Prima che sia tempesta

di lalla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** idem ***
Capitolo 2: *** prima che sia tempesta 2 ***
Capitolo 3: *** prima che sia tempesta 3 ***
Capitolo 4: *** Prima che sia tempesta 4 ***
Capitolo 5: *** Prima che sia tempesta 5 ***



Capitolo 1
*** idem ***


PRIMA CHE SIA TEMPESTA

Passo delle Termopili, Tessaglia, 480 A.C., estate

I più giovani blateravano di mostri, di demoni vomitati dall’Ade, tanto numerosi da prosciugare i fiumi, tramutare i boschi in un deserto, rendere nera e sterile la terra con le ceneri dei loro bivacchi. Il Re fingeva di non sentirli, dicendosi da sé che era solo per darsi coraggio, come fanno i bambini quando, gli occhi spalancati nel buio della notte, si raccontano storie terrificanti sussultando al frusciare leggero d’ali di falena, al miagolio lamentoso della civetta nascosta dentro un vecchio rudere. Li ascoltava, e li guardava tremare, avvolti nei mantelli, durante gli interminabili turni di guardia. Non sono mostri, figli di Tifone e di Echidna, idre, centimani e ciclopi divoratori di carne umana, ma barbari dalla pelle scura e dai lunghi occhi truccati, Medi, Bactriani, Arabi dai barracani svolazzanti, Assiri dalle barbe ricciute, Egizi, Caldei, Etiopi e Nubiani neri come la notte, Seri* dalle carni gialle come i deserti della loro terra aldilà delle montagne. Il poderoso esercito che Khshayarsha* , il Re dei Re, ha radunato sotto il suo comando per vendicare l’onta inflitta dieci anni prima a suo padre da quel piccolo popolo litigioso e disunito, da quelle insignificanti formiche che, invece di sottomettersi, avevano osato impugnare le armi contro il possente Darayawus* infliggendogli una sconfitta che avrebbe bruciato il suo orgoglio per l’eternità, non fosse stata lavata nel sangue, incatenata nella schiavitù. Il poderoso esercito che si sarebbe riversato sulle pianure gialle di grano, sulle colline e sui boschi, sulle montagne dove avevano dimora gli dei, sui villaggi e sulle città, fino a giungere al mare. Avrebbero divorato il loro pane e i loro armenti, bevuto il loro vino, stuprato le loro donne, ridotto in schiavitù i loro figli…Se gli uomini di guardia al Passo avessero ceduto alla stanchezza, alla paura e al disinganno, sarebbe stata la fine.

Sono mostri, demoni vomitati dall’Ade per portarci rovina e morte. Sono barbari selvaggi votati a distruggerci e ad annientarci. Diecimila? Ventimila? E noi solo trecento, di guardia al Passo, per fronteggiare la loro avanzata. Ragazzi a cui è appena spuntata la prima barba, che ancora non hanno giaciuto tra le braccia di una donna e vecchi soldati con i corpi devastati dalle cicatrici come tronchi scabri di antichi ulivi. Trecento, e non uno di più, perché la possente razza dei guerrieri di Sparta dagli occhi azzurri e dai capelli biondi come gli avi calati dal Nord all’alba dei tempi non rischi di estinguersi o d’imbastardirsi. Trecento guerrieri voltati a morte sicura per salvaguardare la libertà di avidi mercanti corinzi, di debosciati ateniesi, di superstiziosi tebani, di vigliacchi che li avevano lasciati da soli a fronteggiare l’impossibile, da soli a battersi contro una morte che, come la luce del primo mattino, sarebbe arrivata da Oriente. Trecento, contro ventimila. Che non sono mostri, e nemmeno barbari selvaggi.

Fuori dalla tenda, il fuoco del bivacco illuminava di una luce tenue le tenebre di una notte senza luna, e la brezza che mitigava la calura dell’estate spettinava i lunghi capelli rossi del Re. Il lamentoso ululato di un lupo solitario echeggiò per tutta la vallata e Leonida, la testa china, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, si abbandonò ai ricordi.

