I believe

di Airborne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fratello e sorella ***
Capitolo 2: *** John Bongiovi ***
Capitolo 3: *** Sayreville War Memorial High School ***
Capitolo 4: *** Rabbia ***
Capitolo 5: *** Fantasia o realtà? ***
Capitolo 6: *** Un quinto dell'insieme ***
Capitolo 7: *** Bugie a fin di bene ***
Capitolo 8: *** Amicizia ***
Capitolo 9: *** Sigarette e chiacchierate ***



Capitolo 1
*** Fratello e sorella ***


Capitolo 1

Fratello e sorella

You give love a bad name

 

 

«E perchè vuoi che ti insegni a suonare la tastiera?»
Non lo sopportavo quando faceva così. Cosa gli costava fare le cose senza porre domande? Io non gli facevo mica un interrogatorio quando mi chiedeva di prestargli qualche dollaro!
Non potevo fare a meno di dirgli il motivo. Conoscevo mio fratello: sarebbe stato capace di non insegnarmi proprio un bel niente. E, in ogni caso, se non gli avessi risposto si sarebbe insospettito, ed era l'ultima cosa che volevo. Tuttavia non potevo assolutamente dirgli la verità. Avevo bisogno di una scusa.
«Perchè...Perchè...» Non sono mai stata brava ad inventare scuse.
«Oh, no. No, Claire, no, per favore, tutto ma non questo!»
«Questo cosa?» domandai con aria stupita e innocente. Falsa speranza: sapevo benissimo che David aveva già capito.
«Ti sei innamorata anche tu di John! Perfino tu! Claire, io...io...Io ti proibisco di essere innamorata di John!»
Quell'idiota di David aveva urlato così forte che di sicuro lo aveva sentito tutto il vicinato, compresi quell'antipatico di Sabo e il diretto interessato.
«Non mi sono innamorata di John!» dissi io, a voce ancora più alta. «E non gridare» aggiunsi poi, per prevenire altri disastri.
David aveva fatto centro per l'ennesima volta. Ma come avrei fatto io a non innamorarmene? Avrei potuto girare tutti gli Stati Uniti, Hawaii e Alaska comprese, e non trovare un ragazzo come John Bongiovi. Di capelloni biondi rockettari ce n'erano tanti in giro, ma pochi avevano degli occhi azzurri così belli. Un sorriso come il suo, poi, non lo si sarebbe trovato su nessun altro viso. Era così bello che non mi sarei sorpresa se anche qualche ragazzo etero avesse cominciato a sbavargli dietro. Come si poteva non innamorarsi di lui?
Però, a David e tanti altri il fatto che io avessi una cotta per John non doveva interessare e andava negato con veemenza.
«Certo che te ne sei innamorata».
«Assolutamente no!» Dovevo convincerlo. Non avrei mai sopportato le sue premure, e ancor meno le sue frecciatine. Sul suo volto leggevo già un'espressione a metà tra il divertimento e la preoccupazione. Non poteva essere altrimenti: per quattordici anni non avevo fatto altro che ripetere che non mi sarei mai innamorata, e, in quanto fratello maggiore, era impensabile che non me lo rinfacciasse. E se da una parte aveva questo atteggiamento canzonatorio, dall'altra si augurava di non doverlo mai mostrare. Sono sicura che David aveva sempre sperato che non succedesse, ma alla fine anche sua sorella era caduta nell'incantesimo di John Bongiovi, come tutte le adolescenti di Sayreville avevano fatto prima di lei. Ormai era diventato un cliché, nonostante a tutti fosse noto l'atteggiamento che quel sedicenne dal volto perfetto aveva nei confronti delle ragazze.
John era il più grande sciupafemmine che avesse mai camminato sulla Terra. Tutti lo sapevano; c'era gente che addirittura lo chiamava “il Casanova del New Jersey”. Nonostante questo e nonostante tutte le storie scabrose che Sabo, il suo braccio destro, aveva messo in giro sul suo conto (e quando si trattava di storie scabrose, Sabo raccontava sempre tutta la verità con dovizia di particolari, manco stesse testimoniando in tribunale), John trovava sempre qualche ragazza che non desiderava altro che infilare la lingua tra quei denti perfetti.
Quelle che ci riuscivano non le sopportavo. Non aveva niente a che fare con la gelosia: ero refrattaria alle ragazze che andavano in giro con minigonne inguinali e scollature da record, e lo sarei stata anche se non avessi avuto una cotta per il ragazzo a cui si appiccicavano come cozze a uno scoglio. Erano le ragazze che avevano fatto della popolarità l'unico scopo di vita, e ormai, dopo tre anni che John era entrato al liceo, per essere al top della popolarità bisognava quantomeno averci limonato. Essere state con lui era diventato uno status symbol, e poco ci mancava che lo mettessero nel curriculum per trovare lavoro.
Tenendo conto del fatto che solo le sgualdrinelle entravano nelle sue grazie, avrei dovuto odiare pure lui; eppure non ero riuscita a non innamorarmene. Era una cosa totalmente illogica, ma non potevo farci niente. Non avevo saputo resistere al suo fascino, e adesso ne pagavo le conseguenze. Era per evitare queste situazioni che avevo continuato a ripetere che non mi sarei mai innamorata, ma alla fine quel momento era arrivato anche per me.
Non potevo biasimare David se non voleva che io fossi innamorata di lui.
«Ti sei innamorata di John e vuoi imparare a suonare la tastiera per entrare nella sua band». Rimasi immobile e impassibile. «Ma guarda te».
Si voltò e guardò fuori dalla finestra. Era stato un errore chiederlo a lui. Avrei dovuto aspettare ancora un po' ed entrare in qualche club scolastico di musica, ma ormai era troppo tardi.
«Guarda che John non c'entra niente! E dai, David, cosa ti costa insegnarmi a suonare? Non sei contenta che tua sorella voglia seguire le tue orme?» chiesi, usando la carta dell'adulazione. Di solito con lui funzionava.
«Guarda che ho capito che c'entra John, è inutile che lo neghi». La situazione era grave, se non accettava nemmeno le lusinghe. «Se ti insegnassi avresti la strada spianata per metterti nei guai con lui, e io non voglio. Tu non hai idea di cosa vuol dire stare con lui».
«Ti ho detto che non c'entra!» esclamai, con sempre minor convinzione.
«Hai presente Samantha Green, la mia vecchia compagna del corso di inglese?» continuò imperterrito. «Ti ricordi che brava ragazza era, eh? Anche lei si è innamorata di John. L'hai più vista? Hai idea di cosa sia diventata?»
«Oh, ma la finisci? Non sono affari tuoi se mi piace John Bongiovi, ed è ora che tu la smetta di preoccuparti per me! Tra due settimane comincio il liceo. Non sono più una bambina! Io ti ho chiesto di insegnarmi a suonare la tastiera, non la tua opinione su John e sulle sue conquiste!»
«In ogni caso non avresti speranza. Non si è mai interessato a ragazze più piccole di lui».
Il più grande difetto di mio fratello era l'ingenuità.
«E allora dove sta il problema? Che motivo hai per non insegnarmi a suonare?»
David mi squadrò con aria poco convinta, rendendosi conto di essersi sconfitto da solo. Tacque per qualche secondo, poi, voltandosi per uscire dalla stanza, pronunciò un «Ci penserò» poco convinto.
E un “ci penserò” di David, convinto o meno, equivaleva sempre a un sì.





