convinti però non era stata l'età dei miei cugini acquisiti, ma più che altro la scuola, visto che ogni volta dovevamo saltare le lezioni o studiare in un orribile tour bus. 
Da piccolo era un'avventura, certo; con tutti i fan scalmanati e gli show, ma dopo sedici anni preferivo le feste a casa con i miei amici. 
Però appena le tappe si facevano interessanti, come Europa e Australia, nessuno di noi si faceva problemi a prendere un aereo e stare con i propri genitori. 
“Già, anche se un po’ mamma e papà mi mancheranno”, disse la piccola mentre ci trovammo davanti a quella che i miei chiamavano casa. Io e i miei compagni preferivamo definirla villa da vip
“Li andremo a trovare qualche volta”, disse il gemello. “Magari quando sono in posti come, che ne so… Brasile!”. 
"Nuova Zelanda!", continuò la sorella. 
"Italia", dissi io ricordandomi dello Stato natale di mia madre e mia zia. Era un bel posto... E belle ragazze.
La prima volta che ci ero stato avevo perfettamente capito mio padre e mio zio…
“Io vorrei tanto tornare in Grecia”, concluse mia cugina. 
“No, la Grecia no! Voglio dire, bella quanto vuoi, ma i miei genitori si isolerebbero nei loro pensieri diabetici sul loro matrimonio”, disse il clone mentre la sorella scoppiava a ridere. 
Io scossi la testa e aprii la porta. In salotto non c'era nessuno così andammo in camera mia a poggiare le borse di scuola e a cambiarci di quelle ridicole divise scolastiche ogni giorno strappavamo leggermente per renderle meno... professionali. 
Poi quando tutti fummo pronti scendemmo di nuovo, verso la cucina. E lì, seduti un po’ sul divanetto e un po’  sulle sedie, c'era tutto il parentado.
Mia nonna con il bastone faceva il caffè in un angolo, anche se mia madre di sicuro le aveva consigliato come ogni volta di non affaticarsi. 
I miei genitori erano abbracciati sul divano e ridevano. Mi piaceva guardarli, non avevano mai perso quella loro scintilla e in più da fuori potevano benissimo passare per miei fratelli maggiori. Non invecchiavano mai, quei disgraziati!
Mio zio e mia zia avevano lo stesso potere ringiovanente e ora stavano facendo finta di litigare per la televisione, facendo ridere i miei.
I genitori dei cloni, i miei zii acquisiti diciamo, erano tutti appiccicosi sulle sedie mentre giocherellavano con Sandy, il gatto di famiglia che ormai era vecchio decrepito. 
“Siamo arrivati!”, disse mia cugina andando a buttarsi tra le braccia dei suoi. 
“Oh la mia piccola Leslie Emily!”, disse mio zio Shannon abbracciandola, mentre zia Andy rideva scuotendo la testa. 
“Fa vedere che belle foto hai fatto oggi”, le disse la zia, prendendo la fotocamera di Leslie e guardando le opere d'arte.
“E’ degna di sua madre?”, disse mio padre, il solito spiritosone. 
“Sì, Jared!”, fece la linguaccia zia Andy mentre mamma dava un pugno sulla spalla a papà. 
“Ahia!”, disse lui mentre lei alzava gli occhi al cielo. 
“Vai così Ronnie!”, esclamò mio zio Shannon. 
Scoppiai a ridere e mio padre mi guardò malissimo. “Jeremy Kurt Leto… non osare”, mi chiamò anche per secondo nome. Poverino, odiava essere preso in giro. 
“Oh ma sentilo! Adesso non si può più nemmeno scherzare?”, chiese mia madre. Il che mi ricordò che lei mi doveva delle spiegazioni, ma evitai di chiedere ora, mi stavo divertendo troppo. 
“Non su di me, piccolo demonietto!”, riprese mio padre avvicinandosi per baciarla.
Li lasciai ai loro problemi matrimoniali e andai da nonna. 
“Oh il mio piccolo Jeremy Kurt”, mi abbracciò. Lei non mi chiamava per secondo nome perché era arrabbiata, semplicemente le piaceva. 
“Come stai nonna?”, chiesi io guardandola un po’ stanca. Le volevo bene, abitando qui a Los Angeles come noi ci veniva a trovare un giorno sì e l'altro pure, quindi avevo un bel rapporto con lei. 
“Oh la tua cara e vecchia nonna Constance non morirà certo per una gamba. Se la morte mi viene a prendere voglio vedere se riesce a portarmi via”, sorrise facendomi ridere. Era una grande!
“Astrid Kim Milicevic!”, sentii dire da zio Tomo. Che aveva combinato quella povera ragazza stavolta?
“Che hai ancora?”, chiese infatti lei facendo scuotere il capo bianco a mia nonna. 
“Dove sei stata ieri sera?”, la interrogò lo zio mentre zia Vicky se la rideva amaramente, sapendolo veramente troppo protettivo. 
“A casa di Jennifer!”, disse lei convinta. 
“Bang! Colpito e affondato! Ora come rispondi, bro?”, interruppe mio padre facendo ridere tutti. Non si poteva avere una vita migliore di questa!
“Anzi dovresti controllare meglio tuo figlio, vero Liam Nikola Milicevic?!”, disse Astrid facendo la linguaccia e andando da zia Andy a vedere le foto. 
“Woh oh! Liam sei messo molto male!”, continuò mio padre. Zio Tomo era fuori di sè. 
“Ok basta. Tomo, Liam ha diciassette anni, se combina dei guai la responsabilità sarà sua, quindi lascialo stare”, disse zia Vicky portando Liam lontano dalle grinfie di zio Tomo. 
Lui sbuffò e si sedette di nuovo con Sandy, cominciando a sfogliare un album di foto. 
