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Lasciatemi
fare questa premessa, e leggetela, per favore (proverò ad
essere breve),
altrimenti non capirete quello che segue.
È
passata un’infinità di tempo (quanto, uno? Due
anni?), e in questo tempo non
sono stata a sollazzarmi. Ho iniziato
l’università, ho scritto, lo letto, ho
visto e… ho anche vissuto. E ho trovato un posticino nel mio
tempo per
continuare a coltivare questa storia. Volevo che l’intera
Cullen’s Love fosse
corretta prima di iniziare a pubblicare gli extra. Non sono andata
tanto
lontano, ma almeno ho corretto i primi capitoli. Ho deciso di
pubblicare
comunque, perché non era giusto farvi aspettare ancora. Per
chi sta leggendo la
storia corretta vi assicuro che continuerò il lavoro.
Veniamo
alla parte succulenta, gli extra. Ho deciso di pubblicarli in una
“storia” a sé
stante.
Il
primo
extra tratterà di
quel periodo che va da quando Edward trova Bella a Goat Rocks,
liberandola da
Jacob, fino a quando lei non capirà di aspettare un bambino,
tutto dal pov
Edward. Non è un mero cambio di pov (anzi, quasi per
niente), perché con gli
occhi del bel vampiro vedremo quasi ed esclusivamente situazioni
inedite.
Il
secondo
extratratterà
invece del periodo che va dalla nascita di
Kate fino sostanzialmente all’epilogo attuale della storia,
riempiendo il salto
temporale. I pov saranno alternati fra quello di Edward e quello di
Bella.
Preoccupate
per il fatto che gli extra siano solo due? Non siatelo. Gli extra sono
abbastanza lunghi da poterli considerare un piccolo seguito.
Ed
ora, semplicemente, godeteveli.
Edward e Bella si trovano nella
baita dove Jacob l’ha
tenuta prigioniera. Il passo riportato è un
Edwrad’s POV, appena dopo che Bella
ha ucciso il suo carceriere. Si può trovare nel
Bella’s POV nel capitolo
originale (27 “Sopravvivere”).
Giorno 1:
1 Settembre.
Una scia di sangue mi separava dal
suo corpo odoroso.
Non era qualcosa di spaventoso, di inquietante, di disgustoso. Il
pensiero che
dovessi far vincere la mia parte razionale per sentirmi spaventato e
preoccupato mi faceva sentire solo quello che ero: un mostro.
«Bella» la
chiamai, sollevando una mano, tremante,
verso il suo viso. I suoi occhi erano vitrei, lontani, persi. Aveva i
polpastrelli incollati alle labbra, e le toccava, le sfregava, come
faceva
sempre quando si sentiva sola, quando si sentiva impaurita.
«Bella amore, sono
qui…» mormorai, più che flebile, nel
tentativo vano di rassicurarla e
contemporaneamente trovare un modo, un motivo, uno spazio qualsiasi per
abbracciarla, dopo tutto quel tempo, troppo, per cui mi era stata
strappata via.
Mi chinai vicino al suo corpo,
accasciato contro la
parete legnosa di quel muro che l’aveva tenuta prigioniera.
Ogni boccata del
suo profumo era tanto piacevole da essere dolorosa.
Allungai le braccia, continuando a
pronunciare il suo
nome, misto di confortanti parole che mi sgorgavano dalle labbra.
Sussultò,
tremò. Farfugliò, con le labbra agitate.
«Lasciami… l’ho
ucciso…».
Lasciami.
Pulsò saettante nella mia mente. I vampiri sono creature
incorruttibili, ma
quando provano dolore, è come se fosse miliardi di volte
amplificato. Presi un
respiro, e lessi lo shock nei suoi occhi. Era terrorizzata.
Allungai una mano, e per un attimo
pensai che stesse
tremando. No. Non era la mia mano, era il corpo di Bella, a tremare.
Erano le
sue gambe, intrise di sangue, sfregate convulsamente l’una
sull’altra.
Presi un altro fiato, facendomi
passare il fiele nei
polmoni. «Bella, amore, vieni qui» la supplicai.
Non sapevo davvero se fossi io
a lei ad avere più bisogno dell’altro.
«Vieni da me, ti devo aiutare, stai male».
Si prese il capo fra le mani,
scosse il capo. I miei
occhi precipitarono ancora vero il basso, verso il sangue. Aveva appena
ucciso.
Chissà cosa le aveva fatto. Il sangue.
«Fa
male…» singhiozzò, l’inizio
di una cantilena «fa
male, fa male…».
Annaspai, allungando entrambe le
braccia nella sua
direzione. L’unico modo per mettere a tacere quel dolore che
non stavo provando
era riaverla, lì, dove era solo il suo spazio. Dove il vuoto
aveva invitato
l’agonia. «Lo so amore, lo so».
Il suo corpo fu attraversato da uno
spasmo. «Non ti
avvicinare!».
«Amore, vieni con me, ti
porto da Carlisle, starai
meglio…».
Si ripiegò su
sé stessa, riprendendo a farfugliare. I
capelli erano arruffati, i vestiti laceri, la pelle bianca e pallida
sotto lo
strato di sangue e sporcizia. Cosa stavo osservando? La mia morte aveva
forse
deciso di rivelarsi? E se così non era, perché
allora mi sentivo peggio che
morto?
La richiamai, tendendo una mano
verso il suo viso.
Dolce, dovevo essere dolce, e lieve, perché lei era davvero
troppo fragile.
«Stai perdendo sangue».
Deglutì, come se per un
attimo avesse ritrovato la sua
ragione, e abbassò il viso sul suo corpo. Il capo
ondeggiò verso la parete.
Automaticamente mi sporsi ad
afferrarla, ma si
ritrasse. Bruciava come il veleno di vampiro.
«Se vuoi ti medico io,
magari non c’è bisogno di Carlisle, ti prego
Bella, fatti aiutare».
Sussultò,
singhiozzò, e sollevò gli occhi su di me.
Era pallore, morte, e sangue, come quello iniettato nei suoi occhi
vuoti. Che
ne era della donna che amavo? Che me ne aveva lasciato, se non
brandelli di
anima dopo averla lacerata? «No… non mi
toccare…».
«Bella».
Se avessi saputo che, per molto
tempo, quella sarebbe
stata la sua ultima parola, e che non avrebbe più voluto
vivere, probabilmente
non sarei sopravvissuto al dolore. Ma fortunatamente, vampiri o no,
spesso il
futuro preferisce nascondersi.
«No».
Bruciava più
che il veleno di vampiro.
Giorno 4:
4 Settembre. Quattro giorni dopo, non abbastanza perché le
condizioni di Bella
siano migliorate. Siamo ancora nelle prime fasi, le peggiori.
Mi accampai sotto un albero
abbastanza grande perché
potessi rimanere asciutto. Non che mi importasse qualcosa di bagnarmi o
meno,
ma non avrei voluto entrare in camera fradicio, rischiando - qualora
avesse
voluto anche solo toccarmi - di bagnarla.
Sospirai, facendo entrare e uscire
l’aria umida nei
polmoni. Mi sentivo davvero vuoto.
Avevo creduto di essere morto
quando Jacob me l’aveva
portata via, ma non avevo fatto i conti con quello che mi aspettava
dopo. Come
avrei potuto immaginare, d’altronde, che il mio amore, Bella,
mia moglie, si
riducesse in questo stato?
Strinsi le nocche di una mano,
serrando
contemporaneamente i muscoli della mascella e irrigidendo il corpo.
Dovevo
avere fede. Era salva, e questo importava. Si sarebbe ripresa. Presto.
Temporeggiai sul ramo, aspettando
prima di rientrare
in casa. Mi era sembrato assurdo che dovessi uscire mentre mia sorella
medicava
mia moglie in bagno. E non solo perché ardevo fra il terrore
e il desiderio di
sapere cosa le avesse fatto quel mostro, ma anche perché era
dannatamente ed
egoisticamente arrabbiato dal fatto che Bella avesse scelto lei.
Rosalie. Aveva
scelto mia sorella Rosalie anziché me, per fidarsi.
E invece io avrei potuto curarla,
vezzeggiarla,
parlarle, accarezzarla…
Se solo me l’avesse
permesso.
Rose diceva che era proprio il
contrario. Era perché
l’aveva sempre trattata freddamente, perché con
lei non aveva nulla da perdere,
che non si vergognava. Con me, invece…
Non è semplice vergogna,
Edward. Fa così male da non
riuscire a respirare. A vivere. Così
aveva detto. Da ritenere di non meritare neppure di mangiare.
Figurarsi
il mio amore.
Ma l’avrei anche
volentieri stretto in un minuscolo
cassettino, questo mio amore, se avesse significato che poteva
concedermi
almeno di sfiorarla un attimo…
«Chiama qualcuno, chiama
Esme!» gridò la voce agitata
di Rose, oltre il bosco.
Mi drizzai immediatamente, balzando
giù dal ramo. E
cominciai a correre.
«Ma cosa…? Che
succede?» domandò sorpreso mio padre.
«Non lo so,
lei… Dobbiamo rimanere calmi, va bene?
Calmi».
E correre, correre, e correre.
«Cosa diavolo
è successo? Dimmi, cosa diavolo è
successo!» sbraitai, urlando contro mia sorella.
Restò ferma nella sua
posizione, senza farsi
intimorire. «Te l’ho già detto, Edward.
Smettila di minacciarmi. Ero solo
andata a prenderle un po’ d’acqua e si è
chiusa là dentro. Mi sono allontanata
solo un secondo».
Ansimai di rabbia, la vista
accecata di rosso. «E
spiegami, perché, dannazione, è ancora
lì dentro!» urlai, indicando con un dito
la porta del bagno chiusa dentro cui si era barricata mia moglie.
Prese un respiro secco, come se
così avrebbe calmato
anche me. Illusa. «Non possiamo costringerla ad uscire.
È contro ogni passo che
ho cercato di fare con lei in questi giorni»
sibilò, a voce bassa in modo che
non potesse udire «le ho detto che era libera. Se ora la
obbligassi, perderei
ogni cosa».
Strinsi i denti, angosciato.
«Non mi sembra che tu
abbia fatto molti progressi, eh Rose?».
«Ragazzi,
calmiamoci» intervenne Carlisle, mettendosi
fra di noi. «Ora l’importante è
convincerla ad uscire di lì. Non litigate».
Mi voltai nella sua direzione,
infuriato. «Non è
questo l’importante, no! L’importante è
distruggere quella dannata porta e
tirarla fuori di lì, perché io non so, davvero,
cos’hai lì dentro, ma non credo
che manchino lame e siringhe» ansimai, rabbioso.
Uno strano silenzio calò
nella stanza. Due secondi.
Stavo per distruggere la porta quando sentii dei suoni. Dei singhiozzi.
Presi un respiro, chiudendo gli
occhi. Liberai tutta
l’aria che avevo conservato nei polmoni e mi avvicinai alla
porta del bagno.
Mia sorella mi posò una mano su un braccio, ma me ne liberai
con un movimento
secco.
Posai la mano sulla porta. E
bussai. «Bella. Amore» la
chiamai, alzando appena la voce. Ancora singhiozzi. «Amore,
vorresti uscire di
lì, per favore?». Per un attimo si
fermò, per ricominciare. Sospirai,
lasciandomi scivolare contro il legno. «Va tutto bene,
è chiaro? Va tutto bene.
Sono qui, sono qui per te. Va tutto bene».
La sentii respirare più
forte, e poi il suono delle
sue mani contro le piastrelle. Si stava spostando. Animato di speranza
tesi
l’orecchio ad aspettare che si avvicinasse ancora. Ma si
bloccò, urtando contro
qualcosa. Ansimai, terrorizzato, pronto a distruggere quella porta che
ci
separava e salvarla. Meglio una moglie muta che morta.
Due secondi dopo sentii
l’inconfondibile suono dei
conati filtrare dalla porta per giungere nitidamente a me, misti
all’odore acre
che si spandeva per la stanza.
Feci per sollevarmi ed entrare e
aprii la bocca per
parlare, ma mia sorella Rose mi bloccò, mettendomi una mano
sulla bocca. Si
portò un dito alle labbra, intimandomi di tacere.
La fissai, irato. «Fai
silenzio, ora. Aspetta che
finisca. Se le parli adesso non otterrai nulla, tranne che farla stare
male. È
vulnerabile. Si sente in colpa. Aspetta…»
m’intimò, sollevando lo sguardo
verso la porta «…qualche secondo»
pensò, e poi tolse la mano che aveva tenuto
premuta sulle mie labbra.
Deglutii, non sentendo
più i conati far vibrare
l’aria. «Vuoi uscire per favore, Bella? Ti sto
aspettando. Vorrei che venissi
qui con me. Puoi uscire?» domandai speranzoso, la voce ora
venata da un lieve
tremito.
La sentii ancora muoversi nella mia
direzione. Si era
sollevata in piedi. Feci lo stesso, aspettando agitato appena dietro la
porta. Girò
la chiave nella serratura. La maniglia si abbassò, mentre i
miei occhi erano
diretti in quelli di mia moglie.
Era pallida, smunta. I capelli, che
Rose aveva
convinto a lavare, erano disordinati e avevano assunto la forma del
cuscino sulla
nuca. Risaltavano così scuri, gli occhi, sul volto pallido.
Sospirai, sollevato. Era viva. Per
essere stato così
tanto tempo a mettere in dubbio qualcosa di così basilare
come la sua vita, ora
non potevo non sorridere appena la vedevo. E così feci.
Due lacrime, una per occhio,
scesero lungo le sue
guance, il viso ancora nascosto in parte dalla porta che teneva
semi-aperta.
Il sorriso vacillò per
un attimo. Un attimo. L’attimo
in cui mi ripetei che mia moglie era viva, e che tutto sarebbe comunque
andato
per il meglio. «Vuoi tornare a letto? Sei stanca?»
domandai con dolcezza, non
osando neppure toccarla, nonostante uno dei miei più grandi
desideri fosse
quello di sfiorarle una lacrima.
Piano, annuì, senza
staccare gli occhi dai miei. Aprì
un po’ di più la porta, quanto bastasse per
lasciare scivolare il suo corpo
esile. Osservò, fuggevole, mia sorella e mio padre, in piedi
nella stanza,
abbassando immediatamente lo sguardo. Camminavo accanto a lei, pronto,
in ogni
secondo, al momento in cui mi avrebbe concesso di toccarla. Di iniziare
ad
aiutarla.
Dopo tre passi si fermò.
Impallidì e tremò,
vacillando.
Mi feci avanti, ansioso.
«Ce la fai? Se non riesci a
camminare ti posso prendere io, ti posso portare a letto…
solo un secondo, il
tempo di…».
Scosse il capo, lasciando cadere
altre lacrime, ferma
sul posto e tremante.
«Ma solo
per…» soffiai, senza staccare gli occhi dalla
sua guancia bagnata.
Rose si avvicinò in un
secondo, tenendole la mano.
«Vieni qui, Bella. Ti porto io. Non ti stancare, potresti
riaprire le ferite»
disse, e con un movimento fluido la prese fra la braccia.
Non si mosse. Rimase ferma,
composta, gli occhi bassi,
senza lasciarsi andare contro il petto di mia sorella.
Oh… avrei
così tanto voluto poter piangere anch’io.
Mi avvicinai al suo letto. Si era
rannicchiata, al
centro. Tirai un sospiro, sorrisi, e sollevai le coperte fino a
coprirla
completamente. Senza nemmeno sfiorarla, come mi aveva chiesto.
Feci per chinarmi e baciarle la
fronte, ma mi bloccai,
a soli pochi millimetri di distanza.
«Ti amo»
sussurrai invece, e capii, dallo
sguardo nei suoi occhi, che mi aveva sentito.
Eccoci
qui!
Spero
tanto che vi sia piaciuto, l’ho scritto col cuore.
Solo
un’altra piccola cosa: io e tsukinoshippo
stiamo scrivendo una specie di
quattro mani.
“The
Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica,
piena di gonne vaporose e amore,
che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena
nati o
in arrivo.
Giorno 6: 6 Settembre.
Bella ricomincia a parlare (corrisponde al capitolo 30 “Fra
le sue braccia”).
«Edward».
Quel sussurro aveva squarciato il
silenzio. No, non
poteva essere. Era un’illusione della mia mente quella che
richiamava il suono
della voce di mia moglie. Così basso, flebile,
così lontano…
Mi bastò un secondo,
chiudendo gli occhi, per vedere
l’immagine del suo corpo riverso al suolo, un denso rivolo di
sangue e colarle
fra le braccia. Gli occhi, vitrei, quasi neri, impressi
nell’ultima immagine
prima della morte. Quello che poche ore prima aveva visto mia sorella
Alice. Il
suo suicidio.
Come poteva essere così
disperata da pensare di porre
fine alla sua vita?
Ansimai, spostandomi nella stanza
sfidando le leggi
del tempo. I suoi occhi, ora, marroni, mi guardavano. Era vigile.
«B…Bella…» balbettai,
incredulo. «Tu… tu mi
hai…chiamato?».
Ma le sua pupille erano fisse e
ferme, e in alcun modo
lasciavano presagire che avrebbe risposto. Che dovessi fidarmi di
Carlisle?
Mandarla da uno psichiatra? Sentii un brivido di dolore al solo
pensiero.
Dov’era finita la mia Bella?
In quell’istante, come a
rispondermi, mosse il capo,
annuendo.
Ansimai, sgomento, stupendomi che
no, non c’erano
lacrime di gioia a scendere sul mio viso. Portai una mano tremante alla
bocca,
avvicinando l’altra al suo viso, pur senza osare toccarla.
«Hai bisogno di
qualcosa, c’è qualche problema amore? Dimmi, tutto
quello che vuoi…» sussurrai
velocemente, agitato, pronto a darle qualunque cosa. Mi chinai al suo
fianco,
inginocchiandomi sul pavimento, scrutando il suo sguardo sempre
più stanco.
Aspettavo di sentire anche il più debole fremito frusciare
dalle sue labbra.
L’osservai, scrutando nel suo viso il motivo del suo
sussurro. «Che hai
tesoro?» domandai ancora, tormentandomi per ricevere una
risposta. «Bella…».
Chiuse e aprii le palpebre, facendo
incontrare i suoi
occhi nei miei. E parlò. Ancora. Un flebile sussurro:
«…sonno…».
Ansimai, non riuscendo neppure ad
articolare una
parola per la gioia che provavo. «Hai sonno? Non riesci a
dormire?».
Scosse il capo, e l’odore
umido delle lacrime si
diffuse nella stanza.
Le sorrisi tristemente,
promettendole che l’avrei
aiutata a dormire. Ma quando feci il nome di Carlisle la sua
espressione
divenne più cupa e spaventata. Fu quando sollevò
una mano per sfiorare la mia,
che capii che voleva solo me. Fu in quel momento che, preso da
un’euforia pari
solo a quello in cui avevo scoperto il mio amore per lei, commisi un
grave
errore di valutazione. Decisi che, se mia moglie aveva bisogno solo di
me, le
avrei dato solo me.
Attento a non turbarla,
rannicchiata com’era nel
grande letto, scostai appena la manica della sua vestaglia. Strofinai
con
delicatezza il batuffolo con il cotone idrofilo sulla sua pelle bianca.
Non
potevano tremarmi le mani, ero un vampiro. Ma in quel momento quasi non
riuscivo a tenere dritta la siringa senza romperla. Ripassai in un
attimo,
nella mente, tutti i consigli di genere teorico su come eseguire al
meglio un’iniezione,
e vagliai velocemente tutte le esercitazioni fatte su arance e cuscini
durante
il mio praticantato in medicina.
Sospirai, e inclinando
l’ago lasciai che le pungesse
la pelle.
Immediatamente scostò il
braccio, disegnandosi una
linea rossa sulla pelle.
«Bella…»
la chiamai sgomento.
Si era sollevata in piedi,
lasciando cadere,
scomposte, le coperte. I suoi occhi erano spaventati, spiritati. Il
cuore le
batteva velocissimo nel petto, il fiato le usciva ad ansiti. Era
terrorizzata,
come mai l’avevo vista.
«Scusami… Non
volevo spaventarti…» sussurrai.
Fece un passo indietro, guardandomi
come se fossi una
minaccia.
Deglutii, e posai, senza mai
smettere di guardarla, la
siringa. Sollevai le mani perché… non
avesse paura di me. Spezzato in
due dal dolore mi avvicinai a lei, pur vedendola indietreggiare verso
il muro. Non
c’era più, allora, nessuna speranza?
Strillò appena il
calorifero le sfiorò un braccio. E
strillando il suo terrore si fece più vivo e forte.
Crollò a terra, prendendosi
la testa fra le mani.
In un attimo ero davanti a lei,
intento a
rassicurarla. Intento a sorridere. Intento a dimostrarle il mio amore,
malgrado
dentro sentissi solo dolore e paura.
«Non sono
pazza…» farfugliò fra le labbra, gli
occhi
sgranati e persi.
Il suo sussurro sinistro mi fece
fremere. «Nessuno
pensa questa Bella, davvero…».
Singhiozzò, gli occhi
pieni di lacrime, le mani
strette contro le braccia. Scosse il capo, dondolandosi avanti e
indietro e
sussurrando parole sconnesse. Premendo le unghie contro la carne.
Non ci riuscivo. Non riuscivo ad
essere suo marito. La
mia fede, il mio impegno, il mio amore, erano stati piagati tutti dal
dolore e
distorti dalla pazzia. Forse perché non ero abbastanza
capace. Forse perché,
proprio come pensavano i miei familiari, pur senza osare dirmelo, per
Bella
ormai era troppo tardi. Cosa mi stava succedendo? Cosa mi rimaneva?
Niente.
«Smettila!»
sibilai, in un moto di dolore e rabbia.
Le sue unghie si infilarono sotto
la pelle, lacerandola.
Non toccarla.
«Basta Bella, ti prego! Smettila, smettila!».
«Sporca… sono
sporca… non sono pazza… non lo amo…
chi
è?... non può farlo, no… sono
sporca». Il sangue scivolò lungo gli avambracci
in rivoli rossi.
Non puoi toccarla. «Smettila,
Bella!».
«È
così sporca… non puoi toccarla…
è pazza… dove sta
andando?... la voce… non sente la voce… non
parla… Bella…».
«Basta!».
Toccala. Afferrai
entrambi i polsi, sollevandola di peso e schiacciandola contro il muro.
Mi
sembrava insieme di ricominciare a respirare e morire.
Sgranò gli occhi,
sgomenta, e annaspò. Il sangue,
cremisi, scivolava in rivoli dai numerosi tagli sugli avambracci.
Urlò,
dibattendosi come una forsennata per liberarsi dalla mia presa,
sbattendo con
le gambe e la testa contro la parete. Deglutii il dolore, ricacciandolo
indietro.
«Carlisle!»
gridai, quando la porta della stanza si
aprì. «Sul letto!» esclamai, lasciando
che i suoi occhi incontrassero la
siringa posata sulle lenzuola.
«Che diavolo
è successo?» pensava la sua mente.
Cacciai via Jasper, prima che si avventasse sulle braccia escoriate di
mia
moglie.
Strinsi le labbra, chiudendo la
mente. «Ti lascio
Bella, ti lascio. Calmati» le sussurrai, sapendo, comunque,
che non mi stava
ascoltando. Sollevai un suo braccio e lo distesi lungo la parete,
lasciando che
il rosso del sangue la macchiasse. Rosalie entrò nella
stanza, e le sue parole
coprivano appena il suono delle urla di mia moglie. L’ago
penetrò nella sua carne.
Spostai lo sguardo negli occhi
persi di Bella. In
pochi secondi la sua debolissima forza si annullò. I suoi
movimenti si
fermarono, i suoi occhi divennero più chiari. Il suo viso
pallido, incorniciato
da ciocche di capelli appicciati dal sudore, si rilassò.
Allentai la presa sui suoi polsi.
Cadde contro il mio petto. Il suo
capo sulla mia
spalla, le mie braccia a circondare il suo corpo.
«Ti amo»
sussurrò, dunque svenne.
Mi lasciai andare sul pavimento,
stringendola a me. E
piansi, singhiozzi asciutti e secchi, senza acqua a sfogare il mio
dolore, ma
piansi, scuotendo il mio e il suo corpo insieme, senza lasciare che
nessuno,
nessuno, potesse separarci.
Carlisle le ricuciva la pelle delle
braccia mentre la
tenevo stretta al mio grembo. Le tenevo il polso, distendendo
l’avambraccio. La
ricuciva, con ago e filo. Sorrisi, un sorriso stanco e folle, pensando
a come
la volessi ricucire con il mio amore.
Se ci fu un momento in cui avevo
dubitato del mio
compito accanto a lei, un momento in cui mi ero sentito vacillare, in
cui avevo
pensato di cedere, quel momento c’era stato proprio quel
giorno. Il giorno in
cui avevo pensato che l’unica cura possibile per mia moglie
fosse uno
psichiatra.
Poche ore dopo, mentre mio padre
faceva frusciare il
filo sintetico fra la sua pelle, sorridevo. Se mia moglie era folle, lo
sarei
stato con lei. Perché mi amava.
Giorno 9: 9 Settembre.
«È
tranquilla?» domandai, ravvivando i capelli
scomposti per la pioggia. Sfilai il soprabito, posando i biscotti che
avevo
appena preso per Bella. Speravo di invogliarla a mangiare qualcosa.
Rosalie annuì.
«È rimasta lì da quando te ne sei
andato. All’inizio ho provato a convincerla a venire via, ma
credo che si
sentisse al sicuro» mormorò sottovoce.
Feci una smorfia, osservando alle
sue spalle. «Rose,
non sono convinto della tua idea di farci separare, anche per poco
tempo. Lo
sai che si comporta in questo modo per questo motivo».
Mia sorella spostò il
peso su entrambi i piedi, in
modo da sembrare più alta. «Edward, ti
rendi conto che per lei non è
salutare sviluppare attaccamenti malsani? Inoltre ti sei assentato solo
per
poco, e per andare a prendere dei biscotti che potrebbe mangiare
più di buon
grado sapendo che sei andato a prendere personalmente».
«Non penso che proprio adesso
dobbiamo
preoccuparci di questo». Scossi il capo, sospirando.
«Fammela tirare fuori di
lì», dissi, arrotolando sui gomiti le maniche
della camicia.
Mia sorella mi bloccò,
osservandomi incerta. Diresse
un’occhiata alle sue spalle. «Senti, Ed…
ho preparato i suoi tranquillanti, prima
non voleva prenderli, e… in caso servisse, ho pronta una
siringa» sussurrò
eloquentemente.
Premetti le labbra una contro
l’altra, biasimando mia
sorella per non avermi detto immediatamente quanto
grave fosse la
situazione.
«Lasciaci soli»
dissi, avvicinandomi al baldacchino.
Mia sorella si era già chiusa la porta alle spalle quando mi
chinai sulle
ginocchia, osservando sotto il letto. «Guarda chi
c’è qui» sorrisi, guardando
mia moglie.
Pareva tranquilla, anche se molto
silenziosa. Aveva
piegato una mano sotto la testa e una sul ventre.
Le tesi una mano «Vuoi
venire fuori? Ti ho comprato i
tuoi biscotti preferiti. Sono andato personalmente».
Scosse il capo, senza muoversi
altrimenti.
Inclinai il mio da un lato,
osservandola meglio.
«Perché no?».
Chiuse e aprì gli occhi,
poi abbassò lo sguardo sul
lembo di moquette accanto a lei. Si allontanò appena, e
batté la mano minuta
contro il pavimento, invitandomi a raggiungerla. Sospirai, e mi lasciai
scivolare sotto al letto, accanto a lei. Adesso i nostri respiri si
confondevano. Lasciò che le carezzassi appena il viso,
sistemandole i capelli.
«Sono al sicuro
qui» sussurrò a bassa voce, come se
avesse paura di farsi udire da qualcuno.
«Al sicuro?»
chiesi, perplesso. «Sei sempre al
sicuro».
Abbassò lo sguardo,
prendendo a giocare con un’asola
della mia camicia. «Sono al sicuro quando sono con te. Ma non
preoccuparti per
me. Quando non ci sei… posso trovare un posto
sicuro» sollevò il viso, e mi
sorrise, come una bambina. Una bambina appena rimasta orfana di
entrambi i
genitori. «È sicuro, qui»
mormorò, gli occhi brillanti.
Sorrisi a mia volta, ignorando il
peso che mi
stringeva la gola. Le baciai la fronte, per darmi il tempo di parlare
senza che
la voce mi tremasse. «Puoi stare in ogni posto, e sei il
sicuro. La prossima
volta potresti stare in compagnia di Rose. Anche con lei è
sicuro. Che ne
dici?».
I suoi occhi si fecero
più tristi e spaventati. «È
troppo aperto lassù» ansimò, serrando
le palpebre «è tutto così
aperto… non
posso proteggermi, non posso vedere arrivare nessuno… sono
troppo veloci… sono…
sono…».
«Shh…»
mormorai, stringendola fra le braccia per
impedirle di tremare ancora. «Va bene, va bene,
shh… non c’è nessuno da cui ti
devi proteggere» la rassicurai,
«nessuno».
«Ho paura»
fremette, gli occhi grandi e spalancati dal
terrore. Strinse una mano contro la manica della mia camicia.
«Ho paura, ho
paura».
Strinsi le labbra. Ci voleva solo
calma. Non era la
prima volta che mi trovavo a fronteggiare una situazione simile. Quando
aveva
ripreso a parlarmi, avevo pensato che tutto si sarebbe ormai risolto.
Non avevo
previsto neppure questo. Ma ero di fede forte, e determinato a portare
in salvo
mia moglie e tenere fede ai miei doveri coniugali. In salute
e in malattia,
nella gioia e nel dolore…
«Amore» la
chiamai, lasciando che i suoi occhi
spaventati si spostassero su di me «devi prendere le
medicine, va bene?» le
sussurrai dolcemente «le medicine ti aiutano a capire che la
paura non è vera.
Che non c’è motivo di averne. Per questo devi
prenderle, va bene?».
Tremò, aprendo e
chiudendo la bocca. Si aggrappò a me
con entrambe le mani. Aveva gli occhi lucidi, e sudava. «Non
posso. M-mi sento
male».
Corrugai la fronte, carezzandole
una guancia.
«Cos’hai?» chiesi, avvicinandomi per
posare le labbra contro la sua fronte, per
sentire la sua temperatura. Tutti i miei sensi si stavano allertando
per
cogliere dettagli che non avevo precedentemente notato.
Le sue dita tremanti e bianche si
posarono contro le
mie labbra. Posò l’altra mano sulle sue, scuotendo
il capo.
Sospirai, tirandomi fuori dal letto
e portandola con
me. Si aggrappò alle mie spalle, lasciando che la prendessi
fra le braccia. La
strinsi a me, e respirai il suo odore. La sua costante nausea era
diventata
qualcosa con cui convivevamo. Il problema era che lo accettasse, e non,
piuttosto, che ce lo nascondesse come una vergogna.
L’adagiai sul pavimento
del bagno, spostando il
tappeto in modo che le ginocchia non fossero a contatto con le
piastrelle. Le
sollevai i capelli, carezzandole con l’altra mano lo stomaco
e intanto
sorreggendola. Il suo viso assunse più volte
tonalità vicine al verde e al
grigio, mentre rimaneva ferma, le mani posate sui bordi del water.
Deglutì, agitata.
«Mi dispiace… non… mi sento male, ma
non ci riesco…».
«Shh» mormorai
al suo orecchio, «tranquilla, non ti
agitare. Prenditi il tempo che vuoi. Guarda» feci,
sollevandomi appena sul
lavabo per prendere un gancio per capelli, «mettiamo questo
qui, così posso
tenerti» feci, sistemandole i capelli in una crocchia. Magari
avrei dovuto
imparare a fare di meglio. La presi fra le braccia, sedendomi sul
pavimento, la
schiena contro il muro. Posò il capo contro il mio petto,
stringendo una mano
sulla mia camicia. «Ma guarda come sei carina,
così…» le sussurrai, sfiorandole
una ciocca e cullandola appena.
Sorrise, contro il mio petto.
Le strofinai la schiena con una
mano. «Se vuoi
possiamo andare in camera. Puoi metterti a letto e prendiamo una
bacinella…».
Scosse il capo, facendosi
più piccola fra le mie
braccia. «Voglio rimanere qui» ansimò
spaventata.
Annuii, baciandole il capo.
«Va bene, va bene.
Rimaniamo qui» la rassicurai, stringendola.
Rimase in silenzio per qualche
istante. La fronte era
imperlata da qualche gocciolina di sudore. Volevo chiedere a Carlisle
che
trovasse un modo per risolvere questa nausea. Se non fosse migliorata
entro
breve l’avrei probabilmente chiamato.
«Non voglio prendere le
medicine» sussurrò dopo un
po’. Respirò piano contro il mio petto.
«Rose dice che mi fanno venire la
nausea. Non voglio prendere le medicine, e… non voglio
questo».
Le strinsi il capo con una mano.
«Tesoro, non credo
che dipenda completamente dalle medicine, va bene? Anzi, credo che le
medicine
ti facciano bene, in questo caso. Vorrei che le prendessi, e provassi a
dirmi
se stai meglio. E vorrei che mi dicessi sempre quando stai male,
così possiamo
capire cosa possiamo fare per aiutarti».
Non rispose. Si sollevò
di scatto dalle mie braccia,
aggrappandosi al bordo del water e vomitando lo scarso contenuto del
suo
stomaco. Le sostenni la fronte, tenendola anche per l’addome.
La tosse convulsa
la scuoteva, e le lacrime le colavano dagli occhi alle guance per lo
sforzo.
