All I can breathe is your life di Lisa_Pan (/viewuser.php?uid=141780)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nicotina ***
Capitolo 2: *** Verde scarabeo ***
Capitolo 3: *** Parco-Giochi ***
Capitolo 4: *** Farina ***
Capitolo 5: *** Miele ***
Capitolo 6: *** Sociopatia ***
Capitolo 7: *** Vuoto ***
Capitolo 8: *** Vernice blu e miele ***
Capitolo 9: *** Cannella ***
Capitolo 10: *** Alive ***
Capitolo 11: *** Limiti ***
Capitolo 12: *** Rocking horse ***
Capitolo 13: *** Ruggine ***
Capitolo 14: *** Unottantotto ***
Capitolo 15: *** A-b-i-g-a-i-l ***
Capitolo 1 *** Nicotina ***
prologo
Nicotina
Un movimento impercettibile
delle labbra, le palpebre si chiudono lente sulla sua vista, si concentra
catalogando ogni odore presente in cabina. Ce l’ha come fissazione da tempo
immemore, fa parte di lei quasi quanto quella ciocca nera fra i capelli rossi o
gli occhi di un grigio impossibile. Basta un cambiamento qualsiasi che vada da
un improvviso temporale ad un radicale mutamento delle sue abitudini e ogni
cosa diventa elenco, colori, suoni, odori, occhi, vestiti; non c’è una fine,
non c’è limite , può riguardare tutto e niente, determinato esclusivamente
dalla sensazione del momento.
Il cambiamento in questione
è una partenza, non tanto improvvisa, piuttosto bramata e sognata durante le
notti più calde. La sensazione: un odore; appena varcata la soglia della cabina
stretta dell’aereo. Nicotina. L’uomo di fronte a lei con la maglietta bianca
con una stampa logora sotto il colletto stretto e bermuda larghi a fantasia
militare e i capelli gellati tanto da sembrare bagnati, sembrano neri ma magari
sono castani, il gel li scurisce terribilmente. Si muove goffamente tra i
sedili mantenendosi con una mano il lembo destro della maglietta evitando la
vergognosa risalita lungo le sporgenti maniglie dell’amore sfuggite ai
pantaloni. Lei pazienta, lo segue silenziosa, sussurrando a denti stretti gli
odori nascosti dalla nicotina: vaniglia, quella dell’acqua di colonia che tanti
signorotti del suo quartiere usano cospargersi sul corpo nelle fresche giornate
di primavera; cioccolato, della barretta che sporge aperta dai pantaloni; pino,
del gel che si scioglie sulla nuca a causa delle prime gocce di sudore dovute
allo sforzo di evitare chi ha già occupato il suo posto nei sedili più esterni.
Finalmente trova il suo posto e scivola incredibilmente silenzioso lungo il
sedile morbido, sotto lo sguardo interlocutorio del suo vicino. Lei invece
sorride mentre abbandona l’odore pungente della nicotina sostituendolo con
quello dolce dell’orzo.
Il suo posto è accanto a un
uomo ben vestito, dall’accento inglese che le spiega lo scopo del suo viaggio,
scandendo ogni minuto della sua giornata immediatamente dopo il primo scalo.
Quasi riesce a seguire l’odore del suo caffè all’orzo nella gola, osserva
l’impercettibile movimento del pomo d’Adamo, il petto che si abbassa e si alza
riempiendo i polmoni di aria pulita. Quando con lo sguardo incrocia quello
dell’uomo si rende conto di non aver ascoltato una sola parola, perciò sorride
e, gentilmente, si volta verso il finestrino.
Sul grembo stringe una guida
ormai logora dell’Ungheria, ogni pagina è segnata con un colore diverso,
schizzi di gufi e cavalli compaiono sulla copertina. Lei osserva e poi traduce
in segno ciò che pensa di aver visto, un albero diventa uomo, un occhio diventa
radice, una frase diventa occhio. L’Ungheria diventa un gufetto dagli occhi
piccoli, il becco sporgente e le penne arruffate.
E’ pronta, come non lo è
stata mai.
Un cappio rosso lo tiene
sospeso tra il finestrino e il cruscotto dell’enorme pick-up bianco, è un
rottame più vecchio di lui di almeno una decina di anni, su quello stesso
sedile un uomo che si sarebbe potuto dire identico a lui se non fosse stato per
la cespugliosa barba rossa dalle punte intrecciate e gli occhi, di un nero più
profondo della notte stessa, di quelle senza luna, di quelle da gelo nelle
ossa, stringeva il volante in un pugno srotolando sotto le ruote del pesante
mezzo chilometri di strada come fossero briciole e guardava suo figlio crescere
con il viso fuori dal finestrino, con gli occhi avidi, i più avidi che avesse
mai visto in vita sua, diceva, che mangiavano quelle briciole lasciate dietro
dal padre assorbendo colori, odori, volti.
Il cappio rosso si stringe
in un nodo impossibile attorno all’anello di ferro corroso dai chilometri,
dall’instancabile dondolio del cruscotto dovuto allo sbuffo degli
ammortizzatori, dalle note di rabbia che dalla radio rimbalzano sul vetro e si
propagano al tettuccio consunto.
Tiene lo specchietto
retrovisore tra le dita regolandolo in modo da riuscire a vedersi riflesso in
quei pochi centimetri di superfice. Le sopracciglia disegnate, anche troppo
disegnate per un volto come il suo che lo faceva sembrare uno di quei
personaggi usciti fuori dai fumetti di Pratt, dal volto marcato dal pennello
carico di china nera. Profonde occhiaie scavano intorno agli occhi un burrone
di ore private al sonno e dedicate ad Aaron. Sembrava un sorta di volontariato
il suo, una roba stile servizio civile, rincorreva le sue idee fuori dal comune
per rinchiuderle dentro a quattro pareti bianche ed anemiche, in modo che
potesse misurarsi una volta per tutte con una società fatta di persone normali.
In realtà questo è quello che pensavano le poche migliaia di persone che
vivevano in quel buco sperduto, Aaron era il suo Dean Moriarty, gli piaceva
farsi portare in giro, gli piaceva essere vittima delle sue follie. Sentirsi
diversi per tutta la vita ma nasconderlo agli altri per quella dannata certezza
di non esser capiti, non riusciva a vestire l’idea del “meglio soli e se
stessi”, era frustante.
Aaron lo aveva semplicemente
trovato, come quando si trova sul ciglio della strada uno di quei cuccioli di
cane bagnato fino alla punta delle orecchie, con quegli occhi spauriti, come fa
uno a lasciarlo lì? Allora lo prendi con te e gli offri una casa, una cura, lo
nutri e lo cresci. In quel bar, sul bancone lucido e appiccicoso, sullo
sgabello con le gambe penzoloni e il sedere per metà fuori dalla seduta, la
camicia slacciata e sporca di Jack, Aaron ha riso, si è messo a ridere
guardandolo negli occhi. Gli ha sfilato la camicia e l’ha lanciata al barista,
urlando, gli occhi iniettati di euforia. Non ci ha capito più nulla, si è
ritrovato in una macchina dagli interni completamente logori, su un sedile di
spugna gialla, di quelle che usava col padre per lavare la macchina. Ubriaco,
in un rottame, con un totale squilibrato mentale. Ha riso, pensava che avrebbe
dovuto avere paura ma..ha riso. E ha riso della sua risata, si è detto stupido
ma continuava a sghignazzare da solo sul sedile di spugna mentre guardava quel
folle premere a tavoletta l’acceleratore verso il totale buio; sì perché
davanti a sé vedeva esclusivamente la scia gialla che i fari proiettavano
sull’asfalto, che poi è diventato sterrato e poi breccia e improvvisamente
sabbia.
Dà un’occhiata veloce
all’ingresso dell’aeroporto mettendo a fuoco a fatica la miriade di volti che
entrano, no escono, entrano ed escono dall’edificio. Un oggettino minuscolo
penzola davanti alla sua visuale, lo distrae ma non lo degna di un’occhiata. Il
cappio rosso lo tiene saldo a penzoloni nel vuoto, sembra stanco ma non cede.
L’anellino arrugginito sfrega contro il laccetto, come un carcerato scava la
roccia dura. La miniatura del pick-up dondola nel vuoto ignara della lotta da
cui dipende la sua caduta.
Una sfolgorante chioma rossa
esce di corsa dalle porte a vetro dell’aeroporto e si ferma a pochi passi dal
pick-up; perfettamente in orario.
***
Non ripopolo
queste pagine da una vita, almeno così mi pare. Buogniorno
tutti, è appena metà settembre e io vi do il benvenuto
mangiando un piatto di pastina col formaggino, il mio stomaco è
su di giri e pare sia l'unica cosa che riesce a digerire, ma non ve ne
pò fregà de meno perciò..passiamo a cose
più interessanti. Il titolo :3 parliamone: se non sapete da dove
nasce andate a soddisfare la vostra curiosità
sul tubo! C'è tanta pioggia in questa storia, è una
mattonata che si scioglie lentamente sotto la pioggia, tipo biscotto
nel latte.
Non sono
più capace di scrivere note, vorrei spiegarvi perchè
l'Ungheria ma il mio cervello non collabora. Perciò ci rinuncio
vi dico solo che il paese misterioso di cui non parlerò mai
è lui -->yessa proprio lui, il perchè ve lo spiegherò in un momento migliore sia per il mio stomaco che per la mia mente poco collaborativa.
Ci sono due
tipe grafomani in questa storia ed entrambe hanno preso la loro
ossessione da una tipa che scrive robe assurde, vi giuro proprio
assurde, e meravigliose che si chiama Elle.
Ciao donna meravigliosa, come sta? Non so nemmeno se leggerà mai
queste pagine ma le devo un minimo di ringraziamente per l'ispirazione
che la sua persona mi ha dato. Ottio parlo aulico e sto sparando
scemenze senza limiti.
Chiedo
umilmente perdono per questa vergongosa nota delirante. Voglio salutare
ancora una personcina che mi fa da beta e che si sorbisce il mio
delirante sclero pre e post scrittura ovvero..la mia Giuls! Tante coccole pioggerellose a tutti voi!
Lis
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Capitolo 2 *** Verde scarabeo ***
Diapason
Verde scarabeo
L’osserva con la coda dell’occhio, si muove silenzioso, avverte
a malapena lo spostamento d’aria causato dai suoi impercettibili movimenti.
Ogni tanto si volta per accertarsi che sia ancora lì e che l’enorme pick-up non
viaggi per inspiegabile inerzia. Le piacciono i suoi occhi, tanto da concedersi
la libertà di voltarsi, poggiando la guancia sul sedile, e osservarli senza
nascondere minimamente la sua curiosità.
Nemmeno una parola dall’inizio del viaggio, solo musica, lo
stesso cd che si ripete più volte, ormai le è entrato nella testa; sono gli Strokes, ha finito di capirne le
parole, si è innamorata della pronuncia di Julian che sembra trascinarsi dietro
ogni dannata parola come se qualcuno gliele stesse incidendo sulla pelle nuda.
Ogni inclinazione, ogni accento, ogni piccola sfumatura di ogni singolo brano
le ha già sfiorato la pelle, riscaldato il sangue e..stancata. Ha tutto
catalogato, le sue labbra son ferme da un po’ e lei sente già il vuoto tornare
a far capolino nella mente.
Quando lui si volta e la scopre ad osservarlo, lei non prova
un minimo di imbarazzo, sostiene il suo sguardo e si stupisce nel trovarlo
divertito e curioso quasi quanto lei. Imre abbassa gli occhi sulle labbra di lei
e nota il loro movimento lento e costante, ascolta il sussurro leggero
provenire dalla suo gola, come se un diapason le stesse vibrando all’interno
dell’esofago; sì perché le sue parole hanno un ritmo quasi impercettibile, con
un dito se lo tamburella sulle gambe, ogni sillaba è un colpetto sui jeans
chiari e sbiaditi dalla candeggina.
Abigail impiega più del dovuto a catalogare gli occhi di
lui, non capisce cosa la blocca, ha seguito millimetro per millimetro la curva
sinuosa delle sue palpebre, sono taglienti, quando sorride scompaiono sotto ad
un concerto di ciglia così chiare che quasi si mimetizzano tra le pieghe degli
occhi. Eppure, non appena sposta lo sguardo dai suoi pantaloni consumati dai
troppi lavaggi, quegli stessi occhi diventano enormi fanali che le impediscono
di vedere altro. Così la sua lista silenziosa si blocca ad elencare
quell’infinità di sfumature che non avrebbe mai trovato in quegli occhi neri
pece. Beh, in verità qualche sfumatura l’avevano, un verde
smeraldo, come quello delle ali di quegli enormi scarabei che trovava per casa
la sera e che piacevano tanto al gatto. Le fanno schifo gli scarabei, ma il
loro colore l’attrae come nient’altro al mondo. Ok, non è vero nulla l’attrae
più delle onde di quella dannata distesa che è l’oceano, così infinita, così
senza limiti. Senza limiti, per poco non si mette a ridere davanti a quel
semplice dato di fatto, non riesce a trovare una fine nemmeno ai suoi occhi che
continuano a guardarle le labbra.
Le è simpatico ma si sente nuda, il tamburellare controllato
delle sue dita si coniuga perfettamente con i sussurri di Abigail, per la
ragazza è come se qualcuno tentasse di sfiorarla troppo da vicino perciò serra
le labbra in un sorriso e si volta ad osservare la radio. Uno di solito l’ascolta
la radio, lei la osserva. Non è difficile capire perché, dagli altoparlanti
esce un suono sporco come la fiancata del pick-up, paragonabile a poche cose
esistenti in quel buco di mondo: all’urlo rabbioso di un uomo che ha il bisogno
disperato di esser capito dalla gente;
al roco boato della terra che trema; e per ultimo, ma non meno
importante, alla profonda voce di Eddie Vedder.
Osserva le dita di Eddie accarezzare la chitarra, osserva
l’armonica a bocca arrugginirsi a causa della saliva che le sue labbra lasciano
sotto il loro passaggio. Muove la testa e chiude gli occhi e osserva nel buio
ogni nota danzare nella sua mente. Ama la sua voce e ama la sua musica, per un
secondo è tentata di aprire la borsa e tirare fuori la Rollei ossidata e scattare
un paio di foto: una al pick-up che penzola dallo specchietto retrovisore e una
alla radio trasandata.
La vede tirare fuori dalla borsa una di quelle macchinette
biottiche sopravvissute a tempi migliori e scattare un paio di foto che a lui
sembrano alquanto insensate.
“Quella va a rullini non è vero?”
Non lo degna di uno sguardo, sorride e basta.
“Sì, è una piccina vecchia scuola”
“Quindi non dovresti, che ne so, tenerti più scatti
possibili per, beh per noi?”
Si gira un attimo, il tempo giusto per farlo sentire un
idiota e poi torna a fissare il pozzetto
del pezzo d’antiquariato.
“E tu, che ne so, non dovresti semplicemente guidare e
portarmi al campo? O ti hanno chiesto di tenermi sotto controllo?”
“Senti, chiedevo solamente non..”
Il tempo di girarsi e la biottica punta dritto verso il suo
sguardo inebetito. Impossibile sfuggire al macchinoso clank dello scatto.
“Questa è per divertirmi e in ogni caso ho una borsa piena
di rullini, ma terrei comunque il conto non si sa mai..”
“Sì, certo..”
Torna a guardare la strada ma con la coda dell’occhio la
tiene sotto controllo, è strana con quel suo sussurrare e con la biottica sotto
il naso, tiene stretto il pozzetto tra le mani e regola la messa a fuoco. Non
ha mai capito molto di fotografia a guardare lei sembra una gran cosa, con quel
sorriso sul viso avrebbe potuto illuminare a giorno il vialetto di casa sua, o
sostituire, che so, il lampadario del soggiorno.
Frena bruscamente e gli ammortizzatori sbuffano chiassosi
facendo alzare il pick-up di almeno dieci centimetri più su.
“Siamo arrivati”.
***
Buongì
a tutti, sono stanca, ho gli occhi appesantiti e vorrei dormire per
anni interi se non comportasse una disumana perdita di tempo. Stanotte
non ho chiusco occhio e non so minimamente perchè. Ieri sera
sono andata a letto prima del solito, molto prima del solito, i Fab
Four vi salutano e Ringo Star è un tipo poco consigliabile. E
mio padre deve stare lontano da loro almeno di una decina di metri, no
è anche troppo poco.
Comunque i miei deliri personali non interessano
a nessuno passiamo a parlare dei riferimenti all'interno del capitolo,
spero che più o meno tutti conosciate i The Strokes, in
caso contrario direi di rimediare immediatamente andando tipo qui
yessa, yessa, proprio qui.
L'
altro riferimento musicale è a Eddie, ovvero il cantante dei
Pearl Jam, sappiate che ho scritto questo capitolo ascoltando
Guaranteed, una roba epica, giuro epica, da linciare chi ci ha messo
prima la pubblicità di un videogioco, davvero da picchiare. Se
non conoscete nemmeno lui DOVETE rimediare perchè non ve ne
pentirete, ha una voce dannatamente profonda da spaccare i vetri ed
è indubbiamente un gran pezzo di uomo, quindi non sbagliate
sicuramente a dare un'occhiata. Eddie
Poi
nulla, è solo il secondo capitolo e mi sembra sempre di non dire
una cippa di nulla, ma giuro che qualcosa ci sarà di più
sostanzioso, la mia meravigliosa beta può garantirlo, almeno
spero.. Charaaaaaaaaa.
Bene
ho finito il mio sclero mattutino quindi vi saluto e ringrazio in
generale tutti quelli che sono approdati in queste pagine chi per
sbaglio chi volutamente (voi siete pazzi!) e grazie a chi ha recensito
le parole deliranti dello scorso capitolo.
Tante coccole a tutto.
Lis
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Capitolo 3 *** Parco-Giochi ***
3 parco-giochi
Parco-giochi
Scende dal pick-up nel cigolio stridente dello sportello che
ruota sui propri cardini. Gli stivali affondano abbondantemente nel friabile
terriccio sabbioso dell’arena.
Nonostante siano anni che i suoi pantaloni si riempiono di polvere e
sassolini, l’odore pungente dell’arena lo coglie sempre di sorpresa, tossisce
senza sosta per interi minuti inspirando pulviscoli arancioni che gli pizzicano
le narici e scatenano una scarica di starnuti.
L’aria è satura di polvere ma l’odore è irresistibile: sa di
legna e terra bruciata. E’ come se i sensi diventassero materia, sente il peso
degli odori addosso ai vestiti, su quei pantaloni sbiaditi e sulla maglietta
che una volta doveva essere stata bianca, lo sente sulle mani che si ricoprono
di una patina grigia di argilla che secca la pelle rendendola liscia.
Aggira il mostro bianco e salta sul rimorchio sfilando da un
bustone enorme alcuni vestiti che profumano di lavanderia. Quando riscende si
accorge che lei è ancora seduta sul sedile con i gomiti poggiati sul cruscotto
che osserva l’andirivieni caotico nell’arena. Picchietta sul finestrino
cercando di attirare la sua attenzione ma lei non lo guarda, nemmeno quando
gira la leva e apre il finestrino.
La sua bocca ha assunto una strana piega sul viso, la nasconde
tra le braccia attutendo il suono che esce dalle labbra più alto del solito
flebile sussurro. E’ come se non riuscisse a contenere le parole che si
sviluppano nella sua gola ad una tonalità maggiore del flebile la3 del diapason
impiantato nell’esofago.
Quando gli occhi di lei si piazzano davanti ai suoi, Imre si
sente preso alla sprovvista, le iridi grigie scompaiono divorate
dall’allargarsi della pupilla nera, lo guarda ma è come se non lo guardasse
affatto con quello sguardo allucinato perso in qualche diavolo di mondo tutto
suo.
Imre si gira e con un moto d’inquietudine si guarda intorno,
colori, odori, suoni, in un attimo si sente investito da miriadi di sensazioni
diverse, alcune contrastanti che gli entrano in gola e gli strappano via le
corde vocali. Si porta una mano al collo e cerca di controllare il respiro: lo
scalpiccio dei cavalli; un martello che picchia su un chiodo; il chiodo che
squarcia il legno in un esplosione di milioni di microscopiche schegge;
l’intermittenza di una radio poco distante da lì; è un dannato caos quello, un
caos fatto di polvere e vociare confuso, in cui Imre ormai si è perso alla
ricerca di un ritmo, un battito regolare e costante. L’abitudine di trovare
suoni dove regna indiscusso il rumore gli permette di tenere sotto controllo la
sua istintività incontrollata che s’impossessa del respiro e del battito
cardiaco portando entrambi all’iperventilazione.
Abiagail osserva Imre tamburellare con le dita sul
finestrino un ritmo confuso che si trasforma da melodia frenetica ma
controllata ad un pacato battito, uno, due, al secondo. Quando si volta a
guardarla scorge un sospiro sul suo volto e in quell’istante la mano di lui
lascia il collo e scende morbida sul suo fianco. E’ improvvisamente tranquillo
e sereno, le sorride ma nel suo sguardo coglie ancora un leggero velo
d’inquietudine.
“Per te questo deve essere un dannato parco-giochi!”
E’ vero, per Abigail le sensazioni che stavano per ucciderlo
sono vere e proprie immagini da catturare e conservare gelosamente sulla
pellicola fino a quando non si sarebbe trovata da sola con loro nella camera
oscura. Ha un rapporto semplice e diretto con i suoi scatti, prima di tutto li
sente, come fuochi fatui, segue attraverso l’obbiettivo la scia di sensazioni
che le persone si lasciano dietro o che lasciano su oggetti che inevitabilmente
s’impregnano della loro storia, come spugne. Con l’occhio nel mirino non ha
motivo di stilare alcuna lista sussurrata, tutto ciò di cui ha bisogno è
sentirsi sola, completamente sola e avida di storie, storie da vestire, da
vivere. Le mancano dei frammenti enormi della sua vita, come pezzi di un puzzle
rimasto incompiuto, è solamente una ragazza con la metà delle consapevolezze
comuni in una bambina. Vuole disperatamente capire, lasciarsi coinvolgere in vite
che non sono sue, gestire i ricordi di altri la fanno sentire quasi piena, in
un certo senso sono pezzi invisibili che sostituiscono il vuoto nel quadro.
E’ inevitabile, prendere in mano la macchinetta e lasciarsi
avvolgere dalla solitudine e dalla malinconia, sa che senza il loro peso sul
cuore l’avidità e la fame nel suo stomaco non potrebbero mai essere stimolate.
Ha imparato che l’abitudine brucia la facoltà di vedere, vedere per davvero, a
volte vedere anche se stessi.
Quell’arena contiene più anime di quante ne aveva
immaginate, anime colorate, anime profumate, anime vive.
“Ti va di andare a
fare un giro nel parco-giochi?”
Imre la guarda dritta negli occhi e lei sorride e annuisce
con convinzione.
“Imre, hol a
pokolban voltál? Itt várnak minden ..”
“Vitaris,
Vitaris, kérlek ..”
Vitaris guarda di sottecchi Imre prima di accorgersi che al
suo fianco c’è una ragazza dai capelli rossi che li guarda interrogativa.
“Oh, scusami, Abigail giusto? Perdonami non volevo essere
scortese..è un piacere averti qui con noi..”
Abigail lascia che il tipo di fronte a lei si scusi senza
motivo troppo impegnata com’è a ripetersi nella testa le parole che aveva
pronunciato qualche attimo prima. Affascinata, chiude gli occhi e sussurra i
suoni che è riuscita a capire, ripetendoli più e più volte come una cantilena.
E’ tagliente ma non dura come il tedesco, musicale ma non sputata come il
francese; si gira verso Imre e gli guarda le mani, chiedendosi quale ritmo il
ragazzo avesse dato a quelle parole, delusa nota che le dita di lui sono ferme,
infilate nelle tasche dei jeans.
“Non..non si preoccupi.”
Mette fine a quella sfilata di belle parole che le sembrano
troppo forzate, come note stonate, per il volto di quell’uomo. Le stringe la
mano in una morsa ferrea, si sporge con il corpo possente sovrastandola di
qualche decina di centimetri nonostante la sua statura sia considerevole per
una ragazza, il suo sguardo pesa gravemente su quello di Abigail. Con il suo
corpo, Vitaris, mette in chiaro la sua posizione rispetto a quella di lei,
chiede rispetto dando rispetto non escludendo che in mancanza di tale elemento
gli basterebbe un secondo per riportare tutti al proprio posto.
Non le fa paura, è un uomo chiaro e dannatamente diretto,
ricambia la stretta di mano stringendo vigorosamente il polso di Vitaris che,
soddisfatto, le sorride bonario per la prima volta se stesso.
“Ora, se non ti dispiace vorrei portarti a fare un giro per
l’arena. Imre tu vai dagli altri, ti stanno aspettando”.
Abigail allontana gentilmente dalla mano di Vitaris
poggiata sulla sua spalla cercando di fargli capire che non ha bisogno di
essere guidata anche fisicamente, lui la lascia fare e si porta avanti battendo
i passi sulla polvere e alzando nuvolette di pulviscolo e terriccio. Lei si
volta e con un cenno del capo ringrazia Imre, lui di rimando le sorride e
incrocia le dita in direzione di Vitaris lasciandola definitivamente con la
sola compagnia dell’uomo.
***
Salve
gente, sono di nuovo qui e sono di nuovo senza un minimo di roba
sensata da dirvi, in questi giorni ho passato la metà del tempo
su efp a leggere storie meravigliose, giuro davvero splendide qualcosa
di assolutamente fuori dal comune. Ho lasciato così tante
recensioni da non ricordarne nemmeno il numero quindi potete solo
immaginare. So solo che c'è una marea di potenziale su quest
osito lasciato in pasto ai leoni, roba da un numero di recensioni
schfosamente povero quando ne meriterebbero centinaia di recensioni. E
non scherzo.
