CULLEN'S LOVE - Extra

di keska
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Extra 1. Parte 1/3. ***
Capitolo 2: *** Extra 1. Parte 2/3. ***
Capitolo 3: *** Extra 1. Parte 3/3. ***
Capitolo 4: *** Extra 2. Parte 1. ***
Capitolo 5: *** Extra 2. Parte 2. ***
Capitolo 6: *** Extra 2. Parte 3. ***
Capitolo 7: *** Extra 2. Parte 4. ***
Capitolo 8: *** Extra 2. Parte 5. ***
Capitolo 9: *** Extra 2. Parte 6. ***
Capitolo 10: *** Extra 2. Parte 7. ***
Capitolo 11: *** Extra 2. Parte 8. ***
Capitolo 12: *** Extra 2. Parte 9. ***



Capitolo 1
*** Extra 1. Parte 1/3. ***


Ciao a tutti!

Lasciatemi fare questa premessa, e leggetela, per favore (proverò ad essere breve), altrimenti non capirete quello che segue.

È passata un’infinità di tempo (quanto, uno? Due anni?), e in questo tempo non sono stata a sollazzarmi. Ho iniziato l’università, ho scritto, lo letto, ho visto e… ho anche vissuto. E ho trovato un posticino nel mio tempo per continuare a coltivare questa storia. Volevo che l’intera Cullen’s Love fosse corretta prima di iniziare a pubblicare gli extra. Non sono andata tanto lontano, ma almeno ho corretto i primi capitoli. Ho deciso di pubblicare comunque, perché non era giusto farvi aspettare ancora. Per chi sta leggendo la storia corretta vi assicuro che continuerò il lavoro.

Veniamo alla parte succulenta, gli extra. Ho deciso di pubblicarli in una “storia” a sé stante.

 

Il primo extra tratterà di quel periodo che va da quando Edward trova Bella a Goat Rocks, liberandola da Jacob, fino a quando lei non capirà di aspettare un bambino, tutto dal pov Edward. Non è un mero cambio di pov (anzi, quasi per niente), perché con gli occhi del bel vampiro vedremo quasi ed esclusivamente situazioni inedite.

 

Il secondo extra tratterà invece del periodo che va dalla nascita di Kate fino sostanzialmente all’epilogo attuale della storia, riempiendo il salto temporale. I pov saranno alternati fra quello di Edward e quello di Bella.

 

Preoccupate per il fatto che gli extra siano solo due? Non siatelo. Gli extra sono abbastanza lunghi da poterli considerare un piccolo seguito.

Ed ora, semplicemente, godeteveli.

Edward e Bella si trovano nella baita dove Jacob l’ha tenuta prigioniera. Il passo riportato è un Edwrad’s POV, appena dopo che Bella ha ucciso il suo carceriere. Si può trovare nel Bella’s POV nel capitolo originale (27 “Sopravvivere”).

 

Giorno 1: 1 Settembre.

 

Una scia di sangue mi separava dal suo corpo odoroso. Non era qualcosa di spaventoso, di inquietante, di disgustoso. Il pensiero che dovessi far vincere la mia parte razionale per sentirmi spaventato e preoccupato mi faceva sentire solo quello che ero: un mostro.

«Bella» la chiamai, sollevando una mano, tremante, verso il suo viso. I suoi occhi erano vitrei, lontani, persi. Aveva i polpastrelli incollati alle labbra, e le toccava, le sfregava, come faceva sempre quando si sentiva sola, quando si sentiva impaurita. «Bella amore, sono qui…» mormorai, più che flebile, nel tentativo vano di rassicurarla e contemporaneamente trovare un modo, un motivo, uno spazio qualsiasi per abbracciarla, dopo tutto quel tempo, troppo, per cui mi era stata strappata via.

Mi chinai vicino al suo corpo, accasciato contro la parete legnosa di quel muro che l’aveva tenuta prigioniera. Ogni boccata del suo profumo era tanto piacevole da essere dolorosa.

Allungai le braccia, continuando a pronunciare il suo nome, misto di confortanti parole che mi sgorgavano dalle labbra.

Sussultò, tremò. Farfugliò, con le labbra agitate. «Lasciami… l’ho ucciso…».

Lasciami. Pulsò saettante nella mia mente. I vampiri sono creature incorruttibili, ma quando provano dolore, è come se fosse miliardi di volte amplificato. Presi un respiro, e lessi lo shock nei suoi occhi. Era terrorizzata.

Allungai una mano, e per un attimo pensai che stesse tremando. No. Non era la mia mano, era il corpo di Bella, a tremare. Erano le sue gambe, intrise di sangue, sfregate convulsamente l’una sull’altra.

Presi un altro fiato, facendomi passare il fiele nei polmoni. «Bella, amore, vieni qui» la supplicai. Non sapevo davvero se fossi io a lei ad avere più bisogno dell’altro. «Vieni da me, ti devo aiutare, stai male».

Si prese il capo fra le mani, scosse il capo. I miei occhi precipitarono ancora vero il basso, verso il sangue. Aveva appena ucciso. Chissà cosa le aveva fatto. Il sangue.

«Fa male…» singhiozzò, l’inizio di una cantilena «fa male, fa male…».

Annaspai, allungando entrambe le braccia nella sua direzione. L’unico modo per mettere a tacere quel dolore che non stavo provando era riaverla, lì, dove era solo il suo spazio. Dove il vuoto aveva invitato l’agonia. «Lo so amore, lo so».

Il suo corpo fu attraversato da uno spasmo. «Non ti avvicinare!».

«Amore, vieni con me, ti porto da Carlisle, starai meglio…».

Si ripiegò su sé stessa, riprendendo a farfugliare. I capelli erano arruffati, i vestiti laceri, la pelle bianca e pallida sotto lo strato di sangue e sporcizia. Cosa stavo osservando? La mia morte aveva forse deciso di rivelarsi? E se così non era, perché allora mi sentivo peggio che morto?

La richiamai, tendendo una mano verso il suo viso. Dolce, dovevo essere dolce, e lieve, perché lei era davvero troppo fragile. «Stai perdendo sangue».

Deglutì, come se per un attimo avesse ritrovato la sua ragione, e abbassò il viso sul suo corpo. Il capo ondeggiò verso la parete.

Automaticamente mi sporsi ad afferrarla, ma si ritrasse. Bruciava come il veleno di vampiro. «Se vuoi ti medico io, magari non c’è bisogno di Carlisle, ti prego Bella, fatti aiutare».

Sussultò, singhiozzò, e sollevò gli occhi su di me. Era pallore, morte, e sangue, come quello iniettato nei suoi occhi vuoti. Che ne era della donna che amavo? Che me ne aveva lasciato, se non brandelli di anima dopo averla lacerata? «No… non mi toccare…».

«Bella».

Se avessi saputo che, per molto tempo, quella sarebbe stata la sua ultima parola, e che non avrebbe più voluto vivere, probabilmente non sarei sopravvissuto al dolore. Ma fortunatamente, vampiri o no, spesso il futuro preferisce nascondersi.

«No».

Bruciava più che il veleno di vampiro.

 

Giorno 4: 4 Settembre. Quattro giorni dopo, non abbastanza perché le condizioni di Bella siano migliorate. Siamo ancora nelle prime fasi, le peggiori.

 

Mi accampai sotto un albero abbastanza grande perché potessi rimanere asciutto. Non che mi importasse qualcosa di bagnarmi o meno, ma non avrei voluto entrare in camera fradicio, rischiando - qualora avesse voluto anche solo toccarmi - di bagnarla.

Sospirai, facendo entrare e uscire l’aria umida nei polmoni. Mi sentivo davvero vuoto.

Avevo creduto di essere morto quando Jacob me l’aveva portata via, ma non avevo fatto i conti con quello che mi aspettava dopo. Come avrei potuto immaginare, d’altronde, che il mio amore, Bella, mia moglie, si riducesse in questo stato?

Strinsi le nocche di una mano, serrando contemporaneamente i muscoli della mascella e irrigidendo il corpo. Dovevo avere fede. Era salva, e questo importava. Si sarebbe ripresa. Presto.

Temporeggiai sul ramo, aspettando prima di rientrare in casa. Mi era sembrato assurdo che dovessi uscire mentre mia sorella medicava mia moglie in bagno. E non solo perché ardevo fra il terrore e il desiderio di sapere cosa le avesse fatto quel mostro, ma anche perché era dannatamente ed egoisticamente arrabbiato dal fatto che Bella avesse scelto lei. Rosalie. Aveva scelto mia sorella Rosalie anziché me, per fidarsi.

E invece io avrei potuto curarla, vezzeggiarla, parlarle, accarezzarla…

Se solo me l’avesse permesso.

Rose diceva che era proprio il contrario. Era perché l’aveva sempre trattata freddamente, perché con lei non aveva nulla da perdere, che non si vergognava. Con me, invece…

Non è semplice vergogna, Edward. Fa così male da non riuscire a respirare. A vivere. Così aveva detto. Da ritenere di non meritare neppure di mangiare. Figurarsi il mio amore.

Ma l’avrei anche volentieri stretto in un minuscolo cassettino, questo mio amore, se avesse significato che poteva concedermi almeno di sfiorarla un attimo…

«Chiama qualcuno, chiama Esme!» gridò la voce agitata di Rose, oltre il bosco.

Mi drizzai immediatamente, balzando giù dal ramo. E cominciai a correre.

«Ma cosa…? Che succede?» domandò sorpreso mio padre.

«Non lo so, lei… Dobbiamo rimanere calmi, va bene? Calmi».

E correre, correre, e correre.

 

«Cosa diavolo è successo? Dimmi, cosa diavolo è successo!» sbraitai, urlando contro mia sorella.

Restò ferma nella sua posizione, senza farsi intimorire. «Te l’ho già detto, Edward. Smettila di minacciarmi. Ero solo andata a prenderle un po’ d’acqua e si è chiusa là dentro. Mi sono allontanata solo un secondo».

Ansimai di rabbia, la vista accecata di rosso. «E spiegami, perché, dannazione, è ancora lì dentro!» urlai, indicando con un dito la porta del bagno chiusa dentro cui si era barricata mia moglie.

Prese un respiro secco, come se così avrebbe calmato anche me. Illusa. «Non possiamo costringerla ad uscire. È contro ogni passo che ho cercato di fare con lei in questi giorni» sibilò, a voce bassa in modo che non potesse udire «le ho detto che era libera. Se ora la obbligassi, perderei ogni cosa».

Strinsi i denti, angosciato. «Non mi sembra che tu abbia fatto molti progressi, eh Rose?».

«Ragazzi, calmiamoci» intervenne Carlisle, mettendosi fra di noi. «Ora l’importante è convincerla ad uscire di lì. Non litigate».

Mi voltai nella sua direzione, infuriato. «Non è questo l’importante, no! L’importante è distruggere quella dannata porta e tirarla fuori di lì, perché io non so, davvero, cos’hai lì dentro, ma non credo che manchino lame e siringhe» ansimai, rabbioso.

Uno strano silenzio calò nella stanza. Due secondi. Stavo per distruggere la porta quando sentii dei suoni. Dei singhiozzi.

Presi un respiro, chiudendo gli occhi. Liberai tutta l’aria che avevo conservato nei polmoni e mi avvicinai alla porta del bagno. Mia sorella mi posò una mano su un braccio, ma me ne liberai con un movimento secco. 

Posai la mano sulla porta. E bussai. «Bella. Amore» la chiamai, alzando appena la voce. Ancora singhiozzi. «Amore, vorresti uscire di lì, per favore?». Per un attimo si fermò, per ricominciare. Sospirai, lasciandomi scivolare contro il legno. «Va tutto bene, è chiaro? Va tutto bene. Sono qui, sono qui per te. Va tutto bene».

La sentii respirare più forte, e poi il suono delle sue mani contro le piastrelle. Si stava spostando. Animato di speranza tesi l’orecchio ad aspettare che si avvicinasse ancora. Ma si bloccò, urtando contro qualcosa. Ansimai, terrorizzato, pronto a distruggere quella porta che ci separava e salvarla. Meglio una moglie muta che morta.

Due secondi dopo sentii l’inconfondibile suono dei conati filtrare dalla porta per giungere nitidamente a me, misti all’odore acre che si spandeva per la stanza.

Feci per sollevarmi ed entrare e aprii la bocca per parlare, ma mia sorella Rose mi bloccò, mettendomi una mano sulla bocca. Si portò un dito alle labbra, intimandomi di tacere.

La fissai, irato. «Fai silenzio, ora. Aspetta che finisca. Se le parli adesso non otterrai nulla, tranne che farla stare male. È vulnerabile. Si sente in colpa. Aspetta…» m’intimò, sollevando lo sguardo verso la porta «…qualche secondo» pensò, e poi tolse la mano che aveva tenuto premuta sulle mie labbra.

Deglutii, non sentendo più i conati far vibrare l’aria. «Vuoi uscire per favore, Bella? Ti sto aspettando. Vorrei che venissi qui con me. Puoi uscire?» domandai speranzoso, la voce ora venata da un lieve tremito.

La sentii ancora muoversi nella mia direzione. Si era sollevata in piedi. Feci lo stesso, aspettando agitato appena dietro la porta. Girò la chiave nella serratura. La maniglia si abbassò, mentre i miei occhi erano diretti in quelli di mia moglie.

Era pallida, smunta. I capelli, che Rose aveva convinto a lavare, erano disordinati e avevano assunto la forma del cuscino sulla nuca. Risaltavano così scuri, gli occhi, sul volto pallido.

Sospirai, sollevato. Era viva. Per essere stato così tanto tempo a mettere in dubbio qualcosa di così basilare come la sua vita, ora non potevo non sorridere appena la vedevo. E così feci.

Due lacrime, una per occhio, scesero lungo le sue guance, il viso ancora nascosto in parte dalla porta che teneva semi-aperta.

Il sorriso vacillò per un attimo. Un attimo. L’attimo in cui mi ripetei che mia moglie era viva, e che tutto sarebbe comunque andato per il meglio. «Vuoi tornare a letto? Sei stanca?» domandai con dolcezza, non osando neppure toccarla, nonostante uno dei miei più grandi desideri fosse quello di sfiorarle una lacrima.

Piano, annuì, senza staccare gli occhi dai miei. Aprì un po’ di più la porta, quanto bastasse per lasciare scivolare il suo corpo esile. Osservò, fuggevole, mia sorella e mio padre, in piedi nella stanza, abbassando immediatamente lo sguardo. Camminavo accanto a lei, pronto, in ogni secondo, al momento in cui mi avrebbe concesso di toccarla. Di iniziare ad aiutarla.

Dopo tre passi si fermò. Impallidì e tremò, vacillando.

Mi feci avanti, ansioso. «Ce la fai? Se non riesci a camminare ti posso prendere io, ti posso portare a letto… solo un secondo, il tempo di…».

Scosse il capo, lasciando cadere altre lacrime, ferma sul posto e tremante.

«Ma solo per…» soffiai, senza staccare gli occhi dalla sua guancia bagnata.

Rose si avvicinò in un secondo, tenendole la mano. «Vieni qui, Bella. Ti porto io. Non ti stancare, potresti riaprire le ferite» disse, e con un movimento fluido la prese fra la braccia.

Non si mosse. Rimase ferma, composta, gli occhi bassi, senza lasciarsi andare contro il petto di mia sorella.

Oh… avrei così tanto voluto poter piangere anch’io.

Mi avvicinai al suo letto. Si era rannicchiata, al centro. Tirai un sospiro, sorrisi, e sollevai le coperte fino a coprirla completamente. Senza nemmeno sfiorarla, come mi aveva chiesto.

Feci per chinarmi e baciarle la fronte, ma mi bloccai, a soli pochi millimetri di distanza.

«Ti amo» sussurrai invece, e capii, dallo sguardo nei suoi occhi, che mi aveva sentito.

 

 

 

Eccoci qui!

Spero tanto che vi sia piaciuto, l’ho scritto col cuore.

Solo un’altra piccola cosa: io e tsukinoshippo stiamo scrivendo una specie di quattro mani.

The Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

Un bacio a tutte, a presto,

Chicca.

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Capitolo 2
*** Extra 1. Parte 2/3. ***


Giorno 6: 6 Settembre. Bella ricomincia a parlare (corrisponde al capitolo 30 “Fra le sue braccia”).

 

«Edward».

Quel sussurro aveva squarciato il silenzio. No, non poteva essere. Era un’illusione della mia mente quella che richiamava il suono della voce di mia moglie. Così basso, flebile, così lontano…

Mi bastò un secondo, chiudendo gli occhi, per vedere l’immagine del suo corpo riverso al suolo, un denso rivolo di sangue e colarle fra le braccia. Gli occhi, vitrei, quasi neri, impressi nell’ultima immagine prima della morte. Quello che poche ore prima aveva visto mia sorella Alice. Il suo suicidio.

Come poteva essere così disperata da pensare di porre fine alla sua vita?

Ansimai, spostandomi nella stanza sfidando le leggi del tempo. I suoi occhi, ora, marroni, mi guardavano. Era vigile. «B…Bella…» balbettai, incredulo. «Tu… tu mi hai…chiamato?».

Ma le sua pupille erano fisse e ferme, e in alcun modo lasciavano presagire che avrebbe risposto. Che dovessi fidarmi di Carlisle? Mandarla da uno psichiatra? Sentii un brivido di dolore al solo pensiero. Dov’era finita la mia Bella?

In quell’istante, come a rispondermi, mosse il capo, annuendo.

Ansimai, sgomento, stupendomi che no, non c’erano lacrime di gioia a scendere sul mio viso. Portai una mano tremante alla bocca, avvicinando l’altra al suo viso, pur senza osare toccarla. «Hai bisogno di qualcosa, c’è qualche problema amore? Dimmi, tutto quello che vuoi…» sussurrai velocemente, agitato, pronto a darle qualunque cosa. Mi chinai al suo fianco, inginocchiandomi sul pavimento, scrutando il suo sguardo sempre più stanco. Aspettavo di sentire anche il più debole fremito frusciare dalle sue labbra. L’osservai, scrutando nel suo viso il motivo del suo sussurro. «Che hai tesoro?» domandai ancora, tormentandomi per ricevere una risposta. «Bella…».

Chiuse e aprii le palpebre, facendo incontrare i suoi occhi nei miei. E parlò. Ancora. Un flebile sussurro: «…sonno…».

Ansimai, non riuscendo neppure ad articolare una parola per la gioia che provavo. «Hai sonno? Non riesci a dormire?».

Scosse il capo, e l’odore umido delle lacrime si diffuse nella stanza.

Le sorrisi tristemente, promettendole che l’avrei aiutata a dormire. Ma quando feci il nome di Carlisle la sua espressione divenne più cupa e spaventata. Fu quando sollevò una mano per sfiorare la mia, che capii che voleva solo me. Fu in quel momento che, preso da un’euforia pari solo a quello in cui avevo scoperto il mio amore per lei, commisi un grave errore di valutazione. Decisi che, se mia moglie aveva bisogno solo di me, le avrei dato solo me.

Attento a non turbarla, rannicchiata com’era nel grande letto, scostai appena la manica della sua vestaglia. Strofinai con delicatezza il batuffolo con il cotone idrofilo sulla sua pelle bianca. Non potevano tremarmi le mani, ero un vampiro. Ma in quel momento quasi non riuscivo a tenere dritta la siringa senza romperla. Ripassai in un attimo, nella mente, tutti i consigli di genere teorico su come eseguire al meglio un’iniezione, e vagliai velocemente tutte le esercitazioni fatte su arance e cuscini durante il mio praticantato in medicina.

Sospirai, e inclinando l’ago lasciai che le pungesse la pelle.

Immediatamente scostò il braccio, disegnandosi una linea rossa sulla pelle.

«Bella…» la chiamai sgomento.

Si era sollevata in piedi, lasciando cadere, scomposte, le coperte. I suoi occhi erano spaventati, spiritati. Il cuore le batteva velocissimo nel petto, il fiato le usciva ad ansiti. Era terrorizzata, come mai l’avevo vista.

«Scusami… Non volevo spaventarti…» sussurrai.

Fece un passo indietro, guardandomi come se fossi una minaccia.

Deglutii, e posai, senza mai smettere di guardarla, la siringa. Sollevai le mani perché… non avesse paura di me. Spezzato in due dal dolore mi avvicinai a lei, pur vedendola indietreggiare verso il muro. Non c’era più, allora, nessuna speranza?

Strillò appena il calorifero le sfiorò un braccio. E strillando il suo terrore si fece più vivo e forte. Crollò a terra, prendendosi la testa fra le mani.

In un attimo ero davanti a lei, intento a rassicurarla. Intento a sorridere. Intento a dimostrarle il mio amore, malgrado dentro sentissi solo dolore e paura.

«Non sono pazza…» farfugliò fra le labbra, gli occhi sgranati e persi.

Il suo sussurro sinistro mi fece fremere. «Nessuno pensa questa Bella, davvero…».

Singhiozzò, gli occhi pieni di lacrime, le mani strette contro le braccia. Scosse il capo, dondolandosi avanti e indietro e sussurrando parole sconnesse. Premendo le unghie contro la carne.

Non ci riuscivo. Non riuscivo ad essere suo marito. La mia fede, il mio impegno, il mio amore, erano stati piagati tutti dal dolore e distorti dalla pazzia. Forse perché non ero abbastanza capace. Forse perché, proprio come pensavano i miei familiari, pur senza osare dirmelo, per Bella ormai era troppo tardi. Cosa mi stava succedendo? Cosa mi rimaneva?

Niente.

«Smettila!» sibilai, in un moto di dolore e rabbia.

Le sue unghie si infilarono sotto la pelle, lacerandola.

Non toccarla. «Basta Bella, ti prego! Smettila, smettila!».

«Sporca… sono sporca… non sono pazza… non lo amo… chi è?... non può farlo, no… sono sporca». Il sangue scivolò lungo gli avambracci in rivoli rossi.

Non puoi toccarla. «Smettila, Bella!».

«È così sporca… non puoi toccarla… è pazza… dove sta andando?... la voce… non sente la voce… non parla… Bella…».

«Basta!».

Toccala. Afferrai entrambi i polsi, sollevandola di peso e schiacciandola contro il muro. Mi sembrava insieme di ricominciare a respirare e morire.

Sgranò gli occhi, sgomenta, e annaspò. Il sangue, cremisi, scivolava in rivoli dai numerosi tagli sugli avambracci. Urlò, dibattendosi come una forsennata per liberarsi dalla mia presa, sbattendo con le gambe e la testa contro la parete. Deglutii il dolore, ricacciandolo indietro.

«Carlisle!» gridai, quando la porta della stanza si aprì. «Sul letto!» esclamai, lasciando che i suoi occhi incontrassero la siringa posata sulle lenzuola.

«Che diavolo è successo?» pensava la sua mente. Cacciai via Jasper, prima che si avventasse sulle braccia escoriate di mia moglie.

Strinsi le labbra, chiudendo la mente. «Ti lascio Bella, ti lascio. Calmati» le sussurrai, sapendo, comunque, che non mi stava ascoltando. Sollevai un suo braccio e lo distesi lungo la parete, lasciando che il rosso del sangue la macchiasse. Rosalie entrò nella stanza, e le sue parole coprivano appena il suono delle urla di mia moglie. L’ago penetrò nella sua carne.

Spostai lo sguardo negli occhi persi di Bella. In pochi secondi la sua debolissima forza si annullò. I suoi movimenti si fermarono, i suoi occhi divennero più chiari. Il suo viso pallido, incorniciato da ciocche di capelli appicciati dal sudore, si rilassò.

Allentai la presa sui suoi polsi.

Cadde contro il mio petto. Il suo capo sulla mia spalla, le mie braccia a circondare il suo corpo.

«Ti amo» sussurrò, dunque svenne.

Mi lasciai andare sul pavimento, stringendola a me. E piansi, singhiozzi asciutti e secchi, senza acqua a sfogare il mio dolore, ma piansi, scuotendo il mio e il suo corpo insieme, senza lasciare che nessuno, nessuno, potesse separarci.

Carlisle le ricuciva la pelle delle braccia mentre la tenevo stretta al mio grembo. Le tenevo il polso, distendendo l’avambraccio. La ricuciva, con ago e filo. Sorrisi, un sorriso stanco e folle, pensando a come la volessi ricucire con il mio amore.

Se ci fu un momento in cui avevo dubitato del mio compito accanto a lei, un momento in cui mi ero sentito vacillare, in cui avevo pensato di cedere, quel momento c’era stato proprio quel giorno. Il giorno in cui avevo pensato che l’unica cura possibile per mia moglie fosse uno psichiatra.

Poche ore dopo, mentre mio padre faceva frusciare il filo sintetico fra la sua pelle, sorridevo. Se mia moglie era folle, lo sarei stato con lei. Perché mi amava.

 

Giorno 9: 9 Settembre.

 

«È tranquilla?» domandai, ravvivando i capelli scomposti per la pioggia. Sfilai il soprabito, posando i biscotti che avevo appena preso per Bella. Speravo di invogliarla a mangiare qualcosa.

Rosalie annuì. «È rimasta lì da quando te ne sei andato. All’inizio ho provato a convincerla a venire via, ma credo che si sentisse al sicuro» mormorò sottovoce.

Feci una smorfia, osservando alle sue spalle. «Rose, non sono convinto della tua idea di farci separare, anche per poco tempo. Lo sai che si comporta in questo modo per questo motivo».

Mia sorella spostò il peso su entrambi i piedi, in modo da sembrare più alta. «Edward, ti rendi conto che per lei non è salutare sviluppare attaccamenti malsani? Inoltre ti sei assentato solo per poco, e per andare a prendere dei biscotti che potrebbe mangiare più di buon grado sapendo che sei andato a prendere personalmente».

«Non penso che proprio adesso dobbiamo preoccuparci di questo». Scossi il capo, sospirando. «Fammela tirare fuori di lì», dissi, arrotolando sui gomiti le maniche della camicia.

Mia sorella mi bloccò, osservandomi incerta. Diresse un’occhiata alle sue spalle. «Senti, Ed… ho preparato i suoi tranquillanti, prima non voleva prenderli, e… in caso servisse, ho pronta una siringa» sussurrò eloquentemente.

Premetti le labbra una contro l’altra, biasimando mia sorella per non avermi detto immediatamente quanto grave fosse la situazione.

«Lasciaci soli» dissi, avvicinandomi al baldacchino. Mia sorella si era già chiusa la porta alle spalle quando mi chinai sulle ginocchia, osservando sotto il letto. «Guarda chi c’è qui» sorrisi, guardando mia moglie.

Pareva tranquilla, anche se molto silenziosa. Aveva piegato una mano sotto la testa e una sul ventre.

Le tesi una mano «Vuoi venire fuori? Ti ho comprato i tuoi biscotti preferiti. Sono andato personalmente».

Scosse il capo, senza muoversi altrimenti.

Inclinai il mio da un lato, osservandola meglio. «Perché no?».

Chiuse e aprì gli occhi, poi abbassò lo sguardo sul lembo di moquette accanto a lei. Si allontanò appena, e batté la mano minuta contro il pavimento, invitandomi a raggiungerla. Sospirai, e mi lasciai scivolare sotto al letto, accanto a lei. Adesso i nostri respiri si confondevano. Lasciò che le carezzassi appena il viso, sistemandole i capelli.

«Sono al sicuro qui» sussurrò a bassa voce, come se avesse paura di farsi udire da qualcuno.

«Al sicuro?» chiesi, perplesso. «Sei sempre al sicuro».

Abbassò lo sguardo, prendendo a giocare con un’asola della mia camicia. «Sono al sicuro quando sono con te. Ma non preoccuparti per me. Quando non ci sei… posso trovare un posto sicuro» sollevò il viso, e mi sorrise, come una bambina. Una bambina appena rimasta orfana di entrambi i genitori. «È sicuro, qui» mormorò, gli occhi brillanti.

Sorrisi a mia volta, ignorando il peso che mi stringeva la gola. Le baciai la fronte, per darmi il tempo di parlare senza che la voce mi tremasse. «Puoi stare in ogni posto, e sei il sicuro. La prossima volta potresti stare in compagnia di Rose. Anche con lei è sicuro. Che ne dici?».

I suoi occhi si fecero più tristi e spaventati. «È troppo aperto lassù» ansimò, serrando le palpebre «è tutto così aperto… non posso proteggermi, non posso vedere arrivare nessuno… sono troppo veloci… sono… sono…».

«Shh…» mormorai, stringendola fra le braccia per impedirle di tremare ancora. «Va bene, va bene, shh… non c’è nessuno da cui ti devi proteggere» la rassicurai, «nessuno».

«Ho paura» fremette, gli occhi grandi e spalancati dal terrore. Strinse una mano contro la manica della mia camicia. «Ho paura, ho paura».

Strinsi le labbra. Ci voleva solo calma. Non era la prima volta che mi trovavo a fronteggiare una situazione simile. Quando aveva ripreso a parlarmi, avevo pensato che tutto si sarebbe ormai risolto. Non avevo previsto neppure questo. Ma ero di fede forte, e determinato a portare in salvo mia moglie e tenere fede ai miei doveri coniugali. In salute e in malattia, nella gioia e nel dolore…

«Amore» la chiamai, lasciando che i suoi occhi spaventati si spostassero su di me «devi prendere le medicine, va bene?» le sussurrai dolcemente «le medicine ti aiutano a capire che la paura non è vera. Che non c’è motivo di averne. Per questo devi prenderle, va bene?».

Tremò, aprendo e chiudendo la bocca. Si aggrappò a me con entrambe le mani. Aveva gli occhi lucidi, e sudava. «Non posso. M-mi sento male».

Corrugai la fronte, carezzandole una guancia. «Cos’hai?» chiesi, avvicinandomi per posare le labbra contro la sua fronte, per sentire la sua temperatura. Tutti i miei sensi si stavano allertando per cogliere dettagli che non avevo precedentemente notato.

Le sue dita tremanti e bianche si posarono contro le mie labbra. Posò l’altra mano sulle sue, scuotendo il capo.

Sospirai, tirandomi fuori dal letto e portandola con me. Si aggrappò alle mie spalle, lasciando che la prendessi fra le braccia. La strinsi a me, e respirai il suo odore. La sua costante nausea era diventata qualcosa con cui convivevamo. Il problema era che lo accettasse, e non, piuttosto, che ce lo nascondesse come una vergogna.

L’adagiai sul pavimento del bagno, spostando il tappeto in modo che le ginocchia non fossero a contatto con le piastrelle. Le sollevai i capelli, carezzandole con l’altra mano lo stomaco e intanto sorreggendola. Il suo viso assunse più volte tonalità vicine al verde e al grigio, mentre rimaneva ferma, le mani posate sui bordi del water.

Deglutì, agitata. «Mi dispiace… non… mi sento male, ma non ci riesco…».

«Shh» mormorai al suo orecchio, «tranquilla, non ti agitare. Prenditi il tempo che vuoi. Guarda» feci, sollevandomi appena sul lavabo per prendere un gancio per capelli, «mettiamo questo qui, così posso tenerti» feci, sistemandole i capelli in una crocchia. Magari avrei dovuto imparare a fare di meglio. La presi fra le braccia, sedendomi sul pavimento, la schiena contro il muro. Posò il capo contro il mio petto, stringendo una mano sulla mia camicia. «Ma guarda come sei carina, così…» le sussurrai, sfiorandole una ciocca e cullandola appena.

Sorrise, contro il mio petto.

Le strofinai la schiena con una mano. «Se vuoi possiamo andare in camera. Puoi metterti a letto e prendiamo una bacinella…».

Scosse il capo, facendosi più piccola fra le mie braccia. «Voglio rimanere qui» ansimò spaventata.

Annuii, baciandole il capo. «Va bene, va bene. Rimaniamo qui» la rassicurai, stringendola.

Rimase in silenzio per qualche istante. La fronte era imperlata da qualche gocciolina di sudore. Volevo chiedere a Carlisle che trovasse un modo per risolvere questa nausea. Se non fosse migliorata entro breve l’avrei probabilmente chiamato.

«Non voglio prendere le medicine» sussurrò dopo un po’. Respirò piano contro il mio petto. «Rose dice che mi fanno venire la nausea. Non voglio prendere le medicine, e… non voglio questo».

