Diamond Night

di midsummer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Nihil Difficile Volenti ***
Capitolo 3: *** Di muffin, stelle e discorsi importanti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Diamond Night

 

 

Ora, immagina la tua vita come un treno di cui i tuoi superiori - pensa ai tuoi genitori come ai tuoi datori di lavoro - ti hanno messo a capo: su un treno salgono e scendono diverse persone, no? Ci sono quelli che guardano il treno da lontano e quelli di cui non ricorderai nemmeno il volto, quelle persone che prenderanno questo treno per periodi alterni e per svariate ragioni: di alcune di esse riconoscerai solo il volto, un'immagine sfuggevole alla tua mente.

E ci saranno quelle persone che prenderanno il tuo treno quando meno te lo aspetti, forse in una giornata di pioggia o forse mentre sei fermo alla stazione e leggi un libro.

E saranno quelle persone a non andarsene mai, nemmeno quando sarai di cattivo umore e il mondo intero sembrerà avercela con te. E quelle persone, magari anche la ragazza che ora non sopporti o quel professore che è così noioso, sì, quelle persone, saranno coloro che conoscerai con la vista e con il cuore.

 

 

 

 

 

 

Tigre! Tigre! Divampante fulgore
Nelle foreste della notte,
Quale fu l'immortale mano o l'occhio
Ch'ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?

In quali abissi o in quali cieli
Accese il fuoco dei tuoi occhi?
Sopra quali ali osa slanciarsi?
E quale mano afferra il fuoco?
Quali spalle, quale arte
Poté torcerti i tendini del cuore?
E quando il tuo cuore ebbe il primo palpito,
Quale tremenda mano? Quale tremendo piede?

[William Blake- The Tyger]

 

 

 

 

 

 

Le dita di Joseph scivolano sui tasti d'avorio del pianoforte come una carezza di seta: la stanza è invasa dalla melodia dolce quanto malinconica che il ragazzino sta suonando.

Ognuno, a proprio modo, sente quel suono scivolargli sulla pelle e lasciargli una traccia; Clòe avverte la tristezza intrisa nelle note. Così tanto da poter quasi toccarla con mano.

E' la sera della Vigilia di Natale e fuori nevica copiosamente. I loro genitori sono usciti, come ogni anno da che Clòe si ricordi, e hanno raccomandato loro di non far impazzire eccessivamente le tate.

Raccomandazione caduta nel vuoto, a quanto parrebbe. O meglio, raccomandazione che è stata interpretata in modo del tutto personale perchè, dopo che Dean e Mithya hanno offerto loro da bere dei sospetti succhi d'arancia, tutte e cinque le loro tate hanno deciso di andare a letto.

Clòe sorride, staccandosi dalla finestra. Ha dieci anni ed è la più piccola in quella sala, quella che viene viziata in modo assolutamente mostruoso, protetta e coccolata al di sopra di tutto; vede Alice, la sua migliore amica, guardare con tristezza Joseph e scuote la testa.

Alice ha tredici anni e Joseph quindici. Nonostante la differenza d'età hanno sempre trattato Clòe come loro amica, hanno giocato con lei quando nessun'altro aveva il tempo di farlo e hanno accolto le sue confessioni quando si è accorta di essersi innamorata di James, il fratello minore di Dean, come se fossero due fratelli qualsiasi, un apprensivi.

Per questo, anche, Clòe non ha ancora fatto commenti sugli sguardi dolci che si lanciano di tanto in tanto.

Non ha confidato i suoi sospetti a nessuno, nemmeno a Mithya: suo fratello le vuole bene e, davvero, Clòe lo adora con tutta se stessa ma ,nonostante abbia diciannove anni appena, quel ragazzo è uno dei più pettegoli che conosca, come una vecchia comare di paese, più o meno. Ed è inquietante sapere che tra una caccia e l'altra, un duello o uno scherzo organizzato con Dean abbia il tempo di ficcanasare tra gli affari privati altrui.

Ma è suo fratello, no? E deve essere genetico, il volersi cacciare nei guai...

«Clòe?» una mano fredda le sfiora la spalla. E' un tocco gentile, che ha imparato a riconoscere sin da bambina: vede Hope guardarla con dolcezza, i capelli ricci e biondi legati in un elegante chignon e tra le mani regge un vassoio colmo di dolci.

Hope, come suo fratelo gemello Fred naturalmente, ha venticinque anni. Sono stati adottati dalla madre di Joseph quando erano ancora in fasce ed entrambi sono stati spesse volte soggetti alla curiosità della gente del regno: si mormora che siano figli di due grandi maghi morti durante la Grande Battaglia.

A dire il vero a Clòe non potrebbe importare di meno.

Hope e Fred sono sempre loro, al di là del sangue che scorre nelle loro vene. Sono gli stessi ragazzi che badavano a tutti loro quando i loro genitori, per un motivo o per un'altro, non potevano, che curavano le loro ferite quando si facevano male.

Hope rimane Hope, Fred rimane Fred.

E' una delle più grandi lezioni che sua madre possa averle impartito: non importa il sangue, il denaro che una persona possiede. Sono le azioni a contare, sopra ogni cosa.

E' il cuore la parte davvero importante. Sempre.

La ragazza più grande posa il vassoio sul tavolo dei dolciumi - su cui Mithya e Dean si sono buttati, mentre Bill, intento a rifarsi la manicure con il fratello Tom sdraiato sulle ginocchia, li guarda schifato - e la prende in braccio; quando si voltano Fred è lì, intento a chiacchierare con Laurence e Claire e, per un momento, il tempo in cui il ragazzo alza lo sguardo e Hope si volta, Clòe scorge un lampo di dolcezza in fondo a quegli occhi chiari.

Non ha il tempo d'indagare oltre, però. Hope sorride al fratello e si dirige verso la poltrona su cui James sta beatamente leggendo un libro.

«Jamie

Il sedicenne alza lo sguardo dal libro, nel farlo gli occhiali scivolano un sul naso, posando lo sguardo su Hope. Al contrario di suo fratello James è sempre stato molto tranquillo; a volte, anzi, scherzando i suoi genitori dicono che c'è stato uno scambio nelle culle e che Mithya avrebbe dovuto essere loro figlio, gemello di Dean. Quando lo sente Clòe ribatte sempre che non potrebbe avere come fratello proprio James, visto che sì, beh.. Insomma, James le piace particolarmente.

A quelle parole i grandi ridono sempre e la mamma di Joseph inizia a canticchiare la canzoncina del matrimonio: quando James è presente gli adulti si divertono a metterlo in imbarazzo, lanciandosi occhiate colme di un significato che Clòe non riesce perfettamente a cogliere, anche quando semplicemente la prende in  braccio.

Ma, come dice sempre Hope, i loro genitori sono degli eterni bambini: sono gli stessi che si divertono a scappare da una folla di ministri e camerieri inferociti per organizzare un pic-nic o una gita fuori porta. Ma va bene così, alla fine... Clòe è cresciuta con questa stravagante grande famiglia e sinceramente non potrebbe immaginare nulla di meglio.

«Dimmi Hope» replica con gentilezza James, segnando la pagina del libro che stava leggendo col dito.

«Credo che ormai Nicole dovrebbe arrivare da un momento all'altro» dice Hope, passandogli Clòe. La bambina,felice, si aggrappa al collo di James che mette da parte il libro e l'abbraccia a sua volta, prendendo ad accarezzarle i capelli. «Hai già scelto la storia da raccontare quest'anno?»

E' tradizione che James racconti una storia la notte di Natale. E' bravo con le parole, un talento che molti dicono che abbia ereditato dalla madre, e ha quella particolare abilità di riuscire a far immedesimare l'ascoltatore nella storia: un vaso diventa un calice d'oro in cui un re ha bevuto prima di andare a combattere, un bastone la scintillante spada di un indomito guerriero.