Questo
è uno di quei fandon proliferi, dove in un modo o nell'altro
chiunque finisce per leggerti e magari se ti va bene ti lascia anche
una recensione. Emerge dal nulla e decide che sei adatto a lei, anche
se sono davvero poche le persone che prendono coraggio e dicono la loro
fregandosene di poter sembrare fuori luogo, il tempo c'è sempre
per farsi conoscere e credo che questo sia uno dei posti migliori dove
far emergere uno dei lati migliori di se. Il fandom dove ho passato la
metà di questa giornata è uno di quelli dove non passa
mai nessuno e non potevo ignorare certe storie, non potevo non dire la
mia, diamine ero troppo decisaa a ringraziare chiunque si nascondesse
dietro quel nick name per l'enorme bagaglio di brividi che mi aveva
fatto saltare sulla pelle.
So
che non frega a nessuno quello che dico ma essendo ho letto troppo
spesso recensioni senza senso colme di frasi vuote di chi non legge per
davvero ma solo perchè sa chi sei e vuole darti un numerino in
più, non frega a nessuno il numerino in più, dovrebbe
fregare il contenuto, dovrebbe fregare il riscontro ottenuto con delle
persone completamente diverse da noi. Non è giusto lasciare
ampio spazio a storie vuote perchè più facili e mandare a
farsi fottere delle storie un pò più costruite e magari
scritte da perfette sconosciute.
Cooooomunque,
questo è il terzo capitolo d'introduzione, da qui in poi la
storia comincerà ad essere un aggrovigliato intrico di storie e
anime e finirete per capirci poco e niente, anch'io ancora riesco a
capire dove voglio arrivare e da dove sono nati loro, ma li ho qui
tutti in fila che mi parlano nelle orecchie e non potevo lasciarli li
soli. Bisogno dare voce alle proprie voci, quindi eccoli che tra poco
cresceranno e diventeranno tanti bei visini che non passano inosservati.
Il
consiglio musicale di oggi è un cd dei Soundgarden che ho
iniziato ad ascoltare ieri sera e che ho messo a riproduzione fino alla
morte dei miei timpani, mi sento molto Cornell oggi. Un Cornell del
1991 ma sempre lui.
Vaaaaaaaaa bene.
Ora
vado, non prima però di aver ringraziato le persone silenziose
che leggono i miei striminziti capitoli, le persone che recensiscono e
che seguono e preferiscono e ricordano e poi lei..la mia beta che
è troppo lontana da dove sono io e di cui a detta sua sono
innamorata perchè la cito troppo spesso nelle recensioni. Prima
o poi la picchierò! Chara
Le note più lunghe della mia vita. Tante coccole gente.
Lis
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Capitolo 4 *** Farina ***
4Farina
Farina
E’ seduta con le spalle che grattano sul legno liscio e
profumato, come tutto il resto, le sembra di essere in un diavolo di mondo
parallelo, tutto profumi e sorrisi e “è un piacere” o "oh figurati cara”; tira
a sé le ginocchia e respira ad occhi chiusi con il respiro reso affanno a causa della
polvere sempre troppo alta a formare nuvolette che le irritano gli occhi.
Nuvolette,
si passa una mano sul volto e
ride da sola stringendosi il petto. E’ impossibile fare pensieri
negativi, come in
una specie di isola-che –non-c’è dove le spade sono
di legno e il cattivo è in
realtà un uomo triste e in cerca d’amore, tutti troppo
gentili, con il sorriso sempre pronto in tasca da tirare fuori al
momento giusto, con quell'odore pungente e dolciastro.
Un bambino si
siede silenzioso di fianco a lei attratto dal suo sussurrare sommesso e
si avvicina lentamente, intimorito ma vinto dalla curiosità.
“Non mordo, puoi avvicinarti”
Si accorge di lui dall’odore pungente della sua pelle, ha
imparato a sentirlo addosso ad almeno più della metà degli ungheresi presenti
nell’arena, e dal profumo di pane di cui sono impregnati i suoi abiti. Lo aveva
visto dietro ad un bancone che si nascondeva sotto le gambe del padre, un uomo
incredibilmente alto e sottile come uno spillo, intento a mangiucchiare il
sedere di una pagnotta fumante.
Alza lo sguardo e poggia la guancia sulle gambe trovandosi
naso a naso con il suo viso dai lineamenti morbidi e il mento pronunciato. Osserva i suoi occhi diventare fessure azzurre o
pozzi neri a seconda di ciò che tenta di mettere a fuoco nel volto di
Abigail, disegnando una mappa di punti casuali e a volte ripetuti. Incontenibili i dettagli del volto del bambino cominciano a
uscire dalle sue labbra sussurrati, frenetici, incostanti a formulare un elenco snello e ammirato: il colore
delle guance rese porpora dal calore del forno; le labbra sottili piegate in un
incerto sorriso più curioso che allegro; un neo attrae il suo sguardo sullo
zigomo destro.
“Cosa dici?”
Un dito sottile le si posa sul naso oscurandole per poco la
vista che lentamente sfoca per mettere a fuoco la punta morbida parcheggiata proprio al
centro degli occhi. Alza un po’ il mento e gli mordicchia il dito provocando
gridolini e sommesse risate che partono direttamente dal centro del petto nascosto dalla casacca bianca di farina.
“Posso farti una foto?”
Il bambino torna improvvisamente serio e, con noncuranza, si
porta la mano ai capelli scompigliandoli un po’ per poi infilarsi di nuovo il
cappello da panettiere, più grande di almeno due taglie. Fa finta di pensarci
un po’ con il dito ancora sul naso di Abigail mentre con l’altro si gratta il
mento. Dopo una lunga pausa di riflessione annuisce senza mutare di un
centimetro la sua posizione.
Ad Abigail non
importa, anzi probabilmente è proprio quello
che vuole, con la punta del naso ancora occupata dal suo dito è
felicemente costretta ad
usare la biottica nascosta nella borsa; con lo sguardo puntato nel
pozzetto
sorride all’immagine riflessa del bambino di fronte a lei, sembra
lontano ma sa
che è a pochissimi centimetri dal suo viso, così si
avvicina un po’ e scatta. Rimane
a guardare per un po’ l'ingrandimento dei suoi occhi deforme
sotto la curvatura della lente con la foto ancora fissata nello
sguorda: la
mano del bambino sul cappello premuto sulla testa; i capelli biondi che
ricadono a ciocche confuse sulla fronte; gli occhi che osservano le due
ottiche
centrali, luminosi, allegri e anche un po’ imbarazzati; il
sorriso che si
allarga nascondendo le labbra sottili e rivelando una fila perfetta di
denti bianchi traballanti nelle gengive rosee.
“Cosa guardi?”
La mano del bambino si sposta dal naso di Abigail al
pozzetto della biottica, inclinandolo leggermente verso di se e facendo sparire
in una nuvola, per di più giallo ocra, l’istantanea che abitava negli occhi di
lei. Ormai distratta, Abigail ruba il cappello al bambino e se lo porta sulla
testa allontanandolo dalle mani di lui che cercano di riprenderselo.
“Guardavo te piccolo panettiere!”
“E cosa dicevi prima?”
“Dicevo che hai le guance rosse e gli occhioni azzurri e..”
“Perché lo dicevi sottovoce?”
“E’ difficile da spiegare. Sai di avere gli occhi azzurri?”
“Sì!”
“Allora non c’è bisogno che io te lo dica ad alta voce”.
Il bambino annuisce poco convinto; Abigail è consapevole di
non esser riuscita a spiegarsi come si deve e si chiede quale sia il modo
migliore per far capire ad un bambino cosa significhino per lei in realtà quei
dettagli che per molti sembrano così evidenti. Non può dire che nei suoi occhi
ci ha visto ingenue emozioni che non ricorda di aver mai provato.
“Tu invece hai i capelli rossi e gli occhi tristi..”
“Co..”
“Egon, scendi da li, tuo padre ti sta cercando!”
Abigail ha smesso di respirare, conta i passi leggeri del
bambino che si allontana da lei saltando gli spalti di legno. Qualcuno lo
chiama ma non si gira a vedere chi è, immobile con le parole di Egon che fanno
eco nella sua testa. Sente gli occhi bruciare, vorrebbe mettersi a piangere
incapace di accettare il fatto che un bambino, nella sua ingenuità, è riuscito
a cogliere proprio ciò che Abigail tenta di nascondere con tutta se stessa. Si
chiede se sia veramente quello il problema e sa che non lo è, sa che la sua
enorme difficoltà sia accettare di avere qualcosa che non va, qualcosa che deve
essere aggiustato, rimesso a posto. Ha bisogno di parlare ma non è capace di
farlo, non è capace di trovare le parole o il momento giusto. Ma poi parlare di
cosa? Non ricorda nulla se non qualche immagine latente nella sua mente,
sopravvissuta al totale black-out per chissà quale motivo.
Aàron guarda la rossa nascondere il volto tra le gambe e
allacciare le braccia intorno al corpo, sa che non l’ha notato, non lo ha
nemmeno degnato di uno sguardo. Imre gli
ha detto che è come se vivesse in un mondo tutto suo e comincia ad avere
un’idea di quello che voleva dire l’amico. Fa due o tre gradini, si avvicina di
poco e poi si siede dandole le spalle.
Abigail alza gli occhi e li posa sulle spalle del ragazzo
che le si è seduto di fronte. Non sa chi sia nè se l'abbia notata. Si
sente quasi in imbarazzo, lì stretta nel suo abbraccio;
quando il ragazzo si gira di profilo nota lo stemma sul petto.
Ricorda una muraglia di persone che le oscurano la vista,
ricorda un paio di gambe sotto le quali sgattaiola furtiva, due braccia che
l’afferrano e la rimettono in piedi. E’ piccola, vede le sue gambe corte e le
sua mani minuscole stringere un paio di palmi enormi. C’è un bersaglio a una
decina di metri e un ragazzo di fianco a lei che stringe in una mano un arco di
legno. Sente le labbra formicolare e la gola vibrare sommessamente sotto la
spinta di un suono, carico, pieno ma leggero, un sussurro. Due dita sfregano
contro la corda tesa dell’arco, tengono una freccia dalla punta in ferro e la
coda rossa e bianca. Per un attimo, un secondo appena, il ragazzo chiude gli
occhi e respira lentamente, in quell’istante un sorriso sorge sulle sue labbra
e la freccia viene scoccata. Emette un flebile fischio mentre la punta squarcia
l’aria che avvolge anche la coda. Lui non abbassa l’arco, lo tiene ancora
vicino alla guancia, con la corda che gli sfiora uno zigomo, un occhio chiuso e
l’altro aperto che studia la traiettoria della freccia.
Lei sa che in meno di un secondo quella freccia colpirà
il bersaglio consumando la punta e rovinando l’imbottitura di sughero nascosto
dalla tela di iuta, perciò assapora il più possibile l’attimo prima
dell’impatto, il momento in cui la freccia ruota su se stessa e fende l’aria,
osserva gli occhi di tutti già puntati sul bersaglio, ascolta il loro respiro
inesistente, sospeso in un tempo che sta per arrivare. Le piace tremendamente.
Quando sente i polmoni di chi la circonda svuotarsi in
sospiri volutamente malcelati, lei si volta ad osservare il petto dell’arciere,
si concentra sullo stemma: una croce di Lorena bianca sullo sfondo rosso della
pesante tunica.
“Sei la fotografa vero?”
Aàron
la guarda per la prima volta negli occhi e lo sguardo si Abigail resta
inchiodato nel suo. Ha gli occhi chiari e i capelli
scuri, un accenno di barba sul mento e due fossette ai lati della
bocca. Il suo
sguardo è penetrante, non solo metaforicamente, lo sente scavare
dentro di
lei e non lo maschera, le fa capire che sta tentando di scoprire cosa
nasconde.
Abigail si sente stranamente a suo agio, si lascia scoprire per un
po’, curiosa
e, in minima parte, intimorita dalle iridi grige che sente andare
sempre più in profondità, le sente sulla pelle premere e
trapassare. E' sveglio, attento, diverso dagli altri nell'arena, dalla
curiosità fin troppo spinta, fa quasi male.
“Così dicono”.
Sorride. Le
è simpatica, sente di capirla complici di una voglia
imparagonabile di conoscere ciò che anche il più bravo
attore lascia sfuggire di se stesso. Aveva seguito il suo viso mentre
Vitaris la guidava per l’arena presentandole i suoi compagni;
aveva letto ogni
frase sulle loro labbra riconoscendo quella finta allegria di chi non
sa
mentire e aveva osservato il suo sguardo cercare qualcosa di più
in quelle
persone, qualcosa che non fosse finta gentilezza ma personalità.
Non le aveva
mia guardate in viso, gli aveva stretto con gli occhi le mani,
abbracciati,
allontanati; aveva assaggiato il pane e addentato una mela, era stata
più
vicina alla loro anima di quanto lo fossero mai stati loro stessi.
Imre lo aveva
avvertito disegnando a grandi linee quello che aveva avuto modo di
capire della rossa, e adesso Aàron non gli da torto, gli rimane
solamente di ripetere a mente quell'identikit ancora incompleto fatto
di frasi dirette e curiosità fameliche.
“Ti piace il tiro con l’arco?”
Abigail si tira su con la schiena e sorride luminosa, non
c’è bisogno di risposta.
***
Saaaaaaaaaalve...ho gli
occhi ancora impasticciati dal sonno e Tears in heaven nelle orecchie,
la serata di ieri sera è stata qualcosa di assolutamente
delirant, la musica combina certi incontri impossibili da credere, una
roba che amo incondizionatamente. La maglia degli Who puzza di fritto e
la camicia di flanella di mio padre è stropicciata e accantonata
in un angolo, non avevo le Doctor ma sto cavoli, ho trovato la mia
insana passione e giuro davanti a voi che se non riesco a fare qualche
diamine di cosa in quel campo appendo la macchinetta la muro e mi do al
fancazzismo barbonesco sotto qualche ponte qualsiasi di Roma.
Beeeeeeeeene, allora che dire, ho
ancora una bretella che pende dalla spalla, non so che ci fa li, non
pensavo di essere andata a letto vestita..vabè vi risparsmio
altri dettagli che sicuramente non fregao a nessuno e se vi fregano
possiamo parlarne in quel covo di sceenze che trovate qui Dream on..
se invece v'interessa il capitolo, beh tutto è dovuto ad un
bambino che ho incontrato in una situazione come questa, lui era
ungherese e non faceva il panettiere, era il più piccolo degli
arceri, ma mi piaceva il cappello da panettiere sulla testa e l'odore
di pane insieme a quello della sua pelle, beh, comunque aveva un paio
di occhietti vispi che ti trapassavano da parte a parte e si è
messo a psicanalizzarmi con delle parolini semplicissime che mi hanno
disarmata. Percià dovevo per forza inserirlo da qualche parte,
non so se si chiamasse Egon ma quel nome gli calza a pennello. Che
faccetta che aveva.
Vaaaaaaaa bene....io ringrazio chi
legge silenzioso, siete tanti, e chi si fa sentire tra like e
recensioni, tante coccole e salutate la mia beta che è sempre
presente Chara.
Lis
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Capitolo 5 *** Miele ***
5 Miele
Miele
Il polpastrello sfiora la corda arrugginita di una chitarra
color miele, il suono arriva amplificato all’orecchio di Emike che chiude gli
occhi e gira di una, due volte l’ultima chiave sulla paletta dell’acustica.
Sospira e poggia un gomito sul corpo in legno e con il palmo della mano si
sfiora il collo, poco più sù della clavicola la cinta in pelle morbida le
lascia leggeri segni rossi. Quando le sue dita scendono distrattamente a
toccare la cinta sorride e, con un’ unghia, gratta le incisioni che risaltano
in bianco sulla pelle color legno.
Emike sorride: sorride ai ricordi che le riaffiorano
spontanei nella mente; sorride quando s’impossessano totalmente dei suoi
sensi; sorride quando le immagini
appaiono chiare come se appartenessero ad un tempo da fermare a piacimento,
come fossero istantanee destinate a rimanere per sempre impresse sulla
cellulosa avorio; sorride anche quando quelle immagini si confondono, si
fondono e i ricordi diventano confuse macchie di colori e rumori e nomi. In
quegli occhioni azzurri c’è la sua storia per intero che si scrive e si sta
scrivendo anche in questo momento, si scrive mentre lei chiude gli occhi e li
riapre per osservare il ragazzo dai capelli neri che cammina al centro dell’arena,
si scrive mentre quel ragazzo si volta verso di lei e la saluta con il capo e,
quando lei sorride, quella storia si scrive nel suo sorriso diventando una nota
suonata a caso da una mano che sfiora distratta le corde di una chitarra color
miele.
Aàron è entrato per la prima volta nei ricordi di Emike la
sera in cui Imre ha bussato alla sua porta completamente ubriaco e scortato da
un ragazzo dai capelli scuri che insisteva a parlare di una camicia, di un
bancone e di un sedile in spugna su cui Imre si era messo a ridere e non aveva
smesso più fino a pochi minuti prima. Il ragazzo lo aveva preso sostenendolo
per le ascelle e depositato sul divano floreale della sala, si era seduto di
fianco a lui alzandogli le gambe e mettendosele in grembo e aveva tirato indietro
la testa con un sospiro liberatorio. Emike si era seduta a terra, sul tappetto
rosso, e lo aveva osservato. Lui si era
tolto il cappello e scompigliato la massa di capelli scuri schiacciati
sulla nuca, si era tolto la giacca in pelle lanciandola sul divano alle sue
spalle e si era guardato intorno studiando con finta curiosità il salottino.
Stufo di quel gioco si era voltato e l’aveva guardata negli
occhi. Era rimasto in quella posizione per due lunghi secondi in cui Emike
aveva tentato di entrare nelle iridi grigie del ragazzo per osservare da vicino
i suoi ricordi confusi, le sue macchie di colori. Lo ricorda in maniera quasi
maniacale, come un ossessione da curare e tenere in una teca in vetro lontana
da occhi altrui, le si è avvicinato e ad un palmo dal suo naso..
“Cazzo hai gli occhi più grandi delle palle di un toro!”
A quella distanza il grigio dei suoi occhi assomigliava
tanto alle nuvole che pochi giorni prima avevano portato solo tempesta e
sconvolgimenti, lapilli azzurri sgomitavano di fianco alla pupilla nera e
dilatata prendendosi il posto meritato in tutto quel grigio. Le alte
sopracciglia si erano inarcate e gli occhi spalancati e due fossette si erano
formate agli angoli di un sorriso meraviglioso.
Era entrato da poco meno di dieci minuti e le aveva già dato
della testa di cazzo senza alcun riserbo. Emike lo avrebbe preso a schiaffi e
cacciato di casa a calci nel di dietro se non fosse stato per la tempesta in
questione.
“Ci vivi da sola qui dentro?”
“Non proprio, Imre dorme da me ogni notte. In più da oggi mi
toccherà convivere con la tremenda puzza di idiota che ti sei portato dietro”.
Sorrideva Emike, sorrideva anche mentre gli dava del
cretino, mentre lo rimetteva a sedere e lo mandava a quel paese. Sorrideva
perché le piaceva allora e sorride perché le piace adesso. Quel ragazzo, Aàron,
dorme su quel divano da quella notte e per ogni notte successiva riempiendo
l’aria di cazzate e nuvole grigie di tempesta. Imre aveva detto che sarebbe
cambiato tutto con lui e che in un modo o nell’altro sarebbe rimasto tutto
uguale, non aveva assolutamente senso ma si era stupita quando, davanti a un
paio di occhi sbigottiti, aveva ammesso che in fin dei conti aveva ragione.
Aàron osserva Abigail camminare fra i vari mestieri con la
biottica in mano. Non alza mai lo sguardo e se lo fa è per sorridere. E’ bella,
i capelli corti rossi raccolti in una coda, un vestitino a fiori le copre le
gambe snelle fino al ginocchio, la giacca corta di jeans le affina la vita già
sottile di per sé. Ma quello che la rende bella è la sua aria sperduta, il suo
sguardo che vaga e che cerca e che trova. E’ come se non avesse limiti, come se
tutto ciò che lui ha avuto sotto il naso per anni e anni, sfuggendogli, per lei
diventasse degno di una fottuta foto. Ha sempre creduto che riuscisse a
cogliere tutto ciò per cui vale la pena perdere il sonno, c’è chi la vita la
prende con le pinze, lui ci si tuffa dentro e non trattiene il respiro, riempie
i polmoni di tutto ciò che lo porta all’annegamento. Eppure, lei, con quelle
sue foto..si può annegare anche in cose così piccole come quelle che vede lei?
Le palle di toro sono di quelle piccole cose in cui si può
annegare, se ne rende conto. Sono così dannatamente enormi, lo avvolgono, lo
soffocano e lui non riesce a tirarsi indietro. E’ uno sguardo così ingenuo il
suo, quella distesa azzurra è una calma piatta, mare e cielo sono la stessa
cosa, si confondono, l’uno diventa l’altro e l’altro diventa l’uno. Aàron prova
a trovare quella dannata linea di orizzonte ma più spinge lo sguardo a fondo
più capisce che non c’è, non esiste nulla che divida le due cose. Lei invece è
sveglia e anche furba e folle. In quella casetta minuscola, con il divano
floreale e il tappeto rosso e lampade ovunque; la chitarra color miele e la
cinta in pelle morbida, troppo morbida; le coperte immense e i cuscini,
ovunque, che ti soffocano. La pensi come una tipa confezionata, tipo uno di
quei pacchi regalo enormi, con milioni di fronzoli tra fiocchi e ghirlande e
cose così, uno di quelli che poi lo apri e quello che vedi uccide l’entusiasmo.
Odia i regali, odia le buste colorate o i bigliettini con i pupazzetti sopra,
con i loro sorrisetti allegri e le faccette simpatiche, odia tutto ciò che di
finto sovrasta il reale valore degli oggetti e delle persone. E’ uno che ci
tiene a certe cose, uno che, detto senza giri di parole, non vuole essere preso
per il culo.
Lei non è così, è uno di quei regali con i fiocchi e i
biglietti con i pupazzi dalle facce allegre che quando arrivi all’ultima
scatola rimani letteralmente senza parole. Al di là se ciò che c’è nel regalo
possa piacerti o meno lei ti sorprende comunque, mira a lasciare il segno, e lo
fa con la sua voce e la sua maledetta chitarra color miele che ti frega più di
tutto. La chitarra color miele e la cinta troppo morbida, lei le accarezza
appena quelle corde e loro, gridano, ti squarciano il petto e ti entrano
dentro. Uno ci potrebbe anche arrivare, la chitarra color miele ha le corde
troppo consumate, arrugginite e ci sono graffi, graffi ovunque e persino un
adesivo minuscolo con scritto qualcosa tipo <>; uno guarda
queste cose e pensa che magari dentro al pacco c’è una sorpresa, ma devi avere
occhio. Abigail è una che potrebbe riuscirci, lei e il suo pozzetto, certo ha
dalla sua la biottica, due occhi in più sono un bel vantaggio, il suo
sussurrare frenetico e il suo bisogno di catturare ogni dannata pulce di questo
infinito mondo; potrebbe riuscirci.
Aàron la saluta e lei sorride. Emike sorride sempre, anche
quando lo guarda dritto negli occhi e vede i lampi e sente le gocce d’acqua
cadere e distruggere ogni cosa, anche quei barlumi di cielo azzurro, lei
sorride comunque. Trova sempre qualcosa per cui valga la pena dischiudere le
labbra e mostrare i denti bianco latte.
Dorme con lei ogni notte
solo per potersi svegliare ed osservarla, senza sorriso, senza quegli occhioni
enormi aperti su di lui; è l’unico momento in cui riesce a non perdersi in lei
e guardarla per davvero.
***
Seeeeeeeeeera,
dimenticavo che fosse giovedì, cioè non è che ci
sia una data fissa per questa cosa, diciamo che pubblico quando sento
che sia ora di pubblicare e oggi, beh lo era. Mi andava di farvi
conoscere Emike, forse perchè sono in vena di quella chitarra
color miele e delle note troppo forti per una ragazzina come lei, il
suo viso è stato rubato a St. Vincent che è una donna che
amo, amo dannatamente tanto, oltre ad essere bellissima è anche
una buona musicista, non è il genere che prediligo ma non si
comandano i propri gusti.
Cooooooooooomunque
, troppe o ci sono..ho la schiena a pezzi, ho passato l'intera giornata
a cercare qualche annuncio di lavoro e a lasciare qui e là
annunci miei quindi spero che qualcuno risponda prima o poi..so che non
vi frega niente ma devo scriverlo, giusto perchè la speranza non
mi basta e chiedo anche la vostra.
Bene vi lascio che è ora di andare a cucinare.
Tante
coccole e tanti grazie a tutte quelle belle anime che provano ancora a
cercare qualcosa di sensato in ciò che scrivo.
Lis
|
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Capitolo 6 *** Sociopatia ***
5 sociopatia
Sociopatia
Dio, la terra brucia da quelle parti, raggi di sole bucano
la tenda verde che ricopre l’armeria. Enormi fornaci fondono metallo a
temperature inimmaginabili, Abigail si sfila la giacca di jeans lasciandola su
di uno sgabello in legno. E’ una che legge, legge di tutto ma in qualche modo
ha sempre trovato affascinanti, molto più di altro, quegli enormi tomi
enciclopedici sul medioevo, sull’epoca del ferro e del fuoco e della pece dai
torrioni.
