Lasciti di Francisco (/viewuser.php?uid=181192)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Sono arrivato al semaforo
finalmente.
Vuol dire che ci sono quasi, ma il fatto che sia rosso di certo non
aiuta la mia situazione. Purtroppo è proprio quello davanti
al
liceo, non posso fare altro che aspettare e sperare che faccia in
fretta. Non è neanche colpa mia se rischio di arrivare in
ritardo
alla prima lezione dell’anno!
Okay, forse lo è...
Come ho detto è il primo giorno, e
ieri sera devo essermi scordato di mettere la sveglia. Stamattina la
luce del sole che faceva capolino dalla finestra mi ha svegliato
verso le otto meno un quarto, e tempo un secondo e mezzo che il
torpore del sonno si diradasse nel mio cervello ho sbarrato gli occhi
in preda al panico guardando il soffitto. Subito mi sono avventato
sull’orologio poggiato sul comodino cadendo per terra nella
foga e
ho guardato il quadrante: 7:47.
Cazzo!
è tutto quello che sono
riuscito a dire, per dopo ripeterlo un po’ più
forte mentre
scattavo in piedi con gli occhi fissi sull’orologio, quasi
per
convincermi della tragicità della situazione, e poi ho
continuato a
imprecare a intervalli regolari mentre mi vestivo e inserivo quel
poco che avrei portato in classe in uno zaino. Niente colazione, non
c’era tempo.
I denti è meglio di sì, non voglio
fare brutte figure.
Correvo su e giù per la casa, dal
bagno alla camera da letto, poi di nuovo in bagno e infine in cucina,
convintomi che era meglio azzannare un saccottino durante il viaggio,
indossando i primi vestiti che mi capitavano a tiro con il gatto che
mi guardava con un’aria tra il perplesso e il disinteressato
come a
dire “non me ne frega niente di quello che stai facendo ma
sappi
che continuerò a fissarti”, mettendoci anche
qualche sbadiglio qua
e là. Esco e chiudo la porta, corro giù per le
scale del
condominio, spalanco il portone senza fermarmi e corro. Continuo a
correre finché ho fiato e anche oltre, e finalmente sono
davanti a
scuola, al semaforo, l’unica cosa che potrebbe impedirmi di
finire
etichettato dai prof per il resto dell’anno.
Sfilo lo zaino dalla spalla sinistra e
controllo nuovamente l’orologio: 7:57. Ce l’ho
praticamente
fatta, nulla può più evitare che arrivi in aula
giusto in tempo per
le lezioni, sono salvo!
Guardo alla mia destra.
Assorto nei
miei pensieri non mi sono accorto del signore il giacca e cravatta
che arranca lungo il marciapiede nella mia direzione.
Sembra aver fretta, deve essere nella
mia stessa situazione.
Faccio un passo in avanti per evitarlo
ma solo troppo tardi mi rendo conto di aver sopravvalutato la
lunghezza marciapiede, e scivolo agitando le braccia per mantenere
l’equilibrio, mentre la mia cartella praticamente vuota
finisce in
strada. Anche questa adesso! Non ho neanche tempo di pensare che il
mio corpo è già proiettato in avanti per
recuperarla e mi ritrovo
in mezzo alla strada.
Sento un clacson e mi giro.
Una figura enorme riempie rapidamente
tutto il mio campo visivo e sento degli pneumatici che stridono per
terra. Una spinta all’indietro, poi un colpo sulla nuca.
Sento una
pressione sul naso, e una sensazione di calore mi scivola lungo la
faccia. Quando capisco di cosa si tratta la vista si offusca e
annerisce. Sento freddo alla testa.
Svengo.
Credo che sia
passato mezzo minuto. Non ho ancora aperto gli occhi ma mi accorgo
che non sento niente, nessun dolore. Dev’essere
l’effetto delle
endorfine, ho saputo che subito dopo un trauma tendono a eliminare il
dolore quasi completamente. Allora apro gli occhi e la vista
è
tornata normale quindi provo a tirarmi su.
Vedo un sacco di gente
tutta intorno a me, anche in strada. Si è fermato tutto. Mi
tocco il
naso col palmo per vedere quanto è grave e guardo la
mano.
È
pulita.
