Amnesia -The first Hunger Games are coming-

di Killapikkoletta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dreams come true ***
Capitolo 2: *** Psychotropic Drug ***
Capitolo 3: *** Chosen ***
Capitolo 4: *** Hope ***



Capitolo 1
*** Dreams come true ***


Dreams come true
 
 
 
Mi massaggiai il braccio, lamentandomi “si può sapere perché l’hai fatto?!”
 
“È da più di un’ora che sbadigli e la prof ti sta guardando male! Non voglio passare i guai a causa tua!”, mi rimproverò la mia compagna di banco.
 
“Silvia non ti preoccupare, la DeMagistralis ci conosce da cinque anni ed è più che in grado di distinguerci”, dissi cercando di rassicurarla e stiracchiandomi con noncuranza. In risposta ricevetti un’altra gomitata, stavolta più forte, su un fianco. Alzai gli occhi al cielo e mi convinsi a seguire sul serio la lezione, non ero molto interessata alla noiosa vita di Alessandro Manzoni ma mi impegnai a concentrarmi. 
 
Quando sentii il trillo della campanella che segnava la fine delle lezioni, scattai in piedi come una molla e più veloce di un fulmine gettai astuccio e libro nello zaino per poi schizzare fuori da quella prigione che chiamavano scuola. Una volta varcato l’enorme cancello di ferro arrugginito mi rilassai e inspirai profondamente l’aria fresca di una giornata di inizio inverno. 
Non odiavo la scuola, mi piaceva imparare e poter stare con i miei compagni di classe. Quello che odiavo era essere costretta in un’aula inchiodata alla sedia per sei ore! Ero un tipo iperattivo, preferivo agire prima di pensare e questo spesso mi faceva cacciare nei guai.
 
“Giorgia aspettami!”, Silvia mi raggiunse dopo qualche minuto senza fiato e si aggrappò al mio braccio per riposarsi.
 
“Potrei venire da te a pranzo?”, le chiesi cominciando ad incamminarmi verso casa sua senza aspettare una risposta. Lei sorrise e mi prese per mano facendomi fermare.
 
“Sapevo me lo avresti chiesto, infatti mamma ha già cucinato per tre!”, disse compiaciuta di aver anticipato le mie intenzioni. Non che fosse stato tanto difficile da intuire visto che tutti i giovedì, per un motivo o per un altro, mi fermavo da lei a mangiare. 
 
“Ecco le mie due gocce d’acqua preferite!”, mi voltai di scatto pronta ad intercettare qualsiasi colpo a stesse per raggiungermi, riuscii appena in tempo a girarmi per bloccare un pugno che altrimenti mi avrebbe colpito in piena faccia.
 
“Sara! Non assecondare la sua pazzia!”, gridò con rabbia Silvia. Odiava quando io e Sara giocavamo a prenderci a pugni, passatempo che invece noi adoravamo. 
 
Io e Silvia ci conoscevamo dai tempi dell’asilo ed eravamo diventate subito amiche, all’inizio stavo con lei solo perché trovavo divertente il fatto che somigliasse così tanto a me, ma poi con il passare del tempo imparai ad adorarla con tutti i suoi pregi e difetti. Avevo anche perso ogni interesse nella ricerca di una spiegazione riguardante il perché fossimo identiche, era un gioco che ormai mi aveva stufato e un rompicapo praticamente irrisolvibile così lasciai perdere.
 
Arrivammo davanti casa di Silvia in un batter d’occhio, abitava a duecento metri da scuola, una bella fortuna per chi non amasse svegliarsi presto la mattina! Salutammo Sara e ci fiondammo sul letto senza neanche toglierci gli zaini dalle spalle. Mi misi a sedere, se fossi rimasta sdraiata sarei di certo crollata dalla stanchezza.
 
“Mi dici perché sei così stanca?”, chiese Silvia interrompendo un mio sbadiglio.
 
“Non ho dormito molto stanotte, ho fatto un incubo.” Lei alzò la testa e mi guardò con curiosità invitandomi a continuare.
 