Sollevò una mano solo
per aggrapparsi alla mia
camicia. «E-ed…» farfugliò
fra i conati.
«Shh, shh, lo so. Va
tutto bene. Adesso sale Carlisle,
okay? Voglio solo chiedergli qualcosa». Mi strinse
più forte, aggiungendo i
singhiozzi ai conati. «No, no, va tutto bene. Va tutto bene
tesoro, tutto bene»
la rassicurai.
Le passai un’asciugamani,
pulendole il volto e la
bocca. Le presi le mani con le mie. Teneva il viso basso, ancora
bagnato e
pallido. Lasciava che le sistemassi le maniche del pigiama e che le
aggiustassi
i capelli senza muoversi.
Le carezzai la tempia.
«Carlisle» chiamai, il tono
abbastanza alto perché potesse udirmi. Lo sentivo, sapevo
che era di sotto.
«Potresti venire qui, per favore?».
Abbassai il viso per intercettare
lo sguardo di Bella.
Le sorrisi, e me la sistemai sulle ginocchia, assicurandomi il suo capo
sul
petto con una mano. Mi sedetti sul bordo della vasca.
Mio padre bussò alla
porta. Bella tremò. «Entra» lo
chiamai.
Scivolò dentro,
chiudendosi la porta alle spalle. Ci
osservava cauto.
«Credo che»
cominciai, accarezzandola «credo che Bella
abbia bisogno di te. Ha paura che la sua nausea sia dovuta ai farmaci
che
assume».
Carlisle cercò il mio
sguardo, poi annuì. «Beh, Bella»
cominciò, pur senza avere l’attenzione di mia
moglie, rannicchiata contro il
mio petto, «potrebbe essere dovuto ai farmaci, ma anche al
fatto di non
assumerli. Quello che provo a dirti è che stare calma e
pensare lucidamente ti
aiuterebbe sicuramente a combattere episodi come questo».
Bella gemette, strizzando gli
occhi. «Voglio andare in
camera» mi supplicò, premendo una mano contro il
mio petto «mi sento male.
Voglio andare in camera».
Sospirai, annuendo alla volta di
mio padre. La
sollevai fra le mie braccia. Era leggerissima, come carta. Aveva perso
peso in
questi giorni, ma non avevo il cuore di insistere per farle mangiare i
biscotti
che le avevo appena comprato. Quando tornammo in camera c’era
anche Rose ad
attenderci: stava sistemando le coperte in modo che potessi far
stendere Bella.
Ma quando arrivò il tempo di lasciarla andare si
aggrappò con tutta la sua
minuscola forza alla mia camicia, scuotendo il capo.
«Bella, vieni qui sul
letto. Carlisle ti deve
visitare» la chiamò Rose.
Di tutta risposta scosse il capo
con più forza, il
viso nascosto nella mia camicia.
«Bella, avanti. Per
favore, non fare i capricci. Sai
anche tu che non vuoi stare male. Vieni qui».
Tremò, rannicchiandosi
con le ginocchia fra le mie
braccia. L’umido delle sue lacrime mi stava bagnando la
camicia, lo sentivo perfettamente.
Sospirai. Poi sorrisi, baciandole la fronte. Per andare avanti
apprezzavo
quello che avevo conquistato, checché ne dicesse Rose: mia
moglie mi chiedeva
il suo aiuto. E magari lo faceva in maniera insana e disperata, ma io,
dal
canto mio, non potevo che esserne contento.
«Lasciala stare, Rose.
Bella rimarrà con me, ma si
farà visitare comunque da Carlisle» feci,
eloquentemente, sottolineando il
compromesso che avevo trovato.
Rose serrò la mascella.
«Per favore, Edward. La
prossima volta che vorrai fare di testa tua dimmelo prima»
sbottò, pensando
che stessi facendo, col mio modo di fare, più passi indietro
che avanti.
Il senso di colpa durò
per un attimo. Quello in cui
Bella non fece niente per opporsi a quanto avevo appena detto. Carlisle
si avvicinò.
Provai a tenerla quanto più dritta possibile, nonostante si
ostinasse a
nascondere il suo volto sul mio petto. Le tastò
l’addome, causandole appena un
fremito.
«Sei stata male prima,
Bella? Hai altri sintomi?» le
chiese.
Ma era inutile parlarle,
perché non avrebbe risposto,
neppure sotto la spinta dei ragionamenti logici di Rosalie. Sapevo che
per quel
giorno era ormai troppo spossata e stanca per poter dar retta a
qualcuno.
Quando Rose insistette per farsi
dire qualcosa, feci
lo stupido errore di mettermi dalla sua parte, spronandola
anch’io a parlare.
Scoppiò a piangere, e si allontanò bruscamente
dalle mie braccia, rifugiandosi,
in singhiozzi, sotto le coperte.
Rose strinse le labbra. Questa
situazione le piaceva
davvero poco. «Avanti, Bella. Non fare la bambina. Esci da
quelle coperte».
Non le rispose neppure, continuando
a piangere più
forte di prima.
«Edward, non
penso che abbia davvero qualcosa»
mi richiamò mio padre con i suoi pensieri «possiamo
cambiare il tipo di
tranquillanti, ma preferirei prima che assumesse quelli che le ho
prescritto».
Rose incrociò le
braccia, richiamandola. «Stai facendo
la pazza, te ne rendi conto? Non è un comportamento maturo.
Avanti, tesoro.
Vieni fuori. Lo so che hai paura, ma adesso ti aiutiamo».
Osservai desolato la scena,
lasciando che i pensieri
di mio padre mi invadessero di nuovo la mente. «Se
starà male li cambieremo.
Ma io credo sia tutto dovuto alla sua ansia. Deve calmarsi, e
starà bene. E in
questo i tranquillanti la aiutano».
Annuii, seppur malvolentieri.
Vedere mia moglie
drogata, anestetizzata, privata della sua grinta, era come vivere con
l’amaro
in bocca.
«Bella,
avanti!» gridò Rose, strattonando appena le
coperte.
Dopo tre secondi i singhiozzi si
fermarono, lasciando
il silenzio. Assoluto. «Dannazione!» sbottai,
lanciando per aria le coperte.
«Dannazione, dannazione!» ripetei agitato,
stringendo il volto di mia moglie,
teso in una smorfia di soffocamento. «Respira!
Respira!» le intimai,
scuotendola per far passare più che rantoli dalla sua bocca.
«Edward, ho la siringa
pronta!» mi chiamò Rosalie,
cercando nel cassetto.
«Lasciaci in pace Rose!
Accidenti!» proruppi,
osservando agitato il viso di mia moglie «lei ce la fa. Ce la
fai a respirare,
va bene? Ce la fai. È solo la tua testa che ti dice il
contrario» le intimai.
Sgranava gli occhi, affannandosi
per portare le mani
alla gola.
Mio padre mi venne vicino,
prendendole un polso fra le
dita. «La saturazione d’ossigeno sta
scendendo».
«Edward, falle questa
dannata iniezione!».
«No… no,
n-no» biascicò terrorizzata fra le labbra.
«No» ripetei,
scuotendo il capo «no, no» feci,
prendendola fra le braccia per farla stare dritta con la schiena.
«Rose,
passami il bicchiere con le gocce. Avanti. Passamelo».
Perplessa mia sorella fece come le
dicevo. Sollevai il
mento di mia moglie, mettendole con l’altra mano il bordo del
bicchiere fra le
labbra. Tremando, ne prese appena un sorso, tossicchiando subito dopo.
«Shh» la
rassicurai, riavvicinandole il bicchiere alle labbra «bevi,
bevi. Va tutto
bene. Bevi, avanti» la incoraggiai, facendole prendere
piccoli sorsi, finché il
bicchiere non fu vuoto.
Si tenne stretta a me per qualche
minuto, tremando,
finché il cuore non frenò i suoi battiti e il
respiro non divenne nuovamente
regolare. Il suo corpo diventava più freddo. Quando
lasciò cadere la testa
nella mia direzione seppi che i tranquillanti avevano ormai fatto
effetto.
Le sorrisi, provando a mascherare
il terrore che provavo
nel vederla così sedata.
Batté le palpebre,
sfregando il viso contro la mia
camicia. Mosse le labbra, umettandole.
«Acqua…» biascicò, chiudendo
gli occhi.
«Certo»
mormorai. La sollevai, sistemandola sotto le
coperte, la schiena sollevata dai cuscini. Le tenni la mano,
rispondendo alla
sua debole presa, mentre le versavo un bicchiere d’acqua.
Glielo sistemai sulle
labbra, invitandola a bere. «Vuoi mangiare
qualcosa?» le domandai quando ebbe
finito.
Mi osservò, come se non
avesse capito la domanda che le
avevo appena fatto. I capelli si aprivano a ventaglio sul cuscino
bianco, le ampie
maniche della vestaglia, verde pallido, sfregavano contro le lenzuola.
«Mangiare…» sussurrò.
Annuii, sentendo le labbra tremare.
Dov’era mia
moglie?
«Biscotti»
sussurrò. Sorrise. «Voglio i tuoi
biscotti».
Lì, da qualche parte,
dietro la paura e le medicine.
Ciao
ragazze.
Sono
davvero orgogliosa di questo pezzetto (mi riferisco in particolare
all’ultimo).
Amo fare piccole esplorazioni nella mente di Edward, è
sempre un tanto caro
ragazzo ;). E amo davvero il tema della follia (forse dovrei pensare di
fare
psichiatria xD).
Sono
una perdigiorno, e devo finire l’ultimo pezzo di questo primo
extra prima di
pubblicarlo… vedo che posso fare! Vi do
l’autorizzazione a torturarmi e farmi
sentire in colpa finché non l’avrò
pubblicato!
Prima
di lasciarvi rinnovo l’invito (cortese) a fare un salto alla
mia quattro mani
scritta con tsukinoshippo,
l’autrice di Bambola.
Si
chiama “The
Woodmore Sisters”. Si tratta di
un ff storica, piena
di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da
sposate
e dei figli appena nati o in arrivo.
«Hai freddo?»
le domandai, provando inutilmente a
darle calore sfregandole un braccio.
Sorrise, strofinando il viso contro
il mio petto. Camminavamo
nel giardino di casa Cullen. «No… sto
così bene» sussurrò beata. Lo sapevo,
me
n’ero accorto. Avevo notato come il freddo riuscisse in poco
tempo a farla
stare meglio. Rose diceva che era legato al suo trauma, che poteva
aver,
durante la sua prigionia, legato il concetto del freddo a quello della
sua
famiglia. A me.
Non era semplice farle fare gli
esercizi. Sapevo di
sbagliare, ma spesso e volentieri mi schieravo dalla parte di Bella
contro mia sorella,
anziché spingerla a fare e dire di più. Ma mi
sembrava così fragile, troppo.
«Ci sediamo un
po’?» domandò, scrutandomi.
Le sorrisi. «Certo. Sei
stanca?».
Scrollò le spalle.
«Un po’».
La osservai attentamente.
«Vuoi rientrare in casa?
Sederti? Non c’è niente di
male…».
«No, no» si
oppose, la voce flebile e gli occhi
puntanti sull’erba. «Voglio rimanere qui, per
favore».
Sospirai, prendendola per mano.
«Certo, come vuoi»
mormorai, portandola vicino a un albero, dimodoché potessimo
stare comodi. Le
passai la mia giacca, e, nonostante le proteste, la convinsi ad
indossarla. Intrecciai
le mie dita con le sue, accarezzandole il dorso della mano. La sua
schiena
calda era premuta contro il mio petto, e la sua testa abbandonata sulla
mia
clavicola.
«Edward» mi
chiamò, facendo frusciare la sua voce
insieme al vento.
Le accarezzai i capelli, con
dolcezza, senza alcuna
malizia. «Sì?» domandai piano.
Sospirò, adagiandosi
completamente al mio corpo. «Hai
mai avuto un incubo che ti ha fatto davvero paura?»
domandò in un sussurro.
Battei le palpebre, preso in
contropiede e preoccupato
per la sua domanda.
Si sollevò un poco,
più rigida nella sua posizione. «È
che… intendevo quando eri a-ancora umano,
io…».
Le bloccai le spalle, sistemandole
meglio addosso la
giacca. Mi costrinsi a pensare velocemente, e nel giro di pochi secondi
capii
che voleva avere un’opportunità di confrontarsi a
aprirsi, e che era importante
che capisse che i suoi sentimenti e le sue paure non erano innaturali e
assurdi. «Non ricordo incubi del mio periodo umano. Ma da
quando sono diventato
un vampiro ho sperimentato qualcosa di strano, di nuovo. Ricordi quando
ti
dissi che per uno di noi è difficilissimo
cambiare?».
Annuì incerta, senza
voltarsi a guardarmi.
«Diciamo
che…» temporeggiai, pensando alle parole
più
adatte «diciamo che cambiare richiede che la mente rifletta
su sé stessa, e
questo richiede il sogno. Ecco. Io sono cambiato quando ti ho vista. E
come un
lampo ad occhi aperti ho avuto il peggiore degli incubi: la tua morte,
e per
mano mia».
Rimase in silenzio, e dopo qualche
secondo i suoi
muscoli si sciolsero. Si voltò, accoccolandosi sul mio
grembo. «Hai avuto
paura?».
Le accarezzai i capelli, pensando a
quali emozioni potessimo
aver provato entrambi, a qualcosa che la facesse sentire rassicurata,
“normale”, e la spingesse ad aprirsi.
«Tutti abbiamo paura, tesoro. Tutti».
Quella sera Bella, mentre stavamo
festeggiando il suo
compleanno, ebbe un mancamento. Il suo primo.
Giorno 14: In cucina
con Esme.
«Vado un attimo di
là, va bene?».
Si voltò, le mani
immerse nella ciotola di farina.
Annuì piano, ritornando a impastare.
Le baciai la guancia.
«Sono sul divano del soggiorno».
«Mettici un po’
di latte tesoro» la invitò Esme gentilmente,
porgendole la brocca. Sorrise appena, accettandola e continuando
cucinare con
lei. Un’ottima distrazione, avevo pensato. Ero contento di
essere riuscito a
trovare un modo per farla distrarre per un po’. Volevo
parlare con Carlisle del
suo malessere, mio padre sapeva che non mi sarei accontentato delle sue
parole
rassicuranti.
«E se succedesse ancora
cosa faremmo?».
«Se succedesse ancora ce
ne preoccuperemo, Edward»
rispose con calma mio padre. «La stiamo tenendo
d’occhio. Si sta riprendendo da
un trauma psicologico non indifferente, non lo dimenticare».
Annuii. «Lo so, questo lo
so».
Posò una mano sulla mia.
«Abbi fede. Ognuno di noi
farà il possibile per vederla sorridere come prima»
mi rassicurò con un
sorriso.
«Sì»
sospirai, lasciandomi andare sulla spalliera del
divano e osservando l’esile figura di mia moglie che con dei
sorrisi timidi e
delle piccole frasi schive ma tranquille rispondeva alle domande che le
venivano fatte e interagiva con mia madre e i miei fratelli.
«Forse dovrei andare da
lei».
«Vai».
«Edward» mi
richiamò Alice, mentre mi avviavo verso la
cucina. Aveva un cofanetto fra le mani. Le scrutai velocemente i
pensieri,
istintivamente, per comprendere le sue intenzioni. «Ho
portato questa tela.
Vorrei dipingere un po’, magari Bella vedendomi mi
chiederà di farlo. Cosa ne
dici?».
Esitai, titubante.
«Guarda tesoro,
sta già lievitando. Ti è venuta
davvero bene» sentii mia madre adulare Bella,
osservando la torta che
cuoceva in forno. La vidi arrossire attraverso i suoi pensieri,
voltandosi poi
con un piccolo sorriso sincero a impastare la glassa per la sua torta.
«È una buona
idea» dissi, rispondendo a mia sorella.
«Ma magari domani. Non vorrei farle troppa pressione in un
unico giorno».
Alice, seppur combattuta, si risolse nella mia stessa posizione.
«Apprezzo
quello che tutti fate, Alice, ma dobbiamo andare avanti un passo alla
volta».
«Sì, un passo
alla volta» concordò con un sospiro.
«Ora, se vuoi
scusarmi…» la lasciai, tornando da mia
moglie.
Era ancora di spalle, a impastare
con delicatezza la
sua glassa. Le spalle esili e più ossute dopo il recente
dimagrimento si
alzavano e si abbassavano al ritmo dei suoi movimenti. Movimenti che
diventarono sempre più lenti, fino ad arrestarsi.
Finché non posò entrambi i
palmi sul bancone.
Esme si voltò a
guardarmi, incerta.
Mi avvicinai con cautela, una ruga
di preoccupazione
fra gli occhi. «Bella…» la chiamai con
delicatezza, attento a non farla
spaventare.
Sussultò, e subito
riprese il suo lavoro. Ma le sue
mani tremavano.
Posai le mie sulle sue,
bloccandole. «Bella, tesoro…
va tutto bene?».
Osservai la pelle pallida del suo
collo, i muscoli
tesi nell’atto di deglutire. Chiuse e aprì le
palpebre, e infine aumentò la
presa sulle mie mani. Si voltò appena per guardarmi.
«È… è solo un po’
di
nausea» mormorò sottovoce, come a giustificarsi.
Presi un breve respiro. Calmo,
Edward. Calmo.
«Vuoi sederti?».
«No»
sussurrò sottovoce «va tutto bene.
È… è normale,
no? Hai detto che è normale» farfugliò,
sfuggendomi con lo sguardo.
Sospirai. «Sì,
è normale, ma…».
Non mi fece finire che gemette,
piegandosi sul bancone
con una mano sullo stomaco e una sulla bocca.
«Bella» la
richiamai, agitato. «Vuoi andare in
bagno?».
Prese un respiro veloce.
«Fuori» sibilò. Strinse i
denti, staccandosi dal ripiano di marmo per allontanarsi. Posai le mani
sulle
sue braccia, intuendone le intenzioni, ma prima che la potessi
trasportare
verso l’esterno della casa mi bloccò. I suoi occhi
marroni sembravano troppo
grandi su quel viso così pallido. «N-non
veloce» balbettò, controllando a
stento il panico «non veloce Edward, ti prego».
Annuii, rapidamente, guidandola a
passo umano verso
l’esterno della casa. «Certo. Non veloce. Con
calma».
Passarono alcuni minuti prima che
tornasse a respirare
normalmente. Con freddezza clinica analizzai ogni respiro tremolante e
ogni
gemito, ma non per questo potei impedirmi di essere enormemente
angosciato.
Volevo che Carlisle la visitasse, perché avevo un forte
sentore che qualcosa di
patologico, e non semplicemente un’emesi psicogena o gli
effetti collaterali di
qualche farmaco le stessero causando questi sintomi. Eppure…
chiederglielo
l’avrebbe portata a pensare di aver fatto qualcosa di
sbagliato, ne ero certo.
Strofinò il viso contro
la mia spalla, ricordandomi la
presenza del suo peso leggero fra le mie braccia. «Va
meglio?» le chiesi con un
piccolo sorriso quanto più naturale possibile.
Annuì cautamente. I suoi
occhi grandi mi guardavano
come se ci fossero parole che pensava, ma che non voleva dire.
«Vuoi andare di su a
stenderti un po’ sul letto?».
Si morse un labbro, esitando.
Abbassò il viso sul
collo pallido e sudato. Stavo per incalzare, dire che non ci sarebbe
stato
nulla di male se avesse voluto, che non doveva preoccuparsi.
«Vorrei controllare
la mia torta… prima».
Ma per quanto si fosse sforzata di
dimostrarsi
tranquilla e rilassata notai immediatamente come la vista o
chissà, l’odore di
quel dolce l’avesse fatta nauseare nuovamente.
«Bella…»
la chiamai, quanto più pacato possibile.
Fece un cenno impercettibile con la
testa, tentando in
un inutile modo umano di nascondere il suo turbamento nonostante fosse
palese a
causa del suo tremore e del pallore sul suo volto. Nessuno dei miei
familiari,
comunque, commentò in alcun modo. Lasciai che fosse lei
stessa ad avviarsi su
per le scale fino in camera mia, seguendola a vista.
Non potevo osservare il suo corpo,
le sue gambe magre,
il suo passo incerto, senza tormentarmi con un pensiero fisso. Cosa
le aveva
fatto? Quanto in là si era spinto? Quanto in fondo era
arrivato? Bloccai
con un fremito i miei pensieri quando mi accorsi che mia moglie mi
stava
fissando con uno sguardo serio, quasi preoccupato.
Le sorrisi, e lei
abbassò le palpebre, lasciandosi
scivolare sul letto in posizione fetale. Cacciò un gemito
così lieve che non
l’avrei sentito se non fossi stato un vampiro. E se non fossi
stato un vampiro
avrei cominciato ad iperventilare per la preoccupazione.
«Che ne dici se chiamiamo
Carlisle?» domandai,
attirando contemporaneamente l’attenzione sua e di mio padre.
Aprì gli occhi e gemette
forte. «Non c’è bisogno»
biascicò allarmata «sto bene, davvero. Va tutto
bene» e per conferma tentò di
sollevarsi dal letto.
La bloccai prima che potesse
cadere, in preda alla
vertigini. Mi concessi di tenere il suo corpo leggerissimo e caldo
stretto al
mio per qualche secondo prima di pensare cosa rispondere. Era proprio
quello
che non volevo, farla agitare. «Lo so tesoro, lo so che stai
bene. Ma forse hai
preso l’influenza e noi non lo sappiamo… Non
sarebbe meglio esserne certi?».
«Edward»
mi chiamò mio padre dall’altro lato
della porta.
Lo ignorai. Mi allontanai di poco
da lei per guardarla
negli occhi. «Ci vorrà pochissimo. Solo per
esserne certi».
Deglutì. «E se
non volessi esserne certa? Se volessi
continuare a pensare che… che… sto bene e basta,
Edward. Prima o poi mi
passerà. Sono stanca di sentirmi debole, e malata e
che…» il suo respiro si
fece più rapido e superficiale. «Edward»
ricominciò, prendendomi la mano fra le
sue e stringendo. «Questo non ci fa bene.
Non ci fa tornare come
eravamo. Credi che abbia l’influenza? Mi passerà.
Credi che io abbia una grave
malattia che potrebbe uccidermi? Potrai sempre trasformarmi.
Credi… credi che
sia tutto nella mia testa? Beh» balbettò
«ti prego, continuate e fare finta di
non accorgervene, se è così».
La fissai, stupito del suo lungo
discorso. Sembrava
davvero lei. La mia Bella. Presi un respiro.
«Sono stanco di non
conoscere le cose. È solo questo. Sono stanco di non sapere
come stai, cosa ti
succede o cosa ti è successo…».
Fremette, allontanando la mano
dalle mie. «Oh,
Edward…».
«No» la
blandii, stringendola nuovamente a me «non me
lo devi dire. Non ora…».
Allontanò lo sguardo,
improvvisamente freddo, lontano
dal quel calore che l’aveva animato pochi secondi prima,
quando mi aveva
parlato con passione. Un passo avanti, due indietro. Era sempre
così. Non me
l’avrebbe detto, e io non avrei forzato la mano. Mi bastava
sapere che la
vecchia Bella esisteva ancora. «Chiama tuo padre»
biascicò, lasciandosi andare
nuovamente sul materasso.
«Carlisle»
tentò di sdrammatizzare quando entrò nella
stanza, «tuo figlio teme che ci lasci le penne. A
breve».
Mio padre le sorrise,
rimproverandomi allo stesso
tempo con il pensiero. «Mi sembra un ottimo momento per
fargli capire che non è
così».
Annuì, esitante.
«Come ti
senti?».
«Bene».
«Allora perché
sono qui?».
Sospirò. «Solo
un po’ di nausea».
La esaminò di sottecchi.
La sua mente esperta
esaminava molto più di quanto io stesso potessi cogliere. Le
prese il polso fra
le dita, misurando insieme una quantità di parametri.
«Nient’altro? Vertigini,
mal di stomaco, disturbi di vario genere?».
«Niente». Era
una pessima bugiarda.
«Proprio
niente?».
«Proprio
niente» ripeté con ostinazione, voltandosi da
un lato.
Mio padre non lasciò
trapelare nulla, rimanendo invece
estremamente composto. Era evidente quanto fosse più bravo
di me ad avere a che
fare con persone che mentivano riguardo alla loro salute.
«Bene, allora. Considerando
anche il mancamento che hai avuto ieri mi sentirei molto più
tranquillo se
facessimo qualche ulteriore indagine».
«Indagine?».
«Sì. Vorrei
fare un check-up completo. Analisi del
sangue, urine, TAC, visite specialistiche».
A quelle parole trasalì,
forte, voltandosi
immediatamente nella sua direzione. «Non voglio andare in
ospedale». I suoi
occhi erano così grandi che mi sembrava di poterci essere
inglobato. Come se
fosse terrorizzata o stesse per avere una crisi isterica. «
Non voglio andare
in ospedale! Ve l’ho detto, non ho niente!».
Non lasciai che Carlisle parlasse.
Intervenni
cogliendo la palla al balzo. «Possiamo dimostrarlo facilmente
allora. Così
saremo tutti più tranquilli».
«Non…
non… no!» esclamò,
voltandosi
repentinamente dalla direzione di mio padre alla mia. «No!
Pensi che non sia
abbastanza adulta da decidere una cosa simile? Non ci vengo in
ospedale. No!».
«Bella…»
continuai, riservandomi un ulteriore ammonimento
non verbale da mio padre. «Vogliamo solo essere sicuri che
non sia niente di
più grave di quello che veramente è».
«No»
ribadì. Si portò le ginocchia al petto,
stringendole a sé con le braccia. Aveva
l’espressione di uno di quegli animali
braccati che mi piaceva tanto catturare. «Non mi toccate.
Nessuno dei due».
La frustrazione mi fece venire
voglia di urlare. Non
ancora, diamine! Non ancora!
Mio padre si allontanò
di un passo, sollevando le mani
come per dimostrare di non essere armato. «Come vuoi, Bella.
Nessuno farà nulla
contro la tua volontà».
Gli scoccò
un’occhiata perplessa. «No?».
«No, lo giuro».
Io sì!,
avrei voluto urlare. Io sì! Mi passai
frustrato una mano fra i capelli.
Bella seguì il mio movimento con un’espressione
cauta sul viso. «No» biascicai
di malavoglia.
«Sto bene»
ribadì lei, una ruga d’espressione ad
incresparle la fronte.
Sospirai, scuotendo il capo, ma non
dissi nulla.
«Posso?» domandai, indicando il materasso accanto a
lei.
Esitò un istante, poi
annuì.
Un passo indietro, due avanti.
Finché non potei
più contare i passi, finché capii che
avevo cominciato a camminare in avanti con lei, accanto a lei, verso il
nostro
destino.
Un destino generoso, che ci
regalò quello che mai
nella mia esistenza vampira avrei potuto sperare di avere: un figlio.
Se ci fu
un giorno in cui realizzai che la sofferenza vale la gioia che ci viene
ripagata, fu il giorno in cui capii che nel grembo di mia moglie,
l’amore della
mia vita, la mia Bella, stava crescendo la nostra creatura.
Quello, e il giorno in cui nacque.
E il giorno in cui nacquero i
nostri figli.
E ogni giorno di questa infinita
vita in cui,
nonostante tutto, l’amore non mi manca mai.
La sofferenza più atroce
impallidisce al cospetto
della gioia più grande.
Fine I extra
Ciao
ragazze!
Lo
so, ci ho messo tanto. Ma
non sto pelando le cipolle. Ma l’università
è ricominciata e non è
l’università
delle cipolle (aridaje).
Quindi…
purtroppo non avevo
pronto l’ultimo pezzo di questo extra, e l’ho
dovuto scrivere in questi ultimi
giorni. Ma ho pronto tutto (quasi) l’altro lunghissimissimo
extra, quindi credo
proprio che vi romperò le scatole una volta a settimana.
Bene,
per ora vi lascio.
Prima
di lasciarvi rinnovo
l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani
scritta con tsukinoshippo,
l’autrice di Bambola.
Si chiama “The
Woodmore
Sisters”. Si tratta di un ff
storica, piena di gonne vaporose e
amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli
appena
nati o in arrivo.
Secondo
extra:tratterà
del periodo che va dalla nascita di
Kate fino sostanzialmente all’epilogo attuale della storia,
riempiendo il salto
temporale. I pov saranno alternati fra quello di Edward e quello di
Bella.
Appena dopo le dimissioni
dall’ospedale di Bella e la
bambina.
«Sei stanca?»
mi chiese Edward, accarezzandomi la
schiena. Con l’altro braccio reggeva quel piccolissimo
fagottino che era la
nostra bimba, schiacciata sul suo petto e completamente avvolta da una
coperta
soffice.
Io, lentamente, mi affannai sui
gradini di ingresso
della nostra casa. Ad ogni passo, stanco, sentivo un forte bruciore fra
le
gambe e un diffuso indolenzimento sulla pancia. Ero infinitamente
contenta di
tornare a casa mia. Scrollai le spalle. «Dammi il tempo di
mettere un po’ di
correttore sulle occhiaie prima di risponderti il contrario»
scherzai
debolmente.
S’irrigidì un
po’, come a disagio. Aveva una smorfia
sul viso. Avanti Edward, apri quella porta, so cosa mi
aspetta. Appena
misi piede in casa le luci si accesero, rivelando il soggiorno pieno di
palloncini, coriandoli e uno striscione che recitava
“Bentornata Bella!
Benvenuta Kate!”, e tutti i miei cari con un ampio sorriso in
viso.
Sorrisi appena, dimessa.
«Grazie» mormorai,
accogliendo il primo abbraccio caldo che mi veniva rivolto: quello di
mio
padre. Dopo aver salutato tutti mi trascinai fino al divano, sospirando
di
sollievo. Con lo sguardo cercai Edward e la bambina, ma era ovviamente
circondata da tutti i familiari, che facevano a gara per catturarne lo
sguardo
o prenderla in braccio.
Stanca, mi rannicchiai, posando la
testa sul bracciolo
del divano e lasciando che gli occhi si chiudessero. Volevo solo
lasciare
riposare per un attimo la mente e… ah,
che goduria sentire quel dolce
torpore del sonno.
Sentii una delicata mano fresca
sulla fronte, e aprii
di soprassalto gli occhi. «Tesoro, torna a dormire. Ti porto
in camera» soffiò
Edward, sorridendomi.
Due istanti più tardi
sentii il suono del vagito di
mia figlia espandersi per la stanza. Agitata mi sollevai, arrancando
per
mettermi a sedere. «Rose» chiamai, vedendo mia
figlia fra le sue braccia,
circondata da tutta la famiglia «portamela, per favore. Ha
fame».
Sollevò le sopracciglia,
perplessa. «Magari ha solo
sonno, oppure…».
Scossi il capo, tendendo le braccia
e prendendo la bambina
con entrambe le mani, una sotto il sedere e una sotto la testa. Il capo
un po’
piegato, gli occhietti semichiusi, le gambe raggomitolate al corpo: era
così
piccola e indifesa. «Ha fame» dichiarai con
sicurezza, stringendola nella culla
delle mie braccia e respirando l’odore della sua pelle.
Piano, dopo pochi secondi, i suoi
lamenti cessarono.
Arrossii quando, sollevando la testa, trovai a fissarmi tutti i
presenti.
«Edward…» chiamai appena.
Alice e Esme fecero un passo
avanti, venendomi
incontro. «Vieni, Bella. Andiamo nella camera da letto.
Volevamo appunto farti
vedere, anche, come avessimo sistemato la culla».
«Ehi, dai! Non puoi
portarmi via la mia nipotina così
presto!» protestò Emmett.
Alice gli scoccò
un’occhiata. «Perché, vorresti farla
morire di fame?».
Arrossii, stringendo più
forte la mia bambina. Eh sì…
mi sarei dovuta abituare ad avere pubblico.
Nella camera silenziosa, nella
penombra, compii quel
piccolo miracolo che mi era stato donato: allattai mia figlia. E quel
pungente
dolore che si accendeva non appena le sue piccole labbra voraci
stringevano il
mio seno non era nulla confrontato alla possibilità di
nutrirla con il mio
corpo o il formicolio alla base della nuca che sentivo costantemente,
quando la
sua manina calda si posava sulla mia pelle o quando i suoi occhi si
dischiudevano, osservandomi. Di quel colore chiaro così
simile al verde.
«State bene?»
domandò Edward, venendomi accanto e
chiudendosi velocemente la porta alle spalle. Esme, nel nostro bagno,
sistemava
gli oggetti della piccola.
Annuii appena, senza interrompere
il contatto visivo
con la bambina. «Non dovresti stare di là con gli
altri? Non possiamo lasciare
i nostri ospiti da soli».
«Capiranno»
borbottò, accarezzando i sottilissimi
capelli scuri della bambina.
Sollevai il viso, sorridendo della
sua direzione,
stanca. «Vai, Edward. Poi potremmo stare tantissimo tempo con
Kate, tutte le
notti e i giorni… Vai. Ha quasi finito, veniamo
subito».
Sospirò, annuendo suo
malgrado. «Come ti senti?» mi
chiese, sfiorandomi la fronte, «vorrei che dopo misurassi la
febbre» fece,
ansioso.
Sorrisi bonariamente. Mi avevano
trattenuta quattro
giorni in più in ospedale per una febbriciattola che non
accennava a scendere,
per questo Edward aveva cominciato a dare di matto, preoccupato che il
secondamento, su cui il padre non aveva supervisionato, non fosse
andato a buon
fine. «Va bene, Edward. Sto bene, mi sento bene. Ma dopo la
misuro, promesso.
