Diamond Night
Ora,
immagina la tua vita come un treno di cui i tuoi superiori - pensa ai tuoi
genitori come ai tuoi datori di lavoro - ti hanno messo a capo: su un treno
salgono e scendono diverse persone, no? Ci sono quelli che guardano il treno da
lontano e quelli di cui non ricorderai nemmeno il volto, quelle persone che
prenderanno questo treno per periodi alterni e per svariate ragioni: di alcune
di esse riconoscerai solo il volto, un'immagine sfuggevole alla tua mente.
E
ci saranno quelle persone che prenderanno il tuo treno quando meno te lo
aspetti, forse in una giornata di pioggia o forse mentre sei fermo alla
stazione e leggi un libro.
E
saranno quelle persone a non andarsene mai, nemmeno quando sarai di cattivo
umore e il mondo intero sembrerà avercela con te. E quelle persone, magari
anche la ragazza che ora non sopporti o quel professore che è così noioso, sì,
quelle persone, saranno coloro che conoscerai con la vista e con il cuore.
Tigre!
Tigre! Divampante fulgore
Nelle foreste della notte,
Quale fu l'immortale mano o l'occhio
Ch'ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?
In quali abissi o in quali cieli
Accese il fuoco dei tuoi occhi?
Sopra quali ali osa slanciarsi?
E quale mano afferra il fuoco?
Quali spalle, quale arte
Poté torcerti i tendini del cuore?
E quando il tuo cuore ebbe il primo palpito,
Quale tremenda mano? Quale tremendo piede?
[William Blake- The Tyger]
Le dita di Joseph scivolano sui tasti
d'avorio del pianoforte come una carezza di seta: la stanza è invasa dalla
melodia dolce quanto malinconica che il ragazzino sta suonando.
Ognuno, a proprio modo, sente quel suono
scivolargli sulla pelle e lasciargli una traccia; Clòe
avverte la tristezza intrisa nelle note. Così tanto da poter quasi
toccarla con mano.
E' la sera della Vigilia di Natale e
fuori nevica copiosamente. I loro genitori sono usciti, come ogni anno da che Clòe si ricordi, e hanno raccomandato loro di non far
impazzire eccessivamente le tate.
Raccomandazione caduta nel vuoto, a quanto
parrebbe. O meglio, raccomandazione che è stata interpretata in modo del tutto
personale perchè, dopo che Dean e Mithya hanno
offerto loro da bere dei sospetti succhi d'arancia, tutte e cinque le loro tate
hanno deciso di andare a letto.
Clòe sorride, staccandosi
dalla finestra. Ha dieci anni ed è la più piccola in quella sala, quella che
viene viziata in modo assolutamente mostruoso, protetta e coccolata al di sopra
di tutto; vede Alice, la sua migliore amica, guardare con tristezza Joseph e
scuote la testa.
Alice ha tredici anni e Joseph quindici.
Nonostante la differenza d'età hanno sempre trattato Clòe
come loro amica, hanno giocato con lei quando nessun'altro aveva il tempo di
farlo e hanno accolto le sue confessioni quando si è accorta di essersi innamorata
di James, il fratello minore di Dean, come se fossero due fratelli qualsiasi,
un pò apprensivi.
Per questo, anche, Clòe
non ha ancora fatto commenti sugli sguardi dolci che si lanciano di tanto in
tanto.
Non ha confidato i suoi sospetti a
nessuno, nemmeno a Mithya: suo fratello le vuole bene
e, davvero, Clòe lo adora con tutta se stessa
ma ,nonostante abbia diciannove anni appena, quel ragazzo è uno dei più
pettegoli che conosca, come una vecchia comare di paese, più o meno. Ed è
inquietante sapere che tra una caccia e l'altra, un duello o uno scherzo organizzato
con Dean abbia il tempo di ficcanasare tra gli affari privati altrui.
Ma è suo fratello, no? E deve essere
genetico, il volersi cacciare nei guai...
«Clòe?» una
mano fredda le sfiora la spalla. E' un tocco gentile, che ha imparato a
riconoscere sin da bambina: vede Hope guardarla con
dolcezza, i capelli ricci e biondi legati in un elegante chignon e tra le mani
regge un vassoio colmo di dolci.
Hope, come suo fratelo gemello Fred naturalmente, ha venticinque
anni. Sono stati adottati dalla madre di Joseph quando erano ancora in fasce ed
entrambi sono stati spesse volte soggetti alla curiosità della gente del regno:
si mormora che siano figli di due grandi maghi morti durante la Grande
Battaglia.