Prima che il ragazzo possa rispondere, però, Dean riemerge dal magico mondo di ciambelline ripiene e torte di mele e li fissa con espressione accigliata.

«Ma è offio che stlolia fuole...»

«Dean, deglutisci prima di parlare. Le tue tonsille non sono molto interessanti» lo rimprovera James, accarezzando i capelli della bambina che ha in braccio, ormai totalmente rilassata.

Dean alza gli occhi al cielo e deglutisce l'enorme boccone di crostata alle fragole che stava masticando.

«Scusa mammina» brontola il suddetto diciannovenne, mettendo su un broncio degno di un bambino di cinque anni. «Dicevo, è ovvio che storia vuole raccontare! Quella dei tre fratelli, ovviamente!»

Passa un momento di silenzio, poi Hope sorride.

«Non è male come idea!» approva. «Sono tre anni che non la racconti più!»

«Ma è lunga!» protesta James.

Hope gli scompiglia i capelli, ridendo e tutti sanno che quella sera la storia che James racconterà sarà proprio quella che suo fratello ha chiesto: adora troppo Dean e Hope e non sarebbe capace di rifiutare loro qualsiasi cosa.

«Sei sporco qui»

Mithya allunga un dito e toglie un di panna dall'angolo delle labbra di Dean per poi succhiarla svogliatamente. Dean gli rivolge un'occhiata indecifrabile e Mithya sorride tranquillo, tirandolo di nuovo verso il tavolo di dolciumi.

Joseph continua a suonare, ma stavolta la melodia è cambiata: ha il sapore di una ninna nanna, questa. Una nenia evanescente come un sogno che potrebbe benissimo accompagnare il sonno di una bambina come l'ultimo viaggio di un'anima verso il luogo di sepoltura. E' un suono di dolorosa bellezza, come l'urlo di un'anima morente.

Clòe alza la testa e osserva il suo migliore amico suonare.

«Che musica è?» chiede incuriosita.

«Dance of death, la melodia che accompagnava i funerali più di mille anni fa.»

Clòe e James alzarono lo sguardo contemporaneamente e Nicole sorride, chiudendosi la porta alle spalle.

Come sua sorella Alice, Nicole ha i capelli lunghi e lisci di un bel castano scuro: ma a differenza della sorella che ha gli occhi verdi, quelli della ragazza sono uno strano miscuglio tra il verde e l'azzurro.

Fred le sfila con gentilezza il mantello dalle spalle e Nicole gli sorride grata, andando a prendere una tazza di cioccolata: Hope stringe lo sguardo, ma è un attimo e poi sorride come se nulla fosse e torna a parlare con Laurence.

«La danza della morte?» chiede Clòe con curiosità.

La musica non cessa, ma Alice e Claire smettono di parlare e Hope alza lo sguardo dal disegno che Laurence le sta mostrando orgogliosamente.

Fred sembra congelarsi sul posto, Dean e Mithya riemergono dal tavolo dei dolci e si scambiano un'occhiata curiosamente cupa. James stesso si è irrigidito e il sorriso sul volto di Nicole si è freddato.

Poi anche Joseph smette di suonare e si volta. Non sorride, scruta semplicemente Clòe.

«Non le hai mai raccontato...» comprende.

«Cosa?» chiede la bambina, sempre più stranita. Mithya interviene a quel punto, con la sua solita voce calma e tranquillizzante.

«Gliel'ha chiesto mio padre» risponde con calma, versandosi una tazza di cioccolata. «Non voleva che fosse traumatizzata. Come quando Nicole ha preso a urlare nel sonno o come io stesso ho faticato a comprendere mia madre, dopo» prende un profondo respiro e Clòe è perfettamente sicura di non averlo mai visto così combattuto. Ma soprattutto, così serio.

Gli occhi blu di suo fratello riflettono le fiamme del camino acceso e l'undicenne scende dalle ginocchia di James per correre ad abbracciarlo: quando sente la carezza di Mithya tra i capelli è come se il masso che le schiacciava il petto si sciolga improvvisamente.

In qualche modo quella carezza la conforta.

«Mithya..» Nicole sembra a disagio, arrabbiata anche per le sue parole, ma il ragazzo scuote la testa e si volta verso James mentre accarezza ancora la testa di Clòe.

«Te la senti di raccontare, stasera?» chiede. Non c'è traccia di scherzo negli occhi dell'amico e James lo avverte: avverte il freddo penetrargli sottopelle, stringergli il cuore in una morsa di dolore.

Annuisce, piano, mentre osserva Mithya inginocchiarsi per arrivare al livello della sorellina e sussurrarle qualcosa all'orecchio, indicandolo. Clòe lo osserva indecisa ma poi annuisce e corre di nuovo verso di lui, arrampicandosi sulle sue gambe.

James aveva sette anni la mattina in cui sua madre lo prese in braccio e lo sedette sulle proprie ginocchia: la madre di Mithya non c'era e gli adulti che lo circondavano avevano visi pallidi e stravolti.

Ricordava Hope e Fred con gli occhi rossi, in un angolo, stretti in un abbraccio. Aveva marchiato nella propria mente i visi seri di Dean e Mithya o l'espressione di puro sgomento sul volto di Nicole.

Sono i più grandi. Non di molto, ma lo sono. Ed è loro dovere tramandare quella storia a tutti gli altri.

Perciò abbraccia Clòe mentre Dean gli si avvicina e gli porge del the, sorridendogli incoraggiante: suo fratello è uno spaccone e la maggior parte delle volte spreca tempo ed energie nell'organizzare scherzi di dubbio gusto. Ma gli vuole bene.

James prende la tazza e Dean si sistema sul tappeto accanto al fuoco, vicino a Mithya, spalla a spalla con il suo migliore amico, le dita a pochi centimetri di distanza da quelle dell'altro; anche Hope e Fred si siedono su alcuni cuscini, la testa della prima appoggiata sulla spalla del secondo, le dita di Fred impegnate ad arricciare ancora di più i capelli della sorella.

Tom cerca una posizione più comoda sulle gambe del fratello, strusciandosi sui pantaloni di Bill con un sorrisetto divertito, ricevendo uno schiaffetto seccato per tutta risposta. Alice si siede accanto a Joseph e intreccia la mano alla sua, ricevendo un sorriso dolce che ha il potere di farla sciogliere: perchè Joseph non sarà bello in modo vistosamente evidente come Dean, James, Mithya o Fred, ma sembra un angelo con i suoi capelli biondi e gli occhi grigi che scrutano il mondo con gentile malinconia. E a lei piace..

Lancia un'occhiata a Claire, seduta in mezzo a Nicole e Laurence. E no, non è la sola.

«Qual è questa storia, Jamie? E perchè siamo tutti qui a sentirla, neanche se fossimo a un matrimonio?» protesta Clòe.

«Tua madre ti ha mai raccontato la storia degli Elements

Clòe ammutolisce, curiosa.

«Gli Elements... Beh, per raccontare la loro storia bisogna che narri la vita di molte altre persone. La storia di questi sette ragazzi inizia con un'amicizia, uno di quei legami che riescono ad andare oltre la morte e il dolore, oltre le convenzioni sociali...»

E James, nel silenzio, racconta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prologue

 

 

Plant your sword in the ground,

broke the spear and burn the pieces.

The war is over, but what is the price?

The earth cries, watered by our blood.

Break your arrows, wet blood enemy

and that our words can come to you

like a breath of wind.

The war is over, but what is the price?

Plant your sword in the ground,

broke the spear and burn the pieces.

Our peace has the taste of death.

