The past will never forget. Neither you.

di LaylaLaRed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** The Wedding Dress ***
Capitolo 3: *** Italy ***
Capitolo 4: *** Some are just babies...and some are adults in a baby mind. ***
Capitolo 5: *** Pills for heart disease ***
Capitolo 6: *** Kaftans in New Dehli ***
Capitolo 7: *** Sometimes an happy death is better than a painful life ***
Capitolo 8: *** The next person he'll love will be your daughter. ***
Capitolo 9: *** She said something about heart disease. ***
Capitolo 10: *** Are you talking about that Stefania? ***
Capitolo 11: *** He's back. But not for her. ***
Capitolo 12: *** That pumps are from last year. ***
Capitolo 13: *** Armani and Chanel...or baby catalogues? ***
Capitolo 14: *** They used to call her the American princess. ***
Capitolo 15: *** The people that made her perfect since the day they met her. ***
Capitolo 16: *** Two plus two. ***
Capitolo 17: *** History always repeats itself. ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


Il primo abito che la biondina ci mostrò era un Douglas Hannant.
Corpetto stretto e gonna larga, a balze e piumata.
Esuberante ma molto classico.
“Che ne pensi, B?”, mi chiese sorridente Serena.
Alzai gli occhi al cielo.
“Non li proverò fino a che non avremo fatto una selezione completa, Serena. Quante volte devo ripetertelo?”, sbuffai.
Procedetti a passo spedito fino a raggiungere la ragazza che scoprii si chiamava “Stacy”, e che stava tirando fuori un altro abito dalla carrellata.
Era molto semplice, di color panna e senza alcuna decorazione, con bretelline.
Esibii una smorfia di disgusto e lo feci scartare.
Ne avevo visti a centinaia, e dovevo sceglierne almeno due per poi fare un’ultima scrematura.
“Cosa ne pensa di questo, signorina Waldorf?”, mi chiamò poi Stacy, sventolando un abito decorato con pizzo e fiocco color avorio.
Lo fissai per qualche secondo, e svogliatamente decisi di provarlo.
Era l’unico che fino a quel momento aveva risvegliato in me una sensazione di minima allegria.
Una volta entrata nel camerino e aver indossato con poca fatica il vestito, che scoprii essere di Vera Wang, uscii falsamente sorridente, e Serena batté allegra le mani.
Mi guardai allo specchio.
“Non è lui”, mi lamentai, tornando nel camerino e cambiandomi.
“B, sei sicura di volerlo fare? Voglio dire…”, cominciò Serena mentre Stacy frugava negli abiti.
“Serena, smettila. Sai che lo amo più di ogni altra cosa al mondo”, la rimproverai pensierosa, sedendomi su un pouf.
“Signorine! Ho trovato l’abito giusto. Lei lo voleva principesco, miss Waldorf”, iniziò la commessa, porgendomi un abito stupendo, di seta, con un lungo strascico e delle roselline come decorazione, “E principesco l’ha trovato”, terminò sorridente.
Mi si illuminarono gli occhi e scattai in piedi come una molla dal pouf dove mi ero seduta.
“Lo compro. Senza provarlo. Lo proverò solo il giorno del matrimonio”, sussurrai.
“B ma sei pazza? Cosa pensi che…”, iniziò, ma fu interrotta da me.
“Che dirà la gente? Tutto ciò che vuole, ma non importa”, dissi alzando un sopracciglio, ed estraendo la carta di credito dal portafogli che si trovava in borsetta.
“Acconto?”, chiesi.
“Ho capito, lascio stare”, disse Serena, allontanandosi per rispondere ad una telefonata.

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“Pronto?”
“L’abbiamo trovato. E’ in Italia. E’ vivo”.




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Capitolo 2
*** The Wedding Dress ***


“Guarda che bello il vestito di zia Blair…guarda, Lil. Guarda che bello!”, disse Serena rivolta ad una bambina con i boccoli biondi, indicando una confezione di plastica in cui era inserito il mio bianco vestito, molto diverso da quello precedentemente scelto ed acquistato, e poi prontamente sostituito.
“Adesso vai da zia Dorota, Lil”, disse ancora sorridente Serena, spingendo lievemente la bambina dai boccoli biondi.
“No, non voglio”, replicò di tutta risposta la bella biondina.
“Lillian Jane Marie Archibald, vai subito da Dorota o non avrai quella bambola della principessa Merida che ti aveva promesso papà”, la sgridò poi Serena con la sua massima autorità.
La bambina allora si limitò ad una linguaccia e sgusciò nell’altra stanza, lasciando libere me e Serena.
“Non so chi sia più stupida. Se tu che continui a dire che è Nate il padre di Lillian, o se lei che continua a crederci quando i suoi occhi sono quelli di Steven Spence”, dissi pungente, stuzzicandola.
“Smettila. Sai benissimo che fra me e Steven è durata poco”, ribatté lei offesa.
“E comunque, non mi pare che sia io quella perennemente indecisa sul matrimonio”, mi prese in giro acida.
“Joseph è una brava persona e lo sposerò. Punto”, replicai pensando al mio futuro marito.
“Ma non lo ami. E io sono sicura che incapperai in un’altra fregatura. I reali non ti sono mai andati a genio, devo ricordartelo?”, domandò retorica Serena, pensando a Louis Grimaldi e a Marcus Beaton.
“Lui non è un reale. La sua matrigna è una duchessa inglese, non lui”, risposi infuriata.
Lei alzò gli occhi al cielo e afferrò il suo telefono che squillava.
“Pronto?”.
“Oh, sì. Ho capito. Non posso, lo sai. Sai benissimo che la ferirebbe troppo. A dopo”, la sentii dire con imbarazzo, tentando di coprire la cornetta e di allontanarsi.
Mi alzai incuriosita dal divano e la raggiunsi mentre si incamminava verso l’uscita.
“Chi era al telefono?”, domandai curiosa.
“Oh, nessuno B. Vuoi venire con me? Sto andando alla redazione del NY Times, voglio vedere come procede l’inchiesta Sanchéz”, replicò tranquilla.
Ancora dubbiosa per l’entità della sua telefonata misteriosa, risposi negativamente e la lasciai andare.
Non era passato molto tempo da quando Melinda Laura Sanchéz, meglio conosciuta come Gossip Girl, era stata arrestata per violazione della privacy e pubblicazione di dati privati sul web.
Era stato Nate a scoprire l’identità della misteriosa blogger, accedendo al sito web tramite Diana Payne e telefonando alla polizia dopo aver scoperto la sua abitazione.
Io non mi ero interessata poi così tanto alla situazione, ero solo felice per non avere più tra i piedi Gossip Girl.
Dopotutto ero troppo impegnata con la preparazione del matrimonio per poter pensare ad altro.
Da quando Joseph mi aveva chiesto di sposarlo, avevo rinunciato ad ogni altre interesse escluso lui e il nostro matrimonio che sarebbe avvenuto tra meno di quattro mesi, dopo un anno di frequentazione e due mesi di fidanzamento.
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“Non ho la più pallida idea di dove sia, Patrick. So solo che è in Italia, forse a Milano”, disse la bionda, parlando al telefono con un individuo sconosciuto.
“Vediamoci. A Central Park, domattina”.

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Capitolo 3
*** Italy ***


Milan, 20:30.

“Stefania, sei pronta? E’ mezz’ora che ti aspetto inutilmente”, disse la voce di un uomo sui ventiquattro, vestito elegantemente e con un perfetto accento italiano.
“Tesoro, sai benissimo che mi ci vogliono cinque minuti”, urlò dall’altra stanza una donna bionda e attraente.
“D’accordo, d’accordo. Come si fa ad arrabbiarsi con te?”, replicò l’uomo entrando nella camera dove si trovava la donna.
“Con te è facile perdere il senno”, mormorò quest’ultima avvicinandosi lentamente all’uomo e sfiorandogli il collo scoperto con le labbra.
“Non vorrai che i tuoi genitori mi odino sin da subito perché ti ho rapita dalle loro grinfie?”, scherzò l’uomo allontanandosi dalla presa della donna e lasciando che terminasse di indossare i neri sandali vertiginosi.
“Finito! Non preoccuparti, mamma non sopporta chi fuma, e tu non lo fai. E papà, beh lui è come tutti gli uomini del toro, è molto ma molto permaloso quanto leader nato. A te basta ricordarti i loro nomi: Paola e Tiziano”, sorrise la donna guardando negli occhi il suo compagno e afferrando una pochette nera.
“Come hai detto che si chiama il ristorante?”, domandò allora l’uomo divertito.
“La Veranda. E’ molto lussuoso, come piace a te”, scherzò la donna, continuando poi con serietà, “Non preoccuparti. I tuoi genitori sono stati fantastici, così come tua sorella Rosa. Lo saranno anche i miei”.
Dopodiché l’uomo baciò la sua compagna e i due uscirono dall’appartamento.

New York, 14:30

“Sei uno stronzo, Joseph Griffins”, mormorò con sensualità Blair Waldorf.
“E tu una bastarda, signora Griffins”, replicò un uomo bruno e muscoloso, baciando sul collo la ragazza.
“Hai scelto il tuo vestito per la cerimonia?”, domandò poi spostandosi per stringerla a sé.
“Si, ma nessuno mi sembra quello giusto”, sbuffò lamentosa Blair, scostandosi dall’abbraccio.
“Sai, ogni tanto mi sembra che tu pensi a qualcos’altro. Hai dei flashback?”, domandò lui curioso.
“No, è solo che…sono già stata all’altare una volta e non è andata nel migliore dei modi”, si lamentò Blair, mettendosi seduta sul grande letto a baldacchino.
“Blair. Sai benissimo che di me puoi fidarti. Quando ti ho conosciuta eri emotivamente distrutta per la morte di quel tuo amico…com’è che si chiama?”, iniziò il ragazzo noncurante, prendendo le mani della ragazza, “Ma io ti ho risollevata. Sei rinata, Blair. E se mi sposerai, potremo costruire quella famiglia che hai sempre voluto”, continuò, per poi notare che Blair si era rabbuiata, e ora sul suo volto compariva un alone di tristezza.
“Scusa, non dovevo riaprire quella ferita. Adesso vogliamo prepararci per il pranzo dalla tua amica Serena?”, tentò di cambiare discorso il ragazzo, scendendo dal letto e incitando anche Blair a farlo.
“Si, scusami. Ho pronto un vestito di Prada che è una meraviglia. E poi lo sai che il mio pisolino pomeridiano dopo il pranzo è fin troppo calmo, ultimamente…”, replicò improvvisamente gaia Blair, accarezzando con l’indice il profilo del mento del ragazzo.
Dopodiché si alzò ed entrò nel bagno per prepararsi.

Brooklyn, 14:35

“Ho ingaggiato già tre investigatori privati. L’unico che mi ha saputo dare più notizie è stato il signor Kentucky”, sbuffò Serena Van Der Woodsen entrando accanto ad un uomo sulla cinquantina, volto rigato e consumato, in un localino piccolo e riservato di Brooklyn.
“Lo stiamo cercando da un anno e mezzo, e non abbiamo trovato nulla. Quando ti rassegnerai?”, domandò l’uomo.
“Non lo so, Francis. Forse mai. Se davvero pensi che la nostra ricerca sia inutile, perché anche tu spingi così tanto?”, disse poi Serena, afferrando il blackberry per controllare se il signor Kentucky le avesse inviato qualche novità per messaggio.
“Perché Jacques Bonhomme mi ha dato una speranza”, replicò l’uomo.
“E tu ti fidi di uno che si fa chiamare con il nome con cui venivano chiamati i contadini francesi nel Trecento?”, rispose sarcastica Serena.
“Il suo vero nome e Jacques Saintfemme, d’accordo? E poi da quando Serena Celia Van Der Woodsen studia storia?”, si infuriò l’uomo.
“Non arrabbiarti, zio”, disse scherzosa Serena, annuendo poi verso il cameriere che le chiedeva se desiderava un caffè.
“Non sono tuo zio. Sposare Carol Rhodes perché lei vuole i miei soldi non significa avere una schiera di marmocchi viziati come nipoti”, rispose lui burbero.
“Davvero non ti capisco, Francis. Tua figlia mi adora, mia figlia ti adora…le nostre famiglie dovrebbero andare d’accordo ed essere unite per…beh, per chi sai tu”, parlò Serena, sorseggiando il suo caffè appena arrivato.
“A Samaire piacciono solo i tuoi vestiti, Serena. E comunque riguardo a chi sai tu non so dirti altro. Probabilmente, come mi hai detto al telefono, è a Milano. Parlerò con il signor Negretti, un investigatore italiano della zona e…”, iniziò, per poi essere interrotto da Serena.
“Forse non ce ne sarà bisogno. So chi potrebbe aiutarci”, disse pensierosa, indicando una persona che stava entrando proprio in quel momento nel locale.

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Capitolo 4
*** Some are just babies...and some are adults in a baby mind. ***


New York, morning.