A dire il vero a Clòe
non potrebbe importare di meno.
Hope e Fred sono
sempre loro, al di là del sangue che scorre nelle loro vene. Sono gli stessi
ragazzi che badavano a tutti loro quando i loro genitori, per un motivo o per
un'altro, non potevano, che curavano le loro ferite quando si facevano male.
Hope rimane Hope, Fred rimane Fred.
E' una delle più grandi lezioni che sua
madre possa averle impartito: non importa il sangue, nè
il denaro che una persona possiede. Sono le azioni a contare, sopra ogni cosa.
E' il cuore la parte davvero
importante. Sempre.
La ragazza più grande posa il vassoio
sul tavolo dei dolciumi - su cui Mithya e Dean si
sono buttati, mentre Bill, intento a rifarsi la manicure con il fratello Tom
sdraiato sulle ginocchia, li guarda schifato - e la prende in braccio; quando
si voltano Fred è lì, intento a chiacchierare con Laurence e Claire e, per un
momento, il tempo in cui il ragazzo alza lo sguardo e Hope
si volta, Clòe scorge un lampo di dolcezza in fondo a
quegli occhi chiari.
Non ha il tempo d'indagare oltre, però. Hope sorride al fratello e si dirige verso la poltrona su
cui James sta beatamente leggendo un libro.
«Jamie?»
Il sedicenne alza lo sguardo dal libro,
nel farlo gli occhiali scivolano un pò sul naso,
posando lo sguardo su Hope. Al contrario di suo
fratello James è sempre stato molto tranquillo; a volte, anzi, scherzando i
suoi genitori dicono che c'è stato uno scambio nelle culle e che Mithya avrebbe dovuto essere loro figlio, gemello di Dean.
Quando lo sente Clòe ribatte sempre che non potrebbe
avere come fratello proprio James, visto che sì, beh.. Insomma, James le
piace particolarmente.
A quelle parole i grandi ridono sempre e
la mamma di Joseph inizia a canticchiare la canzoncina del matrimonio: quando
James è presente gli adulti si divertono a metterlo in imbarazzo, lanciandosi
occhiate colme di un significato che Clòe non riesce
perfettamente a cogliere, anche quando semplicemente la prende in braccio.
Ma, come dice sempre Hope,
i loro genitori sono degli eterni bambini: sono gli stessi che si divertono a
scappare da una folla di ministri e camerieri inferociti per organizzare un
pic-nic o una gita fuori porta. Ma va bene così, alla fine... Clòe è cresciuta con questa stravagante grande famiglia e
sinceramente non potrebbe immaginare nulla di meglio.
«Dimmi Hope»
replica con gentilezza James, segnando la pagina del libro che stava leggendo
col dito.
«Credo che ormai Nicole dovrebbe
arrivare da un momento all'altro» dice Hope,
passandogli Clòe. La bambina,felice, si aggrappa al
collo di James che mette da parte il libro e l'abbraccia a sua volta, prendendo
ad accarezzarle i capelli. «Hai già scelto la storia da raccontare quest'anno?»
E' tradizione che James racconti una
storia la notte di Natale. E' bravo con le parole, un talento che molti dicono
che abbia ereditato dalla madre, e ha quella particolare abilità di riuscire a
far immedesimare l'ascoltatore nella storia: un vaso diventa un calice d'oro in
cui un re ha bevuto prima di andare a combattere, un bastone la scintillante
spada di un indomito guerriero.
Prima che il ragazzo possa rispondere,
però, Dean riemerge dal magico mondo di ciambelline ripiene e torte di mele e
li fissa con espressione accigliata.
«Ma è offio
che stlolia fuole...»
«Dean, deglutisci prima di parlare. Le
tue tonsille non sono molto interessanti» lo rimprovera James, accarezzando i
capelli della bambina che ha in braccio, ormai totalmente rilassata.
Dean alza gli occhi al cielo e
deglutisce l'enorme boccone di crostata alle fragole che stava masticando.
«Scusa mammina» brontola il
suddetto diciannovenne, mettendo su un broncio degno di un bambino di cinque
anni. «Dicevo, è ovvio che storia vuole raccontare! Quella dei tre fratelli,
ovviamente!»
Passa un momento di silenzio, poi Hope sorride.
«Non è male come idea!» approva. «Sono
tre anni che non la racconti più!»
«Ma è lunga!» protesta James.