Note

Ciao a tutti!!
Prima di tutto vi ringrazio per essere arrivati in fondo al capitolo :) Questa è la prima fanfiction che pubblico...Spero che l'inizio vi sia piaciuto :)
Ho cominciato a scrivere questa fic un po' di tempo fa, e devo tutta la mia ispirazione alle storie (massì, facciamo un po' di pubblicità XDD) di _lullaby, e colgo l'occasione per ringraziarla ancora di averle pubblicate :)
Ho già scritto qualche altro capitolo di questa fic, ma sono in costante revisione, e scommetto che c'è lo stesso qualche incoerenza...Mi perdonate?? *.* Viste le continue modifiche, se un miracolo farà sì che la storia vi piaccia e vogliate continuare a leggerla, vi informo che non so quando pubblicherò il prossimo capitolo...Però vi posso dire che sia il primo che il secondo sono perlopiù introduttivi, e la storia entrerà nel vivo con il terzo...Vi ho incuriositi?? Va bene, va bene, smetto subito di persuadervi a leggere il seguito XD
Ah, un'altra cosa...Ho messo OOC per sicurezza, ma mi piace pensare che da giovani i nostri amati Jovi avessero un carattere simile a questo :)
Che altro dire?? Grazie di nuovo e...Recensite!!

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Capitolo 2
*** John Bongiovi ***


Capitolo 2

John Bongiovi

Learning how to live my life

 

 

La luce entrò nella mia camera irruenta e furiosa molto prima di quanto avrei voluto e di quanto umanamente possibile dopo tre mesi di vacanza. Sbirciai la sveglia: erano le sette del mattino.

«Ciao sorellina!»

Evidentemente, David non era umano. Se ne stava davanti al mio letto con un sorriso a trentadue denti e l'aria di chi non aspettava altro che il primo giorno di scuola, già adeguatamente vestito. «Non sei pronta a questa nuova avventura?»

«Fammi un favore, tornatene a letto» borbottai, girandomi per risparmiare ai miei occhi stanchi la vista del sole.

David strappò le lenzuola dal letto, mi fece rotolare sul pavimento e io trascinai con me anche il coprimaterasso. La mamma non ne sarebbe stata molto contenta.

Mio malgrado fui costretta a vestirmi e a far fare alle mie occhiaie un'entrata trionfale in cucina.

La mamma si emozionò subito. «Il mio tesoro! Il mio amore! Il mio angioletto è diventato grande e va al liceo con il suo fratellone!»

«Ciao, mamma» mugugnai io.

«Su, dolcezza mia, fai colazione! Vuoi che ti prepari un tè? Vuoi un panino con la marmellata? Metto sul fornello le pancakes?»

«Sto già mangiando, mamma».

«Ti senti carica? Hai dormito bene?»

«Sì, mamma».

David si intromise in quella vivace conversazione. «Io non ho dormito affatto, invece. Fa un caldo torrido, in quella camera».

La mamma non si mostrò molto amorevole con il suo primogenito. «Quando ti taglierai quella pelliccia che hai al posto dei capelli non avrai più caldo per il resto della vita!»