Georgina Sparks non era cambiata molto da quando Serena l’aveva vista l’ultima volta. Sul suo viso, rispetto a sei mesi prima, comparivano delle piccole rughe espressive, e le labbra erano più gonfie del solito, così come il seno. Probabilmente era ricorsa al botulino.
Salutò con una mano due persone sedute ad un tavolo vicino a loro e si sedette su una sedia azzurra vicino a Serena e a Francis.
“Van der Woodsen…ma che piacere!”, esclamò contenta, lanciando sguardi maliziosi a Francis.
“Ciao Georgina. Ti trovo bene”, replicò sarcastica Serena.
“Suvvia…devi ringraziare il cielo che io sia capitata qui”, rispose la mora, mordendosi sensualmente il labbro inferiore, laccato di rosso rubino.
“Grazie!”, esclamò ancora con sarcasmo la bionda.
“Cercate ancora Chuck Bass?”, domandò Georgina, indicando una pila di documenti posata sulla sedia vicino alla sua, su cui era facilmente leggibile il nome del ragazzo, morto qualche anno prima in un incidente stradale.
“Si. E tu potresti aiutarci. Come si chiamava quella famiglia che ti aveva ospitato a Milano, con la ragazza che era diventata tua amica?”, chiese Serena, incuriosita.
“Rosa Sambruni, via Montenapoleone 57. Ma perché dovrei aiutarti?”, domandò iniziando a canticchiare.
“Tu sai farmi saltare i nervi come nessuno sa fare! E comunque, sbaglio o stai frequentando Jack Bass? Fallo per la tua famiglia…sempre se ne hai una”, commentò acida Serena.
“Voi sapete troppo”, iniziò Georgina, “Ma vi aiuterò. Oggi pomeriggio le telefonerò…voglio disturbarla un po’ con la storia del fuso orario. Ci vediamo stasera qui per le novità”, completò poi, alzandosi e facendo per andarsene.
“Ah...ho appena visto Carol Rhodes con un uomo”, disse, strizzando l’occhio a Francis.
Appena si furono accertati che la donna fosse sparita dalla loro vista, si scambiarono sguardi sconcertati e tornarono ad occuparsi del caso Bass.

Milan, night.

“Stefi, stai bene?”, domandò un uomo ben distinto, con lieve preoccupazione.
“Si...credo”, replicò una voce femminile dall’interno del bagno, seguita da un rumoroso rigurgito.
“Fammi entrare, almeno!”, sbottò l’uomo.
“No, Carlo. Devo prima verificare che...”, rispose la donna, interrompendosi all’improvviso.
La serratura scattò e una donna dagli occhi stanchi e visibilmente provati, uscì dalla stanza con un bastoncino bianco in mano.
“Ne ho fatti sette. Sono tutti positivi!”, disse infuriata, sul punto di mettersi a piangere.
L’uomo sgranò gli occhi e si sedette accanto alla donna, che si era appena accomodata sul letto.
“Ce la faremo. Io ti amo, tu mi ami. Cosa c’è di sbagliato in questo bambino?”, chiese l’uomo, accarezzando il ventre alla donna.
“Niente...niente. E’ che deluderò le aspettative dei miei!”, singhiozzò la donna, giocando con le dita sul suo ventre, intrecciando quelle dell’uomo.
“No, non lo farai”, iniziò l’uomo, inginocchiandosi, “Stefania Taranese, vuoi tu prendermi come tuo sposo e padre di tuo figlio?”, terminò, aprendo una scatolina blu con un anello di diamanti.
La donna si coprì il viso con le mani e, sconvolta, annuì urlando.
L’uomo le baciò teneramente il ventre e sussurrò “Chiudi gli occhi...io e la mamma ti spiegheremo cos’è questo fra un po’”.

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Capitolo 5
*** Pills for heart disease ***


New York, morning.

Georgina Sparks non si sarebbe presentata, Serena ne era sicura. La conosceva fin troppo bene, il ricordo di quella giovane donna perspicace quanto negativa le attanagliava la mente più volte, riportandola ai tempi in cui si fingevano Savannah e Svetlana.
Poi lei era ritornata in città e le cose si erano capitombolate. E forse la colpa era anche un po’ la sua, se Serena non aveva ancora un uomo che la amasse.
Certo, c’era sempre suo padre, che l’avrebbe amata incondizionatamente per sempre, c’era Eric, che per lei si sarebbe gettato sotto un treno, e c’era suo zio Francis, che per quanto potesse essere odioso, provava tanto affetto per lei.
Con Dan Humphrey i rapporti si erano invece rotti da sempre: lui aveva sposato una ragazza tedesca, e si era trasferito a Berlino a lavorare per un quotidiano a bassa tiratura.
Con Nate Archibald, invece, ogni tanto scappava un bacio: si tenevano mano nella mano per tre giorni, poi lui fuggiva con una tardona e lei rimaneva a raccogliere i frantumi del suo cuore spezzato. Dopo una settimana passata a girare squallidi pub come vecchi amici, cadevano ancora nel tranello.
Il veloce e fluido scorrere dei pensieri della giovane biondina fu interrotto dal tintinnare del campanello che suonava quando si apriva la porta di quel caffè di Brooklyn.
“Ho la nausea da stamattina...lo scotch era fin troppo vecchio…scaduto!” esclamò squillante la voce di Georgina Sparks, che si stava accomodando su una sedia davanti a quella di Serena.
“E’ un piacere anche per me rivederti, Georgina”, commentò sarcastica Serena.
“Vedere Archibald ti fa male ai neuroni…io l’ho sempre detto”, replicò sprezzante Georgina, ammiccando allo sfondo del blackberry di Serena, che rappresentava una foto di loro due impegnati in un tenero bacio.
“Comunque, a parte ciò, ecco qua tutto quello che ho raccolto: pare che Rosa Sambruni e la sua famiglia abbiano ospitato tre anni fa una specie di senzatetto, che diceva di chiamarsi Carlo”, disse la mora, leggendo da un foglio ripiegato in due.
“Carlo…è la versione italiana per Charles…Charles Bass!”, si illuminò Serena, strappando il foglio dalle mani di Georgina.
“Esatto. Qui ci sono i recapiti telefonici dei Sambruni…ma Carlo non vive più con loro. Sta per sposarsi con una certa Stefania, da cui aspetta un bambino”, disse, strizzando l’occhiolino alla bionda.
“Merda”, si lasciò scappare Serena.
“Oh…non ti facevo così irruenta. Adesso scusami, ma Bass e io abbiamo programmato una sessione molto impegnativa stasera…”, ridacchiò Georgina, alzandosi e salutando con la mano Serena.
Questa la ignorò e procedette nella lettura dei documenti.
C’era qualcosa che non la convinceva: perché Chuck avrebbe dovuto andarsene così?
L’unica che poteva saperlo era l’ultima persona che l’aveva visto quella tragica notte, morto in ospedale: Blair Waldorf.
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Blair se l’era promesso, e l’aveva promesso anche a se stessa: non si sarebbe più torturata con quelle vecchie foto che le facevano male.
Le aveva rilegate tutte in un album giallo, con decori arancioni: l’aveva scelto Dorota, per lei, e il suo stile differente da quello della signorina Waldorf era notabile.
Ce n’erano alcune davvero felici: c’erano quelle che si erano scattate lei e Serena dopo il photoshoot per la Eleanor Waldorf Design, c’erano quelle del ballo delle debuttanti, che vedevano Blair al braccio con Nate Archibald, c’erano quelle del diploma, quelle della NYU, nel periodo in cui simpatizzava con Dan Humphrey, quelle del suo primo matrimonio con Louis Grimaldi, e infine quelle più dolorose, che aveva raccolto in una sola pagina: quelle con Chuck Bass.
La sua morte, la sopravvivenza di Blair a lui, non le permettevano di guardarle, la facevano sentire impotente, inferiore, quasi colpevole.
Eppure, non poteva fare a meno di osservarle, specialmente quella: quella più dolorosa, in quanto felice.
Per la prima volta si dicevano “ti amo”.
L’aveva scattata qualcuno che l’aveva inviata a Gossip Girl, e lei l’aveva salvata sul pc per poterla rivedere ogni qual volta lo desiderasse.
Lui aveva le mani piene di pacchi che le aveva comprato, ma non poteva fare a meno di baciarla.
Le venne una fitta al cuore: il medico le aveva consigliato le pillole ogni qual volta sentisse quelle strane fitte.
Tossì: era uno di quegli attacchi.
Un’altra fitta, più forte, la portò a mordersi il labbro delicato, quasi a spaccarlo.
Allungò il braccio sulla scrivania, cercando senza guardare il pacchetto di pillole che teneva sempre vicine ad un bicchiere d’acqua.
Con le mani tremolanti, lo prese e ne gettò una nell’acqua. Ingoiò e, pesantemente, si trascinò sul letto: le medicine avrebbero fatto il loro corso.
Le si appannarono gli occhi, tossì debolmente ancora una volta, e cadde nell’inconscio.

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Capitolo 6
*** Kaftans in New Dehli ***


New York, morning.

A Blair Waldorf non era mai capitato di essere così indecisa sul da farsi. Mancavano meno di dodici giorni al suo matrimonio, eppure era ancora così inquieta.
Aveva conosciuto Joseph Griffins due mesi dopo la morte di Chuck Bass, durante un viaggio liberatorio in India. Lei indossava un kaftano tipico di Nuova Delhi, lui discuteva con un’autorità della polizia locale. Per poter tornare a New York, lui aveva chiesto a lei di fingere di essere la sua sposa, e poco dopo l’aveva abbordata.
Un anno e due mesi dopo, Blair si era ritrovata con un anello di Tiffany al dito e un vestito di Elie Saab già pronto nella sua custodia di plastica trasparente.
“Amore, perché ci stai mettendo così tanto?”, domandò Joseph.
“Vedrai…ho una sorpresa per te!”, replicò Blair con entusiasmo dall’interno della sua stanza.
Passò un velo di rossetto sulle labbra e allacciò la zip del vestito, un Prada regalatole da sua madre e a sua volta avuto in regalo alle ultime sfilate della collezione primavera/estate.
“Puoi entrare”, disse poi, appoggiandosi alla scrivania.
“Oh…sei bellissima!”, commentò l’uomo, avvicinandosi piano a lei e accarezzando il suo profilo.
“Non riesco a credere che sposerò questa donna meravigliosa fra dieci giorni”, continuò poi, cingendo la vita della ragazza e iniziando a baciarla dolcemente sul collo.
“Non riesco a credere che sposerò quest’uomo meraviglioso fra dieci giorni nemmeno io”, replicò lei, ricambiando i baci con meno passione di quella del giovane.
“Sicura che non vuoi ripensarci?”, domandò lui fermandosi improvvisamente.
“Sei matto? Certo che no!”, esclamò lei, baciandolo sulla guancia con più passione di quella messaci prima.
Forse la sua risposta, se non avesse già organizzato tutto e non gli volesse bene come un fratello, sarebbe stata diversa.
“Ti amo, ma devo andare a lavoro o Vincent mi ammazzerà”, disse poi lui, afferrando una ventiquattrore posata sul divanetto in tessuto azzurro e baciando ancora la ragazza come per salutarla.
“Namaste!”, lo congedò lei, in indiano.
“Namaste”, replicò lui.
Dopo essersi assicurata che l’uomo fosse uscito, Blair si gettò sul letto ed emise un urlo liberatorio.
Tutta quella storia del matrimonio le stava stretta. Si alzò, inaspettatamente presa da una frenesia improvvisa.
Iniziò a frugare nei cassetti di legno del suo mobile per il trucco, finché non pescò quello che stava cercando e che non toccava da più di due anni: una scatoletta blu, con un inconfondibile logo bianco su.
Il suo Harry Winston. Il loro Harry Winston.

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“Salve, sono Serena van der Woodsen. Sto cercando Rosa Sambruni”, Serena van der Woodsen era al telefono, parlando in un italiano fluente, seduta sul jet privato dei Bass, che sua madre aveva ereditato dopo la morte di Bart, diretta a Milano.
“Mi dispiace, è uscita. Se vuole posso farla richiamare”, rispose una voce femminile, squillante.
“Quando sarà di ritorno le dica che ha chiamato Serena, un’amica di Georgina Sparks. E le chieda di richiamare questa Georgina”, disse poi Serena, chiudendo la telefonata prima che la donna all’altro capo potesse rispondere.
“S non ti facevo così italo-americana!”, commentò Georgina.
“Il padrino insegna molto…”, replicò Serena, poggiando la testa sul cuscino della poltrona.
“Oltre a qualche nuova posizione di yoga…”, disse Georgina.
“Yoga? Nel padrino non c’è yoga”, rispose Serena, allibita.
“Non volevo essere così esplicita”, ribatté Georgina, ammiccando alla bionda.
“Georgina, nel padrino non c’è nemmeno quello! Forse dovresti smetterla di stare con Jack!”, s’infuriò Serena.
“Si vede che è da mesi che non stai con un ragazzo che non sia quello scansafatiche-scusa-ma-non-ho-capito-che-hai-detto-puoi-ripetere di Archibald!”, rispose Georgina, acida.
Quel viaggio sarebbe stato molto lungo.

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Capitolo 7
*** Sometimes an happy death is better than a painful life ***


New York, afternoon.