“Ti ricordi quei libri che abbiamo letto un po’ di tempo fa? Quella trilogia distopica…”
 
“Hunger Games?”, chiese interrompendomi
 
“Già,” le risposi senza entusiasmo “ho sognato di partecipare agli Hunger Games e…bè…non ero la favorita.” Silvia rimase in silenzio e iniziò ad accarezzarmi una gamba.
 
“È solo un incubo non preoccuparti”, mi disse per tranquillizzarmi.
 
La mia amica aveva ragione, era solo uno stupido incubo. Per di più gli Hunger Games erano dei giochi nati dalla fervida immaginazione di un’abile scrittrice, non potevo davvero essere spaventata. Non riuscivo a capire perché quella notte mi fossi spaventata per così poco, eppure non ero una fifona. Anzi, spesso vedevo film horror e visitavo case stregate. Allora perché solo ripensare a quel sogno mi faceva accapponare la pelle?
 
“Guarda il lato positivo!”
 
“E quale sarebbe?”, le chiesi scettica.
 
“Anche dovessero esistere gli Hunger Games presto sarai al sicuro, tra poco compirai diciannove anni e io sono già fuori pericolo!”
 
Le tirai una cuscinata, odiavo quando ostentava la sua insopportabile abilità nel ragionare! Purtroppo lei intercettò il mio colpo e mi ritrovai con un cuscino in piena faccia. Sapevo che parlarne con lei mi avrebbe fatto stare meglio, infatti ora ero tranquilla e mi stavo piegando in due dalle risate mentre Silvia imitava il nostro ba-ba-balbettante professore di storia.
Passare i pomeriggi a casa di Silvia era il massimo, ridevamo e giocavamo come delle bambine, scherzavamo e ci raccontavamo le stupidaggini fatte in passato. Amavo la mia vita e niente avrebbe potuto farmi cambiare idea.

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Capitolo 2
*** Psychotropic Drug ***