«Non mi taglierò i capelli, mamma».

Erano secoli che quella diatriba andava avanti, ma nessuno aveva la minima intenzione di cedere. Quando David era arrivato al liceo era stato travolto dalla moda del rock 'n' roll. Agli occhi di mia madre, il suo piccolo angelo era diventato un diavolo che andava in giro ad ascoltare musica satanica e a tracannare birra, e non le serviva a nulla sentire le note tranquille e melodiose che ogni giorno risuonavano nella camera da letto di David: da tre anni a quella parte mamma cercava in tutti i modi di convincerlo a tagliarsi i capelli e a vestirsi in modo normale. Per i primi sei mesi era riuscita a contenerlo, ma dopodichè David era schizzato dentro il rock come un razzo della Nasa, e sembrava che non si sarebbe presentato in modo consono neppure ai colloqui di lavoro. Non che avesse intenzione di trovarsi un lavoro: la più alta aspirazione di mio fratello era fare il mantenuto per tutta la vita, oppure guadagnarsi da vivere suonando la tastiera, cioè senza faticare minimamente.

«Claire, sbrigati. Lo scuolabus...»

«Lo scuolabus? Diamine, David, quand'è che hai intenzione di farti la patente?»

«Non piagnucolare. Su, prendi la tua roba e andiamo!»

Mamma rimase sulla porta a guardarci come se stesse salutando papà che parte per la guerra.

«Emozionata?»

«Un po'. Tu?»

«È un ritorno alla normalità. Vedrai che dopo qualche settimana tutta la magia del liceo svanirà».

«Questo lo credi tu. Non ho intenzione di diventare una sfigata come te, fratellone».

«Sfigato? Sfigato a me? Modera il linguaggio, signorina. Ti accorgerai che alla Sayreville War Memorial High School David Rashbaum e Mister Nessuno non sono esattamente la stessa persona».

«Sono proprio curiosa!»

«Tu non ci crederai, ma una tastiera dà un mucchio di visibilità...»

«Sì, basta saperla suonare!»

Ci voltammo di scatto. Di fronte a noi c'era un ragazzino bassetto e mingherlino, con due occhi verdi e maligni e un sorrisetto di sfida stampato in faccia.

«È il primo giorno di scuola, Sabo. Vedi di non cominciare da subito a rompere le scatole».

Com'era nel suo stile, quel ragazzetto odioso non mi ascoltò nemmeno. «Non fraintendermi, David. Tu suoni divinamente. È tua sorella che è negata».

Sbiancai. Non volevo che in giro si sapesse delle lezioni di tastiera che David aveva cominciato a darmi. Come diavolo faceva quello a saperlo? Non l'avevo detto a nessuno, e David non aveva motivo per andare a spiattellarlo in giro.

«Mi piacerebbe sapere su cosa si basa la tua affermazione, dal momento che non ho mai toccato una tastiera in vita mia».

«La mia affermazione si basa sulle mie orecchie» mi rispose. Sperai per il suo bene che si togliesse quel ghigno dal muso. «È inutile che neghi, Rashbaum. Magari tu non lo sai fare, ma riesco a riconoscere due musicisti diversi, io! Tuo fratello è un dio, e tu sei una nullità».

«Ti credi tanto bravo solo perchè sai strimpellare qualche canzoncina demente con la chitarra? Lasciami un po' di tempo per prenderci la mano, e poi vedrai!»

Mi scoppiò a ridere in faccia. «Voglio proprio vedere, Rashbaum! Secondo me, dopodomani ti arrendi».

Avevo già la risposta pronta, ma mi accorsi che mio fratello si era allontanato un po' da noi. Stava parlando con...

Ebbi un tuffo al cuore. A una decina di metri da me e Sabo, John Bongiovi era appoggiato a un macchinone rosso bello quasi quanto lui. Continuava a scompigliarsi la criniera bionda con la mano sinistra, mentre con la destra reggeva una sigaretta accesa. Sarei rimasta lì a guardarlo per ore, lui e il suo sorriso d'angelo, appoggiato alla macchina come un vero macho e circonfuso dalla luce del sole come una visione divina.

Pregai con tutto il cuore che Sabo non si accorgesse che John era lì, altrimenti ci saremmo trovati faccia a faccia. Non ero per niente pronta per un incontro ravvicinato del terzo tipo con lui.

Ma, come tutti sanno, i miei desideri più ardenti vengono puntualmente disattesi.

«Ehi, John! Mascalzone, non mi hai nemmeno salutato!»

Idiota di un Sabo!

«Volevo salutarti, ma poi ti ho visto impegnato con una ragazza...» disse guardandomi negli occhi per la prima volta. Sentii lo stomaco andare al posto del cervello e le budella stritolare i polmoni.

Non ero capace di sostenere uno sguardo del genere, così guardai mio fratello. Non era per niente contento.

«Io provarci con la Rashbaum? Ma sei scemo?»

«Ah, così tu sei la sorella di David!»

Panico. Terrore. Devastazione.

Non riuscivo a collegare il cervello alla bocca. Mi aveva parlato! John Bongiovi mi aveva parlato! Quante ragazze potevano dire che John Bongiovi aveva parlato con loro quando avevano appena quattordici anni?

