All I can breathe is your life

di Lisa_Pan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nicotina ***
Capitolo 2: *** Verde scarabeo ***
Capitolo 3: *** Parco-Giochi ***
Capitolo 4: *** Farina ***
Capitolo 5: *** Miele ***
Capitolo 6: *** Sociopatia ***
Capitolo 7: *** Vuoto ***
Capitolo 8: *** Vernice blu e miele ***
Capitolo 9: *** Cannella ***
Capitolo 10: *** Alive ***
Capitolo 11: *** Limiti ***
Capitolo 12: *** Rocking horse ***
Capitolo 13: *** Ruggine ***
Capitolo 14: *** Unottantotto ***
Capitolo 15: *** A-b-i-g-a-i-l ***



Capitolo 1
*** Nicotina ***


prologo

Nicotina

Un movimento impercettibile delle labbra, le palpebre si chiudono lente sulla sua vista, si concentra catalogando ogni odore presente in cabina. Ce l’ha come fissazione da tempo immemore, fa parte di lei quasi quanto quella ciocca nera fra i capelli rossi o gli occhi di un grigio impossibile. Basta un cambiamento qualsiasi che vada da un improvviso temporale ad un radicale mutamento delle sue abitudini e ogni cosa diventa elenco, colori, suoni, odori, occhi, vestiti; non c’è una fine, non c’è limite , può riguardare tutto e niente, determinato esclusivamente dalla sensazione del momento.

Il cambiamento in questione è una partenza, non tanto improvvisa, piuttosto bramata e sognata durante le notti più calde. La sensazione: un odore; appena varcata la soglia della cabina stretta dell’aereo. Nicotina. L’uomo di fronte a lei con la maglietta bianca con una stampa logora sotto il colletto stretto e bermuda larghi a fantasia militare e i capelli gellati tanto da sembrare bagnati, sembrano neri ma magari sono castani, il gel li scurisce terribilmente. Si muove goffamente tra i sedili mantenendosi con una mano il lembo destro della maglietta evitando la vergognosa risalita lungo le sporgenti maniglie dell’amore sfuggite ai pantaloni. Lei pazienta, lo segue silenziosa, sussurrando a denti stretti gli odori nascosti dalla nicotina: vaniglia, quella dell’acqua di colonia che tanti signorotti del suo quartiere usano cospargersi sul corpo nelle fresche giornate di primavera; cioccolato, della barretta che sporge aperta dai pantaloni; pino, del gel che si scioglie sulla nuca a causa delle prime gocce di sudore dovute allo sforzo di evitare chi ha già occupato il suo posto nei sedili più esterni. Finalmente trova il suo posto e scivola incredibilmente silenzioso lungo il sedile morbido, sotto lo sguardo interlocutorio del suo vicino. Lei invece sorride mentre abbandona l’odore pungente della nicotina sostituendolo con quello dolce dell’orzo.

Il suo posto è accanto a un uomo ben vestito, dall’accento inglese che le spiega lo scopo del suo viaggio, scandendo ogni minuto della sua giornata immediatamente dopo il primo scalo. Quasi riesce a seguire l’odore del suo caffè all’orzo nella gola, osserva l’impercettibile movimento del pomo d’Adamo, il petto che si abbassa e si alza riempiendo i polmoni di aria pulita. Quando con lo sguardo incrocia quello dell’uomo si rende conto di non aver ascoltato una sola parola, perciò sorride e, gentilmente, si volta verso il finestrino.

Sul grembo stringe una guida ormai logora dell’Ungheria, ogni pagina è segnata con un colore diverso, schizzi di gufi e cavalli compaiono sulla copertina. Lei osserva e poi traduce in segno ciò che pensa di aver visto, un albero diventa uomo, un occhio diventa radice, una frase diventa occhio. L’Ungheria diventa un gufetto dagli occhi piccoli, il becco sporgente e le penne arruffate.

E’ pronta, come non lo è stata mai.

 

Un cappio rosso lo tiene sospeso tra il finestrino e il cruscotto dell’enorme pick-up bianco, è un rottame più vecchio di lui di almeno una decina di anni, su quello stesso sedile un uomo che si sarebbe potuto dire identico a lui se non fosse stato per la cespugliosa barba rossa dalle punte intrecciate e gli occhi, di un nero più profondo della notte stessa, di quelle senza luna, di quelle da gelo nelle ossa, stringeva il volante in un pugno srotolando sotto le ruote del pesante mezzo chilometri di strada come fossero briciole e guardava suo figlio crescere con il viso fuori dal finestrino, con gli occhi avidi, i più avidi che avesse mai visto in vita sua, diceva, che mangiavano quelle briciole lasciate dietro dal padre assorbendo colori, odori, volti.

Il cappio rosso si stringe in un nodo impossibile attorno all’anello di ferro corroso dai chilometri, dall’instancabile dondolio del cruscotto dovuto allo sbuffo degli ammortizzatori, dalle note di rabbia che dalla radio rimbalzano sul vetro e si propagano al tettuccio consunto.

Tiene lo specchietto retrovisore tra le dita regolandolo in modo da riuscire a vedersi riflesso in quei pochi centimetri di superfice. Le sopracciglia disegnate, anche troppo disegnate per un volto come il suo che lo faceva sembrare uno di quei personaggi usciti fuori dai fumetti di Pratt, dal volto marcato dal pennello carico di china nera. Profonde occhiaie scavano intorno agli occhi un burrone di ore private al sonno e dedicate ad Aaron. Sembrava un sorta di volontariato il suo, una roba stile servizio civile, rincorreva le sue idee fuori dal comune per rinchiuderle dentro a quattro pareti bianche ed anemiche, in modo che potesse misurarsi una volta per tutte con una società fatta di persone normali. In realtà questo è quello che pensavano le poche migliaia di persone che vivevano in quel buco sperduto, Aaron era il suo Dean Moriarty, gli piaceva farsi portare in giro, gli piaceva essere vittima delle sue follie. Sentirsi diversi per tutta la vita ma nasconderlo agli altri per quella dannata certezza di non esser capiti, non riusciva a vestire l’idea del “meglio soli e se stessi”, era frustante.

Aaron lo aveva semplicemente trovato, come quando si trova sul ciglio della strada uno di quei cuccioli di cane bagnato fino alla punta delle orecchie, con quegli occhi spauriti, come fa uno a lasciarlo lì? Allora lo prendi con te e gli offri una casa, una cura, lo nutri e lo cresci. In quel bar, sul bancone lucido e appiccicoso, sullo sgabello con le gambe penzoloni e il sedere per metà fuori dalla seduta, la camicia slacciata e sporca di Jack, Aaron ha riso, si è messo a ridere guardandolo negli occhi. Gli ha sfilato la camicia e l’ha lanciata al barista, urlando, gli occhi iniettati di euforia. Non ci ha capito più nulla, si è ritrovato in una macchina dagli interni completamente logori, su un sedile di spugna gialla, di quelle che usava col padre per lavare la macchina. Ubriaco, in un rottame, con un totale squilibrato mentale. Ha riso, pensava che avrebbe dovuto avere paura ma..ha riso. E ha riso della sua risata, si è detto stupido ma continuava a sghignazzare da solo sul sedile di spugna mentre guardava quel folle premere a tavoletta l’acceleratore verso il totale buio; sì perché davanti a sé vedeva esclusivamente la scia gialla che i fari proiettavano sull’asfalto, che poi è diventato sterrato e poi breccia e improvvisamente sabbia.

Dà un’occhiata veloce all’ingresso dell’aeroporto mettendo a fuoco a fatica la miriade di volti che entrano, no escono, entrano ed escono dall’edificio. Un oggettino minuscolo penzola davanti alla sua visuale, lo distrae ma non lo degna di un’occhiata. Il cappio rosso lo tiene saldo a penzoloni nel vuoto, sembra stanco ma non cede. L’anellino arrugginito sfrega contro il laccetto, come un carcerato scava la roccia dura. La miniatura del pick-up dondola nel vuoto ignara della lotta da cui dipende la sua caduta.

Una sfolgorante chioma rossa esce di corsa dalle porte a vetro dell’aeroporto e si ferma a pochi passi dal pick-up; perfettamente in orario.

***

Non ripopolo queste pagine da una vita, almeno così mi pare. Buogniorno tutti, è appena metà settembre e io vi do il benvenuto mangiando un piatto di pastina col formaggino, il mio stomaco è su di giri e pare sia l'unica cosa che riesce a digerire, ma non ve ne pò fregà de meno perciò..passiamo a cose più interessanti. Il titolo :3 parliamone: se non sapete da dove nasce andate a soddisfare la vostra curiosità sul tubo! C'è tanta pioggia in questa storia, è una mattonata che si scioglie lentamente sotto la pioggia, tipo biscotto nel latte.

Non sono più capace di scrivere note, vorrei spiegarvi perchè l'Ungheria ma il mio cervello non collabora. Perciò ci rinuncio vi dico solo che il paese misterioso di cui non parlerò mai è lui -->yessa proprio lui, il perchè ve lo spiegherò in un momento migliore sia per il mio stomaco che per la mia mente poco collaborativa.

Ci sono due tipe grafomani in questa storia ed entrambe hanno preso la loro ossessione da una tipa che scrive robe assurde, vi giuro proprio assurde, e meravigliose che si chiama Elle. Ciao donna meravigliosa, come sta? Non so nemmeno se leggerà mai queste pagine ma le devo un minimo di ringraziamente per l'ispirazione che la sua persona mi ha dato. Ottio parlo aulico e sto sparando scemenze senza limiti. 

Chiedo umilmente perdono per questa vergongosa nota delirante. Voglio salutare ancora una personcina che mi fa da beta e che si sorbisce il mio delirante sclero pre e post scrittura ovvero..la mia Giuls! Tante coccole pioggerellose a tutti voi!

Lis

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Capitolo 2
*** Verde scarabeo ***


Diapason


Verde scarabeo

L’osserva con la coda dell’occhio, si muove silenzioso, avverte a malapena lo spostamento d’aria causato dai suoi impercettibili movimenti. Ogni tanto si volta per accertarsi che sia ancora lì e che l’enorme pick-up non viaggi per inspiegabile inerzia. Le piacciono i suoi occhi, tanto da concedersi la libertà di voltarsi, poggiando la guancia sul sedile, e osservarli senza nascondere minimamente la sua curiosità.

Nemmeno una parola dall’inizio del viaggio, solo musica, lo stesso cd che si ripete più volte, ormai le è entrato nella testa;  sono gli Strokes, ha finito di capirne le parole, si è innamorata della pronuncia di Julian che sembra trascinarsi dietro ogni dannata parola come se qualcuno gliele stesse incidendo sulla pelle nuda. Ogni inclinazione, ogni accento, ogni piccola sfumatura di ogni singolo brano le ha già sfiorato la pelle, riscaldato il sangue e..stancata. Ha tutto catalogato, le sue labbra son ferme da un po’ e lei sente già il vuoto tornare a far capolino nella mente.

Quando lui si volta e la scopre ad osservarlo, lei non prova un minimo di imbarazzo, sostiene il suo sguardo e si stupisce nel trovarlo divertito e curioso quasi quanto lei. Imre abbassa gli occhi sulle labbra di lei e nota il loro movimento lento e costante, ascolta il sussurro leggero provenire dalla suo gola, come se un diapason le stesse vibrando all’interno dell’esofago; sì perché le sue parole hanno un ritmo quasi impercettibile, con un dito se lo tamburella sulle gambe, ogni sillaba è un colpetto sui jeans chiari e sbiaditi dalla candeggina.

Abigail impiega più del dovuto a catalogare gli occhi di lui, non capisce cosa la blocca, ha seguito millimetro per millimetro la curva sinuosa delle sue palpebre, sono taglienti, quando sorride scompaiono sotto ad un concerto di ciglia così chiare che quasi si mimetizzano tra le pieghe degli occhi. Eppure, non appena sposta lo sguardo dai suoi pantaloni consumati dai troppi lavaggi, quegli stessi occhi diventano enormi fanali che le impediscono di vedere altro. Così la sua lista silenziosa si blocca ad elencare quell’infinità di sfumature che non avrebbe mai trovato in quegli occhi neri pece. Beh, in verità qualche sfumatura l’avevano, un verde smeraldo, come quello delle ali di quegli enormi scarabei che trovava per casa la sera e che piacevano tanto al gatto. Le fanno schifo gli scarabei, ma il loro colore l’attrae come nient’altro al mondo. Ok, non è vero nulla l’attrae più delle onde di quella dannata distesa che è l’oceano, così infinita, così senza limiti. Senza limiti, per poco non si mette a ridere davanti a quel semplice dato di fatto, non riesce a trovare una fine nemmeno ai suoi occhi che continuano a guardarle le labbra.

Le è simpatico ma si sente nuda, il tamburellare controllato delle sue dita si coniuga perfettamente con i sussurri di Abigail, per la ragazza è come se qualcuno tentasse di sfiorarla troppo da vicino perciò serra le labbra in un sorriso e si volta ad osservare la radio. Uno di solito l’ascolta la radio, lei la osserva. Non è difficile capire perché, dagli altoparlanti esce un suono sporco come la fiancata del pick-up, paragonabile a poche cose esistenti in quel buco di mondo: all’urlo rabbioso di un uomo che ha il bisogno disperato di esser capito dalla gente;  al roco boato della terra che trema; e per ultimo, ma non meno importante, alla profonda voce di Eddie Vedder.

Osserva le dita di Eddie accarezzare la chitarra, osserva l’armonica a bocca arrugginirsi a causa della saliva che le sue labbra lasciano sotto il loro passaggio. Muove la testa e chiude gli occhi e osserva nel buio ogni nota danzare nella sua mente. Ama la sua voce e ama la sua musica, per un secondo è tentata di aprire la borsa e tirare fuori la Rollei ossidata e scattare un paio di foto: una al pick-up che penzola dallo specchietto retrovisore e una alla radio trasandata.

La vede tirare fuori dalla borsa una di quelle macchinette biottiche sopravvissute a tempi migliori e scattare un paio di foto che a lui sembrano alquanto insensate.

“Quella va a rullini non è vero?”

Non lo degna di uno sguardo, sorride e basta.

“Sì, è una piccina vecchia scuola”

“Quindi non dovresti, che ne so, tenerti più scatti possibili per, beh per noi?”

Si gira un attimo, il tempo giusto per farlo sentire un idiota e poi torna a  fissare il pozzetto del pezzo d’antiquariato.

“E tu, che ne so, non dovresti semplicemente guidare e portarmi al campo? O ti hanno chiesto di tenermi sotto controllo?”

“Senti, chiedevo solamente non..”

Il tempo di girarsi e la biottica punta dritto verso il suo sguardo inebetito. Impossibile sfuggire al macchinoso clank dello scatto.

“Questa è per divertirmi e in ogni caso ho una borsa piena di rullini, ma terrei comunque il conto non si sa mai..”

“Sì, certo..”

Torna a guardare la strada ma con la coda dell’occhio la tiene sotto controllo, è strana con quel suo sussurrare e con la biottica sotto il naso, tiene stretto il pozzetto tra le mani e regola la messa a fuoco. Non ha mai capito molto di fotografia a guardare lei sembra una gran cosa, con quel sorriso sul viso avrebbe potuto illuminare a giorno il vialetto di casa sua, o sostituire, che so, il lampadario del soggiorno.

Frena bruscamente e gli ammortizzatori sbuffano chiassosi facendo alzare il pick-up di almeno dieci centimetri più su.

“Siamo arrivati”.

***


Buongì a tutti, sono stanca, ho gli occhi appesantiti e vorrei dormire per anni interi se non comportasse una disumana perdita di tempo. Stanotte non ho chiusco occhio e non so minimamente perchè. Ieri sera sono andata a letto prima del solito, molto prima del solito, i Fab Four vi salutano e Ringo Star è un tipo poco consigliabile. E mio padre deve stare lontano da loro almeno di una decina di metri, no è anche troppo poco.

Comunque i miei deliri personali non interessano a nessuno passiamo a parlare dei riferimenti all'interno del capitolo, spero che più o meno tutti conosciate i The Strokes, in  caso contrario direi di rimediare immediatamente andando tipo qui yessa, yessa, proprio qui.

L' altro riferimento musicale è a Eddie, ovvero il cantante dei Pearl Jam, sappiate che ho scritto questo capitolo ascoltando Guaranteed, una roba epica, giuro epica, da linciare chi ci ha messo prima la pubblicità di un videogioco, davvero da picchiare. Se non conoscete nemmeno lui DOVETE rimediare perchè non ve ne pentirete, ha una voce dannatamente profonda da spaccare i vetri ed è indubbiamente un gran pezzo di uomo, quindi non sbagliate sicuramente a dare un'occhiata. Eddie

Poi nulla, è solo il secondo capitolo e mi sembra sempre di non dire una cippa di nulla, ma giuro che qualcosa ci sarà di più sostanzioso, la mia meravigliosa beta può garantirlo, almeno spero.. Charaaaaaaaaa.

Bene ho finito il mio sclero mattutino quindi vi saluto e ringrazio in generale tutti quelli che sono approdati in queste pagine chi per sbaglio chi volutamente (voi siete pazzi!) e grazie a chi ha recensito le parole deliranti dello scorso capitolo.

Tante coccole a tutto.

Lis

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Capitolo 3
*** Parco-Giochi ***


3 parco-giochi

Parco-giochi

Scende dal pick-up nel cigolio stridente dello sportello che ruota sui propri cardini. Gli stivali affondano abbondantemente nel friabile terriccio sabbioso dell’arena.  Nonostante siano anni che i suoi pantaloni si riempiono di polvere e sassolini, l’odore pungente dell’arena lo coglie sempre di sorpresa, tossisce senza sosta per interi minuti inspirando pulviscoli arancioni che gli pizzicano le narici e scatenano una scarica di starnuti.

L’aria è satura di polvere ma l’odore è irresistibile: sa di legna e terra bruciata. E’ come se i sensi diventassero materia, sente il peso degli odori addosso ai vestiti, su quei pantaloni sbiaditi e sulla maglietta che una volta doveva essere stata bianca, lo sente sulle mani che si ricoprono di una patina grigia di argilla che secca la pelle rendendola liscia.

Aggira il mostro bianco e salta sul rimorchio sfilando da un bustone enorme alcuni vestiti che profumano di lavanderia. Quando riscende si accorge che lei è ancora seduta sul sedile con i gomiti poggiati sul cruscotto che osserva l’andirivieni caotico nell’arena. Picchietta sul finestrino cercando di attirare la sua attenzione ma lei non lo guarda, nemmeno quando gira la leva e apre il finestrino.

La sua bocca ha assunto una strana piega sul viso, la nasconde tra le braccia attutendo il suono che esce dalle labbra più alto del solito flebile sussurro. E’ come se non riuscisse a contenere le parole che si sviluppano nella sua gola ad una tonalità maggiore del flebile la3 del diapason impiantato nell’esofago.

Quando gli occhi di lei si piazzano davanti ai suoi, Imre si sente preso alla sprovvista, le iridi grigie scompaiono divorate dall’allargarsi della pupilla nera, lo guarda ma è come se non lo guardasse affatto con quello sguardo allucinato perso in qualche diavolo di mondo tutto suo.

Imre si gira e con un moto d’inquietudine si guarda intorno, colori, odori, suoni, in un attimo si sente investito da miriadi di sensazioni diverse, alcune contrastanti che gli entrano in gola e gli strappano via le corde vocali. Si porta una mano al collo e cerca di controllare il respiro: lo scalpiccio dei cavalli; un martello che picchia su un chiodo; il chiodo che squarcia il legno in un esplosione di milioni di microscopiche schegge; l’intermittenza di una radio poco distante da lì; è un dannato caos quello, un caos fatto di polvere e vociare confuso, in cui Imre ormai si è perso alla ricerca di un ritmo, un battito regolare e costante. L’abitudine di trovare suoni dove regna indiscusso il rumore gli permette di tenere sotto controllo la sua istintività incontrollata che s’impossessa del respiro e del battito cardiaco portando entrambi all’iperventilazione.

Abiagail osserva Imre tamburellare con le dita sul finestrino un ritmo confuso che si trasforma da melodia frenetica ma controllata ad un pacato battito, uno, due, al secondo. Quando si volta a guardarla scorge un sospiro sul suo volto e in quell’istante la mano di lui lascia il collo e scende morbida sul suo fianco. E’ improvvisamente tranquillo e sereno, le sorride ma nel suo sguardo coglie ancora un leggero velo d’inquietudine.

“Per te questo deve essere un dannato parco-giochi!”

E’ vero, per Abigail le sensazioni che stavano per ucciderlo sono vere e proprie immagini da catturare e conservare gelosamente sulla pellicola fino a quando non si sarebbe trovata da sola con loro nella camera oscura. Ha un rapporto semplice e diretto con i suoi scatti, prima di tutto li sente, come fuochi fatui, segue attraverso l’obbiettivo la scia di sensazioni che le persone si lasciano dietro o che lasciano su oggetti che inevitabilmente s’impregnano della loro storia, come spugne. Con l’occhio nel mirino non ha motivo di stilare alcuna lista sussurrata, tutto ciò di cui ha bisogno è sentirsi sola, completamente sola e avida di storie, storie da vestire, da vivere. Le mancano dei frammenti enormi della sua vita, come pezzi di un puzzle rimasto incompiuto, è solamente una ragazza con la metà delle consapevolezze comuni in una bambina. Vuole disperatamente capire, lasciarsi coinvolgere in vite che non sono sue, gestire i ricordi di altri la fanno sentire quasi piena, in un certo senso sono pezzi invisibili che sostituiscono il vuoto nel quadro.

E’ inevitabile, prendere in mano la macchinetta e lasciarsi avvolgere dalla solitudine e dalla malinconia, sa che senza il loro peso sul cuore l’avidità e la fame nel suo stomaco non potrebbero mai essere stimolate. Ha imparato che l’abitudine brucia la facoltà di vedere, vedere per davvero, a volte vedere anche se stessi.

Quell’arena contiene più anime di quante ne aveva immaginate, anime colorate, anime profumate, anime vive.

 “Ti va di andare a fare un giro nel parco-giochi?”

Imre la guarda dritta negli occhi e lei sorride e annuisce con convinzione.

 

“Imre, hol a pokolban voltál? Itt várnak minden ..”

“Vitaris, Vitaris, kérlek ..”

Vitaris guarda di sottecchi Imre prima di accorgersi che al suo fianco c’è una ragazza dai capelli rossi che li guarda interrogativa.

“Oh, scusami, Abigail giusto? Perdonami non volevo essere scortese..è un piacere averti qui con noi..”

Abigail lascia che il tipo di fronte a lei si scusi senza motivo troppo impegnata com’è a ripetersi nella testa le parole che aveva pronunciato qualche attimo prima. Affascinata, chiude gli occhi e sussurra i suoni che è riuscita a capire, ripetendoli più e più volte come una cantilena. E’ tagliente ma non dura come il tedesco, musicale ma non sputata come il francese; si gira verso Imre e gli guarda le mani, chiedendosi quale ritmo il ragazzo avesse dato a quelle parole, delusa nota che le dita di lui sono ferme, infilate nelle tasche dei jeans.

“Non..non si preoccupi.”

Mette fine a quella sfilata di belle parole che le sembrano troppo forzate, come note stonate, per il volto di quell’uomo. Le stringe la mano in una morsa ferrea, si sporge con il corpo possente sovrastandola di qualche decina di centimetri nonostante la sua statura sia considerevole per una ragazza, il suo sguardo pesa gravemente su quello di Abigail. Con il suo corpo, Vitaris, mette in chiaro la sua posizione rispetto a quella di lei, chiede rispetto dando rispetto non escludendo che in mancanza di tale elemento gli basterebbe un secondo per riportare tutti al proprio posto.

Non le fa paura, è un uomo chiaro e dannatamente diretto, ricambia la stretta di mano stringendo vigorosamente il polso di Vitaris che, soddisfatto, le sorride bonario per la prima volta se stesso.

“Ora, se non ti dispiace vorrei portarti a fare un giro per l’arena. Imre tu vai dagli altri, ti stanno aspettando”.

Abigail allontana gentilmente dalla mano di Vitaris poggiata sulla sua spalla cercando di fargli capire che non ha bisogno di essere guidata anche fisicamente, lui la lascia fare e si porta avanti battendo i passi sulla polvere e alzando nuvolette di pulviscolo e terriccio. Lei si volta e con un cenno del capo ringrazia Imre, lui di rimando le sorride e incrocia le dita in direzione di Vitaris lasciandola definitivamente con la sola compagnia dell’uomo.

***

Salve gente, sono di nuovo qui e sono di nuovo senza un minimo di roba sensata da dirvi, in questi giorni ho passato la metà del tempo su efp a leggere storie meravigliose, giuro davvero splendide qualcosa di assolutamente fuori dal comune. Ho lasciato così tante recensioni da non ricordarne nemmeno il numero quindi potete solo immaginare. So solo che c'è una marea di potenziale su quest osito lasciato in pasto ai leoni, roba da un numero di recensioni schfosamente povero quando ne meriterebbero centinaia di recensioni. E non scherzo. 