Era l’ultima prova prima del matrimonio. Il vestito le andava sempre più stretto, non perché fosse ingrassata, o la taglia fosse quella errata.
La realtà era che l’intero matrimonio le stava stretto.
Aveva provato durante i giorni che avevano preceduto l’ultima prova a dirsi “Blair sei felice, Blair lo ami. Blair stai per vivere il tuo sogno”, ma la verità era che lei dei sogni era davvero esausta.
Si rimirò allo specchio: Elie Saab è perfezione, lei lo sapeva. Ma quel vestito sembrava il più orribile che avesse mai visto.
Le cingeva la vita quasi a stringerla in una morsa di promesse mai mantenute, con quel colore azzurro cielo, a simboleggiare la libertà, che però veniva ostentata dalle forme così strette.
Si voltò su se stessa: stava per scoppiare.
Emise un urlo liberatorio. In quei giorni le pareva di aver perso la voce urlando in quel modo.
Il conto alla rovescia che Joseph teneva senza esitazione alcuna stava per terminare. Si sarebbero sposati di lì a giorni. Lui la amava davvero tanto, forse quanto un tempo l’aveva amata Louis, di un amore puro e intenso, un amore che non si sarebbe mai sporcato. Un amore che non era sporco, macchiato.
Un amore che si sarebbe sancito con la luna di miele a Parigi e da cui sarebbe nato quel figlio che Joseph tanto desiderava da lei.
Ma lei non era pronta a sposarlo, a passare le vacanze con lui, a ritrovarselo accanto ogni mattina, a crescere un figlio suo.
Mentre i suoi pensieri fluivano liberi nella sua mente, qualcuno bussò alla porta.
Dorota, pensò Blair. O Joseph.
“Avanti!”, esclamò simulando allegria.
Dei passi profondi anticiparono la figura che entrò nella stanza.
La giovane non poteva crederci: un uomo sui ventiquattro anni, perfetto nel suo smoking nero con papillon viola, rughe di espressione accennate vicino alle labbra carnose, aveva fatto la sua entrata nella stanza, un mazzo di peonie in mano e un sorriso triste stampato sul viso.
Era lui: era l’uomo che tutti credevano morto da tre anni.
Era Chuck Bass.
Blair si portò le mani sul viso, indecisa se piangere o felicitarsi. Delle lacrime iniziarono a scendere copiose sul suo volto, a rovinare il trucco che Dorota aveva aiutato a realizzare, a rigare quelle guance che tante volte negli anni che avevano preceduto quel momento erano state attraversate da caldi rivoli di lacrime tristi.
“Chuck...”, fu quello che riuscì a dire, in un flebile sussurro.
Lui lasciò cadere le peonie sul pavimento, stupito quanto la ragazza, e una lacrima rigò anche il suo volto.
“Sei...bellissima”, balbettò, ammirando la giovane futura sposa.
Blair si avvicinò al ragazzo, con le lacrime che ancora le rigavano il volto. Le prese le mani.
“Ciao Blair”, disse, sorridendo.
Lei scoppiò in un altro rumoroso pianto. “Sssh...non piangere. Sono qui, ora. E’ questo l’importante”, disse lui.
Lasciò lentamente che le mani della giovane ricadessero sul vestito, e le baciò la fronte.
Non era pronta. Avrebbe avuto un altro attacco, eppure si stupì di come ancora non le fosse accaduto niente.
“Dove sei stato?”, ebbe il coraggio di domandargli una volta che le lacrime diminuirono fino a ridursi a semplice goccioline d’acqua calda.
“Ero in Italia. Volevo andarmene. Quando c’è stato l’incidente avevo paura di perderti ancora e ho pensato che sarei potuto tornare presto a prenderti e portarti con me se avessi trovato un posto per entrambi. Poi ti ho vista con Nate, quella notte in ospedale, e ho capito...ho pagato dei medici per dirmi morto e sono fuggito a Milano, fingendomi un barbone. Ho trovato una famiglia. All’inizio me ne sono pentito, ma poi...”, iniziò Chuck, sedendosi sul letto.
Blair lo raggiunse, stupita.
“Sssh...non è importante. Sei qui, ora...e non te ne andrai di nuovo, vero?”, domandò lei retoricamente, posando l’indice della sua mano sulle labbra di Chuck e baciandolo dolcemente.
Lui si scostò, e delle lacrime rigarono il suo volto.
Blair non capiva: come poteva Chuck essere vivo ma non amarla più? Non poteva averla dimenticata. Lei non lo aveva fatto: lei era andata avanti con Joseph solo per ripicca, per abitudine.
“Ho trovato una compagna. E’ fantastica, se la conoscessi la adoreresti. E’ incinta e...le ho chiesto di sposarmi”, disse lui.
Per Blair fu come una pugnalata alle spalle. Quelle fitte stavano ritornando, più forti di prima...tossì. La vista le si appannò, le girava la testa, la visione di Chuck scompariva e riappariva.
Non sapeva più cosa pensare. Non riusciva a pensare.
Un’altra fitta.
Non riusciva più a distinguere la voce di Chuck che le chiedeva se stesse bene. Non le interessava più nulla. La morte sarebbe stata migliore, si disse. Si lasciò cadere sul letto.
Senza quelle pillole sarebbe morta, aveva detto il dottore.
La morte è meglio di una vita piena di dolore, si disse.
Ricordò come si era suicidata Dalida, e quello che aveva lasciato scritto “Pardonnez-moi, la vie m’est insopportable”.
Domandò di essere perdonata, perché in quel momento la morte era un paradiso, rispetto a quella vita, che, ormai, le era insopportabile.
Tossì un’ultima volta e si lasciò andare, nelle braccia di Chuck. Come era successo a lui quella notte.
Se l'incontro con lui fosse stato un sogno, l’avrebbe raggiunto. Altrimenti, sarebbe morta pur di non sopportare quella vita.
Pardonnez-moi, la vie m’est insopportable

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Capitolo 8
*** The next person he'll love will be your daughter. ***


New York, morning.

Le pareti dell’ospedale di Manhattan erano di un bianco traslucido, quasi finto all’apparenza. La stanza era piuttosto spoglia: decorata soltanto da sbiadite tendine viola che coprivano l’enorme finestra, alcuni macchinari medici e due poltrone di vimini con cuscini a stampa indiana degli anni cinquanta.
Le uniche persone presenti nella stanza erano Serena van der Woodsen e Blair Waldorf, che giaceva semi assopita sul letto al centro della stanza.
“Dov’è Chuck?”, domandò Blair, in un flebile sussurro. Si era svegliata da poco, ma i medici avevano assicurato che entro il giorno dopo sarebbe potuta tornare a casa.
“Chuck è morto, Blair”, ribadì Serena. Durante tutto il tempo in cui era stata sveglia, Blair non aveva fatto che altro che reclamare Chuck, dicendo di averlo visto, quando Joseph aveva assicurato che in stanza con lei non c’era nessuno e nessuno era entrato.
Dal canto suo, Serena non aveva fatto in tempo ad atterrare a Milano che aveva dovuto prendere il primo volo di linea per New York e lasciare Georgina ad operare per lei.
Appena era arrivata le avevano detto che Blair aveva rischiato uno dei suoi attacchi, di cui aveva incominciato a soffrire dopo la morte di Chuck, e che era salva per miracolo.
La bionda si era allora allarmata e aveva dovuto aspettare qualche minuto prima di poter entrare a parlare con l’amica.
“Ma io l’ho visto...” disse ancora Blair, cercando di aumentare il tono della voce.
“B è meglio che non ti sforzi, altrimenti dovrai restare qui per un po’”, replicò Serena, alzandosi dalla poltrona dove si era seduta.
Mentre si allontanava notò che sia le sue parole sia i sonniferi avevano avuto effetto: Blair si era assopita.
La porta in legno di mogano si aprì prima che potesse farlo lei. “Oh, ciao Serena. Come sta?”, domandò Joseph, premuroso.
“Dorme”, si limitò a rispondere S, allontanandosi dalla stanza.
Appena fuori, si lasciò cadere su una sedia di plastica bianca, l’unica vuota nella sala d’attesa.
“Chi di voi è la famiglia della signorina Waldorf?”, un uomo sulla cinquantina, capelli grigiastri e camice lindo era appena comparso.
“Sono io. Il resto della famiglia è appena tornato a casa”, si alzò di scatto Serena.
“Oh, bene. Ho una notizia grandiosa per lei: dai recenti esami del sangue della signorina Waldorf non solo è risultato che sta benissimo dal punto di vista coagulativo, ma anche che aspetta un bambino!”, enunciò l’uomo, simulando allegria.
Serena sorrise “Ne è certo?”, domandò, aspettandosi delusioni.
“Ovviamente no, bisogna prima fare alcuni accertamenti perché abbiamo dovuto ripetere il test tre volte per ottenere un risultato positivo nella maggioranza dei casi, ma è molto probabile la risposta affermativa”, si dilungò poi l’uomo, facendo lentamente spegnere il sorriso di Serena.
“D’accordo, lo riferirò ai famigliari”, commentò poi, congedandosi ed entrando ancora nella stanza, per annunciare a Joseph del futuro Griffins che sarebbe nato di lì a poco.

Milan, evening

“Amore, stai bene?”, domandò una voce maschile piuttosto agitata.
“Si, tesoro. Devo solo cercare di infilarmi questo stupido vestito”, replicò una voce femminile piuttosto seccata.
“Stefi, devi fare attenzione. Nostro figlio non può crescere nel corpo di una donna che tenta di infilarsi abiti di tre mesi prima che scoprisse di essere madre!”, disse l’uomo appena raggiunta la ragazza.
Le toccò la pancia nuda delicatamente “Ti amo, piccolo. Almeno quanto amo la mamma”, disse.
Delle lacrime di felicità rigarono il volto di Stefania.
“E’ il gesto più bello che un uomo possa fare alla sua donna”, commentò, accarezzandosi il ventre semi-gonfio.
“Andiamo...i tuoi genitori saranno impazienti di coccolare il futuro nipotino”, considerò l’uomo, baciando ancora il ventre di Stefania e provocandole la stessa reazione commossa che aveva avuto precedentemente.
Lo scambio di opinioni fu interrotto da un telefono che squillava, e che fece sobbalzare Stefania.
“Pronto, sono Giorgia Sparchi e sto cercando Carlo Sambruni”, disse la voce all’altro capo del telefono.
“Si, sono io”, ribadì Carlo fingendo di non riconoscere la voce.
“Sarei interessata ad approfondire uno dei suoi progetti architettonici con la Sambruni Homes & Co., dato che li ho molto graditi. Al Cracco alle 23:00 per un dopo-cena?”, domandò la voce, facendosi suadente.
“Non vedo perché dovrei negare. Adesso mi deve scusare perché mia moglie sta per avere una delle sue nausee...a stasera”, si congedò Carlo, che aveva udito il rigurgito di Stefania, arrivato proprio in uno dei momenti più importanti della telefonata.
Contemporaneamente, qualcuno, sull’altra sponda del Po, si stava preparando per l’incontro.
“Chuck Bass non potrai nasconderti per sempre”.

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Capitolo 9
*** She said something about heart disease. ***


Milan, night.

Il Lounge Drink Milano era piuttosto pieno quella sera.
I tavoli a sinistra, imbanditi da colorate cene italiane, erano occupati da eleganti coppiette intente a scambiarsi effusioni, mentre quelli a destra sembravano piuttosto tavoli più seri, occupati da gente che lavorava insieme o da ex compagni intenti a discutere sul destino dei figli avuti prima del divorzio.
“Giorgia Sparchi?”, una voce maschile si rivolse a Georgina, che, labbra laccate di rosso, e tailleur nero, era appena arrivata all’ingresso del ristorante-bar.
La ragazza annuì, e l’uomo che l’aveva chiamata, in divisa da sommelier, le indicò un tavolino privato sull’ala destra.
Georgina s’incamminò verso la tavola, apparecchiata e su cui erano posati due menu neri ed eleganti.
Si sedette, senza salutare l’accurato ragazzo che era accomodato davanti a lei.
“Piacere, sono Carlo Sambruni”, sorrise lui, tendendo una mano alla ragazza.
Lei si ritrasse, quasi disgustata.
“Smettila, Chuck Bass. Sappiamo tutti chi sei e nasconderti non servirà a nulla, sappilo”, disse con malignità la giovane, ottenendo per risposta solo uno sguardo rassegnato.
“Che vuoi, Georgina?”, domandò, sbuffando.
“Voglio che tu torni a New York. Tutti ti credono morto! E invece tu sei qua, a spassartela con una puttanella italiana e a bere drink da ricco nei bar più lussuosi di Milano. Sai, non ti trovo per nulla cambiato”, commentò, mentre sfogliava distrattamente un menu.
“Per Blair è meglio che io stia lontano. Ho visto come la guardava Nate, quella notte, e non mi stupirei se li scoprissi felicemente sposati. Lei aveva chiaramente detto che mi avrebbe evitato per sempre, che io la danneggiavo”, spiegò Chuck, sorseggiando un liquido limpido che sembrava acqua da un bicchiere di vetro.
“Blair Waldorf sta per sposarsi. E pare che dopo la tua presunta dipartita soffra di attacchi di cuore”, ribatté secca Georgina.
Chuck si bloccò, lasciando cadere il bicchiere, che si frantumò sul pavimento di moquette rossa.
“Blair…sta per sposarsi?”, chiese, gli occhi strabuzzati, l’animo di un uomo orgoglioso colpito.
“Anche tu, a quanto vedo”, disse Georgina, indicando una spilla che Chuck aveva sul collo della linda camicia bianca.
“Future husband”, lesse.
Chuck sorrise, pensando a Stefania. “Il punto è che…io vivo qui, oggi”, si riprese subito, affrettandosi a chiamare un cameriere per pulire il disastro combinato a terra.
“Ma almeno non ti dispiacerebbe venire anche solo per qualche giorno e far tranquillizzare tutti? Lily, Bart, Blair, tua sorella…”, chiese Georgina, stranamente calma e pacata.
“Serena è solo la figlia di una delle sgualdrine di mio padre”, fece Chuck, cupo.
Georgina scosse la testa, alzandosi.
“E’ stato tutto inutile, quindi, Chuck Bass”.
Non ricevette risposta.
“Serena ha fatto bene ad andarsene, si è risparmiata questa razza d’uomo che sei diventato”, borbottò poi, allontanandosi.
Chuck la guardò andare via, malinconico.
Persino Georgina Sparks lo riteneva un uomo cattivo.
Come aveva potuto abbandonare Blair?
Per cosa, poi? Per uno stupido sguardo da flirt che aveva notato in un ospedale durante la preoccupazione generale per un incidente stradale che aveva coinvolto entrambi?
Per uno stupido momento di rabbia? Per degli stupidi conti sbagliati delle Industrie Bass gestiti male da Lily? Perché aveva appena litigato con Serena, Eric e Nate? Perché non sopportava che Dan avesse dichiarato amore a Serena, verso la quale lui si sentiva così protettivo?
Per cosa, poi?
Non lo sapeva neanche lui.
Si strappò la spilla dalla camicia, fissandola intensamente e riponendola successivamente in tasca.
Afferrò il telefono, e compose un numero ben conosciuto.
“Pronto, casa Waldorf?”, chiese, appena una voce femminile prese la telefonata.
“Si, chi parla?”
“Sono Chuck Bass, Dorota”.