Ma poco importava, perchè avevo la lingua paralizzata dallo stupore. Con mio immenso sollievo, John continuò a parlare. «Non sembra che tu stia molto simpatica a Dave, o sbaglio?» constatò, mollando uno scapaccione in testa a Sabo. «Recentemente abbiamo avuto...ehm...il piacere di ascoltare il tuo virtuosismo alla tastiera».

Il mio virtuosismo? Il mio virtuosismo?

Dio, per favore, fa' che non sia vero. Fa' che John non sappia veramente ciò che ha lasciato intendere. Per favore, Dio.

«Virtuosismo proprio».

«Tagliati la lingua, Sabo!» ringhiai.

«Su, su, fate i bravi» sogghignò John con tutto il suo carisma. «Io e David stavamo chiacchierando un po'...Come ti dicevo, ho in mente di mettere su una band prima della festa di Halloween. Che ne dici? Ti va di farne parte?»

David, dì di no, ti prego. Interpreta il mio sguardo e dì di no. Ti prego, ti prego, ti prego! Devo essere io la tastierista di John!

Mi guardò negli occhi per un lungo attimo, con un'espressione tale che non capii se si sentisse preoccupato, felice, arrabbiato o in colpa.

«Ma sì, perchè no? Sarà un piacere suonare con te».

Tempo dieci secondi e lo avrei ammazzato, giuro.

«Lo scuolabus!» strillò Sabo, risparmiando a John la vista del tastierista appena ingaggiato che moriva per mano della sorella.

«Su, Dave, monta. Farei salire anche voi due» aggiunse poi, scusandosi, «ma ho promesso un passaggio a qualcun altro...» Dallo sguardo che scambiò con Sabo dedussi che questo “altro” dovesse avere due gambe favolose.

«Non c'è problema» disse David, «ci vediamo a scuola».

«A dopo, David. Sorella di David, è stato un piacere».

Nemmeno questa volta seppi cosa dire, ma dal modo in cui John salì in macchina capii che non si aspettava una risposta.

Appena la macchina rossa ebbe svoltato l'angolo in una modalità da ritiro della patente, dissi chiaro e tondo a David che lo odiavo.

«Non mi interessa» rispose. «Farò qualsiasi cosa pur di tenerti lontana da quel tipo, e il migliore dei modi è impedirti di incontrarlo».

Prima di continuare il discorso mi feci strada nello stretto corridoio tra i sedili dello scuolabus e mi sedetti.

«“Quel tipo” non ti sta poi così antipatico, a quanto vedo. Ma quando diamine capirai che la vita è mia? Potrò fare quello che voglio?»

David evitò accuratamente di commentare la mia prima frase. «La vita sarà pure la tua, ma io sono tuo fratello maggiore e ti devo impedire di buttarla via».

«Da quando in qua frequentare un ragazzo vuol dire buttare via la vita?»

«Frequentare John Bongiovi vuol dire buttarla via. E poi, lui non guarda certo le ragazzine goffe che non spiccicano una parola».

Ragazzine goffe?

David non aveva idea di cosa aveva scatenato. Voleva impedirmi di vedere John? Era davvero questo ciò che credeva di fare? Credeva che la scena muta di poco prima sarebbe diventata la normalità? Povero illuso. Ero in prima liceo, e l'anno della prima liceo è l'anno del cambiamento. David avrebbe presto visto quanto goffa era la sua goffissima sorellina.



Note
Weii :) Come va??
Sono un po' in ritardo, lo so...Avrei voluto pubblicare prima, ma problemi di connessione, la gita e una mole di studio inimmaginabile me lo hanno impedito :( Mi perdonate?? XD
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto...Come ho detto l'altra volta, questo è un capitolo di introduzione, ma vengono introdotti due personaggi fondamentali...Se continuerete a leggere scoprirete come cambieranno la vicenda (come dice la mia prof di francese u.u). Non vi ho incuriosito? Continuerete a leggere, vero? La smetto, la smetto, non preoccupatevi.
Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito e che hanno inserito la storia tra le seguite :) Non avete idea di quanto significhi per me :) *si scioglie come il burro*
Mi resta solo una cosa da dire...Alla prossima!!

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Capitolo 3
*** Sayreville War Memorial High School ***


Capitolo 3

Sayreville War Memorial High School

We're just who we are

 

 

Il liceo era come un'esplosione di suoni e colori. La piazzetta davanti all'ingresso era stracolma di facce nuove, di amici che si salutavano e ridevano insieme, di adolescenti di tutti i tipi. David mi indicò un gruppetto di ragazzi con i pantaloni larghi e bandane in testa che rappavano sul ritmo diffuso da uno stereo di un metro di lunghezza; mi mostrò quattro ragazze addobbate come se fosse già arrivato il ballo di fine anno, che ridacchiavano perfide lanciando occhiatine a un tipo tutto solo in un angolo ombroso che sembrava aver appena lasciato il castello della famiglia Addams. Poco più in là le cheerleader e i giocatori di football chiacchieravano in cerchio con atteggiamento altezzoso, come se si aspettassero venerazione da tutti gli altri studenti, e dall'altra parte del cortile una decina di ragazzi e ragazze che, a giudicare dall'abbigliamento e del numero di libri tra le braccia, dovevano far parte di un club secchione, stavano discutendo animatamente, probabilmente riguardo qualche causa ambientalista da portare avanti con cortei e striscioni. Era come se i rappresentanti di tutte le tipologie di persone che si potevano incontrare nel mondo si fossero date appuntamento davanti alla mia nuova scuola.