 

 

 

Le offerte sacrificali bruciavano sul fuoco lento accompagnate dalle voci delle sacerdotesse: quello era il canto di coloro che perdevano la vita in battaglia, il canto che faceva risuonare nelle orecchie di chi lo ascoltava le urla di guerra, il rumore dei duelli.

Una melodia che evocava immagini di morte e che lasciava nel cuore solo il freddo che la guerra e la disperazione di una perdita sapevano portare.

Nevicava.

Piccoli fiocchi di neve danzavano nell'aria come lucciole senza luce e il paesaggio imbiancato rendeva tutto quello - il nero degli abiti, il nero delle coccarde intrecciate alle corone di fiori, le lacrime sui volti - quasi ridicolo.

Il discorso del prete le giungeva ovattato, quasi provenisse da chilometri di distanza. Parole che parlavano di coraggio, di fratellanza, di una speranza che era stata mantenuta viva anche quando tutto sembrava perduto: parole vuote, che le pesavano come macigni.

Ma che ne sapeva quello?

Che ne sapeva del dolore nel vedere morire le persone a cui tieni? Della paura di un adolescente nel vedersi addossare responsabilità troppo grandi per essere espresse?

Della tristezza di quei ragazzi ogni volta che si trovavano davanti alle lacrime di una madre, disperata per la perdita del figlio?

Avrebbe voluto ribattere, urlare, dimenarsi. Gridare che quegli eroi erano dei ragazzini che aveva visto crescere, degli adolescenti con tutta una vita davanti, dei progetti, un futuro.

Ma rimase zitta, le labbra strette in una linea sottile sotto il velo nero che le copriva il viso e le mani intorno al corpo per proteggersi dal freddo che dal mausoleo sembrava volerle entrare nel corpo. Gli occhi fissavano ostinatamente le bare di ghiaccio che lei stessa era stata costretta a preparare con la magia, in modo tale che -come il loro ricordo- anche i loro corpi si conservassero perfettamente nel ghiaccio perenne.

Trattenne un sorriso amaro quando, a un cenno del parroco, degli stregoni sollevarono le bare e le posizionarono dentro le rispettive tombe.

Sentiva gli occhi dei presenti scivolarle addosso, come pioggerellina leggera. La ritenevano colpevole? Probabilmente non avrebbero avuto nemmeno torto.

In parte era colpa sua. Avrebbe potuto prevederlo e, in qualche misura, cercare di cancellare parte del dolore che li aveva colpiti: erano stati suoi allievi, in fondo. Si era affezionata a loro, quei sette ragazzi dai caratteri così differenti da sembrare quasi appartenenti a dimensioni diverse.

E tuttavia non aveva mai conosciuto un legame, un'amicizia così forte da andare al di sopra di tutto.

Si guardò intorno, analizzando la struttura della loro definitiva dimora. Piegò appena le labbra: probabilmente non sarebbe piaciuta granchè a nessuno di loro, ma perlomeno avevano permesso che fossero seppelliti insieme.

Il mausoleo era a pianta circolare: sul pavimento di ghiaia era stata fatta disegnare una stella a sette punte e ognuna era puntata verso una piccola costruzione a due piani, di marmo, sulla cui sommità era stata posta una statua rappresentante uno dei sette.

Una costruzione magnifica, qualcosa che i posteri avrebbero ricordato come il simbolo dell'amor patriae per eccellenza.

A osservarlo, lei avrebbe solo ricordato il volto delle persone che erano morte per un regno in cui, per ora, la pace era un miraggio di cui gli abitanti si stavano nutrendo con ostinata cocciutaggine.

Cosa sarebbe successo quando -ed era sicura che ci sarebbe riuscito- lui avrebbe infranto la prigione che lo rinchiudeva al momento?

Poteva passare un giorno, un minuto, un anno.. Nessuno sapeva con esattezza quanto i muri del castello che lo trattenevano avrebbero retto: ma quel che era certo era che il prigioniero non avrebbe mai smesso di pensare a un modo per fuggire, per completare la sua vendetta..

Col cuore gonfio di tristezza e di dolore voltò le spalle a quello spettacolo di morte - il nero degli abiti, il nero delle coccarde intrecciate alle corone di fiori, le lacrime sui volti e le parole vuote- e uscì dall'edificio.

Nevicava.

Camminò in silenzio, raggiungendo una panchina: vi si abbandonò sopra, chiudendo gli occhi.

Era stanca.

Erano state giornate dure, un per tutto. Tra l'organizzazione del funerale, la realizzazione di quelle bare e la preparazione dei cadaveri -che aveva voluto lavare e vestire da sola- non aveva avuto nemmeno il tempo di riposare. O la voglia di farlo.

Tutto giaceva immobile, spossato quasi quanto lei. Non si udiva soffiare il vento,  il parlottare dei bambini, il cinguettare degli uccellini: c'era solo un silenzio di morte, un vuoto inquietante che inglobava tutto l'ambiente circostante.

Tutto era immobile. Anche il tempo sembrava essersi fermato, timoroso di interrompere quell'atmosfera pesante.

Aprì gli occhi.

 

«Non fare il bambino e smettila di mangiare!»

«Ma io ho fame! Sei cattiva, non puoi pretendere che io sia preparato al massimo se poi non posso mangiare quanto mi va!»

« Ma... Hai divorato almeno tre o quattro tonnellate di dolciumi!»

« Su ragazzi, smettetela di litigare..»

« Amyria ha ragione! Dai Aqua, non vedi che non può proprio farne a meno?»

« E' un ingordo!»

« E tu sei una rospa

« Rospa a chi? Ripetilo se hai il coraggio!»

« Rospa, rospa, rospa

« Giuro che se ti prendo io..»

E le risate si diffondevano nell'aria mentre quei due s'inseguivano. Andava così e quasi sempre era più un gioco che una discussione vera e propria.

Ma cos'era l'amicizia senza qualche piccolo scherzo, senza qualche scaramuccia, senza le risate, senza le cadute?

 

L'unica cosa che le era rimasto era il loro ricordo.

Dubitava che avrebbe potuto realmente accettare la loro morte, ma iniziava a comprendere, in parte, il peso del loro sacrificio.

 

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Capitolo 2
*** Nihil Difficile Volenti ***


Nihil Difficile Volenti

 

 

 

Ogni uomo su questa Terra è diverso dall'altro: ricchezze, famiglia, aspirazioni, sogni. Non potreste mai trovare due uomini uguali in tutto e per tutto.

Ognuno svolge sul nostro pianeta un cammino differente.

C'è chi ha la possibilità di vedere la luce del giorno per poche ore prima di chiudere definitivamente gli occhi. Certi hanno la fortuna di vedere molte primavere e molti inverni prima di lasciare questo mondo.

Altri interrompono il loro cammino quando sembrerebbe a chiunque, loro stessi compresi, che la strada da percorrere sia lunga e soleggiata.

Secondo un famoso poeta italiano, Ugo Foscolo, la morte dissolve tutto ciò che siamo: non c'è Paradiso né Inferno, solo l'inizio di un sonno eterno che corroderà il nostro corpo. Tuttavia si può continuare a sopravvivere nei ricordi delle persone che ci sono state care e nelle storie che queste racconteranno su di noi: e quando qualcuno parlerà di chi siamo stati, sarà come rivivere -anche se solo per pochi instanti- in quelle parole.

Anche quando la nostra tomba sarà distrutta, l'unica forza che riuscirà a contrastare la morte sarà la memoria dei vivi.

 

 

Oh, Death, оh Death, oh Death,

Won't you spare me over ‘til another year

 

 

La canzone che sua cugina stava cantando era pregna di una profonda tristezza.

Helena pensò che a sua nonna non sarebbe piaciuta. Era una donna allegra, che non si era mai rassegnata: nemmeno di fronte alla malattia che avanzava aveva smesso di sorridere.

