Riflessi

di Windter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Un Vizio Irrinunciabile ***
Capitolo 2: *** I - La Tigre Nel Roseto ***
Capitolo 3: *** II - Ai Margini Della Foresta ***
Capitolo 4: *** III - Cedevoli Barriere ***
Capitolo 5: *** IV - Neve Su Di Noi ***
Capitolo 6: *** V - Solitudini ***
Capitolo 7: *** VI - Come Petali Nel Vento ***
Capitolo 8: *** VII - Planate Solitarie ***
Capitolo 9: *** VIII - Pozze di Luce ***
Capitolo 10: *** IX - Tempesta d'Intenti ***
Capitolo 11: *** X - Controvento ***
Capitolo 12: *** XI - Una Rosa ***
Capitolo 13: *** XII - Abitudini Antiche ***



Capitolo 1
*** Prologo - Un Vizio Irrinunciabile ***




Disclaimer: Maria-Sama Ga Miteru, i suoi personaggi e tutto quanto è legato alla serie appartengono agli aventi diritto, fra i quali non c'è l'Autore di questo scritto. Se così fosse stato, nella serie avreste visto molto più Youko x Sei.





[ Riflessi - Youko x Sei ]


Prologo

Un Vizio Irrinunciabile



Sachiko non apprezza la mia abitudine di soffermarmi, di quando in quando, a guardare fuori dalla finestra del primo piano della Casa delle Rose. Lei, avvezza più di chiunque altro alle rigide norme che l'Etichetta impone, lo trova un modo di fare poco elegante, un uso inappropriato a me; o meglio, inappropriato alla figura che accosta al mio nome, a quella che pensa che io sia. Ed in fondo forse non ha del tutto torto: ricopro pur sempre la carica di Rosa Chinensis, e mi pregio di essere l'onee-sama della stella del Lillian, l'erede della Famiglia Ogasawara. Chi se non io, dunque, dovrebbe essere in questa scuola icona di prestigio ed eleganza?

Spesso, quando mi fermo qui a guardare fuori, con la coda dell'occhio colgo le sue occhiate discrete, quasi di sfuggita. Lievi e leggiadre come un battito d'ali che, quando ti volti a guardare, si è già allontanato. Disapprova, è evidente. Eppure tace, non commenta, serbando il massimo silenzio, così come si conviene agisca nei miei confronti.

Finché non dovessi essere io ad affrontare l'argomento, è facilmente intuibile che lei continuerebbe ad evitare qualsiasi accenno in merito al discorso. Poiché, a suo parere, il suo ruolo di pétite-soeur non le consentirebbe mai di intraprendere una simile discussione.


Povera ragazza. Tanto bella, e tanto succube della ferrea educazione che le è stata impartita. Talvolta vorrei osasse, vorrei si scoprisse. Vorrei si incrinasse, anche solo per qualche istante, quella facciata di integerrima efficienza, assoluta perfezione, che troppo spesso imprigiona il suo spirito. E' bella, e sono sicura lo sarebbe molto di più se riuscisse almeno una volta a mostrare l'immenso tesoro che racchiude dentro di sé, sepolto sotto strati e strati di fredda cortesia e di buone maniere.

Farle abbandonare ogni corso ed ogni impegno è stato un gran colpo, ma non forte abbastanza - naturalmente - per far crollare d'improvviso le formule codificate attraverso le quali affronta la vita. Mi domando se qualcuno sarà mai capace di irrompere in lei e rovesciare il suo intero mondo, liberandola dalle catene delle sue regole. Un compito difficile, ma forse non impossibile, per quanto la padronanza che ha sempre avuto sulla sua vita l'abbia portata, negli anni, a sopportare sempre più malamente le situazioni che tendono a sfuggire al suo controllo o alla sua comprensione.

Esempio pratico di tutto questo lo vedo proprio ora, mentre senza una sola parola prende congedo ed esce, chiudendosi alle spalle con garbo la porta. Il silenzio pesante che segue la sua uscita non è altro che la muta continuazione dell'accusa a stento trattenuta nei suoi occhi, che forse vorrebbe mi risultassero indecifrabili, ma per me sono chiari come un libro stampato. Un silenzio complice, e nel contempo strumento abilmente utilizzato per veicolare la sua domanda inespressa, la sua agitazione, la sua preoccupazione.


Sono sicura si attenda che da qui io la "spii", come lei penserebbe pur senza azzardarsi mai a dirlo, mentre si allontana dalla Casa delle Rose. In realtà sfioro le tende con le spalle, soffermandomi ad osservare il lungo tavolo vuoto, coperto dall'ampia tovaglia bianca, ricamata, che era già qui il giorno in cui per la prima volta misi piede in questa sala; le sedie ordinatamente allineate, i mobili spolverati di recente, come di consueto. Tutte le volte che osservo questa stanza avverto la sensazione di essere quasi sospesa, a mezz'aria.

Ogni cosa qui sembra immobile, cristallizzata nel tempo. E' un'impressione strana, a suo modo forse rassicurante; come se questa casa, graniticamente, nella sua stasi conservasse gelosamente il più puro bocciolo della tradizione del Lillian. Di anno in anno, di generazione in generazione qui le Rose si sono succedute alla guida dello Yamayurikai e dell'intera scuola, e da allora sino ad adesso ogni cosa ha continuato a scorrere placidamente, secondo la regola. Sempre allo stesso modo, così come si conviene. Tutte loro si sono sedute su queste sedie, tutte loro hanno bevuto il the a questo tavolo.

Come non fosse trascorso mai un solo istante, ogni cosa qui sembra rimanere sempre identica a sé stessa. Forse era tutto già così dieci, vent'anni fa. Sicuramente lo era il giorno in cui Rosa Gigantea ti condusse a noi, non è vero?





N.d.A: L'intera fanfiction è da considerarsi punto di vista dell'Autore riguardo le tematiche affrontate ed i personaggi qui descritti. Le vicende sono ambientate a cavallo dell'intero arco dell'anime, ma da intendersi completamente slegate dai romanzi e da tutto quanto non faccia parte direttamente della serie animata in data attuale (10 Aprile 2007).

E' accettata ogni critica costruttiva, con la premessa che la storia è destinata ad essere raccontata a lungo, approfondendo in particolar maniera il punto di vista e le reazioni psicologiche di Youko, e che il punto nodale delle vicende potrebbe venire a galla molto più in là.


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Capitolo 2
*** I - La Tigre Nel Roseto ***


Riflessi - Prologo - Un Vizio Irrinunciabile Disclaimer: Maria-Sama Ga Miteru, i suoi personaggi e tutto quanto è legato alla serie appartengono agli aventi diritto, fra i quali non c'è l'Autore di questo scritto. Se così fosse stato, nella serie avreste visto molto più Youko x Sei.





[ Riflessi - Youko x Sei ]


Prologo

Un Vizio Irrinunciabile



Sachiko non apprezza la mia abitudine di soffermarmi, di quando in quando, a guardare fuori dalla finestra del primo piano della Casa delle Rose. Lei, avvezza più di chiunque altro alle rigide norme che l'Etichetta impone, lo trova un modo di fare poco elegante, un uso inappropriato a me; o meglio, inappropriato alla figura che accosta al mio nome, a quella che pensa che io sia. Ed in fondo forse non ha del tutto torto: ricopro pur sempre la carica di Rosa Chinensis, e mi pregio di essere l'onee-sama della stella del Lillian, l'erede della Famiglia Ogasawara. Chi se non io, dunque, dovrebbe essere in questa scuola icona di prestigio ed eleganza?

Spesso, quando mi fermo qui a guardare fuori, con la coda dell'occhio colgo le sue occhiate discrete, quasi di sfuggita. Lievi e leggiadre come un battito d'ali che, quando ti volti a guardare, si è già allontanato. Disapprova, è evidente. Eppure tace, non commenta, serbando il massimo silenzio, così come si conviene agisca nei miei confronti.

Finché non dovessi essere io ad affrontare l'argomento, è facilmente intuibile che lei continuerebbe ad evitare qualsiasi accenno in merito al discorso. Poiché, a suo parere, il suo ruolo di pétite-soeur non le consentirebbe mai di intraprendere una simile discussione.


Povera ragazza. Tanto bella, e tanto succube della ferrea educazione che le è stata impartita. Talvolta vorrei osasse, vorrei si scoprisse. Vorrei si incrinasse, anche solo per qualche istante, quella facciata di integerrima efficienza, assoluta perfezione, che troppo spesso imprigiona il suo spirito. E' bella, e sono sicura lo sarebbe molto di più se riuscisse almeno una volta a mostrare l'immenso tesoro che racchiude dentro di sé, sepolto sotto strati e strati di fredda cortesia e di buone maniere.

Farle abbandonare ogni corso ed ogni impegno è stato un gran colpo, ma non forte abbastanza - naturalmente - per far crollare d'improvviso le formule codificate attraverso le quali affronta la vita. Mi domando se qualcuno sarà mai capace di irrompere in lei e rovesciare il suo intero mondo, liberandola dalle catene delle sue regole. Un compito difficile, ma forse non impossibile, per quanto la padronanza che ha sempre avuto sulla sua vita l'abbia portata, negli anni, a sopportare sempre più malamente le situazioni che tendono a sfuggire al suo controllo o alla sua comprensione.

Esempio pratico di tutto questo lo vedo proprio ora, mentre senza una sola parola prende congedo ed esce, chiudendosi alle spalle con garbo la porta. Il silenzio pesante che segue la sua uscita non è altro che la muta continuazione dell'accusa a stento trattenuta nei suoi occhi, che forse vorrebbe mi risultassero indecifrabili, ma per me sono chiari come un libro stampato. Un silenzio complice, e nel contempo strumento abilmente utilizzato per veicolare la sua domanda inespressa, la sua agitazione, la sua preoccupazione.


Sono sicura si attenda che da qui io la "spii", come lei penserebbe pur senza azzardarsi mai a dirlo, mentre si allontana dalla Casa delle Rose. In realtà sfioro le tende con le spalle, soffermandomi ad osservare il lungo tavolo vuoto, coperto dall'ampia tovaglia bianca, ricamata, che era già qui il giorno in cui per la prima volta misi piede in questa sala; le sedie ordinatamente allineate, i mobili spolverati di recente, come di consueto. Tutte le volte che osservo questa stanza avverto la sensazione di essere quasi sospesa, a mezz'aria.

Ogni cosa qui sembra immobile, cristallizzata nel tempo. E' un'impressione strana, a suo modo forse rassicurante; come se questa casa, graniticamente, nella sua stasi conservasse gelosamente il più puro bocciolo della tradizione del Lillian. Di anno in anno, di generazione in generazione qui le Rose si sono succedute alla guida dello Yamayurikai e dell'intera scuola, e da allora sino ad adesso ogni cosa ha continuato a scorrere placidamente, secondo la regola. Sempre allo stesso modo, così come si conviene. Tutte loro si sono sedute su queste sedie, tutte loro hanno bevuto il the a questo tavolo.

Come non fosse trascorso mai un solo istante, ogni cosa qui sembra rimanere sempre identica a sé stessa. Forse era tutto già così dieci, vent'anni fa. Sicuramente lo era il giorno in cui Rosa Gigantea ti condusse a noi, non è vero?





N.d.A: L'intera fanfiction è da considerarsi punto di vista dell'Autore riguardo le tematiche affrontate ed i personaggi qui descritti. Le vicende sono ambientate a cavallo dell'intero arco dell'anime, ma da intendersi completamente slegate dai romanzi e da tutto quanto non faccia parte direttamente della serie animata in data attuale (10 Aprile 2007).

E' accettata ogni critica costruttiva, con la premessa che la storia è destinata ad essere raccontata a lungo, approfondendo in particolar maniera il punto di vista e le reazioni psicologiche di Youko, e che il punto nodale delle vicende potrebbe venire a galla molto più in là.

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Capitolo 3
*** II - Ai Margini Della Foresta ***


Riflessi - Ai Margini Della Foresta
[ Riflessi - Youko x Sei ]


II

Ai Margini Della Foresta



Ricordavo come tu avessi trascorso in una grigia solitudine tutto quel tempo, sola e fiera di essere sola. Sola, ed orgogliosa di essere sola. Non avevi bisogno di preoccuparti di niente e di nessuno, ed allo stesso modo sembrava quasi infastidirti chi tentava, in un modo o nell'altro di avvicinarti. Eri chiusa su te stessa, nel tuo mondo riempito da chissà quali interessi. O forse avvolto solo da un ferreo cinismo, un disprezzo, generalizzato per tutto quel che ti circondava.
Guardandoti, in nessun modo riuscivo a spiegarmi come Rosa Gigantea fosse riuscita a convincerti a seguirla, a divenire la sua petite-soeur, ad entrare a far parte dello Yamayurikai. Forse ti aveva presa per sfinimento, oppure semplicemente ti aveva offerto qualcosa che per un istante, anche solo per un piccolo istante aveva attirato la tua attenzione, salvo poi farsi piatto come tutto il resto. Mi domandavo come riuscissi a sopportare il tedio che, giorno dopo giorno, rendeva sempre più spenti i tuoi occhi.

Poi, qualcosa era improvvisamente cambiato. Chissà come, avevi dato modo ad una piccola frattura di aprirsi, ad una piccola scintilla di accendersi. Ed in seguito fu il dirompere violento della piena, un incendio sempre più vasto, selvaggio, pronto a divorare ogni altra cosa. Tu che avevi vissuto in grigio così a lungo, tu che ormai conoscevi solo quel mondo e che solo quel mondo concepivi, eri inciampata in Shiori. Ed in lei, avevi trovato la fonte primigenia del colore. Uno scoppio di luce, la sorgente alla quale finalmente dissetarsi, scacciar via l'aridità di tutti quei giorni in cui la noia sembrava averti serrato la gola in un nodo strettissimo, pesante, tentando di soffocarti.

Ti eri bagnata in quella luce, ti eri abbandonata a quella luce, e da quella luce ti eri lasciata infine invadere. Eri affondata in lei senza esitazione, totalmente, noncurante di ogni altra cosa. Completamente alla deriva nel mare dei suoi occhi, sembravi nutrirti solamente della sua anima. Ed essere pronta, in qualunque istante, a darle in pasto la tua, se solo te l'avesse domandato.


Quando ne iniziai a comprendere la portata, mi resi conto di come la tua reazione fosse riuscita pungermi più in profondità di quanto non avessi voluto ammettere in un primo momento. Quale forza, quale pazzia potevano averti condotta a quel genere di brutale abbandono? Con quale potenza tu, senza curarti di qualunque possibilità, le avevi messo il cuore fra le mani? Come potevi non temere che lo stringesse fino a stritolarlo, o lo gettasse via? Come potevi non avere paura di quell'emozione fortissima, come potevi rimanere accanto a lei, essendo consapevole di quale ascendente avesse su di te?
Come potevi non avere paura; paura di lei?

Questi interrogativi mi tormentavano, e meno cercavo di pensarci, più ogni luogo, laddove prima non eri che un'ombra evanescente, mi schiaffeggiava violentemente con la tua presenza. Nei punti in cui ti avevo visto, fra le parole delle ragazze perdute nei corridoi, sul cartellino con scritto il tuo nome sull'armadietto delle scarpe. Eri ovunque, e come in un incubo mi sembrava di non poter più pensare a nulla, se non a te e a quest'angosciosa apprensione. Che tu l'avresti resa tua petite-soeur, ed avresti messo in chiaro la vostra posizione, mi sembrava doveroso e scontato. Quando l'avresti fatto, rimaneva un mistero che si faceva via via sempre meno sopportabile.

Con il passare del tempo, arrivò il momento in cui mi resi conto che non potevo più attendere oltre, osservandoti da lontano. Avvertivo il bisogno, quasi fisico, di avere una risposta. Di venire a sapere direttamente da te, che eri l'unica cui avrei creduto pienamente, che le cose erano differenti da come pensavo. Perché no, nessuno mai avrebbe avuto abbastanza coraggio da agire in quella maniera. Era giunto il momento di affrontarti direttamente.

Approfittando della scusa di portare a compimento i miei compiti di bouton, a più riprese ti avvicinai per ricordarti dei tuoi doveri, suggerendoti di riconoscere ufficialmente Shiori in qualità di tua petite-soeur. Dall'esterno era chiaro quanto fosse solido il vostro legame, molto più di quanto forse voi due non pensaste. Ma io volevo, io dovevo saperne di più, e dovevo saperlo dai tuoi occhi.
Quando mi rispondesti che si trattava di un rapporto talmente importante da non aver bisogno di alcuna ufficializzazione, travalicando ogni altra cosa, mi si strinse una morsa nel petto. Una fitta piccola, ma penetrante, dal sapore agrodolce come un bel film dal finale drammatico. Era pura follia!

Attonita, mi arresi all'idea che eri davvero così forte, o così pazza, da farlo sul serio.


La sensazione che, pensando a te, provavo era quella di assistere da terra al volo di una ragazza talmente temeraria ed appassionata da essere stata capace di gettarsi ad occhi chiusi dalla cima di un'altissima cascata. Sfidando l'acqua, sfidando la natura, sfidando la morte.
Io ero lì, ad osservarti, e fu proprio il gusto di quella sfida ad accendere qualcosa di diverso in me. Io, dal carattere attento e previdente, avrei teso a calcolare ogni passo, l'uno dopo l'altro, sino al raggiungimento dell'obiettivo finale, quale che fosse. Tu non ci avevi pensato due volte, invece. Ti eri semplicemente lanciata in avanti con tutte le tue forze, in un balzo verso l'ignoto. Così sfrontato, pensai, e così terribilmente passionale. Così vitale.


Fu così che dovetti annunciare al Rosa Gigantea il mio insuccesso, e cacciare giù nello stomaco quella stretta feroce che avevo avvertito quando avevi rifiutato la mia proposta.
Quando mi avevi rifiutata.
Considerai che sarebbe stato meglio girarti alla larga per un po', dedicandomi a Sachiko ed ai miei impegni. Ma presto mi resi conto di come, un po' per caso e un po' per curiosità, i miei piedi tendessero a riportarmi nei tuoi pressi. I miei occhi alla tua figura, le mie orecchie alle tue parole.
Non sono una persona che mente facilmente a sè stessa, ma spesso non è facile rendersi conto precisamente dei movimenti del cuore. Quando infine ci trovammo di fronte, la porta della classe aperta fra noi ed uno sguardo incuriosito, dei tuoi occhi nei miei occhi, a riempire il silenzio, bastò solo quell'attimo per decifrare, ed ammettere, quel che il mio corpo ancor prima della mia mente aveva capito; quel che avrei voluto.


Avrei voluto avvicinarmi a te, fermarmi al tuo fianco, sorriderti e prendere a parlarti di tutto quel che non fosse né Shiori, né lo Yamayurikai. Ogni altro argomento sarebbe andato bene, davvero. Avrei voluto che anche solo per una volta tu mi guardassi in quanto Mizuno Youko, non in qualità di membro del Concilio Studentesco; semplicemente Youko, una come tante. Una ragazza che poteva avere piacere di intrattenersi con te senza aver per forza un doppio fine, senza essere stata mandata dalle Rose. Una ragazza vera, non solo una carica, non solo un nome. Uno spirito, un corpo, un paio di mani, un paio di occhi. Qualcuno che poteva di sua sponte voler imparare a conoscerti, poter condividere con te momenti, interessi comuni, e perché no, magari anche confidenze.

Ma non potevo, non mi era concesso. L'unica maniera attraverso la quale potevo cercarti erano le finestre della Casa delle Rose, alle quali mi affacciavo ogni qual volta avvertivo la tua assenza; ore su ore a cercare la tua figura fra gli alberi ed i sentieri, stringendo fra le mani tazze di the ormai freddatosi da tempo. Non avevo modo né possibilità di farmi avanti in nessun'altra maniera, se non come Rosa Chinensis en Bouton. Non in quel momento, non tu, non io, non noi.

Strinsi i denti e ti sorrisi, chiedendoti di lei.


Ripensandoci a posteriori, mi rendo conto di come ormai buona parte di quei sentimenti si sia fatto memoria. E' una sensazione strana, e calma, di quiete interiore. Riuscire a guardare al passato per quello che è stato, con tranquillità ed affetto, è forse una delle sensazioni più rassicuranti possano esistere. L'apprensione, la sofferenza, e perché no, oggi posso dire anche la gelosia; tutto è lentamente sedimentato rendendosi ricordo, più che sensazione.
Malgrado questo, rammento con relativa nitidezza quante volte in quel periodo discutemmo così, da bouton a Sei. E quanto, ogni volta, mi colpisse in profondità il tuo atteggiamento nei miei confronti.

Era dolorosamente evidente come mi ascoltassi a stento. Così come a me non interessava nulla di tutto quel che ti dicevo, a te non interessava nulla di tutto quel che avrei potuto dirti. Il nostro era un discorso finito in partenza, fra una muta ed una sorda; erano i cuori a parlare a voce più alta. Il tuo, teso verso Shiori. Il mio… il mio aveva già imboccato il binario che mi avrebbe condotta sin qui, oggi ed adesso. Ma io ancora non ne ero pienamente consapevole, né immaginavo quali sarebbero state le conseguenze di quel piccolo, enorme sconvolgimento.

Se mentre ti parlavo, ricordandoti i doveri di un membro dello Yamayurikai, il tono della tua voce - che in quei casi si faceva cupo e deciso - non era abbastanza per dimostrare il tuo disinteresse, l'opacità dei tuoi occhi mentre parlavi con me bruciava, come uno schiaffo in pieno volto.

Allora l'invidiai.
Non l'avrei mai confessato, ma invidiai apertamente quella ragazza.
L'invidiai per la luce che si accendeva nel tuo sguardo, ogni volta che i tuoi occhi si posavano su di lei. L'invidiai per la sua capacità di disarmare completamente le tue difese, l'invidiai per la limpidezza con cui ti consegnavi nelle sue mani, per la fiducia assoluta che riponevi in lei. L'invidiai per il suo essere oggetto di un simile, totale, ardente abbandono. L'invidiai perché potevo cogliere il tuo respiro rallentare quando il suo passo, leggero e calmo, si avvicinava a te.
Ed insieme al tuo, infine mi accorsi, rallentava anche il mio.

Era arrivato ormai anche il periodo frenetico dell'organizzazione del Festival Scolastico, fatalmente in contemporanea con gli esami bimestrali, e visto lo scarso apporto che la famiglia della Rosa Gigantea stava dando alle attività del Concilio Studentesco la mia onee-sama aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile. Sachiko ed io ci prodigavamo per darle una mano, scrivendo e chiedendo, preparando liste e organizzando riunioni, continuamente. Ma il mio interesse nei tuoi confronti si era fatto, da svogliata curiosità, ormai quasi una missione vitale, alla quale non potevo più rinunciare. Persino mentre discutevamo in tua assenza, allo Yamayurikai, non perdevo occasione per tornare con lo sguardo sulle finestre, fiduciosa in loro. Sicura che prima o poi mi avrebbero mostrato la tua figura. Passando man mano sempre più tempo là vicino, ad osservare le ragazze passeggiare lungo i viali, e cercare fra di loro una chioma stranamente bionda.

Fu insomma in quei giorni che, d'improvviso, mi resi conto di come stesse nascendo in me quel piccolo focolaio, profumato di gelosia, che sarebbe ben presto divampato in un incendio incontrollabile.


Non solo la mia mente era spesso distante, non solo quando non ero a guardare fuori dalla finestra della Casa delle Rose la mia attenzione era pressoché completamente rivolta alle notizie che passavano di bocca in bocca, per quanto tentassi di celare il mio interesse sotto un comportamento distaccato ed integerrimo. Il problema era proprio la dimensione ormai assunta dal passaparola. Se avesse raggiunto la Direzione, che sarebbe accaduto? Ed ancora, quale responsabilità avrebbe gravato su Rosa Gigantea, e su di noi tutte, in un simile caso?
Come un'ombra oscura e tentacolare, la tensione aveva lentamente preso possesso dei pomeriggi della Casa delle Rose, in un'atmosfera quietamente irreale. Come se tutte noi attendessimo, rassegnate, l'ormai prossimo svolgersi di un accadimento superiore che potesse guidare i nostri atti futuri in una direzione netta, quale che dovesse essere. Un intervento divino, un intreccio di destino; forse per una volta la voce di Maria-sama, magari stanca di rimanere sempre, solo a guardare. Qualunque cosa sarebbe andata bene.

In particolar maniera le Rose parevano insolitamente riflessive, laddove in un'altra occasione sarebbero senza dubbio intervenute immediatamente. Tutto sembrava indicare che molto presto sarebbe successo qualcosa di grosso, le voci su voi due ormai si rincorrevano per l'intero Istituto. Sussurrate come una preghiera nelle aule vuote, perché nessuna avrebbe mai osato parlare di un così dolce e proibito delitto se non segretamente, a fior di labbra.

Così, in quello stato di apatica tensione, sembrarono passare settimane, mesi, vite intere sospese in un'attesa senza fine. Infine, qualcosa effettivamente accadde.