La sveglia suonò alle 6:30, ma come al solito la spensi riaddormentandomi immediatamente per poi essere buttata giù dal letto da mio padre.
“Giorgia sono le 7:15 farai tardi a scuola!”, mi gridò papà aprendo la finestra e togliendomi le coperte. Rabbrividii sentendo il vento freddo invernale sulla pelle e sbuffato mi trascinai giù dal letto fino in bagno. Guardai la sveglia sopra il lavandino, mio padre la teneva lì apposta per incentivarmi a preparami in fretta. Segnava già le 7:30, accidenti avrei fatto veramente tardi! E  quel giorno in prima ora avrei anche avuto il compito di inglese! Non che mi preoccupasse la materia, io e Silvia avevamo trascorso un anno in America e sapevo perfettamente parlare in inglese. Il problema era un altro, il giorno prima non avevo studiato niente perché mi ero addormntata sui libri.
Mi vestii e lavai in dieci secondi e corsi verso la fermata dell’autobus riuscendo a prenderlo per un pelo. Durante il tragitto per arrivare a scuola cercai di leggere e memorizzare quante più informazioni potevo su Coleridge e Blake, ma dubitavo fossero abbastanza per avere un voto che superasse la sufficienza. La mia ultima possibilità era Silvia e sperare che lei invece fosse super preparata.
Scesi dall’autobus e feci gli ultimi cento metri per arrivare al cancello di scuola, c’era talmente tanta nebbia che non mi accorsi di andare addosso a qualcuno fino a quando non sbattei il naso contro la sua schiena.
“Scusa non ti avevo visto!”, dissi massaggiandomi il naso congelato.
“Lo credo con questa nebbia non riesco nemmeno a vedermi i piedi!”, si lamentò un ragazzo voltandosi verso di me “Giorgia sei tu?” strizzai gli occhi per riconoscere la sagoma che avevo di fronte, ma da dove veniva quella nebbia così densa?!
“Buongiorno Alessio ”, lo salutai una volta riuscita a riconoscerlo
“Le previsioni del tempo non hanno detto niente a riguardo?”, chiese una seconda voce femminile. Doveva essere Federica, la sua ragazza.
“Stamattina quando mi sono svegliata non c’era ne sono più che sicura”, disse Silvia che ci aveva raggiunti.
“È strano sembra uno scenario di quei film di paura da quattro soldi in cui i protagonisti finiscono tutti male”, aggiunse Alessio rimediandosi un pizzicotto dalla fidanzata.
“Non scherzare cretino! Sai che mi spavento facilmente!”
Risi immaginando la scena che avevo davanti, Federica aveva ragione che cosa gli saltava in mente ad Alessio di spaventarci così? Certo era molto strana quella nebbia e nell’aria sentivo uno strano odore come di fumo di sigaretta. Molto probabilmente qualcuno mi stava fumando a due centimetri dal naso e io neanche me ne stavo accorgendo.
Guardai l’ora, la campanella stava per suonare e presto avrei dovuto affrontare la verifica di inglese. Stavo per chiedere a Silvia se aveva studiato quando sentii un grido provenire da accanto a noi. Cercai di individuare che avesse urlato, ma senza successo. Qualcun altro gridò, seguito da altri ancora. Ben presto la confusione si fece insopportabile, mi tappai le orecchie con forza e mi raggomitolai su me stessa iniziando a tremare. Cosa stava succedendo? Cercai la mano di Silvia, ma non la trovai. Il cuore mi batteva a mille, ero spaventata, non vedevo nulla e la gente continuava a gridare. Mi sentivo terribilmente sola, volevo urlare anch’io con quanto più fiato avevo ma il fiato mi moriva in gola e dalle mie labbra usciva solo un flebile gemito. Improvvisamente il caos si calmò e tornò il silenzio, mi alzai lentamente, la nebbia si stava diradando. Mi incamminai verso una sagoma che mi si parò di fronte, ma non feci in tempo a raggiungerla. Ad ogni passo ero sempre più stanca e le gambe si fecero pesanti, la testa sembrava scoppiarmi e ormai non mi reggevo più in piedi dal dolore. Crollai a terra pesantemente non riuscendo a tenere gli occhi aperti, accanto a me vidi Silvia caduta addormentata come tutti intorno a noi. Qualcuno si avvicinò fino a sfiorarmi la faccia con i suoi scarponi neri sporchi di fango, poi mi addormentai. Un sonno agitato e senza sogni.
