L'inverno dell'anima

di UncleObli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solitude ***
Capitolo 2: *** Pain - 7 Anni prima - ***
Capitolo 3: *** Departure - 2 Anni prima - ***
Capitolo 4: *** Memories - 2 Anni prima - ***
Capitolo 5: *** Nightmare - ? - ***
Capitolo 6: *** Mistakes and Insanity - 2 Anni prima - ***
Capitolo 7: *** Hope - 2 anni prima - ***
Capitolo 8: *** No more lies -2 anni prima- ***



Capitolo 1
*** Solitude ***


Pierre Janet sostiene che noi, piccoli esseri umani, in realtà non siamo altro che una confederazione di anime sotto il controllo di un io egemone. Se è vero, il mio cambiò quella notte.

Camminai lentamente, assaporando la freschezza della brezza serale di una giovane nottata estiva ;il viale fiocamente illuminato della piccola città di provincia nella quale mi trovavo  mi permetteva di cogliere sprazzi di mondo nonostante l’ora tarda: nella panchina accanto alla strada due giovani innamorati si erano dati appuntamento, e la loro spensierata felicità mi inebriava il cuore di una tristezza straziante ma dolce allo stesso tempo, dalla finestra spalancata di un anonimo condominio una sonata di Chopin, e il suo suono familiare contribuì a placare il turbinio di pensieri che mi agitava il cuore. Mi calmai, e improvvisamente la mia disperata lucidità mi lasciò interdetto. Confuso,  arrestai i miei passi silenziosi e voltai il capo verso destra, fingendo di osservare la vetrina di uno squallido negozio d’abbigliamento.  L’immagine riflessa di un gracile ragazzo di poco più di diciassette anni rispose al mio muto richiamo, ma ne scansai lo sguardo indagatore, e con uno scatto rabbioso, mi allontanai verso le tenebre di un vicolo mal illuminato.
Inconsciamente, sin da quando la mia mente ferita mi aveva portato in quella ridicola cittadina, avevo già deciso cosa sarebbe stato necessario fare per il mio bene, e quindi non mi presi nemmeno il disturbo di fingere meraviglia quando mi ritrovai, solo, all’ombra di un vecchio campanile costruito qualche secolo orsono in uno stile gotico appena abbozzato. Mi concessi di ammirare per qualche istante la guglia affusolata che pareva sfidare il cielo con la propria ingombrante presenza, poi mi mossi. Ridussi ad ampie falcate la distanza che mi separava dalla costruzione e infine la azzerai, giungendo ad un vecchio portone in legno di mogano, sul quale uno sconosciuto artista aveva scolpito con sorprendente grazia dei fiori di camelie. Ricordai sorpreso una scena di un vecchio film di Ozu, “Le sorelle Munekata”  , nella quale una camelia, ergendosi impavida su di un trono di freddo muschio, fa tremare le corde dell’anima di un muto stupore assai vicino alla commozione, ma non mi concessi di indulgere in tali pensieri e quindi afferrai un piccolo coltello tascabile dalla tasca anteriore dei miei pantaloni da pochi soldi, e in pochi abili gesti scassinai la porta del campanile. Presi un profondo respiro ed entrai in un ingresso polveroso come solo i luoghi nei quali la vita ha rinunciato a lottare per imporre la propria presenza possono essere. Iniziai a salire le scale con una lentezza quasi teatrale, ed invero oggi penso che fu quasi un peccato che solo i topi ne poterono godere.  Credetti di scorgere molte figure del mio passato fra le ombre scure dell’antica costruzione ma cercai di convincere un me stesso stranamente restio che era solo suggestione, e non il sottile piacere dei morti di fronte al decadimento del mio corpo e della mia anima. Finalmente, giunsi in cima alla guglia, e il piacevole spettacolo di un nuovo giorno che inizia rinfrancò in parte la mia fredda delusione. Il sole dorato illuminava dolcemente il tetto di molte abitazioni, nelle quali certamente mariti, mogli e bambini inconsapevoli del movimento del mondo si preparavano a indossare le loro maschere quotidiane, io invece mi accingevo, ribelle, a scrollarmela di dosso in un impeto di furia che nessuno avrebbe colto, e che si sarebbe perso nell’etere incommensurabile del tempo come la fioritura di un giovane ciliegio in primavera.
Scavalcai il parapetto e ammirai il limite dell’orizzonte, simulacro solenne del limite umano che non può e forse non deve, essere superato, quindi mi gettai nel vuoto.

Sapete, dicono che quando si sta per morire si rivive improvvisamente la propria vita, che si rivedono le scelte fatte, i luoghi visitati, le persone conosciute, amate, morte o mai più riviste, niente di più che un sogno, uno sbuffo di fumo,  ma che vale una vita intera. È vero.
Così accadde anche per me. Mentre la forza di gravità mi spingeva velocemente e inesorabilmente verso la fine, una luce bianca mi avvolse, il tempo sembrò congelarsi mentre tornavo ad essere polvere, un esserino neonato di sangue e carne, un ragazzo impertinente e  infine il guscio vuoto che ero ora, il tutto in pochi millesimi di secondo, ma li avvertii distintamente come se ogni attimo fosse un secolo.  Un inutile scherzo del destino, l’ultima ironia: io, che per sfuggire all’angoscia della vita ero salito così in alto per ammirare meglio la bassezza della mia esistenza, in punto di morte, ero costretto a rivedere e accettare le scelte che mi avevano condotto alla fine di ogni cosa.
L’accelerazione mi fece lacrimare gli occhi, poi risi: era come se la parte più intima della mia anima soffrisse ad abbandonare questo mondo e piangesse dalla disperazione…ma naturalmente anche quell’effimera risata non poté che durare qualche secondo. Appena prima dello schianto, un pensiero improvviso ed inatteso minò l’ultimo residuo di forza e convinzione di cui ancora ero in possesso:

Chissà…se le mando un bacio la raggiungerà?

E poi subito:

…no, credo proprio di no.

Poi il nulla.