Helena aveva cinque anni, all'epoca, ma i suoi genitori le avevano già spiegato che quando sua nonna avrebbe chiuso gli occhi senza preavviso non sarebbe stato per il suo quotidiano riposino pomeridiano.

E ora che era avvenuto, ora che lei era morta... Helena si sentiva un po’ più sola.

 

 

But what is this, that I cant see

with ice cold hands taking hold of me

 

 

Quella volta sua nonna l'aveva chiamata nella sua camera alla clinica.

Era uno stanzone grande e ben pulito in cui la nonna dormiva da sola; Helena aveva sistemato il suo peluche preferito sul comodino perchè le tenesse compagnia e sua madre provvedeva giornalmente a sistemare dei fiori nella stanza per tentare di mascherare quella puzza di candeggina che volteggiava indisturbata tra quelle quattro mura e per mettere un po’ di allegria.

Quando la donna aveva chiesto della nipote, comunque, Helena stava mangiando un panino alla mensa della suddetta clinica: la signora era stata ricoverata dopo un attacco particolarmente potente. I medici sembravano semplicemente aspettare che la fine arrivasse.

«Signora Baker?»

Sua madre aveva alzato lo sguardo dalla pasta che stava mangiando e Helena stessa si era fermata dal raccontare la sua mattinata a scuola.

Entrambe avevano guardato la vecchia infermiera che sorrideva, triste.

«La signora Huggens vuole vedere Helena» disse.

La mamma l'aveva guardata sconvolta, un tremendo presentimento negli occhi improvvisamente lucidi.

 

 

When God is gone and the Devil takes hold,

who will have mercy on your soul?

 

 

Quando Helena era entrata nella stanza, la nonna era stesa sul letto.

Si era voltata verso di lei con un sorriso dolce, facendole cenno di avvicinarsi al letto: era debole, le rughe che le segnavano il viso le davano un'aria stanca e le mani tremavano ma i suoi occhi erano gli stessi di sempre, brillanti dietro le lenti spesse degli occhiali e il suo sorriso era pieno di dolcezza e d'affetto, come al solito.

«Ciao piccolina» la donna sorrise un po’ più ampiamente quando Helena si arrampicò sul letto e le diede un bacio in fronte: le fece spazio perchè si sedesse accanto a lei e la osservò togliersi le scarpe. «Oggi com'è andata a scuola?»

«Bene» rispose dolcemente Helena «Anche se c'è quell'Alexis che è troppo prepotente, mi ha rotto la bambola! Che poi si vanta tanto di averne di più belle, perchè non se la porta da casa? Poi non capisco come fanno Hope e Odette a essere amiche di una così! Posso capire Taylor che si diverte o Kim che..» la bambina non notò il guizzo negli occhi della nonna, continuando a parlare. «...che ha troppa paura per prenderla a pugni.»

«Non dovresti giudicarle così male: prova a conoscerle.»

«Ma Alexis...»

«Helena, ricorda questo: non devi mai giudicare un libro dalla sua copertina. Potresti trovarti molto male in futuro... Io una volta ho fatto quest'errore e ne ho pagato a lungo le conseguenze» sua nonna inspirò a fondo, il braccio piegato sullo stomaco. «Non tutto è bianco e nero nella vita, Lena.»

Dall'alto dei suoi cinque anni di vita Helena si chiese cosa esattamente sua nonna volesse dirle. Piegò il capo, osservandola curiosa.

«Nonnina?»

Sua nonna sembrò riemergere da un sogno: aprì gli occhi e girò la testa verso il soffitto, a fatica.

«Amore, fammi un piacere. Apri il primo cassetto di quel comodino e prendi il bauletto che vi troverai dentro.»

Obbediente la bambina saltò giù dal letto e aprì il suddetto cassetto, trovandoci dentro quello che era un semplicissimo portagioie in legno nero su cui risaltava il dipinto di una rosa bianca.

«E' belissimo nonna!» commentò la bambina, stupita, rigirandosi il cofanetto tra le manine. «Ma che cosa…»

«Questo bauletto apparteneva a una principessa. L'ottenni anni fa ed è ora che tu lo prenda» sua nonna tossì violentemente. «Ti chiedo… solo... un... favore.»

«Nonnina ma cosa…?»

«Promettimi che lo... che lo aprirai solo quando troverai degli amici sinceri...» gli occhi neri della nonna la scrutavano, fieri, nonostante il corpo fosse scosso dalla tosse e il fiato andasse scemando. «Promettimi che… quando... li incontrerai...»

Si piegò in avanti, scossa dalla tosse sempre più forte.

 

 

Oh, Death, оh Death, oh Death,

No wealth, no ruin, no silver, no gold

Nothing satisfies me but your soul

 

 

«Nonna, chiamo la mamma. Tu stai lì, va bene? Io faccio presto, lo prometto e...» Helena si sentiva sempre più spaventata e le mani che stringevano il bauletto tremavano mentre la voce si spezzava in lacrime.

«No Hellie, vie- vieni. Vieni qui. Va tutto bene tesoro mio, va tutto bene...» sua nonna le prese una mano tra le sue. «Promettimi che quando li incontrerai tenterai di essere felice. Promettimi che non proverai a giudicare un libro dalla copertina, mai più. Promettimi che sarai forte. Per la mamma che ha tanto bisogno di te, amore, per il tuo papà e per quei due mascalzoni dei tuoi fratelli.»

La bambina singhiozzò, annuendo.

«Non piangere tesoro, non piangere... Sorridi anche quando il dolore è tanto forte. Vedrai che riuscirai a fare sorridere altri. Sii forte Hellie, ti voglio tanto bene cucciola, la nonna te ne vuole tanto. Ti prometto che un giorno sarai felice, ma tu devi essere forte per quelli che ti circondano. Ti voglio bene bambina mia, ricordatelo sempre.»

I macchinari a cui la donna era attaccata emettevano suoni sempre più forti. La porta si spalancò, facendo entrare due medici e un'infermiera trafelatissimi.

«Riporti questa bambina da sua madre, signora Pepper

Helena si sentì afferrare per le braccia; provò a divincolarsi mentre la trascinavano via.

«NONNA! No! No! Lasciami stare, lasciami stare... Nonna! Nonna!» continuò a scalciare anche quando la donna la portò fuori dalla stanza, le mani strette ancora a un cofanetto che era stato sigillo dell'ultima promessa fatta alla nonna.

Continuò a piangere anche quando sentì le braccia della mamma intorno al corpo. E sua madre pianse con lei.

 

 

Oh, Death,

Well I am Death, none can excel,

I'll open the door to heaven or hell

 

 

 

Quando suo padre era arrivato nella clinica, trafelato, il colletto della camicia storto e la cravatta mezza slacciata, seguito a ruota dai suoi fratelli, Helena stava dormendo tra le braccia della mamma, il viso ancora segnato dalle lacrime e le mani strette al bauletto.

Non disse mai cosa sua nonna le avesse detto e per tre giorni si rifiutò di parlare. Si limitava a sedere sul letto della propria stanza osservando il cofanetto e sentendo sua madre piangere nella stanza accanto.

Poi, la terza notte, la voce della nonna tornò a farsi sentire nella sua testa.

Promettimi che sarai forte. Per la mamma che ha tanto bisogno di te, amore, per il tuo papà e per quei due mascalzoni dei tuoi fratelli

E Helena, pur non capendo esattamente cosa sua nonna intendesse con ''forte'', si alzò e s'infilò nel lettone dei suoi genitori.

Quella notte dormì un sonno senza sogni.

 

 

Oh, Death, оh Death,

my name is Death and the end is here...

 

 

Una volta sua nonna le aveva detto che non esistevano addii, ma solo lunghi arrivederci.