Questo è uno di quei fandon proliferi, dove in un modo o nell'altro chiunque finisce per leggerti e magari se ti va bene ti lascia anche una recensione. Emerge dal nulla e decide che sei adatto a lei, anche se sono davvero poche le persone che prendono coraggio e dicono la loro fregandosene di poter sembrare fuori luogo, il tempo c'è sempre per farsi conoscere e credo che questo sia uno dei posti migliori dove far emergere uno dei lati migliori di se. Il fandom dove ho passato la metà di questa giornata è uno di quelli dove non passa mai nessuno e non potevo ignorare certe storie, non potevo non dire la mia, diamine ero troppo decisaa a ringraziare chiunque si nascondesse dietro quel nick name per l'enorme bagaglio di brividi che mi aveva fatto saltare sulla pelle.

So che non frega a nessuno quello che dico ma essendo ho letto troppo spesso recensioni senza senso colme di frasi vuote di chi non legge per davvero ma solo perchè sa chi sei e vuole darti un numerino in più, non frega a nessuno il numerino in più, dovrebbe fregare il contenuto, dovrebbe fregare il riscontro ottenuto con delle persone completamente diverse da noi. Non è giusto lasciare ampio spazio a storie vuote perchè più facili e mandare a farsi fottere delle storie un pò più costruite e magari scritte da perfette sconosciute.

Cooooomunque, questo è il terzo capitolo d'introduzione, da qui in poi la storia comincerà ad essere un aggrovigliato intrico di storie e anime e finirete per capirci poco e niente, anch'io ancora riesco a capire dove voglio arrivare e da dove sono nati loro, ma li ho qui tutti in fila che mi parlano nelle orecchie e non potevo lasciarli li soli. Bisogno dare voce alle proprie voci, quindi eccoli che tra poco cresceranno e diventeranno tanti bei visini che non passano inosservati.

Il consiglio musicale di oggi è un cd dei Soundgarden che ho iniziato ad ascoltare ieri sera e che ho messo a riproduzione fino alla morte dei miei timpani, mi sento molto Cornell oggi. Un Cornell del 1991 ma sempre lui.

Vaaaaaaaaa bene.

Ora vado, non prima però di aver ringraziato le persone silenziose che leggono i miei striminziti capitoli, le persone che recensiscono e che seguono e preferiscono e ricordano e poi lei..la mia beta che è troppo lontana da dove sono io e di cui a detta sua sono innamorata perchè la cito troppo spesso nelle recensioni. Prima o poi la picchierò! Chara 

Le note più lunghe della mia vita. Tante coccole gente.

Lis

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Capitolo 4
*** Farina ***


4Farina

Farina

E’ seduta con le spalle che grattano sul legno liscio e profumato, come tutto il resto, le sembra di essere in un diavolo di mondo parallelo, tutto profumi e sorrisi e “è un piacere” o "oh figurati cara”; tira a sé le ginocchia e respira ad occhi chiusi con il respiro reso affanno a causa della polvere sempre troppo alta a formare nuvolette che le irritano gli occhi.

Nuvolette, si passa una mano sul volto e ride da sola stringendosi il petto. E’ impossibile fare pensieri negativi, come in una specie di isola-che –non-c’è dove le spade sono di legno e il cattivo è in realtà un uomo triste e in cerca d’amore, tutti troppo gentili, con il sorriso sempre pronto in tasca da tirare fuori al momento giusto, con quell'odore pungente e dolciastro.

Un bambino si siede silenzioso di fianco a lei attratto dal suo sussurrare sommesso e si avvicina lentamente, intimorito ma vinto dalla curiosità.

“Non mordo, puoi avvicinarti”

Si accorge di lui dall’odore pungente della sua pelle, ha imparato a sentirlo addosso ad almeno più della metà degli ungheresi presenti nell’arena, e dal profumo di pane di cui sono impregnati i suoi abiti. Lo aveva visto dietro ad un bancone che si nascondeva sotto le gambe del padre, un uomo incredibilmente alto e sottile come uno spillo, intento a mangiucchiare il sedere di una pagnotta fumante.

Alza lo sguardo e poggia la guancia sulle gambe trovandosi naso a naso con il suo viso dai lineamenti morbidi e il mento pronunciato. Osserva i suoi occhi diventare fessure azzurre o pozzi neri a seconda di ciò che tenta di mettere a fuoco nel volto di Abigail, disegnando una mappa di punti casuali e a volte ripetuti. Incontenibili i dettagli del volto del bambino cominciano a uscire dalle sue labbra sussurrati, frenetici, incostanti a formulare un elenco snello e ammirato: il colore delle guance rese porpora dal calore del forno; le labbra sottili piegate in un incerto sorriso più curioso che allegro; un neo attrae il suo sguardo sullo zigomo destro.

“Cosa dici?”

Un dito sottile le si posa sul naso oscurandole per poco la vista che lentamente sfoca per mettere a fuoco la punta morbida parcheggiata proprio al centro degli occhi. Alza un po’ il mento e gli mordicchia il dito provocando gridolini e sommesse risate che partono direttamente dal centro del petto nascosto dalla casacca bianca di farina.

“Posso farti una foto?”

Il bambino torna improvvisamente serio e, con noncuranza, si porta la mano ai capelli scompigliandoli un po’ per poi infilarsi di nuovo il cappello da panettiere, più grande di almeno due taglie. Fa finta di pensarci un po’ con il dito ancora sul naso di Abigail mentre con l’altro si gratta il mento. Dopo una lunga pausa di riflessione annuisce senza mutare di un centimetro la sua posizione.

Ad Abigail non importa, anzi probabilmente è proprio quello che vuole, con la punta del naso ancora occupata dal suo dito è felicemente costretta ad usare la biottica nascosta nella borsa; con lo sguardo puntato nel pozzetto sorride all’immagine riflessa del bambino di fronte a lei, sembra lontano ma sa che è a pochissimi centimetri dal suo viso, così si avvicina un po’ e scatta. Rimane a guardare per un po’ l'ingrandimento dei suoi occhi deforme sotto la curvatura della lente con la foto ancora fissata nello sguorda: la mano del bambino sul cappello premuto sulla testa; i capelli biondi che ricadono a ciocche confuse sulla fronte; gli occhi che osservano le due ottiche centrali, luminosi, allegri e anche un po’ imbarazzati; il sorriso che si allarga nascondendo le labbra sottili e rivelando una fila perfetta di denti bianchi traballanti nelle gengive rosee.

“Cosa guardi?”

La mano del bambino si sposta dal naso di Abigail al pozzetto della biottica, inclinandolo leggermente verso di se e facendo sparire in una nuvola, per di più giallo ocra, l’istantanea che abitava negli occhi di lei. Ormai distratta, Abigail ruba il cappello al bambino e se lo porta sulla testa allontanandolo dalle mani di lui che cercano di riprenderselo.

“Guardavo te piccolo panettiere!”

“E cosa dicevi prima?”

“Dicevo che hai le guance rosse e gli occhioni azzurri e..”

“Perché lo dicevi sottovoce?”

“E’ difficile da spiegare. Sai di avere gli occhi azzurri?”

“Sì!”

“Allora non c’è bisogno che io te lo dica ad alta voce”.

Il bambino annuisce poco convinto; Abigail è consapevole di non esser riuscita a spiegarsi come si deve e si chiede quale sia il modo migliore per far capire ad un bambino cosa significhino per lei in realtà quei dettagli che per molti sembrano così evidenti. Non può dire che nei suoi occhi ci ha visto ingenue emozioni che non ricorda di aver mai provato.

“Tu invece hai i capelli rossi e gli occhi tristi..”

“Co..”

“Egon, scendi da li, tuo padre ti sta cercando!”

Abigail ha smesso di respirare, conta i passi leggeri del bambino che si allontana da lei saltando gli spalti di legno. Qualcuno lo chiama ma non si gira a vedere chi è, immobile con le parole di Egon che fanno eco nella sua testa. Sente gli occhi bruciare, vorrebbe mettersi a piangere incapace di accettare il fatto che un bambino, nella sua ingenuità, è riuscito a cogliere proprio ciò che Abigail tenta di nascondere con tutta se stessa. Si chiede se sia veramente quello il problema e sa che non lo è, sa che la sua enorme difficoltà sia accettare di avere qualcosa che non va, qualcosa che deve essere aggiustato, rimesso a posto. Ha bisogno di parlare ma non è capace di farlo, non è capace di trovare le parole o il momento giusto. Ma poi parlare di cosa? Non ricorda nulla se non qualche immagine latente nella sua mente, sopravvissuta al totale black-out per chissà quale motivo.

Aàron guarda la rossa nascondere il volto tra le gambe e allacciare le braccia intorno al corpo, sa che non l’ha notato, non lo ha nemmeno degnato di uno sguardo.  Imre gli ha detto che è come se vivesse in un mondo tutto suo e comincia ad avere un’idea di quello che voleva dire l’amico. Fa due o tre gradini, si avvicina di poco e poi si siede dandole le spalle.

Abigail alza gli occhi e li posa sulle spalle del ragazzo che le si è seduto di fronte. Non sa chi sia nè se l'abbia notata. Si sente quasi in imbarazzo, lì stretta nel suo abbraccio; quando il ragazzo si gira di profilo nota lo stemma sul petto.

Ricorda una muraglia di persone che le oscurano la vista, ricorda un paio di gambe sotto le quali sgattaiola furtiva, due braccia che l’afferrano e la rimettono in piedi. E’ piccola, vede le sue gambe corte e le sua mani minuscole stringere un paio di palmi enormi. C’è un bersaglio a una decina di metri e un ragazzo di fianco a lei che stringe in una mano un arco di legno. Sente le labbra formicolare e la gola vibrare sommessamente sotto la spinta di un suono, carico, pieno ma leggero, un sussurro. Due dita sfregano contro la corda tesa dell’arco, tengono una freccia dalla punta in ferro e la coda rossa e bianca. Per un attimo, un secondo appena, il ragazzo chiude gli occhi e respira lentamente, in quell’istante un sorriso sorge sulle sue labbra e la freccia viene scoccata. Emette un flebile fischio mentre la punta squarcia l’aria che avvolge anche la coda. Lui non abbassa l’arco, lo tiene ancora vicino alla guancia, con la corda che gli sfiora uno zigomo, un occhio chiuso e l’altro aperto che studia la traiettoria della freccia.

Lei sa che in meno di un secondo quella freccia colpirà il bersaglio consumando la punta e rovinando l’imbottitura di sughero nascosto dalla tela di iuta, perciò assapora il più possibile l’attimo prima dell’impatto, il momento in cui la freccia ruota su se stessa e fende l’aria, osserva gli occhi di tutti già puntati sul bersaglio, ascolta il loro respiro inesistente, sospeso in un tempo che sta per arrivare. Le piace tremendamente.

Quando sente i polmoni di chi la circonda svuotarsi in sospiri volutamente malcelati, lei si volta ad osservare il petto dell’arciere, si concentra sullo stemma: una croce di Lorena bianca sullo sfondo rosso della pesante tunica.

“Sei la fotografa vero?”

Aàron la guarda per la prima volta negli occhi e lo sguardo si Abigail resta inchiodato nel suo. Ha gli occhi chiari e i capelli scuri, un accenno di barba sul mento e due fossette ai lati della bocca. Il suo sguardo è penetrante, non solo metaforicamente, lo sente scavare dentro di lei e non lo maschera, le fa capire che sta tentando di scoprire cosa nasconde. Abigail si sente stranamente a suo agio, si lascia scoprire per un po’, curiosa e, in minima parte, intimorita dalle iridi grige che sente andare sempre più in profondità, le sente sulla pelle premere e trapassare. E' sveglio, attento, diverso dagli altri nell'arena, dalla curiosità fin troppo spinta, fa quasi male.

“Così dicono”.

Sorride. Le è simpatica, sente di capirla complici di una voglia imparagonabile di conoscere ciò che anche il più bravo attore lascia sfuggire di se stesso. Aveva seguito il suo viso mentre Vitaris la guidava per l’arena presentandole i suoi compagni; aveva letto ogni frase sulle loro labbra riconoscendo quella finta allegria di chi non sa mentire e aveva osservato il suo sguardo cercare qualcosa di più in quelle persone, qualcosa che non fosse finta gentilezza ma personalità. Non le aveva mia guardate in viso, gli aveva stretto con gli occhi le mani, abbracciati, allontanati; aveva assaggiato il pane e addentato una mela, era stata più vicina alla loro anima di quanto lo fossero mai stati loro stessi. 

Imre lo aveva avvertito disegnando a grandi linee quello che aveva avuto modo di capire della rossa, e adesso Aàron non gli da torto, gli rimane solamente di ripetere a mente quell'identikit ancora incompleto fatto di frasi dirette e curiosità fameliche.

“Ti piace il tiro con l’arco?”

Abigail si tira su con la schiena e sorride luminosa, non c’è bisogno di risposta.

***
Saaaaaaaaaalve...ho gli occhi ancora impasticciati dal sonno e Tears in heaven nelle orecchie, la serata di ieri sera è stata qualcosa di assolutamente delirant, la musica combina certi incontri impossibili da credere, una roba che amo incondizionatamente. La maglia degli Who puzza di fritto e la camicia di flanella di mio padre è stropicciata e accantonata in un angolo, non avevo le Doctor ma sto cavoli, ho trovato la mia insana passione e giuro davanti a voi che se non riesco a fare qualche diamine di cosa in quel campo appendo la macchinetta la muro e mi do al fancazzismo barbonesco sotto qualche ponte qualsiasi di Roma.
Beeeeeeeeene, allora che dire, ho ancora una bretella che pende dalla spalla, non so che ci fa li, non pensavo di essere andata a letto vestita..vabè vi risparsmio altri dettagli che sicuramente non fregao a nessuno e se vi fregano possiamo parlarne in quel covo di sceenze che trovate qui Dream on.. se invece v'interessa il capitolo, beh tutto è dovuto ad un bambino che ho incontrato in una situazione come questa, lui era ungherese e non faceva il panettiere, era il più piccolo degli arceri, ma mi piaceva il cappello da panettiere sulla testa e l'odore di pane insieme a quello della sua pelle, beh, comunque aveva un paio di occhietti vispi che ti trapassavano da parte a parte e si è messo a psicanalizzarmi con delle parolini semplicissime che mi hanno disarmata. Percià dovevo per forza inserirlo da qualche parte, non so se si chiamasse Egon ma quel nome gli calza a pennello. Che faccetta che aveva.
Vaaaaaaaa bene....io ringrazio chi legge silenzioso, siete tanti, e chi si fa sentire tra like e recensioni, tante coccole e salutate la mia beta che è sempre presente Chara.

Lis

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Capitolo 5
*** Miele ***


5 Miele

Miele

Il polpastrello sfiora la corda arrugginita di una chitarra color miele, il suono arriva amplificato all’orecchio di Emike che chiude gli occhi e gira di una, due volte l’ultima chiave sulla paletta dell’acustica. Sospira e poggia un gomito sul corpo in legno e con il palmo della mano si sfiora il collo, poco più sù della clavicola la cinta in pelle morbida le lascia leggeri segni rossi. Quando le sue dita scendono distrattamente a toccare la cinta sorride e, con un’ unghia, gratta le incisioni che risaltano in bianco sulla pelle color legno.

Emike sorride: sorride ai ricordi che le riaffiorano spontanei nella mente; sorride quando s’impossessano totalmente dei suoi sensi;  sorride quando le immagini appaiono chiare come se appartenessero ad un tempo da fermare a piacimento, come fossero istantanee destinate a rimanere per sempre impresse sulla cellulosa avorio; sorride anche quando quelle immagini si confondono, si fondono e i ricordi diventano confuse macchie di colori e rumori e nomi. In quegli occhioni azzurri c’è la sua storia per intero che si scrive e si sta scrivendo anche in questo momento, si scrive mentre lei chiude gli occhi e li riapre per osservare il ragazzo dai capelli neri che cammina al centro dell’arena, si scrive mentre quel ragazzo si volta verso di lei e la saluta con il capo e, quando lei sorride, quella storia si scrive nel suo sorriso diventando una nota suonata a caso da una mano che sfiora distratta le corde di una chitarra color miele.

Aàron è entrato per la prima volta nei ricordi di Emike la sera in cui Imre ha bussato alla sua porta completamente ubriaco e scortato da un ragazzo dai capelli scuri che insisteva a parlare di una camicia, di un bancone e di un sedile in spugna su cui Imre si era messo a ridere e non aveva smesso più fino a pochi minuti prima. Il ragazzo lo aveva preso sostenendolo per le ascelle e depositato sul divano floreale della sala, si era seduto di fianco a lui alzandogli le gambe e mettendosele in grembo e aveva tirato indietro la testa con un sospiro liberatorio. Emike si era seduta a terra, sul tappetto rosso, e lo aveva osservato. Lui si era  tolto il cappello e scompigliato la massa di capelli scuri schiacciati sulla nuca, si era tolto la giacca in pelle lanciandola sul divano alle sue spalle e si era guardato intorno studiando con finta curiosità il salottino.

Stufo di quel gioco si era voltato e l’aveva guardata negli occhi. Era rimasto in quella posizione per due lunghi secondi in cui Emike aveva tentato di entrare nelle iridi grigie del ragazzo per osservare da vicino i suoi ricordi confusi, le sue macchie di colori. Lo ricorda in maniera quasi maniacale, come un ossessione da curare e tenere in una teca in vetro lontana da occhi altrui, le si è avvicinato e ad un palmo dal suo naso..

“Cazzo hai gli occhi più grandi delle palle di un toro!”

A quella distanza il grigio dei suoi occhi assomigliava tanto alle nuvole che pochi giorni prima avevano portato solo tempesta e sconvolgimenti, lapilli azzurri sgomitavano di fianco alla pupilla nera e dilatata prendendosi il posto meritato in tutto quel grigio. Le alte sopracciglia si erano inarcate e gli occhi spalancati e due fossette si erano formate agli angoli di un sorriso meraviglioso.

Era entrato da poco meno di dieci minuti e le aveva già dato della testa di cazzo senza alcun riserbo. Emike lo avrebbe preso a schiaffi e cacciato di casa a calci nel di dietro se non fosse stato per la tempesta in questione.

“Ci vivi da sola qui dentro?”

“Non proprio, Imre dorme da me ogni notte. In più da oggi mi toccherà convivere con la tremenda puzza di idiota che ti sei portato dietro”.

Sorrideva Emike, sorrideva anche mentre gli dava del cretino, mentre lo rimetteva a sedere e lo mandava a quel paese. Sorrideva perché le piaceva allora e sorride perché le piace adesso. Quel ragazzo, Aàron, dorme su quel divano da quella notte e per ogni notte successiva riempiendo l’aria di cazzate e nuvole grigie di tempesta. Imre aveva detto che sarebbe cambiato tutto con lui e che in un modo o nell’altro sarebbe rimasto tutto uguale, non aveva assolutamente senso ma si era stupita quando, davanti a un paio di occhi sbigottiti, aveva ammesso che in fin dei conti aveva ragione.

Aàron osserva Abigail camminare fra i vari mestieri con la biottica in mano. Non alza mai lo sguardo e se lo fa è per sorridere. E’ bella, i capelli corti rossi raccolti in una coda, un vestitino a fiori le copre le gambe snelle fino al ginocchio, la giacca corta di jeans le affina la vita già sottile di per sé. Ma quello che la rende bella è la sua aria sperduta, il suo sguardo che vaga e che cerca e che trova. E’ come se non avesse limiti, come se tutto ciò che lui ha avuto sotto il naso per anni e anni, sfuggendogli, per lei diventasse degno di una fottuta foto. Ha sempre creduto che riuscisse a cogliere tutto ciò per cui vale la pena perdere il sonno, c’è chi la vita la prende con le pinze, lui ci si tuffa dentro e non trattiene il respiro, riempie i polmoni di tutto ciò che lo porta all’annegamento. Eppure, lei, con quelle sue foto..si può annegare anche in cose così piccole come quelle che vede lei?

Le palle di toro sono di quelle piccole cose in cui si può annegare, se ne rende conto. Sono così dannatamente enormi, lo avvolgono, lo soffocano e lui non riesce a tirarsi indietro. E’ uno sguardo così ingenuo il suo, quella distesa azzurra è una calma piatta, mare e cielo sono la stessa cosa, si confondono, l’uno diventa l’altro e l’altro diventa l’uno. Aàron prova a trovare quella dannata linea di orizzonte ma più spinge lo sguardo a fondo più capisce che non c’è, non esiste nulla che divida le due cose. Lei invece è sveglia e anche furba e folle. In quella casetta minuscola, con il divano floreale e il tappeto rosso e lampade ovunque; la chitarra color miele e la cinta in pelle morbida, troppo morbida; le coperte immense e i cuscini, ovunque, che ti soffocano. La pensi come una tipa confezionata, tipo uno di quei pacchi regalo enormi, con milioni di fronzoli tra fiocchi e ghirlande e cose così, uno di quelli che poi lo apri e quello che vedi uccide l’entusiasmo. Odia i regali, odia le buste colorate o i bigliettini con i pupazzetti sopra, con i loro sorrisetti allegri e le faccette simpatiche, odia tutto ciò che di finto sovrasta il reale valore degli oggetti e delle persone. E’ uno che ci tiene a certe cose, uno che, detto senza giri di parole, non vuole essere preso per il culo.

Lei non è così, è uno di quei regali con i fiocchi e i biglietti con i pupazzi dalle facce allegre che quando arrivi all’ultima scatola rimani letteralmente senza parole. Al di là se ciò che c’è nel regalo possa piacerti o meno lei ti sorprende comunque, mira a lasciare il segno, e lo fa con la sua voce e la sua maledetta chitarra color miele che ti frega più di tutto. La chitarra color miele e la cinta troppo morbida, lei le accarezza appena quelle corde e loro, gridano, ti squarciano il petto e ti entrano dentro. Uno ci potrebbe anche arrivare, la chitarra color miele ha le corde troppo consumate, arrugginite e ci sono graffi, graffi ovunque e persino un adesivo minuscolo con scritto qualcosa tipo <>; uno guarda queste cose e pensa che magari dentro al pacco c’è una sorpresa, ma devi avere occhio. Abigail è una che potrebbe riuscirci, lei e il suo pozzetto, certo ha dalla sua la biottica, due occhi in più sono un bel vantaggio, il suo sussurrare frenetico e il suo bisogno di catturare ogni dannata pulce di questo infinito mondo; potrebbe riuscirci.

Aàron la saluta e lei sorride. Emike sorride sempre, anche quando lo guarda dritto negli occhi e vede i lampi e sente le gocce d’acqua cadere e distruggere ogni cosa, anche quei barlumi di cielo azzurro, lei sorride comunque. Trova sempre qualcosa per cui valga la pena dischiudere le labbra e mostrare i denti bianco latte.

Dorme con lei ogni notte  solo per potersi svegliare ed osservarla, senza sorriso, senza quegli occhioni enormi aperti su di lui; è l’unico momento in cui riesce a non perdersi in lei e guardarla per davvero.

***

Seeeeeeeeeera, dimenticavo che fosse giovedì, cioè non è che ci sia una data fissa per questa cosa, diciamo che pubblico quando sento che sia ora di pubblicare e oggi, beh lo era. Mi andava di  farvi conoscere Emike, forse perchè sono in vena di quella chitarra color miele e delle note troppo forti per una ragazzina come lei, il suo viso è stato rubato a St. Vincent che è una donna che amo, amo dannatamente tanto, oltre ad essere bellissima è anche una buona musicista, non è il genere che prediligo ma non si comandano i propri gusti.

Cooooooooooomunque , troppe o ci sono..ho la schiena a pezzi, ho passato l'intera giornata a cercare qualche annuncio di lavoro e a lasciare qui e là annunci miei quindi spero che qualcuno risponda prima o poi..so che non vi frega niente ma devo scriverlo, giusto perchè la speranza non mi basta e chiedo anche la vostra.

Bene vi lascio che è ora di andare a cucinare.

Tante coccole e tanti grazie a tutte quelle belle anime che provano ancora a cercare qualcosa  di sensato in ciò che scrivo.

Lis

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Capitolo 6
*** Sociopatia ***


5 sociopatia

Sociopatia

Dio, la terra brucia da quelle parti, raggi di sole bucano la tenda verde che ricopre l’armeria. Enormi fornaci fondono metallo a temperature inimmaginabili, Abigail si sfila la giacca di jeans lasciandola su di uno sgabello in legno. E’ una che legge, legge di tutto ma in qualche modo ha sempre trovato affascinanti, molto più di altro, quegli enormi tomi enciclopedici sul medioevo, sull’epoca del ferro e del fuoco e della pece dai torrioni.