Hope gli scompiglia
i capelli, ridendo e tutti sanno che quella sera la storia che James racconterà
sarà proprio quella che suo fratello ha chiesto: adora troppo Dean e Hope e non sarebbe capace di rifiutare loro qualsiasi cosa.
«Sei sporco qui»
Mithya allunga un dito
e toglie un pò di panna dall'angolo delle labbra di
Dean per poi succhiarla svogliatamente. Dean gli rivolge un'occhiata
indecifrabile e Mithya sorride tranquillo, tirandolo
di nuovo verso il tavolo di dolciumi.
Joseph continua a suonare, ma stavolta
la melodia è cambiata: ha il sapore di una ninna nanna, questa. Una nenia
evanescente come un sogno che potrebbe benissimo accompagnare il sonno di una
bambina come l'ultimo viaggio di un'anima verso il luogo di sepoltura. E' un
suono di dolorosa bellezza, come l'urlo di un'anima morente.
Clòe alza la testa e
osserva il suo migliore amico suonare.
«Che musica è?» chiede incuriosita.
«Dance of death, la melodia che accompagnava i funerali più di
mille anni fa.»
Clòe e James
alzarono lo sguardo contemporaneamente e Nicole sorride, chiudendosi la porta
alle spalle.
Come sua sorella Alice, Nicole ha i
capelli lunghi e lisci di un bel castano scuro: ma a differenza della sorella
che ha gli occhi verdi, quelli della ragazza sono uno strano miscuglio tra il
verde e l'azzurro.
Fred le sfila con gentilezza il mantello
dalle spalle e Nicole gli sorride grata, andando a prendere una tazza di
cioccolata: Hope stringe lo sguardo, ma è un attimo e
poi sorride come se nulla fosse e torna a parlare con Laurence.
«La danza della morte?» chiede Clòe con curiosità.
La musica non cessa, ma Alice e Claire
smettono di parlare e Hope alza lo sguardo dal
disegno che Laurence le sta mostrando orgogliosamente.
Fred sembra congelarsi sul posto, Dean e
Mithya riemergono dal tavolo dei dolci e si scambiano
un'occhiata curiosamente cupa. James stesso si è irrigidito e il sorriso sul
volto di Nicole si è freddato.
Poi anche Joseph smette di suonare e si
volta. Non sorride, scruta semplicemente Clòe.
«Non le hai mai raccontato...»
comprende.
«Cosa?» chiede la bambina, sempre
più stranita. Mithya interviene a quel punto, con la
sua solita voce calma e tranquillizzante.
«Gliel'ha chiesto mio padre» risponde
con calma, versandosi una tazza di cioccolata. «Non voleva che fosse
traumatizzata. Come quando Nicole ha preso a urlare nel sonno o come io stesso
ho faticato a comprendere mia madre, dopo» prende un profondo respiro e Clòe è perfettamente sicura di non averlo mai visto così
combattuto. Ma soprattutto, così serio.
Gli occhi blu di suo fratello riflettono
le fiamme del camino acceso e l'undicenne scende dalle ginocchia di James per
correre ad abbracciarlo: quando sente la carezza di Mithya
tra i capelli è come se il masso che le schiacciava il petto si sciolga
improvvisamente.
In qualche modo quella carezza la
conforta.
«Mithya..»
Nicole sembra a disagio, arrabbiata anche per le sue parole, ma il ragazzo
scuote la testa e si volta verso James mentre accarezza ancora la testa di Clòe.
«Te la senti di raccontare, stasera?»
chiede. Non c'è traccia di scherzo negli occhi dell'amico e James lo avverte:
avverte il freddo penetrargli sottopelle, stringergli il cuore in una morsa di
dolore.
Annuisce, piano, mentre osserva Mithya inginocchiarsi per arrivare al livello della
sorellina e sussurrarle qualcosa all'orecchio, indicandolo. Clòe
lo osserva indecisa ma poi annuisce e corre di nuovo verso di lui,
arrampicandosi sulle sue gambe.
James aveva sette anni la mattina in cui
sua madre lo prese in braccio e lo sedette sulle proprie ginocchia: la madre di
Mithya non c'era e gli adulti che lo circondavano
avevano visi pallidi e stravolti.
Ricordava Hope
e Fred con gli occhi rossi, in un angolo, stretti in un abbraccio. Aveva
marchiato nella propria mente i visi seri di Dean e Mithya
o l'espressione di puro sgomento sul volto di Nicole.