Non ricorda nulla che possa spiegare quel suo innato
interesse, sa solo che sotto il letto, in camera sua, nasconde un enorme arco
di legno intagliato affiancato da una faretra rivestita in pelliccia che
custodisce febbrilmente una decina di frecce dalla punta affilata e dalla coda
piumata. In quella stanza l’arco non è l’unico cimelio di quel genere, c’è un
po’ di tutto in realtà, centinaia di oggetti che cozzano tra di loro in una
confusione di colori e odori; odore, le piace terribilmente l’odore che si
respira in quelle quattro mura della sua stanza, è odore di passato, odore di
qualcosa che è resistito alla fame insaziabile del tempo che distrugge e
ricrea, odore di qualcosa che sa di ricordi. I suoi e quelli di chi ha lasciato
la propria impronta su oggetti andati perduti e raccolti da una ragazza dai
capelli rossi alla ricerca di storie da rendere proprie.
Adora i mercatini delle pulci, quel loro sistema caotico di
ordinare i ricordi per forma o per colore o per consistenza, l’odore che le
ricorda casa e gli stessi venditori che hanno l’ aspetto sputato a ciò che
vendono. Con le loro rughe agli angoli degli occhi, gli uomini con la barba
bianca sotto il mento e il cappello sul capo, le donne con lunghe trecce grigie
morbidamente accomodate su di una spalla; profumano di tempo che ha smesso di
scorrere, di quell’eternità che resiste a qualsiasi legge fisica e non, sono
istanti catturati qua e là e resi immutabili, destinati a restare i soli
profeti di non una sola vita ma di centinaia di vite che hanno visto passare
davanti ai loro occhi.
A Parigi aveva comprato una di quelle medagliette che si
aprono, era tornata nell’alloggio e, allungata sul letto, aveva aperto il
ciondolo e scoperto una curiosa sorpresa. I precedenti proprietari avevano
dimenticato di cancellare i loro bei visi sorridenti dalle facce interne della
medaglia; due visi in bianco e nero si sorridevano rispettivamente, come
costretti dalla simmetria del ciondolo, i cardini come asse simmetrico a
dividerli o ad unirli, dipende da come si voglia vedere la cosa. In fondo è
sempre una questione di punti di vista. Abigail ci aveva visto un nome e un
indirizzo, incisi sul retro del ciondolo, e la possibilità di entrare a far
parte di una storia che l’aveva voluta coinvolgere e far cadere nella sua rete
di ricordi e vite separate.
Così aveva bussato ad una porta rosso fuoco ed era entrata
in punta di piedi in un ampio salotto, si era seduta su di una poltrona morbida
in tweed e aveva aspettato. Aveva detto di essere una studentessa e di aver
trovato un piccolissimo cimelio di quella che credeva la padrona di casa. Un
anziano signore l’aveva raggiunta poco dopo e salutata con un sorriso pieno di
gratitudine, si era chiesta perché la ringraziasse o perché durante l’intera
conversazione non aveva fatto che ascoltarla sorridendo e annuendo rilassato e
alla fine, solo alla fine, aveva capito. Gli aveva mostrato la medaglietta e
lui l’aveva presa con mano tremante aprendo le due facce e scoprendo un
contenuto che i suoi occhi avevano visto centinaia di volte, magari in quello
stesso salotto, o in camera da letto o in bagno la mattina dopo essersi
sciacquato il viso assonnato e stanco. Se l’era stretta al petto e non l’aveva
lasciata per tutto il tempo del suo racconto. Abigail non aveva staccato gli
occhi di dosso dal vecchio, si era avvicinata e dopo qualche minuto stringeva
il suo braccio con il bisogno febbrile di infondere calore ad un’anima così
viva costretta in un corpo non adatto a lei, freddo e vecchio.
Si erano scambiati gli indirizzi con la promessa di
scriversi. Le aveva lasciato la medaglietta con la richiesta di portarla sempre
con lei in modo che i suoi occhi e quelli della donna a cui sorrideva nella
foto potessero vedere ciò che non avevano avuto né modo né tempo di vedere.
Abigail lo aveva abbracciato e si era legata la catenina al collo per non
toglierla più se non per farsi la doccia.
Quella medaglietta rappresenta il bisogno di ricordi e
sensazioni e vite di cui riempirsi. L’arco e quella catenina fanno parte di lei
e lei fa parte di loro secondo una sorta di predestinazione, uno lo ha trovato
per caso, seguita da ricordi dimenticati resi sensazioni e puro istinto e
l’altra ha trovato lei, sperduta in ricordi non suoi, trovata come i topi
trovano le briciole di pane per strada, o come una persona trova l’anima che la
completa. Caso, un caso fottutamente preciso ma solamente caso.
Quando Aàron le passa l’arco quel maledetto istinto sbuca
fuori da chissà dove e riattiva meccanismi spenti da tempo e di cui,
ovviamente, non ricorda nemmeno l’esistenza. Scioglie i muscoli del braccio e
saggia il legno, il peso, le venature, sussurra il suo odore e il suo colore e
poi con lo sguardo analizza la corda e i punti di ancoraggio al legno.
“Sai usarlo?”
Abigail afferra la corda con due dita e la mette in
tensione, chiude un occhio e osserva il suo indice puntato verso la faccia
spavalda di Aàron.
“Sembra di si”
“Sembra quasi una sfida, la tua”
“Potrebbe esserlo”
“Ma sentila!”
Abigail si sente sicura con il legno tra le mani, in fondo
non è molto diverso dallo scattare una foto. Tenere stretto in pugno un
istante, lasciare la corda o il meccanismo della biottica e catturare il
perfetto centro del mirino. La punta della freccia affonda nel cerchio rosso
con precisione maniacale squarciando lo strato di compensato che esplode in una
miriade di schegge e pagliericcio che satura l’aria. Il bersaglio come un
volto, la freccia come il diaframma, l’istante come l’istantanea. Sorride
soddisfatta quando Aàron la guarda sbigottito.
Vorrebbe spiegargli volentieri come ha fatto ma non lo sa
nemmeno lei. Il suo istinto, l’occhio perfettamente in linea con la punta della
freccia, non sa nemmeno se quello che fa lo fa bene, sa solo che vuole il
centro e che deve averlo a tutti i costi, conscia dell’importanza di un singolo
istante non vuole farlo scappare via, non vuole perderlo e lasciarlo in mani di
chi non saprebbe che farsene. E’ suo e deve coglierlo, così scocca una freccia,
poi un’altra e un’altra ancora, non si fermerebbe mai, come non smetterebbe mai
di scattare, il terrore di perdere immagini e storie e occhi la fa sentire
male, vuota.
Si siede su uno sgabello alto con un boccale di birra
accostato alle labbra e osserva: la linea morbida e perfetta
spalla-gomito-polso; il collo in tensione; le mano stretta attorno al legno
possessivamente, le dita accarezzano le venature e si fermano sul nodo
centrale, l’indice si lega attorno allo spessore dell’arco e forma una base
d’appoggio per il corpo della freccia; Indice e medio tendono l’arco e sfiorano
la coda del dardo, le piume gli accarezzano la guancia, lo zigomo sporgente di
Aàron s’imporpora di esitazione; gli occhi fissi sul bersaglio si chiudono nel
preciso istante in cui la freccia fende l’aria. Abigail si copre la bocca con
una mano smorzando quel sussurro che le esce dalla gola troppo acuto. Il cuore
le batte frenetico nel petto, l’adrenalina scorre nel sangue e gli occhi
diventano due pozze nere.
“E’ sempre stato il migliore e il bello è che non sapeva
nemmeno di esserne capace. Un giorno ha preso l’arco e ha cominciato a provare,
il giorno dopo non sbagliava un colpo, il cerchio al centro è una sua
esclusiva. E’ l’unico momento in cui quel diavolo chiude gli occhi e si
abbandona ad una pace che credo il suo corpo non abbia mai avuto modo di
conoscere.”
Abigail non ha bisogno di voltarsi, riconosce il suono della
voce di Imre a pochi centimetri dal suo orecchio, il suo respiro le sfiora la
guancia e si mescola al sussurro che senza sosta squarcia millimetri d’ aria
intorno alle sue labbra.
“Quando chiude gli occhi, è come se smettesse di piovere
nelle sue pupille, lo sguardo diventa limpido. Ecco guarda, poco prima di
chiudere gli occhi..hai visto?”
Si volta e guarda Imre dritto negli occhi.
“Non stavi guardando”
Non è un rimprovero solo un’osservazione. Imre conosce lo
sguardo di Aàron, ha osservato per anni quei nuvoloni grigi caricarsi fino a
scoppiare e riversare la loro forza nel corpo dell’amico, sa di come le sue
mani tremano incapaci di contenere quell’immensa scarica di energia, c’era
quando Aàron decideva di rincorrere qualcosa solo per il gusto di non
lasciarselo sfuggire.
Rincorre la vita, in tutte le sue forme, la rincorre fino
allo sfinimento, fino a cadere riverso a terra senza più nemmeno la forza di
respirare. Vive fino a rischiare di uccidersi ma si salva sempre, nell’attimo
in cui la tempesta sta per esplodere nei suoi occhi, nell’attimo in cui il
fulmine sta per squarciare le pupille nere, la pioggia comincia a scendere e a
scaricare quegli ammassi grigi di nuvole che rimpiccioliscono fino a diventare
piccole macchie indistinte.
Ciò che non conosce Imre sono gli occhi di Abigail, grigi
come quelli del suo amico ma nemmeno lontanamente paragonabili, come due mondi
estremamente simili ma profondamente diversi. Quando lei punta gli occhi su di
lui si sente strappare dal petto qualcosa, come se con quel suo sguardo
scavasse lentamente in lui. Riesce a vedersi, vede il suo viso fissare beota le
iridi di lei, si specchia e si accorge di non essersi mai guardato per davvero
in vita sua, nota cose che non sapeva nemmeno di avere.
Poi capisce. Quando Abigail sussurra il suo nome e lui
abbassa lo sguardo sulle sue labbra, solo per un secondo, un piccolissimo
secondo, si rende conto che il suo riflesso negli occhi della ragazza è la somma
di ciò che lei vede in lui. Parole sussurrate, messe a caso, senza il ben ché
minimo ordine. Prima il naso, poi le orecchie, poi il colore della sua pelle e
dei suoi capelli, il suono della sua voce e poi le sue vibrazioni. Vibrazioni?
Che diamine sono le vibrazioni? Si guarda la mano che tamburella contro la
gamba il ritmo delle parole di Abigail e capisce di che diavolo di vibrazioni
parla.
La stronza! Quella fottuta stronza!
“Che stai facendo?”
“Scusa?”
“Non sei idiota, hai capito. Guardami e dimmi che stai
facendo.”
Abigail sorride. Guardami, come se non avesse fatto altro da
quando l’aveva presa all’aeroporto e trasportata in quel posto uscito dalle
scatole dei cereali per bambini. Guardami, come se i suoi occhi non fossero ad
un centimetro dal suo naso in cerca dell’unica storia che Abigail sa di non
poter lasciarsi sfuggire. Guardami, come se ci fosse realmente bisogno di
chiederglielo. Ma obbedisce, lo guarda, una volta, due, lo guarda ancora fino a
quando le sue labbra smettono di sussurrare e lo sguardo di lui si sposta negli
occhi di lei.
“Perché hai smesso?”
“Di fare cosa?”
“Di sussurrare come una dannata parole senza senso.”
“Non sono senza senso.”
“Lo sono per chi ti guarda e non capisce quello che dici.
Sembri sociopatica.”
“Sarei sociopatica?”
“Sembri, ho detto sembri.”
“E tu sembri un po’ troppo sicuro di te Imre, cos’è che ti
fa parlare con così tanta sicurezza?”
“Dico solo quello che pensano gli altri.”
“Gli altri.”
“…”
“Tu cosa pensi?”
“Non importa quello che penso io.”
“Però dovrei tenere conto di quello che dicono gli altri..”
“Non ho detto questo!”
“No tu hai detto esattamente questo.”
“Senti, sono solo curioso. Parli da sola e non fai altro che
scattare foto.”
“Si da il caso che io sia fotografa. Sai no? Quei tipi
strani che vanno in giro con un aggeggio diabolico dalla forma strana e che non
fanno che scattare, scattare, scattare..”
“Hai capito cosa intendevo.”
“Fai le domande sbagliate Imre.”
Imre vuole solo che parli, vuole dare il testo a quel ritmo
di sussurri che le esce dalla gola, le aprirebbe la bocca e le infilerebbe un
braccio per l’esofago, le strapperebbe le parole direttamente dal diaframma,
dove nasce quel suono cantilenante, e la costringerebbe a trasformare le sue
cazzo di foto in fottute parole.
E questo solo perché vuole farle provare la sensazione di
essere stati scoperti, di aver smascherato la sua insensata ossessione e
disarmarla. Vuole disarcionarla e metterla con le spalle al muro per un
confronto alla pari. I suoi sussurri con le sensazioni che lo uccidono e che si
trasformano in vibrazioni.
Tutto solo perché non è stato capace di trattenere il
maledetto bisogno di tamburellare le dita sui jeans sbiaditi.
***
Io
sono troppo, e quando dico troppo intendo veramente troppo, stanca. E
devo stirare, e lavare i piatti, e mettere a posto casa, e mi sa che
non lo faccio..mi metto a letto e leggo un libro, con i piedi sul muro
e le gambe per aria, giusto per aiutare il pranzo a risalire su..giusto
perchè non ce la faccio veramente nemmeno a muovere un passo. Ho
perso il ritmo ed è solo il terzo giorno.
Bien,
per una volta sono tutti e tre insieme, cioè prima solo Abi e
Aàron ma poi risbuca anche Imre. Sono legata a quel ragazzo come
con nessun altro, so che lo dico spesso dei miei personaggi, ma Imre
rispecchia molti lati delle persone che mi girano intorno che ho
assorbito e resi miei, nel tempo. Le sue manie, la sua musica, sono
tutti ricordi o sensazioni, quel ragazzo è nato da un qualcosa
assolutamente indefinito, come Abi, infatti si completano quasi.
Realtà e finzione mischiati insieme, non so
se esserne spaventata o incuriosita.
Bien, io mi eclisso, vado a bere un pò d'ace e finisco di vedere New Girl, geniale, davvero troppo geniale.
Tante coccole.
Lis
|
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Capitolo 7 *** Vuoto ***
6 Vuoto
Vuoto
Ha i capelli incollati al viso, completamente bagnati,
gocciolano acqua e le inondano gli occhi, riempiendoli di lacrime dolci. Non ha
freddo, resta seduta sul legno scuro e dall’odore pungente, raccoglie gocce di
pioggia sui palmi e le fa scolare giù dalla punta delle dita. Osserva il loro
movimento fluido, si scompongono e si ricompongono e poi svaniscono nella pozza
ai suoi piedi.
Quell’immagine che si ripete nei suoi occhi, come un nastro
riprodotto, stoppato e rimandato indietro all’infinito. Sempre gli stessi
frame, sempre lei a terra, in una pozza d’acqua.
E’ una bambina, ha i
capelli biondi e mossi che le ricadono morbidi sulle spalle. Stringe tra le
braccia un batuffolo di pelo di cui non ricorda il nome, in realtà non ricorda
di aver mai avuto un cane. Parole confuse le riempiono le orecchie, la disorientano
e la fanno sentire sola in un mare di rumori sconosciuti che non fanno altro
che tentare di entrarle dentro, le scavano i timpani, premono contro il nervo
acustico e, pur di arrivarle in testa, sfondano il cranio e dilaniano i
tessuti.
Non riesce a mettere
ordine a ciò che sente, non riesce a dare un volto a nessuna di quelle maschere
che i suoi occhi continuano a farle vedere. Le fa solo male la testa. Un rivolo
di sangue le colora i capelli di rosso. Si preme le orecchie e la stoffa del
cappuccio le ovatta l’udito, il muso del cane esce dalle sue braccia e la
guarda spaventato. Le voci non vanno via, rimangono lì, parlano tutte insieme,
non si danno ordine, vorrebbe urlare che non le capisce, che non riesce ad
ascoltarle ma quando apre bocca ne esce solo un flebile sussurro.
E’ spaventata, tanto
da non riconoscere più gli odori o i colori, non sente nemmeno le gocce d’acqua
bagnarle la felpa. E’ tutto dannatamente troppo grigio, come le sue iridi; è
tutto maledettamente arido e piatto come la sua mente. Quando apre gli occhi un
enorme gocciolone le cade su una guancia, lo sente freddo sulla pelle calda e
con la punta della lingua lo cattura e c’ innaffia la gola secca. E’ piacevole.
Alza gli occhi al cielo e lascia che la pioggia le inondi il viso.
Dischiude le labbra,
quel che basta a far scivolare alcune gocce sulla lingua. Ne conta una, poi
un’altra, arriva a dieci ma poi diventano troppe da poter essere contate così
smette di pensare numeri. Chiude di nuovo gli occhi e ascolta silenziosa l’eco
lontano di un battito costante e frenetico. Mano a mano che lei si avvicina al
ritmo le voci spariscono, si attutiscono sovrastate da quel suono appena
sussurrato ma che le rimbomba nelle orecchie. Respira a pieni polmoni, aria
pulita, aria che sa di asfalto bagnato e terra umida. Annusa e osserva come il
cucciolo che nasconde tra le braccia, come se fosse la prima volta, come se
fosse tutto da riscoprire.
La pioggia le
bisbiglia alle orecchie il ritmo delle parole che lei prova a pronunciare.
Sente qualcosa vibrare in fondo all’esofago, sente la gola pizzicare e la
lingua premere contro i denti e il palato, gli occhi si spalancano quando dalle
sue labbra esce un sussurro. Un sussurro definito, che sa di qualcosa di
materiale, qualcosa che può toccare o vedere o sentire. Pronuncia il suo nome,
lento, lo assapora e ne studia il suono. Lo indossa con timore come se avesse
paura di non essere adatta per lui. A-b-i-g-a-i-l. Non sa se sia quello giusto
sa solo che se lo sente addosso come quella pelle troppo bianca che le ricopre
la carne viva.
Si guarda ancora i piedi Abigail, a distanza di anni non
riesce a dimenticare la sensazione di nascere per la prima volta, o rinascere.
Essere sopraffatta dai propri sensi, provare a tradurre i propri pensieri in
parole. Ha sempre trovato strano quel vuoto al centro del petto, sa che ci sono
dei meccanismi che agiscono per lei mossi da pura e semplice inerzia, conosce
il suono delle parole perché qualcuno le ha spiegato come riconoscerlo, sa
distinguere i propri sensi, capirne l’origine e svilupparli e sa cosa leggere
negli occhi delle persone. Non sa perché, come l’arco, tira frecce e colpisce
il centro spinta solo dall’istinto. Le resta solo prendere ciò che sa e sfruttarlo
il più possibile, spremere ogni minima conoscenza per cercarne di nuove. A
volte però il vuoto ritorna, le sfonda il petto e la lascia senza respiro.
Con il vuoto però torna anche la pioggia e il grigio delle
nuvole si specchia negli occhi di Abigail e le regala il suo sussurro, il
sussurro di un cielo in tempesta che potrebbe distruggerla ma decide di
graziarla riempiendole gli occhi di piccolissime gocce come sillabe, come
minuscoli pulviscoli di ricordi che si sciolgono e si fondo tra loro ricreando
l’immagine di quella bambina seduta sull’asfalto grigio di una strada senza
nome e con un cane tra le braccia.
Abigail non ha bisogno di dire nulla, si porta le gambe al
petto e lascia che la pioggia faccia la sua lista, elenchi ciò che ogni goccia
le imprime in quel composto di H₂O. Lascia che siano i suoi sussurri a
riempirle il vuoto e a zittire le voci.
Imre la guarda sotto il tendone dell’armeria. La pioggia le
cade copiosa sui vestiti ma lei continua a starsene seduta con le gambe
attaccate al petto e la schiena poggiata al palco in legno. E’ così piccola,
una macchiolina rossa letteralmente in un mare di gocce d’acqua. La osserva
alzare il viso e dischiudere le labbra ferme, il mormorio sempre presente su
quelle colline morbide è sparito, custodito morbosamente nel suo petto.
“E’ strana”
“Lo è”.
“Va da lei.”
Imre si gira verso l’amico e lo guarda negli occhi. Lui è
serio, fottutamente serio, il sorriso si è trasformato in un ghigno di
superiorità, come quello di chi ne sa una più del diavolo e lui ne ha sempre saputa
qualcuna più del diavolo. Lo aveva preso per il culo più di una volta quando
già lo teneva per la forca e pregustava quel beneamato momento e lui,
all’ultimo, apriva gli occhi e gli alzava il dito medio rimandando la visita a
miglior vita. Aàron si volta verso la macchiolina rossa sugli spalti e la
osserva curioso.
“Non la capisco.
Probabilmente è per questo che è così interessante; guardala, è tutta appallottolata in quella
felpa verde, completamente fradicia, non sai se ha bisogno di starsene da sola
o se spera che qualcuno la noti e la vada a recuperare.”
“Non credo sia così, di quelle che cercano di attirare
l’attenzione su di se. L’hai vista, vive tra le nuvole, quando ti guarda i suoi
occhi sono tipo, boh, allucinati.”
“Quella si fa pesante di immagini te lo dico io! Hai visto
come guarda le persone? E’ sempre un passo avanti a tutti, coglie sempre quella
cosa che..che le dice chi sei. Come fa?”
Imre le aveva fatto la stessa domanda ma lei gli aveva
gentilmente sorriso e negato la risposta. Si era chiesto quali fossero le
domande giuste di cui parlava, le domande
sono domande si era detto. Poi l’aveva seguita con lo sguardo tutto il
giorno rischiando di essere ripreso più volte da Vitaris, non si era mai tirata
indietro per nulla, correva per tutta l’arena cercando di non farsi scappare
quelli che per lui inizialmente erano momenti scontati, perché ormai
consolidati nella sua testa, come l’abitudine di certi gesti; aveva osservato
silenziosa i volti delle persone con le labbra che si muovevano
impercettibilmente, l’aveva vista parlare solamente alla fine, quando il
sorriso le toccava le guance.
“Aspetta Aàron, sa benissimo quando è il momento di parlare
o fare domande. Perciò sussurra tutto il tempo, l’hai vista no? Ti legge
l’anima e quando ha finito te la spalma in faccia come fosse marmellata”.
“Perché non vai da lei?”
Glielo legge in viso, c’è qualcosa in tutta quell’acqua che
la tranquillizza. Permette a quelle gocce di avvicinarsi e infrangersi sulla
sua pelle, che immagina calda e morbida, senza che senta l’impulso
irrefrenabile di conoscerla, studiarla. Cerca di capire cos’ha la pioggia che
gli altri non hanno, cosa le da l’immenso privilegio di sfiorarla. Le braccia
di Imre s’intrecciano sul petto e le dita sfiorano il tessuto ruvido della
casacca. La pioggia scende copiosa, enormi goccioloni scavano il terriccio
friabile formando enormi pozze di fango. Imre chiude gli occhi e ascolta il
suono della goccia che cade, s’infrange e sparisce in silenzio come se non
fosse mai esistita. Una, due, in un ritmo crescente che da silenzio diventa
suono e da suono torna silenzio. Ha sempre trovato meravigliosa la pioggia, il
suo miracoloso potere di sovrastare ogni altra singola onda sonora, dal
sussurro di un bambino allo scoppio dei motori. Nulla ha ragione di esistere
davanti alla sua forza, c’è solo da guardarla scendere dal cielo e bagnare ogni
centimetro di terra esposto a lei. Per Imre significa smettere di cercare suoni
ovunque pur di sopravvivere al caos di sensazioni che lo circondano, seppur per
quel minimo tempo che una goccia impiega a staccarsi dal cielo e cadere ai suoi
piedi. La pioggia è un ritmo che non ha bisogno di ricercare, il suono è nella
sua composizione, affianca quelle molecole d’idrogeno e di ossigeno, invisibile
ma percepibile.
Invisibile ma percepibile, come i sussurri di Abigail. Imre
spalanca gli occhi puntando le iridi scure sul viso della ragazza, lo sguardo
tutto incentrato sulle sue labbra immobili. Se la sua musica non ha ragion di
esistere davanti al meraviglioso suono della pioggia nemmeno i sussurri di
Abigail hanno motivo di animare le sue labbra davanti a quell’ impercettibile e
veloce rincorrersi di gocce.
Non potrebbe stare meglio, non ha bisogno di niente e
nessuno, a meno che non si chiami pioggia e sia fatto di molecole d’acqua e
suoni.
“Perché non è il momento giusto.”
Imre la guarda per l’ultima volta dandole poi le spalle con
l’enorme desiderio di mettere fine a quella lunga giornata.
“Imre..”
“Che c’è?
“A che gusto era?”
“Cosa?”
“La marmellata!”
Imre ascolta la nota divertita nella voce dell’amico e in
tutta risposta, e con una grazia che non gli è mai appartenuta, alza il dito
medio nella sua direzione.
Abigail ha intercettato il suo sguardo e per un attimo non è
stata capace di sfuggirgli, totalmente ancorata alle iridi nere e profonde di
Imre, cariche di consapevolezza. Sente il desiderio che ha di capirla, sente le
sue dita sfiorargli la guancia e fermarsi sulle sue labbra immobili, come
bloccate nel bel mezzo di un respiro. Imre sembra capire perché è li sotto a
prendersi la pioggia, glielo legge in faccia, negli occhi. Le sue dita strette
nell’incrocio delle braccia sul petto, non raccolgono più suoni, non cercano
più nessun ritmo.
Anche loro, come i suoi sospiri, sono sostituite dalla pioggia.