Non ricorda nulla che possa spiegare quel suo innato interesse, sa solo che sotto il letto, in camera sua, nasconde un enorme arco di legno intagliato affiancato da una faretra rivestita in pelliccia che custodisce febbrilmente una decina di frecce dalla punta affilata e dalla coda piumata. In quella stanza l’arco non è l’unico cimelio di quel genere, c’è un po’ di tutto in realtà, centinaia di oggetti che cozzano tra di loro in una confusione di colori e odori; odore, le piace terribilmente l’odore che si respira in quelle quattro mura della sua stanza, è odore di passato, odore di qualcosa che è resistito alla fame insaziabile del tempo che distrugge e ricrea, odore di qualcosa che sa di ricordi. I suoi e quelli di chi ha lasciato la propria impronta su oggetti andati perduti e raccolti da una ragazza dai capelli rossi alla ricerca di storie da rendere proprie.

Adora i mercatini delle pulci, quel loro sistema caotico di ordinare i ricordi per forma o per colore o per consistenza, l’odore che le ricorda casa e gli stessi venditori che hanno l’ aspetto sputato a ciò che vendono. Con le loro rughe agli angoli degli occhi, gli uomini con la barba bianca sotto il mento e il cappello sul capo, le donne con lunghe trecce grigie morbidamente accomodate su di una spalla; profumano di tempo che ha smesso di scorrere, di quell’eternità che resiste a qualsiasi legge fisica e non, sono istanti catturati qua e là e resi immutabili, destinati a restare i soli profeti di non una sola vita ma di centinaia di vite che hanno visto passare davanti ai loro occhi.

A Parigi aveva comprato una di quelle medagliette che si aprono, era tornata nell’alloggio e, allungata sul letto, aveva aperto il ciondolo e scoperto una curiosa sorpresa. I precedenti proprietari avevano dimenticato di cancellare i loro bei visi sorridenti dalle facce interne della medaglia; due visi in bianco e nero si sorridevano rispettivamente, come costretti dalla simmetria del ciondolo, i cardini come asse simmetrico a dividerli o ad unirli, dipende da come si voglia vedere la cosa. In fondo è sempre una questione di punti di vista. Abigail ci aveva visto un nome e un indirizzo, incisi sul retro del ciondolo, e la possibilità di entrare a far parte di una storia che l’aveva voluta coinvolgere e far cadere nella sua rete di ricordi e vite separate.

Così aveva bussato ad una porta rosso fuoco ed era entrata in punta di piedi in un ampio salotto, si era seduta su di una poltrona morbida in tweed e aveva aspettato. Aveva detto di essere una studentessa e di aver trovato un piccolissimo cimelio di quella che credeva la padrona di casa. Un anziano signore l’aveva raggiunta poco dopo e salutata con un sorriso pieno di gratitudine, si era chiesta perché la ringraziasse o perché durante l’intera conversazione non aveva fatto che ascoltarla sorridendo e annuendo rilassato e alla fine, solo alla fine, aveva capito. Gli aveva mostrato la medaglietta e lui l’aveva presa con mano tremante aprendo le due facce e scoprendo un contenuto che i suoi occhi avevano visto centinaia di volte, magari in quello stesso salotto, o in camera da letto o in bagno la mattina dopo essersi sciacquato il viso assonnato e stanco. Se l’era stretta al petto e non l’aveva lasciata per tutto il tempo del suo racconto. Abigail non aveva staccato gli occhi di dosso dal vecchio, si era avvicinata e dopo qualche minuto stringeva il suo braccio con il bisogno febbrile di infondere calore ad un’anima così viva costretta in un corpo non adatto a lei, freddo e vecchio.

Si erano scambiati gli indirizzi con la promessa di scriversi. Le aveva lasciato la medaglietta con la richiesta di portarla sempre con lei in modo che i suoi occhi e quelli della donna a cui sorrideva nella foto potessero vedere ciò che non avevano avuto né modo né tempo di vedere. Abigail lo aveva abbracciato e si era legata la catenina al collo per non toglierla più se non per farsi la doccia.

Quella medaglietta rappresenta il bisogno di ricordi e sensazioni e vite di cui riempirsi. L’arco e quella catenina fanno parte di lei e lei fa parte di loro secondo una sorta di predestinazione, uno lo ha trovato per caso, seguita da ricordi dimenticati resi sensazioni e puro istinto e l’altra ha trovato lei, sperduta in ricordi non suoi, trovata come i topi trovano le briciole di pane per strada, o come una persona trova l’anima che la completa. Caso, un caso fottutamente preciso ma solamente caso.

Quando Aàron le passa l’arco quel maledetto istinto sbuca fuori da chissà dove e riattiva meccanismi spenti da tempo e di cui, ovviamente, non ricorda nemmeno l’esistenza. Scioglie i muscoli del braccio e saggia il legno, il peso, le venature, sussurra il suo odore e il suo colore e poi con lo sguardo analizza la corda e i punti di ancoraggio al legno.

“Sai usarlo?”

Abigail afferra la corda con due dita e la mette in tensione, chiude un occhio e osserva il suo indice puntato verso la faccia spavalda di Aàron.

“Sembra di si”

“Sembra quasi una sfida, la tua”

“Potrebbe esserlo”

“Ma sentila!”

Abigail si sente sicura con il legno tra le mani, in fondo non è molto diverso dallo scattare una foto. Tenere stretto in pugno un istante, lasciare la corda o il meccanismo della biottica e catturare il perfetto centro del mirino. La punta della freccia affonda nel cerchio rosso con precisione maniacale squarciando lo strato di compensato che esplode in una miriade di schegge e pagliericcio che satura l’aria. Il bersaglio come un volto, la freccia come il diaframma, l’istante come l’istantanea. Sorride soddisfatta quando Aàron la guarda sbigottito.

Vorrebbe spiegargli volentieri come ha fatto ma non lo sa nemmeno lei. Il suo istinto, l’occhio perfettamente in linea con la punta della freccia, non sa nemmeno se quello che fa lo fa bene, sa solo che vuole il centro e che deve averlo a tutti i costi, conscia dell’importanza di un singolo istante non vuole farlo scappare via, non vuole perderlo e lasciarlo in mani di chi non saprebbe che farsene. E’ suo e deve coglierlo, così scocca una freccia, poi un’altra e un’altra ancora, non si fermerebbe mai, come non smetterebbe mai di scattare, il terrore di perdere immagini e storie e occhi la fa sentire male, vuota.

Si siede su uno sgabello alto con un boccale di birra accostato alle labbra e osserva: la linea morbida e perfetta spalla-gomito-polso; il collo in tensione; le mano stretta attorno al legno possessivamente, le dita accarezzano le venature e si fermano sul nodo centrale, l’indice si lega attorno allo spessore dell’arco e forma una base d’appoggio per il corpo della freccia; Indice e medio tendono l’arco e sfiorano la coda del dardo, le piume gli accarezzano la guancia, lo zigomo sporgente di Aàron s’imporpora di esitazione; gli occhi fissi sul bersaglio si chiudono nel preciso istante in cui la freccia fende l’aria. Abigail si copre la bocca con una mano smorzando quel sussurro che le esce dalla gola troppo acuto. Il cuore le batte frenetico nel petto, l’adrenalina scorre nel sangue e gli occhi diventano due pozze nere.

“E’ sempre stato il migliore e il bello è che non sapeva nemmeno di esserne capace. Un giorno ha preso l’arco e ha cominciato a provare, il giorno dopo non sbagliava un colpo, il cerchio al centro è una sua esclusiva. E’ l’unico momento in cui quel diavolo chiude gli occhi e si abbandona ad una pace che credo il suo corpo non abbia mai avuto modo di conoscere.”

Abigail non ha bisogno di voltarsi, riconosce il suono della voce di Imre a pochi centimetri dal suo orecchio, il suo respiro le sfiora la guancia e si mescola al sussurro che senza sosta squarcia millimetri d’ aria intorno alle sue labbra.

“Quando chiude gli occhi, è come se smettesse di piovere nelle sue pupille, lo sguardo diventa limpido. Ecco guarda, poco prima di chiudere gli occhi..hai visto?”

Si volta e guarda Imre dritto negli occhi.

“Non stavi guardando”

Non è un rimprovero solo un’osservazione. Imre conosce lo sguardo di Aàron, ha osservato per anni quei nuvoloni grigi caricarsi fino a scoppiare e riversare la loro forza nel corpo dell’amico, sa di come le sue mani tremano incapaci di contenere quell’immensa scarica di energia, c’era quando Aàron decideva di rincorrere qualcosa solo per il gusto di non lasciarselo sfuggire.

Rincorre la vita, in tutte le sue forme, la rincorre fino allo sfinimento, fino a cadere riverso a terra senza più nemmeno la forza di respirare. Vive fino a rischiare di uccidersi ma si salva sempre, nell’attimo in cui la tempesta sta per esplodere nei suoi occhi, nell’attimo in cui il fulmine sta per squarciare le pupille nere, la pioggia comincia a scendere e a scaricare quegli ammassi grigi di nuvole che rimpiccioliscono fino a diventare piccole macchie indistinte.

Ciò che non conosce Imre sono gli occhi di Abigail, grigi come quelli del suo amico ma nemmeno lontanamente paragonabili, come due mondi estremamente simili ma profondamente diversi. Quando lei punta gli occhi su di lui si sente strappare dal petto qualcosa, come se con quel suo sguardo scavasse lentamente in lui. Riesce a vedersi, vede il suo viso fissare beota le iridi di lei, si specchia e si accorge di non essersi mai guardato per davvero in vita sua, nota cose che non sapeva nemmeno di avere.

Poi capisce. Quando Abigail sussurra il suo nome e lui abbassa lo sguardo sulle sue labbra, solo per un secondo, un piccolissimo secondo, si rende conto che il suo riflesso negli occhi della ragazza è la somma di ciò che lei vede in lui. Parole sussurrate, messe a caso, senza il ben ché minimo ordine. Prima il naso, poi le orecchie, poi il colore della sua pelle e dei suoi capelli, il suono della sua voce e poi le sue vibrazioni. Vibrazioni? Che diamine sono le vibrazioni? Si guarda la mano che tamburella contro la gamba il ritmo delle parole di Abigail e capisce di che diavolo di vibrazioni parla.

La stronza! Quella fottuta stronza!

“Che stai facendo?”

“Scusa?”

“Non sei idiota, hai capito. Guardami e dimmi che stai facendo.”

Abigail sorride. Guardami, come se non avesse fatto altro da quando l’aveva presa all’aeroporto e trasportata in quel posto uscito dalle scatole dei cereali per bambini. Guardami, come se i suoi occhi non fossero ad un centimetro dal suo naso in cerca dell’unica storia che Abigail sa di non poter lasciarsi sfuggire. Guardami, come se ci fosse realmente bisogno di chiederglielo. Ma obbedisce, lo guarda, una volta, due, lo guarda ancora fino a quando le sue labbra smettono di sussurrare e lo sguardo di lui si sposta negli occhi di lei.

“Perché hai smesso?”

“Di fare cosa?”

“Di sussurrare come una dannata parole senza senso.”

“Non sono senza senso.”

“Lo sono per chi ti guarda e non capisce quello che dici. Sembri sociopatica.”

“Sarei sociopatica?”

“Sembri, ho detto sembri.”

“E tu sembri un po’ troppo sicuro di te Imre, cos’è che ti fa parlare con così tanta sicurezza?”

“Dico solo quello che pensano gli altri.”

“Gli altri.”

“…”

“Tu cosa pensi?”

“Non importa quello che penso io.”

“Però dovrei tenere conto di quello che dicono gli altri..”

“Non ho detto questo!”

“No tu hai detto esattamente questo.”

“Senti, sono solo curioso. Parli da sola e non fai altro che scattare foto.”

“Si da il caso che io sia fotografa. Sai no? Quei tipi strani che vanno in giro con un aggeggio diabolico dalla forma strana e che non fanno che scattare, scattare, scattare..”

“Hai capito cosa intendevo.”

“Fai le domande sbagliate Imre.”

Imre vuole solo che parli, vuole dare il testo a quel ritmo di sussurri che le esce dalla gola, le aprirebbe la bocca e le infilerebbe un braccio per l’esofago, le strapperebbe le parole direttamente dal diaframma, dove nasce quel suono cantilenante, e la costringerebbe a trasformare le sue cazzo di foto in fottute parole.

E questo solo perché vuole farle provare la sensazione di essere stati scoperti, di aver smascherato la sua insensata ossessione e disarmarla. Vuole disarcionarla e metterla con le spalle al muro per un confronto alla pari. I suoi sussurri con le sensazioni che lo uccidono e che si trasformano in vibrazioni.

Tutto solo perché non è stato capace di trattenere il maledetto bisogno di tamburellare le dita sui jeans sbiaditi.

***

Io sono troppo, e quando dico troppo intendo veramente troppo, stanca. E devo stirare, e lavare i piatti, e mettere a posto casa, e mi sa che non lo faccio..mi metto a letto e leggo un libro, con i piedi sul muro e le gambe per aria, giusto per aiutare il pranzo a risalire su..giusto perchè non ce la faccio veramente nemmeno a muovere un passo. Ho perso il ritmo ed è solo il terzo giorno.

Bien, per una volta sono tutti e tre insieme, cioè prima solo Abi e Aàron ma poi risbuca anche Imre. Sono legata a quel ragazzo come con nessun altro, so che lo dico spesso dei miei personaggi, ma Imre rispecchia molti lati delle persone che mi girano intorno che ho assorbito e resi miei, nel tempo. Le sue manie, la sua musica, sono tutti ricordi o sensazioni, quel ragazzo è nato da un qualcosa assolutamente indefinito, come Abi, infatti si completano quasi. Realtà e finzione mischiati insieme, non so se esserne spaventata o incuriosita.

Bien, io mi eclisso, vado a bere un pò d'ace e finisco di vedere New Girl, geniale, davvero troppo geniale.

Tante coccole.

Lis

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Capitolo 7
*** Vuoto ***


6 Vuoto

Vuoto

Ha i capelli incollati al viso, completamente bagnati, gocciolano acqua e le inondano gli occhi, riempiendoli di lacrime dolci. Non ha freddo, resta seduta sul legno scuro e dall’odore pungente, raccoglie gocce di pioggia sui palmi e le fa scolare giù dalla punta delle dita. Osserva il loro movimento fluido, si scompongono e si ricompongono e poi svaniscono nella pozza ai suoi piedi.

Quell’immagine che si ripete nei suoi occhi, come un nastro riprodotto, stoppato e rimandato indietro all’infinito. Sempre gli stessi frame, sempre lei a terra, in una pozza d’acqua.

E’ una bambina, ha i capelli biondi e mossi che le ricadono morbidi sulle spalle. Stringe tra le braccia un batuffolo di pelo di cui non ricorda il nome, in realtà non ricorda di aver mai avuto un cane. Parole confuse le riempiono le orecchie, la disorientano e la fanno sentire sola in un mare di rumori sconosciuti che non fanno altro che tentare di entrarle dentro, le scavano i timpani, premono contro il nervo acustico e, pur di arrivarle in testa, sfondano il cranio e dilaniano i tessuti.

Non riesce a mettere ordine a ciò che sente, non riesce a dare un volto a nessuna di quelle maschere che i suoi occhi continuano a farle vedere. Le fa solo male la testa. Un rivolo di sangue le colora i capelli di rosso. Si preme le orecchie e la stoffa del cappuccio le ovatta l’udito, il muso del cane esce dalle sue braccia e la guarda spaventato. Le voci non vanno via, rimangono lì, parlano tutte insieme, non si danno ordine, vorrebbe urlare che non le capisce, che non riesce ad ascoltarle ma quando apre bocca ne esce solo un flebile sussurro.

E’ spaventata, tanto da non riconoscere più gli odori o i colori, non sente nemmeno le gocce d’acqua bagnarle la felpa. E’ tutto dannatamente troppo grigio, come le sue iridi; è tutto maledettamente arido e piatto come la sua mente. Quando apre gli occhi un enorme gocciolone le cade su una guancia, lo sente freddo sulla pelle calda e con la punta della lingua lo cattura e c’ innaffia la gola secca. E’ piacevole. Alza gli occhi al cielo e lascia che la pioggia le inondi il viso.

Dischiude le labbra, quel che basta a far scivolare alcune gocce sulla lingua. Ne conta una, poi un’altra, arriva a dieci ma poi diventano troppe da poter essere contate così smette di pensare numeri. Chiude di nuovo gli occhi e ascolta silenziosa l’eco lontano di un battito costante e frenetico. Mano a mano che lei si avvicina al ritmo le voci spariscono, si attutiscono sovrastate da quel suono appena sussurrato ma che le rimbomba nelle orecchie. Respira a pieni polmoni, aria pulita, aria che sa di asfalto bagnato e terra umida. Annusa e osserva come il cucciolo che nasconde tra le braccia, come se fosse la prima volta, come se fosse tutto da riscoprire.

La pioggia le bisbiglia alle orecchie il ritmo delle parole che lei prova a pronunciare. Sente qualcosa vibrare in fondo all’esofago, sente la gola pizzicare e la lingua premere contro i denti e il palato, gli occhi si spalancano quando dalle sue labbra esce un sussurro. Un sussurro definito, che sa di qualcosa di materiale, qualcosa che può toccare o vedere o sentire. Pronuncia il suo nome, lento, lo assapora e ne studia il suono. Lo indossa con timore come se avesse paura di non essere adatta per lui. A-b-i-g-a-i-l. Non sa se sia quello giusto sa solo che se lo sente addosso come quella pelle troppo bianca che le ricopre la carne viva.

Si guarda ancora i piedi Abigail, a distanza di anni non riesce a dimenticare la sensazione di nascere per la prima volta, o rinascere. Essere sopraffatta dai propri sensi, provare a tradurre i propri pensieri in parole. Ha sempre trovato strano quel vuoto al centro del petto, sa che ci sono dei meccanismi che agiscono per lei mossi da pura e semplice inerzia, conosce il suono delle parole perché qualcuno le ha spiegato come riconoscerlo, sa distinguere i propri sensi, capirne l’origine e svilupparli e sa cosa leggere negli occhi delle persone. Non sa perché, come l’arco, tira frecce e colpisce il centro spinta solo dall’istinto. Le resta solo prendere ciò che sa e sfruttarlo il più possibile, spremere ogni minima conoscenza per cercarne di nuove. A volte però il vuoto ritorna, le sfonda il petto e la lascia senza respiro.

Con il vuoto però torna anche la pioggia e il grigio delle nuvole si specchia negli occhi di Abigail e le regala il suo sussurro, il sussurro di un cielo in tempesta che potrebbe distruggerla ma decide di graziarla riempiendole gli occhi di piccolissime gocce come sillabe, come minuscoli pulviscoli di ricordi che si sciolgono e si fondo tra loro ricreando l’immagine di quella bambina seduta sull’asfalto grigio di una strada senza nome e con un cane tra le braccia.

Abigail non ha bisogno di dire nulla, si porta le gambe al petto e lascia che la pioggia faccia la sua lista, elenchi ciò che ogni goccia le imprime in quel composto di HO. Lascia che siano i suoi sussurri a riempirle il vuoto e a zittire le voci.

Imre la guarda sotto il tendone dell’armeria. La pioggia le cade copiosa sui vestiti ma lei continua a starsene seduta con le gambe attaccate al petto e la schiena poggiata al palco in legno. E’ così piccola, una macchiolina rossa letteralmente in un mare di gocce d’acqua. La osserva alzare il viso e dischiudere le labbra ferme, il mormorio sempre presente su quelle colline morbide è sparito, custodito morbosamente nel suo petto.

“E’ strana”

“Lo è”.

“Va da lei.”

Imre si gira verso l’amico e lo guarda negli occhi. Lui è serio, fottutamente serio, il sorriso si è trasformato in un ghigno di superiorità, come quello di chi ne sa una più del diavolo e lui ne ha sempre saputa qualcuna più del diavolo. Lo aveva preso per il culo più di una volta quando già lo teneva per la forca e pregustava quel beneamato momento e lui, all’ultimo, apriva gli occhi e gli alzava il dito medio rimandando la visita a miglior vita. Aàron si volta verso la macchiolina rossa sugli spalti e la osserva curioso.

 “Non la capisco. Probabilmente è per questo che è così interessante;  guardala, è tutta appallottolata in quella felpa verde, completamente fradicia, non sai se ha bisogno di starsene da sola o se spera che qualcuno la noti e la vada a recuperare.”

“Non credo sia così, di quelle che cercano di attirare l’attenzione su di se. L’hai vista, vive tra le nuvole, quando ti guarda i suoi occhi sono tipo, boh, allucinati.”

“Quella si fa pesante di immagini te lo dico io! Hai visto come guarda le persone? E’ sempre un passo avanti a tutti, coglie sempre quella cosa che..che le dice chi sei. Come fa?”

Imre le aveva fatto la stessa domanda ma lei gli aveva gentilmente sorriso e negato la risposta. Si era chiesto quali fossero le domande giuste di cui parlava, le domande sono domande si era detto. Poi l’aveva seguita con lo sguardo tutto il giorno rischiando di essere ripreso più volte da Vitaris, non si era mai tirata indietro per nulla, correva per tutta l’arena cercando di non farsi scappare quelli che per lui inizialmente erano momenti scontati, perché ormai consolidati nella sua testa, come l’abitudine di certi gesti; aveva osservato silenziosa i volti delle persone con le labbra che si muovevano impercettibilmente, l’aveva vista parlare solamente alla fine, quando il sorriso le toccava le guance.

“Aspetta Aàron, sa benissimo quando è il momento di parlare o fare domande. Perciò sussurra tutto il tempo, l’hai vista no? Ti legge l’anima e quando ha finito te la spalma in faccia come fosse marmellata”.

“Perché non vai da lei?”

Glielo legge in viso, c’è qualcosa in tutta quell’acqua che la tranquillizza. Permette a quelle gocce di avvicinarsi e infrangersi sulla sua pelle, che immagina calda e morbida, senza che senta l’impulso irrefrenabile di conoscerla, studiarla. Cerca di capire cos’ha la pioggia che gli altri non hanno, cosa le da l’immenso privilegio di sfiorarla. Le braccia di Imre s’intrecciano sul petto e le dita sfiorano il tessuto ruvido della casacca. La pioggia scende copiosa, enormi goccioloni scavano il terriccio friabile formando enormi pozze di fango. Imre chiude gli occhi e ascolta il suono della goccia che cade, s’infrange e sparisce in silenzio come se non fosse mai esistita. Una, due, in un ritmo crescente che da silenzio diventa suono e da suono torna silenzio. Ha sempre trovato meravigliosa la pioggia, il suo miracoloso potere di sovrastare ogni altra singola onda sonora, dal sussurro di un bambino allo scoppio dei motori. Nulla ha ragione di esistere davanti alla sua forza, c’è solo da guardarla scendere dal cielo e bagnare ogni centimetro di terra esposto a lei. Per Imre significa smettere di cercare suoni ovunque pur di sopravvivere al caos di sensazioni che lo circondano, seppur per quel minimo tempo che una goccia impiega a staccarsi dal cielo e cadere ai suoi piedi. La pioggia è un ritmo che non ha bisogno di ricercare, il suono è nella sua composizione, affianca quelle molecole d’idrogeno e di ossigeno, invisibile ma percepibile.

Invisibile ma percepibile, come i sussurri di Abigail. Imre spalanca gli occhi puntando le iridi scure sul viso della ragazza, lo sguardo tutto incentrato sulle sue labbra immobili. Se la sua musica non ha ragion di esistere davanti al meraviglioso suono della pioggia nemmeno i sussurri di Abigail hanno motivo di animare le sue labbra davanti a quell’ impercettibile e veloce rincorrersi di gocce.

Non potrebbe stare meglio, non ha bisogno di niente e nessuno, a meno che non si chiami pioggia e sia fatto di molecole d’acqua e suoni.

“Perché non è il momento giusto.”

Imre la guarda per l’ultima volta dandole poi le spalle con l’enorme desiderio di mettere fine a quella lunga giornata.

“Imre..”

“Che c’è?

“A che gusto era?”

“Cosa?”

“La marmellata!”

Imre ascolta la nota divertita nella voce dell’amico e in tutta risposta, e con una grazia che non gli è mai appartenuta, alza il dito medio nella sua direzione.

Abigail ha intercettato il suo sguardo e per un attimo non è stata capace di sfuggirgli, totalmente ancorata alle iridi nere e profonde di Imre, cariche di consapevolezza. Sente il desiderio che ha di capirla, sente le sue dita sfiorargli la guancia e fermarsi sulle sue labbra immobili, come bloccate nel bel mezzo di un respiro. Imre sembra capire perché è li sotto a prendersi la pioggia, glielo legge in faccia, negli occhi. Le sue dita strette nell’incrocio delle braccia sul petto, non raccolgono più suoni, non cercano più nessun ritmo.

Anche loro, come i suoi sospiri, sono sostituite dalla pioggia.