Prima che potessi accorgermene, David mi piantò in asso per raggiungere i suoi amici rockettari, seminascosti in una nube di fumo. Non avevo nessuna voglia di fare la conoscenza di tutti quei capelloni affumicati, anche perchè temevo di incontrare di nuovo John, e soprattutto quel demente di Sabo, così cominciai a spintonare la gente per riuscire a raggiungere la porta d'ingresso. Io e Sarah, la mia migliore amica, ci eravamo date appuntamento appena fuori del liceo.

Sarah era già lì che mi aspettava; mi corse incontro e mi abbracciò strillando, tanto per passare inosservata.

«Claire! Non sai quanto mi sei mancata!»

«Anche tu! Come sono andate le vacanze?» Gli zii paterni di Sarah, tornati nel loro paese d'origine dopo essere nati negli Stati Uniti, vivevano in Italia, e lei andava a stare da loro tutte le estati, abbandonandomi in New Jersey. Quell'anno, per la precisione, era partita due giorni dopo la fine della scuola ed era tornata appena tre giorni prima. Non ci eravamo viste nemmeno in questi cinque giorni: Sarah doveva sempre fare la lista di quello che voleva portare in vacanza, recuperare tutto nel casino infernale della sua stanza e, soprattutto, individuare la combinazione strategica giusta che le permetta di stipare più cose in meno spazio possibile. Nonostante ciò, non riusciva mai a portarsi via meno di tre valigie, due zaini e una borsa.

«Benissimo! Ti devo raccontare un sacco di cose! Hai ricevuto la mia cartolina? Sono stata nella baia dov'è stata scattata la foto...» Ed eccola lì, partita in quarta a descrivere dettagliatamente tre mesi di full immersion nel mare della Sicilia, nei colossali pranzi di famiglia e nelle avventure in campi sterminati come le praterie del Texas...L'Italia non l'aveva cambiata: era rimasta la chiacchierona di sempre.

«E tu cosa mi dici invece? Come sono state le vacanze?» mi chiese mentre ci dirigevamo all'aula magna, dove il preside avrebbe fatto il discorso d'accoglienza e dove sarebbero stati consegnati gli orari.

«Come al solito: afose e monotone. Non c'è mai niente da fare in questo buco di paese!»

«E le nazionali a New York?»

In effetti, i tre giorni a New York con la società di boxe erano stati gli unici degni di nota. Solo io avevo avuto accesso alla fase finale, ovviamente, ma il coach Redton aveva insistito perchè tutta la squadra mi accompagnasse, cosa davvero inutile, dal momento che nessuno di quei quattro bufali dei miei compagni erano disposti a fare il tifo per me, considerato che mi odiavano perchè nessuno di loro era mai stato in grado di stendermi. Era stato un week-end fantastico: per la prima volta avevo incontrato avversarie al mio livello, e avevo anche portato a casa la medaglia di bronzo. Un buon risultato, dopotutto; ma ero certa che quell'anno Redton mi avrebbe allenata per l'oro, e ciò significava che sarebbe stata la stagione degli allenamenti infernali.

«Terza?! Diamine, Claire, vorrei avere io la tua tenacia. Riuscirei finalmente a dipingere un cavolo di paesaggio!» Sarah faceva parte dei club di disegno dalla prima elementare, ma le mancava la costanza. Ogni volta che cominciava un dipinto non riusciva mai a finirlo, perchè arrivava puntualmente una nuova ispirazione a distrarla.

«Sì, beh, sono stata contenta anche così. Era la prima volta che partecipavo alle nazionali! Ma visto com'è andata, il prossimo anno Redton vorrà che arrivi prima a tutti i costi».

«Ma come fai? Io morirei se avessi un allenatore schiavista come quello...»

«Redton non è schiavista. I suoi allenamenti sono un tantino duri, questo è vero, ma sul ring i frutti si vedono benissimo...»

La conversazione fu troncata dalla risata sguaiata di Sabo, che si era fermato con John e un paio di ragazze che si credevano in spiaggia. Gli lanciai un'occhiata piena d'astio, anche se era girato di schiena e non mi poteva vedere.

In compenso, Sarah vide benissimo John. «Ma guarda quello, sempre circondato da sgualdrine raccattate per strada...Ma chi cavolo crede di essere? Ha solo sedici anni!» Sarah lo odiava con tutta se stessa. Probabilmente era l'unica su cui quel sorriso abbagliante non avrebbe mai avuto effetto. Aveva la stessa opinione di mio fratello: John andava bene solo quando suonava e cantava e per il resto portava solo guai, soprattutto quando posava gli occhi su una ragazza, cioè praticamente sempre. In effetti, vista la mia situazione sentimentale, prevedevo casini anche con lei; ma di certo non potevo tenere nascosta una cosa del genere alla mia migliore amica.

Cominciai raccontandole cos'era successo alla fermata del pullman. Cercai di mantenere un tono e un'espressione neutri, ma mano a mano che andavo avanti a spiegare i fatti gli occhi azzurri di Sarah cominciarono a fissarmi con preoccupazione.