***
Buongiooooooooooooorno
io mi ero tranquillamente dimenticata di pubblicare cosa che sta
succedendo un pò troppo spesso, il che forse è positivo
significa che sono sempre impegnata a fare altro sia fisicamente che
mentalmente o forse sto diventando solo vecchia, a vent'anni. Oggi
giornata di cucina a casa mia quindi ho il tempo minimizzato, giusto
per capire dove sono e come mi devo muovere. Sto ancora dormendo, la
doccia mi ha decisamente mozzato le energie. Poi ieri il caro David mi
ha tenuta sveglia fino alle tre con il suo Inland Empire, quindi,
carburiamo e andiamo avanti.
Grazie alla beta Chara
che sta sempre lì a farmi la parte perchè dimentico
sempre qualche accento su una i qualsiasi e perchè ha gli ormoni
completamente sballati che mi fanno crepare dal ridere, loro. (-.-)
E poi grazie a voi che anche silenziosi ci siete sempre.
Tante coccole.
Lis
|
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Capitolo 8 *** Vernice blu e miele ***
8 vernice blu e miele
Vernice blu e miele
Ad E.
Perchè la grafomania
è uno stile di vita.
“Imre ma che hai? Ho sonno porca miseria!”
“Io esco.”
“Scusa?”
“Non riesco a dormire, ho bisogno di uscire, di prendere un
po’ d’aria!”
“Ma se sono le tre di notte, dove vorresti andare?”
“Non lo so.”
“Imre, so che se ne avessi avuto bisogno già me ne avresti
parlato ma..sei sicuro di non voler compagnia?”
Vorrebbe guardarlo negli occhi ma le sue iridi nere si
confondono con l’oscurità che avvolge le quattro pareti della stanza di Emike.
“Si Em, ne sono sicuro. Grazie.”
Si avvicina e le posa un leggerissimo bacio sulle labbra, le
sorride e poi sparisce nel buio della notte.
Al piano di sotto Aàron ha il sonno leggero e il bracciolo
del divano gli sta spezzando il collo. Ha sempre trovato irritante il fatto che
Imre possa dormire su con Emike, sul materasso morbido e con addosso le milioni
di coperte colorate che l’amica cambia praticamente ogni settimana a seconda
del colore con cui viene dipinta la parete di fronte al letto. Ha una dannata
fissazione per quella parete, la mattina si sveglia e se vede che quel colore
non le va bene, lo cambia con un altro; passa ore a guardare il muro,
impassibile, con le gambe incrociate e i gomiti poggiati sulle ginocchia. Dice
che se una mattina si sveglia con il giallo in testa non può assolutamente
accettare il fatto che la parete sia verde, dice che è una questione di umore.
Dei passi sulle scale lo destano del tutto, così, irritato e
rassegnato, si mette a sedere e nasconde la faccia sotto le coperte. Qualcuno
gli passa accanto e prende una giacca dall’attaccapanni. Tira fuori un occhio
dal lenzuolo e osserva Imre spingere la maniglia in basso e chiudersi la porta
alle spalle.
Il suo sguardo allora va alle sue spalle, ai pochi gradini
che lo distanziano dalla camera da letto, dal materasso morbido, dalle coperte
colorare; da Emike. Ogni mattina, quando Imre è già uscito da un po’, Aàron
sale silenzioso quei dieci gradini di legno colorato, spinge la maniglia e
senza fare il minimo rumore s’inginocchia e si siede sui talloni ad un soffio
dal volto di Emike. La osserva dormire e ascolta il suo respiro. Quello è uno
dei momenti che più gli piacciono, con il cuore in gola allunga un dito nella
sua direzione e ogni dannata volta si ferma a pochi millimetri dalla sua
guancia, ha paura di svegliarla, ha paura di non poterla più guardare. Ogni
mattina la trova sempre lì per lui, con le ciglia lunghe a nascondere i suoi
occhioni azzurri, con le labbra rosse leggermente dischiuse e rilassate e con
la coperta che le scende sui fianchi e le lascia scoperto il busto.
Non c’è mattina in cui non spera che lei si svegli e lo trovi
lì alla distanza di un respiro, il respiro di Emike, dalle sue labbra.
Si toglie le coperte di dosso e si alza puntando un piede
nudo sul primo gradino. Ricorda ancora lo sguardo di Emike quando le aveva
chiesto se poteva starsene sul divano per quella notte e per quelle a venire.
Aàron viveva in casa con sua sorella, la sorella che non c’è, che è partita per
inseguire i suoi sogni, o almeno è questo che dice lei, per Aàron la verità è
che è partita per inseguire i soldi di mamma e papà e un biondino dalle chiappe
flosce che aveva conosciuto in uno stage a Boston. Per lui quella casa è troppo
grande, con le sue pareti bianche e i mobili anonimi, spogli. Non è tipo da
dormire su un divano a fiori o in una casa delle bambole ma l’aria che si
respira in quelle quattro mura è diversa, sa di occasioni e indipendenza. Aveva
frequentato l’università per un paio di anni e prima di mandare all’aria i suoi
piani di studio o quelli dei suoi genitori, la differenza all’epoca gli
risultava inesistente, aveva vissuto in una camera con un imbecille epico; a
prima vista lo aveva trovato un tipo a posto ma dopo la prima settimana già non
sopportava la sua totale incapacità di rapportarsi con le persone. Era uno di
quei tipi dalle ossessioni maniacali, uno di quelli che lucida i propri trofei,
un perfetto figlio di papà con la puzza sotto il naso e senza palle. Si era
rotto il naso durante il tentativo di difenderlo da un gruppo di bulletti da
superiori che volevano fare la pelle all’imbecille, non lo aveva nemmeno
ringraziato.
Con quell’episodio aveva detto addio a qualsiasi futuro
coinquilino, ciò che contava era farcela da solo, fanculo i suoi e fanculo gli
altri. Aveva perso due anni dietro dei sogni che non gli appartenevano, la
verità è che lui era nato per qualcosa e doveva trovare quel qualcosa con tutte
le sue forze. Si era trasferito nella casa vuota dei suoi e aveva vagato a
lungo da solo per quel paese fino a quando non si era scontrato con Imre in
quel pub in centro.
La stessa notte in cui Imre lo aveva portato davanti alla
porta rossa di una sconosciuta, aveva dormito sul suo divano e si era svegliato
con l’odore dei piedi del suo nuovo amico a un palmo dal naso. Cercava il bagno
per svuotarsi la vescica di tutto l’alcool che si erano scolati la sera prima
perciò era salito al piano di sopra e aveva aperto la porta scoprendo Emike
addormentata nel suo letto. E la parete blu, tutto era cominciato con la parete
blu.
Imre lo aveva trovato in camera di Emike che fissava quella
parete. Lo aveva affiancato e, con una mano sulla sua spalla, gli aveva
spiegato la storia del colore che cambia ogni settimana, a volte anche due
volte a settimana a seconda dell’umore della mora. Allora lo aveva guardato in
quei suoi occhi neri e con il cuore in gola gli aveva detto che avrebbe voluto
vedere quella parete cambiare ogni settimana, avrebbe voluto essere lì solo per
guardare Emike prendere un pennello e dipingere il muro dei colori dei suoi
ricordi. Si era detto che era qualcosa per cui valeva la pena vivere e perdere
tempo, un fatto talmente strano da non poter essere nemmeno raccontato.
La mattina dopo era di nuovo sul divano destinato a dormire
lì fino a quando non lo avrebbero cacciato via e, con gli occhi ancora mezzi
chiusi dal sonno, aveva fatto le scale guidato da qualche nota strimpellata a
caso e l’aveva trovata seduta sul letto con il viso sporco di giallo e le dita
incollate alle corde arrugginite di una chitarra color miele.
Poggia il palmo della mano sulla maniglia, respira appena.
Ricorda ancora gli occhi di Emike gonfi di lacrime, le
guance arrossate e le gambe nude ricoperte di parole. Lui, in piedi, con una
spalla poggiata sulla cornice di legno verde della porta, l’aveva guardata a
lungo incapace di trovare il coraggio di rompere quella dannata parete di vetro
sempre in mezzo a dividerli. Sarebbe bastato un battito di ciglia o un respiro.
Avrebbe potuto semplicemente riempire i polmoni d’aria e respirare. Invece era
rimasto sulla soglia a guardarla piangere, con gli occhi di lei puntati nei
suoi e il suo dannato sorriso sulle sue labbra rosse. Aveva sentito la sua
musica rotta dai singhiozzi. Dio santo era come se il cielo si fosse sciolto
nei suoi occhi riversandosi in quel mare azzurro di cui non si vedeva
l’orizzonte e rivoli di acqua salata straripassero dalle palpebre scivolandole
sulle guance e inumidendole le labbra. Era bella, bellissima, distrutta dalle
emozioni, sopraffatta da un colore, un banalissimo colore giallo pulcino. Aàron
l’aveva guardata negli occhi e aveva tremato sotto la forza delle centinaia di
ricordi che le riempivano lo sguardo, ricordi senza fine di uno sguardo senza
fondo. Lei era viva, viva davanti a lui, con gli occhi bagnati, la sua musica
tra le mani ricoperte di giallo e le gambe totalmente scritte. Viva e
sopraffatta da quella troppa vita che le scorreva nelle vene, come un grosso
paradosso, come le sue lacrime e il suo sorriso.
Quel giorno Aàron era stato spettatore immobile del big bang
di ricordi scoppiato negli occhi di Emike. Stanotte Aàron vuole rompere il
vetro e diventare parte di quell’enorme ammasso di energia, per esplodere con
lei e vivere, vivere per davvero anche se solo per una notte sola.
Emike prova a richiudere gli occhi e a cullarsi nelle
coperte soffici ma il vuoto lasciato da Imre sembra pesarle più del solito. Fa
freddo, la pioggia scende ancora copiosa, quelle coperte dovrebbero tenerla
calda eppure è coperta di brividi. Accende la lampada a forma di fungo di
fianco al letto e lunghe ombre si stendono sulle pareti completamente bianche,
fatta eccezione per quella macchia di colore di fronte al letto, il muro oggi è
blu. Di nuovo, come quella notte.
Emike scende dal letto, i piedi scalzi avanzano lenti sul
pavimento ricoperto di tappeti, da quello rosso a quello verde e da quello
verde a quello blu di fronte alla SUA parete. La sfiora con l’indice.
Quella parete è sempre stata il collegamento diretto tra i
ricordi di Emike e il mondo reale, come una specie di porta temporale tra
presente e passato, qualcosa che la riuscisse a mantenere più di qua che di là
dove i ricordi l’avrebbero divorata, riportandola indietro come un corpo vuoto
e privo di vita. Vita intesa come ricordi, ricordi di volti, ricordi di
sensazioni, ricordi di qualsiasi cosa si possa ricordare, immagazzinare,
mettere in un cassetto fino a quando non si riempie. La mente di Emike è una
specie di infinita biblioteca custodita gelosamente da un paio di iridi senza
orizzonte capaci di avvicinarti come il canto di una sirena e di non riportarti mai più indietro, per sempre
perso in un mare che è cielo e in un cielo che è mare.
Ogni volta che un cassetto si riempie la confusione di
colori e sensazioni diventa insormontabile; ogni volta che un cassetto si
riempie Emike smette di respirare, sopraffatta dall’enorme quantità di vita che
le scorre nelle vene e che ha passato a raccogliere durante ogni dannato
secondo, giorno o anno. E così nella sua mente tutto diventa blu; il blu della
notte, quello senza fine, quello dove le stelle sono solo puntini lontani come
macchioline indistinte che spingono il suo sguardo sempre più giù fino a quando
non si rende conto di essersi persa. Quel blu così profondo, senza limiti,
senza orizzonte.
Ogni volta che un cassetto si riempie Emike è incapace di
contenerlo, prova a chiudere gli occhi e smettere d’immagazzinare ricordi ma
non ci riesce, smettere di cercare la vita nella vita non è facile, è come
cercare di smettere di fumare con l’unica differenza che chi prova a
disintossicarsi dalla vita finisce per cadere riverso a terra senza un’anima
con cui alimentare il corpo. Così lei si lascia esplodere.
Piange per ore nella sua stanza fino a quando, continuando a
piangere, non sente l’enorme bisogno di cambiare il colore di quella parete e
allora prende la vernice e la dipinge del colore del nuovo cassetto. E
scompaiono le stelle, scompare quell’infinita distesa blu notte e le lacrime si
riversano all’interno del vecchio cassetto. Come ricordi distrutti, ricomposti
e riordinati in modo da poter chiudere il cassetto e aggiungerlo agli altri. E
lei sorride, sorride per il sollievo, sorride mentre le ultime lacrime le
rigano ancora copiose il volto.
Aàron.
Aàron l’aveva vista, macchiata di giallo, sconvolta dalle
lacrime e con il sorriso sulle labbra. Poteva fare di tutto ma non si era
mosso, era rimasto fermo a guardarla. Sembrava che avesse capito cosa le stesse
accadendo, sembrava che fosse sopraffatto dalla stessa forza che le cresceva
dentro e le divorava il respiro. Non aveva mai staccato gli occhi dai suoi e si
era stupita quando era stata costretta ad ammettere che ne aveva bisogno.
Si avvicina alla porta e posa la mano sulla maniglia.
Adesso, quando spinge in basso la maniglia, non si stupisce
del bisogno di scontrarsi con il suo sguardo; adesso, quando tira la porta
verso di se, non si stupisce del desiderio delle sue braccia attorno al suo
corpo e delle sue mani sulle sue guance; adesso, quando davanti a lei c’è
Aàron, non si stupisce della voglia indicibile delle sue labbra, che immagina
morbide e calde e sulle sue.
Aàron si scontra con lo sguardo azzurro di Emike, ha gli
occhi lucidi e la canottiera con gli elefanti calata su una spalla, le gambe
nude e snelle si muovono nel buio della camera, la sua pelle perla è liscia e
calda. Sulla soglia il vetro freddo e invisibile li separa ancora, i loro
respiri arrivano smorzati alle orecchie dell’altro come disturbati da
un’interferenza; quella del fottuto vuoto che li divide.
Un suono assordante rimbomba nella stanza, apre un varco nel
vuoto e arriva alle orecchie di Aàron, quando Emike si avvicina e posa le mani
sul suo petto. Il suono di qualcosa che infrange le proprie barriere, un suono
che diventa silenzio, silenzio che rompe i timpani, silenzio che ti strappa il
respiro.
La stringe fra le braccia incapace di lasciarla
allontanarsi, ormai è li, per una dannata notte è li fra le sue braccia, per
una, una sola notte, può stringerla, sfiorarla, prenderle il volto fra le mani
e guardare oltre quel sorriso che non abbandona mai il suo viso.
Per quella notte, questa notte, Aàron bacia quel sorriso. Le
labbra di Emike sono morbide e calde e buone e le vuole con tutto se stesso. Le
vuole adesso come non le ha mai volute in quelle mattine in cui la osservava
dormire e le ha adesso come non le ha mai potute avere: sul materasso comodo;
con le coperte colorate di Emike; con la parete blu che incombe su di loro come
quella notte. Adesso però Aàron non è sulla porta a guardarla, è con lei, è in lei, è lì per lei e per quella
dannata voglia di vivere che devasta i loro sensi portandoli in fin di vita, in
quell’istante dove entrambi smettono di respirare e prendono per il culo il
diavolo.
La pioggia cade lenta dal cielo ungherese. Lacrime salate
sgorgano silenziose dalle palpebre di Emike. Un sorriso si disegna nitido sul
suo volto. Questa volta non è sola.
***
Torno a pubblicare
dopo, beh dopo un bel pò. C'è stato un piccolo momento di
demoralizzazione, non riuscivo nemmeno più a scrivere, non so
voi ma di solito mi capita quando ho la mente continuamente operativa,
quando ho continui cambiamenti, giornate piene e insomma, non riesco
mai a mettermi seduta e trovare la voglia di sfogarmi, perchè
non ne ho bisogno. E quando scrivo mi sfogo, tanto, mi sfogo e mi
svuoto, ieri sera ho riaperto word e ho scritto per due ore senza sosta
e quello che ho tirato fuori è qualcosa di diverso che mi
mancava.
Loro invece sono
fluff, fluff in tutto, Emike lo è anche nella mente e neglio
occhi e nelle labbra, io adoro questa ragazza come sono perdutamente
innamorata di Aàron, credo che se esistesse nella realtà
così come io lo immagino nelle mia mente sarebbe il mio ragazzo
ideale, cioè quello che mi farebbe perdere la testa, uno
più curioso di me vorrei davvero trovarlo e vedere che ci esce
fuori. Non so, è come se passassi il mio tempo ad interessarmi
di ogni piccolo dettaglio di una persona e al contempo sperassi che
quella persona si dimostri interessata a me anche solo un briciolo di
quanto io faccia con lei. Poi io sono curiosa, dannatamente curiosa e
so che morirò di questo.
Va beh, bando alle
ciance, io ringrazio come sempre chi legge silenzioso, seguendo,
preferendo e ricordando. E ringrazio La beta che agita i pon pon e urla
il mio nome per incitarmi a scrivere, le mando i capitoli di notte
fonda, porella non vorrei mai essere al suo posto...comunque lei scrive
una roba pazzesca, so che siete pochi ma confido su di voi, sapete
quanto sono ossessionata dalla musica quindi vi consiglio di andare di
volata a leggervi questa roba qui.
Giuro che non ve ne
pentirete, cioè io la amo come poche storie e vi confido che
è la prima volta che la Giuls mette così tanto cuore in
qualcosa che scrive e lo dico perchè è una roba caustica
che fa impressione, quindi uno parte prevenuto. Eh beh nulla.
Se volete passare e delirare un pò con me, il gruppo è questo: Dream on: Wish you were here.
Tante coccole. Lis.
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Capitolo 9 *** Cannella ***
9 cannella
Cannella
Cammina sotto la pioggia incurante delle macchine che gli
sfrecciano di fianco schizzandogli fango sui pantaloni della tuta o del freddo
che comincia a entrargli nelle ossa facendolo tremare come una foglia; non gli
importa del telefono che continua a vibrare nella tasca della giacca di pelle o
del mal di testa che gli sta tentando di sfondare il cranio. Incurante di tutto
continua per la sua strada strisciando i piedi sull’asfalto che puzza di cane
bagnato e di argilla. La testa bassa, fissa sui suoi passi.
Pioveva anche quel giorno; Imre era steso sul rimorchio del
pick-up con gli occhi rivolti al cielo. Erano le costellazioni ad attrarlo così
tanto, con un dito per aria contava le stelle e disegnava segmenti accostati
l’uno all’altro come a formare immagini schematiche. Con la testa poggiata
sull’enorme bersaglio impagliato contava il numero di gocce che gli cadevano in
viso. La prima goccia gli aveva centrato l’occhio mischiandosi agli
impercettibili lapilli azzurri nell’iride color pece, la seconda si era posata
sulle labbra dischiuse e alla terza stava già perdendo il conto.
In un attimo le strade si erano fatte fangose, le ruote
scivolavano a vuoto mancando di qualche millimetro l’asfalto, il corpo di Imre
era bloccato tra due sacchi di sabbia, tutto il resto intorno a lui sembrava
impegnato in un vertiginoso ballo con le barriere del pick-up. Ogni sterzata
come un casquet.
E poi. Silenzio. Solo fortissime emozioni tutte in un una
volta, insieme, di corsa, come una fottuta bomba pronta ad esplodergli nel
petto. Non respirava, non vedeva, cieco di colori, cieco di forme, cieco di
quei segmenti dietro al dito ancora puntato verso il cielo. Il panico si era
impossessato di lui e le sue dita non ne volevano sapere di battere un dannato
tempo sul pavimento ferroso del pick-up, in mezzo a quel caos non c’era nulla
che Imre fosse capace di fare per recuperare il controllo di se. E quel boato,
così impercettibile, così lontano, sovrastato da tutto quel silenzio,
contemporaneamente inquietante, come un gigante nascosto da una collina di cui
se ne sente solo l’odore, come una bambina al centro della strada stretta in
una felpa nascosta dal buio della notte.
Ricorda quando, sotto un cielo grigio, si era chiesto cosa
avrebbe pensato suo padre del suo amato legno di ulivo vedendolo mentre
ricopriva la sua salma vestita di tutto punto e avvolta nella croce di Lorena.
Era un legno vivo, diceva, lo sarebbe stato per davvero, prima una piantina
verde da due o tre foglie poi un tronchetto sottile e fragile. Nel giro di poco
tempo la lapide in marmo fredda e anonima era affiancata da un ulivo alto e
nodoso. Ad un Imre bambino era parsa pura magia, ad un Imre ormai adulto
ricorda solo l’immensa e rassicurante presenza dell’uomo che lasciava che si
sporgesse dal finestrino per annusare e osservare e sentire l’aria scorrergli
tra i capelli ed entrargli nei polmoni.
Era rimasto lontano
da tutti: lontano dalle parole del prete pronunciate con estrema lentezza
imitando una dolcezza che mai gli era appartenuta; lontano dal pianto strozzato
di amici e parenti; lontano dall’odore di terra dismessa; lontano dalla pietà,
dalla compassione e da frasi incasellate in uno sguardo dispiaciuto e in un
abbraccio bullonato in un corpo freddo e distante, frasi che non capirebbe.
Eppure per quanto potesse allontanarsi da loro, le loro voci
e i loro dannati cuori battevano più rumorosi che mai in quel silenzio funereo,
Imre non sarebbe mai riuscito a trovare un ritmo confortevole in quel
fastidioso vociare, si sarebbe fatto sopraffare dalle sensazioni, sarebbe
crollato, esploso, si sarebbe lasciato andare. Lo avrebbe fatto per davvero se
non fosse stato per quella goccia che sulla guancia lasciava un solco profondo
e freddo. Prima una, poi un’altra, pioveva ancora. Solo contro un albero, si
era ritrovato a maledire la pioggia a denti stretti, incolpando lei, con tutto
se stesso. Poi ogni goccia era diventata suono ed ogni suono copriva il vociare
sommesso di quella marea di maschere davanti ai suoi occhi, in lei trovava il
ritmo che non era riuscito a creare da solo e lasciava che coprisse da sola
tutto ciò che turbava quel ragazzino nascosto dietro un albero. Imre piano,
piano capiva; capiva di come la pioggia lo avesse protetto dal boato dell’incidente,
capiva come lo avesse preparato goccia dopo goccia a sopportare un dolore più
grande di lui, capiva come restare in vita, come respirare rubando ossigeno
alle molecole d’acqua che gli inondavano i polmoni.
Adesso, mentre apre il cancello in ferro battuto, non
capisce come la pioggia possa permettere a quella voce di arrivargli dritta
nelle orecchie, limpida più che mai.
Can-Nel-La.
In quel cafè ci saranno scarse una quindicina di persone,
ognuno di loro aspetta che la pioggia smetta di cadere giù dal cielo per poter
rientrare in casa, ogni tanto qualcuno tenta anche di uscire fuori per
ritornare dentro con l’ombrello rotto e il cappotto bagnato. Allora si
avvicinano al bancone e ordinano una
tazza di thè caldo o di cioccolata fumante.
C-A-N-N-E-L-L-A.
Una macchia scura si muove nel buio e cattura la sua
attenzione. Quando un paio di alogeni illuminano il suo viso ad Abigail va di
traverso il thè. Chiama la cameriera senza mai lasciarsi sfuggire la figura che
cammina a capo chino sotto la pioggia incessante. Le chiede un thè caldo da
portare via. Lei la guarda di traverso e getta un occhio alla tazza fumante tra
le mani di Abigail; sei davvero sicura che tu lo voglia da asporto? Sembra
chiederle ma qualcosa le impedisce di parlare, forse il buon senso. Intanto
Abigail si alza e con le spalle poggiate al bancone osserva Imre fermarsi
davanti al cancelletto in ferro battuto del cimitero.
“Ecco a te, e buona fortuna!”
Il profumo del thè gli arriva chiaro nelle narici e Abigail
sussurra. L’ultima flebile parola pronunciata a fior di labbra prima di gettarsi
nel silenzio della pioggia.
CANNELLA.
Lo chiama e lui si ferma, con la mano poggiata sulla
ringhiera arrugginita, si volta e incrocia il suo sguardo. Le sue dita sono
ferme, strette nella morsa della tuta ormai completamente bagnata, la sua voce
bloccata all’interno dell’esofago. Solo i loro occhi si muovono, si studiano,
si cercano anche.
Privi delle loro parole, come segnali di fumo strozzati dal
vento, non riescono a trovare nelle dita e negli occhi dell’altro ciò che aveva
permesso a entrambi di conoscersi a vicenda, di scoprirsi e di smascherarsi.
Nudi, senza le proprie armi; nudi, con indosso solo i loro sguardi. Persi l’uno
nell’altro senza riuscire a trovare via d’uscita. Solo domande, infinite
domande senza risposte, risposte che la pioggia si prende e porta via
nascondendole nel suo silenzio, nel suo elenco impercettibile di molecole di
vita.
Ciò che vedono non è ciò che sentono, la pioggia si è
portata via il ritmo di lui e i sussurri di lei, come per costringerli a
trovare un altro modo per capirsi, un modo più umano, più naturale come l’uso
della parola per esempio.
Imre prende dalle mani di Abigail la tazza di thè che gli
sta offrendo e la porta alle labbra intorpidite dal freddo. Non batte ciglio,
le pupille ancora incastrate in quelle di lei, troppo impegnate a cercare
qualcosa che non sia pioggia o silenzio, per la prima volta vorrebbe che la
pioggia smettesse di scendere copiosa ridandogli indietro il suo martellante
ritmo.
Un ulivo si annoda su una lapide anonima e fredda al centro
del cimitero. Di fianco c’è una fossa enorme che attende di essere abitata,
un'altra anima data in pasto ai vermi e all’umidità.