***

Buongiooooooooooooorno io mi ero tranquillamente dimenticata di pubblicare cosa che sta succedendo un pò troppo spesso, il che forse è positivo significa che sono sempre impegnata a fare altro sia fisicamente che mentalmente o forse sto diventando solo vecchia, a vent'anni. Oggi giornata di cucina a casa mia quindi ho il tempo minimizzato, giusto per capire dove sono e come mi devo muovere. Sto ancora dormendo, la doccia mi ha decisamente mozzato le energie. Poi ieri il caro David mi ha tenuta sveglia fino alle tre con il suo Inland Empire, quindi, carburiamo e andiamo avanti.

Grazie alla beta Chara che sta sempre lì a farmi la parte perchè dimentico sempre qualche accento su una i qualsiasi e perchè ha gli ormoni completamente sballati che mi fanno crepare dal ridere, loro. (-.-)

E poi grazie a voi che anche silenziosi ci siete sempre.

Tante coccole.

Lis

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Capitolo 8
*** Vernice blu e miele ***


8 vernice blu e miele

Vernice blu e miele

Ad E.

Perchè la grafomania

è uno stile di vita.

“Imre ma che hai? Ho sonno porca miseria!”

“Io esco.”

“Scusa?”

“Non riesco a dormire, ho bisogno di uscire, di prendere un po’ d’aria!”

“Ma se sono le tre di notte, dove vorresti andare?”

“Non lo so.”

“Imre, so che se ne avessi avuto bisogno già me ne avresti parlato ma..sei sicuro di non voler compagnia?”

Vorrebbe guardarlo negli occhi ma le sue iridi nere si confondono con l’oscurità che avvolge le quattro pareti della stanza di Emike.

“Si Em, ne sono sicuro. Grazie.”

Si avvicina e le posa un leggerissimo bacio sulle labbra, le sorride e poi sparisce nel buio della notte.

Al piano di sotto Aàron ha il sonno leggero e il bracciolo del divano gli sta spezzando il collo. Ha sempre trovato irritante il fatto che Imre possa dormire su con Emike, sul materasso morbido e con addosso le milioni di coperte colorate che l’amica cambia praticamente ogni settimana a seconda del colore con cui viene dipinta la parete di fronte al letto. Ha una dannata fissazione per quella parete, la mattina si sveglia e se vede che quel colore non le va bene, lo cambia con un altro; passa ore a guardare il muro, impassibile, con le gambe incrociate e i gomiti poggiati sulle ginocchia. Dice che se una mattina si sveglia con il giallo in testa non può assolutamente accettare il fatto che la parete sia verde, dice che è una questione di umore.

Dei passi sulle scale lo destano del tutto, così, irritato e rassegnato, si mette a sedere e nasconde la faccia sotto le coperte. Qualcuno gli passa accanto e prende una giacca dall’attaccapanni. Tira fuori un occhio dal lenzuolo e osserva Imre spingere la maniglia in basso e chiudersi la porta alle spalle.

Il suo sguardo allora va alle sue spalle, ai pochi gradini che lo distanziano dalla camera da letto, dal materasso morbido, dalle coperte colorare; da Emike. Ogni mattina, quando Imre è già uscito da un po’, Aàron sale silenzioso quei dieci gradini di legno colorato, spinge la maniglia e senza fare il minimo rumore s’inginocchia e si siede sui talloni ad un soffio dal volto di Emike. La osserva dormire e ascolta il suo respiro. Quello è uno dei momenti che più gli piacciono, con il cuore in gola allunga un dito nella sua direzione e ogni dannata volta si ferma a pochi millimetri dalla sua guancia, ha paura di svegliarla, ha paura di non poterla più guardare. Ogni mattina la trova sempre lì per lui, con le ciglia lunghe a nascondere i suoi occhioni azzurri, con le labbra rosse leggermente dischiuse e rilassate e con la coperta che le scende sui fianchi e le lascia scoperto il busto.

Non c’è mattina in cui non spera che lei si svegli e lo trovi lì alla distanza di un respiro, il respiro di Emike, dalle sue labbra.

Si toglie le coperte di dosso e si alza puntando un piede nudo sul primo gradino. Ricorda ancora lo sguardo di Emike quando le aveva chiesto se poteva starsene sul divano per quella notte e per quelle a venire. Aàron viveva in casa con sua sorella, la sorella che non c’è, che è partita per inseguire i suoi sogni, o almeno è questo che dice lei, per Aàron la verità è che è partita per inseguire i soldi di mamma e papà e un biondino dalle chiappe flosce che aveva conosciuto in uno stage a Boston. Per lui quella casa è troppo grande, con le sue pareti bianche e i mobili anonimi, spogli. Non è tipo da dormire su un divano a fiori o in una casa delle bambole ma l’aria che si respira in quelle quattro mura è diversa, sa di occasioni e indipendenza. Aveva frequentato l’università per un paio di anni e prima di mandare all’aria i suoi piani di studio o quelli dei suoi genitori, la differenza all’epoca gli risultava inesistente, aveva vissuto in una camera con un imbecille epico; a prima vista lo aveva trovato un tipo a posto ma dopo la prima settimana già non sopportava la sua totale incapacità di rapportarsi con le persone. Era uno di quei tipi dalle ossessioni maniacali, uno di quelli che lucida i propri trofei, un perfetto figlio di papà con la puzza sotto il naso e senza palle. Si era rotto il naso durante il tentativo di difenderlo da un gruppo di bulletti da superiori che volevano fare la pelle all’imbecille, non lo aveva nemmeno ringraziato.

Con quell’episodio aveva detto addio a qualsiasi futuro coinquilino, ciò che contava era farcela da solo, fanculo i suoi e fanculo gli altri. Aveva perso due anni dietro dei sogni che non gli appartenevano, la verità è che lui era nato per qualcosa e doveva trovare quel qualcosa con tutte le sue forze. Si era trasferito nella casa vuota dei suoi e aveva vagato a lungo da solo per quel paese fino a quando non si era scontrato con Imre in quel pub in centro.

La stessa notte in cui Imre lo aveva portato davanti alla porta rossa di una sconosciuta, aveva dormito sul suo divano e si era svegliato con l’odore dei piedi del suo nuovo amico a un palmo dal naso. Cercava il bagno per svuotarsi la vescica di tutto l’alcool che si erano scolati la sera prima perciò era salito al piano di sopra e aveva aperto la porta scoprendo Emike addormentata nel suo letto. E la parete blu, tutto era cominciato con la parete blu.

Imre lo aveva trovato in camera di Emike che fissava quella parete. Lo aveva affiancato e, con una mano sulla sua spalla, gli aveva spiegato la storia del colore che cambia ogni settimana, a volte anche due volte a settimana a seconda dell’umore della mora. Allora lo aveva guardato in quei suoi occhi neri e con il cuore in gola gli aveva detto che avrebbe voluto vedere quella parete cambiare ogni settimana, avrebbe voluto essere lì solo per guardare Emike prendere un pennello e dipingere il muro dei colori dei suoi ricordi. Si era detto che era qualcosa per cui valeva la pena vivere e perdere tempo, un fatto talmente strano da non poter essere nemmeno raccontato.

La mattina dopo era di nuovo sul divano destinato a dormire lì fino a quando non lo avrebbero cacciato via e, con gli occhi ancora mezzi chiusi dal sonno, aveva fatto le scale guidato da qualche nota strimpellata a caso e l’aveva trovata seduta sul letto con il viso sporco di giallo e le dita incollate alle corde arrugginite di una chitarra color miele.

Poggia il palmo della mano sulla maniglia, respira appena.

Ricorda ancora gli occhi di Emike gonfi di lacrime, le guance arrossate e le gambe nude ricoperte di parole. Lui, in piedi, con una spalla poggiata sulla cornice di legno verde della porta, l’aveva guardata a lungo incapace di trovare il coraggio di rompere quella dannata parete di vetro sempre in mezzo a dividerli. Sarebbe bastato un battito di ciglia o un respiro. Avrebbe potuto semplicemente riempire i polmoni d’aria e respirare. Invece era rimasto sulla soglia a guardarla piangere, con gli occhi di lei puntati nei suoi e il suo dannato sorriso sulle sue labbra rosse. Aveva sentito la sua musica rotta dai singhiozzi. Dio santo era come se il cielo si fosse sciolto nei suoi occhi riversandosi in quel mare azzurro di cui non si vedeva l’orizzonte e rivoli di acqua salata straripassero dalle palpebre scivolandole sulle guance e inumidendole le labbra. Era bella, bellissima, distrutta dalle emozioni, sopraffatta da un colore, un banalissimo colore giallo pulcino. Aàron l’aveva guardata negli occhi e aveva tremato sotto la forza delle centinaia di ricordi che le riempivano lo sguardo, ricordi senza fine di uno sguardo senza fondo. Lei era viva, viva davanti a lui, con gli occhi bagnati, la sua musica tra le mani ricoperte di giallo e le gambe totalmente scritte. Viva e sopraffatta da quella troppa vita che le scorreva nelle vene, come un grosso paradosso, come le sue lacrime e il suo sorriso.

Quel giorno Aàron era stato spettatore immobile del big bang di ricordi scoppiato negli occhi di Emike. Stanotte Aàron vuole rompere il vetro e diventare parte di quell’enorme ammasso di energia, per esplodere con lei e vivere, vivere per davvero anche se solo per una notte sola.

Emike prova a richiudere gli occhi e a cullarsi nelle coperte soffici ma il vuoto lasciato da Imre sembra pesarle più del solito. Fa freddo, la pioggia scende ancora copiosa, quelle coperte dovrebbero tenerla calda eppure è coperta di brividi. Accende la lampada a forma di fungo di fianco al letto e lunghe ombre si stendono sulle pareti completamente bianche, fatta eccezione per quella macchia di colore di fronte al letto, il muro oggi è blu. Di nuovo, come quella notte.

Emike scende dal letto, i piedi scalzi avanzano lenti sul pavimento ricoperto di tappeti, da quello rosso a quello verde e da quello verde a quello blu di fronte alla SUA parete. La sfiora con l’indice.

Quella parete è sempre stata il collegamento diretto tra i ricordi di Emike e il mondo reale, come una specie di porta temporale tra presente e passato, qualcosa che la riuscisse a mantenere più di qua che di là dove i ricordi l’avrebbero divorata, riportandola indietro come un corpo vuoto e privo di vita. Vita intesa come ricordi, ricordi di volti, ricordi di sensazioni, ricordi di qualsiasi cosa si possa ricordare, immagazzinare, mettere in un cassetto fino a quando non si riempie. La mente di Emike è una specie di infinita biblioteca custodita gelosamente da un paio di iridi senza orizzonte capaci di avvicinarti come il canto di una sirena e  di non riportarti mai più indietro, per sempre perso in un mare che è cielo e in un cielo che è mare.

Ogni volta che un cassetto si riempie la confusione di colori e sensazioni diventa insormontabile; ogni volta che un cassetto si riempie Emike smette di respirare, sopraffatta dall’enorme quantità di vita che le scorre nelle vene e che ha passato a raccogliere durante ogni dannato secondo, giorno o anno. E così nella sua mente tutto diventa blu; il blu della notte, quello senza fine, quello dove le stelle sono solo puntini lontani come macchioline indistinte che spingono il suo sguardo sempre più giù fino a quando non si rende conto di essersi persa. Quel blu così profondo, senza limiti, senza orizzonte.

Ogni volta che un cassetto si riempie Emike è incapace di contenerlo, prova a chiudere gli occhi e smettere d’immagazzinare ricordi ma non ci riesce, smettere di cercare la vita nella vita non è facile, è come cercare di smettere di fumare con l’unica differenza che chi prova a disintossicarsi dalla vita finisce per cadere riverso a terra senza un’anima con cui alimentare il corpo. Così lei si lascia esplodere.

Piange per ore nella sua stanza fino a quando, continuando a piangere, non sente l’enorme bisogno di cambiare il colore di quella parete e allora prende la vernice e la dipinge del colore del nuovo cassetto. E scompaiono le stelle, scompare quell’infinita distesa blu notte e le lacrime si riversano all’interno del vecchio cassetto. Come ricordi distrutti, ricomposti e riordinati in modo da poter chiudere il cassetto e aggiungerlo agli altri. E lei sorride, sorride per il sollievo, sorride mentre le ultime lacrime le rigano ancora copiose il volto.

Aàron.

Aàron l’aveva vista, macchiata di giallo, sconvolta dalle lacrime e con il sorriso sulle labbra. Poteva fare di tutto ma non si era mosso, era rimasto fermo a guardarla. Sembrava che avesse capito cosa le stesse accadendo, sembrava che fosse sopraffatto dalla stessa forza che le cresceva dentro e le divorava il respiro. Non aveva mai staccato gli occhi dai suoi e si era stupita quando era stata costretta ad ammettere che ne aveva bisogno.

Si avvicina alla porta e posa la mano sulla maniglia.

Adesso, quando spinge in basso la maniglia, non si stupisce del bisogno di scontrarsi con il suo sguardo; adesso, quando tira la porta verso di se, non si stupisce del desiderio delle sue braccia attorno al suo corpo e delle sue mani sulle sue guance; adesso, quando davanti a lei c’è Aàron, non si stupisce della voglia indicibile delle sue labbra, che immagina morbide e calde e sulle sue.

Aàron si scontra con lo sguardo azzurro di Emike, ha gli occhi lucidi e la canottiera con gli elefanti calata su una spalla, le gambe nude e snelle si muovono nel buio della camera, la sua pelle perla è liscia e calda. Sulla soglia il vetro freddo e invisibile li separa ancora, i loro respiri arrivano smorzati alle orecchie dell’altro come disturbati da un’interferenza; quella del fottuto vuoto che li divide.

Un suono assordante rimbomba nella stanza, apre un varco nel vuoto e arriva alle orecchie di Aàron, quando Emike si avvicina e posa le mani sul suo petto. Il suono di qualcosa che infrange le proprie barriere, un suono che diventa silenzio, silenzio che rompe i timpani, silenzio che ti strappa il respiro.

La stringe fra le braccia incapace di lasciarla allontanarsi, ormai è li, per una dannata notte è li fra le sue braccia, per una, una sola notte, può stringerla, sfiorarla, prenderle il volto fra le mani e guardare oltre quel sorriso che non abbandona mai il suo viso.

Per quella notte, questa notte, Aàron bacia quel sorriso. Le labbra di Emike sono morbide e calde e buone e le vuole con tutto se stesso. Le vuole adesso come non le ha mai volute in quelle mattine in cui la osservava dormire e le ha adesso come non le ha mai potute avere: sul materasso comodo; con le coperte colorate di Emike; con la parete blu che incombe su di loro come quella notte. Adesso però Aàron non è sulla porta a guardarla, è con lei, è in lei, è lì per lei e per quella dannata voglia di vivere che devasta i loro sensi portandoli in fin di vita, in quell’istante dove entrambi smettono di respirare e prendono per il culo il diavolo.

La pioggia cade lenta dal cielo ungherese. Lacrime salate sgorgano silenziose dalle palpebre di Emike. Un sorriso si disegna nitido sul suo volto. Questa volta non è sola.

***

Torno a pubblicare dopo, beh dopo un bel pò. C'è stato un piccolo momento di demoralizzazione, non riuscivo nemmeno più a scrivere, non so voi ma di solito mi capita quando ho la mente continuamente operativa, quando ho continui cambiamenti, giornate piene e insomma, non riesco mai a mettermi seduta e trovare la voglia di sfogarmi, perchè non ne ho bisogno. E quando scrivo mi sfogo, tanto, mi sfogo e mi svuoto, ieri sera ho riaperto word e ho scritto per due ore senza sosta e quello che ho tirato fuori è qualcosa di diverso che mi mancava.

Loro invece sono fluff, fluff in tutto, Emike lo è anche nella mente e neglio occhi e nelle labbra, io adoro questa ragazza come sono perdutamente innamorata di Aàron, credo che se esistesse nella realtà così come io lo immagino nelle mia mente sarebbe il mio ragazzo ideale, cioè quello che mi farebbe perdere la testa, uno più curioso di me vorrei davvero trovarlo e vedere che ci esce fuori. Non so, è come se passassi il mio tempo ad interessarmi di ogni piccolo dettaglio di una persona e al contempo sperassi che quella persona si dimostri interessata a me anche solo un briciolo di quanto io faccia con lei. Poi io sono curiosa, dannatamente curiosa e so che morirò di questo.

Va beh, bando alle ciance, io ringrazio come sempre chi legge silenzioso, seguendo, preferendo e ricordando. E ringrazio La beta che agita i pon pon e urla il mio nome per incitarmi a scrivere, le mando i capitoli di notte fonda, porella non vorrei mai essere al suo posto...comunque lei scrive una roba pazzesca, so che siete pochi ma confido su di voi, sapete quanto sono ossessionata dalla musica quindi vi consiglio di andare di volata a leggervi questa roba qui.

Giuro che non ve ne pentirete, cioè io la amo come poche storie e vi confido che è la prima volta che la Giuls mette così tanto cuore in qualcosa che scrive e lo dico perchè è una roba caustica che fa impressione, quindi uno parte prevenuto. Eh beh nulla. 

Se volete passare e delirare un pò con me, il gruppo è questo: Dream on: Wish you were here.

Tante coccole. Lis.

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Capitolo 9
*** Cannella ***


9 cannella

Cannella

Cammina sotto la pioggia incurante delle macchine che gli sfrecciano di fianco schizzandogli fango sui pantaloni della tuta o del freddo che comincia a entrargli nelle ossa facendolo tremare come una foglia; non gli importa del telefono che continua a vibrare nella tasca della giacca di pelle o del mal di testa che gli sta tentando di sfondare il cranio. Incurante di tutto continua per la sua strada strisciando i piedi sull’asfalto che puzza di cane bagnato e di argilla. La testa bassa, fissa sui suoi passi.

Pioveva anche quel giorno; Imre era steso sul rimorchio del pick-up con gli occhi rivolti al cielo. Erano le costellazioni ad attrarlo così tanto, con un dito per aria contava le stelle e disegnava segmenti accostati l’uno all’altro come a formare immagini schematiche. Con la testa poggiata sull’enorme bersaglio impagliato contava il numero di gocce che gli cadevano in viso. La prima goccia gli aveva centrato l’occhio mischiandosi agli impercettibili lapilli azzurri nell’iride color pece, la seconda si era posata sulle labbra dischiuse e alla terza stava già perdendo il conto.

In un attimo le strade si erano fatte fangose, le ruote scivolavano a vuoto mancando di qualche millimetro l’asfalto, il corpo di Imre era bloccato tra due sacchi di sabbia, tutto il resto intorno a lui sembrava impegnato in un vertiginoso ballo con le barriere del pick-up. Ogni sterzata come un casquet.

E poi. Silenzio. Solo fortissime emozioni tutte in un una volta, insieme, di corsa, come una fottuta bomba pronta ad esplodergli nel petto. Non respirava, non vedeva, cieco di colori, cieco di forme, cieco di quei segmenti dietro al dito ancora puntato verso il cielo. Il panico si era impossessato di lui e le sue dita non ne volevano sapere di battere un dannato tempo sul pavimento ferroso del pick-up, in mezzo a quel caos non c’era nulla che Imre fosse capace di fare per recuperare il controllo di se. E quel boato, così impercettibile, così lontano, sovrastato da tutto quel silenzio, contemporaneamente inquietante, come un gigante nascosto da una collina di cui se ne sente solo l’odore, come una bambina al centro della strada stretta in una felpa nascosta dal buio della notte.

Ricorda quando, sotto un cielo grigio, si era chiesto cosa avrebbe pensato suo padre del suo amato legno di ulivo vedendolo mentre ricopriva la sua salma vestita di tutto punto e avvolta nella croce di Lorena. Era un legno vivo, diceva, lo sarebbe stato per davvero, prima una piantina verde da due o tre foglie poi un tronchetto sottile e fragile. Nel giro di poco tempo la lapide in marmo fredda e anonima era affiancata da un ulivo alto e nodoso. Ad un Imre bambino era parsa pura magia, ad un Imre ormai adulto ricorda solo l’immensa e rassicurante presenza dell’uomo che lasciava che si sporgesse dal finestrino per annusare e osservare e sentire l’aria scorrergli tra i capelli ed entrargli nei polmoni.

 Era rimasto lontano da tutti: lontano dalle parole del prete pronunciate con estrema lentezza imitando una dolcezza che mai gli era appartenuta; lontano dal pianto strozzato di amici e parenti; lontano dall’odore di terra dismessa; lontano dalla pietà, dalla compassione e da frasi incasellate in uno sguardo dispiaciuto e in un abbraccio bullonato in un corpo freddo e distante, frasi che non capirebbe.

Eppure per quanto potesse allontanarsi da loro, le loro voci e i loro dannati cuori battevano più rumorosi che mai in quel silenzio funereo, Imre non sarebbe mai riuscito a trovare un ritmo confortevole in quel fastidioso vociare, si sarebbe fatto sopraffare dalle sensazioni, sarebbe crollato, esploso, si sarebbe lasciato andare. Lo avrebbe fatto per davvero se non fosse stato per quella goccia che sulla guancia lasciava un solco profondo e freddo. Prima una, poi un’altra, pioveva ancora. Solo contro un albero, si era ritrovato a maledire la pioggia a denti stretti, incolpando lei, con tutto se stesso. Poi ogni goccia era diventata suono ed ogni suono copriva il vociare sommesso di quella marea di maschere davanti ai suoi occhi, in lei trovava il ritmo che non era riuscito a creare da solo e lasciava che coprisse da sola tutto ciò che turbava quel ragazzino nascosto dietro un albero. Imre piano, piano capiva; capiva di come la pioggia lo avesse protetto dal boato dell’incidente, capiva come lo avesse preparato goccia dopo goccia a sopportare un dolore più grande di lui, capiva come restare in vita, come respirare rubando ossigeno alle molecole d’acqua che gli inondavano i polmoni.

Adesso, mentre apre il cancello in ferro battuto, non capisce come la pioggia possa permettere a quella voce di arrivargli dritta nelle orecchie, limpida più che mai.

 

 

Can-Nel-La.

In quel cafè ci saranno scarse una quindicina di persone, ognuno di loro aspetta che la pioggia smetta di cadere giù dal cielo per poter rientrare in casa, ogni tanto qualcuno tenta anche di uscire fuori per ritornare dentro con l’ombrello rotto e il cappotto bagnato. Allora si avvicinano  al bancone e ordinano una tazza di thè caldo o di cioccolata fumante.

C-A-N-N-E-L-L-A.

Una macchia scura si muove nel buio e cattura la sua attenzione. Quando un paio di alogeni illuminano il suo viso ad Abigail va di traverso il thè. Chiama la cameriera senza mai lasciarsi sfuggire la figura che cammina a capo chino sotto la pioggia incessante. Le chiede un thè caldo da portare via. Lei la guarda di traverso e getta un occhio alla tazza fumante tra le mani di Abigail; sei davvero sicura che tu lo voglia da asporto? Sembra chiederle ma qualcosa le impedisce di parlare, forse il buon senso. Intanto Abigail si alza e con le spalle poggiate al bancone osserva Imre fermarsi davanti al cancelletto in ferro battuto del cimitero.

“Ecco a te, e buona fortuna!”

Il profumo del thè gli arriva chiaro nelle narici e Abigail sussurra. L’ultima flebile parola pronunciata a fior di labbra prima di gettarsi nel silenzio della pioggia.

CANNELLA.

Lo chiama e lui si ferma, con la mano poggiata sulla ringhiera arrugginita, si volta e incrocia il suo sguardo. Le sue dita sono ferme, strette nella morsa della tuta ormai completamente bagnata, la sua voce bloccata all’interno dell’esofago. Solo i loro occhi si muovono, si studiano, si cercano anche.

Privi delle loro parole, come segnali di fumo strozzati dal vento, non riescono a trovare nelle dita e negli occhi dell’altro ciò che aveva permesso a entrambi di conoscersi a vicenda, di scoprirsi e di smascherarsi. Nudi, senza le proprie armi; nudi, con indosso solo i loro sguardi. Persi l’uno nell’altro senza riuscire a trovare via d’uscita. Solo domande, infinite domande senza risposte, risposte che la pioggia si prende e porta via nascondendole nel suo silenzio, nel suo elenco impercettibile di molecole di vita.

Ciò che vedono non è ciò che sentono, la pioggia si è portata via il ritmo di lui e i sussurri di lei, come per costringerli a trovare un altro modo per capirsi, un modo più umano, più naturale come l’uso della parola per esempio.

Imre prende dalle mani di Abigail la tazza di thè che gli sta offrendo e la porta alle labbra intorpidite dal freddo. Non batte ciglio, le pupille ancora incastrate in quelle di lei, troppo impegnate a cercare qualcosa che non sia pioggia o silenzio, per la prima volta vorrebbe che la pioggia smettesse di scendere copiosa ridandogli indietro il suo martellante ritmo.

Un ulivo si annoda su una lapide anonima e fredda al centro del cimitero. Di fianco c’è una fossa enorme che attende di essere abitata, un'altra anima data in pasto ai vermi e all’umidità.

“E’ mio padre.”

Abigail non chiede, Abigail aspetta che sia lui a continuare, spinto dallo stesso motivo che lo aveva indotto ad aprirsi con lei.