Oggi, intuisco si trattò di una notizia, forse un suggerimento riguardo quanto poi sarebbe di fatto avvenuto. Ad ogni maniera, durante quel loro colloquio privato Rosa Gigantea riuscì, attraverso parole che non conosco, a convincere sia Rosa Foetida che la mia onee-sama a limitarsi ad osservare la situazione, e nemmeno poi troppo direttamente. Non era così fondamentale che tu la rendessi tua petite-soeur, questa fu l'unica cosa che si evinse chiaramente dalla riunione delle Rose. La conclusione era che andavi lasciata in pace.
Fu come se un vetro invisibile si fosse spezzato di schianto, come se l'intera Casa delle Rose avesse improvvisamente ripreso fiato dopo una lunghissima apnea; come lo schiarirsi del cielo dopo la minaccia del temporale. Le attività ripresero con maggiore leggerezza, e tutte presero ad agire come nulla fosse accaduto. Ci misi qualche tempo a ricevere, capire ed ad accettare la risoluzione delle Rose: attendere in silenzio, fingendo di non vedere, perché ogni cosa si sarebbe risolta da sé entro breve tempo.

Chiaramente, in qualche modo infransi la loro direttiva, continuando a tenerti d'occhio.


Un po' perché occhi scuri continuavano a cercarmi, quasi forsennatamente, senza bisogno ponessi loro questioni. Pronti a porgermi le loro risposte in cambio della grazia di potermi anche solo vedere da vicino, sfiorare, passare pochi istanti in mia compagnia. Potenza del prestigio, potenza di rivestire la carica di Rosa Chinensis en bouton; potenza di essere una delle studentesse più in vista dell'intero Istituto.

Un po' perché avvertivo attanagliarmi una sensazione di incompletezza, quasi di fastidio. Anzi, a pensarci bene in quei giorni mi sarei detta veramente innervosita dalla situazione. Fra me e me mi ripetevo che il tutto era riconducibile ad una sola ragione: far finta di nulla avrebbe corrisposto a dartela vinta, e quindi legittimare il tuo comportamento di totale disprezzo (vita, si chiamava vita. Vivere appassionatamente, sfrenatamente, nel nome di un sentimento così potente che…) nei confronti della disciplina dello Yamayurikai e delle regole del Lillian.
Intanto, però, tentavo di mettere a tacere la voce che nella mia mente ripeteva insistentemente il nome di Kubou Shiori, così come mi era stato bisbigliato la prima volta che mi avevano riportato notizie sul suo conto: in un sussurro. E con lei, tentavo di scacciare la sua immagine, e quella dell'espressione del tuo viso in sua presenza.

In realtà, al di là delle scuse e delle confusioni, in profondità sentivo che non era giusto che tutto finisse in quel momento. Che volevo poterti seguire ancora, poterti scoprire ancora. Che volevo vederti ancora, vederti dentro, con tutta me stessa. E non appena lo realizzai, mi arresi all'evidenza. Confrontato all'urgenza, all'importanza del mio desiderio di te, tutto il resto non aveva alcun peso.


Ormai, la mia abitudine si stava facendo prassi. Nella mia mente, non esisteva nessun altro modo attraverso il quale avrei potuto trovarti, l'appuntamento alla finestra era ormai un piacere lezioso, pressoché irrinunciabile. Dalla prima volta in cui, attraverso il vetro della Casa delle Rose, ti avevo vista passare lungo il viale, avevo trascorso sempre più tempo prima a sbirciare, poi ad osservare deliberatamente, infine a guardare fisso fuori dalla finestra.
Ed i momenti si erano fatti quarti d'ora, i quarti d'ora si erano fatti pomeriggi che, lentamente, avevano intaccato e corroso la mia abitudine ad uscire. Mi ci rinchiudevo con il pretesto di lavorare per lo Yamayurikai, ed invece aspettavo ed aspettavo, come una vedova in pena per un marito già morto, la tua apparizione.

Le voci, non avevo bisogno di inseguirle. Giungevano a me lo stesso, con sorprendente facilità, anche solo nel mero tragitto che percorrevo quotidianamente sino all'uscita dell'Istituto. Ma di vederti, di osservare i tuoi gesti, di quello avevo bisogno più che mai. E, scherzo del destino, tu eri l'unica cosa che mi mancava.
Dentro di me sentivo l'esigenza di capire, e sapevo che solamente in quel modo avrei potuto riuscirci.


Ci misi poco, insomma, a scoprire quanto mi costasse fare come se non esistessi. E deliberatamente presi la decisione di non allentare l'attenzione. Non avevano importanza - risolsi, scaricando un po' di peso dalla mia coscienza - quali fossero le motivazioni che mi spingevano a farlo. Se anche fossi stata scoperta, accampando le giuste scuse sarei riuscita a giustificare pienamente la mia decisione, agli occhi del Consiglio Studentesco così come a quelli della Direzione.
Comunque fosse andata, in definitiva, ne sarei uscita assolutamente immacolata. Ed anche se così non avesse dovuto essere, mi dissi che era giunto il momento di compiere una scelta. Gettarmi, osare sfidando il rischio e sperando andasse tutto bene, o ritrarmi, e tacere per sempre. Vivere o morire.

In cuor mio, visto il tuo esempio, avevo già scelto da tempo.

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Capitolo 4
*** III - Cedevoli Barriere ***


Riflessi - III - Cadevoli Barriere
[ Riflessi - Youko x Sei ]


III

Cedevoli Barriere



Il resto è parte segreta di quella storia che in seguito tutti, indiscriminatamente, avrebbero voluto dimenticare e far dimenticare.

La verità era che sapevamo, che noi tutte sapevamo. E nessuna era riuscita a radunare abbastanza coraggio per venirne a parlare con te. Io stessa mi ripetei a lungo e con forza che sarebbe stato sbagliato intervenire, facendomi forte delle parole delle Rose e cercando di convincermi fossero assolutamente nel giusto. Rispetto alla loro sicurezza, mi dicevo che avrei dovuto soffiare via i miei dubbi, sempre più attanaglianti, come folate di vento caldo di passaggio, pronte a sfiorarmi la fronte e poi fuggire via, lontano; verso altri cieli ed altri mondi.

Quando non c'eri e qualcuna di noi accennava il nome di Satou Sei, qualunque fosse l'argomento trattato usciva prima o poi la risposta automatica: "E' meglio non fare nulla, presto finirà ogni cosa". E cercavamo di crederci davvero, che da un momento all'altro tutto sarebbe terminato e la nostra vita quotidiana, la nostra comune vita di sempre, avrebbe ripreso il suo corso naturale.

La verità è che sapevamo, che noi tutte sapevamo. Che ci aspettavamo quel che sarebbe successo, e malgrado ciò nessuna di noi era riuscita a trovare la forza di avvisarti. Ci facevamo forza l'un l'altra, piccole, stupide ragazzine, confidando nel fatto che fosse realmente, al di là di ogni insicurezza, giusto così. Cercando davvero di dare un vero peso a quella frase, a quella bugia che lasciava in ognuna di noi, nel profondo dello stomaco, quella vaga amarezza tipica delle falsità. Quella frase cui tutte tentavamo disperatamente di credere.

Bada, ho visto Shiori uscire dalla presidenza. Senti, ma secondo te Shiori non trascorre un po' troppo tempo in chiesa? Ascolta, ho sentito dire che Shiori starebbe pensando di...

Troppo difficile.


La verità è che sapevamo, che noi tutte sapevamo. E tu, tu fosti vittima non del caso, non del destino, non dello spietato disegno di Dio, ma piuttosto del nostro vile comportamento, portato avanti troppo a lungo. Fin oltre il limite che non avremmo mai dovuto valicare.
Forse, non riusciresti mai a capire. Tu così diretta, tu così coraggiosa, tu così avventata, se sapessi potresti perdonarci? Potresti davvero comprendere il nostro comportamento? I tuoi occhi erano troppo brillanti: semplicemente, nessuna aveva avuto il coraggio di allungare una mano, una semplice mano, a squarciare il velo che ti attorniava, spezzando l'incantesimo in cui ti eri perduta. Eri troppo felice, eri troppo diversa dalla Sei che noi tutte avevamo conosciuto. Eri una Sei meravigliosamente abbandonatasi a qualcosa di ignoto, per noi, e nessuna aveva più la benché minima idea di come avvicinarsi a te.

Tu così lontana, tu così irraggiungibile e così terribilmente fragile. Tu, così esposta, tanto da far paura.

I giorni trascorrevano uno dietro l'altro senza soluzione di continuità, ormai sempre più rapidi e concitati. Era logico aspettarsi che entro breve si sarebbe toccato il culmine, ma ingenuamente, strenuamente avevo sperato che non sarebbe più successo, come se alla lunga il non parlarne avesse scongiurato il pericolo. Tutte noi ci cullavamo in un susseguirsi di colpi di scena ormai quasi ripetitivi. Ed io, persa nel limbo di un'attesa infinita, di una svolta, ero ormai entrata nell'ordine di idee che ogni cosa sarebbe rimasta uguale a sé stessa.
Senza nemmeno pensarci, ero arrivata a convincermi intimamente che quei giorni di tensione non sarebbero mai terminati: i tuoi occhi su di lei e i miei occhi su di te, per sempre.

Poi, com'era normale che fosse, scoccò l'ora che ormai non mi aspettavo più. E quando in quel giorno di metà inverno entrai in chiesa e vidi Shiori inginocchiata davanti alla statua di Maria-Sama, avvertii nitidamente incrinarsi in me il mondo di specchi dietro al quale avevo nascosto la verità. E capii che, ormai, non avrei potuto più fare nulla per frenarmi.


Di fronte a quella figura china, penitente, assorta in preghiera a tal punto da non rendersi conto della mia presenza, mi resi conto che non aveva più senso continuare la mascherata. Che non potevo più permettermi di tacerti quel che avrei voluto gridarti mille anni prima, quello che avevo sempre cercato di dirti fra le composte righe dei miei doveri di bouton, sperando che il richiamo alla tua carica avrebbe potuto darti un appiglio verso la realtà, una giustificazione plausibile per allentare quel legame, pur senza lacerarti l'anima con la cruda verità dei fatti.
Era troppo tardi per tornare indietro, nessun'altra bugia avrebbe potuto vivere oltre quell'istante. Sapevo già cosa Rosa Gigantea voleva dirti quando, nel primo momento in cui ti mostrasti allo Yamayurikai dopo settimane di totale assenza, al termine della riunione ti fermò, domandandoti di fermarti per prendere un the con lei. Ed avvertii i miei passi muoversi quasi inconsapevolmente verso quella panchina che, lo sapevo, ti avrebbe vista di passaggio lungo il viale che conduce alla chiesa. Ti attesi con la sicurezza che saresti arrivata. Non ero sorpresa. Eppure, vedere la tua figura avvicinarsi mi provocò ugualmente un brivido.
I tuoi occhi, i tuoi occhi erano terribili. Chiusi e freddi come lamine di ghiaccio, pronte ad affondare dentro di me. Ti avvicinasti e mi guardasti come se fossi un mero ostacolo, uno spiacevole contrattempo che avresti potuto facilmente evitare, e mi sentii dentro di una furia inesprimibile, capace quasi di schiacciare quell'angosciante sensazione di tristezza che mi pesava dentro quando ti guardavo, e vedevo che i tuoi occhi sfilavano oltre me. Nonostante questo, mi feci forza. Ed allungai la mano, e feci crollare quel tuo mondo di sogno.

Quando vidi i tuoi occhi spalancarsi, tendersi sull'orlo del baratro, fui sicura che mi avresti trascinata con te giù per la cascata. E in un solo, unico momento ebbi la conferma di tutti i miei timori: tu non sapevi niente.

Sarebbe stato uno schianto tremendo.



Poi, la tua corsa infinita lungo il viale scandì il ritmo impazzito del mio cuore, finché non ti vidi sparire fra gli alberi, verso la chiesa.
Non ti seguii, se non con lo sguardo.
Non sarei stata in grado di assistere a nient'altro.



I giorni seguenti furono guidati da un silenzio angosciante.
Silenzio fuori e dentro di me, come se non fossi più capace di ascoltare niente e nessuno oltre alla cappa pesantissima che ammantava il fragore nel mio cuore. Silenzio al di là dei vetri muti della Casa delle Rose, silenzio e solo silenzio perché non sarei mai riuscita a dare una voce, o un colore, o una qualunque espressione al terrore che mi covava dentro; alla consapevolezza di quel che era accaduto, ed alla premonizione di quel che sarebbe stato. Un canto sepolcrale che, in silenzio, scavava dentro di me isolandomi dal mondo.
Sino a quando non si vide sormontato dal primo vero suono che riuscì a penetrare oltre quei muri nei quali mi ero chiusa, vegliando il ricordo di quello che avremmo potuto essere. Gli altoparlanti della scuola, a sorpresa, comunicarono la tua convocazione in presidenza.
Allo Yamayurikai stavamo approntando gli ultimi preparativi per la cerimonia di fine trimestre. Quando rimbombò la voce della suora, le schiene irrigidite dalla tensione e gli occhi resi enormi dal timore non furono accompagnati da nessuna parola. L'ultimo rintocco della tragedia aveva lasciato dietro di sé solo il ricordo di un eco distante.

E poi, fu un silenzio nuovo, carico di sgomento.


I miei nervi erano allo stremo, scossi da tutto quel che avevo affrontato. Agognavo una fine immediata a quella storia, una morte secca e rapida; eppure, avrei anche voluto che continuasse per sempre, spaventata dalla prospettiva di quel che sarebbe successo da lì a poco. Ma la vita non è un libro, che si può chiudere a piacimento per sospenderne la storia. E come c'era da aspettarsi, il punto di svolta tanto temuto giunse nell'unico istante in cui era davvero inatteso.
Quell'annuncio gracchiato in ogni aula fu il segnale del principio della fine, e risvegliò improvvisamente in me un torrente di confusione, alimentato da tutto quello che avevo cercato di nascondere - e di nascondermi - in tutto quel lasso di tempo.

Frastornata, gettata qua e là da sentimenti e desideri contrastanti, nell'ultimo periodo non avevo potuto fare altro se non lasciare che gli eventi mi crescessero intorno per poi rovinarmi gradualmente addosso, come il bagnasciuga su cui s'infrange l'onda in arrivo. Tu, la curiosità e le fantasie, la ricerca, poi il violento scontro con la verità. Le grida interiori, il male, il male, il male, la freddezza. Lo segno. L'agire come se non fosse successo nulla. Poi la paura di incontrarti, la speranza di poterti guardare e quell'improvviso epilogo che, nello sguardo assorto di una Sachiko intenta ad osservarmi mentre io, immobile nel silenzio seguente l'annuncio, fissavo con occhi sbarrati la finestra davanti alla quale attraverso i giorni avevo trascorso così tanto tempo a cercarti, mi fece capire che avevo oltrepassato ogni limite. Sentii che forse stavo arrivando a perdere il controllo, e da lì mi si accese dentro l'immediata esigenza di fare qualcosa, di fare una qualunque cosa pur di scongiurare quel rischio mortale.
Abbandonai di fretta e furia la Casa delle Rose, senza spiegazioni.


A pensarci bene, forse quello di allora fu un comportamento puerile, che oggi non ripeterei. Non mi farei più angosciare dai se e dai ma, dalle ombre di quello che avrei o non avrei fatto. Adotterei un metodo e proseguirei dritta per la mia strada, sino al raggiungimento del successo. Ma d'altronde, è dall'esperienza che si impara, no?
E dall'esperienza io avevo imparato che il miglior modo per scongiurare qualunque pericolo era prevenirlo; agire in qualche modo in maniera da smuovere le acque prima che le maree potessero ingrossarsi troppo, e trascinarmi nel loro gorgo infernale.
Mai come in quel momento avevo avvertito il bisogno di aggrapparmi a qualcosa, con le unghie e con i denti.


Non so con quale faccia mi presentai a piè fermo lungo il viale della presidenza, aspettando te. Rigida come una statua e feroce come una belva, il cuore incendiato dal furor sacro dell'istinto, da una rabbia irrazionale tanto sconvolgente da avvicinarsi quasi all'odio, una reazione che puzzava di paura a un miglio di distanza. Ero terrorizzata, arrabbiata, disperata. In fuga dalle mie paure, soltanto affrontando quella più grande - tu - avrei avuto una possibilità di riuscire a sfuggir loro.
Non so con quale coraggio trovai lo spunto di sorriderti. Non so con quali parole ti invitai alla festa di natale privata che avremmo organizzato, poi, allo Yamayurikai. Non so con quale sguardo ti seguii mentre ti allontanavi, dopo aver mormorato che forse saresti venuta. Forse.
E' possibile che i miei occhi fossero abbastanza chiari per lasciar intuire cosa mi spingesse ad avvicinarmi ancora a te, malgrado l'avessi disperatamente tenuto nascosto sino a quel momento. O più probabilmente riuscii a raccogliere l'ultimo brandello di autocontrollo solo per parlarti così. Nella mia apparente sicurezza spesi tutto il credito che mi era rimasto, salvo poi correre via come una ragazzina del primo anno non appena scomparisti oltre l'angolo di un edificio. Fuggii, senza meta fuggii via da te. Avevo bisogno di andare in un qualsiasi altro posto, che fosse il più possibile distante dallo spettro di Satou Sei. Andava bene ovunque, ma non più lì.

I giardini del Lillian, teatro dell'intera tragedia, non potevano più vedermi in quello stato. Anzi, non dovevano; mai più. Avevo già dato abbastanza.
Attraversai i cancelli della scuola e corsi via senza rallentare, senza voltarmi indietro, in un solo, enorme groppo di tensione. In un'apnea soffocante, in un respiro trattenuto che osai rilasciare solo quando ormai mi ero lasciata alle spalle la scuola e mi ero slanciata nel mondo esterno, pronto nuovamente ad accogliermi con la sua poliedrica diversità e a lasciarmi sprofondare nella sua confusione, annullando la mia mente.

Non avevo nemmeno la benché minima idea che in quel preciso istante tu stessi chiedendo a Shiori di scappare via con te, consumando così il vero, ultimo atto di tutta la storia. Forse avrei potuto intuirlo se solo mi fossi fermata a pensare, ma avevo un'esigenza febbrile ed imperiosa di distogliere la mente da te, da te, da te che avevi occupato i miei pensieri fino a farmi scoppiare la testa e ad avvelenarmi l'anima.
Mi abbandonai al ai suoni ed alle luci della strada tornando verso casa, tentando di annegare in un caleidoscopio di traffico e caos.

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Capitolo 5
*** IV - Neve Su Di Noi ***


Riflessi - IV - Neve Su Di Noi
[ Riflessi - Youko x Sei ]


IV

Neve Su Di Noi



Quanto avvenne quella sera stessa fu diretta conseguenza del tendersi dei fili che tu, Shiori ed io avevamo intrecciato.

Il fatto è che tu credevi davvero che sarebbe venuta con te. E' pazzesco, eppure so che ne eri del tutto convinta. Nelle profondità dell'animo, nei più remoti recessi del cuore, tu sapevi che sarebbe scappata insieme a te. Shiori, così bella e così debole, come un fiore di ciliegio che plana, leggiadro, verso il terreno. Prima di venir calpestato dai passi delle ragazze che percorrono il viale della scuola, camminando lente verso la statua di Maria-Sama.

Tu lo credevi davvero, altrimenti non avresti mai agito come hai fatto. E né tu, né lei, né alcun altro potrà mai capire quanto mi abbia sorpresa, stordita, lacerata ricevere la chiamata di Rosa Gigantea, quella sera stessa.


Ho appena sentito Kubou Shiori-chan. Sei è alla stazione.

Alla stazione, realizzai. Ancora non sapevo, ma tanto mi bastò per risvegliare in me un'agitazione ferina; tanto mi bastò per intuire. Il tempo era venuto.
Mi si strinse un groppo, pesante come un macigno, all'altezza dello stomaco.


Le ha chiesto di andare via con lei. Ma, è ovvio, per quanto le abbia detto di sì, non può di certo farlo.

Non poteva farlo, già. E se da un lato, razionalmente, comprendevo alla perfezione le ragioni di Rosa Gigantea - e quindi, di riflesso, quelle di Shiori - dentro di me fu la rabbia a montare subitanea. Quella sciocca ragazzina aveva ricevuto un'offerta irripetibile, da parte di chi la guardava come se le avesse rapito l'anima, e lei cosa ne aveva fatto? L'aveva gettata via? L'aveva lasciata sola ad aspettarla in stazione, al freddo, e nemmeno aveva avuto il coraggio di dirglielo personalmente, di avvisarla, di fare qualunque cosa? Ma che persona era?! E che scusa era quella del non poterlo fare? Quella era una proposta che nessuno avrebbe mai potuto rifiutare, anche solo per la potenza di quel gesto! Era una proposta che io stessa non-


Naturalmente non se la sente di parlarle lei, di persona. Mi ha pregata di andare a prenderla, verresti con me?

Mi si ghiacciò la mente per qualche lungo istante, ed un brusco brivido di agitazione mi fece tremare, correndo lungo la mia schiena. Annaspai, incapace di pensare per attimi eterni. Fino a quando, come un elastico che si spezza, una scarica di pensieri mi attraversò d'improvviso la mente. Andare alla stazione? Andare per cosa? Andare per umiliare Satou Sei con la mia presenza? Andare ad assistere allo spettacolo del suo tracollo? Andare a soffiare sulle ceneri del suo cuore infranto?

Mi ritrovai preda di una paura selvaggia, che esternai con qualche balbettìo incerto, tentando con urgenza di ritrarmi. Non potevo, davvero non potevo. No, era l'unica risposta che le avrei dato. Tutti, ma non io, Rosa Gigantea. Non potevo. Dai più remoti recessi dell'anima, dal profondo delle viscere, ogni singola stilla del mio sangue mi gridava che non potevo. Il mio sguardo sfuggì verso i vetri appannati delle finestre. Laggiù, vidi, un albero se ne stava ritto in mezzo alla neve. Natale era arrivato, pensai; che regalo amaro mi aveva preparato il destino.
Esitai un momento di troppo, incapace di formulare una vera e propria scusa. La razionalità del tutto inabissatasi in una qualche zona oscura e irraggiungibile. Ed in quell'attimo colse la mia paura, quell'infallibile Rosa Gigantea. L'avvertì chiara come se mi avesse letto dritto nel cuore.


Ascoltami bene, perché non mi ripeterò. Non lo sto chiedendo a Rosa Chinensis en Bouton, bensì a Youko-chan. Se tieni a lei, te ne prego, vieni con me. Per la prima volta nella vita ha davvero bisogno di un vero supporto, e tu sei l'unica che possa fare qualcosa per lei.

L'unica che possa fare qualcosa per lei.
Come un peso, insostenibile, al centro del mio petto. Ed una fitta, così amara...


Youko-chan, sei ancora in linea?


L'unica.


Va bene, ci troviamo di fronte al portale nord. A fra poco.


Il suono intermittente del telefono che strillava l'interruzione della linea mi seppe riscuotere dal lungo istante di immobilità in cui ero affondata senza rendermene conto. Stringevo ancora la cornetta nella mano destra, convulsamente; riappoggiandola, la fissai come se la vedessi per la prima volta. Come se nello spazio di pochi momenti fossi piombata in un'altra dimensione. In un luogo dove tutto intorno a noi era cambiato, e solamente io e te eravamo rimaste le stesse.
Nelle mani tremanti, pesantissima, la consapevolezza di quel che avevo appena accettato di fare. Per te, aveva detto, e per te non avrei mai potuto rifiutarmi. Ma io non ero così sicura di poter reggere il confronto, di potermi trovare di fronte a te, così sola. Così presto, tu.

La mia camera era al buio, ed avvertii l'improvviso bisogno di spalancare le finestre. Avevo il fiato corto. Eri alla stazione. Scostai le tende e mi affacciai, rivolgendo uno sguardo distratto a quel panorama fastidiosamente familiare, così uguale a sé stesso benché ogni cosa avesse assunto un nuovo volto, un nuovo significato. Eri alla stazione, le avevi chiesto di andare via con te. L'aria della sera era frizzante ma non fredda, solcata da un filo di brezza. L'ideale per schiarire la mente. Per la prima volta nella vita avevi davvero bisogno di supporto. Adesso, ora. Se davvero tenevo a te, ero l'unica che potesse fare qualcosa.

Ero l'unica, l'unica, l'unica.


Chiudendo gli occhi presi un profondo respiro, a pieni polmoni, cercando di radunare a due mani tutto il mio coraggio.

Osare.

Pochi istanti dopo stavo infilando una manica del cappotto nero, catapultandomi giù lungo le scale.



Quella notte fu una delle più lunghe, ed intense, ed estenuanti della mia intera vita. A tal punto che la ricordo a tratti, confusamente. Non sono sicura se tutto quel che rammento sia accaduto davvero, e la mia mente mescola liberamente gli avvenimenti, come se quelle ore fossero trascorse in una dimensione dove il tempo non esiste, ma anzi tutti gli istanti si svolgono nello stesso momento. Ed è possibile modificare le combinazioni dei fatti rivivendo dieci, cento, mille volte la stessa esperienza, con un ordine ogni volta diverso, come spostando fotografie su di un tavolo.

Ricordo i tuoi occhi, come cristalli svuotati dei loro riflessi, pezzi di vetro levigati dal mare, portati a riva da un'improvvisa ondata di puro dolore. Sofferenza come veleno nel tuo sguardo, privo di espressione, morto, strappato via a questo mondo. Ricordo il tuo sorriso, dapprima incerto, poi fin troppo entusiasta, esagerato, terribile, cattivo. Privo di qualunque spontaneità. La nuda ombra di te stessa, sia della Sei ribelle e selvatica che avevo conosciuto, che di quella ancor più lontana, e solitaria, che nella sua vulnerabilità era stata piano piano capace di catturarmi.