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Stefania Sambruni, i lunghi capelli castani raccolti in uno chignon elegante, era indecisa: Carlo le aveva detto che sarebbero partiti immediatamente per New York, dove lui aveva da sbrigare degli affari di lavoro.
L’aveva messa in difficoltà.
A Milano, dove tutti conoscevano tutto, era facile fingere di aspettare un figlio: abiti larghi, cibi scaduti da qualche mese da mangiare quando aveva bisogno di vomitare per le nausee, e protesi comprate in negozi di giocattoli quando i sei chili in più presi grazie a torte ipercaloriche di cui diceva di aver voglia non bastavano.
Prese un vestito dall’armadio.
Un Armani blu, lungo e, ovviamente, capiente sul ventre.
Lo avvicinò al corpo: perfetto.
Sorrise, mentre afferrava una delle sue protesi di gommapiuma dalla mensola. La agganciò con i due elastici color pelle come faceva sempre, e la accarezzò, preparandosi all’arrivo di Carlo.
Sentì una chiave girare nella toppa, e chiuse velocemente l’armadio, coprendo le protesi con delle magliette prémaman, come faceva sempre.
Carlo entrò trafelato nell’appartamento.
“Amore, sei pronta? Devi essere elegante perché appena arrivati abbiamo quel pranzo…”, disse Carlo, mentre entrava nella stanza della moglie.
“Come sta mio figlio?”, domandò poi, accarezzando il ventre di Stefania.
Lei sorrise falsamente, mentre Carlo baciava quella che si era rivelata essere la protesi.
“Pronta?”, chiese, mentre raccoglieva delle borse sparse per la stanza.
“Prontissima. Ma mi farai conoscere i tuoi amici, vero?”, chiese poi.
Lui indugiò, piccato. “Certo, amore”, rispose poi.
Era pronto. Pronto a tornare nella sua città, pronto a tornare nella sua New York.

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Capitolo 10
*** Are you talking about that Stefania? ***


Milan, night.

Per Blair Waldorf non c’era niente di peggio della sedia a rotelle.
Dover sedere su una sedia a rotelle significava niente tacchi, niente vestiti lunghi e soprattutto niente camminate sensuali.
Sbuffò.
“Dorota!”, strillò, chiamando la fedele governante.
“Si signorina Blair?”, fece quella, entrando nella stanza della brunetta.
Lei sbuffò ancora.
“Perché mi avete rinchiusa qui da due giorni?”, chiese, nervosa.
Sia Serena che Dorota avevano ammonito Blair di non mettere piede fuori dal suo appartamento, riempiendola di attenzioni.
Joseph, invece, era dovuto partire appena la ragazza era stata dimessa dall’ospedale.
Dorota avvampò, mordicchiando un’unghia.
“In realtà…”, iniziò, guardando nervosamente la porta.
“B!”, Serena van der Woodsen, voce allegra e busta di carta Tiffany’s in mano, fece la sua giuliva entrata nella stanza.
“Ah, ecco. Manca solo Joseph e abbiamo il quadretto perfetto”, commentò secca Blair.
Serena sbuffò, accasciandosi su una poltrona.
“Ti prego, non sai quanto ci è voluto a convincere Lil a partire!”, sviò Serena, riferendosi alla partenza di sua figlia cinquenne Lillian Archibald per un collegio in Svizzera.
“No! Ora basta! O mi dite cosa sta succedendo o io…”, strepitò, cercando un appiglio.
Emise un suono rabbioso, alzandosi di scatto.
Barcollò, per poi poggiarsi velocemente al bracciolo della sedia.
Un suono si udì dal piano inferiore, un suono che assomigliava al campanello.
Blair sobbalzò.
“Ah, ecco!”, esclamò, tornando sulla sedia e avviandosi verso l’uscita della stanza.
“Serena!”, una voce maschile, leggermente impastata, chiamò la bionda.
Serena s’impietrì, alzandosi e cercando di fermare la brunetta, che si era apprestata a scivolare sulla pedana che aveva occupato parte delle scale da quando era ricorsa alla sedia.
“No, B! Aspetta!”, urlò, quando ormai la ragazza era arrivata al piano di sotto.
“Ma cosa volete tutti?”, sbraitò di risposta, mentre faceva il suo ingresso nel soggiorno.
“Blair”.
Fu solo una parola, sussurrata.
Poi il buio.

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Joseph Griffins non era mai stato un uomo di poche parole.
Aveva sempre cercato di trovare una soluzione ad ogni problema, un qualcosa che potesse risolvere qualsiasi dilemma lo attanagliasse, ma quella volta le cose stavano diversamente.
“Ciao, Joseph”, la voce che lo aveva sedotto più volte negli anni precedenti lo distrasse dai suoi pensieri.
“Ah, sei qui”, sospirò lui, voltandosi di scatto.
La donna, fasciata in un elegante abito da sera e dal tono sensuale, ammiccò.
“Se mi hai chiamata per tua figlia, beh, lei è al sicuro in Svizzera”, sospirò poi, avvicinandosi pericolosamente all’uomo.
“Allora dovrai cambiarla di nazione”, commentò lui, allontanandosi di un passo.
La donna esibì uno sguardo interrogativo.
“E perché mai dovrei farlo?”, chiese.
Lui ridacchiò, acido.
“Beh, i nostri mondi potrebbero entrare in collisione”.
Lei impallidì, sfiorandosi la vita magra.
“Oh, ancora con questa recita? Ho capito che non aspetti nessun figlio da quando ti si è piegata la pancia in una delle nostre ultime cene”, commentò secco.
Lei sbuffò, nervosa.
“Va bene, va bene. Cosa vuoi?”, chiese lei, frettolosa.
“I soldi che mi avevi promesso, Stefania”.

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Capitolo 11
*** He's back. But not for her. ***




Blair si svegliò.
Era stata addormentata per quelle che le erano sembrate ore, giorni.
Sospirò, senza rendersi conto del luogo in cui si trovava.
Tastò il vuoto accanto a sé, rendendosi conto che si trattava di un divano, e che lei vi era stesa su.
Frenetica, provò ad aprire gli occhi, comprendendo subito che la vista era troppo sfocata per riuscire a riconoscere cose, o persone.
La prima voce che udì fu maschile, ben conosciuta.
“Blair…sono qui”, una voce calma, pacata, che lei ben conosceva.
Un colpo al cuore per Blair.
La ragazza aprì ancora gli occhi, lentamente.
Tentò di mettere a fuoco la vista, invano.
Una voce polacca le impedì di udire altro: Dorota.
Sentì una mano posarsi sulla sua fronte, bollente.
“Oddio Blair, ti sei svegliata! Eravamo così preoccupati per te!”. Serena.
Blair sorrise, cercando di toccare qualcosa, qualcuno, con le mani.
La sinistra raggiunse un volto umano, conformazioni del viso ben conosciute, tratti tante volte baciati.
Ci giocò divertita, come si fa da piccoli con un giocattolo nuovo.
“Tanto è solo un sogno. Dimmi che è solo un sogno, Chuck”, biascicò.
Lui rise, e si allontanò dalla presa della ragazza.
Lei sospirò, sconsolata.
Ogni speranza era andata perduta.
Era davvero un sog…
I suoi pensieri si bloccarono perché una gettata di acqua fredda, gelida le arrivò addosso, inzuppandola e facendola alzare di scatto, mettendosi diritta.
Aprì la bocca, sconcertata quanto offesa.
“Ma che…? Siete tutti impazziti, per caso? Sciò!”, ordinò, infuriata, lanciando occhiatacce a Dorota, un cameriere in divisa che era comparso quasi dal nulla e che era molto somigliante a Nate, e Serena.
Si mise retta in piedi, accorgendosi di avere ancora la stabilità che credeva di aver perso prima di svenire.
Riusciva a stare in piedi senza la sedia a rotelle, e questo era già tanto.
Era più lucida che mai, e perciò credette di poter riuscire a giudicare se quella di Chuck fosse una visione, o la sua vera e propria persona in carne ed ossa.
Lo notò accasciato in un angolo, sorridente, meschino e sghignazzante come al solito.
“Smettila di fare così, Blair. Sono vivo!”, esclamò lui, avvicinandosi alla ragazza.
Lei aprì la bocca, in segno di sorpresa.
Infuriata, gli diede un veloce schiaffo.
“Stronzo! Mi hai fatta stare male per tutto questo tempo! Hai anche solo una minima idea di quanto mi sei mancato?”, scoppiò a ridere lei, isterica.
Lui le posò le mani sul volto, facendo per baciarla.
Lei si lasciò prendere dal bacio, ricordandosi quel tocco così avvolgente, così sensuale.
Solo lui sapeva prenderla così.
Una voce li bloccò.
“Carlo!”, una voce femminile, che Blair si rese conto appartenere ad una donna fasciata in un elegante abito blu, seguita da un uomo che lei ben conosceva, Joseph.
Il suo (ma si per dire come eufemismo) Joseph.
Blair si staccò improvvisamente da Chuck, dandosi uno schiaffetto.
“Amore!”, esordì lui, avvicinandosi alla donna.
Joseph, sornione, si avvicinò alla sua futura moglie, facendo per abbracciarla ed avvolgerla in un tenero bacio.
“No. Lasciami”, fu quello che riuscì a biasciare lei.
E in quel momento le sembrò più chiaro che mai.
Chuck era tornato, ma non per lei.

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Capitolo 12
*** That pumps are from last year. ***




