Mahogany Coffin

di csgiovanna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Where is Jane? ***
Capitolo 2: *** What's wrong with you? ***
Capitolo 3: *** Hidden truths ***
Capitolo 4: *** Truth will out ***
Capitolo 5: *** Waving the Magic Wand ***
Capitolo 6: *** A good friend is worth his weight in gold ***



Capitolo 1
*** Where is Jane? ***


Ciao a tutti/e dopo una lunga pausa, finalmente, ho avuto l'ispirazione per una nuova storia. Ed eccomi qui!! Ho cercato di rispettare la serie e i caratteri originali e spero di esserci riuscita. Si tratta di un tentativo di scrivere un ipotetico episodio 4x22bis! Spero vi piaccia.



Teresa avanzò velocemente verso l’ingresso del Sacramento Convention Center, un imponente e modernissimo edificio di acciaio e vetro situato nel cuore della città. Diede uno sguardo distratto allo striscione che campeggiava all’entrata, quindi lampeggiò il suo distintivo all’agente di sorveglianza ed entrò. Camminò nell’ampio androne semideserto senza esitazione, vide Cho all’ingresso di una delle sale conferenze e lo raggiunse.

«Boss» la salutò l’asiatico senza cambiare espressione, lei ricambiò con un cenno.

«Cosa abbiamo?» chiese poi avanzando decisa verso l’interno della sala riunioni.

Teresa diede uno sguardo al salone e rimase a bocca aperta. Al centro della stanza, distribuite su tre file, erano posizionate una trentina di casse scoperchiate in legno grezzo. Poco più in là era posizionato un piccolo palco con un leggio ed un manifesto a sfondo nero con lo slogan a caratteri cubitali dorati “Coffin Academy - For people ready to rebirth” . Difronte al palco c’era una tripla fila di poltroncine, mentre al centro della seconda fila di bare, alcuni tecnici della scientifica stavano eseguendo dei rilievi e scattando delle foto.

«Sul serio… è quello che sembra?» chiese dando a Cho uno sguardo perplesso.

«E’ una specie di terapia d’urto contro il suicidio… Si simula il proprio funerale per capire il vero valore della vita… i partecipanti vengono rinchiusi nelle bare per una decina di minuti…quando escono hanno abbandonato l’idea. In Korea e Giappone è molto di moda.»

Lisbon corrugò la fronte guardando preoccupata le casse poco distanti.

«Inquietante.»

«Già soprattutto se qualcuno muore davvero – aggiunse Rigsby che nel frattempo si era unito ai due - Samantha Greenwood, 38 anni, avvocato associato della R&G Company. Lei e i suoi colleghi - disse indicando un gruppetto di persone in un angolo della stanza - sono stati invitati a partecipare dalla sorella della vittima, Christine Greenwood.» concluse accennando alla bionda poco distante, scossa dai singhiozzi.

Lisbon guardò all’interno della bara e vide il corpo di una giovane donna, molto somigliante alla ragazza in lacrime: era immobile e con un sorriso sereno, quasi fosse semplicemente addormentata. Era avvolta in una veste gialla di tela leggera, vagamente orientale. La fissò tristemente e si ritrovò, suo malgrado, a paragonare quella sfortunata alla bella addormentata delle favole che sua madre le raccontava da bambina. Nessun principe azzurro sarebbe arrivato, questa volta, a risvegliarla. Sospirò.

«Causa della morte?» chiese poi sollevando lo sguardo dal corpo.

«Arresto cardiaco. La sorella però sostiene che non avesse alcun problema di cuore e che, anzi, fosse in ottima salute – intervenne Kimball – Sembra che al momento dell’iscrizione sia obbligatorio presentare un certificato medico. Il coroner ipotizza l’avvelenamento.»

«Raccogliete le testimonianze di tutti i presenti, compresi gli organizzatori di questo... meeting…» ordinò lei rapida ed efficiente.

«Ok Boss.» risposero i due agenti dirigendosi verso il gruppetto di persone poco distanti.

La donna tornò a guardare attentamente il corpo cercando qualche indizio, quindi osservò la stanza alla ricerca di qualcosa. Vide Van Pelt poco più in là raccogliere le testimonianze di alcuni uomini anch’essi vestiti con la stessa tunica chiara. I tecnici della scientifica continuavano a scattare foto.

«Avete visto Jane?» chiese inquieta avvicinandosi nuovamente al suo team.

Cho e Rigsby scossero la testa. Teresa si allontanò di qualche passo, sbuffò, quindi prese il cellulare e provò a chiamarlo.

 


 

Jane guardò il cellulare, sorrise e prese la chiamata.

«Buongiorno Lisbon. Qualcuno potrebbe pensare che hai una passione segreta per me…» disse sorridendo sornione.

«Ah ah…Divertente. Dove sei?» rispose sbrigativa e con tono seccato.

Jane sollevò gli occhi al cielo senza perdere il suo sorriso.

«Meh… ho avuto un piccolo contrattempo…» rispose vago.

«Un’altra ruota bucata?»

«Più o meno…»

«Sai Jane, dovresti seriamente pensare di cambiare auto. Muoviti abbiamo un nuovo caso!»

«Temo di averne per un po’ qui…»

«Niente storie. Prendi un taxi e vieni all’indirizzo che ti ho mandato. A quest’ora non dovresti impiegarci tanto. Ho bisogno di te sulla scena.»

Jane sospirò, si mosse un po’ a disagio sulla sedia dov’era seduto. Stava per risponderle quando una giovane donna con un camice bianco gli venne incontro sorridente.

«Mr Jane?»

«Devo andare. Vi raggiungerò appena possibile.» chiuse la chiamata mentre Lisbon dall’altra parte stava continuando a parlare.

Sorrise alla donna e si alzò dalla poltroncina.

«Mi segua, ci vorranno solo pochi minuti...»

 


 

Lisbon guardò il suo cellulare a bocca aperta. Le aveva sbattuto il telefono in faccia? Sbuffò irritata. Cho e Rigsby si scambiarono un rapido sguardo, ma non osarono dire nulla. Teresa ripose in tasca il cellulare e si avvicinò ai testimoni. Era seccata e preoccupata. Perché aveva la sensazione che Jane le stesse nascondendo qualcosa? Non che fosse una grande novità, in realtà lui lo faceva tutto il tempo, ma nell’ultimo anno erano stati molto più vicini, tanto che aveva confidato solo a lei la verità su Timothy Carter e i sospetti dell’agente Darcy sul suo rapporto con Red John, così si era illusa che lui non avesse più alcun motivo per nasconderle qualcosa. Si diede della paranoica, magari era veramente bloccato da qualche parte, per colpa di quel catorcio che lui si ostinava a chiamare auto.

Sospirò quindi si avvicinò a Van Pelt e alla donna orientale seduta davanti a lei. Una bella cinquantenne con profondi occhi scuri e lunghi capelli color ebano raccolti in una complicata acconciatura sulla nuca. Indossava un hanbok, l’abito tradizionale coreano, in un luminoso raso blu e rosa. Era impossibile non rimanerne affascinati. Era decisamente una bella donna, anche se non più giovanissima.

«Ehi Boss. La signora Hea Woo Chung è la fondatrice dell’Accademia.»

«Salve sono l’agente Teresa Lisbon…» si presentò allungando una mano.

La donna la strinse con delicatezza e rispose con un sorriso incerto.

«E’ una tragedia…Cosa può essere successo?» chiese con voce tremante ed un evidente accento coreano.

«Siamo qui per scoprirlo, Signora Chung - rispose cercando di rassicurarla – conosceva la vittima?»

La donna annuì.

«Si certo, Samantha Greenwood è uno dei finanziatori del nostro centro. Una benefattrice per noi… Sa, abbiamo avuto qualche difficoltà economica recentemente… E’ stata sua sorella Christine a presentarcela e a convincerla ad aiutarci. Christine ha frequentato altri seminari in passato e ci ha dato una mano con l’organizzazione di questo evento. E’ una ragazza molto dolce…Povera cara…» disse spostando lo sguardo sulla giovane donna intenta a rispondere alle domande di Rigsby.

Anche Lisbon si voltò a guardarla, quindi tornò a parlare con Mrs Chung. «Qualcuno di non autorizzato è entrato nella sala o vi siete allontanati per qualche ragione?» chiese indicando l’ambiente circostante.

«No. All’interno della sala eravamo presenti solo io, Christine e i miei due collaboratori, Kim e Shin. Posso assicurarle che nessuno è entrato o uscito da qui.»

Lisbon cercò di studiare il volto della donna alla ricerca di qualche segno di menzogna o colpevolezza. L’asiatica la fissava dritto negli occhi senza esitazione.

«Il rito si è svolto come sempre. – continuò - Dopo la scrittura delle loro lettere d’addio e la condivisione con gli altri, uno alla volta sono entrati nelle casse e abbiamo proceduto all’inchiodatura. Christine si è occupata della cassa della sorella personalmente.»

Lisbon fece una nota mentale di quanto la donna le aveva appena detto.

«Avete somministrato qualcosa ai partecipanti?»

«Cosa vuol dire?» la guardò incerta.

«Cibo, bevande o droghe, forse?»

La signora Chung la fissò a bocca aperta.

«Una donna apparentemente sana muore misteriosamente dopo un rito, per così dire, poco ortodosso…» spiegò Teresa piuttosto seccata.

Van Pelt la guardò incuriosita. Teresa si morse il labbro, era stranamente aggressiva oggi, quella poteva essere una tipica frase di Jane, non sua. Imprecò tra sé, maledicendo il suo consulente che la faceva impazzire anche senza essere presente.

«Mi scusi… - disse poi – non volevo mancarle di rispetto, ma semplicemente capire cosa può essere successo.»

Hea Woo Chung annuì.

«Capisco il suo scetticismo. Non è la prima persona a mettere in dubbio la nostra buona fede. – Lisbon sollevò un sopracciglio, ma non la interruppe - Comunque no, non viene servito nulla prima del rito. Solo alla fine viene offerto un banchetto per festeggiare la ritrovata voglia di vivere.»

«Signora Chung, quando parlava di scetticismo si riferiva a qualcuno in particolare? C’è qualcuno che potrebbe avercela con lei e la sua accademia?»

Lei distolse lo sguardo, quindi scosse vigorosamente la testa.

«No. Non intendevo questo…»

«Signora Chung - Teresa la fissò intensamente – avete ricevuto delle minacce?»

«Non tutti sono stati contenti della nostra iniziativa… diciamo così - balbettò – Però non arriverebbero a tanto!»

«Lasci giudicare a noi - commentò Grace, che fino ad allora era rimasta in silenzio – Chi vi ha minacciato?»

La donna si lasciò sfuggire un singhiozzo.

«Abbiamo ricevuto qualche lettera minatoria. Hanno rotto un paio di vetri nella nostra sede. Ma non sappiamo chi siano i responsabili e non v’abbiamo mai dato troppo peso. Io avevo pensato di andare alla polizia, ma mio marito credeva fosse semplicemente una bravata. Non è mai successo nulla di grave…»

«Fino ad oggi. Dobbiamo parlare con suo marito…» Lisbon scambiò un rapido sguardo con Grace che annuì.

«Certo. E’ fuori città per affari, ma vi metterò immediatamente in contatto con lui.»

Van Pelt prese nota. Lisbon si allontanò dalle due donne. Aveva la sensazione che sarebbe stato un caso complicato e lungo. Se almeno Jane fosse stato lì.

«Dannazione Jane.» sbottò sottovoce, controllando per l’ennesima volta il suo cellulare.

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Capitolo 2
*** What's wrong with you? ***


Eccomi con il secondo capitolo (un po' più lungo del precedente) e finalmente arriva il nostro eroe! ;-) Spero vi piaccia e se avete voglia lasciate una recensione, mi fa sempre piacere conoscere le vostre opinioni. 

 




Novanta minuti ed una trentina di interrogatori più tardi, un taxi si fermò davanti al centro congressi ed uno stanco e scarmigliato Jane scese dal veicolo, allungò alcune banconote all’autista e si avviò verso l’ingresso. Indossava il suo completo tre pezzi gessato, ma la giacca era semplicemente appoggiata sulle spalle. Un tutore, che teneva immobile il braccio sinistro, spuntava da sotto il doppiopetto.

Jane sbuffò, prese il flacone di antidolorifici che gli avevano prescritto in ospedale, ne inghiottì uno, quindi decise di sbarazzarsi del tutore infilandolo nella tasca della giacca. Trasalì per il dolore, ma non si fermò: non aveva tempo, né voglia di dare spiegazioni. Si sentiva piuttosto sciocco in quel momento, oltre che dolorante. Fece mentalmente il conto della sua situazione medica: un paio di costole incrinate, una leggera contusione alla spalla e diversi tagli al braccio sinistro. Sembrava un bollettino di guerra. Ridacchiò tra sé, quindi, con le mani in tasca, avanzò verso il nastro della polizia che delimitava l’ingresso. Mostrò il suo badge all’agente che lo salutò con un cenno, quindi entrò nella hall pressoché deserta. Si mise subito a studiare l’ambiente con attenzione, una porta si aprì davanti a lui ed un paio di uomini uscirono con una barella e il corpo della presunta vittima all’interno di un sacco nero.

«Ehi, state portando via il corpo? Potete aprire il sacco? Dovrei dare un ‘occhiata.»

Patrick mostrò il suo badge e i due uomini si fermarono, si scambiarono uno sguardo dubbioso, quindi il più alto dei due aprì il sacco. Jane studiò la giovane donna: il volto pallido, le labbra perfettamente truccate piegate in un sorriso sereno, i lunghi capelli biondi appena tagliati e tinti, le unghie perfettamente laccate e curate. Non indossava anelli, ma solo un paio di orecchini con brillanti veri. Sotto una tunica gialla orientaleggiante, si intravvedeva un vestito a sottoveste blu elettrico. Si chinò verso il corpo e l’annusò, prese un fazzoletto dalla sua tasca e scostò i lunghi capelli, notò un piccolo e vezzoso tatuaggio sulla clavicola destra vicino alla spalla: una semplice scritta a caratteri orientali. Era stato fatto da poco, la pelle intorno era ancora irritata. Jane ringraziò i due uomini, quindi si diresse dentro alla sala conferenze.

Il consulente piegò la testa di lato incuriosito dalla scena. Una ventina di bare erano distribuite con regolarità nella stanza, gli uomini della scientifica stavano finendo di impacchettare quella che, ipotizzò Jane, doveva aver ospitato la vittima.