Ricordo la tua risata sguaiata, reazione isterica, mentre allontanandoci da casa di Rosa Gigantea ti sorreggevo come fossi ubriaca, sotto i primi fiocchi di neve. Barcollavi, quasi non ti reggevi in piedi. Ricordo le lacrime che, improvvise dopo tutto lo scherzare della serata, rotolarono lungo le tue guance, come se fossero sempre state lì e d'un tratto ti fossero assurdamente sfuggite. Colorate di rosso dalla luce dei semafori, come gocce del tuo sangue, come pianto del tuo cuore. Ricordo le grida, le grida selvagge, le grida tremende, le grida roche e disperate che ancora oggi certe volte mi rimbombano in mente, quando è già buio e prende a nevicare, ed il mio sguardo attraverso le finestre si fa opaco e Sachiko, porgendomi una tazza di the, mi domanda se sia tutto a posto.

Ricordo immagini della Sei che nessun altro ha mai visto. Immagini della Sei che quella notte, per la prima ed ultima volta, ha messo nelle mani di qualcuno tutto il tremendo peso della propria sofferenza. Istanti, momenti di cui mi sono fatta silente, gelosissima custode. Perché sono solamente miei, e tuoi.

Il nostro primo vero incontro fu sotto turbini di neve fredda ed impietosa, il primo istante in cui il tuo spirito fu vicino al mio fu un disperato incontro di passioni infrante e sofferenze, come cocci di vetro sparsi su di un tappeto bagnato di lacrime.


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Capitolo 6
*** V - Solitudini ***


Riflessi - V - Solitudini
[ Riflessi - Youko x Sei ]


V

Solitudini



Le vacanze di natale trascorsero rapide, e per due intere settimane non ebbi più tue notizie. Eri come morta, ma la tua ennesima sparizione colpì una parte di me ormai già abituata più alla tua assenza che alla tua presenza. Che ti stessi iniziando a idealizzare, Sei? O che ormai una parte di me avesse compreso, in profondità, quanto fosse libero ed inafferrabile il tuo spirito ribelle?

Per O-Shogatsu, la tradizionale festa di capodanno, il primo di gennaio feci visita a Villa Ogasawara per portare i miei saluti alla famiglia di Sachiko, così com'è di convenienza fare. Per me si spalancarono gli enormi cancelli della villa di famiglia, e venni accolta nel nucleo del Clan degli Ogasawara, con tutto il fascino del rigore del loro rango. Casta raffinata, di nobili e signori, quella cui appartiene la mia petite-soeur.

Ogni cosa era splendente e ordinata, precisamente come l'avevo lasciata l'ultima volta. Sachiko dava l'impressione di essere il centro di ogni cosa, come una bambola meravigliosamente vestita in una casa meravigliosamente arredata. Le guance bianche e i capelli neri; tutto in lei era così perfetto da sembrare finto.
E intorno a lei, e in funzione di lei, si muovevano tutti gli altri. L'intera famiglia fuorché la madre, serena e severa a vegliare su tutto. Come pianeti orbitanti intorno all'unico sole, come falene abbagliate da una luce nella notte. Sachiko si muoveva con gesti lenti e precisi, senza mai alzare troppo le mani o la voce. Dimessa eppure regale, nelle sue linee e nel suo atteggiamento emergeva con prepotenza la superba padrona di casa che sarebbe divenuta. Ma il mio sguardo sfilò oltre. Oltre quella maschera, oltre quei paramenti, dritto negli occhi e nel cuore della mia petite-soeur.

Per quanto a prima vista apparisse distesa come sempre, avvertivo il tumulto che interiormente la doveva star scuotendo. L'agitazione, il fastidio, l'autocontrollo. Per questo mi bastò poco per notare sul suo viso - o fu solo una proiezione dei miei pensieri? - i lineamenti tesi, le labbra atteggiate appena in una piega amara, pressoché impercettibile. I movimenti di tutti intorno a noi erano lenti, quasi sfocati; i toni tranquilli e bassi. Una musica dolce e soffusa accompagnava i nostri sussurri. Ma l'intero ambiente rifletteva una fredda e diffusa sensazione di disagio, forse addirittura di tensione.

La madre fu eccezionalmente cortese, come sempre. La gentilezza nei riguardi dell'ospite, dopotutto, è pur sempre una cosa dovuta; motivo d'orgoglio per un casato, nonché indice di sublime raffinatezza. Ma quel che quella donna poi fece superò ogni precedente, strabiliando tutti i convenuti per il suo profondo significato. Perché nessuno, mai, si sarebbe atteso qualcosa di simile.
Senza la benché minima ombra d'indecisione, al centro dell'attenzione di tutti, intraprese il lungo e cerimonioso discorso che, tipicamente, sarebbe toccato a suo marito. Ma dell'uomo non c'era traccia, e fu quindi la sua voce armonica a riempire la stanza, ringraziando con gesti antichi e solenni formule codificate i Kami, gli Dèi, ed esortandoli a proteggere la famiglia anche per l'anno appena iniziato. Ascoltai con interesse la lunga sequela di preghiere, accentuando la mia attenzione quando, una volta finiti gli Dèi, passò agli uomini.
Con una grazia sovrannaturale si avvicinò ad ogni singolo convenuto, rivolgendogli i propri personali ringraziamenti e citando con assoluta precisione per quale motivo fosse stato ammesso quel mattino fra gli Ogasawara. Guardandomi intorno mi domandai quando sarebbe toccato a me, ma con pazienza attesi sino a quando anche gli invitati non furono, uno ad uno, passati. E solo allora si avvicinò a me.
Indossava un kimono viola scuro, lo ricordo ancora, con ricami finissimi in oro. Il risorgere di Amaterasu dalle tenebre, pensai. E quella donna piccola e solenne in quel momento mi sembrò davvero lei: la Dèa del sole, scesa su di me per affidare coi suoi raggi caldi e materni il suo unico bene alle mie mani mortali. La sua unica figlia. Mi si mozzò il respiro in gola.

Con l'investitura ufficiale ed il riconoscimento da parte del clan, mi sentii avvampare d'orgoglio. E forse per la prima volta mi resi conto che il legame che stava nascendo fra me e Sachiko sarebbe stato destinato a durare, andando ben oltre le mura di pietra del Lillian.

Trascorso quel momento, così intenso, l'assenza del padre fece sì che le formalità si sciogliessero entro breve, e la mia petite-soeur mi venne affidata sino all'ora di pranzo.
Dopo quella profonda immersione fra i suoi parenti sentivo di volermi allontanare da quella gente. Non che mi spiacessero, dopotutto ero avvezza agli ambienti di alta levatura. Ma quell'ostentata tranquillità celava malamente un disagio che mi pesava, e dal quale desideravo sottrarmi per un po'. Volevo restare con lei, sola. Le domandai di vedere per l'ennesima volta il giardino, che sapeva bene quanto amassi, ed insieme ci inoltrammo nei vasti possedimenti degli Ogasawara.


Passeggiammo a lungo affiancate, senza dir niente, come se fosse abbastanza la sola presenza dell'altra per capire ogni cosa non detta, per sentirci reciprocamente sollevate. Il silenzio rotto dai nostri passi, leggeri sul terreno, cullava i miei pensieri; in sottofondo avvertivo la tua ombra tentare di momento in momento di calare sulla mia mente, una minaccia costante. Ma ti evitavo ogni volta all'ultimo istante, forzandomi di pensare esclusivamente a Sachiko ed al giardino e chiudendoti forzatamente al di fuori di me. Senza bisogno di accordarci, ci fermammo automaticamente in prossimità di un ponticello di legno cui ero molto affezionata, che si slanciava al di sopra di un'estremità del laghetto. Era come se quello fosse il punto predestinato dove, senza nemmeno dircelo, avevamo entrambe deciso di dirigerci. Il suono delle onde, che si rincorrevano lungo una cascatella non distante, copriva i nostri respiri. Alcuni petali sfioravano le increspature dell'acqua, dondolandosi morbidamente. Appoggiandomi ad uno dei lati del ponticello, un basso parapetto di legno mirabilmente intagliato, presi un profondo respiro guardando il mio riflesso sull'acqua liscia. Come iniziare il discorso?

Nella mia mente i pensieri rotolavano lenti l'uno sull'altro, confondendomi. In quei pochi momenti mi accorsi che più mi concentravo per trovare un elemento cui agganciarmi per iniziare a raccontare, più mi distraevo ritrovandomi a pensare a tutt'altro. Il fulcro del discorso eri tu, e non avrei mai potuto evitare di parlarne. Eppure fu come se in quell'esatto momento, quando avevo finalmente deciso di pensare a te, avessi iniziato ad evitarmi. Assurdo, persino all'interno della mia testa riuscivi a farla da padrona, a prendermi in giro.

Stavo ancora confrontandomi con la mia difficoltà nell'approcciare la storia di me e di te, nel trovare le giuste parole, quando Sachiko iniziò a parlare. Si era fermata di fianco a me, e con le mani in cima al parapetto guardava la riva del lago. E lì, a metà fra il silenzio ed il rumore, fra la solitudine e la compagnia, per la prima volta mi raccontò della sua famiglia. Con quella sua voce bassa e fredda, quella tonalità altera e sprezzante che assume quando si trova di fronte alle sfide o è assolutamente convinta di voler mantenere la propria posizione in una discussione, mi raccontò di suo padre e di suo zio che in quel momento, che proprio in quel momento erano altrove, lontani dal clan cui avevano dato il nome, la ricchezza ed il rango.
Mi raccontò di suo cugino, il suo cugino tanto bello e tanto odiato, che a sua volta era altrove, ma probabilmente in compagnia ben diversa rispetto ai suoi parenti più grandi; una tragicamente ben nota compagnia.
Mi raccontò di sua madre e delle donne della famiglia, e della pena, delle preoccupazioni, del buon nome degli Ogasawara che...

Mi sentii onorata e commossa nel venir finalmente messa a parte di tutta la sua storia, che nel tempo avevo lentamente ricostruito parte per parte basandomi su quel che accenno dopo accenno mi aveva detto, e su quel che come sempre mi era stato detto. Mi sentii orgogliosa nel vedere come i miei sforzi per liberarla dalle sue prigioni mentali iniziassero a dare i loro primi frutti, nel cuore di un inverno rigidissimo. Non era un racconto, quello, che si potesse fare a chiunque, e nei gesti e negli sguardi di Sachiko fu evidente la silente preghiera di non parlarne con nessuno, mai.

Non ebbi il bisogno di promettere; fra di noi, bastò un solo sguardo.

Dopo aver ascoltato la sua storia, dopo aver raccolto fra le mani il fardello pesantissimo che lei portava sul cuore, mi dissi che non le avrei più parlato di Satou Sei e di quanto fosse successo solo pochi giorni prima. Dopo la sua oltremodo vergognosa dimostrazione di fragilità, non mi sarei potuta permettere di pesarle addosso con i miei futili problemi. Erano già abbastanza gravi i suoi, presi singolarmente.
Ma fu lei che, dopo essersi sfogata, forse per cambiare argomento mi chiese direttamente di te con il suo consueto, elegante pragmatismo. Come se d'un tratto avesse vestito nuovamente i panni della mia pétite-soeur.


Questa mattina ho visto Rei-san, in compagnia di sua cugina Shimazu Yoshino-chan. Ci è sembrata una buona idea quella di ritrovarci qui, domani, per fare il giro dei santuari. Abbiamo anche pensato che sarebbe bello se volesse partecipare tutto lo Yamayurikai, ma non abbiamo avuto modo di contattare Rosa Gigantea En Bouton. Forse tu potresti in qualche modo raggiungerla, onee-sama?

Dietro la sua domanda, apparentemente innocua, riconobbi l'inconfondibile stile di Sachiko. Il momento di debolezza era passato e aveva deciso di spostare l'attenzione su di me.
Non appena l'avevo conosciuta avevo imparato immediatamente a confrontarmi con quel suo modo di chiedere e non chiedere, sfumando le sue curiosità all'interno di questioni più grandi o più importanti, in maniera da celarle o da poterle sempre negare. Troppo simile al mio modo di fare, perché mi sfuggisse. E se mi colpì la sfrontatezza della sua domanda, che la Sachiko che avevo incontrato solo pochi mesi prima non si sarebbe mai permessa di porre così direttamente, non furono da meno gli interrogativi che quelle sue poche parole scatenarono.
Avevo il tuo numero di telefono per via della catena di classe, ma perché mai avrei dovuto utilizzarlo? Perché darmi da fare per contattarti, quando tu negli ultimi giorni - negli ultimi mesi? - mi avevi completamente ignorata? Davvero sarebbe stato il caso di inginocchiarmi ancora una volta davanti alla statua di Satou Sei e pregarla di rivolgere anche solo uno sguardo in mia direzione?

E soprattutto, perché tutto ciò mi seccava così tanto?


Le risposi che purtroppo non avevo i tuoi contatti e di domandare invece a Rosa Gigantea, che sicuramente avrebbe potuto rintracciarti in qualche modo. Con mio sommo fastidio, mentre la formulavo mi resi conto che quella mia versione inventata su due piedi non era perfetta, non era del tutto credibile. Sarebbe bastato poco a scoprire la verità delle cose. Ma non c'era alcuna soluzione migliore per evitare di dare una risposta che mi sarebbe costata molto di più di una bugia imperfetta. Sachiko non potè replicare con domande più specifiche, in nome di rispetto e cortesia: il rischio era stato calcolato bene, la scommessa, dopotutto, vinta.

Il discorso proseguì sull'argomento, brevemente, articolandosi sul tuo tentativo di fuga con Shiori-san.
Ne avevamo parlato più volte, ma mai da sole, e dovetti dominarmi per evitare di dare segni di agitazione. Discutere con Sachiko, soprattutto nel caso in cui non le si volesse dire la verità, era come una sfida. Una gara fra intelletti ed intuizioni, fra l'acutezza del suo sguardo e la capacità di fingere e sviare. Una danza pericolosamente a cavallo delle regole, perché sia io che lei sapevamo che oltre un certo tot nessuna delle due avrebbe mai potuto spingersi. E per non perdere era fondamentale concentrarsi, evitando di pensare alla paura. Concentrarsi ed analizzare freneticamente, attimo dopo attimo, ogni elemento. Orchestrare ogni cosa perché combaciasse. Con la precisione fredda e tagliente di Mizuno Youko.
Guardarla negli occhi, capire che sapeva eppure vederla costretta all'interno della gabbia del rispetto, impossibilitata a scavare per trovare la Verità, era un brivido che dopo tutti quei mesi ancora non aveva smesso di scuotermi.
Le accennai di quel che era accaduto in maniera piuttosto impersonale, evitando - nemmeno io so perché - di dirle che dopo la notte insieme ti avevo riaccompagnata a casa io, senza la tua Onee-sama. Infine uscii elegantemente dalla sfida spostando l'argomento sulle feste di capodanno, ed accolsi con un sorriso lo sgomento che la mia petite-soeur mise in mostra nel confessare come non fosse sicura di aver sentito con sicurezza tutti i 108 rintocchi del capodanno, ma come pensasse di essersene persa almeno uno. Concluso lo scontro mentale, avevamo già dimenticato il momento di tensione. E nel tornare verso Villa Ogasawara pianificammo placidamente l'incontro del giorno seguente. Lasciandoci infine senza più tornare a discutere di te, con la promessa di ritrovarci insieme alle altre ragazze dello Yamayurikai.



***


Sapevo che sarebbe accaduto. Era inevitabile. Ma quando Eriko disse: "Andiamo?", mi sentii un po' morire dentro.

Si era fatta la mattina seguente, e come promesso ci eravamo incontrate in kimono davanti alla magione di Sachiko. Il cancello della villa, smisurato nelle dimensioni, era affiancato da due magnifici kadomatsu. Grandi rami di pino erano sistemati armonicamente fra il bambù, nelle due composizioni tradizionali per la celebrazione di O-Shogatsu. Il lavoro era mirabile; nella snervante attesa mi soffermai a domandarmi se la mia petite-soeur praticasse l'Ikebana, e se avesse collaborato nel costruirli.

Mentre attendevamo ed attendevamo, Rei-san colse l'occasione per presentarci sua cugina, specificando che l'anno seguente avrebbe frequentato il nostro stesso Istituto. Fu allora che incontrai per la prima volta Yoshino-chan, una ragazzina dalle lunghe trecce scure e dallo sguardo innocente, dietro il quale si celava un lampo di malizia. Colsi al volo certi sguardi, certi atteggiamenti, una naturale vicinanza fra le due cugine. Mi appuntai mentalmente il suo nome, sicura che in futuro mi sarebbe stato utile.
Impiegammo il tempo parlando un po' del più e del meno, soprattutto di come avevamo vissuto le festività del 31 dicembre.
Poi il tempo trascorso a distrarci iniziò ad essere troppo, e fra lo sdegno e la preghiera sperai che apparissi dal nulla, o non ti facessi mai più vedere. Tutto o niente, Sei.

Poi Eriko disse: "Andiamo?".

Ed andammo.





N.d.A: O-Shogatsu è la tradizionale festività che si svolge a cavallo del capodanno. Un tempo molto sentita a livello religioso, oggi è soprattutto un pretesto per festeggiare, un po' come accade da noi. Varie tradizioni si accavallano nel panorama giapponese, ma sicuramente una delle più vive è quella di far visita ai Templi nei primi sette giorni dell'anno nuovo, generalmente direttamente il primo gennaio. Capita molto spesso che si portino in dono al Tempio varie cose, che molto spesso sono generi alimentari, ma nella storia non credo ne farò accenno.

I Kadomatsu invece sono decorazioni rigorosamente di capodanno, che vengono esposte dall'1 al 7 gennaio e che derivano parzialmente dall'Ikebana, l'arte della disposizione dei fiori. Si tratta di piante che vengono posizionate ai lati della porta d'ingresso delle case e dei negozi, e sono quasi sempre in coppia. Come idea si può dire assomiglino ai nostri abeti di natale, solo che non presentano addobbi di sorta; sono semplicemente una mistura di canne di bambù e rami di pino intrecciati in diverse maniere, che variano nella forma con il variare della disposizione.

Infine i 108 rintocchi di capodanno, detti Joya no Kane, hanno una valenza profondamente simbolica e tradizionale, ma vengono ancora fatti risuonare in molti Templi. Sono esorcizzanti, perché ad ogni rintocco viene scacciato un peccato dell'uomo, che sono precisamente 108; ne deriva che, ascoltando tutti i rintocchi, se ne esca purificati e pronti per affrontare l'anno nuovo sgravati da tutte le pene. Per questo motivo Sachiko è preoccupata dall'idea di non averli sentiti tutti.

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Capitolo 7
*** VI - Come Petali Nel Vento ***


Riflessi - Come Petali Nel Vento
[ Riflessi - Youko x Sei ]


VI

Come Petali Nel Vento



Avevamo riflettuto a lungo su quanto sarebbe accaduto nel momento in cui avresti rimesso piede all'interno del Lillian. Avevamo cercato di immaginare qualunque futuro, pianificare ogni possibile reazione. Essere pronte, quella era stata la parola d'ordine. Pronte a cosa, non lo sapevamo, ma ci eravamo ugualmente preparate con tale impegno, con così tanto fervore, che ci eravamo convinte di aver pensato a qualsiasi eventuale tuo comportamento. Eravamo forti, sicure di noi.
Ma, posso dirlo con assoluta sicurezza, proprio nessuna si sarebbe mai attesa che una come te, che sino a quel momento aveva sfidato ogni regola, avrebbe mai voluto rispettare la tradizione. E non so dirti come rimanemmo sconvolte quando non solo facesti il tuo ritorno alla Casa delle Rose - troppo presto, davvero troppo presto perché mi potessi davvero abituare in profondità alla tua nuova assenza - con un sorriso malvagio, il sorriso di quella notte. Ma, soprattutto, ti presentasti a noi con la tua bella chioma bionda tranciata di netto.

Rei-san mi aveva da poco passato una tazza di the. Mi dovetti letteralmente aggrappare al piattino per evitare mi crollasse di mano, mentre mi moriva il respiro in gola.

Era stata così importante. E ti aveva gettata via in quella maniera.


No, non potevo soffermarmi su quel tipo di pensieri. Razionalizzare era la reazione corretta, mi dissi. Kubou Shiori aveva reagito come ogni ragazzina con un minimo di buonsenso avrebbe fatto, ed aveva compiuto la scelta più giusta, sia per lei stessa che per te. Poi, che il mio stomaco non fosse d'accordo non aveva la benché minima rilevanza.

Davanti alle espressioni delle altre sentii bruciare in me l'urgenza di trascinarti via. Ah, se solo avessi potuto farlo, che scena fantastica sarebbe stata. Ti avrei afferrata per il polso e ti avrei condotta via dagli sguardi, via dai commenti, via dai tutto e tutti. Rabbiosamente via, via da quel mondo che non aspettava altro che di poterti sbranare. Se io ero mortalmente preoccupata, tu dietro quel tuo sorriso strafottente, troppo simile a quello di Rosa Gigantea, dovevi essere terrorizzata.

Ma per fortuna c'era Sachiko; la provvidenziale, onnipresente Sachiko. Molto più padrona di sé di quanto non lo fossi allora io. Con quella sua usuale, fredda efficienza si occupò di te come non fosse accaduto assolutamente nulla, risistemandoti i capelli in tempo perché ti potessi presentare in classe con un'acconciatura quantomeno consona. E fu la frenesia ed uno strano senso di allegria a prenderci, a prendermi, mentre ci affaccendavamo intorno a te per risistemarti.
L'ondata di adrenalina dovuta all'urgenza, alla situazione straordinaria, alla sorpresa e perché no, anche alla novità ci travolse. Come avevi fatto tu con me, come acqua che gioca con un sasso sulla battigia senza lasciarlo mai riposare sulla sabbia né nel mare. Mi avevi travolta, di nuovo. Ed alla fine, dopo tanto cercare e penare il margine della tua assenza si era fatto finalmente sagoma, alla stessa stregua di un sogno che si realizza nell'unico momento in cui non ce lo si sarebbe aspettato. Mi aggrappai saldamente a quella sensazione, ma nello stesso tempo, se avessi potuto mi sarei strappata il cuore dal petto con le mie stesse mani. Perché vedi, averti di fronte fu come tornare a respirare dopo troppo tempo, ed avvertii in ritardo tutto il peso dell'apnea nella quale ero scivolata senza accorgermene nell'ultimo periodo. Vivere, viverti divenne improvvisamente un imperativo, un bisogno insopprimibile.
Dovevo guardarti, dovevo toccarti. Dovevo averti con me, vicino a me, allacciata insieme come quella notte. Dovevo sentirti con tutte le mie forze, senza veli, né pareti fra di noi. E mi accorsi che non mi bastava, mi accorsi che non poteva bastarmi il riempirmi per mezza mattinata gli occhi della tua immagine, il tornare per un solo attimo così dolorosamente ad esistere. Adesso erano anche i miei bisogni a parlare. Non c'erano più solo le motivazioni di Kubou Shiori.

La tua sola presenza, la tua sola vista in quello stato era stata come una goccia d'acqua nel deserto, Sei. Mi aveva bagnato la gola solamente per far ardere più forte la sete. E mi aveva fatto male, mi aveva fatto male da morire, perché era bastato un solo orlo della tua divisa, una sola ciocca bionda che cadeva a terra per riportarmi alla mente con piena violenza il nostro ultimo incontro. E senza riuscire a sfuggire ai ricordi, mi si strinse un nodo nello stomaco.


Trascorsi non solo la serata, ma gli interi giorni seguenti agitata come un leone in gabbia. Smaniando perché le lezioni finissero il più presto possibile, in attesa di poterti parlare in privato. Fissando la tua figura svogliata fra i banchi, in attesa che ti voltassi anche un solo istante.
Eppure, tu sembravi del tutto assorta nei tuoi pensieri, tanto da non accorgerti minimamente di me. E non appena suonava la campana ti fondavi fuori dalla classe con urgenza, come se stessi fuggendo dall'incubo di Shiori, scomparendo poi per gli immensi giardini del Lillian.

Voltavi un angolo, e non eri più lì. Come in una magia che si fa realtà, sempre più spesso, di nuovo, tu non eri più lì.


Giorno dopo giorno ti cercavo senza alcun risultato, seguendo con lo sguardo le tue tracce all'interno dell'Istituto come un cane da caccia che ha sentito il profumo della preda. Avvertivo la tua presenza attraverso i commenti delle altre ragazze, che parlavano fra loro di te, ma al di fuori delle classi non riuscivo più ad incontrarti per nessun motivo. Come se tu fossi divenuta un'ombra, una leggenda, un fantasma che si muoveva sempre un passo prima di me, sempre un passo al di là del mio campo visivo. Ed anche durante le lezioni se il mio sguardo tornava verso te incessantemente, fra le ripetizioni per affinare la dizione e le letture di italiano, il tuo era sempre fisso sui libri, o sulla lavagna, o - peggio ancora - sulle finestre. Come se nella leggera sagoma del tuo viso specchiato nel vetro potessi ancora vedere il riflesso di lei, annidato nei tuoi occhi.
Quando arrivavo in classe eri già immersa nei libri, intenta a studiare o ricopiare appunti delle lezioni, bloccando qualunque mia possibile iniziativa. Non c'era via, non mi avresti concesso nessun appiglio, nemmeno per sbaglio. Ma non potevo fare a meno di cercarti, e mi arrovellai alla ricerca di una soluzione.
Cosa volessi dirti non l'avevo deciso, ma in quel momento non aveva importanza. La cosa fondamentale, mi dissi cercando di razionalizzare la situazione, era parlarti in privato e domandarti come stessi, assicurarmi delle tue condizioni. Non era di certo per soddisfare un mio bisogno che desideravo contattarti, no?