Le strinsi il capo con una mano. «Tesoro, non credo che dipenda completamente dalle medicine, va bene? Anzi, credo che le medicine ti facciano bene, in questo caso. Vorrei che le prendessi, e provassi a dirmi se stai meglio. E vorrei che mi dicessi sempre quando stai male, così possiamo capire cosa possiamo fare per aiutarti».

Non rispose. Si sollevò di scatto dalle mie braccia, aggrappandosi al bordo del water e vomitando lo scarso contenuto del suo stomaco. Le sostenni la fronte, tenendola anche per l’addome. La tosse convulsa la scuoteva, e le lacrime le colavano dagli occhi alle guance per lo sforzo.

Sollevò una mano solo per aggrapparsi alla mia camicia. «E-ed…» farfugliò fra i conati.

«Shh, shh, lo so. Va tutto bene. Adesso sale Carlisle, okay? Voglio solo chiedergli qualcosa». Mi strinse più forte, aggiungendo i singhiozzi ai conati. «No, no, va tutto bene. Va tutto bene tesoro, tutto bene» la rassicurai.

Le passai un’asciugamani, pulendole il volto e la bocca. Le presi le mani con le mie. Teneva il viso basso, ancora bagnato e pallido. Lasciava che le sistemassi le maniche del pigiama e che le aggiustassi i capelli senza muoversi.

Le carezzai la tempia. «Carlisle» chiamai, il tono abbastanza alto perché potesse udirmi. Lo sentivo, sapevo che era di sotto. «Potresti venire qui, per favore?».

Abbassai il viso per intercettare lo sguardo di Bella. Le sorrisi, e me la sistemai sulle ginocchia, assicurandomi il suo capo sul petto con una mano. Mi sedetti sul bordo della vasca.

Mio padre bussò alla porta. Bella tremò. «Entra» lo chiamai.

Scivolò dentro, chiudendosi la porta alle spalle. Ci osservava cauto.

«Credo che» cominciai, accarezzandola «credo che Bella abbia bisogno di te. Ha paura che la sua nausea sia dovuta ai farmaci che assume».

Carlisle cercò il mio sguardo, poi annuì. «Beh, Bella» cominciò, pur senza avere l’attenzione di mia moglie, rannicchiata contro il mio petto, «potrebbe essere dovuto ai farmaci, ma anche al fatto di non assumerli. Quello che provo a dirti è che stare calma e pensare lucidamente ti aiuterebbe sicuramente a combattere episodi come questo».

Bella gemette, strizzando gli occhi. «Voglio andare in camera» mi supplicò, premendo una mano contro il mio petto «mi sento male. Voglio andare in camera».

Sospirai, annuendo alla volta di mio padre. La sollevai fra le mie braccia. Era leggerissima, come carta. Aveva perso peso in questi giorni, ma non avevo il cuore di insistere per farle mangiare i biscotti che le avevo appena comprato. Quando tornammo in camera c’era anche Rose ad attenderci: stava sistemando le coperte in modo che potessi far stendere Bella. Ma quando arrivò il tempo di lasciarla andare si aggrappò con tutta la sua minuscola forza alla mia camicia, scuotendo il capo.

«Bella, vieni qui sul letto. Carlisle ti deve visitare» la chiamò Rose.

Di tutta risposta scosse il capo con più forza, il viso nascosto nella mia camicia.

«Bella, avanti. Per favore, non fare i capricci. Sai anche tu che non vuoi stare male. Vieni qui».

Tremò, rannicchiandosi con le ginocchia fra le mie braccia. L’umido delle sue lacrime mi stava bagnando la camicia, lo sentivo perfettamente. Sospirai. Poi sorrisi, baciandole la fronte. Per andare avanti apprezzavo quello che avevo conquistato, checché ne dicesse Rose: mia moglie mi chiedeva il suo aiuto. E magari lo faceva in maniera insana e disperata, ma io, dal canto mio, non potevo che esserne contento.

«Lasciala stare, Rose. Bella rimarrà con me, ma si farà visitare comunque da Carlisle» feci, eloquentemente, sottolineando il compromesso che avevo trovato.

Rose serrò la mascella. «Per favore, Edward. La prossima volta che vorrai fare di testa tua dimmelo prima» sbottò, pensando che stessi facendo, col mio modo di fare, più passi indietro che avanti.

Il senso di colpa durò per un attimo. Quello in cui Bella non fece niente per opporsi a quanto avevo appena detto. Carlisle si avvicinò. Provai a tenerla quanto più dritta possibile, nonostante si ostinasse a nascondere il suo volto sul mio petto. Le tastò l’addome, causandole appena un fremito.

«Sei stata male prima, Bella? Hai altri sintomi?» le chiese.

Ma era inutile parlarle, perché non avrebbe risposto, neppure sotto la spinta dei ragionamenti logici di Rosalie. Sapevo che per quel giorno era ormai troppo spossata e stanca per poter dar retta a qualcuno.

Quando Rose insistette per farsi dire qualcosa, feci lo stupido errore di mettermi dalla sua parte, spronandola anch’io a parlare. Scoppiò a piangere, e si allontanò bruscamente dalle mie braccia, rifugiandosi, in singhiozzi, sotto le coperte.

Rose strinse le labbra. Questa situazione le piaceva davvero poco. «Avanti, Bella. Non fare la bambina. Esci da quelle coperte».

Non le rispose neppure, continuando a piangere più forte di prima.

«Edward, non penso che abbia davvero qualcosa» mi richiamò mio padre con i suoi pensieri «possiamo cambiare il tipo di tranquillanti, ma preferirei prima che assumesse quelli che le ho prescritto».

Rose incrociò le braccia, richiamandola. «Stai facendo la pazza, te ne rendi conto? Non è un comportamento maturo. Avanti, tesoro. Vieni fuori. Lo so che hai paura, ma adesso ti aiutiamo».

Osservai desolato la scena, lasciando che i pensieri di mio padre mi invadessero di nuovo la mente. «Se starà male li cambieremo. Ma io credo sia tutto dovuto alla sua ansia. Deve calmarsi, e starà bene. E in questo i tranquillanti la aiutano».

Annuii, seppur malvolentieri. Vedere mia moglie drogata, anestetizzata, privata della sua grinta, era come vivere con l’amaro in bocca.

«Bella, avanti!» gridò Rose, strattonando appena le coperte.

Dopo tre secondi i singhiozzi si fermarono, lasciando il silenzio. Assoluto. «Dannazione!» sbottai, lanciando per aria le coperte. «Dannazione, dannazione!» ripetei agitato, stringendo il volto di mia moglie, teso in una smorfia di soffocamento. «Respira! Respira!» le intimai, scuotendola per far passare più che rantoli dalla sua bocca.

«Edward, ho la siringa pronta!» mi chiamò Rosalie, cercando nel cassetto.

«Lasciaci in pace Rose! Accidenti!» proruppi, osservando agitato il viso di mia moglie «lei ce la fa. Ce la fai a respirare, va bene? Ce la fai. È solo la tua testa che ti dice il contrario» le intimai.

Sgranava gli occhi, affannandosi per portare le mani alla gola.

Mio padre mi venne vicino, prendendole un polso fra le dita. «La saturazione d’ossigeno sta scendendo».

«Edward, falle questa dannata iniezione!».

«No… no, n-no» biascicò terrorizzata fra le labbra.

«No» ripetei, scuotendo il capo «no, no» feci, prendendola fra le braccia per farla stare dritta con la schiena. «Rose, passami il bicchiere con le gocce. Avanti. Passamelo».

Perplessa mia sorella fece come le dicevo. Sollevai il mento di mia moglie, mettendole con l’altra mano il bordo del bicchiere fra le labbra. Tremando, ne prese appena un sorso, tossicchiando subito dopo. «Shh» la rassicurai, riavvicinandole il bicchiere alle labbra «bevi, bevi. Va tutto bene. Bevi, avanti» la incoraggiai, facendole prendere piccoli sorsi, finché il bicchiere non fu vuoto.

Si tenne stretta a me per qualche minuto, tremando, finché il cuore non frenò i suoi battiti e il respiro non divenne nuovamente regolare. Il suo corpo diventava più freddo. Quando lasciò cadere la testa nella mia direzione seppi che i tranquillanti avevano ormai fatto effetto.

Le sorrisi, provando a mascherare il terrore che provavo nel vederla così sedata.

Batté le palpebre, sfregando il viso contro la mia camicia. Mosse le labbra, umettandole. «Acqua…» biascicò, chiudendo gli occhi.

«Certo» mormorai. La sollevai, sistemandola sotto le coperte, la schiena sollevata dai cuscini. Le tenni la mano, rispondendo alla sua debole presa, mentre le versavo un bicchiere d’acqua. Glielo sistemai sulle labbra, invitandola a bere. «Vuoi mangiare qualcosa?» le domandai quando ebbe finito.

Mi osservò, come se non avesse capito la domanda che le avevo appena fatto. I capelli si aprivano a ventaglio sul cuscino bianco, le ampie maniche della vestaglia, verde pallido, sfregavano contro le lenzuola. «Mangiare…» sussurrò.

Annuii, sentendo le labbra tremare. Dov’era mia moglie?

«Biscotti» sussurrò. Sorrise. «Voglio i tuoi biscotti».

Lì, da qualche parte, dietro la paura e le medicine.

 

 

 

 

Ciao ragazze.

Sono davvero orgogliosa di questo pezzetto (mi riferisco in particolare all’ultimo). Amo fare piccole esplorazioni nella mente di Edward, è sempre un tanto caro ragazzo ;). E amo davvero il tema della follia (forse dovrei pensare di fare psichiatria xD).

Sono una perdigiorno, e devo finire l’ultimo pezzo di questo primo extra prima di pubblicarlo… vedo che posso fare! Vi do l’autorizzazione a torturarmi e farmi sentire in colpa finché non l’avrò pubblicato!

 

Prima di lasciarvi rinnovo l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani scritta con tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama The Woodmore Sisters. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Spero di riscrivervi presto! Un bacione,

Chicca.

 

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Capitolo 3
*** Extra 1. Parte 3/3. ***


Giorno 13: 13 Settembre. Compleanno di Bella.

 

«Hai freddo?» le domandai, provando inutilmente a darle calore sfregandole un braccio.

Sorrise, strofinando il viso contro il mio petto. Camminavamo nel giardino di casa Cullen. «No… sto così bene» sussurrò beata. Lo sapevo, me n’ero accorto. Avevo notato come il freddo riuscisse in poco tempo a farla stare meglio. Rose diceva che era legato al suo trauma, che poteva aver, durante la sua prigionia, legato il concetto del freddo a quello della sua famiglia. A me.

Non era semplice farle fare gli esercizi. Sapevo di sbagliare, ma spesso e volentieri mi schieravo dalla parte di Bella contro mia sorella, anziché spingerla a fare e dire di più. Ma mi sembrava così fragile, troppo.

«Ci sediamo un po’?» domandò, scrutandomi.

Le sorrisi. «Certo. Sei stanca?».

Scrollò le spalle. «Un po’».

La osservai attentamente. «Vuoi rientrare in casa? Sederti? Non c’è niente di male…».

«No, no» si oppose, la voce flebile e gli occhi puntanti sull’erba. «Voglio rimanere qui, per favore».

Sospirai, prendendola per mano. «Certo, come vuoi» mormorai, portandola vicino a un albero, dimodoché potessimo stare comodi. Le passai la mia giacca, e, nonostante le proteste, la convinsi ad indossarla. Intrecciai le mie dita con le sue, accarezzandole il dorso della mano. La sua schiena calda era premuta contro il mio petto, e la sua testa abbandonata sulla mia clavicola. 

«Edward» mi chiamò, facendo frusciare la sua voce insieme al vento.

Le accarezzai i capelli, con dolcezza, senza alcuna malizia. «Sì?» domandai piano.

Sospirò, adagiandosi completamente al mio corpo. «Hai mai avuto un incubo che ti ha fatto davvero paura?» domandò in un sussurro.

Battei le palpebre, preso in contropiede e preoccupato per la sua domanda.

Si sollevò un poco, più rigida nella sua posizione. «È che… intendevo quando eri a-ancora umano, io…».

Le bloccai le spalle, sistemandole meglio addosso la giacca. Mi costrinsi a pensare velocemente, e nel giro di pochi secondi capii che voleva avere un’opportunità di confrontarsi a aprirsi, e che era importante che capisse che i suoi sentimenti e le sue paure non erano innaturali e assurdi. «Non ricordo incubi del mio periodo umano. Ma da quando sono diventato un vampiro ho sperimentato qualcosa di strano, di nuovo. Ricordi quando ti dissi che per uno di noi è difficilissimo cambiare?».

Annuì incerta, senza voltarsi a guardarmi.

«Diciamo che…» temporeggiai, pensando alle parole più adatte «diciamo che cambiare richiede che la mente rifletta su sé stessa, e questo richiede il sogno. Ecco. Io sono cambiato quando ti ho vista. E come un lampo ad occhi aperti ho avuto il peggiore degli incubi: la tua morte, e per mano mia».

Rimase in silenzio, e dopo qualche secondo i suoi muscoli si sciolsero. Si voltò, accoccolandosi sul mio grembo. «Hai avuto paura?».

Le accarezzai i capelli, pensando a quali emozioni potessimo aver provato entrambi, a qualcosa che la facesse sentire rassicurata, “normale”, e la spingesse ad aprirsi. «Tutti abbiamo paura, tesoro. Tutti».

Quella sera Bella, mentre stavamo festeggiando il suo compleanno, ebbe un mancamento. Il suo primo.

 

Giorno 14: In cucina con Esme.

 

«Vado un attimo di là, va bene?».

Si voltò, le mani immerse nella ciotola di farina. Annuì piano, ritornando a impastare.

Le baciai la guancia. «Sono sul divano del soggiorno».

«Mettici un po’ di latte tesoro» la invitò Esme gentilmente, porgendole la brocca. Sorrise appena, accettandola e continuando cucinare con lei. Un’ottima distrazione, avevo pensato. Ero contento di essere riuscito a trovare un modo per farla distrarre per un po’. Volevo parlare con Carlisle del suo malessere, mio padre sapeva che non mi sarei accontentato delle sue parole rassicuranti.

«E se succedesse ancora cosa faremmo?».

«Se succedesse ancora ce ne preoccuperemo, Edward» rispose con calma mio padre. «La stiamo tenendo d’occhio. Si sta riprendendo da un trauma psicologico non indifferente, non lo dimenticare».

Annuii. «Lo so, questo lo so».

Posò una mano sulla mia. «Abbi fede. Ognuno di noi farà il possibile per vederla sorridere come prima» mi rassicurò con un sorriso.

«Sì» sospirai, lasciandomi andare sulla spalliera del divano e osservando l’esile figura di mia moglie che con dei sorrisi timidi e delle piccole frasi schive ma tranquille rispondeva alle domande che le venivano fatte e interagiva con mia madre e i miei fratelli.

«Forse dovrei andare da lei».

«Vai».

«Edward» mi richiamò Alice, mentre mi avviavo verso la cucina. Aveva un cofanetto fra le mani. Le scrutai velocemente i pensieri, istintivamente, per comprendere le sue intenzioni. «Ho portato questa tela. Vorrei dipingere un po’, magari Bella vedendomi mi chiederà di farlo. Cosa ne dici?».

Esitai, titubante.

«Guarda tesoro, sta già lievitando. Ti è venuta davvero bene» sentii mia madre adulare Bella, osservando la torta che cuoceva in forno. La vidi arrossire attraverso i suoi pensieri, voltandosi poi con un piccolo sorriso sincero a impastare la glassa per la sua torta.

«È una buona idea» dissi, rispondendo a mia sorella. «Ma magari domani. Non vorrei farle troppa pressione in un unico giorno». Alice, seppur combattuta, si risolse nella mia stessa posizione. «Apprezzo quello che tutti fate, Alice, ma dobbiamo andare avanti un passo alla volta».

«Sì, un passo alla volta» concordò con un sospiro.

«Ora, se vuoi scusarmi…» la lasciai, tornando da mia moglie.

Era ancora di spalle, a impastare con delicatezza la sua glassa. Le spalle esili e più ossute dopo il recente dimagrimento si alzavano e si abbassavano al ritmo dei suoi movimenti. Movimenti che diventarono sempre più lenti, fino ad arrestarsi. Finché non posò entrambi i palmi sul bancone.

Esme si voltò a guardarmi, incerta.

Mi avvicinai con cautela, una ruga di preoccupazione fra gli occhi. «Bella…» la chiamai con delicatezza, attento a non farla spaventare.

Sussultò, e subito riprese il suo lavoro. Ma le sue mani tremavano.

Posai le mie sulle sue, bloccandole. «Bella, tesoro… va tutto bene?».

Osservai la pelle pallida del suo collo, i muscoli tesi nell’atto di deglutire. Chiuse e aprì le palpebre, e infine aumentò la presa sulle mie mani. Si voltò appena per guardarmi. «È… è solo un po’ di nausea» mormorò sottovoce, come a giustificarsi.

Presi un breve respiro. Calmo, Edward. Calmo. «Vuoi sederti?».

«No» sussurrò sottovoce «va tutto bene. È… è normale, no? Hai detto che è normale» farfugliò, sfuggendomi con lo sguardo.

Sospirai. «Sì, è normale, ma…».

Non mi fece finire che gemette, piegandosi sul bancone con una mano sullo stomaco e una sulla bocca.

«Bella» la richiamai, agitato. «Vuoi andare in bagno?».

Prese un respiro veloce. «Fuori» sibilò. Strinse i denti, staccandosi dal ripiano di marmo per allontanarsi. Posai le mani sulle sue braccia, intuendone le intenzioni, ma prima che la potessi trasportare verso l’esterno della casa mi bloccò. I suoi occhi marroni sembravano troppo grandi su quel viso così pallido. «N-non veloce» balbettò, controllando a stento il panico «non veloce Edward, ti prego».

Annuii, rapidamente, guidandola a passo umano verso l’esterno della casa. «Certo. Non veloce. Con calma».

Passarono alcuni minuti prima che tornasse a respirare normalmente. Con freddezza clinica analizzai ogni respiro tremolante e ogni gemito, ma non per questo potei impedirmi di essere enormemente angosciato. Volevo che Carlisle la visitasse, perché avevo un forte sentore che qualcosa di patologico, e non semplicemente un’emesi psicogena o gli effetti collaterali di qualche farmaco le stessero causando questi sintomi. Eppure… chiederglielo l’avrebbe portata a pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato, ne ero certo.

Strofinò il viso contro la mia spalla, ricordandomi la presenza del suo peso leggero fra le mie braccia. «Va meglio?» le chiesi con un piccolo sorriso quanto più naturale possibile.

Annuì cautamente. I suoi occhi grandi mi guardavano come se ci fossero parole che pensava, ma che non voleva dire.

«Vuoi andare di su a stenderti un po’ sul letto?».

Si morse un labbro, esitando. Abbassò il viso sul collo pallido e sudato. Stavo per incalzare, dire che non ci sarebbe stato nulla di male se avesse voluto, che non doveva preoccuparsi. «Vorrei controllare la mia torta… prima».

Ma per quanto si fosse sforzata di dimostrarsi tranquilla e rilassata notai immediatamente come la vista o chissà, l’odore di quel dolce l’avesse fatta nauseare nuovamente.

«Bella…» la chiamai, quanto più pacato possibile.

Fece un cenno impercettibile con la testa, tentando in un inutile modo umano di nascondere il suo turbamento nonostante fosse palese a causa del suo tremore e del pallore sul suo volto. Nessuno dei miei familiari, comunque, commentò in alcun modo. Lasciai che fosse lei stessa ad avviarsi su per le scale fino in camera mia, seguendola a vista.

Non potevo osservare il suo corpo, le sue gambe magre, il suo passo incerto, senza tormentarmi con un pensiero fisso. Cosa le aveva fatto? Quanto in là si era spinto? Quanto in fondo era arrivato? Bloccai con un fremito i miei pensieri quando mi accorsi che mia moglie mi stava fissando con uno sguardo serio, quasi preoccupato.

Le sorrisi, e lei abbassò le palpebre, lasciandosi scivolare sul letto in posizione fetale. Cacciò un gemito così lieve che non l’avrei sentito se non fossi stato un vampiro. E se non fossi stato un vampiro avrei cominciato ad iperventilare per la preoccupazione.

«Che ne dici se chiamiamo Carlisle?» domandai, attirando contemporaneamente l’attenzione sua e di mio padre.

Aprì gli occhi e gemette forte. «Non c’è bisogno» biascicò allarmata «sto bene, davvero. Va tutto bene» e per conferma tentò di sollevarsi dal letto.

La bloccai prima che potesse cadere, in preda alla vertigini. Mi concessi di tenere il suo corpo leggerissimo e caldo stretto al mio per qualche secondo prima di pensare cosa rispondere. Era proprio quello che non volevo, farla agitare. «Lo so tesoro, lo so che stai bene. Ma forse hai preso l’influenza e noi non lo sappiamo… Non sarebbe meglio esserne certi?».

«Edward» mi chiamò mio padre dall’altro lato della porta.

Lo ignorai. Mi allontanai di poco da lei per guardarla negli occhi. «Ci vorrà pochissimo. Solo per esserne certi».

Deglutì. «E se non volessi esserne certa? Se volessi continuare a pensare che… che… sto bene e basta, Edward. Prima o poi mi passerà. Sono stanca di sentirmi debole, e malata e che…» il suo respiro si fece più rapido e superficiale. «Edward» ricominciò, prendendomi la mano fra le sue e stringendo. «Questo non ci fa bene. Non ci fa tornare come eravamo. Credi che abbia l’influenza? Mi passerà. Credi che io abbia una grave malattia che potrebbe uccidermi? Potrai sempre trasformarmi. Credi… credi che sia tutto nella mia testa? Beh» balbettò «ti prego, continuate e fare finta di non accorgervene, se è così».

La fissai, stupito del suo lungo discorso. Sembrava davvero lei. La mia Bella. Presi un respiro. «Sono stanco di non conoscere le cose. È solo questo. Sono stanco di non sapere come stai, cosa ti succede o cosa ti è successo…».

Fremette, allontanando la mano dalle mie. «Oh, Edward…».

«No» la blandii, stringendola nuovamente a me «non me lo devi dire. Non ora…».

Allontanò lo sguardo, improvvisamente freddo, lontano dal quel calore che l’aveva animato pochi secondi prima, quando mi aveva parlato con passione. Un passo avanti, due indietro. Era sempre così. Non me l’avrebbe detto, e io non avrei forzato la mano. Mi bastava sapere che la vecchia Bella esisteva ancora. «Chiama tuo padre» biascicò, lasciandosi andare nuovamente sul materasso.

«Carlisle» tentò di sdrammatizzare quando entrò nella stanza, «tuo figlio teme che ci lasci le penne. A breve».

Mio padre le sorrise, rimproverandomi allo stesso tempo con il pensiero. «Mi sembra un ottimo momento per fargli capire che non è così».

Annuì, esitante.

«Come ti senti?».

«Bene».

«Allora perché sono qui?».

Sospirò. «Solo un po’ di nausea».

La esaminò di sottecchi. La sua mente esperta esaminava molto più di quanto io stesso potessi cogliere. Le prese il polso fra le dita, misurando insieme una quantità di parametri. «Nient’altro? Vertigini, mal di stomaco, disturbi di vario genere?».

«Niente». Era una pessima bugiarda.

«Proprio niente?».

«Proprio niente» ripeté con ostinazione, voltandosi da un lato.

Mio padre non lasciò trapelare nulla, rimanendo invece estremamente composto. Era evidente quanto fosse più bravo di me ad avere a che fare con persone che mentivano riguardo alla loro salute. «Bene, allora. Considerando anche il mancamento che hai avuto ieri mi sentirei molto più tranquillo se facessimo qualche ulteriore indagine».

«Indagine?».

«Sì. Vorrei fare un check-up completo. Analisi del sangue, urine, TAC, visite specialistiche».

A quelle parole trasalì, forte, voltandosi immediatamente nella sua direzione. «Non voglio andare in ospedale». I suoi occhi erano così grandi che mi sembrava di poterci essere inglobato. Come se fosse terrorizzata o stesse per avere una crisi isterica. « Non voglio andare in ospedale! Ve l’ho detto, non ho niente!».

Non lasciai che Carlisle parlasse. Intervenni cogliendo la palla al balzo. «Possiamo dimostrarlo facilmente allora. Così saremo tutti più tranquilli».

«Non… non… no!» esclamò, voltandosi repentinamente dalla direzione di mio padre alla mia. «No! Pensi che non sia abbastanza adulta da decidere una cosa simile? Non ci vengo in ospedale. No!».

«Bella…» continuai, riservandomi un ulteriore ammonimento non verbale da mio padre. «Vogliamo solo essere sicuri che non sia niente di più grave di quello che veramente è».

«No» ribadì. Si portò le ginocchia al petto, stringendole a sé con le braccia. Aveva l’espressione di uno di quegli animali braccati che mi piaceva tanto catturare. «Non mi toccate. Nessuno dei due».

La frustrazione mi fece venire voglia di urlare. Non ancora, diamine! Non ancora!

Mio padre si allontanò di un passo, sollevando le mani come per dimostrare di non essere armato. «Come vuoi, Bella. Nessuno farà nulla contro la tua volontà».

Gli scoccò un’occhiata perplessa. «No?».

«No, lo giuro».

Io sì!, avrei voluto urlare. Io sì! Mi passai frustrato una mano fra i capelli. Bella seguì il mio movimento con un’espressione cauta sul viso. «No» biascicai di malavoglia.

«Sto bene» ribadì lei, una ruga d’espressione ad incresparle la fronte.

Sospirai, scuotendo il capo, ma non dissi nulla. «Posso?» domandai, indicando il materasso accanto a lei.

Esitò un istante, poi annuì.

Un passo indietro, due avanti.

 

Finché non potei più contare i passi, finché capii che avevo cominciato a camminare in avanti con lei, accanto a lei, verso il nostro destino.

Un destino generoso, che ci regalò quello che mai nella mia esistenza vampira avrei potuto sperare di avere: un figlio. Se ci fu un giorno in cui realizzai che la sofferenza vale la gioia che ci viene ripagata, fu il giorno in cui capii che nel grembo di mia moglie, l’amore della mia vita, la mia Bella, stava crescendo la nostra creatura.

Quello, e il giorno in cui nacque.

E il giorno in cui nacquero i nostri figli.

E ogni giorno di questa infinita vita in cui, nonostante tutto, l’amore non mi manca mai.

 

La sofferenza più atroce impallidisce al cospetto della gioia più grande.

 

 

Fine I extra

 

 

Ciao ragazze!

Lo so, ci ho messo tanto. Ma non sto pelando le cipolle. Ma l’università è ricominciata e non è l’università delle cipolle (aridaje).

Quindi… purtroppo non avevo pronto l’ultimo pezzo di questo extra, e l’ho dovuto scrivere in questi ultimi giorni. Ma ho pronto tutto (quasi) l’altro lunghissimissimo extra, quindi credo proprio che vi romperò le scatole una volta a settimana.

Bene, per ora vi lascio.

 

Prima di lasciarvi rinnovo l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani scritta con tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama The Woodmore Sisters. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Grazie per le recensioni, vi adoro! :D

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Capitolo 4
*** Extra 2. Parte 1. ***


Secondo extra: tratterà del periodo che va dalla nascita di Kate fino sostanzialmente all’epilogo attuale della storia, riempiendo il salto temporale. I pov saranno alternati fra quello di Edward e quello di Bella.

 

 

Appena dopo le dimissioni dall’ospedale di Bella e la bambina.

 

«Sei stanca?» mi chiese Edward, accarezzandomi la schiena. Con l’altro braccio reggeva quel piccolissimo fagottino che era la nostra bimba, schiacciata sul suo petto e completamente avvolta da una coperta soffice.

Io, lentamente, mi affannai sui gradini di ingresso della nostra casa. Ad ogni passo, stanco, sentivo un forte bruciore fra le gambe e un diffuso indolenzimento sulla pancia. Ero infinitamente contenta di tornare a casa mia. Scrollai le spalle. «Dammi il tempo di mettere un po’ di correttore sulle occhiaie prima di risponderti il contrario» scherzai debolmente.

S’irrigidì un po’, come a disagio. Aveva una smorfia sul viso. Avanti Edward, apri quella porta, so cosa mi aspetta. Appena misi piede in casa le luci si accesero, rivelando il soggiorno pieno di palloncini, coriandoli e uno striscione che recitava “Bentornata Bella! Benvenuta Kate!”, e tutti i miei cari con un ampio sorriso in viso.

Sorrisi appena, dimessa. «Grazie» mormorai, accogliendo il primo abbraccio caldo che mi veniva rivolto: quello di mio padre. Dopo aver salutato tutti mi trascinai fino al divano, sospirando di sollievo. Con lo sguardo cercai Edward e la bambina, ma era ovviamente circondata da tutti i familiari, che facevano a gara per catturarne lo sguardo o prenderla in braccio.

Stanca, mi rannicchiai, posando la testa sul bracciolo del divano e lasciando che gli occhi si chiudessero. Volevo solo lasciare riposare per un attimo la mente e… ah, che goduria sentire quel dolce torpore del sonno.

Sentii una delicata mano fresca sulla fronte, e aprii di soprassalto gli occhi. «Tesoro, torna a dormire. Ti porto in camera» soffiò Edward, sorridendomi.

Due istanti più tardi sentii il suono del vagito di mia figlia espandersi per la stanza. Agitata mi sollevai, arrancando per mettermi a sedere. «Rose» chiamai, vedendo mia figlia fra le sue braccia, circondata da tutta la famiglia «portamela, per favore. Ha fame».

Sollevò le sopracciglia, perplessa. «Magari ha solo sonno, oppure…».

Scossi il capo, tendendo le braccia e prendendo la bambina con entrambe le mani, una sotto il sedere e una sotto la testa. Il capo un po’ piegato, gli occhietti semichiusi, le gambe raggomitolate al corpo: era così piccola e indifesa. «Ha fame» dichiarai con sicurezza, stringendola nella culla delle mie braccia e respirando l’odore della sua pelle.

Piano, dopo pochi secondi, i suoi lamenti cessarono. Arrossii quando, sollevando la testa, trovai a fissarmi tutti i presenti. «Edward…» chiamai appena.

Alice e Esme fecero un passo avanti, venendomi incontro. «Vieni, Bella. Andiamo nella camera da letto. Volevamo appunto farti vedere, anche, come avessimo sistemato la culla».

«Ehi, dai! Non puoi portarmi via la mia nipotina così presto!» protestò Emmett.

Alice gli scoccò un’occhiata. «Perché, vorresti farla morire di fame?».

Arrossii, stringendo più forte la mia bambina. Eh sì… mi sarei dovuta abituare ad avere pubblico.

Nella camera silenziosa, nella penombra, compii quel piccolo miracolo che mi era stato donato: allattai mia figlia. E quel pungente dolore che si accendeva non appena le sue piccole labbra voraci stringevano il mio seno non era nulla confrontato alla possibilità di nutrirla con il mio corpo o il formicolio alla base della nuca che sentivo costantemente, quando la sua manina calda si posava sulla mia pelle o quando i suoi occhi si dischiudevano, osservandomi. Di quel colore chiaro così simile al verde.

«State bene?» domandò Edward, venendomi accanto e chiudendosi velocemente la porta alle spalle. Esme, nel nostro bagno, sistemava gli oggetti della piccola.

Annuii appena, senza interrompere il contatto visivo con la bambina. «Non dovresti stare di là con gli altri? Non possiamo lasciare i nostri ospiti da soli».

«Capiranno» borbottò, accarezzando i sottilissimi capelli scuri della bambina.

Sollevai il viso, sorridendo della sua direzione, stanca. «Vai, Edward. Poi potremmo stare tantissimo tempo con Kate, tutte le notti e i giorni… Vai. Ha quasi finito, veniamo subito».

Sospirò, annuendo suo malgrado. «Come ti senti?» mi chiese, sfiorandomi la fronte, «vorrei che dopo misurassi la febbre» fece, ansioso.