«Ehi Jane.» Van Pelt lo raggiunse alle spalle.

«Buongiorno Grace.» le rispose voltandosi appena, tornando rapidamente ad osservare la scena davanti a sé.

«Lisbon è già tornata al CBI con Cho e Rigsby. Era piuttosto arrabbiata – lo informò la rossa studiandone la reazione – Sei sicuro di stare bene? Hai un aspetto orribile.»

Jane sorrise «Mai stato meglio, Grace. – le rispose spostandosi verso la cassa e i tecnici del CSI. – Mai stato meglio.»

Lei si strinse nelle spalle borbottando qualcosa, seguì con lo sguardo il biondo consulente che si avvicinò alla bara, scambiò due parole con gli uomini della scientifica e, come di consueto, iniziò la sua analisi meticolosa: scrutò con calma l’esterno e l’interno della cassa, quindi l’annusò, infine passò agli effetti personali della vittima. Frugò con calma nella borsa, controllando il portafogli e il resto del contenuto. Grace corrugò la fronte, era la sua immaginazione o Jane si muoveva in modo strano? Dopo aver controllato altre tre casse nelle vicinanze e perlustrato il resto della sala, Jane tornò verso Van Pelt. Camminava lentamente, con le mani in tasca.

«Trovato qualcosa?» chiese lei quando la raggiunse.

«Uhm… avrei preferito vedere la scena del crimine intatta.» si lamentò come se il ritardo non fosse dipeso da lui.

Grace sorrise e scosse la testa, in quel momento fu felice che Lisbon fosse già rientrata al quartier generale. Probabilmente gli avrebbe sparato se lo avesse sentito.

«Meh… non esageriamo, avrebbe roteato gli occhi e abbaiato un rimprovero, ma non mi avrebbe sparato.» commentò lui come se le avesse letto nel pensiero.

«Non ci scommetterei. Hai finito qui? – Patrick annuì, quindi la rossa si diresse verso l’uscita, accortasi che Jane non la seguiva si fermò e si voltò verso di lui spazientita – muoviti se vuoi un passaggio.»

«Ci fermiamo da Marie’s?» chiese il biondo con uno sguardo implorante.

«Non c’è tempo. E poi non è sulla strada.»

«Lo sai Grace, la colazione è il pasto più importante della giornata, è al mattino che il nostro corpo si mette in moto… Saltare la colazione può portare a seri danni a lungo andare.» spiegò con tono pseudo scientifico, lisciando il panciotto con la mano destra.

Van Pelt lo guardò di sbieco con un sorrisetto divertito. «Certo, come no - poi ridacchiando - A volte sei peggio di Wayne.»

Jane fece una smorfia, quindi le sorrise. I due uscirono dalla sala.

«Posso guidare?» chiese poi faticando a tenere il passo.

La rossa alzò gli occhi al cielo senza rispondere.

 


 

Teresa, Rigsby e Cho sedevano intorno al tavolo nel bullpen analizzando i dati al momento disponibili: fascicoli e blocchi degli appunti insieme ad alcune foto della vittima erano distribuiti sul piano di lavoro. Lisbon muoveva nervosamente la penna tra le dita e, di tanto in tanto, lanciava sguardi furtivi verso l’entrata. Jane e Van Pelt fecero il loro ingresso e i tre si voltarono a guardarli. Kimball e Waybe si scambiarono uno sguardo di sottecchi.

«Oh…Finalmente ti sei degnato di unirti a noi.» l’apostrofò Lisbon, con tono aspro e quasi senza guardarlo.

«Buongiorno Lisbon, anch’io sono felice di vederti. – esclamò Patrick con un ampio sorriso. Mani in tasca, si dondolava sui tacchi e la fissava con un sorriso impertinente sulle labbra. Poi rivolgendosi a Van Pelt – ti avevo detto di fermarti da Marie’s per comprare qualche ciambella.»

Van Pelt non rispose, si limitò a sedere accanto a Cho, mentre Lisbon lo guardò stizzita bofonchiando una specie di rimprovero. Sollevò lo sguardo verso di lui e iniziò ad osservarlo in silenzio, imbronciata. Il volto del consulente dietro al suo solito sorriso malizioso, notò Teresa, sembrava stanco e tirato più del solito.

«Cosa ne pensi?» chiese poi distogliendo lo sguardo e indicando le foto della scena del crimine.

«Meh…era una donna ambiziosa e determinata, meticolosa, quasi maniacale direi, ma le piaceva trasgredire le regole, talvolta. Era ricca e potente, ma non le piaceva ostentare troppo la sua ricchezza. Dimostrava il suo potere in altri modi… Non aveva un buon rapporto con la sorella minore, ma le voleva bene nonostante la considerasse una fallita.».

Rigsby, Van Pelt e Cho lo guardarono sorpresi, non si sarebbero mai abituati ai suoi metodi, neanche dopo anni di lavoro fianco a fianco. Teresa, invece, corrugò la fronte e guardò Van Pelt, che scosse la testa e si strinse nelle spalle. Jane sorrideva compiaciuto.

«Sono felice che le informazioni raccolte da Rigsby e Van Pelt ti siano state utili.» commentò acida.

Jane corrugò la fronte un po’ deluso. Si mise ad osservare le prove raccolte ed imbustate distribuite sul tavolo. Una busta di plastica con all’interno la lettera d’addio scritta a mano dalla vittima prima della cerimonia attirò la sua attenzione. Lisbon lo guardò mentre la leggeva assorto.

«Oh dimenticavo… - aggiunse senza alzare lo sguardo dalla lettera - Non era fidanzata, ma aveva una relazione, probabilmente clandestina.»

«Rigsby abbiamo novità sulla causa della morte?» chiese Lisbon, ignorando volutamente l’ultima osservazione del consulente.

Wayne tossicchiò nel tentativo di nascondere una risatina, quindi scosse la testa. «No, il medico legale sta ancora analizzando il corpo. Non siamo ancora sicuri che si tratti nemmeno di un omicidio.»

«Oh lo è sicuramente.» disse Jane muovendosi verso il suo divano.

«Come puoi esserne sicuro?» chiese Van Pelt.

«Non credo nelle coincidenze.»

«Purtroppo ho la stessa sensazione anch’io - ammise Teresa – Jane…»

Il consulente si fermò, voltandosi appena verso la bruna.

«Non avevamo finito qui…– puntualizzò seccata – sta per arrivare Richard Sullivan, marito di Hea Woo Chung e cofondatore della Coffin Academy, per parlarci delle minacce ricevute. Magari sarebbe utile che ci fossi anche tu.»

«Sono sicuro che ve la caverete benissimo senza il mio aiuto.» disse, quindi proseguì verso il divano.

Lisbon lo fissò perplessa. Che diavolo aveva oggi? Si morse il labbro inferiore.

«Ok. Cho pensaci tu.»

L’asiatico annuì e si alzò.

«Rigsby, Van Pelt, voi due sentite la sorella e i colleghi per verificare se aveva veramente una storia con qualcuno. Voglio scoprire con chi. Cho, prima dell’interrogatorio contatta il medico della Greenwood e verifica le sue condizioni di salute, magari aveva qualche problema fisico che ha tenuto nascosto.»

«Certo.» risposero in coro.

I tre uscirono subito dal bullpen. Lisbon, invece, non si mosse, rimase seduta al tavolo, pensierosa, guardando Jane che nel frattempo si era disteso sul suo divano. Diversamente dal solito non si era nemmeno tolto la giacca. Se ne stava disteso, quasi immobile, con gli occhi chiusi. Teresa cercò di distrarsi sistemando i fascicoli del caso, poi spazientita si alzò di scatto, si diresse decisa verso il divano. Si bloccò a pochi passi da lui.

«Cosa posso fare per te, Lisbon?» chiese senza nemmeno aprire gli occhi.

«Cosa c’è che non va?»

«Non capisco. Cosa c’è che non va, dove?»

«Jane…»

«Lisbon…»

Lei diede un calcio al divano innervosita, lui soffocò a stento un lamento. Aprì gli occhi e la fissò con aria innocente.

«Non prendermi in giro. Arrivi in ritardo su una scena del crimine senza darmi spiegazioni, mi sbatti il telefono in faccia ed ora non vuoi nemmeno interrogare un testimone. Cosa c’è di sbagliato in te?»

«E tutto a posto. Ho avuto solo una mattinata complicata.» si limitò a dire guardandola negli occhi.

Lei rimase a fissarlo in silenzio per qualche istante, poi distolse lo sguardo. Era preoccupata.

«Non hai chiuso occhio, è così?»

«Mai sentito parlare di sonno polifasico? Leonardo da Vinci alternava 4 ore di veglia a un periodo di 20 minuti ad occhi chiusi, il che lo portava ad un totale di 120 minuti di riposo, lasciandogli ben 22 ore da impiegare per attività produttive.»

«Jane…»

«Stavo giusto cercando di avere i miei 20 minuti proprio adesso.» la rimproverò lui tornando a chiudere gli occhi.

«Buon riposo, allora!» rispose piccata e un po’ delusa, quindi si allontanò rifugiandosi nel suo ufficio.

Jane sorrise affettuosamente. Poteva urlargli contro quanto voleva, ma era certo che quello era il modo in cui Teresa Lisbon mostrava la sua preoccupazione per lui. Sospirò, per questo non voleva dirle cos’era successo. Non subito almeno. Trattenne il respiro quando, spostandosi sul divano, le costole gli ricordarono l’avventura della sera precedente. Aveva bisogno di riposare, si sentiva come se lo avesse investito un tir. Oltre alle costole, anche il braccio sinistro aveva cominciato pulsare sotto la fasciatura, inoltre faticava a muovere la mano e le punte delle dita erano indolenzite. Gli antidolorifici non sembravano ancora aver fatto il loro effetto, forse un po’ di riposo lo avrebbe aiutato.

 


 

Van Pelt e Rigsby arrivarono alla villetta di Christine Greenwood nella periferia nord di Sacramento. Wayne parcheggiò lungo il viale a qualche metro dall’abitazione e i due scesero dal SUV camminando fianco a fianco.

«Bel quartiere… - commentò Rigsby dando un’occhiata alle numerose casette con giardino – Ehi volevo comprarne uno uguale a Ben» affermò poi vedendo un triciclo in plastica colorata parcheggiato nel vialetto del vicino.

«Per i suoi 18 anni?- scherzò Van Pelt – Non ti sembra un po’ presto, ha solo pochi mesi!»

Rigsby ridacchiò imbarazzato.

«Lo so, ma cresce così in fretta!»

L’abitazione su due piani era modesta, ma aveva un piccolo giardino ben curato sul davanti, dove era parcheggiata una vecchia moto scassata. La donna era seduta sotto il portico e appena li vide si alzò e gli si fece incontro.

«Qualche novità?» chiese ansiosa. Aveva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda disordinata, indossava una blusa verde con decori viola a motivi orientali ed un paio di jeans a zampa, leggermente consunti.

Grace e Wayne si scambiarono uno sguardo imbarazzato.

«Stiamo seguendo alcune piste. – rispose Van Pelt tenendosi sul vago – siamo qui per raccogliere informazioni su sua sorella. In modo da capire chi potesse volerle fare del male.»

«Allora è stata uccisa.» affermò la donna abbassando lo sguardo.

«Non ne siamo sicuri, ancora.» intervenne Rigsby.

La bionda annuì, si lasciò sfuggire un singhiozzo, quindi asciugandosi velocemente una lacrima con il dorso della mano fece cenno ai due di entrare in casa.

L’interno dell’abitazione era semplice ed ordinato, arredato con mobili chiari molto lineari e pochi oggetti etnici: alcune lampade africane, dei batik indonesiani alle pareti e degli incensi accesi qua e là. I tre si sedettero al tavolo della cucina. Christine mise il bollitore sul fuoco.

«Volete un tè o un caffè?»

I due agenti scossero la testa. Lei si sedette sul bordo della sedia, di tanto in tanto si riavviava i capelli dietro l’orecchio nervosamente.

«Signora Greenwood, sua sorella aveva dei nemici, qualcuno poteva volerle fare del male?»

Christine si lasciò sfuggire una risatina, alzò lo sguardo verso i due agenti che la fissavano perplessi.

«Forse faremo prima ad elencare chi le voleva bene.- disse sarcastica – Non fraintendetemi. Amavo mia sorella, ma non era esattamente un angelo.»

Van Pelt annuì pensando alle testimonianze raccolte, poco prima, tra i suoi colleghi d’ufficio. Samantha Greenwood era un’arrivista, tutt’altro che benvoluta.

«Lei ha… - fece una pausa – lei aveva un modo diverso di vedere la vita. E Dio mi è testimone, quante volte abbiamo litigato per questo. – sorrise quasi con tenerezza al ricordo - Non condivideva il mio modo di vivere. Io amo viaggiare, tutti i soldi che guadagno li spendo in viaggi. Ma ci volevamo bene… a modo nostro ci volevamo bene.» concluse con un sospiro.

«Aveva un fidanzato, una relazione con qualcuno?» chiese la rossa.

«No. Non mi risulta. Era troppo impegnata con il lavoro… E poi lei non mi raccontava queste cose… non mi raccontava nulla, in realtà. Se anche avesse avuto una relazione, sarei stata l’ultima ad averlo saputo.»

«Nessun regalo speciale. Nessun comportamento strano?» incalzò Van Pelt.

Christine sorrise e scosse la testa.

«Samantha era la tipica donna in carriera, agente. Il lavoro era il suo amante.»

 


 

L’interrogatorio di Richard Sullivan, un affascinante cinquantenne con capelli appena spruzzati di grigio sulle tempie e vivaci occhi azzurri, era iniziato da una decina di minuti, Teresa stava osservando le sue reazioni alle domande di Cho da dietro il vetro, quando la porta si aprì e Patrick Jane fece il suo ingresso con la sua immancabile tazza azzurra in mano.

Teresa lo fissò con gli angoli della bocca leggermente piegati in un sorriso soddisfatto. Alla fine aveva ottenuto la sua presenza all’interrogatorio. Lo osservò un attimo, aveva un aspetto ancor peggiore di qualche ora prima, i capelli erano scompigliati e adesso aveva due profonde occhiaie scure sotto gli occhi azzurri.