Sono i più grandi. Non di molto, ma lo
sono. Ed è loro dovere tramandare quella storia a tutti gli altri.
Perciò abbraccia Clòe
mentre Dean gli si avvicina e gli porge del the, sorridendogli incoraggiante:
suo fratello è uno spaccone e la maggior parte delle volte spreca tempo ed
energie nell'organizzare scherzi di dubbio gusto. Ma gli vuole bene.
James prende la tazza e Dean si sistema
sul tappeto accanto al fuoco, vicino a Mithya, spalla
a spalla con il suo migliore amico, le dita a pochi centimetri di distanza da
quelle dell'altro; anche Hope e Fred si siedono su
alcuni cuscini, la testa della prima appoggiata sulla spalla del secondo, le
dita di Fred impegnate ad arricciare ancora di più i capelli della sorella.
Tom cerca una posizione più comoda sulle
gambe del fratello, strusciandosi sui pantaloni di Bill con un sorrisetto
divertito, ricevendo uno schiaffetto seccato per tutta risposta. Alice si siede
accanto a Joseph e intreccia la mano alla sua, ricevendo un sorriso dolce che
ha il potere di farla sciogliere: perchè Joseph non sarà bello in modo
vistosamente evidente come Dean, James, Mithya o
Fred, ma sembra un angelo con i suoi capelli biondi e gli occhi grigi che
scrutano il mondo con gentile malinconia. E a lei piace..
Lancia un'occhiata a Claire, seduta in
mezzo a Nicole e Laurence. E no, non è la sola.
«Qual è questa storia, Jamie? E perchè siamo tutti qui a sentirla, neanche se
fossimo a un matrimonio?» protesta Clòe.
«Tua madre ti ha mai raccontato la
storia degli Elements?»
Clòe ammutolisce,
curiosa.
«Gli Elements...
Beh, per raccontare la loro storia bisogna che narri la vita di molte altre
persone. La storia di questi sette ragazzi inizia con un'amicizia, uno di quei legami
che riescono ad andare oltre la morte e il dolore, oltre le convenzioni
sociali...»
E James, nel silenzio, racconta.
Prologue
Plant your sword
in the ground,
broke the spear
and burn the pieces.
The war is over,
but what is the price?
The earth cries,
watered by our blood.
Break your
arrows, wet blood enemy
and that our
words can come to you
like a breath of
wind.
The war is over,
but what is the price?
Plant your sword
in the ground,
broke the spear
and burn the pieces.
Our peace has the
taste of death.
Le offerte
sacrificali bruciavano sul fuoco lento accompagnate dalle voci delle
sacerdotesse: quello era il canto di coloro che perdevano la vita in battaglia,
il canto che faceva risuonare nelle orecchie di chi lo ascoltava le urla di
guerra, il rumore dei duelli.
Una melodia che evocava immagini di
morte e che lasciava nel cuore solo il freddo che la guerra e la disperazione
di una perdita sapevano portare.
Nevicava.
Piccoli fiocchi di neve danzavano
nell'aria come lucciole senza luce e il paesaggio imbiancato rendeva tutto quello
- il nero degli abiti, il nero delle coccarde intrecciate alle corone di fiori,
le lacrime sui volti - quasi ridicolo.
Il discorso del prete le giungeva
ovattato, quasi provenisse da chilometri di distanza. Parole che parlavano di
coraggio, di fratellanza, di una speranza che era stata mantenuta viva anche
quando tutto sembrava perduto: parole vuote, che le pesavano come macigni.
Ma che ne sapeva quello?
Che ne sapeva del dolore nel vedere
morire le persone a cui tieni? Della paura di un adolescente nel vedersi
addossare responsabilità troppo grandi per essere espresse?
Della tristezza di quei ragazzi ogni
volta che si trovavano davanti alle lacrime di una madre, disperata per la
perdita del figlio?
Avrebbe voluto ribattere, urlare,
dimenarsi. Gridare che quegli eroi erano dei ragazzini che aveva visto
crescere, degli adolescenti con tutta una vita davanti, dei progetti, un
futuro.
Ma rimase zitta, le labbra strette in
una linea sottile sotto il velo nero che le copriva il viso e le mani intorno
al corpo per proteggersi dal freddo che dal mausoleo sembrava volerle entrare
nel corpo. Gli occhi fissavano ostinatamente le bare di ghiaccio che lei stessa
era stata costretta a preparare con la magia, in modo tale che -come il loro
ricordo- anche i loro corpi si conservassero perfettamente nel ghiaccio
perenne.