“E’ mio padre.”
Abigail non chiede, Abigail aspetta che sia lui a continuare,
spinto dallo stesso motivo che lo aveva indotto ad aprirsi con lei.
“E’ morto quando avevo undici anni, era l’unica persona che
mi restava. Sai, non ho mai conosciuto mia madre, credo fosse una roba tipo
circense, una di quelle persone che non sai se restano e per quanto tempo.
Diceva che era bellissima e che faceva dei giochetti col fuoco niente male, non
me n’è mai fregato niente in verità, mi fregavano le stelle invece. Sempre col naso all’insù
sdraiato nel rimorchio del pick-up, quello su cui sei salita anche tu, a
contare le stelle. Se ci penso mi viene da ridere, riesci a immaginarmi? Con la
testa su un sacco di farina e il dito puntato per aria a caccia di mosche.”
Abigail in realtà ce lo vede, un bimbo dalla testa rossiccia
a caccia di mosche. In quegli occhi sarebbe stato capace di contenere di tutto,
anche il cielo se fosse stato lontanamente possibile.
“Beh, pioveva e una bambina è sbucata dal nulla, mio padre
ha sterzato e la macchina ha cozzato contro un albero, è stato scaraventato
fuori dal finestrino, per metà credo. Aveva la testa penzoloni ricoperta di
sangue e gli occhi ancora aperti per lo spavento. Almeno è quello che mi hanno
detto, non ricordo nulla di quello che è successo, non ricordo come siamo andai
a finire addosso a quell’albero, non ricordo il viso di quella bambina e non
ricordo come fossi arrivato davanti la porta della mia camera. Ricordo solo le
stelle, il mio dito puntato verso il cielo e le gocce che mi cadevano negli
occhi.”
“La pioggia ti ha protetto.”
Imre la guarda, incredulo. Come fa a capirlo, come fa a
centrare ogni volta il bersaglio con una facilità così estrema? E’ così
dannatamente precisa, è come se passasse il tempo ad ascoltare non quello che
dici ma il silenzio che passa tra una parola e l’altra, come se misurasse i
tuoi respiri e li traducesse in righe mai scritte.
“Protegge anche te. Ti ho vista, sugli spalti. Le tue labbra
immobili. La pioggia ti ha fregato le parole e se le gioca ai dadi insieme al
mio ritmo.”
Sorride vincente ma non riesce a decifrare l’espressione
stampata sul viso di Abigail.
“Io non ricordo nulla Imre. Non ricordo il viso di mio padre
ne il profumo del suo dopo barba, non ricordo mia madre ne l’odore dei suoi
capelli o la sensazione delle sue dita sulla mia guancia. Mi sono ritrovata sul
ciglio di una strada con un bernoccolo in testa e tanta paura in corpo. Ero
dannatamente confusa, mi giravano in testa centinaia di voci, voci senza volto,
atone, anonime. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola, nemmeno una, non
uno straccio di sillaba. Bloccata. Una sensazione tremenda. Poi, la pioggia.
Sai che significa? Stavo rinascendo, gli odori..non ne avevo mai sentiti di
così forti e i suoni? Era come stare in un fottuto parco giochi. Non sapevo
nemmeno cosa fosse un parco giochi però sapevo che se esisteva qualcosa come
quello che avevo davanti agli occhi in quel momento, allora sicuramente doveva
chiamarsi parco giochi. E’ sempre stato così, da quel momento in poi mi muovevo
per inerzia, sapevo che certe cose andavano fatte in un certo modo ma non
sapevo perché. La pioggia però mi ha dato anche qualcos’altro. Il mio nome. Ero
così sicura di chiamarmi Abigail, me lo sentivo addosso, come un abito
confezionato su misura. Era perfetto e anche confortante.”
Cazzo. Imre capisce, adesso da un nome a quell’ossessione di
catalogare ogni cosa, di tirare fuori nomi, numeri, a volte anche solo lettere
o suoni. E’ come se la mente di Abigail fosse stata mandata al macello con
tutto quello che conteneva, lasciandola sola con un mucchio di resti indefiniti
di pezzi di vita sparsi qua e la. Frame rari e brevi di una lei che non è più
lei. Come una scatola da riempire totalmente, da capo, di una nuova vita che
non è propriamente sua ma che appartiene ad altri. Sono elementi piccoli,
ricordi brevi e per lo più dimenticati, a volte rimossi del tutto e che, però,
rimangono a galleggiare in qualche parte in un punto non ben definito della
pupilla, o magari dell’iride.
“Quindi è per questo che lo faccio, la storia del sussurrare
e tutta quella roba lì che ti aveva tanto incuriosito. Sussurro perché non ne
posso fare a meno, perché ho bisogno di conoscere e capire, ho bisogno di
riempire la testa di qualsiasi cosa che mi spieghi perché faccio determinate
cose o perché abbia bisogno di altre. Tutto pur di non cedere al vuoto. E’
qualcosa di non molto diverso da quella buca.”
Abigail si volta e lo guarda, si avvicina di un passo e
inclina il viso di qualche centimetro mentre un sorriso fa capolino aprendosi
una fessura tra le labbra ormai viola.
“Siamo agli opposti, io e te. Io ho bisogno di sentire e di
essere sopraffatta da ciò che sento, mentre tu..tu cerchi di controllare le tue
emozioni, anch’io ti ho visto, l’altra volta, dal finestrino. Non respiravi
nemmeno, gli occhi puntati sull’arena e il parco giochi che ti soffocava.
Vorrei provare almeno la metà delle sensazioni che sembra mirino ad ucciderti
ogni volta.”
Imre ha smesso di ascoltarla, i suoi occhi grigi, i capelli
rossi, le guance rosee e le labbra viola. Il freddo gli sta entrando lentamente
nelle ossa, eppure il petto brucia in maniera impressionante.
“Forse è possibile”
Non c’è bisogno di altre parole, lo sguardo di Abigail lo
convince del tutto ad annullare la distanza e baciarla con un’urgenza che non
si era accorto di provare, non fino a quel momento, non con quella intensità.
Il volto stretto fra le sue mani, le labbra congelate in un istante, un istante
in cui gli opposti diventano tutt’uno e in cui la pioggia li nasconde al resto
del mondo, insonorizzando il rumore del loro bacio, delle gole che fremono e
del petto che esplode e delle sensazioni che fluiscono dall’uno all’altro.
Senza giri di parole o confezioni regalo con fiocchi rosa e
confetti al cioccolato, il loro bacio è la cosa più fottutamente sbagliata che
esista al mondo, una sorta di bomba nucleare fatta di sussurri e suoni, una
roba impossibile da contenere, che implode, da dentro; ti scava nelle ossa
senza farsi notare e lentamente disintegra ogni cellula del tuo corpo senza che
tu te ne renda conto. Mentre guardi le loro labbra cercarsi affamate, pensando
che sia la cosa più dolce del mondo, quell’atomo invisibile scava in te un
solco profondo che piano piano ti uccide.
Ed è per questo che è perfetto. Perfetto perché sbagliato;
perfetto perché dannatamente rischioso. La mente di Abigail non è abituata a
tutte quelle emozioni, potrebbe perdersi come una sorta di Alice nel labirinto
della regina di cuori, o come Lucy in quel cielo di diamanti. Imre potrebbe
morire e se dovesse accadere non muoverebbe un dito per impedirlo, accetta le
proprie emozioni con una lucidità mai avuta prima, come se il vuoto di ricordi
di Abigail compensasse la sua mancanza di autocontrollo. Incastrati come pezzi
di puzzle, uno bianco e uno nero. Sbagliati ma perfetti.
Poi, come uno scherzo davvero poco divertente, la pioggia
smette di scendere.
CANNELLA.
Un sussurro e un ticchettio sulla tuta fradicia.
***
Non
so nemmeno che ore siano ma sono sicura che non è l'ora giusta
per darvi il buongiorno. Quindi..boh..buon pomeriggio? Ho ancora gli
occhi impastati dal sonno e il pigiama e i mille pantaloni che devo per
forza indossare per non morire di freddo durante la notte. Eppure sono
a casa..dentro quattro mura, dove il freddo dovrebbe restare fuori, a
far battere i denti di qualcun altro e non i miei. Va beh..parliamo del
capitolo, so che farò imbufalire la beta, perchè ho
sicuramente dimenticato qua e là qualche correzione che lei
aveva accuratamente segnato e io non ho applicato immediatamente,
chiedo umilmente scusa ma ripeto, ho gli occhi impastati dal sonno e
potrei non rispondere ancora del tutto di me stessa.
Questo capitolo è uno dei più importanti, c'è di
tutto anche se magari non sembra, non adesso per lo meno, c'è
praticamente quasi la metà delle cose che dovrebbe avveniri di
qui a poco..non so ancora cosa la mia mente partorirà ma so che
ci ho messo più di quanto avessi immaginato. Loro due, il
papà di Imre, lui è tutto..lui ha un pò di mio
padre e un pò di tutto quello che amo ad esempio la musica.
Il loro bacio, non sono innamorati, non sono follemente persi l'uno
nell'altro, sono solo due anime troppo affini,l troppo curiose che
hanno bisogno di divorarsi a vicenda per poter essere soddisfatti, per
poter dire "cazzo, sto vivendo". Si sono trovati, sono pezzi di
sensazioni che camminano.
Ed è narurale che si attraggano come pezzi di calamita e che finiscano per esplodere in quel modo.
Quindi, nulla..ringrazio chiunque si sia fatto due domande su di loro,
ringrazio i silenziosi e chi ogni tanto prova a dire qualcosa uscendo
fuori dall'anonimato. E poi ringrazio la beta e i Pearl che m'ispirano
tante cose belle.
Tante coccole.
Lis
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Capitolo 10 *** Alive ***
Alive
Alive
“Amico sei impazzito?”
“…”
“Sto parlando con te! Che cazzo ti è venuto in mente?”
“…”
“Aspetta..è quello che penso?”
“…”
“E’ esattamente quello che penso, sei stato al cimitero?”
“…”
“Imre non puoi fare così, almeno abbassa il volume!”
“…”
“Fanculo Imre, odio quando diventi un fottuto zombie.”
“…”
Is something wrong she said.
C’è sempre stato qualcosa di sbagliato, qualcosa di
radicalmente, profondamente, intimamente sbagliato. Quando erano in giro a
distribuire il destino, Dio e il diavolo hanno avuto la felicissima idea di tenerlo
fuori dall’unico che credeva di meritare con tutto se stesso.
“Toh è appena nato Imre, guarda quanto son
felici i suoi genitori, guarda suo padre, hanno gli stessi occhi vero? Sì che
hanno gli stessi occhi.”- Dio se la ride e
Lucifero fa spallucce. “Vediamo cosa ci è rimasto nel sacco. Oh
guarda, ipersensibilità. Deve essere divertente, vederlo rantolare a terra
sconquassato dalle sensazioni, sai che risate il giorno in cui busserà alla
porta di uno di noi con il cuore fuori dal petto e magari senza un braccio, o
una gamba; ho sempre pensato che un giorno mi sarebbe arrivata solo una gamba
davanti al cancello, o magari un dito. Il medio, Dio (..scusami non volevo
nominarti invano) immagina la scena, mi mandano talmente tante volte a fanculo
che magari una volta tanto mi prendo la mia rivincita e mi fotto un dito medio
di quegli stronzi. - Cos’altro c’è in quel sacco Luce? - Oh beh, una fottuta fortuna. Sopravvivrà
alla morte del padre. - Sei sicuro di non aver più nulla
nel sacco? Che so, un futuro come medico? O come musicista, tutti
sognano di
fare i musicisti, magari non uno di quelli che finisce su un letto
qualsiasi con la propria bile nei polmoni. Li perdo di vista ed
è una cosa che non sopporto, il paradiso mi sembra qualcosa
di assolutamente monotono
senza una dannata chitarra che suona. - Non dovresti dire dannata sai?
- Luce fottiti! - Questa è blasfemia! - Controlla
quel fottuto sacco! - E’ vuoto, non c’è più nulla."
You're still alive, she said.
Era sopravvissuto. Con il dito puntato verso il cielo e le
stelle negli occhi. Era sopravvissuto. Era anche lui su quel pick-up, c’era lui
e c’era suo padre e anche lui era andato a sbattere contro quell’albero.
Ricorda ancora la corteccia ruvida contro la schiena a un palmo dalla nuca.
C’era mancato poco. Pochissimo. Un millimetro in più e avrebbe seguito suo
padre nell’aldilà. Per un attimo si era anche chiesto se la musica arrivasse
fin lassù, con tutte quelle nuvole ad ovattare il suono.
Sapeva per certo che di giù ci arrivava, il padre non faceva
che ripetere che il diavolo era dannatamente ingordo di buona musica, ecco
perché tutti i più grandi finivano per essere ritrovati morti nelle proprie
stanze d’albergo, divorati da qualcosa più grande di loro. Lucifero, diceva,
era lui che giocava con le loro anime fino a straziarle e a prenderle con sé.
Ecco perché in paradiso erano ancora tutti fissati con arpe e strumenti da
finocchi, niente in contrario con gli strumenti da finocchi, ma il padre era
sempre stato un tipo da note prepotenti che fottono i timpani.
Ed era morto. Con il sangue che gli colava dalle orecchie.
Dicevano che l’impatto era stato così forte da squarciargli i timpani e mandargli
in pappa il cervello ma Imre lo sa, lo aveva sempre saputo. Era stato il
silenzio.
Oh, and do I deserve
to be?
No, dannato destino del cazzo. Non si era meritato di
sopravvivere, quella vita non valeva nulla se barattata in cambio di quella del
padre. Una madre ormai completamente assente ricordava di mandare un
bigliettino ogni anno, lo stesso giorno, sempre nella stessa busta, con
quell’odore ad impregnare la carta, così pungente e così dannatamente presente.
Ipocrita anche nel profumo. Ma su una cosa non sbagliava mai. Due parole, una
scrittura minuta e precisa, una firma tagliente, illeggibile(continua a
nascondere se stessa): non meritava di
morire.
Vero, verissimo. Ma non era la risposta alla domanda che lo
assillava e lei non era la persona giusta a cui fare domande. E se anche avesse
voluto, non avrebbe mai saputo dove cercarla o chi cercare. Nascosta per sempre
da una firma illeggibile e un profumo esotico.
Ogni anno davanti all’albero di ulivo aspettava che qualcosa
gli s’illuminasse nella testa. Ogni anno davanti a quell’ulivo aspettava la
risposta. Ma Dio e il Diavolo avevano scelto per lui qualcosa di fin troppo
divertente, fin troppo paradossale.
“Luce ti ho giocato un bello scherzo con quel bambino sai?
Oh sì amico credo che qui qualcuno ti abbia preso per il culo. - Santo Dio (oh
scusami l’ho fatto ancora), ti rendi conto che sei blasfemo? - Zitto testa di
capra, e ascolta che pensata. Il sacco era vuoto ma io ci ho aggiunto un
pizzico d’inventiva, sono Dio no? Avrò qualche potere sul destino di quella
testina? - E vediamo cosa ti sei inventato sua altissima divinità? - La vita. -
Che cazzo significa? - Significa che avrà un attaccamento quasi ossessivo alla
vita, l’amerà così tanto che non la getterà via per nulla al mondo. Sei fregato
Luce, avrò una dannata chitarra in paradiso! - Vaffanculo Amico. - Sai Luce, un giorno sarà il tuo, di dito
medio, ad essere esposto in una teca di vetro davanti al mio cancello. Dio ha
preso per il culo il diavolo. Sai che scena! ”
Me I figure as each breath goes by.
Lo ama. Con
tutto se stesso. Il suo respiro. E lo odia al tempo stesso. Sa che l’unica cosa
che lo divide da suo padre è quell’attaccamento smisurato alla vita anche se
non la merita, anche se sa che il suo alito non vale la morte di suo padre. Ma
qualcuno gli ha concesso qualcosa. Il destino fa schifo ma qualcuno gli ha
concesso di fregarlo, prenderlo a calci, appallottolarlo e centrare il cestino.
Quando l’onda di sensazioni lo sommerge, c’è qualcosa che lo spinge in fondo
senza mai fargli perdere lucidità, il suo ritmo è chiuso nella sua mente,
protetto da barriere invisibili su cui lui ha il pieno potere, libero di
lasciarsi andare quando e per quanto vuole ed è proprio in quell’istante,
nell’istante in cui si rende conto di dover sganciare quelle barriere,
nell’istante in cui la vita lo sta per abbandonare all’incrocio con la morte,
che lui incontra suo padre. Gli occhi fissi nei suoi, un dito che punta in
alto, verso le stelle, e il sangue che gli cola dalle orecchie come fiumi
scarlatti. Ma sorride. Lui sorride sempre, come se non fosse successo nulla,
come se la sordità lo avesse protetto dal dolore, dalla consapevolezza della
non esistenza, dalla perdita di un figlio lasciato a crescere da solo. Sorride
e indica il cielo e Imre, ogni volta, ogni fottuta volta, alza gli occhi al
cielo e sgancia le barriere. Anche se sa di non meritarla quella vita, lui la
vuole, la vuole, la vuole..
“Dovresti smetterla di sentirti in colpa”
“Aàron..”
“Quella bambina sarebbe morta se tuo padre non avesse
sterzato, Imre tuo padre lo ha fatto per istinto, ci ha visto te al posto di
quella biondina ed era terrorizzato. Salvando lei ha salvato te, non
direttamente ma..insomma..mi hai capito. Meriti di stare qui, e spegni quel
fottuto stereo che non ti aiuta per un cazzo”
“…”
“Ti ricordi? La sera al bar? La camicia, il pick-up e i tuoi
piedi sulla mia testa a casa di Emike? Eri lercio, puzzavi da fare schifo, un
misto di piscio e vomito; ti avevo quasi scambiato per lo scopettone del bagno.
Avevi due occhi allucinati, dico sul serio, eri solo pupilla. Il barista era
sconvolto nonostante sembrasse conoscerti, mi ripeteva che eri fatto e che non
parlavi. Muto come un pesce, avevi chiesto il tuo drink, lui ti aveva servito e
poi non avevi più parlato. Eri zuppo, dalla testa ai piedi. Non eri fatto, eri
sdraiato sul fondo di un buco nero, tutto solo ad accarezzare la piacevole
sensazione di una fine alla quale non appartenevi, con il tuo sorriso sghembo e
le mani gelide e le orecchie rosse. Mi guardavi ma non mi guardavi. Eri un caso
clinico, disperato, senza speranza. Non potevo lasciarti lì. Io di vita me ne
intendo, lo sai, dopo tutti quei vaffanculo a Luce..non potevo lasciarti lì,
non in quelle condizioni. Sei riemerso, te lo ricordi no? Ti sei messo a ridere
e non hai smesso più. Pensavo fossi morto e invece mi prendevi peri il culo sul
sedile del passeggero, completamente lercio, il tuo alito puzzava di alcool da
fare schifo. Quando ti ho aperto lo sportello della macchina, manco fossi una
principessina, ti ho guardato negli occhi e ti ho detto una cosa..te la
ricordi?”
“A nessuno è concesso il privilegio di decidere il giorno
della propria morte.”
“Esatto, è un lusso decidere quando morire o al posto di
chi, troppo facile, dare un taglio, eliminare le difficoltà, smettere di
crescere e lasciare la macabra eredità a qualcun altro. Eri un fottuto egoista,
steso sul bancone del bar, con la camicia tirata e mezza strappata e il boccale
di birra stretto in una mano. Stavi ammirando qualcosa che non ti è concesso di
ammirare. La morte è un privilegio e non ti spetta, non adesso. Il tuo vecchio
era un povero diavolo mollato da una donna dal profumo di merda e con un
bambino idiota da crescere. Fidati adesso è all’inferno a suonare un assolo con
Luce in persona! Si diverte più di chiunque altro, e tu vorresti togliergli
quel privilegio e darlo a te stesso? Fottuto egoista!”
I know I was born and i know that I'll die.
The in between is mine.
I am mine.
“Le ho dato un bacio.”
“Che cosa??”
Aàron è questo. Aàron è lucidità che torna, ritmo in mezzo
al caos e caos in mezzo al silenzio. E’ il dito medio che prima o poi Luce si
sarebbe appeso in quella camera di fuoco e fiamme. Sa sempre cosa dire,
fregandosene di ciò che le persone possano pensare o no di lui; è uno che
commette errori, ne commette innumerevoli, a volte Imre pensa che li cerchi
anche, quegli errori. Eppure è più il numero di errori che riesce a riparare
che quelli che si lascia sfuggire, è vita vissuta e trasmessa, come quando
attacchi la spina alla presa. Per un attimo dimentichi chi sia la spina e chi
la presa. Lucidità, pura lucidità. Come una scarica elettrica, o un battito, o
una parola, un sussurro, una parete colorata e un numero esagerato di coperte e
tappeti.
Il sorriso sghembo di Imre svanisce nel nulla e dal fondo
del buco nero spunta l’indice che mira il cielo. Ed Imre apre gli occhi su
un’immagine che prima sembrava solo vapore liquido lasciato a mezz’aria,
sospeso e pronto per esser portato via.
Le labbra di Abigail.
“L’ho baciata. Davanti alla tomba di mio padre. Sotto la
pioggia. Con il thè alla cannella tra le mani, che tra l’altro mi fa anche
schifo.”
“Che quadro deprimente!”
“Era tutto sbagliato!”
“Ma..”
“…”
“Oh forza, hai baciato la ragazza dei sussurri ci deve
essere per forza un ma”.
“Non sono morto.”
“E che vorrebbe dire?”
“Che non sono morto, che ho solo desiderato quelle labbra,
senza rischiare di lasciarci la pelle. Era come se non ce l’avessi, il cuore,
se n’è stato zitto tutto il tempo, ma proprio zitto, nemmeno un battito e lei
nemmeno un sussurro. C’eravamo solo noi, mi sono sentito per la prima volta
vulnerabile, completamente vulnerabile. Quando ti trovi lei davanti non sai che
fare, non sai come prenderla, ti legge dentro..”
“E ti spalma la marmellata in faccia, si me lo ricordo..e
poi?”
“E poi nulla, la cannella!”
“Che c’entra la cannella?”
“Lo ha sussurrato sulle mie labbra e io ho portato il ritmo
di quella dannata parola sui pantaloni.”
“Aveva smesso di piovere”.
Non era una domanda, era un’affermazione.
“Aveva smesso di piovere.”
Non era una risposta, era una consapevolezza.
“E adesso?”
“C’è la manifestazione, c’è il casino e ci sono le foto.”
“E il sole. Per tutta la settimana”.
“Sei stato tu a fare quella cosa? - Di che diavolo stai
parlando? - Ehi non tirarmi in causa, io non c’entro niente, il diavolo non
c’entra con quella roba lì. Deve essere stata per forza un’altra delle tue
idee. - Non c’entro niente io, credi che
lo lascerei avvicinare così tanto alla morte e dartela vinta? - La finiremo
prima o poi di discutere? - Mai. -
Quindi chi è stato? - A fare cosa? - Il ragazzo, il padre! - Non ne ho idea. E’
importante? - Farci prendere per il culo
da un perfetto sconosciuto? - Beh si
effettivamente è strano. Quindi che facciamo? - Boh, che tempo c’è la prossima
settimana? - Pioggia, su tutti i fronti! - Assolutamente no, ne ho le palle
piene della pioggia, chiama qualcuno da lassù, che so di ad Apollo di tirare
giù il sole e siamo tutti contenti. - Dannato di un diavolo stai bestemmiando
il tuo Dio! - Un Dio blasfemo! - Io
faccio quello che diavolo mi pare. - E
io quel che dio mi pare. - Santo Dio che umorismo del cazzo che ti ritrovi. -
Ma ti senti? Ti nomini invano e dici parolacce. - Sto cominciando a pensare che
la tua vicinanza mi stia influenzando. E
quello che cos’è? - Boh, credo sia un dito medio. - Chi te lo manda? - Non ne
ho idea, è bianco, sulla cinquantina e suona la chitarra. - Eh no, non è
possibile! - Che vuoi, i privilegi di Lucifero!”
In fondo al buco nero qualcuno continua a sorridere con
l’indice puntato verso l’alto e con le tre dita rimanenti chiuse sul palmo. Il
dito medio spedito con pacco celere nel cuore caldo degli inferi.
***
Saaaaaaaalve
mondo di anime meravigliose, oggi sono radiosa, stanca ma radiosa. Non
è per il Natale, cioè il merito va a lui per le
conseguenze che ha creato: una famiglia più idiota dall'ultima
volta che l'ho vista; un regalo sotto l'albero che sfiora la
perfezione; e i mercatini di Natale che mi hanno regalato i Pearl Jam,
i Sex Pistols, G'nR, The Strokes e la lista è troppo lunga ma vi
prego amatela con me.
Un giorno se non mi ucciderà la curiosità sarà la musica a farlo.
Perciò
nulla, nonostante questo sia uno dei capitoli a cui tengo di più
ma di cui sono meno soddisfatta sono felice di pubblicarlo,
perchè se ci stavo ancora su uscivo matta o, peggio ancora, lo
cancellavo del tutto.
Quindi..Buona pappa a tutti e buon annegamento tra carte rosse e fiocchi blu.
Lis
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Capitolo 11 *** Limiti ***
10 Limiti
Limiti
Ecco io.. Ecco io non sono mai
stata capace di..io non sono mai stata capace di finire qualcosa. E’ che
proprio non mi riesce di mettere un punto; comincio a disegnare, a raccontare,
parlo da sola in un monologo che è un concentrato di parole astratte che per me
hanno più senso di una formale descrizione logica. Ecco, io comincio, comincio
sempre, ho sempre quel punto davanti agli occhi che sa di inizio, è allettante,
goloso. Io lo vedo e mi ci butto, così. Senza un motivo ben preciso, mi ci
butto. Solo che poi sono incapace di mettere fine a quel trip d’immagini e
sensazioni e so perché, io so cosa mi spinge a continuare, so perché sento
continuamente quel sapore pungente sulla punta della lingua a tratti amaro un
po’ come il caffè senza zucchero, un po’ come l’adrenalina che scorre nella
paura. Un po’ come la persona che non sono.