«Wow, il sonno polifasico fa davvero miracoli.» commentò sarcastica.

«Uhm…Sarcasmo…sai Lisbon, il sarcasmo è - osservò Jane.

«…è la forma più bassa d’arguzia. Lo so» concluse lei con un sorriso.

«L’allieva supera il maestro…» aggiunse sorridendo.

Si scambiarono uno sguardo divertito, quindi Teresa tornò ad ascoltare Cho e Sullivan, mentre Jane si accomodò accanto a lei. Un sorriso increspava appena le sue labbra. Il consulente si muoveva con cautela, cercando di evitare di fare movimenti bruschi, Teresa parve non notarlo.

«Perché non avete denunciato alla polizia gli atti di vandalismo?» chiese Cho dall’altra parte.

«Per qualche vetro rotto, un paio di scritte sui muri e delle lettere vagamente minatorie dovevamo chiamare la polizia? Speravamo che con il tempo avrebbero rinunciato.»

Cho prese nota, ma non disse nulla. Sullivan si mosse a disagio sulla sedia.

«Perché pensate che la morte di Samantha sia collegata alle minacce che abbiamo ricevuto?»

«La vittima è morta avvelenata.» spiegò Cho asciutto.

«Oh.»

«Uhm… - commentò Jane – il signor Sullivan, non pare dispiaciuto per la morte della vittima, sembra quasi sollevato.»

Teresa lo osservò interessata. Dall’altra parte del vetro Cho sembrò sentire il suggerimento di Jane.

«Non sembra sconvolto, anzi….» commentò l’asiatico senza alcuna emozione.

Patrick sorrise soddisfatto, mentre Teresa sospirò rumorosamente, quasi infastidita.

«Come scusi?- rispose spaventato l’uomo – No, no… Si sbaglia.»

Cho lo fissò senza aggiungere altro.

Sullivan sospirò «Ecco…io – balbettò - Senta…Se Samantha…se la signorina Greenwood, fosse morta per una nostra negligenza allora, ecco… sarebbe piuttosto complicato per noi… ma se è stata uccisa…uhm… non mi fraintenda...»

«Business.» commentò Cho continuando a scrivere.

«Si, giusto. Lei mi capisce, no?» l’uomo sorrise impacciato.

«No.»

Sullivan impallidì.

«Ma… - tossì in difficoltà – ma, questo non significa che sia felice che sia morta.»

«Certo.» commentò l’asiatico chiudendo il fascicolo e uscendo dalla stanza.

L’uomo lo guardò andarsene con gli occhi sgranati, quindi abbassò la testa preoccupato.

«Credi che sia coinvolto?» domandò Teresa.

Jane prese un sorso del suo tè.

«Nasconde qualcosa? Si… Ha ucciso Samantha Greenwood? No, non lo credo. C’è sollievo nel suo sguardo, ma non senso di colpa.»

Teresa annuì «In ogni caso non avremmo nessuno straccio di prova per trattenerlo.»

«Il veleno è stato trovato?»

Lisbon sospirò «Qui viene il bello. La nostra vittima è stata sicuramente avvelenata. Il coroner ha trovato nel sangue un cocktail di sostanze chimiche sconosciute, con una composizione molto simile alla tetradotossina, ma non abbiamo idea di come l’abbia assunto. Non c’è nulla nello stomaco, niente di niente.»

«Interessante. Sai ad Haiti il veleno proveniente dai pesci palla veniva usato dagli stregoni nei loro rituali vudù.»

«Uhm, ci mancherebbero solo i riti vudù adesso. Questa accademia non è già abbastanza inquietante?»

«Oh andiamo Lisbon, cosa c’è di inquietante nel sperimentare in anticipo come sarà davvero l’ultimo istante, l’ultimo e fatale respiro.» sussurrò teatralmente con un lieve sorriso sulle labbra.

«Ah ah…Spiritoso.»

«Hanno controllato i chiodi? – chiese il consulente - Basta un puntura di uno spillo perché la tetradotossina sia fatale.»

«La scientifica non ha trovato nulla di strano a parte un po’ di resina e dell’antisettico. Qualche altra idea?»

Prima che Jane potesse risponderle la porta si aprì e Van Pelt entrò trafelata.

«Capo, è scoppiato un incendio presso la sede della Coffin Academy!»

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Capitolo 3
*** Hidden truths ***


Terzo capitoletto: nuovi indizi per capire chi si cela dietro l'omicidio di Samantha Greenwood e qualche particolare in più sullo stato di Jane... Spero vi piaccia. Ringrazio tutti per le recensioni!!




Rigsby diede uno sguardo alla stanza cercando il punto d’origine ed eventuali segni di accelerante. Dopo alcuni minuti, raggiunse la squadra.

«E’ sicuramente doloso.- dichiarò – Ci sono tre punti d’origine diversi. E poi ho trovato questo.» disse allungando una busta con all'interno i resti di una bandana con uno stemma ormai illeggibile.

«Sembra non appartenere a nessuno dell'accademia» aggiunse.

Teresa sospirò. La faccenda si stava complicando.

«Ok vedi di capire a chi appartiene – poi rivolgendosi a uno degli assistenti di Hea Woo Chung - Cosa c’era in questa stanza?»

«La nostra sala tattoo. Tutti i macchinari sono andati distrutti! E ora la signora Chung è all’ospedale. E’ la rovina.» si lamentò il giovane coreano.

«Un cliente insoddisfatto?» commentò ironicamente il consulente dando un’occhiata all’interno.

Era andato tutto bruciato. Di arredi ed attrezzature restava ben poco ormai: le pareti erano nere fino a quasi il soffitto e c’era un odore pungente che penetrava nelle narici e bruciava la gola.

Jane cominciò a tossire, ad ogni colpo di tosse sentiva delle fitte tremende al petto, anche se cercava di trattenersi non riusciva a fermarsi. Teresa si voltò verso il consulente allarmata. Lui si precipitò fuori dalla stanza. Van Pelt e Rigsby si scambiarono uno sguardo preoccupato.

Fuori dall’edificio Jane si appoggiò con la schiena ad una colonna e tentò di respirare lentamente. Gocce di sudore imperlavano la fronte e il labbro superiore. Le fitte continuavano ancora, ma almeno era riuscito a fermare la tosse. Imprecò tra sé, aveva la nausea e la spiacevole sensazione di vertigine, come se stesse per svenire o vomitare. Sentiva le gambe molli, sul punto di cedere. Poggiò la testa all’indietro e prese un respiro lento e profondo.

«Jane…» la voce di Lisbon lo fece trasalire.

Si voltò appena verso di lei.

«Stai bene?»

«Certo. Avevo solo bisogno di un po’ d’aria fresca.» si staccò dalla colonna con disinvoltura, cercando di celare il malessere che ancora lo rendeva instabile sulle gambe.

Lei lo fissò seria, cercando di capire se le stesse raccontando una delle sue solite bugie. Toccò con la mano il suo braccio, come per sorreggerlo. Jane le sorrise, fece per allontanarsi, ma le gambe lo tradirono e si dovette appoggiare su di lei.

«Tutto ok?» chiese allarmata.

«Scherzetto.» la rassicurò facendole l’occhiolino ed allontanandosi di qualche passo.

«Muoviamoci. – sbottò lei poco convinta - Non possiamo fare molto qui, comunque. Andiamo all’ospedale a raccogliere la testimonianza della signora Chung.»

Jane corrugò la fronte, non gli sembrava una buona idea, soprattutto perché non voleva rischiare di incrociare uno dei medici che lo aveva curato poche ore prima.

«Meh…» provò a lamentarsi.

«Cosa?»

«Tempo perso. Dovremmo invece cercare l’amante di Samantha Greenwood.»

«Ancora questa storia? Quale amante? La sorella e i suoi colleghi hanno detto che non aveva nessuna relazione.»

«Se lo avessero saputo che relazione segreta sarebbe?»

«Ok, allora cosa suggerisci di fare?»

«Mangiare un boccone, prima di tutto e poi un giro di perlustrazione nel suo ufficio.»

Teresa sospirò rassegnata, mentre il biondo sorrise soddisfatto.

 


 

Lisbon guidava il SUV in direzione degli uffici del R&G Company, Jane era quasi accoccolato sul sedile del passeggero. Il viso appoggiato al vetro, gli occhi chiusi, le braccia avvolte attorno al corpo, sembrava addormentato. Di tanto in tanto Teresa gli lanciava uno sguardo fugace, preoccupata per l’evidente pallore del consulente. A dispetto di quanto aveva detto, Jane aveva a malapena assaggiato le frittelle ed il tè che aveva ordinato. Questo era decisamente allarmante.

«Stai vedendo qualcosa che ti piace?» chiese Jane aprendo un occhio.

Teresa distolse lo sguardo sbuffando.

«Cosa ti fa pensare che la vittima avesse una relazione?» chiese cercando di intavolare una conversazione e sviare il discorso.

«Il profumo ricercato, gli abiti provocanti, il trucco curato e l’acconciatura all’ultima moda.» rispose lui tornando a chiudere gli occhi.

«E questo è sufficiente? Vuoi dire che le donne si curano solo per compiacere gli uomini?» l’apostrofò seccata.

«Non le donne… lei in particolare. Tu ad esempio sei perfetta anche se non hai una relazione.»

«E tu che ne sai?» sbottò, cercando di mascherare con l’aggressività l’imbarazzo per l’osservazione di Jane. Sentiva le guance in fiamme e ringraziò il cielo che non la stesse guardando. Lui fece finta di non aver sentito.

«La sua patente è stata rinnovata circa 5 mesi fa. Nella foto aveva i capelli poco curati, il trucco approssimativo, ergo – spiegò poi – qualcosa deve averle fatto cambiare atteggiamento… Quindi direi che un uomo potrebbe essere la risposta.»

«Oh.»

«Credi che il suo amante l’abbia avvelenata?» chiese Teresa dopo un attimo di silenzio.

«Sai che si dice del veleno?» rispose lui aprendo definitivamente gli occhi e sollevandosi con cautela.

«Che è l’arma preferita dalle donne.»

Jane sorrise. I due si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«Il veleno è un’arma discreta, silenziosa che – spiegò il consulente - se usata bene, non lascia traccia, permettendo di far passare la morte della vittima per un fenomeno naturale.»

«Beh, dobbiamo aver a che fare con una dilettante, vista la quantità di veleno usato.» osservò lei.

«O una donna molto arrabbiata.»

Teresa ridacchiò. Jane la guardò di furtivamente: era concentrata sulla strada, gli angoli della bocca piegati in un sorriso ironico.

«Stando a quanto scoperto da Van Pelt negli ultimi mesi la Greenwood aveva difeso alcuni personaggi non molto raccomandabili legati alla MOD Gang, che controlla lo spaccio a nord della città. Forse a qualcuno la cosa non è piaciuta o forse ha scoperto cose che non doveva.» ipotizzò Lisbon.

«Uhm… Se così fosse, semplicemente non avremmo più trovato il corpo.» si limitò a commentare il consulente.

Teresa sospirò rassegnata. Quando Jane aveva una teoria in mente era impossibile discutere con lui.

«Sicuramente no.» disse il biondo dopo un attimo.

«No, cosa?» chiese lei perplessa.

«Tu non cambieresti per compiacere un uomo.»

Lei non rispose e non lo guardò, si limitò a mugugnare qualcosa. Era confusa e leggermente imbarazzata. Jane sorrise tra sé, era deliziosa quando rimaneva senza parole.

«Non userei neanche il veleno se è per questo.» sussurrò dopo qualche attimo di esitazione, cercando di apparire disinvolta.

«Due colpi rapidi e precisi, eh?» chiese lui con sorrisetto ironico indicando un punto tra gli occhi.

«Sai dicono che sono un tipo intenso e particolare.» esclamò citando le identiche parole che Jane aveva usato per descriverla.

 

 


 

 

Van Pelt e Cho entrarono nella saletta del pronto soccorso che ospitava Hea Woo Chung, suo marito era seduto sul bordo del letto e le teneva la mano. Si stavano guardando intensamente in silenzio. Van Pelt li osservò con tenerezza, Cho, invece, non mostrò alcuna emozione. La rossa tossicchiò in modo che i due si accorgessero del loro arrivo. Sullivan li salutò con un cenno.

«Signora Chung avremo qualche domanda riguardo all’incendio.» disse Grace sorridendole.

La donna coreana guardò i due agenti ed annuì. Aveva il braccio destro fasciato e qualche escoriazione sul viso, ma sembrava non aver subito grandi danni.

«Ci può dire cosa è successo?» domandò la rossa.

«Kim era appena uscito e stavo per lasciare l’accademia anch’io, quando ho sentito un rumore provenire dalla sala tatuaggi. Ho pensato di dare un’occhiata e ho aperto la porta. Le fiamme avevano invaso completamente la stanza … Ho provato a spegnerle, ma era troppo tardi.»

Una lacrima le rigò il volto. Il marito le strinse la mano e le accarezzò la guancia. Van Pelt sorrise a quel gesto. Cho non batté ciglio.

«Perché sta accadendo tutto questo? Prima Samantha, ora l'incendio…» si lamentò la donna.

«Ssssh…» le sussurrò il marito accarezzandole i capelli scuri e baciandole la testa.

«Ha visto qualcuno?» chiese Cho.

«Quando ho aperto la porta un uomo è saltato dalla finestra. Ma era di spalle ed aveva un cappuccio sulla testa… non l’ho visto in faccia. Sembrava indossare una felpa, dei jeans scuri…» rispose vaga.

Grace annuì con simpatia.

«C’era qualcosa di valore in quella sala?» chiese poi l’asiatico prima di andare.

Richard ed Hea si guardarono stringendosi nelle spalle.

«No. Era una semplice sala tattoo. Macchinari, inchiostri… Per noi era un’ottima fonte di guadagno, ma no… non c’era niente di valore.» disse lei mentre era sul punto di scoppiare in lacrime.

«Forse volevano bruciare tutta l’accademia.» ipotizzò Sullivan.

Cho annuì, li ringraziò quindi, lui e Van Pelt uscirono dalla stanza.

«Che tristezza.» esclamò Grace dopo un po’.

Stavano camminando verso l’auto in silenzio. L’agente la guardò senza tradire nessuna turbamento.

«Sembra che il destino se la sia presa con questi due. – sospirò – Sono così teneri insieme, ti fanno sperare che il vero amore esista davvero, aldilà di tutto.»