Blair si rimirò allo specchio per l’ultima volta.
Aveva indossato un abito di haute couture rosso fuoco che lei stessa aveva disegnato, abbinato a scarpe in satin di Dior color scarlatto.
Dopodichè aveva laccato le labbra di bordeaux e pettinato i capelli creando uno chignon, e si era posata esausta sul lavandino, dinnanzi allo specchio.
Non aveva ancora compreso il motivo di cotanta riverenza verso la nuova compagna di Chuck, o, come lo chiamava lei, Carlo e neanche il perché si stessero andando a rintanare nel loro hotel solo per poter cenare insieme.
“Blair, tesoro! Siamo pronti?”, una voce maschile la chiamò, dal piano di sotto.
Aveva deciso di smettere di utilizzare la sedia a rotelle, dato che era riuscita a trovare una certa stabilità sulle sue stesse gambe.
“Arrivo!”, urlò di risposta lei, sospirando.
Quel breve incontro l’aveva shoccata.
Joseph le aveva spiegato di aver incontrato Stefania in portineria, e di aver scoperto che Chuck aveva italianizzato il suo nome in Carlo.
Blair era allora rimasta in silenzio e si era preparata per andare a cena da loro, come aveva gentilmente proposto Chuck.
O Carlo.
O in qualsiasi modo lui si chiamasse.
Blair scese le scale con eleganza, raggiungendo il bruno al piano di sotto.
“Amore, partiamo già?”, domandò, mentre Joseph la scortava all’ascensore.
Lui annuì vago, e i due rimasero in silenzio finchè non ebbero raggiunto la portineria.
“Quindi questa Stefania non conosceva Chuck?”, ruppe il ghiaccio Blair, seduta sui sedili posteriori di una limousine.
Joseph sorrise.
“Stefania ha incontrato Chuck col nome di Carlo, quando aveva dovuto fingersi morto a causa di un affare andato male, come ha spiegato lui, e lei non ha saputo nulla della sua vita a New York fino ad adesso. In realtà lei continua a credere che lui sia tornato a New York per ritrovare il padre biologico e che abbia cambiato il suo nome solo per ovvie ragioni di pronuncia. E non sa che si fingeva morto, ecco perché lui l’ha mandata via quando ce l’ha detto”, spiegò.
Blair annuì, deglutendo per assimilare la notizia.
La limousine si fermò bruscamente, facendo sobbalzare la brunetta.
Joseph le prese improvvisamente la mano, biascicando parole incomprensibili, e poi aprì la portiera, imprecando.
“Proseguiremo a piedi!”, urlò al conducente, mentre conduceva Blair fuori dall’auto.
La ragazza esibì uno sguardo interrogativo mentre Joseph la tirava all’interno di un hotel che lei ben conosceva, la cui insegna rossa luccicava nel buio di New York.
“Empire Hotel”.
Blair provò una fitta al cuore. Era irreversibile.
“Vieni, amore”, le disse dolcemente Joseph, mentre lei chiudeva lentamente gli occhi.
Cercò di non vedere, di non ricordarsi il tappeto di velluto rosso che portava all’ascensore, il profumo di Chuck Bass che aleggiava nell’aria, la suite dove più e più volte avevano consumato il loro amore, il ristorante chic dove la portava a cena.
“Eccoci”, annunciò Joseph, notando che Blair aveva smesso di guardare da un bel pezzo.
“Dalla tua voglia di far restare l’Empire una sorpresa deduco che tu non ci sia mai stata”, commentò.
La ragazza riaprì gli occhi, annuendo con un sorriso falso.
Una donna elegante agitò il braccio in segno di saluto da un tavolo privato in fondo alla sala.
Joseph elargì un enorme sorriso alla compagna, stringendole la mano e conducendola nell’area vip.
Un cameriere li fermò, scrutando una lista fotografica.
“E voi siete?”, domandò.
Appena ebbe alzato lo sguardo, l’uomo riconobbe Blair.
“Signorina Waldorf…”, fece.
Joseph lo corresse facendo per immettersi nell’area “Signora Griffins”, disse con arroganza, stupito per la menzogna di Blair sul non essere mai stata in quel posto prima.
Ma chissà quante volte le aveva mentito lui.
L’uomo gli rivolse un’occhiataccia e depennò qualcosa dalla lista, spostandosi per permettere agli ospiti di passare.
Appena ebbero raggiunto il tavolo, la prima ad alzarsi fu la donna che Blair aveva capito chiamarsi Stefania.
“Ciao Joseph!”, sorrise falsamente, baciando sulle guance il futuro marito di Blair.
“E tu devi essere Blair…che incanto!”, fece lei, con un americano fin troppo perfetto.
Blair sorrise falsamente, dando due baci alla francese alla donna.
Appena si voltò, ebbe modo di analizzarla per intero: minidress giallo limone abbinato a pumps nere, e coda di cavallo alta che metteva i mostra i dolci lineamenti del viso.
Chuck si alzò, una strana luce malinconica negli occhi.
“Ciao Blair”, fece, con la sua voce roca che tanti anni prima le sussurrava parole profonde nell’orecchio.
Lei abbassò lo sguardo, cedendo alla proposta di Joseph di sedersi.
Stefania fu la prima a parlare “Quando Carlo mi ha parlato di suo padre, di quanto gli mancasse e degli amici che aveva qui a New York, e mi ha detto il suo impronunciabile nome, sono rimasta sbalordita…ma devo dire che siete davvero fantastici!”, esclamò, fingendo contentezza.
Blair sorrise.
“Strano che lui non ci abbia mai parlato di te, invece”, fece con cattiveria.
La donna avvampò, ma fu preceduta da Chuck.
“Blair sarà ben felice di ordinare”, disse lui, rude.
La brunetta esibì uno sguardo disgustato, mentre faceva per bere dal calice di champagne.
“No, amore…che fai?”, la bloccò Joseph, con sguardo preoccupato.
Lei lo guardò interrogativa e poi si ricordò di un dettaglio.
All’ospedale erano ancora convinti lei aspettasse un figlio, e delle analisi erano ancora in corso.
Sinceramente lei non aveva ancora capito tutto quel movimento quando bastava effettuarle una visita medica, ma aveva lasciato correre per stanchezza.
Chuck le lanciò un’occhiata strana, tornando poi a guardare la compagna.
“Io e Stefania ci sposeremo tra poco”, annunciò, prendendo delicatamente la mano della donna e mostrando l’anello di diamanti che le aveva regalato.
Blair provò una forte fitta al cuore, e traballò sulla sedia.
Joseph distolse lo sguardo da Stefania e Chuck per concentrarsi su Blair.
“Amore, tutto a posto?”, domandò.
Blair si portò una mano al petto, deglutendo piano.
“Si”, balbettò, con voce strozzata.
Joseph sospirò, tornando ad occuparsi della coppia davanti a loro.
“E poi dopo la nascita del bambino…”, stava dicendo Chuck.
Blair si bloccò un’altra volta.
Stavolta la fitta era stata più forte.
Iniziò a girarle la testa, come se fosse in un mondo che non era il suo, come se tutto ciò che stava vivendo fosse sbagliato.
“Scusate, ho bisogno di andare in bagno”, annunciò, alzandosi dalla sedia, ancora barcollante e dirigendosi verso una porta bianca che era la toilette femminile dell’area vip.
La spinse, notevolmente provata, e si gettò sul lavandino di marmo rifinito.
Non poteva più reggere quella situazione.
Chuck Bass, l’uomo che amava, con cui stava per condividere l’intera vita, e che aveva pianto per tre lunghi anni, era lì con un’altra donna, da cui stava per avere un figlio e con cui stava per convolare a nozze.
Tossì lievemente, e aprì il rubinetto sperando di trovare conforto nell’acqua fredda.
Si sciacquò il viso, tentando di non bagnare i ciuffi liberi di capelli che non erano stati catturati nell’elegante chignon.
Si guardò allo specchio: aveva l’aspetto di una donna provata, stanca, a cui la vita aveva riservato tante, troppe delusioni.
Vide una lacrima scendere sulla sua guancia e si rese conto che non voleva sposare Joseph, ma voleva sentire ancora quel profumo sulla sua pelle, quella voce nelle sue orecchie, quella bocca baciarla, quelle mani così ruvide attraversarle la pelle e il petto, il viso.
Chiuse gli occhi.
La porta si aprì dietro di lei.
“Oh, Blair. Chuck mi ha detto di passare a vedere come stavi”, la voce di quella donna, evidentemente falsa e di plastica, la fece rinsavire.
L’aveva davvero chiamato Chuck?
“Scusami?”, fece Blair, la voce leggermente più forte, l’orgoglio risalito.
La donna avvampò. Che si fosse accorta del temibile errore?
“Sono passata a vedere come stavi”, fece, agitata, cercando di ribadire bene il concetto come se stesse parlando con una bimbetta di quattro o cinque anni.
Blair le sorrise falsamente, notando che sulla sua mano mancava l’anello.
“Il tuo ragazzo sta adorando il mio anello, penso che ne comprerà uno uguale. Sai, chiederà consiglio a Chuck”, la lesse nel pensiero.
Di nuovo quell’orribile errore.
Blair lanciò un’occhiata ai tavoli che si intravedevano fuori dalla porta.
Chuck guardava con occhi adoranti l’anello, gli stessi occhi che un tempo guardavano con adorazione lei e le sue cose.
Ma non c’era tempo per la malinconia.
“Come l’hai chiamato?”, domandò Blair, cattiva.
“Carlo…”, rispose vaga la donna, tremando un po'.
“No, Chuck. L’hai chiamato Chuck. E non credo che una semplice mente italiana come la tua possa distinguere i nomi così facilmente, specie se li trovi così impronunciabili. E quindi, credo che tu nasconda qualcosa”, fece Blair, toccando il ventre gonfio della donna.
Lei si ritrasse, improvvisamente incattivita.
“E…di quanti mesi sei?”, chiese Blair.
La donna non rispose, ed indicò il numero tre su una delle porte che portavano ai bagni singoli.
Blair annuì, passandole accanto.
“Sappi che mi riprenderò Chuck, costi quel che costi”, le sibilò minacciosa nell'orecchio, mentre abbandonava la stanza.
Si bloccò improvvisamente una volta raggiunte le scale che la separavano dal tavolo.
Si voltò e raggiunse Stefania.
“Ah, e quelle pumps sono dell’anno scorso”, commentò sibilando, perfida, prima di tornare falsamente sorridente al tavolo.
Era tornata la Blair Waldorf di sempre, e non aveva bisogno di nessun marito e nessuna minions per affrontare le sue e i suoi rivali.




mentre leggete l'ultima parte potete ascoltare "Me & My Girls" delle Fifth Harmony, gruppo emergente e finalista di The X Factor USA.

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Capitolo 13
*** Armani and Chanel...or baby catalogues? ***




Serena van der Woodsen era quello che si poteva definire una giovane donna con le idee poco chiare sulla sua vita.
Quella mattina si svegliò di soprassalto, le lenzuola spiegazzate e un ragazzo in biancheria intima appisolato accanto a lei.
Guardò con foga l’orologio sul comodino e cercò di ricordarsi dove fosse.
La sera prima Blair le aveva telefonato comunicandole che non avrebbero potuto vedersi per cena perché lei sarebbe andata da Chuck.
Dopodichè, ricordava solamente di aver indossato un abitino piuttosto succinto, dei tacchi quattordici e di essere uscita già con un bicchiere di whisky in mano.
Ciò che era successo in seguito rimaneva nel più totale incognito.
L’uomo vicino a lei si girò dal lato opposto alla ragazza, e balbettò qualcosa.
La giovane posò i piedi sul caldo parquet della stanza, che riconobbe essere una camera d’albergo, e proseguì in punta di piedi fino ad un grosso armadio in legno battuto.
Tentò di aprirlo senza produrre alcun suono, ma le ante cigolarono per qualche secondo prima di stabilizzarsi.
Sbuffò, notando che all’interno di quell’ armadio vi erano una moltitudine di abiti femminili.
Cedette alla tentazione di frugarvi, trovando degli stupendi vestiti di haute couture.
Ne afferrò uno, un minidress color azzurro chiaro in seta, e se lo portò sul corpo.
Sarebbe stato perfetto.
Si tolse il reggiseno, rimanendo quasi completamente nuda, e indossò velocemente il vestitino.
Proseguì per il perimetro della stanza, ritrovando le sue Louboutin blu su una scarpiera insieme ad altre splendide calzature.
“Se solo ci fosse Blair qui…”, pensò ad alta voce, sorridendo a se stessa.
“La tua amica può venire quando vuole”, una voce maschile dietro di lei la fece sobbalzare e le fece cascare le scarpe dalle mani.
Si voltò offesa, ritrovandosi davanti un ragazzo giovane, piuttosto muscoloso e dotato di splendidi capelli color bronzo ed occhi mielati, arricchiti da leggere venature cioccolato.
“Saresti…?”, chiese, allontanandosi e cercando con lo sguardo il bagno.
“Se ti dicessi Louboutin ti lasceresti baciare?”, replicò lui, sarcastico.
Lei si lasciò scappare una breve risata e indossò velocemente le scarpe mentre apriva una porta bianca che avrebbe dovuto condurre al bagno.
“Sei nella mia stanza…e stai per usare il mio bagno. Chi mi assicura che tu sia pulita e non sia una barbona?”, domandò lui, infilandosi un jeans che era posato su di una poltrona.
“Sono Serena van der Woodsen, caro chiunque tu sia”, rispose lei, chiudendo la porta dietro di sé.
“Sono James Pellin e ieri sera tu e io siamo venuti qui perché eri stanca…e stavamo per farlo ma tu mi hai baciato e mi hai detto che ti sentivi strana e volevi dormire”, spiegò lui, attendendo che la ragazza chiudesse l’acqua del rubinetto.
Appena uscì dal bagno dopo essersi rinfrescata, la ragazza afferrò la sua borsa, che era spiaccicata a terra insieme ad altri indumenti che lei riconobbe essere, in ordine di apparizione: il suo vestito della sera prima e la mise sportiva, ed estiva, di quel ragazzo.
Si avvicinò alla porta, decisa a dimenticare quel James Pellin, ma fu mossa da un’improvvisa curiosità.
“Di chi sono quei vestiti?”, chiese.
Lui ridacchiò “Di tutte le ragazze che porto qui”, rispose.
Allorché Serena esibì uno sguardo disgustato e si precipitò fuori dalla stanza, ritrovandosi nel corridoio di un hotel.
Scese le scale e riconobbe la reception dello Union.
Sospirò, mentre attraversava velocemente l’ambiente ricco di luci soffuse e si precipitava fuori nel traffico mattutino di New York.
Cercò nella borsa il cellulare, trovandolo incastrato fra l’iPod e una caramella al limone.
Compose con fretta il numero del suo autista personale, residente nelle vicinanze dell’albergo, a cui ordinò di passarla a prendere, e poi telefonò a Blair.
Le aveva promesso di aiutarla con un piano, come ai vecchi tempi.
“S! Sono già dalla stronzetta!”, si lamentò Blair appena ricevette la telefonata.
Quella mattina si era recata all’Empire per tramare contro Stefania, e aveva mandato un amico di Joseph a fare ricerche sul suo conto.
Dopodichè, era rimasta seduta sul divanetto della hall ad aspettare Serena.
Serena rise dall’altro capo del telefono e le assicurò che sarebbe arrivata in men che non si dica, e di iniziare a procedere da sola.
Seguito il consiglio dell’amica, Blair si era alzata e si era fatta annunciare nella suite del signor Bass, sapendo che Chuck era via nel palazzo delle industrie Bass per risolvere alcune questioni.
Salite le scale che la separavano dal quinto piano, Blair bussò con decisione ad una porta in legno su cui era riportato il numero “721”, chiedendosi se invece fosse stato meglio bussare alla “731”, occupata, come sempre in quel periodo e come riferivano i giornali, da Ivanka Trump e suo marito.
Sbatté nervosamente il piede sinistro sul tappeto di velluto rosso che ricopriva il pavimento, scoprendosi lievemente agitata, ma quando la porta si aprì, rivelando una Stefania, perfettamente vestita per molti, antiquata per altri, tutta l’apparente insicurezza di Blair scomparve.
“Ciao!”, esordì allegra, facendosi spazio fra la figura della donna e la porta, riscoprendo quella strana sensazione di pace e amore che aleggiava nella suite quando ci abitavano lei e Chuck.
Sospirò, presa da un forte senso di malinconia e nostalgia, ma rinsavì appena udì la voce stridula e disgustosa della donna.
“Che cosa ci fai qui? Pensavo di essere stata piuttosto chiara ieri sera…”, fece la donna con tono piccato, riferendosi al gentile saluto che si erano scambiate le due donne la sera precedente, dopo il quale Blair era tornata a casa con un tacco in una mano e capelli italiani in un’altra.
“Ascoltami, sono qui per scusarmi. Non volevo dire quelle cose orribili a tavola, e non voglio assolutamente riprendermi Chuck. Joseph è fantastico, in tutti i sensi! Anche se…beh, quelle pumps erano effettivamente dell’anno scorso”, sorrise Blair, prendendo le mani fredde della donna.
L’altra fece una smorfia, scostandosi dal tocco di Blair, e mise un broncio apparentemente finto.
Blair lo ignorò e continuo a parlare.
“E inoltre, ero venuta a vedere come stavi...e se hai già le tutine più alla moda per il futuro baby Bass che avrete tu e Chuck! Ah, e…domani ci sarà il mio addio al nubilato e vorrei tanto che anche tu ci fossi. Ci saranno tanti uomini niente male!”, fece frivola, sedendosi su uno dei divani a penisola, color crema.
Appena la sua gonna di Vuitton toccò la morbidezza innata di pelle che quel divano si pregiava di avere, il suo olfatto ordinò alla sua bocca di sorridere, perché aveva riconosciuto l’inconfondibile mix che si formava dopo che lei e Chuck erano stati abbracciati per tanto tempo: Acqua di Giò di Giorgio Armani e Chanel no.5
Stefania le si avvicinò, a braccia conserte.
“Va bene, ti perdono. E comunque…no, non ho ancora niente”, disse, incerta.
Blair le fece l’occhiolino, tirando fuori dalla sua borsa un catalogo per bambini e una busta elegante.
“Ci sono delle carrozzine stupende!”, esclamò, porgendo alla donna la rivista.
Ella la afferrò, curiosa, e iniziò a sfogliarla pigramente.
Dopodichè, Blair estrasse dalla busta un cartoncino giallo chiaro e lo porse a Stefania, che abbandonò il catalogo sul divano e prese a leggere con foga.
“Mi stai davvero invitando al tuo matrimonio?”, fece, con una strana luce di orgoglio negli occhi.
Blair annuì, contenta.
“Quanti uomini carini hai detto che ci saranno, domani?”, chiese, retorica.
Blair rise, mentre Stefania le offriva un tè.
Lei accettò, e la vide allontanarsi verso la cucina.
Approfittando della situazione, si sporse verso una borsa abbandonata su di un tavolino di vetro, e ne estrasse con foga un telefono cellulare.
Armeggiò con l’oggetto per cinque minuti e lo rimise subito al suo posto.
Appena la donna tornò con due tè fumanti in mano, Blair disse che doveva scappare e si precipitò fuori dalla stanza, ritrovandosi nel corridoio.
Preso l’ascensore, poté finalmente uscire da quel postaccio pieno di ricordi e controllare il suo telefono.
Un messaggio da Serena, che si scusava per non essere venuta e diceva di aver avuto un impegno più importante ma di volerle ancora bene e di esserci alla sua festa di addio al nubilato, e una chiamata persa.
Notò il prefisso: francese.
Mentre stava per riporre il telefono, indecisa se richiamare o no, esso squillò.
Blair sbuffò.
Voleva esaminare la scheda SD del telefono di Stefania e i numeri di telefono che vi aveva spostato, dopo averla sostituita con una nuova.
“Pronto?”, fece, sbrigativa.
Una voce femminile mugugnò, venendo subito seguita dallo sbuffare costante di Blair.
Aveva fretta, e quanta fretta! Davvero tanta per la solita Blair Waldorf.
Stava per chiudere la telefonata, ma stranamente attese che la voce parlasse.
“Salve, sono Charlotte Grimaldi. Cerco mia zia. Blair. Blair Grimaldi”.