***

Prima che fosse tempesta. Venti anni inghiottiti dal niente. Ne aveva sedici, quando il dolore aveva fatto di lui un uomo. Qualcuno soccombeva sotto i colpi dei bastoni, perdeva i sensi e si risvegliava nell’Ade. Gli efori* dicevano che chi non superava la prova era indegno di vivere, come chi nasceva storpio e veniva abbandonato ai lupi del Taigeto*. Nemmeno le madri dovevano piangere sui loro destini, perché Sparta non poteva permettersi il lusso di mantenere individui il cui occhio non era abbastanza acuto da centrare un bersaglio, il cui braccio non era abbastanza robusto da scagliare una lancia con tanta forza da perforare il bronzo di una corazza , il cui petto non era abbastanza saldo da fronteggiare un nemico. Guasterebbero il vigore della nostra razza, aveva sentenziato, un mare di tempo prima, Licurgo, il grande Padre della Patria. Un padre severo fino alla spietatezza, ma se una piccola città priva di mura che la difendessero continuava ad esistere e il suo nome veniva pronunciato con reverente timore ai quattro angoli del mondo era in grazia di quelle leggi spietate.

Da quando non era che un marmocchio lentigginoso, sapeva che gli avrebbero chiesto di essere coraggioso, frugale, morigerato, misurato nei gesti e nelle parole. Gli avrebbero chiesto di ignorare la paura, di soffocare la pietà, di non credere nell’amore. Gli avrebbero chiesto di non piangere mai. E di dimostrarlo davanti a tutti, nel giorno in cui si celebrava Artemide Orthia e il dolore avrebbe fatto di lui un uomo e un soldato finché nel suo corpo temprato dal dolore e dalle rinunce fosse rimasto un alito di vita. Come gli altri e più degli altri, perché era figlio di re e re sarebbe potuto diventare egli stesso.

Il vento di Borea era rude sulla sua pelle escoriata e contusa. Leonida abbassò le palpebre per difendere gli occhi dalla polvere. Aveva stretto i denti e si era imposto di non urlare come una femminuccia, ricordò, anche se l’istinto gli imponeva di cancellare la memoria del dolore, come una donna che abbia appena partorito. C’era riuscito. Suo padre era stato orgoglioso di lui, e sua madre aveva medicato con oli balsamici il ricordo di quel giorno. Quello stesso ricordo che lui stava tentando invano di cancellare. Chissà se sarebbe stato sufficiente allontanarsi a cavallo dalla città, abbandonandosi alla ruvida carezza del vento, alle acque corroboranti dell’Eurota, cercando nella solitudine una risposta che non sarebbe venuta.

Ma che importava? Con un agile balzo scese dal cavallo che montava a pelo e si avviò a passi decisi verso il fiume. Per lavare via dal suo corpo la polvere, il sudore e il sangue. Per rinvigorire le membra con un’energica nuotata in quell’acqua fredda che rifletteva la sua immagine: quella di un sedicenne dinoccolato, dai lunghi capelli rossi raccolti sulla nuca con un lacciolo di cuoio e dai tratti delicati di ragazza,coperto a malapena da una clamide corta, lisa per i troppi bucati, nient’affatto diverso da com’era stato prima che a colpi di sferza e di bastone facessero di lui un uomo e un guerriero.

Il fruscio che percepì alle sue spalle non era il vento di Borea che scuoteva le foglie. Né il brontolare sordo il tuono lontano, presago di un temporale imminente. Era un pericolo, gli diceva l’istinto, e, da guerriero spartiate, doveva fronteggiarlo guardandolo in faccia. Senza tremare. Qualsiasi cosa fosse.

Qualsiasi cosa fosse. Eppure, di fronte a un nemico come quello, anche il più prode degli eroi avrebbe tremato di paura, battendo i denti come sistri: un grosso lupo lo fissava immobile, facendo filtrare un ringhio rauco tra le fauci bavose. Gli avevano insegnato che i lupi temono l’uomo e lo fuggono, ma quell’animale…quell’animale era idrofobo. Lo avrebbe attaccato e, anche se lui fosse riuscito a spaccargli il cuore con un colpo del suo pugnale, una sola, piccola scalfittura di quei denti infetti sarebbe bastata a condannarlo ad una morte terribile.

Tratterrai il dolore, ricaccerai indietro il pianto e la paura anche quando il panico ti torcerà le budella, anche quando il sangue che fluirà rosso dal tuo corpo ti lascerà intendere che la morte è pronta a ghermirti, perché uno Spartiate non trema neppure dinanzi al Fato, il dio a cui tutti si inchinano rabbrividendo. Non ci sarebbe stata la gloria, nel suo destino.Neppure quella di una morte eroica, che avrebbe reso eterno nei secoli il suo nome. La follia avrebbe spinto la belva che lo fronteggiava ringhiando ad attaccare, facendo violenza alla sua natura vile ed elusiva…Non gli avrebbe inflitto ferite gravi, ma sarebbe bastato un graffio e la fine sarebbe stata inevitabile. E atroce. Se una lunga freccia non lo avesse trafitto da parte a parte nello stesso istante in cui spiccava il balzo.