Questo non ha senso! Mi sfrego la faccia con tutte e due
le mani, sicuro di aver mancato la ferita, e le guardo.
Non una goccia di sangue.
Forse me
lo sono immaginato, forse l’autobus andava piano e mi ha
solo buttato a terra, forse...
Un attimo...
...Il cofano dell’autobus, lì il
sangue c’è...
Scatto in piedi e mi guardo attorno confuso, ma
nessuno sta guardando verso di me. Leggo l’orrore nei loro
sguardi
ma sembrano tutti più interessati a qualcosa che sta ai miei
piedi,
e guardo giù.
Merda.
Sono io, sdraiato per
terra con faccia e maglietta insanguinate e gli occhi chiusi.
Lo zaino è volato poco più in là.
Solo allora sento l’ambulanza che sta arrivando...
Angolo autore
Questa è la prima storia che scrivo, spero che come prologo riesca a catturare la vostra attenzione anche se svelo poco o niente della trama (sì, ammetto che l'ho fatto apposta). Devo ringraziare Danira per essere stata un buon sostegno morale per decidermi a cominciare a scrivere, credo che senza la sua spinta e il suo entusiasmo non avrei mai iniziato, e spero che il mio lavoro vi sia piaciuto e vi convinca a leggere il seguito, perchè credo di avere delle buone idee che a molti di voi potrebbero interessare! A presto :3
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Questo tetto mi è sempre piaciuto. è quello del
condominio dove vivo adesso, ci salivo spesso anche prima di tutto
questo. Mi rilassa l’idea di avere un po’ di tempo
per me stesso, da solo, a pensare ai fatti miei e cercare di risolvere
i problemi della mia vita. Dal giorno dell’incidente la
ricerca della solitudine non è più tra questi
problemi, tanto nessuno può vedermi o sentirmi.
è passata solo qualche ora da quella fatidica mattinata, il
momento più traumatico e assurdo della mia vita.
Avevo gli occhi sbarrati e non riuscivo a credere a quello che vedevo,
beh credo che chiunque reagirebbe così a vedere in terza
persona sé stesso sdraiato per terra moribondo e coperto di
sangue. Ammetto che ho provato più volte a svegliarmi,
convinto che fosse solo un brutto sogno, ma ogni volta che riaprivo gli
occhi il mio corpo giaceva ancora lì in mezzo alla strada.
“Devo accettare la realtà”, ho pensato.
“Sono morto, e non rivedrò più tutti i
miei amici, i miei genitori, Lidia...” Gli occhi mi si
riempirono di lacrime e sentii un grosso nodo in gola.
Dovevo fare un tentativo, che avevo da perdere?
Cominciai a correre, lasciando dietro di me un grande cerchio di
curiosi atterriti che con lo sguardo seguivano il mio corpo che veniva
portato in barella nell’ambulanza. Ero diretto verso la
stazione, dove speravo di trovare il modo più veloce per
arrivare dove vivono i miei. In treno dovrebbero essere poco
più di venti minuti. Non so cosa speravo. Non so cosa
pensavo sarebbe successo, e non ho neanche avuto tempo di rendermi
conto della situazione. Avevo solo notato che nessuno mi vedeva mentre
ero in piedi vicino al mio corpo ma non avevo intenzione di perdere
tempo per capire meglio cosa mi fosse successo, volevo solo essere da
qualche altra parte. Volevo andare da lei.
Lidia è la mia vicina di casa. O almeno lo era, prima che mi
prendessi un appartamento qui. L’ho fatto per via del liceo,
in questo modo ci posso arrivare in poco tempo… Il liceo.
Avevo quasi dimenticato cosa fosse successo fino a dieci minuti prima.
I preparativi frettolosi, la corsa contro il tempo, e poi…
Scrollai la testa, come se potesse aiutare a scacciare via i miei
pensieri. Stavo ancora correndo e ormai vedevo la stazione. Mi infilai
rapidamente dentro, e poi giù per le scale,per poi imboccare
un’altra rampa di scale per salire al binario diretto alla
mia città. Non avevo neanche il fiato corto ma non me ne
accorsi, perché quando sbucai dal tunnel vidi le porte del
treno appena arrivato che già si chiudevano.