Sorrisi bonariamente. Mi avevano trattenuta quattro giorni in più in ospedale per una febbriciattola che non accennava a scendere, per questo Edward aveva cominciato a dare di matto, preoccupato che il secondamento, su cui il padre non aveva supervisionato, non fosse andato a buon fine. «Va bene, Edward. Sto bene, mi sento bene. Ma dopo la misuro, promesso. Ora vai» feci, lasciandomi schioccare un bacio sulle labbra.

Quando la bambina si dimostrò abbastanza sazia lasciai che Alice provvedesse a farle fare il ruttino.

«Esme» feci, spostandomi a disagio sul letto, una smorfia sul viso «dovrei… vorrei lavarmi un po’ e cambiarmi. Potresti…?».

«Certo tesoro, ti aiuto io» fece, gentilmente.

Arrossii appena. «Grazie. Alice, porta Kate da suo padre prima che dia di matto» feci, osservandola.

«Oh» protestò «è così carina che me la terrei qui fra le braccia per sempre» canticchiò sul viso della bimba. «Ma vado, vado, va bene» continuò, sollevando gli occhi al cielo, quando feci per protestare.

«Esme» la chiamai, quando mi tese una mano per aiutarmi ad alzarmi. La guardai fisso negli occhi. «Spero che mi aiuterai tu, a crescere Katherine. Mia madre è lontana, e tu per me lo sei».

La bocca si aprì di sorpresa, e i suoi occhi scintillarono. «Certo, Bella. Certo. Ma tu sei già bravissima con tua figlia. Riesci già a comprendere le sue esigenze…».

Sorrisi, commossa, scuotendo il capo. «Avevi ragione» soffiai con quel poco di fiato che avevo nei polmoni «avevi ragione. Io sento cosa vuole».

Mi sorrise a sua volta, stringendomi con più forza la mano. «Avevo ragione. Il legame c’è ancora».

 

Un mese dopo la nascita di Kate, Edward e Bella si ritrovano ad affrontare i primi problemi da genitori.

 

«Bella, ti piacerebbe qualcosa di caldo?» domandò Esme, carezzandomi il viso.

Strinsi le ginocchia al petto, seduta sul divano. Scossi il capo.

Edward, nel soggiorno, cullava la bambina al suo petto, provando a farle smettere di piangere. «37.9°. Non è molto alto, ma per una bambina così piccola non va bene» borbottò, facendo un cenno a Rosalie. Le passò il termometro. «Hai chiamato Carlisle?».

Lei annuì, avvicinandosi per consegnarlo a Esme. «Verrà fra poco, appena si libera delle cose più urgenti. Ha detto di non preoccuparvi».

«Perché non vuoi mangiare, Bella?» fece Esme, avvicinando il termometro al mio orecchio e rilevando la temperatura. Sospirò. «39.3°».

«Shh, shh, stai tranquilla piccolina» mormorò dolcemente Edward, carezzando la testolina tonda di Kate. Piangeva, disperata.

«Tesoro, dovresti mangiare se vuoi allattare la piccola».

Agitata mi portai le mani alla testa, stringendola.

«Bella, prendila tu» fece Edward, avvicinandosi al divano su cui stavo rannicchiata, «ha fame, vuole mangiare».

Scossi il capo, tenendo lo sguardo basso. «No, no».

Sbatté le palpebre. «Come no? Bella» mi chiamò, stressato. Sentii il suo respiro profondo. «Bella, tesoro, la bambina ha fame. Lo so che ti senti stanca, ma non ci vorrà molto. Non le piace il latte in polvere, e di tuo non ne abbiamo più. Prendila» fece, avvicinandosi e porgendomela.

Scattai in piedi, sentendo per un attimo la testa girare per la febbre. «No» ribadii con maggiore energia, incontrando solo per un secondo gli occhi di mio marito. Non riuscivo a sopportare il suono del pianto di mia figlia sapendo di esserne la causa. «Non si può fare. Non posso allattarla, perché sono malata».

«Bella» mi richiamò Edward, agitato «ormai è ammalata anche lei, cosa vuoi che importi? Prendila e basta».

Fremetti, abbassando il capo e sentendo il familiare calore umido delle lacrime risalire ai miei occhi. «No» biascicai, la voce rotta.

Sentii il suono del suo pesante respiro esasperato. «Dannazione, Bella. Ti sembra il caso di fare così? Avanti. Prendi la bambina, non senti come piange? Vuole solo mangiare».

Esme e Rosalie trattennero il respiro, osservandoci silenziosamente.

«Non posso, non posso!» singhiozzai petulante, arrabbiata, sollevando il viso. «Non rischierò di aggravare le sue condizioni. Dovevo fidarmi di me stessa quando ho detto di non volerla toccare».

«Ah perché, sarebbe colpa mia, che ti ho fatto tenere tua figlia in braccio? Avanti, smettiamola con questa inutile discussione. Prendila e basta».

Piansi, arrabbiata, allontanandomi velocemente da lui. Mi fiondai in camera da letto, sbattendo la porta alle spalle.

«Bella, accidenti!».

Mi lasciai andare sul letto, premendo il cuscino sopra la testa e singhiozzando. Sentivo la nuca pulsare velocemente e fastidiosamente. Il fresco del letto appena rifatto era lenitivo rispetto al calore del mio corpo.

Mi ero sentita poco bene, un po’ debole, qualche giorno prima. Niente comunque che facesse presagire che avessi contratto una bella influenza stagionale. La febbre era salita oggi, e nonostante appena avessi letto la prima linea sul termometro non mi fossi più azzardata a toccare mia figlia era ormai troppo tardi: poche ore più tardi la sua stessa temperatura era salita. Inutile dire quanto mi fossi sentita in colpa, quanto avessi pensato a quello che avrei potuto fare, o non fare, alle prime avvisaglie della malattia, per impedire che contagiassi mia figlia.

Strofinai gli occhi rossi e gonfi, sentendoli incredibilmente secchi. Non riuscivo a pensare con la testa che mi faceva così male. Riemersi da sotto il cuscino, sentendomi soffocare, e vi posai il capo, chiudendo gli occhi.

I rapporti fra me e Edward erano cambiati dopo la nascita di Kate. Non dicevo che fossimo in crisi, o che le cose andassero male. Ma erano diversi, perché ora non eravamo più solo io e lui. Ora c’era la bambina, e della stanchezza, delle decisioni da prendere, e una vita che pendeva dalle nostre mani. Dovevamo essere più forti, e avere i nervi saldi. Pur non mettendo mai neppure una volta in dubbio il nostro amore, non potevamo non discutere più spesso.

Salvo poi rinnovare la pace fra di noi, andando avanti, come se non fosse mai stata rotta. Come si faceva in una famiglia.

Chiuse la porta alle sue spalle con un tonfo lieve. Pochi minuti prima il suono squillante del campanello aveva trapassato la mia testa, segno che Carlisle era arrivato. Posò una mano sulla mia spalla.

Piano, aprii gli occhi.

«Come ti senti?».

Mi tirai a sedere, intrecciando le braccia sotto il seno gonfio, cancellando con il polso le lacrime dal viso. «Sto bene».

Sollevò una mano fino a posarla sulla mia fronte. «Appena finisce con la bambina Carlisle verrà da te». La sua voce era un dolce sussurro nella stanza.

Annuii, continuando a guardare in basso, sul copriletto. «Come sta?» domandai sospirando, posando una mano sulla sua, sulla mia fronte.

«Abbastanza bene. Per Carlisle è solo una semplice influenza. Credo che cerchi il tuo odore, per questo piange. Soffre la tua assenza».

«Edward» protestai frustrata, ma prima che potessi seguitare la porta della camera si aprì, facendo passare Carlisle con in braccio la nostra bambina.

«Bella» mi salutò mio suocero, avvicinandosi «ho prescritto a Katie un’ottima cura contro l’influenza, guarirà in men che non si dica: devi allattarla».

Aprii la bocca, sconcertata, faticando ad accettare il fagottino che mi offrivano le sue braccia. «Carlisle, io non voglio che lei-».

«Tranquilla» ripeté, «fidati di me. Che venisse contagiata era quasi scontato, nessuno poteva prevedere che stessi male prima che l’influenza si manifestasse con la febbre, ma allora è sempre troppo tardi. Kate ha bisogno che l’allatti per avere i tuoi anticorpi. E inoltre credo che le manchi davvero».

Edward prese nostra figlia dalle braccia di suo padre, osservandomi. Il suo sguardo ambrato incontrò il mio. Me la porse. «Prendila, tesoro, ha bisogno di te».

Mi morsi il labbro, sentendo le lacrime pungermi ancora agli occhi. Avvicinai le mani tremanti e la strinsi al mio petto. Il calore del suo piccolo corpo alimentava il mio, ma non era spiacevole. I suoi vagiti stanchi cessarono, mentre muoveva le labbra e le mani alla ricerca del mio seno.

Edward mi aiutò a disfare la vestaglia e sistemarmi in una posizione comoda. La piccola respirava piano, muovendo il suo petto su e giù con ampi movimenti, stanchi. Eravamo io, lui e la bambina, nella stanza, quando Kate si attaccò con voracità al mio petto. Strinsi la mano di mio marito, chiudendo gli occhi e cacciando un sibilo fra i denti.

Restituì la mia presa. «Male?».

Aprii gli occhi, guardandolo. «Mi dispiace» mormorai, sentendo le lacrime scendere sul viso, «i-io… sono così stanca, e preoccupata…».

Si avvicinò, cancellandole con la mano libera. «Shh. Va bene. Credo di dovermi scusare anch’io. Siamo pari» mormorò, sorridendomi.

Gli sorrisi appena, il viso ancora bagnato. «Per questa volta» mormorai con un filo di voce.

 

 

 

Come promesso eccomi qui!

Ho questo extra quasi interamente pronto (e anche molto lungo).

Preciso che è un extra, e non un seguito, quindi sostanzialmente non viene aggiunto nulla alla trama originale, e se siete interessati a consistenti eventi divertenti tutto ciò non fa per voi…

 

Detto ciò…

 rinnovo l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani scritta con tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama “The Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Grazie a chi ancora recensisce queste pagine.

Letizia sarà felice di leggere dei bebé (ho mantenuto la mia promessa ;) ).

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Capitolo 5
*** Extra 2. Parte 2. ***


Ci troviamo un anno e mezzo dopo la nascita di Kate.

Il testo è stato scritto per il contest di erszi sul peccato della Gola, quindi potrebbe non essere perfettamente aderente ai tempi narrativi.

 

Ridacchiai, osservando mio marito, le braccia occupate da pacchetti rossi.

«Edward, sei sicuro di farcela?» chiesi, portandomi una mano alle labbra per nascondere un nuovo sorriso.

Il suo sguardo fu beffardo. «Ce la faccio, ce la faccio», disse, aprendo con le chiavi il portone di casa nonostante tutti i pacchetti.

Fra noi si respirava un’intimità sconvolgente. Avevamo trascorso fuori, un giorno tutto per noi, quella nostra prima data. Il 14 Febbraio. San Valentino.

«Piccolina, siamo a casa!» chiamai a gran voce, superando mio marito e i pacchetti. Affidare nostra figlia alle cure della famiglia Cullen era stato indispensabile, e di certo non avevo potuto declinare le loro entusiastiche offerte di aiuto. Io e Edward dovevamo pensare un attimo a noi e a lei. Alla nostra famiglia…

Esme aveva promesso di riportarla a casa per le sette, ed era già passata mezz’ora dall’orario prestabilito.

«Amore!» la chiamai, vedendola seduta sul divano. La nonna stava in piedi, appoggiata allo schienale.

Sollevò lo sguardo. «Ammi» chiamò. Dimostrava all’incirca un anno.

Le sorrisi. Mi sentivo un po’ in colpa per averla lasciata sola, ma sapevo che era anche stato necessario. Io e Edward avevamo adeguatamente discusso su come darle la nuova notizia.

Allungai le braccia verso di lei, piegandomi sulle ginocchia, pronta a ravvivare il suo entusiasmo facendola sgambettare fra le mie braccia. Edward non sarebbe stato molto contento. Poco male.

La mia bambina scese dal divano, ruotò a pancia in giù, appoggandosi sui gomiti e scivolando prima con una gambetta e poi con l’altra. Camminò piano ondeggiando verso di me.

La sollevai velocemente, facendole fare una giravolta. Si strinse forte a me, nascondendo la testolina nell’incavo del mio collo. Con una mano aggrappata alla mia maglietta e una a una ciocca di capelli.

«Dai un bacio alla mamma» la esortai.

Sollevò il viso e mi diede un rapido e fuggevole bacino sull’angolo della bocca. Le accarezzai i capelli. «Ti sei divertita a pomeriggio? Gli zii e i nonni sono stati buoni?» le chiesi, cullandola intanto con le braccia. La piccina s’irrigidì, stringendomi più forte e non dicendo una parola.

Alzai lo sguardo su Esme, che nel frattempo mi aveva raggiunta al mio fianco. «É stata con tutti gli zii. Ha fatto la brava e ci siamo divertite tanto» fece affettuosamente, posandole una mano sui morbidi capelli.

Edward venne a salutarla, con gli stessi dolci gesti compiuti da me, e dopo, mentre io mi dedicavo completamente a nostra figlia, congedò Esme, che ancora non aveva goduto del suo giorno di San Valentino con suo marito.

«Mi vuoi dire cosa hai fatto con zia Alice? Eh? É stato divertente?», chiesi con dolcezza, andandomi a sedere, stanca, sul divano, e sedendo Kate sulle ginocchia. Magari, pensai, era stanca per la giornata. Solitamente era entusiasta di raccontarmi tutto quello che faceva, nei minimi e insignificanti particolari.

Abbassò il viso e si mordicchiò il labbro. Aveva preso da me in quello. «Tia… scappe…».

Risi a quell’affermazione. «Eh sì, la zia ha tante scarpe». Che mi figlia si stupisse del gusto eccentrico della zia era davvero esilarante.

Eppure, appena Edward comparve al mio fianco la bambina s’interruppe, allungando le braccia per farsi prendere da lui. La sollevò e la prese in braccio, sedendomi accanto. «Vuoi fare la corsa con papà?» chiese, tempestandole il collo di baci.

A Kate scappò un risolino per il solletico, ma morì subito dopo in un gemito di fastidio.

«Non ti va?» chiese Edward, giusto un po’ perplesso.

Scosse energicamente il capo.

Le accarezzò la fronte. «Allora mangiamo. Ti preparo la pasta col pomodoro…».

Il labbro inferiore della bambina sporse in avanti e la testa si abbassò. «No» mugugnò.

Mi voltai verso mio marito, e subito la presi fra le braccia per stringerla a me. Avevo paura che potesse scatenarsi un contrasto nato dal fatto che Edward non avrebbe potuto propriamente “mangiare” con lei. «La prepara mamma e mangiamo insieme, amore».

La piccola mugugnò ma non disse nulla.

«Avanti, non fare i capricci…» la riprese bonariamente Edward, sollevandomela dalle braccia.

Silenziosa, mi impegnai a preparare una soddisfacente pasta al pomodoro. Non per me, certo, non sarei riuscita, nelle condizioni in cui ero, a gustarla appieno, ma volevo che alla piccola ritornasse l’appetito.

Nei primi tempi, a volte, capitava che rifiutasse il cibo. Carlisle mi aveva invitata a non forzarla. Ogni bambino assume ciò che gli è necessario, mi aveva detto.

Edward la invitò a giocare un uno dei tanti ingegnosissimi giochi per bambini prodigio regalati dagli zii. Eppure, Katherine non rispose in modo soddisfacente, e con il minimo entusiasmo.

Sentii una fitta allo stomaco, e capii non essere solo la nausea. E se la mia piccola si fosse sentita trascurata? Dopotutto, nell’ultimo periodo, eravamo stati molto impegnati. Solo oggi io e Edward avevamo deciso di stabilire un modo per riferirle la notizia. Se l’avesse già scoperto sola?

«É pronto!» esclamai, portando a tavola le due ciotole.

Immediatamente la piccola era già sistemata sul suo seggiolone.

«Mmm, che buon odore!» fece Edward, con il mio stesso entusiasmo.

Lo fissai di sottecchi, ma non dissi nulla. Kate spostò lo sguardo dalla ciotola a me, silenziosa. «Amma ‘ossa».

Sussultai, e Edward fu più veloce a riprendersi di me. Rise. «É vero! Per questo dovresti mangiare più pasta di lei! Non possiamo mica farla ingrassare ancora?!» scherzò.

La piccola afferrò il suo cucchiaio in mano con il pugno e ne portò un po’ alla bocca.

Edward venne a sedersi accanto a me. Ne presi uno anch’io, per non darle motivo di fermarsi. Ma mi sentivo inquieta. La bambina era calma e silenziosa.

Mi scambiai un’occhiata con mio marito, che, percependo la mia inquietudine mi sorrise, stringendomi le dita sotto al tavolo.

La piccola cincischiò un po’ con il cucchiaio, sparpagliando perlopiù brodino su tutto il seggiolone. Era una tortura vederla così taciturna e priva d’entusiasmo.

Edward provò ad alleggerire un paio di volte la mia tensione, invitandola a mangiare, scherzosamente e non. Infine la pasta al pomodoro di entrambe finì buttata nel tritarifiuti.

Presi Kate fra le braccia e la strinsi a me, lasciando a Edward il compito di sparecchiare tavola. «Stai bene piccolina?» chiesi apprensivamente. «C’è qualcosa che non va? Dillo a mamma…».

Scosse il capo e si gettò con le braccia al collo.

La cambiai, le misi il pigiama e la infilai sotto le coperte. Le proposi un gioco, una poesia, una fiaba. La ricoprii di attenzioni. Ma la bambina sembrava sempre strana, e anche quando si addormentò, non riuscii a staccarmi subito da lei.

Alla fine, Edward venne a chiamarmi. Si era fatto tardi.

Lo seguii a malincuore in camera, separandomi da mia figlia con un bacio sulla fronte. Ero restia ad allontanarmi da lei, e pensai che quella di averle dato una camera tutta sua fosse stata una pessima idea. Una camera diversa dalla nostra perfettamente insonorizzata.

«Era strana, era taciturna… Non la prenderà mai bene, Edward… E se si sentisse sola? Abbandonata?» chiesi preoccupata, rivoltandomi nel letto e non riuscendo a dormire.

Mi accarezzò una guancia. «Sta tranquilla. Sicuramente è solo stanca, o magari è solo un momento…». Lo sapevo, sapevo che anche lui, in fondo, era preoccupato. Non per i miei stessi motivi, ma doveva pur aver notato la sua stranezza…

«Ma era stranissima! Non l’ho mai vista così priva di entusiasmo… E se avesse capito qualcosa?».

«Bella, calmati. Tutta questa agitazione non va bene, lo sai» disse, sfiorandomi la pancia. «Se la porremo nella giusta prospettiva, Katie sarà più che felice di avere un fratellino».

Sospirai, sull’orlo delle lacrime, cercando rifugio nel suo petto.

Mi ero addormentata, ma il sonno era stato confuso e agitato, e mi svegliai dopo appena un’ora, madida di sudore. Mi sollevai dal letto.

«Dove vai?».

Mi morsi il labbro. «Una camomilla…».

«La faccio io» disse subito Edward.

«No, no, davvero Edward. Lasciami andare, dai…». Non avrei potuto tenergli nascosta la mia meta.

Sospirò. «Ti aspetto qui» fece riluttante.

Sgattaiolai fuori dalla stanza, richiudendomi la porta alle spalle, e mi mossi cautamente nel buio della notte fino alla camera della bambina, adiacente alla nostra.

Appena entrai mi resi subito conto di qualcosa di strano. Subito dopo mi accorsi dei bassi gemiti e singhiozzi. Mi precipitai all’abatjour, accendendola velocemente.

La mia bambina era rannicchiata scompostamente fra le coperte del suo lettino con le sbarre, il viso rosso e pieno di lacrime.

La sollevai immediatamente fra le braccia. «Amore, amore, Katie, piccola, cos’hai?».

Si strinse forte la pancia, piangendo.

Le strofinai il viso sulla guancia bagnata. «Ti fa male la pancia?» chiesi velocemente, posando il mento sulla sua fronte. Non mi pareva avesse la febbre.

La bambina prese a singhiozzare più forte.

«Shh, shh» la cullai convulsamente, accendendo le luci della cameretta e del corridoio. «Va tutto bene amore di mamma. Adesso andiamo da papà… Va tutto bene…».

Me la strinsi addosso, tenendole la testa con una mano, camminando velocemente nel corridoio. Non appena aprii la porta della nostra stanza Edward mi venne immediatamente incontro.

«Che succede?» chiese velocemente, facendo passare lo sguardo da me alla bambina.

Ansimai. «Sta male, le fa male la pancia…» feci preoccupata.

Me la sfilò dalle braccia, controllandola velocemente. Una mano sulla fronte, una sul polso. Subito si spostò verso il letto, depositandola dolcemente sul materasso.

«Dove ti fa male Katie?» le chiese, accarezzandole i capelli.

La bambina singhiozzò, tenendosi il pancino con una mano.

Presi le mani della bambina fra le mie. «Che cos’ha, Edward?» chiesi agitata.

Sollevò il suo sguardo su di me, non smettendo di accarezzare nostra figlia. «Ho un’idea, ma è meglio chiamare Carlisle».

«É San Valentino! Lui è Esme sono gli unici che non abbiano ancora festeggiato…».

Il suo sguardo cadde sulla nostra piccola bambina piangente, e così anche il mio. La strinsi fra le braccia, serrando le labbra. «Chiamalo». Scomparve immediatamente.

«Andrà tutto bene piccina mia, tutto bene. Te lo prometto». Mi sedetti sul letto, stringendola a me e cullandola.

Edward venne subito da noi, occupandosi della bambina. «Stai tranquilla» mi disse, scoccandomi un’occhiata «adesso arriva».

Non appena sentii il campanello mi alzai per andare ad aprire. Per quanto avrei voluto stare con la bambina, capivo quanto Edward potesse essere più utile. E poi, avevo bisogno di un attimo di tempo per ricompormi, non potevo farmi vedere così agitata dalla piccola.

«Carlisle» sospirai, non appena lo vidi. In mano la sua borsa di cuoio. Mi feci immediatamente da parte. «É in camera nostra» mormorai, e in pochi secondi scomparve, con un cenno del capo.

Esme, dietro di lui, mi venne incontro con un espressione comprensiva. Fece passare un braccio intorno alle mie spalle, accarezzandomi la testa e guidandomi nel soggiorno. «Sta tranquilla, andrà tutto bene».

Chiusi gli occhi, lasciandomi andare sul divano. Dovevo mantenere la calma e fare qualcosa che potesse essere utile alla piccola, e certamente non farmi prendere dal panico.

«Tranquilla…» ripeté Esme, convincendomi ad aprire gli occhi.

«Sto bene», mi sollevai dal divano, decisa, puntando verso la porta della camera.

«Ammi» pianse la bambina non appena mi vide, tirando su col naso. Edward la teneva stesa sul letto, e Carlisle le stava palpando l’addome.

«Shh» la rassicurai dolcemente, andando velocemente al suo fianco e prendendole una manina fra le mie. «Va tutto bene piccina mia».

Kate singhiozzò più forte, sbracciandosi verso di me.

Edward le accarezzò i capelli, trattenendola. «Calma, calma, il nonno ha quasi finito».

M’inginocchiai a terra, e posai il mento sul materasso, soffiando piano sulle guance bagnate della mia bambina.

«Ti fa più male qui?» chiese Carlisle, tastandole un punto preciso dell’addome.

La piccola scosse il capo, allungando ancora le braccia verso di me. La sollevai, stringendomela addosso. Le baciai la fronte.

«Che cos’ha?» chiesi, provando a mascherare l’ansia. Edward ci avvolse entrambe con un braccio.

«Escluderei appendicite, problemi al fegato e alla milza. Sembra le faccia male lo stomaco. Cosa ha mangiato?».

Sussultai, stringendola più forte. «Io… le ho cucinato la pasta col pomodoro…».

«Ne ha presa pochissima, e l’ha mangiata anche Bella» disse Edward, «non sta male».

Accarezzai i capelli della bambina, rimuginando sulla sua assenza di entusiasmo. «Stava già male prima».

Carlisle si chinò a sfiorare con la punta delle dita le guancia arrossata e bagnata della piccola. «Kate, piccola, che cosa hai mangiato?» chiese, guardandola con gentilezza.

La bambina pianse di più, e si voltò per stringersi con le braccine al mio collo, facendomi sbilanciare. Edward mi sostenne prima che potessi cadere. Riuscii a tirarmi su con la bambina fra le braccia e sedermi sul letto. «Ce la faccio» mormorai, ignorando le mani tese di Edward, un chiaro invito a passarle nostra figlia.

In un attimo scomparve. Un secondo dopo, entrò in camera con Esme. «Le ho fatto mangiare il petto di pollo cotto al vapore e mezza mela. Poco prima che arrivaste le ho dato la torta al cioccolato» spiegò chiaramente, fissando apprensivamente la nipotina.

Cullai la bambina con le gambe. «Hai mangiato solo questo? Dillo a mamma…».

Sia io che Edward provammo a farla parlare, ma non ottenemmo nulla che non fossero pianti e lamenti. Purtroppo, la mente della piccola si stava allenando ad essere occultata a quella del padre sempre più spesso.

Suonarono al campanello, e poco dopo la stanza si popolò della presenza di Alice e Jasper.

Lei sussultò, sollevando il viso e osservandomi con una strana smorfia. «Ho visto che stava male…».

Immediatamente il viso di Edward scattò verso l’alto. «Alice!» esclamò scandalizzato. La vampira abbassò il capo, colpevole.

«Cosa succede?» chiesi, fissandoli entrambi velocemente.

«Le ha dato una scatola di cioccolatini» fece mio marito con durezza, accarezzando la schiena di nostra figlia, madida di sudore sotto il pigiamino. «Reputi che sia un intrattenimento abbastanza sostanzioso per tenerla lontana dalle tue scarpe, Alice?!».

Alzò il viso. «Non le avrebbero fatto male Edward, è sempre stata così giudiziosa, non credevo li mangiasse tutti. Io…» fece, ma s’interruppe immediatamente, lo sguardo nel vuoto.

Due secondi più tardi Rosalie e Emmett erano in camera con noi. Edward si alzò, ringhiando furibondo. «Le avete dato dei dolcetti! Diamine! É possibile che siate tutti impazziti!?».

«Edward, la bambina si scocciava a stare con noi», borbottò Emmett in sua difesa.

Rose alzò la testa, decisamente più spavalda. «Ognuno di noi ha comprato dei dolci per San Valentino. Abbiamo solo deciso di non buttare i dolci, e di prenderci un momento per San Valentino. Questo è quanto», fece, facendo scivolare una ciocca di capelli dietro la spalla.

Edward le ringhiò contro.

Mi voltai agitata verso la piccola, prendendole il visino fra le mani. «Hai mangiato la torta, i cioccolatini, tutti i dolcetti?». La piccola tremò, e non rispose. Tutti avevano certamente considerato la bambina molto più giudiziosa. Ma nessuno si era ricordato quanto fosse piccola e golosa. Eppure, anch’io mi sarei aspettata più giudizio da parte sua. «Rispondimi. La mamma non ti sgrida, ma rispondimi».

Kate tirò su col naso. «Tio Emm ha ‘etto a tia…» le tremolarono le labbra «Kate ‘eve -ividele i dolcetti atto bimbo» singhiozzò, e abbassò la testa spaventata per un mio possibile rimprovero.

Immediatamente la mia testa scattò verso l’alto. Come aveva potuto farsi sentire dalla bambina mentre diceva certe cose? Non accetterà mai la nascita del fratello, pensai ansiosa.

Chiusi le braccia a protezione intorno al copricino della piccola. «Non è vero, non è vero per niente. Adesso papà dà tante botte a zio Emm, non si dicono queste cose…». 

Lasciai un bacio sulla guancia di mia figlia e intanto riservai un’occhiataccia di sbieco a Emmett e sua moglie. Si guardavano sorpresi. Sorpresi che la piccola avesse sentito le loro battutine idiote. Io e Edward eravamo stati così attenti, dannazione! Avevamo aspettato fino al quinto mese di gestazione, per trovare un modo adatto per dirglielo!

Mi feci sfilare la piccola dalle braccia da Carlisle. «É solo un’indigestione» disse, stendendola sul materasso.

Edward le accarezzò la testa. «E la paura per il peccato commesso» sospirò, fissandola benevolo.

Carlisle me la ripassò. «Ora si dovrebbe calmare, e il dolore dovrebbe andare meglio. Falla bere tanto, e magari mettile una borsa d’acqua calda sulla pancia. Deve stare a digiuno per almeno dodici ore» abbassò la voce «non ti preoccupare se vomita. Potrebbe essere una normale risposta dell’organismo».

Annuii. «Grazie Carlisle. Grazie» feci, rivolgendomi a Esme. «Mi dispiace che abbiate dovuto sacrificare il vostro San Valentino».

Esme ridacchiò. «Non ti preoccupare tesoro, avremmo tante occasioni. L’importante è che la bambina stia bene, figurati. Ne abbiamo festeggiati così tanti!».

«A quanto pare qualcun altro non ha potuto rinunciare» dissi, indurendo il tono e guardando i miei fratelli acquisiti. «Voi. Siete stati voi a chiedermi di prendervi cura di mia figlia, vi ricordo. Non ve lo avrei mai imposto».

«Oh, lo sai che non avrebbe mai fatto una cosa del genere!» protestò Rosalie. «É sempre stata intelligente, giudiziosa».

«Per quanto sia giudiziosa, ve ne siete sbarazzati prendendola per la gola. L’avete distratta per…» serrai le labbra, per evitare di usare parole poco consone davanti alla bambina. «Scambiarvi effusioni». Mi voltai verso la bambina, decisa a chiudere per sempre la questione. «D’ora in poi starai sempre con i nonni… Niente zii, va bene? Finché non faranno i bravi, niente zii» feci con un sorriso, sfregando il naso al suo.

Edward le scompigliò i capelli. «Sei stata davvero una golosona, piccola peste».

Arrossì, nascondendo il viso sul mio petto. «Ammi…» biascicò.

«Avanti, vieni qui» le fece benevolo, prendendola dalle mie braccia. Lanciò un’occhiata alla sveglia al mio fianco. «É tardissimo. Tu e mamma dovete riposarvi».

Kate si spostò per guardarlo negli occhi.

Vidi sul viso di mio marito comparire un’espressione che voleva certamente essere seria, ma che seria non era affatto. Stava nascondendo un sorriso. «Sì, nel lettone piccola peste! Con un indigestione ti sei guadagnata un posto nel lettone…».

Sospirai, accarezzandole i capelli.

Dopo circa un’ora in casa mia regnava nuovamente il silenzio. Kate stava di nuovo bene, calmandosi era riuscita a calmare anche il dolore allo stomaco. Edward le stava facendo lavare i denti, e io mi ero stesa un po’, esausta, sul letto.

Mi accarezzai la pancia tonda. Adesso che la questione era stata posta in questi termini, non vedevo nessuna via d’uscita per dire alla piccola del fratellino. Era una tragedia. Una tragedia, punto. Eppure non me la potevo prendere troppo con Emmett. Ero stata io a temporeggiare così tanto ed aumentare il rischio che la piccola scoprisse tutto in maniera tanto tragica.

Sospirai, chiudendo gli occhi e lasciando andare la testa sul cuscino. Dovevamo dirglielo. Dirglielo subito prima che la situazione degenerasse ancora.

«Shh, non svegliare la mamma…».

Aprii gli occhi e li vidi. Edward la teneva per mano e la piccolina gli sgambettava accanto con il suo pigiamino rosa pieno di merletti, un peluche grande la metà di lei sotto il braccio libero.

«Dobbiamo far posto anche per lui?» chiesi indicando il pupazzo.

«Tlinky no tolo» disse, stringendoselo al petto «no nella came-a di Kate tolo. La… la tia Rose me l’ha ‘egalato. Ti piace? Ti piasce ‘amma?».

Edward alzò gli occhi al cielo, e issò la bambina sul materasso, fra di noi. A quanto pare la piccoletta aveva recuperato la parola.