Leonida crollò in ginocchio,il cuore il tumulto, gli occhi incendiati dalle lacrime che non doveva piangere, neppure dinnanzi a un dio. A Febo, Signore dei Lupi, che gli aveva salvato la vita.

-Non toccarlo.E’ più pericoloso da morto di quanto non lo fosse da vivo.

Ma non era stato il dio a parlargli, con voce cantilenante e accento straniero. Leonida si vergognò che un altro uomo lo avesse sorpreso a tirar su col naso, come un bimbetto piagnucoloso ancora attaccato alle sottane della madre. E si voltò, sussurrandogli grazie con un filo di voce arrocchita.

Hai una mira eccellente, straniero di cui non conosco il nome. E l’arco che impugni è degno di un dio, per magnificenza e valore. Ma un’arma deve uccidere con efficienza, non ammaliare per la sua bellezza…Avrebbe voluto dirglielo, ma perché mancare di rispetto a colui a cui doveva tanto?

***

-Dimmi il tuo nome, così saprò chi debbo ringraziare. Quel che hai fatto per me non c’è oro che possa ripagarlo.

E adesso mi dirai che tutto l’oro del mondo non vale la vita del più miserabile tra gli schiavi, straniero? Eppure, quelle parole sarebbero suonate strane in bocca a un uomo abbigliato con un fasto che non solo nella sua austera città ma perfino ad Atene o a Corinto sarebbe stato giudicato esecrabilmente sfarzoso, barbarico ed effeminato.

-Mi chiamo Shapur. Passavo da queste parti per caso e…

La voce grave era molto più adulta dell’età che doveva avere. Come i suoi gesti lenti, pacati e solenni. Era bruno e olivastro come i miserabili iloti*, feccia della terra. Oro e argento gli scintillavano ai polsi e alle orecchie, come a una cortigiana. Eppure Leonida non avrebbe avuto dubbi circa la sua natura nemmeno se non lo avesse visto tendere l’arco, scoccare la freccia, uccidere il lupo rabbioso. Perché quel giovane alto,dai lunghi riccioli neri raccolti in una complicata acconciatura era un guerriero. Come lui.

Il suo fato, già. Straniero, quindi nemico, un dogma nel quale gli era stato insegnato a credere senza discutere dacché aveva raggiunto l’età della ragione. Straniero, nemico…E aveva salvato qualcuno destinato ad essere re. Ammesso che riuscisse a crederlo, guardando la sua clamide scolorita, i suoi piedi callosi dentro i logori sandali, come un contadino qualsiasi.

-Mi farebbe piacere dividere il pranzo con te. Come ti chiami?

-Leonida, principe di Sparta.

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Capitolo 2
*** prima che sia tempesta 2 ***


Dopo che il Sole avesse ricacciato le ombre e i demoni della Notte nei loro recessi segreti, lo Shah Khshayrsha avrebbe giocato la sua ultima mossa per cercar di convincerlo a recedere dalla sua follia suicida. Il mio re ha rispetto del tuo coraggio, Kyrie…Nel sonno, gli sembrava di sentirla, la voce cantilenante dell’uomo che il Nemico avrebbe mandato per tentare l’impossibile. E si sentì percorrere da un lungo brivido, anche se sapeva che gli incubi e i terrori che la notte porta con sé sono solamente illusioni ed è assurdo temere il buio invece che abbandonarsi al suo abbraccio, come un bimbo che si stringa al seno della nutrice. Sarebbe stata la luce chiara del giorno a portare guerra e morte tra le gole strette del Passo. Il giorno, e uomini fatti di carne e di sangue, come lui, come gli altri che sarebbero rimasti, e non avrebbero tremato. Nonostante tutto.