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Capitolo 14
*** They used to call her the American princess. ***




Era chiaro.
Era chiaro a tutti che Blair Waldorf avesse tutto sotto controllo.
Nonostante l’organizzazione del suo addio al nubilato fosse stata affidata a Serena van der Woodsen, Blair aveva dovuto riprendere in mano le redini del suo party, e si era preoccupata di mandare Dorota in avanscoperta per chiarire dove fosse finita la bionda.
“No! Avevo detto che le fontane di champagne devono essere due, non quattro! Il mio sarà un party civile, non un party selvaggio!”, aveva sbraitato quando i camerieri avevano posizionato quattro meccanismi che, attivati, iniziavano ad illuminarsi di blu e a fioccare champagne da ogni angolo.
Dopo la telefonata che aveva ricevuto da Charlotte Grimaldi il giorno precedente, si era rinchiusa nella sua stanza a pensare per un’ora e poi aveva pianificato tutto il tempo che le rimaneva prima della grande notte.
“Signorina Blair, della signorina Serena non c’è traccia!”, la voce di Dorota destò la brunetta, ferma in mezzo al salotto di casa Waldorf, dai suoi pensieri.
Si voltò lentamente, respirando in maniera profonda.
“Come non c’è traccia? Ti avevo detto di cercare in tutti i night club e gli hotel della zona!”, sbraitò.
Dorota fece qualche passo indietro, intimorita.
“L’ho fatto, signorina Blair. Ma nessuno ha visto la signorina Serena”, si giustificò, allontanandosi verso la cucina.
Blair emise un urletto nervoso e si avvicinò al telefono, sbuffando.
C’era un messaggio da Stefania.
Roteò gli occhi. Troppo presa dall’organizzazione del party, aveva ignorato di aver finto un’amicizia con quella plebea e di dover continuare a portare avanti il suo piano.
“Ho un vestito perfetto per stasera, B. Un bacio, –St”, citava il messaggio, a cui era allegata la foto di un minidress rosso fuoco fin troppo mini per una donna in procinto di avere un figlio, ed a scollo ampio.
Blair sorrise.
Sapeva esattamente come buttarla giù.
“Il dress-code per stasera è eleganza notturna, Stefania. Non puttanella di Las Vegas”, digitò, omettendo i saluti.
Sorrise compiaciuta e premette il tasto di invio, attendendo la risposta, che non mancò di arrivare dopo qualche secondo.
“Oh, scusami. Ok…facciamo shopping?” le aveva scritto l’italiana.
Blair sbuffò.
Non aveva voglia di intrattenere alcun tipo di conversazione con quella donna, quindi spense il telefono e lo abbandonò su di un tavolino.
Sospirò ancora, guardandosi intorno.
Camerieri e donne delle pulizie che fluttuavano da un lato all’altro della stanza, prendendo ordini da Dorota, che aveva a sua volta l’ordine di far rispettare qualsiasi tipo di dittatura Blair volesse far seguire.
Joseph era stato esiliato dall’appartamento in tempo per l’organizzazione della festa, ed era andato a stare nell’hotel dove aveva organizzato il suo addio al celibato.
Ripensò al giorno prima, e a come era stato difficile ricacciare dentro tutti i ricordi risalenti a Chuck e Louis.

“Ciao, tu devi essere Blair!”, una ragazza dai capelli corvini, gli occhi incredibilmente verdi e il fisico snello e longilineo, tese la mano verso la brunetta.
Blair la squadrò: outfit piuttosto semplice ma elegante, composto da pantaloncini blu a vita alta, camicia bianca abbinata ed ankle boots dello stesso colore degli shorts.
“Non ti piacciono i convenevoli”, fece la ragazza, solare, appena notò che Blair non aveva stretto la sua mano.
“Vogliamo sederci?”, chiese poi, indicando i tavolini all’aperto del bar in cui si erano date appuntamento.
Blair annuì con la testa.
Ancora non capiva perché aveva accettato di incontrarla.
Non era più una Grimaldi. Louis, Beatrice e Sophie erano passato ormai.
Eppure, quella ragazzina le era sembrata così fragile e solare che le aveva in un certo modo ricordato Serena, e dunque aveva rispolverato il suo blazer da occasioni monegasche e si era precipitata al Rose Café.
“So che tu e mio zio avete divorziato dopo appena sei mesi, ma tu sei l’unica parente che mi è rimasta”, sospirò, mentre si accomodava su una delle sedie in ferro.
Blair sgranò gli occhi, balbettando qualcosa di incomprensibile.
“Oh, non preoccuparti. Sono tutti vivi, ma mia madre mi ignora da quando avevo sei anni”, sorrise amara, e Blair ebbe una strana voglia di abbracciarla.
“Beatrice è tua madre?”, domandò.
La ragazza alzò lo sguardo, stupita dalle parole di Blair.
“Mi ha avuta sedici anni fa, quando lei aveva appena quindici anni. Sophie mi ha spedita in Svizzera da una tutrice che conosceva bene, e ho vissuto con lei fino a due settimane fa, quando ho preso una suite allo Union e ho cercato te. Ho letto di te su Internet: la principessa americana, elegante, vendicativa, perfetta, una it-girl, regina del suo liceo, figlia di una stilista e di un avvocato, amante di Audrey. Sai, anche io la adoro”, spiegò la ragazza, mentre una giovane cameriera si avvicinava per le ordinazioni.
Blair rimase stupita dalle parole di quella giovane.
“Mi dispiace che per te sia andata così. Sappi che se vuoi puoi contare su di me”, disse pacata, allungando una mano sul tavolo.
Charlotte la strinse, e sorrise.
“Quante volte hai visto Colazione da Tiffany e Vacanze Romane?”, chiese, eccitata.
Blair ridacchiò. “Almeno cinquanta. O cinquecento?”, rise ancora, e alla sua risata si aggiunse quella della giovane.
Dopodichè, avevano chiacchierato un po’, Blair l’aveva invitata al matrimonio e all’addio al nubilato, e il loro incontro si era chiuso così, con un abbraccio un po’ titubante.


“Signorina Blair! Sono quasi le sette, si sbrighi!”.
Blair si accorse di essersi assopita solo quando, testa abbandonata nell’incavo del divano, gambe penzolanti fra un cuscino e l’altro, Dorota l’aveva richiamata urlando.
Il suo addio al nubilato era fissato per le otto, e lei doveva essere pronta almeno mezz’ora prima.
Aprì lentamente gli occhi, rendendosi conto che, fra un ricordo e l’altro, si era abbandonato a Morfeo, e scattò in piedi, presa da una frenesia improvvisa.
“Muoviamoci!”, ordinò, riferita più a se stessa che a Dorota.
Dieci minuti dopo, era ancora lì, nel salotto di casa Waldorf addobbato a festa, con indosso uno splendido vestitino nero di pizzo, firmato Gucci, che fasciava le sue eleganti forme, delle pumps Louboutin e le labbra laccate di rosso.
La stanza era divenuta perfetta: luci soffuse si alternavano a un enorme lampadario da discoteca, che illuminava i sessanta quadratini della pista da ballo e i dieci metri quadri del palcoscenico sul quale si sarebbero esibiti i ballerini.
Buffet di macarons e dolci vari combaciavano alla perfezione con i Martini già versati nei bicchieri e le due fontane di champagne, alternate a ben sei fontane di cioccolato, fra fondente, bianco, alla crema, alle nocciole, al pistacchio e al caramello, che sarebbero state il culmine di baci al sapor di fragola.
Le porte dell’ascensore di casa Waldorf si aprirono, rivelando dei ragazzi a torace nudo, con indosso solo dei pantaloni neri strappati e un cilindro da burlesque.
Blair si precipitò dinnanzi a loro, rimanendo incantata alla vista di capelli biondi, occhi azzurri, pelli chiare e fisici californiani.
“Voi vi dovete accomodare lì…”, balbettò, indicando dei pouf rosa sparsi per la sala, dove le invitate avrebbero potuto toccare con mano le braccia muscolose dei modelli e dei ballerini e fare una foto con loro.
Appena tutto fu sistemato, il flusso degli invitati iniziò a concentrarsi su casa Waldorf.
“Auguri B!”, gli urletti di Penelope ed Iz le perforarono le orecchie, e la voce fastidiosa di Nelli Yuki le invase i timpani.
“C’è anche Nate?”, sussurrò Penelope, ancora ferma alla sua cotta liceale.
Blair scosse la testa in segno di no, e procedette nel salutare gli altri.
Alexia Anderson, importante giornalista di People!, Marie Dubuque, life coach e psicologa franco-americana, Pamela McClacy, it-girl e importante modella.
Blair aveva ancora i suoi contatti, grazie alla Waldorf Design di cui era co-direttrice insieme alla madre.
Fra baci, saluti e pacchetti rosa, Blair continuava a cercare con lo sguardo Serena.
Le porte si aprirono ancora.
“Blair!”, la voce petulante di Stefania si fece largo fra gli invitati.
Blair sbuffò, fingendo un sorriso davanti a lei.
“Ciao!”, esclamò, ricambiando il suo abbraccio con falsità.
Notò che il suo vestito era cambiato: non il minidress che Blair aveva bocciato, ma un vestito ancora più corto, quasi inguinale, di color fucsia acceso, abbinato a tacchi fin troppo alti per una donna al terzo mese di gestazione.
Le accarezzò il ventre, e poté giurare di aver visto, sul volto della donna, anche solo per un attimo, una smorfia.
“Perché non mi hai risposto al messaggio?”, domandò, mentre le allungava un pacchetto regalo.
“Il telefono è abbandonato sul tavolo”, replicò Blair, allontanandosi verso l’ascensore.
“Charlotte!”, gridò, appena notò che la ragazza, fasciata in un abito blu corto sul davanti e lungo sul dietro, stava sbucando dalla porta.
“Ciao B!”, l’abbracciò quella, estraendo dalla clutch azzurra un paio di orecchini.
“Fermati, non lamentarti. Erano di Grace. Di quando era in America”, sospirò Charlotte, porgendole due diamanti luminosi. Blair li afferrò, mentre i suoi occhi emanavano una luce sgargiante.
Era lei.
Era davvero la principessa americana, una volta per tutte.
Se li rigirò fra le mani, prima di raccomandarsi con Dorota di custodirli nella cassetta di sicurezza e non toccarli per tutta la sera, o l’avrebbe mandata a lavorare nell’Upper West Side.
Poi, guardato l’orologio, aveva ordinato al portiere di chiudere l’accesso, mandato a Serena un messaggio infuriato, e spento il telefono.
Era pronta.
Era pronta per dire addio alla sua felicità, alle sue amicizie da nubile, a tutto ciò che era stata la sua vita prima di quella sera.
Era pronta.
Ed era Blair Waldorf, più che mai.

Milan, morning.

“Senta, signora, quello che lei non capisce è che sua figlia mi deve centomila dollari o rivelerò il suo segreto a tutti!”, la voce di un americano, accento perfettamente stabilito, stava inveendo contro una donna sulla sessantina.
“Quale segreto?”, aveva chiesto piccata lei.
“Che sua figlia non è incinta”.