Ora vai» feci, lasciandomi schioccare un bacio sulle labbra.
Quando la bambina si
dimostrò abbastanza sazia lasciai
che Alice provvedesse a farle fare il ruttino.
«Esme» feci,
spostandomi a disagio sul letto, una
smorfia sul viso «dovrei… vorrei lavarmi un
po’ e cambiarmi. Potresti…?».
«Certo tesoro, ti aiuto
io» fece, gentilmente.
Arrossii appena. «Grazie.
Alice, porta Kate da suo
padre prima che dia di matto» feci, osservandola.
«Oh»
protestò «è così carina che
me la terrei qui fra
le braccia per sempre» canticchiò sul viso della
bimba. «Ma vado, vado, va
bene» continuò, sollevando gli occhi al cielo,
quando feci per protestare.
«Esme» la
chiamai, quando mi tese una mano per
aiutarmi ad alzarmi. La guardai fisso negli occhi. «Spero che
mi aiuterai tu, a
crescere Katherine. Mia madre è lontana, e tu per me lo
sei».
La bocca si aprì di
sorpresa, e i suoi occhi
scintillarono. «Certo, Bella. Certo. Ma tu sei già
bravissima con tua figlia.
Riesci già a comprendere le sue
esigenze…».
Sorrisi, commossa, scuotendo il
capo. «Avevi ragione»
soffiai con quel poco di fiato che avevo nei polmoni «avevi
ragione. Io sento
cosa vuole».
Mi sorrise a sua volta,
stringendomi con più forza la
mano. «Avevo ragione. Il legame c’è
ancora».
Un mese dopo la nascita di Kate,
Edward e Bella si
ritrovano ad affrontare i primi problemi da genitori.
«Bella, ti piacerebbe
qualcosa di caldo?» domandò
Esme, carezzandomi il viso.
Strinsi le ginocchia al petto,
seduta sul divano.
Scossi il capo.
Edward, nel soggiorno, cullava la
bambina al suo
petto, provando a farle smettere di piangere. «37.9°.
Non è molto alto, ma per
una bambina così piccola non va bene»
borbottò, facendo un cenno a Rosalie. Le
passò il termometro. «Hai chiamato
Carlisle?».
Lei annuì, avvicinandosi
per consegnarlo a Esme.
«Verrà fra poco, appena si libera delle cose
più urgenti. Ha detto di non
preoccuparvi».
«Perché non
vuoi mangiare, Bella?» fece Esme,
avvicinando il termometro al mio orecchio e rilevando la temperatura.
Sospirò.
«39.3°».
«Shh, shh, stai
tranquilla piccolina» mormorò
dolcemente Edward, carezzando la testolina tonda di Kate. Piangeva,
disperata.
«Tesoro, dovresti
mangiare se vuoi allattare la
piccola».
Agitata mi portai le mani alla
testa, stringendola.
«Bella, prendila
tu» fece Edward, avvicinandosi al
divano su cui stavo rannicchiata, «ha fame, vuole
mangiare».
Scossi il capo, tenendo lo sguardo
basso. «No, no».
Sbatté le palpebre.
«Come no? Bella» mi chiamò,
stressato. Sentii il suo respiro profondo. «Bella, tesoro, la
bambina ha fame.
Lo so che ti senti stanca, ma non ci vorrà molto. Non le
piace il latte in
polvere, e di tuo non ne abbiamo più. Prendila»
fece, avvicinandosi e
porgendomela.
Scattai in piedi, sentendo per un
attimo la testa
girare per la febbre. «No» ribadii con maggiore
energia, incontrando solo per
un secondo gli occhi di mio marito. Non riuscivo a sopportare il suono
del
pianto di mia figlia sapendo di esserne la causa. «Non si
può fare. Non posso
allattarla, perché sono malata».
«Bella» mi
richiamò Edward, agitato «ormai è
ammalata
anche lei, cosa vuoi che importi? Prendila e basta».
Fremetti, abbassando il capo e
sentendo il familiare
calore umido delle lacrime risalire ai miei occhi.
«No» biascicai, la voce
rotta.
Sentii il suono del suo pesante
respiro esasperato.
«Dannazione, Bella. Ti sembra il caso di fare
così? Avanti. Prendi la bambina,
non senti come piange? Vuole solo mangiare».
Esme e Rosalie trattennero il
respiro, osservandoci
silenziosamente.
«Non posso, non
posso!» singhiozzai petulante,
arrabbiata, sollevando il viso. «Non rischierò di
aggravare le sue condizioni.
Dovevo fidarmi di me stessa quando ho detto di non volerla
toccare».
«Ah perché,
sarebbe colpa mia, che ti ho fatto tenere
tua figlia in braccio? Avanti, smettiamola con questa inutile
discussione.
Prendila e basta».
Piansi, arrabbiata, allontanandomi
velocemente da lui.
Mi fiondai in camera da letto, sbattendo la porta alle spalle.
«Bella,
accidenti!».
Mi lasciai andare sul letto,
premendo il cuscino sopra
la testa e singhiozzando. Sentivo la nuca pulsare velocemente e
fastidiosamente. Il fresco del letto appena rifatto era lenitivo
rispetto al
calore del mio corpo.
Mi ero sentita poco bene, un
po’ debole, qualche
giorno prima. Niente comunque che facesse presagire che avessi
contratto una
bella influenza stagionale. La febbre era salita oggi, e nonostante
appena
avessi letto la prima linea sul termometro non mi fossi più
azzardata a toccare
mia figlia era ormai troppo tardi: poche ore più tardi la
sua stessa
temperatura era salita. Inutile dire quanto mi fossi sentita in colpa,
quanto
avessi pensato a quello che avrei potuto fare, o non fare, alle prime
avvisaglie della malattia, per impedire che contagiassi mia figlia.
Strofinai gli occhi rossi e gonfi,
sentendoli
incredibilmente secchi. Non riuscivo a pensare con la testa che mi
faceva così
male. Riemersi da sotto il cuscino, sentendomi soffocare, e vi posai il
capo,
chiudendo gli occhi.
I rapporti fra me e Edward erano
cambiati dopo la
nascita di Kate. Non dicevo che fossimo in crisi, o che le cose
andassero male.
Ma erano diversi, perché ora non eravamo più solo
io e lui. Ora c’era la
bambina, e della stanchezza, delle decisioni da prendere, e una vita
che
pendeva dalle nostre mani. Dovevamo essere più forti, e
avere i nervi saldi.
Pur non mettendo mai neppure una volta in dubbio il nostro amore, non
potevamo
non discutere più spesso.
Salvo poi rinnovare la pace fra di
noi, andando
avanti, come se non fosse mai stata rotta. Come si faceva in una
famiglia.
Chiuse la porta alle sue spalle con
un tonfo lieve.
Pochi minuti prima il suono squillante del campanello aveva trapassato
la mia
testa, segno che Carlisle era arrivato. Posò una mano sulla
mia spalla.
Piano, aprii gli occhi.
«Come ti
senti?».
Mi tirai a sedere, intrecciando le
braccia sotto il
seno gonfio, cancellando con il polso le lacrime dal viso.
«Sto bene».
Sollevò una mano fino a
posarla sulla mia fronte.
«Appena finisce con la bambina Carlisle verrà da
te». La sua voce era un dolce
sussurro nella stanza.
Annuii, continuando a guardare in
basso, sul
copriletto. «Come sta?» domandai sospirando,
posando una mano sulla sua, sulla
mia fronte.
«Abbastanza bene. Per
Carlisle è solo una semplice
influenza. Credo che cerchi il tuo odore, per questo piange. Soffre la
tua
assenza».
«Edward»
protestai frustrata, ma prima che potessi
seguitare la porta della camera si aprì, facendo passare
Carlisle con in
braccio la nostra bambina.
«Bella» mi
salutò mio suocero, avvicinandosi «ho
prescritto a Katie un’ottima cura contro
l’influenza, guarirà in men che non si
dica: devi allattarla».
Aprii la bocca, sconcertata,
faticando ad accettare il
fagottino che mi offrivano le sue braccia. «Carlisle, io non
voglio che lei-».
«Tranquilla»
ripeté, «fidati di me. Che venisse
contagiata era quasi scontato, nessuno poteva prevedere che stessi male
prima
che l’influenza si manifestasse con la febbre, ma allora
è sempre troppo tardi.
Kate ha bisogno che l’allatti per avere i tuoi anticorpi. E
inoltre credo che
le manchi davvero».
Edward prese nostra figlia dalle
braccia di suo padre,
osservandomi. Il suo sguardo ambrato incontrò il mio. Me la
porse. «Prendila,
tesoro, ha bisogno di te».
Mi morsi il labbro, sentendo le
lacrime pungermi
ancora agli occhi. Avvicinai le mani tremanti e la strinsi al mio
petto. Il
calore del suo piccolo corpo alimentava il mio, ma non era spiacevole.
I suoi
vagiti stanchi cessarono, mentre muoveva le labbra e le mani alla
ricerca del
mio seno.
Edward mi aiutò a
disfare la vestaglia e sistemarmi in
una posizione comoda. La piccola respirava piano, muovendo il suo petto
su e
giù con ampi movimenti, stanchi. Eravamo io, lui e la
bambina, nella stanza,
quando Kate si attaccò con voracità al mio petto.
Strinsi la mano di mio
marito, chiudendo gli occhi e cacciando un sibilo fra i denti.
Restituì la mia presa.
«Male?».
Aprii gli occhi, guardandolo.
«Mi dispiace» mormorai,
sentendo le lacrime scendere sul viso, «i-io… sono
così stanca, e
preoccupata…».
Si avvicinò,
cancellandole con la mano libera. «Shh.
Va bene. Credo di dovermi scusare anch’io. Siamo
pari» mormorò, sorridendomi.
Gli sorrisi appena, il viso ancora
bagnato. «Per
questa volta» mormorai con un filo di voce.
Come
promesso eccomi qui!
Ho
questo extra quasi interamente pronto (e anche molto lungo).
Preciso
che è un extra, e non un seguito, quindi sostanzialmente non
viene aggiunto
nulla alla trama originale, e se siete interessati a consistenti eventi
divertenti tutto ciò non fa per voi…
Detto
ciò…
rinnovo
l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani
scritta con tsukinoshippo,
l’autrice di Bambola.
Si chiama “The
Woodmore
Sisters”. Si tratta di un ff storica,
piena di gonne vaporose e
amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli
appena
nati o in arrivo.
Grazie
a chi ancora recensisce queste pagine.
Letizia
sarà felice di leggere dei bebé (ho mantenuto la
mia promessa ;) ).
Ci troviamo un anno e mezzo dopo la
nascita di Kate.
Il testo è stato scritto
per il contest di erszi sul
peccato della Gola, quindi potrebbe non essere perfettamente aderente
ai tempi
narrativi.
Ridacchiai, osservando mio marito,
le braccia occupate
da pacchetti rossi.
«Edward, sei sicuro di
farcela?» chiesi, portandomi
una mano alle labbra per nascondere un nuovo sorriso.
Il suo sguardo fu beffardo.
«Ce la faccio, ce la
faccio», disse, aprendo con le chiavi il portone di casa
nonostante tutti i
pacchetti.
Fra noi si respirava
un’intimità sconvolgente. Avevamo
trascorso fuori, un giorno tutto per noi, quella nostra prima data. Il
14
Febbraio. San Valentino.
«Piccolina, siamo a
casa!» chiamai a gran voce,
superando mio marito e i pacchetti. Affidare nostra figlia alle cure
della
famiglia Cullen era stato indispensabile, e di certo non avevo potuto
declinare
le loro entusiastiche offerte di aiuto. Io e Edward dovevamo pensare un
attimo
a noi e a lei. Alla nostra famiglia…
Esme aveva promesso di riportarla a
casa per le sette,
ed era già passata mezz’ora dall’orario
prestabilito.
«Amore!» la
chiamai, vedendola seduta sul divano. La
nonna stava in piedi, appoggiata allo schienale.
Sollevò lo sguardo.
«Ammi» chiamò. Dimostrava
all’incirca un anno.
Le sorrisi. Mi sentivo un
po’ in colpa per averla
lasciata sola, ma sapevo che era anche stato necessario. Io e Edward
avevamo
adeguatamente discusso su come darle la nuova notizia.
Allungai le braccia verso di lei,
piegandomi sulle
ginocchia, pronta a ravvivare il suo entusiasmo facendola sgambettare
fra le
mie braccia. Edward non sarebbe stato molto contento. Poco male.
La mia bambina scese dal divano,
ruotò a pancia in
giù, appoggandosi sui gomiti e scivolando prima con una
gambetta e poi con
l’altra. Camminò piano ondeggiando verso di me.
La sollevai velocemente, facendole
fare una giravolta.
Si strinse forte a me, nascondendo la testolina nell’incavo
del mio collo. Con
una mano aggrappata alla mia maglietta e una a una ciocca di capelli.
«Dai un bacio alla
mamma» la esortai.
Sollevò il viso e mi
diede un rapido e fuggevole
bacino sull’angolo della bocca. Le accarezzai i capelli.
«Ti sei divertita a
pomeriggio? Gli zii e i nonni sono stati buoni?» le chiesi,
cullandola intanto
con le braccia. La piccina s’irrigidì,
stringendomi più forte e non dicendo una
parola.
Alzai lo sguardo su Esme, che nel
frattempo mi aveva
raggiunta al mio fianco. «É stata con tutti gli
zii. Ha fatto la brava e ci
siamo divertite tanto» fece affettuosamente, posandole una
mano sui morbidi
capelli.
Edward venne a salutarla, con gli
stessi dolci gesti
compiuti da me, e dopo, mentre io mi dedicavo completamente a nostra
figlia,
congedò Esme, che ancora non aveva goduto del suo giorno di
San Valentino con
suo marito.
«Mi vuoi dire cosa hai
fatto con zia Alice? Eh? É
stato divertente?», chiesi con dolcezza, andandomi a sedere,
stanca, sul
divano, e sedendo Kate sulle ginocchia. Magari,
pensai, era stanca
per la giornata. Solitamente era entusiasta di raccontarmi
tutto quello che
faceva, nei minimi e insignificanti particolari.
Abbassò il viso e si
mordicchiò il labbro. Aveva preso
da me in quello. «Tia…
scappe…».
Risi a
quell’affermazione. «Eh sì, la zia ha
tante
scarpe». Che mi figlia si stupisse del gusto eccentrico della
zia era davvero
esilarante.
Eppure, appena Edward comparve al
mio fianco la
bambina s’interruppe, allungando le braccia per farsi
prendere da lui. La
sollevò e la prese in braccio, sedendomi accanto.
«Vuoi fare la corsa con
papà?» chiese, tempestandole il collo di baci.
A Kate scappò un
risolino per il solletico, ma morì subito
dopo in un gemito di fastidio.
«Non ti va?»
chiese Edward, giusto un po’ perplesso.
Scosse energicamente il capo.
Le accarezzò la fronte.
«Allora mangiamo. Ti preparo
la pasta col pomodoro…».
Il labbro inferiore della bambina
sporse in avanti e
la testa si abbassò. «No»
mugugnò.
Mi voltai verso mio marito, e
subito la presi fra le
braccia per stringerla a me. Avevo paura che potesse scatenarsi un
contrasto
nato dal fatto che Edward non avrebbe potuto propriamente
“mangiare” con lei.
«La prepara mamma e mangiamo insieme, amore».
La piccola mugugnò ma
non disse nulla.
«Avanti, non fare i
capricci…» la riprese bonariamente
Edward, sollevandomela dalle braccia.
Silenziosa, mi impegnai a preparare
una soddisfacente
pasta al pomodoro. Non per me, certo, non sarei riuscita, nelle
condizioni in
cui ero, a gustarla appieno, ma volevo che alla piccola ritornasse
l’appetito.
Nei primi tempi, a volte, capitava
che rifiutasse il
cibo. Carlisle mi aveva invitata a non forzarla. Ogni bambino
assume ciò che
gli è necessario, mi aveva detto.
Edward la invitò a
giocare un uno dei tanti
ingegnosissimi giochi per bambini prodigio regalati dagli zii. Eppure,
Katherine non rispose in modo soddisfacente, e con il minimo
entusiasmo.
Sentii una fitta allo stomaco, e
capii non essere solo
la nausea. E se la mia piccola si fosse sentita trascurata? Dopotutto,
nell’ultimo periodo, eravamo stati molto impegnati. Solo oggi
io e Edward
avevamo deciso di stabilire un modo per riferirle la notizia. Se
l’avesse già
scoperto sola?
«É
pronto!» esclamai, portando a tavola le due
ciotole.
Immediatamente la piccola era
già sistemata sul suo
seggiolone.
«Mmm, che buon
odore!» fece Edward, con il mio stesso
entusiasmo.
Lo fissai di sottecchi, ma non
dissi nulla. Kate
spostò lo sguardo dalla ciotola a me, silenziosa.
«Amma ‘ossa».
Sussultai, e Edward fu
più veloce a riprendersi di me.
Rise. «É vero! Per questo dovresti mangiare
più pasta di lei! Non possiamo mica
farla ingrassare ancora?!» scherzò.
La piccola afferrò il
suo cucchiaio in mano con il
pugno e ne portò un po’ alla bocca.
Edward venne a sedersi accanto a
me. Ne presi uno
anch’io, per non darle motivo di fermarsi. Ma mi sentivo
inquieta. La bambina
era calma e silenziosa.
Mi scambiai un’occhiata
con mio marito, che, percependo
la mia inquietudine mi sorrise, stringendomi le dita sotto al tavolo.
La piccola cincischiò un
po’ con il cucchiaio,
sparpagliando perlopiù brodino su tutto il seggiolone. Era
una tortura vederla
così taciturna e priva d’entusiasmo.
Edward provò ad
alleggerire un paio di volte la mia
tensione, invitandola a mangiare, scherzosamente e non. Infine la pasta
al
pomodoro di entrambe finì buttata nel tritarifiuti.
Presi Kate fra le braccia e la
strinsi a me, lasciando
a Edward il compito di sparecchiare tavola. «Stai bene
piccolina?» chiesi
apprensivamente. «C’è qualcosa che non
va? Dillo a mamma…».
Scosse il capo e si
gettò con le braccia al collo.
La cambiai, le misi il pigiama e la
infilai sotto le
coperte. Le proposi un gioco, una poesia, una fiaba. La ricoprii di
attenzioni.
Ma la bambina sembrava sempre strana, e anche quando si
addormentò, non riuscii
a staccarmi subito da lei.
Alla fine, Edward venne a
chiamarmi. Si era fatto
tardi.
Lo seguii a malincuore in camera,
separandomi da mia
figlia con un bacio sulla fronte. Ero restia ad allontanarmi da lei, e
pensai
che quella di averle dato una camera tutta sua fosse stata una pessima
idea.
Una camera diversa dalla nostra perfettamente insonorizzata.
«Era strana, era
taciturna… Non la prenderà mai bene,
Edward… E se si sentisse sola? Abbandonata?»
chiesi preoccupata, rivoltandomi
nel letto e non riuscendo a dormire.
Mi accarezzò una
guancia. «Sta tranquilla. Sicuramente
è solo stanca, o magari è solo un
momento…». Lo sapevo, sapevo che anche lui,
in fondo, era preoccupato. Non per i miei stessi motivi, ma doveva pur
aver
notato la sua stranezza…
«Ma era stranissima! Non
l’ho mai vista così priva di
entusiasmo… E se avesse capito qualcosa?».
«Bella, calmati. Tutta
questa agitazione non va bene,
lo sai» disse, sfiorandomi la pancia. «Se la
porremo nella giusta prospettiva,
Katie sarà più che felice di avere un
fratellino».
Sospirai, sull’orlo delle
lacrime, cercando rifugio
nel suo petto.
Mi ero addormentata, ma il sonno
era stato confuso e
agitato, e mi svegliai dopo appena un’ora, madida di sudore.
Mi sollevai dal
letto.
«Dove vai?».
Mi morsi il labbro. «Una
camomilla…».
«La faccio io»
disse subito Edward.
«No, no, davvero Edward.
Lasciami andare, dai…». Non
avrei potuto tenergli nascosta la mia meta.
Sospirò. «Ti
aspetto qui» fece riluttante.
Sgattaiolai fuori dalla stanza,
richiudendomi la porta
alle spalle, e mi mossi cautamente nel buio della notte fino alla
camera della
bambina, adiacente alla nostra.
Appena entrai mi resi subito conto
di qualcosa di
strano. Subito dopo mi accorsi dei bassi gemiti e singhiozzi. Mi
precipitai
all’abatjour, accendendola velocemente.
La mia bambina era rannicchiata
scompostamente fra le
coperte del suo lettino con le sbarre, il viso rosso e pieno di lacrime.
La sollevai immediatamente fra le
braccia. «Amore,
amore, Katie, piccola, cos’hai?».
Si strinse forte la pancia,
piangendo.
Le strofinai il viso sulla guancia
bagnata. «Ti fa
male la pancia?» chiesi velocemente, posando il mento sulla
sua fronte. Non mi
pareva avesse la febbre.
La bambina prese a singhiozzare
più forte.
«Shh, shh» la
cullai convulsamente, accendendo le luci
della cameretta e del corridoio. «Va tutto bene amore di
mamma. Adesso andiamo
da papà… Va tutto bene…».
Me la strinsi addosso, tenendole la
testa con una
mano, camminando velocemente nel corridoio. Non appena aprii la porta
della
nostra stanza Edward mi venne immediatamente incontro.
«Che succede?»
chiese velocemente, facendo passare lo
sguardo da me alla bambina.
Ansimai. «Sta male, le fa
male la pancia…» feci
preoccupata.
Me la sfilò dalle
braccia, controllandola velocemente.
Una mano sulla fronte, una sul polso. Subito si spostò verso
il letto,
depositandola dolcemente sul materasso.
«Dove ti fa male
Katie?» le chiese, accarezzandole i
capelli.
La bambina singhiozzò,
tenendosi il pancino con una
mano.
Presi le mani della bambina fra le
mie. «Che cos’ha,
Edward?» chiesi agitata.
Sollevò il suo sguardo
su di me, non smettendo di
accarezzare nostra figlia. «Ho un’idea, ma
è meglio chiamare Carlisle».
«É San
Valentino! Lui è Esme sono gli unici che non
abbiano ancora festeggiato…».
Il suo sguardo cadde sulla nostra
piccola bambina
piangente, e così anche il mio. La strinsi fra le braccia,
serrando le labbra.
«Chiamalo». Scomparve immediatamente.
«Andrà tutto
bene piccina mia, tutto bene. Te lo
prometto». Mi sedetti sul letto, stringendola a me e
cullandola.
Edward venne subito da noi,
occupandosi della bambina.
«Stai tranquilla» mi disse, scoccandomi
un’occhiata «adesso arriva».
Non appena sentii il campanello mi
alzai per andare ad
aprire. Per quanto avrei voluto stare con la bambina, capivo quanto
Edward
potesse essere più utile. E poi, avevo bisogno di un attimo
di tempo per
ricompormi, non potevo farmi vedere così agitata dalla
piccola.
«Carlisle»
sospirai, non appena lo vidi. In mano la
sua borsa di cuoio. Mi feci immediatamente da parte.
«É in camera nostra»
mormorai, e in pochi secondi scomparve, con un cenno del capo.
Esme, dietro di lui, mi venne
incontro con un
espressione comprensiva. Fece passare un braccio intorno alle mie
spalle,
accarezzandomi la testa e guidandomi nel soggiorno. «Sta
tranquilla, andrà
tutto bene».
Chiusi gli occhi, lasciandomi
andare sul divano.
Dovevo mantenere la calma e fare qualcosa che potesse essere utile alla
piccola, e certamente non farmi prendere dal panico.
«Tranquilla…»
ripeté Esme, convincendomi ad aprire gli
occhi.
«Sto bene», mi
sollevai dal divano, decisa, puntando
verso la porta della camera.
«Ammi» pianse
la bambina non appena mi vide, tirando su
col naso. Edward la teneva stesa sul letto, e Carlisle le stava
palpando
l’addome.
«Shh» la
rassicurai dolcemente, andando velocemente al
suo fianco e prendendole una manina fra le mie. «Va tutto
bene piccina mia».
Kate singhiozzò
più forte, sbracciandosi verso di me.
Edward le accarezzò i
capelli, trattenendola. «Calma,
calma, il nonno ha quasi finito».
M’inginocchiai a terra, e
posai il mento sul
materasso, soffiando piano sulle guance bagnate della mia bambina.
«Ti fa più
male qui?» chiese Carlisle, tastandole un
punto preciso dell’addome.
La piccola scosse il capo,
allungando ancora le
braccia verso di me. La sollevai, stringendomela addosso. Le baciai la
fronte.
«Che
cos’ha?» chiesi, provando a mascherare
l’ansia.
Edward ci avvolse entrambe con un braccio.
«Escluderei appendicite,
problemi al fegato e alla
milza. Sembra le faccia male lo stomaco. Cosa ha mangiato?».
Sussultai, stringendola
più forte. «Io… le ho cucinato
la pasta col pomodoro…».
«Ne ha presa pochissima,
e l’ha mangiata anche Bella»
disse Edward, «non sta male».
Accarezzai i capelli della bambina,
rimuginando sulla
sua assenza di entusiasmo. «Stava già male
prima».
Carlisle si chinò a
sfiorare con la punta delle dita
le guancia arrossata e bagnata della piccola. «Kate, piccola,
che cosa hai
mangiato?» chiese, guardandola con gentilezza.
La bambina pianse di
più, e si voltò per stringersi
con le braccine al mio collo, facendomi sbilanciare. Edward mi sostenne
prima
che potessi cadere. Riuscii a tirarmi su con la bambina fra le braccia
e
sedermi sul letto. «Ce la faccio» mormorai,
ignorando le mani tese di Edward,
un chiaro invito a passarle nostra figlia.
In un attimo scomparve. Un secondo
dopo, entrò in
camera con Esme. «Le ho fatto mangiare il petto di pollo
cotto al vapore e mezza
mela. Poco prima che arrivaste le ho dato la torta al
cioccolato» spiegò
chiaramente, fissando apprensivamente la nipotina.
Cullai la bambina con le gambe.
«Hai mangiato solo
questo? Dillo a mamma…».
Sia io che Edward provammo a farla
parlare, ma non ottenemmo
nulla che non fossero pianti e lamenti. Purtroppo, la mente della
piccola si
stava allenando ad essere occultata a quella del padre sempre
più spesso.
Suonarono al campanello, e poco
dopo la stanza si
popolò della presenza di Alice e Jasper.
Lei sussultò, sollevando
il viso e osservandomi con
una strana smorfia. «Ho visto che stava
male…».
Immediatamente il viso di Edward
scattò verso l’alto.
«Alice!» esclamò scandalizzato. La
vampira abbassò il capo, colpevole.
«Le ha dato una scatola
di cioccolatini» fece mio
marito con durezza, accarezzando la schiena di nostra figlia, madida di
sudore
sotto il pigiamino. «Reputi che sia un intrattenimento
abbastanza sostanzioso
per tenerla lontana dalle tue scarpe, Alice?!».
Alzò il viso.
«Non le avrebbero fatto male Edward, è
sempre stata così giudiziosa, non credevo li mangiasse
tutti. Io…» fece, ma
s’interruppe immediatamente, lo sguardo nel vuoto.
Due secondi più tardi
Rosalie e Emmett erano in camera
con noi. Edward si alzò, ringhiando furibondo. «Le
avete dato dei dolcetti!
Diamine! É possibile che siate tutti impazziti!?».
«Edward, la bambina si
scocciava a stare con noi»,
borbottò Emmett in sua difesa.
Rose alzò la testa,
decisamente più spavalda. «Ognuno
di noi ha comprato dei dolci per San Valentino. Abbiamo solo deciso di
non
buttare i dolci, e di prenderci un momento per San Valentino. Questo
è quanto»,
fece, facendo scivolare una ciocca di capelli dietro la spalla.
Edward le ringhiò
contro.
Mi voltai agitata verso la piccola,
prendendole il
visino fra le mani. «Hai mangiato la torta, i cioccolatini,
tutti i dolcetti?».
La piccola tremò, e non rispose. Tutti avevano certamente
considerato la
bambina molto più giudiziosa. Ma nessuno si era ricordato
quanto fosse piccola
e golosa. Eppure, anch’io mi sarei
aspettata più giudizio da parte sua.
«Rispondimi. La mamma non ti sgrida, ma rispondimi».
Kate tirò su col naso.
«Tio Emm ha ‘etto a tia…» le
tremolarono le labbra «Kate ‘eve -ividele i
dolcetti atto bimbo» singhiozzò, e
abbassò la testa spaventata per un mio possibile rimprovero.
Immediatamente la mia testa
scattò verso l’alto. Come
aveva potuto farsi sentire dalla bambina mentre diceva certe cose? Non
accetterà
mai la nascita del fratello, pensai ansiosa.
Chiusi le braccia a protezione
intorno al copricino
della piccola. «Non è vero, non è vero
per niente. Adesso papà dà tante botte a
zio Emm, non si dicono queste cose…».
Lasciai un bacio sulla guancia di
mia figlia e intanto
riservai un’occhiataccia di sbieco a Emmett e sua moglie. Si
guardavano
sorpresi. Sorpresi che la piccola avesse sentito le loro battutine
idiote. Io e
Edward eravamo stati così attenti, dannazione! Avevamo
aspettato fino al quinto
mese di gestazione, per trovare un modo adatto per dirglielo!
Mi feci sfilare la piccola dalle
braccia da Carlisle.
«É solo un’indigestione»
disse, stendendola sul materasso.
Edward le accarezzò la
testa. «E la paura per il
peccato commesso» sospirò, fissandola benevolo.
Carlisle me la ripassò.
«Ora si dovrebbe calmare, e il
dolore dovrebbe andare meglio. Falla bere tanto, e magari mettile una
borsa
d’acqua calda sulla pancia. Deve stare a digiuno per almeno
dodici ore» abbassò
la voce «non ti preoccupare se vomita. Potrebbe essere una
normale risposta
dell’organismo».
Annuii. «Grazie Carlisle.
Grazie» feci, rivolgendomi a
Esme. «Mi dispiace che abbiate dovuto sacrificare il vostro
San Valentino».
Esme ridacchiò.
«Non ti preoccupare tesoro, avremmo
tante occasioni. L’importante è che la bambina
stia bene, figurati. Ne abbiamo
festeggiati così tanti!».
«A quanto pare qualcun
altro non ha potuto rinunciare»
dissi, indurendo il tono e guardando i miei fratelli acquisiti.
«Voi. Siete
stati voi a chiedermi di prendervi cura di mia figlia, vi ricordo. Non
ve lo
avrei mai imposto».
«Oh, lo sai che non
avrebbe mai fatto una cosa del
genere!» protestò Rosalie. «É
sempre stata intelligente, giudiziosa».
«Per quanto sia
giudiziosa, ve ne siete sbarazzati
prendendola per la gola. L’avete
distratta per…» serrai le labbra, per
evitare di usare parole poco consone davanti alla bambina.
«Scambiarvi
effusioni». Mi voltai verso la bambina, decisa a chiudere per
sempre la
questione. «D’ora in poi starai sempre con i
nonni… Niente zii, va bene? Finché
non faranno i bravi, niente zii» feci con un sorriso,
sfregando il naso al suo.
Edward le scompigliò i
capelli. «Sei stata davvero una
golosona, piccola peste».
Arrossì, nascondendo il
viso sul mio petto. «Ammi…»
biascicò.
«Avanti, vieni
qui» le fece benevolo, prendendola
dalle mie braccia. Lanciò un’occhiata alla sveglia
al mio fianco. «É
tardissimo. Tu e mamma dovete riposarvi».
Kate si spostò per
guardarlo negli occhi.
Vidi sul viso di mio marito
comparire un’espressione
che voleva certamente essere seria, ma che seria non era affatto. Stava
nascondendo un sorriso. «Sì, nel lettone piccola
peste! Con un indigestione ti
sei guadagnata un posto nel lettone…».
Sospirai, accarezzandole i capelli.
Dopo circa un’ora in casa
mia regnava nuovamente il
silenzio. Kate stava di nuovo bene, calmandosi era riuscita a calmare
anche il
dolore allo stomaco. Edward le stava facendo lavare i denti, e io mi
ero stesa
un po’, esausta, sul letto.
Mi accarezzai la pancia tonda.
Adesso che la questione
era stata posta in questi termini, non vedevo nessuna via
d’uscita per dire
alla piccola del fratellino. Era una tragedia. Una tragedia, punto.
Eppure non
me la potevo prendere troppo con Emmett. Ero stata io a temporeggiare
così
tanto ed aumentare il rischio che la piccola scoprisse tutto in maniera
tanto
tragica.
Sospirai, chiudendo gli occhi e
lasciando andare la
testa sul cuscino. Dovevamo dirglielo. Dirglielo subito prima che la
situazione
degenerasse ancora.
«Shh, non svegliare la
mamma…».
Aprii gli occhi e li vidi. Edward
la teneva per mano e
la piccolina gli sgambettava accanto con il suo pigiamino rosa pieno di
merletti, un peluche grande la metà di lei sotto il braccio
libero.
«Dobbiamo far posto anche
per lui?» chiesi indicando
il pupazzo.
«Tlinky no
tolo» disse, stringendoselo al petto «no
nella came-a di Kate tolo. La… la tia Rose me l’ha
‘egalato. Ti piace? Ti
piasce ‘amma?».
Edward alzò gli occhi al
cielo, e issò la bambina sul
materasso, fra di noi. A quanto pare la piccoletta aveva recuperato la
parola.