“E’ morto quando avevo undici anni, era l’unica persona che mi restava. Sai, non ho mai conosciuto mia madre, credo fosse una roba tipo circense, una di quelle persone che non sai se restano e per quanto tempo. Diceva che era bellissima e che faceva dei giochetti col fuoco niente male, non me n’è mai fregato niente in verità, mi fregavano  le stelle invece. Sempre col naso all’insù sdraiato nel rimorchio del pick-up, quello su cui sei salita anche tu, a contare le stelle. Se ci penso mi viene da ridere, riesci a immaginarmi? Con la testa su un sacco di farina e il dito puntato per aria a caccia di mosche.”

Abigail in realtà ce lo vede, un bimbo dalla testa rossiccia a caccia di mosche. In quegli occhi sarebbe stato capace di contenere di tutto, anche il cielo se fosse stato lontanamente possibile.

“Beh, pioveva e una bambina è sbucata dal nulla, mio padre ha sterzato e la macchina ha cozzato contro un albero, è stato scaraventato fuori dal finestrino, per metà credo. Aveva la testa penzoloni ricoperta di sangue e gli occhi ancora aperti per lo spavento. Almeno è quello che mi hanno detto, non ricordo nulla di quello che è successo, non ricordo come siamo andai a finire addosso a quell’albero, non ricordo il viso di quella bambina e non ricordo come fossi arrivato davanti la porta della mia camera. Ricordo solo le stelle, il mio dito puntato verso il cielo e le gocce che mi cadevano negli occhi.”

“La pioggia ti ha protetto.”

Imre la guarda, incredulo. Come fa a capirlo, come fa a centrare ogni volta il bersaglio con una facilità così estrema? E’ così dannatamente precisa, è come se passasse il tempo ad ascoltare non quello che dici ma il silenzio che passa tra una parola e l’altra, come se misurasse i tuoi respiri e li traducesse in righe mai scritte.

“Protegge anche te. Ti ho vista, sugli spalti. Le tue labbra immobili. La pioggia ti ha fregato le parole e se le gioca ai dadi insieme al mio ritmo.”

Sorride vincente ma non riesce a decifrare l’espressione stampata sul viso di Abigail.

“Io non ricordo nulla Imre. Non ricordo il viso di mio padre ne il profumo del suo dopo barba, non ricordo mia madre ne l’odore dei suoi capelli o la sensazione delle sue dita sulla mia guancia. Mi sono ritrovata sul ciglio di una strada con un bernoccolo in testa e tanta paura in corpo. Ero dannatamente confusa, mi giravano in testa centinaia di voci, voci senza volto, atone, anonime. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola, nemmeno una, non uno straccio di sillaba. Bloccata. Una sensazione tremenda. Poi, la pioggia. Sai che significa? Stavo rinascendo, gli odori..non ne avevo mai sentiti di così forti e i suoni? Era come stare in un fottuto parco giochi. Non sapevo nemmeno cosa fosse un parco giochi però sapevo che se esisteva qualcosa come quello che avevo davanti agli occhi in quel momento, allora sicuramente doveva chiamarsi parco giochi. E’ sempre stato così, da quel momento in poi mi muovevo per inerzia, sapevo che certe cose andavano fatte in un certo modo ma non sapevo perché. La pioggia però mi ha dato anche qualcos’altro. Il mio nome. Ero così sicura di chiamarmi Abigail, me lo sentivo addosso, come un abito confezionato su misura. Era perfetto e anche confortante.”

Cazzo. Imre capisce, adesso da un nome a quell’ossessione di catalogare ogni cosa, di tirare fuori nomi, numeri, a volte anche solo lettere o suoni. E’ come se la mente di Abigail fosse stata mandata al macello con tutto quello che conteneva, lasciandola sola con un mucchio di resti indefiniti di pezzi di vita sparsi qua e la. Frame rari e brevi di una lei che non è più lei. Come una scatola da riempire totalmente, da capo, di una nuova vita che non è propriamente sua ma che appartiene ad altri. Sono elementi piccoli, ricordi brevi e per lo più dimenticati, a volte rimossi del tutto e che, però, rimangono a galleggiare in qualche parte in un punto non ben definito della pupilla, o magari dell’iride.

“Quindi è per questo che lo faccio, la storia del sussurrare e tutta quella roba lì che ti aveva tanto incuriosito. Sussurro perché non ne posso fare a meno, perché ho bisogno di conoscere e capire, ho bisogno di riempire la testa di qualsiasi cosa che mi spieghi perché faccio determinate cose o perché abbia bisogno di altre. Tutto pur di non cedere al vuoto. E’ qualcosa di non molto diverso da quella buca.”

Abigail si volta e lo guarda, si avvicina di un passo e inclina il viso di qualche centimetro mentre un sorriso fa capolino aprendosi una fessura tra le labbra ormai viola.

“Siamo agli opposti, io e te. Io ho bisogno di sentire e di essere sopraffatta da ciò che sento, mentre tu..tu cerchi di controllare le tue emozioni, anch’io ti ho visto, l’altra volta, dal finestrino. Non respiravi nemmeno, gli occhi puntati sull’arena e il parco giochi che ti soffocava. Vorrei provare almeno la metà delle sensazioni che sembra mirino ad ucciderti ogni volta.”

Imre ha smesso di ascoltarla, i suoi occhi grigi, i capelli rossi, le guance rosee e le labbra viola. Il freddo gli sta entrando lentamente nelle ossa, eppure il petto brucia in maniera impressionante.

“Forse è possibile”

Non c’è bisogno di altre parole, lo sguardo di Abigail lo convince del tutto ad annullare la distanza e baciarla con un’urgenza che non si era accorto di provare, non fino a quel momento, non con quella intensità. Il volto stretto fra le sue mani, le labbra congelate in un istante, un istante in cui gli opposti diventano tutt’uno e in cui la pioggia li nasconde al resto del mondo, insonorizzando il rumore del loro bacio, delle gole che fremono e del petto che esplode e delle sensazioni che fluiscono dall’uno all’altro.

Senza giri di parole o confezioni regalo con fiocchi rosa e confetti al cioccolato, il loro bacio è la cosa più fottutamente sbagliata che esista al mondo, una sorta di bomba nucleare fatta di sussurri e suoni, una roba impossibile da contenere, che implode, da dentro; ti scava nelle ossa senza farsi notare e lentamente disintegra ogni cellula del tuo corpo senza che tu te ne renda conto. Mentre guardi le loro labbra cercarsi affamate, pensando che sia la cosa più dolce del mondo, quell’atomo invisibile scava in te un solco profondo che piano piano ti uccide.

Ed è per questo che è perfetto. Perfetto perché sbagliato; perfetto perché dannatamente rischioso. La mente di Abigail non è abituata a tutte quelle emozioni, potrebbe perdersi come una sorta di Alice nel labirinto della regina di cuori, o come Lucy in quel cielo di diamanti. Imre potrebbe morire e se dovesse accadere non muoverebbe un dito per impedirlo, accetta le proprie emozioni con una lucidità mai avuta prima, come se il vuoto di ricordi di Abigail compensasse la sua mancanza di autocontrollo. Incastrati come pezzi di puzzle, uno bianco e uno nero. Sbagliati ma perfetti.

Poi, come uno scherzo davvero poco divertente, la pioggia smette di scendere.

CANNELLA.

Un sussurro e un ticchettio sulla tuta fradicia.

***

Non so nemmeno che ore siano ma sono sicura che non è l'ora giusta per darvi il buongiorno. Quindi..boh..buon pomeriggio? Ho ancora gli occhi impastati dal sonno e il pigiama e i mille pantaloni che devo per forza indossare per non morire di freddo durante la notte. Eppure sono a casa..dentro quattro mura, dove il freddo dovrebbe restare fuori, a far battere i denti di qualcun altro e non i miei. Va beh..parliamo del capitolo, so che farò imbufalire la beta, perchè ho sicuramente dimenticato qua e là qualche correzione che lei aveva accuratamente segnato e io non ho applicato immediatamente, chiedo umilmente scusa ma ripeto, ho gli occhi impastati dal sonno e potrei non rispondere ancora del tutto di me stessa.
Questo capitolo è uno dei più importanti, c'è di tutto anche se magari non sembra, non adesso per lo meno, c'è praticamente quasi la metà delle cose che dovrebbe avveniri di qui a poco..non so ancora cosa la mia mente partorirà ma so che ci ho messo più di quanto avessi immaginato. Loro due, il papà di Imre, lui è tutto..lui ha un pò di mio padre e un pò di tutto quello che amo ad esempio la musica.
Il loro bacio, non sono innamorati, non sono follemente persi l'uno nell'altro, sono solo due anime troppo affini,l troppo curiose che hanno bisogno di divorarsi a vicenda per poter essere soddisfatti, per poter dire "cazzo, sto vivendo". Si sono trovati, sono pezzi di sensazioni che camminano.
Ed è narurale che si attraggano come pezzi di calamita e che finiscano per esplodere in quel modo.
Quindi, nulla..ringrazio chiunque si sia fatto due domande su di loro, ringrazio i silenziosi e chi ogni tanto prova a dire qualcosa uscendo fuori dall'anonimato. E poi ringrazio la beta e i Pearl che m'ispirano tante cose belle.
Tante coccole.
Lis

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Capitolo 10
*** Alive ***


Alive

Alive

“Amico sei impazzito?”

“…”

“Sto parlando con te! Che cazzo ti è venuto in mente?”

“…”

“Aspetta..è quello che penso?”

“…”

“E’ esattamente quello che penso, sei stato al cimitero?”

“…”

“Imre non puoi fare così, almeno abbassa il volume!”

“…”

“Fanculo Imre, odio quando diventi un fottuto zombie.”

“…”

Is something wrong she said.

C’è sempre stato qualcosa di sbagliato, qualcosa di radicalmente, profondamente, intimamente sbagliato. Quando erano in giro a distribuire il destino, Dio e il diavolo hanno avuto la felicissima idea di tenerlo fuori dall’unico che credeva di meritare con tutto se stesso.

“Toh è appena nato Imre, guarda quanto son felici i suoi genitori, guarda suo padre, hanno gli stessi occhi vero? Sì che hanno gli stessi occhi.”-  Dio se la ride e Lucifero fa spallucce. “Vediamo cosa ci è rimasto nel sacco. Oh guarda, ipersensibilità. Deve essere divertente, vederlo rantolare a terra sconquassato dalle sensazioni, sai che risate il giorno in cui busserà alla porta di uno di noi con il cuore fuori dal petto e magari senza un braccio, o una gamba; ho sempre pensato che un giorno mi sarebbe arrivata solo una gamba davanti al cancello, o magari un dito. Il medio, Dio (..scusami non volevo nominarti invano) immagina la scena, mi mandano talmente tante volte a fanculo che magari una volta tanto mi prendo la mia rivincita e mi fotto un dito medio di quegli stronzi. - Cos’altro c’è in quel sacco Luce? -  Oh beh, una fottuta fortuna.  Sopravvivrà alla morte del padre. - Sei sicuro di non aver più nulla nel sacco? Che so, un futuro come medico? O come musicista, tutti sognano di fare i musicisti, magari non uno di quelli che finisce su un letto qualsiasi con la propria bile nei polmoni. Li perdo di vista ed è una cosa che non sopporto, il paradiso mi sembra qualcosa di assolutamente monotono senza una dannata chitarra che suona. - Non dovresti dire dannata sai? - Luce fottiti! - Questa è blasfemia! - Controlla quel fottuto sacco! - E’ vuoto, non c’è più nulla." 

You're still alive, she said.

Era sopravvissuto. Con il dito puntato verso il cielo e le stelle negli occhi. Era sopravvissuto. Era anche lui su quel pick-up, c’era lui e c’era suo padre e anche lui era andato a sbattere contro quell’albero. Ricorda ancora la corteccia ruvida contro la schiena a un palmo dalla nuca. C’era mancato poco. Pochissimo. Un millimetro in più e avrebbe seguito suo padre nell’aldilà. Per un attimo si era anche chiesto se la musica arrivasse fin lassù, con tutte quelle nuvole ad ovattare il suono.

Sapeva per certo che di giù ci arrivava, il padre non faceva che ripetere che il diavolo era dannatamente ingordo di buona musica, ecco perché tutti i più grandi finivano per essere ritrovati morti nelle proprie stanze d’albergo, divorati da qualcosa più grande di loro. Lucifero, diceva, era lui che giocava con le loro anime fino a straziarle e a prenderle con sé. Ecco perché in paradiso erano ancora tutti fissati con arpe e strumenti da finocchi, niente in contrario con gli strumenti da finocchi, ma il padre era sempre stato un tipo da note prepotenti che fottono i timpani.

Ed era morto. Con il sangue che gli colava dalle orecchie. Dicevano che l’impatto era stato così forte da squarciargli i timpani e mandargli in pappa il cervello ma Imre lo sa, lo aveva sempre saputo. Era stato il silenzio.

Oh, and do I deserve to be?

No, dannato destino del cazzo. Non si era meritato di sopravvivere, quella vita non valeva nulla se barattata in cambio di quella del padre. Una madre ormai completamente assente ricordava di mandare un bigliettino ogni anno, lo stesso giorno, sempre nella stessa busta, con quell’odore ad impregnare la carta, così pungente e così dannatamente presente. Ipocrita anche nel profumo. Ma su una cosa non sbagliava mai. Due parole, una scrittura minuta e precisa, una firma tagliente, illeggibile(continua a nascondere se stessa): non meritava di morire.

Vero, verissimo. Ma non era la risposta alla domanda che lo assillava e lei non era la persona giusta a cui fare domande. E se anche avesse voluto, non avrebbe mai saputo dove cercarla o chi cercare. Nascosta per sempre da una firma illeggibile e un profumo esotico.

Ogni anno davanti all’albero di ulivo aspettava che qualcosa gli s’illuminasse nella testa. Ogni anno davanti a quell’ulivo aspettava la risposta. Ma Dio e il Diavolo avevano scelto per lui qualcosa di fin troppo divertente, fin troppo paradossale.

“Luce ti ho giocato un bello scherzo con quel bambino sai? Oh sì amico credo che qui qualcuno ti abbia preso per il culo. - Santo Dio (oh scusami l’ho fatto ancora), ti rendi conto che sei blasfemo? - Zitto testa di capra, e ascolta che pensata. Il sacco era vuoto ma io ci ho aggiunto un pizzico d’inventiva, sono Dio no? Avrò qualche potere sul destino di quella testina? - E vediamo cosa ti sei inventato sua altissima divinità? - La vita. - Che cazzo significa? - Significa che avrà un attaccamento quasi ossessivo alla vita, l’amerà così tanto che non la getterà via per nulla al mondo. Sei fregato Luce, avrò una dannata chitarra in paradiso! -  Vaffanculo Amico. -  Sai Luce, un giorno sarà il tuo, di dito medio, ad essere esposto in una teca di vetro davanti al mio cancello. Dio ha preso per il culo il diavolo. Sai che scena! 

Me I figure as each breath goes by.

Lo ama. Con tutto se stesso. Il suo respiro. E lo odia al tempo stesso. Sa che l’unica cosa che lo divide da suo padre è quell’attaccamento smisurato alla vita anche se non la merita, anche se sa che il suo alito non vale la morte di suo padre. Ma qualcuno gli ha concesso qualcosa. Il destino fa schifo ma qualcuno gli ha concesso di fregarlo, prenderlo a calci, appallottolarlo e centrare il cestino. Quando l’onda di sensazioni lo sommerge, c’è qualcosa che lo spinge in fondo senza mai fargli perdere lucidità, il suo ritmo è chiuso nella sua mente, protetto da barriere invisibili su cui lui ha il pieno potere, libero di lasciarsi andare quando e per quanto vuole ed è proprio in quell’istante, nell’istante in cui si rende conto di dover sganciare quelle barriere, nell’istante in cui la vita lo sta per abbandonare all’incrocio con la morte, che lui incontra suo padre. Gli occhi fissi nei suoi, un dito che punta in alto, verso le stelle, e il sangue che gli cola dalle orecchie come fiumi scarlatti. Ma sorride. Lui sorride sempre, come se non fosse successo nulla, come se la sordità lo avesse protetto dal dolore, dalla consapevolezza della non esistenza, dalla perdita di un figlio lasciato a crescere da solo. Sorride e indica il cielo e Imre, ogni volta, ogni fottuta volta, alza gli occhi al cielo e sgancia le barriere. Anche se sa di non meritarla quella vita, lui la vuole, la vuole, la vuole..

“Dovresti smetterla di sentirti in colpa”

“Aàron..”

“Quella bambina sarebbe morta se tuo padre non avesse sterzato, Imre tuo padre lo ha fatto per istinto, ci ha visto te al posto di quella biondina ed era terrorizzato. Salvando lei ha salvato te, non direttamente ma..insomma..mi hai capito. Meriti di stare qui, e spegni quel fottuto stereo che non ti aiuta per un cazzo”

“…”

“Ti ricordi? La sera al bar? La camicia, il pick-up e i tuoi piedi sulla mia testa a casa di Emike? Eri lercio, puzzavi da fare schifo, un misto di piscio e vomito; ti avevo quasi scambiato per lo scopettone del bagno. Avevi due occhi allucinati, dico sul serio, eri solo pupilla. Il barista era sconvolto nonostante sembrasse conoscerti, mi ripeteva che eri fatto e che non parlavi. Muto come un pesce, avevi chiesto il tuo drink, lui ti aveva servito e poi non avevi più parlato. Eri zuppo, dalla testa ai piedi. Non eri fatto, eri sdraiato sul fondo di un buco nero, tutto solo ad accarezzare la piacevole sensazione di una fine alla quale non appartenevi, con il tuo sorriso sghembo e le mani gelide e le orecchie rosse. Mi guardavi ma non mi guardavi. Eri un caso clinico, disperato, senza speranza. Non potevo lasciarti lì. Io di vita me ne intendo, lo sai, dopo tutti quei vaffanculo a Luce..non potevo lasciarti lì, non in quelle condizioni. Sei riemerso, te lo ricordi no? Ti sei messo a ridere e non hai smesso più. Pensavo fossi morto e invece mi prendevi peri il culo sul sedile del passeggero, completamente lercio, il tuo alito puzzava di alcool da fare schifo. Quando ti ho aperto lo sportello della macchina, manco fossi una principessina, ti ho guardato negli occhi e ti ho detto una cosa..te la ricordi?”

“A nessuno è concesso il privilegio di decidere il giorno della propria morte.”

“Esatto, è un lusso decidere quando morire o al posto di chi, troppo facile, dare un taglio, eliminare le difficoltà, smettere di crescere e lasciare la macabra eredità a qualcun altro. Eri un fottuto egoista, steso sul bancone del bar, con la camicia tirata e mezza strappata e il boccale di birra stretto in una mano. Stavi ammirando qualcosa che non ti è concesso di ammirare. La morte è un privilegio e non ti spetta, non adesso. Il tuo vecchio era un povero diavolo mollato da una donna dal profumo di merda e con un bambino idiota da crescere. Fidati adesso è all’inferno a suonare un assolo con Luce in persona! Si diverte più di chiunque altro, e tu vorresti togliergli quel privilegio e darlo a te stesso? Fottuto egoista!”

I know I was born and i know that I'll die.

The in between is mine.

I am mine.

“Le ho dato un bacio.”

“Che cosa??”

Aàron è questo. Aàron è lucidità che torna, ritmo in mezzo al caos e caos in mezzo al silenzio. E’ il dito medio che prima o poi Luce si sarebbe appeso in quella camera di fuoco e fiamme. Sa sempre cosa dire, fregandosene di ciò che le persone possano pensare o no di lui; è uno che commette errori, ne commette innumerevoli, a volte Imre pensa che li cerchi anche, quegli errori. Eppure è più il numero di errori che riesce a riparare che quelli che si lascia sfuggire, è vita vissuta e trasmessa, come quando attacchi la spina alla presa. Per un attimo dimentichi chi sia la spina e chi la presa. Lucidità, pura lucidità. Come una scarica elettrica, o un battito, o una parola, un sussurro, una parete colorata e un numero esagerato di coperte e tappeti.

Il sorriso sghembo di Imre svanisce nel nulla e dal fondo del buco nero spunta l’indice che mira il cielo. Ed Imre apre gli occhi su un’immagine che prima sembrava solo vapore liquido lasciato a mezz’aria, sospeso e pronto per esser portato via.

Le labbra di Abigail.

“L’ho baciata. Davanti alla tomba di mio padre. Sotto la pioggia. Con il thè alla cannella tra le mani, che tra l’altro mi fa anche schifo.”

“Che quadro deprimente!”

“Era tutto sbagliato!”

“Ma..”

“…”

“Oh forza, hai baciato la ragazza dei sussurri ci deve essere per forza un ma”.

“Non sono morto.”

“E che vorrebbe dire?”

“Che non sono morto, che ho solo desiderato quelle labbra, senza rischiare di lasciarci la pelle. Era come se non ce l’avessi, il cuore, se n’è stato zitto tutto il tempo, ma proprio zitto, nemmeno un battito e lei nemmeno un sussurro. C’eravamo solo noi, mi sono sentito per la prima volta vulnerabile, completamente vulnerabile. Quando ti trovi lei davanti non sai che fare, non sai come prenderla, ti legge dentro..”

“E ti spalma la marmellata in faccia, si me lo ricordo..e poi?”

“E poi nulla, la cannella!”

“Che c’entra la cannella?”

“Lo ha sussurrato sulle mie labbra e io ho portato il ritmo di quella dannata parola sui pantaloni.”

“Aveva smesso di piovere”.

Non era una domanda, era un’affermazione.

“Aveva smesso di piovere.”

Non era una risposta, era una consapevolezza.

“E adesso?”

“C’è la manifestazione, c’è il casino e ci sono le foto.”

“E il sole. Per tutta la settimana”.

Sei stato tu a fare quella cosa? - Di che diavolo stai parlando? - Ehi non tirarmi in causa, io non c’entro niente, il diavolo non c’entra con quella roba lì. Deve essere stata per forza un’altra delle tue idee. -  Non c’entro niente io, credi che lo lascerei avvicinare così tanto alla morte e dartela vinta? - La finiremo prima o poi di discutere?  - Mai. - Quindi chi è stato? - A fare cosa? - Il ragazzo, il padre! - Non ne ho idea. E’ importante?  - Farci prendere per il culo da un perfetto sconosciuto? -  Beh si effettivamente è strano. Quindi che facciamo? - Boh, che tempo c’è la prossima settimana? - Pioggia, su tutti i fronti! - Assolutamente no, ne ho le palle piene della pioggia, chiama qualcuno da lassù, che so di ad Apollo di tirare giù il sole e siamo tutti contenti. - Dannato di un diavolo stai bestemmiando il tuo Dio! - Un Dio blasfemo! -  Io faccio quello che diavolo mi pare. -  E io quel che dio mi pare. - Santo Dio che umorismo del cazzo che ti ritrovi. - Ma ti senti? Ti nomini invano e dici parolacce. - Sto cominciando a pensare che la tua vicinanza mi stia influenzando.  E quello che cos’è? - Boh, credo sia un dito medio. - Chi te lo manda? - Non ne ho idea, è bianco, sulla cinquantina e suona la chitarra. - Eh no, non è possibile! - Che vuoi, i privilegi di Lucifero!”

In fondo al buco nero qualcuno continua a sorridere con l’indice puntato verso l’alto e con le tre dita rimanenti chiuse sul palmo. Il dito medio spedito con pacco celere nel cuore caldo degli inferi.

 

 

 ***

Saaaaaaaalve mondo di anime meravigliose, oggi sono radiosa, stanca ma radiosa. Non è per il Natale, cioè il merito va a lui per le conseguenze che ha creato: una famiglia più idiota dall'ultima volta che l'ho vista; un regalo sotto l'albero che sfiora la perfezione; e i mercatini di Natale che mi hanno regalato i Pearl Jam, i Sex Pistols, G'nR, The Strokes e la lista è troppo lunga ma vi prego amatela con me.

Un giorno se non mi ucciderà la curiosità sarà la musica a farlo.

Perciò nulla, nonostante questo sia uno dei capitoli a cui tengo di più ma di cui sono meno soddisfatta sono felice di pubblicarlo, perchè se ci stavo ancora su uscivo matta o, peggio ancora, lo cancellavo del tutto.

Quindi..Buona pappa a tutti e buon annegamento tra carte rosse e fiocchi blu.
Lis

 

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Capitolo 11
*** Limiti ***


10 Limiti

Limiti

Ecco io.. Ecco io non sono mai stata capace di..io non sono mai stata capace di finire qualcosa. E’ che proprio non mi riesce di mettere un punto; comincio a disegnare, a raccontare, parlo da sola in un monologo che è un concentrato di parole astratte che per me hanno più senso di una formale descrizione logica. Ecco, io comincio, comincio sempre, ho sempre quel punto davanti agli occhi che sa di inizio, è allettante, goloso. Io lo vedo e mi ci butto, così. Senza un motivo ben preciso, mi ci butto. Solo che poi sono incapace di mettere fine a quel trip d’immagini e sensazioni e so perché, io so cosa mi spinge a continuare, so perché sento continuamente quel sapore pungente sulla punta della lingua a tratti amaro un po’ come il caffè senza zucchero, un po’ come l’adrenalina che scorre nella paura. Un po’ come la persona che non sono.