«Quest'estate ti sei innamorata di lui, vero?» Ci conoscevamo da troppo tempo. Non potevo tenerle nascosto nulla, nemmeno se avessi voluto. Annuii.

Sarah saltò su come aveva fatto mio fratello. Mi chiese cosa diavolo mi fosse passato per la testa, ripetè tutte le voci diffamanti che circolavano su di lui e, per non far capire ai ragazzi che si erano seduti vicino a noi di chi stavamo parlando, gli affibbiò una serie di soprannomi più adatti a un terribile criminale che a un adolescente che ostentava la sua tempesta ormonale con troppo impegno.

«Lo so, Sarah, lo so che non è per niente una brava persona. David non fa che ripetermelo...»

«Dovresti ascoltarlo, allora! Diamine, è in classe con lui dall'asilo! Lo conosce come le sue tasche! Il fatto che stia cercando di impedirti di frequentarlo non ti fa suonare un campanellino in testa?» Sarah avrebbe detto così anche se mi fossi invaghita del ragazzo più a posto del mondo. Era innamorata di mio fratello da tipo tre anni.

«Ma cosa ci posso fare? Non è che mi posso innamorare di chi voglio io, non funziona così!»

«Claire, devi assolutamente stargli lontana. Devi».

«No, non gli starò lontana! Spiegami il motivo per cui dovrei comportarmi così. Sono innamorata, Sarah!»

«Sai benissimo cosa succede alle ragazze che si innamorano di quello là! Le vedi ogni giorno per strada, ti ricordi com'erano e ti chiedi come siano potute diventare così!»

«Ecco, è questo che non capisco di te e David! Perchè diamine dovrei diventare così anch'io? Sai benissimo che le odio! Non è mica una legge matematica che tutte quelle che gli vanno dietro diventano delle sgualdrine!»

«Ma invece è esattamente il contrario! Tutte quelle che si innamorano di lui diventano così...»

«Bene, allora io sarò la prima a rimanere me stessa!» Aveva superato il limite. Voleva continuare a fare la cocciuta? Benissimo. Affari suoi.

Il preside, un uomo lento e senza alcuna voglia di vivere, fece il suo ingresso nella sala. Sarah mi guardò negli occhi, piena di delusione e rabbia, poi si voltò di scatto e fissò il direttore con uno sguardo che sarebbe stato in grado di decapitarlo. Rimase così per tutto il discorso di benvenuto, e quando fu il momento di mettersi in fila per ricevere gli orari scattò in piedi e si allontanò senza darmi il tempo di dire o fare niente. Non che io ne avessi l'intenzione, sia chiaro.

Non potevo credere di aver litigato con Sarah, e soprattutto per una cosa del genere. Era la mia migliore amica, avrebbe dovuto capirmi! Era davvero convinta che sarei diventata come tutte le puttanelle di John? Come se non ci conoscessimo da secoli, come se non avesse saputo perfettamente che piuttosto di diventare così mi sarei rinchiusa in convento! Cosa diamine le era preso? Affari suoi, comunque. Io ero troppo arrabbiata per strisciare da lei e chiederle scusa. E poi la colpa non era mia. Avrei fatto a meno di lei fino a quando non si fosse decisa ad ammettere che non aveva fatto altro che sparare un mucchio di cazzate.

Nonostante quella in torto fosse lei, non mi sentii per niente felice quando lasciai l'aula magna senza di lei, e quando, a pranzo, mi sedetti a un tavolo diverso dal suo. Non era questo il primo giorno di liceo che mi ero immaginata per tutta l'estate.

Forse anche per il litigio la scuola non si rivelò la pacchia che mi ero immaginata. Nessuno dei professori era rimbambito come lasciavano intendere i telefilm in prima serata. Un paio cominciarono subito il programma, assolutamente indifferenti di fronte alla scoperta che nessuno degli alunni si era sognato di portare libri e quaderni il primo giorno. I miei compagni erano dei ragazzi normali, ma, d'altronde, era troppo presto perchè fossero risucchiati in qualche corrente di pensiero e comportamento giovanile. Fui colpita soprattutto da un tizio alto e allampanato come una lampada da soggiorno che si chiamava Fred White e che non la smetteva di fare battute. Il mio corso di arte era gettonatissimo tra i tipi strani, gente che sembrava strafatta e strafumata ma che era così di suo. Passeggiando per i corridoi individuai subito i tipi da cui era meglio stare alla larga: tre marcantoni dell'ultimo anno, tra i quali c'era Simmons, altro pugile del coach Redton, che stavano setacciando lo zaino di un tipo talmente basso e sfigato che sembrava essere finito nella scuola sbagliata, come sottolineò il più grosso di tutti, suggerendogli di tornarsene alle elementari, e sei ragazze messe ancora peggio di quelle addobbate per il ballo, che avevano attorniato minacciosamente una ragazza che tremava come una foglia. Non mi sarebbe piaciuto per niente trovarmi da sola con loro: i maschi li potevo gestire, ma le ragazze erano delle iene che trovavano sempre il modo per non smettere di sghignazzare.