La memoria è un limite, il più
grande che possa esistere. Quando ce l’hai, le tue azioni sono assoggettate ai
ricordi, conosci le tue reazioni e ti muovi in quello spazio che va da un
respiro all’altro seguendo sempre gli stessi passi, voltandoti sempre da una
parte e mai dall’altra, come un cavallo con gli occhi coperti. Una focale
fissa, una focale d’insiemi, mai particolari, mai quella visione ampia e
distesa della realtà, solo un angolo, retto, acuto, mai ottuso. L’ottusità è da
un’altra parte, è quell’ampio angolo d’incoscienza che non è imprudenza, che
non è la totale mancanza di inibizione, è l’incapacità di pisciare a porta
aperta senza preoccuparti che tutti vedano il tuo culo.
E, nel mio caso, il mio limite è un
buco nero al centro della testa e una cicatrice invisibile tra le ciocche
rosse, nascosta da una striscia di capelli scuri. Soffro di mancanza di
emozioni e di un’ossessione rivoltante per gli sguardi. Dico rivoltante
perché..
Dico rivoltante perché gli sguardi
si accumulano. Si accumulano tutti qui, più o meno a due centimetri dalla bocca
dello stomaco, due centimetri in su; sembra
bile ma quando apro bocca escono solo questi sussurri, è frustante non poterli
fermare. Play, parte la cassetta. Il nastro gira; continua a girare e io
rimango lì ferma, con la macchinetta tra le mani.
Il nastro gira, la macchinetta
scatta e io voglio entrarvi dentro, voglio sentire chi siete, cosa provate,
perché avete quelle facce insensate che sembrano un corpo separato dai vostri
occhi. E’ come se fossero incastrati in delle orbite troppo strette. Io non so
fermarmi, non so dire basta, non so smettere di cercare di capirvi.
E tutti guardano il mio sedere
mentre faccio pipì sulla tazza di un bagno pubblico. Tiro lo sciacquone e in un
vortice di terriccio, immagini, polvere e lingue di fuoco la mia inibizione va
giù per lo scarico.
***
Rosa,
che cazzo di colore è il rosa?
Un piede, 12 pollici, 13 di iarda.
Quarantacinque piedi, non c’è vento, che diavolo mi cammina sulla schiena?
Prude da fare schifo. Quarantacinque piedi, non c’è vento, l’arco è teso; se
sei teso come me, amico, oggi saremo in due a spezzarci. Non mi abbandonare,
non mi abbandonare, forza. Quarantacinque piedi, non c’è vento e..bam. Quarantacinque..bam.
Piedi..bam. E non c’è vento..bam.
Rosa,
rosa, rosa..che significa?
Perché
non potresti essere come quel bersaglio? Perché devi essere così dannatamente
complicata?
Cinquanta piedi, continuate ad
allontanarlo, non cambia nulla. Sapete che il risultato è sempre lo stesso, mi
basta chiudere gli occhi, respirare e contare. Uno, due, tre e..bam. Centro, di
nuovo. E guarda che facce! Vi sto prendendo in giro, non so che diavolo faccio,
non so come lo faccio, giratevi, c’è una tipa che vi sussurra a nemmeno un
centimetro dal naso, guardate lei e lasciatemi perdere. Guardate quel fottuto
obbiettivo, specchiatevi nella lente, rendetevi conto dell’oscenità che
sembrate. No, lo capisco, specchiarvi è un rischio, è più facile guardare il
bersaglio, sentirvi soddisfatti della bravura di un altro, uno che tra l’altro
non è affatto bravo. Respirate, no? E’ semplice, no? Quasi naturale, giusto? Se
vi facessi i complimenti, se vi dicessi “cazzo amico come fai a mandare giù
tutta quell’aria? E ti finisce tutta nei polmoni? Dico tutta, non ne rimane,
che ne so, un po’ attaccata all’ugola, tipo Tarzan, tipo liana? Dico.. la
ingoi, la mastichi e poi la tiri dentro insieme ad un sorso d’acqua?” mi
prendereste per pazzo, no? Allora lasciatemi perdere, perché io in questo
momento sto respirando e non c’è niente d’interessante in uno che respira.
Sessanta piedi, non c’è vento; la
corda mi sfiora la guancia, respiro; il legno geme, sento i suoi lamenti
nell’orecchio, ti capisco, amico, respiro; la punta della freccia davanti agli
occhi, respiro; uno, due, tre, respiro; chiudo gli occhi e..bam. Respiro, sto
respirando e voi a bocca aperta che guardate un cretino respirare.
Rosa.
Vi prego, toglietevi di dosso
quelle facce orgogliose perché non le sopporto. Non so, non avete un modo per
sembrare meno insulsi? Meno finti? Meno leccaculo? Davvero niente del genere in
quelle tasche bucate? Eh, no, se sono bucate immagino che tutto l’utile che
avevate intascato per strada vi sia caduto briciola per briciola passo dopo
passo. Stupidi, non vi rendete conto nemmeno del tempo che perdete. E non sono
stronzo, sono solo fottutamente realista. Lo so perché i vostri occhietti continuano
a fissare il bersaglio, adoranti. Vi svelo un segreto, so che potrei
traumatizzarvi ma lo faccio per il vostro bene: non c’è un cazzo nel bersaglio,
è solo paglia, paglia, tessuto e una roba tipo sughero. E non ditemi che vi
piace adorare un fantoccio impagliato perché non vi reputo stupidi fino a quel
punto.
E’ l’assenza di vento che deve
interessarvi, è il ritmo, il secondo, la polvere che si alza, quei sessanta
piedi. Sono quelle cose che dovreste osservare, materialmente, con gli occhi
chiusi. Dovreste sentire, capire, calcolare e poi, forse, potreste permettervi
di aprire gli occhi e cominciare a guardare in qualche direzione.
Ma vi capisco, sono fermo anch’io
su quel dannato bersaglio, non vedo nient’altro, sento solo quella fremente
sensazione di essermi perso qualcosa per strada, una strada che non riesco a
vedere. Mi sento come voi e non c’è cosa che mi offende di più e non perché io
sia migliore di voi, probabilmente la mia faccia fa ancora più schifo della
vostra, è solo che ho imparato a guardare, a capire e a vivere, dannazione. Ma
adesso sono fermo su una parete rosa. Stamattina mi sono svegliato con i vostri
occhi e invece di fare attenzione a cosa calpestavo sono direttamente inciampato
in quel secchio di vernice. Rosa,
vernice rosa.
Limitato,
mi sento limitato da un quadrato di cemento.
***
Ho inciso tre lettere sulla cinta della
chitarra solo per ricordarmi cosa siamo stati, non è mia intenzione paragonarci
a quelli che eravamo, siamo qualcosa, siamo qualcuno di diverso, ma non tornerei
indietro. Noi tre siamo l’unica cosa per cui cammino con la testa rivolta nella
stessa direzione dei piedi. E sono scalza perché non voglio perdermi un passo,
voglio sentire la materia scivolarmi sotto i piedi e plasmarsi, come argilla,
sotto l’influsso dei ricordi e delle sensazioni che in un modo o nell’altro
gestiscono ogni molecola del mio corpo. Voglio accertarmi che non mi sfuggiate
e che io non sfugga a me stessa; siete, siamo, l’unica cosa che non fa massa,
che non ha peso, che non esplode trasformandosi in colore. Noi, tre lettere su
una cinta di pelle. Noi, tre anime che ho deciso di chiudere in un cassetto
impossibile da riempire, qualcosa che si crea e si distrugge in continuazione,
qualcosa che non va mai indietro, siamo capi saldi di una tradizione che scava
le sue radici in terreni mai battuti.
Siamo tre poveri stronzi che vivono
insieme, ognuno con i propri demoni, ognuno con i propri limiti.
I, Imre. Intaccato intimamente da
emozioni troppo grandi, inspiegabilmente governate da un ritmo innato, che
batte contro pareti intrise di carne e sangue, sangue che lo mantiene vivo e
lucido.
A, Aàron. Animale, preda e
predatore di se stesso. Asseconda istinti, accetta la vita, abbraccia rischi e
ama impegnando tutto se stesso.
E, Emike. Io.
Rinchiusa in un barattolo di
vernice. Io.
Grafomane. Io.
Rosa, oggi. Io.
Non lo sono stata mai, rosa; non mi
ha mai svegliata, quel colore, nel bel mezzo della notte, toccandomi e
sfiorandomi; non mi ha mai guardata ed infiammata; non mi ha mai insegnato quel
piacere intimo, segreto, così incredibilmente assuefacente. Rosa, come il
colore di quella polvere che respiro, che sa di feromone, che apre porte senza
serratura, che non striscia né bussa, entra e basta. Rosa ma potrebbe essere
anche rosso, o blu o nero. Scelgo il rosa semplicemente perché non sono mai
stata rosa, semplicemente perché è qualcosa che non mi è mai appartenuto, che
non sapevo di avere e che desideravo da una vita senza rendermene conto. Rosa
desiderio, anche se il desiderio non è rosa.
Rosa.
***
Luce e Dio giocano ai dadi, Luce e Dio si stringono la mano.
Come nemici sono molto più vicini di quanto ognuno di noi, voi, possa pensare.
Si dice che nel nemico uno trova sempre il migliore amico, si dice che quando
si ha un punto in comune ogni energia viene impegnata in quel punto
dimenticando le inimicizie. Si dice che Luce e Dio hanno come punto in comune
la scelta di cosa fare di un’anima e si dice che su quell’anima siano
d’accordo, un accordo silenzioso, dettato da uno sguardo che sottolinea la
complicità disumana tra due nemici sovrannaturali.
Si dice che ci sia un patto, tra Luce e Dio, un patto su cui
quell’anima non ha potere, è semplicemente carne nelle loro mani capaci di
plasmare la terra, figuriamoci un’anima.
Imre è quell’anima. Io sono quell’anima. Mi tengono in pugno
e mi sento come uno stupido ascensore in quella corsa disumana su e giù dalle
porte dell’inferno fino a quelle del paradiso. Si dice che un’anima che
sopravvive alla morte, per miracolo, sia destinata a sentire e provare
cose..diverse, cose speciali, cose che altri non potrebbero sentire mai. Io
sento solo di essere uno stupido scherzo della natura, un gioco, a volte anche
un burattino.
Ma lei. Lei ha tagliato quei fili.
E voglio che lo faccia ancora, voglio sentirmi di nuovo
capace di sentire senza..morire, cadere in quel limbo assurdo fatto di sensi di
colpa e desideri impronunciabili.
Perché non ce la faccio più. Sono stufo di questo cazzo di
ritmo, sono stufo di questo casino, batto i piedi sulla terra e con il sorriso
stampato sulla faccia mi asciugo il sudore con la manica di flanella. E’ un
ritmo incalzante, è un ritmo che inquieta, è musica lontana che sa di storia,
una storia che però non è la mia. Le mie pagine sono scritte sui Jeans
consumati, sul sedile in spugna del pick-up, sulla lapide di mio padre e in
quei fottuti sussurri.
E’ tutto sbagliato, mi sento diverso, mi voglio diverso. LA
voglio.
E non ho mai voluto nessuno.
Troppe sensazioni distraggono, nel mio caso uccidono. Non mi
sono mai potuto permettere il lusso di desiderare qualcuno, non ho mai osato
chiedere di più, ma lei..lei è silenzio.
E il silenzio si prende tutta l’attenzione, è il suono che
sovrasta tutto il resto, e nel silenzio io mi scopro a desiderare con anima e
corpo. La voglio. Mentalmente e fisicamente. La voglio e voglio l’errore, siamo
sbagliati ma non frega a nessuno, potremmo ucciderci ma nessuno ci ferma.
Luce e Dio cos’hanno da dire a riguardo?
Luce e Dio hanno smesso di giocare? Si sono trasformati in spettatori?
Dove siete voi due? Vi è sfuggita un’anima? Avete lasciato
libero qualcuno capace di farmi scivolare via da voi? O fa parte del piano?
Fanculo!
***
Però ecco. Ad un certo punto il nastro si ferma. Il vortice
si trasforma in polvere che attecchisce a terra e torna al suo stato naturale.
In quel preciso istante io riconosco un limite, disegnato su
un paio di labbra, labbra morbide, labbra vicine, labbra che desidero. E per la
prima volta in vita mia non ho paura di quel desiderio, lo sento esplodere nel
petto e sento le gambe spingere verso il punto più lontano, da quelle labbra,
da quella sensazione. E il nastro, quello fermo, inciampa sui cardini, scavalca
e va avanti di poco ma si ferma di nuovo. Lui va avanti e io vado avanti, lui
inciampa e io inciampo, non sui cardini, sul suo sguardo. E’ una sensazione,
quella che cresce nel petto, quella che esplode, ed è mia. Mia come poche altre
cose. Un limite invitante, un limite dannatamente inebriante.
La sento, non ho bisogno di capirla, i sussurri sono
inutili.
Quel bacio è un nastro inceppato che non fa che tornare
indietro e riprodursi da solo, nella mia mente, nei momenti più inadeguati.
E’ sbagliato, è rotto, è da riparare ma lo lascio lì, al
riparo dalle mani di chiunque, dagli occhi e dai sussurri e dalle sensazioni
degli altri, di voi, in quel cofanetto dove nascondo le poche cose di cui sono
realmente certa in questa vita fantasma.
In questo parco-giochi ci sono giostre che non vorrei
provare, ed altre per cui farei la fila per giorni interi, aspettando il mio
turno, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo puntato in alto.
Se potessi fare un biglietto per TE e se avessi la pazienza
di aspettare che la PIOGGIA torni, insieme al suo silenzio, aspetterei, con le
braccia incrociate al petto e lo sguardo puntato in alto e il mio turno
arriverebbe insieme alla cannella e alla lapide di tuo padre e a quell’ulivo
ricurvo e l’odore di terra bagnata.
E’ tutto sbagliato, come un dipinto strappato o come una
nota stonata ma aspetterei, semplicemente perché nessuno in questo buco di
mondo si aspetta da me una cosa del genere, semplicemente perché non so dire
addio, non so dire basta; semplicemente perché voglio di più di una sola
sensazione. Vorrei un’overdose, quella che ti uccide.
Ma il parco-giochi è immenso e i rumori, queste esperienze
che urlano, mi distraggono e mi attraggono e..il nastro gira, gira, senza
incepparsi e si dilata sotto il calore del sole. Ed io cammino a testa bassa
guidata dai sussurri e dalla musica di giostre e dall’odore di mela cotta.
***
Non
ho idea del perchè mi sia venuta oglia di pubblicare adesso, so
che gli occhi bruciano e io non mi reggo in piedil, infatti sono
nel letto che asp0etto che si scarichi un film per spegnere il computer
e andare a nanna. Domani niente uni quindi morirò nel letto per
circa troppe ore.
In
realtà non voglio dire nulla, insomma quello che volevo dire
è scritto lì, nelle parole di quei quattro matti, li amo,
più di quanto immaginassi e mi stanno facendo molta più
compagnia di quanta io gliene avessi chiesta. Quindi vi prego amateli
con me e amate con me la mia beta e Fal. Fal, che cosa è quella
donna, non ditele che sto parlando di lei in queste righe altrimenti mi
da della sdolcinata ma giuro che l'adoro:) Fal tante coccole!
Beh, buonanotte people e che Peter Pan vi venga a rubare tutti dalle vostre stanze.
Lis
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Capitolo 12 *** Rocking horse ***
11 rocking horse
Rocking horse
“Non ricordo come ci sono arrivato. Uno a volte si
lascia convincere, lascia che siano gli altri a decidere. Non significa che mi
fido, semplicemente non mi va di sforzarmi di cercare ragioni per cui dire di
no. Ne troverei, molte, ma non ho voglia. Dire di no significa privarsi di
qualcosa e poco conta se quel qualcosa sia una buona manica di errori, ti
prendi quello che viene senza fare storie, senza aprire bocca, semplicemente
stai a guardare come le scelte di qualcuno si sposino perfettamente con quel cumulo
di massi che rotola giù per la scarpata insieme a buona parte del tuo
buonsenso. Dico, a volte bisogna metterlo da parte il buon senso.”
“Non so bene quale sia il momento giusto, di mettere
da parte il buonsenso intendo, non so quale sia; semplicemente ci sono quei
secondi decisivi in cui decidi di buttarti in questa o in quella cosa lasciando
perdere quella vocina martellante che ti frena e ti ricorda che sei più vicino
al farti male di quanto pensi.”
“Ah, ah. Rido perché questo è uno degli errori migliori
in cui mi abbiano spinto. E’ una di quelle cose che ti allontana da casa, ti
spinge in quel baratro di solitudine che prima di allora non sapevi nemmeno
esistesse. In un certo senso conosco le vostre case: calde, accoglienti, c’è
sempre qualcuno che vi aspetta, che si tratti anche solo di una foto da
guardare la sera; c’è sempre quel piatto caldo o pronto nel frigo. Non
fraintendetemi, mi piaceva quella vita,
era comoda ma un po’… stretta. Sì, stretta, come i pantaloni che ho buttato la
sera scorsa, erano di quelli che lasciano metà della pelle scoperta. Mi
piacevano, erano i miei preferiti, vero J? Lui ne sa qualcosa, una volta ha
provato a scriverci su, vuoi raccontargli cosa ho fatto J? Immagino di no, ha
dovuto ripensarci. Beh, quei pantaloni, dicevo, li ho buttati la sera scorsa.
Un lancio preciso, dritti nel cesto della spazzatura. Erano stretti, dicevo,
come le quattro pareti di casa mia e come il pranzo insacchettato e messo al
caldo nel forno.”
“Era un buon pranzo. Pollo, mia mamma era davvero
brava col pollo, morbido e saporito, con le patate. Le patate erano la parte
che mi piaceva di più. Quindi, dico, non era proprio una vitaccia quella che ho
abbandonato nel furgone di qualche netturbino. Ho preso vagonate d’insulti per
questa cosa. Irresponsabile. Potrei usarlo come secondo nome, suona bene, no?
Sì, beh, è vero e questa consapevolezza ha sempre reso difficile il mio
rapporto con gli altri. Scommetto che molti di voi riderebbero di gusto se
raccontassi loro quante finestre mi hanno rigettato in mutande su un giardino
sempre troppo affollato. Riderei anch’io, anzi rido, proprio adesso.”
“E beh, insomma, quella finestra, la prima, era alta.”
“Però l’ho saltata… ovviamente… e il giardino era
deserto. C’erano solo questi qui alle mie spalle che raccoglievano pezzi di me
per il prato di fronte casa mia, sotto gli occhi di mia madre. Mia madre vi
odia ragazzi, ve l’ho già detto vero? Beh, non preoccupatevi, non vi odierà mai
quanto odia me. Perché mi amava, un tempo. E beh… quando ami una persona, la
ami veramente…”
“No, sentite, questo davvero non è un discorso
sentimentalista, non guardatemi con quegli occhi perché le vostre… le vostre
aspettative, le vostre speranze, verranno disilluse. Le distruggerò e voi mi
guarderete mentre lo farò. Quindi lasciate perdere e ascoltate, oppure se non
volete ascoltare prendetevi una birra e scopatevi qualcuno nel bagno, quello
che dico non ha niente a che fare con l’amore che immaginate.”
“Pochi amano veramente. Perché fa male, amare fa male.
Ecco uno che si alza. Beh fai bene amico, perché è la fottuta verità. C’è
questa moda, di definire l’amore colorato, non so, ci vedete tutti arcobaleni?
Ci vedete fiori nell’amore? Quel dannato cuoricino gonfio e tondo chi diamine
lo ha disegnato la prima volta? Il cuore è un muscolo, pompa sangue e non
fiori, il sangue sa di ferro non di zucchero. Il ferro arrugginisce, corrode, e
il sangue corrode l’anima. Intendo quando ami, il sangue ti corrode l’anima.”
“E l’odore di ruggine impregna l’aria e i muri. E
fuggi da una finestra perché non ne puoi più.”
“Questa canzone è la testimonianza di quanto io riesca
ad amare ancora nonostante faccia male. Non ho più ossa in questo corpo, solo
pezzi di ferro corroso che si muovono cigolando. Perché amo, amo un buco nero
al centro di quella finestra, perché, nonostante…”
“Perché, nonostante ne sia uscito fuori, lei rimane
aperta, sempre, ogni volta che ci passo, perché continuo a passarci, quella sta aperta. Sono buco nero, lei e mio padre. Ecco di cosa parla
questa canzone, parla di un buco nero che mi perseguita. Perché se amate, se
amate veramente, quella persona, quella cosa, continua a muovere passi insieme
a te, come un’ombra , come una presenza alle tue spalle.”
“E quello che fai lo fai per lui, per lei. Ti getti da
una finestra perché vuoi indipendenza e ti ritrovi con la tua dipendenza che
ciondola dietro di te. Non dipende da te, quello che ti hanno dato mentre amavi
ti si cuce addosso come una seconda pelle, quindi ti prendi i debiti di una
vita che non ti è mai appartenuta ma che adesso ti veste come una tuta troppo
aderente. Perciò questa canzone è per lui, ma anche per me o per noi. Insomma,
per chiunque ha fatto l’errore di amare almeno una volta nella sua vita, e si
può amare anche un microfono, o un buco nero al centro del cervello, o… una
lapide”
Father...ooh...oh...oh...
I see the world, feel the chill
Which way to go, windowsill
I see the world's on a rocking horse of time
I see the verse in the rain
“Ma… qualcosa c’è che
mi manca di casa. Non è tutto così negativo come potete vedere. In realtà non
c’è nulla di negativo, tutto questo… questo…”
“Tutto questo amare e
farsi male. In realtà, per quanto ne possa essere consapevole, del dolore
intendo, continuo a fare quello che faccio, a provare quello che provo, perché
è quello che siamo. Se fa male significa che siamo vivi. Siamo carne da macello
e ci lasciamo macellare perché ci piace, in fondo. Queste canzoni, questa… musica,
sono la prova che non ho smesso di sanguinare, non esistono cerotti, non
esistono punti, quando sai che non puoi fare a meno della vita così com’è,
lasci che il tuo corpo ti faccia scivolare in quello stato di anemia che ti
porta ad assumere ferro per compensare quello già corroso. E’ così che deve
andare ed è così che va. Perciò in tutto questo macello, macello in senso
figurato, macello di braccia, gambe e intestini, c’è quella cosa che…”
“...mi manca. Qui voi
avete la pioggia, ed è meravigliosa, con quel suo silenzio ritmico che ti martella
in testa come un picchio, tu stai lì seduto dentro una casa che immagino calda
e guardi scendere giù secchiate d’acqua. Ma dentro le pareti di casa tua c’è
rumore, no? O un silenzio diverso che è comunque rumore, ma c’è. Vero? Il
ragazzo in prima fila sorride, probabilmente non ha capito un cazzo ma sorride.
Come ti chiami? Beh, lascia perdere, sorridi pure.”
“ La mia domanda è… come
cazzo fate a restare lì dentro? Insomma non vi viene voglia, che so, di
sfondare la porta e uscire? Non vi viene voglia di correre e impregnarvi i capelli
di merda grigia che finite per ingurgitare se non dalla bocca almeno dagli
occhi? E dico, lo fate no? Vi prego ditemi di sì perché è quello che farei io,
qui la pioggia è più bella. Può esserlo, vero? Beh lo è, vivete in un posto in
cui il rumore nemmeno vi tocca e vivete di questa pioggia che è ancora più
atroce del solito. Qualcuno di voi ha davvero il coraggio di parlare sotto
quelle gocce? Non vi viene voglia di gettarvi a terra o sul corpo di qualcuno? Credo
che anche il sesso diventi… boh, esalazione? Cazzo, non significa niente e me
ne rendo conto ma ha un senso suo in fin dei conti. Esalazione di vapori, ho
questa immagine della goccia che cade su un culo nudo ed evapora. Così, nel
nulla. E tu respiri il calore della pelle del tuo culo o del suo. Nudi, stesi a
terra, con la pioggia che vi evapora addosso, i respiri, gli affanni e i gemiti
diventano più profondi delle parole. La verità è che senza il rumore nessuno
sarebbe capace di parlare, a nudo dico, parlare di se stesso, delle proprie
paure. Sarebbe come una libera caduta senza paracadute, nessuno si aspetta un
atterraggio morbido. Perciò l’unica cosa che puoi fare è gettarti sul corpo di
qualcun altro, in modo che le sensazioni parlino attraverso la tua eccitazione.
Siamo dei cagasotto. Dei cagasotto con le chiappe all’aria. Scommetto che la
metà di voi resta a guardare la pioggia e lascia la merda grigia agli altri,
eh?”
“La prossima canzone
parla di quei poveri stronzi che invece vivono di quei momenti, vivono
aspettando che l’acqua torni a scendere giù. Siete gli stessi stronzi che amano
e siete gli stessi che desiderano la pioggia solo per fiondarsi sul corpo di
qualcuno, che non è chiunque ma è qualcuno come voi, come noi… come me. La prossima
canzone parla di ciò che mi manca, è qualcosa che assomiglia alla vostra merda
grigia. E’ l’oceano.”
Waves roll in my thoughts
Hold tight the ring...
The sea will rise...
Please stand by the shore...
Oh, oh, oh, I will be...