“Giorgia! Giorgia svegliati!” Aprii gli occhi sbattendo le palpebre più volte accecata dalle luci a neon.
“Finalmente ti sei svegliata ci hai fatto preoccupare”, mi disse Silvia con fare premuroso. Mi misi lentamente a sedere e mi stropicciai gli occhi guardandomi intorno. Ero sdraiata su un letto d’ospedale ed ero circondata da un gruppo di ragazzi che non avevo mai visto.
“Dove sono? Cosa è successo? E chi sono loro?!”, chiesi in preda al panico indicandoli uno ad uno.
“What’s the problem?”, chiese un ragazzo alla mia destra stringendomi la mano. La ritirai in malo modo e lo fissai incredula, chi era? E perché parlava inglese? Che stava succedendo? Cercai con lo sguardo gli occhi di Silvia che mi stava fissando pensierosa.
“È stanca dobbiamo lasciarla riposare, dopotutto non è facile riprendersi da una bastonata in testa”, disse gentilmente alla folla di spettatori intorno al mio letto e convincendoli a lasciarci sole li accompagnò fuori dalla stanza.
Una volta chiusasi la porta alle spalle sospirò voltandosi nella mia direzione e correndo ad abbracciarmi.
“Sono così felice che tu ti sia svegliata! stavo iniziando a pensare che saresti morta!”, singhiozzò la mia amica. La allontanai asciugandole le lacrime e guardandola seria le riposi le stesse domande di poco prima con più calma.
“Giorgia, sono contenta che anche tu ricordi”, mi disse entusiasta.
“Ricordo? Cosa dovrei ricordare?  E dove sono Alessio e gli altri?”
“Da quello che so Alessio e Federica dovrebbero essere nel distretto 2 ma non ne sono sicura non ci permettono di comunicare con gli altri distretti.” Sgranai gli occhi, mi prendeva in giro? Distretti? Non possiamo comunicare? Silvia intuì i miei dubbi e prese un gran respiro, pronta a darmi spiegazioni.
“Hai dormito per una settimana. Siamo in America, anzi più precisamente nel distretto 6 adibito ai trasporti”, mi rivelò lasciandomi di stucco.
“Ma cosa dici? Mi prendi in giro? È uno scherzo vero?” lei scosse la testa tristemente.
“Vorrei tanto fosse uno scherzo, ma non è così. Nessuno ricorda il mondo di una volta. È come se non fosse mai esistito e tutti avessero sempre vissuto all’ombra di Capitol City.”
“Non è possibile”, non riuscivo a credere alle mie orecchie. Capitol City? Mi alzai dal letto e corsi alla finestra, lo scenario che mi si presentò davanti agli occhi mi lasciò senza fiato. Per le strade giravano decine di pacificatori vestiti con le loro uniformi bianche e su ogni muro era attaccato un manifesto che pubblicizzava gli imminenti Hunger Games. Era come se il mio incubo fosse diventato realtà. Mi cedettero le gambe e mi ritrovai in ginocchio per terra a singhiozzare come la più debole delle ragazze, non era possibile rivolevo il mio mondo, la mia vita!
“Il mio papà!”, mi rivolsi a Silvia “dov’è papà?”
“Non lo so. Ho perso anche la mia mamma”, disse non riuscendo a trattenere le lacrime. Sentii il mondo crollarmi addosso, avevo perso la mamma e ora anche il mio papà mi aveva abbandonata. Era un incubo! Non poteva essere vero, mi diedi un pizzicotto convinta che mi sarei svegliata ma non fu così. Ero già sveglia, il sogno era diventato realtà.
“Perché nessuno ricorda la sua vita passata?”
“Non ne ho idea”, mi disse Silvia aiutandomi ad alzarmi e a vestirmi “ma scommetto che c’entra qualcosa quella strana nebbia!”
“Già”, annuii infilandomi la giacca e uscendo dalla stanza d’ospedale “ma la cosa strana è che questa specie di droga non abbia funzionato su di noi.”
“Chiunque abbia voluto ricreare il mondo distopico di Suzanne Collins è un pazzo, chi vorrebbe vedere ventitré ragazzi morire assassinati?”, chiese disgustata dalla sola idea.
“Qualcuno che farebbe di tutto pur di governare sul mondo intero. 