In qualunque altra situazione mi sarei semplicemente seduto e avrei
aspettato il treno successivo, che di solito arrivava tra i trenta e i
quaranta minuti dopo l’arrivo di quello precedente, ma non
potevo aspettare così tanto. Feci un ultimo scatto verso il
treno e mi avventai su una porta, la più vicina, ormai
chiusa. Cominciai a prenderla a manate urlando, sperando che qualcuno
si accorgesse di me, ma nessuno si voltò e il treno stava
già partendo. Ero arrabbiato, arrabbiato con la sorte, che
dal primo istante di quella mattina mi aveva giocato uno scherzo dietro
l’altro, ero triste, perché sapevo che la mia vita
non sarebbe più stata la stessa, ed ero terrorizzato
all’idea di restare da solo, ad aspettare il treno
successivo, in compagnia solo del turbinio di pensieri che
c’era nella mia mente, la cui unica cura era il sorriso di
Lidia.
Il treno accelerava.
Colto da questo enorme miscuglio di emozioni presi la rincorsa e mi
lanciai con rabbia verso la porta, forse per protesta, come quando
senza quasi pensarci prendi a pugni la prima cosa che ti capita a tiro
per il semplice motivo che devi sfogare tutta la rabbia che ti porti
dentro. Il turbinio di pensieri non cessava e stavo correndo contro il
treno per poi scagliarmici contro con una spallata. La mia mente era
pervasa dalla rabbia e dalla paura, e mi stupii di non aver sentito
l’impatto con la portiera. Ero dentro, come avevo fatto non
lo sapevo, ero nel treno, sdraiato per terra con la porta ancora chiusa
e la stazione che accelerava fuori dai finestrini. Tutto quello che
avevo dentro scomparve, e nella mia mente era rimasta solo una cosa,
come una fotografia: il meraviglioso sorriso di Lidia, il rimedio a
tutti i miei dolori. Sorrisi, senza neanche chiedermi come avessi fatto
a finire nel treno, mi alzai in piedi e aspettai di arrivare nella
città dove ero nato.
Il treno si era fermato e io uscii per primo e ricominciai a correre.
Girai a destra, poi a sinistra, di nuovo a destra, correvo, pieno di
speranze e senza mai smettere di pensare a lei, e finalmente ero
davanti a casa sua.
Guardai nella finestra della sua camera e sorrisi di nuovo: era ancora
più bella di quanto ricordassi, e stava ridendo. Parlava al
telefono e rideva. Fortunatamente la scuola per lei sarebbe iniziata
l’indomani, quindi oggi era ancora a casa. Volli avvicinarmi
di più per sentire la sua voce, la sua risata. Avevo
già un’idea di come ero passato dalla porta chiusa
del treno, d’altronde dopo che mi ero alzato dal mio cadavere
quella mattina nulla mi sembrava più impossibile.
Mi avvicinai alla sua porta e la sfiorai con la mano. Poi spinsi
più forte ma non funzionò. Posi entrambe le mani
e spinsi in avanti con le gambe. Niente.
Allora presi un respiro e chiusi gli occhi. Mi concentrai sui
sentimenti che stavo sentendo la prima volta: rabbia e paura. Mi resi
conto che pur essendo così vicino non sarei potuto andare da
lei e vederla da vicino dopo tutto questo tempo. Una sorta di angoscia
mi pervase, e poi sentii come una spinta, una nuova energia dentro di
me. Una consapevolezza mi invase la mente: “posso farcela.
DEVO farcela!”, e improvvisamente smisi di sentire la porta.
Le mie mani fecero uno scatto in avanti come se fosse scomparsa.
Riaprii gli occhi e vidi le mie braccia che affondavano nel legno.
Ce l’avevo fatta.
Feci un passo avanti, attraversai la porta completamente ed entrai
nell’ingresso.