Sorrisi, e certamente se fossi stata meno assonnata avrei dimostrato più entusiasmo. Le accarezzai la pancia. «Ti fa ancora male?».

Strinse più forte il pupazzo e fece no con la testa.

Alzai lo sguardo verso mio marito e gli strinsi la mano, in cerca di conforto. Capì quello che volevo. «Tesoro, ricordi cosa ha detto lo zio Emm?» chiesi alla piccola.

Annuì, guardandoci concentrata.

«Ecco» cominciai, deglutendo «alcune… cose… e-erano ve…» la voce mi morì in gola e non fui in grado di continuare.

Edward mi strinse più forte le dita e intervenne per salvare la situazione. «Kate, papà e mamma hanno una notizia stupenda per te!» fece, con un entusiasmo molto più adeguato del mio tono rauco e ansioso.

La bambina lo fissò sospettosa. Io lo invitai a continuare con lo sguardo, angosciata.

«Vedi amore, molto presto avrai un fratellino». La bambina non si scompose per niente, e Edward continuò, «potrai giocare con lui, e farete tante cose insieme. Vi vorrete bene. E potrai insegnargli tutto quello che tu sai, se vorrai».

Sentivo il cuore battere velocemente, ma non osavo muovermi, né parlare. Kate era sempre immobile, e fissava attenta il padre.

Quando Edward le disse «sta crescendo nella pancia della mamma», la bambina guardò verso di me, e poi verso la pancia.

Io tremavo, ma la piccola non sembrava turbata. Solo tremendamente silenziosa.

Mio marito le accarezzò la schiena da dietro. «Puoi farlo» le disse, e quando Kate si voltò a guardarlo le sorrise con dolcezza.

Lei mollò il suo pupazzo sul letto e sporse una manina sulla mia pancia, facendomi sussultare.

Poi sollevò lo sguardo su di me. «Devo dale i miei dolcetti a lui?» chiese seria.

«No, certo che no», mormorai immediatamente, ansiosa.

Scrollò le spalle, e si aprì in un sorriso. «È ‘impatico» affermò, lanciandosi ad abbracciare la mia pancia.

Fissai sconvolta Edward.

E così, era tutta una questione di gola

 

 

Ragazze!

Mi credete se vi dico che nemmeno ho avuto il tempo di pubblicare pur avendo il capitolo pronto? Stamattina avevo una mezz’ora libera, quindi eccomi qui!

Spero che vi sia piaciuto.

 

Ieri ho visto BD, pareri? Non voglio spoilerare nessuno, ma secondo me hanno avuto da una parte un’idea geniale (e chi l’ha visto capirà), dall’altra mi è parso un po’ floscio, soprattutto il personaggio di Renesmeè, peccato.

 

Oggi ho due inviti da farvi.

 

Come sempre, quello di far un salto alla quattro mani scritta de me e da tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama “The Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Firmare la petizione per il libro “Die for me”, di Amy Plum. Dicono sia davvero bello, e sarebbe carino averlo in italiano. Trovate anche una recensione di alessiaesse nel link della petizione. :)

 

Grazie mille a Kygo, che devo rincuorare circa le sorti delle Sorelle (Cam sta scrivendo :D), a Bells85 (sono io che devo ringraziare te!), a letizia90 - che ormai aveva perso la speranza anche se non lo vuole ammettere - a alla cara celly chelly, dolce e tanto gentile, a cui però devo dire che non scriverò un seguito. Per me la storia è già compiuta così.

 

E grazie al mio amore Camilla. Così, perché mi va.  

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Capitolo 6
*** Extra 2. Parte 3. ***


10 Dicembre 2010. Una giornata a casa Cullen.

 

Ondeggiai in avanti, portando sulle mani il vassoio.

«Oh, Bella. Ci hai portato da mangiare?» ammiccò Emmett, lanciando la sua palla verso il cielo.

«Mammi, ammi ammi!».

«Vorrei, Emmett. Tre bicchieri di sangue freddo, A negativo, il migliore» affermai sarcastica, posando sul tavolino del garage il succo di Kate.

Rosalie stava lavorando alla mia Mercedes, sistemandola e perfezionandola. Ancora non aveva avuto occasione di metterci le mani addosso. Era strano vederla con una tuta da meccanico, sporca di olio e grasso da motore. Ma non potevo dire, assolutamente, che non fosse sexy anche così.

«Non correre, Kate, sta’ attenta» la chiamò Edward, anticipandola in un attimo e prendendola fra le braccia, per avvicinarsi in un istante al tavolino. «Cosa ti ha portato la mamma? Succo? Niente biscotti?».

Sollevai gli occhi al cielo, sorreggendomi la schiena con le mani. «Deve mangiare fra poco, Edward. Questa è solo la merenda. Sono io quella che la deve convincere a cenare, dopo». Guardai in alto, osservando Emmett che aspettava tranquillo che la palla cadesse. Mi chiedevo se non l’avesse mandata in orbita.

«Certo, come non detto» mormorò, aiutando la bambina a bere il succo. La piccola afferrò il bicchiere con entrambe le mani, tastando con le minute labbra piene la cannuccia e succhiando.

Rosalie scivolò da sotto la macchina, venendo allo scoperto. Emise un fischio. «Sempre più incinta, eh, Bella?».

Sorrisi appena, un sorriso che era quasi una smorfia. «E già. Ci siamo quasi. Carlisle dice che Mark è bello grosso, sarebbe un bene se decidesse di venire fuori un po’ prima» feci, leggermente spaventata dal tono con cui mio suocero diceva “è grosso, è bello grosso”. Neanche fosse un vitello. No, non avrei assolutamente partorito un vitello. Se solo l’ago dell’epidurale non fosse stato così enorme

«Beh, Rose. Io penso che ti dovrai abituare a quella pancia grossa, perché ho tutta l’intenzione di fartela vedere spesso» ammiccò Edward, orgoglioso.

Sospirai, sentendo un fastidio nascere dalla sommità della pancia. Stupide contrazioni.

«Oh, sì fratello, voglio proprio vedere come farai» ribatté con malizia Emmett, riacciuffando la sua palla.

«Alla, alla!» cantilenò Kate, battendo le mani e indicando lo zio.

Edward l’osservò con spavalderia. «Nell’unico modo in cui si fanno i bambini, Emm».

«Come si ‘anno i aini?» chiese immediatamente Kate, gli occhi grandi e curiosi, mentre si staccava dalla sua cannuccia per riporre il bicchiere vuoto.

Edward e Emmett la fissarono per un attimo, istupiditi, senza parlare.

«Adesso basta» li interruppi, «i bambini il facciamo nella nostra camera, Edward» sottolineai eloquentemente, arrossendo sulle guance «e non avverrà così presto, te lo posso assicurare. A meno che tu non voglia invertire i ruoli, certo» mormorai, assottigliando lo sguardo.

Mi sorrise, sereno. «Vedremo».

Non era qualcosa di cui parlavamo la prima volta. Ci avevamo discusso a lungo. Ma non poteva pretendere, a pochi giorni dal termine, che parlassimo di altre gravidanze. Mi faceva quasi pensare che fosse come un gioco. Quasi. Perché vedevo la scintilla d’amore con cui mi parlava, anche se non mi faceva desistere dall’idea di prenderlo a calci nel suo culetto d’oro.

«Ah, Rose, quanto ti invidio. Vorrei poter passare sotto quell’auto come te» borbottai, strofinandomi la schiena.

Kate stava urlando mentre Emmett si divertiva a rincorrerla. Almeno la distraeva.

Edward mi venne dietro, sostituendo le sue mani alle mie. «Vuoi sederti?».

Scossi il capo, massaggiandomi la pancia. «No. Sto per rientrare dentro. Alice stava organizzando qualcosa, voleva che passassimo la serata qui… Esme dovrebbe aver finito di preparare tutto per la cena, ora rientro. Inoltre» cincischiai arrossendo «ho bisogno di tornare dentro».

Mi sorrise appena, voltandomi per baciarmi il naso. «Certo, vai».

Non appena Kate si accorse che stavo rientrando corse a stringermi le gambe, facendomi quasi cadere. Sapeva che non potevo prenderla in braccio, allora aveva preso il vizio di stringersi alle mie gambe. «Kate» annaspai, brancolando per trovare un punto d’appoggio che non fosse lei o il pavimento.

«Kate!» la rimproverò Edward, venendo ad aiutarmi in pochi secondi.

«No. Mammi» ribatté decisa, imbronciando le labbra.

Sospirai, massaggiandomi la pancia. Un’altra contrazione. «Vieni con me Kate, ma dovrai mangiare la cena. E camminare».

La bambina annuì, tendendomi la mano.

Le sorrisi, accarezzandole i capelli. «Andiamo».

 

«Ho fatto la spesa per qualsiasi ricetta, Bella. Qui trovi il burro, qui il semolino, e qui tutti i formaggi. E qui dovresti trovare tutte le creme e la pasta. Chiedimi se non trovi qualcosa. Sicura che non vuoi che rimanga con te?» mi chiese Esme, sfrecciando da una parte all’altra della cucina.

Sorrisi a Kate, passandole un altro pastello per colorare. «Sì, sono sicura». Sollevai la testa per guardare mia suocera. «Si sente più a suo agio a mangiare con me, lo sai… vuole solo… spero che mangi» mormorai, scuotendo le spalle.

Annuì, osservandomi. «Certo, per qualsiasi cosa chiamami. Sono qui in salotto».

«Sicuro». Passai il rosso a Kate, col quale colorò le mie labbra. Aveva poco più di un anno e mezzo, e ne dimostrava meno. Ma sapeva disegnare bene. A volte, avevo paura che tutto quello che aveva vissuto indirettamente tramite me la influenzasse troppo. Avevo chiesto a Carlisle, disperata, se nei suoi disegni ci fosse qualcosa di strano. Mi aveva rassicurata, “probabilmente ha ereditato il talento della madre”.

«Vedde, ammi. Vedde!» reclamò la mia attenzione.

Strinsi la pancia con una mano, osservai l’orologio. Presi un breve respiro. «Il verde, Kate. Certo, ecco il verde. Cosa ci devi fare?».

Afferrò il pastello fra le piccole dita, stringendo le labbra, concentrata. «Gli occhi di papà».

«Ah, gli occhi di papà, sì. Gli occhi di…» annaspai, osservandola in silenzio. Chi gliel’aveva detto?

«Kate» la chiamai, posando una mano sulla sua spalla, «Kate, tesoro. Chi ti ha detto che gli occhi di papà sono verdi?».

Gli occhi di mia figlia, lucenti del colore ormai perduto del padre, si specchiarono nei miei. Estese il suo scudo, come faceva sempre, inconsciamente, quando doveva rivelare qualcosa che la spaventava o di cui si vergognava, o che aveva paura di condividere. Perché così gli altri non avrebbero potuto sentire. «Veddi».

Scossi lentamente la testa, destabilizzata. «No, tesoro. Sono ambra, ambra chiaro».

Sbatté le palpebre, fissandomi insistentemente. «No. Veddi. Ando è totto…» guardò in alto, verso il suo scudo, poi si indicò «Kate».

Annuii, colpita. Possibile che sotto il suo scudo si rivelasse qualcosa di diverso dal solito? «Capisco. Forse dovremmo dirlo al nonno. E a papà».

La bambina scosse la testa, gettando le braccia contro il mio pancione. «No».

Annaspai, accarezzandole piano i capelli. Perché no? Non si sentiva diversa, vero? Non doveva. Sospirai, osservandola preoccupata. Dovevo solo darle i suoi tempi. «Va bene» la rassicurai, attorcigliando i suoi lunghi capelli mori alle mie dita. «Va bene, Kate. Adesso mangiamo».

La bambina mi osservò dal basso, spostando poi lo sguardo verso il seggiolone. Oh. Certo…

Sospirai, piegandomi sui talloni, e non senza un enorme sforzo la tirai su, facendola scivolare nella sua seduta. Presi un lungo fiato, massaggiandomi la schiena. Eh, sì. Faceva proprio male.

«Allora, Katie» feci celere, intenta ad allontanare lo sguardo attento della mia bambina, «cosa mangiamo oggi? Abbiamo il semolino col formaggino, il riso col pomodoro, e il… brodino di pesce». Non il brodino di pesce, amore di mamma, non dire il brodino di pesce.

«Omodo-o» dichiarò decisa.

Mi aprii in un largo sorriso. «Perfetto».

Non passò molto che Edward fece capolino nella stanza, la maglietta imbrattata di terra. «Scusa, devo andare a lavarmi. Hai bisogno di aiuto? Di qualcosa? Posso darle da mangiare se vuoi…».

Ondeggiando sui piedi rilasciai un respiro, appena un secondo prima di guardare l’orologio. Scossi il capo, mescolando la pietanza e prendendone un piccolo boccone direttamente dalla pentola. «No, no, grazie. Fai pure, fra un po’ veniamo di là».

«Davvero?» chiese, aprendo ancora un po’ la porta e osservando Kate, intenta a concludere i suoi disegni sul seggiolone, «e mi spieghi chi ce l’ha messa Kate lì?» fece, vagamente accusatorio.

Mi voltai nella sua direzione, osservando prima Kate e poi lui. Scrollai le spalle. «Teletrasporto» ridacchiai, voltandomi nuovamente.

«Teletrasporto, certo» borbottò, uscendo dalla stanza.

Feci un occhiolino alla bambina, causando il suo riso.

Mescolai il riso nel piattino, soffiandoci su prima di darglielo. Lo prese fra le labbra senza protestare. Era una brava bambina, dopotutto. Il fatto che spesso non volesse mangiare dipendeva molto dalla sua natura, quella che dovevamo cercare di reprimere.

Gemetti debolmente, strofinandomi la pancia. Cinque, sei, sette… Osservai l’orologio. Eh sì, duravano sempre di più.

«Ci sono altre cose belle che vedi sotto il tuo scudo, Kate?» le chiesi dolcemente, asciugandole le piccole labbra.

Mi osservò attentamente, incerta. Non passò molto che mi ritrovai circondata dalla sfera fluttuante. «Ammi» mi chiamò, un po’ preoccupata.

«Sì tesoro, dimmi» dissi dolcemente, accarezzandole una guancia.

Abbassò leggermente la testa, sporgendo il labbro inferiore. «Atellino?».

La osservai attentamente, senza dire nulla. Non poteva essere che l’avesse capito. No. Doveva averlo piuttosto intuito, tramite il suo scudo. Doveva essere qualcosa di cui non ci eravamo ancora resi conto, molto più di quello che aveva già mostrato di essere.

Sussultai, stringendo le mani sulla pancia. Appena potei annuii piano, con un sorriso rassicurante. «Sì, Kate. Mark verrà presto a conoscerti».

Annuì insieme a me. E sorrise.

 

Con la mano nella sua, piccola, camminammo insieme lungo il corridoio, fino al soggiorno di casa Cullen. Un tumulto di vampiri si affaccendava nelle più disparate attività.

Abbassai il viso su mia figlia, incatenando al suo il mio sguardo complice. Mi schiarii la gola, stringendo più forte la presa sulla mano di Kate.

E mentre sette vampiri erano fermi a fissarmi, pacatamente parlai, una smorfia di leggero imbarazzo sul viso: «Io e Kate abbiamo qualcosa da dirvi. Non per allarmarvi, ma credo proprio di star per partorire».

 

Velocemente, troppo velocemente, si avvicinarono a noi, in meno di un istante. Sentii la mano di Kate stringersi più forte sulla mia e prima che tutti potessero essere troppo vicini, io e mia figlia eravamo protette da uno scudo spesso.

Mi voltai nella sua direzione. «Katie…».

Mi guardò fissa negli occhi, il broncio sulle labbra. La conoscevo quell’espressione.

«Kate, tesoro, perché fai così?».

«Katherine, avanti, abbassa lo scudo».

«Katie! Fa’ la brava bambina».

Le frasi arrivarono filtrate e il suono ovattato. Le labbra della bambina tremarono, gli occhi si inumidirono.

«Bella!» mi chiamò Edward, facendomi voltare per un istante nella sua direzione, prima che la bambina scoppiasse a piangere.

Sospirai, piegandomi lentamente e maldestramente sulle ginocchia, dolorante. Quello che volevo che non accadesse. Esattamente quello. «Vieni qui, tesoro, vieni dalla mamma» la chiamai piano, facendola avanzare di un passo e stringendola fra le braccia. «Va bene tesoro, va tutto bene. Cosa succede? Cosa c’è che non va?» le chiesi dolcemente.

Singhiozzò contro la mia spalla. Era spaventata. Tutto quel trambusto, quella reazione improvvisa, l’aveva messa in agitazione.

Le accarezzai i morbidi capelli color cioccolato. «Amore della mamma, non succede niente di brutto, lo sai, vero? Stai solo per conoscere il fratellino, con cui giocherai e ti divertirai tanto». Gemetti, piegandomi contro il pavimento, quando l’ennesima contrazione m’investì.

«Bella!» mi chiamò Edward, «Kate, tesoro. Abbassa lo scudo, avanti. Abbassa lo scudo».

Ma la bambina non lo fece. Il suo sguardo triste mi accecò. Sollevò una manina fino a posarla sul mio seno, facendomi sussultare.

Sospirai. Chiedermi il latte come mezzo di conforto era qualcosa che faceva sempre quando aveva paura che mi sarei allontanata da lei. Come se questo ci potesse unire e garantirle che non l’avrei mai fatto. Ma da quando ero rimasta incinta di Mark non avevo più latte per lei.

«Lo sai che non posso, tesoro. Però puoi bere il latte con i biscotti nel tuo bicchiere da grandi, o nel biberon. Lo vuoi?» le chiesi con delicatezza, accarezzandole la guancia.

La piccola annuì, piano, cauta.

Ansimai appena. «Forse la zia Alice o la zia Rose possono aiutarti…».

«No. Ammi!».

Annaspai ancora e la voce di Edward echeggiò ancora nella nostra direzione. «Kate, fa’ passare anche me. Avanti, tesoro. Fa’ entrare anche me».

La bambina gli rivolse uno sguardo triste, prima di estendere il suo scudo oltre il padre. Venne accanto a me, stringendomi fra le sue braccia. «Stai bene? Va tutto bene?».

Annuii piano. «É tutto apposto, è passato» mormorai a mezza voce, sostenendomi alle sue braccia, senza mai distogliere lo sguardo dalla piccola. «Il latte, e i biscotti. Ti prometto che quando la mamma tornerà, insieme a Mark, mangeremo tutti insieme il latte e i biscotti. Tutti tutti. E la mamma ti terrà in braccio tanto tempo».

«Utti?» chiese piano, ancora imbronciata, posando una mano sul mio pancione.

«Tutti Kate».

«Papà?» chiese, illuminandosi appena di malizia. Era furba. Moltissimo.

Sorrisi complice. «Anche papà» ridacchiai fra le labbra.

Edward la tirò a sé, stringendola ai nostri corpi vicini. «Piccola birichina» la rimproverò bonariamente.

Sibilai, lasciandomi completamente scivolare a terra e fra le braccia di Edward, lasciando che mi accarezzasse la schiena.

«Stai bene?».

Annuii, piano.

«Andiamo. Fai la brava, Kate. Mamma e papà torneranno presto».

La piccola gli strinse le braccia al collo, appoggiando le labbra umide sulla sua guancia.

Quando sollevai lo sguardo sul viso di mio marito, vidi che aveva ragione.

I suoi occhi erano verdi.

 

Il 20 Giugno 2009, giorno del 108esimo compleanno di Edward.

 

«Auguri! Auguri!».

Edward soffiò sulle ventidue candeline, spegnendole. Mi rivolse un’occhiata a metà fra un sorriso e una smorfia. Kate, nel suo grembo, si lanciò con una manina verso la glassa che ricopriva la torta. Tipico.

«Tesoro, sono molto contenta che tu abbia trovato Edward come marito, si vede che siete fatti l’uno per l’altra».

Sorrisi, voltandomi verso mia madre. «Grazie». Avevamo organizzato una piccola festicciola in famiglia, considerato che Reneé aveva trovato nel compleanno di Edward la scusa adatta per farci visita.

Scosse il capo. «Figurati, tesoro. Come vanno le sue lezioni? Riuscite a gestire tutto con due bambini così piccoli? Oh, crescere i bambini è un’impresa così stancante».

Ridacchiai, con una punta di nervosismo. Lanciai un’occhiata nella direzione del mio piccolo Mark, trastullato fra le braccia dello zio Emmett. Avevamo deciso che Edward si sarebbe formalmente iscritto alla facoltà di medicina di Seattle, in modo che i miei - soprattutto mio padre - non si facessero troppi problemi sulla situazione economica della mia famiglia. Io, dal canto mio, avevo deciso di accantonare gli studi artistici per riprenderli quando avessi avuto… più tempo a disposizione. «Edward riesce ad organizzarsi perfettamente fra lo studio e i bambini. E poi ci sono i Cullen e papà che mi danno sempre una mano. Non è così difficile. Sono due piccole pesti, ma insieme giocano tutto il tempo».

«Signore, cosa si dice?» domandò mio marito, avanzando con due piattini di torta nelle mani.

Gli feci posto accanto a me sul divano. Ci arrivarono le urla di Kate, che giocava con Rosalie e Jasper. «Parlavamo proprio di te» sghignazzai con un sorriso.

«Di me?» chiese con finta sorpresa Edward, «e di cosa?».

Mia madre arrossì. Genetica. «Bella è stata fortunata a trovare un ragazzo più grande di lui, anche se di pochi mesi. Il mio Phil… Diventerò vecchia mentre per lui non si vedrà affatto. Si sa che gli uomini si mantengono sempre giovani e bellocci».

Sollevai gli occhi al cielo. Tasto dolente.

Edward posò la sua mano sulla mia. «Ti ringrazio Reneé. Ma anche tu sei un vero fiore» fece, ammiccando nella sua direzione con un mezzo sorriso.

«Certo, tesoro! Te lo dico sempre, smettila con questa storia» intervenne Phil, avvicinandosi. «Vieni, voglio farti vedere cosa ho insegnato a Kate. Sono sicuro che imparerà a lanciare una palla ad effetto micidiale».

«Lo credo bene!».

Edward sospirò, stringendomi da dietro. Emmett aveva messo Mark sul tappeto, tenendolo seduto. Kate stava facendo le trecce alla sua bambola con Alice. Da quando avevo avuto i bambini il suono costante in quella casa erano i gridolini, gli schiamazzi e le urla. Quasi meglio del silenzio.

«A proposito di invecchiamento…» brontolai.

Strofinò la bocca contro il mio orecchio. «Lo sai che c’è un modo» mormorò, facendo scorrere una mano sotto la mia maglietta «quando lo facciamo un altro bambino?».

Sospirai, pronta a ribattere. Prima di sentire lo squillo acuto del pianto di mio figlio, in lacrime, caduto dopo un maldestro tentativo di gattonare. Ci alzammo contemporaneamente, precipitandoci nella sua direzione.

Lo issai fra le braccia, stringendomelo addosso. Strillava, agitato, ma poche lacrime cadevano dai suoi occhi. Lo cullai freneticamente, mentre Edward gli accarezzava la testolina tonda e ramata.

«Non ha nulla, si è solo spaventato. Vieni da papà, ecco» fece, sfilandolo dalle mie braccia e cancellandogli le lacrime.

«‘Amma! Anch’io ‘accio!» si lamentò Kate, tirandomi le gonne.

Mi chinai, sollevandola a stringendola a me. Scoccai un’occhiata a Edward. «Diciamo non per ora, okay?» sottolineai eloquentemente.

 

«Ehi».

«Ehi» mormorai maliziosamente.

«Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero».

Ridacchiai, osservando in basso. «Credi che te l’avrei fatta passare con le ventidue candeline? No, tesoro. Questa è la tua vera torta».

Scosse il capo. «Le hai messe tutte? Chi mangerà anche questa torta?».

«Tutte, sissignore. Centootto candeline. Ti confesso che per accenderle mi sono bruciata una o due volte. Ma se ti sbrighi a spegnerle e la cera non cola sulla glassa di sicuro Kate e Mark saranno lietissimi di papparsela. Muoviti».

Ridacchiò. La torta stava fra di noi, seduti nella nostra stanza nella penombra di due lumi e della luce delle candeline. Erano andati tutti via, i bambini dormivano beatamente nei loro lettini, e noi avevamo finalmente un po’ di tempo. «Non posso credere che tu l’abbia fatto» ripeté, scuotendo la testa.

«Oh, sì. Esprimi un desiderio».

Mi sorrise, furbo, chinandosi sulla torta. Soffiò in una lunga tirata, spegnendole tutte. I suoi occhi erano pieni di malizia.

«Ti prego, Edward. Dimmi che non hai espresso quel desiderio».

Sorrise sornione, allontanando la torta. «Mmm, vediamo» mormorò, avvicinandosi a posare le mani su entrambi i lati della mia maglietta. «Se te lo dico non si avvera».

Risi, incollando febbrilmente le labbra alle sue, prima di fare l’amore con mio marito.

 

 

Fra un capitolo di biochimica e uno di anatomia trovo sempre il tempo di pensare a voi…

Spero che anche questo pezzettino vi sia piaciuto. Sarò rapida, gli studi mi attendono.

Rinnovo i miei due inviti:

A fare un salto alla quattro mani scritta de me e da tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama “The Woodmore Sisters”. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Firmare la petizione per il libro “Die for me”, di Amy Plum. Dicono sia davvero bello, e sarebbe carino averlo in italiano. Trovate anche una recensione di alessiaesse nel link della petizione. :)

E grazie a tutte! :D

 

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Capitolo 7
*** Extra 2. Parte 4. ***


Novembre 2010. Un pomeriggio a casa.

 

«E questo dove lo mettiamo tesoro?».

«-ia-a» esclamò Mark, togliendomi la formina dalle mani e incastrandola nel giochino.

Sorrisi, accarezzandogli i capelli chiari. «Bravo, nella fattoria».

Kate si avvicinò, chinandosi sui talloni, le mani a sorreggersi il mento come aveva visto fare ai grandi. Mark le sorrise di rimando, mostrando la sua boccuccia sdentata. Era molto nervoso e agitato in quel periodo, per via della dentizione, così si svegliava spesso la notte, facendo svegliare anche me. Sbadigliai, stanca. Appena un attimo perché Kate prendesse il giocattolo del fratellino e corresse via in un battibaleno.

Mark scoppiò a piangere.

«No, Kate! Riporta il gioco a tuo fratello». Mi sollevai in piedi, arrabbiata.

«Prendimi, prendimi!» esclamò Kate, lo sguardo furbo.

Sospirai, estremamente frustrata. Lo sapeva che non sarei stata in grado di raggiungerla. Odiavo che per i miei limiti umani mettesse in dubbio la mia autorità di genitore. «Katherine Elizabeth Cullen. Torna qui, all’istante, se non vuoi che ti tolga tutte le tue bambole» esclamai severa.

Mi si presentò dinanzi, lo sguardo combattivo ed orgoglioso. Sapeva che sarei stata capace di farlo. L’avevo già fatto. Sapevo che i suoi dispetti erano originati dalla gelosia che nutriva nei confronti del fratellino, e lo sapevo che in questi giorni avevo dedicato maggiormente le mie attenzioni a lui, ma solo perché non era stato bene. Li amavo, entrambi, con tutto il mio cuore, esattamente allo stesso modo.

Sospirai, prendendo il giochino dalle sue mani. Sollevai Mark dal tappeto, facendolo smettere di piangere. Si tese verso la sorella, toccandole la guancia. La adorava, letteralmente. «Che dite se facciamo un gioco tutti assieme?» proposi, sorridendo a Kate conciliante.

La bambina ricambiò uno sguardo imbronciato.

«Kate, possiamo giocare a prendere il tè con le tue bambole, che ne dici?».

«Eti, eti» gorgogliò Mark, tendendo le mani paffute verso la sorellina.

«‘Oio giocare colle fommine anch’io» protestò.

Sospirai, lasciandomi cadere ancora una volta sul tappeto. «Va bene tesoro. Vieni qui, siediti accanto a me. Mark, guarda com’è brava la sorellina a giocare con le formine, sa fare tutti i versi degli animali» feci, sorridendo al mio bambino.

Katie sembrò soddisfatta dal mio complimento. Furono venti lunghissimi minuti di gioco pacifico, e Kate diede anche un bacio soddisfatto al fratello, prima che Edward ritornasse a casa con la spesa.

«Papà! Papà!» chiamò la bambina, sollevandosi e correndo a tutta forza nella sua direzione.

Mark si contorse fra le mie braccia, insofferente. «A-ma» vagì, facendo una smorfia.

Me lo strinsi al petto, cullandolo. «Lo so amore mio, lo so, shh, shh» mormorai, sollevandomi in piedi. La testa mi girò per qualche secondo. Oh, merda. Presi un fiato. Mark piangeva. Chiusi e aprii gli occhi, e andai in cucina a prendere l’oggettino di gomma che amava masticare, un pesciolino giallo.

Edward stava mettendo a posto quello che aveva comprato con l’aiuto di Kate, che scrutava nelle buste in cerca delle caramelle. Diedi il pesciolino a Mark, calmando il suo pianto. «Hai preso tutto?» domandai.

Annuì, issando Kate su uno scaffale per farle sistemare la pasta. «Come va con Mark? Piange sempre?».

Sospirai, cancellando le lacrime appena scese sul viso di mio figlio. Era intento a mordicchiare e sbavare l’oggettino che teneva fra le mani. «Abbastanza. Adesso lo faccio mangiare così si calma, spero».

«Anch’io mangiare» esclamò rapida Kate.

Sorrisi alla bambina. «Sì tesoro. Dimmi tutto quello che vuoi e la mamma te lo cucina».

«‘Oio la pappa di Mak».

Chiusi gli occhi, cercando di allontanare l’esasperazione. Li riaprii. «Kate, la pappa di Mark non ti piace. È molle e per bambini piccolini».

Si imbronciò. «Ma io la ‘oio».

«Ehi Kate» intervenne Edward «cos’è questa storia? A te non piace quella pappa. Perché non vuoi mangiare la stessa della mamma, invece? Cosa ne dici?».

Lo guardò insoddisfatta.

«E se te la cucina papà?».

La bambina sorrise. «Insieme!».

Edward rise, stringendosela addosso. «Insieme, allora. Dimmi, qual è la ricetta? Cuciniamo una bella cenetta per te e la mamma, ci stai?».

Sollevai gli occhi al cielo, deponendo Mark nel seggiolone. «Non incasinatemi la cucina» borbottai, aprendo l’anta dell’armadietto per prendere un po’ di omogeneizzato per Mark. Appena lo misi nel piattino una forte nausea mi costrinse a bloccarmi, stringendo una mano contro il naso per non vomitare. Merda, merda, merda. Non già. Non adesso.

«Bella, va tutto-».

Scattai in alto con la testa. «Edward, ti dispiace se esco un attimo? Mi sono ricordata che devo fare una cosa urgente».

Mi fissò, perplesso. «No, certo. Ma cosa-».

«Prendo la tuo Volvo, okay? L’hai lasciata nel vialetto?».

Annuì.

Sospirai. «Perfetto» mormorai, avvicinandomi a lasciargli un bacio sulle labbra. Recuperai in fretta cappotto e chiavi, e uscii di tutta fretta in direzione farmacia.

 

«Papà?» chiamai, bussando alla sua porta.

Venne ad aprirmi, sorpreso di trovarmi lì. «Bella. Che ci fai da queste parti? E come mai non mi hai portato almeno uno dei miei nipotini?».

Mi infilai in casa, sfilandomi velocemente il cappotto. «Scusami, ho avuto un piccolo contrattempo. Ti dispiace se uso il bagno?» feci, muovendomi da un piede all’altro, impaziente.

Sempre più perplesso si richiuse la porta alle spalle. «No Bells, certo che no».

«Grazie» mormorai velocemente, sgattaiolando su per le scale.

 

Trentasette. Trentotto. Trentanove. Quaranta.

Con la gamba che si muoveva freneticamente su e giù feci un gran respiro. Afferrai il test. Due linee positivo. Una linea negativo. Due positivo. Una negativo.