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Capitolo 3
*** Chosen ***


Girando per le strade del “distretto”, ancora non mi ero abituata a considerarmi un’abitante di Panem, la mia ansia e preoccupazione non faceva che aumentare. Mi ero rifiutata di leggere i cartelli che pubblicizzavano i primi Hunger Games della storia di Panem e ancora non riuscivo a credere che la gente non ricordasse nulla del suo passato. Non si accorgevano che vivevamo in un distretto fasullo? Tutto intorno a noi era solo un’illusione. Un enorme castello di carte in equilibrio precario e che il minimo refolo d’aria avrebbe fatto crollare. In fondo bastava stare al loro gioco, seguire il corso della storia, vivere come i protagonisti del libro. Già, ora sì che mi riconoscevo! La solita, vecchia e determinata Giorgia che avrebbe fatto di tutto pur di tornare alla normalità.
“Silvia! Ho un’idea!”, la mia amica mi guardò preoccupata. Tante volte avevo esordito con quella frase e la conclusione non era mai stata quella sperata.
“Tra una settimana, proprio il giorno della mietitura compirò diciannove anni e sarò in salvo. Quello che dovremo fare in seguito è…”
“C’è un problema”, mi interruppe Silvia tappandomi la bocca “a quanto pare non hanno seguito alla lettera il libro di Suzanne Collins perché agli Hunger Games parteciperanno i ragazzi tra i diciotto e i ventiquattro anni.”
“Che cosa?!” che sfortuna! Ma perché?! Non era giusto! Proprio quando stavo riacquistando fiducia in me stessa, ricevevo una notizia che mi faceva sprofondare di nuovo nella più nera disperazione.
“Non pesarci troppo, in fondo c’è solo un foglietto con il tuo nome.” Non poteva scegliere parole peggiori.
“Ho già sentito questa frase, e non è finita bene.”
“Insomma qual era questa idea?” Silvia cercò di cambiare discorso e io decisi di abboccare al suo insulso tentativo di distrarmi.
“Dobbiamo comportarci, agire, pensare come avrebbe fatto Katniss”, dissi fiera di aver avuto quella fantastica idea.
“Cioè?” scossi la testa. Come faceva a non capire era talmente ovvio!
“Ribelli. Dobbiamo farci trovare preparati. Fare in modo che tutti sappiano cosa hanno perso e che cosa stanno vivendo: una bugia.”
“E come facciamo? Giorgia questa è la vita reale non è semplice come far parte di un film o di un libro! Noi non siamo le protagoniste! Noi possiamo morire!”
“È proprio qui che ti sbagli, ognuno è il protagonista della propria vita e noi possiamo vincere così come ha fatto Katniss. Inizieremo col far leggere e conoscere a tutti la storia di Panem e degli sventurati amanti del distretto 12”, tesi la mano e aspettai guardandola fissa negli occhi. Alla fine si convinse e mi strinse la mano sorridendo.
“Ti aiuterò amica mia, anche dovesse costarmi la vita.”
“Non ti preoccupare Silvia, ci sarò io a proteggerti ”, la rassicurai stringendola forte tra le braccia.
Ci avviammo verso la nostra nuova casa, una costruzione cubica di cemento armato con piccole finestre dalle quali entrava a mala pena la luce. Tutto l’edificio contava due stanze, una grande che fungeva da salotto camera da letto e angolo cottura e una più piccola dove c’erano doccia e gabinetto. Girai in tondo per alcuni minuti, prima di mettermi seduta sul divano accanto a Silvia.
“Nei giorni che rimangono, dobbiamo riscrivere il libro”, dissi sicura di me “a quanto pare ogni copia è andata distrutta, ma per fortuna noi l’abbiamo letto così tante volte da ricordarli quasi completamente a memoria.”
“Lo sai che sarà impossibile finire in una settimana”, mi rimproverò Silvia scuotendo la testa.
“Allora finiremo dopo la mietitura. E dobbiamo trovare il modo di sensibilizzare anche i componenti degli altri distretti.” Silvia aveva l’aria assente, buon segno significava che mi stava dando corda e stava seriamente pensando ad una soluzione.
“Forse potremmo riuscire a contattare Alessio e Federica e creare una specie di passaparola tra i distretti”, disse entusiasta della sua trovata. Annuii, ce la potevamo fare. Avremmo sconfitto anche noi Capitol City e avremmo riconquistato la nostra libertà.
 