Sorrisi, e certamente se fossi
stata meno assonnata
avrei dimostrato più entusiasmo. Le accarezzai la pancia.
«Ti fa ancora male?».
Strinse più forte il
pupazzo e fece no con la
testa.
Alzai lo sguardo verso mio marito e
gli strinsi la
mano, in cerca di conforto. Capì quello che volevo.
«Tesoro, ricordi cosa ha
detto lo zio Emm?» chiesi alla piccola.
Annuì, guardandoci
concentrata.
«Ecco»
cominciai, deglutendo «alcune… cose…
e-erano ve…»
la voce mi morì in gola e non fui in grado di continuare.
Edward mi strinse più
forte le dita e intervenne per
salvare la situazione. «Kate, papà e mamma hanno
una notizia stupenda per te!»
fece, con un entusiasmo molto più adeguato del mio tono
rauco e ansioso.
La bambina lo fissò
sospettosa. Io lo invitai a
continuare con lo sguardo, angosciata.
«Vedi amore, molto presto
avrai un fratellino». La
bambina non si scompose per niente, e Edward continuò,
«potrai giocare con lui,
e farete tante cose insieme. Vi vorrete bene. E potrai insegnargli
tutto quello
che tu sai, se vorrai».
Sentivo il cuore battere
velocemente, ma non osavo
muovermi, né parlare. Kate era sempre immobile, e fissava
attenta il padre.
Quando Edward le disse
«sta crescendo nella pancia
della mamma», la bambina guardò verso di me, e poi
verso la pancia.
Io tremavo, ma la piccola non
sembrava turbata. Solo
tremendamente silenziosa.
Mio marito le accarezzò
la schiena da dietro. «Puoi
farlo» le disse, e quando Kate si voltò a
guardarlo le sorrise con dolcezza.
Lei mollò il suo pupazzo
sul letto e sporse una manina
sulla mia pancia, facendomi sussultare.
Poi sollevò lo sguardo
su di me. «Devo dale i miei
dolcetti a lui?» chiese seria.
«No, certo che
no», mormorai immediatamente, ansiosa.
Scrollò le spalle, e si
aprì in un sorriso. «È
‘impatico»
affermò, lanciandosi ad abbracciare la mia pancia.
Fissai sconvolta Edward.
E così, era tutta una
questione di gola…
Ragazze!
Mi
credete se vi dico che nemmeno ho avuto il tempo di pubblicare pur
avendo il
capitolo pronto? Stamattina avevo una mezz’ora libera, quindi
eccomi qui!
Spero
che vi sia piaciuto.
Ieri
ho visto BD, pareri? Non voglio spoilerare nessuno, ma secondo me hanno
avuto
da una parte un’idea geniale (e chi l’ha visto
capirà), dall’altra mi è parso
un po’ floscio, soprattutto il personaggio di
Renesmeè, peccato.
Oggi
ho due inviti da farvi.
Come
sempre, quello di far un salto alla quattro mani scritta de me e da tsukinoshippo,
l’autrice di Bambola.
Si chiama “The
Woodmore Sisters”.
Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla
di due
sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.
Firmare
la petizione per il libro “Die for me”, di Amy
Plum. Dicono sia davvero bello,
e sarebbe carino averlo in italiano. Trovate anche una recensione di
alessiaesse nel link della petizione. :)
Grazie
mille a Kygo, che devo rincuorare circa le sorti
delle Sorelle (Cam sta
scrivendo :D), a Bells85 (sono io che devo
ringraziare te!), a letizia90
- che ormai aveva perso la speranza anche se non lo vuole ammettere - a
alla
cara celly
chelly,
dolce e tanto gentile, a cui però devo dire che non
scriverò un seguito. Per me
la storia è già compiuta così.
E
grazie al mio amore Camilla. Così,
perché mi va.
Ondeggiai in avanti, portando sulle
mani il vassoio.
«Oh, Bella. Ci hai
portato da mangiare?» ammiccò
Emmett, lanciando la sua palla verso il cielo.
«Mammi, ammi
ammi!».
«Vorrei, Emmett. Tre
bicchieri di sangue freddo, A
negativo, il migliore» affermai sarcastica, posando
sul tavolino del garage
il succo di Kate.
Rosalie stava lavorando alla mia Mercedes,
sistemandola e perfezionandola. Ancora non aveva avuto occasione di
metterci le
mani addosso. Era strano vederla con una tuta da meccanico, sporca di
olio e
grasso da motore. Ma non potevo dire, assolutamente, che non fosse sexy
anche
così.
«Non correre, Kate,
sta’ attenta» la chiamò Edward,
anticipandola in un attimo e prendendola fra le braccia, per
avvicinarsi in un
istante al tavolino. «Cosa ti ha portato la mamma? Succo?
Niente biscotti?».
Sollevai gli occhi al cielo,
sorreggendomi la schiena
con le mani. «Deve mangiare fra poco, Edward. Questa
è solo la merenda. Sono io
quella che la deve convincere a cenare, dopo». Guardai in
alto, osservando
Emmett che aspettava tranquillo che la palla cadesse. Mi chiedevo se
non
l’avesse mandata in orbita.
«Certo, come non
detto» mormorò, aiutando la bambina a
bere il succo. La piccola afferrò il bicchiere con entrambe
le mani, tastando
con le minute labbra piene la cannuccia e succhiando.
Rosalie scivolò da sotto
la macchina, venendo allo
scoperto. Emise un fischio. «Sempre più incinta,
eh, Bella?».
Sorrisi appena, un sorriso che era
quasi una smorfia.
«E già. Ci siamo quasi. Carlisle dice che Mark
è bello grosso, sarebbe un bene
se decidesse di venire fuori un po’ prima» feci,
leggermente spaventata dal
tono con cui mio suocero diceva “è grosso,
è bello grosso”. Neanche fosse un
vitello. No, non avrei assolutamente partorito un vitello. Se solo
l’ago dell’epidurale
non fosse stato così enorme…
«Beh, Rose. Io penso che
ti dovrai abituare a quella
pancia grossa, perché ho tutta l’intenzione di
fartela vedere spesso» ammiccò
Edward, orgoglioso.
Sospirai, sentendo un fastidio
nascere dalla sommità
della pancia. Stupide contrazioni.
«Oh, sì
fratello, voglio proprio vedere come farai»
ribatté con malizia Emmett, riacciuffando la sua palla.
«Alla, alla!»
cantilenò Kate, battendo le mani e
indicando lo zio.
Edward
l’osservò con spavalderia.
«Nell’unico modo in
cui si fanno i bambini, Emm».
«Come si ‘anno
i aini?» chiese immediatamente Kate,
gli occhi grandi e curiosi, mentre si staccava dalla sua cannuccia per
riporre
il bicchiere vuoto.
Edward e Emmett la fissarono per un
attimo,
istupiditi, senza parlare.
«Adesso basta»
li interruppi, «i bambini il facciamo
nella nostra camera, Edward» sottolineai eloquentemente,
arrossendo sulle
guance «e non avverrà così presto, te
lo posso assicurare. A meno che tu non
voglia invertire i ruoli, certo» mormorai, assottigliando lo
sguardo.
Mi sorrise, sereno.
«Vedremo».
Non era qualcosa di cui parlavamo
la prima volta. Ci
avevamo discusso a lungo. Ma non poteva pretendere, a pochi giorni dal
termine,
che parlassimo di altre gravidanze. Mi faceva quasi pensare che fosse
come un
gioco. Quasi. Perché vedevo la scintilla d’amore
con cui mi parlava, anche se
non mi faceva desistere dall’idea di prenderlo a calci nel
suo culetto d’oro.
«Ah, Rose, quanto ti
invidio. Vorrei poter passare
sotto quell’auto come te» borbottai, strofinandomi
la schiena.
Kate stava urlando mentre Emmett si
divertiva a
rincorrerla. Almeno la distraeva.
Edward mi venne dietro, sostituendo
le sue mani alle
mie. «Vuoi sederti?».
Scossi il capo, massaggiandomi la
pancia. «No. Sto per
rientrare dentro. Alice stava organizzando qualcosa, voleva che
passassimo la
serata qui… Esme dovrebbe aver finito di preparare tutto per
la cena, ora
rientro. Inoltre» cincischiai arrossendo «ho
bisogno di tornare dentro».
Mi sorrise appena, voltandomi per
baciarmi il naso.
«Certo, vai».
Non appena Kate si accorse che
stavo rientrando corse
a stringermi le gambe, facendomi quasi cadere. Sapeva che non potevo
prenderla
in braccio, allora aveva preso il vizio di stringersi alle mie gambe.
«Kate»
annaspai, brancolando per trovare un punto d’appoggio che non
fosse lei o il
pavimento.
«Kate!» la
rimproverò Edward, venendo ad aiutarmi in
pochi secondi.
«No. Mammi»
ribatté decisa, imbronciando le labbra.
Sospirai, massaggiandomi la pancia.
Un’altra
contrazione. «Vieni con me Kate, ma dovrai mangiare la cena.
E camminare».
La bambina annuì,
tendendomi la mano.
Le sorrisi, accarezzandole i
capelli. «Andiamo».
«Ho fatto la spesa per
qualsiasi ricetta, Bella. Qui
trovi il burro, qui il semolino, e qui tutti i formaggi. E qui dovresti
trovare
tutte le creme e la pasta. Chiedimi se non trovi qualcosa. Sicura che
non vuoi
che rimanga con te?» mi chiese Esme, sfrecciando da una parte
all’altra della cucina.
Sorrisi a Kate, passandole un altro
pastello per
colorare. «Sì, sono sicura». Sollevai la
testa per guardare mia suocera. «Si
sente più a suo agio a mangiare con me, lo sai…
vuole solo… spero che mangi»
mormorai, scuotendo le spalle.
Annuì, osservandomi.
«Certo, per qualsiasi cosa
chiamami. Sono qui in salotto».
«Sicuro».
Passai il rosso a Kate, col quale colorò le
mie labbra. Aveva poco più di un anno e mezzo, e ne
dimostrava meno. Ma sapeva
disegnare bene. A volte, avevo paura che tutto quello che aveva vissuto
indirettamente tramite me la influenzasse troppo. Avevo chiesto a
Carlisle,
disperata, se nei suoi disegni ci fosse qualcosa di strano. Mi aveva
rassicurata, “probabilmente ha ereditato il talento della
madre”.
«Vedde, ammi.
Vedde!» reclamò la mia attenzione.
Strinsi la pancia con una mano,
osservai l’orologio.
Presi un breve respiro. «Il verde, Kate. Certo, ecco il
verde. Cosa ci devi
fare?».
Afferrò il pastello fra
le piccole dita, stringendo le
labbra, concentrata. «Gli occhi di papà».
«Ah, gli occhi di
papà, sì. Gli occhi di…»
annaspai,
osservandola in silenzio. Chi gliel’aveva detto?
«Kate» la
chiamai, posando una mano sulla sua spalla,
«Kate, tesoro. Chi ti ha detto che gli occhi di
papà sono verdi?».
Gli occhi di mia figlia, lucenti
del colore ormai
perduto del padre, si specchiarono nei miei. Estese il suo scudo, come
faceva
sempre, inconsciamente, quando doveva rivelare qualcosa che la
spaventava o di
cui si vergognava, o che aveva paura di condividere. Perché
così gli altri non
avrebbero potuto sentire. «Veddi».
Scossi lentamente la testa,
destabilizzata. «No,
tesoro. Sono ambra, ambra chiaro».
Sbatté le palpebre,
fissandomi insistentemente. «No. Veddi.
Ando è totto…» guardò in
alto, verso il suo scudo, poi si indicò
«Kate».
Annuii, colpita. Possibile che
sotto il suo scudo si
rivelasse qualcosa di diverso dal solito? «Capisco. Forse
dovremmo dirlo al
nonno. E a papà».
La bambina scosse la testa,
gettando le braccia contro
il mio pancione. «No».
Annaspai, accarezzandole piano i
capelli. Perché no?
Non si sentiva diversa, vero? Non doveva. Sospirai, osservandola
preoccupata. Dovevo
solo darle i suoi tempi. «Va bene» la rassicurai,
attorcigliando i suoi lunghi
capelli mori alle mie dita. «Va bene, Kate. Adesso
mangiamo».
La bambina mi osservò
dal basso, spostando poi lo
sguardo verso il seggiolone. Oh. Certo…
Sospirai, piegandomi sui talloni, e
non senza un
enorme sforzo la tirai su, facendola scivolare nella sua seduta. Presi
un lungo
fiato, massaggiandomi la schiena. Eh, sì. Faceva proprio
male.
«Allora, Katie»
feci celere, intenta ad allontanare lo
sguardo attento della mia bambina, «cosa mangiamo oggi?
Abbiamo il semolino col
formaggino, il riso col pomodoro, e il… brodino di
pesce». Non il brodino di
pesce, amore di mamma, non dire il brodino di pesce.
«Omodo-o»
dichiarò decisa.
Mi aprii in un largo sorriso.
«Perfetto».
Non passò molto che
Edward fece capolino nella stanza,
la maglietta imbrattata di terra. «Scusa, devo andare a
lavarmi. Hai bisogno di
aiuto? Di qualcosa? Posso darle da mangiare se
vuoi…».
Ondeggiando sui piedi rilasciai un
respiro, appena un
secondo prima di guardare l’orologio. Scossi il capo,
mescolando la pietanza e
prendendone un piccolo boccone direttamente dalla pentola.
«No, no, grazie. Fai
pure, fra un po’ veniamo di là».
«Davvero?»
chiese, aprendo ancora un po’ la porta e
osservando Kate, intenta a concludere i suoi disegni sul seggiolone,
«e mi
spieghi chi ce l’ha messa Kate lì?»
fece, vagamente accusatorio.
Mi voltai nella sua direzione,
osservando prima Kate e
poi lui. Scrollai le spalle. «Teletrasporto»
ridacchiai, voltandomi nuovamente.
«Teletrasporto,
certo» borbottò, uscendo dalla stanza.
Feci un occhiolino alla bambina,
causando il suo riso.
Mescolai il riso nel piattino,
soffiandoci su prima di
darglielo. Lo prese fra le labbra senza protestare. Era una brava
bambina,
dopotutto. Il fatto che spesso non volesse mangiare dipendeva molto
dalla sua
natura, quella che dovevamo cercare di reprimere.
Gemetti debolmente, strofinandomi
la pancia. Cinque,
sei, sette… Osservai l’orologio. Eh sì,
duravano sempre di più.
«Ci sono altre cose belle
che vedi sotto il tuo scudo,
Kate?» le chiesi dolcemente, asciugandole le piccole labbra.
Mi osservò attentamente,
incerta. Non passò molto che
mi ritrovai circondata dalla sfera fluttuante.
«Ammi» mi chiamò, un po’
preoccupata.
«Sì tesoro,
dimmi» dissi dolcemente, accarezzandole
una guancia.
Abbassò leggermente la
testa, sporgendo il labbro
inferiore. «Atellino?».
La osservai attentamente, senza
dire nulla. Non poteva
essere che l’avesse capito. No. Doveva averlo piuttosto
intuito, tramite il suo
scudo. Doveva essere qualcosa di cui non ci eravamo ancora resi conto,
molto
più di quello che aveva già mostrato di essere.
Sussultai, stringendo le mani sulla
pancia. Appena
potei annuii piano, con un sorriso rassicurante.
«Sì, Kate. Mark verrà presto a
conoscerti».
Annuì insieme a me. E
sorrise.
Con la mano nella sua, piccola,
camminammo insieme
lungo il corridoio, fino al soggiorno di casa Cullen. Un tumulto di
vampiri si
affaccendava nelle più disparate attività.
Abbassai il viso su mia figlia,
incatenando al suo il
mio sguardo complice. Mi schiarii la gola, stringendo più
forte la presa sulla
mano di Kate.
E mentre sette vampiri erano fermi
a fissarmi,
pacatamente parlai, una smorfia di leggero imbarazzo sul viso:
«Io e Kate
abbiamo qualcosa da dirvi. Non per allarmarvi, ma credo proprio di star
per
partorire».
Velocemente, troppo velocemente, si
avvicinarono a
noi, in meno di un istante. Sentii la mano di Kate stringersi
più forte sulla
mia e prima che tutti potessero essere troppo vicini, io e mia figlia
eravamo
protette da uno scudo spesso.
Mi voltai nella sua direzione.
«Katie…».
Mi guardò fissa negli
occhi, il broncio sulle labbra.
La conoscevo quell’espressione.
«Kate, tesoro,
perché fai così?».
«Katherine, avanti,
abbassa lo scudo».
«Katie! Fa’ la
brava bambina».
Le frasi arrivarono filtrate e il
suono ovattato. Le
labbra della bambina tremarono, gli occhi si inumidirono.
«Bella!» mi
chiamò Edward, facendomi voltare per un
istante nella sua direzione, prima che la bambina scoppiasse a
piangere.
Sospirai, piegandomi lentamente e
maldestramente sulle
ginocchia, dolorante. Quello che volevo che non accadesse. Esattamente
quello. «Vieni
qui, tesoro, vieni dalla mamma» la chiamai piano, facendola
avanzare di un
passo e stringendola fra le braccia. «Va bene tesoro, va
tutto bene. Cosa
succede? Cosa c’è che non va?» le chiesi
dolcemente.
Singhiozzò contro la mia
spalla. Era spaventata. Tutto
quel trambusto, quella reazione improvvisa, l’aveva messa in
agitazione.
Le accarezzai i morbidi capelli
color cioccolato.
«Amore della mamma, non succede niente di brutto, lo sai,
vero? Stai solo per
conoscere il fratellino, con cui giocherai e ti divertirai
tanto». Gemetti,
piegandomi contro il pavimento, quando l’ennesima contrazione
m’investì.
«Bella!» mi
chiamò Edward, «Kate, tesoro. Abbassa lo
scudo, avanti. Abbassa lo scudo».
Ma la bambina non lo fece. Il suo
sguardo triste mi
accecò. Sollevò una manina fino a posarla sul mio
seno, facendomi sussultare.
Sospirai. Chiedermi il latte come
mezzo di conforto
era qualcosa che faceva sempre quando aveva paura che mi sarei
allontanata da
lei. Come se questo ci potesse unire e garantirle che non
l’avrei mai fatto. Ma
da quando ero rimasta incinta di Mark non avevo più latte
per lei.
«Lo sai che non posso,
tesoro. Però puoi bere il latte
con i biscotti nel tuo bicchiere da grandi, o nel biberon. Lo
vuoi?» le chiesi
con delicatezza, accarezzandole la guancia.
La piccola annuì, piano,
cauta.
Ansimai appena. «Forse la
zia Alice o la zia Rose
possono aiutarti…».
«No. Ammi!».
Annaspai ancora e la voce di Edward
echeggiò ancora
nella nostra direzione. «Kate, fa’ passare anche
me. Avanti, tesoro. Fa’
entrare anche me».
La bambina gli rivolse uno sguardo
triste, prima di
estendere il suo scudo oltre il padre. Venne accanto a me, stringendomi
fra le
sue braccia. «Stai bene? Va tutto bene?».
Annuii piano.
«É tutto apposto, è passato»
mormorai a
mezza voce, sostenendomi alle sue braccia, senza mai distogliere lo
sguardo
dalla piccola. «Il latte, e i biscotti. Ti prometto che
quando la mamma
tornerà, insieme a Mark, mangeremo tutti insieme il latte e
i biscotti. Tutti
tutti. E la mamma ti terrà in braccio tanto
tempo».
«Utti?» chiese
piano, ancora imbronciata, posando una
mano sul mio pancione.
«Tutti Kate».
«Papà?»
chiese, illuminandosi appena di malizia. Era
furba. Moltissimo.
Sorrisi complice. «Anche
papà» ridacchiai fra le
labbra.
Edward la tirò a
sé, stringendola ai nostri corpi
vicini. «Piccola birichina» la
rimproverò bonariamente.
Sibilai, lasciandomi completamente
scivolare a terra e
fra le braccia di Edward, lasciando che mi accarezzasse la schiena.
«Stai bene?».
Annuii, piano.
«Andiamo. Fai la brava,
Kate. Mamma e papà torneranno
presto».
La piccola gli strinse le braccia
al collo,
appoggiando le labbra umide sulla sua guancia.
Quando sollevai lo sguardo sul viso
di mio marito, vidi
che aveva ragione.
I suoi occhi erano verdi.
Il 20 Giugno 2009, giorno del
108esimo compleanno di
Edward.
«Auguri!
Auguri!».
Edward soffiò sulle
ventidue candeline, spegnendole.
Mi rivolse un’occhiata a metà fra un sorriso e una
smorfia. Kate, nel suo
grembo, si lanciò con una manina verso la glassa che
ricopriva la torta.
Tipico.
«Tesoro, sono molto
contenta che tu abbia trovato
Edward come marito, si vede che siete fatti l’uno per
l’altra».
Sorrisi, voltandomi verso mia
madre. «Grazie». Avevamo
organizzato una piccola festicciola in famiglia, considerato che
Reneé aveva
trovato nel compleanno di Edward la scusa adatta per farci visita.
Scosse il capo.
«Figurati, tesoro. Come vanno le sue
lezioni? Riuscite a gestire tutto con due bambini così
piccoli? Oh, crescere i
bambini è un’impresa così
stancante».
Ridacchiai, con una punta di
nervosismo. Lanciai
un’occhiata nella direzione del mio piccolo Mark, trastullato
fra le braccia
dello zio Emmett. Avevamo deciso che Edward si sarebbe formalmente
iscritto
alla facoltà di medicina di Seattle, in modo che i miei -
soprattutto mio padre
- non si facessero troppi problemi sulla situazione economica della mia
famiglia. Io, dal canto mio, avevo deciso di accantonare gli studi
artistici
per riprenderli quando avessi avuto… più
tempo a disposizione. «Edward
riesce ad organizzarsi perfettamente fra lo studio e i bambini. E poi
ci sono i
Cullen e papà che mi danno sempre una mano. Non è
così difficile. Sono due
piccole pesti, ma insieme giocano tutto il tempo».
«Signore, cosa si
dice?» domandò mio marito, avanzando
con due piattini di torta nelle mani.
Gli feci posto accanto a me sul
divano. Ci arrivarono
le urla di Kate, che giocava con Rosalie e Jasper. «Parlavamo
proprio di te»
sghignazzai con un sorriso.
«Di me?» chiese
con finta sorpresa Edward, «e di
cosa?».
Mia madre arrossì.
Genetica. «Bella è stata fortunata
a trovare un ragazzo più grande di lui, anche se di pochi
mesi. Il mio Phil…
Diventerò vecchia mentre per lui non si vedrà
affatto. Si sa che gli uomini si
mantengono sempre giovani e bellocci».
Sollevai gli occhi al cielo. Tasto
dolente.
Edward posò la sua mano
sulla mia. «Ti ringrazio
Reneé. Ma anche tu sei un vero fiore» fece,
ammiccando nella sua direzione con
un mezzo sorriso.
«Certo, tesoro! Te lo
dico sempre, smettila con questa
storia» intervenne Phil, avvicinandosi. «Vieni,
voglio farti vedere cosa ho
insegnato a Kate. Sono sicuro che imparerà a lanciare una
palla ad effetto
micidiale».
«Lo credo
bene!».
Edward sospirò,
stringendomi da dietro. Emmett aveva
messo Mark sul tappeto, tenendolo seduto. Kate stava facendo le trecce
alla sua
bambola con Alice. Da quando avevo avuto i bambini il suono costante in
quella
casa erano i gridolini, gli schiamazzi e le urla. Quasi meglio del
silenzio.
«A proposito di
invecchiamento…» brontolai.
Strofinò la bocca contro
il mio orecchio. «Lo sai che
c’è un modo» mormorò, facendo
scorrere una mano sotto la mia maglietta «quando
lo facciamo un altro bambino?».
Sospirai, pronta a ribattere. Prima
di sentire lo
squillo acuto del pianto di mio figlio, in lacrime, caduto dopo un
maldestro
tentativo di gattonare. Ci alzammo contemporaneamente, precipitandoci
nella sua
direzione.
Lo issai fra le braccia,
stringendomelo addosso. Strillava,
agitato, ma poche lacrime cadevano dai suoi occhi. Lo cullai
freneticamente,
mentre Edward gli accarezzava la testolina tonda e ramata.
«Non ha nulla, si
è solo spaventato. Vieni da papà,
ecco» fece, sfilandolo dalle mie braccia e cancellandogli le
lacrime.
«‘Amma!
Anch’io ‘accio!» si lamentò
Kate, tirandomi le
gonne.
Mi chinai, sollevandola a
stringendola a me. Scoccai
un’occhiata a Edward. «Diciamo non per ora,
okay?» sottolineai eloquentemente.
«Ehi».
«Ehi» mormorai
maliziosamente.
«Non posso credere che tu
l’abbia fatto davvero».
Ridacchiai, osservando in basso.
«Credi che te l’avrei
fatta passare con le ventidue candeline? No, tesoro. Questa
è la tua
vera torta».
Scosse il capo. «Le hai
messe tutte? Chi mangerà anche
questa torta?».
«Tutte, sissignore.
Centootto candeline. Ti confesso
che per accenderle mi sono bruciata una o due volte. Ma se ti sbrighi a
spegnerle e la cera non cola sulla glassa di sicuro Kate e Mark saranno
lietissimi di papparsela. Muoviti».
Ridacchiò. La torta
stava fra di noi, seduti nella
nostra stanza nella penombra di due lumi e della luce delle candeline.
Erano
andati tutti via, i bambini dormivano beatamente nei loro lettini, e
noi
avevamo finalmente un po’ di tempo. «Non posso
credere che tu l’abbia fatto» ripeté,
scuotendo la testa.
«Oh, sì.
Esprimi un desiderio».
Mi sorrise, furbo, chinandosi sulla
torta. Soffiò in
una lunga tirata, spegnendole tutte. I suoi occhi erano pieni di
malizia.
«Ti prego, Edward. Dimmi
che non hai espresso quel
desiderio».
Sorrise sornione, allontanando la
torta. «Mmm,
vediamo» mormorò, avvicinandosi a posare le mani
su entrambi i lati della mia
maglietta. «Se te lo dico non si avvera».
Risi, incollando febbrilmente le
labbra alle sue,
prima di fare l’amore con mio marito.
Fra
un capitolo di biochimica e uno di anatomia trovo sempre il tempo di
pensare a
voi…
Spero
che anche questo pezzettino vi sia piaciuto. Sarò rapida,
gli studi mi
attendono.
Rinnovo
i miei due inviti:
A
fare un salto alla quattro mani scritta de me e da tsukinoshippo,
l’autrice di Bambola.
Si chiama “The
Woodmore Sisters”.
Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e
amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli
appena
nati o in arrivo.
Firmare
la petizione per il libro “Die for me”, di Amy
Plum. Dicono sia davvero bello,
e sarebbe carino averlo in italiano. Trovate anche una recensione di
alessiaesse nel link della petizione. :)
«-ia-a»
esclamò Mark, togliendomi la formina dalle
mani e incastrandola nel giochino.
Sorrisi, accarezzandogli i capelli
chiari. «Bravo,
nella fattoria».
Kate si avvicinò,
chinandosi sui talloni, le mani a
sorreggersi il mento come aveva visto fare ai grandi.
Mark le sorrise di
rimando, mostrando la sua boccuccia sdentata. Era molto nervoso e
agitato in
quel periodo, per via della dentizione, così si svegliava
spesso la notte,
facendo svegliare anche me. Sbadigliai, stanca. Appena un attimo
perché Kate
prendesse il giocattolo del fratellino e corresse via in un
battibaleno.
Mark scoppiò a piangere.
«No, Kate! Riporta il
gioco a tuo fratello». Mi
sollevai in piedi, arrabbiata.
«Prendimi,
prendimi!» esclamò Kate, lo sguardo furbo.
Sospirai, estremamente frustrata.
Lo sapeva che non
sarei stata in grado di raggiungerla. Odiavo che per i miei limiti
umani mettesse
in dubbio la mia autorità di genitore. «Katherine
Elizabeth Cullen. Torna qui,
all’istante, se non vuoi che ti tolga tutte le tue
bambole» esclamai severa.
Mi si presentò dinanzi,
lo sguardo combattivo ed
orgoglioso. Sapeva che sarei stata capace di farlo. L’avevo
già fatto. Sapevo
che i suoi dispetti erano originati dalla gelosia che nutriva nei
confronti del
fratellino, e lo sapevo che in questi giorni avevo dedicato
maggiormente le mie
attenzioni a lui, ma solo perché non era stato bene. Li
amavo, entrambi, con
tutto il mio cuore, esattamente allo stesso modo.
Sospirai, prendendo il giochino
dalle sue mani.
Sollevai Mark dal tappeto, facendolo smettere di piangere. Si tese
verso la
sorella, toccandole la guancia. La adorava, letteralmente.
«Che dite se
facciamo un gioco tutti assieme?» proposi, sorridendo a Kate
conciliante.
La bambina ricambiò uno
sguardo imbronciato.
«Kate, possiamo giocare a
prendere il tè con le tue
bambole, che ne dici?».
«Eti, eti»
gorgogliò Mark, tendendo le mani paffute
verso la sorellina.
«‘Oio giocare
colle fommine anch’io» protestò.
Sospirai, lasciandomi cadere ancora
una volta sul
tappeto. «Va bene tesoro. Vieni qui, siediti accanto a me.
Mark, guarda com’è
brava la sorellina a giocare con le formine, sa fare tutti i versi
degli
animali» feci, sorridendo al mio bambino.
Katie sembrò soddisfatta
dal mio complimento. Furono
venti lunghissimi minuti di gioco pacifico, e Kate diede anche un bacio
soddisfatto al fratello, prima che Edward ritornasse a casa con la
spesa.
«Papà!
Papà!» chiamò la bambina, sollevandosi
e
correndo a tutta forza nella sua direzione.
Mark si contorse fra le mie
braccia, insofferente.
«A-ma» vagì, facendo una smorfia.
Me lo strinsi al petto, cullandolo.
«Lo so amore mio,
lo so, shh, shh» mormorai, sollevandomi in piedi. La testa mi
girò per qualche
secondo. Oh, merda. Presi un fiato. Mark piangeva.
Chiusi e aprii gli
occhi, e andai in cucina a prendere l’oggettino di gomma che
amava masticare, un
pesciolino giallo.
Edward stava mettendo a posto
quello che aveva
comprato con l’aiuto di Kate, che scrutava nelle buste in
cerca delle
caramelle. Diedi il pesciolino a Mark, calmando il suo pianto.
«Hai preso
tutto?» domandai.
Annuì, issando Kate su
uno scaffale per farle
sistemare la pasta. «Come va con Mark? Piange
sempre?».
Sospirai, cancellando le lacrime
appena scese sul viso
di mio figlio. Era intento a mordicchiare e sbavare
l’oggettino che teneva fra
le mani. «Abbastanza. Adesso lo faccio mangiare
così si calma, spero».
«Anch’io
mangiare» esclamò rapida Kate.
Sorrisi alla bambina.
«Sì tesoro. Dimmi tutto quello
che vuoi e la mamma te lo cucina».
«‘Oio la pappa
di Mak».
Chiusi gli occhi, cercando di
allontanare
l’esasperazione. Li riaprii. «Kate, la pappa di
Mark non ti piace. È molle e
per bambini piccolini».
Si imbronciò.
«Ma io la ‘oio».
«Ehi Kate»
intervenne Edward «cos’è questa storia?
A
te non piace quella pappa. Perché non vuoi mangiare la
stessa della mamma,
invece? Cosa ne dici?».
Lo guardò insoddisfatta.
«E se te la cucina
papà?».
La bambina sorrise.
«Insieme!».
Edward rise, stringendosela
addosso. «Insieme, allora.
Dimmi, qual è la ricetta? Cuciniamo una bella cenetta per te
e la mamma, ci
stai?».
Sollevai gli occhi al cielo,
deponendo Mark nel
seggiolone. «Non incasinatemi la cucina» borbottai,
aprendo l’anta
dell’armadietto per prendere un po’ di
omogeneizzato per Mark. Appena lo misi nel
piattino una forte nausea mi costrinse a bloccarmi, stringendo una mano
contro
il naso per non vomitare. Merda, merda, merda. Non
già. Non adesso.
«Bella, va
tutto-».
Scattai in alto con la testa.
«Edward, ti dispiace se
esco un attimo? Mi sono ricordata che devo fare una cosa
urgente».
Mi fissò, perplesso.
«No, certo. Ma cosa-».
«Prendo la tuo Volvo,
okay? L’hai lasciata nel
vialetto?».
Annuì.
Sospirai.
«Perfetto» mormorai, avvicinandomi a
lasciargli un bacio sulle labbra. Recuperai in fretta cappotto e
chiavi, e
uscii di tutta fretta in direzione farmacia.
«Papà?»
chiamai, bussando alla sua porta.
Venne ad aprirmi, sorpreso di
trovarmi lì. «Bella. Che
ci fai da queste parti? E come mai non mi hai portato almeno uno dei
miei
nipotini?».
Mi infilai in casa, sfilandomi
velocemente il
cappotto. «Scusami, ho avuto un piccolo contrattempo. Ti
dispiace se uso il
bagno?» feci, muovendomi da un piede all’altro,
impaziente.
Sempre più perplesso si
richiuse la porta alle spalle.
«No Bells, certo che no».
«Grazie»
mormorai velocemente, sgattaiolando su per le
scale.
Trentasette. Trentotto. Trentanove.
Quaranta.
Con la gamba che si muoveva
freneticamente su e giù
feci un gran respiro. Afferrai il test. Due linee positivo. Una linea
negativo.