Kimball la fissò scettico. Un'ombra di tristezza attraversò rapida il suo viso. Grace notò il disagio del collega, ma non osò chiedere nulla. Cho distolse lo sguardo ed aprì la portiera dell'auto. Spinse il ricordo dell'addio a Summer in un angolino del suo cervello e riacquistò la sua aria imperturbabile.

«Già. Andiamo.» si limitò a dire.

 

 


 

 

L’ufficio di Samantha Greenwood era ospitato in un prestigioso e modernissimo palazzo nel centro di Sacramento, al loro arrivo fu Greg Gordon, il socio fondatore dello studio legale, ad accogliere Lisbon e Jane. Era un uomo sulla settantina, elegantemente vestito, con i capelli quasi bianchi, un paio di piccoli occhiali dorati ed un pizzetto brizzolato che gli conferiva quell’aria severa ed affidabile, tipica di un avvocato di successo. Aldilà dell’elegante completo gessato, indossava anche un’espressione falsamente cordiale.

«Teresa Lisbon CBI, lui è Patrick Jane, consulente.» si presentò la bruna senza troppi convenevoli, stringendo la mano dell’uomo. Jane salutò con un rapido cenno.

«Greg Gordon – disse poi rivolgendosi a Teresa con fare autoritario guidandoli tra i corridoi dell’edificio - ci sono novità sulla morte di Samantha?».

«Non siamo soliti diffondere informazioni su un caso in corso, Signore.» rispose lei sulla difensiva.

«Capisco. – commentò squadrando Teresa - Qualsiasi cosa di cui abbiate bisogno potete contare sulla nostra collaborazione. Samantha era un avvocato incredibilmente capace, una donna come poche. Era da poco diventata nostro associato. Per noi è una grande perdita.»

Jane fece una smorfia, Teresa lo fissò preoccupata, già consapevole che la pila di denunce sulla sua scrivania si sarebbe allungata. Ringhiò qualche avvertimento al suo consulente.

«Uhm… noto un sentimento ambivalente nei confronti della vittima. Pensa veramente che fosse un grande avvocato, ma non le mancherà affatto.»

L’uomo perse il sorriso amichevole e lo fissò gelido.

«Cosa intende dire?» chiese con tono aggressivo facendo un passo verso di lui.

«Si sentiva minacciato da Samantha, in qualche modo la vittima aveva il controllo su di lei... Non voleva farla entrare nello studio come associato, però l’ha fatto. C’è da chiedersi il perché. Aveva una relazione con Samantha Greenwood?» continuò il biondo con un sorriso impertinente.

«Cosa?!?» l’uomo scattò verso Jane afferrandolo per il bavero della giacca. Jane si lasciò sfuggire un gemito. Teresa intervenne separandoli immediatamente.

«Potrei arrestarla per aggressione a pubblico ufficiale!» urlò allontanandolo da Jane.

L’uomo si ricompose subito, guardò torvo in direzione del biondo che stava riprendendo fiato appoggiato ad una scrivania.

«Questo è l’ufficio di Samantha.» disse poi, indicando la porta davanti a loro – e la risposta è no. Non avevo una relazione con lei. C’erano scelte che non condividevo, come questa sua ultima passione per quell’accademia assurda… Ma quando voleva qualcosa sapeva sempre come ottenerla. Ed ora, vogliate scusarmi.»

Detto questo si allontanò lasciando i due davanti alla porta. Teresa si voltò verso Jane che nel frattempo si era ripreso.

«Non imparerai mai, eh?»

Lui fece spallucce.

«Lo sai anche tu che ci ha mentito.»

Lei sospirò e lui aprì la porta invitandola ad entrare con un cenno.

«Ci servono prove… niente prove, nessun arresto.» spiegò per l’ennesima volta.

«Quelle servono a te e ai tribunali. Quell’uomo temeva Samantha Greenwood, e noi scopriremo il perché.»

Entrarono nell’ufficio della vittima: era arredato con mobili di design bianchi vivacizzati da tessuti, soprammobili ed opere d’arte in colori vivaci. Jane e Lisbon si misero subito a controllare la scrivania, i cassetti ed il computer. Non trovarono nulla. Di fronte a loro si trovava solo una grande libreria.

«Che ne pensi?» chiese Teresa guardandosi intorno.

«Feng shui.»

Lei lo fissò perplessa. Lui si girò attorno e accompagnò il movimento con il braccio destro.

«Pochi mobili e oggetti sistemati con cura meticolosa, una pianta sulla scrivania e grande attenzione per la luce e i colori…» spiegò.

«E questo a cosa ci porta?» sospirò Teresa sedendosi di peso sul divano in pelle bianca.

«Devi avere pazienza donna!»

Lei roteò gli occhi, appoggiò la testa sulla mano sinistra. Jane iniziò ad esaminare la libreria e, dopo alcuni minuti, si bloccò: un ampio sorriso sulle labbra.

«Ecco qua… cosa noti?» chiese il biondo indicando la libreria.

«Libri? Amava leggere? – chiese imbronciandosi – l’amante è un bibliotecario?» concluse con una punta di sarcasmo nella voce.

Lui fece una smorfia, poi indicò la libreria. Teresa si alzò dal divano e si avvicinò. Patrick le mise le mani sulle spalle come per guidarla e Lisbon rabbrividì al contatto. Sospirò, quindi osservò la libreria: c’erano una serie di libri sistemati in ordine di grandezza e raggruppati per colore. I titoli nella parte più bassa erano per lo più di carattere legale, più in alto c’era una sezione di classici della letteratura, poi alcune raccolte d’arte moderna e infine, ecco quello a cui Jane si riferiva: un unico piccolo libro con una copertina variopinta, dedicato all’arte coreana ed inserito all’interno della sezione legale. Era quasi invisibile tanto era sottile. Teresa lo prese e lo sfogliò. In realtà non era un libro, ma un’agenda: l’agenda personale di Samantha Greenwood. Lei fece un’espressione soddisfatta, quindi si voltò verso il consulente che la stava osservando sorridente.

«찾았다. (chaj-assda)*» esclamò Jane in perfetto coreano, con un sorriso sornione.

 

*Gotcha/Trovato.

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Capitolo 4
*** Truth will out ***


Ecco qui il quarto capitolo: nuovi indizi in vista e, finalmente, veniamo a sapere cosa ha combinato Jane!! Voglio ringraziare chi ha finora recensito, è sempre bello ricevere i vostri commenti!! Vi adoro! Spero che questo capitoletto vi piaccia... Lo so magari vorreste un po' più Jisbon, eh? Se avrete pazienza di seguirmi non rimarrete delusi... ;-)

 




«Qualche novità sui codici dell’agenda che abbiamo trovato ieri?» chiese Teresa entrando nel bullpen con una tazza di caffè in una mano ed un fascicolo nell’altra.

«Non ancora capo, ci sto lavorando. Non credo ci vorrà molto.» spiegò Grace alzando lo sguardo dal suo computer.

Lisbon annuì, quindi spostò la sua attenzione su Rigsby che stava tornando in quel momento alla scrivania con un sandwich. Teresa lo squadrò leggermente irritata.

«E per quanto riguarda l’incendio doloso, abbiamo qualche pista?»

«La scientifica ha individuato l’accelerante, era benzene. Poi hanno trovato anche tracce di rame, litio, cinabro e anche caffeina in polvere. – disse con scarso interesse leggendo dal fascicolo – Per quanto riguarda l’uomo fuggito ho raccolto le testimonianze dei vicini, ma non è emerso nulla di significativo. Mentre per quanto riguarda la bandana è riconducibile alla MOD Gang.»

In quel momento entrò Cho con un altro fascicolo in mano.

«Capo abbiamo qualcosa. Dall’analisi delle telecamere nei pressi dell’accademia abbiamo estrapolato una lista di una decina di auto sospette, ed una appartiene ad un ex cliente della vittima. Un certo Kwan Yoon, membro della MOD Gang. Precedenti per spaccio, rapina, resistenza a pubblico ufficiale.»

«MOD Gang. Non può essere una coincidenza. – commentò lei – C'è qualche motivo per cui potrebbe avercela con la vittima?»

«Tre mesi fa, durante il processo per detenzione di stupefacenti, Yoon ha chiesto l’allontanamento della Greenwood e ha richiesto un avvocato d’ufficio. Sembra siano volate parole grosse tra i due. Yoon ha pagato la cauzione ed ora è in attesa di giudizio.»

«Abbiamo un indirizzo? Credo sia il caso di scambiare quattro chiacchiere con il nostro amico. Porta Rigsby con te.»

«Subito.»

Teresa diede un’occhiata al divano in pelle per verificare se il suo consulente fosse ancora disteso a sonnecchiare. Jane stava leggendo un libro e, come se avesse sentito un richiamo, sollevò lo sguardo verso di lei e le sorrise.

 



Kwan Yoon era un giovane coreano sui 25 anni, completamente rasato e con dei grandi tatuaggi su tutto il corpo. Seduto comodamente nella sala interrogatori due, non dava segni di particolare nervosismo o paura. Se ne stava immobile a fissare i due agenti.

«Cos’è successo con Samantha Greenwood?» chiese Lisbon sfogliando il fascicolo aperto davanti a sé.

L’orientale fece un sorrisetto.

«Punti di vista differenti.»

Teresa lo fissò poco convinta.

«Certo. Tanto da rischiare una condanna?»

«Ho fiducia nella giustizia dello Stato della California.» rispose ironicamente.

«Puttana istericaQualcuno dovrebbe metterti la testa in un sacco…- lesse dal fascicolo le frasi che l’uomo aveva gridato contro la vittima - devo continuare?»

«Ti ha fatto incazzare, eh?» intervenne Rigsby.

Il giovane sbuffò, quasi annoiato.

«Quando sono arrabbiato sono piuttosto creativo.»

Dall’altra parte del vetro Jane ridacchiò e Cho gli diede uno sguardo fugace.

«Ti dico io com’è andata. – spiegò Lisbon - Samantha Greenwood aveva scoperto qualcosa di scottante su di te e la tua gang e l’hai fatta fuori.»

«No. – il giovane era estremamente calmo, quasi sorridente - Non dico che non mi sarebbe piaciuto. Ma se così fosse non ne avreste mai trovato il corpo. Le cose quando si fanno, si fanno per bene.»

«E dovremmo prenderla per buona, eh? Per una questione di etica professionale?» rispose Teresa contrariata.

«Peccato che tu non abbia un alibi per il giorno dell’omicidio. La tua auto è stata filmata nei pressi della Coffin Academy qualche giorno dopo ed è stato trovato questo negli uffici incendiati.» insistette Wayne mostrandogli la foto della bandana bruciacchiata.

«Le nostre bandane vanno a ruba.» commentò per nulla preoccupato.

«La MOD Gang ha appiccato l'incendio alla Coffin Academy. Li stavate minacciando, non è così?Perchè?» chiese Wayne.

L'orientale fece spallucce.

«Perché hai litigato con la Greenwood?» Lisbon era stanca di questi giochetti.

«Samantha Greenwood ha deciso di fare il grande salto. – disse il giovane stiracchiandosi - Ma lei e i suoi fornitori erano dei dilettanti.»

Teresa e Rigsby si guardarono stupiti.

Jane sorrise e prese un sorso di tè, mentre Cho fissava la scena senza alcuna emozione apparente.

«Interessante.» sussurrò il consulente.

«Ci vuoi far credere che Samantha Greenwood era una spacciatrice?» chiese Teresa ancora sorpresa.

Kwan Yoon ridacchiò divertito.

«Forse…» rispose con reticenza.

Lisbon fece una smorfia. Quello poteva essere davvero un tassello importante nella loro indagine, ma Yoon non avrebbe aggiunto altro senza avere qualcosa in cambio. D’altra parte poteva essere lui il colpevole e in questo modo stava cercando di sviarli. In realtà non avevano nulla per incriminare lui o la sua Gang aldilà di una bandana che chiunque poteva procurarsi. Niente DNA, nessuna impronta. Non potevano provare la sua eventuale colpevolezza o coinvolgimento nell’omicidio.

«Cosa vuoi?»

«Una buona parola con il procuratore nel mio processo. E naturalmente la certezza che quello che dirò qui resterà confidenziale.»

Lisbon annuì.

«Sei mesi fa Samantha è venuta da me – iniziò a raccontare - e mi ha proposto di vendere una nuova droga. Abbiamo iniziato a venderla finché poche settimane dopo uno dei miei ragazzi c’è rimasto secco. Quella roba che spacciava era merda. Da allora ho chiuso ogni rapporto con lei. Ma la sua roba è ancora in giro, dovreste trovare i suoi fornitori. Forse l’hanno fatta fuori loro, hanno appiccato l'incendio e stanno provando a incastrare noi.»

Il sorriso sul viso di Jane si ampliò ancor di più.

«Interessante – disse – davvero interessante.» ed uscì dalla saletta.

 


 

«Capo ho decifrato il codice!» esclamò con entusiasmo la rossa intercettando Teresa nel bullpen dopo l’interrogatorio.

«Finalmente una buona notizia. Jane… – guardò verso il divano alla ricerca del consulente, ma era vuoto – sapete dov’è Jane?» chiese.

«No.» risposero gli agenti all'unisono.

Teresa si diresse verso il cucinino, non trovando tracce del consulente puntò verso l’attico. Passando davanti all’ascensore si scontrò, quasi, con Doyle della buoncostume accompagnato da Taylor degli affari interni. Lisbon fissò il collega a bocca aperta, aveva un occhio nero, un collare al collo ed un braccio ingessato.

«Ciao Steve, che diavolo ti è successo?»

L’uomo la fissò gelido, mentre l’altro ufficiale la squadrò da capo a piedi.

«Come se non lo sapessi.» rispose scontroso allontanandosi.

Teresa lo fissò perplessa quindi proseguì verso la soffitta di Jane.

«Stronzo.» ringhiò tra sé.

Doyle era il classico poliziotto maschilista e sciovinista che considerava le colleghe delle incompetenti e le donne in generale adatte solo per badare alla casa e ai figli. Lei e Van Pelt avevano riso alle sue spalle per settimane, quando la moglie lo aveva lasciato. Era un idiota. Sorrise tra sé, magari una prostituta ne aveva avuto abbastanza. Avrebbe dovuto chiedere alle colleghe della buoncostume cos’era successo.

«Jane…» chiamò entrando nel suo rifugio.