Passammo i seguenti giorni cercando di ricordare i tre libri fin nei minimi dettagli e ricreare così l’opera completa. Una settimana passò in fretta e il giorno della mietitura Silvia mi venne a svegliare portandomi la colazione a letto.
“Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri a Giorgia…tanti auguri a te!” Mi aveva preparato un dolcetto con su scritto diciannove, aveva avuto un pensiero davvero gentile. Ma io non volevo festeggiare. Non avevamo ancora finito di scrivere il terzo libro, il più importante, e nessuno ancora sapeva quello che aveva perso. Sospirai e mandai giù un boccone di dolce al cioccolato, chissà dove era riuscita a trovare il cacao per farlo? Il distretto 6 non era uno dei più poveri, ma non navigavamo nell’oro.
“Grazie”, dissi senza entusiasmo per poi accorgermi dell’espressione triste della mia amica “davvero, mi hai fatto molto felice non mi aspettavo un regalo!”
Silvia si alzò dal letto e insieme ci andammo a preparare, indossammo dei vestiti che ci erano stati recapitati da Capitol City e lei mi pettinò con cura i capelli. Silvia era bravissima a creare trecce sempre particolari e stupende e anche quella volta mi stupì. Aveva intrecciato i miei lunghi capelli castani a spirale bloccandoli al centro della testa con un numero indefinito di forcine, invisibili a chiunque si fosse avvicinato ad osservare la sua creazione. Una volta terminata la preparazione, uscimmo di casa e seguimmo il flusso di gente diretta alla piazza centrale del distretto.
Era stato montato un grande palco e i palazzi affacciati sulla piazza erano tappezzati con stendardi raffiguranti lo stemma i Capitol City. Uno schermo gigante continuava a trasmettere ininterrottamente delle immagini raffiguranti il popolo in fermento nella capitale di Panem. A destra e a sinistra del palco si erano raggruppati già dei ragazzi, alcuni piangevano altri tremavano. C’era chi non si voleva separare dalla propria famiglia e chi con la testa alta e lo sguardo fiero andava in contro al suo destino. Presi la mano di Silvia e la strinsi mentre la piazza andava riempendosi, ormai mancava poco, ancora qualche minuto e qualcuno di noi sarebbe stato nominato tributo del proprio distretto.
Una musica orecchiabile si diffuse in tutto lo spazio circondante e zittì il mormorio di genitori e ragazzi. Sul palco salì un uomo grassoccio e sudaticcio, che continuava ad asciugarsi l’enorme testa pelata con un fazzoletto di stoffa. Arrivò saltellando sulle corte gambette fino al microfono al centro della piattaforma rialzata e ci picchiettò sopra con il dito gonfio e rosso.
“Benvenuti, benvenuti ai primi Hunger Games. Come già tutti sapete un ragazzo e una ragazza verranno scelti per rappresentare ogni distretto. Solo una coppia sarà la vincitrice, solo un distretto riceverà onore e gloria.” Bene per lo meno non avrei dovuto uccidere un mio concittadino, qual ora fossi stata scelta, e avere un compagno e alleato mi avrebbe aiutato.
“Vediamo chi avrà l’onore di rappresentare il distretto 6 in questa primissima edizione dei giochi”, continuò l’omino avvicinandosi ad una delle due ampolle di vetro posizionate ai lati del palco. Infilò una mano e iniziò a rovistare con molta calma, toccando ogni foglietto al suo interno. Il cuore mi batteva all’impazzata, non ce la facevo più a sopportare quell’attesa. Finalmente ne afferrò uno con la sua enorme mano sudata e si diresse nuovamente verso il microfono. Aprì il foglietto e si schiarì la voce prima di leggere. Strinsi ancora più forte la mano della mia amica e lei fece lo stesso, era giunto il momento della verità.
“Giorgia Skyes, la rappresentante del distretto 6 sarà Giorgia Skyes.” Mi salirono le lacrime agli occhi e Silvia si gettò tra le mie braccia. Affondai la faccia nei suoi folti e ricci capelli biondi per poi allontanarla e dirigermi verso il palco, ogni passo era sempre più faticoso e la meta sembrava irraggiungibile. Sentivo tutti gli occhi puntati su di me e avevo il fiatone per quanto forte batteva il mio cuore. Salii sul palco mostrando quanta più determinazione potessi, volevo essere la nuova Katniss ora potevo a tutti gli effetti. Un pacificatore mi accompagnò al fianco dell’omino grassoccio che stava aprendo il foglietto con il nome del mio alleato, guardai in direzione del gruppo di ragazzi che in silenzio aspettavano di sapere chi di loro avrebbe avuto la sfortuna di accompagnarmi dentro l’arena. Molti di loro avevano abbassato lo sguardo, sperando forse così di non essere notati e scampare al pericolo altri invece mi guardavano tristi a quanto pare non pensavano sarei potuta tornare viva. Ma come dargli torto? Ero alta si e no un metro e sessanta e pesavo a mala pena cinquanta chili, chiunque mi avrebbe giudicato una povera ragazza indifesa.
“Il rappresentante del distretto 6 sarà Josh Hutcherson.” Sgranai gli occhi. Impossibile! Mi voltai osservando la folla di ragazzi che si divideva in due per lasciar passare un ragazzo moro e muscoloso. Era proprio lui! L’attore che aveva interpretato Peeta Mellark! Sorrisi, che ironia. Avrebbe partecipato per la terza volta agli Hunger Games, ma stavolta sarebbe stato sul serio in pericolo. Avrebbe rischiato davvero la sua vita. Arrivò di fronte a me e mi strinse la mano sorridendomi.
Mentre scendevamo dal palco e venivamo accompagnati al municipio per gli ultimi saluti lui mi si avvicinò e sussurrando appena mi parlò all’orecchio “Non preoccuparti, so quello che faccio. Sono già stato lì dentro e usciremo vivi costi quel che costi.” Detto questo si lasciò trascinare lontano continuando a guardarmi curioso dalla mia mancata incredulità per la rivelazione. Ora ero più sicura di me, il mio piano avrebbe funzionato. Josh sapeva, ricordava tutto. Non sarei rimasta al lungo nell’arena e nessuno dei ventiquattro tributi sarebbe morto quell’anno.