E quando posò il fiore sulla bara seppe che quello sarebbe stato un lunghissimo arrivederci. Perchè quella era, almeno per il momento, la fine.

 

 

 

 

 

Due giorni dopo il funerale, i suoi genitori ricevettero una lettera dal notaio -un signore che, come le spiegarono, si occupava di ''sistemare le carte'' di una persona- a cui l’anziana donna si era rivolta quando la malattia aveva iniziato ad avanzare troppo per essere fermata.

Lo studio del notaio in questione non era molto lontano da casa loro, quindi i Baker, quella mattina, non avevano nemmeno avuto bisogno della macchina: tuttavia, mentre Robert e Peter avevano la scuola anche il sabato, quel giorno l'asilo chiudeva e Helena andò con i suoi genitori.

Sua mamma era pallida quando la svegliò, le labbra strette in una linea sottile e gli occhi lucidi: Helena lasciò che la vestisse docilmente e mangiò in silenzio. Suo padre le allacciò il cappottino e la prese in braccio e poi, tutti e tre, si diressero verso lo studio del notaio.

Ci vollero appena dieci minuti di strada prima che giungessero sotto l'elegante palazzo in cui lavorava il notaio: fu sua madre a suonare.

«Si?» chiese una voce femminile, annoiata.

«Sono la signora Baker. Ho preso un appuntamento qualche giorno fa.»

«Oh sì, salga pure. Primo piano.»

Il portone si aprì con un crac metallico e i tre entrarono nell'elegante androne del palazzo: a dire il vero Helena si sentiva sinceramente intimorita. Che carte aveva sistemato questo notaio? Che cosa doveva dire loro?

Quando arrivarono davanti alla porta di legno accanto a cui era stata appesa la targa dorata col nome dell’uomo, la mamma non ebbe nemmeno bisogno di bussare: ad aprire fu una signorina graziosa, dai capelli di un biondo acceso e le unghie affilate, laccate di rosso.

«Buongiorno!» trillò entusiasta, per nulla scoraggiata dalle espressioni di puro sconcerto comparse sul volto dei tre. «Io sono la segretaria del signor Streamer! Prego, prego, accomodatevi.»

Suo padre la fece scendere dalle sue braccia e immediatamente Helena si attaccò alla gonna della madre, pregando silenziosamente che non lasciassero in compagnia di quella che sembrava la figlia segreta dell'Uomo Nero e di Barbie.

Tuttavia sua madre si piegò verso di lei.

«Hellie, amore, puoi restare con la signorina qualche minuto? Il signor Streamer…»

«Oh no signora, il signor Streamer ha raccomandato che perlomeno per i primi cinque minuti ci fosse anche la bambina! Ma come sei tenera, tesoro!» aggiunse la biondina, chinandosi a tirare leggermente una guancia di Helena. Col risultato di graffiarla.

La bambina le scoccò un'occhiata arrabbiata, imbronciandosi.

Come se non fosse successo assolutamente nulla quella... oca, non c'era modo migliore per definirla, ridacchiò e pregò i tre di aspettare nella sala mentre lei sarebbe andata ad annunciare il loro arrivo al signor notaio: non dovettero comunque rimanere lì granché perchè la strana segretaria tornò dopo qualche minuto dicendo che il dottor Streamer era pronto a riceverli.

Li condusse lungo un piccolo corridoio e fece loro cenno di entrare nella stanza con un sorriso a trentacinque denti -e ne aveva solo trentadue!- accarezzando la testa di Helena quando questa passò, rivolgendole un sorriso quando la bambina si voltò a guardarla male.

Poi la porta si chiuse e l'attenzione di Helena fu attirata dalla stanza in cui era appena entrata.

Era grande, luminosa ed elegantemente arredata: c'era una scrivania in legno scuro con un pc nero ultimo modello, una libreria, diversi vasi con dentro fiori coloratissimi, poltrone dall'aspetto comodo con cuscini riccamente ricamati. C'era persino un piccolo frigo bar e un moderno climatizzatore, in quel momento spento.

Ma ciò che piacque di più a Helena furono sei quadri posti alle spalle dell'uomo che ora si stava alzando per stringere la mano ai suoi genitori e sorriderle: rappresentavano sei ragazzi, cinque donne e un uomo, in compagnia di altrettanti animali.

Un delfino, un unicorno, un lupo, un'aquila, un leone e persino un uccello infuocato con dei lucenti occhi smeraldini.

«Volete qualcosa da bere?»

La voce del notaio la riportò coi piedi per terra e si voltò ad osservarlo mentre si avvicinava al frigo bar.

« Posso avere un succo di frutta?» chiese timidamente.

L'uomo le rivolse un sorriso e annuì, passandole la bottiglietta; Helena l'aprì con un po’ di difficoltà, portandosela alle labbra.

«Allora, il fatto è questo. La signora Huggens ha lasciato il testamento e una parte di questo riguarda direttamente Helena...» l'uomo frugò nel cassetto della scrivania, tirandone fuori una splendida collana dorata con un ciondolo a forma di cuore su cui era stata incisa un'aquila dalle ali spalancate. «...questo medaglione ha, credo, un meccanismo per poter essere aperto. L'unica imposizione del testamento è che la bambina debba portarlo con sé e non separarsene mai; fino ai diciassette anni, per volere della mia assistita, la bambina non deve mai aprirlo.»

La mamma aggrottò le sopracciglia, perplessa, probabilmente pensando alla stranezza di quella richiesta ma non fece domande. Passò il ciondolo alla figlia con un sorriso e le chiese di uscire un momento perchè lei e il papà avevano da discutere con il signore.

«Va bene mamma. Grazie per il succo di frutta, signore.» mormorò educatamente la bambina.

Il notaio le sorrise mentre apriva la porta e usciva, continuando a bere ciò che restava del succo: buttò la bottiglietta nel primo cestino che vide, tenendosi il tappo -ne faceva la collezione- e prendendo a girarsi il ciondolo che la nonna le aveva lasciato tra le mani.

Era bello... Ma cosa c'entrava con lei? C'erano foto di loro due insieme, dentro?

Fu una scritta dietro ad attirare la sua attenzione.

''Nihil Difficile Volenti''.

Che lingua era? E soprattutto: cosa poteva significare?

«Ciao!»

Sussultò.

Era riuscita a tornare miracolosamente indietro ma la segretaria strana stava parlando al telefono e non si era nemmeno accorta di lei; a salutarla, in effetti, era stato un ragazzino biondo di due o tre anni al massimo più grande di lei, intento a leggere un piccolo libriccino.

«Ciao.» mormorò perplessa.

Lui le sorrise -e gli occhi azzurri scintillarono, quasi riflettendo la luce di quel sorriso- e chiuse il libro, avvicinandosi a lei; guardò di sfuggita il ciondolo che la bambina stringeva e si fermò a pochi centimetri da lei.

«Perchè sei triste?»

La domanda la sorprese.

Era vero, era profondamente triste. E si sentiva sola. Ma lui come aveva fatto a capirlo?

Piegò la testa, osservandolo curiosa.

«Tu come lo sai?» gli chiese.

«Non si risponde a una domanda con un'altra domanda» ribatté lui e Helena chinò appena il capo.

«Mia nonna è morta» borbottò, ricacciando a forza le lacrime. Per qualche motivo non voleva piangere, non davanti a lui. Non voleva che la prendesse per una bambina piagnucolosa, anche se non riusciva ad afferrare bene il perchè.

Il bambino la sorprese ancora, poggiandole una mano sul braccio: in qualche modo si sentì protetta come quando abbracciava la mamma o il papà.

Era una bella sensazione di calore che partiva dal punto in cui lui le aveva sfiorato il maglioncino che indossava e si irradiava lungo tutto il suo corpo, fino a toccarle il cuore.