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Capitolo 2
*** Pain - 7 Anni prima - ***


Il fumo saliva lento e placido verso il cielo azzurro di un tardo pomeriggio che già scemava verso il tramonto di una serata di primavera. La temperatura, benché mite, non era ancora priva di una certa rigidità, ultima vestigia dell’inverno trascorso. La piccola congrega di persone assisteva al triste spettacolo in silenzio, e il rumore del mare non fece che acuire il mio struggimento. Le onde accompagnate dalla marea rilasciavano sulla sabbia un velo di spuma leggera ed effimera, e il ripetersi di questa semplice azione emanava una tranquillità che nessuno di noi riusciva a percepire, in quanto stanchi e provati da un lungo dolore. Il corpo di colei che chiamavo madre giaceva spento e senza alcun calore vitale nella pira funebre accesa da mio padre. Il contrasto tra il freddo che avvolgeva il mio cuore come le spire di un serpente e il calore del fuoco che lambiva le fresche carni di mia madre sembrava un ossimoro inconciliabile. Il giovane parroco che si era occupato dell’algido funerale della defunta stava terminando la sua omelia, ma io avevo smesso di ascoltare le lusinghe di una facile consolazione quando il mio dolore era così forte, quasi come se una frusta stesse arpionando l’essenza stessa della mia anima, e l’avesse strappata di forza, lasciando intatto solo un guscio vuoto, e senza sentimenti fuorché il dolore. Rabbrividii, forse di stanchezza, forse di dolore, o forse di un crudele miscuglio di ambedue le cose. Nello stesso momento mi accorsi che il corpo di mia madre era già stato quasi per intero divorato dalle fiamme, e il loro bagliore illuminava i volti dei partecipanti alla cerimonia. Oltre a me e mio padre vi era solamente l’amante di lui, e mia sorella, Trecy. Trecy era una bambina di poco più di otto anni, bionda, e con dei grandi occhi verdi, ora offuscati dalle lacrime; la bambina era abbastanza grande per comprendere appieno il significato della morte di una persona cara, ma non per avere la forza di affrontarla. Era come uno spaventapasseri, infisso nel terreno desolato della nostra comune esistenza, bruciato dal caldo se vi era sole e al gelo nelle notti d’inverno, in balia delle raffiche di un vento crudele e impietoso. In preda di uno slancio d’affetto, la abbracciai, ed ella si abbandonò docilmente al calore del mio petto e al conforto del mio respiro, quindi si asciugò le lacrime che avevano ripreso a scorrere sul suo viso con un gesto stanco della mano, e mi fissò a lungo negli occhi. Non seppi cosa dirle, ma anche ora, ad anni di distanza, non saprei trovare la frase giusta, il gesto rassicurante che avrebbe potuto riportarla da me. Il fumo continuava a salire, ma il cielo era tinto di rosso, un rosso cremisi, di una tonalità beffarda, e la pira era oramai spenta. L’unica traccia della presenza di mia madre in questo mondo si poteva scorgere oramai solo nelle braci rosseggianti e nelle ceneri calde disperse dalla brezza serale . L’amante di mio padre si avvicinò, camminando a piccoli passi, rispettando il nostro dolore, ma con fermezza. Si chiamava Miranda. Ci abbracciò stretti, come una madre che vuole proteggere i suoi piccoli dal contatto con un mondo crudele e cinico. Era troppo, anche per me. Mi sciolsi da quel contatto e scansai gli occhi indagatori di mia sorella, lasciando spaziare lo sguardo verso i limiti dell’orizzonte. Non ricavai alcun conforto da quella vista, così come non avevo trovato sollievo nel contatto con la mia famiglia, ma naturalmente quando muore una persona cara si è soli, e la maturità di saper controllare il dolore non può che derivare dall’età, alcuni la chiamerebbero saggezza, io la chiamo ipocrisia. In quella spiaggia deserta, smisi di essere un bambino.

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Capitolo 3
*** Departure - 2 Anni prima - ***