La soffitta era vuota. Dove diavolo era finito?

 


 

Jane si guardò intorno, non c’era nessuno, per precauzione si chinò a controllare se ci fosse qualcun altro all’interno della stanza. Si era chiuso all’interno di uno dei bagni del CBI. Ora, seduto sulla tazza con sulle ginocchia il disinfettante e le nuove bende, iniziò a togliersi la fasciatura dal braccio per medicarsi. In un primo momento aveva pensato di rifugiarsi nell’attico, ma il rischio che Teresa arrivasse all’improvviso era troppo alto.

Sospirò, i tagli erano ancora sanguinanti e la pelle intorno irritata e gonfia. Si medicò e tentò di sistemarsi le nuove bende da solo. Dopo alcuni fallimentari tentativi riuscì a completare la fasciatura. Sorrise abbastanza soddisfatto del suo lavoro. Uscì dal bagno, si lavò le mani e si guardò allo specchio: aveva avuto giorni migliori, doveva ammetterlo. Aveva delle profonde occhiaie, un inconsueto pallore ed i capelli in completo disordine. Provò a sistemarli bagnandoli, ma sembravano non volerne sapere. Sorrise, quindi prese un antibiotico e lo deglutì con un poco d’acqua.

Uscendo si scontrò quasi con Cho. L’asiatico lo squadrò dalla testa ai piedi.

«Lisbon ti cercava.»

«Quella donna non può vivere senza di me.» rispose con un sorriso malizioso. Kimball lo guardò dubbioso.

«Certo. – disse senza pathos - Van Pelt ha decifrato il codice.»

«Che aspettiamo allora!» disse festoso Jane.

Patrick e Kimball entrarono nel bullpen. Teresa e Wayne erano già posizionati dietro alla scrivania di Grace, ancora occupata a decriptare il codice.

«La nostra Samantha Greenwood – disse Lisbon – aveva davvero trovato il modo per ottenere tutto quello che voleva. Aveva materiale per ricattare mezza città. Grace ha decifrato le prime 10 pagine.»

«Greg Gordon.» disse Jane.

«Si è nella lista. A quanto pare aveva una doppia contabilità, non esattamente pulita, forse c’è lui dietro il traffico di droga - ipotizzò Teresa. – voglio parlargli subito. Cho occupane tu.»

L’agente annuì e si allontanò.

Jane era pensieroso, si strofinava il mento continuando a fissare l’agenda e il fascicolo dell’incendio sul tavolo di Grace. Teresa lo guardò perplessa.

«Cosa c’è?»

«Non credo sia lui.»

«Perché il veleno è l’arma delle donne? – commentò ironicamente – Magari lo ha usato apposta, non credi? In ogni caso ha un movente.»

Jane non rispose, si limitò a guardarla, quindi si strinse nelle spalle.

«Caso chiuso allora. Congratulazioni.» disse Jane dirigendosi verso il divano.

«Jane…»

Lui non rispose, le fece un cenno con la mano, come volesse allontanarla, si distese con cautela sul divano e si mise a dormire. Lei lo fissò per un po’, quindi distolse lo sguardo e se ne andò verso il suo ufficio.

«A volte mi sembrano i Roper*.» commentò Grace e Rigsby non riuscì a trattenere una risatina.

Dopo qualche minuto, il consulente aprì gli occhi e si mise a sedere. Grace si voltò verso di lui allarmata. Il biondo le sorrise con aria innocente.

«Tutto bene?» chiese guardandolo di sbieco. Temeva uno dei suoi soliti trucchi.

Jane si alzò e si avvicinò alla sua scrivania, prese il fascicolo e lo studiò in silenzio. Rigsby le diede uno sguardo divertito. Grace fece spallucce.

«E’ il rapporto sull’incendio?»

«Si. Niente di nuovo, è sicuramente doloso.» rispose Wayne.

Jane sorrise, ripose il fascicolo al suo posto e tornò a risposare sul divano.
 



Teresa stava per entrare nella sala interrogatori quando Wainwright la fermò. Aveva un’aria truce e preoccupata.

«Agente Lisbon devo parlarle.»

«Ho un interrogatorio. Abbiamo un sospetto nel caso Greenwood.» rispose guardandolo come se fosse un bambino viziato.

«Riguarda Jane.» le disse senza mezzi termini.

Teresa sospirò e lo fissò preoccupata. Che diavolo aveva combinato questa volta? Fece un cenno a Cho che l’aspettava all’ingresso e seguì il suo capo.

Seduta davanti alla scrivania di Luther, Teresa aspettava di sentire in che guai si era cacciato il suo consulente, già progettando nella sua mente di spararli o di fargliela pagare in qualche modo. Sorrise all’idea, almeno nelle sue fantasie gliela faceva sempre pagare.

Wainwright aprì un fascicolo e le allungò una foto. Lisbon riconobbe subito Doyle ed un altro collega della buoncostume, un certo Smith. Entrambi erano piuttosto malconci. Lei sollevò lo sguardo dalla foto e guardò con aria interrogativa il suo capo.

«Smith è ancora all’ospedale. Ha una commozione cerebrale.»

«Oh, se la sono vista brutta – disse lei riponendo la foto nel fascicolo - Ma questo cosa centra con Jane?»

Luther sorrise nervosamente e la fissò dritta negli occhi.

«Lisbon. Vuoi farmi credere che non ne sai nulla?»

«No, Signore – poi ebbe un’epifania – Aspetti un attimo. Vuole dirmi che è stato Jane a ridurli così?» quasi rise mentre formulava la domanda.

«Secondo quanto affermato da Doyle, è così. – prese il fascicolo e lesse – Jane avrebbe colpito Doyle con un boccale di birra dopo uno scambio di battute, poi quando l’agente Doyle era riverso a terra gli avrebbe sferrato due calci sul costato. Allora Smith sarebbe intervenuto per allontanarlo gettando Jane addosso ad un gruppo di uomini. Il consulente si sarebbe rialzato e avrebbe reagito colpendo Smith con una bottiglia in testa. Dopo di che sarebbe scoppiata una mega rissa e Jane sarebbe scappato.»

Teresa spalancò gli occhi. Jane era quanto di più lontano possibile da questa descrizione. Non era il tipo di persona che poteva fare una cosa del genere. Aveva sempre pensato che se mai Jane si fosse trovato coinvolto in una rissa le avrebbe sicuramente buscate. Cosa diavolo era successo?

«Ci deve essere una spiegazione.» affermò con voce incerta.

«Lo spero. Perché a quanto pare Doyle vuole denunciarlo per aggressione. – fece una pausa - Non è mai piacevole ricevere la vista di quelli degli affari interni.»

«Ma perché mai lo avrebbe fatto?»

Luther sospirò.

«Voglio parlare con lui. – esclamò Wainwright – magari riusciremo ad evitare un’indagine.»

«Certo – sussurrò - Accidenti Jane.» ringhiò poi tra i denti.

Teresa uscì dall’ufficio come una furia e si diresse subito verso il bullpen. Entrò come un treno puntando dritta al divano in pelle marrone che, però, era vuoto.

«Dov’è?» chiese con rabbia.

Grace la fissò a bocca aperta.

«E’ uscito 10 minuti fa. – balbettò guardando Rigsby alla ricerca di aiuto – Ha accennato a qualcosa come alfabeto coreano e tatuaggi…»

«Questa volta lo uccido».



* "The Roper" è una serie televisiva americana spin off di "Tre cuori in affitto" incentrata sulla coppia di mezza età composta da Stanley e Helen Roper.

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Capitolo 5
*** Waving the Magic Wand ***


Siamo arrivati ormai al quinto, e penultimo (probabilmente), capitolo di questa FF. Ringrazio quanto hanno recensito finora!! Siete stati tutti molto, molto carini con me. Siamo quasi arrivati all'epilogo della nostra storia e qualche pillolina Jisbon (senza esagerare cmq) non può mancare, altrimenti che FF sarebbe??? 

 




Patrick si muoveva nel piccolo ufficio curiosando qua e là con aria indifferente: le poche fotografie presenti sulla scrivania, le stampe appese alle pareti e le riviste appoggiate sul tavolino di vetro non erano, però, particolarmente interessanti. La porta si aprì e Richard Sullivan apparve sulla soglia. Lo fissò un attimo studiandolo, quindi sorrise.

«Cosa posso fare per lei Mr Gordon?»

«Sono venuto a proporle un accordo. - rispose Jane - Come le accennavo al telefono, Samantha mi ha parlato molto di lei, dell’accademia e … di sua moglie, naturalmente.»

Lui ebbe un leggero tremito alla palpebra sinistra.

«Me la immaginavo più vecchio.»

«Lei si riferisce a mio padre Greg. Io sono Jeff. Samantha non le ha mai parlato di me?» il consulente sorrise e gli strinse la mano.

«Si spieghi meglio Jeff – disse scandendo bene le ultime lettere - Al telefono mi ha chiesto di vederci da soli ed eccoci qui. Ma ho poco tempo da dedicarle.»

«Voglio entrare nell’affare… - disse ampliando il sorriso - voglio la parte di Samantha più il 10%.»

L'uomo fissò il biondo con un sorriso falsamente cordiale.

«Vede signor Gordon, come ben saprà non è esattamente il momento migliore per parlare di affari... - fece una pausa studiando il volto del consulente - Tra un paio di settimane, quando la situazione sarà più tranquilla potremo riparlarne.»

«Davvero? Ora che non avete più l'appoggio della MOD Gang e Samantha è morta come credete di farcela? - replicò Jane - Un paio di settimane sono troppe per le vostre finanze. Io ho i contatti giusti e clienti disposti a spendere per un bel po' di soldi per divertirsi.»

Sullivan corrugò la fronte e squadrò il consulente da capo a piedi.

«E poi sono sicuro che troverà le giuste motivazioni.» Jane estrasse dalla tasca l'agenda di Samantha e iniziò a giocherellarci. Sullivan contrasse la mascella nervoso.

I due si fissarono in silenzio, l'uomo, infine, abbassò lo sguardo.

«Vede signor Sullivan, Samantha era una donna intelligente e, sorpattutto, previdente. - Patrick fece una pausa teatrale - Chissà cosa potrebbe succedere se questa agenda finisse nelle mani sbagliate.»

«Perfetto Mr Gordon. - sussurrò l'altro con voce incrinata – l’appuntamento è per domani alle sei. La quinta cassa lungo la prima fila è sua. Immagino sappia già come funziona.»

«Certo. E’ un piacere fare affari con lei.» Jane gli fece un cenno con la testa ed uscì.

Sullivan lo guardò allontanarsi, quindi sospirò.

 


 

Dopo essere rientrato al CBI senza passare per il bullpen, Jane si era disteso sul suo letto di fortuna nell’attico. La ventina di messaggi minatori che Lisbon gli aveva lasciato in segreteria gli aveva fatto capire che Doyle e Smith non erano stati molto sportivi e non tirava una buona aria per lui in ufficio. Sapeva di doverle delle spiegazioni, ma non aveva la forza di affrontarla ora. Così, aveva aspettato fino a quando l'aveva vista salire in macchina e allontanarsi dal CBI, e si era, finalmente, rifugiato nella sua soffitta nel tentativo di riposare. Si era tolto la giacca e l’aveva appoggiata alla sedia difronte alla vetrata, quindi aveva preso un paio di antidolorifici. Si sentiva uno straccio, oltre al braccio e alle costole ora anche la testa gli pulsava: probabilmente aveva la febbre oppure era l’effetto dei medicinali. Sentiva la testa leggera, come fosse un po’ brillo.

L'attico era silenzioso e buio, rischiarato soltanto dalla luci esterne. Jane ad occhi chiusi cercò di rilassarsi e abbandonarsi ad un breve sonno. Da anni non dormiva più di qualche ora, ma si augurava che i medicinali potessero aiutarlo e evitare anche solo per un po' i terribili incubi che lo perseguitavano notte dopo notte. Sentì la porta aprirsi, cercò di rimanere immobile sapendo già che Teresa era tornata appositamente per parlargli. Forse se avesse finto di dormire se ne sarebbe andata.

«Lo so che non stai dormendo.» disse seccata.

Lui non si mosse.

«Jane… dobbiamo parlare.»

Non vedendo nessuna reazione da parte del biondo, Lisbon sbuffò e si avvicinò al letto con fare minaccioso.

«Dannazione Jane, una rissa in un bar con dei colleghi?!?»

Lui sospirò e aprì gli occhi.

«Io lo definirei più un vivace scambio di opinioni.»

«Oh davvero? Cosa diavolo hai nella testa?» sbottò senza riuscire a trattenere la rabbia.

«Non riuscivamo a trovare un punto d’incontro.»

«Gesù Jane, Smith è in ospedale!» urlò esasperata.

«E io che avrei giurato di averle prese.» ridacchiò lui con voce strascicata.

«Sei ubriaco?» chiese guardandolo sconvolta.

Lui non rispose troppo occupato a tentare di trattenere le risate. Teresa lo fissò perplessa studiandolo in silenzio, nella penombra della soffitta, nonostante la scarsa illuminazione, si accorse che era molto pallido, sudato, gli occhi lucidi ed il respiro rapido e superficiale. Improvvisamente ebbe un’epifania e tutti i tasselli tornarono al loro posto: il comportamento insolito, il ritardo, il pallore e gli strani malori. Si avvicinò al letto con cautela, lui la fissò senza dire nulla, si sedette sul bordo del letto e gli mise una mano sulla fronte. Scottava. Lui rabbrividì, ma non si mosse.

«Non è un buon segno. – disse semplicemente, con un tono di voce più morbido – Da quanto stai così? Come ti senti?»

«Starò benone.» si limitò a rispondere, abbassando lo sguardo imbarazzato per il gesto di grande intimità. Lei tolse la mano dalla fronte. Era preoccupata per lui, per il guaio in cui si era cacciato, per il caso, per tutto.

«Sei un asino.»

Patrick sorrise, gli occhi brillavano nel buio.

«Vuoi darmi il colpo di grazia, Teresa?»

Lui gemette nel tentativo di sollevarsi, lei lo bloccò con delicatezza, quindi si alzò continuando a fissarlo preoccupata. Non era certa di cosa gli fosse successo durante quella rissa, ma di sicuro non stava bene. Si morse il labbro inferiore, sospirò, quindi distolse lo sguardo. Jane non le avrebbe detto nulla ora.