L'ultima ora avevo inglese. David mi aveva raccontato che la professoressa Caddle, la sua insegnante dei primi due anni di liceo, era una donna carina, gentile, giusta e accomodante, ma che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno ed era maledettamente brava nel suo lavoro. Inglese era sempre stata tra le mie materie preferite, e non vedevo l'ora di conoscerla. Inoltre, mi sembrava il genere di donna che si abbandonava a lunghe reminiscenze degli studenti passati: forse sarei riuscita a sentire il racconto di qualche fattaccio compiuto da David nella sua carriera scolastica.

La stanza si riempì poco a poco. C'erano ragazzi che avevo già visto nei corsi precedenti, tra i quali Fred White, già accompagnato da una piccola schiera di persone. Quel tipo sarebbe diventato il pagliaccio della classe, e nemmeno io, con tutta la rabbia che avevo intorno, riuscii a trattenere un sorriso quando commentò l'acconciatura di un'insegnante di matematica.

Finalmente, la professoressa Caddle entrò nell'aula col sorrisone benevolo di chi è contento della propria vita. Sembrava una di quelle donne di campagna tranquille e pacifiche che sembrano le più felici del mondo. Posò delicatamente i libri sulla cattedra e si presentò.

«Buongiorno a tutti, ragazzi. Mi chiamo Charlotte Caddle e sarò la vostra professoressa d'inglese per quest'anno». Senza dire altro cominciò a fare l'appello, ma conservò l'aria serena che, ne ero sicura, avremo visto molto spesso nel corso di quell'anno scolastico.

Aveva appena verificato la presenza di Steve Dale quando la porta si aprì.

Era Sabo.

«Mi...scusi...professoressa».

«Chi sei?» chiese la Caddle con voce ferma.

«David...Sabo». Aveva il fiatone. Implorai il Signore, Gesù e tutti i santi che quello scarafaggio fosse lì solo per portare qualche comunicazione.

La Caddle diede una scorsa veloce all'elenco e poi piantò di nuovo gli occhi in quelli di Sabo. «Perchè è in ritardo, signor Sabo?»

Inorridii. Sabo nella mia stessa classe di inglese? Il corso che aveva più ore di tutti? Erano otto anni che lo sopportavo, ma avevo raggiunto il limite. Non avrei più potuto sentire la sua vocetta gracchiante senza aver modo di picchiarlo.

«Mi sono...attardato...a parlare...con un mio amico...e poi mi sono perso. Non riuscivo a trovare l'aula».

La Caddle lo squadrò, indecisa se credergli o no, ma poi dovette pensare che il primo giorno di scuola era troppo presto per rimproverare qualcuno. «Adesso sai dov'è la classe. Spero di non doverti più rimproverare per un ritardo, come spero di non dover rimproverare nessun altro di voi. Arrivare puntuali è la regola fondamentale, nelle mie ore. Ora va' a sederti dove trovi posto».

Nessuno si sarebbe mai azzardato ad arrivare tardi. La professoressa non aveva alzato la voce, né sbattuto una mano sulla cattedra, ma il messaggio era arrivato lo stesso.

Mi guardai intorno, cercando il banco vuoto dove si sarebbe seduto Sabo. Era accanto al mio, ovviamente. Mi vide solo dopo essersi seduto, e ci fulminammo a vicenda con lo sguardo.

No, il liceo non era decisamente il mondo fantastico che mi ero aspettata.

 

Note

Ehilààà :)

Eccomi qui con il nuovo capitolo (benedette vacanze!!). Che dire a proposito?? La nostra Claire non fa altro che mettersi nei casini a quanto sembra...Probabilmente si sta chiedendo quanto crudele è la ragazza che l'ha creata, dal momento che le mette tutto il mondo contro muhahahahaha XDD Lo prometto, prima o poi rinsavirò. Probabilmente è solo l'esaltazione per il fatto che il concerto dei Jovi è il giorno del mio compleanno...Chissà perchè, ma ho già il sentore di quale sarà il mio regalo ;D E se nessuno mi regala il biglietto me lo regalo da sola u.u

Mentre aspettiamo tutti con ansia il 29 giugno, direi di continuare a fantasticare con le nostre care fanfiction :)

Alla prossima!!

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Capitolo 4
*** Rabbia ***


Capitolo 4

Rabbia

Why you wanna tell me how to live my life?

 

 

Erano passate due settimane dall'inizio del liceo, che non si era rivelato poi tutta questa bellezza. I professori si erano incattiviti dal primo giorno, la Caddle non voleva divagare raccontando le bravate di David e Sarah non mi aveva più rivolto la parola.

Era la cosa peggiore. In un paio di giorni era diventata pappa e ciccia con le tre oche che avevamo avuto in classe alle elementari, e che prendevamo puntualmente in giro. Se ne andava in giro per i corridoi a braccetto con loro, a ridacchiare come una scema, e quando ci incrociavamo lei faceva finta di non vedermi, mentre le altre mi lanciavano occhiate disgustate.