La memoria è un limite, il più grande che possa esistere. Quando ce l’hai, le tue azioni sono assoggettate ai ricordi, conosci le tue reazioni e ti muovi in quello spazio che va da un respiro all’altro seguendo sempre gli stessi passi, voltandoti sempre da una parte e mai dall’altra, come un cavallo con gli occhi coperti. Una focale fissa, una focale d’insiemi, mai particolari, mai quella visione ampia e distesa della realtà, solo un angolo, retto, acuto, mai ottuso. L’ottusità è da un’altra parte, è quell’ampio angolo d’incoscienza che non è imprudenza, che non è la totale mancanza di inibizione, è l’incapacità di pisciare a porta aperta senza preoccuparti che tutti vedano il tuo culo.

E, nel mio caso, il mio limite è un buco nero al centro della testa e una cicatrice invisibile tra le ciocche rosse, nascosta da una striscia di capelli scuri. Soffro di mancanza di emozioni e di un’ossessione rivoltante per gli sguardi. Dico rivoltante perché..

Dico rivoltante perché gli sguardi si accumulano. Si accumulano tutti qui, più o meno a due centimetri dalla bocca dello stomaco,  due centimetri in su; sembra bile ma quando apro bocca escono solo questi sussurri, è frustante non poterli fermare. Play, parte la cassetta. Il nastro gira; continua a girare e io rimango lì ferma, con la macchinetta tra le mani.

Il nastro gira, la macchinetta scatta e io voglio entrarvi dentro, voglio sentire chi siete, cosa provate, perché avete quelle facce insensate che sembrano un corpo separato dai vostri occhi. E’ come se fossero incastrati in delle orbite troppo strette. Io non so fermarmi, non so dire basta, non so smettere di cercare di capirvi.

E tutti guardano il mio sedere mentre faccio pipì sulla tazza di un bagno pubblico. Tiro lo sciacquone e in un vortice di terriccio, immagini, polvere e lingue di fuoco la mia inibizione va giù per lo scarico.

***

Rosa, che cazzo di colore è il rosa?

Un piede, 12 pollici, 13 di iarda. Quarantacinque piedi, non c’è vento, che diavolo mi cammina sulla schiena? Prude da fare schifo. Quarantacinque piedi, non c’è vento, l’arco è teso; se sei teso come me, amico, oggi saremo in due a spezzarci. Non mi abbandonare, non mi abbandonare, forza. Quarantacinque piedi, non c’è vento e..bam. Quarantacinque..bam. Piedi..bam. E non c’è vento..bam.

Rosa, rosa, rosa..che significa?

Perché non potresti essere come quel bersaglio? Perché devi essere così dannatamente complicata?

Cinquanta piedi, continuate ad allontanarlo, non cambia nulla. Sapete che il risultato è sempre lo stesso, mi basta chiudere gli occhi, respirare e contare. Uno, due, tre e..bam. Centro, di nuovo. E guarda che facce! Vi sto prendendo in giro, non so che diavolo faccio, non so come lo faccio, giratevi, c’è una tipa che vi sussurra a nemmeno un centimetro dal naso, guardate lei e lasciatemi perdere. Guardate quel fottuto obbiettivo, specchiatevi nella lente, rendetevi conto dell’oscenità che sembrate. No, lo capisco, specchiarvi è un rischio, è più facile guardare il bersaglio, sentirvi soddisfatti della bravura di un altro, uno che tra l’altro non è affatto bravo. Respirate, no? E’ semplice, no? Quasi naturale, giusto? Se vi facessi i complimenti, se vi dicessi “cazzo amico come fai a mandare giù tutta quell’aria? E ti finisce tutta nei polmoni? Dico tutta, non ne rimane, che ne so, un po’ attaccata all’ugola, tipo Tarzan, tipo liana? Dico.. la ingoi, la mastichi e poi la tiri dentro insieme ad un sorso d’acqua?” mi prendereste per pazzo, no? Allora lasciatemi perdere, perché io in questo momento sto respirando e non c’è niente d’interessante in uno che respira.

Sessanta piedi, non c’è vento; la corda mi sfiora la guancia, respiro; il legno geme, sento i suoi lamenti nell’orecchio, ti capisco, amico, respiro; la punta della freccia davanti agli occhi, respiro; uno, due, tre, respiro; chiudo gli occhi e..bam. Respiro, sto respirando e voi a bocca aperta che guardate un cretino respirare.

Rosa.

Vi prego, toglietevi di dosso quelle facce orgogliose perché non le sopporto. Non so, non avete un modo per sembrare meno insulsi? Meno finti? Meno leccaculo? Davvero niente del genere in quelle tasche bucate? Eh, no, se sono bucate immagino che tutto l’utile che avevate intascato per strada vi sia caduto briciola per briciola passo dopo passo. Stupidi, non vi rendete conto nemmeno del tempo che perdete. E non sono stronzo, sono solo fottutamente realista. Lo so perché i vostri occhietti continuano a fissare il bersaglio, adoranti. Vi svelo un segreto, so che potrei traumatizzarvi ma lo faccio per il vostro bene: non c’è un cazzo nel bersaglio, è solo paglia, paglia, tessuto e una roba tipo sughero. E non ditemi che vi piace adorare un fantoccio impagliato perché non vi reputo stupidi fino a quel punto.

E’ l’assenza di vento che deve interessarvi, è il ritmo, il secondo, la polvere che si alza, quei sessanta piedi. Sono quelle cose che dovreste osservare, materialmente, con gli occhi chiusi. Dovreste sentire, capire, calcolare e poi, forse, potreste permettervi di aprire gli occhi e cominciare a guardare in qualche direzione.

Ma vi capisco, sono fermo anch’io su quel dannato bersaglio, non vedo nient’altro, sento solo quella fremente sensazione di essermi perso qualcosa per strada, una strada che non riesco a vedere. Mi sento come voi e non c’è cosa che mi offende di più e non perché io sia migliore di voi, probabilmente la mia faccia fa ancora più schifo della vostra, è solo che ho imparato a guardare, a capire e a vivere, dannazione. Ma adesso sono fermo su una parete rosa. Stamattina mi sono svegliato con i vostri occhi e invece di fare attenzione a cosa calpestavo sono direttamente inciampato in quel secchio di vernice.  Rosa, vernice rosa.

Limitato, mi sento limitato da un quadrato di cemento.

***

Ho inciso tre lettere sulla cinta della chitarra solo per ricordarmi cosa siamo stati, non è mia intenzione paragonarci a quelli che eravamo, siamo qualcosa, siamo qualcuno di diverso, ma non tornerei indietro. Noi tre siamo l’unica cosa per cui cammino con la testa rivolta nella stessa direzione dei piedi. E sono scalza perché non voglio perdermi un passo, voglio sentire la materia scivolarmi sotto i piedi e plasmarsi, come argilla, sotto l’influsso dei ricordi e delle sensazioni che in un modo o nell’altro gestiscono ogni molecola del mio corpo. Voglio accertarmi che non mi sfuggiate e che io non sfugga a me stessa; siete, siamo, l’unica cosa che non fa massa, che non ha peso, che non esplode trasformandosi in colore. Noi, tre lettere su una cinta di pelle. Noi, tre anime che ho deciso di chiudere in un cassetto impossibile da riempire, qualcosa che si crea e si distrugge in continuazione, qualcosa che non va mai indietro, siamo capi saldi di una tradizione che scava le sue radici in terreni mai battuti.

Siamo tre poveri stronzi che vivono insieme, ognuno con i propri demoni, ognuno con i propri limiti.

I, Imre. Intaccato intimamente da emozioni troppo grandi, inspiegabilmente governate da un ritmo innato, che batte contro pareti intrise di carne e sangue, sangue che lo mantiene vivo e lucido.

A, Aàron. Animale, preda e predatore di se stesso. Asseconda istinti, accetta la vita, abbraccia rischi e ama impegnando tutto se stesso.

E, Emike. Io.

Rinchiusa in un barattolo di vernice. Io.

Grafomane. Io.

Rosa, oggi. Io.

Non lo sono stata mai, rosa; non mi ha mai svegliata, quel colore, nel bel mezzo della notte, toccandomi e sfiorandomi; non mi ha mai guardata ed infiammata; non mi ha mai insegnato quel piacere intimo, segreto, così incredibilmente assuefacente. Rosa, come il colore di quella polvere che respiro, che sa di feromone, che apre porte senza serratura, che non striscia né bussa, entra e basta. Rosa ma potrebbe essere anche rosso, o blu o nero. Scelgo il rosa semplicemente perché non sono mai stata rosa, semplicemente perché è qualcosa che non mi è mai appartenuto, che non sapevo di avere e che desideravo da una vita senza rendermene conto. Rosa desiderio, anche se il desiderio non è rosa.

Rosa.

***

Luce e Dio giocano ai dadi, Luce e Dio si stringono la mano. Come nemici sono molto più vicini di quanto ognuno di noi, voi, possa pensare. Si dice che nel nemico uno trova sempre il migliore amico, si dice che quando si ha un punto in comune ogni energia viene impegnata in quel punto dimenticando le inimicizie. Si dice che Luce e Dio hanno come punto in comune la scelta di cosa fare di un’anima e si dice che su quell’anima siano d’accordo, un accordo silenzioso, dettato da uno sguardo che sottolinea la complicità disumana tra due nemici sovrannaturali.

Si dice che ci sia un patto, tra Luce e Dio, un patto su cui quell’anima non ha potere, è semplicemente carne nelle loro mani capaci di plasmare la terra, figuriamoci un’anima.

Imre è quell’anima. Io sono quell’anima. Mi tengono in pugno e mi sento come uno stupido ascensore in quella corsa disumana su e giù dalle porte dell’inferno fino a quelle del paradiso. Si dice che un’anima che sopravvive alla morte, per miracolo, sia destinata a sentire e provare cose..diverse, cose speciali, cose che altri non potrebbero sentire mai. Io sento solo di essere uno stupido scherzo della natura, un gioco, a volte anche un burattino.

Ma lei. Lei ha tagliato quei fili.

E voglio che lo faccia ancora, voglio sentirmi di nuovo capace di sentire senza..morire, cadere in quel limbo assurdo fatto di sensi di colpa e desideri impronunciabili.

Perché non ce la faccio più. Sono stufo di questo cazzo di ritmo, sono stufo di questo casino, batto i piedi sulla terra e con il sorriso stampato sulla faccia mi asciugo il sudore con la manica di flanella. E’ un ritmo incalzante, è un ritmo che inquieta, è musica lontana che sa di storia, una storia che però non è la mia. Le mie pagine sono scritte sui Jeans consumati, sul sedile in spugna del pick-up, sulla lapide di mio padre e in quei fottuti sussurri.

E’ tutto sbagliato, mi sento diverso, mi voglio diverso. LA voglio.

E non ho mai voluto nessuno.

Troppe sensazioni distraggono, nel mio caso uccidono. Non mi sono mai potuto permettere il lusso di desiderare qualcuno, non ho mai osato chiedere di più, ma lei..lei è silenzio.

E il silenzio si prende tutta l’attenzione, è il suono che sovrasta tutto il resto, e nel silenzio io mi scopro a desiderare con anima e corpo. La voglio. Mentalmente e fisicamente. La voglio e voglio l’errore, siamo sbagliati ma non frega a nessuno, potremmo ucciderci ma nessuno ci ferma.

Luce e Dio cos’hanno da dire a riguardo?

Luce e Dio hanno smesso di giocare? Si sono trasformati in spettatori?

Dove siete voi due? Vi è sfuggita un’anima? Avete lasciato libero qualcuno capace di farmi scivolare via da voi? O fa parte del piano?

Fanculo!

***

Però ecco. Ad un certo punto il nastro si ferma. Il vortice si trasforma in polvere che attecchisce a terra e torna al suo stato naturale.

In quel preciso istante io riconosco un limite, disegnato su un paio di labbra, labbra morbide, labbra vicine, labbra che desidero. E per la prima volta in vita mia non ho paura di quel desiderio, lo sento esplodere nel petto e sento le gambe spingere verso il punto più lontano, da quelle labbra, da quella sensazione. E il nastro, quello fermo, inciampa sui cardini, scavalca e va avanti di poco ma si ferma di nuovo. Lui va avanti e io vado avanti, lui inciampa e io inciampo, non sui cardini, sul suo sguardo. E’ una sensazione, quella che cresce nel petto, quella che esplode, ed è mia. Mia come poche altre cose. Un limite invitante, un limite dannatamente inebriante.

La sento, non ho bisogno di capirla, i sussurri sono inutili.

Quel bacio è un nastro inceppato che non fa che tornare indietro e riprodursi da solo, nella mia mente, nei momenti più inadeguati.

E’ sbagliato, è rotto, è da riparare ma lo lascio lì, al riparo dalle mani di chiunque, dagli occhi e dai sussurri e dalle sensazioni degli altri, di voi, in quel cofanetto dove nascondo le poche cose di cui sono realmente certa in questa vita fantasma.

In questo parco-giochi ci sono giostre che non vorrei provare, ed altre per cui farei la fila per giorni interi, aspettando il mio turno, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo puntato in alto.

Se potessi fare un biglietto per TE e se avessi la pazienza di aspettare che la PIOGGIA torni, insieme al suo silenzio, aspetterei, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo puntato in alto e il mio turno arriverebbe insieme alla cannella e alla lapide di tuo padre e a quell’ulivo ricurvo e l’odore di terra bagnata.

E’ tutto sbagliato, come un dipinto strappato o come una nota stonata ma aspetterei, semplicemente perché nessuno in questo buco di mondo si aspetta da me una cosa del genere, semplicemente perché non so dire addio, non so dire basta; semplicemente perché voglio di più di una sola sensazione. Vorrei un’overdose, quella che ti uccide.

Ma il parco-giochi è immenso e i rumori, queste esperienze che urlano, mi distraggono e mi attraggono e..il nastro gira, gira, senza incepparsi e si dilata sotto il calore del sole. Ed io cammino a testa bassa guidata dai sussurri e dalla musica di giostre e dall’odore di mela cotta.

***

Non ho idea del perchè mi sia venuta oglia di pubblicare adesso, so che gli occhi  bruciano e io non mi reggo in piedil, infatti sono nel letto che asp0etto che si scarichi un film per spegnere il computer e andare a nanna. Domani niente uni quindi morirò nel letto per circa troppe ore.

In realtà non voglio dire nulla, insomma quello che volevo dire è scritto lì, nelle parole di quei quattro matti, li amo, più di quanto immaginassi e mi stanno facendo molta più compagnia di quanta io gliene avessi chiesta. Quindi vi prego amateli con me e amate con me la mia beta e Fal. Fal, che cosa è quella donna, non ditele che sto parlando di lei in queste righe altrimenti mi da della sdolcinata ma giuro che l'adoro:) Fal tante coccole!

Beh, buonanotte people e che Peter Pan vi venga a rubare tutti dalle vostre stanze.

Lis

 

 

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Capitolo 12
*** Rocking horse ***


11 rocking horse

Rocking horse

“Non ricordo come ci sono arrivato. Uno a volte si lascia convincere, lascia che siano gli altri a decidere. Non significa che mi fido, semplicemente non mi va di sforzarmi di cercare ragioni per cui dire di no. Ne troverei, molte, ma non ho voglia. Dire di no significa privarsi di qualcosa e poco conta se quel qualcosa sia una buona manica di errori, ti prendi quello che viene senza fare storie, senza aprire bocca, semplicemente stai a guardare come le scelte di qualcuno si sposino perfettamente con quel cumulo di massi che rotola giù per la scarpata insieme a buona parte del tuo buonsenso. Dico, a volte bisogna metterlo da parte il buon senso.”

“Non so bene quale sia il momento giusto, di mettere da parte il buonsenso intendo, non so quale sia; semplicemente ci sono quei secondi decisivi in cui decidi di buttarti in questa o in quella cosa lasciando perdere quella vocina martellante che ti frena e ti ricorda che sei più vicino al farti male di quanto pensi.”

“Ah, ah. Rido perché questo è uno degli errori migliori in cui mi abbiano spinto. E’ una di quelle cose che ti allontana da casa, ti spinge in quel baratro di solitudine che prima di allora non sapevi nemmeno esistesse. In un certo senso conosco le vostre case: calde, accoglienti, c’è sempre qualcuno che vi aspetta, che si tratti anche solo di una foto da guardare la sera; c’è sempre quel piatto caldo o pronto nel frigo. Non fraintendetemi, mi piaceva  quella vita, era comoda ma un po’… stretta. Sì, stretta, come i pantaloni che ho buttato la sera scorsa, erano di quelli che lasciano metà della pelle scoperta. Mi piacevano, erano i miei preferiti, vero J? Lui ne sa qualcosa, una volta ha provato a scriverci su, vuoi raccontargli cosa ho fatto J? Immagino di no, ha dovuto ripensarci. Beh, quei pantaloni, dicevo, li ho buttati la sera scorsa. Un lancio preciso, dritti nel cesto della spazzatura. Erano stretti, dicevo, come le quattro pareti di casa mia e come il pranzo insacchettato e messo al caldo nel forno.”

“Era un buon pranzo. Pollo, mia mamma era davvero brava col pollo, morbido e saporito, con le patate. Le patate erano la parte che mi piaceva di più. Quindi, dico, non era proprio una vitaccia quella che ho abbandonato nel furgone di qualche netturbino. Ho preso vagonate d’insulti per questa cosa. Irresponsabile. Potrei usarlo come secondo nome, suona bene, no? Sì, beh, è vero e questa consapevolezza ha sempre reso difficile il mio rapporto con gli altri. Scommetto che molti di voi riderebbero di gusto se raccontassi loro quante finestre mi hanno rigettato in mutande su un giardino sempre troppo affollato. Riderei anch’io, anzi rido, proprio adesso.”

“E beh, insomma, quella finestra, la prima, era alta.”

“Però l’ho saltata… ovviamente… e il giardino era deserto. C’erano solo questi qui alle mie spalle che raccoglievano pezzi di me per il prato di fronte casa mia, sotto gli occhi di mia madre. Mia madre vi odia ragazzi, ve l’ho già detto vero? Beh, non preoccupatevi, non vi odierà mai quanto odia me. Perché mi amava, un tempo. E beh… quando ami una persona, la ami veramente…”

“No, sentite, questo davvero non è un discorso sentimentalista, non guardatemi con quegli occhi perché le vostre… le vostre aspettative, le vostre speranze, verranno disilluse. Le distruggerò e voi mi guarderete mentre lo farò. Quindi lasciate perdere e ascoltate, oppure se non volete ascoltare prendetevi una birra e scopatevi qualcuno nel bagno, quello che dico non ha niente a che fare con l’amore che immaginate.”

“Pochi amano veramente. Perché fa male, amare fa male. Ecco uno che si alza. Beh fai bene amico, perché è la fottuta verità. C’è questa moda, di definire l’amore colorato, non so, ci vedete tutti arcobaleni? Ci vedete fiori nell’amore? Quel dannato cuoricino gonfio e tondo chi diamine lo ha disegnato la prima volta? Il cuore è un muscolo, pompa sangue e non fiori, il sangue sa di ferro non di zucchero. Il ferro arrugginisce, corrode, e il sangue corrode l’anima. Intendo quando ami, il sangue ti corrode l’anima.”

“E l’odore di ruggine impregna l’aria e i muri. E fuggi da una finestra perché non ne puoi più.”

“Questa canzone è la testimonianza di quanto io riesca ad amare ancora nonostante faccia male. Non ho più ossa in questo corpo, solo pezzi di ferro corroso che si muovono cigolando. Perché amo, amo un buco nero al centro di quella finestra, perché, nonostante…”

“Perché, nonostante ne sia uscito fuori, lei rimane aperta, sempre, ogni volta che ci passo, perché continuo a passarci, quella sta aperta. Sono  buco nero, lei e mio padre. Ecco di cosa parla questa canzone, parla di un buco nero che mi perseguita. Perché se amate, se amate veramente, quella persona, quella cosa, continua a muovere passi insieme a te, come un’ombra , come una presenza alle tue spalle.”

“E quello che fai lo fai per lui, per lei. Ti getti da una finestra perché vuoi indipendenza e ti ritrovi con la tua dipendenza che ciondola dietro di te. Non dipende da te, quello che ti hanno dato mentre amavi ti si cuce addosso come una seconda pelle, quindi ti prendi i debiti di una vita che non ti è mai appartenuta ma che adesso ti veste come una tuta troppo aderente. Perciò questa canzone è per lui, ma anche per me o per noi. Insomma, per chiunque ha fatto l’errore di amare almeno una volta nella sua vita, e si può amare anche un microfono, o un buco nero al centro del cervello, o… una lapide”

Father...ooh...oh...oh...

I see the world, feel the chill

Which way to go, windowsill

I see the world's on a rocking horse of time

I see the verse in the rain

“Ma… qualcosa c’è che mi manca di casa. Non è tutto così negativo come potete vedere. In realtà non c’è nulla di negativo, tutto questo… questo…”

“Tutto questo amare e farsi male. In realtà, per quanto ne possa essere consapevole, del dolore intendo, continuo a fare quello che faccio, a provare quello che provo, perché è quello che siamo. Se fa male significa che siamo vivi. Siamo carne da macello e ci lasciamo macellare perché ci piace, in fondo. Queste canzoni, questa… musica, sono la prova che non ho smesso di sanguinare, non esistono cerotti, non esistono punti, quando sai che non puoi fare a meno della vita così com’è, lasci che il tuo corpo ti faccia scivolare in quello stato di anemia che ti porta ad assumere ferro per compensare quello già corroso. E’ così che deve andare ed è così che va. Perciò in tutto questo macello, macello in senso figurato, macello di braccia, gambe e intestini, c’è quella cosa che…”

“...mi manca. Qui voi avete la pioggia, ed è meravigliosa, con quel suo silenzio ritmico che ti martella in testa come un picchio, tu stai lì seduto dentro una casa che immagino calda e guardi scendere giù secchiate d’acqua. Ma dentro le pareti di casa tua c’è rumore, no? O un silenzio diverso che è comunque rumore, ma c’è. Vero? Il ragazzo in prima fila sorride, probabilmente non ha capito un cazzo ma sorride. Come ti chiami? Beh, lascia perdere, sorridi pure.”

“ La mia domanda è… come cazzo fate a restare lì dentro? Insomma non vi viene voglia, che so, di sfondare la porta e uscire? Non vi viene voglia di correre e impregnarvi i capelli di merda grigia che finite per ingurgitare se non dalla bocca almeno dagli occhi? E dico, lo fate no? Vi prego ditemi di sì perché è quello che farei io, qui la pioggia è più bella. Può esserlo, vero? Beh lo è, vivete in un posto in cui il rumore nemmeno vi tocca e vivete di questa pioggia che è ancora più atroce del solito. Qualcuno di voi ha davvero il coraggio di parlare sotto quelle gocce? Non vi viene voglia di gettarvi a terra o sul corpo di qualcuno? Credo che anche il sesso diventi… boh, esalazione? Cazzo, non significa niente e me ne rendo conto ma ha un senso suo in fin dei conti. Esalazione di vapori, ho questa immagine della goccia che cade su un culo nudo ed evapora. Così, nel nulla. E tu respiri il calore della pelle del tuo culo o del suo. Nudi, stesi a terra, con la pioggia che vi evapora addosso, i respiri, gli affanni e i gemiti diventano più profondi delle parole. La verità è che senza il rumore nessuno sarebbe capace di parlare, a nudo dico, parlare di se stesso, delle proprie paure. Sarebbe come una libera caduta senza paracadute, nessuno si aspetta un atterraggio morbido. Perciò l’unica cosa che puoi fare è gettarti sul corpo di qualcun altro, in modo che le sensazioni parlino attraverso la tua eccitazione. Siamo dei cagasotto. Dei cagasotto con le chiappe all’aria. Scommetto che la metà di voi resta a guardare la pioggia e lascia la merda grigia agli altri, eh?”

“La prossima canzone parla di quei poveri stronzi che invece vivono di quei momenti, vivono aspettando che l’acqua torni a scendere giù. Siete gli stessi stronzi che amano e siete gli stessi che desiderano la pioggia solo per fiondarsi sul corpo di qualcuno, che non è chiunque ma è qualcuno come voi, come noi… come me. La prossima canzone parla di ciò che mi manca, è qualcosa che assomiglia alla vostra merda grigia. E’ l’oceano.”

Waves roll in my thoughts

Hold tight the ring...

The sea will rise...

Please stand by the shore... 

Oh, oh, oh, I will be...