Da cacciatrice quale sono, decisi che era il momento di cambiare metodo. Così provai a modificare i miei orari. Entrai a scuola più presto del solito, camminando poi lentissima lungo il viale nella speranza di incrociarti, magari vicino alla statua di Maria-Sama, mentre le ragazze del primo anno mi salutavano con deferenza ed andavano spedite più avanti, eccitate dall'avermi anche solo vista. Poi ipotizzai che entrassi al Lillian all'ultimo momento e mi presentai più tardi ai cancelli, rischiando io stessa di tardare alle lezioni; ma niente, non riuscii in alcun modo a intercettarti. Alla Casa delle Rose non ti presentavi, ma non mi sarei mai attesa niente di diverso. Insomma, eri diventata inafferrabile come il vento.


Fu in quei giorni che il mio autocontrollo cedette, e dopo una purtroppo breve resistenza tornò ad aumentare drasticamente il tempo da me trascorso alla finestra. Non c'era niente di male, mi dissi. Non lo facevo per un motivo in particolare. Il panorama su cui si affacciava la Casa delle Rose era davvero piacevole. E se poi ti avessi vista, beh, sarebbe semplicemente cresciuto il mio già notevole diletto nel guardare fuori dalla finestra.
Sì, sarebbe stato bello, vederti. Anche solo per un istante, anche solo in lontananza. Niente di più, davvero. Avere un segno della tua esistenza, del fatto che eri viva, reale. Ecco, magari poi salutarti, o sorriderti... o forse, gridava una voce in me, catapultarmi giù dalle scale, con buona pace del mio contegno da bouton, e gridare il tuo nome, e fermarti, e...

Sì, avevo sentito i commenti delle altre ragazze, e tutte parlavano con meraviglia di Rosa Gigantea en Bouton. Le avevi letteralmente sconvolte, modificando d'improvviso il tuo atteggiamento, pressoché da un giorno all'altro. Ma era stato uno sconvolgimento positivo. Naturalmente tutte, o quasi, avevano ricollegato il tuo brusco cambiamento alla partenza di Shiori, ma si dicevano favorevolmente sorprese dalla "nuova Sei". Una Sei solare come non mai, pronta a giocare scherzi a chiunque le passasse a tiro. Una Sei amichevole con tutti, così divertente, così diversa da quella che era stata sino a quel momento. Una Sei che non avrei mai potuto immaginare fosse così.
Le avevi conquistate.


Ingenue. Loro non potevano capire, nessuna di loro poteva.



Quella di incontrarti, mi rendevo conto, era una volontà sciocca. Ma per qualche motivo mi si agitava nel petto la paura irrazionale che tu non fossi più lì per me. Come se quella notte avessi davvero preso il treno e durante tutto il periodo di capodanno fossi partita per un luogo distante, sconosciuto, irraggiungibile. Per tornare da me come un'altra persona, trasfigurata nell'aspetto e nell'anima: eri ancora la Sei che avevo conosciuto?
Era altamente illogico, ma la tua scomparsa dalla mia vita mi aveva gettata in uno stato di instabile prostrazione. Non poterti parlare, non poterti guardare se non come fossi un mobile della classe, non poter mettere a tacere le mie paure; erano tutte cose che nella mia mente ti stavano trincerando al di là di una barriera invisibile, allontanandoti da me. Il mio umore si era fatto fortemente altalenante, sfuggendo abbastanza al mio controllo, perché benché sapessi perfettamente che eri vicina non riuscivo a prenderti. E lo stesso, non riuscivo ad ignorare il mio desiderio di cercarti, che si faceva vivo in una smania sempre più crescente.

Tu mi sfuggivi, sì. Ma se ti avessi potuto parlare, anche solo per un istante, allora avrei avuto la conferma che eri realmente ancora al Lillian. Che non eri un fantasma, che facevi ancora parte del mio mondo, che tendendo una mano avrei potuto raggiungerti. Che avrei potuto vederti, parlare con te… che quel che dicevano le altre ragazze era vero, ma che in te si celava ancora quella straordinaria capacità di vivere con tutte le tue forze che avevo imparato ad amare. Che, forse, stavi persino bene. Che non ti avevo persa del tutto, almeno non ancora.

Se mi era rimasta una briciola di ritegno, la spesi interamente in quelle settimane, che trascorsero rapide come la piena irrefrenabile di un fiume, dopo la rottura improvvisa della sua unica diga.


Persino la Casa delle Rose, dove ogni giorno appariva identico all'altro ed il tempo sembrava non passare mai, iniziò piano piano a risultarmi terribilmente stretta. Fra di noi si parlava di ogni cosa meno che di te, come se il tuo nome fosse tornato ad essere il tabù che era stato, la tua presenza un ricordo da cancellare il più in fretta possibile. E questo non faceva che allarmarmi ancora di più, a livello del tutto irrazionale. Come un animale spaventato, non riuscivo ad accettare il muto accordo che era scattato fra le Rose, come fossimo tutte complici di uno stesso reato. Un meccanismo che ci aveva cucito la bocca, rinchiudendo l'argomento dietro muri di silenzio. Nessuna avrebbe parlato. Ma io non potevo reggere ancora a lungo quella situazione.
Si discorreva di banalità e la mia mente si astraeva, ed il mio sguardo fuggiva alle tende ricamate, e poi oltre, al di là dei vetri puliti. Al sentiero sul quale speravo invano di poter cogliere, in qualsiasi istante, la tua figura. La vera, unica, vivida conferma della tua esistenza.

Alla fine avevo consapevolmente ceduto; il mio vizio si era fatta una mia abitudine naturale, irrinunciabile. Non aveva più senso cercare di contrastarla. Da quei giorni in poi, sempre più spesso mi avrebbero vista accostata alla finestra, intenta ad osservare, assorta, il cortile.


Ma la verità era che tu mi evitavi appositamente.
Ne avevo il sospetto, ma non volli dare adito a quel terribile timore, censurandolo nella parte più remota della mia mente finché non mi trovai a sbattere duramente contro la realtà. Fu questione di un istante, e bastò tanto poco a farmi crollare.

La palestra fu il teatro della nostra scena. Tu facevi per uscire, io facevo per entrare. Notasti all'ultimo momento la mia figura, solitaria lungo la scalinata che conduceva all'ingresso. Mi mancava qualche metro alla porta, una distanza che si rivelò impietosa. Tu eri lì. Attraverso i vetri colsi l'ombra di un movimento, e la tua ormai corta chioma bionda, inconfondibile, sparire frettolosamente al di là degli scaffali delle scarpe.


Mi bloccai. Senza parole.

E non so come riuscii a trovare la forza necessaria a voltarmi ed allontanarmi sulle mie gambe.



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Capitolo 8
*** VII - Planate Solitarie ***


Riflessi - Ai Margini Della Foresta
[ Riflessi - Youko x Sei ]


VII

Planate Solitarie



Quando gli istanti sereni si susseguono uno dopo l'altro, nessuno si attende che un giorno venga a piovere. Invece, dopo tanti momenti di sole un pomeriggio il cielo lentamente s'ingrigisce, mentre le nuvole si ammassano, vorticando su sé stesse ed offuscando il sole.
Poi, cade la prima goccia di pioggia. E da lì in poi si scatena il temporale.


Attraverso la finestra della Casa delle Rose fissavo in silenzio le sagome degli alberi rachitici, che si stagliavano sul grigio plumbeo del cielo spogli delle loro foglie, cadute agli albori dell'autunno. Pioveva ininterrottamente da tre giorni, ma a me sembravano passate settimane intere dall'ultima volta che avevo visto il sole, tanto che ormai sentivo di essere vicina al limite; stavo arrivando a non sopportare più i rivoli d'acqua che scivolavano lungo le finestre. Pioveva ininterrottamente da tre giorni, da quando avevo infranto l'ultima volta la rigida etichetta del Lillian; "Qui è gradito camminare lentamente". Me l'ero ripetuto nella mente così tante volte, mentre fuggivo come una codarda, che ero arrivata alla nausea al solo pensarci.
Ma in realtà, ne ero consapevole, non era quello a nausearmi.

Fra le mani reggevo una tazza di the ancora fumante, che avevo preparato per impiegare il tempo in qualcosa e che sapevo sin dall'inizio che non avrei bevuto. Da tre giorni avevo lo stomaco contratto in un pugno di ferro, in una stretta tremenda, che mi ero dimostrata incapace di smorzare in alcun modo. Avevo bevuto, avevo respirato profondamente, avevo cercato persino di cantare per alleviare quel peso, ma nulla era riuscito a liberarmi dalla rabbia che covavo nel ventre, che mi stringeva le viscere nascosta dietro la maschera di un'austera neutralità. Avevo proseguito le mie attività come di consueto. Gli stessi gesti precisi, le stesse identiche espressioni. Ma dentro me covava lo spirito di una tigre ferita, di una fiera oltraggiata e sanguinante che si augurava solo di non trovarsi di fronte il fuoco che l'aveva bruciata.
Perché allora ti avrei cancellata, oh, se l'avei fatto. A costo di ardere con te sino all'ultimo brandello del mio essere.

Quel che mi tormentava maggiormente, l'idea che non riuscivo a scacciare dalla mente in alcun modo era il tuo atteggiamento, che era rimasto impresso in me con folle lucidità. Pensavo alla calma con cui mi avevi evitata, all'assoluta noncuranza dei tuoi movimenti. Ripassavo nella mente con freddezza suicida la scena che si era presentata ai miei occhi, davanti alla palestra. Avevi agito con una tale naturalezza! Era come se avessi disarmato la mia difesa e mi avessi colpita nel centro del petto senza nemmeno guardarmi, come se per te non valessi nemmeno l'attenzione necessaria per prendere bene la mira e farmi deflagrare il cuore con un proiettile.
E tutto questo per il mio orgoglio era oltre il limite dell'inaccettabile.

Inaccettabile che mi fossi esposta sino a quel punto verso di te, inaccettabili la mia avventatezza e la mia stupidità. Inaccettabile il modo in cui mi ero data da fare, facendo troppo caso ad una piccola ribelle che non meritava nemmeno il posto che occupava all'interno dello Yamayurikai. Una sporca usurpatrice di attenzioni, un'egoista che in tutto quel tempo non aveva fatto nemmeno un passo verso il cambiamento che avevo creduto di vedere in te.
Ma la cosa che, su tutte, non riuscivo a perdonarmi era che io avevo voluto darti fiducia. Ed affondando dentro me una lama di spine, che mi aveva sventrata sino agli ultimi recessi dell'anima, tu quella fiducia l'avevi tradita sino all'ultima goccia.

Dopo averti tanto a lungo cercata e inseguita, dopo aver tentato di giustificare con me stessa ogni tua sparizione, ogni tuo silenzio ed ogni tua misteriosa occhiata, eri riuscita in un solo gesto a raggiungere e travalicare il margine che nemmeno io credevo esistere, e a risvegliare la mia rabbia. Davanti alla terribile trasparenza di quel vetro mi ero sentita spogliata, Sei, aperta nel punto più vicino al mio cuore ed esposta al pubblico ludibrio, depredata di qualcosa che per me era importantissimo, di qualcosa che era mio di diritto.
Mi ero sentita umiliata, battuta, scagliata nel fango e calpestata. E faceva male da non avere parole per descriverlo, faceva male da non riuscire a respirare. Faceva male da stringere i pugni sino a farmi sbiancare le nocche, sino a lasciare i solchi delle unghie nei palmi.


Quel giorno seppellii le mie speranze. E gettando via il the ormai freddo, in nome della voragine che mi avevi aperto dentro giurai che non avresti avuto altre possibilità.




Allora, immersa nel momento e nello sdegno, mi convinsi che qualunque cosa avessi voluto dire, qualunque cosa avessi voluto fare, era ormai troppo tardi per portarlo a compimento. Fra noi era calato un vetro, spesso come una porta d'ingresso ed oscuro come un'ombra, che furtiva si allontana sperando di non essere colta. Un vetro che in realtà era sempre stato fra noi, mi dissi, e mi resi conto in quegli istanti che l'avevo sempre saputo. Che quel vetro non l'avrei mai oltrepassato, che quel vetro ci avrebbe separate sempre di più, con la sua lucida freddezza.
Il mio bell'incantesimo era infranto, la mia trama di aspettative disfatta. In quel momento, e per sempre.

Per sempre. Com'è strano, oggi, tornare a ripensare a quei sentimenti con così tanto distacco. Com'è strano utilizzare una simile espressione. Nulla dura per sempre, avrei dovuto appuntarmelo da qualche parte e ripeterlo come una preghiera ogni mattino perché mi rimanesse in mente. Ma allora ne ero veramente convinta, in quel momento davvero ogni stilla del mio essere gridava per sempre, ed ero certa, anima e corpo, che quel ruggito che mi scuoteva non si sarebbe mai placato. Ero troppo ferita, troppo arrabbiata, troppo angosciata perché potessi pensare che una cosa del genere potesse mai avere fine. Credevo sarebbe stato un sentimento eterno nella sua ribollente violenza, e che avrebbe accompagnato la mia smania di vendetta sino a quando non la sarei riuscita a soddisfare.
Ero così scioccamente coinvolta che, se allora mi avessero raccontato cosa sarebbe stato di quel rancore, beh, non l'avrei creduto possibile in alcun modo.


Trascorsi giorni interi a darmi della stupida, ad insultarmi con tutta la ferocia di cui fossi capace perché, mi dicevo, avrei dovuto immaginare che sarebbe finita così. Io più di tutti gli altri ero dolorosamente consapevole di come il tuo comportamento, dopo quella nostra notte, non fosse divenuto altro che una recita continua. Una mera mascherata tesa a proteggere il tuo dolore, ancora vivido e forte più che mai. Avevo condiviso la tua ferita ancora aperta, il tuo strazio in tutta la sua furibonda potenza, e per questo motivo mi ripetevo che avrei dovuto giungere prima alla tremenda conclusione che avevo voluto negare fino all'ultimo, sino alla secchiata d'acqua gelida dell'evidenza.

Io ti avevo trascinata sino a casa mia, io ti avevo tenuta stretta per tutta la notte, mentre tu piangevi e gridavi, e poi mormoravi con il rantolo della disperazione tutto il tuo dolore. Io ero stata l'ultima ad averti visto con i capelli lunghi, i tuoi bei capelli chiari che avevi ormai tagliato. Io mi ero spinta là dove nessun altro era arrivato, io avevo assaggiato il sapore del tuo cuore devastato, privo di qualunque difesa.

Io ero divenuta la più forte catena che ancora ti legava a Shiori.

Era logico che volessi cancellarmi.




Seguendo quell'angosciante flusso di emozioni arrivò anche il momento delle elezioni del Concilio Studentesco. L'Accademia era in subbuglio, e per quanto Sachiko e Rei tentassero di non darlo a vedere, l'una ostentando il consueto distacco e l'altra concentrandosi sugli allenamenti in palestra, anche allo Yamayurikai si respirava una qual certa tensione. La domanda che aleggiava inespressa nell'aria prendeva chiaramente vita nel silenzio dei nostri movimenti lenti: cosa sarebbe accaduto alla Famiglia della Rosa Bianca? I mormorii di apprezzamento su Satou Sei si rincorrevano incessantemente nei corridoi, ma dall'altro lato, se fosse davvero accaduta una rivoluzione, quale futuro si sarebbe aperto di fronte a noi?
Immaginarlo, nel bene o nel male, era impossibile. Attendemmo, silenziosamente fremendo, l'elezione.

Il giorno in cui le ragazze dell'Accademia furono chiamate a votare i tre nomi che avrebbero succeduto le Rose, sotto gli occhi orgogliosi delle nostre onee-sama Eriko ed io attraversammo lentamente l'Aula Magna per venir poi investite rispettivamente della carica di Rosa Foetida e Rosa Chinensis, riprendendo il nostro posto nello Yamayurikai. E naturalmente, sul palco ci raggiunsero le nostre Rei e Sachiko; i nuovi, splendidi Boutons.
Poi la voce al microfono fece rimbombare anche il tuo nome, anche tu venisti chiamata. Dopotutto era prevedibile, riflettei; nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare il volere di Rosa Gigantea, senza contare che in quell'ultimo periodo la "nuova Sei" aveva raggiunto davvero una popolarità mai vista prima.
Ma solo il silenzio rispose a quell'appello.
Anche quella volta, tu non c'eri.

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Capitolo 9
*** VIII - Pozze di Luce ***


Riflessi - Pozze di Luce Attenzione: questo pezzo ha subito una grossa revisione a due giorni dalla sua prima pubblicazione in questa sede, in maniera da ricollegarsi in maniera decisamente migliore con tutta la parte precedente. L'Autore si scusa per la prima versione, evidentemente avulsa di quella passione che era necessario seguito degli avvenimenti trascorsi, dovuta ad un buco creativo di molte settimane ed ad una generale dimenticanza di quanto già era stato scritto.





[ Riflessi - Youko x Sei ]


VIII

Pozze di Luce



Malgrado tutti i miei buoni propositi, malgrado tutta l'esperienza che credevo di aver accumulato negli anni nel manipolare le situazioni, e in qualche maniera fare in modo di cadere sempre in piedi, anche quella volta furono gli eventi a travolgermi. O meglio, per la prima volta fu Sachiko a farlo.

Non so se avesse compreso qualcosa né come, o se fu per via di una pura casualità che si misero in moto gli eventi che sarebbero seguiti. Ma dopotutto, immagino che non lo saprò mai. Per nessun motivo mai tenterei di domandarle direttamente spiegazioni, perché si sentirebbe obbligata a rispondere; quindi suppongo che rimarrà per sempre un piacevole mistero. Inoltre, mi piace immaginare che in un certo senso la Stella del Lillian fosse allora già capace di guardarsi intorno con abbastanza attenzione, come un pulcino che inizia ad irrobustire le ali prima di prendere il volo per la prima volta.

Forse allora le era bastato osservarmi, come avevo fatto così a lungo io con te, per imparare a capire dalla luce del mio sguardo cosa mi passasse per la mente. I miei cupi pensieri, la mia rabbia, dovevano permeare ogni mio gesto ed ogni mio sguardo, allora. O forse ne aveva semplicemente parlato con la mia onee-sama - e lei sì, sono convinta avesse subodorato qualcosa - durante una pausa fra le lezioni, in uno di quegli incontri casuali nei corridoi. O le immagino con piacere anche a confabulare segretamente fra le stanze della Casa delle Rose, durante quei silenziosi e rilassanti pomeriggi fra il the ed i riflessi delle luci sulle finestre.

Le finestre, già. Forse è l'idea che apprezzo maggiormente.



Come da tradizione, mentre le nostre onee-sama si preparavano per i test d'ingresso dell'università, ricadde sulle nostre spalle la totale responsabilità dell'organizzazione della festa di San Valentino. Ed ora tutto appare semplice perché guardo gli eventi a posteriori, ma se ripenso ad allora mi tornano in mente ricordi delle lunghissime riunioni e delle convulse organizzazioni - per quanto convulsa possa essere qualunque cosa all'interno della cornice del Lillian - indici di una fervida ed intensa attività nella quale mi gettai corpo e anima, nel tentativo di sfogare tutto il mio furore.
Tu non c'eri, oh, sì. Ed era meglio così, perché ero cosciente che se solo avessi osato presentarti allo Yamayurikai sarei riuscita a controllarmi con estrema difficoltà.

Avevamo deciso di lasciare che le nostre petite-soeurs potessero personalizzare la festa come meglio preferivano, affidando alla loro inventiva le attività che si sarebbero svolte. A dire il vero lo facemmo soprattutto perché intendevamo assistere le nostre onee-sama al massimo delle nostre energie, ma c'è anche da dire che le idee scarseggiavano, e speravamo che la freschezza delle ragazze più giovani avrebbe potuto rendere la festa più interessante. Fu anche per quel motivo che, quando Sachiko mi domandò di cercare per cortesia se fossero rimasti rimasugli di carta crespa e di cartoncino dopo l'ultimo spettacolo del Club di Teatro, presso la loro sede, non sospettai nulla.

Divisa fra i preparativi per San Valentino e quelli per il diploma della mia onee-sama, contesa fra le ragazze più giovani come un trofeo di fianco al quale mostrarsi il più a lungo ed il più spesso possibile, impegnata a dirimere ogni genere di problema, fermata ad ogni passo da qualcuno che doveva per forza dirmi qualcosa, non avevo molto tempo libero. Ed ancor meno ne avevo per dedicarmi ai miei tormenti, che forzatamente avevo allontanato gettandomi ben volentieri in quel turbine di attività. E ancora una volta mi convinsi di stare vincendo, o di essere molto vicina a farlo. Mi sarei slanciata sopra la montagna del dolore come la statua di una divinità, carica di forza e di gloria. Avrei stretto nella morsa della decisione il mio cuore, che avrebbe chiuso per sempre le sue porte dritto in faccia a te. Avrei sollevato lo sguardo verso il cielo e sarei andata avanti, verso un'esistenza trionfale, sola ed invincibile.
E ci credevo, ci credevo veramente. Non ci sarebbe mai stato più spazio per il biondo peso che aveva cercato di affondarmi. Addio finestra, addio vane ricerche. Da quel giorno, sarei stata libera.

E' curioso come in certi casi sia facile credere di essere riusciti ad estraniarsi da una situazione, solo perché si dedica meno tempo a quel determinato problema.
Quello che si scopre più tardi - e che forse si potrebbe già intuire la sera, quando ci si ferma a fissare il soffitto buio aspettando di dormire, e i ricordi ritornano come un'onda rabbiosa e inesorabile - è che la cosa importante non è quanto tempo si spende nel pensare a qualcosa, o a qualcuno. Il vero problema è con quanta intensità lo si fa.

E, anche se per pochi istanti al giorno, il tuo incubo si agitava con una potenza straziante in me.



Dietro le quinte del teatro del Lillian si apre un mondo di cui, a guardare solo il palco, non si potrebbe neanche sospettare l'esistenza. Sono una serie di stretti corridoi che si intrecciano fra loro, conducendo a tutta una gamma di stanze grandi e piccole fra cui molti camerini, una sartoria, una sartoria di emergenza - così chiamata perché è lì che vengono conservati la maggior parte degli scampoli di tessuto che servono alle riparazioni dell'ultimo momento - che viene utilizzata più di quella ufficiale, una sala riunioni, una sala costumi ufficiale e varie sale costumi non ufficiali, svariati magazzini più o meno utilizzati (e più o meno polverosi) e così via discorrendo. Tutto un mondo nascosto che quasi mai si mostra alla vista del pubblico, un mondo che palpita di passione sotterranea, permeato dal brivido d'emozione che lo percorre come una frustata elettrica ogni volta che sta per aprirsi il sipario. E' il luogo dove la finzione e la realtà si mescolano, dove entrano persone ed escono personaggi, e si snoda lungo tutta la parte posteriore del teatro.

Mi inoltrai laggiù senza sapere bene dove avrei potuto trovare quel che mi serviva, anche perché lì ogni porta è uguale all'altra, e camminando per quei corridoi si ha quasi l'impressione che dietro ogni uscio possano aprirsi nuove sale o nuovi corridoi, nuovi varchi, nuovi mondi da esplorare all'infinito, in una sorta di stupefacente gioco. Avevo trovato alcune porte chiuse a chiave, e temevo che il materiale che cercavo fosse stipato proprio nelle stanze in cui non era consentito l'accesso; ma ugualmente avevo proseguito la mia ispezione, ripromettendomi che, se non avessi trovato nulla, alla fine avrei domandato alla responsabile del club. Non era da me rinunciare prima di aver esaurito tutte le possibilità.

Procedendo, man mano persi la cognizione del tempo, mentre l'attenzione si perdeva su quel che mi capitava di vedere in quelle sale cariche di quell'atmosfera d'incanto. Finii per girare di sala in sala quasi dimenticando il motivo per cui ero laggiù, immaginando e costruendo mano a mano storie fantastiche.
Avevo sempre amato il teatro e la messinscena, lo spettacolo della vita. La finzione attraverso la quale si replica la realtà, tramutandola in aspetti nuovi, mai visti; inscenando nuove verità, che prendono vita attraverso la recita… è lungo e difficile da spiegare. In generale, diciamo che mi era sempre piaciuta quell'aura fortemente artistica ed elegante che permeava il concetto stesso di rappresentazione teatrale, e quel suo stare a metà strada fra inganno e verità, fra sonno e veglia. Sembrava quasi di respirare nell'aria tutto ciò, mentre mi aggiravo in una delle stanze dedicate ai costumi, come un immenso armadio riempito degli abiti più bizzarri avessi visto in vita mia. Si trattava del magazzino degli abiti delle recite classiche occidentali.

Quello turchese probabilmente doveva essere parte di un abito da fata di cui erano state dimenticate da qualche parte le ali. Quello rosso? Forse una damigella, o la sventurata principessa segregata nella torre? Quel pensiero mi fece sorridere, sarebbe stato divertente vedere Sachiko nei panni della donzella da salvare. Chissà poi che fine avrebbe fatto il povero cavaliere che si sarebbe trovato a confrontarsi con il suo carattere caparbio e ostinato...!