La luce era sorta da poco, tingendo di un fresco rosato l’erba pallida e bagnata dalla rugiada del mattino. Dalla finestra circonfusa di luce della mia camera da letto osservai il quieto spettacolo di un nuovo giorno che inizia, domandandomi se e quando avrei potuto ammirare ancora lo stesso paesaggio che ora si stendeva innanzi a me. Sul mio letto tutto era pronto: nel vecchio zaino giacevano stipati gli effetti a cui non ero riuscito a rinunciare, oltre agli immancabili oggetti di prima necessità che mi avrebbero permesso di sopravvivere per i giorni venturi. Dal triste falò sulla spiaggia erano già passati quasi cinque anni, ma ai miei occhi non erano nulla di più che un pallido soffio, un instancabile trascinarsi, il semplice ripetersi di azioni quotidiane che ormai non avevano senso alcuno. Da allora molte cose erano cambiate: Miranda, senza nemmeno lasciar passare il periodo di tempo che la decenza richiede, aveva sposato mio padre. In tutta onestà ciò aveva portato più bene che male,  soprattutto per mia sorella, alla quale la giovane matrigna aveva dedicato cure amorevoli quanto oppressive. Vano sforzo. Sentivamo giorno per giorno la sua coscienza scivolare via, lentamente,  come un piccolo giglio oppresso dalla neve di un inverno improvviso e freddo. Smise di lottare. Poi, poche settimane prima del suo tredicesimo compleanno, scomparve, per mai più ritornare. Fu solo allora che capii. Come si poteva coltivare la vita in un posto infestato dalla raggelante presenza della morte? Era crudele quanto inutile, esattamente come cercare di leggere ad occhi chiusi: una contraddizione in termini. Tracy l’aveva capito, forse già da molto tempo prima della sua fuga repentina, ma credo non potesse andarsene, sia perché le catene della sua vecchia vita la trascinavano sempre più in basso sia perché la vera Tracy, piccola bambina di otto anni, non si era mai veramente allontanata da quella spiaggia, così lontana nello spazio come nel tempo. Più volte mi sono chiesto come abbia fatto a scappare, se veramente la sua situazione era tale, ma non posso fare altro che un’ ipotesi: credo fermamente che per qualche momento la mia sorellina sia tornata in sé, sicuramente sperduta e confusa, ma anche  piena di ferrea determinazione, e che abbia avuto la forza di tranciare ogni legame per costruirsi una vita altrove. Aveva colto l’occasione propizia. Era il mio turno ora: Tracy mi aveva tracciato il percorso, non dovevo fare altro che seguirlo. Tornando in me, mi chinai per allacciarmi le scarpe, poi presi lo zaino. Detti un’ ultima, fugace occhiata alla mia stanza, poi alla casa dov’ero cresciuto e infine uscii all’aria fresca del mattino. Il vento, giocondo, mi solleticava il volto. Sorrisi, vivo come non ero stato da molto tempo poi cominciai a camminare. La mia destinazione era per il momento già decisa, avrei preso un autobus fino al Maine Occidentale, poi da lì avrei iniziato la mia vita da reietto. Ma, nonostante tutto, ero felice. Mi sentivo come doveva essersi sentita anche Tracy, solamente poche settimane prima e questo mi dava uno strano sentimento di orgoglio ed ebbra gioia. Proseguii il mio cammino in linea retta, seguendo la strada che tagliava in due parti quasi perfette il paese, e infine giunsi alla fermata dell’autobus. Il mezzo aveva l’aria di aver visto giorni migliori, da una parte la vernice era scrostata e scolorita, ma in compenso sembrava perfettamente in grado di giungere a destinazione senza problemi. Rilassato mostrai il mio biglietto al conducente, che non lo degnò nemmeno di uno sguardo fugace. Presi posto in una delle ultime file, vicino all’uscita posteriore. Oltre a me c’erano solamente altre sette persone, ma non mi importava granché di avere compagnia. La stanchezza per la notte insonne a preparare i bagagli ebbe quasi il sopravvento, a tal punto che faticavo a tenere gli occhi aperti, ma ciononostante riuscii a rimanere sveglio. Finalmente il conducente accese il motore, che prese vita all’improvviso con un singulto rabbioso, e il viaggio verso la speranza di una vita migliore incominciò. Dopo qualche ora di viaggio in superstrada il conducente ritenne opportuno effettuare una sosta in uno di quei cafè dall’aspetto retrò aperti tutto il giorno che proliferavano in quegli  anni agli angoli delle principali arterie del paese. Scesi di malavoglia dal mezzo, ma accolsi comunque con gioia la possibilità di sgranchire le membra stanche, ed entrai nel cafè. Mi sedetti all’angolo più lontano dal bancone, per cercare di non attirare l’attenzione, e dopo alcuni minuti apparve una delle cameriere più anziane del locale allo scopo di ritirare la mia ordinazione.
«Desidera qualcosa, signore? »mi chiese gentilmente.
 «Si grazie, vorrei un cappuccino e anche un pancake se l’avete. »Per ordinare adottai un tono di voce leggero, quasi musicale.
«Naturalmente, il pancake lo preferisce con le fragole o lo yoghurt? »
«Alle fragole, grazie». La signora mi indicò con affettazione il cartellino appuntato vistosamente sul grembiule da lavoro. Feci una smorfia.
«Alle fragole…Rose»Sorrisi. Soddisfatta, la signora, o meglio Rose prese dalla tasca le posate e mi portò velocemente un bicchiere. Sbadigliai vistosamente poi tornai a concentrarmi sull’immediato futuro. Come prima cosa, una volta arrivato, mi sarei dovuto trovare un alloggio adeguato alle mie modeste finanze e un lavoro. Naturalmente, data la giovane età, non sarei riuscito a trovare un lavoro sufficientemente remunerativo, ma un impiego part-time senza troppe pretese mi bastava. Per il momento. Come seconda cosa avrei dovuto sbarazzarmi dei vestiti che indossavo, mio padre in quel preciso momento poteva star comunicando le mie generalità alla polizia, con tanto di descrizione, e di lì a pochi giorni non sarebbe stato difficile rintracciare l’autobus sulla quale stavo viaggiando. Ergo, dovevo diminuire le possibilità che mi riconoscessero, e cambiare aspetto era solo il primo passo. Mentre ero immerso in elucubrazioni di tal genere si sedette al mio stesso tavolo una ragazza. Era molto alta, e di una magrezza tale da fare apparire ancora maggiore la sua reale altezza, ma ciononostante non aveva affatto un’aria malata o sofferente, anzi. Il suo viso, un ovale perfetto, non avrebbe potuto esprimere altro sentimento fuorché la gioia, mi parve, tanto era splendido e quieto. Sul volto, incorniciato da una confusa massa di lisci capelli ramati spiccava un lieve sorriso, gli occhi scintillavano di conseguenza, come piccole stelle imprigionate da qualche divinità benevola . Era vestita sobriamente, ma in maniera pulita e a suo modo quasi elegante; mi fissò a lungo in volto, e io per contro cercai di esibire un indifferenza al limite della maleducazione.
«Fammi indovinare, non sei un tipo molto socievole vero? »mi disse, gaia.
«Scusa, ci conosciamo? »ribattei, un po’ stizzito.
«ah scusa, non mi sono presentata, io mi chiamo Sally, e tu? »
Devo dire che al momento ero molto stupito, quasi scioccato in verità, di tutto avevo pensato, tranne che in un cafè a 200 miglia da casa mia un’emerita  sconosciuta si sarebbe seduta al mio tavolo a interrompere i miei progetti  futuri. Non so perché, ma fin dal primo istante capii istintivamente che di lei mi sarei potuto fidare e perciò non usai uno dei nomi falsi che mi ero preparato in precedenza.
«Noah. »
Sally rimase in attesa, aspettando palesemente che allungassi la mano per stringere la sua, che nel frattempo aveva allungato verso di me con un sorriso gentile. Quando il silenzio divenne quasi imbarazzante la strinsi, benché di malavoglia. L’inizio di conversazione men che tiepido non parve affatto scalfire l’umore giulivo della mia interlocutrice, che iniziò a parlare a ruota libera, imbastendo una sorta di monologo a cui io partecipavo solamente con grugniti o sporadici monosillabi. Appresi quindi che aveva 19 anni, anche se ne dimostrava tranquillamente 3 di meno, nonostante l’altezza, e che stava tornando a Portland, dove viveva. Anche se all’inizio cercai di mostrarmi indifferente al suo discorso, senza che me ne rendessi conto pendevo dalle sue labbra, e aspettavo impaziente che continuasse a parlare. Fortunatamente per me, dopo alcuni minuti giunse Rose, la cameriera, con il mio pancake. Pur servendomi con un sorriso, non potei fare a meno di notare che lanciava bieche occhiate alla ragazza seduta davanti a me, quindi sorrisi: era gelosa.
«Rose, potresti portare anche una lattina di una qualche bibita per la mia amica? Ha l’aria assetata. ». Ed effettivamente avendo parlato così tanto Sally doveva avere davvero sete, e poi era divertente dare conferma agli istintivi sospetti della cameriera.
Spiacente tesoro, sei un po’ passatella per me.
Come se avesse perfettamente indovinato i miei pensieri la ragazza sorrise, divertita. Mentre mangiavo lentamente il mio pancake (l ’autobus non sarebbe ripartito prima di mezz’ora) notai che l’atmosfera si era notevolmente raffreddata, e solo allora mi accorsi che Sally aveva smesso di parlare, e mi osservava attentamente.
«Che lavoro fai, mi dicevi? »Dissi, interessato per la prima volta a quella strana ragazza.
«Non l’ho detto ma…be ecco, in realtà faccio…ehm, la prostituta, si insomma, sono una Escort. »
Mi andò di traverso l’acqua che stavo bevendo, poi una volta ripreso la fissai con tanto d’occhi. Era assolutamente seria, e mi sarei sentito imbarazzato, più di quanto non lo fossi in quel momento, a farle domande a riguardo, e quindi annuii. A quel punto lei scoppiò sonoramente a ridere, tanto forte da far voltare verso di noi una buona metà degli avventori del locale.
«Ma che, ci credi? »
«Mah, forse, mi sembrava indelicato fare domande a riguardo»
Lei rise di nuovo, questa volta più piano, quindi mi guardò con simpatia:
«Però, abbiamo fra noi un vero cavaliere! Comunque non scherzo, sai, sul mio lavoro. Se ti interessa per te posso applicare la tariffa ridotta! »
Arrossii vistosamente, cercando un modo gentile di declinare la sua offerta, se così potevo chiamarla.
«Ehi dai, ti stavo solo prendendo in giro, certo che sei suscettibile sai? »disse ridendo, e nel contempo mi fece l’occhiolino.
«Di un po’, come reagiresti se una perfetta sconosciuta ti piombasse fra capo e collo asserendo di fare l’Escort e nel frattempo ti proponesse la “tariffa ridotta”?! »sbottai, ma stavo ridendo anch’io, sollevato. Poi mi bloccai di colpo, smisi persino di respirare.
Da quant’è che non ridevo?  mi domandai. Poi mi risposi: dalla morte di mia madre. Mi sentii insultato, come se dimenticando il mio lutto avessi infangato in maniera irreparabile la memoria di mia madre. Poi il momento passò. Compresi che la morte resta sempre la morte, ma noi dobbiamo vivere. Può sembrare banale, ma ciò nondimeno vero. Credo sia questo che mia sorella in fondo non avesse capito.
«Tutto bene? Sei pallido…»mi disse. Sentii sincera preoccupazione nella sua voce, e ciò mi rinfrancò notevolmente.
«Si, tutto bene, solo un capogiro, ma adesso è passato. »Sorrisi sincero e questo la calmò.
«Ottimo, finisci il tuo pancake così poi possiamo tornare all’autobus . »disse Sally. Finii in pochi morsi quel che restava della mia colazione, poi mi alzai.
«Ehi dove stai andando? »mi disse, dato che non accennavo a dirigermi verso l’uscita del locale.
«Devo andare in bagno, se non ti dispiace. »Dissi, sbuffando.
«Oh certo che no, io allora torno in pullman, a dopo!>>
Che strana ragazza pensai, poi andai alla toilette. Uscendo, notai che la maggior parte dei miei compagni di viaggio erano già tornati all’autobus, quindi mi apprestai ad uscire.  Accolsi con gioia l’aria frizzante del mattino, quindi abbracciai con lo sguardo il cielo azzurro. Ero tornato.