Il legato del Nemico venne quando il sole splendeva alto nel cielo a portargli gli omaggi e il rispetto del suo signore, il Re dei Re. La bardatura del suo cavallo aveva borchie d’oro e l’elsa della sua scimitarra scintillava di pietre preziose. Ha rispetto del tuo coraggio…Perché continuare a combattere una guerra già persa in partenza, la cui unica conclusione possibile sarà la morte?Il mio Signore vuole che tu viva…L’incubo che aveva sognato e scordato al risveglio gli ritornò con prepotenza alla mente. Leonida alzò le spalle. Lusinghe o minacce non lo avrebbero convinto a barattare la salvezza sua e dei suoi uomini con il prezzo del disonore. Khshayrsha…Un uomo di carne e di sangue, anche lui. Come sperava di potersi opporre all’ineluttabilità del Fato, di fronte a cui anche Zeus è costretto a chinare la testa? Lo pensò e non lo disse, Leonida. Quindi, con un cenno della mano, invitò le sentinelle a lasciar entrare nella tenda l’inviato del Re dei Re.

Rimasti soli, i due uomini si fronteggiarono guardandosi l’un l’altro, come prima di un duello. Seminudo, sudato e stanco il sovrano, scintillante d’oro e odoroso di mirra e di nardo l’altro. Aveva lunghi occhi nostalgici, pesantemente bistrati, e anelli preziosi gli pendevano dai lobi delle orecchie. La sua folta barba, i suoi fluenti capelli bruni erano spruzzati di grigio. Il tempo era passato anche per lui. Shapur. Il Signore dei Lupi.

***

Il profumo speziato delle vivande che quell’altro aveva estratto dalla bisaccia gli stuzzicava dolorosamente l’appetito, eppure lo straniero dovette insistere affinché si servisse, vincendo la sua diffidenza. Mi offenderei se non accettassi il cibo che ti offro, e Leonida accettò, in nome dell’ospitalità.

Focacce azzime, carne tenera e saporita, frizzante vino di datteri.

-In vita mia, non ho mai mangiato niente di più buono.

Shapur lo guardava divertito ingozzarsi come un piccolo cane affamato. Sei un principe ben strano, Leonida di Sparta…A che ti servono nobiltà, prestigio e ricchezze, se vesti come un pezzente e consideri delizie paradisiache una focaccia d’acqua e farina, una sorsata di vino caldo mezzo irrancidito e un morso di carne secca?So che nella città da cui vieni qualsiasi innocente godimento è giudicato una depravata mollezza, ma mi sarebbe stato difficile crederlo, se non ti avessi visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie.

-Il cibo, il vino e l’amore sono i piaceri più sublimi a cui un uomo possa abbandonarsi.Non sei d’accordo, principe Leonida?

-Il cibo deve nutrire il corpo, non appagare i sensi. E l’amore…Quello serve solo per generare figli.

-Non posso pensare che tu ci creda davvero, ragazzo.

-Mi è stato insegnato da qualcuno che aveva più anni e più saggezza di me.

Qualcuno che s’era messo d’impegno per cancellare la sua umanità e trasformarlo in una spietata, efficiente macchina da guerra in grado di soffocare a comando perfino le sue voglie. Senza peraltro riuscirci del tutto, pensò Shapur, quando un largo sorriso illuminò la sua faccia corrucciata. Gli ricordò un cucciolo non ancora del tutto cresciuto. Un lupacchiotto dai chiari occhi torvi e il naso spruzzato d’efelidi dorate, che si sforza di sembrare feroce per mostrarsi invece quasi comicamente tenero, a dispetto di tutto quanto.

Doveva essere ben ripugnante, quell’oscena brodaglia di cui Shapur aveva sentito favoleggiare: carne e ossame di vecchi buoi inabili al lavoro, cotenne villose di porco, erbe selvatiche dal sapore amaro. Lo pensò, e sorrise benevolmente guardando il cucciolo ingozzarsi e continuare a bere. Avanti di quel passo, non avrebbe impiegato molto a ubriacarsi come un facchino e al ritorno tra la sua gente sarebbe stato punito. Di certo lo sapeva, e sembrava non importargliene. “Dammene ancora…” Gli occhi gli erano diventati languidi, la voce impastata. Non c’era alcuna dignità regale, in quel fanciullo ubriaco. Doveva essere la prima volta che beveva fino a stordirsi, senza provare vergogna di fronte a uno straniero che poteva, anzi doveva essere un nemico.