Due positivo. Una negativo.
«Merda, merda, merda!».
Due.
«Bella, tesoro, stai
bene?» domandò la voce stranita e
imbarazzata di mio padre, dall’altro lato della porta.
«C’è tuo marito al
telefono, cosa gli devo dire?».
Digli che sono incinta, cazzo!
Febbraio 2011. Tre mesi dopo.
«Non mi guardare
così!».
«Così
come?» chiesi con aria di sufficienza.
«Come se fosse colpa mia.
Se non sbaglio anche tu eri
consenziente quella notte. Anzi, più che
consenziente».
Sollevai gli occhi al cielo,
accarezzando la pancia
con le mani. Avevamo deciso che avremmo provato ad avere un altro
figlio, ma
non credevo davvero che sarei potuta rimanere incinta nel giro di soli
tre
mesi. «Credo proprio di averlo superato Edward. E comunque,
se ogni tanto ti
guardo così è perché tu sei quello che
ha insistito per fare un altro bambino,
e io quella che deve fare la pipì nei bicchierini».
Sorrise ampiamente. Come faceva ad
essere così felice?
«Starei sempre così, con i nostri bimbi dentro di
te. Peccato tu non mi abbia
lasciato frequentare ginecologia».
Lo fissai in cagnesco.
«Non potrei mai essere sposata
a un ginecologo. Diventeresti o infedele o frigido. No, mai».
Rise dalle mia teoria.
«Ma io farei nascere solo i
nostri bambini».
«No!» protestai
«quante volte te lo devo dire?
Credimi, non ti piacerebbe vedere la mia vagina in quelle occasioni.
Edward,
basta. Pensiamo alla bambina piuttosto» sospirai, facendo
emergere tutto il mio
nervosismo.
Edward mi accarezzò la
guancia. «Sta bene, vedrai».
Abbassai il capo, agitata. Carlisle
sentiva come un’eco
nell’auscultazione del suo battito. Aveva minimizzato, detto
che dovevamo
controllare, informandomi di quella strana anomalia solo un paio di
settimane
fa, eppure… Sapevo che aveva paura che fosse affetta da una
malformazione
cardiaca. Io, personalmente, ero terrorizzata. Mio suocero mi aveva
rassicurata
dicendomi che la composizione disomogenea della placenta aveva potuto
alterare
il suono, ma oggi avremmo fatto un’avanzata ecografia per
riuscire a capire
qualcosa.
«Mrs Cullen»
chiamò l’infermiera.
Annuì, sollevandomi
velocemente.
Ad accogliermi nello studio mio
suocero, con un
sorriso confortante. «Rilassati Bella. Adesso controlliamo
subito tutto».
Sospirai, chiudendo gli occhi.
Edward mi teneva la
mano, al mio fianco. Temevo che quella potesse essere la prima volta
che,
durante l’ecografia di un mio bambino, piangessi di dolore.
Non volevo vedere.
«L’immagine si
distingue a stento. È ancora un po’
presto per un ecografia nel tuo caso» fece, oscillando con la
sonda sul mio
ventre «vediamo se trovo il cuore».
Tremai, spaventata. E se non fossi
stata pronta per
una cosa simile? Cosa avrei fatto?
«Ecco. Eccolo,
sì. Vediamo… non vorrei parlare troppo
presto, ma a me sembra sano».
Aprii gli occhi, pieni di lacrime.
Stavo impazzendo.
«Carlisle» gemetti, singhiozzando.
Edward si affrettò ad
asciugarmi le lacrime, facendomi
sfogare contro il suo petto. «Shh, andrà tutto
bene. Shh. Sembra sano, hai
visto? Stai tranquilla» mi consolò, accarezzandomi
i capelli.
«In questi casi
normalmente mi affiderei ad
un’amniocentesi, ma per te è ancora troppo presto.
Tuttavia ho un dubbio. Vorrei
fare una TVS per essere sicuri, va bene? Il cuore sembra stare
bene».
Annuii, sollevandomi e
cancellandomi le lacrime dal
viso. Sfilai i pantaloni e l’intimo, sistemando le gambe
sulle staffe.
«Guardami
tesoro» mi richiamò Edward «pensa a Kate
e
Mark che ci aspettano a casa. Pensa a cose belle».
M’irrigidì,
serrando gli occhi. «Solo un po’ di
fastidio. Ho quasi fatto» si scusò Carlisle. Dopo
qualche secondo una nuova
immagine comparve sul monitor. Sorrise. Un largo sorriso soddisfatto.
«Proprio
come immaginavo».
Sollevai la testa, guardando verso
mio suocero. «Cosa?
Perché sorridi Carlisle? Dimmi perché sorridi, ti
prego».
Si voltò nella nostra
direzione, allegro.
«Congratulazioni. Aspettate due magnifiche
gemelline».
Sgranai gli occhi, sconcertata,
lasciando cadere la
bocca aperta. Stava bene. Stava davvero bene. La mia bambina stava
bene, ma
era… due.
Erano due. Oh
mio Dio. Oh. Mio. Dio.
«Edward!»
strillai, voltandomi nella sua direzione,
«che accidenti hai combinato? Confessa!».
Mi fissò sorpreso.
«Io? Niente».
Gli tirai un colpo sulla spalla.
«Non dirmi niente. Lo
so che morivi dalla voglia di avere un altro bambino. E mi sembra
assurdo che
ci siamo riusciti di nuovo così presto. Quindi ne sono
certa, è colpa tua. Cosa
mi hai messo nel caffè?».
«Guarda, Bella, che
io-».
«Ahh, non ti voglio
ascoltare» feci, mettendo entrambe
le mani sulle orecchie, «sei un bugiardo. Hai idea di quanto
sia difficile
crescere due gemelli? Avremo… oh, Cielo. Avremo quattro
bambini!» esclamai
isterica.
«Bella» mi
richiamò mio suocero, sorridendomi «capisco
il tuo disorientamento. Ma le gemelline non sono dizigoti. Non si
può spiegare
con motivi genetici o con l’assunzione di farmaci. Sono
identiche, frutto di un
evento puramente casuale. Un evento davvero raro!».
Gemetti, lasciandomi cadere sul
lettino. Edward, al
mio fianco, gongolava con un ampio ghigno. Due gemelle…
sarei impazzita. Ma,
almeno… non potei fare a meno di accennare un sorriso.
Stavano bene.
«Sono due»
mormorò emozionato «questa furbetta si era
nascosta dietro la sorellina».
Sospirai, voltandomi verso mio
marito. «Almeno, questo
vuol dire una gravidanza in meno» borbottai, provando ad
essere ottimista - non
potevo pensare al fatto che avrei avuto quattro bambini. Quattro. Quattro.
Quat-tro.
Edward mi strinse la mano,
sorridendo felice. «Stanno
bene».
«Già,
bene». Sorrisi appena. «Carlisle, dimmi che non fa
male il doppio» frignai, causandogli una lunga risata.
Un
brevissimo messaggio:
siamo
tutte impegnate ultimamente! È la Vigilia di Natale, quindi
TANTI AUGURI!
Spero
che l’extra vi piaccia. Ho ancora tante pagine scritte da
farvi leggere…
Grazie
mille a chi ha commentato la scorsa volta, siete state carinissime. ^^
Un
bacione e buone feste!
PS.
Se voleste dare un’occhiatina all’altra mia storia
(in realtà una quattro mani
scritta con Cami), “The Woodmore Sisters”, ne sarei
tanto contenta.
«Dannazione!
Edwaaard!» urlai, trascinando la “a”.
«Cavolo Bella, a meno che
non sia un fatto di vitale
importanza qual è il motivo di urlare così? Ti
sento benissimo ugualmente».
Mi voltai a fissarlo con
un’occhiata assatanata mentre
con una mano tenevo il mestolo per girare la pasta e con
l’altra cullavo Mark,
stretto al mio petto appena sopra il pancione ingombrante, che
piangeva. E Kate
mi tirava i pantaloni. «Mi sembra che sia di vitale
importanza» sibilai fra i
denti.
Mi fissò, sconcertato.
«Che diavolo sta succedendo?
Dammi Mark» fece, protendendosi immediatamente per
sollevarlo.
Scossi il capo. «No, no,
senti. Hai finito di
sistemare di là? Mark lo tengo io, visto che sono
già sporca. Non possiamo
andare a cambiarci in due, abbiamo fatto già abbastanza
danni. Problemi di
vasino» indicai con lo sguardo, mostrandogli i suoi pantaloni
bagnati e la mia
maglietta nelle stesse condizioni. «Tu finisci di cucinare e
bada a Kate. Gli
altri saranno qui fra meno di mezz’ora e io mi devo lavare di
dosso la pipì del
cucciolo».
Edward passò la mano fra
i capelli di suo figlio,
sorridendogli e facendolo tranquillizzare. «Non è
successo niente, cucciolino.
Adesso la mamma ti cambia e tu starai bene» lo
rassicurò con dolcezza. Poi
sollevò Kate da terra e prese il mio posto ai fornelli.
«Non ti stancare» mi
ammonì, lanciandomi un’occhiata di sbieco, prima
di intavolare una seria
conversazione con la figlia.
Cambiare Mark non fu troppo
impegnativo, considerando
che quel bambino era davvero molto tranquillo e poche coccole bastavano
per
farlo rilassare. Il senso di disagio nel sentirsi bagnato lo aveva
indotto a
piangere, ma speravo che non si vergognasse troppo di quello che era
successo.
Dopotutto, seppur acuto e intelligente, era pur sempre un bambino di un
anno e
mezzo.
«Ti piace questa tutina
tesoro? È più bella di quella
che avevi prima» lo coccolai, facendogli il solletico.
«Tì»
ridacchiò, guardandomi birichino.
Lo lasciai sul fasciatoio,
scostandomi appena per
recuperare una maglietta pulita dall’armadietto. Sfilai
quella sporca e un
attimo prima di risollevare lo sguardo sul bambino notai qualcosa sulla
mia
pancia. Una macchia. Rossa.
«Pensi che possa essere
morbillo? O varicella?» chiesi
preoccupata.
Edward continuò ad
osservare la macchiolina,
passandoci appena il pollice sopra. Aveva una ruga di concentrazione
fra gli
occhi. «Non lo so, non mi pare. Non sei stata
vaccinata?».
Sospirai, lasciando andare il capo
sullo schienale del
divano su cui ero seduta. Mark, accanto a me, si accoccolò
meglio contro il mio
corpo. «Non lo so, Edward! Potrei chiederlo a mia madre ma
non sono certa che
se lo ricorderebbe e mio padre di sicuro non ne ha idea»
sibilai spaventata.
Mio marito mi accarezzò
il viso. «Vedrai che non è
niente. Aspettiamo che venga Carlisle e chiediamo a lui».
«Ma se fosse
morbillo?».
Scrollò le spalle.
«Agiremo di conseguenza. Inutile
fasciarsi la testa da ora. Magari è solo una puntura di
insetto. E poi è solo
una, e piccola, non mi pare il caso di allarmarsi».
Annuii, un nodo alla gola,
riabbassando sul pancione
la maglietta morbida e calda.
«Mammi! Ho dato pappa
‘a Boa!» gridò Kate, saltellando
allegra nella nostra direzione.
Mi voltai a fissare di sbieco
Edward. «Dici che
abbiamo bisogno di un altro pesce rosso?».
Si voltò per ridere
sotto i baffi.
«Chiamalo,
Edward» mormorai, la voce che mi tremava.
Fece passare un braccio dietro le
mie spalle,
guidandomi sul divano. «Ehi, stai calma. Siediti qui, avanti.
Sicuramente Carlisle
ci dirà cosa fare».
Tremante sollevai la maglia a
fissare la macchia. Era
triplicata di dimensioni. In dieci minuti. «Non è
normale» mormorai, querula.
Edward mi baciò il capo,
scomparendo un attimo alla
mia vista.
«‘aamii»
urlacchiò Mark, scuotendo in aria il suo
trenino. Kate glielo prese dalle mani, facendolo giocare e ridere.
«Ciuf
ciuf ciuufff!».
Carlisle arrivò non
più di tre minuti più tardi,
eppure dal suo esame obbiettivo non riuscì a ricavare alcuna
informazione che
fosse di senso logico. «Non hai altri sfoghi?».
Scossi il capo, fissando il suo
volto concentrato alla
ricerca di un segno che mi facesse rilassare o preoccupare
ulteriormente.
«Prurito? Fastidio,
irritazione? Bruciore?».
«Niente, a parte il fatto
che in questo momento sto
morendo di paura» confessai preoccupata.
Carlisle sollevò le
sopracciglia. «Potrebbe essere uno
sfogo da stress o una reazione allergica a qualcosa… Ma
è strano che non ti dia
alcun sintomo, e poi sembra…».
Suonarono al campanello.
Sollevai il capo di scatto.
«Sono già arrivati?»
domandai agitata.
«Vado ad aprire. La
smetti di stressarti?» mi
rimproverò bonariamente Edward, prendendo i bambini con
sé.
«Mmm…
strano…» mormorò Carlisle, ancora
intento ad
osservare la macchia rossa.
«Cosa? Oddio!»
esclamai, notando come si espandesse a
vista d’occhio. Ricopriva ora un quarto del pancione. Il
cuore prese a battermi
velocemente e altrettanto rapidamente la macchia continuò ad
ingrandirsi.
«Davvero
strano…».
«Cosa è
strano? È terribile, non è strano!».
Carlisle mi fissò.
«Rilassati» mi ordinò con voce
compassata.
«Cazzo, Bella! Che hai
fatto alle mie nipotine?»
esclamò Emmett, osservando la pancia quasi totalmente
ricoperta di rosso.
Accanto a lui quasi tutto il resto della famiglia entrava in sala e mi
guardava, aprendo la bocca sorpresa e strabuzzando gli occhi.
Li fissai, senza riuscire
più a trattenere le lacrime.
«Non è normale, non è
normale» singhiozzai, premendo le dita contro il
pancione.
Edward venne vicino a suo padre,
fissandolo attentamente
e rispondendogli a fior di labbra. Mi mise le mani sulle spalle,
obbligandomi a
guardarlo. «Stai. Calma» scandì con
lentezza.
Mi morsi il labbro, lasciandolo
tremare fra i denti.
Esme invitò i presenti a spostarsi in sala da pranzo, e
portare, grazie al
cielo, i bambini con loro. Edward mi cancellò le lacrime,
carezzandomi il viso
finché non fui decentemente calma.
«Ecco, guarda»
fece infine, mostrandomi come la
macchia avesse smesso di espandersi.
Ancora tremante, scrutando i visi
di Edward e Carlisle
in cerca di una possibile bugia domandai: «Non è
sangue, vero?».
Mio suocero scosse il capo.
«No. Sembra colore».
«Com’è
possibile che sia colore?» domandai stranita,
la voce roca.
«Sarebbe davvero
strano».
Carlisle strofinò le
mani contro la mia pelle.
«Portami un panno bagnato, Edward».
«Vuoi che ti aiuti a
sfilare la maglietta?» mi domandò
Edward, indicandola e tornando in un secondo con un canovaccio
inumidito.
«No, grazie, preferisco
tenerla».
«Se non funziona andiamo
in ospedale a fare delle prove
allergiche. Ma ora…» fece Carlisle, passando la
pezza sul pancione.
E così avvenne qualcosa
di realmente assurdo.
«È
blu!» esclamai isterica, perché stare calma in
quel
momento non era davvero possibile.
Persino Carlisle aveva il volto
marchiato dalla
sorpresa.
«Ma cosa
diavolo…?» fece Edward, toccando con le dita
i punti in cui suo padre passava con la pezza e la mia pelle cambiava
colore.
«Oddio»
gorgogliai, saltellando sul posto, disperata.
«Aspetta».
Carlisle osservò il panno che aveva in
mano. «È blu. E la tua maglietta
è…».
«Rossa» finii
per lui.
Edward aggrottò le
sopracciglia. «Pensi che sia una
reazione ai coloranti dei tessuti?».
Mio suocero scosse il capo, lo
sguardo di chi ha
appena fatto una scoperta. «Penso che le gemelle ci stiano
facendo uno
scherzetto».
7 Maggio 2010. Terzo compleanno di
Kate.
«Mamma!».
«‘ammi!».
«Tesori di zio, dovete
chiamarla più forte, altrimenti
non si sveglierà mai. Non sentite come russa?».
«Emmett, sei impazzito?
Lasciala dormire, diamine».
Mi lamentai, annaspando per tirarmi
su, confusa. Con
quella pancia immensa era impossibile trovare una posizione comoda per
dormire.
Sbattei le palpebre, guardandomi intorno, disorientata.
«Mamma, mamma!».
«Che ore sono?»
domandai, la bocca impastata dal
sonno.
«Sono le nove. Non ti
preoccupare, Alice e Rose stanno
già iniziando a sistemare».
«Mamma!» mi
chiamò ancora Kate, cercando di richiamare
la mia attenzione.
«Le nove? Cavolo, non
potevi svegliarmi prima? Ahi…»
borbottai, una smorfia sul viso «queste pesti non smettono di
tirarmi calci»
feci, abbassando il viso ad osservare il ventre. Verde. Era quello il
loro
potere, emettere colori. Cioè, per ora, divertirsi a far
cambiare colore alla
mia pancia e costringermi a tenermi lontana da qualsiasi
umano.
«Mamma!»
urlò più forte Kate.
Sospirai, mordendomi un labbro e
sollevando lo
sguardo. «Scusa amore. Dimmi. Adesso la mamma ti prepara
tutto quello che ti ha
promesso».
La bambina sorrise, indicando il
fratello, lì accanto.
Mi portai le mani alla bocca,
sgranando gli occhi. «Oh
mio Dio».
Mio figlio, sul viso un pittoresco
quadro molto simile
al trucco di un clown, gongolava orgoglioso, accanto alla sorellina,
tenendola
per mano. «Maak. ‘ello» sorrise, battendo
le mani.
L’espressione ancora
congelata, rimasi lì a fissarli,
orgogliosi del loro lavoro. Erano davvero troppo soddisfatti
perché potessi
sgridarli. Anche se probabilmente avevano dato fondo a tutti i miei
migliori
cosmetici. Forzai un sorriso sul mio volto, sperando che non passasse
come una
smorfia. «È molto bello, Kate»
balbettai, sforzandomi di non aggiungere altro.
La bambina sorrise, stringendomi le
braccia al collo.
Compiva quel giorno tre anni, ma come corporatura non ne dimostrava
più di due
e mezzo, pur essendo molto più intelligente dei ragazzini
della sua età. Le
baciai la guancia, accarezzandole i capelli. Io e Edward le avevamo
regalato
una cucina giocattolo dove poter scaricare tutte le sue energie. Almeno
per la
prima settimana.
A fatica mi sollevai dal divano.
Ero al sesto mese di
gestazione, ma davvero non c’era confronto nella dimensione
del pancione fra
questa gravidanza e le precedenti. Era enorme. Di
già.
«Alice, Rosalie e Jasper
sono già nel salone, stanno
sistemando i festoni» m’informò Edward.
Sospirai. «Se non mi
sbrigo a cucinare non farò mai in
tempo».
«Credo che Esme e
Carlisle stiano per arrivare. Non ti
preoccupare, ti aiuterà lei».
Mi passai una mano fra i capelli.
Arrossii, premendo
l’altra sul pancione. «Scusatemi un
attimo» balbettai, avviandomi verso il
bagno.
«‘ammi!»
mi richiamò Mark, sgambettando nella mia
direzione. Gli tesi una mano, prendendolo con me. Non c’era
modo che lo
prendessi in braccio.
«Vieni qui
campione» lo richiamò Jasper con un
sorriso, allungandosi nella sua direzione. Era un ottimo zio, e Mark
gli
somigliava molto, caratterialmente. Taciturno e riflessivo, ma con
tanto amore
da dare a chi gli stava attorno.
Sollevai la testa dal pane che
stavo tagliando.
«Grazie Jazz. Ne avevo proprio bisogno, se voglio finire in
tempo».
Mi fece l’occhiolino,
stringendosi il bambino al
fianco. L’avevo appena cambiato, pulendogli il viso e
mettendogli una salopette
marroncina. Speravo che non si sporcasse almeno prima
dell’inizio della festa.
«Vuoi uno sgabello?» domandò, vedendomi
incerta sulle gambe.
Gli sorrisi, riconoscente,
accettando il suo aiuto per
sistemarmici in equilibrio. La schiena mi faceva sempre malissimo.
«Allora, avete deciso
come le chiamerete?».
Annuii. «Beh, io e Edward
avevamo pensato a Anne e
Juliet. Ci sembrano nomi abbastanza classici, sono carini»
dissi con una
scrollata di spalle.
Sorrise. «Molto. Io e
Mark andiamo di là a vedere se
hanno ancora bisogno di qualcosa. Rilassati Bella, mi
raccomando».
«Sei sicura che
entri?».
«Sì, sicura.
Scrivi».
«E se scrivessi tu? Sei
più brava».
Esme scosse la testa con un
sorriso. «Non se ne parla
nemmeno, sei molto più brava tu. Scrivi, Bella».
Sospirai, concentrandomi per
scrivere, col cioccolato,
il nome di mia figlia sulla torta glassata di rosa. Avevo quasi
concluso,
quando - «Ahi!» - un calcio ben assestato mi fece
sussultare. «Accidenti, no!
Ho sbavato la “t”» mi lamentai.
Si sporse a vedere. «Non
ti preoccupare, aspettiamo
che solidifichi e lo togliamo. Fidati, l’ho fatto altre
volte, funziona.
Continua a scrivere tesoro».
Mi morsi un labbro. «Sei
sicura? Voglio che sia
perfetta».
«Sicura» mi
sorrise «continua pure».
«Come sta la mia paziente
preferita? Bella, cresci a
vista d’occhio» fece Carlisle, venendo ad
abbracciarmi, non prima di aver
coccolato per un buon quarto d’ora la sua
nipotina/principessa festeggiata e
relativo fratello - scudiero/paladino di notevole importanza.
«Eh, non me lo dire,
Carlisle. Sappi che potrei venire
nel tuo studio uno di questi giorni ad implorarti di far nascere le
pesti».
Scosse il capo, sorridendo.
«Ricordati, rilassati-».
«Respira e riposati.
Sì, già. Non appena Kate e Mark
saranno d’accordo con te, con piacere» scherzai,
ammiccando.
«Mamma, vieni?»
chiese Kate, allungandosi nella mia
direzione.
Sorrisi, tirando indietro la sedia
e provando a
sollevarmi. Edward venne in mio soccorso. «Certo amore. Fammi
vedere, la mamma
ha messo tutte le candeline?».
«Sì»
esclamò, contenta, saltellando sulla sedia dove
l’avevano sistemata, proprio davanti alla sua torta. Alice le
aveva messo
indosso uno stupendo vestitino color crema, e sistemato un cappellino a
cono
con le piume e le paillettes. Sulle guance tanti brillantini, con cui
aveva
voluto essere decorato anche Mark.
«Accidenti, sono davvero
tantissime!» feci con
sorpresa «ma quante sono? Quanti anni fai?».
Mi mostrò le dita di una
mano. «Tre» dichiarò,
soddisfatta.
«Amore, ormai Kate
è una bimba grande» intervenne
Edward, sistemandole i capelli ricciolini e marroni, come i miei.
«Eti!»
strillò Mark, sporgendosi nella sua direzione.
«Mark, stai con la zia.
Adesso Katie deve soffiare le
candeline».
Kate lo fissò con
sufficienza. «No. Io tono grande,
Mark piccolo. Io devo insegnare» fece, lasciando che il
fratellino soddisfatto
la raggiungesse sulla seggiolina.
«Sta’ attento
alle sue mani. Appena le vedi in zona
panna tiralo via» ammonii Edward sottovoce.
Rise, ammiccando nella mia
direzione. «Non entreranno
in zona panna. Promesso».
«Quando ‘ico
tre devi soffiare. Fotte. ‘nsieme a me,
capito?» gli spiegò Kate, seria.
Il bambino annuì,
voltandosi velocemente verso la
torta, oggetto del suo interesse.
«Guardate qui, vi faccio
una foto!» esclamò Rosalie.
«Uno, due… tre!».
E così la torta fu
annaffiata dalla saliva dei miei
marmocchi. Fortuna che dovessero mangiarla solo loro.
«Auguri!».
Odio
le scrittrici che
scrivono, poi scompaiono, poi ricompaiono dopo un mese.
Oh.
Umh. Sto parlando di me…
Beh,
ragazze, voi lo saprete
meglio di me: non è facile.
Non
è facile nemmeno quando
hai il capitolo pronto e lo devi solo pubblicare. Perché
quando passi un mese e
messo a studiare (se ti va bene) 8 ore al giorno, il tempo NON lo trovi!
A
parte questo…
Manca
una settimana esatta al
mio esame di biochimica (chi lo ha fatto saprà che vuol
dire). Ho un minuto.
Pubblico.
Se
fra una settimana passo
l’esame giuro… che vi pubblico un capitolo
super-succosissimo sulla nascita
delle gemelline *ammicchissimo*.
«Sono carine, ma io non
amo particolarmente gli
insetti» risposi, strofinandole l’asciugamani
bianca sui capelli.
«A me piacciono tanto,
mammi. Me ne compri una?»
chiese Kate, voltandosi nella mia direzione. Non mi sarei mai stupita
abbastanza
di vedere gli occhi verdi di mia figlia.
Risi. «Non si possono
comprare tesoro. O meglio,
quelle che si comprano servono per l’agricoltura. Ma se vuoi
puoi uscire un
pomeriggio con papà e sono certa che ne troverete
una».
Si stese sul divano del soggiorno,
posando la testa
sul mio fianco. Impossibile posarla sulla mia pancia, gigantesca
com’era
all’ottavo mese di gestazione. Sapevo che aveva sonno, e con
un po’ di fortuna
si sarebbe addormentata senza fare storie quella sera.
«Ometto pulito in
arrivo!» esclamò Edward, sorreggendo
Mark dalle ascelle, bagnato e nudo.
Finsi di coprirmi gli occhi.
«Ahh Mark, copriti,
copriti! Katie, svelta, copriti gli occhi, c’è un
ometto nudo qui».
Kate rise, mettendosi di scatto
seduta. Addio miraggio
di una dormita in tempi rapidi. Mark si tese fra le mie braccia, dove
lo
accolsi avvolgendolo completamente in un grande telo di spugna. Gli
baciai il
capo. Profumava. E non perché era stato appena lavato.
Profumava di bambino, di
mio.
«Vado a fare il
latte» fece Edward, baciandomi la
fronte. «Ce la fai con i bambini?».
Sorrisi, continuando a strofinare
il capo di Mark con
l’asciugamano. Lui e Kate stavano comunicando nel loro modo
personale. «Ce la
faccio, nessun problema. Ricordati di mettere tanti biscotti in quello
di
Kate».
Si sollevò,
allontanandosi verso la cucina.
«Consideralo già fatto!».
Misi il pigiamino a Mark. Il
momento latte serviva per
assicurarceli buoni fino alla mattina successiva, e soprattutto
conciliargli il
sonno prima della favoletta.
«Mamma? Togli questo
nodo? Non ci riesco» chiese Kate,
sfregandosi un occhio con la manina.
Deposi Mark sul tappeto accanto a
lei. Sospirai,
iniziando l’impresa titanica che voleva dire:
“piegarsi sui talloni”. Disfeci
il nodo a uno dei capelli della sue bambola. Anche Mark ci giocava
tranquillamente. Del resto, allo stesso modo, Kate giocava con ogni
robot,
alieno o escavatore. Non si facevano di questi problemi. Ridacchiai:
non quanto
i loro zii.
Posai una mano sul tappeto,
sollevandomi per
rimettermi in piedi.
Kate sussultò,
voltandosi di scatto nella mia
direzione. «Papà!» urlò dopo
tre secondi, «la mamma ha fatto la pipì
addosso».
Annaspai, sentendo il bagnato
espandersi fino alle
ginocchia. Edward comparve all’istante nella stanza, uno
sguardo perplesso. Il
suo volto passò dalla sorpresa alla risoluzione in
brevissimo tempo.
«Sto bene»
mormorai, la voce che sembrava un
piagnucolio.
Mi venne subito accanto,
sorreggendomi la schiena. «Va
bene, andiamo subito in ospedale. Ti fa male la pancia? Avevi
già contrazioni?».
Scossi il capo, cercando di
respirare con la bocca.
Dovevo solo rimanere calma. «Chi-chiama Rosalie e Jasper,
digli di venire qui a
tenere i bambini, oppure di prenderli per portarli di là.
Poi… poi andiamo in
ospedale, io…» deglutii, strofinandomi la fronte
«devo ancora preparare la
borsa, c’è tempo. Ce la faccio».
Mi carezzò il volto,
preoccupato. «Ehi, stai bene?».
Annuii velocemente.
«Bene, tutto apposto. Devo
cambiarmi, non posso mica venire così, no?»
domandai, agitata.
Mi baciò la fronte.
«Posso aiutarti se vuoi. Ci
organizziamo in modo diverso».
«No, no, facciamo
così. Va bene. Tanto sto ancora bene,
ce la faccio» mormorai, baciandogli l’angolo della
bocca e affrettandomi, per
quanto potessi, verso la camera da letto.
Edward
Sollevai la voce in modo che mi
potesse sentire dalla
nostra camera. «Lascia la porta aperta, Bella. Chiamami se ti
serve qualcosa».
Grugnì qualcosa in
risposta, arrancando verso la
nostra stanza.
Sospirai, voltandomi velocemente in
cerca del cellulare.
Sapevo, a prescindere dalle battutine ironiche scambiate ogni tanto,
quanto
anche lei volesse degli altri bambini. Tuttavia non potevo fare a meno,
ogni
tanto, di pensare a quanto stancante fosse - vampiri o non - crescere
dei
figli, se lo si voleva fare senza delegare compiti a destra e a manca.
«Papà!
Dov’è il latte?».
«Atte»
strillò Mark, sollevandosi maldestramente sulle
gambe per arrampicarsi sui miei pantaloni.
«Non adesso, Kate, un
attimo» mi sporsi ad afferrare
la cornetta, arrendendomi a chiamare dal telefono fisso.
Chissà dov’era sepolto
il mio cellulare. Prese a squillare.
Sgranai gli occhi, voltandomi
velocemente. «Kate,
prendi la cornetta e rispondi. Dì di venire qui presto, va
bene?».
La bambina mi fissò
seria. «Mamma non mi fa usare i’
telefono quando non c’è».
Sollevai gli occhi al cielo,
ansioso. «Oggi puoi, te
lo dice papà» dichiarai con decisione, mettendole
la cornetta fra le manine.
Trovai Bella su letto, mentre si
contorceva nel vano
tentativo di liberarsi delle scarpe, i pantaloni aggrovigliati sulle
caviglie.
Andai subito in suo aiuto, disfacendo i lacci e liberandola degli
ultimi
indumenti. «Oddio, grazie» mormorò,
agitata «non ci riuscivo… dove… con chi
sono i bambini?».
«Non ti preoccupare, sono
al telefono con Jasper» feci
risoluto, prelevando dal cassettone degli abiti comodi e puliti da
farle indossare.
Kate si era già calata nel ruolo di perfetta centralinista.
Quanto le piaceva
parlare?
Mi strappò i vestiti di
mano, il viso rosso. «No,
Edward, dai, vai. Non mi sento tranquilla. Mi vesto da sola, ce la
faccio».
«Se lo dici ancora una
volta ti lego al sedile della
Volvo e ti porto in ospedale in un attimo» la minacciai, con
solo una punta di
sarcasmo.
Sospirò, mettendosi una
mano sull’attaccatura della
pancia. «Vai e basta, allora».
Nel soggiorno Kate stava
intavolando una discussione
da donna vissuta, mentre Mark si faceva sentire urlacchiando nella
cornetta. «No,
‘zio Jazz. Mamma ha fatto ‘a pipì
addosso e poi papà è diventato tutto serio e
ha detto che ti dovevo chiamare».
Sollevai gli occhi al cielo. Se
l’avesse saputo Bella
sarebbe morta di vergogna. Mi faci passare la cornetta da mia figlia.
«Jasper,
sono io».
«Ehi, ma che
succede?».
«Le si sono rotte le
acque. Tu e Rosalie potreste
venire qui? Sembra che ci sia bisogno di un po’
d’aiuto. Dovreste venire a
prendere i bambini».
«Oddio»
tossì Bella, china contro il gabinetto del
nostro bagno. «Edward, mi gira la testa» si
lamentò, stringendosi la pancia con
una mano.
La sollevai fra le mie braccia,
ribaltando la sua
posizione. «Non ti preoccupare, adesso andiamo in ospedale.
Contrazioni?». Annuì,
chiudendo gli occhi e posando il capo contro il mio petto. La deposi su
un
fianco, sul letto, accarezzandole i capelli. «Va bene,
è un buon segno, vuol
dire che il travaglio procede».
Le bambine erano più
piccole di quasi un mese,
rispetto alla data del parto. Ma sapevamo che per dei gemelli il parto
pretermine era quasi la prassi. I bambini erano nel salotto insieme a
Jasper, e
Rosalie stava sfrecciando da una stanza all’altra sistemando
il borsone per
Bella.
«La sottoveste gialla la
vuoi? Quella di cotone?».
Aprì appena un occhio,
guardandola. Subito li strinse
entrambi, una smorfia di dolore. Annuì velocemente. Senza
sapere bene che fare
presi a carezzarle la schiena. Sarebbe andata bene. «Ce la
fai ad alzarti?» le
chiesi piano, sorreggendola per gli avambracci «Cominciamo a
prepararci,
Rosalie ha quasi finito».