«Ok Jane. – sussurrò – Ne parliamo domani, ma dovrai essere completamente onesto con me. Ora prova a dormire, ne hai davvero bisogno.»

Jane annuì tornando a distendersi sul suo giaciglio, Teresa si girò e si diresse verso l'ingresso dell'attico.

«Uhm.. com’è andato con il tuo sospetto?» chiese Patrick prima che lei uscisse.

«Aveva un alibi… e tu?»

Lui sorrise, Lisbon stava cominciando a conoscerlo troppo bene. Era estremamente orgoglioso di lei, e forse anche un po’ intimorito.

«암캐 (amkae)*.» rispose in coreano.

Lei corrugò la fronte e lo fissò. Lui sorrideva con gli occhi chiusi.

«Cosa significa?» chiese quasi ridendo.

«Oh, non lo vorresti sapere – le disse ridacchiando - Sai, quando ci si fa fare un tatuaggio bisogna fare molta attenzione. Potresti ritrovarti tatuato un “Amo Jane” in coreano senza accorgertene.» borbottò sbadigliando.

Lei si lasciò sfuggire una risatina, quindi scosse la testa.

«Non potrebbe mai accadere. Buonanotte Jane.»

«Io mi farei tatuare “Sweet Reese”. – sussurrò – Domani avrai il tuo colpevole Lisbon.»

Teresa sorrise e chiuse la porta della soffitta dietro di lei.

 


 

Lisbon entrò al Mercy General Hospital di Sacramento con piglio deciso ed individuò piuttosto facilmente la stanza che stava cercando. Si fermò davanti alla porta e prese un profondo respiro, quindi indossò il suo sorriso migliore.

L’uomo all’interno, disteso sul letto, alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo e rimase a fissarla a bocca aperta.

«Cazzo… Teresa Lisbon in persona – imprecò con un sorrisetto ironico – Quale onore.»

Lei sentì il sorriso vacillare momentaneamente, rimase sulla porta esitante. L’uomo piegò il giornale con cura, quindi scosse la testa ridacchiando tra sé.

«Posso?»

«Certo, sei sempre la benvenuta.»

I due si studiarono un attimo in silenzio. L’uomo sulla cinquantina con capelli brizzolati portati rasati ed una barbetta di due giorni, la stava squadrando.

«Come ti senti?»

«Mah. Ci vuole altro per mettermi K.O.»

Teresa annuì e gli sorrise. Stava cercando le parole giuste per iniziare il suo discorso, ma ora che si trovava davanti a Smith si sentiva a disagio.

«Lasciami indovinare: sei qui per Jane, eh?»

«Voglio capire cos’è successo – ammise fissandolo dritto negli occhi - Jane può essere un vero idiota a volte, ma questo… davvero non è da lui…» s’interruppe.

«Il tuo consulente non ti ha raccontato nulla.» la fissò con un sorrisetto divertito.

«Ci ha pensato Doyle.»

«Oh, Doyle – sbottò con tono di disprezzo –Non c’è niente di peggio di un coglione che crede di essere furbo.»

Teresa lo fissò perplessa, la storia forse era più complicata di quanto potesse sembrare ad un primo sguardo.

«Stammi a sentire Teresa – le disse con un tono di voce accondiscendente – Jane non mi è mai piaciuto e non credo mi piacerà mai. Dovrebbe stare rinchiuso da qualche parte lontano dal CBI. E’ pericoloso per sé stesso e per chi lavora con lui. – la fissò dritto negli occhi per accertarsi che il concetto le arrivasse forte e chiaro – Ma Doyle se l’è proprio meritata.»

«Lui sostiene che Jane lo ha aggredito.»

Smith rise di gusto. Teresa lo gelò con uno sguardo e l’uomo cercò di trattenersi.

«Divertente, davvero. Credimi Jane con le parole ci sa fare, ma quando c’è da menar le mani…- fece schioccare le nocche – credo abbia colpito Doyle per pura fortuna! Comunque è davvero un buon incassatore.»

Teresa distolse lo sguardo e fissò la punta delle scarpe. Jane doveva essersela vista brutta. Quell’idiota era stato colpito e fingeva di stare bene. Ma perché?

«E che mi dici della bottigliata in testa?»

«Oh è stato Doyle – ringhiò – Stavo cercando di separarlo da Jane e lui ha colpito la mia testa. Diamine, che idiota.»

«Oh.»

Smith sorrise e la fissò con uno sguardo malizioso.

«E’ davvero un uomo fortunato quel bastardo.»

Lisbon lo fissò seria, era irritata del suo tono e dal suo modo di fare.

«Davvero Smith, vorresti trovarti al posto di Jane? – esclamò trattenendo a stento la rabbia - Con una moglie e una figlia uccisi da Red John?»

L’agente distolse lo sguardo e si fece serio.

«No. Cazzo, no. Mi riferivo al fatto che nonostante tutto può contare su un partner come te. Disposto a salvargli il culo in ogni occasione. E’ davvero così speciale?»

Teresa avrebbe voluto rispondere come al solito “chiude i casi”, ma sapeva che questa scusa non poteva più essere utilizzata perché anche lei non ci credeva più oramai. Si limitò a fissare Smith in silenzio. L’uomo annuì.

«Grazie per il tuo tempo Smith. Abbi cura di te.» fece per uscire.

«Teresa. Non vuoi sapere perché è iniziata la discussione con Doyle?» chiese lui prima che uscisse.

La donna corrugò la fronte e si fermò.

 

 


 


Jane era in piedi al centro della piccola sala della Coffin Academy con in mano la sua lettera d’addio scritta di suo pugno qualche minuto prima. Si guardò intorno, oltre a lui, che in quel momento interpretava Jeff Gordon, c’erano un gruppetto di manager stressati, tre impiegati di banca ed un paio di casalinghe frustrate sulla cinquantina. Alle sue spalle poteva vedere Sullivan, sua moglie nell’abito tradizionale coreano e Christine. Le due donne parlottavano tra loro a bassa voce. Sembravano tese, notò Jane.

Dopo aver assistito alla proiezione di un filmato che doveva creare la giusta emozione e predisposizione d’animo, gli avevano fatto indossare una tunica chiara che lo faceva sembrare quasi uno Jedi e tutt’intorno erano state accese delle candele che illuminavano piacevolmente la stanza.

Patrick si schiarì la gola e iniziò a leggere con voce morbida. Van Pelt, Rigsby e Lisbon lo stavano ascoltando all’interno del furgone parcheggiato poco distante, mentre Cho si era intrufolato di nascosto nell’edificio pronto ad intervenire in caso di bisogno.

«Jane, scrivo queste righe per spiegarti il perché del mio gesto.»

Lisbon sbuffò e scosse la testa guardando Van Pelt seduta accanto a lei.

«Solo un egocentrico come lui poteva scrivere una lettera d’addio a sé stesso!» commentò.

La rossa ridacchiò in risposta, mentre Rigsby continuò imperterrito a sgranocchiare delle patatine.

«So che ti deluderò per l’ennesima volta. – riprese il consulente – Ma sono stanco di mentire ed indossare ogni giorno questa maschera di falsa felicità. Sappiamo entrambi che la verità è diversa. Mentire è l’unica cosa che so fare, così per anni ho mentito a te e anche a me stesso… Continuare a vivere così, quando tutto quello che conta è perduto è diventato impossibile. Spero capirai il mio gesto e riuscirai a perdonarmi. Almeno tu, visto che io, finora, non ci sono riuscito. Mi mancherai. Tuo Jeff.»

Lisbon sentì un nodo in gola. Anche se era un falso scritto ad arte da Jane per rendere credibile la sua copertura, tremò internamente e sentì una stretta allo stomaco. Sembrava quasi che, nascosto tra le righe, ci fosse un messaggio per lei. Aveva provato la stessa sensazione al funerale di Tom Maier quando Jane stava leggendo la lettera d'addio che lui stesso aveva scritto per nascondere l’omicidio di Panzer da parte di Red John. Allora aveva colto, dietro le parole che prima la vedova e poi lo stesso Jane avevano recitato, un’ombra dell’animo del consulente che, aveva immaginato allora, si rivolgeva a sua moglie e, forse, anche un po’ a lei.

La cerimonia proseguì con la lettura delle altre lettere. Jane studiò la scena con un sorriso appena accennato sulle labbra e senza mai perdere di vista la donna coreana e suo marito. Ben presto tutti i presenti vennero invitati a raggiungere la propria cassa. Il consulente si avvicinò alla quinta bara, come concordato con Sullivan, e guardò all’interno. Non c’era null’altro aldilà di un sottile materassino in gomma, rivestito di cotone chiaro.

Hea Woo Chung invitò tutti ad accomodarsi all’interno della propria cassa. Jane esitò, le costole gli facevano male e la spalla aveva ricominciato a pulsare. Strinse i denti e si sedette all’interno, quindi si distese e rimase in attesa. Sentì il rumore dei chiodi inseriti nelle altre bare e, dopo qualche minuto, vide il giovane e sorridente volto di Christine sovrastarlo. Lei prese il coperchio e lo richiuse sopra di lui.

«Che i giochi abbiano inizio.» sussurrò ai tre colleghi in ascolto.

Disteso nella cassa Jane iniziò ad esplorare con la mano destra il materasso sotto di lui, ben presto si rese conto che da quel lato non c’era nulla di anomalo. Sospirò, naturalmente era il suo giorno fortunato. Iniziò a muovere la mano sinistra lungo il bordo del materasso e, poco dopo, individuò un piccolo sacchettino in plastica: lo sfilò da sotto il materasso e lo mise in tasca. Un gemito gli sfuggì mentre spostava la mano indolenzita.

«Tutto bene?» chiese Teresa allarmata.

«Bingo.» rispose sottovoce.

Una decina di minuti più tardi Christine tolse i chiodi e Jane riemerse dalla cassa. Sbadigliò leggermente assonnato e si alzò con cautela. La giovane lo fissò incuriosita.

«Tutto bene Mr Gordon?» chiese aiutandolo ad uscire.

«Perfettamente.» le rispose con un largo sorriso.

Lei lo ricambiò. Lui la osservò allontanarsi verso il palco e scambiarsi uno sguardo con Hea Woo Chung. Di Sullivan non c'era traccia, doveva essere uscito dalla stanza quand'era entrato nella cassa, notò Jane. Il consulente seguì gli altri partecipanti che si stavano lentamente spostando verso il centro della piccola sala. Sentì lo sguardo delle due donne su di lui a cui rispose con uno dei suoi affascinanti sorrisi.

Dopo un paio d’ore di ascolto Teresa, Grace e Wayne erano ormai annoiati e rassegnati a non poter ancora intervenire per chiudere il caso. All’ennesimo sbadiglio, Lisbon cominciò a dubitare dell’efficacia del piano di Jane. O l’infallibile consulente si era sbagliato, e sarebbe stata la prima volta, oppure il killer era molto furbo. Non aveva ancora provato ad ucciderlo e, pensò la bruna, probabilmente nemmeno l’avrebbe fatto. Il che la riportava alla domanda precedente, Jane poteva essersi sbagliato? Viste le condizioni in cui si trovata sarebbe stato plausibile.

Patrick dal canto suo, dopo aver ascoltato il discorso conclusivo di Hea Woo Chung e aver festeggiato con un piccolo rinfresco, stava aspettando di potersi allontanare per verificare il contenuto della busta. Finalmente la cerimonia sembrava definitivamente conclusa, alcuni dei partecipanti stavano salutando decisi ad andarsene.

Il biondo ne approfittò per allontanarsi, uscì da una delle porte laterali ed andò a rintanarsi in una delle salette adiacenti. Cho l’aspettava all’interno di quello che sembrava essere un piccolo sgabuzzino. Jane lo salutò con un cenno ed estrasse la busta dalla tasca e l’aprì.

«Uhm.»

«Volete condividere?» chiese Teresa sbuffando.

«Diverse dose di cocaina e – disse Cho studiando le pillole arancioni che aveva in mano – credo siano dell'ecstasy o qualcosa di molto simile.»

Il consulente sentì dei passi, prese dalle mani dell’asiatico la busta e se l’infilò in tasca, uscendo rapidamente dallo stanzino. Quasi si scontrò con Christine.

«Ehm… cercavo il bagno.» si giustificò lui con un sorriso.

«E’ da questa parte, l’accompagno. - rispose la donna. Si avvicinò alla porta e la chiuse a chiave.

«Abbiamo avuto delle sgradite sorprese ultimamente, è meglio essere prudenti.» spiegò riponendo la chiave in tasca e facendogli strada lungo il corridoio - Allora come si sente Mr Gordon? Le è piaciuta questa esperienza? Per qualcuno è addirittura illuminante.» disse guardandolo di traverso.

«Sono in estasi.» rispose lui giocando con le parole.

Lisbon dall’altra parte roteò gli occhi, mentre Grace sorrise.

La donna si fermò, si spostò di lato ed indicò il bagno. Jane la ringraziò con un cenno ed aprì la porta. Non fece nemmeno in tempo a fare un passo che venne spinto violentemente all’interno. Il consulente perse l’equilibrio e cadde di peso sul pavimento, Christine gli fu subito sopra e lo sbloccò con un ginocchio. Jane lanciò un grido di dolore. La donna si chinò su di lui con aria minacciosa.

«Non fiatare o sei morto» lo minacciò con un coltello.

Jane gemette in risposta. Sentiva delle fitte tremende al petto, il fiato gli mancava e una miriade di puntini bianchi iniziavano ad offuscargli la vista. Lui annuì gemendo.

Lisbon resasi subito conto di quello che stava accadendo scattò in piedi e cominciò ad abbaiare ordini a Risgby e Van Pelt e via radio a Cho che era ancora bloccato nello sgabuzzino. I tre si precipitarono immediatamente fuori dal furgone con le armi in pugno. Teresa sentiva il cuore batterle forte nel petto. Cho iniziò a colpire la porta a spallate, quindi sverrò un calcio e la sfondò.

La porta del bagno si aprì e Hea Woo Chung entrò, fissandolo con un sorriso gelido. Christine si alzò e Patrick trasse un profondo respiro. Si girò sul fianco destro e tossì un paio di volte.

«Allora Jeff, hai ancora voglia di fare affari con noi?»

«Siete state voi a uccidere Samantha…» disse il biondo in un sussurro.