  

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Capitolo 4
*** Hope ***


I pacificatori mi invitarono a scendere le scale, trascinandomi poi in tutta fretta verso il palazzo di giustizia per gli ultimi saluti. Mentre attraversavo le stradine del distretto sentivo tutti gli occhi puntati su di me, tremai. No ero abituata ad essere al centro dell’attenzione e in quel momento i miei nervi erano talmente tesi, che sarebbe bastato un nonnulla per farmi cedere. Strinsi i pugni e mi morsi violentemente il labbro inferiore fino a sentire il sapore dl sangue sulla lingua, è strano ammetterlo ma il dolore a volte aiuta a superare i dispiaceri. Una volta arrivata mi fecero accomodare in un’enorme sala. Sembrava uno studio, librerie in mogano alte fino al soffitto facevano da cornice ad uno spazio ampio e luminoso. Al centro della stanza c’erano delle poltrone in velluto rosso e un tavolino di vetro decorato. Passai una mano sulla stoffa morbida del divano e mi ci buttai di peso sospirando. La calma e la sicurezza che mi avevano permesso di non piangere di fronte alle telecamere stavano lentamente svanendo, lasciando il posto all’agitazione e alla consapevolezza di quello che mi era accaduto. Cosa avrei fatto? Io non ero Katniss. Non ero la ribelle di cui tutti, anche se inconsciamente, aspettavano l’arrivo. Ero solo, Giorgia.
In quel momento la porta si aprì lasciando entrare Silvia, che appena mi vide mi si buttò letteralmente addosso rischiando di strozzarmi per quanto forte mi stava abbracciando.
“Se non mi lasci andare….morirò ancor prima di entrare nell’arena”, riuscii a dire cercando di tirarle su il morale. Non avevo certo bisogno di vederla piangere visto il mio equilibrio emotivo alquanto instabile.
“Scappiamo”, disse lei asciugandosi le lacrime “non devi partecipare a questa pazzia di reality, scappiamo e aspettiamo che le acque si siano calmate.”
“Mi stai chiedendo di abbandonare tutti?”, chiesi scuotendo lentamente la testa “non posso, devo fare qualcosa per cambiare questa situazione. Mi farò venire qualche idea tranquilla, la tua amica è più dura di quanto credi a morire!”
Silvia non sembrava essere molto convinta dalle mie parole, ma non ebbe il tempo di ribattere perché due pacificatori entrarono e la trascinarono via sostenendo che i nostri tre minuti a disposizione erano terminati. Riuscii solo a sentire la voce della mia migliore amica che mi prometteva di “sensibilizzare” la gente del distretto. Perfetto lei avrebbe fatto il suo dovere, ossia far ricordare alla gente ciò che aveva dimenticato e io avrei fatto il mio. C’era solo un piccolo e insignificante problema: non avevo la più pallida idea di come comportarmi! Cosa avrei dovuto fare? La prima mossa sarebbe stata cercare di sopravvivere, senza ombra di dubbio e in secondo luogo avrei provato a convincere gli altri tributi che non eravamo obbligati a combattere tra di noi. Il nostro nemico era uno soltanto: Capitol City.