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Capitolo 15
*** The people that made her perfect since the day they met her. ***




Una delle cose che Blair Waldorf e Serena van der Woodsen avevano adorato fare da piccole, era sempre stato pianificare il loro matrimonio, il giorno in cui avrebbero coronato i loro sogni d’amore.
Se per la piccola Waldorf era sempre stato Nate ad indossare lo smoking dello sposo, per la selvaggia Serena, capelli sempre irrimediabilmente al vento e vestitini decisamente audaci per una bambina di cinque anni, il volto del suo compagno di vita era inerme, fermo, quasi inesistente, per nulla delineato.
Circa vent’anni dopo, Blair Waldorf e Serena van der Woodsen erano ancora lì, nella stessa stanza in cui adoravano provarsi i vestiti da bambine, ad indossare quegli abiti che avrebbero cambiato loro la vita per sempre.
Blair sospirò, ridendo istericamente.
“Ci credi, S? Stiamo per sposarci!”, eslcamò, aprendo un’anta del grande armadio in legno battuto.
La bionda amica, tacchi alti già sistemati e vestito a sirena già indossato, la seguì a ruota nel ridere, e la osservò mentre estraeva il suo abito dalla custodia di plastica.
“Et voi…”, la voce allegra di Blair si bloccò inorridita quando estrasse l’abito.
Una enorme pozza di sangue si estendeva su tutto il corpetto, e continuava fin dentro l’armadio.
Si sporse nelle ante, e rimase colpita negativamente da ciò che vide: tutta la sua vita, i suoi amici, inermi in piedi, quasi come appesi ad un filo…tutti. Tutti, tranne uno.
Chuck Bass era mano nella mano con una donna dal viso d’angelo, che aveva in mano un pugnale, e stava per conficcarlo nel petto dell’uomo.
Blair stava per sporgersi verso di lui, ma…

“No! Chuck!”, l’urlo proveniente dalle labbra secche di Blair Waldorf svegliò un uomo sulla ventina, che dormiva beato accanto a lei.
“Che vuoi?”, biascicò una voce maschile, piuttosto giovane, rivolta alla ragazza.
Blair si mise seduta, un lancinante dolore ad attanagliarle la fronte.
“Chi sei tu?”, chiese inorridita, quando notò che accanto a lei, il vestito della sera prima ancora indosso ed i tacchi spezzati ai piedi, vi era uno dei ragazzi che aveva chiamato per esibirsi al suo party.
“Sono John, bellezza”, mormorò lui, sensualmente.
Lei esibì una smorfia e fece per alzarsi, quando notò che non era sul suo solito letto a due piazze, piuttosto alto per lei, ma sul divano del soggiorno, e che a dormire, proprio sotto i suoi piedi, c’erano due figure avvinghiate.
Si portò una mano alla testa, ed ebbe il coraggio di guardarsi intorno: i ballerini se n’erano andati quasi tutti, ma poteva benissimo riconoscere Stefania, appesa dormiente al bracciolo di uno dei due divani, e altre due ragazze, i cui corpi penzolavano addormentati dai pouf.
La brunetta si alzò, provando a scansare la coppia stesa sul pavimento, e cercò con lo sguardo l’interruttore della luce, trovandolo vicino alla televisione.
Appena le luci al neon della stanza si accesero, dei mormorii scoordinati si levarono dai giacenti sul pavimento.
“Blair!”, una ragazza piuttosto giovane, capelli disordinati e vestitino succinto, chiamò la giovane Waldorf.
“Penelope, quanta classe! Fuori di qui o chiamerò immediatamente Roston…Boston…com’è che si chiama il tuo fidanzato?”, fece, candida.
La giovane esibì uno sguardo preoccupato e si levò dal corpo di uno dei pochi ballerini rimasti alla festa, barcollando verso l’ascensore.
Un altro urlo di Blair fece rinsavire i restanti presenti.
“Dorota!”, strillò, notando con piacere che sia il ragazzo sul divano, sia Stefania e le altre due giovani, si stavano strizzando gli occhi.
La cameriera di casa Waldorf, divisa perfettamente pulita e un paio di asciugamani puliti in mano, si presentò giuliva al cospetto di Blair.
“Mi dica, signorina Blair!”, fece.
“Perché non hai pulito?”, chiese perentoria Blair, notando con la coda dell’occhio che i suoi invitati addormentati si stavano dirigendo verso la porta.
“Ma signorina Blair, ho fatto portare via tutto! Non c’è più la palla da discoteca, la pista, le fontane. Le ho lasciato solo due pacchi di macarons!”, spiegò.
Blair inspirò ed espirò più volte, tentando di calmarsi, e si guardò intorno.
“Dorota! Ti rendi conto che mi sposo tra cinque ore!”, sbraitò, lanciando una breve occhiata all’orologio da parete che segnava le dieci del mattino.
“Si, signorina Blair, lo so! Ecco perché fra dieci minuti saranno qui la sua stilista, la make-up artist, l’estetista, la massaggiatrice e la parrucchiera! E ho chiamato un food counselor per la colazione!”, annunciò, indicando un uomo che, seduto al tavolo da colazione nella stanza accanto, stava esaminando i cibi proposti dallo chef personale dei Waldorf.
Blair sorrise, facendo per salire le scale.
“Mandameli tutti in camera esattamente fra dieci minuti. Ho bisogno di un macaron e di un bagno caldo!”, esclamò, avviandosi al piano di sopra.

---

“Quant’è?”, Serena van der Woodsen, capelli scompigliati e vestiti identici a quelli di due giorni prima, si stava rivolgendo sconsolata ad una cameriera.
“Signorina, non crede di aver bevuto un po’ troppo?”, fece questa, porgendole uno scontrino.
Serena fece cenno di no con la testa, ubriaca.
Aveva rovinato la vita di sua figlia, del suo compagno e di tutti quanti coloro che la conoscevano.
“Serena!”, una voce maschile la richiamò all’attenzione.
Lei si voltò, stupita nel riconoscere Joseph, futuro marito della sua migliore amica, che aveva in mano una banconota di cinque dollari.
Lo salutò con la mano, cercando di scendere dallo sgabello per raggiungerlo.
Barcollò sino all’entrata del bar, dov’era fermo lui, e gli si aggrappò, facendolo quasi cadere.
“Portami da Blair…”, biascicò.
Il ragazzo rise, trascinandola fuori dal cafè.
“No, tu adesso vieni con me in hotel, bevi tanta acqua e ti fai una bella doccia”, annunciò divertito, aprendo la portiera del taxi che lo aveva appena scortato lì, e posandoci delicatamente la ragazza.
Dopodichè, si accomodò accanto a lei e tirò fuori il telefono dalla tasca.
Attese che la ragazza fosse quasi totalmente fuori gioco ed iniziò a digitare qualcosa.
“Non aspettarmi. Piccolo cambio di programma. Prepara i soldi o dirò tutto a Bass”.

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Blair non si sentiva pronta.
Lei non lo era.
Più volte aveva immaginato il momento in cui avrebbe indossato il suo abito da sposa come un momento magico, in cui si sarebbe sentita piena d’amore, ma in quell’istante, circondata dalle persone che l’avevano resa perfetta per quel giorno, e non da quelle che amava, si sentiva stranamente vuota.
Il suo telefono prese a squillare ininterrottamente, e lei ordinò all’hair stylist e alla make-up artist di portare via tutti, perché le sue conversazioni erano private e non origliabili.
Lesse il nome sullo schermo, che non poté che provocarle una fitta al cuore.
“Chuck?”, chiese titubante, aprendo la conversazione.
“Ciao Blair…”, la sua voce profonda lasciò intendere che avesse voluto dire altro ma che era incapace di far fuoriuscire le parole dalle sue labbra.
“…come stai?”, concluse.
Lei sorrise, amara.
“Bene”, ebbe il coraggio di replicare, ammirandosi allo specchio.
Il trucco era nude, candido, e i capelli erano rimasti sciolti, resi più mossi dalla piastra, più profumati da Chanel no.5, e più regali dal diadema di sua madre.
“Ok”, sospirò lui.
“Perché mi hai chiamata, Chuck? Per dirmi che la tua ragazza oggi non ci sarà a causa di una visita, o che altro?”, fece, fredda.
Lui rise, amaro almeno quanto lei.
“No, Blair. Ti ho chiamata per chiederti scusa. Con quel bacio, tre giorni fa, ti ho illusa”, mentì.
Lui stava mentendo, era udibile dalla sua voce.
Lui non poteva dirle che l’amava, che era stato più contento che mai appena l’aveva rivista, che aveva provato le stesse sensazioni che provava quando i due erano insieme.
“Oh, non preoccuparti. Dopotutto, sto per sposarmi”, sorrise lei, guardando il suo anello di fidanzamento, che, sapeva, Chuck non poteva né immaginare né vedere.
“Lo so. E volevo anche dirti che sia io che Stefania ci saremo”, annunciò, pacato.
Blair deglutì.
“Dillo. Dì quel noi. Dì che la ami. Dì “noi ci saremo”. Dillo”, gli ordinò, le lacrime che copiose le scendevano dagli occhi.
“Noi ci saremo”, sussurrò lui.
“Era tutto quello che volevo sentire, Chuck. La ami davvero”, balbettò lei, chiudendo la telefonata senza dargli il tempo di replicare.
Sospirò, e si sentì più sola che mai.
Perché accanto a lei, in quel momento, non c’erano le persone che l’avevano resa perfetta fin dal primo giorno in cui l’avevano incontrata.

----

Serena si era appena svegliata, e aveva notato di essere in una stanza d’albergo e di essere piuttosto lucida per aver bevuto come beveva un tempo.
“Senti, Joseph. Non posso darti nessun soldo! Non ne ho! E non posso usare quelli di Chuck…”, stava balbettando una voce femminile.
“Ah, se è per quello, non preoccuparti. Ho deciso di revocare il nostro accordo. Distruggerei il mio matrimonio con Blair, e non voglio farlo”, stava rispondendo una voce maschile, noncurante. Allorché, la porta si era sbattuta chiudendosi, e la donna se n’era andata.
Serena tentò di alzarsi, ma si fermò quando notò che l’uomo, digitando dei numeri sul suo telefono, stava raggiungendo la stanza da letto.
“Pronto? Cerco Chuck Bass. Sono Joseph Griffins e ho delle informazioni sulla sua fidanzata, Stefania Taranese”.

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Capitolo 16
*** Two plus two. ***