«La sua arroganza l’ha uccisa. Ha sempre pensato di essere più intelligente di chiunque altro.» commentò Christine gelida.

«Avete scoperto che la droga che producevate si trasformava in veleno letale se unita al resorcinolo quando è morto lo spacciatore, non è così?»

La bionda corrugò la fronte, poi guardò la donna coreana che, però, non batté ciglio.

«Chi sei? - domandò Hea Woo Chung chinandosi verso Jane con uno sguardo tagliente – Di certo non ti chiami Jeff Gordon. Sei un poliziotto, vero?»

Christine iniziò a frugargli le tasche, ma non trovò la cimice che Jane aveva furbamente fatto scivolare all’interno della busta della droga, poco prima di uscire dallo stanzino. Lo afferrò per il bavero, minacciandolo con il coltello.

«Chi diavolo sei? Chi altro lo sa?» urlò perdendo il controllo e schiaffeggiandolo.

La donna coreana l’afferrò per una spalla fermandola. Patrick si arrotolò su sé stesso dolorante. La busta con la droga si aprì e la cimice rotolò sul pavimento. La giovane donna la prese e trasalì.

«Siamo fottute!»

«No. Non abbiamo detto nulla. Dobbiamo andarcene.» disse Hea senza emozione distruggendo la cimice con il piede. Quindi si spostò verso Jane e lo bloccò al pavimento con un ginocchio. Fece un cenno all’altra donna per ordinarle, senza parlare, di far fuori il consulente.

«Niente di personale biondo.- gli disse la giovane estraendo dalla tasca posteriore un astuccio con una siringa – non preoccuparti non ci vorrà molto.»

Jane tentò di ribellarsi alla presa della donna, ma era debole e non riusciva a muoversi. Cominciò a chiedere aiuto, ma le parole uscivano a stento. Christine si stava avvicinando al collo del consulente per iniettargli il veleno, quando la porta si aprì e Cho entrò arma in pugno. Sparò e colpì di striscio alla spalla la bionda facendola cadere su un fianco. Subito dopo entrarono Van Pelt, Rigsby e Lisbon. Hea Woo Chung si alzò lentamente con le mani in alto. Toccò a Rigsby ammanettarla e portarla via, mentre Kimball e Grace si occuparono di arrestare Christine.

Teresa si chinò a soccorrere Jane, che era immobile sul pavimento.

«Jane.» lo chiamò preoccupata.

Lui non si mosse, allarmata si abbassò verso di lui e gli toccò prima il collo per sentirne le pulsazioni, quindi cominciò a scuoterlo delicatamente, per capire se era privo di sensi e se era ferito in qualche modo.

«Potrei denunciarti per molestie, lo sai?» sussurrò con un lieve sorriso sulle labbra.

Lisbon roteò gli occhi, ma non disse nulla, felice che fosse cosciente. Patrick si lasciò aiutare da Teresa a sedersi. Il biondo si appoggiò su di lei per ricomporsi e prendere fiato: aveva il respiro affannoso e il viso sudato. Teresa lo fissò incerta.

«Come ti senti? Andiamo in ospedale»

«No… Non è necessario…Sto bene. Il divano del CBI e una tazza di tè saranno sufficienti.»




*versione volgare ed animale di "prostituta" in coreano

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Capitolo 6
*** A good friend is worth his weight in gold ***


Siamo alla fine del viaggio... questo è l'ultimo capitolo. Ringrazio di cuore chi ha letto questa FF e, soprattutto, chi ha recensito!! Che altro dire, spero di avervi incuriosito e divertito. 




Christine sedeva in completo silenzio nella sala interrogatori, il braccio sinistro appeso al collo, le gambe accavallate e lo sguardo fisso davanti a sé, fiero e sicuro. Sembrava calma ed imperturbabile, ma un lieve ed incontrollato movimento del piede sotto il tavolo, evidenziava il suo vero stato d'animo. Jane e Teresa erano seduti difronte a lei.

«Sappiamo che dietro a tutto c'è Hea Woo Chung. Se non parli la farà franca e tu ti beccherai come minimo l’ergastolo.» commentò Lisbon chiudendo teatralmente il fascicolo davanti a lei.

La donna sollevò appena un sopracciglio, un sorriso lieve sulle labbra.

«Sappiamo dei vostri ripetuti viaggi in Corea. - esclamò la bruna con decisione – Sappiamo che lo scopo non era studiare nuove tecniche di meditazione, ma capire come produrre una nuova droga. Hea Woo Chung ha una laurea in chimica, un po' insolito per un insegnante di yoga.» commentò poi con tono vagamente sarcastico.

«Samantha si è sempre chiesta come potevi permetterti viaggi in tutto il mondo con il tuo misero stipendio – aggiunse Patrick - Grazie ai suoi agganci con le gang non le è stato difficile scoprirvi.»

«Ha capito che l'Accademia era una copertura per ben altre attività ed è voluta entrare nell’affare. - intervenne Lisbon - La cosa è andata bene per un po’ poi, cos’è successo, è diventata troppo avida?» chiese la bruna con uno sguardo severo.

L'altra non reagì e Lisbon cominciò a sentirsi frustrata. Avevano già provato a interrogare la donna coreana, senza successo. Ora dovevano necessariamente far confessare Christine se volevano chiudere il caso ed arrestare entrambe. Non potevano permettere a Hea Woo Chung di farla franca.

«Abbiamo prove a sufficienza per incriminarti per omicidio ed aggressione a pubblico ufficiale. La droga nella siringa era la stessa usata per uccidere Samantha e ci sono le tue impronte sopra. Capisci cosa significa, Christine? - disse alzando la voce - Davvero vuoi pagare solo tu?»

La giovane la guardò dritta negli occhi con uno sguardo di sfida: non sembrava affatto preoccupata o intimorita dalle parole di Teresa. Jane la studiò con attenzione.

«In tutta la tua vita ti sei sempre sentita disprezzata, incompresa, sola. - le disse Jane, osservando le reazioni della donna alle sue parole - costretta a vivere all'ombra di una sorella più intelligente, più affascinante ed ambiziosa di te.»

Teresa notò un lieve tremito del labbro inferiore della donna, che ora aveva spostato il suo sguardo tagliente sul consulente. Particolare che non sfuggì nemmeno a Patrick.

«Hea, invece, ti ha fatto sentire intelligente, preziosa ed indispensabile. - continuò lui cercando di demolire la corazza di indifferenza dietro cui la giovane si era nascosta - Ha visto chi sei veramente e chi, invece, era Samantha. Ed ha scelto te.»

Christine corrugò la fronte.

«Si.» sussurrò appena.

«Tua madre prima e Samantha, poi, ti hanno sempre giudicata una perdente, un'incapace, un'illusa. Ma non Hea. No, lei ha visto di più in te. Ha capito.»

Christine si lasciò sfuggire un sospiro e abbassò la testa.

«Come credete ci si senta quando la tua famiglia ti disprezza? Quando tua madre non ha occhi che per tua sorella? Quando i tuoi sogni e le tue convinzioni vengono considerati delle sciocchezze? - ringhiò all'improvviso – Per anni è esistita solo e sempre Samantha. Ed io che mi sono presa cura di mia madre per decenni? Ero solo una nullità. Anche quando è morta, Samantha ha ereditato quasi tutto. A me sono rimaste le briciole.» concluse mordendosi il labbro inferiore.

Jane scambiò uno sguardo d'intesa con Teresa.

«E a te le briciole non bastavano più, non è così? - aggiunse Lisbon - Meritavi di più ed Hea ti ha aiutato ad ottenerlo.»

«Non si tratta di soldi! - sbottò scuotendo la testa - Avete idea del significato della parola amicizia? – aggiunse, poi, voce tremante – Avete mai avuto la fortuna di incontrare una persona che vi capisce, che vi apprezza per quello che siete e per la quale fareste qualsiasi cosa?»

Teresa deglutì a vuoto, si sentiva chiamata in causa da quest’ultima affermazione. Sì lei ne aveva una vaga idea. Guardò di nascosto il suo partner, che non sembrava essere particolarmente turbato dalla frase della donna. Lei, invece, sentiva uno strano calore nel petto: per Jane sarebbe stata disposta a tutto, anche a morire probabilmente. Corrugò la fronte.

«Io e Samantha potevamo anche aver avuto gli stessi genitori, ma non eravamo una vera famiglia. Con Hea, invece, ho scoperto finalmente cosa significa avere una sorella. Cosa significa essere amati.»

«E perché avete deciso di uccidere Samantha?» chiese Teresa senza più giri di parole.

Christine non rispose, si limitò a fissare intensamente il tavolo, non più così determinata e sicura di sé.

«Samantha aveva una relazione con Richard.» disse il consulente senza alcuna esitazione.

La bionda lo fissò stupita. Aprì la bocca un paio di volte per replicare senza, però, riuscire a dire nulla.

«Dubito che una donna si tatuerebbe “cagna” sulla spalla, seppur in coreano.» spiegò il biondo con un sorriso ammiccante.

«Credi che Hea non parlerà? Che non scaricherà su di te tutta la colpa?» la incalzò Lisbon con un tono più morbido.

«Non mi interessa. - rispose finalmente con voce tremante - Samantha ha avuto quello che si meritava. Si scopava Richard senza preoccuparsi di nasconderlo. Come se le fosse dovuto. Cagna è il termine più appropriato, non trovate?» sibilò la donna.

Teresa e Patrick si scambiarono uno sguardo, lui sorrise soddisfatto. Dopotutto aveva avuto ragione, la relazione segreta c'era, eccome. Lisbon roteò gli occhi leggermente infastidita.

«E’ per questo che avete progettato di ucciderla. – sussurrò l'agente – Hea ha scoperto la relazione e ha deciso di farla fuori. E poi avete cercato di cancellare le tracce appiccando l'incendio.»

«Tu l'hai aiutata.- affermò Jane – sapevate che la nuova droga era molto potente, ma anche instabile e che se tagliata con il resorcinolo, un banale antisettico, si trasformava in un veleno mortale. - sorrise mentre ricostruiva passo, passo la dinamica dell'omicidio – Così avete pensato ad un piano. Avete sciolto la droga nell’inchiostro che Hea ha usato per il tatuaggio di Samatha, mentre l'antisettico era nei chiodi che hai usato tu quella mattina per chiudere la sua cassa. E' bastato un graffio... Davvero astute. Se avessimo controllato da cima a fondo l'intera sala, non avremmo trovato nulla di compromettente perché bisognava sapere cosa cercare. Peccato, stavate per farla franca.»

«A me sembrano solo elaborate congetture. Se credete che io vi aiuterò ad accusare Hea vi sbagliate di grosso.» disse con tono di sfida.

«Abbiamo il veleno nella siringa e le tue impronte, non è sufficiente per convincerti? - sbottò Lisbon - Ti conviene collaborare se vuoi evitare la pena di morte.»

«Non dirò una parola di più senza il mio avvocato.»

La porta della sala interrogatori si aprì improvvisamente e Rigsby si bloccò all’ingresso, sorpreso di trovare qualcuno all’interno. Dietro di lui Cho stava parlando con Hea Woo Chung.

«Ops, scusate!» farfugliò Wayne fingendo imbarazzo e continuando a tenere la porta aperta in modo che Christine potesse osservare bene la scena alle sue spalle.

Lei corrugò la fronte quando riconobbe la figura femminile dientro all’agente. Le due donne si fissarono in silenzio, ma Hea distolse rapidamente e colpevolmente lo sguardo. Christine deglutì a vuoto.

«Chi trova un amico, trova in tesoro, non è così?» aggiunse il consulente sorridendo e facendole l’occhiolino.

La donna abbassò lo sguardo turbata e si lasciò sfuggire un sospiro.

 



Seduto alla sua scrivania Cho, con il suo consueto stoicismo, fingeva di compilare dei documenti mentre, in realtà, rimuginava sul caso. Non era il tipo che si lasciava coinvolgere, ma questa storia, in qualche modo, gli aveva fatto ripendare a Summer e alla loro recente separazione.

Involontariamente e stupidamente, aggiunse, si era sentito in qualche modo vicino a Sullivan e sua moglie. Non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma anche lui come Grace aveva provato una sorta di simpatia a compassione per quella coppia. Ora, l'aver scoperto che lei era una spacciatrice ed assassina e il marito un delinquente fedifrago, lo faceva sentire uno stupido.

L'amore aveva un sapore agrodolce, si disse, quindi si domandò se, un giorno, avrebbe rivisto Summer. Ricordò la morbidezza delle sue labbra e il calore del suo corpo con nostalgia e un pizzico di rabbia. Nessuno di questi sentimenti, però, era in qualche modo visibile a chiunque lo avesse osservato in quel momento.

Chiuse il fascicolo con la consueta tranquillità e diede uno sguardo fugace in direzione di Grace. La rossa aveva un'espressione triste. Kimball non faticò ad intuire a cosa stesse pensando, anche per Van Pelt l'epilogo della vicenda aveva avuto delle ripercussioni negative. Accortasi dello sguardo del collega sollevò lo sguardo verso l'asiatico: si fissarono in silenzio per qualche istante. Non c'era bisogno di dire nulla, entrambi conoscevano esattamente i pensieri dell'altro. La rossa si alzò dalla scrivania, passò accanto a Cho e, prima di scomparire nel cucinino, gli diede una lieve stretta alla spalla, a cui Kimball rispose con un imprecettibile sorriso.

Nel cucinino del CBI Rigsby era intento a preparare i pop-corn al microonde, quando Van Pelt fece il suo ingresso: il volto scuro e l'aria assorta. La rossa fece un cenno a Wayne ed afferrò una tazza riempiendola di caffè fino all'orlo.

«Tutto ok?» la interrogò l'agente con un sorriso incerto.

«Si, perché?»

«Non è un po' tardi per il caffè? Sono quasi le sette, non soffri di insonnia se lo bevi dopo le cinque?»

La rossa lo guardò di traverso con un sorriso ironico. A volte dimenticava che erano stati intimi.

«Potrei dire lo stesso di te... Non dovresti mangiare quelle porcherie prima di cena.»

Rigsby ridacchiò.

«Forse hai ragione...» disse.

Il microonde segnalò la fine del tempo stabilito per la preparazione dei pop-corn e Wayne estrasse il sacchettino dal forno.

«Perché sei così turbata?»

Grace sospirò.