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Capitolo 4
*** Memories - 2 Anni prima - ***


Tornato sull’autobus, il viaggio proseguì né più né meno come era iniziato. Lentamente, rudi, i pneumatici del vecchio pullman arrancavano sull’asfalto della superstrada. Benché Sally si fosse seduta vicino a me sin dalla prima fermata, non avevamo ancora scambiato praticamente una parola. Ero di cattivo umore. Guardando fuori dal finestrino potei ancora una volta scorgere il motivo del mio malumore. Stava per iniziare a piovere. Quantunque il cielo fosse ancora azzurro ad occidente, da oriente si intravedevano nuvole più scure, cariche di presagi nascosti, o almeno così mi parve allora. Avevo cercato di nascondere a chiunque il mio turbamento ma Sally l’aveva intuito istintivamente e perciò mi lasciò vagare nei miei ricordi senza interferire con il corso dei miei pensieri.  Io amavo la pioggia, una volta. Mi dava la sensazione di poter purificare il mondo da ogni sudiciume, nascosto o palese che fosse. Quando, da bambino, sentivo nell’aria la voce della pioggia mi tranquillizzavo. Era più forte di me. Ogni goccia scende velocemente, dall’alto verso il basso, in un moto inesauribile. Cadendo sul terreno si disperde, in un gioco multiforme che prosegue da miliardi di anni. E’ un pensiero confortante. Per quanto la vita sulla terra per un essere umano sia estremamente limitata vi sono meraviglie destinate a proseguire in eterno. Tuttavia presto avrei cambiato idea. Ogni singolo giorno una alla volta tutte le cose belle ci vengono portate via dal destino e più che si invecchia più si perde la capacità di provare meraviglia. Lo stupore cede il posto alla consuetudine, la felicità alla tristezza e poco a poco i ricordi gioiosi divengono sabbia e si frantumano nei meandri di una mente privata di ogni speranza. E’ inevitabile. Così come non si può fermare il corso inarrestabile del tempo, non è possibile impedire che questo renda la vita più detestabile di quanto noi stessi siamo disposti ad ammettere. Il giorno in cui morì mia madre pioveva. Fu un incidente banale, una di quelle tragedie che si possono leggere ogni giorno in un qualsiasi giornale locale. Talmente banale che chiunque, leggendo la triste notizia sul quotidiano, non ci avrebbe prestato la benché minima attenzione né avrebbe esitato a voltare pagina. Accadde in primavera, poco dopo la fioritura dei pruni. Io e mia madre eravamo in macchina. Le gocce di pioggia venivano scostate con dolcezza e solerzia dai tergicristalli della nostra Subaru di seconda mano. Per me era una giornata speciale. Dopo pochi giorni avrei compiuto il mio dodicesimo compleanno e stavamo andando in un centro commerciale a comprare un regalo adatto all’occasione. Come potete immaginare ero molto felice. Non credevo potesse accadere nulla, naturalmente, come spesso avviene in questi casi. Ricordo tutto con molta vividezza, ogni singolo particolare. Ricordo i senza tetto che cercavano inutilmente di ripararsi dalla pioggia primaverile fuori dal centro commerciale. Ricordo l’odore dolciastro e così terribilmente vivo dell’aria fresca . Ricordo che mia madre indossava un paio di jeans lunghi e una bellissima camicetta bianca, candida come la neve. E’ un’immagine che mi tormenta, come un incubo ricorrente. Non ci mettemmo molto a comprare il regalo. Sapevo già cosa desideravo, e lo avevo chiesto ai miei genitori mesi prima. Volevo un grazioso coltellino tascabile, di quelli svizzeri. Un piccolo gioiellino. Lo comprammo per trenta dollari. Io ero al settimo cielo, come lo poteva essere un ragazzino di dodici anni in compagnia della sua madre adorata. Non immaginavo nemmeno quanta disperazione e sofferenza mi avrebbe causato quel dannato dodicesimo compleanno. Ritornando a casa ci rilassammo. Chiacceravamo con tranquillità, spensierati. Un camion falciò via dalla mia vita ogni fonte di gioia. A causa della pioggia non aveva visto la nostra macchina, e l’impatto fu terribile. Io mi salvai per miracolo, praticamente illeso. Che ironia. Mi svegliai solo qualche minuto dopo l’incidente, all’interno della Subaru ridotta ad un rottame. Mi girai istintivamente, un groppo in gola. Il cuore percepisce prima il dolore rispetto alla mente. Il corpo di mia madre era spezzato. La magnifica camicetta bianca era zuppa di sangue, ma sul volto aveva ancora un ombra dell’antico sorriso. Era ancora viva, incredibilmente. Con mano tremante mi accarezzò il volto. Il mio cuore sembrava di piombo, in quel momento. Come se avesse voluto proteggermi dalla sofferenza inevitabile che di lì a poco avrei dovuto sperimentare. Mia madre spirò pochi minuti dopo. Le tenni la mano tutto il tempo, e la sentii diventare fredda. Sentivo la vita scivolare via dal suo corpo. E il sangue non ne voleva sapere di fermarsi. Il resto non desidero ricordarlo. Però cerco il più possibile di non dimenticare. Non voglio che anche lei, fra tutti coloro che hanno fatto parte della mia vita, diventi sabbia e si sgretoli. Eppure, anno dopo anno, è sempre più difficile ricordare il suo viso. I suoi capelli ramati sono già svaniti nell’oblio. Presto rimarrà solo la pioggia.