Conoscevo Lidia da quando ero piccolissimo e c’è
sempre stato un legame particolare tra noi, o almeno è
quello che pensavo io. Non siamo mai stati insieme, anche se mi sarebbe
piaciuto molto. Aspettavo che anche lei iniziasse a provare qualcosa
per me, era circa un anno che avevo capito cosa sentivo davvero nei
suoi confronti. Era nella mia scuola fino al quarto anno di superiori,
ma sono stato bocciato e i miei mi hanno messo in un’altra
scuola e sono riuscito a convincerli a farmi vivere là. I
miei sono molto permissivi e hanno accettato dato che ero
già abbastanza maturo per vivere a più o meno di
mezz’ora di distanza da casa loro. Così per un
anno sono vissuto lì, mi sono fatto dei nuovi amici e ho
superato il quarto anno, ma solo durante quel periodo ho capito quanto
mi mancasse, quanto avessi bisogno di vederla, e la cosa è
degenerata. Cercavo di vederla il più possibile, ma quando
ricordavo che lei non provava lo stesso sentivo sempre un vuoto nel
cuore. Poi finita la scuola abbiamo smesso di vederci. Per tutta
l’estate quando lei era qui io ero altrove, e quando ero
tornato lei era già partita. Era la prima volta da mesi che
la vedevo, anche se ci siamo sentiti molto, ma di certo non
è la stessa cosa.
Salii le scale e arrivai alla porta di camera sua. Era chiusa e provai
ad abbassare la maniglia ma non si muoveva, cioè la sentivo,
la stavo toccando e spingevo con tutte le mie forze ma non si abbassava
neanche di un millimetro. Poi pensai che ad ogni modo non sarebbe stato
il massimo per lei sentire la porta che si apriva da sola dietro di
lei, quindi optai per il piano B e attraversai anche quella.
Ero dentro, e lei era lì, col suo sorriso meraviglioso.
Stava ancora parlando al telefono e ogni tanto rideva. Sentii
l’ultima parte della discussione: “Sì,
certo che sono libera… Sì alle cinque va bene,
è fantastico! Non vedo l’ora di
vederti. Ti amo”.
Sorrise e mise giù, mentre la mia anima cadeva a pezzi.
“Ti amo”… Se mi avesse puntato una
pistola sul cuore e avesse sparato sarebbe stato meno doloroso. Mi
appoggiai sulla porta e scivolai a sedermi per terra, mentre tutto il
mio mondo diventava grigio e freddo.
Scrollo la testa, come se potesse aiutare a scacciare via i pensieri.
Riprendo contatto col presente. Sono seduto sul bordo del tetto, e
guardo la strada diversi metri sotto di me.
Voglio provare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di mandare via quella
tristezza.
Mi alzo in piedi e apro le braccia. Chiudo gli occhi...
Salto.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Il tuffo di cinque piani non è servito a nulla e se possibile sto anche peggio di prima, perché mi sto rendendo conto sempre di più di quanto grave sia la mia situazione ora come ora.
Non ho sentito nulla, neanche un brivido, e in più sono atterrato in piedi, dolcemente, come se fossi saltato giù da un gradino. Più ci ripenso più tutto questo diventa assurdo. L’ultima goccia si è versata il giorno stesso dell’incidente, uscito dalla casa di Lidia. Ero devastato e sentivo un enorme vuoto nel cuore. Dovevo impormi di respirare e non riuscivo a pensare a niente, ma qualcosa riuscì comunque a catturare la mia attenzione.
I miei genitori uscivano rapidamente da casa loro proprio in quel momento e si avviavano in fretta verso la macchina. Non vidi l’espressione di mia madre, si teneva la faccia tra le mani, ma mio padre sembrava parecchio preoccupato. Capii che qualcuno li aveva avvertiti dell’accaduto.
Corsi verso la macchina e riuscii ad attraversare la portiera posteriore un attimo prima che partisse. Seduto sul sedile di dietro guardai i miei genitori. Nel momento in cui misero in moto mia madre crollò, scoppiando a piangere, con il viso nuovamente nascosto tra le mani e i suoi boccoli castani che sobbalzavano a ritmo dei suoi singhiozzi.
“Andrà tutto bene” disse mio padre accarezzandole la spalla con la mano, ma la sua voce e il suo sguardo tradivano un dubbio logorante. “Vedrai, si sistemerà tutto”, e sembrò più che altro che cercasse di convincere se stesso. Solo dopo che sentii mio padre parlare così mi resi conto che le mie intuizioni erano fondate: pur pensando di essere morto non mi aveva mai abbandonato una sottile ma presente sensazione di appartenenza a questo mondo, c’era ancora la possibilità che io sopravvivessi. Il resto del viaggio fu silenzio, intervallato dai radi singhiozzi di mia madre.