I will be there once more
“Sì, beh. Anch’io aspetto, però aspetto un’onda. E’
sempre acqua, è sempre merda, però è blu e fa un casino assurdo. La prima volta
che ho incontrato i ragazzi della band ho cantato questa canzone. Ho ribaltato
una sedia e ho preso a sbatterci su le mani in preda all’eccitazione. Gli avevo
spiegato che non era mia, era del mare in un certo senso, apparteneva a lui e
io non cantavo, sputavo acqua dai polmoni. Quel picchiare contro la sedia
doveva somigliare al casino delle onde. In realtà era un casino e basta e mi
hanno tirato via a calci nel culo. Lo avrei fatto anch’io, insomma. Poi mi
hanno richiamato e mi hanno detto che il testo non era male e che la voce
andava bene, ma non dovevo provare mai più a fare quella cosa con la sedia.”
“E beh, ho smesso di fare quelle cose lì, ho smesso di
fare l’idiota ma l’idiozia s’impossessa ancora di me… o di qualche parte di me.
Ho scelto di fare musica perché è merda immateriale. E’ come l’acqua, solo che
ti soffoca senza che tu te ne renda conto. Ti senti nessuno e nessuno è un bel
modo di sentirsi. C’è chi dice il contrario e poi scopre che essere qualcuno fa
schifo; il problema è che tutti noi siamo qualcuno e non conta quanto ci
piacciamo o meno, arriverà sempre quel momento in cui nessuno, sarà esattamente
ciò che vorremmo essere. Semplicemente per smettere di sentire e permettere a
qualcuno o qualcosa di mostrarci… no, di vivere, sì di vivere di semplici
sensazioni di cui non siamo capaci. Non da soli. E’ merda immateriale, no? E io
faccio merda immateriale per permettere a voi stronzi di uscire da quella porta
e prendervi la vostra pioggia.”
“Buona serata gente, uscite, svestitevi e imparate a
vivere”.
***
“Non piove da una settimana…”
“Scusa?”
“Non piove da una settimana”
“Ah… sì, beh, capita”
“Dico, non piove da una settimana. Non puoi arrivare
qui e sparare cazzate come un fottuto stronzo che la sa lunga sulla vita, sai?
Puoi averne passate tante, puoi esser scappato da una finestra e aver dedicato
la tua vita alla musica ma questo non ti permette di parlare in quel modo.
Perché sai… qui c’è gente che…”
Un lungo sorso. Ingoia. Respira.
“C’è gente che ci crede in quelle cose, c’è gente che vive di quelle cose. E ti conviene davvero
aver capito quello di cui parlavi lassù, perché hai convinto molte orecchie,
molte più di quelle che hai disgustato. Hai una responsabilità addosso, anche
se ti chiami irresponsabile, anche se pensi di poter fare o dire quello che
vuoi, quelli ti seguiranno come capre. Tu non sai in che guaio ti sei
cacciato.”
Stavolta respira solo, con un gomito che scivola sul
bancone liscio del bar.
“E tu?”
“Io cosa?”
“Ti ho convinto?”
Ride. Ridono entrambi.
“Amico, io non ho bisogno di esser convinto. Non piove
da una settimana.”
“Ci credo. Quello che ho detto sul palco, dico. Io ci
credo e… la musica. Un nastro che gira, senza incepparsi mai, è come pioggia
incessante, è oceano. Quindi la risposta è: la musica. Suoni la batteria?”
Si guarda le dita e ringhia, sopprimendo la rabbia che
s’infrange contro una dentatura perfetta, bianca.
“E’ una questione di sopravvivenza, è il motivo per cui
aspetto la pioggia. Quindi sì, suono la batteria ma non è per… questo motivo.
Quelle dita non stanno ferme nemmeno in quel caso. Non le fermi, mai. Beh,
quasi mai.”
“Immagino sia lei”.
“E’ questo che fai? Tiri conclusioni sperando che
siano quelle giuste? Quanti ne hai incontrati finora che non ti abbiano
spaccato la faccia? Beh, non importa. E’ lei, ma non devi guardarle gli occhi,
o quel visino, non devi guardarla in generale. Devi ascoltarla e, se ci riesci,
devi ascoltare quello che ascolta lei. Provaci, valle vicino e prova a capire
che dice, provaci, fallo. Vai, ti dico, è innaturale, non esiste. Tu parli di
buchi neri, lei è un buco nero. Assorbe tutto quello che le si avvicina, lo fa
senza farsi notare, ti sfila le mutande sotto il naso, in un certo senso. Non
prova nulla, è una lavagna vuota su cui scrivere e lascia che gli altri
scrivano su di lei, perché ne ha bisogno, ha bisogno di vita e io ne ho troppa
e non piove da una dannata settimana.”
“Quindi che fai? Aspetti che scenda giù una cazzo di
goccia? Dico, allora non ascolti, no non guardarmi così, tu non ascolti. Allora
fallo adesso e chiudi quella cazzo di bocca, smetti d’ingurgitare merda e
ascolta.”
***
“Mi è capitato una volta d’incontrare qualcuno. A
tutti capita d’incontrare qualcuno, a me no. Io incontro qualcuno raramente,
insomma io incontro qualcuno che abbia da raccontare una volta ogni… una volta
ogni mai. Perché non c’è mai nessuno che abbia voglia di raccontarsi,
raccontarsi per davvero, con le parole che gli girano in testa, solo quelle tre
o quattro parole che si legano tra loro per formare un discorso, il resto caos,
caos che racconta, un caos che mi fa capire e che mi riempie. E beh, io ho incontrato
questo qualcuno che mi ha raccontato di aver perso una figlia, lungo il ciglio
di una strada. Ero piccolo ma abbastanza grande per capire. Non è mai tornata
ma l’ha vista sopravvivere, con i suoi enormi occhi da adulto, l’ha vista
cadere a terra e rialzarsi con la testa sanguinante, pronta a sentire le ossa
cedere e i muscoli gemere. Ma non si è mosso, era pronto a perderla e ha
lasciato che quella sensazione divorasse quel senso di paternità che ti spinge
a gettarti in strada per salvare tua figlia. Era pronto a perderla. Sono
rimasto colpito dai suoi occhi vuoti, non c’era nulla, così è stato facile
immaginare quell’uomo in piedi a guardar sua figlia morire. Ma non è morta. Si
è rialzata e si è seduta sul marciapiedi. Il vuoto in testa e la gola secca.”
“Questa canzone è per lei, ovunque lei sia. Questa
canzone è per chi aspetta, fermo sul marciapiedi, di perdere l’unica persona
che potrebbe farlo sentire vivo senza aver paura di esplodere. Chiunque creda
che parli d’amore deve alzarsi e andarsene, perché questa si chiama
disperazione e voglia di condividere, condividere il pieno con qualcuno che è
vuoto. Vorrei che chiunque stia lì, in piedi, a ciondolare… sostanzialmente
chiunque stia lì a non fare un cazzo della propria vita, adesso si svegli e afferri
quel briciolo di salvezza che gli viene offerta. Quindi, questa canzone è per
voi, pezzi di puzzle, glicerina… errori. Ascoltate e spalancate quella bocca
solo per incastrarvi tra di voi, anche se non piove.”
i can feel like i
have a soul that has been saved
i can feel like i've
put away my early grave
cut to later, now you're strong
you've bled yourself, the wounds are gone
it's rare when there is nothing wrong
survived and you're amongst the fittest
love ain’t love until you give it up
***
“Abi..”
“Questa canzone… questa canzone parla di me. Non
tutta, no. Credo solo quei versi. Cut to
later… quei versi, parlano di me, Imre. Mi sono svegliata su un
marciapiedi, mi faceva male la testa e non ricordavo nulla. Io… ero sola,
cercavo qualcuno ma… io non sapevo, non ricordavo… chi diamine cercavo? Come?
Volevo solo sentire… Imre io voglio sentire… Imre io…”
La paura. E’ una sensazione, la paura è una sensazione
e rimbalza nel suo corpo, le tremano le mani e la voce sovrasta la musica. La
sua voce. La sua voce che è sempre stata un sussurro, la sua voce che solo la
pioggia sapeva ascoltare. Via i sussurri, solo paura. Vuole sentire e sta
sentendo, ma non ha limiti, deve assorbire e assorbe anche la sua, di paura.
Paura di esplodere. Tic, tac. Imre, il tempo corre, la canzone va avanti, la
musica finirà, come la pioggia. Tic, tac. Imre, fai quel dannato passo e ferma
la sua paura. Limita le sue sensazioni a un confine umido che sa di birra.
Tic. Tac.
Tic…
L’hai
salvata. Hai salvato lei e hai salvato te. Con le mani sulle
sue guance, con gli occhi fissi nei suoi, spalancati e tremanti, con le pupille
dilatate e le sensazioni immerse in quel mezzo centimetro che divide i vostri
sguardi. E l’odore di birra sparisce insieme al fastidioso tintinnare dei
bicchieri e quel cigolio snervante della porta del bagno. Gente vi cammina
intorno, vi vomita sui piedi e vi alita nelle orecchie. Ma voi siete lì, con le
labbra incollate, incapaci di muovervi, incapaci di respirare. Tu finisci in
lei e lei continua in te, tu lei dai rumore e lei ti da silenzio.
***
E la canzone va avanti, parla di sangue e la tua mano
sfiora la ciocca rossa, come attratta da un richiamo, un richiamo ferroso.
Condividi con lei la tua saliva ma hai già condiviso con lei il tuo sangue, le
tue sensazioni, le tue emozioni; hai condiviso con lei i tuoi respiri e adesso
condividi con lei il bisogno di condividere. Siete vasi comunicanti, uno si
svuota, l’altro si riempie e viceversa; dondolate, siete su un filo invisibile,
pronti a cadere, pronti a farvi male.
E siete nessuno. Scivolate con i piedi nella bile,
appoggiati ad un muro ricoperto di moquette, calpestate gomme da masticare
ancora impregnate di saliva e siete pronti a spogliarvi lì, a due passi da
centinaia di occhi. Ma siete nessuno e non c’è interesse nel guardarvi. Non
frega al cameriere che vi passa di fianco con lo spazzolone del cesso di nuovo intasato;
non frega ai vostri amici impegnati in un discorso d’intimità che solo i loro
sguardi possono spiegare; non frega nemmeno a voi di voi stessi. Vi muovete
meccanici, divorati dal bisogno, divorati dal desiderio e dal dolore causato da
sensazioni troppo forti, troppo vive. Pungenti come spilli conficcati nei punti
più sensibili.
Vi tatuate a fuoco il viso e il corpo, imparate ad
annusarvi, ad ascoltarvi. Non c’è sussurro e non c’è ritmo a dividervi, non c’è
rumore, solo silenzio. Silenzio e quella musica che non finisce di girare;
gira, gira, sembra avervi notato, lei, in mezzo alla folla e vuole che
continuiate. Vuole vedervi sgretolare, cadere a terra esausti e vivi l’uno
nell’altro. Perché il vostro non è amore, è disperazione; condivisa, compresa.
“Questa era per chi ha smesso di sentirsi solo. Questa
era per chi ha smesso di aspettare la pioggia e si è messo ad ascoltare della
fottuta musica mentre fotte. Fotte fisicamente e fotte con il cervello. Fotte
se stesso, dentro una donna che lo completa, lo completa nella sua totale
inadeguatezza. Questa era per quel qualcuno che oggi avrebbe voluto vedere sua
figlia alzarsi dal marciapiede e camminare, correre, spedita fino a quel sedile
di spugna, rovistare fra le gomme consumate e stringere la mano ad un’anima
persa. Persa come lei.”
“Quando si è persi insieme si finisce per ritrovarsi
sempre, nell’errore, nella disperazione, nel bisogno. E ci si fotte, corpo e
cervello. E ci si sente vivi.”
“Questa, quindi, era per voi, che siete nessuno.”
***
Non
aggiorno da un'infinità di tempo e non ho idea di cosa dirvi per
prima cosa. In teoria potrei anche non dire nulla ma avevo una bella
idea di queste note, avevo immaginato un paio di cose da dire mentre
metto in bocca un cucchiaio di riso con funghi e zafferano.
Comincerò col dire che di
questa storia non ci ho mai capito niente e so che anche per voi
è difficile seguire il filo logico degli eventi, non ho mai dato
un vero contesto temporale, sono avvenimenti che accadono senza un
preciso ordine, ho voluto seguire l'ordine dei pensieri, non miei ma
loro, ho immagini nella testa e quelle immagini parlano ed è un
pò quello che voi leggete in questi capitoli sconclusionati.
Alla fine probabilmente ci sarà una sorta di strappo del velo,
ma non son comunque sicura di riuscire a darvi tutti i pezzi di
connessione, perchè non voglio la descrizione banale di un
fatto, di un contesto e di due personaggi che si muovono in quei
determinati limiti, mi piaceva non averli quei limiti, creare qualcosa
di sconclusionato.
E' un miscuglio di sensazioni e immagini e di logico nelle mie sensazioni c'è davvero poco, quasi niente.
Quindi..direi che è ora di lasciarvi perdere.
I testi sono usciti dalla mente
malata di una persona che vive di sensazioni, quindi non potevano
essere più azzeccati, proprio per questo mi son fiondata su di
lui e loro, perchè ero icura di trovare quello che cercavo. E
loro sono i Pearl.
Vaaaaaa bene, ora lo mangio davvero il mio risotto.
Tante coccole.
Lis
|
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Capitolo 13 *** Ruggine ***
Ruggine
Ruggine
Ho conosciuto Imre..
Sì, si che me lo ricordo, mi prendo tempo, non è facile
raccontare una cosa del genere, i ricordi vanno tirati fuori dalla scatola,
messi in ordine, insomma non è tutto lì in fila; non li tocco da quel giorno,
sono ancora nel loro ordine originale, odori, suoni, non ricordo nemmeno se è
stato l’odore di erba bagnata o il rumore di un pianto rotto che mi ha attirata
fin lì.
Il punto è che non ho mai conosciuto i miei genitori e
vivevo in una casa famiglia da non so nemmeno quanto, probabilmente da tutta
una vita; ero poco più che una bambina ma sapevo distinguere le note, tutte.
Non sapevo scrivere e a malapena sapevo dividere in sillabe il mio nome, ma
sapevo suonare e cantare. E sapevo leggere le note. Tutte, senza esclusione, a
volte ne inventavo qualcuna; mi mettevo allungata sulla brandina, perché non
avevamo letti veri e propri, erano più delle sdraio foderate di spugna, eravamo
bambini, non ci lamentavamo...dicevo, mi stendevo sul letto e per addormentarmi
canticchiavo qualche nota senza senso, era più per coprire il frastuono che
faceva il rubinetto del bagno, perdeva acqua di notte, solo la notte perché
durante il giorno era serrato, giuro controllavo di continuo. Credevo fosse uno
strano scherzo di Dio, all’epoca credevo che tutto fosse opera sua, non perché
ci credessi per davvero, volevano farmi credere in certe cose, era più una
minaccia. Si all’epoca sentivo quel tipo di cose, la chiesa, la dottrina, il
catechismo la domenica, come una specie di espiazione. Ero una bambina, una
bambina abbandonata dai genitori che inventava note, non è che avessi modo di
peccare o commettere granchè errori, perciò mi chiedevo a cosa servissero tutte
quelle preghiere, io non avevo nulla da chiedere, non avevo bisogno di una
mamma e di un papà, non sapevo nemmeno cosa fossero una mamma ed un papà. Beh,
volevo il mio tempo per capirle certe cose, volevo essere sicura di credere in
qualcosa di cui fossi consapevole non perché qualcuno mi avesse detto di
crederci, così su due piedi. L’unica cosa in cui credevo era la musica, la sera
mentre tutti gli altri pregavano inginocchiati ai piedi del letto io tenevo le
mani nascoste sotto la coperta e contavo il numero di battute che c’erano in
una frase o afferravo qualche nota persa qua e là. Ricordo che sopra il mio
letto, proprio sopra la mia testa, c’era una finestra che dava sul giardino
posteriore, quello comunicante con il cimitero.
Ricordo che ogni sera una donna si fermava davanti
all’entrata del cimitero, il cancelletto arrugginito le sporcava le mani di
rosso, ogni volta che si portava una mano agli occhi per asciugarli evitava
accuratamente di passarsi i palmi sulle guance, si asciugava con il dorso della
mano, come facevo io, come fanno i bambini. Era una cosa che mi piaceva
particolarmente quella, la guardavo piangere e volevo abbracciarla; ogni volta
che si asciugava le lacrime con quel gesto così...dolce ed innocente, volevo
correre per il prato ed abbracciarla.
Cantava, la donna. E mentre tutti gli altri si facevano uscire
lividi viola per pregare in ginocchio io posavo i gomiti sul letto e nascondevo
le mani sotto le coperte e, con gli occhi chiusi, ascoltavo quelle note che si
avvicinavano tanto alle mie, quelle inventate, quelle senza nome.
E l’ho conosciuto così Imre. Il giorno del funerale di suo
padre; ero affacciata alla finestra sopra il mio letto e l’ho visto, nascosto
dietro un albero. Indossava un pigiama a quadri di quelli di flanella e ai
piedi portava un paio di anfibi neri pesanti, forse anche più pesanti di lui.
Sentivo le sue dita battere contro l’albero; non le sentivo per davvero, ero
lontana, ma l’osservavo, non so da quanto lo stessi osservando, e quel
ticchettare contro la corteccia era ritmico, ammaliante. Pioveva a dirotto e
non riuscivo nemmeno ad ascoltare la voce del prete pronunciare l’addio al
padre di Imre ma sentivo le sue dita battere sulla corteccia. Sentivo il
necessario, forse l’unica cosa che bisognava ascoltare, in quel momento.
E non so come ma mi sono ritrovata al piano di sotto che aprivo
la porta con tutte e due le mani e la tiravo verso di me, ero scalza e
indossavo una di quelle vestagliette leggere bianche, e pioveva a dirotto.
Muovevo i piedi dentro il fango e avevo tutti quei legnetti fastidiosi
incastrati fra le dita, facevano un male tremendo ma continuavo a camminare
senza staccare gli occhi di dosso da quel bambino. Aveva la mia età o forse era
di poco più grande di me, era già abbastanza alto e aveva già quello sguardo...penetrante.
Ricordo che quando si è girato a guardarmi ho sentito una fitta sulla fronte,
un male atroce, qualcosa di dannatamente appuntito cercava di perforarmi il
cranio. Sentivo quasi il cervello sfrigolare contro le ossa. Non scherzo quando
dico che il suo sguardo era già allora penetrante, un’arma micidiale. Ho
cominciato a prenderlo a pugni implorando e inveendo contro di lui.
Non gli ho chiesto nulla, insomma non c’era niente da
chiedergli, io non sapevo cosa significasse perdere qualcuno, io quel qualcuno
non lo avevo nemmeno conosciuto quindi…era un po’ come perdere qualcosa che non
hai, non ne senti la mancanza, non ne senti nemmeno la perdita. Perciò lo
guardavo odiare quelle facce di fianco alla bara di suo padre e sentivo i
cervelli di decine e decine di persone gemere dentro quei crani troppo stretti,
il suo sguardo stava trapanando tutti, uno per uno. Voleva che se ne andassero,
lo sentivo, non era difficile, voleva star solo con il padre, dirgli ciao senza
rischiare d’inciampare in quelle facce trapanate. Che poi son sicura che
nessuno conoscesse davvero quel bambino, non avevo mai visto quelle persone ed
io ero una bambina che girava un sacco, tutti i giorni.
Ricordo di avergli stretto la mano, non so perché ma sentivo
che dovevo farlo. Ero attratta da lui, ma in un modo strano. Sapevo quanto stava
male, glielo leggevo negli occhi. Ricordo questa scena di lui che si gira a
guardarmi ma non mi guarda affatto, prima di mettermi a fuoco lo vedo osservare
elementi di me, elementi intorno a me, elementi qualsiasi presenti solo in
quella sua testa in esplosione. Ero terrorizzata, non da lui, ero terrorizzata
per lui. Così gli ho tirato uno schiaffo, i suoi occhi hanno letteralmente
rallentato fino a fermarsi sui miei piedi scalzi e sporchi. E ha riso. Dico una
risata tranquilla, una risata pulita, non come i miei piedi. Mi ha fatto stare
bene, ero lì che gli stringevo la mano e che lo ascoltavo ridere, volevo
mettergli un fiocco intorno al collo e portarmelo a casa e magari nasconderlo
sotto al letto. Volevo che fosse una di quelle tante scatole da aprire quando
ne avevo bisogno.
E poi la donna. Ha cominciato a cantare al di là del
cancello e tutti e due ci siamo girati ad osservarla. Ci ha raggiunti
lentamente con lo sguardo, ci ha accarezzati scivolando lungo le braccia fino
ad arrivare a quel groviglio di dita che erano le nostre mani strette l’una
dell’altra e…se n’è andata, con una parola strozzata nella gola, ne leggevo il
suono muto sulle labbra: nero.
Imre è stato il mio primo colore, o forse è meglio dire non
colore. Lui era chiuso in quella parola, la parola che è rotolata giù dalle
labbra di quella donna fino alle mie orecchie. L’ho raccolta da terra e
ripulita da tutta l’erba, il terriccio, il polline e l’acqua che la ricopriva e
l’ho regalata ad Imre.
Ci siamo conosciuti quando entrambe le nostre vite stavano
uscendo da un vicolo cieco, eravamo davanti a quella grande porta pesante che
quando la cominci ad aprire ti sembra di piombo e mano a mano che lo spiraglio
di luce si fa più ampio il peso diminuisce diventando gommapiuma. Era quel
classico momento della vita in cui tutto ciò che prima ci sembrava enorme dopo
era perfettamente a misura d’uomo.
Eravamo cresciuti tenendoci per mano, io donna lui uomo,
sapevamo che dovevamo far qualcosa per noi stessi ma non sapevamo da dove
cominciare. Quella porta sembrava un buon inizio così l’abbiamo spinta insieme
ed è questo che voglio far capire, a chiunque, a voi, a loro, a volte anche a
me stessa.
Di solito una strada è sempre troppo stretta per essere
percorsa da due persone che camminano l’una accanto all’altra. Quella strada,
fino alla porta, è il tipico metro di cemento che uno deve percorrere da solo,
con le sue paure, i suoi fantasmi, i suoi fottuti problemi a fargli da ombra,
sempre lì presenti a ricordargli che potrebbe non farcela e che magari quello
che c’è oltre la porta farà schifo, ancora più di quello che c’è prima. Ma io e
Imre eravamo bambini, lui era più alto di un comune bambino della sua età ma
era mingherlino e io mangiavo poco, non è che ci tenessero all’ingrasso in quel
posto. Quindi c’entravamo bene in due in quel mezzo metro di cemento, ci
tenevamo per mano ed eravamo così vicini che uno poteva ascoltare con
l’orecchio dell’altro. E così abbiamo fregato il solito andamento delle cose,
quella frase “ognuno fa le proprie scelte, da solo, prendendosene le
conseguenze”, nessuno immaginava che io
e Imre quel giorno saremmo cresciuti, nessuno immaginava che avremmo deciso di
correre insieme quel rischio, aprire una porta più grande e pesante di noi, percorrere
una strada di cemento scalzi o con un paio di anfibi pesanti. Perciò quella
frase, per noi, su di noi, non andava bene, vestivamo già una vestaglia
sbagliata e un pigiama ridicolo, eravamo già due idioti, io credevo persino di
essere atea e mi ciucciavo ancora il dito prima di addormentarmi.
Se ci avessero detto che stavamo sbagliando, che non era il
momento, probabilmente non li avremmo nemmeno ascoltati, perché sapevamo di
essere un pugno in un occhio, due anatroccoli brutti e scarni, perciò perché
provarci?
Ed è questo che siamo: due persone abbastanza piccole e
strette da poter raggirare le regole di questo fottuto mondo. Insieme, come
un’unica persona, come un piede e un anfibio, o come un paio di orecchie e una
voce.
Due persone distinte che condividono mezzo metro di cemento,
quel mezzo metro che conta però.
Ed ecco, c’è un’altra cosa.
Ricordo di essere scesa perché c’era un’altra cosa, un’altra
persona che mi aveva incuriosita. Non ci penso mai, è una di quelle cose che
noti e non sai come, nascosta tra le altre mille immagini che si accumulano
nelle mente.
C’era una bambina, qualche albero più in là, seduta a terra,
con il cappuccio tirato sugli occhi e un cane tra le braccia. Aveva quei lunghi
capelli biondi che le ricadevano sugli occhi e una ciocca rosso fuoco che
lasciava penetranti macchie rosse sui vestiti e sul terriccio sotto i suoi
piedi. Era triste, era sola, era come persa, persa come quel ragazzino poco
distante da lei.
E’ un’immagine che torna, più volte, e nei momenti meno
opportuni.
La cosa più inquietante è che ogni volta che racconto di lei
la sua immagine svanisce nel nulla, Imre non l’ha vista, Imre non sa chi sia,
ma io l’ho vista diamine. Era lì, lo giuro. E lo giuro, tutte le volte e ogni
dannata volta, quell’immagine sparisce chissà dove e non so più chi sia quella
bambina, quale fosse il colore dei suoi capelli o della felpa; rimane solo
quella sensazione di vuoto, come se qualcuno mi avesse cancellato un ricordo,
come se nessuno dovesse sapere che lei fosse lì a due passi da noi.
E la dimentico, così come l’ho dimenticata la prima volta,
passo dopo passo, a mano a mano che mi avvicinavo, dimenticavo la bambina e
ricordavo Imre, fino a quando non gli ho stretto la mano e quella ciocca rossa
non è sparita completamente dal mio campo visivo e così dalla mia mente.
Capelli biondi.