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Capitolo 5
*** Nightmare - ? - ***


Ero solo. E al buio. Ogni luce intorno a me sembrava spenta, e il freddo pavimento sul quale giacevo rannicchiato mi aveva instillato un gelo innaturale nelle membra. Aprii gli occhi. Non ero sull’autobus, e intorno a me non vi era anima viva. Mi guardai intorno, confuso.  Mi trovavo in una stanza abbandonata, decadente, forse un ufficio, in altri tempi. Non vi era alcuna mobilia, eccetto una vecchia scrivania, coperta di polvere. Dall’unica finestra proveniva una pallida luce, innaturale come il resto del luogo. Non era la luce del sole, né della luna, né delle stelle, ma qualcosa di completamente diverso. Rinuncia a definirla, inquieto, e mi voltai, alla ricerca di qualche indizio sulla natura del luogo e su come uscirne. Non c’era alcuna porta, solo un grande specchio, e sulla superficie riflettente spiccavano, terribili, delle macchie vermiglie, tracciate forse per formare qualche oscuro messaggio. Mi avvicinai, barcollante, il mio corpo era rigido, forse per la lunga immobilità e la posizione scomoda.
Da quanto tempo sono qui?  Mi chiesi.  Ma soprattutto come sono entrato? Come posso uscire?
Esaminai attentamente le scritte, vergate frettolosamente e con mano tremante…era sangue? In ogni caso non erano leggibili. Continuai ad osservare lo specchio. Al contrario del resto della mobilia sembrava nuovo…anzi, non dava impressione di far parte dell’arredamento. Come se fosse stato posto lì intenzionalmente, dopo. Ma dopo cosa? Improvvisamente attraverso il riflesso dello specchio, vidi con la coda dell’occhio uno strano movimento e sentii un fruscio di vesti. Spaventato mi voltai improvvisamente. Nella stanza ero solo. Ma sulla scrivania, prima assolutamente vuota, ora giaceva una piccola bambola di ceramica. La mia inquietudine ora rasentava la paura. La bambola, alta non più di 50 centimetri era seduta, con le piccole gambe a penzoloni sul vuoto e mi guardava. I suoi freddi occhi dipinti mi fissavano, implacabili come il destino. Era vestita sobriamente, al contrario delle molte bambole che siamo soliti vedere nei negozi per bambine, con un vestito blu notte strappato in più punti e una cuffia bianca ingiallita dall’età. Non potevo muovermi, anzi non lo volevo fare. La bambola sorrideva, con un espressione serafica e distante, ma tutto pareva un ostentata finzione. Freddo e crudele, si sollevò un vento innaturale, così forte e implacabile da far cadere sul pavimento di marmo la piccola bambola. Andò in frantumi. Poi, come se avesse assolto al suo compito, si placò, repentinamente così come si era levato. Un coccio del pupazzo rimbalzò sino ai miei piedi. Lo calciai via: non tolleravo nemmeno la sua presenza. Alzando lo sguardo, notai con stupore che dove prima non vi era nient’altro che un muro, ora si estendeva un lungo corridoio, così lungo da non poterne scorgere la fine. Restai impietrito, non sapevo cosa fare.  La paura mi assalì. Iniziai a correre, volevo allontanarmi il più possibile da quel luogo. Corsi per molto tempo, forse per ore, o più probabilmente per giorni interi, senza vedere la fine di quel terribile corridoio. Ormai non avrei potuto tornare indietro nemmeno volendo: una porta di legno, annerita, forse dal fumo di un incendio, si era chiusa dietro di me, rendendo obbligato il mio percorso. Un senso di impotenza si fece strada nella mia anima, come un tizzone ardente conficcato nel cuore da un dio scellerato. Poi iniziai a sentire passi alle mie spalle, e parole incomprensibili, versi e strofe di oscure canzoni che sarebbe stato meglio seppellire nell’oblio, mi venivano sussurrate nell’orecchio. Finalmente vidi la fine di quell’interminabile corsa: una porta, prima piccola e distante come una stella irraggiungibile, e poi sempre più vicina. La aprii, frenetico, e la chiusi dietro di me con la chiave che trovai infilata nella serratura. La stanza in cui mi trovavo era molto più grande, e buia. Capii in un soffio dove mi trovavo. Era la fabbrica di giocattoli di mio padre. Ma era irriconoscibile, consumata dal fuoco e dall’incuria, sugli scaffali impilati l’una sull’altra decine e decine di giochi per bambini abbandonati. Mi trovavo dunque nel magazzino. Poi sussultai, e inizia a tremare, incontrollato. Alle mie orecchie giungeva sempre più vicino il suono affilato di metallo che stride, trascinato sul pavimento. Non avevo modo di nascondermi, i passi sembravano ovunque. E finalmente una luce si accese, soffusa,  e scorsi davanti a me una figura familiare, vestita con un impermeabile rosso. Nella mano sinistra stringeva una pesante ascia, di quelle che si usano per tagliare la legna in montagna. Era Sally. Ma non sembrava nemmeno lei. Era molto più bella, tanto per cominciare, e la sua pelle riluceva di un candore infantile, in contrasto con le goccioline di sangue che le imperlavano il viso. Sembrava anche più vecchia. Non mi mossi nemmeno. Non osai respirare. Non osai parlare. Potevo solo attendere che la falce del dio si abbattesse su di me. Lei sorrise.

« Noah, svegliati »

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Capitolo 6
*** Mistakes and Insanity - 2 Anni prima - ***


«Noah, svegliati!»

Aprii gli occhi. Ero ancora in autobus, al sicuro. Vicino a me c’era Sally, visibilmente preoccupata e inquieta. Ne scansai lo sguardo indagatore, poi mi tasta la guancia.  Il mio volto era imperlato di sudore. Presi dallo zaino un fazzoletto, con cui mi asciugai il viso. Sally fece per toccarmi la fronte, ma io, per riflesso incondizionato, mi scostai bruscamente. Lei alzò un sopracciglio, ma non commentò. Mi sentii in colpa, in fin dei conti quel sogno non significava niente né lei poteva essere accusata di nulla, naturalmente.

«Scusami, è solo che… ho avuto un incubo»

Lei sorrise, comprensiva. Poi scosse lentamente la testa, e mi accarezzò il volto. Fu un gesto talmente gentile e pacificatore, nonché inaspettato, che riuscì nell’intento di farmi dimenticare l’incubo. Mi scrollai di dosso gli ultimi residui di inquietudine, poi notai che l’autobus era fermo. Sally mi diede un buffetto sulla guancia, poi disse, giuliva:

«Guarda che siamo arrivati, dormiglione. L’autista contando i passeggeri si è accorto che mancavi, così sono venuta a svegliarti. Dai, scendi. Ci stanno aspettando tutti.»