Arrivati di fronte al pronto soccorso i miei genitori uscirono dall’auto e si avviarono all’interno. Io li seguii. Mio padre cinse le spalle di mia madre con fare protettivo. Non glielo avevo mai visto fare con tanta tenerezza. Non li avevo mai visti così.
Mio padre chiese di me alla reception. “Il signor e la signora Butler?” chiese un uomo con il camice e in mano una cartella clinica. “Oui!” rispose in fretta mia madre. Era il più bello dei suoi difetti: era francese, lei e mio padre si conobbero a Parigi, e quando era arrabbiata o spaventata non riusciva a non parlare nella sua lingua originale, un francese così dolce che ogni volta che lo sento capisco perché mio padre si sia lasciato stregare, tanti anni fa, da quella giovane cameriera parigina con i capelli lunghi e fluenti e due occhi neri più profondi del mare. Abbozzai un sorriso di tenerezza.
“Da questa parte, prego”, disse il dottore indicando un corridoio con il braccio teso, e poi fece strada lungo quel labirinto. Era un uomo sui quarant’anni, ma con la testa quasi rasata e i capelli grigio chiaro. Una pelata non troppo evidente gli attraversava la testa. Aveva gli occhi azzurri e giovanili e uno sguardo buono e rassicurante che credo aiutò mia madre a calmarsi un poco.
“Abbiamo trovato la sua carta d’identità nel portafogli”disse, “e siamo risaliti a voi per informarvi prima possibile”. La sua voce era calma e decisa, ma nulla di rassicurante.
“Essendo al telefono mi sono potuto dilungare ben poco sui dettagli. La situazione è questa: vostro figlio è stato... investito. Per ora le sue funzioni vitali sono stabili, ma ha subito un forte colpo alla testa e al volto, non sappiamo quanto ci metterà a riprendersi del tutto”.
“Sono vivo!”sussurrai. Ero a dir poco sollevato, ma i miei genitori erano forse più abbattuti di prima. “A volte possono metterci mesi, in rari casi addirittura anni, nessuno può dirlo con certezza...”
Continuavamo a camminare, e io ci capivo sempre meno. “Come faccio a essere vivo in un ospedale... Se sono qui?!”
La voce del dottore mi risvegliò: “Oh, e non preoccupatevi delle ferite. So che possono fare impressione, ma guariranno prima di accorgervene e non ne resterà traccia. Con gli incidenti di tale spessore succede sempre così”. Poi si fermò, e con lo sguardo basso indicò una porta alla nostra sinistra nel corridoio. Andai a sbirciare dentro.
Mi sembrò di rivedere la scena di quella mattina, ma era decisamente meglio: ero sdraiato sul letto con la faccia un po’ livida e la testa fasciata. Un collare mi abbracciava la gola e la gamba e il braccio destri erano ingessati. Molto meglio di quanto pensassi, dato che pensavo di essere morto sul colpo.
Mi fece una strana impressione e mi sentii quasi in colpa quando mi resi conto che io e i miei avevamo in quel momento emozioni completamente contrastanti. Da una parte io ero quasi felice di vedermi in quello stato, perché sapevo di avere ancora la possibilità di recuperare la mia vita di prima, mentre dall’altra loro stavano male per me. Avrei voluto dirgli che andava tutto bene, che sarebbe tornato tutto a posto,ma anche se avessero potuto sentirmi mi accorsi che non avevo idea di come avrei fatto a recuperare il mio corpo.
Mi avvicinai al lettino, provai a toccare la mano di quel guscio vuoto steso là sopra. Non so cosa speravo di fare, andavo a tentativi, e forse mi sarei sentito stupido se non fossi stato certo che nessuno in quella stanza avrebbe potuto assistere ai miei esperimenti. Mi concentrai e chiusi gli occhi, ma non accadde nulla. Ebbi un’idea: pensai di avere la soluzione e provai ad attraversarlo e sdraiarmici dentro, sperando che facendo combaciare di nuovo il mio corpo e quella specie di ologramma che ero in quel momento bastasse a farmici tornare dentro sul serio. Stetti sdraiato in quella posizione per un po’ e poi mi sollevai, guardando verso le tre figure sulla soglia sperando in un loro segno di stupore, ma l’unica persona a fare qualcosa fu mia madre, che con un sospiro venne a sedersi vicino al lettino e mi prese la mano. Riprovai a sdraiarmi, stetti più a lungo, cercai di svuotare la mente. Trenta secondi dopo provai di nuovo ad alzarmi. Mio padre si era avvicinato e aveva messo una mano sulla spalla di lei, mentre il dottore si avviava verso il corridoio accennando un cordiale “Vi lascio soli.”