Trattenne un sorriso amaro quando, a un
cenno del parroco, degli stregoni sollevarono le bare e le posizionarono dentro
le rispettive tombe.
Sentiva gli occhi dei presenti
scivolarle addosso, come pioggerellina leggera. La ritenevano colpevole?
Probabilmente non avrebbero avuto nemmeno torto.
In parte era colpa sua. Avrebbe potuto
prevederlo e, in qualche misura, cercare di cancellare parte del dolore che li
aveva colpiti: erano stati suoi allievi, in fondo. Si era affezionata a loro,
quei sette ragazzi dai caratteri così differenti da sembrare quasi appartenenti
a dimensioni diverse.
E tuttavia non aveva mai conosciuto un
legame, un'amicizia così forte da andare al di sopra di tutto.
Si guardò intorno, analizzando la
struttura della loro definitiva dimora. Piegò appena le labbra: probabilmente
non sarebbe piaciuta granchè a nessuno di loro, ma
perlomeno avevano permesso che fossero seppelliti insieme.
Il mausoleo era a pianta circolare: sul
pavimento di ghiaia era stata fatta disegnare una stella a sette punte e ognuna
era puntata verso una piccola costruzione a due piani, di marmo, sulla cui
sommità era stata posta una statua rappresentante uno dei sette.
Una costruzione magnifica, qualcosa che
i posteri avrebbero ricordato come il simbolo dell'amor patriae
per eccellenza.
A osservarlo, lei avrebbe solo ricordato
il volto delle persone che erano morte per un regno in cui, per ora, la pace
era un miraggio di cui gli abitanti si stavano nutrendo con ostinata
cocciutaggine.
Cosa sarebbe successo quando -ed era
sicura che ci sarebbe riuscito- lui avrebbe infranto la prigione che lo
rinchiudeva al momento?
Poteva passare un giorno, un minuto, un
anno.. Nessuno sapeva con esattezza quanto i muri del castello che lo
trattenevano avrebbero retto: ma quel che era certo era che il prigioniero non
avrebbe mai smesso di pensare a un modo per fuggire, per completare la sua
vendetta..
Col cuore gonfio di tristezza e di
dolore voltò le spalle a quello spettacolo di morte - il nero degli abiti, il
nero delle coccarde intrecciate alle corone di fiori, le lacrime sui volti e le
parole vuote- e uscì dall'edificio.
Nevicava.
Camminò in silenzio, raggiungendo una
panchina: vi si abbandonò sopra, chiudendo gli occhi.
Era stanca.
Erano state giornate dure, un pò per tutto. Tra l'organizzazione del funerale, la
realizzazione di quelle bare e la preparazione dei cadaveri -che aveva voluto
lavare e vestire da sola- non aveva avuto nemmeno il tempo di riposare. O la
voglia di farlo.
Tutto giaceva immobile, spossato quasi
quanto lei. Non si udiva soffiare il vento,
nè il parlottare dei bambini, nè il cinguettare degli uccellini: c'era solo un silenzio
di morte, un vuoto inquietante che inglobava tutto l'ambiente circostante.
Tutto era immobile. Anche il tempo
sembrava essersi fermato, timoroso di interrompere quell'atmosfera pesante.
Aprì gli occhi.
«Non
fare il bambino e smettila di mangiare!»
«Ma
io ho fame! Sei cattiva, non puoi pretendere che io sia preparato al massimo se
poi non posso mangiare quanto mi va!»
«
Ma... Hai divorato almeno tre o quattro tonnellate di dolciumi!»
«
Su ragazzi, smettetela di litigare..»
«
Amyria ha ragione! Dai Aqua,
non vedi che non può proprio farne a meno?»
«
E' un ingordo!»
«
E tu sei una rospa!»
«
Rospa a chi? Ripetilo se hai il coraggio!»
«
Rospa, rospa, rospa!»
«
Giuro che se ti prendo io..»
E
le risate si diffondevano nell'aria mentre quei due s'inseguivano. Andava così
e quasi sempre era più un gioco che una discussione vera e propria.
Ma
cos'era l'amicizia senza qualche piccolo scherzo, senza qualche scaramuccia,
senza le risate, senza le cadute?
L'unica cosa che le era rimasto era il loro
ricordo.
Dubitava che avrebbe potuto realmente
accettare la loro morte, ma iniziava a comprendere, in parte, il peso
del loro sacrificio.