Nessun altro venne a salutarmi e presto mi ritrovai ad agitare la mano dal finestrino di un treno di ultima generazione, sorridendo a persone che non conoscevo affatto. Accanto a me Josh sbuffò lasciandosi cadere per terra, mi misi a sedere vicino a lui e restammo in silenzio finchè l’omino grassoccio della miietitura non fece nuovamente il suo ingresso.
“Salve salve miei cari ragazzi”, esordì con una voce talmente tanto dolce da disgustarmi di più del suo aspetto unto e sudaticcio “non mi sembra molto educato sedere in terra, prego accomodatevi sul divanetto.” Seguimmo il consiglio, in effetti non era molto comodo rimanere per terra.
“Questo treno è provvisto delle ultime innovazioni in ambito elettronico e ha ogni tipo di comfort, vi convien approfittarne perché non credo sarà una bella esperienza quella di partecipare agli Hunger Games”, disse con una risatina. Sentendo quelle parole mi voltai di scatto verso il nostro interlocutore, avevo pensato sin dall’inizio che quell’uomo fosse strano o in qualche modo diverso. Ora capivo cosa non andava in lui, quegli occhietti piccoli e neri erano illuminati da una scintilla di malvagità e pura follia. Doveva essere uno dei pazzi che avevano attuato quell’assurdo piano, uno degli uomini che aveva voluto ricreare Panem. Piantai le unghie nel bracciolo della poltrona per trattenermi dal saltargli addosso, ma Josh non sembrò del mio stesso parere visto che gli si gettò contro colpendolo con un gancio alla mandibola.
L’omino ruzzolò in terra, rialzandosi pochi secondi dopo con un sorriso perverso stampato sulle labbra.
“Vedo che abbiamo dei tributi piuttosto irrazionali”, disse massaggiandosi la parte lesa “perfetto, sarà ancora più divertente vedere come vi ammazzate a vicenda. Farete la fine delle bestie che siete!” Detto ciò se ne andò in tutta fretta chiudendoci nel vagone ristorante.
Josh provò più volte a buttare giù la porta scorrevole a spallate, ma senza successo.
“Smettila adesso o ti farai male”, dissi avvicinandomi a lui e evitando che continuasse a distruggersi una spalla contro la parete “non mi sembra il momento più adatto per romperti qualcosa.” Lui si calmò e si mise a sedere lasciando sprofondare la testa nelle mani, lo guardai senza sapere cosa dire o cosa fare. Neanche lo conoscevo, ma vederlo in quello stato mi faceva venire voglia di abbracciarlo e assicurargli che sarebbe andato tutto per il meglio.
“Do you remember, don’t you?”, disse sollevando di poco il volto. Annuii e mi sedei di fronte a lui. “Io non credo di essere in grado, d’accordo io sono stato Peeta Mellark ma quella era solo finzione. Questa è la realtà!”
“Cerca di vederla da un altro punto di vista, noi sappiamo. Tu, anche se per finta, sei già entrato nell’arena e grazie ai libri di Suzanne Collins sappiamo cosa aspettarci e come muoverci”, affermai mostrandomi più sicura di quello che in realtà ero. Se c’era una cosa di cui potevo andare fiera era la capacità di nascondere i miei sentimenti.
“Sembri così piccola e fragile, ma in realtà sei una tigre non è vero?”, mi chiese abbozzando un sorriso. Bene stava reagendo, avevo bisogno di ogni aiuto in questa avventura e non avevo tempo per badare a star capricciose e impaurite da una realtà che non gli va a genio.
“Hai in mente qualcosa, giusto?”
“Sì, non avrai pensato che mi sia lasciata trascinare in tutto questo senza avere un asso nella manica”, dissi ringraziando la previdenza mia e di Silvia.
“Ho un’amica al distretto 6, grazie a lei sono riuscita a ricomporre la trilogia degli Hunger Games e sempre con il suo aiuto spero di riuscire a convincere la maggior parte degli abitanti di Panem che la realtà che stanno vivendo è un inganno”
“E noi? Dimmi che hai un’idea anche per non farci ammazzare”, mi chiese speranzoso. Lo guardai cercando di infondergli la sicurezza che ora albergava nel mio corpo.
“Tranquillo Josh, lascia fare a me.”
 

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