Io annuii, raccattando i miei pochi effetti. Scesi dall’autobus, mi scusai con l’autista per il disturbo, quindi mi guardai in giro. Ci trovavamo in una piazza piuttosto grande, il centro del piccolo paese in cui avrei iniziato la mia nuova vita: Greenville. Respirai a pieni polmoni l’aria fresca del tardo pomeriggio, notando che odorava ancora di pioggia. Ero libero, finalmente. Desideravo urlare questa effimera gioia al mondo intero, ma naturalmente mi trattenni. Mi incamminai per la strada, cercando di sembrare più anonimo possibile. Improvvisamente una mano mi afferrò la spalla, costringendomi a voltarmi. Era Sally.

«Ehi, forse non sarebbe il caso di chiedertelo, ma… cosa farai ora?»

Fui io stavolta ad alzare un sopracciglio, irritato. Cercai di non far trasparire il mio fastidio, ma non fu facile, perché la ragazza mi aveva rivolto la stessa identica domanda a cui io non avevo saputo rispondere: da quel momento in poi avrei dovuto improvvisare. Tuttavia non era certo il caso di dire una cosa del genere, quindi replicai:

«Andrò da mia madre. Abita a pochi chilometri da qui. E in ogni caso non ti riguarda, credo. Qui le nostre strade si dividono.»

La ragazza non fu da meno, e, sfoderando il più gelido dei sorrisi, rispose:

«Ne dubito seriamente. Se così fosse sarebbe venuta a prenderti, no? E poi non hai l’aspetto di una persona preparata ad un lungo viaggio o ad un trasloco. Sii sincero: sei scappato di casa, vero?»

Io strabuzzai gli occhi, sorpreso dall’acume della ragazza. Per un momento persi la bussola, mentre la mia risoluzione andava in pezzi. Se persino una prostituta di provincia riusciva a leggermi così facilmente dentro, come potevo sperare di cavarmela? Lentamente annuii.

«Si, è vero. Ma la sostanza non cambia. Non sono affari che ti riguardano. In qualche modo farò. A costo di dover rubare o prostituirmi io a casa non ci torno. Dovessi morire. Credo che cercherò un ostello, per il momento. Lì non dovrebbero fare troppe domande. Almeno per qualche giorno sono coperto.»

Sally sospirò, poi mi scompigliò i capelli.

«Parli con troppa leggerezza di cose che non capisci. Hai lasciato la sicurezza di una casa per cosa? Per finire in qualche bettola a prostituirti per vecchi bavosi? Lascia perdere. Piuttosto, che ne dici di venire a stare da me, almeno per un po’? Sarebbe certamente più confortevole che stare in un ostello. Non ti preoccupare, non voglio chiamare tua madre, o cose simili. Voglio solo aiutarti.»

Io riflettei seriamente sulla proposta. Ero stanco di calcolare i pro e i contro di ogni azione, macchinare e guardarmi le spalle. La mia vita da reietto era appena cominciata e già la mia anima cadeva in pezzi. Che sottile ironia. No… io in verità sono sempre stato come un cane randagio, abbandonato da tutti, e non potevo fare altro che abbaiare alla luna. Non c’era da meravigliarsi che fossi stanco e abbattuto. Per una volta, una singola stupida volta, volevo fidarmi di qualcuno.

«Va bene, Sally. Non so cosa ti spinga a fare tutto ciò, ma non posso che ringraziarti. Se fossi credente penserei alla provvidenza, o più pragmaticamente alla sorte. Fortunatamente la sanità mentale non mi ha ancora abbandonato del tutto.»

Sally si avvicinò, e sorrise con calore. Era quasi il crepuscolo e le ombre della città si allungavano sull’asfalto, come artigli maligni alla disperata ricerca di prede, implacabili eppure così eternamente fragili. La ragazza appoggiò nuovamente la mano sulla mia spalla, e mi parve di notare una lieve crepa nel suo sorriso, come se si fosse ricordata di qualcosa, poi disse, in un sussurro:

«E se il destino in realtà stesse dietro ad entrambe?»

Feci l’errore di crederle: la seguii.

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Capitolo 7
*** Hope - 2 anni prima - ***


«Eccoci. Vieni pure.»

Mi pulii i piedi sullo zerbino, ed entrai. La casa di Sally distava non più di cinquecento metri dalla stazione, al primo piano di una linda palazzina bianca. L’appartamento, composto da tre stanze, soggiorno con angolo cottura, bagno e camera da letto, era, nell’insieme, sobrio e funzionale. Onestamente se mi avessero detto che lì ci abitava una ragazza non ci avrei creduto. Inizialmente mi colpì la grande quantità di dipinti che occupavano praticamente ogni centimetro di parete. Erano quadri astratti di grande bellezza, ma l’impressione generale non era né di calore né armonia, a causa dei colori un po’ freddi e degli accostamenti particolari, quasi grotteschi. Nel soggiorno spiccava la presenza di un bel divano di pelle color ocra e di un grazioso tavolino di legno, posizionato davanti al divano. Alla sinistra del divano vi era un immensa libreria, colma di libri di ogni genere, a giudicare dalla copertina. Mi avvicinai immediatamente. Alcuni libri li conoscevo, altri no. Vi erano assai pochi libri di narrativa e la maggior parte dei testi rimanenti svisceravano gli argomenti più disparati: filosofia, arte moderna, medicina, storia giapponese classica erano gli argomenti più amati dalla ragazza, almeno apparentemente. Aggrottai le sopracciglia, sorpreso. Perché mai una semplice prostituta di provincia aveva simili interessi? Non ero sospettoso, beninteso, ma solo curioso. Sally sorrise. Aveva sicuramente intuito il corso dei miei pensieri, ma preferì non commentare. Poggiai a terra lo zaino, poi continuai ad osservare l’appartamento, incuriosito. L’angolo cottura era sorprendentemente spartano, ma ciononostante si capiva a prima vista che ogni singolo utensile era di discreta fattura, e questo contribuiva a delineare la figura di una ragazza sensibile, pragmatica ma allo stesso tempo erudita. Praticamente tutto il contrario della ragazza frivola e ingenua che mi ero dipinto nella mente. Questo naturalmente la rendeva più pericolosa. Non sapevo con certezza cosa l’aveva spinta ad aiutarmi e non mi fidavo certo delle sue parole. In ogni caso ero tutto fuorché in trappola. Fisicamente ero molto più forte di lei, e in caso di necessità avrei potuto andarmene. Lei non era in grado di impedirmelo. Ripetendomi quelle parole nella mente mi tranquillizzai. Sally stava preparando il tè, con gesti rapidi ed efficienti.  La stanchezza dovuta al viaggio soppresse momentaneamente la buona educazione e, senza chiedere alla padrona di casa, mi sedetti sul divano. La ragazza si voltò, e sorrise nuovamente. Lo faceva spesso, notai.

«Fai pure come se fossi a casa tua. Se lo desideri, puoi farti una doccia. Il bagno è in fondo a destra. Ti dispiace se faccio una telefonata? E’ importante. Ah, che qualità preferisci di tè? Io in genere prediligo il tè verde, ma se non è di tuo gradimento posso preparare qualcosa di diverso.»