«Merda, merda, merda!».

Due.

«Bella, tesoro, stai bene?» domandò la voce stranita e imbarazzata di mio padre, dall’altro lato della porta. «C’è tuo marito al telefono, cosa gli devo dire?».

Digli che sono incinta, cazzo!

 

Febbraio 2011. Tre mesi dopo.

 

«Non mi guardare così!».

«Così come?» chiesi con aria di sufficienza.

«Come se fosse colpa mia. Se non sbaglio anche tu eri consenziente quella notte. Anzi, più che consenziente».

Sollevai gli occhi al cielo, accarezzando la pancia con le mani. Avevamo deciso che avremmo provato ad avere un altro figlio, ma non credevo davvero che sarei potuta rimanere incinta nel giro di soli tre mesi. «Credo proprio di averlo superato Edward. E comunque, se ogni tanto ti guardo così è perché tu sei quello che ha insistito per fare un altro bambino, e io quella che deve fare la pipì nei bicchierini».

Sorrise ampiamente. Come faceva ad essere così felice? «Starei sempre così, con i nostri bimbi dentro di te. Peccato tu non mi abbia lasciato frequentare ginecologia».

Lo fissai in cagnesco. «Non potrei mai essere sposata a un ginecologo. Diventeresti o infedele o frigido. No, mai».

Rise dalle mia teoria. «Ma io farei nascere solo i nostri bambini».

«No!» protestai «quante volte te lo devo dire? Credimi, non ti piacerebbe vedere la mia vagina in quelle occasioni. Edward, basta. Pensiamo alla bambina piuttosto» sospirai, facendo emergere tutto il mio nervosismo.

Edward mi accarezzò la guancia. «Sta bene, vedrai».

Abbassai il capo, agitata. Carlisle sentiva come un’eco nell’auscultazione del suo battito. Aveva minimizzato, detto che dovevamo controllare, informandomi di quella strana anomalia solo un paio di settimane fa, eppure… Sapevo che aveva paura che fosse affetta da una malformazione cardiaca. Io, personalmente, ero terrorizzata. Mio suocero mi aveva rassicurata dicendomi che la composizione disomogenea della placenta aveva potuto alterare il suono, ma oggi avremmo fatto un’avanzata ecografia per riuscire a capire qualcosa.

«Mrs Cullen» chiamò l’infermiera.

Annuì, sollevandomi velocemente.

Ad accogliermi nello studio mio suocero, con un sorriso confortante. «Rilassati Bella. Adesso controlliamo subito tutto».

Sospirai, chiudendo gli occhi. Edward mi teneva la mano, al mio fianco. Temevo che quella potesse essere la prima volta che, durante l’ecografia di un mio bambino, piangessi di dolore. Non volevo vedere.

«L’immagine si distingue a stento. È ancora un po’ presto per un ecografia nel tuo caso» fece, oscillando con la sonda sul mio ventre «vediamo se trovo il cuore».

Tremai, spaventata. E se non fossi stata pronta per una cosa simile? Cosa avrei fatto?

«Ecco. Eccolo, sì. Vediamo… non vorrei parlare troppo presto, ma a me sembra sano».

Aprii gli occhi, pieni di lacrime. Stavo impazzendo. «Carlisle» gemetti, singhiozzando.

Edward si affrettò ad asciugarmi le lacrime, facendomi sfogare contro il suo petto. «Shh, andrà tutto bene. Shh. Sembra sano, hai visto? Stai tranquilla» mi consolò, accarezzandomi i capelli.

«In questi casi normalmente mi affiderei ad un’amniocentesi, ma per te è ancora troppo presto. Tuttavia ho un dubbio. Vorrei fare una TVS per essere sicuri, va bene? Il cuore sembra stare bene».

Annuii, sollevandomi e cancellandomi le lacrime dal viso. Sfilai i pantaloni e l’intimo, sistemando le gambe sulle staffe.

«Guardami tesoro» mi richiamò Edward «pensa a Kate e Mark che ci aspettano a casa. Pensa a cose belle».

M’irrigidì, serrando gli occhi. «Solo un po’ di fastidio. Ho quasi fatto» si scusò Carlisle. Dopo qualche secondo una nuova immagine comparve sul monitor. Sorrise. Un largo sorriso soddisfatto. «Proprio come immaginavo».

Sollevai la testa, guardando verso mio suocero. «Cosa? Perché sorridi Carlisle? Dimmi perché sorridi, ti prego».

Si voltò nella nostra direzione, allegro. «Congratulazioni. Aspettate due magnifiche gemelline».

Sgranai gli occhi, sconcertata, lasciando cadere la bocca aperta. Stava bene. Stava davvero bene. La mia bambina stava bene, ma era… due.

Erano due. Oh mio Dio. Oh. Mio. Dio.

«Edward!» strillai, voltandomi nella sua direzione, «che accidenti hai combinato? Confessa!».

Mi fissò sorpreso. «Io? Niente».

Gli tirai un colpo sulla spalla. «Non dirmi niente. Lo so che morivi dalla voglia di avere un altro bambino. E mi sembra assurdo che ci siamo riusciti di nuovo così presto. Quindi ne sono certa, è colpa tua. Cosa mi hai messo nel caffè?».

«Guarda, Bella, che io-».

«Ahh, non ti voglio ascoltare» feci, mettendo entrambe le mani sulle orecchie, «sei un bugiardo. Hai idea di quanto sia difficile crescere due gemelli? Avremo… oh, Cielo. Avremo quattro bambini!» esclamai isterica.

«Bella» mi richiamò mio suocero, sorridendomi «capisco il tuo disorientamento. Ma le gemelline non sono dizigoti. Non si può spiegare con motivi genetici o con l’assunzione di farmaci. Sono identiche, frutto di un evento puramente casuale. Un evento davvero raro!».

Gemetti, lasciandomi cadere sul lettino. Edward, al mio fianco, gongolava con un ampio ghigno. Due gemelle… sarei impazzita. Ma, almeno… non potei fare a meno di accennare un sorriso. Stavano bene.

«Sono due» mormorò emozionato «questa furbetta si era nascosta dietro la sorellina».

Sospirai, voltandomi verso mio marito. «Almeno, questo vuol dire una gravidanza in meno» borbottai, provando ad essere ottimista - non potevo pensare al fatto che avrei avuto quattro bambini. Quattro. Quattro. Quat-tro.

Edward mi strinse la mano, sorridendo felice. «Stanno bene».

«Già, bene». Sorrisi appena. «Carlisle, dimmi che non fa male il doppio» frignai, causandogli una lunga risata.

 

 

 

 

Un brevissimo messaggio:

siamo tutte impegnate ultimamente! È la Vigilia di Natale, quindi TANTI AUGURI!

Spero che l’extra vi piaccia. Ho ancora tante pagine scritte da farvi leggere…

Grazie mille a chi ha commentato la scorsa volta, siete state carinissime. ^^

Un bacione e buone feste!

 

PS. Se voleste dare un’occhiatina all’altra mia storia (in realtà una quattro mani scritta con Cami), “The Woodmore Sisters”, ne sarei tanto contenta.

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Capitolo 8
*** Extra 2. Parte 5. ***


23 Marzo. Ora di pranzo.

 

«Dannazione! Edwaaard!» urlai, trascinando la “a”.

«Cavolo Bella, a meno che non sia un fatto di vitale importanza qual è il motivo di urlare così? Ti sento benissimo ugualmente».

Mi voltai a fissarlo con un’occhiata assatanata mentre con una mano tenevo il mestolo per girare la pasta e con l’altra cullavo Mark, stretto al mio petto appena sopra il pancione ingombrante, che piangeva. E Kate mi tirava i pantaloni. «Mi sembra che sia di vitale importanza» sibilai fra i denti.

Mi fissò, sconcertato. «Che diavolo sta succedendo? Dammi Mark» fece, protendendosi immediatamente per sollevarlo.

Scossi il capo. «No, no, senti. Hai finito di sistemare di là? Mark lo tengo io, visto che sono già sporca. Non possiamo andare a cambiarci in due, abbiamo fatto già abbastanza danni. Problemi di vasino» indicai con lo sguardo, mostrandogli i suoi pantaloni bagnati e la mia maglietta nelle stesse condizioni. «Tu finisci di cucinare e bada a Kate. Gli altri saranno qui fra meno di mezz’ora e io mi devo lavare di dosso la pipì del cucciolo».

Edward passò la mano fra i capelli di suo figlio, sorridendogli e facendolo tranquillizzare. «Non è successo niente, cucciolino. Adesso la mamma ti cambia e tu starai bene» lo rassicurò con dolcezza. Poi sollevò Kate da terra e prese il mio posto ai fornelli. «Non ti stancare» mi ammonì, lanciandomi un’occhiata di sbieco, prima di intavolare una seria conversazione con la figlia.

Cambiare Mark non fu troppo impegnativo, considerando che quel bambino era davvero molto tranquillo e poche coccole bastavano per farlo rilassare. Il senso di disagio nel sentirsi bagnato lo aveva indotto a piangere, ma speravo che non si vergognasse troppo di quello che era successo. Dopotutto, seppur acuto e intelligente, era pur sempre un bambino di un anno e mezzo.

«Ti piace questa tutina tesoro? È più bella di quella che avevi prima» lo coccolai, facendogli il solletico.

«Tì» ridacchiò, guardandomi birichino.

Lo lasciai sul fasciatoio, scostandomi appena per recuperare una maglietta pulita dall’armadietto. Sfilai quella sporca e un attimo prima di risollevare lo sguardo sul bambino notai qualcosa sulla mia pancia. Una macchia. Rossa.

 

«Pensi che possa essere morbillo? O varicella?» chiesi preoccupata.

Edward continuò ad osservare la macchiolina, passandoci appena il pollice sopra. Aveva una ruga di concentrazione fra gli occhi. «Non lo so, non mi pare. Non sei stata vaccinata?».

Sospirai, lasciando andare il capo sullo schienale del divano su cui ero seduta. Mark, accanto a me, si accoccolò meglio contro il mio corpo. «Non lo so, Edward! Potrei chiederlo a mia madre ma non sono certa che se lo ricorderebbe e mio padre di sicuro non ne ha idea» sibilai spaventata.

Mio marito mi accarezzò il viso. «Vedrai che non è niente. Aspettiamo che venga Carlisle e chiediamo a lui».

«Ma se fosse morbillo?».

Scrollò le spalle. «Agiremo di conseguenza. Inutile fasciarsi la testa da ora. Magari è solo una puntura di insetto. E poi è solo una, e piccola, non mi pare il caso di allarmarsi».

Annuii, un nodo alla gola, riabbassando sul pancione la maglietta morbida e calda.

«Mammi! Ho dato pappa ‘a Boa!» gridò Kate, saltellando allegra nella nostra direzione.

Mi voltai a fissare di sbieco Edward. «Dici che abbiamo bisogno di un altro pesce rosso?».

Si voltò per ridere sotto i baffi.

 

«Chiamalo, Edward» mormorai, la voce che mi tremava.

Fece passare un braccio dietro le mie spalle, guidandomi sul divano. «Ehi, stai calma. Siediti qui, avanti. Sicuramente Carlisle ci dirà cosa fare».

Tremante sollevai la maglia a fissare la macchia. Era triplicata di dimensioni. In dieci minuti. «Non è normale» mormorai, querula.

Edward mi baciò il capo, scomparendo un attimo alla mia vista.

«‘aamii» urlacchiò Mark, scuotendo in aria il suo trenino. Kate glielo prese dalle mani, facendolo giocare e ridere. «Ciuf ciuf ciuufff!».

Carlisle arrivò non più di tre minuti più tardi, eppure dal suo esame obbiettivo non riuscì a ricavare alcuna informazione che fosse di senso logico. «Non hai altri sfoghi?».

Scossi il capo, fissando il suo volto concentrato alla ricerca di un segno che mi facesse rilassare o preoccupare ulteriormente.

«Prurito? Fastidio, irritazione? Bruciore?».

«Niente, a parte il fatto che in questo momento sto morendo di paura» confessai preoccupata.

Carlisle sollevò le sopracciglia. «Potrebbe essere uno sfogo da stress o una reazione allergica a qualcosa… Ma è strano che non ti dia alcun sintomo, e poi sembra…».

Suonarono al campanello.

Sollevai il capo di scatto. «Sono già arrivati?» domandai agitata.

«Vado ad aprire. La smetti di stressarti?» mi rimproverò bonariamente Edward, prendendo i bambini con sé.

«Mmm… strano…» mormorò Carlisle, ancora intento ad osservare la macchia rossa.

«Cosa? Oddio!» esclamai, notando come si espandesse a vista d’occhio. Ricopriva ora un quarto del pancione. Il cuore prese a battermi velocemente e altrettanto rapidamente la macchia continuò ad ingrandirsi.

«Davvero strano…».

«Cosa è strano? È terribile, non è strano!».

Carlisle mi fissò. «Rilassati» mi ordinò con voce compassata.

«Cazzo, Bella! Che hai fatto alle mie nipotine?» esclamò Emmett, osservando la pancia quasi totalmente ricoperta di rosso. Accanto a lui quasi tutto il resto della famiglia entrava in sala e mi guardava, aprendo la bocca sorpresa e strabuzzando gli occhi.

Li fissai, senza riuscire più a trattenere le lacrime. «Non è normale, non è normale» singhiozzai, premendo le dita contro il pancione.

Edward venne vicino a suo padre, fissandolo attentamente e rispondendogli a fior di labbra. Mi mise le mani sulle spalle, obbligandomi a guardarlo. «Stai. Calma» scandì con lentezza.

Mi morsi il labbro, lasciandolo tremare fra i denti. Esme invitò i presenti a spostarsi in sala da pranzo, e portare, grazie al cielo, i bambini con loro. Edward mi cancellò le lacrime, carezzandomi il viso finché non fui decentemente calma.

«Ecco, guarda» fece infine, mostrandomi come la macchia avesse smesso di espandersi.

Ancora tremante, scrutando i visi di Edward e Carlisle in cerca di una possibile bugia domandai: «Non è sangue, vero?».

Mio suocero scosse il capo. «No. Sembra colore».

«Com’è possibile che sia colore?» domandai stranita, la voce roca.

«Sarebbe davvero strano».

Carlisle strofinò le mani contro la mia pelle. «Portami un panno bagnato, Edward».

«Vuoi che ti aiuti a sfilare la maglietta?» mi domandò Edward, indicandola e tornando in un secondo con un canovaccio inumidito.

«No, grazie, preferisco tenerla».

«Se non funziona andiamo in ospedale a fare delle prove allergiche. Ma ora…» fece Carlisle, passando la pezza sul pancione.

E così avvenne qualcosa di realmente assurdo.

«È blu!» esclamai isterica, perché stare calma in quel momento non era davvero possibile.

Persino Carlisle aveva il volto marchiato dalla sorpresa.

«Ma cosa diavolo…?» fece Edward, toccando con le dita i punti in cui suo padre passava con la pezza e la mia pelle cambiava colore.

«Oddio» gorgogliai, saltellando sul posto, disperata.

«Aspetta». Carlisle osservò il panno che aveva in mano. «È blu. E la tua maglietta è…».

«Rossa» finii per lui.

Edward aggrottò le sopracciglia. «Pensi che sia una reazione ai coloranti dei tessuti?».

Mio suocero scosse il capo, lo sguardo di chi ha appena fatto una scoperta. «Penso che le gemelle ci stiano facendo uno scherzetto».

 

7 Maggio 2010. Terzo compleanno di Kate.

 

«Mamma!».

«‘ammi!».

«Tesori di zio, dovete chiamarla più forte, altrimenti non si sveglierà mai. Non sentite come russa?».

«Emmett, sei impazzito? Lasciala dormire, diamine».

Mi lamentai, annaspando per tirarmi su, confusa. Con quella pancia immensa era impossibile trovare una posizione comoda per dormire. Sbattei le palpebre, guardandomi intorno, disorientata.

«Mamma, mamma!».

«Che ore sono?» domandai, la bocca impastata dal sonno.

«Sono le nove. Non ti preoccupare, Alice e Rose stanno già iniziando a sistemare».

«Mamma!» mi chiamò ancora Kate, cercando di richiamare la mia attenzione.

«Le nove? Cavolo, non potevi svegliarmi prima? Ahi…» borbottai, una smorfia sul viso «queste pesti non smettono di tirarmi calci» feci, abbassando il viso ad osservare il ventre. Verde. Era quello il loro potere, emettere colori. Cioè, per ora, divertirsi a far cambiare colore alla mia pancia e costringermi a tenermi lontana da qualsiasi umano. 

«Mamma!» urlò più forte Kate.

Sospirai, mordendomi un labbro e sollevando lo sguardo. «Scusa amore. Dimmi. Adesso la mamma ti prepara tutto quello che ti ha promesso».

La bambina sorrise, indicando il fratello, lì accanto.

Mi portai le mani alla bocca, sgranando gli occhi. «Oh mio Dio».

Mio figlio, sul viso un pittoresco quadro molto simile al trucco di un clown, gongolava orgoglioso, accanto alla sorellina, tenendola per mano. «Maak. ‘ello» sorrise, battendo le mani.

L’espressione ancora congelata, rimasi lì a fissarli, orgogliosi del loro lavoro. Erano davvero troppo soddisfatti perché potessi sgridarli. Anche se probabilmente avevano dato fondo a tutti i miei migliori cosmetici. Forzai un sorriso sul mio volto, sperando che non passasse come una smorfia. «È molto bello, Kate» balbettai, sforzandomi di non aggiungere altro.

La bambina sorrise, stringendomi le braccia al collo. Compiva quel giorno tre anni, ma come corporatura non ne dimostrava più di due e mezzo, pur essendo molto più intelligente dei ragazzini della sua età. Le baciai la guancia, accarezzandole i capelli. Io e Edward le avevamo regalato una cucina giocattolo dove poter scaricare tutte le sue energie. Almeno per la prima settimana.

A fatica mi sollevai dal divano. Ero al sesto mese di gestazione, ma davvero non c’era confronto nella dimensione del pancione fra questa gravidanza e le precedenti. Era enorme. Di g.

«Alice, Rosalie e Jasper sono già nel salone, stanno sistemando i festoni» m’informò Edward.

Sospirai. «Se non mi sbrigo a cucinare non farò mai in tempo».

«Credo che Esme e Carlisle stiano per arrivare. Non ti preoccupare, ti aiuterà lei».

Mi passai una mano fra i capelli. Arrossii, premendo l’altra sul pancione. «Scusatemi un attimo» balbettai, avviandomi verso il bagno.

«‘ammi!» mi richiamò Mark, sgambettando nella mia direzione. Gli tesi una mano, prendendolo con me. Non c’era modo che lo prendessi in braccio.

 

«Vieni qui campione» lo richiamò Jasper con un sorriso, allungandosi nella sua direzione. Era un ottimo zio, e Mark gli somigliava molto, caratterialmente. Taciturno e riflessivo, ma con tanto amore da dare a chi gli stava attorno.

Sollevai la testa dal pane che stavo tagliando. «Grazie Jazz. Ne avevo proprio bisogno, se voglio finire in tempo».

Mi fece l’occhiolino, stringendosi il bambino al fianco. L’avevo appena cambiato, pulendogli il viso e mettendogli una salopette marroncina. Speravo che non si sporcasse almeno prima dell’inizio della festa. «Vuoi uno sgabello?» domandò, vedendomi incerta sulle gambe.

Gli sorrisi, riconoscente, accettando il suo aiuto per sistemarmici in equilibrio. La schiena mi faceva sempre malissimo.

«Allora, avete deciso come le chiamerete?».

Annuii. «Beh, io e Edward avevamo pensato a Anne e Juliet. Ci sembrano nomi abbastanza classici, sono carini» dissi con una scrollata di spalle.

Sorrise. «Molto. Io e Mark andiamo di là a vedere se hanno ancora bisogno di qualcosa. Rilassati Bella, mi raccomando».

 

«Sei sicura che entri?».

«Sì, sicura. Scrivi».

«E se scrivessi tu? Sei più brava».

Esme scosse la testa con un sorriso. «Non se ne parla nemmeno, sei molto più brava tu. Scrivi, Bella».

Sospirai, concentrandomi per scrivere, col cioccolato, il nome di mia figlia sulla torta glassata di rosa. Avevo quasi concluso, quando - «Ahi!» - un calcio ben assestato mi fece sussultare. «Accidenti, no! Ho sbavato la “t”» mi lamentai.

Si sporse a vedere. «Non ti preoccupare, aspettiamo che solidifichi e lo togliamo. Fidati, l’ho fatto altre volte, funziona. Continua a scrivere tesoro».

Mi morsi un labbro. «Sei sicura? Voglio che sia perfetta».

«Sicura» mi sorrise «continua pure».

 

«Come sta la mia paziente preferita? Bella, cresci a vista d’occhio» fece Carlisle, venendo ad abbracciarmi, non prima di aver coccolato per un buon quarto d’ora la sua nipotina/principessa festeggiata e relativo fratello - scudiero/paladino di notevole importanza.

«Eh, non me lo dire, Carlisle. Sappi che potrei venire nel tuo studio uno di questi giorni ad implorarti di far nascere le pesti».

Scosse il capo, sorridendo. «Ricordati, rilassati-».

«Respira e riposati. Sì, già. Non appena Kate e Mark saranno d’accordo con te, con piacere» scherzai, ammiccando.

 

«Mamma, vieni?» chiese Kate, allungandosi nella mia direzione.

Sorrisi, tirando indietro la sedia e provando a sollevarmi. Edward venne in mio soccorso. «Certo amore. Fammi vedere, la mamma ha messo tutte le candeline?».

«Sì» esclamò, contenta, saltellando sulla sedia dove l’avevano sistemata, proprio davanti alla sua torta. Alice le aveva messo indosso uno stupendo vestitino color crema, e sistemato un cappellino a cono con le piume e le paillettes. Sulle guance tanti brillantini, con cui aveva voluto essere decorato anche Mark.

«Accidenti, sono davvero tantissime!» feci con sorpresa «ma quante sono? Quanti anni fai?».

Mi mostrò le dita di una mano. «Tre» dichiarò, soddisfatta.

«Amore, ormai Kate è una bimba grande» intervenne Edward, sistemandole i capelli ricciolini e marroni, come i miei.

«Eti!» strillò Mark, sporgendosi nella sua direzione.

«Mark, stai con la zia. Adesso Katie deve soffiare le candeline».

Kate lo fissò con sufficienza. «No. Io tono grande, Mark piccolo. Io devo insegnare» fece, lasciando che il fratellino soddisfatto la raggiungesse sulla seggiolina.

«Sta’ attento alle sue mani. Appena le vedi in zona panna tiralo via» ammonii Edward sottovoce.

Rise, ammiccando nella mia direzione. «Non entreranno in zona panna. Promesso».

«Quando ‘ico tre devi soffiare. Fotte. ‘nsieme a me, capito?» gli spiegò Kate, seria.

Il bambino annuì, voltandosi velocemente verso la torta, oggetto del suo interesse.

«Guardate qui, vi faccio una foto!» esclamò Rosalie.

«Uno, due… tre!».

E così la torta fu annaffiata dalla saliva dei miei marmocchi. Fortuna che dovessero mangiarla solo loro.

«Auguri!».

 

 

 

 

 

 

Odio le scrittrici che scrivono, poi scompaiono, poi ricompaiono dopo un mese.

Oh. Umh. Sto parlando di me…

Beh, ragazze, voi lo saprete meglio di me: non è facile.

Non è facile nemmeno quando hai il capitolo pronto e lo devi solo pubblicare. Perché quando passi un mese e messo a studiare (se ti va bene) 8 ore al giorno, il tempo NON lo trovi!

A parte questo…

Manca una settimana esatta al mio esame di biochimica (chi lo ha fatto saprà che vuol dire). Ho un minuto. Pubblico.

Se fra una settimana passo l’esame giuro… che vi pubblico un capitolo super-succosissimo sulla nascita delle gemelline *ammicchissimo*.

 

E ora…

Bye bye!

(pregate per me).

 

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Capitolo 9
*** Extra 2. Parte 6. ***


27 Giugno 2010. Una sera, dopo il bagnetto.

 

«Mammi, ti piacciono ‘e coccinelle?».

«Sono carine, ma io non amo particolarmente gli insetti» risposi, strofinandole l’asciugamani bianca sui capelli.

«A me piacciono tanto, mammi. Me ne compri una?» chiese Kate, voltandosi nella mia direzione. Non mi sarei mai stupita abbastanza di vedere gli occhi verdi di mia figlia.

Risi. «Non si possono comprare tesoro. O meglio, quelle che si comprano servono per l’agricoltura. Ma se vuoi puoi uscire un pomeriggio con papà e sono certa che ne troverete una».

Si stese sul divano del soggiorno, posando la testa sul mio fianco. Impossibile posarla sulla mia pancia, gigantesca com’era all’ottavo mese di gestazione. Sapevo che aveva sonno, e con un po’ di fortuna si sarebbe addormentata senza fare storie quella sera.

«Ometto pulito in arrivo!» esclamò Edward, sorreggendo Mark dalle ascelle, bagnato e nudo.

Finsi di coprirmi gli occhi. «Ahh Mark, copriti, copriti! Katie, svelta, copriti gli occhi, c’è un ometto nudo qui».

Kate rise, mettendosi di scatto seduta. Addio miraggio di una dormita in tempi rapidi. Mark si tese fra le mie braccia, dove lo accolsi avvolgendolo completamente in un grande telo di spugna. Gli baciai il capo. Profumava. E non perché era stato appena lavato. Profumava di bambino, di mio.

 «Vado a fare il latte» fece Edward, baciandomi la fronte. «Ce la fai con i bambini?».

Sorrisi, continuando a strofinare il capo di Mark con l’asciugamano. Lui e Kate stavano comunicando nel loro modo personale. «Ce la faccio, nessun problema. Ricordati di mettere tanti biscotti in quello di Kate».

Si sollevò, allontanandosi verso la cucina. «Consideralo già fatto!».

Misi il pigiamino a Mark. Il momento latte serviva per assicurarceli buoni fino alla mattina successiva, e soprattutto conciliargli il sonno prima della favoletta.

«Mamma? Togli questo nodo? Non ci riesco» chiese Kate, sfregandosi un occhio con la manina.

Deposi Mark sul tappeto accanto a lei. Sospirai, iniziando l’impresa titanica che voleva dire: “piegarsi sui talloni”. Disfeci il nodo a uno dei capelli della sue bambola. Anche Mark ci giocava tranquillamente. Del resto, allo stesso modo, Kate giocava con ogni robot, alieno o escavatore. Non si facevano di questi problemi. Ridacchiai: non quanto i loro zii.

Posai una mano sul tappeto, sollevandomi per rimettermi in piedi.

Kate sussultò, voltandosi di scatto nella mia direzione. «Papà!» urlò dopo tre secondi, «la mamma ha fatto la pipì addosso».

Annaspai, sentendo il bagnato espandersi fino alle ginocchia. Edward comparve all’istante nella stanza, uno sguardo perplesso. Il suo volto passò dalla sorpresa alla risoluzione in brevissimo tempo.

«Sto bene» mormorai, la voce che sembrava un piagnucolio.

Mi venne subito accanto, sorreggendomi la schiena. «Va bene, andiamo subito in ospedale. Ti fa male la pancia? Avevi già contrazioni?».

Scossi il capo, cercando di respirare con la bocca. Dovevo solo rimanere calma. «Chi-chiama Rosalie e Jasper, digli di venire qui a tenere i bambini, oppure di prenderli per portarli di là. Poi… poi andiamo in ospedale, io…» deglutii, strofinandomi la fronte «devo ancora preparare la borsa, c’è tempo. Ce la faccio».

Mi carezzò il volto, preoccupato. «Ehi, stai bene?».

Annuii velocemente. «Bene, tutto apposto. Devo cambiarmi, non posso mica venire così, no?» domandai, agitata.

Mi baciò la fronte. «Posso aiutarti se vuoi. Ci organizziamo in modo diverso».

«No, no, facciamo così. Va bene. Tanto sto ancora bene, ce la faccio» mormorai, baciandogli l’angolo della bocca e affrettandomi, per quanto potessi, verso la camera da letto.

 

Edward

 

Sollevai la voce in modo che mi potesse sentire dalla nostra camera. «Lascia la porta aperta, Bella. Chiamami se ti serve qualcosa».

Grugnì qualcosa in risposta, arrancando verso la nostra stanza.  

Sospirai, voltandomi velocemente in cerca del cellulare. Sapevo, a prescindere dalle battutine ironiche scambiate ogni tanto, quanto anche lei volesse degli altri bambini. Tuttavia non potevo fare a meno, ogni tanto, di pensare a quanto stancante fosse - vampiri o non - crescere dei figli, se lo si voleva fare senza delegare compiti a destra e a manca.

«Papà! Dov’è il latte?».

«Atte» strillò Mark, sollevandosi maldestramente sulle gambe per arrampicarsi sui miei pantaloni.

«Non adesso, Kate, un attimo» mi sporsi ad afferrare la cornetta, arrendendomi a chiamare dal telefono fisso. Chissà dov’era sepolto il mio cellulare. Prese a squillare.

«Ahi, merda» sentì imprecare sottovoce nell’altra stanza.

Sgranai gli occhi, voltandomi velocemente. «Kate, prendi la cornetta e rispondi. Dì di venire qui presto, va bene?».

La bambina mi fissò seria. «Mamma non mi fa usare i’ telefono quando non c’è».

Sollevai gli occhi al cielo, ansioso. «Oggi puoi, te lo dice papà» dichiarai con decisione, mettendole la cornetta fra le manine.

Trovai Bella su letto, mentre si contorceva nel vano tentativo di liberarsi delle scarpe, i pantaloni aggrovigliati sulle caviglie. Andai subito in suo aiuto, disfacendo i lacci e liberandola degli ultimi indumenti. «Oddio, grazie» mormorò, agitata «non ci riuscivo… dove… con chi sono i bambini?».

«Non ti preoccupare, sono al telefono con Jasper» feci risoluto, prelevando dal cassettone degli abiti comodi e puliti da farle indossare. Kate si era già calata nel ruolo di perfetta centralinista. Quanto le piaceva parlare?

Mi strappò i vestiti di mano, il viso rosso. «No, Edward, dai, vai. Non mi sento tranquilla. Mi vesto da sola, ce la faccio».

«Se lo dici ancora una volta ti lego al sedile della Volvo e ti porto in ospedale in un attimo» la minacciai, con solo una punta di sarcasmo.

Sospirò, mettendosi una mano sull’attaccatura della pancia. «Vai e basta, allora».

Nel soggiorno Kate stava intavolando una discussione da donna vissuta, mentre Mark si faceva sentire urlacchiando nella cornetta. «No, ‘zio Jazz. Mamma ha fatto ‘a pipì addosso e poi papà è diventato tutto serio e ha detto che ti dovevo chiamare».

Sollevai gli occhi al cielo. Se l’avesse saputo Bella sarebbe morta di vergogna. Mi faci passare la cornetta da mia figlia. «Jasper, sono io».

«Ehi, ma che succede?».

«Le si sono rotte le acque. Tu e Rosalie potreste venire qui? Sembra che ci sia bisogno di un po’ d’aiuto. Dovreste venire a prendere i bambini».

 

«Oddio» tossì Bella, china contro il gabinetto del nostro bagno. «Edward, mi gira la testa» si lamentò, stringendosi la pancia con una mano.

La sollevai fra le mie braccia, ribaltando la sua posizione. «Non ti preoccupare, adesso andiamo in ospedale. Contrazioni?». Annuì, chiudendo gli occhi e posando il capo contro il mio petto. La deposi su un fianco, sul letto, accarezzandole i capelli. «Va bene, è un buon segno, vuol dire che il travaglio procede».

Le bambine erano più piccole di quasi un mese, rispetto alla data del parto. Ma sapevamo che per dei gemelli il parto pretermine era quasi la prassi. I bambini erano nel salotto insieme a Jasper, e Rosalie stava sfrecciando da una stanza all’altra sistemando il borsone per Bella.

«La sottoveste gialla la vuoi? Quella di cotone?».