Già, il cavaliere. Per quel ruolo, tanti sarebbero stati pronti ad indicare ad occhi chiusi Rei, con il suo contegno e la sua abile spada, ma io avevo un'idea fissa a rimbalzarmi in mente senza sosta. Quella di un biondo cavaliere dall'animo oscuro e devastato, alla ricerca di un amore capace di risanare le sue ferite, ma che vagasse per le terre conducendo guerra e morte ovunque passasse il suo destriero. Inusuale, forse; ma avevo perfettamente chiaro in mente fin dal primo momento chi avrebbe potuto interpretare alla perfezione quella parte. Non riuscii a ricacciare indietro l'ennesimo contrarsi del mio stomaco, al solo tuo affiorare fra i miei pensieri. Oh Sei, cosa avrei fatto se solo ti avessi avuta davanti.

Riflettevo su quelle considerazioni quando senza alcun preavviso un'ombra si materializzò alle mie spalle e facendomi balzare il cuore in gola mi sospinse violentemente in avanti, mettendomi le mani addosso ed agguantandomi con fermezza.


Fu un istante, ma mi sembrò una vita.

Ero pronta forse a gridare e scalciare, e mordere e graffiare e poi correre via a perdifiato, dimentica di dove mi trovassi e di quali nemici potessi aspettare di trovarmi nel Club di Teatro del Lillian. E anche se ad oggi ancora se ci ripenso non ricordo cos'accadde, sono sicura che le mie mani scattarono istintivamente per liberarmi.

PRESA!, gridò allora la tua voce allegra, mentre le tue braccia mi afferravano stringendomi nel tuo ormai abituale abbraccio ninja. Ed io, completamente gelata, mi immobilizzai. Non poteva essere vero.


Cadere a terra sarebbe stato troppo, t'immagini? Come in quei manga in cui la protagonista finisce per qualche motivo sempre a sbattere contro l'uomo del destino, ed in quel modo i due hanno la possibilità di conoscersi.
Ma no, io mi limitai a farmi male alla caviglia nel modo più stupido possibile, sbattendo contro uno di quei porta abiti, e rovesciandolo nel tentativo di tenermi in piedi.

Sarà che ci conoscevamo già, o forse che in realtà io al filo rosso del destino ci ho sempre creduto più per tradizione che per reale intenzione. Sarà che forse se fossimo davvero cadute insieme saremmo poi scoppiate a ridere, e tutto sarebbe stato più semplice, troppo più semplice per una come Mizuno Youko. Sarà che i miei pensieri si erano fatti troppo rabbiosi ed arditi, e che la dura realtà aveva infranto il mio volo pindarico come un vaso di terracotta schiantatosi al terreno; ma dopo il mio grido, rammento il silenzio che seguì come uno dei momenti più drammatici della mia intera esistenza. E la lunghezza di quei minuti interminabili. I tuoi occhi preoccupati ed il severo allontanamento delle tue mani da parte delle mie, che quasi stentavano a toccarti, come se fossi qualcosa di malato.

Non ero sconcertata, di più. Ero... sconvolta, atterrita, bloccata e incapace di pensare. Ero soverchiata da un peso insostenibile nel mio petto, da una stretta amara nella gola e la scalpitante esigenza di uscire da quel luogo al più presto, e non tornarci più. Agghiacciata dall'orrore di quella situazione. Avrei voluto fare così tante cose, e dirne così tante, che non riuscivo nemmeno a dare un ordine ai miei pensieri. Mi accorsi che mi tremavano le gambe, e crollai a sedere su una bassa cassettiera.


Fu necessario che le tue parole spezzassero il silenzio, e quando dicesti il mio nome con quello sguardo, e quel tono, all'improvviso mi sentii svuotare di ogni emozione. Fluì tutto via, senza che io potessi nemmeno capire cosa stesse succedendo. Senza che io potessi nemmeno riconoscere la devastante cacofonia di sentimenti che avevano preso vita in me in quei pochi istanti. La tua voce, con quella sua magica inflessione che avevo sperato così tanto di sentire, spazzò via ogni cosa con la semplicità di un battito d'ali.

- Y-Youko-san?, ti sentii mormorare, vicino a me, ed avevi forse la voce più incerta, costernata ed atterrita che io avessi mai sentito. Sembrava come se avessi travolto Maria-Sama in persona. Te ne stavi lì a guardarmi, fissa, con l'espressione di un animaletto in trappola che vorrebbe essere in ogni altro luogo al mondo; quella che ti avevo visto in faccia solo quando Rosa Gigantea ti aveva presentata a noi tutte. Ed io non riuscivo a reagire in nessun modo. Abbassai lo sguardo al terreno perché non potevo guardarti, non potevo accettare di essere con te, di nuovo con te, così terribilmente vicina da farmi quasi paura.

Così dannatamente vicina.


Sì. Se non avessi guardato, ogni cosa sarebbe sparita.


I battiti del cuore martellavano con forza nella mia testa.


- Youko-san, è tutto a posto?


Non riuscivo quasi a respirare, paralizzata dall'emozione, dall'idea di averti finalmente a portata di mano. Allora ritornò a prendermi la grande onda d'ira che per un istante era ritornata indietro. Mi ricordai dei miei propositi, e di come avrei voluto alzarmi e cancellarti, per purificare finalmente il mondo la maledizione chiamata Satou Sei. Avrei lasciato solamente una traccia invisibile nell'aria, e poi nulla, solo il muro bianco e i vestiti colorati. Avrei conficcato le mie dita nella tua anima e l'avrei stracciata, avrei fatto in pezzi ogni tua sicurezza e l'avrei calpestata, avrei sputato tutto il veleno che serbavo in profondità, facendoti pesare ogni singolo tuo gesto che aveva ferito qualcun altro. Ti avrei distrutta, completamente. Ma il mio corpo sembrava non riuscire a rispondere alla mia volontà.
Dopo ancora lunghi minuti di silenzio - un silenzio sempre più pesante, carico di un'orrida tensione in esponenziale aumento - mi resi conto che non potevo rimanere così, immobile, per sempre. E, lottando contro le mie più profonde paure, mi arresi al dovere di affrontarti.


Quando rialzai gli occhi mi resi conto di quant'eri vicina, il volto leggermente teso in avanti ed i corti capelli biondi a cascare, irregolari, intorno al tuo viso. Mi colpì d'un tratto la consapevolezza, che sino a quel momento mi era sfuggita, di quanto fossi bella. Maledettamente bella. Le tue labbra erano socchiuse, e adesso è strano fare caso a come dettagli così insignificanti si siano impressi con tale vividezza nella mia memoria, ma ricordo che avevi il respiro accelerato. E che quei tuoi grandi occhi chiari mi fissavano, spalancati in un'espressione di vivido spavento.

Prima che riuscissi a frenarlo, un pensiero attraversò, rapidissimo e selvaggio, la mia mente. Ti stavi preoccupando per me! Una nuova morsa mi si strinse nel petto obnubilando per un attimo ogni altro sentimento e, seccata, scacciai violentemente quella considerazione, bollandola come del tutto inopportuna al luogo ed al momento. La situazione era già di per sé abbastanza innervosente.

Credi possibile che in tutto quel periodo non avessi mai pensato a che sarebbe accaduto quando mi sarei ritrovata finalmente di fronte a te, il mio incubo ed il mio primo desiderio? Sì, sì che ci avevo pensato, certo che l'avevo fatto. Avevo ideato mille congetture e poi, rabbiosamente, le avevo distrutte una per una, crogiolandomi nella mistura di amarezza e rancore che mi aveva sostentato per tutte le ultime settimane.
Ti avrei schiaffeggiata, avevo pensato, e poi avrei riso di te, qualunque reazione avresti avuto. Oppure ti avrei salutata con freddezza e sarei passata oltre, scostante e superiore, distaccata ed elegante come una regina delle nevi. O magari, meglio ancora, non ti avrei nemmeno salutata. Come se davvero non fosse mai successo nulla, come se davvero tu non fossi mai esistita.

Ma tu eri lì, ed io ero lì. E nel silenzio, non sapevo cosa dire. Improvvisamente ogni pensiero mi sembrò ridicolo, inadeguato. Strinsi il pugno affondando le unghie nel palmo con forza, come a volermi aggrappare al terreno, trovare un punto fermo che mi permettesse di fermare la vertigine che mi aveva colto quando avevo incrociato il tuo sguardo. E ci fissammo a lungo senza dire una sola parola, mentre mi rendevo lentamente conto del male alla caviglia, finché non fosti tu a spezzare nuovamente il silenzio.


- I-io... non era mia intenzione, Youko-san. Avevo pensato fosse...


Così poco bastò per farmi scattare dentro qualcosa. Invidia, rabbia, rancore; in una sola frase riuscisti a tirare fuori nuovamente tutto l'odio e il dolore, in un concentrato micidiale.

Ti interruppi. Non volevo sentire il nome della persona per cui mi avevi scambiata.


- Non preoccuparti, Rosa Gigantea. E' tutto a posto.


Rosa Gigantea. Con un'abile zampata, la parte più cattiva di me era uscita allo scoperto all'ultimo momento, facendomi scivolare fra le labbra il freddo rigore di quella carica che, scandita con una simile lentezza, era risultata molto più tagliente di quanto inizialmente non avessi calcolato. E se anche mi accorsi dei tuoi occhi sorpresi, del tuo leggero ritrarsi, come se ti avessi davvero colpita con uno schiaffo in pieno volto, era troppo tardi per tornare sui miei passi. Guidata dalla terribile soddisfazione della vendetta fu immediato, più forte di me l'istinto di continuare, infierendo.


- Per la prossima volta, ad ogni maniera, sarà meglio che presti una maggiore attenzione. Se ci fosse stato qualche mobile di mezzo, avremmo potuto farci molto male.


Ti guardai, e dopo tanto tempo per la prima volta ebbi l'impressione di non riuscire a capire cosa ti passasse per la testa. I tuoi occhi erano indecifrabili. Annuisti, forse mormorasti un assenso di cui non sono, però, sicura. Oh, il mio trionfo si stava compiendo. Avevo aspettato così a lungo che non ricordavo quasi quando avessi iniziato a sperarci, ma finalmente avevo la possibilità di farti pagare ogni cosa, una ad una. Dentro di me ribolliva un calderone di rabbia che avevo giusto giusto iniziato ad intaccare con quella breve frase, intinta in un apparente distacco che era solamente funzionale a rendere ancora più terribile la mia vendetta. Il primo passo era compiuto; da quel momento in poi, attimo dopo attimo, con tutta me stessa avrei schiacciato parte per parte ogni singola goccia del tuo spirito.
Dopotutto, te lo meritavi. Dopotutto, me lo meritavo.

Poi accadde che, non mi ricordo come o quando, ad un tratto mi ritrovai a fissarti mentre mi porgevi una mano per aiutarmi a rialzarmi, la stessa mano che avevo scacciato poco prima. Malgrado tutto, i modi cortesi erano parte del DNA di ognuna di noi, considerai pregustando quel che sarebbe accaduto di lì a poco. Ripensai ai tuoi gesti osservando il tuo palmo teso come se fosse qualcosa di strano ed alieno, sentendomi quasi ancora addosso quelle mani, e la sensazione terribile che avevano provocato poco prima. Ed io avrei risposto a tutto ciò. Avrei schiaffeggiato la tua mano con la mia, considerai in un istante di delirio di onnipotenza. O meglio ancora, l'avrei direttamente rifiutata e avrei proseguito con il gelido atteggiamento che già avevo messo in mostra fino ad un istante prima, mostrandoti chiaramente cosa tu fossi per me: nulla. Il nulla più devastante, il nulla più infimo cui si possa pensare. Mi sarei alzata e me ne sarei andata come se nulla fosse, perfetta ed elegante come sempre, e ti avrei trattata come l'ultima cosa al mondo che potesse scompormi.
Non eri nemmeno degna di attirare la mia attenzione, Sei. E te l'avrei dimostrato fino all'ultimo respiro. Ti eri decisamente messa a giocare con la persona sbagliata.

Stavo per rialzarmi, con gli occhi piantati nei tuoi ed il mio sorriso più maligno già pronto sulle labbra, quando qualcosa mi bloccò. Fu un lampo d'intuizione, una folgorazione interiore, lo spalancarsi di una consapevolezza universale che per un istante mi seppe cogliere, e mi mostrò una visione molto più ampia di quel che stava accadendo. Fu come uscire dal mio corpo e guardare ogni cosa dall'alto, per pochi, intensi istanti.
Rialzarmi da sola, mi resi conto, avrebbe significato non solo una schiacciante dichiarazione di autonomia da te, ma anche un netto rifiuto della tua persona, ad ogni livello. E sì, diamine, era esattamente quel che avrei voluto fare!, si ribellò violentemente il mio stomaco alla mia ritrovata capacità di calcolo e analisi. Ribollivo dalla voglia di prenderti e farti vedere che ero indipendente da te, che non valevi niente, che non eri nessuno! Ma in quei fugaci istanti di ispirazione, una voce più profonda mi fece capire che rifiutando la tua mano avrei rifiutato la tua persona come avevano fatto in passato tutte quelle ragazze che, solo per via dei tuoi lineamenti, avevano disseminato la scuola di orribili pettegolezzi sul tuo conto. Ti avrei dichiarata indegna di aiutarmi non perché non meritassi di farlo in quanto demone artefice di indegni comportamenti nei miei confronti, ma perché eri inferiore a me fisicamente e culturalmente, di nascita. E dato che questo non era vero, dato che amavo troppo quella tua mistura di sangue, quella tua discendenza a cavallo fra oriente ed occidente, per poterla insultare così profondamente, non mi sarei mai potuta permettere di farlo.
Schiacciata fra il desiderio e la ragione, dopo lunghi istanti di esitazione infine mi arresi al mio stesso rigore. Mi arresi alla mia disciplinata gentilezza, e senza una sola parola, quasi senza riuscire a credere io stessa a quel che stavo facendo, afferrai la tua mano.

La tua stretta era dolce e ferma, il tuo palmo caldo e morbido. Il tuo braccio vigoroso quando mi aiutasti a sollevarmi, poggiando l'altra mano sulla mia vita, ad accompagnarmi nel movimento. Io presi un profondo respiro, e cercai di non irrigidirmi mentre mi tiravo in piedi, appoggiando il peso su una gamba sola.


Ero di nuovo fra le tue braccia, che sembravano scottarmi sulla pelle al di là della divisa, per la carica di emozione che quella stretta fu capace di emanare. Mi detestavo e detestavo quel che stavo facendo, ma per qualche momento, senza capire cosa stesse accadendo mi sentii... sollevata. La tua mano era premurosa e salda, ed in un tocco solo seppe sciogliere quello che un abbraccio era riuscito a evocare poco prima, districando i nodi delle mie emozioni, consentendomi di ricominciare a respirare. Per un attimo il mio cuore ebbe un sussulto, e prima ancora che potessi realizzarlo io stessa mi lasciai tentare dall'idea proibita di bloccare le tue mani strette intorno a me, e trincerarmi in quel solido abbraccio. Come avresti accolto quell'improvviso cambio di modi, quel desiderio che già era stato capace di stupire me stessa, nascendo, beffardo, così inaspettatamente?

Poi c'erano gli altri, le altre. Quell'Istituto che nelle ultime settimane aveva spalancato le sue finestre su di te, come grandi occhi mostruosi, avidi di tutto quel che ti potesse riguardare. La mia mente cavalcò quell'inatteso sentimento, che mi aveva presa del tutto alla sprovvista, abbandonandosi all'immaginazione.
Avrebbero guardato noi, questa volta? Cosa avrebbero sussurrato fra i corridoi, o nei bagni, quando le suore non possono sentire ed i bisbigli sono liberi di perdersi nel silenzio? Cos'avrebbero pensato le ragazze sconosciute che ogni mattino ci incrociavano, salutandoci e sperando anche solo in un nostro sguardo, di Rosa Chinensis e Rosa Gigantea?

Noi... che pensiero strano, che idea proibita e seducente. Mi tornò in mente Shiori e, con lei, lo sguardo con cui l'avevi guardata, ogni singola volta.
Guardai i tuoi occhi che mi guardavano, guardai la mia immagine impressa nelle tue pupille, nel tuo sguardo fisso su di me. Un confronto di qualunque tipo non era nemmeno immaginabile. Tornarono ad infiammarsi la rabbia e il dolore, come il grido di un mostro appena liberato da catene millenarie.


Non ti volevo, non così. Mi dovevi troppo, e dovevo ancora farti pagare ogni cosa.

Con secca decisione le mie mani scostarono le tue, allontanandole da me.


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Capitolo 10
*** IX - Tempesta d'Intenti ***


Riflessi - Tempesta d'Intenti 11 Maggio 2008: corretta e sostituita la versione precedente con quella attuale. Riflessi capitolo IX: Tempesta d'Intenti, versione 1.2.





[ Riflessi - Youko x Sei ]


IX

Tempesta d'Intenti



Quando con visibile preoccupazione mi domandasti più volte se mi sentissi bene, offrendoti addirittura di prenderti cura di me, riuscisti a spingere i limiti del mio autocontrollo ad orizzonti che non avevo mai nemmeno immaginato. Non so come feci a non insultarti, a mantenere la voce bassa ed i modi dignitosi. Non so in virtù di quale strano stato mentale riuscii a trattenere ogni segno visibile di quella rabbia che, frase dopo frase, montava rapidamente dentro di me. Quel è certo era che ai germogli della primavera dei miei sedici anni avevo ormai raggiunto la piena maturità nell'arte della conversazione e della dissimulazione; misi tutta me stessa nel tentativo di non dare in escandescenze e liberarmi di te il prima possibile.

Dovetti ripeterti che era tutto a posto talmente tante volte che mi seccai persino di sentire la mia voce ribadire quel concetto. Mi costrinsi a dire che stavo benissimo, benché segretamente la mia caviglia ormai dolesse terribilmente, e arrivai persino a sforzarmi di camminare normalmente pur di allontanarti per poter finalmente poi lasciare anche io quel luogo, che ormai ai miei occhi aveva assunto i connotati di un incubo.
Mi sentivo quasi bruciare sul viso lo schiaffo che avevi appena dato al mio spirito.

Non appena riuscii a farti allontanare, nulla mi avrebbe potuto convincere a rimanere laggiù un solo secondo oltre. Zoppicando vistosamente, con il peso tutto caricato su una gamba, mi precipitai all'uscita secondaria dal lato opposto del teatro.

Sotto la luce del sole mi abbandonai contro il muro esterno del club, ancora sconvolta da quel che era accaduto. Era ridicolo che tu, che mi avevi scansata così a lungo senza il benché minimo rispetto per la mia persona, senza la benché minima spiegazione, ti fossi preoccupata tanto per il mio stato di salute. Ed era ridicolo che io ti avessi scacciata, ma ancor più era ridicolo il fatto che ti avessi lasciata andar via impunemente, benché avessi così tante volte pensato a tutto quel che avrei voluto fare non appena ti avessi avuta di fronte!


Tutte le mie maschere erano crollate, i miei propositi stracciati, i miei piani si erano sciolti come cera al sole. Mi domandai come avrei fatto a guardarmi allo specchio, quella sera stessa prima di andare a dormire, e con quali occhi avrei affrontato la realtà della sconfitta. Ero ancora così immatura, così pronta a lasciarmi trascinare dai sentimenti; e non mi sapevo spiegare come avessi fatto a non rendermene conto sino a quel momento.


Quella sera, in realtà, non avvenne nulla di quel che avevo preventivato. L'angoscia scomparve piano piano in quelle ore e, dopo cena, mentre mi preparavo a dormire un inusuale stato di lucidità mi aiutò a mettere in ordine i pensieri. Ripassai nella mente cos'era accaduto nel pomeriggio, valutai quali emozioni mi avevano alternativamente attraversata, cercai di ricordare cos'avevo pensato, e quando.

Alla fine, immersa forse già per metà nel sonno, conclusi che in fondo non era colpa tua se per te, e con te, sarei stata sempre e solo un rimpiazzo. Non era colpa tua se il mio orgoglio era talmente forte da impedirmi di perdere. Ti conoscevo fin troppo bene ormai, e mi rendevo conto che tu, forse più di me, non eri stata altro che una vittima degli eventi che ti erano rovinati addosso. Ed ancora, in quel momento pativi la pena di essere scivolata in mezzo a tutto quel che era accaduto, eventi che ti avevano risucchiato senza che probabilmente te ne rendessi nemmeno conto.

Mentre scivolavo nel sonno, giunsi alla conclusione che capivo alla perfezione le tue motivazioni e che erano giuste, dal tuo punto di vista. Ed io non potevo non condividerle, per quanto poi tirassero in mezzo anche me. Per quanto, poi, in fondo fossi io quella che soffriva.

Mi addormentai pesantemente, e per la prima notte da molto tempo non sognai nulla.



***



Se si dovesse domandare a Eriko o a Rei come trascorsi i giorni successivi, mi dipingerebbero come una Rosa Chinensis dispiaciuta, leggermente insofferente all'idea di un'inerzia forzata e di dover essere costretta a farsi aiutare per riuscire a svolgere appieno i suoi doveri. In quel periodo erano perlopiù concentrate su loro stesse e sulle loro nuove responsabilità; non saprebbero aggiungere molto altro.

Ma la stessa Sachiko, che pure invece proprio perché stavo male investì grandi energie ed attenzioni nei miei confronti, non potrebbe dire granché di più. Nemmeno lei saprebbe parlare di un vero e proprio termine di quel mio stato d'animo, di un dato momento, di un limite preciso. Prima il dover star ferma ad ogni costo mi infastidiva, poi tutto finì. Avrà pensato mi fosse passato il male, com'era in fondo naturale che facesse.

No, nessuna di loro saprebbe dire esattamente quando, o per quale motivo la mia apparente irritazione scomparve, lasciando il posto ad un nuovo stato di intensa, ordinatissima, esagerata attività. Nessuna di loro era lì mentre quel pomeriggio, quando ormai la mia caviglia era quasi guarita e potevo salire le scale da sola, aprii la porta della Casa delle Rose. E ti trovai lassù.


Sedevi sul davanzale interno della finestra - la mia finesta - leggermente di tre quarti, con la gonna scura convenientemente lunga abbastanza da arrivare a coprirti le caviglie. Fra le mani sorreggevi una tazza di the, come se essere lì, in quel momento, fosse stata la cosa più naturale del mondo. Come se fossi stata presente in quel punto ogni giorno, da sempre e per sempre, ad aspettarmi. Con assoluta pacatezza guardavi al di là dei vetri, come avevo fatto così tante volte io, durante quei lunghissimi mesi. Cercandoti, senza mai riuscire a trovarti.

Ed in quel momento, tu eri lì. D'improvviso l'ombra si era materializzata, con un impatto tale che dimenticai quel che era accaduto a teatro, e mi sembrò di vederti per la prima volta da quella notte in cui il tuo sogno con Shiori si era infranto. Potevo guardarti, potevo quasi toccarti ed era tutto così semplice, così banalmente semplice, da lasciarmi senza fiato. Ed era bello, andava bene così. Semplicemente noi, come se non fosse mai accaduto nient'altro.

Ritornò ad aleggiarmi nella mente il pensiero che avevo formulato quella notte, la concezione che alla fine dei conti ci eravamo trovate come pedine in un gioco spietato, molto più grande di noi. E provai pena, per me e per te, che avevamo rincorso a tal punto i nostri desideri da lasciarci quasi schiacciare dal loro peso.


Sarebbe bello se ogni emozione potesse esprimersi nella sua più totale purezza, come un cristallo inondato dalla luce che estenda i suoi fulgidi raggi in ogni direzione, senza la titubanza e la paura che sempre accompagna lo svelarsi di quel che serbiamo presso il nostro cuore. Ancor più, sarebbe bello che ogni sguardo potesse apprezzare la delicatezza di emozioni così grandi, e che ogni cuore potesse battere all'unisono, con lo stesso ritmo e la stessa potenza, perché ogni sentimento possa essere ricambiato.
Purtroppo, nella vita le cose non vanno mai così. Ma se si può fare una colpa del far appositamente male a qualcuno, l'errare come ciechi ed il reciproco ferirsi sono disgrazie della natura umana. Ed io sentii in quel momento che la tragedia che ci aveva accumunate si era compiuta, e che il massimo dolore era ormai trascorso. Da quel punto in poi, mi dissi, avrei potuto iniziare la risalita.
Da quel punto in poi, forse, avrei potuto iniziare a perdonarti.

Presi un profondo respiro, perché mai avrei pensato di incontrarti lì, in quella maniera. E dolcemente spinsi la porta in avanti, pronta ad entrare nella sala principale della Casa delle Rose.
Tu, allertata da quel rumore, risollevasti lo sguardo su di me. E in quei tuoi occhi di cielo, sebbene non ne fossi sicura, per la prima volta mi parve di vedere il riflesso della mia figura.


- Ah, Youko-san. Ti attendevo, il the è pronto.


Ti vidi tendermi la tazza che sorreggevi fra le mani, con un gesto quieto ed elegante, quasi al rallentatore. E sorridevi. Con una semplicità disarmante tu mi guardavi diretta negli occhi, accogliendomi nella Casa delle Rose.
Il tuo sguardo limpido e il tuo sorriso, come il più dolce premio per essere ritornata a casa. Tanto bastò a togliermi le parole, a cancellare ogni mio pensiero, con un solo colpo di spugna. Con assoluta meraviglia, mi ritrovai immobile, a fissarti, con addosso una sensazione di incredibile sollievo.


- Qualcosa non va, Youko-san? E' buono, te lo assicuro!