I will be there once more

“Sì, beh. Anch’io aspetto, però aspetto un’onda. E’ sempre acqua, è sempre merda, però è blu e fa un casino assurdo. La prima volta che ho incontrato i ragazzi della band ho cantato questa canzone. Ho ribaltato una sedia e ho preso a sbatterci su le mani in preda all’eccitazione. Gli avevo spiegato che non era mia, era del mare in un certo senso, apparteneva a lui e io non cantavo, sputavo acqua dai polmoni. Quel picchiare contro la sedia doveva somigliare al casino delle onde. In realtà era un casino e basta e mi hanno tirato via a calci nel culo. Lo avrei fatto anch’io, insomma. Poi mi hanno richiamato e mi hanno detto che il testo non era male e che la voce andava bene, ma non dovevo provare mai più a fare quella cosa con la sedia.”

“E beh, ho smesso di fare quelle cose lì, ho smesso di fare l’idiota ma l’idiozia s’impossessa ancora di me… o di qualche parte di me. Ho scelto di fare musica perché è merda immateriale. E’ come l’acqua, solo che ti soffoca senza che tu te ne renda conto. Ti senti nessuno e nessuno è un bel modo di sentirsi. C’è chi dice il contrario e poi scopre che essere qualcuno fa schifo; il problema è che tutti noi siamo qualcuno e non conta quanto ci piacciamo o meno, arriverà sempre quel momento in cui nessuno, sarà esattamente ciò che vorremmo essere. Semplicemente per smettere di sentire e permettere a qualcuno o qualcosa di mostrarci… no, di vivere, sì di vivere di semplici sensazioni di cui non siamo capaci. Non da soli. E’ merda immateriale, no? E io faccio merda immateriale per permettere a voi stronzi di uscire da quella porta e prendervi la vostra pioggia.”

“Buona serata gente, uscite, svestitevi e imparate a vivere”.

***

“Non piove da una settimana…”

“Scusa?”

“Non piove da una settimana”

“Ah… sì, beh, capita”

“Dico, non piove da una settimana. Non puoi arrivare qui e sparare cazzate come un fottuto stronzo che la sa lunga sulla vita, sai? Puoi averne passate tante, puoi esser scappato da una finestra e aver dedicato la tua vita alla musica ma questo non ti permette di parlare in quel modo. Perché sai… qui c’è gente che…”

Un lungo sorso. Ingoia. Respira.

“C’è gente che ci crede in quelle cose, c’è gente che vive di quelle cose. E ti conviene davvero aver capito quello di cui parlavi lassù, perché hai convinto molte orecchie, molte più di quelle che hai disgustato. Hai una responsabilità addosso, anche se ti chiami irresponsabile, anche se pensi di poter fare o dire quello che vuoi, quelli ti seguiranno come capre. Tu non sai in che guaio ti sei cacciato.”

Stavolta respira solo, con un gomito che scivola sul bancone liscio del bar.

“E tu?”

“Io cosa?”

“Ti ho convinto?”

Ride. Ridono entrambi.

“Amico, io non ho bisogno di esser convinto. Non piove da una settimana.”

“Ci credo. Quello che ho detto sul palco, dico. Io ci credo e… la musica. Un nastro che gira, senza incepparsi mai, è come pioggia incessante, è oceano. Quindi la risposta è: la musica. Suoni la batteria?”

Si guarda le dita e ringhia, sopprimendo la rabbia che s’infrange contro una dentatura perfetta, bianca.

“E’ una questione di sopravvivenza, è il motivo per cui aspetto la pioggia. Quindi sì, suono la batteria ma non è per… questo motivo. Quelle dita non stanno ferme nemmeno in quel caso. Non le fermi, mai. Beh, quasi mai.”

“Immagino sia lei”.

“E’ questo che fai? Tiri conclusioni sperando che siano quelle giuste? Quanti ne hai incontrati finora che non ti abbiano spaccato la faccia? Beh, non importa. E’ lei, ma non devi guardarle gli occhi, o quel visino, non devi guardarla in generale. Devi ascoltarla e, se ci riesci, devi ascoltare quello che ascolta lei. Provaci, valle vicino e prova a capire che dice, provaci, fallo. Vai, ti dico, è innaturale, non esiste. Tu parli di buchi neri, lei è un buco nero. Assorbe tutto quello che le si avvicina, lo fa senza farsi notare, ti sfila le mutande sotto il naso, in un certo senso. Non prova nulla, è una lavagna vuota su cui scrivere e lascia che gli altri scrivano su di lei, perché ne ha bisogno, ha bisogno di vita e io ne ho troppa e non piove da una dannata settimana.”

“Quindi che fai? Aspetti che scenda giù una cazzo di goccia? Dico, allora non ascolti, no non guardarmi così, tu non ascolti. Allora fallo adesso e chiudi quella cazzo di bocca, smetti d’ingurgitare merda e ascolta.”

***

“Mi è capitato una volta d’incontrare qualcuno. A tutti capita d’incontrare qualcuno, a me no. Io incontro qualcuno raramente, insomma io incontro qualcuno che abbia da raccontare una volta ogni… una volta ogni mai. Perché non c’è mai nessuno che abbia voglia di raccontarsi, raccontarsi per davvero, con le parole che gli girano in testa, solo quelle tre o quattro parole che si legano tra loro per formare un discorso, il resto caos, caos che racconta, un caos che mi fa capire e che mi riempie. E beh, io ho incontrato questo qualcuno che mi ha raccontato di aver perso una figlia, lungo il ciglio di una strada. Ero piccolo ma abbastanza grande per capire. Non è mai tornata ma l’ha vista sopravvivere, con i suoi enormi occhi da adulto, l’ha vista cadere a terra e rialzarsi con la testa sanguinante, pronta a sentire le ossa cedere e i muscoli gemere. Ma non si è mosso, era pronto a perderla e ha lasciato che quella sensazione divorasse quel senso di paternità che ti spinge a gettarti in strada per salvare tua figlia. Era pronto a perderla. Sono rimasto colpito dai suoi occhi vuoti, non c’era nulla, così è stato facile immaginare quell’uomo in piedi a guardar sua figlia morire. Ma non è morta. Si è rialzata e si è seduta sul marciapiedi. Il vuoto in testa e la gola secca.”

“Questa canzone è per lei, ovunque lei sia. Questa canzone è per chi aspetta, fermo sul marciapiedi, di perdere l’unica persona che potrebbe farlo sentire vivo senza aver paura di esplodere. Chiunque creda che parli d’amore deve alzarsi e andarsene, perché questa si chiama disperazione e voglia di condividere, condividere il pieno con qualcuno che è vuoto. Vorrei che chiunque stia lì, in piedi, a ciondolare… sostanzialmente chiunque stia lì a non fare un cazzo della propria vita, adesso si svegli e afferri quel briciolo di salvezza che gli viene offerta. Quindi, questa canzone è per voi, pezzi di puzzle, glicerina… errori. Ascoltate e spalancate quella bocca solo per incastrarvi tra di voi, anche se non piove.”

i can feel like i

have a soul that has been saved

i can feel like i've

put away my early grave

cut to later, now you're strong

you've bled yourself, the wounds are gone

it's rare when there is nothing wrong

survived and you're amongst the fittest

love ain’t love until you give it up

***

“Abi..”

“Questa canzone… questa canzone parla di me. Non tutta, no. Credo solo quei versi. Cut to later… quei versi, parlano di me, Imre. Mi sono svegliata su un marciapiedi, mi faceva male la testa e non ricordavo nulla. Io… ero sola, cercavo qualcuno ma… io non sapevo, non ricordavo… chi diamine cercavo? Come? Volevo solo sentire… Imre io voglio sentire… Imre io…”

La paura. E’ una sensazione, la paura è una sensazione e rimbalza nel suo corpo, le tremano le mani e la voce sovrasta la musica. La sua voce. La sua voce che è sempre stata un sussurro, la sua voce che solo la pioggia sapeva ascoltare. Via i sussurri, solo paura. Vuole sentire e sta sentendo, ma non ha limiti, deve assorbire e assorbe anche la sua, di paura. Paura di esplodere. Tic, tac. Imre, il tempo corre, la canzone va avanti, la musica finirà, come la pioggia. Tic, tac. Imre, fai quel dannato passo e ferma la sua paura. Limita le sue sensazioni a un confine umido che sa di birra.

Tic. Tac.

Tic…

L’hai salvata. Hai salvato lei e hai salvato te. Con le mani sulle sue guance, con gli occhi fissi nei suoi, spalancati e tremanti, con le pupille dilatate e le sensazioni immerse in quel mezzo centimetro che divide i vostri sguardi. E l’odore di birra sparisce insieme al fastidioso tintinnare dei bicchieri e quel cigolio snervante della porta del bagno. Gente vi cammina intorno, vi vomita sui piedi e vi alita nelle orecchie. Ma voi siete lì, con le labbra incollate, incapaci di muovervi, incapaci di respirare. Tu finisci in lei e lei continua in te, tu lei dai rumore e lei ti da silenzio.

***

 

E la canzone va avanti, parla di sangue e la tua mano sfiora la ciocca rossa, come attratta da un richiamo, un richiamo ferroso. Condividi con lei la tua saliva ma hai già condiviso con lei il tuo sangue, le tue sensazioni, le tue emozioni; hai condiviso con lei i tuoi respiri e adesso condividi con lei il bisogno di condividere. Siete vasi comunicanti, uno si svuota, l’altro si riempie e viceversa; dondolate, siete su un filo invisibile, pronti a cadere, pronti a farvi male.

E siete nessuno. Scivolate con i piedi nella bile, appoggiati ad un muro ricoperto di moquette, calpestate gomme da masticare ancora impregnate di saliva e siete pronti a spogliarvi lì, a due passi da centinaia di occhi. Ma siete nessuno e non c’è interesse nel guardarvi. Non frega al cameriere che vi passa di fianco con lo spazzolone del cesso di nuovo intasato; non frega ai vostri amici impegnati in un discorso d’intimità che solo i loro sguardi possono spiegare; non frega nemmeno a voi di voi stessi. Vi muovete meccanici, divorati dal bisogno, divorati dal desiderio e dal dolore causato da sensazioni troppo forti, troppo vive. Pungenti come spilli conficcati nei punti più sensibili.

Vi tatuate a fuoco il viso e il corpo, imparate ad annusarvi, ad ascoltarvi. Non c’è sussurro e non c’è ritmo a dividervi, non c’è rumore, solo silenzio. Silenzio e quella musica che non finisce di girare; gira, gira, sembra avervi notato, lei, in mezzo alla folla e vuole che continuiate. Vuole vedervi sgretolare, cadere a terra esausti e vivi l’uno nell’altro. Perché il vostro non è amore, è disperazione; condivisa, compresa.

“Questa era per chi ha smesso di sentirsi solo. Questa era per chi ha smesso di aspettare la pioggia e si è messo ad ascoltare della fottuta musica mentre fotte. Fotte fisicamente e fotte con il cervello. Fotte se stesso, dentro una donna che lo completa, lo completa nella sua totale inadeguatezza. Questa era per quel qualcuno che oggi avrebbe voluto vedere sua figlia alzarsi dal marciapiede e camminare, correre, spedita fino a quel sedile di spugna, rovistare fra le gomme consumate e stringere la mano ad un’anima persa. Persa come lei.”

“Quando si è persi insieme si finisce per ritrovarsi sempre, nell’errore, nella disperazione, nel bisogno. E ci si fotte, corpo e cervello. E ci si sente vivi.”

“Questa, quindi, era per voi, che siete nessuno.” 

***
Non aggiorno da un'infinità di tempo e non ho idea di cosa dirvi per prima cosa. In teoria potrei anche non dire nulla ma avevo una bella idea di queste note, avevo immaginato un paio di cose da dire mentre metto in bocca un cucchiaio di riso con funghi e zafferano.
Comincerò col dire che di questa storia non ci ho mai capito niente e so che anche per voi è difficile seguire il filo logico degli eventi, non ho mai dato un vero contesto temporale, sono avvenimenti che accadono senza un preciso ordine, ho voluto seguire l'ordine dei pensieri, non miei ma loro, ho immagini nella testa e quelle immagini parlano ed è un pò quello che voi leggete in questi capitoli sconclusionati. Alla fine probabilmente ci sarà una sorta di strappo del velo, ma non son comunque sicura di riuscire a darvi tutti i pezzi di connessione, perchè non voglio la descrizione banale di un fatto, di un contesto e di due personaggi che si muovono in quei determinati limiti, mi piaceva non averli quei limiti, creare qualcosa di sconclusionato.
E' un miscuglio di sensazioni e immagini e di logico nelle mie sensazioni c'è davvero poco, quasi niente.
Quindi..direi che è ora di lasciarvi perdere.
I testi sono usciti dalla mente malata di una persona che vive di sensazioni, quindi non potevano essere più azzeccati, proprio per questo mi son fiondata su di lui e loro, perchè ero icura di trovare quello che cercavo. E loro sono i Pearl.
Vaaaaaa bene, ora lo mangio davvero il mio risotto.
Tante coccole.
Lis

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Capitolo 13
*** Ruggine ***


Ruggine

Ruggine

Ho conosciuto Imre..

Sì, si che me lo ricordo, mi prendo tempo, non è facile raccontare una cosa del genere, i ricordi vanno tirati fuori dalla scatola, messi in ordine, insomma non è tutto lì in fila; non li tocco da quel giorno, sono ancora nel loro ordine originale, odori, suoni, non ricordo nemmeno se è stato l’odore di erba bagnata o il rumore di un pianto rotto che mi ha attirata fin lì.

Il punto è che non ho mai conosciuto i miei genitori e vivevo in una casa famiglia da non so nemmeno quanto, probabilmente da tutta una vita; ero poco più che una bambina ma sapevo distinguere le note, tutte. Non sapevo scrivere e a malapena sapevo dividere in sillabe il mio nome, ma sapevo suonare e cantare. E sapevo leggere le note. Tutte, senza esclusione, a volte ne inventavo qualcuna; mi mettevo allungata sulla brandina, perché non avevamo letti veri e propri, erano più delle sdraio foderate di spugna, eravamo bambini, non ci lamentavamo...dicevo, mi stendevo sul letto e per addormentarmi canticchiavo qualche nota senza senso, era più per coprire il frastuono che faceva il rubinetto del bagno, perdeva acqua di notte, solo la notte perché durante il giorno era serrato, giuro controllavo di continuo. Credevo fosse uno strano scherzo di Dio, all’epoca credevo che tutto fosse opera sua, non perché ci credessi per davvero, volevano farmi credere in certe cose, era più una minaccia. Si all’epoca sentivo quel tipo di cose, la chiesa, la dottrina, il catechismo la domenica, come una specie di espiazione. Ero una bambina, una bambina abbandonata dai genitori che inventava note, non è che avessi modo di peccare o commettere granchè errori, perciò mi chiedevo a cosa servissero tutte quelle preghiere, io non avevo nulla da chiedere, non avevo bisogno di una mamma e di un papà, non sapevo nemmeno cosa fossero una mamma ed un papà. Beh, volevo il mio tempo per capirle certe cose, volevo essere sicura di credere in qualcosa di cui fossi consapevole non perché qualcuno mi avesse detto di crederci, così su due piedi. L’unica cosa in cui credevo era la musica, la sera mentre tutti gli altri pregavano inginocchiati ai piedi del letto io tenevo le mani nascoste sotto la coperta e contavo il numero di battute che c’erano in una frase o afferravo qualche nota persa qua e là. Ricordo che sopra il mio letto, proprio sopra la mia testa, c’era una finestra che dava sul giardino posteriore, quello comunicante con il cimitero.

Ricordo che ogni sera una donna si fermava davanti all’entrata del cimitero, il cancelletto arrugginito le sporcava le mani di rosso, ogni volta che si portava una mano agli occhi per asciugarli evitava accuratamente di passarsi i palmi sulle guance, si asciugava con il dorso della mano, come facevo io, come fanno i bambini. Era una cosa che mi piaceva particolarmente quella, la guardavo piangere e volevo abbracciarla; ogni volta che si asciugava le lacrime con quel gesto così...dolce ed innocente, volevo correre per il prato ed abbracciarla.

Cantava, la donna. E mentre tutti gli altri si facevano uscire lividi viola per pregare in ginocchio io posavo i gomiti sul letto e nascondevo le mani sotto le coperte e, con gli occhi chiusi, ascoltavo quelle note che si avvicinavano tanto alle mie, quelle inventate, quelle senza nome.

E l’ho conosciuto così Imre. Il giorno del funerale di suo padre; ero affacciata alla finestra sopra il mio letto e l’ho visto, nascosto dietro un albero. Indossava un pigiama a quadri di quelli di flanella e ai piedi portava un paio di anfibi neri pesanti, forse anche più pesanti di lui. Sentivo le sue dita battere contro l’albero; non le sentivo per davvero, ero lontana, ma l’osservavo, non so da quanto lo stessi osservando, e quel ticchettare contro la corteccia era ritmico, ammaliante. Pioveva a dirotto e non riuscivo nemmeno ad ascoltare la voce del prete pronunciare l’addio al padre di Imre ma sentivo le sue dita battere sulla corteccia. Sentivo il necessario, forse l’unica cosa che bisognava ascoltare, in quel momento.

E non so come ma mi sono ritrovata al piano di sotto che aprivo la porta con tutte e due le mani e la tiravo verso di me, ero scalza e indossavo una di quelle vestagliette leggere bianche, e pioveva a dirotto. Muovevo i piedi dentro il fango e avevo tutti quei legnetti fastidiosi incastrati fra le dita, facevano un male tremendo ma continuavo a camminare senza staccare gli occhi di dosso da quel bambino. Aveva la mia età o forse era di poco più grande di me, era già abbastanza alto e aveva già quello sguardo...penetrante. Ricordo che quando si è girato a guardarmi ho sentito una fitta sulla fronte, un male atroce, qualcosa di dannatamente appuntito cercava di perforarmi il cranio. Sentivo quasi il cervello sfrigolare contro le ossa. Non scherzo quando dico che il suo sguardo era già allora penetrante, un’arma micidiale. Ho cominciato a prenderlo a pugni implorando e inveendo contro di lui.

Non gli ho chiesto nulla, insomma non c’era niente da chiedergli, io non sapevo cosa significasse perdere qualcuno, io quel qualcuno non lo avevo nemmeno conosciuto quindi…era un po’ come perdere qualcosa che non hai, non ne senti la mancanza, non ne senti nemmeno la perdita. Perciò lo guardavo odiare quelle facce di fianco alla bara di suo padre e sentivo i cervelli di decine e decine di persone gemere dentro quei crani troppo stretti, il suo sguardo stava trapanando tutti, uno per uno. Voleva che se ne andassero, lo sentivo, non era difficile, voleva star solo con il padre, dirgli ciao senza rischiare d’inciampare in quelle facce trapanate. Che poi son sicura che nessuno conoscesse davvero quel bambino, non avevo mai visto quelle persone ed io ero una bambina che girava un sacco, tutti i giorni.

Ricordo di avergli stretto la mano, non so perché ma sentivo che dovevo farlo. Ero attratta da lui, ma in un modo strano. Sapevo quanto stava male, glielo leggevo negli occhi. Ricordo questa scena di lui che si gira a guardarmi ma non mi guarda affatto, prima di mettermi a fuoco lo vedo osservare elementi di me, elementi intorno a me, elementi qualsiasi presenti solo in quella sua testa in esplosione. Ero terrorizzata, non da lui, ero terrorizzata per lui. Così gli ho tirato uno schiaffo, i suoi occhi hanno letteralmente rallentato fino a fermarsi sui miei piedi scalzi e sporchi. E ha riso. Dico una risata tranquilla, una risata pulita, non come i miei piedi. Mi ha fatto stare bene, ero lì che gli stringevo la mano e che lo ascoltavo ridere, volevo mettergli un fiocco intorno al collo e portarmelo a casa e magari nasconderlo sotto al letto. Volevo che fosse una di quelle tante scatole da aprire quando ne avevo bisogno.

E poi la donna. Ha cominciato a cantare al di là del cancello e tutti e due ci siamo girati ad osservarla. Ci ha raggiunti lentamente con lo sguardo, ci ha accarezzati scivolando lungo le braccia fino ad arrivare a quel groviglio di dita che erano le nostre mani strette l’una dell’altra e…se n’è andata, con una parola strozzata nella gola, ne leggevo il suono muto sulle labbra: nero.

Imre è stato il mio primo colore, o forse è meglio dire non colore. Lui era chiuso in quella parola, la parola che è rotolata giù dalle labbra di quella donna fino alle mie orecchie. L’ho raccolta da terra e ripulita da tutta l’erba, il terriccio, il polline e l’acqua che la ricopriva e l’ho regalata ad Imre.

Ci siamo conosciuti quando entrambe le nostre vite stavano uscendo da un vicolo cieco, eravamo davanti a quella grande porta pesante che quando la cominci ad aprire ti sembra di piombo e mano a mano che lo spiraglio di luce si fa più ampio il peso diminuisce diventando gommapiuma. Era quel classico momento della vita in cui tutto ciò che prima ci sembrava enorme dopo era perfettamente a misura d’uomo.

Eravamo cresciuti tenendoci per mano, io donna lui uomo, sapevamo che dovevamo far qualcosa per noi stessi ma non sapevamo da dove cominciare. Quella porta sembrava un buon inizio così l’abbiamo spinta insieme ed è questo che voglio far capire, a chiunque, a voi, a loro, a volte anche a me stessa.

Di solito una strada è sempre troppo stretta per essere percorsa da due persone che camminano l’una accanto all’altra. Quella strada, fino alla porta, è il tipico metro di cemento che uno deve percorrere da solo, con le sue paure, i suoi fantasmi, i suoi fottuti problemi a fargli da ombra, sempre lì presenti a ricordargli che potrebbe non farcela e che magari quello che c’è oltre la porta farà schifo, ancora più di quello che c’è prima. Ma io e Imre eravamo bambini, lui era più alto di un comune bambino della sua età ma era mingherlino e io mangiavo poco, non è che ci tenessero all’ingrasso in quel posto. Quindi c’entravamo bene in due in quel mezzo metro di cemento, ci tenevamo per mano ed eravamo così vicini che uno poteva ascoltare con l’orecchio dell’altro. E così abbiamo fregato il solito andamento delle cose, quella frase “ognuno fa le proprie scelte, da solo, prendendosene le conseguenze”,  nessuno immaginava che io e Imre quel giorno saremmo cresciuti, nessuno immaginava che avremmo deciso di correre insieme quel rischio, aprire una porta più grande e pesante di noi, percorrere una strada di cemento scalzi o con un paio di anfibi pesanti. Perciò quella frase, per noi, su di noi, non andava bene, vestivamo già una vestaglia sbagliata e un pigiama ridicolo, eravamo già due idioti, io credevo persino di essere atea e mi ciucciavo ancora il dito prima di addormentarmi.

Se ci avessero detto che stavamo sbagliando, che non era il momento, probabilmente non li avremmo nemmeno ascoltati, perché sapevamo di essere un pugno in un occhio, due anatroccoli brutti e scarni, perciò perché provarci?

Ed è questo che siamo: due persone abbastanza piccole e strette da poter raggirare le regole di questo fottuto mondo. Insieme, come un’unica persona, come un piede e un anfibio, o come un paio di orecchie e una voce.

Due persone distinte che condividono mezzo metro di cemento, quel mezzo metro che conta però.

Ed ecco, c’è un’altra cosa.

Ricordo di essere scesa perché c’era un’altra cosa, un’altra persona che mi aveva incuriosita. Non ci penso mai, è una di quelle cose che noti e non sai come, nascosta tra le altre mille immagini che si accumulano nelle mente.

C’era una bambina, qualche albero più in là, seduta a terra, con il cappuccio tirato sugli occhi e un cane tra le braccia. Aveva quei lunghi capelli biondi che le ricadevano sugli occhi e una ciocca rosso fuoco che lasciava penetranti macchie rosse sui vestiti e sul terriccio sotto i suoi piedi. Era triste, era sola, era come persa, persa come quel ragazzino poco distante da lei.

E’ un’immagine che torna, più volte, e nei momenti meno opportuni.

La cosa più inquietante è che ogni volta che racconto di lei la sua immagine svanisce nel nulla, Imre non l’ha vista, Imre non sa chi sia, ma io l’ho vista diamine. Era lì, lo giuro. E lo giuro, tutte le volte e ogni dannata volta, quell’immagine sparisce chissà dove e non so più chi sia quella bambina, quale fosse il colore dei suoi capelli o della felpa; rimane solo quella sensazione di vuoto, come se qualcuno mi avesse cancellato un ricordo, come se nessuno dovesse sapere che lei fosse lì a due passi da noi.

E la dimentico, così come l’ho dimenticata la prima volta, passo dopo passo, a mano a mano che mi avvicinavo, dimenticavo la bambina e ricordavo Imre, fino a quando non gli ho stretto la mano e quella ciocca rossa non è sparita completamente dal mio campo visivo e così dalla mia mente.

Capelli biondi.

Cane tra le braccia credo.

Una ciocca di capelli ma non ricordo il colore.