«Se sei triste piangi. Se sei arrabbiata sfogati. Tenerti tutto dentro non risolverà nulla» le sorrise, passandole con dolcezza la mano lungo tutto il braccio. «So che sei forte, so che sei coraggiosa. Supererai tutto questo e molto altro.»

«Come fai a esserne sicuro?»

Gli occhi azzurri del bambino di fronte a lei s'intristirono: lanciò una breve occhiata alla segretaria che stava ancora parlando al telefono e si avvicinò al suo orecchio, come se quello che le stesse dicendo fosse un segreto.

«Io ti conoscevo, ma te ne sei dimenticata. Ma non è colpa tua, non lo è mai stata. Non ho saputo darti la protezione che meritavi.»

Lo guardò intristita.

Non capiva a cosa si riferisse con ''ti conoscevo'' e ''non è colpa tua'' e meno che mai poteva capire cosa intendesse esattamente con ''protezione'', però…

«Sono sicura che non è stata colpa tua. Hai fatto quello che potevi» disse semplicemente. Era un tentativo di rassicurarlo, ma sembrò sortire immediatamente l'effetto sperato perchè la traccia di tristezza sparì dagli occhi del bambino: a ogni buon conto Helena aprì la mano e gli porse il tappo.

«Faccio la collezione» gli spiegò allegra. «Ecco, prendilo! Così quando me lo mostrerai di nuovo io saprò che sei tu e non mi dimenticherò di averti incontrato. Promesso.»

Il bambino sembrò felice di quel regalo: lo prese con un sorriso che contagiò anche Helena, facendoselo scivolare in tasca.

«Ti faccio anche io una promessa» le disse e le porse il mignolo. «Quando ci incontreremo di nuovo io sarò grande e forte e ti proteggerò. E poi ci sposeremo! Ti farò felice e ti aiuterò» aggiunse, serio.

Helena non sapeva esattamente cosa volesse dire ''sposati'' ma in qualche modo si sentì contenta di quelle parole e gli strinse il mignolo.

Poi il bambino si sporse appena e sfiorò le sue labbra con le proprie. Helena sbatté le palpebre, perplessa e lo guardò con aria sorpresa.

«E questo cos'era?» chiese stranita.

«Si chiama bacio.»

Bacio... Helena ricordava vagamente certi discorsi delle sue compagne d'asilo quando parlavano dei maschi e di cose che gli innamorati si davano, tra cui fiori e baci.

E lei che aveva pensato che fossero cioccolatini!

«E perchè me lo hai dato?» gli chiese ingenuamente.

Lui le sorrise.

«Diventerai mia moglie… Devo pur assicurarmi che in qualche modo io ti rimanga impresso!» esclamò con solennità.

No, Helena decisamente non capiva ma il sorriso del bambino che aveva di fronte le piaceva e lasciò perdere. Gli sorrise a sua volta e rimase quasi delusa quando sentì la voce di sua madre chiamarla e vide i suoi genitori entrare nella stanza.

Prima di correre verso di loro si voltò verso quello strano bambino.

«Ricordati della promessa.» gli disse.

Lui annuì.

«E tu ricordati della tua» le mormorò; Helena gli sorrise e gli donò un bacio sulla guancia. Poi la bambina corse via, verso i suoi genitori, facendosi riallacciare il cappottino da suo padre. Quando la mamma la prese in braccio, comunque, si voltò verso il bambino.

Si sorrisero un'ultima volta e poi, quando la porta si frappose tra loro, Helena si ricordò di non avergli chiesto il nome.

Pazienza. Sarebbe stata per un'altra volta.

Dopotutto Helena era abbastanza sicura che lui avrebbe cercato in tutti i modi di mantenere la sua promessa come lei avrebbe mantenuto la propria.

 

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Capitolo 3
*** Di muffin, stelle e discorsi importanti ***


Di muffin, stelle e discorsi importanti

 

 

 

L'Orsa Maggiore, l'Orsa Minore. Più in là c'era la Costellazione del Carro e, spostando il capo, poteva vedere anche un mucchietto di stelle a cui non sapeva dare un nome o una forma.

Lì, proprio lì, poteva scorgere il Triangolo Estivo: Deneb, Altair e Verga. Sua nonna le diceva sempre che lei e i suoi fratelli erano proprio come quelle stelle, unite da un filo invisibile che li avrebbe uniti per sempre.

Poi la accarezzava e le sorrideva, aggiungendo che un giorno avrebbe trovato qualcun'altro capace di legarsi a lei con quello stesso filo, in maniera così stretta da essere impossibile da spezzarsi anche in mezzo a mille o più strattoni.

Helena aveva undici anni, adesso. Era in quell'età in cui non è ufficialmente finita l'infanzia ma nemmeno è cominciata l'adolescenza, in cui il mondo continua a sembrare bello e infinito come un tempo. Le piaceva sognare di mondi che probabilmente esistevano solo nella sua fantasia, con draghi addomesticati da una principessa coraggiosa e tremende battaglie; ma già cominciava ad affacciarsi in lei una certa serietà, una compostezza che molte sue coetanee non possedevano.

Molto spesso era malinconica e cercava il silenzio, benché spesso ne venisse inquietata; allora cercava il rumore, ma ne rimaneva turbata.

Aveva dentro di sé un senso d'insoddisfazione continua, che non riusciva nemmeno a spiegarsi. Erano sensazioni confuse che la stordivano, sebbene per poco tempo, lasciando poi il posto all'allegria tipica di una ragazzina di undici anni.

Era una quieta serata estiva, quella, solo una lieve brezza a mitigarne il calore. Dopo cena aveva trascinato fuori una coperta, stendendola sul prato, un libro che suo padre le aveva regalato a Natale, Red Eyes, il cellulare e una bottiglietta d'acqua. Il medaglione che sua nonna le aveva regalato giaceva freddo contro la pelle del petto.

Si strofinò un occhio, il cellulare che aveva poggiato sulla pancia si alzava e si abbassava al ritmo tranquillo del suo respiro; la cartella dei messaggi strabordava, ma non ne aveva aperto nemmeno uno.

«Stelle, cellulare inutilizzato e un libro che conosci a memoria. Depressione mode on?»

Sussultò, alzandosi a sedere di scatto. Il cellulare le scivolò dolcemente in grembo mentre si voltava e alzava lo sguardo verso la provenienza della voce.

Sua madre le sorrise luminosa, un vassoio d'argento tra le mani, con sopra un piatto contenente dei muffin, una brocca e due bicchieri.

«Mi hai spaventata» osservò Helena, aggrottando le sopracciglia quando sua madre alzò gli occhi al cielo -e aveva degli occhi bellissimi sua madre, di un verde acqua che cambiava sotto le luci, come gli occhi di un gatto- e sbuffò.

«Ma dai? Pensavo che il saltello facesse parte di una coreografia» ribatté sarcastica la donna, facendole cenno di spostarsi. Hel ubbidì, rotolando da una parte della coperta e chiudendo il libro; lo pose da parte, insieme al cellulare e alla bottiglietta d'acqua.

Lilian Huggens si accomodò con grazia sulla coperta, posando la brocca sull'erba prima di poggiare il vassoio sul tessuto ruvido. Offrì un dolcetto alla figlia che le sorrise di rimando, afferrandolo.

Helena morse il muffin, sentendo la dolcezza della pasta diffondersi nella sua bocca, contrastata dall'amaro del cioccolato: solitamente non poteva dirsi grande fan del cioccolato fondente, diciamo che lo detestava proprio, ma per far piacere a sua madre avrebbe mangiato di tutto. Non c'erano altre persone capaci di farle mangiare una fetta intera di torta al cioccolato fondente, dopotutto. Valeva pur qualcosa.