Presa in contropiede, ancora non riuscivo a capacitarmi di quell'improvvisa leggerezza, quel calore inverosimile che mi si era acceso nel petto all'apparire di quel tuo sorriso. Scolpita sul viso, la mia espressione doveva stare rispecchiando tutto il mio sconcerto. Non riuscii a distogliere lo sguardo mentre scendevi dal davanzale, e rivolgendomi un'occhiata divertita ti avvicinavi a me, sorreggendo la tazza fumante.

Mi ritrovai a balbettare qualche scusa incoerente, accettando il tuo invito ad accomodarmi come se io fossi stata l'ospite, e tu quella che per settimane e settimane si era presa cura di quel luogo, in attesa del mio ritorno. Era tutto così irreale da sembrare quasi logico, e per qualche attimo mi ritrovai a dimenticare tutti gli avvenimenti di quell'ultimo periodo. C'eri tu, c'ero io, c'era una tazza di the fumante. Ed era una sensazione così piacevole che decisi di abbandonarmici. Noi due, sole, e basta.

O almeno, questo era ciò di cui volevo convincermi. In quel luogo senza tempo forse poteva a prima vista sembrarmi possibile che tutto potesse ritornare a mesi e mesi prima, e potesse riscriversi la storia sino a portarci ad essere di nuovo vicine, così come non lo eravamo state mai. Ma strisciando sotto i nostri discorsi un sussurro sottile mi ripeteva incessantemente, nei recessi dell'anima, che non era così. Che tutto era sbagliato, e che persino nelle pause fra le singole parole si celava la promessa di un silenzio molto più pesante e profondo, abissale. La voragine aperta fra noi, in realtà, non poteva chiudersi con tale semplicità.

Parlammo, attraverso i fumi del the, di tutto e di nulla, senza ricercare argomenti particolari. La nostra era una quiete destinata a durare poco, ne ero perfettamente consapevole, ma mi volli godere fino all'ultima goccia quella parentesi di quiete, quell'assaggio della vita che non avremmo mai vissuto. Nel momento in cui avrei finalmente dato ascolto alla voce che mi torturava, ricacciata di respiro in respiro nelle profondità della mia mente, avremmo dovuto affrontare la montagna cui stavamo girando intorno, gradualmente sempre più vicine.
Quando ormai la mia tazza era vuota, calò infine il promesso silenzio. E non mi seppi trattenere oltre.


- Cosa ci fai qui, Sei-san?


Così come esagerata ormai era usualmente ogni tua reazione, anche quella volta non lo fu da meno. Mi guardasti come se ti avessi chiesto di introdurre nella scuola un alcoolico; con quel tuo misto di sorpresa e di sfida che mi faceva sempre pensare stessi davvero riflettendo sulla possibilità di accettare una proposta così pazzesca. Poi sfoderasti un sorriso smagliante e mi rispondesti con tutta calma, come se quella fosse la replica assolutamente più logica di tutte.

Non saprei dire quali fossero le mie aspettative, allora. Potevano esserci mille motivi per giustificare la tua presenza lì. Avresti potuto presentarti apposta per rendere il rosario a Rosa Gigantea, per esempio. Oppure, potevi aver deciso di fare qualcosa di strano e recarti alla Casa delle Rose, giusto per noia. In realtà, probabilmente non mi interessava nemmeno saperlo. In profondità sapevo solo che, al di là di tutto, non era corretto che tu fossi lì. Avrei voluto dimenticare, avrei voluto disperatamente aggrapparmi a quell'illusione di serenità che per qualche minuto aveva riempito il mio cuore avvicinando noi due, anche se per finta. Avrei voluto che tutto rimanesse così, per sempre.
Ma il mio senso di giustizia non poteva eclissarsi a lungo, e tornò prepotentemente a galla portando con sè tutti i ricordi di quanto era accaduto negli ultimi mesi. A malincuore dovetti ammettere che nulla era stato risolto, e che avresti dovuto essere al di fuori di quella casa, che ormai non ti apparteneva più.

Perché quella era la mia casa, ed io non ti appartenevo più.

Per quanto la mia fosse solamente una domanda tesa in modo mirato a sollevare il problema di cui discutere, a far partire il litigio che ti avrebbe portata ad andartene di lì per sempre; per quanto mi dispiacesse, e per quanto non mi attendessi nessuna risposta in particolare, la tua replica mi spiazzò completamente.


- Sono qui per te, naturalmente. Come va la caviglia?


Te n'eri ricordata.

Te n'eri ricordata, ti era preoccupata, ed eri venuta fin lì per me.
Mi avevi aspettata, mi avevi preparato il the, e... No, era troppo. Appoggiai le mani sul tavolo e mi risollevai in piedi, intenzionata ad andarmene il prima possibile.

Ti voltai le spalle e, senza una sola parola, mi avventai in direzione della porta. Avevo fatto di tutto per capire la tua posizione e perdonarti, ma dopo tutto quel che era successo, dopo tutte le speranze che eri riuscita ad infrangere, una risposta simile era una vera e propria presa in giro. Non l'accettavo, non questa volta. Avevo già subito lo scotto di avvicinarmi troppo a Satou Sei, e l'avevo pagato attraverso moti violenti del cuore, e sofferenze che prima non avevo nemmeno mai immaginato. Poi avevo cercato di uscirne, di arrampicarmi verso la sommità del pozzo in cui tu mi avevi scagliata. Ma questo andava oltre ogni limite. Era abbastanza, ne avevo abbastanza. Delle gelosie, dei sogni ad occhi aperti, degli inseguimenti, di tutto. Del dolore. Di te. Realizzai in quel preciso istante che non avrei mai, mai potuto essere serena al tuo fianco.

Ero ormai quasi prossima all'uscio quando la tua mano mi afferrò per il polso, e con un movimento rapido mi attirasti a te, tirandomi indietro.
Eri forte, dannazione.

Tentai di respingerti, strattonando la mano, ma l'altro tuo braccio, fulmineo, era già calato all'altezza della mia vita a stringermi in un mezzo abbraccio ninja di quelli tuoi soliti, da dietro. La spinta del tuo corpo contro la mia schiena, il tuo calore così improvviso mi paralizzarono per qualche momento, inibendo ogni mia risposta com'era già avvenuto tempo prima, in quell'assurdo pomeriggio al Club di Teatro. Indescrivibile come un minimo contatto con la tua pelle sappia mettere a soqquadro i miei pensieri, riuscii a considerare sfocatamente mentre rabbrividivo. Un attimo più tardi condotta dalla pressione delle tue dita sul mio braccio una serie di ricordi mi attraversò la mente, e si scardinò completamente la porta dei ricordi proibiti; affiorò allora alla mia consapevolezza, con impietosa lucidità, quanto a lungo avessi voluto quel contatto, o avessi sognato anche solo la possibilità di sfiorarti. E come avessi smentito e negato poi categoricamente quei miei stessi segreti desideri, censurandoli in profondità.
Smisi di agitarmi, crollando la mano al mio fianco ed arrendendomi al peso di una rivelazione folgorante, dal peso insostenibile. In un angolo remoto della mia mente confinai le rimostranze di quel leone che era già stato domato, giustificandomi con il pensiero che, anche volendoti rifiutare, non sarei comunque riuscita a liberarmi da quella stretta.


- Questo cos… -

- Non andare.


Mi zittii nuovamente, docile nel tuo saldo abbraccio. In quel momento, pensai, avrei fatto qualunque cosa mi avresti chiesto pur di poter rimanere così. Abbandonata al languore che aveva risvegliato quella catena di memorie, schiacciata da una consapevolezza che freneticamente, istante dopo istante, prendeva vita dentro di me, in una morsa dolorosa che andava stringendosi intorno al cuore sempre più, dal momento in cui le tue braccia si erano allacciate intorno a me.
Se solo non fosse stato così amaramente piacevole...


Voglio... voglio solo spiegarmi, va bene?


Non avevo più forze, né volontà, per ribellarmi. Avresti potuto plasmarmi come plastilina con le dita, se solo avessi voluto farlo. Il mio cuore perse un colpo quando avvertii una nuova insicurezza in quel tuo tono, una nota di timidezza che portava con sé il profumo della Sei che avevo conosciuto, e che quella notte di neve e di lacrime mi aveva portato via mesi prima.
La nostalgia di quel ricordo mi invase, e non seppi - non volli opporre resistenza.


Mi avevi fatto male, Sei. Mi avevi fatto male da morire.
Male da terminare il fiato in urla che non avevo mai espresso, male da rompermi le dita a dare pugni che non avevo mai tirato. Male da diventare un'ossessione, male da infestare ogni mio sogno, ogni mia notte, male da confonderti con ogni ombra sul mio cammino. Male da trasformarti nell'aria e poi tremendamente allontanarti, ed in quell'assenza comunque non sparire mai del tutto; non uccidermi, tormentandomi in un doloroso boccheggiare, facendomi annaspare fra mezzi soffi che non sarebbero mai valsi un vero respiro.
Male da farmi rantolare giorno dopo giorno alla ricerca di te attraverso i giardini del Lillian, come se perduta in un deserto troppo vasto da potersi attraversare così, vagando a piedi, affondando passo dopo passo in una sabbia arida e caldissima. Bisognosa di una sola, anche di una sola, piccola, infinitesimale goccia d'acqua.

Ti eri trasformata, ti eri nascosta, avevi giocato a far finta non fossi mai esistita ed alla fine eravamo di nuovo lì, tu ed io, come se non fosse accaduto nulla ed il cerchio del destino si fosse chiuso in quel momento, per poi ricominciare il giro della sua danza.

Se c'era la possibilità di dare un nuovo inizio a noi, conclusi, non mi sarei rifiutata di affrontarla.


Nonostante la mia risoluzione, avevo paura. Eri riuscita a scuotere il mio sistema a tal punto da farlo barcollare terribilmente, eri stata capace di penetrare sottilmente nei miei pensieri sino a prenderne possesso e, con essi, fare tua anche me stessa. Mi avevi spinta fino al mio limite, ed eri ancora così vicina da risultare pericolosa. Avevo amato la tua solitudine e la tua fragilità, senza rendermi conto che nel frattempo stavi minando la mia sicurezza.

Ma, in fondo, andava bene anche così.

Non era importante cosa si sarebbe aperto da quel momento in poi, ma chi avrei voluto essere, e quali forme avrei voluto dare al mio futuro. Qui non si parlava più di Yamayurikai, né di boutons, né di impegni o di fede. Si parlava, finalmente, solo di Mizuno Youko. E di quanto sarebbe riuscita ad osare, ed a tendere la mano verso Satou Sei.

Avvertii la mia gola chiudersi, anticipando un'ondata di timore che mi colse come un brivido lungo la spina dorsale. Non sapevo se sarei riuscita a resistere, questa volta.
La tua voce prese vita soffiando leggermente sul mio orecchio, calda e bassa e solcata dalla nota di dispiacere più puro avessi sentito in te, da lungo tempo a quella parte. Mi riportò ancora una volta indietro ai sapori di quella notte, al gelido profumo della neve che ci sfiorava il viso ed al tuo braccio, pesante, intorno alle mie spalle. Mi imposi di controllare il respiro, frenetico per l'agitazione.


- Mi dispiace, Youko-san. Io- io non ci riesco, lo vedi che non ci riesco? Non mi odiare, se puoi, ti prego, non mi odiare. Io non sono come te, non sono fatta per questo, capisci? Per questa casa, per questo the, per... per queste cose. Non lo so cosa Rosa Gigantea ha visto in me, ma...-


Basita. Dopo solo poche parole mi ritrovai basita, sconvolta dall'orrore, dall'ira, dall'orgoglio che prese a ruggire furibondo in me. Come osavi permetterti di ritirarti, ora che ti avevo fra le mie mani, così stretta a me? Come osavi scappare dopo tutto quel che mi avevi fatto penare, dopo tutto il dolore e l'impegno, e la rabbia e l'ostinazione che avevo dovuto impiegare per starti dietro?
Ma soprattutto, come osavi sottovalutarti a quel punto, come osavi tu, ammirata ormai da tutti, credere di essere in diritto di giudicarti meglio di chiunque altro, scappando così - codarda! - dall'unico legame ci fosse ancora fra noi?

Non so cosa mi prese allora, cosa mi fece scattare in maniera così immediata da interromperti con un grido - oh, come fui avventata! - e poi riscoprirmi nemmeno io so come lontana da te, con i segni bianchi delle tue mani sulle mie braccia. Spinta dall'onda della rabbia e dello sconcerto, intenta a sbatterti addosso tutte le mie ragioni. Nel mio cuore si dibatteva furibonda l'esigenza di gettarti in faccia tutto quello che pensavo, tutto quello che avevo provato in quei mesi in cui tu, e solamente tu avevi rappresentato il mio incubo più ricorrente. Non feci nulla per trattenermi.


Alzai la voce e cercai di colpirti senza alcun ritegno, chiarendo quanto ognuna di noi avesse creduto in te, avesse sofferto con te, ti fosse stata vicina con il cuore e con la mente. E ancor più, ti rivelai quanto di buon grado avremmo tutte noi accolto Shiori nello Yamayurikai - sì, osai scandire il nome proibito, incurante della situazione - e di quanto avessimo lavorato per favorire il vostro avvicinamento. Stupidamente, aggiunsi, perché quel che in cambio tu avevi fatto, quel che mi avevi fatto, era stato terribile.

E non mi resi conto di come cambiasse il tuo sguardo mentre continuavo a strepitare; man mano che la verità veniva a galla si faceva in me sempre più imperativo il bisogno di liberarmi di quel male che gravava nel centro del mio petto, il bisogno di scaricare su qualcuno, su di te, tutto il mio fardello. Non c'era più spazio per i silenzi, non c'era più spazio per le bugie. Così ti descrissi senza pietà quanto fosse mancata la tua presenza, in quali e quante forme ti avessi cercata lungo quei mesi e come avessi sofferto per il tuo totale disinteresse nei miei e nei nostri confronti. E per come avessi calpestato i miei sentimenti.
Mano a mano che parlavo il mio cuore ammarò in un sollievo crescente, librandosi nei cieli tempestosi dell'irritazione. Mi lasciai andare completamente e fra le mie labbra scivolarono i miei più inconfessabili segreti, cavalcando l'onda d'ira e di giustizia che quel tuo mormorio aveva scatenato. Ed il concedermi dopo tanto tempo la libertà di parlare come credevo fermamente non avrei fatto mai, a ruota libera e senza nascondere nulla, mi inebriò a tal punto che quando quel momento iniziò a trascorrere e mi accorsi di quel che le mie labbra stavano pronunciando, qualcosa dentro di me si raggelò.

Non avevo idea di come potesse essere accaduto, ma mi resi conto d'improvviso di quel che ti stavo dicendo, e di quanto orrendamente fosse vicina la linea da non oltrepassare. Mi accorsi che era terribilmente tardi, e che la mia sopravvivenza era in serio pericolo. Stavo rischiando di andare a sbattere per l'ennesima volta contro il muro chiamato Satou Sei, e se c'era ancora un minimo di faccia da salvare, un minimo di situazione da giustificare con qualche scusa improvvisata, dovevo intervenire all'istante. Qualcosa urlò dentro di me.
La mia ragione con una frustata violenta tirò disperatamente il pedale del freno, cercando di zittire la lingua troppo veloce, e sperando di fare in tempo prima di schiantarmi.


- ED E' PER TUTTI QUESTI MOTIVI CHE IO TI...


Scansai il muro per un soffio.


- ... dico che non posso capire perché ti sottovaluti così.


Quando la mia voce si spense avevo la gola in fiamme e mi sentivo tremare dalla testa ai piedi. Speravo di avercela fatta, cercai il tuo sguardo con urgenza. I tuoi occhi mi fissavano, sgomenti, e considerai che probabilmente sarei svenuta di lì a poco.
Non riuscivo nemmeno ad abbassare lo sguardo, tale era la consapevolezza di quel che avevo fatto. E in quel lungo momento di silenzio il dubbio che tu non avessi colto o che non avessi capito si insinuarono in me, speranzosamente. Pregai con tutta me stessa Maria-Sama mentre ti guardavo, e d'un tratto - rendendomi conto della situazione - avvertii una vampata di vergogna infuocare le mie guance e finalmente rivolsi gli occhi al suolo.

Una voce soffocata dentro di me mi disse che avevo bisogno di prepararmi alla tua replica, ma fui incapace anche solo di ripensare a quello che avevo avuto il coraggio di dire, sebbene non avessi concluso quello sbotto con la frase che avrebbe coronato il tutto, rovinandomi definitivamente. Agitandomi in un pozzo di disperazione provai a dirmi che c'era ancora speranza, ma la mia voce non risultò convincente nemmeno alle mie orecchie.

Mi sentivo fragile come una rosa pronta ad essere spezzata dalla zampata della tigre, ma non era più in mio potere la possibilità di fare nulla. Potevo solo attendere e sperare, e preparare una scusa degna di questo nome, qualcosa che mistificasse e giustificasse quel che avevo detto solo pochi istanti prima, per far sì che ogni cosa potesse riprendere esattamente così com'era stata fino a quel momento. L'avrei fatto, se solo fossi riuscita a pensare a qualsiasi cosa oltre a quanto fervidamente sperassi che tu non avessi capito nulla. Così rimasi lì a fissare il pavimento, ammutolita. Anche il tentativo di ricapitolare quel che avessi detto, per mettere in ordine i pensieri, fallì. Nella mia mente c'era un enorme schermo bianco, che nulla riusciva a trapassare. Ero completamente sorda e cieca.
Riuscì a venirmi in mente solo il fatto che avevo gridato cose che non avrei mai dovuto osare, e che avevo mal di gola perché avevo alzato la voce. Pregai che tu pensassi che ero impazzita.


Il bianco silenzio mi sembrò non voler finire mai.
Sembrò volermi inghiottire. Volermi annullare. Voler cancellare ogni cosa, comprese me e te.


Poi tu abbassasti lo sguardo, e fu come se un sipario nero fosse calato bruscamente fra noi. E mentre il mio cuore riprendeva vita in battiti scomposti, che mi risuonavano nelle tempie come tamburi impazziti, tu come un'ombra schiacciata dal sopraggiungere della notte uscisti in silenzio dalla Casa delle Rose lasciandomi da sola, con due tazze sul tavolo.


Vuote.


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Capitolo 11
*** X - Controvento ***


Riflessi - Controvento

[ Riflessi - Youko x Sei ]


X

Controvento



Quella sera, a casa, spalancai le finestre della mia stanza ed inspirai a fondo l'aria fresca della notte. Il cielo si era fatto limpido e un'aria tagliente spazzava le strade; dall'alto, le stelle mi guardavano.

Rabbrividendo chiusi gli occhi, stremata. Come un guerriero al termine della battaglia più lunga della sua vita, sentivo di aver superato un punto importante, e di essere in qualche modo sopravvissuta. Sì, ma a quale prezzo? Avvertivo sul fondo del cuore una scintilla inattesa, strana, che assomigliava quasi ad un leggero strato di serenità soverchiato da un mare nero di amarezza, nel quale mi sentivo sprofondare momento dopo momento. Era come se in una sfida avessi perso con un lancio ogni cosa e mi trovassi ancora stordita dall'entità dell'accaduto, nell'istante che precede il baratro, quando ci si spinge in avanti e sembra quasi di volare e guardando in basso si inizia poi a cadere giù. Non avevo più nulla fra le mani, persino i miei sogni erano infranti. Su tutti i fronti, Satou Sei mi aveva sconfitta. Avevo voglia di piangere e l'avrei fatto se solo ci fossi riuscita, ma i miei occhi erano secchi come deserti, come se il pianto del mio cuore avesse esaurito anche le mie lacrime. Il macigno che mi pesava sul petto non avrebbe trovato sfogo né via d'uscita, ed in fondo non meritavo nè l'uno nè l'altra. Cos'avevi fatto, Youko?

Quella storia era finita definitivamente, ormai.. L'ultimo atto si era compiuto, avevo fatto quel che dovevo fare e dentro di me, da qualche parte, si agitava una piccola Youko rigida e integerrima, espressamente soddisfatta di quel che avevo compiuto. Avevo posto fine ad un anno di sofferenze con soli due minuti di libertà.

Solo due minuti. Mi maledii appoggiandomi mestamente contro il davanzale, ed avvertii lo sconforto ingigantirsi dentro di me cancellando quella perfetta, piccola Youko e la sua dannata soddisfazione. Non c'era niente di cui essere soddisfatti, da nessuna parte; e più ci pensavo, più profondo si faceva il gorgo dei pensieri, che riportavano incessantemente alla mia coscienza immagini di quel poco che ricordassi della scenata furibonda che ti avevo fatto. Per una cosa simile, la feroce vergogna che provavo già di mio non era abbastanza. Ti avevo scacciata, pregata, tradita rivelando quel che ero stata abile a trattenere in me fino a quell'istante, e che se non fosse stato per la mia debolezza non sarebbe mai venuto a galla.
Quella storia era finita definitivamente, ormai. E tu non saresti mai ricomparsa, oltre quelle finestre.


Rientrando mi accorsi che non avevo voglia di respirare. Mi stesi sul letto con gli occhi chiusi, e mentre soffocavo il respiro nel mio futon fui subitaneamente invasa dall'idea di sprofondare in un pozzo nero, nel quale il mio dolore potesse perdersi, o amplificarsi fino a schiacciarmi con la sua pesantezza. Dapprima piano, con delicatezza. Poi, sempre più grevemente, precipitare.

Non so quando la mia immaginazione si mescolò al sogno, o se furono i pensieri a guidarmi fino all'ultimo. Ma quella notte mi parve di affondare nel ventre della terra senza la possibilità di tornare indietro, a corpo libero, trascinata sempre più in basso da un'impietosa, inverosimile forza di gravità.

Poi, ricordo con vividezza la luce sopra la mia testa allontanarsi sempre più ed il tuo viso affacciato a quel buco, chilometri e vite intere più in alto. Le forme del tuo volto, i suoi colori che si facevano ombra, che si confondevano con i margini del pozzo. Tendevo disperatamente la mano verso quell'unica stilla di luce bionda, verso di te, e poi il buio mi inghiottiva inesorabilmente.
Ed io soffrivo, ma nei recessi della mia anima una parte di me - quella che cercava espiazione - era quasi soddisfatta di come quel peso mi spingesse sempre più in basso, sempre più in basso senza darmi la minima possibilità di fermarmi.

Sarei morta schiacciata dal carico irrespirabile della terra, racchiuso nel mio petto, fuori e dentro di me.


Quando mi svegliai il mattino seguente, il primo sole tiepido di inizio marzo filtrava dalle mie finestre, quasi accecandomi. Ancora intontita dal sonno, cercai con lo sguardo la divisa del Lillian appesa all'armadio di fronte al mio letto, pronta ad essere indossata, e mi sentii ancora una volta soverchiare da quel tormento.
Per qualche attimo ebbi la tentazione di non farlo. Scomparire per qualche tempo, tenermi lontana dall'Istituto e da tutto quello che avesse in quei mesi fatto da sfondo alla tua figura mi avrebbe aiutata a ricomporre i cocci del mio spirito, andato in frantumi al tuo passaggio. Una simile assenza sarebbe stata difficile da giustificare ed avrebbe creato problemi alla mia immagine, ma in profondità non mi sentivo pronta a subire un'altra ferita. Avevo paura che anche solo il prossimo alito di vento avrebbe potuto uccidermi.

Mi ero quasi convinta che l'idea fosse buona ed attuabile, la migliore e più elegante via d'uscita per ritirarsi dalla battaglia. Ed ero pronta a fingere un malore di qualsiasi tipo, che stavo già pianificando in base a quanto tempo credessi di avere bisogno per ricomporre la mia identità. Poi d'un tratto la figura di Sachiko mi attraversò la mente, fermando ogni altro mio pensiero.

E decisi di alzarmi.


Non era ancora il momento di tirarmi indietro, non potevo ancora permettermelo. Avrei dovuto stringere i denti e resistere per qualche tempo ancora, giusto quel che mancava a che Sachiko divenisse pronta.
Allora, finalmente sarei stata libera di scegliere.


Quando in classe constatai che non c'eri non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo. Avvertii nitidamente sciogliersi nel mio petto un groppo di tensione che avevo accumulato senza accorgermene, e mi resi conto che avevo avuto molta più paura di incontrarti di quanto non avessi pensato inizialmente.
La tua assenza mi fece da balsamo, riuscendo a darmi un'iniezione di fiducia. La giornata era bella e c'era molto da fare, sui ciliegi si intravedevano le gemme che sarebbero sbocciate presto in fiori. Iniziai a recuperare coraggio dicendomi che, dopotutto, in fondo le cose non potevano essere drammatiche come avevo pensato.

La presenza della mia petite-soeur sembrò spalancare le oscurità del mio cuore. Una nuova forza riprese a scorrere gradualmente dentro di me, risaldando le mie convinzioni e dandomi nuova energia per procedere. No, le cose certamente non andavano bene. Ma decisi che non mi sarei fermata per così poco, non avrei abbandonato chi credeva in me per così poco.
Inoltre, nel caso in cui la situazione si fosse fatta estrema ed avessi sentito il bisogno di non vederti non ci sarebbero stati poi troppi problemi, riflettei. Sarebbe bastato fare un po' di attenzione; se incontrarti era stato complicato quando ti avevo cercata attivamente, evitarti non si sarebbe rivelata poi una missione così impossibile, no?