Annuì, stringendo le
labbra. Si sollevò malamente
sulle braccia, tirandosi su a sedere. «Mi prendi le scarpe
per favore?»
mormorò, cercandole con lo sguardo nella stanza.
Le presi il paio che teneva sotto
al letto,
infilandole prima un piede e poi l’altro. Impossibile che
fosse riuscita a
metterle sola, con quel pancione gigantesco.
Kate e Mark giocavano eccitati sul
tappeto insieme
allo zio. Il trambusto della serata li aveva svegliati completamente.
Appena
videro la madre scattarono in piedi, correndole incontro.
Bella sorrise, accarezzando la
testolina bruna di
Kate. «Edward, puoi per favore…»
mormorò, indicando i bambini. Sollevai prima
Mark e poi Kate, permettendole di baciare la fronte a entrambi.
«Fate i bravi.
Non fate stancare gli zii. La mamma tornerà
presto».
«Insieme alle due nuove
sorelline!» sussurrai,
chinandomi a salutare i miei bambini in due abbracci stretti.
Bella ridacchiò,
cominciando ad arrancare verso la
porta. «Jasper, se stasera non dormiranno sappi che
è colpa di Edward».
La raggiunsi velocemente,
stringendole il fianco con
un braccio. Non avrei mai potuto immaginare tutta quella
felicità.
«Ce la fai? Ci metto solo
un secondo a parcheggiare.
Basta che vai all’accettazione e che…».
«Lo so, lo so»
mi interruppe, sollevando gli occhi al
cielo «ho fatto altri figli, Edward. Non morirò,
al massimo vomiterò sul
pavimento del corridoio» balbettò arrossendo e
portandosi una mano alla bocca.
Sospirai, allungandomi per baciarle
la fronte. «Torno
subito».
Bella
Carlisle entrò nella
stanza controllando la chiamata
sul cercapersone. Sollevò velocemente il viso, trovandomi
seduta sulla sedia a
rotelle spinta dall’infermiera. «Bella, sei
qui». Sorrisi timidamente,
annuendo. Mi venne vicino, carezzandomi il viso con una mano.
«Cosa succede?».
Mi morsi un labbro, guardando in
basso. «Credo proprio
che si siano rotte le acque» balbettai.
Annuì, risoluto,
aiutandomi a sollevarmi per farmi sistemare
sul letto. «Va bene, è proprio come
c’era da aspettarsi. Sei sola? Edward non è
qui con…».
«Sono qui» lo
interruppe nervoso, entrando nella
stanza con il mio borsone.
Il padre gli sorrise.
«Come ti senti Bella?
Contrazioni?».
Mi tenni il pancione con una mano,
sorretta da
entrambi i gomiti da Carlisle e l’infermiera, che mi
aiutavano a sistemarmi sul
materasso. «Un po’ di
dolori…».
Edward mi venne vicino,
sollevandomi le gambe per
farle posare sul letto, e sfilandomi intanto le scarpe. «Ha
avuto solo un paio
di contrazioni dolorose. È passata poco meno di
un’ora».
Mio suocero annuì.
«Va bene. Mettiti comoda Bella, fra
poco passerò a visitarti. Josy, avvisa
l’ostetrica» proseguì rivolgendosi
all’infermiera «qualunque cosa ti serva chiedi
pure» aggiunse, lasciando la
stanza con un occhiolino.
Edward mi aiutò a
cambiarmi, facendomi passare nella
mia sottana rosa di cotone. I miei movimenti, a causa del pancione -
decisamente più ingombrante rispetto alle precedenti
gravidanze - erano molto
limitati.
«Vuoi i
calzini?» chiese, estraendoli dalla borsa.
Storsi la bocca.
«Sì, grazie» decisi infine in un
sospiro. Mi massaggiò ogni piede prima di infilare il
calzettino bianco. Gli
accarezzai la chioma rossiccia, china su di me. «Sei
emozionato?».
Sollevò il viso,
sorridendomi. «Molto. Non vedo l’ora
di conoscerle».
Annuii, contenta.
«Anch’io».
Carlisle tornò poco
dopo, portando con sé il carrello
per il tracciato e l’ecografia. Insieme a lui la mia
ostetrica, Emily. «Come
andiamo Bella? Cambiamenti?».
Feci per scuotere il capo, ma
subito mi bloccai, mordendomi
il labbro e stringendo una mano sul pancione e una contro quella che mi
aveva
offerto Edward. «Ahi» mormorai fra le labbra,
prendendo dei lunghi respiri.
Carlisle mi fece un cenno per
sollevare la camicia da
notte, e con le mani tastò il mio addome.
«È passata?» chiese, lanciandomi
un’occhiata. Mi rilassai sui cuscini, dietro la mia schiena,
annuendo. Mi
invitò a stendermi, in modo che potesse visitarmi.
Strinsi la mano di Edward,
sollevando gli occhi al
soffitto. «Ti avviso Carlisle, non sarò in grado
di rimanere così per più di
due minuti se voglio continuare a respirare».
Rise appena, continuando a tastarmi
l’addome. «Sarò
veloce, promesso».
Mi visitò,
controllò i battiti e la pressione, fece
un’ecografia alle bambine e mi collegò al monitor.
«Stanno bene. Sei dilatata
di due centimetri, che non è molto, ma già
qualcosa. La prima gemella preme
direttamente nelle pelvi, mentre la seconda è un
po’ di traverso, ma voglio
provare comunque con un naturale. Emily, diamole
dell’ossitocina. Non voglio che
passi molto tempo per il travaglio».
«Ahia, mi fa
male» mi lamentai, rannicchiata su un
fianco nel letto.
Edward mi accarezzò la
schiena con entrambe le mani.
«Shh, shh, rilassati. È l’ossitocina che
accelera il travaglio. Ti vuoi alzare
e camminare un po’?».
Scossi il capo, stringendomi il
pancione con più
forza. «Fa male» balbettai, mordendomi le labbra.
Sospirò.
«Bella, amore. Che ne dici, visto che questa
volta sono due, siamo ancora in tempo, e ti fa così
male…» cominciò, persuasivo
«di provare un po’ con
l’epidurale?».
Cacciai un gemito stizzito fra i
denti, allontanandomi
di scatto dalle sue mani. «No» sbottai
«dobbiamo replicare l’esperienza di
Mark? Mi sono lasciata convincere per cosa? Farmi trivellare
inutilmente la
spina dorsale? No».
«Ma Bella, è
stato un caso. È possibile che si trovi
una calcificazione fra le vertebre e che l’ago non riesca a
passare, è
possibile che debbano farsi più tentativi».
«No» ripetei
con più forza «no. Te lo sogni. No».
«Ma…».
Mi voltai di scatto, fulminandolo
con gli occhi.
Sollevò gli occhi al
cielo, alzandosi dalla sua sedia.
«Vado a chiamare a casa per vedere come stanno i
bambini».
«Chiama Esme, per
favore» borbottai, tornando a
stendermi «vorrei che fosse qui».
Spense una luce nella stanza,
accostando la porta.
«Sì».
Quando tornò mi stavo
nuovamente contorcendo per una
contrazione, le lacrime agli occhi. Strinse le labbra, fissandomi con
preoccupazione
e severità. C’era qualcosa nel suo sguardo che mi
diceva che era molto agitato.
Arrabbiato forse? Per la storia dell’anestesia? Non potevamo
litigare in un
momento come quello. Proprio no. Posai la mano sul lenzuolo, prendendo
ampi
respiri dalla bocca. «Come stanno i bambini?»
domandai fra i denti.
«Bene» rispose
laconicamente. Anche se fosse stato
arrabbiato, mio marito non era così stupido da litigare con
me durante il
travaglio. Lo speravo.
Mi morsi l’interno della
guancia per non rispondergli
male. «E… Esme?» ansimai.
«Sta arrivando,
sarà presto qui».
Fummo interrotti
dall’ostetrica e dall’infermiera
passate per controllare il travaglio e prepararmi per il parto. Edward
uscì
dalla stanza. Esme arrivò non appena Josy ebbe finito di
sistemarmi nuovamente
sul letto.
«Bella, tesoro»
mi chiamò, venendomi incontro ed abbracciandomi.
Mi prese il viso fra le mani «come stai? Mi sembri agitata.
Devi solo
rilassarti d’ora in poi, va bene?».
Annuii, incerta.
«Dov’è
Edward?» chiese, guardandosi intorno.
Abbassai il viso. «Non lo
so. È uscito prima. Mi… mi
aiuteresti a…» balbettai, indicando i cuscini.
«Ma certo»
mormorò immediatamente, sistemandomeli
dietro la schiena.
Non fece in tempo ad aggiustarli
che suo figlio passò
dalla porta, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans. Si
passò una mano
fra i capelli.
«Cosa succede?»
chiesi, incerta, osservandolo.
Scosse il capo. Due secondi
più tardi il monitor emise
un bip, e il dolore si irradiò per tutto il mio ventre.
«Ahi, merda. Merda»
imprecai fra i denti, faticando a respirare correttamente. Ero
già sudata.
Esme mi sollevò il collo
con una mano, assicurandomi i
capelli in una coda. «Shh, rilassati, ora passa» mi
assicurò, accarezzandomi il
ventre con movimenti lenti e circolari.
«Bella, lasciati
anestetizzare, per piacere» sospirò
Edward esasperato.
«No» ribadii
fra i denti, stringendo la bocca per non
lasciare scappare nemmeno un singhiozzo mentre le lacrime mi correvano
lungo il
viso.
«Allora non aspettarti
che rimanga qui mentre ti
contorci dal dolore!» sbottò, stressato.
Esme sussultò sul posto,
voltandosi verso il figlio.
Singhiozzai, arrabbiata. «Smettila di fare il cretino! Sto
partorendo, cosa
vuoi da me? Non posso nemmeno scegliere una cosa del genere? Vai via se
vuoi.
Vai via mentre nascono le tue figlie. Mi stai esasperando»
strillai, gli occhi
pieni di lacrime, il respiro corto.
«Shh Bella, calmati,
calmati» mi invitò Esme,
accarezzandomi il ventre. «Calmati. Questo non vi fa bene,
prendi respiri
lunghi».
Singhiozzai, annuendo e provando a
calmarmi.
Edward si portò una mano
fra i capelli. Deglutì. Si
avvicinò al letto. «Scusa, mi dispiace».
«Un accidente»
sbottai, il respiro ancora veloce «che
diavolo ti prende? Calmati, e smettila di comportarti come un
imbecille».
Esme si sollevò,
lanciandogli un’occhiata di eloquente
rimprovero. «Vi lascio soli».
Edward prese il suo posto,
avvolgendo le braccia
contro il mio corpo, e lo lasciai fare, perché mi sentivo
troppo debole e
bisognosa del suo conforto per protestare. «Mi dispiace
Bella, davvero»
sospirò, posando il capo sul mio seno.
Tirai su col naso, asciugandomi con
il dorso della
mano le lacrime. «Che ti è preso?».
Sospirò due volte prima
di parlare. «Kate si è fatta
male» borbottò sulla mia pelle
«è caduta mentre cercava di saltare da un letto
all’altro».
«Caduta?»
domandai preoccupata, la rabbia contro mio
marito improvvisamente scalzata via «che si è
fatta?».
«Alice e Emmett la stanno
portando al pronto soccorso.
Credo, a quanto mi hanno detto, che si sia fatta male a un
braccio».
«Lasciami andare!
Lasciami andare!» strillai,
dibattendomi sul letto, il viso rosso.
«Tesoro, Bella, calmati
per piacere. Non ti fa bene,
lo sai. Per favore» cercava di ammansirmi Edward, tenendomi
contemporaneamente
schiacciata contro il materasso.
«Bella» mi
richiamò anche Esme, preoccupata.
Urlai, lottandomi per liberarmi
dalla sua presa.
«Fammi vedere Kate. Subito. Subito!».
«Cosa succede?»
esclamò l’ostetrica, spalancando di
fretta la porta della stanza. I suoi occhi vigili si posarono su mio
marito.
«Mr Cullen, se non mi dà immediatamente una
spiegazione sarò costretta a
cacciarla dalla sala travaglio. Immediatamente».
«Ah».
Sussultai, serrando gli occhi e portando una
mano sul ventre. Emily mi venne accanto, aiutandomi a sistemarmi fra i
cuscini
e riprendere a respirare correttamente. Regolò il flusso di
ossitocina nella
flebo.
Edward sospirò,
prendendomi una mano fra le sue e
accarezzandone il dorso. «Kate, nostra figlia, si
è fatta male ed è al Pronto
Soccorso. Bella vuole andare a vederla, ma evidentemente ora non
è in
condizione di farlo».
«Siete pazzi se pensate
che partorirò in qualche modo
senza essermi prima assicurata che stia bene» sbottai fra i
denti, stringendo
con tutta la mia forza la sua mano e quasi sperando di fargli del male.
L’ostetrica scosse il
capo, sconvolta e scocciata
dalla situazione, ma comunque risoluta. «Josy, la sedia a
rotelle!» chiamò,
sollevando la voce per farsi sentire dalla stanza adiacente.
Edward cacciò un respiro
fra i denti, infelice,
mordendosi un labbro per evitare di ribattere. Comunque non avrebbe
potuto protestare
a lungo, perché sapevo quanto fosse anche lui preoccupato
per nostra figlia.
La trovammo in lacrime, fra le
braccia di Emmett, nel
corridoio dell’accettazione. Feci quasi per alzarmi dalla
sedia non appena la
vidi, e ci sarei riuscita se Edward non mi avesse trattenuta. La
bambina alzò
il capo, tendendosi subito nelle nostra direzione. Emmett
coprì lo spazio fra
di noi, portando la piccola fra le braccia del padre.
«Com’è
successo?» domandò Esme agitata.
«Stavano giocando, stava
per andare a dormire» si
scusò Alice.
Edward se la strinse immediatamente
al petto,
baciandole ripetutamente i capelli. La piccola si teneva stretta al suo
corpo
nel suo pigiamino con i cuoricini rosa. «Shh amore, cosa ti
sei fatta? Fai
vedere a papà». Notai immediatamente il suo
braccino senza vita. Mi sbracciai
per accarezzarla, agitata. Edward sembrava essere molto più
controllato di me,
mentre lo esaminava. La bambina cacciò uno strillo,
piangendo più forte, quando
le sfiorò il braccio. Se la tenne al petto, stringendole il
capo con la mano.
«Credo proprio sia rotto».
«Katherine
Cullen?» chiamò un medico venendo fuori
dalle porte dell’ambulatorio.
«È
lei» dicemmo contemporaneamente tutti e cinque.
L’uomo osservò
stranito la situazione, la mia sedia a
rotelle e la flebo. «Possono entrare solo i
genitori» fece, poi, incerto.
«Bene» sbottai,
sollevandomi dalla sedia a rotelle e
avviandomi nella stanza sostenendomi all’asta della flebo.
Erano pazzi. Pazzi
se avessero creduto che qualcosa mi avrebbe impedito di sincerarmi
della salute
di mia figlia. Edward sospirò, ma non disse nulla.
«Ti fa male
tesoro?» domandai preoccupata,
osservandola. La bambina annuì, sfregando il viso contro il
mio petto. Non
avevo parlato molto, dolorante e un po’ nauseata per la
situazione. Nonostante
fosse molto teso Edward fu certamente più d’aiuto
di me.
«Ecco qui, è
evidentemente rotto. Una frattura a legno
verde di radio e ulna» dichiarò il medico,
rientrando nella stanza e apponendo
le lastre sullo schermo luminoso.
Carezzai il visino bagnato di
lacrime della mia
piccola bambina.
«Adesso
ridurrò la frattura e successivamente le
sistemeremo un’ingessatura che dovrà portare per
quaranta giorni. Non dovrebbe
esserci bisogno di nessun intervento chirurgico»
affermò, sedendosi su una
poltroncina mobile e contemporaneamente infilando un paio di guanti. Mi
lanciò
un’occhiata. «È meglio che la signora
esca».
«Perché?»
domandai allarmata «la bambina ha bisogno di
sua madre, si è appena calmata» mormorai con voce
tremante. La nausea mi
investiva a ondate al pensiero di quello che le avrebbero fatto.
Edward si allontanò
dalla bambina, venendomi di fronte.
Mi strofinò le mani sulle spalle, rassicurante.
«Amore, andiamo fuori. Vieni,
prendi dei bei respiri».
Lo fissai, smarrita. «E
la bambina?».
«Ci penseranno Emmett o
Alice» mi rispose con un mezzo
sorriso.
Scossi il capo, affaticandomi per
scendere giù dalla
barella su cui mi ero seduta. Feci appoggiare il capo della bambina al
petto
del padre, dandole un bacio sulla fronte. «R-rimani con
lei» balbettai, sfregandomi
il viso con le mani tremanti. «Sarò qui
fuori».
Esitò, poi
annuì, stringendo con entrambe le braccia
la bambina al suo petto.
Uscendo mi chiusi la porta alle
spalle, e subito Esme,
Alice e Emmett si avvicinarono avidi di informazioni. Non feci in tempo
ad
aprire bocca che una contrazione particolarmente forte mi fece piegare
a metà
sul posto, facendomi ansimare dal dolore.
Le mani forti di Emmett vennero
immediatamente in mio
aiuto. Mi sostenne facilmente mentre mi faceva posare su una sedia poco
vicino.
Esme mi venne accanto, prendendomi una mano con la sua e sfregandomi il
pancione con l’altra.
La strizzai con tutte le mie forze,
chiudendo gli
occhi fino a vedere rosso. Tutto pur di distrarmi da quel dolore
lancinante
allo stomaco. Fra le mie labbra usciva un basso e smorzato gemito.
«Bella» mi
chiamò la voce di mio suocero, e subito
sulla mia spalla si posò la sua mano rassicurante. Non
abbastanza perché
aprissi gli occhi, abbandonassi la mia smorfia o riprendessi a
respirare
normalmente, comunque. C’erano casi in cui seguire i corsi
pre-parto serviva
solo per ridere al ricordo dei tempi spensierati: quello era un caso.
«Bella,
vieni qui con me». Dovevo aver grugnito qualcosa sul rimanere
per Kate, perché
aggiunse «Non ti preoccupare di questo adesso. Vieni.
Pensiamo alle gemelline».
Avevo appena aperto le palpebre,
dopo che il dolore si
era allontanato, per guardarlo di sottecchi e riluttante accettare il
suo
appoggio, quando i piani di Carlisle andarono in fumo per due motivi
principali: l’innocente strillo di mia figlia mi fece
accapponare la pelle e di
sicuro mi impedì di non preoccuparmi; la debolezza che
sopraggiunse
immediatamente dopo mi piegò le ginocchia impedendomi di
rimanere dritta e
facendomi accasciare nella presa delle sue braccia.
Mi risvegliai nella sala travaglio.
C’era il bip
costante, a riprodurre il battito del mio cuore, e il suono di uno
più basso e
rapido. Sbattei le palpebre, mettendo a fuoco l’immagine di
Carlisle che
passava con la sonda sulla mia pancia. Mi faceva male come se tante
piccole
fitte sopraggiungessero accavallate l’una o
l’altra; e quella non era neppure
una contrazione.
Mi umettai le labbra, provando a
tirarmi su. «Cos’è
successo?» domandai disorientata. «Stanno
bene?».
«Mi hai fatto preoccupare
tanto, Bella!» esclamò Esme
al mio fianco, e mi accorsi in quel momento che mi stesse stringendo la
mano.
«Ti sei stancata troppo.
In questo momento il tuo
organismo ha bisogno di riposare per prepararsi al parto e non di
subire
ulteriori stress» commentò velocemente Carlisle,
allontanando la sonda e
sedendosi al mio fianco per poter registrare la pressione sanguigna.
In quel momento ebbi uno scatto
convulso verso la
pancia. «Ahh» mi lamentai, digrignando i denti. Era
come se sulla pancia stesse
passando un camion di grossa cilindrata dotato di un rullo capace di
distruggere qualunque cosa incontrasse. Le lacrime mi uscirono dagli
occhi
senza che potessi controllarle.
Mio suocero mi spinse con un tocco
leggero con le
spalle contro i cuscini, per stare semidistesa e respirare meglio.
«Prendi
respiri lunghi, dal naso. Così» fece, dandomi lui
stesso prova di quello che
avrei dovuto fare.
«Ti prego, dimmi che
manca poco. Non sono sicura di
potercela fare, non sono affatto sicura» singhiozzai,
contando quegli
interminabili secondi che non finivano mai.
«Bella, tesoro,
calmati» provò ad ammansirmi Esme.
Scossi il capo, agitata.
«Aveva ragione Edward. Non ce
la farò mai, non con due bambine e con tutto quello che
è successo a Katie.
Oddio, fa male» farfugliai, per poi urlare subito dopo.
«Bella…».
«Esme, vai a prenderle
una camomilla al bar qui di
sotto?» fece rapidamente Carlisle, facendomi poi voltare fino
a farmi trovare
nel suo abbraccio. Mi carezzò la schiena con decisione.
«Shh, ora passa.
Calmati» mormorò, finché la contrazione
non scemò fino a lasciarmi libera
quanto intontita. Quando il diagramma del tracciato si
stabilizzò smise di
accarezzarmi, senza però staccarsi da me. La sua voce era
pacata mentre mi
esponeva la situazione. «Sei a sette centimetri, il travaglio
procede molto
bene. Nel giro di un’ora dovremmo spostarci in sala parto.
Cosa ti prende,
cara?» domandò con cortesia, abbassando gli occhi
a scrutarmi il viso. «Eri sempre
tu quella che mi spronava ad andare avanti, che voleva il parto
naturale anche
quando era più rischioso. Cos’è
cambiato?».
Mi tremò il labbro.
«E… e se avessimo fatto una
sciocchezza, io e Edward? C-chi ci dice che riusciremo ad essere
genitori di quattro
figli, tutti assieme?» singhiozzai, rivelandogli la mia paura
più grande.
«Riesco a malapena a stare dietro ai primi due, dandogli
tutte le mie energie!
Sono solo un’umana e… io… io
non…».
Si chinò, avvicinando il
viso, e asciugandomi le
lacrime. «Ci vuole molto impegno ma non è
impossibile. Non sarete soli,
ricordalo».
Mi voltai, nascondendomi il viso
fra le mani. «Ma
guarda cos’è già successo! Le gemelle
non sono ancora nate e Kate si è rotta un
braccio! Mezza giornata. Una manciata di ore. Quanto tempo
starò via ora che
saranno qui? Che cosa accadrà? Ah!» esclamai,
stringendomi entrambe le mani sul
pancione.
Carlisle mi accarezzò le
spalle, rassicurandomi. La
contrazione durò più delle precedenti, e scemando
mi lasciò sfiancata. «Bella»
mi richiamò mio suocero, il camice bagnato sulla spalla
dalle mie lacrime.
«Mi dispiace»
balbettai, ancora intontita.
«Figurati». Mi
sorrise. «Sai, anche se può sembrarti
strano, anch’io ho avuto i tuoi stessi pensieri. Ho cinque
figli, con te sei. E
avere cura di tutti non è affatto semplice, me ne rendo
perfettamente conto. Ma
non devi sentirti in colpa. Sai cosa mi fa capire che ne vale la pena,
che non
sto sbagliando? Vedervi felici, aiutarvi a crescere per quanto posso,
confortarvi. Aiutarvi. Insegnarvi quali sono i valori in cui credo,
vedervi
splendere e sorridere. E sentirmi chiamare
‘papà’…».
«Mammi!»
gridò mia figlia, portata in stanza da suo
padre. Si sbracciò per raggiungermi con una mano, mentre
l’altra, steccata e
avvolta da una fascia rosa, la teneva piegata al corpicino.
«Amore, vieni
qui» la chiamai, mettendomi a sedere con
difficoltà e cancellandomi velocemente le lacrime.
Edward me la sistemò
accanto sul letto, e subito potei
stringerla forte fra le braccia. Aveva il viso rosso, segno che aveva
pianto,
ma le guance non erano più bagnate. Le carezzai i capelli
scuri e morbidi,
respirando il suo profumo.
«Come sta?»
mormorò Edward a Carlisle, indicandomi con
un cenno del mento.
«Niente di
rotto» scherzò mio suocero facendomi
l’occhiolino.
«Come sta lei?»
domandai io, preoccupata.
«Se la caverà.
Le hanno dato un anestetico locale, non
le farà male per stanotte. È solo molto stanca
emotivamente. È stata una notte
movimentata» fece Edward, venendo a sedersi sulla sedia
accanto al letto.
Baciai il capo della bambina, che
sollevò gli occhioni
verdi sul mio viso, scrutandomi.
«’sonno»
balbettò.
Le carezzai il viso, sfregando la
guancia contro la
sua fronte. «Dormi amore, dormi, qui, con la mamma.
Shh…».
Si accucciò fra i miei
seni, stropicciandosi gli occhi
e poi abbracciandomi. «Ti voglio bene, mammi»
brontolò, scivolando subito dopo
nel sonno.
Sorrisi, sollevando lo sguardo su
mio suocero.
«Grazie» sillabai, preparandomi a mettere al mondo
altre due pestifere,
chiassose, impegnative adorabili figlie.
Ah-ah!
Chi
è la vostra zietta? Chi è
che ha passato alla grande l’esame di biochimica? Chi
è che ha pubblicato il
capitolo super-succosissimo che aveva promesso?!
Io,
io, sono io!
Non
scomparirò, davvero.
Credo che ci siano altri 3-4 extra alla fine definitiva di questa
avventura.
Non perdeteveli. No.
E
grazie per aver pregato per
me! Siete degli angeli!
Alla
prossima!
PS.
Se mi gira fra qualche
ora pubblico anche un capitolo di “The Woodmore
Sisters”. :D
«Bella, tesoro? Anne si
è svegliata, e ha svegliato
anche Kate. Fortunatamente sono riuscito a salvare Juliet,
che dorme ancora beatamente. Ma Anne vorrebbe davvero
mangiare». Sbirciai
meglio sul letto e mi resi conto che mia moglie non era fra le
lenzuola. Mi
volsi verso la porta del bagno, accostata.
Era lì, a fissare lo
specchio. I capelli erano
arruffati sul viso pallido e segnato dalle occhiaie. Le bambine ci
davano
ancora notevoli preoccupazioni, soprattutto la notte, e no, crescere
dei
gemelli insieme a due fratellini così piccoli non era la
cosa più semplice del
mondo. Quello che mi colpì fu il suo sguardo, liquido, quasi
lucido, a fissare
il suo corpo nudo. Il seno gonfio e le pelle morbida e lievitata, come
pasta di
pane avvolta da una tiepida coperta, sui fianchi e la pancia.
«Bella» la
richiamai, aprendo la porta.
Si volse di scatto, sussultando.
«Sì, scusa, scusami. Umh…
io… stavo per fare una doccia, ti serve qualcosa?»
fece velocemente, prendendo un accappatoio per coprirsi.
Sorrisi, avvicinandomi e baciandole
le labbra. Forse
si sarebbe sentita meglio se le avessi detto qualcosa? Anche se forse
era una
bugia? Era vero, prima era più magra e soda, ma non era la
bellezza fisica
quella che donava luce all’amore per mia moglie, non quando
eravamo andati così
oltre da imparare a conoscere la nostra anima. «Anne ha
bisogno di mangiare. Ma
fai pure, vieni quando finisci. Ce la caveremo io e Kate
insieme».
Annuì, entrando
velocemente nel box doccia. «Faccio
presto» cincischiò velocemente sulle labbra.
Abbassai le spalle, chiedendomi per
un attimo se
dovessi aggiungere altro. Mi voltai, uscendo dalla stanza, e proprio
quando
avevo una mano sulla porta rimasi fulminato dal suono di un singhiozzo.
Era mia
moglie?
Tre istanti più tardi
iniziò a piangere Juliet.
E poi Mark. E Anne. E Kate si mise ad urlare.
«Shh…
va bene, va bene.
Mangiate, su, no, non vi agitate» mormorò
velocemente Bella, tenendo entrambe
le bambine con le braccia per allattarle al seno.
«Mark, quale colore
vuoi?» domandai al bambino, non
smettendo di dare un occhio a mia moglie e di preparare il pranzo.
«Bu!».
«No, il blu lo ‘oglio io»
ribatté
perentoria Kate, usando il braccio non steccato per rivendicare i suoi
diritti
sul colore.
«E io non voglio litigi.
Lo usate un po’ per uno e
pure poco, che fra un po’ si mangia» li rabbonii,
mescolando il sugo.
I bambini si voltarono spaventati
nella sua direzione.
Non avevano mai visto la madre piangere. Anche le due piccole che
teneva in
braccio, all’apparenza perfettamente sane, scoppiarono in un
pianto disperato
sentendo la tensione della madre. Aveva il volto tirato, pallido, preda
della
paura. Non l’avevo mai vista così.
Mi avvicinai velocemente, prendendo
le piccole in
braccio, ma non feci in tempo a capire cosa fosse accaduto che si
alzò,
sgattaiolando velocemente nella sua stanza.
«Mamma»
balbettò Mark, sollevandosi sulle gambine per
andarle dietro. La porta della nostra stanza sbatté con
forza, facendolo
bloccare al centro del salone, spaventato, e cadere indietro sul
sedere.
Suonarono alla porta.
«E menomale che sono
arrivati i rinforzi, Edward! Il
sugo stava per bruciarsi. Oh, ma guarda! La vostra casa è un
vero macello. Cosa
fareste senza di noi?» esclamò Alice sollevando
gli occhi al cielo.
Rosalie mi sventolò una
tutina rosa davanti al viso.
«Dove sono i pannolini? Lo sai che Juliet
va
cambiata? Puzza».
«Mark, Kate! Ho portato
una nuova mazza da baseball,
che dite se la proviamo?».
«Sììì,
zio Emm!».
«Edward» mi
richiamò Jasper, osservandomi
attentamente. «Edward, che ti
succede?
Sembri pensieroso».
Scossi il capo, deglutendo. Posai
la piccola Anne
nella sua culletta. Quelle due piccole gocce d’acqua delle
nostre figlie erano
incantevoli. Vagì, dimenandosi appena. Era minuscola, una
neonata di due
settimane.
«È
per via di
Bella?» domandò ancora Jasper.
«Non
sembra stare bene» constatò, corrugando
la fronte al sentire le sue
emozioni.
«Già»
sospirai appena con un fremito. Ero stato io ad
insistere per volere tutto quello. Avevo forse sbagliato? Ero stato
egoista a
desiderare una famiglia, la più grande che potessi avere,
anche a costo di
mettere a repentaglio la salute fisica e psichica di mia moglie?
Forse… Forse
avrei davvero dovuto dire basta. Non appena avesse voluto smetterla con
l’allattamento l’avrei trasformata, così
non si sarebbe più preoccupata del suo
corpo e sarebbe stata abbastanza forte per non preoccuparsi di badare
al meglio
ai suoi figli.
Ma potevo davvero essere
così codardo?
«Dovrei andare da
lei» mormorai esitante.
Gli occhi profondi di mio fratello
scavarono nella mia
anima. «Ma hai paura. È
comprensibile. E
ti senti in colpa».
Sospirai. Parlare con Jasper mi
causava sempre una
certa emicrania. «È a causa mia se non si piace
più. Ed è colpa mia che ho
insistito…».
«Edward, non fare lo
stupido, non lo sei» mi riprese
pacatamente Jasper. «Va da lei, dille una bugia. Anche
più di una, se servirà.
Falla sentire bella, brava, capace e amata. Credo che ne abbia
bisogno».
Sospirai, poi annuii. Probabilmente
avevo fatto un
errore di valutazione: non bastava sapere di amarla, se non glielo
ricordavo
ogni giorno, specialmente nei momenti più difficili.
Andai in camera, e la trovai che
fissava la porta, gli
occhi fissi e rossi, gonfi, un fazzolettino piegato premuto sulle
labbra. Smisi
inconsciamente di respirare, e andai a sedermi sul materasso, accanto a
lei. La
circondai con le braccia, e automaticamente riprese a piangere. Le
baciai il
capo. «Bella, amore, cosa c’è che non
va?».
Scosse la testa, nascondendo il
volto sul mio petto e
singhiozzando. Questo non mi avrebbe portato a nulla.
«I bambini sono di
là» provai, incerto, tentando di
misurare le parole «ci sono Alice, Emmett,
Rosalie e
Jasper. Ci stanno pensando loro».
Scattò in alto con la
testa, allontanandosi dal mio
corpo e nascondendo il capo fra le ginocchia, piegate al petto.
«Vai da loro.
Non devi restare a consolarmi. Vattene»
singhiozzò, la voce ovattata.
Deglutii. Era peggio di quanto
credessi. Provai ad
abbracciarla ancora, con cautela, sperando che non mi allontanasse.
Sfregai la
guancia contro la sua. «Voglio rimanere qui con te. Abbiamo
avuto così poco
tempo insieme, ultimamente».
Sollevò il viso sul mio.
Era completamente bagnato di
lacrime, pallido, e striato di rosso. Le ciocche di capelli scendevano
sul viso
in ogni direzione. Era straziata. «Sono pessima, Edward. Non
ce la faccio»
fece, ricominciando a piangere «non posso crescere quattro
figli. Non ho che
cominciato a mettere al mondo le ultime due, e già Kate si
era rotta un
braccio. Loro mi chiamano, dicono che hanno bisogno di me, vogliono
giocare con
la mamma, vogliono allattare, mangiare, essere puliti, lavati, vogliono
parlarmi… e io non posso accontentarli tutti! Non
posso!» urlò, stringendo con
i pugni la mia maglietta.