Un cappuccio, che cappuccio?

Un albero a pochi passi da Imre.

Vuoto.

***

Andando avanti mi sono resa conto che avevo fatto incontrare tutti tranne Emi e Imre, io sapevo come si erano conosciuti, da qualche parte nella mia testolina avevo un'immagine di loro abbastanza chiara, ma non ne avevo mai scritto. Quindi eccoli, Emi e Imre impegnati nel loro primo incontro. Sono teneri vero? Teneri e sporchi.

Vaaaa bene, non ho molto da dire, anzi devo scappare, però ringrazio come sempre chi legge segue e preferisce, ogni tanto ne spunta qualcuno di nuovo e io vado lì a trovarlo con il mio delirio, quindi grazie.

E poi grazie a Chara che mi sta dietro e mi cazzia. Io vi suggerisco anche una cosa E' una roba rossa, ma proprio rossa ma anche troppo bella.. ed è sua..quindi fiondatevici perchè ne vale la pena.

Tante coccole.

Lis

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Capitolo 14
*** Unottantotto ***


13 Unottantotto


Unottantotto

A Danny

e ai suoi due bracci destro

uno bianco e uno nero.

All'infinito finito.

Una volta, qualcuno ha scritto:

“Un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finisco. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito”.

E il discorso fila, il concetto è giusto. Ma, ipotizziamo, se tra il primo e l’ultimo, l’uno e l’ottantotto, ci fosse una melodia precisa, un intero spartito già scritto, già pronto, che deve solo essere suonato? Se ci fosse questo spartito… immagino i fogli sparsi sulla coda del pianoforte e quel primo e quell’ottantesimo vibrare d’attesa; dico, se ci fosse questo spartito, allora la musica non sarebbe infinita; sarebbe lì, tutta lì, in quei pezzi di carta, delimitata sempre da quei due tasti che, seppur distanti, si uniscono inaspettatamente in una nota, una cacofonia di acuti e bassi, di forte e piano, di grida e di sussurri profondi. Si parla di vibrazioni, minime vibrazioni, che creano musica e quella musica ti parla, ti sta dicendo ottantasei tasti di distanza e comunque quel primo ed ultimo si sono incontrati.

Il problema sta in quel “tu sei infinito” . Perché in fin dei conti il problema è sempre quello, siamo spinti alla continua ricerca di qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, riceviamo stimoli e ci muoviamo meccanicamente nella direzione che ci indicano. Corriamo e cerchiamo e ci domandiamo. Siamo infiniti in un corpo finito, in una mente finita, circondata da ossa e nervi e carne e pelle. E noi scaviamo, accantoniamo e cerchiamo di accatastare cose, ricordi, addosso ad altre cose, sensazioni. E alla fine scoppiamo, sentiamo il bisogno di chiuderci in un limite, tornare a quel primo e a quell’ottantottesimo; e ci torniamo, apparentemente. Possiamo credere di esser fermi, se vogliamo, possiamo vederci immobili nelle nostre scarpe e nei nostri corpi finiti e possiamo illuderci di controllare i nostri ricordi, le nostre sensazioni e addirittura i nostri pensieri.

Ma il problema permane: noi siamo infiniti.

Perciò, quando accade che qualcuno ci piazza uno spartito davanti, le note nere su carta panna, restiamo spiazzati. Ci ritroviamo a concentrarci esclusivamente su quei due tasti e non sulla distanza che li separa, non sulle infinite combinazioni che quegli ottantotto tasselli ci offrono. Siamo lì con un dito sul primo e un dito sull’ultimo, come in origine, come prima che cominciassimo a sfiorare e a curiosare oltre quei limiti.

E riscopriamo una melodia primordiale che avevamo dimenticato e assomiglia tanto a un ricordo, che piano piano riaffiora, prima le sensazioni, poi le immagini ed infine la consapevolezza.

***

Uno

Seduta sul marciapiede Abigail riesce a sentire l’odore dell’asfalto fresco, reso bollente dal sole che picchia violento sulla sua testa, sul tettuccio delle macchine, sui gigli bianchi nel parco del cimitero e che scioglie la suola di gomma delle scarpe di Imre che la osserva dall’altro lato della strada con la schiena poggiata contro un albero.

C’è qualcosa, forse il silenzio assordante di quel pomeriggio troppo caldo o forse lo stesso asfalto che prima ha calpestato e che adesso annusa, con il naso a pochi metri dal catrame che lo compone; ma c’è qualcosa che vibra, nell’aria, intorno a lei o in lei, ma c’è. Ha seguito Imre in silenzio, senza chiedersi dove la stesse portando, e, mano a mano che si erano avvicinati, aveva riconosciuto una certa familiarità nei suoi passi, nella pesantezza del suo respiro e dei suoi pensieri e nei battiti accelerati che avevano tentato di fracassarle il petto. Erano, e lo sono ancora, solo sensazioni, ma prepotenti e a tratti dolorose.

Sente qualcosa, percepisce qualcosa e continua a guardare la strada, un punto preciso, non uno qualsiasi. Come se si aspettasse che accada qualcosa da un momento all’altro, qualcosa di troppo grande da poter essere ignorato.

Diavolo, vorrebbe alzarsi e avvicinarsi e guardare meglio, toccare quei centimetri di cemento da cui non riesce a distogliere lo sguardo; vorrebbe piantarci un piede e pestare fino a quando non succeda, fino a quando una crepa non la convinca che non c’è un fottuto nulla sotto la sua scarpa. Ma resta seduta al suo posto, inchiodata dall’attesa e da quella sensazione snervante di chi sa che manca un pezzo al quadro, il pezzo chiave.

E la sua vita gira tutta intorno a quel pezzo, le manca sempre poco così per ricordare, ricordare non tutto ma semplicemente qualcosa di diverso dal suo nome, qualcosa che sente e che ha sempre sentito ma non ha mai saputo vedere. Ed è per questo che stavolta osserva con attenzione, perché vuole vedere; è stanca d’immaginare,  stanca di sentire e basta, ha bisogno di ricordare, o almeno di sapere che è capace anche solo di andarci vicina, a un ricordo. Le basterebbe un brivido o una scossa o una qualsiasi cosa che la spinga ad alzarsi e a ricominciare a sentire e a provare a vivere con i soliti trucchi di sempre.

E improvvisamente sente il viso bagnato, freddo nel petto e un caldo tremendo sotto la ciocca nera, sotto la cicatrice e ancora più a fondo. E sull’asfalto la vede, una macchia rosso sangue schiarita dal tempo, minuscola, impercettibile ma presente. Ed è lì, in quel preciso punto, e allora si alza e la sfiora con le dita e la graffia e ci batte il palmo spaventata senza sapere da cosa. Respira a malapena, l’ossigeno bloccato a metà tra i polmoni e l’esofago, le costole ripiegate su se stesse e le braccia strette al petto come a contenere il cuore che sembra essere sul punto di esplodere, finalmente.

E sono proprio le braccia che attirano la sua attenzione, indossa un cardigan rosso ma quella che vede è una felpa verde e un cane che la fissa con due occhi… preoccupati. Preoccupati per lei, per quella cicatrice che brucia e per i capelli bagnati, il freddo nelle ossa e i passi incerti e le ginocchia instabili, e vorrebbe non sentire più, vorrebbe non vedere più, vorrebbe solo spegnere quelle voci che, di nuovo, sono esplose nella sua testa.

Di nuovo.

Ferma, in ginocchio, con le mani ad accarezzare il ricordo di quel cucciolo spaventato, un grido le muore in gola, divorato dal terrore quando due fari di un pick-up si piantano a pochi centimetri dal suo viso. Ha gli occhi spalancati, nonostante senta il forte impulso di serrarli e dimenticare, ingoiare quel terrore e alzarsi in piedi e scappare il più lontano possibile da tutto quello, ma resta lì ad ascoltare il rumore di una pioggia inesistente bagnare il paraurti del pick-up e scivolare silenziosa lungo la lamiera rovinata fino ad impregnare l’asfalto e i suoi vestiti e le sue ossa. Un dolore lancinante alla testa la fa crollare a terra e in quell’istante la vede; la bambina stesa a terra con il cane al suo fianco che le lecca il viso guaendo disperato. La vede alzarsi e guardare disorientata di fronte a sé, il rivolo di sangue le macchia la pelle chiara e morbida e ascolta. Ascolta i suoi singhiozzi silenziosi nascerle nel petto e sgusciare fuori da quelle labbra sottili e viola di freddo. Non sta piangendo, è solo il ricordo del dolore, la reazione del suo corpo a quell’urto tremendo; non ricorda nulla, non sa nemmeno piangere, non sa gridare e non sa muovere un passo dietro l’altro così si trascina fino al marciapiede e aspetta.

E si sente pronunciare il suo primo sussurro, la sua prima ancora di salvezza. Si sente rinascere, una seconda volta, e si vede rinascere. Per la prima volta.

Un istante, un secondo. Una gomma rotola di fianco ad Abigail, obbligandola a spostarsi di qualche metro e a distogliere l’attenzione da quella se stessa ingabbiata nei suoi ricordi e ricorda.

Dio, ricorda.

Ricorda i suoi occhi, ricorda il suo viso, ricorda la pioggia e quel grido straziato che le consuma le corde vocali. Lo sguardo liquido, da cui straripano gocce di pioggia, grida in silenzio e si dispera in segreto, gli occhi fissi verso il cielo, il dito puntato verso un’unica e brillante stella.

E ricorda di aver dimenticato e perché ha dimenticato.

***

Ottantotto

Le sue mani. Le nocche bianche che stringono il bordo bianco del marciapiede.

Le sue braccia. Tese, vibrano.

Le sue labbra. No, non sono neanche le labbra.

Le sue guance. Rosse, nascoste dal fazzoletto legato al collo.

E da capo.

Le sue mani. Le sue braccia. Le sue labbra. Le sue guance.

Di nuovo. E ancora. Non lo trova; non trova quel qualcosa, quel qualcosa di lei che lo tiene incollato con il culo sulla terra morbida, la schiena che graffia contro la corteccia ruvida, le mani incrociate al petto e gli occhi… gli occhi fissi su ogni elemento di lei. Ogni elemento tranne lui.

E conta, prima le mani, poi le braccia e poi perde il conto e ricomincia. Su e giù, giù e su. E continua, incapace di fermarsi; deve trovarlo, ma trovare cosa? E perché? Sente quel dannato qualcosa spingere sul palato, infilarsi nel naso e sfuggire per sempre ad appena pochi millimetri dal cervello.

Trema perché l’ha portata lì, trema perché non sa come c’è arrivato, non sa chi sia lei e non sa nemmeno perché voglia condividere quel dolore con quel corpo fragile quanto il suo da riempire fino all’orlo. Dalle mani, alle braccia, alle labbra, fino alle guance e più su a piantargli i suoi ricordi negli occhi.

Un brivido, lungo tutta la schiena, e colpi di tosse violenti; la testa pesante e la voglia di fuggire o di lasciarsi andare per sempre. La voglia di scivolare a terra e non sentire nulla, voglia di vuoto riempito dalla pioggia, da gocce fredde e grigie di un cielo scuro illuminato da una sola stella. Sensazioni, immagini, tutte raccolte in un istante, un preciso istante: l’impatto contro l’albero, l’impatto contro il parapetto del pick-up, l’impatto dei loro sguardi.

Vorrebbe dimenticare tutto, vorrebbe essere lei per un attimo, lei e la sua ciocca nera, lei e i suoi sussurri, lei e i suoi occhi così... ingenui, ma… consapevoli.

 

Vorrebbe dimenticare eppure ricorda e ricorda e ricorda, fino a star male, fino a vomitare immagini e parole e sangue, quello di suo padre e il suo, che non è stato versato. Allora dimentica, Imre, dimentica velocemente prima di ricominciare a ricordare, dimentica prima che torni tutto a galla, prima che il sole asciughi i vestiti bagnati, prima di riconoscere quegli occhi, finalmente.

Dimentica, Imre.

Dimentica.

Le sue mani.

Le sue braccia. Le sue labbra e le sue guance.

I suoi occhi. Spalancati su di lui. Pieni. Consapevoli.

E se non puoi dimenticare, allora ricorda.

Consapevoli.

***

E uno e ottantotto si incontrano, di nuovo o forse per la prima volta. Non siamo infiniti. Non tutti, per lo meno. Non quando ci s’incontra. Si muovono passi, passi finiti. Si alzano sguardi che finiscono l’uno nell’altro. Si muovono braccia e busto e si prova a scoprire quel mezzo metro, finito, che separa due infiniti. E poi ci si unisce, in uno spartito di note finite, in un ricordo d’immagini precise, in una sensazione, una sola.

E si sopravvive a quell’esplosione inevitabile, materia contro materia, contenuta in quel pezzo di cemento, in quegli ottantasei tasti di distanza, in quella macchia di sangue di fianco alla gomma rotolata a terra.

Il dolore è finito. Inizia dal petto e finisce nello sguardo.

Le parole devono essere finite, limitarsi ad un “Eri tu” e morire in gola, anestetizzando  il dolore,  reprimendo i sensi di colpa, eliminando i resti dell’esplosione e incontrandosi in un solo, finito, ricordo.

***

Uno e ottantotto

“Eri tu”

***

Perchè, mi chiedo perchè mi ritrovo sempre a pubblicare di notte. La mia beta corregge i capitoli che le mando alle due, a volte anche alle tre, è capitato che ne mandassi uno anche alle quattro, fresco di scrittura e pieno di errori indicibili perchè gli occhi non reggevano più e la mente era completamente su un altro pianeta.

Perciò mi chiedo ancora, perchè io pubblico a quest'ora?

La citazione in alto, quella in corsivo, viene da "Novecento" di Baricco. Mi serviva qualcosa di funzionale per farli incontrare, incontrare per davvero e di nuovo. Imre e Abi si son riconosciuti nella bambina sul ciglio della strada e il bimbo che guardava le stelle. Ed ora io li devo far finire, in qualche modo. Il prossimo sarà l'epilogo, giuro che sarò buona e nelle note spiegherò da dove è nato questo delirio, almeno renderò partecipi anche voi della mia malattia mentale. Intanto se cliccate sull'immagine si apre il pezzo da cui ho preso la citazione e se cliccate su Danny trovate il bimbo meraviglioso che, se fossi nata clandestinamente su una nave, sarei tanto voluto essere. 

Grazie beta e grazie Fal, solo perchè siete voi e perchè siete matte abbastanza da starmi sempre vicine.

Sogni d'oro!

Lis

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Capitolo 15
*** A-b-i-g-a-i-l ***


abigail 14

A-b-i-g-a-i-l

Alla cannella
perchè è un modo originale di dirti grazie;
Alle cadute libere
perchè ti sorprendono;
Alla grafomania
perchè è un modo tutto personale di capire se stessi;
Ai gufi sul libro di storia
perchè sapevo che prima o poi mi sarebbero stati utili;
Alle onde di un oceano che non ho ancora visto,
alla Kostova che non sa che cosa mi combina,
alle esperienze di un'estate passata dietro un obbiettivo,
a Vitaris e che i suoi capelli bianchi restino sempre incollati a quella capoccia quadra;
E alla musica;
perchè è quello che è e non serve dire altro.

I giorni passati, come cambiano velocemente 
Sei perduta e andata da lungo tempo ormai 
Voglio ricordare qualunque cosa 
Muovendomi alla velocità del suono 
Alla

 

Sono Abigail, Abigail e basta. Non ho cognome, non ora. L’uomo a cui appartenevo, l’uomo che mi ha cresciuta, l’uomo che tiene ancora stretta in pugno la mia infanzia e il mio cavallo a dondolo insieme alle costruzioni, è morto sul ciglio della strada, quella sera, al posto mio, nella mente e forse anche nel corpo.

Sono Abigail senza cognome, Abigail senza casa, Abigail senza famiglia. Sono Abigail e questa consapevolezza non è mai stata così rassicurante. Avere un nome è essere qualcuno per questo buco di mondo; avere un nome permette alle persone di fermarti per strada, farti girare verso di loro e concedergli attenzione. Avere un nome significa poter essere trovati, ovunque, nel mondo, da chiunque, al mondo.

Il mio è Abigail e non è il mio vero nome. E’ il nome della consapevolezza di essere qualcosa, di essere qualcuno. E’ la consapevolezza di un corpo che cerca la sua anima e che poi ad un certo punto, sul ciglio della strada, sotto un sole che picchia ma con il gelo nelle ossa, la ritrova. La ritrova nell’esatto istante in cui non la cerca più ed Abigail è il nome della consapevolezza di non aver mai cercato nel posto giusto, seguendo il silenzio e non il rumore, seguendo la voglia di svuotarsi che si coniuga con la voglia della sua anima persa di riempirsi.

Abigail è quella storia dei vasi comunicanti, riempio e mi svuoto nel mio simile che a sua volta si riempie e si svuota in quel vaso che è il mio corpo, che cerca un’anima e poi la trova. Ci ho versato un po’ di tutto in quei vasi, sperando di riuscire a colmare in breve tempo la distanza che mi separa dal tunnel che li collega, goccia dopo goccia, sasso dopo sasso, sensazioni che si arrampicano e stringono i denti fino a consumarsi anche le gengive. Persevera, dico a quella sensazione che scivola sulla parete liscia del vaso, persevera, le ripeto. E lei persevera, si arrampica sull’odore del tabacco e affonda le mani nel battito di un cuore. Persevera, arrampicati, aggrappati e scavalca.

Abigail è quel controsenso della sensazione che non è sufficiente per arrivare a quel gradino poco prima del ponte, per svuotarsi in quel vaso diventato ormai pura ed effimera ambizione. E’ la contraddizione di vuotare il vuoto nel vuoto. Un gioco di parole cacofonico che fa eco e si rispecchia contro il vetro. Abigail è il desiderio puro e semplice di volersi condividere. Non ho nulla, non ho che me stessa e anche in quel caso ho poco e niente, posso offrire un iride di colore intorno ad una pupilla ampia, nera e profonda. Ed è la condivisione di se stessi che fa paura, è quel guardarsi, ma guardarsi per davvero, negli occhi e nell’anima in un modo da poter persino vedere il colore delle mutande, fino in fondo ai calzini, senza davvero che tu sia nudo davanti a me. Abigail è pisciare a porte aperte.

Abigail è la sincera paura di restare a secco, senza nemmeno la riserva, al centro perfetto di una strada senza luci, di una strada senza insegne. Di una strada senza neanche una strada. Priva di un luogo, priva di un suono, priva di sensazioni a cui aggrapparsi. Priva di ricordi da dimenticare ed errori da perdonare.

 

Posso perdonare quello che 
non posso dimenticare e vivere una bugia? 

Abigail è nulla da giustificare, nulla da dimenticare né da perdonare. Abigail è una fotografia di cui si son persi i negativi. E’ un positivo fragile, cenere tra le ceneri, fuoco al fuoco, patina opaca che sbiadisce anno per anno. Abigail è “e ancora mi sto aggrappando forte a questo sogno di una luce lontana”. C’è ancora quella sensazione che scava il vetro, c’è ancora quel persevera rotto dal pianto, rotto dalla stanchezza, come una puntina che indugia sul graffio petrolio di un vinile impolverato al centro di una stanza che aspetta immobile di essere scoperta e svuotata. Di fianco al giradischi, sopra al cartone di un disco del ’77 degli allora Warsaw, appeso tra il nulla e la curvatura perfetta dell’emulsione secca e dura, un negativo. Sei scatti: il primo a metà, come se la tendina si fosse piantata al centro, incapace di andare avanti, troppo lenta, troppo stanca, troppo rotta; l’ultimo troppo contrastato, troppo denso, troppo bianco e troppo nero da far male agli occhi e al cuore.

Un sussurro nell'oscurità, 
sei tu o sono solo i miei pensieri? 
Sono completamente sveglia e sto cercando di afferrare qualcosa

 

Abigail non è più qualcosa, Abigail improvvisamente… è.

E’ un ricordo, un suono al centro di una canzone. Nella penultima strofa, seconda parola del primo verso, allitterazione e sibilo. Sensazione che scavalca e si svuota e si consuma ed esplode e schiuma in un infinito finito. Finito con lei, finito in lei. E la seconda parola, primo verso, penultima strofa, lentamente si scolora come mascara dopo un pianto lungo anni, che cola sulle guance e macchia di nero ciò che è pallido. E il suono diventa essenza e da essenza diventa totalità.

Una totalità che inizia nel silenzio della gola e si conclude nel silenzio di uno sguardo.

 

E' diventato tutto così silenzioso ora, 
può essere che sono andata ancora più avanti 
muovendomi alla velocità del suono

 

Non così veloce. Un suono non è abbastanza veloce. Il silenzio sorprende le parole e le frantuma e le consuma.

Sono nata da un impatto, sono scivolata nel mio stesso sangue e mi sono fatta allattare dal calore e dal leggero ruggito di un sussurro. Il primo vagito è stato un gemito e i miei primi passi sono stati quelli verso un pick-up ribaltato al centro della strada. Non conosco il mondo ma lo avverto, non conosco il mio corpo ma lo sostengo, perdo e ritrovo l’anima passo dopo passo, rigettando respiri in mancanza di bile.

Mi muovo nei miei sussurri verso il suono ritmico di un battito. E in un attimo, più veloce del suono, più veloce del silenzio, più veloce dei ricordi, raggiungo il cielo buio in cui decido di perdere la mia anima per forse non ritrovarla mai più.

Abigail sono io, nuda, davanti a te, nudo. E tu, quel buio pesto, tu sei il mio primo ricordo prima che la pioggia cancellasse il dolore, i lividi, il biondo dai miei capelli e le stelle dai tuoi occhi. Prima che tutto si trasformasse in rumore, prima che tutto si trasformasse in un buco nero, così diverso dal tuo, di nero; tu, Imre, eri e sei il mio primo ricordo.

 

Quando i segnali si incrociano, voglio metterli in ordine 
se non c'è amore, voglio provare ad amare nuovamente 
dirò le tue preghiere, starò al tuo fianco 
brucerò, in modo da illuminare tutto quanto 
scaverò la tua tomba 
balleremo e canteremo 
ciò che è rimasto potrebbe essere 
un'ultima possibilità di avere una vita

Fine

***

Non finirà mai questa cosa qui, è sempre in quella parte di cervello che partorisce immagini e sensazioni, martella puntuale e non manca mai un appuntamento. Ho così ben stampati i loro visi sulla retina che nemmeno strappandomi gli occhi riuscirei a schiodarli di lì. E non sono solo i loro visi, sono le loro storie che mi hanno rapita. Non credo abbandonerò mai Imre, nè Emike, nè Aàron che cerca ancora un suo spazio, e tantomeno non abbandonerò Abi, lei è più di quello che uno immagina leggendo queste pagine. Alla fine sono sempre i soliti stronzi di cui si legge da queste parti, non 'è nulla di diverso e ogni autore a fine storia attacca questa stessa pippa su quanto sia legato ai propri personaggi, è sempre così ma averne la consapevolezza non cambia di molto le cose. E' inevitabile.

Comunque le dediche a inizio capitolo sono tutte studiate e chi di dovuto si sentirà ringraziato, intanto dico a Fal che è invitata a pranzo o cena quando vuole, zuppa di patate e delirio sul menù, dico a Chara che ti aspetto qui e ti dico quello che devo a voce, e dico a chiunque si sia avvicinato anche solo per sbaglio a questa storia che anche se non siete comparsi non importa, grazie per aver letto e grazie per aver continuato questo delirio.

Il delirio, nasce tutto da una manifestazione assurda di tradizione dalle mie parti, mi hanno chiamato a far foto e ho avuto modo di conoscere dall'interno un mondo che da piccola avevo modo di osservare solo dall'esterno, ne ero innamorata e le cose non sono cambiate, si sono amplificate. I personaggi sono tipi che per me hanno volti ben diversi da quelli che ho messo lì nel banner, son volti che esistono come anche il loro essere fin nel midollo ungheresi ed il fatto che io abbia fatto sbarcare la mia esperienza in Ungheria è dovuto unicamente alla proposta di riandare nuovamente a fare quelle stesse foto nel paese a noi gemellato, ovvero il gufo sul libro di storia. Quindi la malattia mentale, la terra rossa, l'armeria, l'arco e tutto quel delirio è nato da un pick-up e si è concluso al centro del bersaglio impagliato.

Ed Imre, ovviamente, è il ragazzo di cui mi ero follemente innamorata a quella manifestazione e di cui per assurdo ho solo una foto, anche sfocata.

Le parole in grassetto, alla fine el capitolo, nella parte in corsivo, rimandano ognuno a quei quattro pazzi bruciati, sarebbe bello se qualcuno tentasse d' indovinare quale parola corrisponde a chi.

E quindi basta, le note più lunghe della storia non si possono vedere. Come sempre, tante coccole a tutti voi e ad un futuro prossimo, forse.

Lis

Ps: spesso sotto il grassetto e sotto le parole velocità del suono ci sarà sempre qualcosa da scoprire, basta cliccarci su!

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