La lontananza ci avrebbe dato modo di leccarci le ferite, ognuna sola nella sua tana. E, una volta guarite, un giorno forse saremmo riuscite nuovamente a stare insieme nella stessa stanza senza divenire preda delle violente emozioni che, positive o negative che fossero, ci avevano trascinate sino a quel momento.


La sorpresa giunse inattesa non appena aprii la porta della sala delle riunioni, trovando te seduta al tavolo come se nulla fosse, intenta a leggere un manoscritto. Così, un solo sguardo fu abbastanza perché s'incrinasse la mia rinnovata sicurezza, infrangendosi in un'esplosione nel centro del mio petto. Avrei voluto voltarmi e tornare indietro, repentinamente, ma il tuo sorriso mi inchiodò al suolo non appena sollevasti lo sguardo, direttamente al mio ingresso in quella stanza. Non c'erano vie di fuga.


Ah, gokigenyou. Rosa Foetida ed io vi stavamo aspettando. Avete visto Rei?


Allargai lo sguardo e mi resi conto solo in quel momento della presenza della Rosa Gialla, seduta a capotavola. Sachiko mi cercò con gli occhi, interrogativa. Lo faceva sempre per domandarmi se fosse il caso di preparare del the, ed io le annuii leggermente, osservandola. Non sembrava minimamente turbata dalla tua presenza, come se trovarti in quel luogo fosse la cosa più logica e naturale del mondo.
Lo stesso non valeva per me, ma effettivamente forse era stato pretendere troppo il cercare segni di particolare stupore nella mia petite soeur, che quando voleva sapeva perfettamente come dissimulare le sue emozioni.
D'altronde aveva avuto in me un'otima maestra. Decisi che era il caso di fare lo stesso e di non dar luogo a inopportune scenate. Mi avvicinai quindi al tavolo fissando la tovaglia ricamata, facendo di tutto per non guardarti. Non dovevi esserci ed io non potevo vederti.
Temporeggiando, presi posto con tutta calma prima di trovare il fiato per rispondere.


No, non mi è parso di vedere Rosa Foetida en bouton. Ma mi sembra che a quest'ora abbia il suo usuale allenamento di Kendo. Perché?


Pronunciando quella domanda finale sollevai lo sguardo su Eriko, riferendomi a lei come avevo sempre fatto. Non avevo idea di perché steste cercando Rei, né mi interessava sapere cosa aveste discusso prima del mio arrivo, ma con quella abile domanda me ne sarei fatta un'idea seppur vaga. Mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa, qualsiasi spunto; mi interessava solamente monopolizzare il discorso, magari immettendomi in una qualche discussione con Eriko che tu non potessi capire; qualsiasi cosa mi avesse risposto, da quel momento in poi in qualche modo sarei riuscita a zittirti e isolarti completamente, scongiurando il rischio che tu volessi parlare di quel che io non ero minimamente intenzionata ad affrontare - men che meno alla presenza di Rosa Foetida. Non eri sparita fisicamente? Ti avrei cancellata io con il peso della mia dialettica.
Era bene che capissi, finalmente, chi aveva il diritto di partecipare allo Yamayurikai.


Mi aveva detto di avere una buona idea per organizzare la festa di addio delle nostre onee-sama, ma non sono più riuscita a trovarla. Eriko, potevi dirmelo che aveva da fare!


Tu interloquisti di nuovo e non potei non guardarti. Giuro che ti avrei tappato la bocca con i fiori che c'erano sul tavolo e te li avrei fatti mangiare, se solo avessi potuto. Eriko scoppiò a ridere alle tue parole, giustificandosi con quel suo solito modo di fare dolce e tranquillo, e ridacchiaste insieme a lungo, con me che vi fissavo e non riuscivo a credere ai miei occhi. Sembrava come se fossi sua sorella di sangue, e benché sapessi che vi conoscevate da lungo tempo, non riuscivo ugualmente a digerire la situazione.

Le cose non avrebbero dovuto andare così. Lo sapevamo entrambe. Eppure nemmeno l'ilarità sembrava forzata, in quel momento. Era come se magicamente tu fossi riuscita a cambiare tutto.
Strinsi i denti lanciando uno sguardo obliquo a Sachiko, e sperando che si sbrigasse con quel the.


Riprendendo il fiato, Eriko mi allungò quindi un fascicolo di fogli scritti a mano. Sul primo c'era un elenco schematico di numerosi punti che trattavano l'organizzazione della cerimonia: dai diplomi al rinfresco, dal palco al numero possibile di invitati e parenti. Di seguito, sfogliando le pagine si trovava una trattazione ben più ampia di ogni punto accennato, con un'esposizione approfondita e ben studiata di varie cose, fra cui persino una bozza della scaletta che avremmo potuto seguire, con tanto di orari. Gli diedi un'occhiata, notando in ultima pagina addirittura un prototipo del discorso commemorativo che avremmo presumibilmente letto noi Rose. Non riconoscendo la grafia mi domandai chi avesse potuto fare quel lavoro. La voce di Rosa Foetida mi raggiunse un istante dopo, come se avesse sentito i miei pensieri, raggelandomi.


Questo è il progetto preparato da Rosa Gigantea, ne stavamo giusto parlando ora. Non ti sembra che sia un'idea molto valida, Rosa Chinensis?


La guardai, era serena e convinta. Ebbi un attimo di smarrimento, perché non potevo a credere che tutto ciò stesse davvero accadendo. Com'era possibile che tu ti fossi presentata alla Casa delle Rose, e l'avessi fatto - oltretutto - con un progetto completo per una cerimonia da svolgersi entro così breve tempo? Non avendo ancora nemmeno iniziato a pensarci, per colpa degli esami trimestrali che erano caduti così tardi rispetto al solito, la tua proposta giungeva in maniera quantomai provvidenziale. Cercando ingenuamente conferma trovai con lo sguardo il tuo bel viso, i tuoi occhi che sembravano volermi calamitare a te inesorabilmente, e forse li guardai un momento di troppo, domandandomi se avessi davvero fatto tu tutto quel lavoro.


Sotto il severo esame del mio sguardo ti limitasti a sorridere, e io mi sentii morire. Avvertendo il sopravanzare di un'ondata di imbarazzo travolgente tornai a rivolgermi a Eriko. E fu così che iniziammo a discutere, per la prima volta tutte e tre insieme, della cerimonia che avrebbe segnato l'addio delle precedenti Rose alla scuola che le aveva riunite, ed aveva permesso a tutte noi di conoscerci. Qualcosa che da quel giorno sarebbe diventata sempre più una prassi, e sempre più spesso mi sarei trovata da quel momento in poi impossibilitata ad avvicinarmi alle finestre; un po' perché tu ti accomodavi spesso su quei davanzali che nel tempo avevo imparato a considerare miei - ed io ero ben disposta a lasciarteli, se a te faceva piacere la cosa. Ed un po' perché quel che avevo cercato tanto a lungo, come un uccellino ferito aveva inciampato inaspettatamente nella mia casa, e per qualche motivo aveva deciso di rimanere.

Non avevo più bisogno di guardar fuori, quando all'interno di quelle rasicuranti mura il mio sguardo poteva finalmente godere in ogni momento dell'armonia delle tue forme. Il mondo al di là dei vetri aveva terminato la sua attrattiva nel momento stesso in cui avevi messo piede all'interno di quella sala.


Giorno dopo giorno la tua presenza si fece un'abitudine. Mi gettai nelle nostre rinnovate attività con anima e cuore, e lo Yamayurikai finì per riunirsi al completo con naturalezza, trovando intorno a me una sintonia ed una partecipazione che non si erano mai viste nemmeno quando ero stata io il bouton della Rosa Rossa. E se mai avevo pensato che avessi qualcosa di magico, quel che accadde in quei giorni non potè che confermare quella mia prima impressione, dettata forse dal naturale affetto che provavo nei tuoi confronti e che non riuscivo in alcun modo a reprimere. Sembrava che tutto quel che toccavi potesse trasformarsi in un concentrato di entusiasmo.
La mia caviglia guarì rapidamente, il che mi consentì presto di muovermi con maggiore agevolezza. Ogni cosa sembrava essere destinata a raddrizzarsi, e ad andare sempre meglio, con sempre più sicurezza.

O, per meglio dire, quasi ogni cosa.

Sì, perché anche se il problema dell'instabilità del Concilio Studentesco sembrava risolto, anche se lavoravamo sodo e con viva partecipazione, anche se spesso mi cercavi per chiedermi informazioni o anche solo per scherzare, non riuscivo a scacciare la sensazione che quella macchia cupa sullo sfondo del nostro rapporto non si cancellasse. Come l'ombra solitaria di una nuvola errante, sopraggiunta ad oscurare i cristallini riflessi della sabbia, così la tua sagoma si muoveva di fronte a me, foriera di tempesta.

Non volevo quella tempesta. Temevo quella tempesta, ed il momento in cui avrei dovuto affrontarla. Con lei, avrei dovuto affrontare anche i miei sentimenti, che ero riuscita con tale abilità a seppellire per concentrarmi del tutto sui preparativi della festa. Lavorare, e perdersi in quel lavoro, era la via di fuga più semplice: mi impegnava la mente, impedendomi di pensare a te.


Riflettevo su quel pensiero senza riuscire a trovarne il bandolo, rigirandomelo in mente ogni volta che mi perdevo nelle mie elucubrazioni senza mai giungere ad alcun risultato. Lo sentivo, ma non riuscivo a distinguere bene di cosa si trattasse.
Questo fino a quando un giorno non mi resi conto che non appena rimanevamo sole attaccavi piacevolmente a parlare con me, reggendo saldamente le redini della discussione, quasi disperatamente.
Allora mi colpì come un fulmine a ciel sereno la consapevolezza di cosa in quei giorni mi avesse angustiato, e credetti di aver finalmente scoperto cosa mi preoccupasse. Non avevamo mai parlato di quel che era accaduto fra noi. Né nessuna fra noi due aveva mai cercato di introdurre la questione o di - peggio ancora - affrontarla.

In me bruciava ancora vividamente il fuoco della vergogna, sebbene non ricordassi lucidamente cosa fosse accaduto. Non mi sarei mai permessa di entrare in argomento, né avrei saputo forse affrontare il discorso se l'avessi fatto tu. Ugualmente, mi sentii a disagio quando mi accorsi di quale meccanismo guidava le nostre conversazioni, benché tu ed io ci comportassimo come se non fosse mai accaduto nulla e la cosa mi consentisse - una volta compreso che non ne avremmo probabilmente mai più parlato - di scrollare le spalle ed andare avanti come se nulla fosse. Così non andava, decisamente non andava, mi resi conto. E da quel momento in poi non potei più ignorare interrogativi che avevo soffocato a lungo, e che non sarei mai riuscita a sciogliere da sola.

Perché quel nostro incontro era divenuto un tabù? Era così mostruoso quel che avevo detto, o quel che avevo fatto? E tu, tu che non avevi detto niente e mi avevi lasciata in silenzio, senza nemmeno un saluto; tu cos'avevi pensato di tutto quel che, sciaguratamente, ti avevo detto?


Il dubbio iniziò a rodermi dentro, inestricabile, viziando i miei atteggiamenti ed il mio stato d'animo. E benché cercassi di dedicarmi il più possibile ai miei doveri di Rosa ed allo Yamayurikai, qualcosa di quel mio nuovo stato di nervosismo dovette sfuggirmi. Perché altrimenti Sachiko non mi avrebbe mai preso da parte in quel modo ed affrontata con quella durezza, solo poche settimane dopo.
In un altro momento e un'altra situazione non se lo sarebbe mai permessa.






N.d.A: Provo un po' di affetto per Youko, che è abituata a combattere con le armi della conversazione e dell'astuzia, spingendo la gente a comportarsi come lei desidera facendo perno su tutte quelle piccole regole non scritte che permeano la società che la circonda.

Posso capire il suo disagio trovandosi di fronte Sei ed i suoi "americanismi"; una ragazza che rispetta ogni cosa meno che le regole, ancor più quelle invisibili che tengono insieme la società, sfugge inevitabilmente le maglie della rete di Youko.
In realtà, pur senza volerlo è Sei a barare, a tirarsi fuori dal gioco - che invece con altri che rispettano le regole e rimangono entro i limiti del concesso, per esempio Sachiko, diventa quasi una sfida d'arguzia. E' un'esperienza nuova, un capovolgersi del mondo per Youko. Come si può trionfare su un avversario che sembra invincibile e che oltretutto si ribella alle regole?

In un certo senso secondo me la sua strenua resistenza e i suoi reiterati tentativi di giostrare Sei sono dovuti ad una profonda disperazione. Si tratta di rinunciare a sè stessi, iniziando a giocare secondo le regole dell'altro (ed in questo caso significa andare oltre ogni invalicabile limite imposto dalla società) oppure testardamente tentare e ritentare in una maniera un po' da kamikaze, come pare Youko stia facendo, nella speranza che l'espediente miracolosamente funzioni prima di soccombere sotto il peso del dolore.

Che incredibile forza deve possedere, pur con i suoi attimi di fragilità, questa giovane donna.



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Capitolo 12
*** XI - Una Rosa ***


Riflessi - Controvento

[ Riflessi - Youko x Sei ]


XI

Una Rosa



La cerimonia d'addio delle nostre onee-sama riscosse molto successo e molte lacrime, così come avevamo previsto. Quelle che avevamo imparato a conoscere come Rosa Gigantea, Rosa Chinensis e Rosa Foetida se ne andarono con il sorriso sulle labbra riempiendoci di raccomandazioni, e lasciandoci un po' più sole e un po' meno decise di prima. Con stampato nella mente l'interrogativo che nessuna di noi espresse, ma che si rifletteva chiaro nei nostri sguardi carichi di dubbi e di parole non dette: riusciremo davvero a farcela senza di voi?

Poi le attività ripresero così come le avevamo lasciate, e ci rendemmo conto che nessuno poteva fermare il tempo, né cambiare la successione degli eventi. Ce l'avremmo fatta perché avevamo avuto delle ottime maestre, e saremmo dovute esserlo per le ragazze che avrebbero seguito i nostri passi l'anno successivo. O almeno, questo era quel che io pensavo.


Mancava forse una settimana al sospirato termine dell'anno, e la mente di ognuna di noi veleggiava verso le vacanze, quando Sachiko mi invitò presso la serra del Lillian a guardare come stessero crescendo le rose.
Avevo saputo di quella sua passione del tutto casualmente, passando lì davanti un giorno e notando la sua figura, stranamente intenta ad occuparsi dei fiori. Dico stranamente perché un conto è prendersi cura delle piante perché così tutti si attendono che una ojou-sama faccia, un altro è preoccuparsi volontariamente, e con passione, della loro crescita.

Accettai il suo invito con gioia, anche perché mi capitava di rado di passare per la serra, e sicuramente al suo interno avrei trovato di che meravigliarmi. Con il mio spirito attivo e pragmatico, attento alle vicende della quotidianità, non mi ero mai occupata in particolar modo dei fiori, benché amassi averli intorno ed osservarli. Si può dire che non avessi esattamente lo spirito della giardiniera, mettiamola così.
Ma Sachiko, oh, lei l'aveva eccome. E facendoci caso, da quando avevo scoperto la sua passione, avevo sentito più volte ragazze della scuola lodare la sua abilità ed il suo spiccato pollice verde.

Oltre a questo, ad attrarmi era la possibilità di assistere, con il privilegio di un suo invito diretto, all'esternazione di un nuovo frammento del suo mondo segreto. Avrei cancellato qualsiasi impegno all'istante per lei, liberandomi di chiunque e di qualsiasi cosa. Tutto pur di poter liberamente osservare tendersi verso l'esterno, come sbocciando, i suoi sentieri interiori, ed esplorare così le meraviglie del suo animo in fiore.


***



"Le rose sono fiori delicati ed orgogliosi. Non lo pensi anche tu, Onee-sama?"

Sachiko era china tra i bassi cespugli della serra e maneggiava con gentile delicatezza una piccola vanga, sistemando il terriccio intorno al lungo stelo di un fiore appena piantato al suolo. Con quei suoi gesti lenti, carichi di ferma precisione, e il cappello di paglia adagiato lungo la schiena dava un'immediata impressione di pace e di serenità. Come se in lei abitasse uno spirito della natura nato dal fortuito incontro fra il terreno ed un petalo caduto erroneamente in quella serra, che avesse deciso di crescere in forma di donna per prendersi eternamente cura di quel luogo.

La sua domanda richiamò alla mia mente altre rose, quelle più vicine a me. Lo Yamayurikai. E non potei reprimere un sorriso.


"Delicate ed orgogliose, gentili ed eleganti. Esiste qualcosa di più amabile di una rosa?", risposi ambiguamente soffermando il pensiero su Eriko e Rei. Le immaginai intente a sorseggiare il the nella tranquillità della Casa delle Rose, fra i ricami delle tende e il silenzio di un pomeriggio di primavera.
Rivolsi una lunga occhiata ai bassi cespugli, ricercando fra i fiori in boccio qualcosa ricordasse le mie Rose. Finendo inevitabilmente su Sachiko, ed i suoi lunghi capelli neri.

In quell'attimo, come se avesse avvertito il peso del mio sguardo su di sè, risollevò gli occhi e mi guardò con inusuale serietà, come se stesse valutando la mia risposta. Mi stupii di scorgere una tale, vivida intensità in lei. Non foss'altro perché la mia petite soeur, quando lo voleva, era una maestra nel celare i suoi veri sentimenti.

In quel lungo periodo di silenzio mi chiesi cosa stesse pensando, mentre una tempesta si agitava nei suoi occhi e il mondo sembrava sfumare, allontanandosi da noi. Poi la sua espressione corrucciata lasciò il passo ad un inaspettato sorriso, e tornando con lo sguardo alle rose sembrò dirsi d'accordo con la mia risposta, annuendo leggermente.


Bastò tanto poco per spezzare quell'istante di imbarazzo, e fu in quell'occasione che per la prima volta mi colpì l'impensato: l'intrinseca consapevolezza che in qualche modo Sachiko fosse ormai cambiata.

E' difficile dire quando è il momento giusto per parlare di un 'ormai'. E' una linea netta che taglia in due un presente ed un passato, separandoli e relegandoli a tempi, momenti e modi diversi, e non si può costruire: semplicemente un giorno appare, e da quel momento in poi è così.
Non c'erano giustificazioni per formulare un simile pensiero, in quel momento. Non c'erano motivi particolari che indicassero oggettivamente un reale e tangibile cambiamento. Eppure, semplicemente quella sicurezza spuntò e fu immediatamente evidente, reale a tal punto che mi ritrovai a fissare la mia petite soeur, senza rendermi conto di come avessi potuto non notarlo prima.

Ogni cosa mi apparve diversa, così ovviamente scontata da farmi chiedere dove fossi stata fino a quel momento. E, osservandola, con la mente mi spinsi freneticamente ad esplorare le ultime settimane della Sachiko cui avevo assistito, in una convulsa ricerca retroattiva di indizi che potessero solleticare il mio orgoglio, dandomi sempre più conferma di quel che finalmente il mio intuito aveva afferrato.

Rapidamente l'evidenza della verità emerse in milioni, miliardi di piccoli gesti che erano scorsi sotto i miei occhi, troppo presi dai miei pensieri per soffermarsi a seguirla con l'adeguata attenzione, compiendo giorno dopo giorno un cambiamento epocale. Era così, era vero! Sachiko stava veramente iniziando a liberarsi dalle sue gabbie. Mi sentii preda di un'euforia selvaggia, e dovetti appoggiarmi leggermente ad una panca per non cedere a quel sentimento, distogliendo lo sguardo.
Mi trovai davanti agli occhi il lucido vetro della serra, e prendendo un profondo respiro guardai fuori, nel tentativo di riprendere possesso della mia tranquillità. Lei non doveva capire.
Sull'assolato mondo esterno, che sembrava improvvisamente disabitato, aleggiava il riflesso sfocato dei fiori e della mia petite soeur, china tra le fronde. Non potei sfuggirle oltre; anche attraverso il vetro, più la guardavo e più cresceva imperiosamente l'evidenza di quanto incredibilmente fosse mutata la sua natura, sotto un'apparenza che si era mantenuta bene o male uniforme.
Un'idea così grandiosa da farmi girare la testa.


Sachiko aveva sempre incarnato in sè le più perfette qualità di un'Ojou-sama. Sin dal nostro primo incontro ero rimasta colpita, come d'altronde capita a chiunque venga a contatto con lei, dalla sua incrollabile, assoluta perfezione in ogni cosa. Era bella, bellissima, e i suoi modi erano dignitosi e garbati come quelli di una principessa. Suonava il pianoforte ed il violino, sapeva cavalcare, i suoi voti erano altissimi in ogni materia senza apparentemente il minimo sforzo. Parlava francese e italiano, era abile in ogni sport, la sua calligrafia era perfetta ed è inutile proseguire l'elenco, perché nemmeno chi possieda il doppio di tutte queste virtù potrebbe mai paragonarsi a quello che la Stella del Lillian davvero dimostrava di essere, nella raffinatezza di ogni suo gesto ed in ogni istante della sua vita.

Perché al di là di tutto, quel che rendeva Sachiko una vera Ojou-sama era il contegno. Quell'inafferrabile sensazione, quell'aura di grandiosa eleganza che la circondava e che, più di ogni altra caratteristica, la faceva risplendere fra tutti. La marcata consapevolezza del suo status permeava attraverso ogni suo movimento, ogni suo sguardo, ogni suo respiro. Chiunque l'avesse vista camminare mescolandosi fra le altre studentesse, all'uscita dal Lillian, l'avrebbe comunque notata tra tutte e si sarebbe inevitabilmente chiesto chi fosse quella ragazza.

Si trattava probabilmente dell'impronta della famiglia. Lo stesso avveniva con Kashiwagi, il bel cugino che avrebbe dovuto un giorno sposare.

Eppure, allo stesso tempo c'erano differenze abissali fra loro.

Il comportamento di Kashiwagi era elegante ed arrogante, venato di quella spocchia che può mettere in atto solo chi è innatamente superiore, e perfettamente consapevole di esserlo. Quel costante sottolineare il suo privilegio di nascita indubbiamente lo distaccava dagli altri, lo elevava tra la plebea marmaglia. Ma nello stesso momento era ciò che non gli avrebbe mai veramente consentito di far pienamente parte di quel mondo altolocato di cui andava vantando la discendenza. L'occhio di un osservatore avvezzo ai saloni delle famiglie più importanti avrebbe notato all'istante l'aggressivo contegno di chi è aggrappato con le unghie e con i denti al suo cognome. Nessuno, tra chi è veramente sicuro della propria posizione e del suo diritto di nascita, avrebbe avuto mai paura di perdere quello status da un momento all'altro. Esattamente ciò che disperatamente gridava in ogni istante l'incessante arroganza di Kashiwagi.

L'eleganza di Sachiko era di un tipo diverso. Più freddo, più tagliente. Non aveva bisogno di aggredire, per dimostrare di esistere. Tutto in lei era l'esternazione di uno spirito forgiato con successo nell'obiettivo di perseguire la perfezione assoluta. Come un carillon di cristallo, era pronta in ogni momento ad esibire un aggraziato spettacolo per chiunque avesse dovuto aprire il coperchio della scatola per guardarci dentro. Con risposte sempre adeguate alla situazione ed il viso di una bambola di porcellana, la sua apparenza era tanto soave quanto evidente l'assoluto distacco dal resto delle cose terrene. La mia petite soeur attraversava il mondo come una lama di ghiaccio, intoccabile ed inavvicinabile. Eppure, nella sua luminosa perfezione, tutto in lei era a tal punto apparentemente perfetto da far sbocciare nei cuori un'immediata meraviglia, qualsiasi cosa facesse.

Tutto ciò, almeno, finché non si volesse cercare di vedere oltre le apparenze. Era palese, almeno ai miei occhi, come sotto quella cupola di glaciale impeccabilità si dibattesse uno spirito selvaggio, disperato, reso fragile dalla troppa lontananza dal mondo, dai troppi impegni, dalle troppe aspettative altrui da soddisfare.

Sachiko portava sulle spalle il peso di un mondo che l'aveva sempre ammirata, e se ne allontanava con sgomento, con terrore. E se qualcuno non avesse sollevato dalle sue spalle quel peso, ne sarebbe rimasta schiacciata.
Nel preciso istante in cui avevo realizzato ciò, avevo già scelto la mia petite soeur.



"Quali sono le rose preferite di Onee-sama?"

La sua voce mi strappò ai miei pensieri, e mi resi conto che in quel lungo lasso di tempo non mi aveva ancora risposto. Guardai nel riflesso del vetro il suo profilo, alle mie spalle, sfocato dalle macchie colorate dei fiori. E la risposta nacque spontanea.


"Le rose Chinensis, naturalmente".


Il silenzio prolungato in seguito alla mia risposta mi stupì ancora, e quando mi voltai trovai che Sachiko sorrideva, accarezzando con la punta dell'indice i petali carminii di una rosa.


"Questa è una risposta così adatta a Onee-sama" mormorò lei, risollevando in quel momento lo sguardo su di me. Ed io guardai quegli occhi ed affondai in quegli occhi, dove la tempesta aveva lasciato posto al blu del cielo sereno.
Mi dissi che, qualsiasi cosa fosse accaduta, in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo io l'avrei protetta. Perché quella scintilla di vita non potesse oscurarsi mai più.