Cane tra le braccia credo.
Una ciocca di capelli ma non ricordo il colore.
Un cappuccio, che cappuccio?
Un albero a pochi passi da Imre.
Vuoto.
***
Andando
avanti mi sono resa conto che avevo fatto incontrare tutti tranne Emi e
Imre, io sapevo come si erano conosciuti, da qualche parte nella mia
testolina avevo un'immagine di loro abbastanza chiara, ma non ne avevo
mai scritto. Quindi eccoli, Emi e Imre impegnati nel loro primo
incontro. Sono teneri vero? Teneri e sporchi.
Vaaaa
bene, non ho molto da dire, anzi devo scappare, però ringrazio
come sempre chi legge segue e preferisce, ogni tanto ne spunta qualcuno
di nuovo e io vado lì a trovarlo con il mio delirio, quindi
grazie.
E poi grazie a Chara che mi sta dietro e mi cazzia. Io vi suggerisco anche una cosa E' una roba rossa, ma proprio rossa ma anche troppo bella.. ed è sua..quindi fiondatevici perchè ne vale la pena.
Tante coccole.
Lis
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Capitolo 14 *** Unottantotto ***
13 Unottantotto
Unottantotto
A Danny
e ai suoi due bracci destro
uno bianco e uno nero.
All'infinito finito.
Una volta, qualcuno ha scritto:
“Un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finisco. Tu sai che sono 88,
su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e
dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei
infinito”.
E il discorso fila, il concetto è giusto. Ma, ipotizziamo,
se tra il primo e l’ultimo, l’uno e l’ottantotto, ci fosse una melodia precisa,
un intero spartito già scritto, già pronto, che deve solo essere suonato? Se ci
fosse questo spartito… immagino i fogli sparsi sulla coda del pianoforte e quel
primo e quell’ottantesimo vibrare d’attesa; dico, se ci fosse questo spartito,
allora la musica non sarebbe infinita; sarebbe lì, tutta lì, in quei pezzi di
carta, delimitata sempre da quei due tasti che, seppur distanti, si uniscono inaspettatamente
in una nota, una cacofonia di acuti e bassi, di forte e piano, di grida e di
sussurri profondi. Si parla di vibrazioni, minime vibrazioni, che creano musica
e quella musica ti parla, ti sta dicendo ottantasei tasti di distanza e
comunque quel primo ed ultimo si sono incontrati.
Il problema sta in quel “tu sei infinito” . Perché in fin
dei conti il problema è sempre quello, siamo spinti alla continua ricerca di
qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, riceviamo stimoli e ci muoviamo
meccanicamente nella direzione che ci indicano. Corriamo e cerchiamo e ci
domandiamo. Siamo infiniti in un corpo finito, in una mente finita, circondata
da ossa e nervi e carne e pelle. E noi scaviamo, accantoniamo e cerchiamo di
accatastare cose, ricordi, addosso ad altre cose, sensazioni. E alla fine
scoppiamo, sentiamo il bisogno di chiuderci in un limite, tornare a quel primo
e a quell’ottantottesimo; e ci torniamo, apparentemente. Possiamo credere di
esser fermi, se vogliamo, possiamo vederci immobili nelle nostre scarpe e nei
nostri corpi finiti e possiamo illuderci di controllare i nostri ricordi, le
nostre sensazioni e addirittura i nostri pensieri.
Ma il problema permane: noi siamo infiniti.
Perciò, quando accade che qualcuno ci piazza uno spartito
davanti, le note nere su carta panna, restiamo spiazzati. Ci ritroviamo a
concentrarci esclusivamente su quei due tasti e non sulla distanza che li
separa, non sulle infinite combinazioni che quegli ottantotto tasselli ci
offrono. Siamo lì con un dito sul primo e un dito sull’ultimo, come in origine,
come prima che cominciassimo a sfiorare e a curiosare oltre quei limiti.
E riscopriamo una melodia primordiale che avevamo
dimenticato e assomiglia tanto a un ricordo, che piano piano riaffiora, prima
le sensazioni, poi le immagini ed infine la consapevolezza.
***
Uno
Seduta sul marciapiede Abigail riesce a sentire l’odore dell’asfalto
fresco, reso bollente dal sole che picchia violento sulla sua testa, sul
tettuccio delle macchine, sui gigli bianchi nel parco del cimitero e che
scioglie la suola di gomma delle scarpe di Imre che la osserva dall’altro lato
della strada con la schiena poggiata contro un albero.
C’è qualcosa, forse il silenzio assordante di quel
pomeriggio troppo caldo o forse lo stesso asfalto che prima ha calpestato e che
adesso annusa, con il naso a pochi metri dal catrame che lo compone; ma c’è
qualcosa che vibra, nell’aria, intorno a lei o in lei, ma c’è. Ha seguito Imre
in silenzio, senza chiedersi dove la stesse portando, e, mano a mano che si
erano avvicinati, aveva riconosciuto una certa familiarità nei suoi passi,
nella pesantezza del suo respiro e dei suoi pensieri e nei battiti accelerati
che avevano tentato di fracassarle il petto. Erano, e lo sono ancora, solo
sensazioni, ma prepotenti e a tratti dolorose.
Sente qualcosa, percepisce qualcosa e continua a guardare la
strada, un punto preciso, non uno qualsiasi. Come se si aspettasse che accada
qualcosa da un momento all’altro, qualcosa di troppo grande da poter essere
ignorato.
Diavolo, vorrebbe alzarsi e avvicinarsi e guardare meglio,
toccare quei centimetri di cemento da cui non riesce a distogliere lo sguardo;
vorrebbe piantarci un piede e pestare fino a quando non succeda, fino a quando
una crepa non la convinca che non c’è un fottuto nulla sotto la sua scarpa. Ma
resta seduta al suo posto, inchiodata dall’attesa e da quella sensazione
snervante di chi sa che manca un pezzo al quadro, il pezzo chiave.
E la sua vita gira tutta intorno a quel pezzo, le manca
sempre poco così per ricordare, ricordare non tutto ma semplicemente qualcosa
di diverso dal suo nome, qualcosa che sente e che ha sempre sentito ma non ha
mai saputo vedere. Ed è per questo che stavolta osserva con attenzione, perché
vuole vedere; è stanca d’immaginare,
stanca di sentire e basta, ha bisogno di ricordare, o almeno di sapere
che è capace anche solo di andarci vicina, a un ricordo. Le basterebbe un
brivido o una scossa o una qualsiasi cosa che la spinga ad alzarsi e a
ricominciare a sentire e a provare a vivere con i soliti trucchi di sempre.
E improvvisamente sente il viso bagnato, freddo nel petto e
un caldo tremendo sotto la ciocca nera, sotto la cicatrice e ancora più a
fondo. E sull’asfalto la vede, una macchia rosso sangue schiarita dal tempo,
minuscola, impercettibile ma presente. Ed è lì, in quel preciso punto, e allora
si alza e la sfiora con le dita e la graffia e ci batte il palmo spaventata
senza sapere da cosa. Respira a malapena, l’ossigeno bloccato a metà tra i
polmoni e l’esofago, le costole ripiegate su se stesse e le braccia strette al
petto come a contenere il cuore che sembra essere sul punto di esplodere,
finalmente.
E sono proprio le braccia che attirano la sua attenzione,
indossa un cardigan rosso ma quella che vede è una felpa verde e un cane che la
fissa con due occhi… preoccupati. Preoccupati per lei, per quella cicatrice che
brucia e per i capelli bagnati, il freddo nelle ossa e i passi incerti e le
ginocchia instabili, e vorrebbe non sentire più, vorrebbe non vedere più,
vorrebbe solo spegnere quelle voci che, di nuovo, sono esplose nella sua testa.
Di nuovo.
Ferma, in ginocchio, con le mani ad accarezzare il ricordo
di quel cucciolo spaventato, un grido le muore in gola, divorato dal terrore
quando due fari di un pick-up si piantano a pochi centimetri dal suo viso. Ha
gli occhi spalancati, nonostante senta il forte impulso di serrarli e
dimenticare, ingoiare quel terrore e alzarsi in piedi e scappare il più lontano
possibile da tutto quello, ma resta lì ad ascoltare il rumore di una pioggia
inesistente bagnare il paraurti del pick-up e scivolare silenziosa lungo la
lamiera rovinata fino ad impregnare l’asfalto e i suoi vestiti e le sue ossa.
Un dolore lancinante alla testa la fa crollare a terra e in quell’istante la
vede; la bambina stesa a terra con il cane al suo fianco che le lecca il viso
guaendo disperato. La vede alzarsi e guardare disorientata di fronte a sé, il
rivolo di sangue le macchia la pelle chiara e morbida e ascolta. Ascolta i suoi
singhiozzi silenziosi nascerle nel petto e sgusciare fuori da quelle labbra
sottili e viola di freddo. Non sta piangendo, è solo il ricordo del dolore, la
reazione del suo corpo a quell’urto tremendo; non ricorda nulla, non sa nemmeno
piangere, non sa gridare e non sa muovere un passo dietro l’altro così si
trascina fino al marciapiede e aspetta.
E si sente pronunciare il suo primo sussurro, la sua prima
ancora di salvezza. Si sente rinascere, una seconda volta, e si vede rinascere.
Per la prima volta.
Un istante, un secondo. Una gomma rotola di fianco ad
Abigail, obbligandola a spostarsi di qualche metro e a distogliere l’attenzione
da quella se stessa ingabbiata nei suoi ricordi e ricorda.
Dio, ricorda.
Ricorda i suoi occhi, ricorda il suo viso, ricorda la
pioggia e quel grido straziato che le consuma le corde vocali. Lo sguardo
liquido, da cui straripano gocce di pioggia, grida in silenzio e si dispera in
segreto, gli occhi fissi verso il cielo, il dito puntato verso un’unica e
brillante stella.
E ricorda di aver dimenticato e perché ha dimenticato.
***
Ottantotto
Le sue mani. Le nocche bianche che stringono il bordo bianco
del marciapiede.
Le sue braccia. Tese, vibrano.
Le sue labbra. No, non sono neanche le labbra.
Le sue guance. Rosse, nascoste dal fazzoletto legato al
collo.
E da capo.
Le sue mani. Le sue braccia. Le sue labbra. Le sue guance.
Di nuovo. E ancora. Non lo trova; non trova quel qualcosa,
quel qualcosa di lei che lo tiene incollato con il culo sulla terra morbida, la
schiena che graffia contro la corteccia ruvida, le mani incrociate al petto e
gli occhi… gli occhi fissi su ogni elemento di lei. Ogni elemento tranne lui.
E conta, prima le mani, poi le braccia e poi perde il conto
e ricomincia. Su e giù, giù e su. E continua, incapace di fermarsi; deve
trovarlo, ma trovare cosa? E perché? Sente quel dannato qualcosa spingere sul
palato, infilarsi nel naso e sfuggire per sempre ad appena pochi millimetri dal
cervello.
Trema perché l’ha portata lì, trema perché non sa come c’è
arrivato, non sa chi sia lei e non sa nemmeno perché voglia condividere quel
dolore con quel corpo fragile quanto il suo da riempire fino all’orlo. Dalle
mani, alle braccia, alle labbra, fino alle guance e più su a piantargli i suoi
ricordi negli occhi.
Un brivido, lungo tutta la schiena, e colpi di tosse
violenti; la testa pesante e la voglia di fuggire o di lasciarsi andare per
sempre. La voglia di scivolare a terra e non sentire nulla, voglia di vuoto
riempito dalla pioggia, da gocce fredde e grigie di un cielo scuro illuminato
da una sola stella. Sensazioni, immagini, tutte raccolte in un istante, un
preciso istante: l’impatto contro l’albero, l’impatto contro il parapetto del
pick-up, l’impatto dei loro sguardi.
Vorrebbe dimenticare tutto, vorrebbe essere lei per un
attimo, lei e la sua ciocca nera, lei e i suoi sussurri, lei e i suoi occhi
così... ingenui, ma… consapevoli.
Vorrebbe dimenticare eppure ricorda e ricorda e ricorda,
fino a star male, fino a vomitare immagini e parole e sangue, quello di suo
padre e il suo, che non è stato versato. Allora dimentica, Imre, dimentica
velocemente prima di ricominciare a ricordare, dimentica prima che torni tutto
a galla, prima che il sole asciughi i vestiti bagnati, prima di riconoscere
quegli occhi, finalmente.
Dimentica, Imre.
Dimentica.
Le sue mani.
Le sue braccia. Le sue labbra e le sue guance.
I suoi occhi. Spalancati su di lui. Pieni. Consapevoli.
E se non puoi dimenticare, allora ricorda.
Consapevoli.
***
E uno e ottantotto si incontrano, di nuovo o forse per la
prima volta. Non siamo infiniti. Non tutti, per lo meno. Non quando ci
s’incontra. Si muovono passi, passi finiti. Si alzano sguardi che finiscono
l’uno nell’altro. Si muovono braccia e busto e si prova a scoprire quel mezzo
metro, finito, che separa due infiniti. E poi ci si unisce, in uno spartito di
note finite, in un ricordo d’immagini precise, in una sensazione, una sola.
E si sopravvive a quell’esplosione inevitabile, materia
contro materia, contenuta in quel pezzo di cemento, in quegli ottantasei tasti
di distanza, in quella macchia di sangue di fianco alla gomma rotolata a terra.
Il dolore è finito. Inizia dal petto e finisce nello
sguardo.
Le parole devono essere finite, limitarsi ad un “Eri tu” e
morire in gola, anestetizzando il
dolore, reprimendo i sensi di colpa,
eliminando i resti dell’esplosione e incontrandosi in un solo, finito, ricordo.
***
Uno e ottantotto
“Eri tu”
***
Perchè,
mi chiedo perchè mi ritrovo sempre a pubblicare di notte. La mia
beta corregge i capitoli che le mando alle due, a volte anche alle tre,
è capitato che ne mandassi uno anche alle quattro, fresco di
scrittura e pieno di errori indicibili perchè gli occhi non
reggevano più e la mente era completamente su un altro pianeta.
Perciò mi chiedo ancora, perchè io pubblico a quest'ora?
La
citazione in alto, quella in corsivo, viene da "Novecento" di Baricco.
Mi serviva qualcosa di funzionale per farli incontrare, incontrare per
davvero e di nuovo. Imre e Abi si son riconosciuti nella bambina sul
ciglio della strada e il bimbo che guardava le stelle. Ed ora io li
devo far finire, in qualche modo. Il prossimo sarà l'epilogo,
giuro che sarò buona e nelle note spiegherò da dove
è nato questo delirio, almeno renderò partecipi anche voi
della mia malattia mentale. Intanto se cliccate sull'immagine si apre
il pezzo da cui ho preso la citazione e se cliccate su Danny trovate il
bimbo meraviglioso che, se fossi nata clandestinamente su una nave,
sarei tanto voluto essere.
Grazie beta e grazie Fal, solo perchè siete voi e perchè siete matte abbastanza da starmi sempre vicine.
Sogni d'oro!
Lis
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Capitolo 15 *** A-b-i-g-a-i-l ***
abigail 14
A-b-i-g-a-i-l
Alla cannella
perchè è un modo originale di dirti grazie;
Alle cadute libere
perchè ti sorprendono;
Alla grafomania
perchè è un modo tutto personale di capire se stessi;
Ai gufi sul libro di storia
perchè sapevo che prima o poi mi sarebbero stati utili;
Alle onde di un oceano che non ho ancora visto,
alla Kostova che non sa che cosa mi combina,
alle esperienze di un'estate passata dietro un obbiettivo,
a Vitaris e che i suoi capelli bianchi restino sempre incollati a quella capoccia quadra;
E alla musica;
perchè è quello che è e non serve dire altro.
I giorni passati, come cambiano velocemente
Sei perduta e andata da lungo tempo ormai
Voglio ricordare qualunque cosa
Muovendomi alla velocità del suono
Alla velocità del suono
Sono Abigail, Abigail e basta. Non ho cognome, non ora.
L’uomo a cui appartenevo, l’uomo che mi ha cresciuta, l’uomo che tiene ancora
stretta in pugno la mia infanzia e il mio cavallo a dondolo insieme alle
costruzioni, è morto sul ciglio della strada, quella sera, al posto mio, nella
mente e forse anche nel corpo.
Sono Abigail senza cognome, Abigail senza casa, Abigail
senza famiglia. Sono Abigail e questa consapevolezza non è mai stata così
rassicurante. Avere un nome è essere qualcuno per questo buco di mondo; avere
un nome permette alle persone di fermarti per strada, farti girare verso di
loro e concedergli attenzione. Avere un nome significa poter essere trovati,
ovunque, nel mondo, da chiunque, al mondo.
Il mio è Abigail e non è il mio vero nome. E’ il nome della
consapevolezza di essere qualcosa, di essere qualcuno. E’ la consapevolezza di
un corpo che cerca la sua anima e che poi ad un certo punto, sul ciglio della
strada, sotto un sole che picchia ma con il gelo nelle ossa, la ritrova. La
ritrova nell’esatto istante in cui non la cerca più ed Abigail è il nome della
consapevolezza di non aver mai cercato nel posto giusto, seguendo il silenzio e
non il rumore, seguendo la voglia di svuotarsi che si coniuga con la voglia
della sua anima persa di riempirsi.
Abigail è quella storia dei vasi comunicanti, riempio e mi
svuoto nel mio simile che a sua volta si riempie e si svuota in quel vaso che è
il mio corpo, che cerca un’anima e poi la trova. Ci ho versato un po’ di tutto
in quei vasi, sperando di riuscire a colmare in breve tempo la distanza che mi
separa dal tunnel che li collega, goccia dopo goccia, sasso dopo sasso,
sensazioni che si arrampicano e stringono i denti fino a consumarsi anche le
gengive. Persevera, dico a quella
sensazione che scivola sulla parete liscia del vaso, persevera, le ripeto. E lei persevera, si arrampica sull’odore del
tabacco e affonda le mani nel battito di un cuore. Persevera, arrampicati, aggrappati e scavalca.
Abigail è quel controsenso della sensazione che non è
sufficiente per arrivare a quel gradino poco prima del ponte, per svuotarsi in
quel vaso diventato ormai pura ed effimera ambizione. E’ la contraddizione di
vuotare il vuoto nel vuoto. Un gioco di parole cacofonico che fa eco e si
rispecchia contro il vetro. Abigail è il desiderio puro e semplice di volersi
condividere. Non ho nulla, non ho che me stessa e anche in quel caso ho poco e
niente, posso offrire un iride di colore intorno ad una pupilla ampia, nera e
profonda. Ed è la condivisione di se stessi che fa paura, è quel guardarsi, ma
guardarsi per davvero, negli occhi e nell’anima in un modo da poter persino
vedere il colore delle mutande, fino in fondo ai calzini, senza davvero che tu
sia nudo davanti a me. Abigail è pisciare a porte aperte.
Abigail è la sincera paura di restare a secco, senza nemmeno
la riserva, al centro perfetto di una strada senza luci, di una strada senza
insegne. Di una strada senza neanche una strada. Priva di un luogo, priva di un
suono, priva di sensazioni a cui aggrapparsi. Priva di ricordi da dimenticare ed
errori da perdonare.
Posso perdonare quello che
non posso dimenticare e vivere una bugia?
Abigail è nulla da giustificare, nulla da dimenticare né da
perdonare. Abigail è una fotografia di cui si son persi i negativi. E’ un
positivo fragile, cenere tra le ceneri, fuoco al fuoco, patina opaca che
sbiadisce anno per anno. Abigail è “e
ancora mi sto aggrappando forte a questo sogno di una luce lontana”. C’è
ancora quella sensazione che scava il vetro, c’è ancora quel persevera rotto dal pianto, rotto dalla
stanchezza, come una puntina che indugia sul graffio petrolio di un vinile
impolverato al centro di una stanza che aspetta immobile di essere scoperta e
svuotata. Di fianco al giradischi, sopra al cartone di un disco del ’77 degli
allora Warsaw, appeso tra il nulla e la curvatura perfetta dell’emulsione secca
e dura, un negativo. Sei scatti: il primo a metà, come se la tendina si fosse
piantata al centro, incapace di andare avanti, troppo lenta, troppo stanca,
troppo rotta; l’ultimo troppo
contrastato, troppo denso, troppo bianco e troppo nero da far male agli occhi e
al cuore.
Un sussurro nell'oscurità,
sei tu o sono solo i miei pensieri?
Sono completamente sveglia e sto cercando di afferrare qualcosa
Abigail non è più qualcosa, Abigail improvvisamente… è.
E’ un ricordo, un suono al centro di una canzone. Nella
penultima strofa, seconda parola del primo verso, allitterazione e sibilo.
Sensazione che scavalca e si svuota e si consuma ed esplode e schiuma in un
infinito finito. Finito con lei, finito in lei. E la seconda parola, primo
verso, penultima strofa, lentamente si scolora come mascara dopo un pianto
lungo anni, che cola sulle guance e macchia di nero ciò che è pallido. E il
suono diventa essenza e da essenza diventa totalità.
Una totalità che inizia nel silenzio della gola e si
conclude nel silenzio di uno sguardo.
E' diventato tutto così silenzioso ora,
può essere che sono andata ancora più avanti
muovendomi alla velocità del suono
Non così veloce. Un suono non è abbastanza veloce. Il
silenzio sorprende le parole e le frantuma e le consuma.
Sono nata da un impatto, sono scivolata nel mio stesso
sangue e mi sono fatta allattare dal calore e dal leggero ruggito di un
sussurro. Il primo vagito è stato un gemito e i miei primi passi sono stati
quelli verso un pick-up ribaltato al centro della strada. Non conosco il mondo
ma lo avverto, non conosco il mio corpo ma lo sostengo, perdo e ritrovo l’anima
passo dopo passo, rigettando respiri in mancanza di bile.
Mi muovo nei miei sussurri verso il suono ritmico di un
battito. E in un attimo, più veloce del suono, più veloce del silenzio, più
veloce dei ricordi, raggiungo il cielo buio in cui decido di perdere la mia
anima per forse non ritrovarla mai più.
Abigail sono io, nuda, davanti a te, nudo. E tu, quel buio
pesto, tu sei il mio primo ricordo prima che la pioggia cancellasse il dolore,
i lividi, il biondo dai miei capelli e le stelle dai tuoi occhi. Prima che
tutto si trasformasse in rumore, prima che tutto si trasformasse in un buco nero,
così diverso dal tuo, di nero; tu, Imre, eri e sei il mio primo ricordo.
Quando i segnali si
incrociano, voglio metterli in ordine
se non c'è amore, voglio provare ad amare nuovamente
dirò le tue preghiere, starò al tuo
fianco
brucerò, in modo da illuminare tutto
quanto
scaverò la tua tomba
balleremo e canteremo
ciò che è rimasto potrebbe essere
un'ultima possibilità di avere una vita
Fine
***
Non
finirà mai questa cosa qui, è sempre in quella parte di
cervello che partorisce immagini e sensazioni, martella puntuale e non
manca mai un appuntamento. Ho così ben stampati i loro visi
sulla retina che nemmeno strappandomi gli occhi riuscirei a schiodarli
di lì. E non sono solo i loro visi, sono le loro storie che mi
hanno rapita. Non credo abbandonerò mai Imre, nè Emike,
nè Aàron che cerca ancora un suo spazio, e tantomeno non
abbandonerò Abi, lei è più di quello che uno
immagina leggendo queste pagine. Alla fine sono sempre i soliti stronzi
di cui si legge da queste parti, non 'è nulla di diverso e ogni
autore a fine storia attacca questa stessa pippa su quanto sia legato
ai propri personaggi, è sempre così ma averne la
consapevolezza non cambia di molto le cose. E' inevitabile.
Comunque le dediche a inizio capitolo sono tutte studiate e chi di dovuto si sentirà ringraziato, intanto dico a Fal che è invitata a pranzo o cena quando vuole, zuppa di patate e delirio sul menù, dico a Chara
che ti aspetto qui e ti dico quello che devo a voce, e dico a chiunque
si sia avvicinato anche solo per sbaglio a questa storia che anche se
non siete comparsi non importa, grazie per aver letto e grazie per aver
continuato questo delirio.
Il
delirio, nasce tutto da una manifestazione assurda di tradizione dalle
mie parti, mi hanno chiamato a far foto e ho avuto modo di conoscere
dall'interno un mondo che da piccola avevo modo di osservare solo
dall'esterno, ne ero innamorata e le cose non sono cambiate, si sono
amplificate. I personaggi sono tipi che per me hanno volti ben diversi
da quelli che ho messo lì nel banner, son volti che esistono
come anche il loro essere fin nel midollo ungheresi ed il fatto che io
abbia fatto sbarcare la mia esperienza in Ungheria è dovuto
unicamente alla proposta di riandare nuovamente a fare quelle stesse
foto nel paese a noi gemellato, ovvero il gufo sul libro di storia.
Quindi la malattia mentale, la terra rossa, l'armeria, l'arco e tutto
quel delirio è nato da un pick-up e si è concluso al
centro del bersaglio impagliato.
Ed
Imre, ovviamente, è il ragazzo di cui mi ero follemente
innamorata a quella manifestazione e di cui per assurdo ho solo una
foto, anche sfocata.
Le
parole in grassetto, alla fine el capitolo, nella parte in corsivo,
rimandano ognuno a quei quattro pazzi bruciati, sarebbe bello se
qualcuno tentasse d' indovinare quale parola corrisponde a chi.
E
quindi basta, le note più lunghe della storia non si possono
vedere. Come sempre, tante coccole a tutti voi e ad un futuro prossimo,
forse.
Lis
Ps: spesso sotto il grassetto e sotto le parole velocità del suono ci sarà sempre qualcosa da scoprire, basta cliccarci su!
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