Il vino di datteri di Shiraz impiega meno tempo del vostro vino d’uva a generare ebbrezza. Avrebbe dovuto dirglielo prima di guardarlo scappare a nascondersi, squassato dalla nausea, per vuotare lo stomaco lontano da occhi indiscreti. Era alto, pensò, e di lì a qualche anno lo sarebbe stato ancora di più. E il suo corpo snello era un fascio di muscoli duri. La schifosa zuppa spartana, aldilà del suo aspetto e del suo odore inqualificabile, doveva essere in realtà un ottimo cibo, apportatore di forza e di salute... Shapur sorrise ancora.

*Seri= Mongoli

Khshayrsha= Serse; Darayawus= Dario.

Efori= magistrati spartani.

Taigeto= monte ai piedi del quale venivano abbandonati e lasciati morire i neonati deboli o deformi.

Iloti=popolazione pre indoeuropea della Tessaglia. Sconfitti dagli invasori di stirpe ariana dopo lunghe lotte, erano tenuti in stato di semi schiavitù perpetuato alla loro discendenza. I Perieci, i cui antenati si erano arresi senza combattere, erano invece liberi, pur non godendo dei diritti politici.

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Capitolo 3
*** prima che sia tempesta 3 ***


Avrei preferito incontrarti in altre circostanze. O non incontrarti mai più, come credevo sarebbe accaduto quando, tanti anni fa, salvai la tua vita da un pericolo contro il quale tutto il tuo coraggio non avrebbe potuto niente. Perché non siamo più quello che eravamo allora, due ragazzi mezzi sbronzi che si sono raccontati l’un l’altro tutto di sé,  accettando senza recriminare quelle diversità che oggi ci rendono nemici. Prima che Leonida diventasse il sovrano di un piccolo regno governato da leggi spietate alle quali era egli stesso costretto a sottostare. Prima che Shapur diventasse il  Comandante Supremo della Guardia Imperiale. Di coloro che, ai quattro angoli del mondo, la gente temeva e chiamava  Immortali.

 

-Quello che debbo riferirti  soltanto le tue orecchie possono sentirlo. Fai uscire quest’uomo dalla tua tenda, Kyrie.

 

Capelli  arruffati, neri come la notte, impenetrabili occhi d’ossidiana, stigmate di una razza antica, sconfitta dal suo orgoglio  e dalle armi di bronzo che si spezzavano, cozzando contro il ferro dei biondi invasori calati dal Nord.  Un Ilota, condannato da generazioni a un destino eterno di schiavitù. Non scacceresti  dai tuoi quartieri il cane accoccolato ai tuoi piedi, nobile Shapur, se dovessi condividere i tuoi segreti con un amico o  guardarti dalle proposte ingannevoli di chi vuole la tua rovina.

 

-Allontana quest’uomo dalla tenda, Kyrie. Egli ha occhi che vedono, orecchie che sentono, bocca che articola parole e un cuore capace di provare abissi di odio.

 

Non parli da nemico, nobile Shapur, ma dall’amico che sei stato per me quando mi salvasti la vita. Un mare di tempo fa. Prima che fosse tempesta.

 

Il  riverbero delle fiamme danzò negli occhi bistrati del Persiano. Quelli che avete condannato ad una servitù senza speranza di riscatto  sanno che spezzeremo le loro catene, e ci aspettano. Il Re dei Re è clemente con i nemici sconfitti…Non è ciò che siete stati voi,  quando avete portato via  le terre e la dignità  a quelli che chiamate Iloti e sono per voi meno che cani.  Egli ha scelto l’ultima della sue spose* in mezzo a una stirpe di schiavi. Sarà clemente anche con voi, se deporrete ai nostri piedi  quelle armi  che non vi salveranno dal  massacro.

 

-Terra e acqua. Sei venuto a chiedermi questo, nobile Shapur?

-Sono venuto a pregarti di non gettar via la tua vita, Kyrie.

-Conosci già la risposta.

* Si allude all’ebrea Esther.

 

***

 

-Se scommettessi del denaro sul fatto che vieni da lontano non credo che ci rimetterei mezzo obolo di rame…Shapur.

-Pensa piuttosto a ringraziare i tuoi dei che le nostre strade si sono incrociate, ragazzo. Diversamente, saresti lì a contemplarti il morso di quella bestiaccia  domandandoti quanto tempo sarebbe passato  prima che cominciassi a tremare, sbavare e ululare digrignando i denti.

-Così non è andata. Ho avuto fortuna.

 

Accesero un fuoco di sterpaglie e si raccontarono di sé l’un l’altro. Shapur, figlio di un satrapo* della Media, si era messo in viaggio perché suo padre riteneva fondamentale che un giovane conoscesse il mondo. Quel mondo che per la sua gente poteva diventare terra di conquista?