Era evidente che non era quello il modo, anche perché neanche le macchine che mi avevano attaccato addosso davano segni di alcuna anomalia. Una parte di me me lo diceva chiaramente: “Non puoi sperare che sia così semplice”, eppure sapevo nel profondo che sarei tornato, dovevo solo scoprire come. Uscii dalla stanza e dall’ospedale. Volevo prendere un po’ d’aria e schiarirmi le idee, così iniziai a camminare verso il mio appartamento. Anche se si trovava nella stessa città sapevo che ci avrei messo molto, ma non avevo nessuna fretta, né nulla di urgente da fare. Volevo prendermi i miei tempi e rimuginare con calma. Mi avviai a passi lenti verso casa mia, con gli occhi bassi e le mani in tasca.
Pensavo.
Arrivato di fronte al condominio capii che volevo ancora starmene per conto mio. Non aveva senso tornare a casa, cosa avrei potuto fare?
Salii le scale ed arrivai sul tetto, e questo fu non molto prima del salto. Dopo essermi seduto con le gambe penzoloni sopra la strada ho ricominciato a riflettere su come fossi arrivato lì, su come tutto questo avesse avuto inizio, e poi ricordando Lidia e quella sua dolorosissima frase ho smesso di voler ricordare, ma il tuffo non è servito a niente, e adesso sto camminando senza meta da almeno mezz’ora, mentre il rumore di fondo nella mia testa diventa sempre più assordante.
Sono confuso. Come è successo? E perché? E poi, perché a me? Perché adesso? Cosa sarebbe successo se non fosse andata così? Avrei potuto schiattare e basta, perché non l’ho fatto? Un miracolo? O è qualcos’altro? Forse non era destino che morissi, devo ancora fare qualcosa? Oppure...
Una nota di pianoforte. Una singola nota, e tutti i miei pensieri, i miei dubbi, le mie domande vengono spazzati via. Poi un’altra. Una rapida successione di vibrazioni attraversa l’aria, mi pervade tutto, e non riesco a trattenere un sospiro...
Resto alcuni secondi lì, lasciandomi riempire da quel suono meraviglioso. Ho sempre adorato sentir suonare il piano, anche se non avevo mai voluto imparare. È come se fosse un’oggetto magico: non appena sento suonare una bella canzone tutto intorno a me diventa più bello, ho l’istinto di avvicinarmi come una falena verso la fiamma e tutti i miei problemi quasi svaniscono, ma non ho mai sentito nulla di così coinvolgente come in questo momento. Mi sorprendo addirittura ad ondeggiare lievemente la testa avanti e indietro a ritmo. Devo sapere da dove viene. Non c’è un motivo preciso, devo semplicemente sapere chi è che sta suonando.
Lungo il muro alla mia sinistra c’è una finestra, è aperta. La musica proviene di sicuro da lì. È al primo piano e di lato c’è una grondaia. Non sembra particolarmente robusta, ma anche se fosse un filo di nylon non cambierebbe nulla perchè non potrei comunque smuoverlo di un millimetro, quindi inizio ad arrampicarmi e in pochi secondi sono sopra.
Spalanco gli occhi e la bocca per lo stupore. Al pianoforte c’è una ragazza, la sua pelle è chiarissima. Le sue dita si muovono in modo frenetico e sicuro producendo quel suono meraviglioso. Gli occhi sono chiusi e la testa è leggermente all’indietro. I capelli biondi e lisci arrivano fino allo sgabello, ondeggiando con eleganza mentre lei oscilla a ritmo con la musica. Sospiro alla vista di tutta quella bellezza in una volta sola, ma forse in modo un po’ troppo rumoroso. In un attimo si irrigidisce e apre gli occhi. La musica cessa, il suo sguardo improvvisamente duro si volge rapidamente verso di me.
“E tu chi diavolo sei!?”
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