Io risposi, vagamente sorpreso dalla domanda:

«Mi è indifferente. In realtà non ho mai amato il tè. Da piccolo lo bevevo, ma poi ho smesso. Dev’essere da qualche tempo che non lo assaggio. In ogni caso il tè verde va bene. Dal momento che sono semplicemente un ospite non è neppure necessario che tu mi chieda il permesso per telefonare, ma ti ringrazio della premura. Se non ti dispiace vorrei fare una doccia, il viaggio mi ha spossato.»

La ragazza annuì. Io presi un cambio di biancheria e un asciugamano, quindi mi diressi verso i servizi. Era un bagno piuttosto piccolo, ma funzionale come il resto della casa. Insomma, c’era tutto il necessario, ma niente di superfluo. Mi spogliai, quindi entrai nel box doccia. Accesa l’acqua non poi fare a meno di sospirare. Ero davvero stanco, e potermi rilassare così era veramente piacevole. Mi lavai coscienziosamente, senza fretta. Finita la doccia mi asciugai con l’asciugamano in fretta, e mi vestii. Misi la biancheria sporca in un sacchetto di plastica e uscii dal bagno, rinvigorito. Tornato in cucina notai che Sally non c’era. Sul tavolo però vi era una tazza di tè fumante. Evidentemente lei aveva già bevuto la sua tazza senza attendermi. Mi sedetti, e gustai con calma il gusto fresco  ed esotico della bevanda. Ero a metà della tazza quando Sally ritornò. La ragazza si sedette davanti a me, e mi guardò bere, senza dire una singola parola. Infastidito dal suo sguardo fisso non potei fare a meno di sbottare:

«Cosa c’è?»

«Nulla. Stavo solo cercando di capire cosa diamine può farci un ragazzo come te, pulito e di bell’aspetto, in un posto simile. Per di più sei fuggito di casa. Direi che è una storia che vale la pena di essere ascoltata, non credi?»

Io mi incupii. Capii immediatamente che il momento delle domande e delle risposte era infine arrivato. Lei finora si era dimostrata un’alleata. Mi aveva aiutato, dandomi un posto dove stare. Le dovevo un minimo di sincerità. Sospirai, poi iniziai a raccontare. Ci vollero circa venti minuti per riassumerle in breve la mia situazione. Lei non mi interruppe mai, limitandosi ad ascoltare. Poi mi chiese:

«Quindi, se non ho capito male, stai cercando tua sorella, tale Tracy, e nel frattempo fuggi dal fantasma di tua madre nonché dalla tua matrigna. Interessante. Certo che sei una persona particolare, a dir poco. Perché non potevi semplicemente stare a casa tua? Il mondo è un posto brutto, e non credo troverai la sicurezza, ora che sei da solo e senza conoscenti. Quello che vorrei dire è che dovrai costantemente fuggire e guardarti da chi ti starà già cercando. Non mi pare una vita semplice, per usare un eufemismo. Non voglio farti la morale, proprio io, ma almeno vorrei che fossi a conoscenza delle difficoltà del cammino che stai per percorrere.»

Feci un gesto di assenso.

«Lo so benissimo. Ma non sopportavo quella vita. Mia madre non è Miranda. Mio padre si è affrettato ad ufficializzare una situazione che già da tempo era realtà. Noi non siamo mai stati una vera famiglia. Il nostro centro era mia madre. Scomparsa lei non avevamo più motivo di stare insieme. Tutto qui.»

Sally sorrise, sorniona. Poi si alzò da tavola e mi guardò bene in faccia. Nel suo sguardo c’era qualcosa di diabolico. In quello stesso momento suonò il campanello. Sally schioccò le dita, e mi disse:

«Ah già. Forse non ti avevo avvertito, comunque avremo un ospite a cena. So che è una cosa un po’ improvvisa, ma è una persona che muore dalla voglia di vederti. Immagino che avrete molto da dirvi. Adesso la faccio entrare.»

Sally andò velocemente ad aprire la porta. Entrò in casa una donna dall’aspetto familiare, vestita con ricercatezza. Io non mossi un moscolo, sentendomi gelare. Poi sorrisi, cupo.

«Ciao, Noah.»

Davanti a me c’era Miranda. La mia fuga non era durata che dodici ore.

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Capitolo 8
*** No more lies -2 anni prima- ***


In quel momento non provai niente. Niente di niente. In realtà ora non ho difficoltà ad ammettere che in effetti mi aspettavo di essere scoperto relativamente presto, ma certo non credevo che la mia avventura finisse prima ancora di cominciare. Mi sentii andare in pezzi, mentre una per una tutte le azioni precedenti la partenza di quella mattina perdevano di significato. Forse Miranda sapeva già tutto ancora prima che realizzassi il desiderio di andarmene. In una parola sola era desolante. Naturalmente non esternai niente di tutto questo, ma finsi un impassibilità che certo in quel momento non avevo. Miranda si tolse il cappotto, una bellissima pelliccia, e la posò sul tavolino con noncuranza. Poi si sedette al tavolo, e finalmente mi rivolse di nuovo la parola.

«Sono felice di vedere che stai bene, non sai quanto mi hai fatto preoccupare. Tuo padre ed io avevamo previsto quest’eventualità, ma sappi che ci hai spezzato il cuore. Cosa avremmo fatto se avessimo perso anche te?»

Io non risposi, ma ne scansai lo sguardo, punto sul vivo. Ecco ciò che veramente odiavo di Miranda. Era una persona squisita, dai modi raffinati, e molto intelligente. Era anche piacente, di una bellezza algida e crudele. Per me era stata una madre adottiva ideale, premurosa ma oppressiva in egual misura. Ma le sue parole avevano il potere maligno di penetrare nelle crepe quotidiane della mia anima, come un veleno. Quella donna aveva il potere di ridurmi in suo potere con una sola parola. Persino mio padre era succube della sua malia. Sally non sapeva cosa dire, era evidentemente in imbarazzo. Per spezzare la tensione prese il cappotto dal tavolino e lo mise sull’attaccapanni poi annunciò, con eccessiva gaiezza:

«Avrete tutta la serata per parlare. Ma dubito che si possa intavolare una conversazione piacevole a stomaco vuoto. Purtroppo, essendo appena arrivati, non ho avuto il tempo di preparare piatti raffinati ma spero che possiate apprezzare comunque ciò che ho da offrirvi.»

Miranda fece un gesto conciliante con la mano, e notai che aveva cambiato smalto dall’ultima volta che l’avevo vista. Questo era rosso scarlatto, della stessa tonalità inquietante del rossetto. Mi domandai come poteva essersi vestita così per affrontare un viaggio. A questo punto sapevo benissimo come sarebbe andata: Miranda mi avrebbe spiegato con dovizia di particolari come il mio piano era stato frustrato in sole dodici ore e quale era la parte di Sally in tutta quella faccenda, poi saremmo tornati a casa. La prima parte delle mie intuizioni si verificò come da copione. Sally ci servì l’antipasto (tartine di salmone affumicato norvegese) e ci sedemmo per cenare. Io evitai ostinatamente di parlare. Fu Sally che prese per prima la parola.