Dopo aver finito di sistemare il terriccio la mia petite soeur si rialzò in piedi e con fare pensieroso prese a guardarsi intorno, come se stesse cercando di ricordarsi cos'altro dovesse fare. In quel momento, pensai, tutto sembrava perfetto. Il sole filtrava attraverso i vetri in una pioggia di luce, che faceva risplendere i soavi colori dei fiori come in un quadro. Un alito di brezza, aria di primavera, soffiava lieve attraverso le porte aperte. E Sachiko lì, Sachiko così, rinfrancava il mio spirito e ne leniva le sofferenze. Dopo tanti, tanti mesi, per un istante mi sentii in pace. Avrei voluto chiudere gli occhi ed addormentarmi in quel luogo, cullata da quella nuova, nascente sensazione. Ma mi frenò un brivido di paura, al pensiero che se avessi sbattuto le palpebre anche solo una volta tutto ciò sarebbe scomparso, scoppiando in una bolla di sapone. Come in un sogno.


"La loro purezza è evidente; lo stelo dritto ed elegante, i petali morbidi ed il colore vivido. Verrebbe voglia di prendersi cura quasi solamente di esse".


La sua voce irruppe nuovamente nei miei pensieri, soffiando via quegli istanti di abbandono e schiarendomi la mente. Quel suo pensiero quasi mormorato, apparentemente retorico ma evidentemente indirizzato a me, mi colse di sorpresa. Non capendo dove volesse andare a parare, replicai con l'unica risposta che la sua frase permettesse.


"Eppure, se così anche si facesse, non sarebbe un peccato mortale? Perdere questi colori, questi profumi. Quale giardiniere mai, ed in quale mondo, sarebbe tanto folle da fare qualcosa di simile?"


Non capivo perché mettermi nell'angolo in quella maniera. Perché mai guidare con tale decisione un discorso, così all'improvviso. Ma non mi sottrassi al confronto. Volevo capire quali fossero le sue motivazioni, e da qualche parte dentro me avvertii nascere l'anticipazione e l'euforia delle nostre schermaglie, ormai rade rispetto a mesi prima.
Sachiko non aveva fatto nulla di esplicito per allarmarmi. Ma qualcosa in me si era smosso, ed entrò ancor più in risonanza quando fu lei a riprendere la parola mentre con apparente concentrazione riempiva un innaffiatoio dal lavandino, poco più in là, dandomi le spalle.


"L'interesse può questo e ben altro, in particolare quando si scontra con le difficoltà. Potrebbe il giardiniere lasciar morire nel proprio cuore il giardino intero, pur curandosene con attenzione, se i suoi occhi fossero rapiti da una rosa solamente, no?"


Ed allora capii.
Come un pugno nello stomaco, mi raggiunse la sicurezza di cosa, precisamente, stesse osando dire la mia imotou. Non potevano esserci dubbi. E ciò che mi sconvolse fu l'assoluta e volontaria schiettezza oltre la quale non avesse nemmeno tentato di nascondere il suo obiettivo. Non c'era spazio per l'astuta schermaglia, nessuna regola sul filo di cui giocare. Non potevo credere che Sachiko si fosse veramente azzardata a rivolgersi in quel modo a me, travalicando qualsiasi buona maniera ed irrompendo, così bruscamente, nel mio intimo.
Mi zittii, fissandola. Insieme attendemmo che l'innaffiatoio fosse colmo, poi lei lo raccolse fra le mani affusolate, e muovendosi leggiadra tra i cespugli lo portò con sè, per andare ad innaffiare quel fiore.

Una rosa bianca.



Senza aggiungere nulla, abbandonai quel luogo.






N.d.A: Per chi se lo fosse domandato, questa fanfiction non è interrotta, né lo sarà. Il progetto, nato ormai molto tempo fa, è ben delineato e ha una fine già progettata, verso la quale ormai ci si proietta. Sono previsti ancora alcuni capitoli, e la lentezza di pubblicazione è dovuta ad una cronica mancanza di tempo - che non ne comporta né comporterà, ad ogni modo, la sospensione.

Nel prossimo futuro dovrebbero esserci aggiornamenti molto più solleciti. Un ringraziamento a chiunque vorrà continuare questo viaggio sino al termine di questa storia.



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Capitolo 13
*** XII - Abitudini Antiche ***


Riflessi - Abitudini Antiche

[ Riflessi - Youko x Sei ]


XII

Abitudini Antiche



Le parole sono importanti. Attraverso di esse è possibile plasmare il mondo.
Importante conoscerle. Importante saperle impiegare con maestria, soppesando l'esatto significato di ognuna di esse per utilizzarle con il giusto ritmo affinché non siano mai troppo leggere o pesanti, mai inadeguate.
Le parole possono lambire e sedurre, distruggere e costruire. Cambiando le società, attraversando le ere.
Serbano in sè il potere del divino, e per questo sono immortali.

Quando avevo visto quella rosa, e compreso cosa Sachiko realmente intendesse dirmi, all'istante avrei voluto sentirmi avvolgere da un rassicurante mantello bianco e sordo che, come una mano, mi stringesse al suo interno e mi nascondesse alla vista del mondo, in un'alcova ovattata e protetta, trascinandomi via nel suo silenzio.
Quel momento e la consapevolezza del suo sguardo che si alzava, piano, su di me fu invece come il veemente schiantarsi di onde sul legno di una nave in balìa della tempesta. Un tuono a squarciare la notte, una scarica violenta d'imbarazzo - acqua da respirare, acqua in cui soffocare.
Imbarazzo furibondo, e nulla più.


Non potevo accettare che venisse svelato, con tale semplicità, un tassello così vitale. La mia carne viva, il mio cuore pulsante rosso di sangue esposto al cupido sguardo del mondo... no. Ogni fibra del mio essere ruggiva di sdegno all'idea di esser stata deliberatamente aggredita ed umiliata, per nessun motivo in particolare. Messa alla berlina, esposta come uno straccio al sole della domenica pomeriggio per la sola soddisfazione di una Sachiko troppo curiosa per i miei gusti e per il suo stesso bene.

Quel che mi colpì come un pugno, in profondità, fu il realizzare che non ero veramente irritata. Anzi per la prima volta mi resi conto che provavo imbarazzo per la mia petite soeur, e la cosa mi lasciò stupefatta. Covavo uno spazio vuoto nel centro del petto ed in quel bianco infinito, circondato dalle alte mura del mio turbamento, vagava irrequieto lo spettro della mia imotou. Cosa aveva fatto!
E non saprei dire perché, ma in quegli istanti, nascosto dietro le ombre che erano accorse per banchettare della stupefatta gioia di solo pochi istanti prima, mentre fissavo la figura inconsapevole di Sachiko riconobbi a tentoni in me i contorni di un vuoto ancora più grande. Un mostro sopito, dagli occhi rosso sangue; una bestia famelica e raccapricciante che nella sua deformità, in qualche maniera, mi attraeva.

Non potevo pensare in alcun modo che quella curiosità fosse normale. Eppure, sebbene non sappia spiegarlo, sono sicura di quel che provai nel momento in cui, trattenendo il fiato, cedetti ed osai spingerei il pensiero poco più in là, ad afferrare l'idea di osservare quella situazione attraverso gli occhi di Sachiko; in quegli attimi farneticanti, immaginando di trovarmi nei suoi panni, mancò poco che l'imbarazzo mi sbranasse viva.

Allora, ancor prima di uscire dalla serra, decisi che non avrei potuto punire la mia petite soeur più crudelmente di quanto già non avesse fatto da sè.



***



Mai le vacanze di fine anno parvero tanto brevi. Quando oltrepassai di nuovo il cancello del Lillian, aprile aveva già spalancato le sue braccia alla primavera ed un tappeto di petali di ciliegio tratteggiava la via verso un nuovo anno scolastico, solcato dai passi leggeri di sparute nuove iscritte che ancora ignoravano chi fossi. Ogni cosa era squisitamente tranquilla, nessun "Youko-sama" di qua o di là. Se non per questo, avrei detto che non fosse passato nemmeno un istante da quando avevo lasciato l'Istituto l'ultima volta, ormai quasi un mese prima.

Dopo essermi chiusa la porta della serra alle spalle, e con essa i cancelli del Lillian, le settimane trascorse in vacanza mi avevano vista a Yokohama, presso la famiglia di mio padre. L'idea di quella trasferta non mi aveva entusiasmato fin dal primo istante, di per sè, ma avevo avuto le mie buone ragioni per partecipare. Sapevo che mio zio, un importante avvocato, sarebbe stato presente. E considerato il fatto che covavo l'idea di iscrivermi a Giurisprudenza, una volta diplomatami, ero sicura che quella conoscenza in futuro sarebbe risultata comoda.

A tempo perso, inoltre, avevo sperato che allontanarmi un po' mi avrebbe aiutata a distendere la mente ed a distrarmi. Naturalmente non era accaduto nulla di simile. Nonostante l'interesse profuso ed il tempo impiegato nell'accattivarmi l'ammirazione di quel mio zio, non ero veramente mai riuscita ad allontanarmi del tutto dal Lillian. La serenità che avevo provato in quei rari istanti, nella serra, si era fatta presto un mero ricordo sepolto nel passato che tendeva a ritornare, beffardo, per schiaffeggiarmi con onde residue d'imbarazzo ed avversione quando meno me l'aspettassi. Un istante prima di dormire, fissando la luce filtrare dalle imposte. Al ristorante, mentre uno zelante cameriere versava del vino ad un commensale. Al porto, osservando le navi muoversi lente nella baia. Sprazzi della brutta figura della mia petite soeur rivivevano in luoghi impensati.
Avevo trascorso, insomma, giorni convulsi e ricchi d'impegni cercando a intervalli regolari di ricacciare giù quella sensazione d'inquietudine che, da quando era finita la scuola, continuava a tentare di risalire a galla.

Nonostante tutto, l'idea di aver lasciato in quel modo Sachiko mi pesava non poco. E l'idea che tutto ciò fosse legato a te e al fatto di non essere riuscita, per l'ennesima volta, ad affrontare il nostro problema - che rimaneva lì, granitico ed immutabile, impossibile da aggirare o da abbattere in alcuna maniera, fastidiosamente oltre le mie limitate forze mortali - non faceva che rendere il tutto ancor meno digeribile.


In quel momento, mentre con senso di cupa anticipazione sfilavo tra gli alberi, mi trovai a considerare che no, davvero non sembrava passato nemmeno un istante. Maria-Sama era sempre là in fondo, immobile e minacciosa. Incombendo con il suo severo e silenzioso rigore su di me che, passo dopo passo, mi avvicinavo.

"Lo so. Non dovrei prenderla così", mormorai pensando alla Casa delle Rose, e al tuo profilo confuso tra le tende. Invece che affrontarti ancora, e dare di nuovo vita a quella nostra grande, eterna sfida, questa volta avrei dato qualsiasi cosa pur di scappare. In quel momento in cui tutto, ancora una volta, ricominciava, mi sentivo più stanca e sfiduciata che mai.

Poi una ragazza mi si affiancò, iniziando a pregare. E nel timore potesse avermi sentito parlare mi affrettai verso la mia classe.



***



Lo Yamayurikai era avvolto da un'aria di febbrile operosità.
Eriko, incredibilmente, era arrivata prima di me e stava già vagliando i piani delle attività annuali dei club, che come ogni anno erano già state presentate all'attenzione del Concilio Studentesco, per approvazione. Era sempre stata la mia Onee-sama ad occuparsi di quel compito, ed osservando la mia amica intenta in quel compito sentii per la prima volta la nitida sensazione della sua lontananza.
Rei mordicchiava una matita. Un inusuale calo di eleganza, che indicava sicuramente tensione. Probabilmente anche lei in quel momento, come me, iniziava a rendersi conto di cosa volesse dire dover essere pronte a svolgere quel lavoro mentre, seduta di fianco a Rosa Foetida, prendeva nota delle sovrapposizioni che man mano venivano a galla.

Di Sachiko non c'era l'ombra. Mi chiusi la porta alle spalle salutando e lanciai un'occhiata colpevole alla finestra, dove la tua assenza feriva i miei occhi più del sole che filtrava ovattato attraverso le tende. Perché non c'eri?


"Gokigenyou, Rosa Chinensis".


Una voce squillante incrinò i miei pensieri, e solo in quel momento notai la presenza di qualcuno che decisamente non mi aspettavo avrei trovato lì.

Shimazu Yoshino-chan, in piedi vicino al bollitore, era inchinata in mia direzione con le mani distese lungo i fianchi e due lunghe trecce scure a ricaderle lungo il petto. Una ragazza di buona famiglia. Osservai Rei, di sottecchi; di certo non aveva perso tempo. E tanto bastò a riaccendere una scintilla di speranza nelle profondità di quel mare di amarezza nel quale avevo sguazzato per tutta la mattina. Un anno nuovo si stava aprendo, con tutte le sue speranze e le sue possibilità. In qualche modo, anche se non sapevo come, saremmo uscite dalle conseguenze di tutto quel che era accaduto.

Stavo considerando tutto ciò quando tu spalancasti la porta, entrando impetuosamente con quel tuo esplosivo "Gokigenyou". Avresti veramente fatto tremare i vetri, come avevo pensato tante volte in passato, se non l'avesse già fatto il violento sbattere dell'uscio contro il muro.
Guardandoti mentre incassavi di scatto la testa nelle spalle, come se volessi attutire quell'inevitabile colpo, mi riscoprii a sorridere con inatteso sollievo. Il tuo solito ritardo. La tua solita zazzera bionda, il tuo solito baccano, il tuo solito sorriso. Come se non fosse cambiato mai nulla. Come il più bel premio, dopo tanta angoscia.
Forse, mi dissi, non sarebbe stata dura come avevo immaginato inizialmente. Probabilmente, mi dissi, quello che si apriva si sarebbe dopotutto rivelato un anno interessante.

Non potei reprimere un nuovo sorriso quando, con assoluta naturalezza, tu occupasti il mio posto accanto alla finestra, riempiendo con la tua sagoma quell'angolo di mondo. E tutto sembrò completo; come se fosse l'unica cosa possibile, quella giusta, il pezzo mancante.

E in quel momento, ogni cosa sembrò quadrare.


Yoshino-chan preparò il the e lo offrì a noi tutte, con l'entusiasmo di chi si trovi in una situazione nuova ed eccitante. Non era un'esperta, lo si vedeva dai gesti insicuri e forse un po' imbarazzati, ma il risultato fu, lo stesso, eccellente.
Quando ti passò a fianco per porgerti la tua tazza, sfiorando appena le tende ricamate, un po' invidiai quella sua ingenuità che le consentiva di avvicinartisi con assoluta tranquillità, come se tu non fossi nessuno di speciale; nessuno di importante.
Quando però poi tu sollevasti lo sguardo su di me, e mi sorridesti - un sorriso tutto mio, solo per me, assolutamente esclusivo - il coltello che avevo quasi dimenticato di avere piantato nel cuore si smosse un po', e sanguinando di gioia capii che non avevo nulla da invidiare alla giovane cugina di Rei.

Mi permisi di affondare nella felicità di quei momenti e, inspirando il forte odore del the, mi costrinsi a distogliere lo sguardo, per evitare di arrossire.


Trascorremmo un'ora, o forse due, esaminando le sovrapposizioni degli orari dei club e le loro richieste di aule e palestre, sospinte dalla curiosa presenza di Yoshino-chan, che sembrava entusiasta di ogni cosa.

Sachiko non si faceva viva, ed io diventavo sempre più nervosa. Voleva forse farmela pagare, facendomi così pesare la sua assenza? Concluso il lavoro passammo al punto seguente, ed io mi alzai in piedi per presentare al Concilio Studentesco il programma che la Direttrice mi aveva affidato quella mattina stessa, a termine delle lezioni, per la Cerimonia d'Ingresso. Nessuna traccia della mia imotou. Lanciando un'occhiata alla finestra, per una volta dedicata ad una ricerca di diversa natura, mi augurai in cuor mio di starmi sbagliando. Ma quando voltai nuovamente lo sguardo ed incrociai i tuoi occhi all'improvviso mi sembrò di dimenticare ogni cosa.

Parlai a lungo del progetto, cercando di spiegare tutti i suoi dettagli e rispondendo alle mille domande di Rei, che sembrava avere perplessità su ogni cosa, come se non avesse partecipato alla cerimonia dell'anno precedente. Chiarii che sì, vi avrebbero partecipato tutte le nuove iscritte - compresa la cugina di Rei che nel frattempo se n'era andata, considerato quel che dovevamo discutere - che avrebbero ricevuto entro metà settimana un invito personalizzato, e annunciai che secondo il volere della Direttrice il tutto si sarebbe svolto la settimana successiva, di lunedì.
Ci soffermammo a lungo sulle linee del discorso che avremmo fatto alle nuove iscritte ed il ruolo che ognuna di noi avrebbe rivestito nell'organizzazione, ma mentre si parlava di cosa e di come mi accorsi con sollievo di quanto fosse piacevole discutere tutte quante insieme. Tu, con le tue domande e le tue ingenuità. Eriko, con la sua quasi eterea presenza. Rei, con tutta la sua concretezza e le sue buone intenzioni. Ce l'avremmo fatta, sicuramente. E saremmo state degne di chi era venuto prima di noi, tenendo alto il nome dello Yamayurikai.

In tutto questo, dopo mesi assaporai anche lo strano sapore del ritrovarti. Osservare dal vivo i tuoi movimenti, che per lungo tempo avevano vissuto solo nella mia fantasia, dava alla tua presenza un senso quasi di irrealtà. Era strano e piacevole: come trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto, eppure assolutamente familiare. Occhiate capaci di stupirmi, movimenti inattesi che non avrei mai immaginato. Eri viva, ed io ti sentivo. Viva come non avresti mai potuto essere nelle mie limitate fantasie, viva e vivida, reale, presente come mai eri stata prima.

Ritrovarti era come riscoprirti e svelare ricordi appannati dal tempo, pronti a danzare al suono della tua voce. Nota dopo nota, bastò tanto poco perché in me si risvegliasse quell'armonia di sentimenti che, in un modo o nell'altro, avevo cercato di reprimere ad ogni costo, e speravo si fossero nel tempo sedimentati.


Fu anche per questo, forse, che non mi accontentai di così poco. Guardarti sparire al di là di quella porta senza nemmeno poterti fermare con una scusa ed invitarti a stare ancora un po' con me con un pretesto qualsiasi, dato che Rei era ancora in quella stanza, non mi poteva bastare. Assaggiato ormai il dolce, ne volevo ancora una fetta. E cosa c'era di male, dopotutto, se per una volta mi fossi permessa di cedere a quel languore ed inseguirti, almeno con la mente, fin quando possibile?

La porta si chiuse, inesorabilmente, alle tue spalle, mentre Rosa Foetida en Bouton lavava le tazzine che avevano ospitato il the di sua cugina. Non era possibile instaurare un dialogo, in quella situazione. Approfittai dell'insperata fortuna e, ignorando con fermezza una voce che dentro me si lamentava, accusandomi di starti già nuovamente cedendo per così poco, mi avvicinai alle finestre, insinuandomi fra le tende e riprendendo il posto che era stato mio, di diritto, per così tanti mesi di dolore.


Quei tempi erano passati, certo. Avevano lasciato ricordi che, ancora, vorticavano pesanti e avrebbero tardato ad andarsene, lo sapevo. Le cicatrici erano ancora fresche; l'impronta nera della sofferenza ancora presente, ancora molto vicina. Eppure, da qualche parte dentro di me aleggiava una piccola piuma bianca, splendente, in balìa dei venti travolgenti del mio cuore. Una piccola scintilla di speranza che, dopo aver attraversato tempeste e piogge a dirotto, iniziava forse a prendere le prime correnti ascendenti, e a salire piano, incerta, verso i vasti cieli incrinati della mia anima.

C'era paura, in me. C'era titubanza.

Da una parte, quelle crepe erano vistose. Il male di cui avevo sofferto mi aveva condotta quasi alla follia, all'autodistruzione. Mi aveva presa, mi aveva lanciata per aria, mi aveva stracciata in mille pezzi e poi mi aveva abbandonata al suolo come un vestito stracciato, stremata a tal punto da non essere più nemmeno capace di reagire. Mi aveva annichilita.

Dall'altra quella piccola, assurda speranza esisteva, e ciò era assolutamente innegabile. Anche nel momento più buio, ne ero sicura, a quel punto non sarei mai più riuscita a cancellarla. Avevo attraversato le più terrificanti ed oscure profondità del mio essere, mi ero ferita, mi ero sfibrata. Ero arrivata a dimenticare chi fossi mai stata e a perdere la cognizione del mondo, del tempo e di me stessa. Eppure, senza sapere nemmeno come, una forza ancestrale era sgorgata in me nel momento in cui avevo creduto che la fine fosse veramente giunta, e l'ultimo momento ormai scoccato. Quando mi ero riscoperta senza più fiato, e senza più la forza di respirare, un soffio tra le mie labbra mi aveva ridato vita. Un miracolo, un dono inestimabile, la capacità di sopravvivere. Tu.
Finché tu avessi avuto un posto nella mia vita, insomma, finché fossi stata sicura di poterti trovare da qualche parte, vicino o lontano, e di poter sentire la tua voce, sapevo che quella brillante goccia di fiducia non sarebbe sparita. E con essa, niente avrebbe potuto schiacciarmi mai del tutto.

Così, tu eri la mia forza e la mia debolezza, la fonte delle mie più terribili paure - morire, morire di te, Sei - e quella delle mie più solide sicurezze.
Finché tu fossi esistita, la mia speranza non avrebbe avuto fine.
Ed in questo modo i miei sentimenti, stretti nel ricordo di un ciuffo biondo fra le mie dita, sarebbero sopravvissuti.

La mia paura di te non era mai tramontata. Si era fatta più forte, anzi, tanto più male eri riuscita a farmi.
Però quella piccola piuma in me non era più ignorabile, e niente più - nemmeno tu, Sei - sarebbe riuscito a schiacciare il suo volo esitante. Verso cieli di pietra spezzata, levandosi dalle macerie che avevi lasciato dopo il tuo passaggio sul terreno brullo del mio cuore, cantava di una forza più grande del terrore, più forte della morte.
Cantava l'amore, che come uno scudo di fuoco si lascia ferire, ardendo, ma indomito non recede affrontando con coraggio - o follia? - la sua guerra.

Mi affacciai senza remore allo specchio dei miei desideri, e il vetro splendente della finestra mi premiò con la visione della tua figura, solitaria, che si allontanava lungo il vialetto.

Trattenni il fiato, come se potessi ancora respirare il profumo dei tuoi capelli.

Ed in quel momento si spalancò la porta.



Si può dire che Sachiko mi colse in flagrante. Non avrei mai potuto ragionevolmente negare in alcun modo di starti guardando dalla finestra; vi eravate incontrate sulle scale, per forza di cose. Calcolai rapidamente tutte le eventuali possibilità. C'era Rei, percui non mi avrebbe mai fatto domande esplicite e dirette. Inoltre, dopo l'ultima volta doveva sicuramente aver riflettuto molto, e se conoscevo Sachiko non si sarebbe mai permessa di ripetere l'esperienza, tantomeno durante il nostro primo incontro dopo quell'increscioso discorso.
Se ciò non fosse bastato di per sè, la mia petite soeur era in ritardo per la riunione, abbastanza almeno da averla del tutto saltata. Considerai che probabilmente l'aveva fatto apposta, e decisi di tenere in conto l'evenienza nel caso Rei si fosse congedata rapidamente. Nel caso avrei potuto aggredirla, sicura che una sola parola sul suo ritardo l'avrebbe inchiodata al muro impedendole di criticarmi su qualsiasi altra cosa.
Perché porsi in una situazione così svantaggiosa? Doveva per forza star macchinando qualcosa. Ma, non sapendo prevedere con precisione cosa, mi limitai a impugnare la sicurezza dell'idea che qualsiasi cosa fosse accaduta non avrebbe potuto attaccarmi in alcun modo. E mi preparai ad affrontarla.

Forse ero ancora troppo agitata da quella volta, perché Sachiko si comportò con totale tranquillità, con maniere assolutamente nella norma. Salutò con la consueta eleganza, scusandosi per l'assenza durante la nostra riunione. Chiese informazioni riguardo quel che si era deciso, ed approfittai della situazione per chiederle di suonare il pianoforte durante la cerimonia che stavamo preparando. Un piccolo passo avanti, una mano leggermente tesa verso di lei.

Come mi aspettavo avrebbe fatto, accettò con entusiasmo. Di più, durante tutto il discorso non diede mai l'impressione di aver notato quel che stavo facendo poco prima, né di aver lasciato qualcosa in sospeso dal nostro ultimo incontro. Fu come se nulla fosse mai esistito; non accennò a riprendere il discorso che era rimasto a metà quando me n'ero andata, lasciandola da sola nella serra, ed io feci altrettanto.
Seguendo le mie regole, questa volta, tutto filò liscio. Di comune accordo, ci comportammo come sempre avevamo fatto, Ed anche quando Rei se ne fu andata, lasciandoci pericolosamente da sole, non smettemmo un attimo di parlare dell'organizzazione e della festa.


Man mano avvertii sciogliersi, piano, un nodo che mi si era stretto dentro senza che nemmeno me ne rendessi conto. Forse la mia imotou aveva ragione, e per quanto cercassi di dividere la mia attenzione pensavo talmente tanto a te che mi capitava facilmente di non accorgermi di quanto fossero importanti tutti gli altri, intorno a noi.
Comunque fosse, al di là di te, che ormai eri lontana, mai come in quel momento fui tanto sollevata dal tornare a ricostruire un contatto con la mia Sachiko.


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