Aprì appena un occhio, guardandola. Subito li strinse entrambi, una smorfia di dolore. Annuì velocemente. Senza sapere bene che fare presi a carezzarle la schiena. Sarebbe andata bene. «Ce la fai ad alzarti?» le chiesi piano, sorreggendola per gli avambracci «Cominciamo a prepararci, Rosalie ha quasi finito».

Annuì, stringendo le labbra. Si sollevò malamente sulle braccia, tirandosi su a sedere. «Mi prendi le scarpe per favore?» mormorò, cercandole con lo sguardo nella stanza.

Le presi il paio che teneva sotto al letto, infilandole prima un piede e poi l’altro. Impossibile che fosse riuscita a metterle sola, con quel pancione gigantesco.

Kate e Mark giocavano eccitati sul tappeto insieme allo zio. Il trambusto della serata li aveva svegliati completamente. Appena videro la madre scattarono in piedi, correndole incontro.

Bella sorrise, accarezzando la testolina bruna di Kate. «Edward, puoi per favore…» mormorò, indicando i bambini. Sollevai prima Mark e poi Kate, permettendole di baciare la fronte a entrambi. «Fate i bravi. Non fate stancare gli zii. La mamma tornerà presto».

«Insieme alle due nuove sorelline!» sussurrai, chinandomi a salutare i miei bambini in due abbracci stretti.

Bella ridacchiò, cominciando ad arrancare verso la porta. «Jasper, se stasera non dormiranno sappi che è colpa di Edward».

La raggiunsi velocemente, stringendole il fianco con un braccio. Non avrei mai potuto immaginare tutta quella felicità.

 

«Ce la fai? Ci metto solo un secondo a parcheggiare. Basta che vai all’accettazione e che…».

«Lo so, lo so» mi interruppe, sollevando gli occhi al cielo «ho fatto altri figli, Edward. Non morirò, al massimo vomiterò sul pavimento del corridoio» balbettò arrossendo e portandosi una mano alla bocca.

Sospirai, allungandomi per baciarle la fronte. «Torno subito».

 

Bella

 

Carlisle entrò nella stanza controllando la chiamata sul cercapersone. Sollevò velocemente il viso, trovandomi seduta sulla sedia a rotelle spinta dall’infermiera. «Bella, sei qui». Sorrisi timidamente, annuendo. Mi venne vicino, carezzandomi il viso con una mano. «Cosa succede?».

Mi morsi un labbro, guardando in basso. «Credo proprio che si siano rotte le acque» balbettai.

Annuì, risoluto, aiutandomi a sollevarmi per farmi sistemare sul letto. «Va bene, è proprio come c’era da aspettarsi. Sei sola? Edward non è qui con…».

«Sono qui» lo interruppe nervoso, entrando nella stanza con il mio borsone.

Il padre gli sorrise. «Come ti senti Bella? Contrazioni?».

Mi tenni il pancione con una mano, sorretta da entrambi i gomiti da Carlisle e l’infermiera, che mi aiutavano a sistemarmi sul materasso. «Un po’ di dolori…».

Edward mi venne vicino, sollevandomi le gambe per farle posare sul letto, e sfilandomi intanto le scarpe. «Ha avuto solo un paio di contrazioni dolorose. È passata poco meno di un’ora».

Mio suocero annuì. «Va bene. Mettiti comoda Bella, fra poco passerò a visitarti. Josy, avvisa l’ostetrica» proseguì rivolgendosi all’infermiera «qualunque cosa ti serva chiedi pure» aggiunse, lasciando la stanza con un occhiolino.

Edward mi aiutò a cambiarmi, facendomi passare nella mia sottana rosa di cotone. I miei movimenti, a causa del pancione - decisamente più ingombrante rispetto alle precedenti gravidanze - erano molto limitati.

«Vuoi i calzini?» chiese, estraendoli dalla borsa.

Storsi la bocca. «Sì, grazie» decisi infine in un sospiro. Mi massaggiò ogni piede prima di infilare il calzettino bianco. Gli accarezzai la chioma rossiccia, china su di me. «Sei emozionato?».

Sollevò il viso, sorridendomi. «Molto. Non vedo l’ora di conoscerle».

Annuii, contenta. «Anch’io».

Carlisle tornò poco dopo, portando con sé il carrello per il tracciato e l’ecografia. Insieme a lui la mia ostetrica, Emily. «Come andiamo Bella? Cambiamenti?».

Feci per scuotere il capo, ma subito mi bloccai, mordendomi il labbro e stringendo una mano sul pancione e una contro quella che mi aveva offerto Edward. «Ahi» mormorai fra le labbra, prendendo dei lunghi respiri.

Carlisle mi fece un cenno per sollevare la camicia da notte, e con le mani tastò il mio addome. «È passata?» chiese, lanciandomi un’occhiata. Mi rilassai sui cuscini, dietro la mia schiena, annuendo. Mi invitò a stendermi, in modo che potesse visitarmi.

Strinsi la mano di Edward, sollevando gli occhi al soffitto. «Ti avviso Carlisle, non sarò in grado di rimanere così per più di due minuti se voglio continuare a respirare».

Rise appena, continuando a tastarmi l’addome. «Sarò veloce, promesso».

Mi visitò, controllò i battiti e la pressione, fece un’ecografia alle bambine e mi collegò al monitor. «Stanno bene. Sei dilatata di due centimetri, che non è molto, ma già qualcosa. La prima gemella preme direttamente nelle pelvi, mentre la seconda è un po’ di traverso, ma voglio provare comunque con un naturale. Emily, diamole dell’ossitocina. Non voglio che passi molto tempo per il travaglio».

 

«Ahia, mi fa male» mi lamentai, rannicchiata su un fianco nel letto.

Edward mi accarezzò la schiena con entrambe le mani. «Shh, shh, rilassati. È l’ossitocina che accelera il travaglio. Ti vuoi alzare e camminare un po’?».

Scossi il capo, stringendomi il pancione con più forza. «Fa male» balbettai, mordendomi le labbra.

Sospirò. «Bella, amore. Che ne dici, visto che questa volta sono due, siamo ancora in tempo, e ti fa così male…» cominciò, persuasivo «di provare un po’ con l’epidurale?».

Cacciai un gemito stizzito fra i denti, allontanandomi di scatto dalle sue mani. «No» sbottai «dobbiamo replicare l’esperienza di Mark? Mi sono lasciata convincere per cosa? Farmi trivellare inutilmente la spina dorsale? No».

«Ma Bella, è stato un caso. È possibile che si trovi una calcificazione fra le vertebre e che l’ago non riesca a passare, è possibile che debbano farsi più tentativi».

«No» ripetei con più forza «no. Te lo sogni. No».

«Ma…».

Mi voltai di scatto, fulminandolo con gli occhi.

Sollevò gli occhi al cielo, alzandosi dalla sua sedia. «Vado a chiamare a casa per vedere come stanno i bambini».

«Chiama Esme, per favore» borbottai, tornando a stendermi «vorrei che fosse qui».

Spense una luce nella stanza, accostando la porta. «Sì».

Quando tornò mi stavo nuovamente contorcendo per una contrazione, le lacrime agli occhi. Strinse le labbra, fissandomi con preoccupazione e severità. C’era qualcosa nel suo sguardo che mi diceva che era molto agitato. Arrabbiato forse? Per la storia dell’anestesia? Non potevamo litigare in un momento come quello. Proprio no. Posai la mano sul lenzuolo, prendendo ampi respiri dalla bocca. «Come stanno i bambini?» domandai fra i denti.

«Bene» rispose laconicamente. Anche se fosse stato arrabbiato, mio marito non era così stupido da litigare con me durante il travaglio. Lo speravo.

Mi morsi l’interno della guancia per non rispondergli male. «E… Esme?» ansimai.

«Sta arrivando, sarà presto qui».

Fummo interrotti dall’ostetrica e dall’infermiera passate per controllare il travaglio e prepararmi per il parto. Edward uscì dalla stanza. Esme arrivò non appena Josy ebbe finito di sistemarmi nuovamente sul letto.

«Bella, tesoro» mi chiamò, venendomi incontro ed abbracciandomi. Mi prese il viso fra le mani «come stai? Mi sembri agitata. Devi solo rilassarti d’ora in poi, va bene?».

Annuii, incerta.

«Dov’è Edward?» chiese, guardandosi intorno.

Abbassai il viso. «Non lo so. È uscito prima. Mi… mi aiuteresti a…» balbettai, indicando i cuscini.

«Ma certo» mormorò immediatamente, sistemandomeli dietro la schiena.

Non fece in tempo ad aggiustarli che suo figlio passò dalla porta, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans. Si passò una mano fra i capelli.

«Cosa succede?» chiesi, incerta, osservandolo.

Scosse il capo. Due secondi più tardi il monitor emise un bip, e il dolore si irradiò per tutto il mio ventre. «Ahi, merda. Merda» imprecai fra i denti, faticando a respirare correttamente. Ero già sudata.

Esme mi sollevò il collo con una mano, assicurandomi i capelli in una coda. «Shh, rilassati, ora passa» mi assicurò, accarezzandomi il ventre con movimenti lenti e circolari.

«Bella, lasciati anestetizzare, per piacere» sospirò Edward esasperato.

«No» ribadii fra i denti, stringendo la bocca per non lasciare scappare nemmeno un singhiozzo mentre le lacrime mi correvano lungo il viso.

«Allora non aspettarti che rimanga qui mentre ti contorci dal dolore!» sbottò, stressato.

Esme sussultò sul posto, voltandosi verso il figlio. Singhiozzai, arrabbiata. «Smettila di fare il cretino! Sto partorendo, cosa vuoi da me? Non posso nemmeno scegliere una cosa del genere? Vai via se vuoi. Vai via mentre nascono le tue figlie. Mi stai esasperando» strillai, gli occhi pieni di lacrime, il respiro corto.

«Shh Bella, calmati, calmati» mi invitò Esme, accarezzandomi il ventre. «Calmati. Questo non vi fa bene, prendi respiri lunghi».

Singhiozzai, annuendo e provando a calmarmi.

Edward si portò una mano fra i capelli. Deglutì. Si avvicinò al letto. «Scusa, mi dispiace».

«Un accidente» sbottai, il respiro ancora veloce «che diavolo ti prende? Calmati, e smettila di comportarti come un imbecille».

Esme si sollevò, lanciandogli un’occhiata di eloquente rimprovero. «Vi lascio soli».

Edward prese il suo posto, avvolgendo le braccia contro il mio corpo, e lo lasciai fare, perché mi sentivo troppo debole e bisognosa del suo conforto per protestare. «Mi dispiace Bella, davvero» sospirò, posando il capo sul mio seno.

Tirai su col naso, asciugandomi con il dorso della mano le lacrime. «Che ti è preso?».

Sospirò due volte prima di parlare. «Kate si è fatta male» borbottò sulla mia pelle «è caduta mentre cercava di saltare da un letto all’altro».

«Caduta?» domandai preoccupata, la rabbia contro mio marito improvvisamente scalzata via «che si è fatta?».

«Alice e Emmett la stanno portando al pronto soccorso. Credo, a quanto mi hanno detto, che si sia fatta male a un braccio».

 

«Lasciami andare! Lasciami andare!» strillai, dibattendomi sul letto, il viso rosso.

«Tesoro, Bella, calmati per piacere. Non ti fa bene, lo sai. Per favore» cercava di ammansirmi Edward, tenendomi contemporaneamente schiacciata contro il materasso.

«Bella» mi richiamò anche Esme, preoccupata.

Urlai, lottandomi per liberarmi dalla sua presa. «Fammi vedere Kate. Subito. Subito!».

«Cosa succede?» esclamò l’ostetrica, spalancando di fretta la porta della stanza. I suoi occhi vigili si posarono su mio marito. «Mr Cullen, se non mi dà immediatamente una spiegazione sarò costretta a cacciarla dalla sala travaglio. Immediatamente».

«Ah». Sussultai, serrando gli occhi e portando una mano sul ventre. Emily mi venne accanto, aiutandomi a sistemarmi fra i cuscini e riprendere a respirare correttamente. Regolò il flusso di ossitocina nella flebo.

Edward sospirò, prendendomi una mano fra le sue e accarezzandone il dorso. «Kate, nostra figlia, si è fatta male ed è al Pronto Soccorso. Bella vuole andare a vederla, ma evidentemente ora non è in condizione di farlo».

«Siete pazzi se pensate che partorirò in qualche modo senza essermi prima assicurata che stia bene» sbottai fra i denti, stringendo con tutta la mia forza la sua mano e quasi sperando di fargli del male.

L’ostetrica scosse il capo, sconvolta e scocciata dalla situazione, ma comunque risoluta. «Josy, la sedia a rotelle!» chiamò, sollevando la voce per farsi sentire dalla stanza adiacente.

Edward cacciò un respiro fra i denti, infelice, mordendosi un labbro per evitare di ribattere. Comunque non avrebbe potuto protestare a lungo, perché sapevo quanto fosse anche lui preoccupato per nostra figlia.

La trovammo in lacrime, fra le braccia di Emmett, nel corridoio dell’accettazione. Feci quasi per alzarmi dalla sedia non appena la vidi, e ci sarei riuscita se Edward non mi avesse trattenuta. La bambina alzò il capo, tendendosi subito nelle nostra direzione. Emmett coprì lo spazio fra di noi, portando la piccola fra le braccia del padre.

«Com’è successo?» domandò Esme agitata.

«Stavano giocando, stava per andare a dormire» si scusò Alice.

Edward se la strinse immediatamente al petto, baciandole ripetutamente i capelli. La piccola si teneva stretta al suo corpo nel suo pigiamino con i cuoricini rosa. «Shh amore, cosa ti sei fatta? Fai vedere a papà». Notai immediatamente il suo braccino senza vita. Mi sbracciai per accarezzarla, agitata. Edward sembrava essere molto più controllato di me, mentre lo esaminava. La bambina cacciò uno strillo, piangendo più forte, quando le sfiorò il braccio. Se la tenne al petto, stringendole il capo con la mano. «Credo proprio sia rotto».

«Katherine Cullen?» chiamò un medico venendo fuori dalle porte dell’ambulatorio.

«È lei» dicemmo contemporaneamente tutti e cinque.

L’uomo osservò stranito la situazione, la mia sedia a rotelle e la flebo. «Possono entrare solo i genitori» fece, poi, incerto.

«Bene» sbottai, sollevandomi dalla sedia a rotelle e avviandomi nella stanza sostenendomi all’asta della flebo. Erano pazzi. Pazzi se avessero creduto che qualcosa mi avrebbe impedito di sincerarmi della salute di mia figlia. Edward sospirò, ma non disse nulla.

 

«Ti fa male tesoro?» domandai preoccupata, osservandola. La bambina annuì, sfregando il viso contro il mio petto. Non avevo parlato molto, dolorante e un po’ nauseata per la situazione. Nonostante fosse molto teso Edward fu certamente più d’aiuto di me.

«Ecco qui, è evidentemente rotto. Una frattura a legno verde di radio e ulna» dichiarò il medico, rientrando nella stanza e apponendo le lastre sullo schermo luminoso.

Carezzai il visino bagnato di lacrime della mia piccola bambina.

«Adesso ridurrò la frattura e successivamente le sistemeremo un’ingessatura che dovrà portare per quaranta giorni. Non dovrebbe esserci bisogno di nessun intervento chirurgico» affermò, sedendosi su una poltroncina mobile e contemporaneamente infilando un paio di guanti. Mi lanciò un’occhiata. «È meglio che la signora esca».

«Perché?» domandai allarmata «la bambina ha bisogno di sua madre, si è appena calmata» mormorai con voce tremante. La nausea mi investiva a ondate al pensiero di quello che le avrebbero fatto.

Edward si allontanò dalla bambina, venendomi di fronte. Mi strofinò le mani sulle spalle, rassicurante. «Amore, andiamo fuori. Vieni, prendi dei bei respiri».

Lo fissai, smarrita. «E la bambina?».

«Ci penseranno Emmett o Alice» mi rispose con un mezzo sorriso.

Scossi il capo, affaticandomi per scendere giù dalla barella su cui mi ero seduta. Feci appoggiare il capo della bambina al petto del padre, dandole un bacio sulla fronte. «R-rimani con lei» balbettai, sfregandomi il viso con le mani tremanti. «Sarò qui fuori».

Esitò, poi annuì, stringendo con entrambe le braccia la bambina al suo petto.

Uscendo mi chiusi la porta alle spalle, e subito Esme, Alice e Emmett si avvicinarono avidi di informazioni. Non feci in tempo ad aprire bocca che una contrazione particolarmente forte mi fece piegare a metà sul posto, facendomi ansimare dal dolore.

Le mani forti di Emmett vennero immediatamente in mio aiuto. Mi sostenne facilmente mentre mi faceva posare su una sedia poco vicino. Esme mi venne accanto, prendendomi una mano con la sua e sfregandomi il pancione con l’altra.

La strizzai con tutte le mie forze, chiudendo gli occhi fino a vedere rosso. Tutto pur di distrarmi da quel dolore lancinante allo stomaco. Fra le mie labbra usciva un basso e smorzato gemito.

«Bella» mi chiamò la voce di mio suocero, e subito sulla mia spalla si posò la sua mano rassicurante. Non abbastanza perché aprissi gli occhi, abbandonassi la mia smorfia o riprendessi a respirare normalmente, comunque. C’erano casi in cui seguire i corsi pre-parto serviva solo per ridere al ricordo dei tempi spensierati: quello era un caso. «Bella, vieni qui con me». Dovevo aver grugnito qualcosa sul rimanere per Kate, perché aggiunse «Non ti preoccupare di questo adesso. Vieni. Pensiamo alle gemelline».

Avevo appena aperto le palpebre, dopo che il dolore si era allontanato, per guardarlo di sottecchi e riluttante accettare il suo appoggio, quando i piani di Carlisle andarono in fumo per due motivi principali: l’innocente strillo di mia figlia mi fece accapponare la pelle e di sicuro mi impedì di non preoccuparmi; la debolezza che sopraggiunse immediatamente dopo mi piegò le ginocchia impedendomi di rimanere dritta e facendomi accasciare nella presa delle sue braccia.

 

Mi risvegliai nella sala travaglio. C’era il bip costante, a riprodurre il battito del mio cuore, e il suono di uno più basso e rapido. Sbattei le palpebre, mettendo a fuoco l’immagine di Carlisle che passava con la sonda sulla mia pancia. Mi faceva male come se tante piccole fitte sopraggiungessero accavallate l’una o l’altra; e quella non era neppure una contrazione.

Mi umettai le labbra, provando a tirarmi su. «Cos’è successo?» domandai disorientata. «Stanno bene?».

«Mi hai fatto preoccupare tanto, Bella!» esclamò Esme al mio fianco, e mi accorsi in quel momento che mi stesse stringendo la mano.

«Ti sei stancata troppo. In questo momento il tuo organismo ha bisogno di riposare per prepararsi al parto e non di subire ulteriori stress» commentò velocemente Carlisle, allontanando la sonda e sedendosi al mio fianco per poter registrare la pressione sanguigna.

In quel momento ebbi uno scatto convulso verso la pancia. «Ahh» mi lamentai, digrignando i denti. Era come se sulla pancia stesse passando un camion di grossa cilindrata dotato di un rullo capace di distruggere qualunque cosa incontrasse. Le lacrime mi uscirono dagli occhi senza che potessi controllarle.

Mio suocero mi spinse con un tocco leggero con le spalle contro i cuscini, per stare semidistesa e respirare meglio. «Prendi respiri lunghi, dal naso. Così» fece, dandomi lui stesso prova di quello che avrei dovuto fare.

«Ti prego, dimmi che manca poco. Non sono sicura di potercela fare, non sono affatto sicura» singhiozzai, contando quegli interminabili secondi che non finivano mai.

«Bella, tesoro, calmati» provò ad ammansirmi Esme.

Scossi il capo, agitata. «Aveva ragione Edward. Non ce la farò mai, non con due bambine e con tutto quello che è successo a Katie. Oddio, fa male» farfugliai, per poi urlare subito dopo.

«Bella…».

«Esme, vai a prenderle una camomilla al bar qui di sotto?» fece rapidamente Carlisle, facendomi poi voltare fino a farmi trovare nel suo abbraccio. Mi carezzò la schiena con decisione. «Shh, ora passa. Calmati» mormorò, finché la contrazione non scemò fino a lasciarmi libera quanto intontita. Quando il diagramma del tracciato si stabilizzò smise di accarezzarmi, senza però staccarsi da me. La sua voce era pacata mentre mi esponeva la situazione. «Sei a sette centimetri, il travaglio procede molto bene. Nel giro di un’ora dovremmo spostarci in sala parto. Cosa ti prende, cara?» domandò con cortesia, abbassando gli occhi a scrutarmi il viso. «Eri sempre tu quella che mi spronava ad andare avanti, che voleva il parto naturale anche quando era più rischioso. Cos’è cambiato?».

Mi tremò il labbro. «E… e se avessimo fatto una sciocchezza, io e Edward? C-chi ci dice che riusciremo ad essere genitori di quattro figli, tutti assieme?» singhiozzai, rivelandogli la mia paura più grande. «Riesco a malapena a stare dietro ai primi due, dandogli tutte le mie energie! Sono solo un’umana e… io… io non…».

Si chinò, avvicinando il viso, e asciugandomi le lacrime. «Ci vuole molto impegno ma non è impossibile. Non sarete soli, ricordalo».

Mi voltai, nascondendomi il viso fra le mani. «Ma guarda cos’è già successo! Le gemelle non sono ancora nate e Kate si è rotta un braccio! Mezza giornata. Una manciata di ore. Quanto tempo starò via ora che saranno qui? Che cosa accadrà? Ah!» esclamai, stringendomi entrambe le mani sul pancione.

Carlisle mi accarezzò le spalle, rassicurandomi. La contrazione durò più delle precedenti, e scemando mi lasciò sfiancata. «Bella» mi richiamò mio suocero, il camice bagnato sulla spalla dalle mie lacrime.

«Mi dispiace» balbettai, ancora intontita.

«Figurati». Mi sorrise. «Sai, anche se può sembrarti strano, anch’io ho avuto i tuoi stessi pensieri. Ho cinque figli, con te sei. E avere cura di tutti non è affatto semplice, me ne rendo perfettamente conto. Ma non devi sentirti in colpa. Sai cosa mi fa capire che ne vale la pena, che non sto sbagliando? Vedervi felici, aiutarvi a crescere per quanto posso, confortarvi. Aiutarvi. Insegnarvi quali sono i valori in cui credo, vedervi splendere e sorridere. E sentirmi chiamare ‘papà’…».

«Mammi!» gridò mia figlia, portata in stanza da suo padre. Si sbracciò per raggiungermi con una mano, mentre l’altra, steccata e avvolta da una fascia rosa, la teneva piegata al corpicino.

«Amore, vieni qui» la chiamai, mettendomi a sedere con difficoltà e cancellandomi velocemente le lacrime.

Edward me la sistemò accanto sul letto, e subito potei stringerla forte fra le braccia. Aveva il viso rosso, segno che aveva pianto, ma le guance non erano più bagnate. Le carezzai i capelli scuri e morbidi, respirando il suo profumo.

«Come sta?» mormorò Edward a Carlisle, indicandomi con un cenno del mento.

«Niente di rotto» scherzò mio suocero facendomi l’occhiolino.

«Come sta lei?» domandai io, preoccupata.

«Se la caverà. Le hanno dato un anestetico locale, non le farà male per stanotte. È solo molto stanca emotivamente. È stata una notte movimentata» fece Edward, venendo a sedersi sulla sedia accanto al letto.

Baciai il capo della bambina, che sollevò gli occhioni verdi sul mio viso, scrutandomi.

«’sonno» balbettò.

Le carezzai il viso, sfregando la guancia contro la sua fronte. «Dormi amore, dormi, qui, con la mamma. Shh…».

Si accucciò fra i miei seni, stropicciandosi gli occhi e poi abbracciandomi. «Ti voglio bene, mammi» brontolò, scivolando subito dopo nel sonno.

Sorrisi, sollevando lo sguardo su mio suocero. «Grazie» sillabai, preparandomi a mettere al mondo altre due pestifere, chiassose, impegnative adorabili figlie.

 

 

 

 

 

 

 

Ah-ah!

Chi è la vostra zietta? Chi è che ha passato alla grande l’esame di biochimica? Chi è che ha pubblicato il capitolo super-succosissimo che aveva promesso?!

Io, io, sono io!

Non scomparirò, davvero. Credo che ci siano altri 3-4 extra alla fine definitiva di questa avventura. Non perdeteveli. No.

E grazie per aver pregato per me! Siete degli angeli!

Alla prossima!

 

PS. Se mi gira fra qualche ora pubblico anche un capitolo di “The Woodmore Sisters”. :D

Hello!

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Capitolo 10
*** Extra 2. Parte 7. ***


15 Luglio 2010. Il giorno inizia così…

 

«Bella, tesoro? Anne si è svegliata, e ha svegliato anche Kate. Fortunatamente sono riuscito a salvare Juliet, che dorme ancora beatamente. Ma Anne vorrebbe davvero mangiare». Sbirciai meglio sul letto e mi resi conto che mia moglie non era fra le lenzuola. Mi volsi verso la porta del bagno, accostata.

Era lì, a fissare lo specchio. I capelli erano arruffati sul viso pallido e segnato dalle occhiaie. Le bambine ci davano ancora notevoli preoccupazioni, soprattutto la notte, e no, crescere dei gemelli insieme a due fratellini così piccoli non era la cosa più semplice del mondo. Quello che mi colpì fu il suo sguardo, liquido, quasi lucido, a fissare il suo corpo nudo. Il seno gonfio e le pelle morbida e lievitata, come pasta di pane avvolta da una tiepida coperta, sui fianchi e la pancia.

«Bella» la richiamai, aprendo la porta.

Si volse di scatto, sussultando. «Sì, scusa, scusami. Umh… io… stavo per fare una doccia, ti serve qualcosa?» fece velocemente, prendendo un accappatoio per coprirsi.

Sorrisi, avvicinandomi e baciandole le labbra. Forse si sarebbe sentita meglio se le avessi detto qualcosa? Anche se forse era una bugia? Era vero, prima era più magra e soda, ma non era la bellezza fisica quella che donava luce all’amore per mia moglie, non quando eravamo andati così oltre da imparare a conoscere la nostra anima. «Anne ha bisogno di mangiare. Ma fai pure, vieni quando finisci. Ce la caveremo io e Kate insieme».

Annuì, entrando velocemente nel box doccia. «Faccio presto» cincischiò velocemente sulle labbra.

Abbassai le spalle, chiedendomi per un attimo se dovessi aggiungere altro. Mi voltai, uscendo dalla stanza, e proprio quando avevo una mano sulla porta rimasi fulminato dal suono di un singhiozzo. Era mia moglie?

Tre istanti più tardi iniziò a piangere Juliet. E poi Mark. E Anne. E Kate si mise ad urlare.

 

«Shh… va bene, va bene. Mangiate, su, no, non vi agitate» mormorò velocemente Bella, tenendo entrambe le bambine con le braccia per allattarle al seno.

«Mark, quale colore vuoi?» domandai al bambino, non smettendo di dare un occhio a mia moglie e di preparare il pranzo.

«Bu!».

«No, il blu lo ‘oglio io» ribatté perentoria Kate, usando il braccio non steccato per rivendicare i suoi diritti sul colore.

«E io non voglio litigi. Lo usate un po’ per uno e pure poco, che fra un po’ si mangia» li rabbonii, mescolando il sugo.

«Oddio!» esclamò Bella improvvisamente, singhiozzando forte. «Oddio ti prego Edward, toglile, toglile!».

I bambini si voltarono spaventati nella sua direzione. Non avevano mai visto la madre piangere. Anche le due piccole che teneva in braccio, all’apparenza perfettamente sane, scoppiarono in un pianto disperato sentendo la tensione della madre. Aveva il volto tirato, pallido, preda della paura. Non l’avevo mai vista così.

Mi avvicinai velocemente, prendendo le piccole in braccio, ma non feci in tempo a capire cosa fosse accaduto che si alzò, sgattaiolando velocemente nella sua stanza.

«Mamma» balbettò Mark, sollevandosi sulle gambine per andarle dietro. La porta della nostra stanza sbatté con forza, facendolo bloccare al centro del salone, spaventato, e cadere indietro sul sedere.

Suonarono alla porta.

 

«E menomale che sono arrivati i rinforzi, Edward! Il sugo stava per bruciarsi. Oh, ma guarda! La vostra casa è un vero macello. Cosa fareste senza di noi?» esclamò Alice sollevando gli occhi al cielo.

Rosalie mi sventolò una tutina rosa davanti al viso. «Dove sono i pannolini? Lo sai che Juliet va cambiata? Puzza».

«Mark, Kate! Ho portato una nuova mazza da baseball, che dite se la proviamo?».

«Sììì, zio Emm!».

«Edward» mi richiamò Jasper, osservandomi attentamente. «Edward, che ti succede? Sembri pensieroso».

Scossi il capo, deglutendo. Posai la piccola Anne nella sua culletta. Quelle due piccole gocce d’acqua delle nostre figlie erano incantevoli. Vagì, dimenandosi appena. Era minuscola, una neonata di due settimane.

«È per via di Bella?» domandò ancora Jasper. «Non sembra stare bene» constatò, corrugando la fronte al sentire le sue emozioni.

«Già» sospirai appena con un fremito. Ero stato io ad insistere per volere tutto quello. Avevo forse sbagliato? Ero stato egoista a desiderare una famiglia, la più grande che potessi avere, anche a costo di mettere a repentaglio la salute fisica e psichica di mia moglie? Forse… Forse avrei davvero dovuto dire basta. Non appena avesse voluto smetterla con l’allattamento l’avrei trasformata, così non si sarebbe più preoccupata del suo corpo e sarebbe stata abbastanza forte per non preoccuparsi di badare al meglio ai suoi figli.

Ma potevo davvero essere così codardo?

«Dovrei andare da lei» mormorai esitante.

Gli occhi profondi di mio fratello scavarono nella mia anima. «Ma hai paura. È comprensibile. E ti senti in colpa».

Sospirai. Parlare con Jasper mi causava sempre una certa emicrania. «È a causa mia se non si piace più. Ed è colpa mia che ho insistito…».

«Edward, non fare lo stupido, non lo sei» mi riprese pacatamente Jasper. «Va da lei, dille una bugia. Anche più di una, se servirà. Falla sentire bella, brava, capace e amata. Credo che ne abbia bisogno».

Sospirai, poi annuii. Probabilmente avevo fatto un errore di valutazione: non bastava sapere di amarla, se non glielo ricordavo ogni giorno, specialmente nei momenti più difficili.

Andai in camera, e la trovai che fissava la porta, gli occhi fissi e rossi, gonfi, un fazzolettino piegato premuto sulle labbra. Smisi inconsciamente di respirare, e andai a sedermi sul materasso, accanto a lei. La circondai con le braccia, e automaticamente riprese a piangere. Le baciai il capo. «Bella, amore, cosa c’è che non va?».

Scosse la testa, nascondendo il volto sul mio petto e singhiozzando. Questo non mi avrebbe portato a nulla.

«I bambini sono di là» provai, incerto, tentando di misurare le parole «ci sono Alice, Emmett, Rosalie e Jasper. Ci stanno pensando loro».

Scattò in alto con la testa, allontanandosi dal mio corpo e nascondendo il capo fra le ginocchia, piegate al petto. «Vai da loro. Non devi restare a consolarmi. Vattene» singhiozzò, la voce ovattata.

Deglutii. Era peggio di quanto credessi. Provai ad abbracciarla ancora, con cautela, sperando che non mi allontanasse. Sfregai la guancia contro la sua. «Voglio rimanere qui con te. Abbiamo avuto così poco tempo insieme, ultimamente».

Sollevò il viso sul mio. Era completamente bagnato di lacrime, pallido, e striato di rosso. Le ciocche di capelli scendevano sul viso in ogni direzione. Era straziata. «Sono pessima, Edward. Non ce la faccio» fece, ricominciando a piangere «non posso crescere quattro figli. Non ho che cominciato a mettere al mondo le ultime due, e già Kate si era rotta un braccio. Loro mi chiamano, dicono che hanno bisogno di me, vogliono giocare con la mamma, vogliono allattare, mangiare, essere puliti, lavati, vogliono parlarmi… e io non posso accontentarli tutti! Non posso!» urlò, stringendo con i pugni la mia maglietta.