«Hea Woo Chung e suo marito sembravano così felici insieme – ammise con tono malinconico - così innamorati l'uno dell'altro, che per un momento ho creduto che l'amore vero e pulito potesse esistere.»

Rigsby tossicchiò imbarazzato.

«In realtà si sono rivelati dei criminali. - abbassò lo sguardo smarrita – L'umanità fa schifo Wayne, non so perché mi stupisco ancora di questo. Qualcosa di puro e bello esiste ancora?»

Rigsby sorrise e le allungò il suo telefono. Sul display Van Pelt vide il volto innocente di Benjamin.

La rossa sorrise teneramente, quindi guardò Wayne con gratitudine e dolcezza.

«Hai ragione. - sussurrò - Quando vedi questi occhi non hai più dubbi. Grazie... Sarah è fortunata ad averti vicino.»

Rigsby sospirò imbarazzato. I due rimasero in silenzio a guardarsi persi nei loro pensieri e ricordi. Grace sentì un brivido lungo la schiena, mentre Wayne rimase immobile: non osava muovere un muscolo, temendo di interrompere l'atmosfera speciale creatasi tra loro. Erano vicini, occhi negli occhi.

Jane fece il suo improvviso ed inaspettato ingresso con un voluminoso sacchetto di carta in mano. I due si allontanarono velocemente, cercando di nascondere l'imbarazzo. Rigsby si concentrò nell'apertura dei pop-corn, che quasi gli esplosero in mano, mentre Van Pelt rifugiò il volto nella sua tazza fumante. Jane fece finta di niente: appoggiò il sacchetto sul bancone e prese un accendino dal primo cassetto.

«Ciao.» li salutò il biondo.

«Ehi, Jane – rispose la rossa osservandolo incuriosita – che hai lì?»

Il consulente le sorrise maliziosamente.

«Benessere ed allegria.» rispose uscendo rapidamente dalla stanza.

Grace guardò dapprima Rigsby alla ricerca di una qualsiasi risposta, quindi corrugò la fronte, fece spallucce ed uscì dalla saletta, seguita a ruota da un Wayne altrettanto perplesso e smarrito.

 



Finalmente, dopo aver fatto confessare Christine e Hea Woo Chung, arrestato il marito per spaccio di stupefacenti e consegnato il rapporto a Wainwright, Teresa rientrò nel suo ufficio. Era stanca, ma soddisfatta: un altro caso era stato chiuso in tempo di record. Ora avrebbe bevuto la sua immancabile tazza di caffè serale e se ne sarebbe tornata a casa, non prima, però, di aver fatto quelle famose quattro chiacchiere con Jane.

Entrò nel suo ufficio e rimase a bocca aperta. L'intera stanza era illuminata da una serie di piccole candele arancioni che creavano una piacevole ed accogliente atmosfera. Nell'aria c'era profumo di agrumi e cannella. Teresa si guardò intorno sorpresa, un lieve sorriso sulle labbra. Aveva una vaga idea di chi poteva essere l'artefice di tutto questo. Sorrise. Si avvicinò alla scrivania e vide un cartoncino bianco in bella mostra. Lo prese delicatamente con la destra e l'aprì, su un lato c'era una scritta in coreano e nell'altro l'inconfondibile calligrafia del suo consulente.

«Si pronuncia “chingu” e significa “amico”. - lesse tra sé - L'amicizia è una presenza che non ti evita di sentirti solo, ma rende il viaggio più leggero. Patrick.»

Lisbon lesse la frase più volte: era confusa. Rimase in piedi nella stanza con un sorriso imbarazzato per un po', rigirando il cartoncino tra le dita, indecisa sul da farsi. Un leggero rossore iniziava a colorarle le guance. Jane aveva capito che era rimasta particolarmente turbata dal discorso di Christine. A volte era davvero un libro aperto per lui. Si mordicchiò il labbro inferiore, quindi uscì dall'ufficio dirigendosi verso il cucinino alla ricerca del suo consulente. Il bullpen era ormai deserto, il resto della squadra, infatti, era già tornato a casa. Jane era intento a prepararsi una tazza di té. Era ancora molto pallido e aveva gli occhi leggermente arrossati, oltre ai capelli in completo disordine. Lui la vide entrare e le sorrise. Teresa rispose al sorriso, ma non riuscì a guardarlo negli occhi.

«Jane... ehm... Grazie per... uhm... cosa significa?» balbettò indicando il suo ufficio.

«Cromoterapia.» spiegò, come se ne non avessero parlato d'altro.

Lei lo guardò confusa.

«L'arancione aumenta l'allegria e l’ottimismo ed è ideale per combattere lo stress o i dolori di tipo cervicale... - spiegò - Secondo la cromoterapia, rigenera e ricarica chi è stanco.»

«Ti sembro particolarmente stanca?» chiese quasi indispettita.

Lui la guardò con un sorrisetto malizioso, ma non rispose.

«Da quando sei diventato un esperto in medicine tradizionali?» commentò lei appoggiandosi al frigorifero.

«Sono un uomo dalle mille risorse.»

La bruna scosse la testa con un sorriso beffardo.

«Già…Feng-shui, coreano e adesso cromoterapia...Tutto meno che la boxe, eh?» lo provocò poi.

«Nessuno è perfetto.»

«Ma non mi dire. - Teresa non riuscì a trattenere una risata. - Pare che questa volta ti sia andata bene, comunque. La denuncia contro di te è stata ritirata.»

«Qualcuno deve aver fatto cambiare idea a Doyle e Smith.» disse con un sorriso.

«Non ho idea di cosa tu stia parlando.»

Il consulente ridacchiò, ma non aggiunse altro.

«Dovremmo andare all’ospedale.» aggiunse dopo un po'.

«Stai male?» chiese lui guardandola con aria innocente.

Teresa sbuffò.

«Jane…»

«Una tazza di té, una dormita e sarò come nuovo!» affermò facendole il migliore dei suoi sorrisi e dondolandosi sui talloni.

La bruna corrugò la fronte poco convinta. Patrick sollevò la tazza alle labbra e bevve un lungo sorso, sopirando, poi, soddisfatto.

«Un po’ di tè?» chiese, poi accennando al bollitore.

Lei non rispose. Jane ne studiò il volto serio.

«Dobbiamo parlare, prima.» commentò lei.

«Non c’è molto da dire… Non hai già tutte le informazioni che ti servono?»

«Jane, voglio solo sapere da te perché ti sei fatto coinvolgere in una rissa! Doyle è un idiota, ma non è certo il primo che ti provoca! Cosa ti è preso?» chiese esasperata.

L’uomo sollevò gli occhi al cielo e si lasciò sfuggire un sospiro.

«Non avevo scelta. Lui ha... - fece una pausa cercando di gestire le sue emozioni - Ha detto delle cose sulla mia famiglia... su di te... Non potevo lasciar perdere. - inspirò rumorosamente – Semplicemente non potevo permettergli di parlare di te e di Angela in quel modo.»

Teresa lo fissò con comprensione. Ripensò a quello che Smith le aveva riferito quella mattina, in merito a cosa si erano detti Doyle e Jane prima di venire alle mani e sentì un fremito nello stomaco. Doyle aveva provocato Jane a lungo prima che lui passasse dalle parole ai fatti: prima chiamandolo ciarlatano, accusandolo di rovinare la reputazione del CBI a causa delle sue pagliacciate. Aveva parlato di Red John, della morte della moglie e della figlia di Jane, dell’omicidio di Carter per cui, secondo l'agente, era stato ingiustamente assolto. Quindi aveva denigrato il team definendoli le sue marionette ed infine si era accanito su di lei, chiamandola la sua puttana. Dopo che Doyle gli aveva chiesto com’era a letto, cosa le piaceva fare e se era meglio di sua moglie, lui l’aveva colpito. Il resto era storia.

Lei lo fissò in silenzio, lui guardava un punto poco al di sopra della sua spalla: la maschera un po’ meno salda del solito. Teresa sentì un nodo di emozione chiuderle la gola.

«Ok.» sussurrò con un filo di voce.

I due si guardarono in silenzio per qualche istante. Sguardi e silenzio erano carichi di mille emozioni inespresse.

«Tè?» chiese Jane per alleggerire l’atmosfera.

Teresa sorrise. «Volentieri.»

Lui si girò, aprì uno stipetto e si allungò per prendere una tazza, lei stava per avvicinarsi per aiutarlo quando notò una strana macchia sul pavimento, si chinò per toccare con la mano la sostanza vischiosa. Guardò le dita rosse di sangue a bocca aperta, quindi alzò lo sguardo verso il suo consulente che si era improvvisamente appoggiato al bancone, tremante ed incerto.

«Dannazione… Jane!» lo chiamò.

Lo vide battere più volte le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco, quindi voltarsi verso di lei con uno sguardo vitreo e scivolare a terra in pochi secondi.

«Jane!» gridò Teresa afferrandolo appena in tempo, impedendogli di sbattere violentemente la testa.

Lui era sul pavimento semi-cosciente: il volto esangue e sudato, il respiro corto e rapido. Lisbon prese la testa del consulente e l'appoggiò sulle sue ginocchia, quindi iniziò ad allargare i bottoni prima del panciotto, poi della camicia per aiutarlo a respirare. In qualche modo riuscì a fargli togliere la giacca e notò che la manica sinistra della camicia era impregnata di sangue fino al gomito.

«Che diavolo…Chiamo un'ambulanza!» esclamò con voce tremante prendendo il cellulare dalla tasca.

«No! Teresa... per favore. - balbettò l'uomo cercando di mettersi a sedere, lei lo bloccò a terra – Ho solo bisogno di... Nessun ospedale, per favore.» le strinse la mano per convincerla.

Lei lo fissò preoccupata, quindi annuì con riluttanza.

«Appoggiati qui – gli disse aiutandolo a sedersi contro lo stipite della cucina - vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. Ma se la ferita è grave andiamo in ospedale, non voglio storie, ok?»

Lui annuì appena.

Dopo qualche minuto Jane era seduto sul divano nell'ufficio di Lisbon a petto nudo. I lumini erano ancora accesi tutto intorno ed il loro profumo gli solleticava il naso. La camicia insanguinata era abbandonata a terra. Il consulente sedeva in silenzio imbarazzato con una t-shirt sgualcita, recuperata in un armadietto del CBI, appoggiata sulle ginocchia e lo sguardo concentrato sulle mani di Teresa, intenta a medicare il braccio ferito.

«I tagli si stavano infettando ecco perché sanguinava tanto... Per questo sei quasi svenuto - gli spiegò la bruna a voce bassa proseguendo nell'operazione di bendatura – dovresti far controllare le costole da un medico – aggiunse poi indicando il livido bluastro sul costato sinistro. - potrebbero essersi definitivamente rotte per colpa dell'aggressione di Christine.»

«Meh…- ripose lui con un lieve sorriso sulle labbra – perché disturbare un medico quando si può contare su un'infermiera così brava... ed affascinante.»

Lei lo gelò con uno sguardo.

«Qualche livido in più non credo si noterebbe.- lo minacciò lei – Possibile che tu sia così irresponsabile e testardo?»

I due si studiarono in silenzio per qualche istante. Teresa fu la prima a distogliere lo sguardo. Jane sorrise con tenerezza, quindi le prese una mano. Lei trasalì, ma non si mosse.

«Non è colpa tua.»

«Certo che non è colpa mia! Sei tu che sei un asino!» sbottò la donna seccata.

Era arrabbiata con lui perché non le aveva detto subito la verità e l’aveva tagliata fuori. Era arrabbiata con lui soprattutto perché aveva messo a rischio la sua salute. Davvero aveva così poca cura di sé, non pensava che lei si sarebbe preoccupata? Non sapeva, ormai, che teneva a lui e che erano una famiglia?

«Non volevo che ti preoccupassi.»

«Certo, come no. Infatti adesso non sono preoccupata, vero? - esclamò irritata porgendogli un bicchiere e degli antibiotici – Prendi questo... E adesso girati, devo metterti un po' di pomata.»

Lui inghiottì le pillole, quindi ruotò il busto per permetterle di intervenire più agevolmente. Appoggiò la testa sul divano sospirando.

Teresa iniziò a spalmare la crema sul costato con delicatezza cercando di non fargli male, Jane rabbrividì al contatto delle dita sulla pelle. L'atmosfera tra loro si stava facendo particolarmente tesa. Ad un tratto Lisbon si rese conto dell'ambiguità della situazione. Erano chiusi nel suo ufficio illuminato solo dalle piccole candele profumate, lui a torso nudo seduto sul divano, mentre lei gli accarezzava il torace. Solo ora, inoltre, notava che, sotto panciotto e camicia, era nascosto un fisico niente male. Cercò di non guardarlo negli occhi per evitare che lui potesse leggere cosa le stava passando per la testa. Sentiva un insolito calore salirle dallo stomaco fino a colorarle le guance.

«Ecco fatto.» disse dopo aver terminato la medicazione e sistemato la garza.

Jane non rispose. Teresa sollevò lo sguardo verso il biondo e si accorse che si era appisolato. Il respiro finalmente regolare e il volto disteso. Sorrise. Prese una coperta ed un cuscino, mise una mano sulla spalla di Patrick spingendolo con delicatezza in modo che si distendesse sul divano. Lui si lamentò un po', ma non oppose resistenza. Lisbon si guardò intorno, raccolse la camicia di Jane da terra, la piegò e l'appoggiò su una sedia.

«Buonanotte chingu.» sussurrò lei coprendolo con il plaid.

La bruna spense le candele sulla sua scrivania, quindi afferrò la sua borsa, diede un'ultima occhiata al consulente per assicurarsi che stesse bene prima di uscire e tornare a casa.

«난 널 사랑해 (Nan neol salanghae)*.» le disse, senza aprire gli occhi, prima che la donna uscisse.

«Come?» lei si bloccò sulla porta.

«Grazie, Teresa.»

«Forse volevi dire고맙습니다 (Komapseumnida)**» disse lei con un enigmatico sorriso.

Lui la guardò con un espressione stupita. Lisbon esultò tra sé, soprendere Jane non era cosa da tutti in giorni. Decise di godersi questo momento.

«Ti ricordo che conosco Cho da più tempo di te.» aggiunse, quindi uscì salutandolo con la mano.

Jane sorrise, la seguì con lo sguardo finché non sparì dalla sua vista, quindi spense con un soffio l'ultima candela rimasta accesa accanto al divano e si riappisolò.
 


* ti voglio bene

** grazie

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