 

“Chiamano Hellas la loro terra, ma non riconoscono in essa una patria, anche se parlano la stessa lingua e adorano gli stessi dei, meschini e litigiosi come e più degli uomini. Ho conosciuto astuti mercanti a Corinto, grandi sapienti ad Atene…E una piccola città arroccata, i cui abitanti sono governati da leggi di inimmaginabile durezza. Il suo nome è Sparta.”

* Nobile persiano, governatore di una Provincia del grande impero.

 

 

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Capitolo 4
*** Prima che sia tempesta 4 ***


Verrà, la tempesta. Sarà scalpitare di zoccoli, bramito di cammelli, saranno migliaia e migliaia di stivali dalle suole ferrate, saranno labbra strette tra i denti dietro veli di seta. Sarà il baluginio della luce sopra armature istoriate d’oro e d’argento, sopra scimitarre d’acciaio e micidiali asce da guerra. Saranno nugoli di frecce che oscureranno il sole come un immenso volo di corvi. Verrà, invocata dalle preghiere di creature che da troppo tempo cercano riscatto da una schiavitù disumana. Uomini che imploreranno la vostra sconfitta dagli stessi dei ai quali voi offrite sacrifici di sangue perché alla vostra terra sia risparmiata l’onta dell’invasione. Sarà inevitabile. Ma…Sei convinto che sarà un male?

Non lo era stato per Egizi, Ittiti, Sumeri, Cananei. Difficile pensare che avrebbero portato la libertà, gli uomini degli altipiani, dalle lunghe barbe ricciute e dalle scimitarre ricurve. Ma gli zoccoli dei loro cavalli, i mozzi falcati dei loro carri da guerra avevano dilaniato i corpi dei tiranni, e il dio che adoravano era verità e saggezza, non un orrido demone che si nutriva del sangue dei loro figli. *

Verrà, la tempesta, e la pioggia cadrà anche sopra di voi. Sugli schiavi che da troppo tempo cercano riscatto, sulle donne a cui è stato imposto di essere forti anche quando vorrebbero piangere. E, ai piedi del Taigeto, su quel che resta di chi, appena aperti gli occhi sul mondo, non è stato ritenuto degno di vivere.

*Si allude all’antica religione zoroastriana, la cui entità suprema è rappresentata da Ahura Mazda, dio della verità e del bene, in contrapposizione al demone malvagio Ahriman. E, in contrapposizione, a quella babilonese, che contemplava i sacrifici umani.

***

Sono belle, le donne di Sparta. Erano la cortesia e il vino a far parlare Shapur come parlava. In realtà le aveva viste solo da lontano, le nobildonne il cui destino era deciso dagli altri, figlie spose e madri dei guerrieri il cui nome faceva tremare il mondo, e a Leonida in realtà diceva delle puttane ilote incontrate nei bordelli.

Sono belle,sì, e hanno occhi fieri che non temono di guardare dritto in quelli di un uomo. Occhi che non sanno piangere.

Non piangono lo sposo morto con le armi in pugno, non piangono il figlio bambino strappato troppo presto alle loro carezze perché il bastone, lo scudiscio, la fame e le privazioni facciano di lui un guerriero senza paura. Conoscono l’ineluttabilità del destino, ma non ne hanno paura. Anche nelle loro vene scorre il sangue di Eracle, il più invincibile degli eroi.

Scommetto che hanno già scelto per te una sposa di nobili natali, Leonida. Una donna che, quando ti appresterai a partire in guerra, sfiorerà con mano che non trema l’umbone del tuo scudo e, fissandoti negli occhi, ti dirà che preferirà saperti morto piuttosto che codardo.Una donna a cui è stato insegnato a ricacciare indietro le lacrime. Una donna che ha nelle vene il sangue di Eracle. Il tuo stesso sangue.

Un sangue destinato a corrompersi, a forza di mescolarsi con se stesso.

***

Aveva detto di chiamarsi Efialte e di conoscere la via segreta per superare il Passo. Il sangue corrotto a forza di mescolarsi con se stesso doveva averne prodotti tanti, di mostri come quello: nano, gibboso, la testa tanto grossa che sembrava il collo faticasse a reggerla. Mostri che le leggi spietate di Sparta imponevano di distruggere. Lui era sopravissuto. Per vendicare chi non era stato ritenuto degno di vivere e i cui resti, rosicchiati dai cani selvatici e calcinati dal sole, giacevano insepolti ai piedi del Taigeto?