Le accarezzai una guancia, colpito
dalla sua veemenza.
«Ma ci sono io, tesoro. E i bambini stanno bene. E sai anche
che possiamo
contare sulla mia famiglia, su tuo padre…».
«Che razza di madre
sarei, allora? Sono i miei figli.
E se sono miei non significa solo
che
devo limitarmi a metterli al mondo… e che devo,
devo…» singhiozzò, tanto da
farsi mancare il fiato.
«Shh,
vieni qui» mormorai,
stringendola facilmente a me e portandola contro il mio corpo. La
lasciai
piangere, la accarezzai, la cullai, perché non sapevo
cos’altro fare. Parlando
avrei potuto farla acquietare o urlare ancora.
«Sono una pessima
madre…» mormorò dopo parecchi minuti
contro la mia camicia zuppa.
Le sorrisi. «Abbiamo
già avuto questa discussione,
ricordi? Sei brava. I bambini ti amano, e farti aiutare non sminuisce
di certo
il tuo ruolo. Ti dedichi anima e corpo a loro, te l’ho sempre
visto fare. Non
ti addormenti se non sei stremata, con la mano di Mark nella tua o Anne
che
ancora ti succhia il seno».
Mossa perfetta. Mi
lanciò una breve occhiata, appena
sconsolata, prima di abbassare ancora il viso. Sussurrò con
voce bassissima:
«Sono brutta».
Le presi il viso in una mano,
costringendola a
guardarmi. «Non lo sei affatto. Conosco il tuo cuore, ed
è bellissimo». Mossa
sbagliata.
Allontanò la mia mano
con uno schiaffetto, riprendendo
a singhiozzare. «Non è nel cuore che voglio essere
bella, voglio esserlo
davvero!» esclamò, sollevandosi velocemente in
piedi «Voglio essere magra come
prima, senza la pelle floscia, senza le smagliature, senza le
cicatrici… invece
sono orrenda» singhiozzò, nascondendosi il volto
con le mani.
Annaspai, sconcertato dal suo grado
di incontentabile
disperazione. Mi sollevai, ad andai a stringerla fra le braccia,
ancora. La
baciai con forza. «I bambini ti amano, io ti amo. E sei
bellissima» le
sussurrai contro il viso, baciandola ancora.
Si staccò dopo pochi
secondi, restituendomi la stretta
sul corpo. «È per me che voglio essere bella, non
capisci?» mormorò contro il
mio torace. «Sono una moglie, una madre, ma voglio essere
anche una donna»
confessò, come se si sentisse infinitamente in colpa.
E i cocci si ricongiunsero nella
mia mente. Si odiava
per non potersi dedicare completamente ai figli, e contemporaneamente,
ancor di
più per voler avere del tempo da destinare a sé
stessa.
La strinsi, la baciai. Dalla
tempia, alla guancia, alla
bocca. La feci stendere sul letto. Le accarezzai la pelle morbida e
feci
vibrare le palpebre, colto da un brivido. «Non esiste niente
di più soffice» le
soffiai sulla pancia, la maglietta sollevata.
I suoi occhi, ancora rossi e gonfi,
mi fissarono stupiti
e lucidi. «Edward…» balbettò.
Le accarezzai i fianchi scoperti,
con entrambe le
mani, e poi le cosce, baciandole ancora la pancia, attento ad essere
estremamente delicato, più del solito. Le sfilai la
maglietta, osservando il
seno morbido e gonfio trattenuto dal reggiseno da allattamento. Le
sorrisi.
«Sei la mia donna preferita. Molto, molto sensuale.
Perché mi piace quello che
vedo» mormorai, abbassando lo sguardo sul suo petto.
Sorrise, un piccolo e breve sorriso
timido. Poi
strinse le mani nei miei capelli. «Non possiamo, Edward.
È troppo presto»
mormorò, arrossendo appena e dandomi un piccolo sorriso
triste e incerto,
asciugandosi le lacrime dagli occhi.
Annuii. «Lo so, anche se
vorrei tanto» sussurrai,
sfregando il mio inguine contro il suo. «Ma voglio stare con
te ugualmente»
continuai, intenzionato ad accarezzarla, baciarla, amarla,
abbracciarla, e poi
di nuovo baciarla e accarezzarla, finché tutti i suoi brutti
pensieri non
fossero scomparsi.
27
Agosto
2010. In cortile.
Bella aveva auto una forma di
depressione abbastanza
grave da essere diagnosticata, dopo la nascita delle gemelline. Era
stata
triste, sconfortata, angosciata. Era normale, dopotutto, dopo
l’orda di ormoni
che negli ultimi anni aveva tempestato il suo corpo e dopo che le due
piccine
le erano state in grembo per tutto quel tempo.
Adesso, a due mesi dalla nascita
delle gemelle, aveva
ormai recuperato. Cullai Juliet
con un braccio,
pulendole le bavette dalla bocca. Identica alla gemella aveva gli occhi
verdi,
com’erano stati i miei. Le accarezzai i capelli e fece una
smorfia simile ad un
sorriso, accompagnata da un gorgoglio contento. Sollevai lo sguardo,
tenendo
d’occhio Mark che giocava nella sabbietta del parco, a pochi
metri di distanza
dalla panchina dove mi ero sistemato. Aveva un anno e otto mesi, ma ne
dimostrava un po’ meno, così che dovevo ben
guardarmi dall’essere chiamato
padre degenere per lasciarlo così autonomo.
Sorrisi a Juliet,
riponendola nella carrozzina accanto alla gemella. «Non
mettere la sabbia in
bocca, Mark!» lo ammonii, quando vidi che la sollevava con un
pugno e la
osservava incuriosito.
Sospirai, lasciando andare il capo
all’indietro. Mi
ero trovato costretto a chiedere un consiglio a Carlisle su mia moglie,
ma
quello che mi aveva suggerito andava ben oltre l’aspetto
medico. Appena potevo
le donavo piccoli regalini, cose molto femminili, la esortavo a uscire,
con
Alice e Rosalie, con la scusa di fare qualcosa per i bambini per farle
dedicare
un po’ di tempo per sé stessa. La adoravo, la
baciavo. Il suo corpo stava
cominciando a recuperare, tornando quello di una volta, anche grazie
all’allattamento. E un mese prima, avevamo ripreso a fare
sesso. Vero sesso. Protetto,
perché non mi sarei mai
perdonato un’altra gravidanza in quelle circostanze. Fu da
quel momento che,
piano a piano, notai sensibili miglioramenti.
Ero quindi, ormai, perfettamente
tranquillo e più che
felice. Sorrisi. L’avevo lasciata a casa con Kate, mentre
giocavano nella
piscinetta per liberarsi dalla cappa di calura e umidità
tipica di Forks nei
mesi estivi.
Vibrò il telefono nella
tasca. Mi affrettai ad
osservare il display, non senza prima lanciare un’occhiata a
Mark e le
gemelline. Era da casa, osservai con un cipiglio.
«Bella?».
«Edward.
Credo
che tu debba tornare, è urgente».
Bella
Mi sventolai con la rigida
copertina della rivista che
mi aveva portato Edward. La temperatura non era poi tanto alta, al
massimo una
ventina di gradi, ma l’umidità rendeva
l’aria così satura da essere quasi
irrespirabile. Mi allungai sulla sdraio, sbadigliando. Era da circa una
settimana che le gemelle avevano smesso di darci il tormento, di notte.
Abbassai lo sguardo sul seno gonfio, trattenuto a stento dal costume e
nascosto
sotto il sottile prendisole.
Sospirai, socchiudendo gli occhi e
sfiorando le gambe
e la pancia. La pelle era ancora tesa e dilatata, ma intanto stava
riacquisendo
tono, e la pancia era tornata piatta come una volta. Sorrisi appena,
pensando a
Edward e quello che mi aveva promesso per quella serata. Arrossii
appena, più
che per il pudore per l’eccitazione, lasciando istintivamente
dischiudere le
labbra.
Era uscito con i bambini,
portandoli al parco, per
lasciarmi un po’ di tempo per riposarmi, visto che la notte
ero l’unica capace
di nutrire le bambine. Più tardi magari avrei potuto usare
un po’ il tiralatte,
anche perché in quelle condizioni il seno - per quanto era
gonfio - non sarebbe
potuto nemmeno essere sfiorato, pensai con una smorfia. Kate,
stranamente, non
era voluta andare con il padre a giocare. Lui aveva cercato di
convincerla,
invogliandola con il miraggio di un pomeriggio all’aperto, ma
la bambina non
aveva desistito.
«Lasciala stare con
me» avevo detto ad Edward,
desiderosa di trascorrere un po’ di tempo sola con la mia
bimba più grande
«possiamo giocare con la piscinetta, che ne dici?»
le avevo chiesto,
accarezzandole i capelli mori, come i miei.
La bambina aveva annuito,
stringendosi alla mia gamba.
Avevo sempre paura di trascurarla, considerandola già grande
ed autonoma. Ma,
dopotutto, aveva poco più che tre anni. Edward provava a
leggerle i pensieri,
ma più cresceva più imparava a nasconderli,
rendendo più arduo il nostro
compito.
Mi feci ancora aria, sistemandomi
il cappello sulla
testa per ripararmi dal sole, e mi chinai sul tavolino a prendere la
limonata
ghiacciata.
Un urlo mi fece trasalire,
costringendomi ad alzarmi
con un balzo dalla sedia, gli occhi sgranati. Mi guardai velocemente
attorno,
in cerca della bambina. Il cuore mi pompava velocemente nel petto. No,
no, no.
Le avevamo appena tolto il gesso. No.
«Kate? Katherine?» la
chiamai agitata, guardandomi attorno nel cortile.
Dopo pochi secondi la vidi
sgambettare verso di me, in
direzione opposta a quella della piscinetta, con le mani e il viso
sporche di
sangue. Piangeva, disperata, il viso rosso. Le corsi incontro
afferrandole
immediatamente le piccole mani e osservandole, in cerca di tagli e
lesioni, per
poi passare al viso, le labbra, la bocca e i denti, ignorando i crampi
allo stomaco.
Raggelai quando mi resi conto che
non era il suo
sangue. Un piccolo ciuffetto bianco era vicino all’angolo
della bocca.
Presi alcuni abbondanti respiri,
metabolizzando la
cosa. Kate continuava ad urlare, sconvolta, tremando. Me la strinsi al
petto,
prendendola fra le braccia e sollevandola. Si strinse forte a me,
estendendo
immediatamente il suo scudo attorno a noi.
Le accarezzai la testa, dirigendomi
all’interno della
casa. Scoccai una veloce occhiata alla mia destra, dove giaceva la
piccola
palla di pelo bianco che era stato il nostro coniglietto domestico.
«Shh, amore,
non è successo niente» la rassicurai,
cullandola.
Prima lavarla o chiamare Edward?
Presi la decisione un
secondo dopo, spinta dal pianto interminabile della bambina. Prima
lavarla. Non
volevo che rimanesse con il sangue appiccicato sulla faccia, o che si
allarmasse vedendomi allontanare da lei, anche se per poco.
La posai sul fasciatoio per
spogliarla. Convincerla a
separarsi da me, anche solo per pochi secondi, fu davvero difficile.
«Su,
amore, solo un attimo» la consolai, «ci togliamo
questi brutti vestiti sporchi
e ci facciamo un bel bagnetto. Solo un attimo Katie, te lo
prometto».
Quando la immersi
nell’acqua tiepida e profumata
tremava, gli occhi ampi. La tenni stretta con un braccio al mio petto,
non
curandomi affatto di bagnare il prendisole. Con una mano a coppa portai
l’acqua
a sciacquarle il volto più e più volte,
dolcemente, accarezzandola, finché non
fu perfettamente pulita. La avvolsi in un telo morbido di bucato,
strofinandola
per infonderle calore, mentre intanto tremava.
Decisi che quello era il momento di
chiamare Edward.
Tenendomela stretta al petto mi avviai in soggiorno, presi il cordless
e
composi il suo numero. Mentre aspettavo che rispondesse ondeggiai
dolcemente
sul posto, cullando la bambina.
«Bella?».
«Edward. Credo che tu
debba tornare, è urgente»
risposi immediatamente, pur senza mettere paura o allarmismo nella
voce. Non
volevo che Kate ne fosse turbata.
«Cos’è
successo?»
rispose Edward, evidentemente agitato. «Kate
si è fatta male? Tu stai male? C’è
qualcuno lì con te?».
La piccola si lamentò e
gemette fra le mie braccia, rivolgendomi
l’ennesimo sguardo angosciato che mai un bambino dovrebbe
avere. «Shh,
è tutto okay, tesoro» la tranquillizzai,
cullandola,
prima di rivolgermi di nuovo a Edward «non è
niente di così grave. Devi solo
tornare presto, va bene? Ti spiegherò quando sarai
qui» sottolineai piano,
sperando che capisse che non avevo intenzione di parlarne e che avessi
dei
buoni motivi per farlo.
«Sarò
lì fra un
quarto d’ora al massimo. Sono già in auto».
Sospirai, richiudendo la chiamata e
avviandomi verso
la nursery. Posai Kate sul fasciatoio, dove rimase sempre avvinghiata a
me. A
fatica le infilai un body pulito e un pigiamino, poi la misi seduta con
le
gambine penzoloni sul fasciatoio. «Così, abbraccia
forte la mamma. Posa la
testolina qui e chiudi gli occhi» feci, guidandole il capo
sul mio petto.
Accesi il phon ad una temperatura che non fosse troppo alta e cominciai
ad
asciugarle ed accarezzarle i capelli morbidissimi di bambina.
Quando Edward arrivò,
dieci minuti più tardi, Kate
aveva gli occhi socchiusi e mi stava attaccata, stesa su di me, sul
divano.
Ancora non dormiva. Avevamo preso in considerazione che un momento del
genere
arrivasse, ma non per questo mi sentivo più preparata. Come
spiegare a mia
figlia che era normale che le potesse venire voglia di succhiare il
sangue al
nostro animaletto domestico? Povera piccina, chissà quanto
era turbata.
«Bella?» mi
chiamò Edward entrando nella stanza, gli
occhi ampi. «Che succede?».
Mi portai l’indice sulle
labbra, invitandolo al
silenzio. Abbassai lo sguardo sulla bambina, poi picchettai col palmo
sul posto
accanto al mio. Sospirò, turbato, venendo a sedersi accanto
a me. «Dove sono i
bambini?» domandai con calma.
«Le gemelle dormono, Mark
è nel seggiolone, in auto.
Cosa succede?» incalzò, impaziente.
«E l’hai
lasciato lì? Edward!» protestai.
Mi liquidò con un gesto
della mano. «Starà bene per
cinque minuti. Bella».
Sospirai, scuotendo appena il capo
e continuando ad
accarezzare la bambina. «C’è stato un
piccolo incidente con Barnie»
mormorai pianissimo, guardandolo negli occhi.
Aggrottò le
sopracciglia, perplesso. «Barnie?».
Annuii. «Il coniglio,
Edward» sottolineai
eloquentemente, passandomi la lingua sui denti.
Batté le palpebre,
confuso, osservandomi. Poi spostò
lo sguardo sulla bambina, che non si era ancora addormentata. Speravo
che fra i
suoi pensieri potesse trovare la soluzione che gli avrebbe fatto
comprendere.
Cacciò un respiro secco, poi rilassò le spalle.
«Capisco» mormorò, chinandosi a
raccoglierla fra le braccia. Protestò debolmente, poi si
avvinghiò al padre
come aveva fatto con me pochi secondi prima. La sostenne con un braccio
sotto
il sederino e uno sulla testa. «Vieni, amore di
papà. Vuoi vedere una cosa?» le
domandò, sfregando il viso contro il suo per costringerla a
guardarlo.
Kate cominciò a
singhiozzare, ancora.
«Shh,
è tutto passato. Vieni
qui» mormorò, cullandola fino a portarla in
camera.
«Ti raggiungo subito,
vado a prendere i bambini» feci
velocemente, sollevandomi in piedi.
Fece un cenno, chiudendosi la porta
della nostra
stanza alle spalle.
«Papà va nei
boschi a mangiare, lo sai, vero? È
normale, piccolina, siamo tutti diversi» le spiegai,
guardandola negli occhi
ampi e rossi.
«A te piacciono le
caramelle al limone e a Mark
piacciono quelle alla fragola. Se a tutti piacessero le stesse
caramelle si
finirebbero subito e non ci sarebbero più
caramelle».
Sollevai un sopracciglio,
voltandomi a guardare
Edward. Scrollò le spalle, indifferente. Avevo messo a
dormire le gemelline
nella loro culletta, ed ero rimasta con Mark per mezz’ora
finché non era
crollato addormentato anche lui. Ero entrata in camera che mio marito
aveva
appena finito di calmare la bambina.
Kate tirò su con il
naso, tremando.
Scoccai un’occhiata
preoccupata a Edward. Sospirò.
«Amore» la chiamò, accarezzandole i
capelli e facendola voltare nella sua
direzione. «Vuoi venire con papà stasera? Facciamo
un giro nei boschi insieme,
vuoi? Ci divertiamo. Giochiamo a chi prende più animali, va
bene?».
Gli strofinai il braccio.
«Ce la fai?» domandai a
bassa voce, incerta, «Porta qualcuno con te».
Annuì, riportando
l’attenzione sulla bambina. «Viene
anche zio Emm e forse
zia Alice. Possiamo formare due
squadre e vedere chi vince, vuoi Katie?».
Ci guardò silenziosa.
«Posso stare con te?» domandò
piano a Edward.
Le sorrise. «Certo,
Katie. Vedrai, non ci batterà
nessuno».
La bambina annuì, piano,
stringendosi al collo del
padre.
Sospirai, lasciandomi andare sul
letto, un secondo
prima che dal ricevitore si alzassero dei vagiti.
«È l’ora della poppata di
Anne, vado io. Tu… emh…
occupatidel cortile» feci
con una smorfia.
Edward scoppiò a ridere.
«Schizzinosa come sempre»
sussurrò al mio orecchio, evitando di poco una meritata
pacca scherzosa.
Ciao
a tutti!
Mi
dispiaceva troppo lasciare questi extra a metà, quindi anche
se
dopo tanto tempo termino con la pubblicazione. Mancano ancora un paio
di extra.
«Wuuuuhmm!
Wuuhmmm!» esclamò
Katie, correndo con le braccia aperte.
«In guaddia!»
esclamò Mark,
puntandole addosso una pistola invisibile.
Rivolsi un sorriso di scuse
agli altri pazienti fermi in sala d’aspetto, ma presto degli
altri bambini si
unirono alla battaglia immaginaria dei miei figli. Ero terrorizzata dal
fatto
che qualcuno potesse notare che Katie e Mark fossero troppo svegli per
i loro
tre e due anni, dimostrandone anche meno di quanti ne avessero. Non
avevamo
moltissimi contatti con il mondo esterno proprio per questo motivo, e
di solito
erano molto timidi con le altre persone. Ma in questo caso erano in
ospedale,
dove il nonno li portava spesso, quindi ben presto si erano sentiti
liberissimi.
Juliet succhiò con
più forza
al mio seno, facendomi appena socchiudere gli occhi.
Edward le accarezzò la
testa. «Stasera proviamo con la prima pappina, che ne
dici?».
«Oh, la prima pappina. Ho
solo ricordi felici delle prime pappine, tanto che mi viene voglia di
continuare ad allattarle per una vita» scherzai.
Sorrise, sicuramente
ripensando a come, in entrambi i casi, la pappa ci fosse finita dritta
in
faccia.
Juliet tirò ancora, poi
si
staccò e vagì, e fui costretta a cambiare seno.
«E io che pensavo di potermelo
risparmiare per Anne, questo» scherzai ancora, sollevando gli
occhi al cielo.
Edward la stava cullando sul
suo petto. Le avevamo messo un pagliaccetto rosso e bianco, coordinato
a quello
della sorella, degli stessi colori ma opposti. Avevano tutte e due gli
occhi
verdi e i capelli ramati, e la pelle pallidissima. Due principessine.
«Kate, Mark! Non
allontanatevi oltre il corridoio» li richiamò
Edward. I due bambini annuirono,
ricominciando a giocare.
Accarezzai la guancia di
Juliet che sorrise e fece un versetto, allungando un pugno nella mia
direzione.
«Ti ho promesso che ti
trasformo fra un paio di mesi, vero? Un paio, lo giuro»
mormorò al mio orecchio
Edward, la voce bassa.
Sussultai, irrigidendomi.
«E
questa da dove ti è venuta?» domandai divertita.
Abbassò lo sguardo sul
mio
seno. «Sono stanco di dividerti con gli altri… e
di usare i preservativi»
aggiunse a voce ancora più bassa.
«Edward!»
esclamai,
ridacchiando nervosamente, rossa in volto.
«Edward, Bella»
chiamò
l’assistente di Carlisle, uscendo dalla stanza. Mi ricomposi,
sollevando la
manica del vestito e rimettendo a posto il lenzuolino e Juliet nel
passeggino.
Radunammo la ciurma e impiegammo cinque minuti solo per entrare nello
studio.
«Così
papà l’ha afferrata e io
l’ho morsa forte forte e abbiamo vinto! Rose ha preso solo
una lince e Emmett
un orso, ma la nostra gazzella valeva per due! Vero papà?
Vero?» domandò Kate,
raccontando contenta al nonno l’ultima battuta di caccia.
Carlisle sorrise, spostando
lo stetoscopio sulla schiena di Anne. «Sei stata davvero
brava». La piccola si
mosse, una mano in bocca e una che tentava maldestramente di afferrare
lo
strumento. I suoi occhi verdi vagarono nella stanza.
«Aaa-aaaa» gorgogliò.
Feci un ampio sorriso.
«Quello è il suo modo di dire “mamma”.
Vero amore, vero?» la vezzeggiai.
«Non potrebbe essere il
suo
modo di dire “papà”?» mi
sfidò Edward, cullando e calmando Juliet, rossa in
volto e bagnata di lacrime, dopo aver ricevuto il suo vaccino del
quinto mese.
«No, perché lo
dice
guardando me» ribattei, facendogli la linguaccia.
«Mammi! ‘Osso
anche io?»
domandò Mark, che mi stava attaccato a un piede.
Aggrottai la fronte,
seguendo il suo sguardo verso le mani del nonno, dove stava una piccola
siringa. Allontanai immediatamente gli occhi, respirando piano.
«Mmm, amore,
magari un’altra volta, eh?» domandai, deglutendo
più volte.
Carlisle rise, afferrando il
bambino ai miei piedi. Lo fece sedere sulle ginocchia e gli mise la
siringa fra
le mani. «Mi puoi aiutare. Lo facciamo insieme,
così».
Liberai la gamba della
bambina dalla tutina, impedendomi di tremare. Mi voltai di lato e
serrai gli
occhi, aspettandomi di sentire il suo pianto disperato, intanto che
Carlisle
spiegava ogni passaggio che compiva a Mark.
«Fatto».
«Fatto?»
domandai sorpresa,
aprendo gli occhi. Mi voltai verso la bambina che sorrideva saltellando
sul
posto ed emettendo versetti. «Ma, ma…».
«Si vede che Anne ha
preso
da me» mormorò al mio orecchio Edward, ridendo.
5 Febbraio 2011. Un giorno
di neve a casa Cullen.
«Brr, brr, brr. Ci sono
due
bambini congelati qui» esclamai velocemente, entrando nel
soggiorno. A dir la
verità, sotto lo strato di cappotti cappelli coperte e
sciarpe quasi non si
vedevano, i bambini. Rose mi prese Anne dalle braccia, e Esme Mark.
«Abbiamo vinto! Eravamo
una
valanga, ragazzo!» tuonò Emmett, dando il cinque a
Mark.
Edward si chiuse la porta
alle spalle, entrando con Kate e Juliet e Alice e Jasper. Avevamo
deciso di far
divertire i bambini sugli slittini, quella mattina, visto che per una
settimana
intera c’era stata un’abbondante nevicata e la neve
era ormai compatta e
solida.
«Mamma, mi sistemi il
fiocco?» mi domandò Kate, correndo da me con il
suo vestitino verde di raso. Mi
chinai con un sorriso, sistemandole il vestito e baciandole poi la
fronte.
«Mammi! Mi ‘ude
il naso» si
lagnò Mark, indicandosi il nasino con una smorfia.
Afferrai un fazzolettino
dalla tasca. «Soffia forte forte. Più forte. Più
foooorte. Così, bravo»
risi, appallottolandolo e gettandolo nel fuoco. «Prude
ancora?».
Fece no con la
testa,
sorridendo e correndo via.
Juliet, sotto
l’attenzione
di Alice, provò inutilmente a sollevarsi sulle gambe prima
di gemere,
frustrata. «Aspetta, amore, così» feci,
sollevandola e portandola accanto al
tavolino da tè, dove si appoggiò con entrambe le
mani per sollevarsi ed
emettere un verso felice che somigliava a «‘Ammi».
«Bella» mi
richiamò Esme.
«Anne sta frignando, credo che abbia fame. La vuoi
allattare?».
Mi mossi sui piedi, a
disagio. «Emm, veramente… potresti darle una
pappina. Da un paio di settimane
non vogliono tirare e non mi sta più venendo il
latte» mormorai a bassa voce,
imbarazzata. Abbassai gli occhi, scossa da un brivido.
«Oh, certo.
Capisco».
Annuii, guardandola
allontanarsi. Edward si avvicinò, sfregandomi il braccio,
silenzioso. Infilai
il capo sul suo petto e stetti così ferma per sei secondi,
prima che Mark, poi
Juliet, poi Kate, poi Anne, reclamassero ancora la mia attenzione.
Sorrisi, repressi
uno sbadiglio e mi dedicai a loro.
«Sapete cosa sta per
arrivare?» fece Rose, guadagnandosi l’attenzione di
tutti i bambini.
«Così
rovinerai la sorpresa»
ribatté Jasper compassato, sollevando appena gli occhi dalla
rivista che stava
leggendo.
Gli scoccò
un’occhiata
avvelenata. «Zitto tu».
«Cosa?»
domandarono i
bambini. «Daaaai zia, dicci cosa!». Carlisle e
Esme, in sala, sorrisero,
guardandosi fra di loro. Edward continuò ad intrecciare i
capelli di Kate.
Incredibile quanto fosse diventato bravo.
Rose riprese a parlare.
«Sta
per arrivare…».
Presi un paio di respiri
più
superficiali. Si avvertì il suono delle tazzine che
tremavano contro il vassoio
di metallo, tintinnando. Tutti, nessuno escluso, si voltarono a
guardarmi.
Erano le mie mani, stavano tremando. Battei le palpebre, inebetita.
Alice si sollevò dai suo
posto sui cuscini, prendendomi il vassoio dalla mani prima che cadesse.
«La
cioccolata!» esclamò, voltandosi verso i miei
figli.
Ci furono delle urla di
gioia e dei versetti, e ognuno abbandonò la sua
attività per circondarla.
Deglutii, e mi tirai a
sedere sul divano, accanto a Edward. Il cuore cominciò a
battermi man mano più
piano e la stanza smise di girare. Mi accarezzava lentamente la schiena
con la
mano, senza parlare.
Per l’ora di pranzo fummo
bloccati a casa Cullen, perché aveva ripreso a nevicare e
non volevamo
rischiare di far ammalare i bambini, e tutti volevano rimanere con
loro, e Esme
aveva già preparato il pranzo…
«Vola la pappa nella
boccuccia, ahhh» feci, avvicinando il cucchiaio alla bocca di
Juliet. Lo prese
fra le labbra, fece una smorfia e ne sputacchiò un
po’. Poi la riaprì.
«’aaapppa».
«Mamma, nella mia pasta
non
c’è il formaggio» protestò
Kate, indicandola.
Mi sporsi ad osservarla, e
poi presi un formaggino dalla borsa per le gemelle e glielo misi nel
brodino.
«Così va bene?». Annuì,
concentrata sulla sua pastina.
Riuscii a mettere in bocca
un altro cucchiaio di pappa a Juliet che «Mammi» mi
chiamò Mark, tirandomi una
gamba dei pantaloni.
«Cosa
c’è tesoro?». Tese le
braccia nella mia direzione per farsi prendere in braccio.
«Finisci di mangiare
prima».
«Finito»
ribatté,
allungandosi di più.
«Vuoi che lo prenda io,
cara? Non hai nemmeno sfiorato il tuo pranzo» mi fece notare
Esme, che intanto
stava facendo mangiare Anne. «Devi essere sfinita».
Mi voltai appena verso il
mio piatto di pasta. Sarebbe con molta probabilità rimasto
intonso. Sorrisi
appena, chinandomi a raccogliere il mio ometto e mettendomelo sulle
gambe.
Chiuse gli occhi e posò la testa contro il mio petto.
«Va tutto bene, Esme. Non
sono stanca» mormorai, imboccando ancora Juliet.
Mark si addormentò dopo
poco
sulle mie gambe. Mi feci passare Anne, che intanto aveva reclamato la
mia
attenzione, da Esme, e la cullai come meglio potevo sulla spalla,
mentre lei
faceva mangiare Juliet. I ragazzi si spostarono nell’altra
stanza, in modo che
ci fosse abbastanza silenzio perché i bambini dormissero, e
rimase solo Edward,
che leggeva una favola a Kate sul divano per farla addormentare.
Sentii per un attimo le
palpebre abbassarsi, mentre cantavo la ninnananna per i bambini.
Nessuno aveva
detto “mamma” “mammi” o
“ammi” nell’ultimo quarto
d’ora, il che poteva dire
solo…
«Si sono
addormentati»
sussurrò Edward «vado a mettere Juliet e Kate
nella stanza di sopra».
Annuii, reprimendo uno
sbadiglio. Avevano convertito la stanza di Edward a stanza dei bambini,
e
spesso rimanevano lì a fare dei sonnellini. «Ti
raggiungo subito» mormorai,
sollevando Mark e Anne in modo da essere in grado di portarli entrambi.
Il
bambino si strinse con le braccia attorno al mio collo. Vicino allo
stipite
della porta del soggiorno mi sbilanciai all’indietro,
ondeggiando. La vista si
sdoppiò.
«Dalli a me,
Bella» disse la
voce bassa di mio suocero.
Arrendevole lasciai che li
prendesse
dalle mie braccia, senza neppure riuscire a distinguere nettamente i
contorni
del suo viso. Mi appoggiai con la spalla allo stipite della porta.
«Non andare
veloce, quando lo fa Edward si svegliano… Devo…
solo sedermi un attimo».
Non sentii la sua risposta.
Quando la stanza riprese contorni definiti non c’era
più. Lentamente,
incespicai verso la poltrona imbottita accanto al fuoco su cui
probabilmente
era rimasto seduto, e ci crollai.
Edward
Osservai mia moglie,
rannicchiata sulla poltrona comoda. Le misi addosso una coperta,
accarezzandole
i capelli. Era esausta, pallida, con le occhiaie. Si stava dedicando
anima e
corpo ai suoi figli, senza mai tirarsi indietro, anche quando era allo
stremo
delle forze. Le accarezzai le labbra. Sempre dolce, gentile, con un
sorriso
sulle labbra e disposta ad andare avanti, ancora e ancora, senza mai
lamentarsi.
«No, non mi va di
parlarne
qui» feci, scuotendo il capo verso mio padre. Anche senza
leggere i suoi
pensieri mi bastava guardare i suoi occhi per capire cosa gli passasse
per la
mente.
«Vieni nel mio
studio».
Annuii, sollevandomi sui
talloni e seguendolo. Aspettai che si chiudesse la porta alle spalle
prima di
mormorare pianissimo «Dovrebbe essere circa alla quinta
settimana. Quattro più
cinque. Si è rotto il preservativo» feci,
sollevando finalmente gli occhi nei
suoi.
«Capisco»
ribatté
comprensivo.
Sospirai, prendendomi il
capo fra le mani e voltandomi a dargli la schiena. «Dovevo
trasformarla fra
appena due settimane. Abbiamo quattro figli, ed hai visto anche tu
com’è uscita
dall’ultima gravidanza… io…»
annaspai.
Posò la mano sulla mia
spalla. «Non lo potevate prevedere. E Bella è
cambiata, Edward. Credo che
abbia imparato che può farcela». Mi
voltai, un’espressione angosciata sul
viso. Fece una smorfia. «Ne siete sicuri? Ha fatto
un test?».
Scossi il capo. «Non ne
abbiamo ancora parlato, ma non ce n’è bisogno. Hai
visto anche tu. La settimana
passata stavo falciando l’erba e appena ha sentito la puzza
è corsa a vomitare.
Non mangia decentemente da allora, le gira la testa e… ha
già smesso di
crescere. Le unghie, i capelli. L’ho osservata
attentamente».
Mio padre mi sorrise
condiscendente. «Dovete parlarne, Edward. Magari la
prenderà meglio di quanto
credi».
Sospirai, scuotendo il capo.
Sentii i passi veloci e affrettati di mia moglie sul parquet e poi la
porta del
bagno sbattere. «Vado da lei» deglutii, correndo
veloce come un vampiro.
Bussai. Sentii il suo tossicchiare dietro la porta. «Sono
io».
«Entra, Edward»
biascicò,
tirandosi a sedere a fatica. Si pulì la bocca con un pezzo
di carta igienica,
poi lo buttò nella tazza, facendo scorrere
l’acqua. Abbassò la tavoletta del
water, sedendocisi sopra. Mi osservava, inespressiva, aspettando che
dicessi o
facessi qualcosa.
Mi avvicinai cautamente,
facendola sorridere. «E così…
eh?».
Il sorriso si fece più
ampio. Prese la mia mano e se la portò al ventre.