«Noah, senti…mi dispiace di avere tradito la tua fiducia, ma credo sia meglio così. Una vita da ramingo non fa per te e sono convinta che potresti vivere molto più comodamente a casa tua con la tua famiglia. In fondo, se lo desideri, puoi sempre andartene a diciotto anni, dopo aver finito almeno la scuola. Miranda è una donna straordinaria, fidati di lei.»

Io la guardai con rabbia a stento repressa.

«Non mi pare di averti interpellata. Evita di parlare, e le mie orecchie potranno avere un po’ di sollievo. Se c’è una cosa che ho imparato è che non bisogna fidarsi del prossimo, di questo almeno ti ringrazio. Tuttavia, se non è troppo disturbo, vorrei sapere qual è il tuo rapporto con Miranda e come mai eri su quell’autobus. Stando così le cose dubito sia stato un caso e certo conoscevi Miranda prima di oggi, o non ne parleresti così.»

Sally annuì. Poi esitò. Vidi nei suoi occhi il dubbio. Non sapeva come rispondermi adeguatamente. Probabilmente non sapeva quanto fosse il caso di rivelare. Fu Miranda a toglierla dall’imbarazzo questa volta e così ebbi la certezza che stessero facendo fronte comune.

«In realtà penso di essere io la più adatta a illuminarti. Guardati in giro. Penso tu sia in grado di capire da solo qual è il rapporto fra me e Sally.»

Io inarcai un sopracciglio, ma feci come mi aveva detto. Osservai ancora una volta la casa di Sally, e con più attenzione. Mi ci volle appena un secondo per comprendere tutto. I quadri. I dannatissimi quadri. Li aveva fatti Sally. Miranda gestiva una galleria d’arte, vicino a casa nostra. Era lì che aveva incontrato per la prima volta mio padre. Non impiegai che pochi istanti per fare due più due. Sally aveva portato i quadri da Miranda per esporli, e lì l’aveva conosciuta. Ma naturalmente, anche se questo risolveva gran parte dei miei dubbi, non era ancora abbastanza.

«Mi sembra piuttosto riduttiva, come spiegazione” dissi, “questo non spiega ciò che voglio sapere. Eccellente. Sally è una pittrice, oltre che puttana e mentitrice di professione. Fantastico. Tanto a occhio e croce il talento non ce l’ha. Visto che siete evidentemente incapaci di dirmi ciò che desidero farò io le domande. Come facevi a sapere che avevo intenzione di andarmene? Come facevi a sapere non solo dove volevo andare ma con che mezzo? E Sally che c’entra? Sei solita chiedere ad ogni pittrice che passa per la tua bettola di badare al figliastro ribelle? Onestamente faccio fatica a crederlo.»

Vidi Sally fare una smorfia. Le mie parole l’avevano ferita… evidentemente anche io avevo imparato qualche trucchetto da Miranda. Quest’ultima non replicò, ma rispose puntuale ad ogni singola domanda.

«Intanto evita di parlare così di Sally, non se lo merita. Come credo tu sia riuscito a immaginare ho incontrato Sally quasi sei mesi fa, alla galleria d’arte. I suoi quadri sono meravigliosi. Ha talento, checché tu ne dica. Ma non è in buone condizioni economiche e per mantenersi e poter continuare a dipingere ha iniziato a prostituirsi. La sua storia mi ha commossa. Decisi di aiutarla, anche finanziariamente. Per quanto riguarda te non era difficile capire cosa avevi in mente. Hai iniziato a comportarti in modo strano sin dalla partenza di Tracy. Non potevamo perdere anche te, tuo padre sarebbe uscito di senno. Ho iniziato a farti seguire, con discrezione. Ho scoperto dove volevi andare e come attraverso gli uomini pagati per seguirti. Casualmente la tua destinazione era la stessa di Sally, così le ho chiesto di tenerti d’occhio per conto mio. Temevo abbandonassi il pullman a metà percorso, sarebbe stato molto più difficile rintracciarti. Fortunatamente hai peccato di ingenuità. In realtà non credevo che Sally sarebbe riuscita a tenerti bloccato fino al mio arrivo. Sembra quasi che tu abbia voluto fare di tutto per essere trovato…»

Io non riposi, ma capii uno per uno i miei errori. Mangiucchiai con calma l’ultima tartina. Sally, ancora senza parlare servì una zuppa fredda particolarmente gustosa. Finimmo di cenare in silenzio. Io tenevo ostinatamente lo sguardo sul piatto e finsi di essere da solo. Ad un certo punto, quando ormai la tavola era stata sparecchiata, trovai il coraggio di parlare:

«Allora? Non ho alcuna intenzione di prolungare questa farsa. Torniamo a casa. Non ho intenzione di rimanere ancora qui con questa donna. Visto che ormai la mia fuga è finita vorrei che finisse al più presto anche il viaggio di ritorno.»

Mi alzai da tavola e feci per prendere la borsa con i miei effetti. Miranda mi trattenne, sorridendo. Io la odiai per ogni sorriso falso che in tutti quegli anni mi aveva rivolto così spudoratamente. Ma evidentemente quella era la serata delle sorprese.

«Quando mai ho detto che tornerai a casa? Lungi da me obbligarti. Ne ho parlato con tuo padre e spero sarai felice del fatto che abbiamo raggiunto un accordo. Se lo desideri puoi restare qui e vivere la tua vita come meglio ti aggrada. Sei libero di fare ciò che vuoi. Ti chiediamo solo di rimanere rintracciabile e di non far perdere le tue tracce. Sarebbe sciocco, oltre che inutile.»

Io la fissai con tanto d’occhi. Poi scoppiai a ridere. Quando il momento imprevisto di ilarità fu trascorso ripresi il controllo di me stesso e commentai, acido:

«Mi pare un controsenso, Miranda. Tu mi hai fatto pedinare giorno e notte per scoprire dove vado e ora mi lasci andare? Che scherzo di pessimo gusto. Ti pare che possa credere ad una cosa del genere? Scappo di casa e tu mi raggiungi solo per darmi la tua benedizione, una pacca sulle spalle e un arrivederci prima di lasciarmi andare da solo per il vasto mondo?»

Il sorriso di Miranda si allargò notevolmente.

«Fraintendi di nuovo. Io ho detto che se lo desideri puoi restare qui. Con Sally. Nient’altro. Ti do la possibilità di allontanarti da casa per una pausa di riflessione, tutto qui. Pensi forse che sia stupida? Se ti lasciassi da solo spariresti e stavolta non mi sarebbe possibile rintracciarti. Così Sally ti sorveglierà per conto mio. Allora, che te ne pare? Non mi sembra male come compromesso, almeno per il momento. L’alternativa è tornare a casa ora. Scegli.»

Io digrignai i denti in una smorfia di rabbia. Dovetti capitolare. Evitando di guardare in faccia Sally, che pure era parte in causa tanto quanto me, risposi:

«Resto.»

Ancora una volta Miranda aveva vinto.

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