La marcia nuziale era già partita, solenne ed impettita come non mai.
Joseph aveva fatto le cose in grande, aveva chiamato la New York Philarmonic Orchestra a suonare per gli sposi sia alla funzione che al ricevimento, e Blair aveva adorato quelle premure.
Don Samuel, il sacerdote che li avrebbe resi marito e moglie, era già appostato sull’altare, sorridente, occhialini posati sul naso alla francese, libro sacro fra le mani.
Accanto a lui, mani sudate che si torcevano fra loro, Joseph, in un elegante smoking bianco, batteva leggermente il piede sul liscio pavimento.
Appena la terza nota scattò, una figura slanciata fece la sua comparsa sulla navata principale.
Chioma bionda raccolta in un’elegante coda di cavallo, sorriso di plastica stampato sul volto, bouquet di rose in mano e tipico vestito da damigella viola, Serena van der Woodsen stava percorrendo lentamente la strada che la separava dall’angolo dell’altare, in cui lei, Penelope, Iz e Isabel si sarebbero appostate per l’arrivo della sposa.
Dietro di lei, le tre ragazze, scimmiottando la sinuosa camminata della bionda, vestiti coordinati fra loro ma differenti da quelli della damigella d’onore, stavano rendendo più spedita la camminata, rovinando l’armonia del momento.
Appena le quattro furono giunte a destinazione, la musica si fermò.
Era il momento dell’arrivo della sposa.
Dodici file di invitati, signore con eleganti cappellini all’inglese e vestiti a motivo fiorato, uomini con sigarette lunghe fra le labbra e visi contratti, si alzarono, sporgendo le teste verso l’entrate dell’abbazia.
Una chioma castana spuntò dalle porte.
Blair Waldorf, per la seconda volta nella sua vita terrena, era una sposa.
L’abito bianco, perfettamente stirato, combaciava a perfezione con il trucco leggero che era stato più volte risistemato durante la giornata, e con i capelli al vento, liberi e semplici com’era d’altronde sempra stata la selvaggia Blair.
La Queen B, che anche il giorno del suo matrimonio era stata capace di indossare un cerchietto con diadema, stava salendo gli scalini dell’altare.
Dopotutto non era durata molto.
Solo due passi, due sorrisi finti e sarebbe finita. Il velo le era sembrato una di quelle palle di metallo che venivano attaccate ai criminali in carcere nell’antichità, il vestito una camicia di forza e l’intera chiesa una caserma della polizia, ma dopotutto, lei doveva farlo.
Doveva farlo per Joseph, che amava.
Per sua madre, che desiderava solo vederla felice.
Per Dorota, che ci aveva messo l’anima, in quel matrimonio.
Per Chuck, a cui avrebbe dato modo di dimenticarla ancora una volta.
Per Stefania, che avrebbe lasciato libera di amare Chuck senza alcuna concorrenza.
La cercò con lo sguardo, la puttanella italiana.
Vestitino succinto, mano impalmata da un anello di fidanzamento piuttosto vistoso, viso spiaccicato accanto a quello Chuck, mise senza un filo di classe, era seduta in seconda fila dalla parte della sposa.
Per lei poteva anche sedersi in fondo.
Sulle sedie di plastica.
Nere.
Quelle delle anziane.
Quelle delle vecchie, acide, anziane.
Deglutì, tentando di spostare quei pensieri dalla sua mente.
Lei era Blair Waldorf, e stava per sposarsi!
Lanciò una breve occhiata a Joseph.
Lui la ammirava, gli occhi strabuzzati a quella vista celestiale, l’amore che gli fuoriusciva dal petto.
Lei abbozzò un sorriso, tornando a rivolgere il proprio sguardo all’altare, che aveva ormai raggiunto.
Fu questione di pochi secondi, ed il prete iniziò a ciarlare di sacramenti, di Dio che aveva voluto quell’unione…
Ma come poteva volerlo Dio, quel matrimonio, se la prima a non volerlo era proprio la sposa?
Blair deglutì ancora.
“Ed adesso, lo sposo leggerà le sue promesse per la sposa”, annunciò il sacerdote, rivolgendo un sorriso eloquente a Joseph, che, scortato dai suoi testimoni uomini, aveva afferrato un foglio sgualcito e si era apprestato a leggere.
“Cara Blair, il primo giorno in cui ti ho vista, a Nuova Dehli, mi sei sembrata una pazza schizofrenica con manie di potere”.
Una pausa.
Risate in tutta la sala.
Una lacrima di gioia (o tristezza?) sul volto di Blair.
“Ma quando ti ho conosciuta meglio ho capito che tipo di persona sei. Aiuti tutti, anche nei momenti in cui ti verrebbe voglia di urlare, partire, scappare, ci sei sempre per gli altri. Rispondi loro sempre con un abbraccio, un bacio, un gesto d’affetto. Ci sei per chi ti ama, così come ci sei per chi non lo fa. La vendetta? Sai cos’è, la sai sfruttare bene, ma sai anche amare, che è la cosa più importante di te. Una volta, durante uno dei nostri litigi, cocciuto come sono ti ho minacciata di andarmene. Ricordo ancora che tu mi dicesti –Sai, il mio mondo sarebbe migliore se tu te ne andassi. Ma non sarebbe il mio mondo senza di te in esso”, le parole strappalacrime di Joseph finirono, producendo un generale senso di amore e commozione nella folla.
Blair però aveva capito.
Aveva finto di piangere, commossa e felice, si era fatta consegnare il foglio con le sue, di promesse, ma aveva capito.
Joseph aveva scritto quelle promesse.
Sicuro.
Le aveva scritte Joseph.
Proprio lui.
Pensò di fare l’occhiolino a sé stessa, ma al posto di quel gesto così beffardo, sorrise al sacerdote, preparandosi a leggere.
“Sai Joseph, dopo aver sentito le tue parole mi sembrerà sicuramente difficile iniziare il mio discorso. Ho in mano la penna. La nostra penna. Quella che ti cadde a Nuova Dehli, che tu mi regalasti. Quella Bic nera, che avevi sin da quando eri andato in Italia. Non una penna da signore eleganti, una penna da bambini. Anche il mio discorso è da bambini. Ciao Joseph”, una pausa, in cui Blair imitò la voce di un neonato.
Le risate generali riempirono la sala.
“Non ho mai capito di amarti sino a due minuti fa. Scherzo. Ovvio che ti ho amato sin da subito. Ho amato i tuoi baffi, i tuoi capelli, il tuo cognome da cartone animato, il modo in cui mi trattavi, i regali che mi facevi. Anzi, voglio usare il futuro. Tratterai, farai. Avremo. Perché sì, noi avremo delle cose insieme. Avremo una casa fantastica, un matrimonio stupendo, una famiglia meravigliosa. Lo avremo insieme, io e te. Ora sposiamoci. Si sbrighi, parroco”, finì di leggere con un sorriso, forse l’unico sincero in tutti gli ultimi venti minuti.
Un sorriso provocato più dal ritrovarsi nella comicità delle parole scritte, che dall’amore scaturito da esse.
Il sacerdote ridacchiò, attese che i due paggetti chiamati da Blair per sostituire Lily Spence, arrivassero a destinazione scortati da Eleanor, e consegnò l’anello a Joseph.
“Blair Cornelia Waldorf, vuoi prendere come tuo sposo il qui presente Joseph Thomas Griffins?”, domandò, mentre Joseph faceva per infilare l’anello sul dito medio della donna.
Lei deglutì.
Una sillaba, due lettere, una parola che le avrebbe cambiato la vita.
“Sì”, sibilò, attendendo che la superficie fredda dell’anello raggiungesse il suo dito come un’ombra, un fantasma.
Una voce si levò nella sala.
“Ha dimenticato un passaggio”.
Una voce conosciuta.
Il sacerdote sembrò confuso, gli sposi si voltarono contemporaneamente, quasi impauriti dalla provenienza del suono.
Blair sospirò, l’anello si era bloccato a metà strada fra l’unghia e la fine del dito.
Gli diede una spinta, facendolo aderire alla parete del dito.
“Ha dimenticato un passaggio”, ripeté la voce, sempre più certa di ciò che stava dicendo.
Blair sorrise.
Era Chuck, il suo Chuck.
E lei sapeva di quale parte stesse parlando, di quella parte che Joseph, per paura di perdere la sua donna, aveva fatto tagliare insieme ad altri piccoli dettagli.
Stefania la guardò distratta, quasi calma, cosciente che ciò che stesse dicendo il suo compagno fosse un qualcosa da niente.
“Ha dimenticato di chiedere se qualcuno è contrario al matrimonio. E poi si tace per sempre”, disse tranquillo, il tipico sorriso sornione stampato sul volto.
Lo sguardo noncurante di Stefania si trasformò in uno sguardo preoccupato, e la prima cosa che fece fu sillabare un “cazzo”, che Blair riuscì a leggere anche a 50 metri di distanza.
La brunetta cercò di carpire le reazioni altrui: sua madre sembrava agitata, il resto degli invitati confusi, Serena quasi consapevole, Joseph calmo, il sacerdote interdetto.
“Ehm…gli sposi…sono stati loro a chiedermi di eliminare questa parte”, biascicò, tentando di dare una spiegazione.
Chuck annuì, e tornò a sedersi con tranquillità.
Blair capiva a cosa serviva quell’exploit.
Capiva che l’aveva detto nell’esatto momento in cui l’anello stava per scenderle sul dito per darle quell’attimo di euforia, passione, che avrebbe potuto farle cambiare idea per sempre.
Capiva.
Lei l’aveva sempre capito.
“Allora, the show must go on!”, ironizzò il sacerdote, continuando a blaterare.
“Abbiamo saltato un altro passaggio”, ridacchiò, “Ripeta con me”, fece poi rivolto a Joseph.
“Ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà, nel nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo”, la voce di Joseph riecheggiò nella sala mentre sfiorava la mano della sua sposa.
Il prete annuì, e riprese a domandare.
“E tu Joseph Thomas Griffins, vuoi prendere come tua sposa la qui presente Blair Cornelia Waldorf?”.
Joseph sorrise.
“No”.
L’intera sala si voltò sconcertata verso di lui, i respiri trattenuti.
“Certo che sì!”, continuò lui, ridacchiando.
Migliaia di espirazioni riempirono la chiesa.
Blair rispose al sorriso con un bacio disegnato sulle sue labbra carnose, laccate di Chanel Le Rouge no. 7.
Ancora la frase da ripetere, ancora quel “Ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà, nel nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo”, pronunciato stavolta dalle labbra titubanti ed inumidite di Blair, ed il momento fatidico arrivò.
Dopo quella frase, quella dichiarazione, davanti a Dio e davanti ad i presenti, nessuno avrebbe più potuto ripercorrere le strade del tempo e tornare indietro.
“Con la benedizione dei presenti e la volontà di Dio nelle mie mani, vi dichiaro marito e moglie”.
Una serie di applausi si levò nella sala, e la voce del prete che annunciava il bacio fu zittita dalle urla di felicità.
Il bacio che Blair aveva sognato da bambina, quel bacio casto ma pieno d’amore che aveva sempre desiderato, era volato via.
Un’unione di labbra priva di sentimento alcuno, salive che si incrociavano senza appartenersi, falsi sorrisi che erano comparsi sui volti degli sposi appena il bacio era terminato.
Fu questione di minuti, e gli invitati, gli sposi e le damigelle si erano riversati fuori dalla chiesa.
Il tradizionale lancio del riso stava avvenendo nel caos più totale.
Blair era riuscita a malapena a rendersi conto di ciò che stava accadendo, quando nella folla riuscì ad incontrare il suo sguardo.
Quello sguardo che, anche se accecata da migliaia di chicchi di riso, anche se stordita dalle urla e dagli applausi, anche se tenuta ferma dal braccio del suo sposo, avrebbe potuto riconoscere ovunque.
Quello sguardo che sarebbe stato suo per sempre, matrimonio o no.

--------------

La baraonda creata dalla folla aveva costretto Stefania ad allontanarsi.
Nonostante le girasse la testa e avesse una voglia matta di scappare da quella situazione, era riuscita a trovare il bagno della chiesa.
Il bastoncino in mano, la tensione alle stelle, sapeva che solo da quel semplice segno matematico sarebbe dipesa la sua vita.
Certo, quel semplice segno avrebbe potuto significare niente protesi, niente chili in più, niente gelati al pistacchio a mezzanotte, oppure, ancora tutto quello, con più fatica.
Un semplice segno, e la sua situazione sarebbe cambiata radicalmente.
Eccolo.
Due più due fa quattro, ma in quel caso, avrebbe potuto benissimo anche fare tre.

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Capitolo 17
*** History always repeats itself. ***




Se Blair Waldorf avesse dovuto trovare la definizione di “semplice” in quell’esatto momento, non avrebbe di certo indicato l’atmosfera che la circondava.
La sala ricevimenti era colma di gente, persone di cui lei conosceva solo la metà, invitate da Joseph e sua madre, non di certo dalla giovane Waldorf.
Al centro c’era il tavolo degli sposi.
Una scelta geniale per evitare l’assalto degli invitati, pensò sarcastica Blair.
Appena erano arrivati, lei e Joseph avevano tagliato un lungo nastro rosso ed avevano dato il via alla serata.
Doveva essere tutto perfetto, perciò a cantare era stata chiamata Florence Welch, una grande amica di Serena, che avrebbe dovuto dare voce al romantico momento del primo ballo.
Ma Blair, in tutto quello, di romantico non riusciva a trovarci nemmeno l’acino dell’uva che stava consumando, appoggiata al buffet della frutta.
Non aveva guardato Chuck Bass per tutta la serata.
Il suo tavolo non era posto concentricamente al tavolo degli sposi, come gli altri, ma era abbandonato in un angolino, insieme a quello di Dan Humphrey.
Era tornato dalla Germania solo per il suo matrimonio, ma non aveva avuto neanche il tempo di salutarla.
Molto probabilmente era lì con la sua stangona germanica, come adorava definirla Blair.
Mentre pensava a come avrebbe potuto far sfigurare la barbara ragazza di Humphrey, una mano si poggiò sulla sua spalla nuda.
Si voltò di scatto.
Serena.
“Hey, B!”, fece allegra lei, allungando un braccio per afferrare un piatto dalla pila.
“S, ti prego, salvami”, blaterò drammatica la brunetta, inforcando delle fragole al cioccolato e portandosele teatralmente alla bocca.
La bionda la guardò sporcarsi il muso divertita, e attese che anche Joseph raggiungesse la combriccola per vedere come avrebbe reagito.
“Amore, di là ci aspettano tutti per il primo ballo”, fece lui, indicando la zona della pista da ballo dove si stava riversando la maggior parte degli invitati.
Fortunatamente, dopo una cena a base di sushi, surimi, blini di salmone, tacchino da Ringraziamento, e fin troppi bicchieri di champagne, la serata stava per volgere al termine.
Un altro passo e tutto sarebbe finito.
Puff.
Scomparso nel nulla.
Blair afferrò un tovagliolo di seta da una delle pile, se lo passò con nonchalance sulle labbra, se le leccò in fretta, e seguì Joseph, racchiudendo la sua mano in quella sudaticcia di lui.
“Ebbene, signori e signore, prima della torta, prima che tutti vi ubriachiate e non riusciate a formulare un discorso sensato…gli sposi!”, aveva annunciato Nathaniel, microfono in mano, da una zona sopraelevata della pista.
Blair rivolse un sorriso complice a Joseph e vi si posizionò accanto, pronta a danzare quel valzer lento di due minuti che avevano provato tante volte.
Lui la guardò con occhi sorpresi, e la musica iniziò a suonare “La vedova allegra”.
Non proprio un tema felice per un matrimonio, pensò Blair, ma non osò mettere in dubbio la bravura dell’orchestra e i gusti della madre di Joseph.
Mentre volteggiava elegante sulla pista, stretta al petto di un uomo che non vedeva suo, Blair cercò ancora lui con lo sguardo.
Si sarebbe presa un torcicollo, se non avesse notato il vestitino succinto della puttanella italiana.
Appuntò di farsi un sorriso compiaciuto, più tardi.
Lanciò una breve occhiata a Chuck.
Era lì. Per vederla ballare. Come tutti, d’altronde.
Nei suoi occhi, per la prima volta, non riusciva a leggere niente. Freddezza, apatia, come quando Blair stava sposando Louis.
Le sembrava la stessa identica situazione.
La musica del valzer terminò, e Joseph la tirò a sé per un dolce bacio, che Blair ricambiò disgustata.
Terminata la scenetta, gli invitati tornarono a disperdersi, e Joseph sussurrò alla sua sposa di dover andare in bagno, lasciandola da sola davanti alla fontana di cioccolata.
Mentre immergeva una fragola nella fontana, qualcosa bloccò Blair.
Le luci si spensero.
Un black-out?
Una voce prese a parlare al microfono. Una voce femminile, ubriaca.
Già sentita, si disse Blair. Già sentita.
“Questo è il mio discorso per gli sposi, gente! Come voi tutti saprete, cari spettatori di questa farsa, io sono la compagna di Chuck Bass. Il magnate dell’industria, Chuck Bass. E se sono qui, è per fare un mea culpa generale. Vedete quel neonato in foto?”.
Lo schermo gigante che era stato preparato per gli sposi si accese, mostrando un bambino in una culla.
La sala si zittì, Blair compresa.
“E’ mio figlio. Mio e di Joseph Griffins, gente. Io sono Stefania Taranese. E sto per avere un bambino con Chuck Bass. Mi dispiace, Blair, ma siamo noi la coppia più felice!”, urlò la voce.
Blair rimase sconcertata.
Gli occhi le fuoriuscivano dalle orbite, incapaci di fare altro. Qualcuno urlò.
“O forse no!”.
Le luci si accesero, e Serena van der Woodsen si mostrò in tutto il suo splendore, protesi appartenente a Stefania in mano, sguardo compiaciuto sul viso.
Blair sorrise.
Poi guardò Chuck.
Aveva uno sguardo sconcertato.
Ma certo.
Blair capiva.
Adesso capiva.
Capiva tutto. La storia si ripete sempre due volte.
La prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

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