«Com'è?» le chiese sua madre, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro e una tazza di cioccolata in mano. E Helena sorrise, perchè il dolce era buonissimo, perchè sua madre era sempre brava; ma l'amaro sapore del cioccolato non sapeva proprio cancellarlo.

«Buonissimo» le rispose, afferrando la tazza. «Come al solito sei un'ottima cuoca, mamma.»

La donna le sorrise raggiante, portandosi alle labbra la tazza di cioccolata.

«Ho un solo dubbio... Perchè mi chiedi sempre come ti è venuto questo o quello? Insomma, sei una chef e un'ottima pasticcera.»

Lilian Huggens ridacchiò.

«Tesoro, a me onestamente non frega un accidente di ciò che i critici pensano dei miei piatti o della mia persona. Si, la Torre Dorata non andrebbe avanti senza i loro quattro o cinque commentini compiacenti, ma per me i pareri della mia famiglia sono molto più importanti. E' molto meglio vedere la luce negli occhi di tuo padre, quando gli dico di aver cucinato il suo piatto preferito, che la faccia annoiata di una persona qualunque che si complimenta con me per come ho cucinato le crepes

Restarono in silenzio per un po’, ognuna immersa nei propri pensieri.

«Non sei venuta a parlare solo di muffin e cioccolata.»

«No, direi di no» confermò Lilian con un sospiro. Afferrò un muffin e se lo portò alla bocca, mordendolo e masticandolo con calma; alla fine sorrise. «Però, hai perfettamente ragione. Sono la migliore!»

«E anche la più modesta.»

«Non dovresti smontare così il mio momento auto celebrativo!» si lagnò la donna, finendo di mangiare il muffin. Si pulì le labbra con un tovagliolo e batté una mano sulle sue gambe, facendole cenno quindi di sdraiarcisi sopra.

Helena obbedì senza pensarci due volte, affondando il viso nelle pieghe della gonna della mamma. Inspirò a lungo il suo profumo, beandosi della sensazione di pace che le donava. Poi, senza preavviso, iniziò a parlare.

«Le avevo promesso che non avrei più giudicato le persone superficialmente» sua madre tacque, di un silenzio pensieroso, accarezzandole i capelli. Un gesto che l'aveva sempre fatta rilassare.

Forse non c'era bisogno di specificare chi fosse quella lei, ma Helena respirò ancora, prima di sussurrarlo.

«La nonna. Ed è strano, perchè molti ricordi di lei stanno scomparendo. Ma quella volta rimane: non vuole andarsene e non posso cancellarla. Lei è lì e io... Sento quasi di averla delusa. O forse l'ho già fatto. Io non lo so...» ammise, mentre la mano di sua madre continuava a muoversi tra i suoi riccioli neri.

Rimasero in silenzio ancora per un po’.

«Che è successo?»

Helena sospirò.

«Tu cosa sai?» le chiese di rimando. Sua madre fece un sorrisetto divertito, iniziando ad arrotolare i capelli della figlia tra le dita.

«In effetti è una storia abbastanza divertente. Sai, stamattina mi ha chiamata la mamma di Maddison

Maddison.

Helena strinse le labbra, abbassando lo sguardo; Lilian non fece commenti, continuando a parlare con dolcezza.

«Beh, all'inizio voleva convincermi del fatto che tu avessi fatto chissà che cosa contro sua figlia, gettandola in... No, aspetta, com'era? Ah si: uno stato di profonda depressione e prostrazione. Quando le ho chiesto che cosa fosse successo non mi ha risposto e mi ha chiesto insistentemente di svegliarti e di costringerti a parlare con Maddy e Sery. Al che mi sono chiesta che cosa avesse nel cervello questa donna quando ha scelto questi soprannomi. Maddy, Sery e Helly. Sembrano i nomi di tre Barbie!»

Helena si concesse una risatina.

«Comunque ho riattaccato quando ha accusato i nostri geni di nefandezza congenita. Mi chiedo quale donna del ventunesimo secolo parli così...» Lilian scosse brevemente il capo, mentre Helena si girava in modo da guardarla in faccia, pur rimanendo sdraiata sulle sue gambe. «E ora, seriamente, io mi sto chiedendo che cosa tu abbia fatto per scatenare l'ira funesta di Shakespeare in gonnella e figlia. E cagnolino, come dimenticarlo.»

La ragazzina rise ancora, strofinandosi una mano sull'occhio.

Sarebbe stato un racconto interessante, tutto sommato.

 

 

****

 

 

2 Mesi prima

 

«Helena?»

La bambina in questione alzò lo sguardo dal copione che stava ripassando per guardare la giovane maestra che le stava davanti.

Da quando il vecchio maestro Leonard aveva avanzato la proposta di allestire una piccola recita per celebrare la fine dell'anno, in aggiunta alla solita festa con dolciumi casalinghi e tanti schiamazzi, nella scuola non c'era stata più pace: era un continuo via vai di persone, tra le maestre che tentavano di dirigere i lavori degli alunni e contemporaneamente allestire al meglio il palco su cui si sarebbe svolta la recita.

«Sì, signorina Taylor?»

«Potresti andare con Kim a prendere dei costumi di scena nel ripostiglio? Lucy ha strappato il terzo vestito di Cenerentola.»

Perchè sì, la scuola elementare della loro piccola cittadina aveva deciso che sarebbe stato carino mettere in scena una recita conosciuta. E, chissà perchè, Helena si era vista assegnare la parte della sorellastra Genoveffa.

Lanciò un'occhiata alla bambina, dietro l'esile figura della maestra, che ricambiò astiosa. A differenza di ciò che Hel aveva pensato nei dolci anni, si fa per dire, dell'asilo, Kim si era rivelata un'anima piuttosto combattiva e ribelle, tutt'altro che compiacente all'idea di sottomettersi ad altri. E lo aveva dimostrato staccandosi dal gruppo di Alexis e compagnia bella per diventare amica delle gemelle Blonds: le balbettanti, timide e riservate gemelle Blonds.

Quando Alexis le aveva chiesto la ragione di questo suo comportamento, Kim aveva alzato le spalle e aveva semplicemente risposto che la regola del loro gruppo, quella che recitava ''non avrai altre amiche al di fuori di noi'', le era sembrata un tantino esagerata e, quindi, aveva deciso semplicemente di ampliare il giro.

Doveva ammetterlo, l'aveva ammirata.

E si era resa conto che, per quanto l'avesse derisa per quello, anche lei si era sottomessa a qualcuno. A Serenity e Maddison, quelle che aveva considerato sempre le sue migliori amiche, quelle due bambine che aveva giudicato uniche, le sole capaci di capirla.

E, beh, si era sbagliata. Alla fine poteva capitare, certo, ma bruciava. Bruciava in modo orribile, corrodendola dall'interno ogni giorno con intensità sempre maggiore, proporzionale al tempo che scorreva.

Per questo aveva iniziato ad allontanarsi da loro, sebbene non avesse proprio il coraggio di staccarsene del tutto. Erano sue amiche, dopotutto.

«Perchè sei così silenziosa?»

Helena si voltò verso Kim, le sopracciglia corrugate, genuinamente perplessa. Va bene, da quando avevano lasciato la sala delle prove non aveva detto una parola ma non pensava che la cosa le desse fastidio.

«Scusa?»

«Mi hai capito. Insomma, non mi stai prendendo in giro e nemmeno stai facendo commenti acidi sulle Blonds

«Quello tecnicamente è l'hobby di Maddison» la corresse Helena, ma Kim la ignorò.

«Quindi mi stavo chiedendo se questo, in realtà, non fosse un piano per rinchiudermi da qualche parte» aggiunse, lanciandole uno sguardo sospettoso.