Le accarezzai una guancia, colpito dalla sua veemenza. «Ma ci sono io, tesoro. E i bambini stanno bene. E sai anche che possiamo contare sulla mia famiglia, su tuo padre…».

«Che razza di madre sarei, allora? Sono i miei figli. E se sono miei non significa solo che devo limitarmi a metterli al mondo… e che devo, devo…» singhiozzò, tanto da farsi mancare il fiato.

«Shh, vieni qui» mormorai, stringendola facilmente a me e portandola contro il mio corpo. La lasciai piangere, la accarezzai, la cullai, perché non sapevo cos’altro fare. Parlando avrei potuto farla acquietare o urlare ancora.

«Sono una pessima madre…» mormorò dopo parecchi minuti contro la mia camicia zuppa.

Le sorrisi. «Abbiamo già avuto questa discussione, ricordi? Sei brava. I bambini ti amano, e farti aiutare non sminuisce di certo il tuo ruolo. Ti dedichi anima e corpo a loro, te l’ho sempre visto fare. Non ti addormenti se non sei stremata, con la mano di Mark nella tua o Anne che ancora ti succhia il seno».

Mossa perfetta. Mi lanciò una breve occhiata, appena sconsolata, prima di abbassare ancora il viso. Sussurrò con voce bassissima: «Sono brutta».

Le presi il viso in una mano, costringendola a guardarmi. «Non lo sei affatto. Conosco il tuo cuore, ed è bellissimo». Mossa sbagliata.

Allontanò la mia mano con uno schiaffetto, riprendendo a singhiozzare. «Non è nel cuore che voglio essere bella, voglio esserlo davvero!» esclamò, sollevandosi velocemente in piedi «Voglio essere magra come prima, senza la pelle floscia, senza le smagliature, senza le cicatrici… invece sono orrenda» singhiozzò, nascondendosi il volto con le mani.

Annaspai, sconcertato dal suo grado di incontentabile disperazione. Mi sollevai, ad andai a stringerla fra le braccia, ancora. La baciai con forza. «I bambini ti amano, io ti amo. E sei bellissima» le sussurrai contro il viso, baciandola ancora.

Si staccò dopo pochi secondi, restituendomi la stretta sul corpo. «È per me che voglio essere bella, non capisci?» mormorò contro il mio torace. «Sono una moglie, una madre, ma voglio essere anche una donna» confessò, come se si sentisse infinitamente in colpa.

E i cocci si ricongiunsero nella mia mente. Si odiava per non potersi dedicare completamente ai figli, e contemporaneamente, ancor di più per voler avere del tempo da destinare a sé stessa.

La strinsi, la baciai. Dalla tempia, alla guancia, alla bocca. La feci stendere sul letto. Le accarezzai la pelle morbida e feci vibrare le palpebre, colto da un brivido. «Non esiste niente di più soffice» le soffiai sulla pancia, la maglietta sollevata.

I suoi occhi, ancora rossi e gonfi, mi fissarono stupiti e lucidi. «Edward…» balbettò.

Le accarezzai i fianchi scoperti, con entrambe le mani, e poi le cosce, baciandole ancora la pancia, attento ad essere estremamente delicato, più del solito. Le sfilai la maglietta, osservando il seno morbido e gonfio trattenuto dal reggiseno da allattamento. Le sorrisi. «Sei la mia donna preferita. Molto, molto sensuale. Perché mi piace quello che vedo» mormorai, abbassando lo sguardo sul suo petto.

Sorrise, un piccolo e breve sorriso timido. Poi strinse le mani nei miei capelli. «Non possiamo, Edward. È troppo presto» mormorò, arrossendo appena e dandomi un piccolo sorriso triste e incerto, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

Annuii. «Lo so, anche se vorrei tanto» sussurrai, sfregando il mio inguine contro il suo. «Ma voglio stare con te ugualmente» continuai, intenzionato ad accarezzarla, baciarla, amarla, abbracciarla, e poi di nuovo baciarla e accarezzarla, finché tutti i suoi brutti pensieri non fossero scomparsi.

 

27 Agosto 2010. In cortile.

 

Bella aveva auto una forma di depressione abbastanza grave da essere diagnosticata, dopo la nascita delle gemelline. Era stata triste, sconfortata, angosciata. Era normale, dopotutto, dopo l’orda di ormoni che negli ultimi anni aveva tempestato il suo corpo e dopo che le due piccine le erano state in grembo per tutto quel tempo.

Adesso, a due mesi dalla nascita delle gemelle, aveva ormai recuperato. Cullai Juliet con un braccio, pulendole le bavette dalla bocca. Identica alla gemella aveva gli occhi verdi, com’erano stati i miei. Le accarezzai i capelli e fece una smorfia simile ad un sorriso, accompagnata da un gorgoglio contento. Sollevai lo sguardo, tenendo d’occhio Mark che giocava nella sabbietta del parco, a pochi metri di distanza dalla panchina dove mi ero sistemato. Aveva un anno e otto mesi, ma ne dimostrava un po’ meno, così che dovevo ben guardarmi dall’essere chiamato padre degenere per lasciarlo così autonomo.

Sorrisi a Juliet, riponendola nella carrozzina accanto alla gemella. «Non mettere la sabbia in bocca, Mark!» lo ammonii, quando vidi che la sollevava con un pugno e la osservava incuriosito.

Sospirai, lasciando andare il capo all’indietro. Mi ero trovato costretto a chiedere un consiglio a Carlisle su mia moglie, ma quello che mi aveva suggerito andava ben oltre l’aspetto medico. Appena potevo le donavo piccoli regalini, cose molto femminili, la esortavo a uscire, con Alice e Rosalie, con la scusa di fare qualcosa per i bambini per farle dedicare un po’ di tempo per sé stessa. La adoravo, la baciavo. Il suo corpo stava cominciando a recuperare, tornando quello di una volta, anche grazie all’allattamento. E un mese prima, avevamo ripreso a fare sesso. Vero sesso. Protetto, perché non mi sarei mai perdonato un’altra gravidanza in quelle circostanze. Fu da quel momento che, piano a piano, notai sensibili miglioramenti.

Ero quindi, ormai, perfettamente tranquillo e più che felice. Sorrisi. L’avevo lasciata a casa con Kate, mentre giocavano nella piscinetta per liberarsi dalla cappa di calura e umidità tipica di Forks nei mesi estivi.

Vibrò il telefono nella tasca. Mi affrettai ad osservare il display, non senza prima lanciare un’occhiata a Mark e le gemelline. Era da casa, osservai con un cipiglio.

«Bella?».

«Edward. Credo che tu debba tornare, è urgente».

 

Bella

 

Mi sventolai con la rigida copertina della rivista che mi aveva portato Edward. La temperatura non era poi tanto alta, al massimo una ventina di gradi, ma l’umidità rendeva l’aria così satura da essere quasi irrespirabile. Mi allungai sulla sdraio, sbadigliando. Era da circa una settimana che le gemelle avevano smesso di darci il tormento, di notte. Abbassai lo sguardo sul seno gonfio, trattenuto a stento dal costume e nascosto sotto il sottile prendisole.

Sospirai, socchiudendo gli occhi e sfiorando le gambe e la pancia. La pelle era ancora tesa e dilatata, ma intanto stava riacquisendo tono, e la pancia era tornata piatta come una volta. Sorrisi appena, pensando a Edward e quello che mi aveva promesso per quella serata. Arrossii appena, più che per il pudore per l’eccitazione, lasciando istintivamente dischiudere le labbra.

Era uscito con i bambini, portandoli al parco, per lasciarmi un po’ di tempo per riposarmi, visto che la notte ero l’unica capace di nutrire le bambine. Più tardi magari avrei potuto usare un po’ il tiralatte, anche perché in quelle condizioni il seno - per quanto era gonfio - non sarebbe potuto nemmeno essere sfiorato, pensai con una smorfia. Kate, stranamente, non era voluta andare con il padre a giocare. Lui aveva cercato di convincerla, invogliandola con il miraggio di un pomeriggio all’aperto, ma la bambina non aveva desistito.

«Lasciala stare con me» avevo detto ad Edward, desiderosa di trascorrere un po’ di tempo sola con la mia bimba più grande «possiamo giocare con la piscinetta, che ne dici?» le avevo chiesto, accarezzandole i capelli mori, come i miei.

La bambina aveva annuito, stringendosi alla mia gamba. Avevo sempre paura di trascurarla, considerandola già grande ed autonoma. Ma, dopotutto, aveva poco più che tre anni. Edward provava a leggerle i pensieri, ma più cresceva più imparava a nasconderli, rendendo più arduo il nostro compito.

Mi feci ancora aria, sistemandomi il cappello sulla testa per ripararmi dal sole, e mi chinai sul tavolino a prendere la limonata ghiacciata.

Un urlo mi fece trasalire, costringendomi ad alzarmi con un balzo dalla sedia, gli occhi sgranati. Mi guardai velocemente attorno, in cerca della bambina. Il cuore mi pompava velocemente nel petto. No, no, no. Le avevamo appena tolto il gesso. No.

«Kate? Katherine?» la chiamai agitata, guardandomi attorno nel cortile.

Dopo pochi secondi la vidi sgambettare verso di me, in direzione opposta a quella della piscinetta, con le mani e il viso sporche di sangue. Piangeva, disperata, il viso rosso. Le corsi incontro afferrandole immediatamente le piccole mani e osservandole, in cerca di tagli e lesioni, per poi passare al viso, le labbra, la bocca e i denti, ignorando i crampi allo stomaco.

Raggelai quando mi resi conto che non era il suo sangue. Un piccolo ciuffetto bianco era vicino all’angolo della bocca.

Presi alcuni abbondanti respiri, metabolizzando la cosa. Kate continuava ad urlare, sconvolta, tremando. Me la strinsi al petto, prendendola fra le braccia e sollevandola. Si strinse forte a me, estendendo immediatamente il suo scudo attorno a noi.

Le accarezzai la testa, dirigendomi all’interno della casa. Scoccai una veloce occhiata alla mia destra, dove giaceva la piccola palla di pelo bianco che era stato il nostro coniglietto domestico. «Shh, amore, non è successo niente» la rassicurai, cullandola.

Prima lavarla o chiamare Edward? Presi la decisione un secondo dopo, spinta dal pianto interminabile della bambina. Prima lavarla. Non volevo che rimanesse con il sangue appiccicato sulla faccia, o che si allarmasse vedendomi allontanare da lei, anche se per poco.

La posai sul fasciatoio per spogliarla. Convincerla a separarsi da me, anche solo per pochi secondi, fu davvero difficile. «Su, amore, solo un attimo» la consolai, «ci togliamo questi brutti vestiti sporchi e ci facciamo un bel bagnetto. Solo un attimo Katie, te lo prometto».

Quando la immersi nell’acqua tiepida e profumata tremava, gli occhi ampi. La tenni stretta con un braccio al mio petto, non curandomi affatto di bagnare il prendisole. Con una mano a coppa portai l’acqua a sciacquarle il volto più e più volte, dolcemente, accarezzandola, finché non fu perfettamente pulita. La avvolsi in un telo morbido di bucato, strofinandola per infonderle calore, mentre intanto tremava.

Decisi che quello era il momento di chiamare Edward. Tenendomela stretta al petto mi avviai in soggiorno, presi il cordless e composi il suo numero. Mentre aspettavo che rispondesse ondeggiai dolcemente sul posto, cullando la bambina.

«Bella?».

«Edward. Credo che tu debba tornare, è urgente» risposi immediatamente, pur senza mettere paura o allarmismo nella voce. Non volevo che Kate ne fosse turbata.

«Cos’è successo?» rispose Edward, evidentemente agitato. «Kate si è fatta male? Tu stai male? C’è qualcuno lì con te?».

La piccola si lamentò e gemette fra le mie braccia, rivolgendomi l’ennesimo sguardo angosciato che mai un bambino dovrebbe avere. «Shh, è tutto okay, tesoro» la tranquillizzai, cullandola, prima di rivolgermi di nuovo a Edward «non è niente di così grave. Devi solo tornare presto, va bene? Ti spiegherò quando sarai qui» sottolineai piano, sperando che capisse che non avevo intenzione di parlarne e che avessi dei buoni motivi per farlo.

«Sarò lì fra un quarto d’ora al massimo. Sono già in auto».

Sospirai, richiudendo la chiamata e avviandomi verso la nursery. Posai Kate sul fasciatoio, dove rimase sempre avvinghiata a me. A fatica le infilai un body pulito e un pigiamino, poi la misi seduta con le gambine penzoloni sul fasciatoio. «Così, abbraccia forte la mamma. Posa la testolina qui e chiudi gli occhi» feci, guidandole il capo sul mio petto. Accesi il phon ad una temperatura che non fosse troppo alta e cominciai ad asciugarle ed accarezzarle i capelli morbidissimi di bambina.

Quando Edward arrivò, dieci minuti più tardi, Kate aveva gli occhi socchiusi e mi stava attaccata, stesa su di me, sul divano. Ancora non dormiva. Avevamo preso in considerazione che un momento del genere arrivasse, ma non per questo mi sentivo più preparata. Come spiegare a mia figlia che era normale che le potesse venire voglia di succhiare il sangue al nostro animaletto domestico? Povera piccina, chissà quanto era turbata.

«Bella?» mi chiamò Edward entrando nella stanza, gli occhi ampi. «Che succede?».

Mi portai l’indice sulle labbra, invitandolo al silenzio. Abbassai lo sguardo sulla bambina, poi picchettai col palmo sul posto accanto al mio. Sospirò, turbato, venendo a sedersi accanto a me. «Dove sono i bambini?» domandai con calma.

«Le gemelle dormono, Mark è nel seggiolone, in auto. Cosa succede?» incalzò, impaziente.

«E l’hai lasciato lì? Edward!» protestai.

Mi liquidò con un gesto della mano. «Starà bene per cinque minuti. Bella».

Sospirai, scuotendo appena il capo e continuando ad accarezzare la bambina. «C’è stato un piccolo incidente con Barnie» mormorai pianissimo, guardandolo negli occhi.

Aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Barnie?».

Annuii. «Il coniglio, Edward» sottolineai eloquentemente, passandomi la lingua sui denti.

Batté le palpebre, confuso, osservandomi. Poi spostò lo sguardo sulla bambina, che non si era ancora addormentata. Speravo che fra i suoi pensieri potesse trovare la soluzione che gli avrebbe fatto comprendere. Cacciò un respiro secco, poi rilassò le spalle. «Capisco» mormorò, chinandosi a raccoglierla fra le braccia. Protestò debolmente, poi si avvinghiò al padre come aveva fatto con me pochi secondi prima. La sostenne con un braccio sotto il sederino e uno sulla testa. «Vieni, amore di papà. Vuoi vedere una cosa?» le domandò, sfregando il viso contro il suo per costringerla a guardarlo.

Kate cominciò a singhiozzare, ancora.

«Shh, è tutto passato. Vieni qui» mormorò, cullandola fino a portarla in camera.

«Ti raggiungo subito, vado a prendere i bambini» feci velocemente, sollevandomi in piedi.

Fece un cenno, chiudendosi la porta della nostra stanza alle spalle.

 

«Papà va nei boschi a mangiare, lo sai, vero? È normale, piccolina, siamo tutti diversi» le spiegai, guardandola negli occhi ampi e rossi.

«A te piacciono le caramelle al limone e a Mark piacciono quelle alla fragola. Se a tutti piacessero le stesse caramelle si finirebbero subito e non ci sarebbero più caramelle».

Sollevai un sopracciglio, voltandomi a guardare Edward. Scrollò le spalle, indifferente. Avevo messo a dormire le gemelline nella loro culletta, ed ero rimasta con Mark per mezz’ora finché non era crollato addormentato anche lui. Ero entrata in camera che mio marito aveva appena finito di calmare la bambina.

Kate tirò su con il naso, tremando.

Scoccai un’occhiata preoccupata a Edward. Sospirò. «Amore» la chiamò, accarezzandole i capelli e facendola voltare nella sua direzione. «Vuoi venire con papà stasera? Facciamo un giro nei boschi insieme, vuoi? Ci divertiamo. Giochiamo a chi prende più animali, va bene?».

Gli strofinai il braccio. «Ce la fai?» domandai a bassa voce, incerta, «Porta qualcuno con te».

Annuì, riportando l’attenzione sulla bambina. «Viene anche zio Emm e forse zia Alice. Possiamo formare due squadre e vedere chi vince, vuoi Katie?».

Ci guardò silenziosa. «Posso stare con te?» domandò piano a Edward.

Le sorrise. «Certo, Katie. Vedrai, non ci batterà nessuno».

La bambina annuì, piano, stringendosi al collo del padre.

Sospirai, lasciandomi andare sul letto, un secondo prima che dal ricevitore si alzassero dei vagiti. «È l’ora della poppata di Anne, vado io. Tu… emhoccupati  del cortile» feci con una smorfia.

Edward scoppiò a ridere. «Schizzinosa come sempre» sussurrò al mio orecchio, evitando di poco una meritata pacca scherzosa.

 

 

Ciao a tutti!

Mi dispiaceva troppo lasciare questi extra a metà, quindi anche se dopo tanto tempo termino con la pubblicazione. Mancano ancora un paio di extra.

Un abbraccio affettuoso e nostalgico.

Francesca

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Capitolo 11
*** Extra 2. Parte 8. ***


2 Novembre 2010. Nell’ambulatorio dell’ospedale.

 

«Wuuuuhmm! Wuuhmmm!» esclamò Katie, correndo con le braccia aperte.

«In guaddia!» esclamò Mark, puntandole addosso una pistola invisibile.

Rivolsi un sorriso di scuse agli altri pazienti fermi in sala d’aspetto, ma presto degli altri bambini si unirono alla battaglia immaginaria dei miei figli. Ero terrorizzata dal fatto che qualcuno potesse notare che Katie e Mark fossero troppo svegli per i loro tre e due anni, dimostrandone anche meno di quanti ne avessero. Non avevamo moltissimi contatti con il mondo esterno proprio per questo motivo, e di solito erano molto timidi con le altre persone. Ma in questo caso erano in ospedale, dove il nonno li portava spesso, quindi ben presto si erano sentiti liberissimi.

Juliet succhiò con più forza al mio seno, facendomi appena socchiudere gli occhi.

Edward le accarezzò la testa. «Stasera proviamo con la prima pappina, che ne dici?».

«Oh, la prima pappina. Ho solo ricordi felici delle prime pappine, tanto che mi viene voglia di continuare ad allattarle per una vita» scherzai.

Sorrise, sicuramente ripensando a come, in entrambi i casi, la pappa ci fosse finita dritta in faccia.

Juliet tirò ancora, poi si staccò e vagì, e fui costretta a cambiare seno. «E io che pensavo di potermelo risparmiare per Anne, questo» scherzai ancora, sollevando gli occhi al cielo.

Edward la stava cullando sul suo petto. Le avevamo messo un pagliaccetto rosso e bianco, coordinato a quello della sorella, degli stessi colori ma opposti. Avevano tutte e due gli occhi verdi e i capelli ramati, e la pelle pallidissima. Due principessine.

«Kate, Mark! Non allontanatevi oltre il corridoio» li richiamò Edward. I due bambini annuirono, ricominciando a giocare.

Accarezzai la guancia di Juliet che sorrise e fece un versetto, allungando un pugno nella mia direzione.

«Ti ho promesso che ti trasformo fra un paio di mesi, vero? Un paio, lo giuro» mormorò al mio orecchio Edward, la voce bassa.

Sussultai, irrigidendomi. «E questa da dove ti è venuta?» domandai divertita.

Abbassò lo sguardo sul mio seno. «Sono stanco di dividerti con gli altri… e di usare i preservativi» aggiunse a voce ancora più bassa.

«Edward!» esclamai, ridacchiando nervosamente, rossa in volto.

«Edward, Bella» chiamò l’assistente di Carlisle, uscendo dalla stanza. Mi ricomposi, sollevando la manica del vestito e rimettendo a posto il lenzuolino e Juliet nel passeggino. Radunammo la ciurma e impiegammo cinque minuti solo per entrare nello studio.

 

«Così papà l’ha afferrata e io l’ho morsa forte forte e abbiamo vinto! Rose ha preso solo una lince e Emmett un orso, ma la nostra gazzella valeva per due! Vero papà? Vero?» domandò Kate, raccontando contenta al nonno l’ultima battuta di caccia.

Carlisle sorrise, spostando lo stetoscopio sulla schiena di Anne. «Sei stata davvero brava». La piccola si mosse, una mano in bocca e una che tentava maldestramente di afferrare lo strumento. I suoi occhi verdi vagarono nella stanza. «Aaa-aaaa» gorgogliò.

Feci un ampio sorriso. «Quello è il suo modo di dire “mamma”. Vero amore, vero?» la vezzeggiai.

«Non potrebbe essere il suo modo di dire “papà”?» mi sfidò Edward, cullando e calmando Juliet, rossa in volto e bagnata di lacrime, dopo aver ricevuto il suo vaccino del quinto mese.

«No, perché lo dice guardando me» ribattei, facendogli la linguaccia.

«Mammi! ‘Osso anche io?» domandò Mark, che mi stava attaccato a un piede.

Aggrottai la fronte, seguendo il suo sguardo verso le mani del nonno, dove stava una piccola siringa. Allontanai immediatamente gli occhi, respirando piano. «Mmm, amore, magari un’altra volta, eh?» domandai, deglutendo più volte.

Carlisle rise, afferrando il bambino ai miei piedi. Lo fece sedere sulle ginocchia e gli mise la siringa fra le mani. «Mi puoi aiutare. Lo facciamo insieme, così».

Liberai la gamba della bambina dalla tutina, impedendomi di tremare. Mi voltai di lato e serrai gli occhi, aspettandomi di sentire il suo pianto disperato, intanto che Carlisle spiegava ogni passaggio che compiva a Mark.

«Fatto».

«Fatto?» domandai sorpresa, aprendo gli occhi. Mi voltai verso la bambina che sorrideva saltellando sul posto ed emettendo versetti. «Ma, ma…».

«Si vede che Anne ha preso da me» mormorò al mio orecchio Edward, ridendo.

 

5 Febbraio 2011. Un giorno di neve a casa Cullen.

 

«Brr, brr, brr. Ci sono due bambini congelati qui» esclamai velocemente, entrando nel soggiorno. A dir la verità, sotto lo strato di cappotti cappelli coperte e sciarpe quasi non si vedevano, i bambini. Rose mi prese Anne dalle braccia, e Esme Mark.

«Abbiamo vinto! Eravamo una valanga, ragazzo!» tuonò Emmett, dando il cinque a Mark.

Edward si chiuse la porta alle spalle, entrando con Kate e Juliet e Alice e Jasper. Avevamo deciso di far divertire i bambini sugli slittini, quella mattina, visto che per una settimana intera c’era stata un’abbondante nevicata e la neve era ormai compatta e solida.

«Mamma, mi sistemi il fiocco?» mi domandò Kate, correndo da me con il suo vestitino verde di raso. Mi chinai con un sorriso, sistemandole il vestito e baciandole poi la fronte.

«Mammi! Mi ‘ude il naso» si lagnò Mark, indicandosi il nasino con una smorfia.

Afferrai un fazzolettino dalla tasca. «Soffia forte forte. Più forte. Più foooorte. Così, bravo» risi, appallottolandolo e gettandolo nel fuoco. «Prude ancora?».

Fece no con la testa, sorridendo e correndo via.

Juliet, sotto l’attenzione di Alice, provò inutilmente a sollevarsi sulle gambe prima di gemere, frustrata. «Aspetta, amore, così» feci, sollevandola e portandola accanto al tavolino da tè, dove si appoggiò con entrambe le mani per sollevarsi ed emettere un verso felice che somigliava a «‘Ammi».

«Bella» mi richiamò Esme. «Anne sta frignando, credo che abbia fame. La vuoi allattare?».

Mi mossi sui piedi, a disagio. «Emm, veramente… potresti darle una pappina. Da un paio di settimane non vogliono tirare e non mi sta più venendo il latte» mormorai a bassa voce, imbarazzata. Abbassai gli occhi, scossa da un brivido.

«Oh, certo. Capisco».

Annuii, guardandola allontanarsi. Edward si avvicinò, sfregandomi il braccio, silenzioso. Infilai il capo sul suo petto e stetti così ferma per sei secondi, prima che Mark, poi Juliet, poi Kate, poi Anne, reclamassero ancora la mia attenzione. Sorrisi, repressi uno sbadiglio e mi dedicai a loro.

 

«Sapete cosa sta per arrivare?» fece Rose, guadagnandosi l’attenzione di tutti i bambini.

«Così rovinerai la sorpresa» ribatté Jasper compassato, sollevando appena gli occhi dalla rivista che stava leggendo.

Gli scoccò un’occhiata avvelenata. «Zitto tu».

«Cosa?» domandarono i bambini. «Daaaai zia, dicci cosa!». Carlisle e Esme, in sala, sorrisero, guardandosi fra di loro. Edward continuò ad intrecciare i capelli di Kate. Incredibile quanto fosse diventato bravo.

Rose riprese a parlare. «Sta per arrivare…».

Presi un paio di respiri più superficiali. Si avvertì il suono delle tazzine che tremavano contro il vassoio di metallo, tintinnando. Tutti, nessuno escluso, si voltarono a guardarmi. Erano le mie mani, stavano tremando. Battei le palpebre, inebetita.

Alice si sollevò dai suo posto sui cuscini, prendendomi il vassoio dalla mani prima che cadesse. «La cioccolata!» esclamò, voltandosi verso i miei figli.

Ci furono delle urla di gioia e dei versetti, e ognuno abbandonò la sua attività per circondarla.

Deglutii, e mi tirai a sedere sul divano, accanto a Edward. Il cuore cominciò a battermi man mano più piano e la stanza smise di girare. Mi accarezzava lentamente la schiena con la mano, senza parlare.

Per l’ora di pranzo fummo bloccati a casa Cullen, perché aveva ripreso a nevicare e non volevamo rischiare di far ammalare i bambini, e tutti volevano rimanere con loro, e Esme aveva già preparato il pranzo…

«Vola la pappa nella boccuccia, ahhh» feci, avvicinando il cucchiaio alla bocca di Juliet. Lo prese fra le labbra, fece una smorfia e ne sputacchiò un po’. Poi la riaprì. «’aaapppa».

«Mamma, nella mia pasta non c’è il formaggio» protestò Kate, indicandola.

Mi sporsi ad osservarla, e poi presi un formaggino dalla borsa per le gemelle e glielo misi nel brodino. «Così va bene?». Annuì, concentrata sulla sua pastina.

Riuscii a mettere in bocca un altro cucchiaio di pappa a Juliet che «Mammi» mi chiamò Mark, tirandomi una gamba dei pantaloni.

«Cosa c’è tesoro?». Tese le braccia nella mia direzione per farsi prendere in braccio. «Finisci di mangiare prima».

«Finito» ribatté, allungandosi di più.

«Vuoi che lo prenda io, cara? Non hai nemmeno sfiorato il tuo pranzo» mi fece notare Esme, che intanto stava facendo mangiare Anne. «Devi essere sfinita».

Mi voltai appena verso il mio piatto di pasta. Sarebbe con molta probabilità rimasto intonso. Sorrisi appena, chinandomi a raccogliere il mio ometto e mettendomelo sulle gambe. Chiuse gli occhi e posò la testa contro il mio petto. «Va tutto bene, Esme. Non sono stanca» mormorai, imboccando ancora Juliet.

Mark si addormentò dopo poco sulle mie gambe. Mi feci passare Anne, che intanto aveva reclamato la mia attenzione, da Esme, e la cullai come meglio potevo sulla spalla, mentre lei faceva mangiare Juliet. I ragazzi si spostarono nell’altra stanza, in modo che ci fosse abbastanza silenzio perché i bambini dormissero, e rimase solo Edward, che leggeva una favola a Kate sul divano per farla addormentare.

Sentii per un attimo le palpebre abbassarsi, mentre cantavo la ninnananna per i bambini. Nessuno aveva detto “mamma” “mammi” o “ammi” nell’ultimo quarto d’ora, il che poteva dire solo…

«Si sono addormentati» sussurrò Edward «vado a mettere Juliet e Kate nella stanza di sopra».

Annuii, reprimendo uno sbadiglio. Avevano convertito la stanza di Edward a stanza dei bambini, e spesso rimanevano lì a fare dei sonnellini. «Ti raggiungo subito» mormorai, sollevando Mark e Anne in modo da essere in grado di portarli entrambi. Il bambino si strinse con le braccia attorno al mio collo. Vicino allo stipite della porta del soggiorno mi sbilanciai all’indietro, ondeggiando. La vista si sdoppiò.

«Dalli a me, Bella» disse la voce bassa di mio suocero.

Arrendevole lasciai che li prendesse dalle mie braccia, senza neppure riuscire a distinguere nettamente i contorni del suo viso. Mi appoggiai con la spalla allo stipite della porta. «Non andare veloce, quando lo fa Edward si svegliano… Devo… solo sedermi un attimo».

Non sentii la sua risposta. Quando la stanza riprese contorni definiti non c’era più. Lentamente, incespicai verso la poltrona imbottita accanto al fuoco su cui probabilmente era rimasto seduto, e ci crollai.

 

Edward

 

Osservai mia moglie, rannicchiata sulla poltrona comoda. Le misi addosso una coperta, accarezzandole i capelli. Era esausta, pallida, con le occhiaie. Si stava dedicando anima e corpo ai suoi figli, senza mai tirarsi indietro, anche quando era allo stremo delle forze. Le accarezzai le labbra. Sempre dolce, gentile, con un sorriso sulle labbra e disposta ad andare avanti, ancora e ancora, senza mai lamentarsi.

«No, non mi va di parlarne qui» feci, scuotendo il capo verso mio padre. Anche senza leggere i suoi pensieri mi bastava guardare i suoi occhi per capire cosa gli passasse per la mente.

«Vieni nel mio studio».

Annuii, sollevandomi sui talloni e seguendolo. Aspettai che si chiudesse la porta alle spalle prima di mormorare pianissimo «Dovrebbe essere circa alla quinta settimana. Quattro più cinque. Si è rotto il preservativo» feci, sollevando finalmente gli occhi nei suoi.

«Capisco» ribatté comprensivo.

Sospirai, prendendomi il capo fra le mani e voltandomi a dargli la schiena. «Dovevo trasformarla fra appena due settimane. Abbiamo quattro figli, ed hai visto anche tu com’è uscita dall’ultima gravidanza… io…» annaspai.

Posò la mano sulla mia spalla. «Non lo potevate prevedere. E Bella è cambiata, Edward. Credo che abbia imparato che può farcela». Mi voltai, un’espressione angosciata sul viso. Fece una smorfia. «Ne siete sicuri? Ha fatto un test?».

Scossi il capo. «Non ne abbiamo ancora parlato, ma non ce n’è bisogno. Hai visto anche tu. La settimana passata stavo falciando l’erba e appena ha sentito la puzza è corsa a vomitare. Non mangia decentemente da allora, le gira la testa e… ha già smesso di crescere. Le unghie, i capelli. L’ho osservata attentamente».

Mio padre mi sorrise condiscendente. «Dovete parlarne, Edward. Magari la prenderà meglio di quanto credi».

Sospirai, scuotendo il capo. Sentii i passi veloci e affrettati di mia moglie sul parquet e poi la porta del bagno sbattere. «Vado da lei» deglutii, correndo veloce come un vampiro. Bussai. Sentii il suo tossicchiare dietro la porta. «Sono io».

«Entra, Edward» biascicò, tirandosi a sedere a fatica. Si pulì la bocca con un pezzo di carta igienica, poi lo buttò nella tazza, facendo scorrere l’acqua. Abbassò la tavoletta del water, sedendocisi sopra. Mi osservava, inespressiva, aspettando che dicessi o facessi qualcosa.

Mi avvicinai cautamente, facendola sorridere. «E così… eh?».