«E così, eh…»
mormorò, prima
di scoppiare a piangere.
La abbracciai, sentendo i
suoi piccoli singhiozzi scuotermi. «Mi dispiace
tesoro… Sarei dovuto stare più
attento, avrei dovuto…».
Scosse il capo, senza far
smettere di scendere le lacrime. «C’ero
anch’io quella notte, no? Ti posso
assicurare che ero contenta», scherzò debolmente,
tirando su col naso.
Le accarezzai la guancia,
portandole via il bagnato. La scrutai negli occhi gonfi.
«Vuoi fare un test?»
domandai incerto, non sapendo bene cosa dire.
Rise, un suono un po’
isterico e nasale, gettando il capo all’indietro.
«Credimi, Edward, dopo tre
gravidanze so come ci si sente».
Abbassò lo sguardo sulla
mia
mano, che non avevo mai allontanato da dove l’aveva messa,
sul suo grembo. «Ce
la faremo. Non so come» la voce
s’incrinò «ma ce la faremo»
mormorò con un sorriso
forzato.
La baciai.
Si tirò indietro.
«Che
schifo, Edward. Fammi almeno lavare i denti prima».
Risi. «Non mi importa, ti
voglio solo baciare».
Arrossì, provando a
divincolarsi inutilmente. Alla fine si arrese.
«Edward?».
«Cosa?».
Si avvicinò al mio
orecchio,
stupendomi ancora una volta. «I bambini dormono… E
questo vuol dire… che
possiamo anche non usare più i
preservativi…».
Non me lo feci ripetere due
volte.
3 Giugno 2011. Un giorno
come un altro e un altro ancora… Ancora.
«Dove sono le
gemelle?».
«Ho fame! Mamma, ho fame,
ho
fame!».
Sospirai, chinandomi a
porgere a Kate il panino che stavo mangiando. Me ne sarei fatto un
altro,
magari prima di andare a dormire… «Tieni tesoro.
Prendi questo, ma mettiti a
tavola a mangiare».
La bambina annuì,
arrampicandosi sulla sedia prima di dedicarsi al mio - suo - panino.
«Bella»
gridò ancora Edward,
per farsi sentire anche dalla cucina. Stava riparando la lavastoviglie.
«Ho
detto: dove sono le bambine?».
«In camera a dormire.
Tranquillo. Con me ci sono solo Kate e Mark…».
Ansimai, voltandomi verso la
sedia accanto alla mia. «Mark?!» strillai in un
verso strozzato.
Passarono pochi istanti
pieni di panico. «Mark! Mark, dove sei? Mark?»
urlai, lasciando che il panico
mi assalisse sempre più velocemente. Era un bambino buono,
mi rispondeva sempre
appena lo chiamavo.
«Cosa succede?»
esclamò
Edward entrando velocemente nella stanza.
«Il bambino, Edward! Non
c’è! È scomparso!».
Ma mio marito non aveva
l’espressione che mi sarei aspettato. Sembrava perplesso.
«Mamma» mi
chiamò la voce di
mio figlio, ma quando mi voltai lui non c’era.
«Mark? Mark?».
«Mamma!» mi
richiamò ancora,
e improvvisamente comparve davanti ai miei occhi, dov’era
sempre stato. Seduto
sulla sedia.
Avevamo appena scoperto un
nuovo strano dono dei miei figli: Mark poteva diventare invisibile.
«Stai bene?».
«Mh-mh».
«Sicura?».
«Benone. Passami un
pannolino per favore». C’era stata una certa
agitazione e un po’ di nausea dopo
tutto quel trambusto. Com’era ovvio non avevo voluto farmi un
altro panino.
Carlisle era un po’ preoccupato, continuava ad insistere che
non stavo
prendendo abbastanza peso, che mi stavo stancando un po’
troppo. I bambini
erano tanti e piccoli ed era difficile prendersi cura di tutti al cento
per
cento. Eppure continuavo a farlo. Con tutti, però, anche
quelli che non erano
ancora nati. Quindi se Carlisle mi diceva di mangiare lo facevo. Se mi
diceva
di dormire anche. Solo, lo facevo a modo mio, e per quanto Kate, Mark,
Anne e Juliet
me lo permettessero.
Quindi non avevo mentito a
Edward. Mi sentivo bene, come al solito. Come se stessi percorrendo una
lenta
ed estenuante maratona dell’amore.
Mi fece allontanare,
sistemandosi davanti al fasciatoio. «Lascia fare a
me».
Non protestai, infilai il
pigiamino a Anne e andai a rimboccare le coperte a Mark e a Kate. Il
mio ometto
stava dormendo, ma la più grande non ne voleva proprio
ancora sapere.
«Mamma, raccontami una
storia».
Le sorrisi, senza smettere
di cullare la piccola Anne. Aveva quasi un anno, ma ne dimostrava un
po’ meno.
«Devo mettere a dormire la tua sorellina».
S’imbronciò.
«Non la puoi
raccontare anche a lei?».
Sospirai, appoggiandomi al
muro contro cui era sistemato il letto. «Facciamo
così. Perché non racconti tu
una storia a me a ed Anne, eh? Cosa ne pensi?».
Mi guardò, come se ci
stesse
riflettendo. «E va bene…»
sospirò infine, perdendosi in un mondo fatto di fate,
castelli, principi e principesse.
Mi lamentai, agitando
leggermente il capo.
«Shh, torna a
dormire».
Nonostante fossi
disorientata provai a fare uno sforzo di memoria. Se non sbagliavo, mia
figlia
mi stava giusto raccontando una storia… Mi lasciai andare
fra le braccia di
Edward. «Sono pesante» scherzai.
Senza accendere la luce
entrò nella nostra stanza e mi sistemò sul letto.
Aprii gli occhi.
«Ti avevo detto di
dormire».
Scrollai le spalle.
«Anche
tu mi sembri stanco» mormorai, accarezzandogli il viso. Aveva
le occhiaie e
sapevo perché. «Da quanto non vai a
caccia?».
Mi sorrise, baciandomi il
palmo della mano e lasciandomi una scia di baci che andava per tutto il
braccio. «Da quanto non mangi decentemente, non fai qualcosa
per te stessa, non
dormi più di quattro ore di fila…?».
«Posso cominciare da
adesso»
scherzai, divincolandomi e voltandomi dall’altro lato.
«Ah, non fare la
furba» mi
rispose a tono, bloccandomi i polsi e riprendendo a baciarmi. Scese sul
seno e
sulla pancia, accarezzandomi il piccolo pancione. Ero ancora al quinto
mese.
Dovevo fare il più possibile prima che la gravidanza mi
impedisse di badare ai
bambini.
«Dai, smettila, mi fai il
solletico» risi, contorcendomi sul letto.
Sollevò la bocca,
fissandomi
con un sorriso. Era diventato più dolce,
più… malizioso.
Glielo restituii. «Certo
che… Mark, eh?
L’invisibilità?» borbottai incerta. Non
riuscivo ancora ad
assorbire la notizia. «E se gli dovesse capitare in
pubblico?».
Mio marito continuò a
baciarmi dolcemente tutto il corpo. «Ce ne preoccuperemo
l’anno prossimo,
appena ci trasferiremo».
«Già»
sospirai, guardando
con malinconia le pareti della mia stanza. Mi mancava di già.
Mi sfilò la maglietta.
Continuò a baciarmi. «Andrà bene,
vedrai». Ero così dolce, delicato…
«Già»
borbottai ancora.
Baci, baci, baci. Teneri,
gentili… Tanto che, esausta, mi addormentai.
«Amore di mamma, hai la
bua al pancino?» domandai,
piegandomi maldestramente sulle ginocchia. Mark se ne stava
lì, piangente, dopo
aver spiaccicato sul pavimento la pastina che con tanta solerzia gli
avevo
preparato e che pochi secondi prima era nel suo stomaco.
Aveva le guance paffute rosse,
striate di bianco per
via delle lacrime. Non ebbi quasi bisogno di poggiare una mano sulla
sua fronte
per capire che avesse la febbre. Dopotutto, era quello che era successo
anche a
Juliet il giorno prima, e quello era il motivo per cui Edward non
c’era:
l’avevamo messa in “quarantena” fra le
coccole di casa Cullen.
Un figlio malato uguale quattro figli malati. E il nostro piano era
evitarlo ad
ogni costo. Piano fallito.
«Mamma!» si
lamentò Kate alle mie spalle «che schifo!
Mi viene da vomitare».
Mi voltai un attimo per guardarla e
insieme controllare
la situazione. Lo diceva per attirare l’attenzione o stava
male anche lei? Mi
sembrava che più che essere nauseata aveva
un’espressione di disgusto sul viso.
«Vai di là a vedere la tv». Sollevai lo
sguardo per controllare Anne, che
frignava sul seggiolone, agitando il suo giocattolino di plastica.
«Nooo»
piagnucolò Katie
«voglio stare con te» fece, mettendo il broncio.
Mi sollevai, malferma sulle gambe,
trascinando Mark
con me e reprimendo un conato. Quasi non me ne accorsi, brava
com’ero diventata
a farlo. Senza staccare il mio ometto da me prelevai
dall’armadietto alcuni
prodotti e uno straccio. «Allora Katie cantiamo una canzone,
che ne dici?»
feci, sperando di tranquillizzare il pianto di Mark e Anne e insieme
tenerla
buona.
«Cantiamo
Milla!» propose allegra.
Mormorai dolci paroline alla mia
bimba più piccola e
al piccolo malatino, attaccato come un koala alle mie spalle.
«Va bene. Milla.
Inizia tu». Mi piegai ancora in terra per pulire. Mi costava
un certo sforzo,
con il pancione e il resto.
«Millaaa
la paperellatranquillaaaa…
anche tu, mamma!» proseguì infastidita dalla mia
scarsa partecipazione.
Presi un respiro. Anne stava
piangendo più forte, gli
occhi lucidi e il labbro tremulo. Eh sì, mi sa che avevamo
proprio fallito.
Afferrai un giocattolino da terra sventolandoglielo davanti alla
faccia, mi
assicurai Mark più stretto alle mie spalle e mi preparai a
pulire con l’unica
mano rimasta libera. «Mangia il
minestrone non le viene il raffreddore…»
continuai la canzone.
Kate cominciò a ballare
in tondo. «Mangia il brodino e
diventa un bel bambino…».
«Bella» mi
sentì chiamare. Era un sibilo fra lo
sconvolto e lo sconsolato.
Alzai gli occhi per vedere mio
marito. «Oh, Edward, come sta Juliet? Mark ha
vomitato e ha la febbre. Credo che anche Anne si senta poco bene. Piano
fallito».
In un secondo mi sentii sollevare
dal peso di Mark
sulle spalle. «Perché non mi hai
chiamato?» fece, un po’ scocciato un po’
preoccupato, avvicinandosi ad Anne che intanto si sbracciava verso la
sua direzione.
La rassicurò con qualche parola, posando un bacio sulla sua
fronte e
aggrottando le sopracciglia. «Sì, ha la febbre
anche lei, ma il piano non è
fallito» aggiunse,
scoccandomi un’occhiata ansiosa.
Mi concentrai sul mio lavoro,
finendo di pulire molto
più rapidamente. Certo, perché la sua
preoccupazione maggiore, nonché suo reale
intento per la quarantena, era che io
non venissi contagiata.
«Papà!»
lo chiamò Kate, che intanto si era abbarbicata
su una sua gamba.
Si piegò per esaminarla.
«Anche tu stai male?» fece,
tastandole la fronte e la pancia.
Lei fu molto contenta di ricevere
quelle attenzioni,
anche quando, alla fine, il padre constatò che non avesse
assolutamente nulla.
Per fortuna.
«Hai finito di
stancarti?» mi venne vicino, aiutandomi
ad alzarmi e massaggiandomi preoccupato il pancione
«perché non hai chiamato
aiuto?».
Gli accarezzai il viso con
dolcezza, passando poi
velocemente a Mark. «Va tutto bene, davvero. È
stato un piccolo momento di
crisi, ti avrei chiamato fra due minuti. A questo punto non ha senso
tenere
Juliet di là. Possiamo chiedere a qualcuno di riportarla
qui. Piano fallito»
sussurrai con aria cospiratrice, facendo ridere Kate.
Edward mi prese il viso fra le
mani, ansioso. «No»
pigolò.
Gli feci un piccolo sorriso di
scuse, gli baciai una
guancia. «Se tieni la situazione sotto controllo per cinque
minuti vado in
bagno a vomitare e torno. Così ci risparmiamo questo casino».
«Vai».
Alzò gli occhi al cielo e in un attimo aveva il
cellulare all’orecchio. «Vedi tu, mi deve chiedere
anche il permesso per
vomitare…» lo sentii borbottare.
Ridacchiai, ma ben presto la nausea
ebbe la meglio.
«Bella, ti devo fare per
forza una flebo perché in
queste condizioni di disidratazione…» mi stava
spiegando Carlisle, mentre
intanto già preparava la sacca e prendeva la cannula dalla
sua borsa.
«Lo so» lo
interruppi «non ti preoccupare. È colpa
mia, che sono la peggior paziente gestante di sempre. Dovevo prendere
tre chili
e invece questa influenza intestinale…» alzai gli
occhi al cielo, accarezzando
il pancione.
Mi sorrise, benevolo.
«Non sei per niente la peggiore paziente
gestante di sempre. La
migliore, direi. Non ho mai visto una madre che si adopera
così tanto per i
suoi figli, e sempre così allegra e disponibile, pronta a
mettere tutti davanti
a sé…».
«Amore?» mi
richiamò preoccupato Edward, entrando
nella nostra camera da letto mentre Carlisle infilava l’ago
nella vena e faceva
scorrere il mandrino.
Rabbrividii un attimo, ancora rossa
in viso per le
parole di Carlisle. «Ehi, va tutto bene» lo
rassicurai, facendogli con la mano
libera un gesto perché si avvicinasse.
«…anche tuo
marito» proseguì mio suocero con un
sorriso, assicurando la cannula con un cerotto. «Vi lascio
soli».
«I bambini?»
domandai, accarezzandogli i capelli.
I suoi occhi mi scrutavano
dall’alto in basso, poi si
concentrarono sul braccio collegato alla flebo. «Stanno bene.
Ognuno con una o
due balie. Naturalmente cercano te, ma ti prego…»
iniziò, come una supplica. Lo
sapeva che ero pronta ad alzarmi ed andare a controllarli.
Decisi per il suo benessere
psico-fisico che potevo
rimanere a letto per un paio d’ore, giusto il tempo che la
sacca della flebo si
fosse svuotata. Non mi andava di farmi vedere così dai
bambini, e sapevo che
con i loro zii e nonni sarebbero stati bene ugualmente.
«Tranquillo, non mi
alzo da qui. Giuro» scherzai.
Le sue dita si posarono sulla mia
guancia. «Come va la
nausea? La pancia?».
Ci pensai su. Prima che me lo
chiedesse mi ero quasi
dimenticata di avere un corpo. Ora, in effetti… Scrollai le
spalle.
Sospirò, prendendomi il
polso della mano libera. «Sei
magra…».
«Mi dispiace, amore. Mi
sono impegnata. Appena passa
l’influenza mi impegno di più, lo
prometto».
Scosse il capo, come se trovasse
assurde le mie
parole. «Ti ingozzo di dolci. Al diavolo la dieta
controllata! Ti farò mangiare
tutte le porcherie dei fastfood».
Scoppiai a ridere, riconoscendo
l’ironia nella sua
voce. Le labbra si erano piegate in un mezzo sorriso. «E i
bambini? Che esempio
daremo loro?» finsi di rabbrividire.
Fece una faccia perplessa.
«Bambini? Quali bambini?».
Risi più forte, e si
unì a me, baciandomi le labbra
fra le risate.
«Papà,
mamma!» chiamarono delle voci, mentre la porta
si apriva.
«Ah già. Quei
bambini» sghignazzò nascondendo il viso
sul mio seno.
15
agosto
2011. La sera di Ferragosto.
Bella
«Oh, yeah!
Sì!» esclamai, saltando giù dalla
bilancia.
“Saltando” per quanto il pancione me lo
consentisse. «Sono stata brava,
ammettetelo».
Carlisle rise. «Hai preso
in totale 4 kg. La metà del
peso che avresti dovuto raggiungere alle 32°
settimana».
«Ehi, bisogna considerare
che ci sono quei 2 kg che
avevo perso all’inizio e tutto il resto. Sono stata
bravissima, su!» dissi,
aggiungendo una linguaccia alla volta di Edward.
Rise e venne a prendermi fra le
braccia. «Allora
possiamo riprendere il nostro allenamento?»
mi sussurrò maliziosamente ad un orecchio.
«Edward!» mi
allontanai sconvolta, il viso caldo per
il rossore. Avevamo già ripreso il nostro allenamento,
giusto la sera
precedente…
Carlisle aveva le labbra strette
per trattenere una
risata, ma Emmett e Rosalie risero dall’altra stanza.
Esme venne in mio soccorso.
«Tesoro, è tutto pronto di
là. Finisco giusto di farcire i dolci. Tuo padre
arriverà fra un’ora. Alice e
Jasper stanno giocando con le gemelline nella piscinetta».
Mentre parlava mi si
fece accanto e quasi sovrappensiero iniziò a massaggiarmi il
pancione.
«Bene. Allora io vado a
fare una doccia al volo e sono
subito dei vostri» feci, sollevando i capelli che erano
rimasti incollati alla
nuca. L’estate di Forks poteva essere davvero torrida.
Edward sostituì la mia
mano con la sua, rinfrescandomi
il collo. «Perché invece non fai un bel bagno
rilassante, ti riposi un po’…?»
mi propose suadente, e quasi gli stavo chiedendo di farmi compagnia se
non
fosse stato sconveniente con tutta la sua famiglia in casa e mio padre
in
arrivo.
«Baaasta!»
piagnucolò Kate,
correndo al mio fianco. «Con te non ci gioco più a
nascondino! Non vale» disse,
puntando un dito contro il piccolo Mark, che aveva il broncio.
«Ma tu vuoi semp-e sciocare
a acchiapparella e io no ti pendo!» protestò lui
spostando lo sguardo dalla sorella a me e tendendo le braccia per farsi
prendere in braccio.
«La mamma non ti
può prendere, Mark. Ha già la
sorellina» gli spiegò con un’occhiata
impaziente, guardando il mio pancione.
Rabbrividivo a pensare come fosse
cresciuta in soli
quattro anni. Edward prese Mark al mio posto e li rabbonì
con un paio di
parole. Ma Kate continuava a guardarmi con uno sguardo sconsolato.
Oltre al
fatto che la sua crescita intellettiva fosse decisamente più
rapida di quella
di un qualunque bambino umano, la sua era stata accelerata anche dal
fatto che
fosse la primogenita, a cui seguivano rapidamente tre… quattro bambini.
«Katie, tesoro, vuoi
venire con la mamma a fare il
bagno? Giochiamo con le peperelle e ce ne stiamo un po’ per
conto nostro».
Le si illuminò il viso e
corse a prendermi per mano,
trascinandomi verso la camera da letto, estendendo il suo scudo oltre
il mio
corpo. Lo faceva sempre quando voleva stare un po’ con me, da
sola.
«Non ti
stancare!» mi gridò dietro Edward, vedendo
fallito il suo piano di rilassamento.
Nella vasca da bagno Kate stette
tutto il tempo a
farsi coccolare, e recuperò il cattivo umore perso a causa
del nascondino. Mi
piaceva dedicare un po’ di tempo a uno solo dei miei figli, e
con lei, che era
così autonoma nonostante i suoi quattro anni, accadeva
sempre così poco spesso.
Le baciai la testa, abbracciandola
sotto il pelo
dell’acqua. «Allora, come la chiamiamo la
sorellina?» le domandai con un
sorriso.
Finse di pensarci un po’
su, portandosi un dito sotto
il mento. I suoi occhi verdi erano meravigliosi, così simili
a quelli del
padre. Strinse la sua peperella. «Milla?» propose.
Trattenni un sorriso.
«Come la peperella tranquilla?».
«Sì!»
esclamò con un grande sorriso.
A quel punto risi, senza pensarci.
«Come stanno le
dita? Raggrinzite al punto giusto?» scherzai, facendole
esaminare i
polpastrelli.
Guardò prima i suoi e
poi i miei. «Tu di più» fece
sicura «e va bene, usciamo» aggiunse, con la sua
aria da donna vissuta,
scavalcando agevolmente il bordo della vasca nonostante la bassa
statura.
Ridacchiai, imitando il suo
movimento con molta più
goffaggine, per via del pancione. Presi un grande asciugamano bianco e
ce
l’avvolsi, usandone un altro per sfregarle i capelli. Fece
una smorfia, ma non
protestò.
«Allora, sei contenta di
vedere anche nonno Charlie
stasera? Festeggiamo Ferragosto tutti insieme» le domandai,
prendendo intanto
un grande telo per coprirmi. Iniziai a pettinare i capelli. Erano
lunghissimi,
ma a Edward piacevano tanto, e avrebbe voluto che li portassi anche
nella mia
prossima nuova vita, non appena avessi smesso di allattare
l’ultima arrivata…
«Sono molto, molto
contenta!» disse allegra,
cominciando a saltellare. Era completamente avvolta dai teli bianchi,
così
tanto che a stento le si vedeva la faccia. Sembrava un pupazzo di neve.
Risi, e mi piegai alla sua altezza.
«Vieni qui che ti
infilo le mutandine. Non ti trovo quasi più lì
sotto» scherzai, facendole il
solletico.
Mi rialzai per afferrare il
vestitino che le avevo
preparato. Prima che potessi terminare il movimento un gemito sconvolto
mi
passò fra le labbra aperte, tanto che non riuscii a
controllare la maschera di
dolore che era diventato il mio viso.
Lo vedevo da come mi fissava Kate:
terrorizzata.
In preda al dolore lancinante mi
lasciai scivolare
lentamente con la schiena contro le piastrelle del bagno, tremante,
controllandomi quanto bastava per non urlare. Di più non
avrei potuto fare.
«Katie…
amore…» sussurrai, quando fui abbastanza certa
che avrei potuto controllare la voce.
I suoi occhi erano ampi, grandi e
fissi sul mio viso,
e risaltavano così tanto in mezzo a tutto quel bianco da cui
era avvolta.
«Amore, va…
tutto bene. Stai… pensando a papà di…
venire
qui…?» incespicai a fatica.
Non mi rispose. Mi occorse un
secondo per capire che
eravamo sotto il suo scudo. Non avrebbe mai potuto sentirla, e con la
stanza
insonorizzata…
Presi un respiro per non farmi
prendere dal panico. Un
dolore immenso mi stava dilaniando la pancia, irradiandosi per tutta la
schiena. Io, che avevo partorito altre tre volte, potevo con sicurezza
dire che
non si trattava di semplici contrazioni. Faceva un male cane. Feci leva
sui
palmi delle mani per tenermi seduta e impedirmi di scivolare a terra e
strinsi
le labbra per trattenere un gemito più forte.
«Piccola,
amore… Va tutto bene, va tutto bene, vieni
qui…» cantilenai, ma la mia voce era distorta, e
non riuscivo a guardarla in
faccia. Sentivo il sudore freddo che m’imperlava la fronte, e
tremavo, il fiato
corto.
Non si mosse. Il terrore nel suo
sguardo si fece più
marcato. Se solo fosse scappata via, se solo avesse anche solo
socchiuso la
porta della stanza…
«V-v-vai da
papà» balbettai, sentendo le forze
abbandonarmi e il dolore incalzare sempre di più.
«Ah…» gemetti non riuscendo a
trattenermi «Va tutto bene… Va’ da
papà piccola, ti prego… Vai da
papà…». La
vista si sdoppiò. «L-la mamma sta bene…
t-ti vuole bene… va tutto bene…» non
potei fare a meno di rassicurarla, seppure inutilmente.
Il labbro le tremava forte. Cosa
vedeva da sotto il
suo scudo? Cosa aveva intuito?
«Vai» gemetti a
denti stretti, cantilenando la parola.
Mi lasciai andare con la testa contro il muro, ma lottai, con tutte le
forze
per non far uscire neppure una lacrima. Mi morsi le labbra, mentre i
contorni
di tutto si facevano più sfocati. «Vai»
soffiai ancora, prima di perdere i
sensi.
E in quel momento avvertii il
singhiozzo terrorizzato
di mia figlia.
Edward
Stavo giocando con Mark a
nascondino. Era il suo gioco
preferito, com’era logico che fosse dato il suo potere di
rendersi invisibile.
Ma io riuscivo ancora ad ascoltare i suoi pensieri di tanto in tanto, e
questo
lo rendeva felice, essendo il gioco più equilibrato.
Nel soggiorno c’era un
gran viavai di bambini e
vampiri, tutti eccitati dalla serata di ferragosto
insieme. Quanto a me, speravo che si stancassero abbastanza da dormire
profondamente, e consentirmi di passare un po’ di tempo con
mia moglie, quella
notte… anche solo a coccolarla e lasciarla riposare. Come si
era stancata
ultimamente! E sempre con abnegazione, senza un lamento, con il sorriso
sulle
labbra. Aveva quasi fatto angosciare anche mio padre, sempre
così calmo e
risoluto, preoccupato per come si stesse bistrattando in quella
gravidanza. Ma
per fortuna ora aveva recuperato, e tutto stava andando per il meglio.
«Charlie
arriverà fra undici minuti! È tutto
pronto»
disse Alice, svolazzando per la stanza e dando istruzioni.
I nonni coccolavano Anne sul
divano, Rosalie e Emmett
cambiavano Juliet. Sorrisi. Tutto mi sembrava così
perfetto.
La porta della camera da letto si
aprì di scatto, e mi
bastò un sedicesimo di secondo per voltarmi e vedere mia
figlia. Aveva indosso
solo le sue mutandine rosa e mi correva incontro, veloce. Quello che
attirò la
mia attenzione fu il suo viso terrorizzato, pieno di lacrime, e i suoi
gemiti
incontrollati. Il primo istinto fu di sondarle i pensieri
ma… niente. Era
completamente muta.
«Katie, amore,
cos’hai?». L’accolsi fra le braccia,
allarmato, controllando le varie ipotesi. Tutta la mia famiglia si era
voltata
nella sua direzione, ma solo Carlisle si era avvicinato, sapendo che i
movimenti bruschi le avrebbero fatto innalzare lo scudo e reso il tutto
controproducente.
Non mi rispose, continuando a
piangere a squarciagola.
Il primo pensiero fu controllare che non fosse ferita, e la scrutai
rapidamente, avvalendomi anche delle informazioni che passavano nella
mente di
mio padre. Ma non sembrava avesse nulla. Eppure, non le avevo mai visto
addosso
quello sguardo d’angoscia…
In un attimo avvennero tre cose. I
pensieri di mia
figlia si fecero accessibili, come una bomba che mi esplodeva nella
testa. La
piccola singhiozzò «Mamma!» e un
familiarissimo, distinto, odore di sangue si
diffuse dal bagno.
«Bella» ruggii,
e in un attimo Esme mi aveva preso la
bambina dalle braccia, e più veloce anche di mio padre mi
ero materializzato
nel nostro bagno.
Mi raggelai, impietrito da quello
che vedevo. Era riversa
in terra, avvolta da un telo bianco di spugna. Pallidissima, sudata,
ansante.
Dalle sue gambe originava una pozza cremisi.
«Bella!» la
chiamai forte, prendendola fra le braccia
e scuotendola. «Bella amore! Amore mio!
Rispondimi». Dentro di me sentivo
l’angoscia che mi investiva a ondate, mentre la mia mente
cercava
freneticamente una soluzione o una spiegazione a ciò che
vedeva.
I suoi occhi fluttuarono verso
l’alto, ma erano vacui,
come se faticasse a mettere a fuoco. «Fa
male…» farfugliò
«malissimo… non… come
le altre volte…».
Carlisle le aveva preso il polso,
tastato la fronte,
si era chinato velocemente ad esaminare la fonte del sanguinamento.
«Ha un distacco di placenta.
Dobbiamo far
nascere la bambina ora, se vogliamo che sopravvivano».
Rischiavo di perderle. Entrambe. «Amore,
andrà tutto bene» rassicurai Bella, angosciato.
In un attimo volai in camera, coprendola al meglio con il telo.
Carlisle era sempre rimasto al mio
fianco. «Emmett,
prepara l’auto, andiamo in ospedale» disse a voce
più alta, in modo che lo
sentisse.
Alice comparve nella stanza. I suoi
occhi erano vacui
e pieni di terrore. «Non c’è tempo. Se
non lo farai qui una delle due morirà».
«Qui?» ruggii,
stentando ad immaginare come fosse
possibile. Non c’era tempo di farla partorire. Un cesareo. Le
trasfusioni.
L’emorragia. Il deficit d’ossigeno.
«Edward»
singhiozzò Bella fra le mie braccia,
stringendosi il ventre pieno «non lasciare che
muoia… ti prego… non lasciare
che la nostra bambina muoia…».
Se fossi stato umano avrei urlato,
il cuore mi sarebbe
esploso dal petto, avrei perso la concentrazione. Ma ero lì,
vampiro, e
pensavo. Quanto tempo era rimasta in quelle condizioni?
Perché, dannazione, non
le avevo fatto tenere la porta aperta? Perché
l’avevo messa in pericolo? Perché
le avevo permesso di stancarsi così tanto?
«Non abbiamo il
sangue…» farfugliai.
Mio padre si chinò su
Bella, la girò sul fianco
sinistro. «Non importa».
«Non è
sterile».
«Non importa,
Edward». Carlisle la liberò dal telo,
affannandosi per bloccare l’emorragia. La maggior parte del
sangue le rimaneva
nell’utero, bloccato dal peso del bambino.
«Non le possiamo fare
l’anestesia».
«Edward»
mi
richiamò ancora mio padre. «Non importa
più, ormai».
Bella urlò, graffiando
con le unghie contro il braccio
di mio padre, stringendo la sua mano insanguinata. «Carlisle
salvala ti prego!
Ti prego, ti prego! Tirala fuori».
Mio padre si chinò, e la
guardò negli occhi. Le voleva
bene, come si vuole bene ad una figlia. Le accarezzò i
capelli, madidi di
sudore. «Sai cosa mi stai chiedendo?».
Bella annuì,
freneticamente, gli occhi ampi e vacui,
prima di urlare ancora, contorcendosi.
Non
importava
più, ormai. Perché l’unico modo di
salvarle entrambe era trasformare Bella.
«Papà…»
gemetti, e mi sentii infinitamente più piccolo
di Mark quando mi chiamava nel cuore della notte «non senza
morfina, ti prego»
tremai, agghiacciato all’idea del ventre di mia moglie
squarciato sotto i miei
occhi fra le sue urla di dolore.
Annuì, guardandomi pieno
di compassione. «Facciamo in
tempo a procurarci un bisturi e della morfina».
Qualcuno volò via da
casa, mentre altri si
preoccupavano di tenere buoni i bambini e non fargli sospettare quello
che
stava per avvenire.
Strinsi con tutta la forza
concessami Bella,
accarezzandole i capelli. «Presto passerà tutto,
promesso. Non farà più così
male, lo giuro».
Si aggrappò a me,
stringendo i denti e cacciando un
grido di dolore, la testa riversa e i muscoli del viso tesi.
«Ha
delle
contrazioni tetaniche» pensò velocemente
mio padre, prima di riservarmi
un’occhiata velocissima. «Vuoi
uscire?».
Non ci fu neppure bisogno di rispondere. Vidi il mio volto nei suoi
pensieri mentre
capiva che non mi sarei mosso di lì.
Rose entrò nella stanza
con la sua borsa. Carlisle
controllò velocemente l’interno: bisturi, cannule,
divaricatore, pinze, fisiologica,
morfina, garze, betadine, deflussore.
«Un bolo di morfina 10
mg» mormorò velocemente
Carlisle, per un momento incerto se lanciare la boccetta a me o Rose.
L’afferrai al volo, e in
un attimo avevo individuato
una vena del braccio piuttosto lunga e dritta. Le sistemai un accesso,
in modo
che Carlisle avrebbe potuto usarlo anche più tardi. Ci misi
due secondi e
mezzo. «Non sentirai più nulla» la
rassicurai, sfiorandole il viso, prima di
premere lo stantuffo e lasciare che il medicinale andasse in circolo.
Darle
sollievo in quel modo mi sembrava l’unica cosa che potessi
fare.
I suoi movimenti si fecero sempre
più lenti. Carlisle
aveva già preparato il campo operatorio. Mi feci vicino al
suo capo, facendola
voltare nella mia direzione. «Non guardare. Va tutto bene,
non guardare».
«Ed-ward»
mormorò piano,
mentre la lama del bisturi tagliava veloce la sua pelle bianca. I suoi
occhi
facevano difficoltà a mettermi a fuoco.
«Sono qui».
Si umettò le labbra.
«Se… se non…»
sospirò «chiamala
Camilla, va bene?».
Sorrisi, stringendole forte la
mano. «Camilla».
Ricambiò il mio sguardo,
poi le sue palpebre
fluttuarono verso il basso. «Ti amo»
sussurrò, perdendo finalmente i sensi.
Ciao
amici!
Non
so davvero da quanto tempo avevo questo capitolo sul PC in
attesa di essere pubblicato… anni.
Meglio
tardi che mai.
Nell’ultimo
periodo ho rimesso pesantemente mano ad alcuni capitoli
di Cullen’s
Love che non mi convincevano, qualcuno mi
ha contattato perché ha notato le differenze. Mi fa piacere
che dopo così tanto
tempo vi salti ancora in mente di leggere questa storia!