E a quel punto Helena si chiese quali strani sostanze fossero state aggiunte al latte mattiniero di Kimberly Clarke. O semplicemente se la suddetta Kim fosse già nata con qualche rotella al contrario.

«O vuoi picchiarmi e rubarmi il pranzo? Confessa!»

« n realtà il mio piano segreto è quello di cucirti la bocca con ago e filo mentre uno hobbit ti solletica i piedi con una piuma... Ma che discorsi fai?!»

Kim le rivolse ancora uno sguardo non del tutto convinto e Helena preferì lasciar perdere.

Ma quanto era lontano quello sgabuzzino?!

Poi sentì due voci e si bloccò in mezzo al corridoio, zittendo Kim con un gesto quando questa tentò di protestare; poté quasi sentirla alzare gli occhi al cielo, ma non ci badò, mentre si appiattiva contro la parete e sbirciava dentro quella che era la sala d'ingresso della scuola.

«Spostalo un po’ più in là. Hai preso gli adesivi dallo zaino di Alexis?» era la voce di Maddison, quella, e in sottofondo si sentiva un rumore attutito, come quello di carta strappata.

«Sì sì, tranquilla. Non si è accorta che li ho presi» la rassicurò una seconda voce, quella di Serenity, mentre il rumore continuava.

«Perfetto, Helena deve essere la sola a capirlo. Con questo saremo certe che tornerà a essere nostra amica come una volta. Del resto è davvero troppo fifona per ribellarsi o per dirlo alle maestre» dichiarò soddisfatta Maddison. «Nessuno sfugge al mio controllo, deve ricordarselo. E questo è solo l'inizio...»

Helena, dal canto suo, sentì il proprio corpo irrigidirsi: aveva sentito bene oppure...?

Lanciò una breve occhiata verso Kim, pietrificata accanto a lei.

No, aveva sentito proprio bene.

L'incredulità divenne rabbia e la rabbia divenne una furia divampante, mentre Helena si affacciava sulla soglia della stanza e vedeva Maddison, con il suo diario segreto -in realtà un semplice quaderno su cui aveva appiccicato un'etichetta con un teschio e scritto il proprio nome-, strappare pagine e passarle a Serenity che si preoccupava di appiccicarle al muro.

«Sì, Helena è troppo scema» ridacchiò quest'ultima, preoccupandosi che la carta si appiccicasse per bene alla parete. «Tipo quella volta dello scherzo alle Blonds, te lo ricordi? Quando abbiamo spalmato di colla le loro sedie e le maestre hanno pensato che fosse stata lei e...»

E poi Serenity s'interruppe perchè era stata colpita da qualcosa di gelido, un liquido che le colava tra i capelli, sul viso e le andava a finire sulle labbra. Urlò terrorizzata, mentre lo stesso liquido aranciato finiva addosso a Maddison la quale lanciò un urletto, lasciando cadere il diario che si era, inevitabilmente, macchiato di piccole goccioline arancioni.

Entrambe si voltarono verso Helena e Kim che, con in mano due bicchieri -c'era, all'ingresso, una brocca colma d'aranciata a beneficio dei bambini e dei visitatori, con accanto diversi bicchieri di plastica-, le guardavano con due identici ghigni sulla faccia.

«Ma siete sceme?» strillò Maddison, inferocita.

Helena la guardò calma.

«Scema a non essermi accorta prima chi eravate? Probabile. E so che me ne pentirò tutta la vita» gettò il bicchiere nel cestino con una tranquillità che lei per prima non si sarebbe mai aspettata da se stessa. Si guardò le mani. Tremavano leggermente. «Beh, almeno so che non devo più fidarmi di voi.»

«Hellie...»

«Non stavolta» e Helena andò semplicemente fuori da quella stanza, uscendo, e lo sapeva bene, dalla vita di quelle che aveva considerato le sue migliori amiche.

Fu quando Kim l'affiancò che si concesse di piangere.

 

****

 

La mamma era rimasta in silenzio per tutta la durata del racconto, cosa di cui Helena fu grata. Era molto più semplice parlare senza essere interrotti di continuo con domande o considerazioni.

Sua madre le accarezzò i capelli, sorridendo quando tacque.

«E poi?» chiese dopo qualche attimo ancora.

Helena si umettò le labbra.

«Credo che lo abbiano capito. Hanno staccato i fogli, ma hanno buttato il diario» rispose, ripensando alle parole di Kim che le diceva di avere visto il suo diario nel cestino dell'aula di arte. Non era andata a riprenderlo.

Raccontare, a dispetto di quanto si sarebbe aspettata, le aveva fatto bene: era come se le avessero tolto un grosso masso dal petto. Sentì la carezza calda di sua madre tra i capelli e sospirò, passandosi una mano sulla pancia.

Aveva imprecato contro le sue ex amiche, si era rimpinzata di muffin e aveva bevuto la cioccolata.

L'aria si era fatta decisamente più fredda ma nessuna delle due sembrava aver intenzione di rientrare. Lilian si limitò a sospirare e annuire.

«Capisco» commentò semplicemente.

«Per un po’» Helena si leccò il labbro inferiore, tentando di trovare le parole giuste «ho quasi pensato che fosse colpa mia. Però dopo...»

«Hai capito che dovevi aspettartelo» completò Lily, accarezzandole dolcemente il capo. «E, analizzando i comportamenti di Maddison e Serenity, ti sei resa conto che la prima è una spocchiosa reginetta viziata e che la seconda è un cagnolino che ama sottostare agli ordini del più forte. Posso dirti una cosa? Un giorno anche tu avrai la tua rivincita su Barbie e il suo cagnolino di fiducia» Lily ebbe un sorriso tenero.

Sapeva che sua figlia stava maturando in fretta, ma era consapevole del fatto che, sotto quella serietà, sotto quel modo di fare quasi accademico, c'era solo tanta fragilità, la stessa che si poteva aspettare da una bambina di undici anni.

«Un giorno arriverà qualcuno che sarà degno della tua fiducia e della tua lealtà. E saranno quelle le persone che chiamerai ''amici'', le sole con cui ogni ricordo bello o brutto sarà qualcosa da ricordare. Perchè vedi, piccola mia, amicizia non è mai falsità, né menefreghismo: amicizia è essere disposti a dare tutto per un'altra persona, condividere con quella i tuoi migliori ricordi e ridere insieme anche quando si fa una brutta figura. E se mai un giorno ti trovassi a tradire quegli amici sarà solo per proteggerli».

«Ma... Il tradimento non è una brutta cosa, mamma? Non vuol dire...»

«A volte non si tradisce una persona solo per cattiveria o per sacrificarla ai nostri desideri o perchè vogliamo farci amici di altri, Helena» controbatté sua madre. «A volte puoi tradire qualcuno semplicemente per proteggerlo. Io e tuo padre lo faremmo, per te e i tuoi fratelli».

Helena si prese qualche minuto per assimilare il peso di quelle parole e Lilian lo rispettò. Quando la bambina riaprì bocca sembrava quasi più sicura.

«E com'è davvero essere amici? Tu me lo sai dire mamma?»

«Tesoro, questa è una cosa che devi capire da sola. Ma posso dirti che l'amicizia in sé è… beh, non vorrei ridicolizzare la faccenda, ma essere amici di qualcuno vuol dire sacrificarsi per l'altro senza pensarci due volte. E che a volte i silenzi non hanno bisogno di avere un significato ma sono solo... Silenzi. In generale credo che l'amicizia sia tutto e niente. E che sia un po’ come le radici della quercia di nonna Sarah».

«Forte e robusto?»

Le labbra di Lilian si piegarono in un sorrisetto.

«Ma anche capaci di far inciampare chiunque voglia mettersi in mezzo. E possibilmente, non dico rompergli l'osso del collo, ma fargli prendere una bella storta».

 

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