Il sorriso si fece più ampio. Prese la mia mano e se la portò al ventre. «E così, eh…» mormorò, prima di scoppiare a piangere.

La abbracciai, sentendo i suoi piccoli singhiozzi scuotermi. «Mi dispiace tesoro… Sarei dovuto stare più attento, avrei dovuto…».

Scosse il capo, senza far smettere di scendere le lacrime. «C’ero anch’io quella notte, no? Ti posso assicurare che ero contenta», scherzò debolmente, tirando su col naso.

Le accarezzai la guancia, portandole via il bagnato. La scrutai negli occhi gonfi. «Vuoi fare un test?» domandai incerto, non sapendo bene cosa dire.

Rise, un suono un po’ isterico e nasale, gettando il capo all’indietro. «Credimi, Edward, dopo tre gravidanze so come ci si sente».

Abbassò lo sguardo sulla mia mano, che non avevo mai allontanato da dove l’aveva messa, sul suo grembo. «Ce la faremo. Non so come» la voce s’incrinò «ma ce la faremo» mormorò con un sorriso forzato.

La baciai.

Si tirò indietro. «Che schifo, Edward. Fammi almeno lavare i denti prima».

Risi. «Non mi importa, ti voglio solo baciare».

Arrossì, provando a divincolarsi inutilmente. Alla fine si arrese. «Edward?».

«Cosa?».

Si avvicinò al mio orecchio, stupendomi ancora una volta. «I bambini dormono… E questo vuol dire… che possiamo anche non usare più i preservativi…».

Non me lo feci ripetere due volte.

 

3 Giugno 2011. Un giorno come un altro e un altro ancora… Ancora.

 

«Dove sono le gemelle?».

«Ho fame! Mamma, ho fame, ho fame!».

Sospirai, chinandomi a porgere a Kate il panino che stavo mangiando. Me ne sarei fatto un altro, magari prima di andare a dormire… «Tieni tesoro. Prendi questo, ma mettiti a tavola a mangiare».

La bambina annuì, arrampicandosi sulla sedia prima di dedicarsi al mio - suo - panino.

«Bella» gridò ancora Edward, per farsi sentire anche dalla cucina. Stava riparando la lavastoviglie. «Ho detto: dove sono le bambine?».

«In camera a dormire. Tranquillo. Con me ci sono solo Kate e Mark…». Ansimai, voltandomi verso la sedia accanto alla mia. «Mark?!» strillai in un verso strozzato.

Passarono pochi istanti pieni di panico. «Mark! Mark, dove sei? Mark?» urlai, lasciando che il panico mi assalisse sempre più velocemente. Era un bambino buono, mi rispondeva sempre appena lo chiamavo.

«Cosa succede?» esclamò Edward entrando velocemente nella stanza.

«Il bambino, Edward! Non c’è! È scomparso!».

Ma mio marito non aveva l’espressione che mi sarei aspettato. Sembrava perplesso.

«Mamma» mi chiamò la voce di mio figlio, ma quando mi voltai lui non c’era.

«Mark? Mark?».

«Mamma!» mi richiamò ancora, e improvvisamente comparve davanti ai miei occhi, dov’era sempre stato. Seduto sulla sedia.

Avevamo appena scoperto un nuovo strano dono dei miei figli: Mark poteva diventare invisibile.

 

«Stai bene?».

«Mh-mh».

«Sicura?».

«Benone. Passami un pannolino per favore». C’era stata una certa agitazione e un po’ di nausea dopo tutto quel trambusto. Com’era ovvio non avevo voluto farmi un altro panino. Carlisle era un po’ preoccupato, continuava ad insistere che non stavo prendendo abbastanza peso, che mi stavo stancando un po’ troppo. I bambini erano tanti e piccoli ed era difficile prendersi cura di tutti al cento per cento. Eppure continuavo a farlo. Con tutti, però, anche quelli che non erano ancora nati. Quindi se Carlisle mi diceva di mangiare lo facevo. Se mi diceva di dormire anche. Solo, lo facevo a modo mio, e per quanto Kate, Mark, Anne e Juliet me lo permettessero.

Quindi non avevo mentito a Edward. Mi sentivo bene, come al solito. Come se stessi percorrendo una lenta ed estenuante maratona dell’amore.

Mi fece allontanare, sistemandosi davanti al fasciatoio. «Lascia fare a me».

Non protestai, infilai il pigiamino a Anne e andai a rimboccare le coperte a Mark e a Kate. Il mio ometto stava dormendo, ma la più grande non ne voleva proprio ancora sapere.

«Mamma, raccontami una storia».

Le sorrisi, senza smettere di cullare la piccola Anne. Aveva quasi un anno, ma ne dimostrava un po’ meno. «Devo mettere a dormire la tua sorellina».

S’imbronciò. «Non la puoi raccontare anche a lei?».

Sospirai, appoggiandomi al muro contro cui era sistemato il letto. «Facciamo così. Perché non racconti tu una storia a me a ed Anne, eh? Cosa ne pensi?».

Mi guardò, come se ci stesse riflettendo. «E va bene…» sospirò infine, perdendosi in un mondo fatto di fate, castelli, principi e principesse.

 

Mi lamentai, agitando leggermente il capo.

«Shh, torna a dormire».

Nonostante fossi disorientata provai a fare uno sforzo di memoria. Se non sbagliavo, mia figlia mi stava giusto raccontando una storia… Mi lasciai andare fra le braccia di Edward. «Sono pesante» scherzai.

Senza accendere la luce entrò nella nostra stanza e mi sistemò sul letto.

Aprii gli occhi.

«Ti avevo detto di dormire».

Scrollai le spalle. «Anche tu mi sembri stanco» mormorai, accarezzandogli il viso. Aveva le occhiaie e sapevo perché. «Da quanto non vai a caccia?».

Mi sorrise, baciandomi il palmo della mano e lasciandomi una scia di baci che andava per tutto il braccio. «Da quanto non mangi decentemente, non fai qualcosa per te stessa, non dormi più di quattro ore di fila…?».

«Posso cominciare da adesso» scherzai, divincolandomi e voltandomi dall’altro lato.

«Ah, non fare la furba» mi rispose a tono, bloccandomi i polsi e riprendendo a baciarmi. Scese sul seno e sulla pancia, accarezzandomi il piccolo pancione. Ero ancora al quinto mese. Dovevo fare il più possibile prima che la gravidanza mi impedisse di badare ai bambini.

«Dai, smettila, mi fai il solletico» risi, contorcendomi sul letto.

Sollevò la bocca, fissandomi con un sorriso. Era diventato più dolce, più… malizioso.

Glielo restituii. «Certo che… Mark, eh? L’invisibilità?» borbottai incerta. Non riuscivo ancora ad assorbire la notizia. «E se gli dovesse capitare in pubblico?».

Mio marito continuò a baciarmi dolcemente tutto il corpo. «Ce ne preoccuperemo l’anno prossimo, appena ci trasferiremo».

«Già» sospirai, guardando con malinconia le pareti della mia stanza. Mi mancava di già.

Mi sfilò la maglietta. Continuò a baciarmi. «Andrà bene, vedrai». Ero così dolce, delicato…

«Già» borbottai ancora.

Baci, baci, baci. Teneri, gentili… Tanto che, esausta, mi addormentai.

 

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Capitolo 12
*** Extra 2. Parte 9. ***


29 luglio 2011. La quarantena.

 

«Amore di mamma, hai la bua al pancino?» domandai, piegandomi maldestramente sulle ginocchia. Mark se ne stava lì, piangente, dopo aver spiaccicato sul pavimento la pastina che con tanta solerzia gli avevo preparato e che pochi secondi prima era nel suo stomaco.

Aveva le guance paffute rosse, striate di bianco per via delle lacrime. Non ebbi quasi bisogno di poggiare una mano sulla sua fronte per capire che avesse la febbre. Dopotutto, era quello che era successo anche a Juliet il giorno prima, e quello era il motivo per cui Edward non c’era: l’avevamo messa in “quarantena” fra le coccole di casa Cullen. Un figlio malato uguale quattro figli malati. E il nostro piano era evitarlo ad ogni costo. Piano fallito.  

«Mamma!» si lamentò Kate alle mie spalle «che schifo! Mi viene da vomitare».

Mi voltai un attimo per guardarla e insieme controllare la situazione. Lo diceva per attirare l’attenzione o stava male anche lei? Mi sembrava che più che essere nauseata aveva un’espressione di disgusto sul viso. «Vai di là a vedere la tv». Sollevai lo sguardo per controllare Anne, che frignava sul seggiolone, agitando il suo giocattolino di plastica.

«Nooo» piagnucolò Katie «voglio stare con te» fece, mettendo il broncio.

Mi sollevai, malferma sulle gambe, trascinando Mark con me e reprimendo un conato. Quasi non me ne accorsi, brava com’ero diventata a farlo. Senza staccare il mio ometto da me prelevai dall’armadietto alcuni prodotti e uno straccio. «Allora Katie cantiamo una canzone, che ne dici?» feci, sperando di tranquillizzare il pianto di Mark e Anne e insieme tenerla buona.

«Cantiamo Milla!» propose allegra.

Mormorai dolci paroline alla mia bimba più piccola e al piccolo malatino, attaccato come un koala alle mie spalle. «Va bene. Milla. Inizia tu». Mi piegai ancora in terra per pulire. Mi costava un certo sforzo, con il pancione e il resto.

«Millaaa la paperella tranquillaaaa… anche tu, mamma!» proseguì infastidita dalla mia scarsa partecipazione.

Presi un respiro. Anne stava piangendo più forte, gli occhi lucidi e il labbro tremulo. Eh sì, mi sa che avevamo proprio fallito. Afferrai un giocattolino da terra sventolandoglielo davanti alla faccia, mi assicurai Mark più stretto alle mie spalle e mi preparai a pulire con l’unica mano rimasta libera. «Mangia il minestrone non le viene il raffreddore…» continuai la canzone.

Kate cominciò a ballare in tondo. «Mangia il brodino e diventa un bel bambino…».

«Bella» mi sentì chiamare. Era un sibilo fra lo sconvolto e lo sconsolato.

Alzai gli occhi per vedere mio marito. «Oh, Edward, come sta Juliet? Mark ha vomitato e ha la febbre. Credo che anche Anne si senta poco bene. Piano fallito».

In un secondo mi sentii sollevare dal peso di Mark sulle spalle. «Perché non mi hai chiamato?» fece, un po’ scocciato un po’ preoccupato, avvicinandosi ad Anne che intanto si sbracciava verso la sua direzione. La rassicurò con qualche parola, posando un bacio sulla sua fronte e aggrottando le sopracciglia. «Sì, ha la febbre anche lei, ma il piano non è fallito» aggiunse, scoccandomi un’occhiata ansiosa.

Mi concentrai sul mio lavoro, finendo di pulire molto più rapidamente. Certo, perché la sua preoccupazione maggiore, nonché suo reale intento per la quarantena, era che io non venissi contagiata.

«Papà!» lo chiamò Kate, che intanto si era abbarbicata su una sua gamba.

Si piegò per esaminarla. «Anche tu stai male?» fece, tastandole la fronte e la pancia.

Lei fu molto contenta di ricevere quelle attenzioni, anche quando, alla fine, il padre constatò che non avesse assolutamente nulla. Per fortuna.

«Hai finito di stancarti?» mi venne vicino, aiutandomi ad alzarmi e massaggiandomi preoccupato il pancione «perché non hai chiamato aiuto?».

Gli accarezzai il viso con dolcezza, passando poi velocemente a Mark. «Va tutto bene, davvero. È stato un piccolo momento di crisi, ti avrei chiamato fra due minuti. A questo punto non ha senso tenere Juliet di là. Possiamo chiedere a qualcuno di riportarla qui. Piano fallito» sussurrai con aria cospiratrice, facendo ridere Kate.

Edward mi prese il viso fra le mani, ansioso. «No» pigolò.

Gli feci un piccolo sorriso di scuse, gli baciai una guancia. «Se tieni la situazione sotto controllo per cinque minuti vado in bagno a vomitare e torno. Così ci risparmiamo questo casino».

«Vai». Alzò gli occhi al cielo e in un attimo aveva il cellulare all’orecchio. «Vedi tu, mi deve chiedere anche il permesso per vomitare…» lo sentii borbottare.

Ridacchiai, ma ben presto la nausea ebbe la meglio.

 

«Bella, ti devo fare per forza una flebo perché in queste condizioni di disidratazione…» mi stava spiegando Carlisle, mentre intanto già preparava la sacca e prendeva la cannula dalla sua borsa.

«Lo so» lo interruppi «non ti preoccupare. È colpa mia, che sono la peggior paziente gestante di sempre. Dovevo prendere tre chili e invece questa influenza intestinale…» alzai gli occhi al cielo, accarezzando il pancione.

Mi sorrise, benevolo. «Non sei per niente la peggiore paziente gestante di sempre. La migliore, direi. Non ho mai visto una madre che si adopera così tanto per i suoi figli, e sempre così allegra e disponibile, pronta a mettere tutti davanti a sé…».

«Amore?» mi richiamò preoccupato Edward, entrando nella nostra camera da letto mentre Carlisle infilava l’ago nella vena e faceva scorrere il mandrino.

Rabbrividii un attimo, ancora rossa in viso per le parole di Carlisle. «Ehi, va tutto bene» lo rassicurai, facendogli con la mano libera un gesto perché si avvicinasse.

«…anche tuo marito» proseguì mio suocero con un sorriso, assicurando la cannula con un cerotto. «Vi lascio soli».

«I bambini?» domandai, accarezzandogli i capelli.

I suoi occhi mi scrutavano dall’alto in basso, poi si concentrarono sul braccio collegato alla flebo. «Stanno bene. Ognuno con una o due balie. Naturalmente cercano te, ma ti prego…» iniziò, come una supplica. Lo sapeva che ero pronta ad alzarmi ed andare a controllarli.

Decisi per il suo benessere psico-fisico che potevo rimanere a letto per un paio d’ore, giusto il tempo che la sacca della flebo si fosse svuotata. Non mi andava di farmi vedere così dai bambini, e sapevo che con i loro zii e nonni sarebbero stati bene ugualmente. «Tranquillo, non mi alzo da qui. Giuro» scherzai.

Le sue dita si posarono sulla mia guancia. «Come va la nausea? La pancia?».

Ci pensai su. Prima che me lo chiedesse mi ero quasi dimenticata di avere un corpo. Ora, in effetti… Scrollai le spalle.

Sospirò, prendendomi il polso della mano libera. «Sei magra…».

«Mi dispiace, amore. Mi sono impegnata. Appena passa l’influenza mi impegno di più, lo prometto».

Scosse il capo, come se trovasse assurde le mie parole. «Ti ingozzo di dolci. Al diavolo la dieta controllata! Ti farò mangiare tutte le porcherie dei fastfood».

Scoppiai a ridere, riconoscendo l’ironia nella sua voce. Le labbra si erano piegate in un mezzo sorriso. «E i bambini? Che esempio daremo loro?» finsi di rabbrividire.

Fece una faccia perplessa. «Bambini? Quali bambini?».

Risi più forte, e si unì a me, baciandomi le labbra fra le risate.

«Papà, mamma!» chiamarono delle voci, mentre la porta si apriva.

«Ah già. Quei bambini» sghignazzò nascondendo il viso sul mio seno.

 

15 agosto 2011. La sera di Ferragosto.

 

Bella

 

«Oh, yeah! Sì!» esclamai, saltando giù dalla bilancia. “Saltando” per quanto il pancione me lo consentisse. «Sono stata brava, ammettetelo».

Carlisle rise. «Hai preso in totale 4 kg. La metà del peso che avresti dovuto raggiungere alle 32° settimana».

«Ehi, bisogna considerare che ci sono quei 2 kg che avevo perso all’inizio e tutto il resto. Sono stata bravissima, su!» dissi, aggiungendo una linguaccia alla volta di Edward.

Rise e venne a prendermi fra le braccia. «Allora possiamo riprendere il nostro allenamento?» mi sussurrò maliziosamente ad un orecchio.

«Edward!» mi allontanai sconvolta, il viso caldo per il rossore. Avevamo già ripreso il nostro allenamento, giusto la sera precedente…

Carlisle aveva le labbra strette per trattenere una risata, ma Emmett e Rosalie risero dall’altra stanza.

Esme venne in mio soccorso. «Tesoro, è tutto pronto di là. Finisco giusto di farcire i dolci. Tuo padre arriverà fra un’ora. Alice e Jasper stanno giocando con le gemelline nella piscinetta». Mentre parlava mi si fece accanto e quasi sovrappensiero iniziò a massaggiarmi il pancione.

«Bene. Allora io vado a fare una doccia al volo e sono subito dei vostri» feci, sollevando i capelli che erano rimasti incollati alla nuca. L’estate di Forks poteva essere davvero torrida.

Edward sostituì la mia mano con la sua, rinfrescandomi il collo. «Perché invece non fai un bel bagno rilassante, ti riposi un po’…?» mi propose suadente, e quasi gli stavo chiedendo di farmi compagnia se non fosse stato sconveniente con tutta la sua famiglia in casa e mio padre in arrivo.

«Baaasta!» piagnucolò Kate, correndo al mio fianco. «Con te non ci gioco più a nascondino! Non vale» disse, puntando un dito contro il piccolo Mark, che aveva il broncio.

«Ma tu vuoi semp-e sciocare a acchiapparella e io no ti pendo!» protestò lui spostando lo sguardo dalla sorella a me e tendendo le braccia per farsi prendere in braccio.

«La mamma non ti può prendere, Mark. Ha già la sorellina» gli spiegò con un’occhiata impaziente, guardando il mio pancione.

Rabbrividivo a pensare come fosse cresciuta in soli quattro anni. Edward prese Mark al mio posto e li rabbonì con un paio di parole. Ma Kate continuava a guardarmi con uno sguardo sconsolato. Oltre al fatto che la sua crescita intellettiva fosse decisamente più rapida di quella di un qualunque bambino umano, la sua era stata accelerata anche dal fatto che fosse la primogenita, a cui seguivano rapidamente tre… quattro bambini.

«Katie, tesoro, vuoi venire con la mamma a fare il bagno? Giochiamo con le peperelle e ce ne stiamo un po’ per conto nostro».

Le si illuminò il viso e corse a prendermi per mano, trascinandomi verso la camera da letto, estendendo il suo scudo oltre il mio corpo. Lo faceva sempre quando voleva stare un po’ con me, da sola.

«Non ti stancare!» mi gridò dietro Edward, vedendo fallito il suo piano di rilassamento.

Nella vasca da bagno Kate stette tutto il tempo a farsi coccolare, e recuperò il cattivo umore perso a causa del nascondino. Mi piaceva dedicare un po’ di tempo a uno solo dei miei figli, e con lei, che era così autonoma nonostante i suoi quattro anni, accadeva sempre così poco spesso.

Le baciai la testa, abbracciandola sotto il pelo dell’acqua. «Allora, come la chiamiamo la sorellina?» le domandai con un sorriso.

Finse di pensarci un po’ su, portandosi un dito sotto il mento. I suoi occhi verdi erano meravigliosi, così simili a quelli del padre. Strinse la sua peperella. «Milla?» propose.

Trattenni un sorriso. «Come la peperella tranquilla?».

«Sì!» esclamò con un grande sorriso.

A quel punto risi, senza pensarci. «Come stanno le dita? Raggrinzite al punto giusto?» scherzai, facendole esaminare i polpastrelli.

Guardò prima i suoi e poi i miei. «Tu di più» fece sicura «e va bene, usciamo» aggiunse, con la sua aria da donna vissuta, scavalcando agevolmente il bordo della vasca nonostante la bassa statura.

Ridacchiai, imitando il suo movimento con molta più goffaggine, per via del pancione. Presi un grande asciugamano bianco e ce l’avvolsi, usandone un altro per sfregarle i capelli. Fece una smorfia, ma non protestò.

«Allora, sei contenta di vedere anche nonno Charlie stasera? Festeggiamo Ferragosto tutti insieme» le domandai, prendendo intanto un grande telo per coprirmi. Iniziai a pettinare i capelli. Erano lunghissimi, ma a Edward piacevano tanto, e avrebbe voluto che li portassi anche nella mia prossima nuova vita, non appena avessi smesso di allattare l’ultima arrivata…

«Sono molto, molto contenta!» disse allegra, cominciando a saltellare. Era completamente avvolta dai teli bianchi, così tanto che a stento le si vedeva la faccia. Sembrava un pupazzo di neve.

Risi, e mi piegai alla sua altezza. «Vieni qui che ti infilo le mutandine. Non ti trovo quasi più lì sotto» scherzai, facendole il solletico.

Mi rialzai per afferrare il vestitino che le avevo preparato. Prima che potessi terminare il movimento un gemito sconvolto mi passò fra le labbra aperte, tanto che non riuscii a controllare la maschera di dolore che era diventato il mio viso.

Lo vedevo da come mi fissava Kate: terrorizzata.

In preda al dolore lancinante mi lasciai scivolare lentamente con la schiena contro le piastrelle del bagno, tremante, controllandomi quanto bastava per non urlare. Di più non avrei potuto fare.

«Katie… amore…» sussurrai, quando fui abbastanza certa che avrei potuto controllare la voce.

I suoi occhi erano ampi, grandi e fissi sul mio viso, e risaltavano così tanto in mezzo a tutto quel bianco da cui era avvolta.

«Amore, va… tutto bene. Stai… pensando a papà di… venire qui…?» incespicai a fatica.

Non mi rispose. Mi occorse un secondo per capire che eravamo sotto il suo scudo. Non avrebbe mai potuto sentirla, e con la stanza insonorizzata…

Presi un respiro per non farmi prendere dal panico. Un dolore immenso mi stava dilaniando la pancia, irradiandosi per tutta la schiena. Io, che avevo partorito altre tre volte, potevo con sicurezza dire che non si trattava di semplici contrazioni. Faceva un male cane. Feci leva sui palmi delle mani per tenermi seduta e impedirmi di scivolare a terra e strinsi le labbra per trattenere un gemito più forte.

«Piccola, amore… Va tutto bene, va tutto bene, vieni qui…» cantilenai, ma la mia voce era distorta, e non riuscivo a guardarla in faccia. Sentivo il sudore freddo che m’imperlava la fronte, e tremavo, il fiato corto.

Non si mosse. Il terrore nel suo sguardo si fece più marcato. Se solo fosse scappata via, se solo avesse anche solo socchiuso la porta della stanza…

«V-v-vai da papà» balbettai, sentendo le forze abbandonarmi e il dolore incalzare sempre di più. «Ah…» gemetti non riuscendo a trattenermi «Va tutto bene… Va’ da papà piccola, ti prego… Vai da papà…». La vista si sdoppiò. «L-la mamma sta bene… t-ti vuole bene… va tutto bene…» non potei fare a meno di rassicurarla, seppure inutilmente.

Il labbro le tremava forte. Cosa vedeva da sotto il suo scudo? Cosa aveva intuito?

«Vai» gemetti a denti stretti, cantilenando la parola. Mi lasciai andare con la testa contro il muro, ma lottai, con tutte le forze per non far uscire neppure una lacrima. Mi morsi le labbra, mentre i contorni di tutto si facevano più sfocati. «Vai» soffiai ancora, prima di perdere i sensi.

E in quel momento avvertii il singhiozzo terrorizzato di mia figlia.

 

Edward

 

Stavo giocando con Mark a nascondino. Era il suo gioco preferito, com’era logico che fosse dato il suo potere di rendersi invisibile. Ma io riuscivo ancora ad ascoltare i suoi pensieri di tanto in tanto, e questo lo rendeva felice, essendo il gioco più equilibrato.

Nel soggiorno c’era un gran viavai di bambini e vampiri, tutti eccitati dalla serata di ferragosto insieme. Quanto a me, speravo che si stancassero abbastanza da dormire profondamente, e consentirmi di passare un po’ di tempo con mia moglie, quella notte… anche solo a coccolarla e lasciarla riposare. Come si era stancata ultimamente! E sempre con abnegazione, senza un lamento, con il sorriso sulle labbra. Aveva quasi fatto angosciare anche mio padre, sempre così calmo e risoluto, preoccupato per come si stesse bistrattando in quella gravidanza. Ma per fortuna ora aveva recuperato, e tutto stava andando per il meglio.

«Charlie arriverà fra undici minuti! È tutto pronto» disse Alice, svolazzando per la stanza e dando istruzioni.

I nonni coccolavano Anne sul divano, Rosalie e Emmett cambiavano Juliet. Sorrisi. Tutto mi sembrava così perfetto.

La porta della camera da letto si aprì di scatto, e mi bastò un sedicesimo di secondo per voltarmi e vedere mia figlia. Aveva indosso solo le sue mutandine rosa e mi correva incontro, veloce. Quello che attirò la mia attenzione fu il suo viso terrorizzato, pieno di lacrime, e i suoi gemiti incontrollati. Il primo istinto fu di sondarle i pensieri ma… niente. Era completamente muta.

«Katie, amore, cos’hai?». L’accolsi fra le braccia, allarmato, controllando le varie ipotesi. Tutta la mia famiglia si era voltata nella sua direzione, ma solo Carlisle si era avvicinato, sapendo che i movimenti bruschi le avrebbero fatto innalzare lo scudo e reso il tutto controproducente.

Non mi rispose, continuando a piangere a squarciagola. Il primo pensiero fu controllare che non fosse ferita, e la scrutai rapidamente, avvalendomi anche delle informazioni che passavano nella mente di mio padre. Ma non sembrava avesse nulla. Eppure, non le avevo mai visto addosso quello sguardo d’angoscia…

In un attimo avvennero tre cose. I pensieri di mia figlia si fecero accessibili, come una bomba che mi esplodeva nella testa. La piccola singhiozzò «Mamma!» e un familiarissimo, distinto, odore di sangue si diffuse dal bagno.

«Bella» ruggii, e in un attimo Esme mi aveva preso la bambina dalle braccia, e più veloce anche di mio padre mi ero materializzato nel nostro bagno.

Mi raggelai, impietrito da quello che vedevo. Era riversa in terra, avvolta da un telo bianco di spugna. Pallidissima, sudata, ansante. Dalle sue gambe originava una pozza cremisi.

«Bella!» la chiamai forte, prendendola fra le braccia e scuotendola. «Bella amore! Amore mio! Rispondimi». Dentro di me sentivo l’angoscia che mi investiva a ondate, mentre la mia mente cercava freneticamente una soluzione o una spiegazione a ciò che vedeva.

I suoi occhi fluttuarono verso l’alto, ma erano vacui, come se faticasse a mettere a fuoco. «Fa male…» farfugliò «malissimo… non… come le altre volte…».

Carlisle le aveva preso il polso, tastato la fronte, si era chinato velocemente ad esaminare la fonte del sanguinamento. «Ha un distacco di placenta. Dobbiamo far nascere la bambina ora, se vogliamo che sopravvivano».

Rischiavo di perderle. Entrambe. «Amore, andrà tutto bene» rassicurai Bella, angosciato. In un attimo volai in camera, coprendola al meglio con il telo.

Carlisle era sempre rimasto al mio fianco. «Emmett, prepara l’auto, andiamo in ospedale» disse a voce più alta, in modo che lo sentisse.

Alice comparve nella stanza. I suoi occhi erano vacui e pieni di terrore. «Non c’è tempo. Se non lo farai qui una delle due morirà».

«Qui?» ruggii, stentando ad immaginare come fosse possibile. Non c’era tempo di farla partorire. Un cesareo. Le trasfusioni. L’emorragia. Il deficit d’ossigeno.

«Edward» singhiozzò Bella fra le mie braccia, stringendosi il ventre pieno «non lasciare che muoia… ti prego… non lasciare che la nostra bambina muoia…».

Se fossi stato umano avrei urlato, il cuore mi sarebbe esploso dal petto, avrei perso la concentrazione. Ma ero lì, vampiro, e pensavo. Quanto tempo era rimasta in quelle condizioni? Perché, dannazione, non le avevo fatto tenere la porta aperta? Perché l’avevo messa in pericolo? Perché le avevo permesso di stancarsi così tanto?

«Non abbiamo il sangue…» farfugliai.

Mio padre si chinò su Bella, la girò sul fianco sinistro. «Non importa».

«Non è sterile».

«Non importa, Edward». Carlisle la liberò dal telo, affannandosi per bloccare l’emorragia. La maggior parte del sangue le rimaneva nell’utero, bloccato dal peso del bambino.

«Non le possiamo fare l’anestesia».

«Edward» mi richiamò ancora mio padre. «Non importa più, ormai».

Bella urlò, graffiando con le unghie contro il braccio di mio padre, stringendo la sua mano insanguinata. «Carlisle salvala ti prego! Ti prego, ti prego! Tirala fuori».

Mio padre si chinò, e la guardò negli occhi. Le voleva bene, come si vuole bene ad una figlia. Le accarezzò i capelli, madidi di sudore. «Sai cosa mi stai chiedendo?».

Bella annuì, freneticamente, gli occhi ampi e vacui, prima di urlare ancora, contorcendosi.

Non importava più, ormai. Perché l’unico modo di salvarle entrambe era trasformare Bella.

«Papà…» gemetti, e mi sentii infinitamente più piccolo di Mark quando mi chiamava nel cuore della notte «non senza morfina, ti prego» tremai, agghiacciato all’idea del ventre di mia moglie squarciato sotto i miei occhi fra le sue urla di dolore.

Annuì, guardandomi pieno di compassione. «Facciamo in tempo a procurarci un bisturi e della morfina».

Qualcuno volò via da casa, mentre altri si preoccupavano di tenere buoni i bambini e non fargli sospettare quello che stava per avvenire.

Strinsi con tutta la forza concessami Bella, accarezzandole i capelli. «Presto passerà tutto, promesso. Non farà più così male, lo giuro».

Si aggrappò a me, stringendo i denti e cacciando un grido di dolore, la testa riversa e i muscoli del viso tesi.

«Ha delle contrazioni tetaniche» pensò velocemente mio padre, prima di riservarmi un’occhiata velocissima. «Vuoi uscire?». Non ci fu neppure bisogno di rispondere. Vidi il mio volto nei suoi pensieri mentre capiva che non mi sarei mosso di lì.

Rose entrò nella stanza con la sua borsa. Carlisle controllò velocemente l’interno: bisturi, cannule, divaricatore, pinze, fisiologica, morfina, garze, betadine, deflussore.

«Un bolo di morfina 10 mg» mormorò velocemente Carlisle, per un momento incerto se lanciare la boccetta a me o Rose.

L’afferrai al volo, e in un attimo avevo individuato una vena del braccio piuttosto lunga e dritta. Le sistemai un accesso, in modo che Carlisle avrebbe potuto usarlo anche più tardi. Ci misi due secondi e mezzo. «Non sentirai più nulla» la rassicurai, sfiorandole il viso, prima di premere lo stantuffo e lasciare che il medicinale andasse in circolo. Darle sollievo in quel modo mi sembrava l’unica cosa che potessi fare.

I suoi movimenti si fecero sempre più lenti. Carlisle aveva già preparato il campo operatorio. Mi feci vicino al suo capo, facendola voltare nella mia direzione. «Non guardare. Va tutto bene, non guardare».

«Ed-ward» mormorò piano, mentre la lama del bisturi tagliava veloce la sua pelle bianca. I suoi occhi facevano difficoltà a mettermi a fuoco.

«Sono qui».

Si umettò le labbra. «Se… se non…» sospirò «chiamala Camilla, va bene?».

Sorrisi, stringendole forte la mano. «Camilla».

Ricambiò il mio sguardo, poi le sue palpebre fluttuarono verso il basso. «Ti amo» sussurrò, perdendo finalmente i sensi.

 

 

Ciao amici!

Non so davvero da quanto tempo avevo questo capitolo sul PC in attesa di essere pubblicato… anni.

Meglio tardi che mai.

Nell’ultimo periodo ho rimesso pesantemente mano ad alcuni capitoli di Cullen’s Love che non mi convincevano, qualcuno mi ha contattato perché ha notato le differenze. Mi fa piacere che dopo così tanto tempo vi salti ancora in mente di leggere questa storia!

Un nostalgico abbraccio,

la vostra Francesca.

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