I disegni del destino sono spesso misteriosi, aveva pensato Shapur accarezzandosi lentamente la barba. E il destino stesso è sempre ineluttabile, anche per chi pensa d’essere tanto potente da riuscire a stringerlo in pugno. Efialte. Scampato per miracolo al fato che le leggi spietate della sua città riservavano a quelli come lui. Efialte, che nel segreto della sua solitudine, implorava rovina e morte da quegli stessi dei da cui Leonida invocava coraggio e forza.

Efialte. Quell’orrore che i suoi occhi faticavano a guardare. Quello sbaglio che la legge imponeva di cancellare, come se non fosse mai esistito. Quell’ammasso informe di carni deturpate che il fato aveva risparmiato perchè il suo signore Khshayarsha lavasse via l’onta che macchiava la memoria di suo padre, il possente Darayawus.

***

Ci sono altri mondi e altri uomini. Hanno tratti stranieri e non ci sono necessariamente nemici. Shapur, quel barbaro dagli anelli alle orecchie, dai lunghi capelli profumati come una cortigiana, aveva salvato la sua vita, condiviso con lui il cibo e le confidenze. Gli aveva raccontato di un padre amorevole e saggio, di una tenera madre, di una promessa sposa devota e sottomessa di cui non conosceva ancora il volto. E di un fratello che Ahura Mazda aveva benedetto con il dono della profezia e Ahriman, il Signore degli Inganni e delle Menzogne,sfiorato con le sue gelide dita nel momento stesso in cui era venuto al mondo.

-Kurush è cieco. Eppure i suoi occhi bianchi riescono a vedere quello che i nostri non vedono.

Cieco. Come Tiresia di cui dicevano le leggende. A Sparta non lo avrebbero lasciato vivere. E gli dei avrebbero gettato al vento il loro dono prezioso. Non c’è saggezza nell’agire irragionevole dei Numi. Era un pensiero blasfemo, il suo. Avrebbe potuto attirargli addosso sfortuna e morte. Eppure, non riusciva a strapparselo dalla mente.

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Capitolo 5
*** Prima che sia tempesta 5 ***


Domani sarà tempesta. A meno che…A meno che tu non rinneghi la tirannia che schiavizza da secoli la tua gente, dal più miserabile degli schiavi iloti allo stesso sovrano. Il mio signore non farà strame della tua dignità, e sarai ancora quello che sei…dopo: il re a cui il tuo popolo continuerà a inchinarsi, e poi…

Dov’era finito il suo coraggio? Non lo riconosceva, in quell’uomo pavido, che temeva le sue stesse parole più di quanto non avrebbe temuto la lancia e la spada di un nemico eccitato dal sangue e dal lezzo putrescente della morte. Arrenditi al Re dei Re, Leonida di Sparta. Fallo, finché sei in tempo. Fallo adesso. Prima che sia tempesta. E’ questo che vuoi dirmi, nobile Shapur?

***

Terra e acqua. E’ il mio signore Khshayrsha a domandartele, nobile Leonida…

***

Avrebbe parlato, Shapur l’Immortale, non appena avesse trovato il coraggio e le parole adatte. Gli avrebbe detto le stesse cose che aveva sentito dall’emissario del Gran Re, non molto tempo prima. Ti chiedo terra e acqua, in cambio d’un dio saggio e di leggi più umane. Ti chiedo terra e acqua, non la tua dignità di uomo libero, né la nobiltà dei tuoi antenati. Ti chiedo…

***

Terra e acqua. Aveva avuto quello che chiedeva, il barbaro dagli occhi truccati, l’arrogante emissario del Gran Re. In fondo al pozzo più profondo della città.

***

Il riflesso delle fiamme batteva sulla lama della spada, sull’umbone dello scudo. Prima che partisse, sua moglie lo aveva sfiorato, dicendogli “Torna con questo o sopra di questo. Torna morto piuttosto che disonorato”. Erano belle, dure e forti, le donne di Sparta. E quella che gli avevano messo accanto non doveva essere diversa.

-Nobile Leonida…

Terra e acqua. Disonore. Prima che il sole sorgesse. Prima che fosse tempesta. Gli occhi del Re scintillarono nel buio.

-Vattene, Shapur.

FINE

Lalla, 26 novembre 2007

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