“Oh, guarda i cloni!”, dissi vedendo una foto di Astrid e Liam con mio padre e Tomo, seduti su un tappetino colorato a qualche mese dalla loro nascita. 
“Jeremy!”, mi ripresero i due. 
“Tranquilli, c'è anche lui”, disse andando avanti a mostrandomi una foto di me da piccolo, a tre o quattro anni, davanti al Ponte di Rialto di Venezia, in una delle tappe italiane di tanti anni fa. 
“Ehi ma qui ci sono tutti i matrimoni!”, notai guardando le prime foto.
Sapevo che i vestiti li aveva disegnati mamma, ma avevo visto solo quello di zia Vicky, perché Astrid voleva imitarlo per un blood ball dei nostri genitori. 
Il vestito da sposa di mia madre era lungo, con delle striature di blu sia sulla gonna che in un nastro sotto il seno. 
Era allargato sotto il nastro, visto che era al quinto mese di gravidanza, con me nella pancia, e con le mezze maniche, poiché era comunque gennaio. Non c'era la neve ma si vedeva che non era estate. 
Non era elegante e sexy come quello di zia Vicky forse, ma mi piaceva molto. Era dolce. 
Quello di zia Andy invece, di qualche anno dopo, invece era a sirena, con il corpetto rosa biancastro. Aveva i capelli raccolti e sorrideva splendida. 
In tutti e tre i matrimoni Tomo, Shannon e mio padre erano vestiti con degli smoking eleganti, ma la cosa che li differenziava dagli altri invitati era il sorriso perso che avevano di fianco a Vicky o ad Andy o a mia madre. 
“Guarda questa”, disse mio padre alzandosi e venendo da noi. Mosse le pagine esperto, come se avesse sfogliato quell'album da tutta la vita, e si fermò su una foto stupenda. 
Eravamo noi tre. 
Mio padre a sinistra, mia madre a destra e io in mezzo. Era un primo piano, fatto apposta per inquadrare i miei occhi, verdi smeraldo come quello di mia madre, e i miei capelli, scuri come quelli di mio padre. 
“Il nostro Harry Potter”, disse zio Shannon. Sì, mi chiamavano così viste le somiglianze con il personaggio di quei vecchi libri. 
“Che presto prenderà la patente”, disse mia madre intristendosi e mio padre mi diede un bacio tra i capelli. 
Non avevo mai capito tutta questa avversione per la macchina, in fondo andavo in giro da un anno con dei neopatentati come i gemelli.
Ma preferivo non chiedere, vedendo che comunque erano solo tristi all'idea ma mi lasciavano andare volentieri a scuola guida. 
Andai avanti a sfogliare le pagine ben presto tutti circondarono il tavolo per vedere. Ad ogni foto, con la sua data, ognuno aveva il suo ricordo e noi ragazzi stemmo volentieri ad ascoltarli. 
Le vecchie foto di mamma e papà a Bossier City; tutte le still prese dal film che avevano fatto insieme dopo dieci anni; foto dai vari set di zia Andy, soprattutto quello a Londra, nel quale tra l'altro papà chiese a mamma di sposarlo; le foto di Vicky per il vecchio negozio di fotografia; Solon e mia madre nel suo primo tour; il Mars300 di papà e i miei zii; le nostre foto da piccoli...
Nessun ricordo era mai davvero svanito perché tutti se ne ricordavano almeno una parte, facendolo ritornare insieme. 
E tra le risate, i sorrisi, qualche occhio lucido di gioia, soprattutto con le nostre foto da nanetti, fu un bel pomeriggio. 
Perché raccontammo della nostra vita, di quella storia infinita che continuerà con i nipoti dei nipoti dei nipoti dei nipoti dei nostri nipoti forse. 
No, non sarebbe mai finita. Le canzoni di mia madre e mio padre l'avrebbero fatta conoscere in eterno. 
No, non avrei mai smesso di ascoltarla. Era davvero bella e passare i pomeriggi così era una pacchia.
No, mi sarebbe sempre rimasta nella testa, perché in fondo era parte di me, io derivavo da quella storia. 
No, avrei vissuto la mia vita con loro, con i miei cugini, i miei zii, i miei genitori e mia nonna. E andava bene, perché erano i migliori. 
 
 
 
I will never forget... this never ending story... (because) one day maybe we'll meet again
-Closer To The Edge


...

Note dell'Autrice:
E siamo qui. Ragazzi piango con voi, lo so. Ma vi voglio ringraziare di tutto quanto: di quando mi avete chiesto gli aggiornamenti, a quando avete recensito, a quando mi avete fatto i complimenti, anche quando mi avete fatto notare qualcosa che magari non era perfetto.
Molte volte ho problemi con me stessa, mi sento sbagliata perchè persone me lo dicono... e voi siete quelle altre persone che invece mi fanno sentire bene con quella che sono. Ronnie, pazza e scrittrice. Ronnie personaggio che ha problemi come la scrittrice ma che sa di poterli superare. Ronnie che non ha paura.
Ronnie che vi vuole un mondo di bene e che vorrebbe stringervi tutti per farvi capire che mi avete cambiato la vita. Siete i migliori e spero che continuerete ad esserci anche con "I Will Never Regret". 
Io sono pronta, da settimana prossima, a cominciare questa sfida di ricordi. Spero resterete con me.

Con TUTTO l'amore che posso darvi, 
Ronnie02

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