Ma anche io mi ero fatta altri amici. A mensa mi sedevo a volte con alcuni miei compagni di scuola degli anni passati, altre con volte con Fred e la sua compagnia. Ero uscita con loro un paio di volte, e mi ero sempre divertita tantissimo. Però continuavo a sentire la mancanza di Sarah, ed era inevitabile, visto che eravamo amiche praticamente dalla culla. Non volevo credere che la nostra amicizia fosse finita per un motivo così stupido, ma, d'altra parte, non potevo farci niente: non ero io quella in torto, e non avevo nessuna intenzione di supplicare il suo perdono. Era perfettamente in grado di decidere da sola quale fosse la cosa migliore da fare, e se riteneva che quella cosa fosse essere amica delle oche, buon per lei. Non sapeva a cosa andava incontro, e di certo non glielo avrei detto io.

Sabo diventava più insopportabile ogni ora di inglese che passava. Io cercavo di cambiare posto ogni volta, ma lui mi seguiva come un'ombra: aveva sempre trovato divertente e liberatorio mandarmi fuori dai gangheri. Aveva abbandonato l'argomento “tastiere” per gettarsi su “amicizie finite”, ma aveva i giorni contati: di questo passo l'avrei strangolato prima di Halloween.

Già, Halloween, quando John avrebbe cantato alla festa della scuola e David sarebbe stato il suo tastierista. Con una sortita alla prima riunione del club di jazz avevano ingaggiato un batterista e un bassista e avevano cominciato a provare tre volte a settimana nel nostro garage, il che significava che John era diventato un frequentatore assiduo della mia abitazione. Fortunatamente, il coach Redton aveva fissato gli allenamenti proprio contemporaneamente alle prove, perciò non rischiavo di fare figuracce mentre quegli occhi azzurri come il cielo terso mi guardavano. A quanto pare avevano già trovato un nome per la band, ed era evidente la frettolosità con cui l'avevano scelto.

«Atlantic City Expressway? Ma che razza di nome è?»

«Non c'erano altre proposte, e visto che quel rimbambito di Chimney, che organizza la festa di Halloween, ha bisogno di un mese e mezzo per fare tutto, non c'è stato tempo per trovare qualcosa di meglio. Siamo ufficialmente segnati nel programma della serata come Atlantic City Expressway».

Se la tastierista di John fossi stata io, di sicuro sarei riuscita a trovare qualcosa di meglio. Non avrei permesso che una frase trovata leggendo chissà quale cartello in autostrada diventasse il nome della band.

«Mi chiedo da dove sia arrivata l'ispirazione» dissi sarcasticamente.

«È strano che tu lo chieda, in effetti» rispose David. Il suo sorrisetto mi ricordava terribilmente quello di Sabo. «Lo ha proposto John».

«Oh, ma allora è un nome bellissimo» commentai con ironia. John non sarebbe riuscito a farmi rimangiare la parola, nemmeno con uno dei suoi sorrisi.

«Perchè non ne proponi uno tu, visto che sei tanto brava?»

«Ingrato. È solo grazie a me che tu e gli altri capelloni dei tuoi amici siete riusciti a farvi conoscere in questo isolato. O ti devo ricordare ancora una volta che sono stata io a proporre il nome Transition per la tua vecchia band?» Me ne ero sempre vantata.

«Non sono un ingrato. Non vedi come ti sto ripagando?» e indicò la tastiera. «Avanti, suonami qualcosa».

Attaccai Smoke On The Water, l'unica canzone che fossi capace di suonare come si deve. Cominciava ad annoiarmi.

«Insegnami qualcos'altro! Mi sembra di conoscere solo questa da quante volte l'ho suonata...»

«Non sei ancora abbastanza brava» ghignò lui. In realtà si divertiva a mandarmi in bestia, esattamente come Sabo. Che, guarda caso, era il chitarrista degli Atlantic City Expressway. La loro amicizia era deleteria per i miei nervi.

«Certo, è così. In effetti, è proprio perchè non sono brava che il direttore del club d'orchestra si è sorpreso quando gli ho detto che prendo lezioni solo da quattro settimane, e per di più da mio fratello, non da un insegnante serio».

«Non ho detto che non sei brava, ho detto che non lo sei abbastanza».

Era frustrante. «Lascia che te lo dimostri, almeno!»

«Come vuoi. Accetto qualsiasi cosa».

La soluzione arrivò improvvisamente, bella e tremenda come un fulmine a ciel sereno, e fu l'idea più geniale, opportuna e devastante di tutta la mia adolescenza.

Volevo godermi il momento.

«Hai detto qualsiasi cosa, David?» domandai con un'espressione fantastica, di quelle che uno dovrebbe capire al volo, ma che quell'ingenuo di mio fratello non avrebbe capito nemmeno con i sottotitoli.

«Sì, Claire, qualunque cosa. Voglio proprio sentire la tua bravura, visto che il direttore del club d'orchestra tesse le tue lodi...»

Si sarebbe pentito amaramente di tutto quel sarcasmo.

«Come vuoi tu». Cominciai a camminare da un lato all'altro della stanza, guardandomi la punta delle scarpe. «Dal momento che Smoke On The Water è l'unica canzone decente che mi hai insegnato, sceglierò quella».

«Sceglierai per cosa?» domandò con genuina e sommamente ingenua curiosità.

«Per suonarla con i tuoi amici dell'Atlantic City Expressway, ovviamente!»

Poche volte nella vita ho assaporato la sensazione di trionfo che provai in quel momento, quando alzai gli occhi e vidi sorpresa, terrore e inorridimento sul volto di David.

«Scordatelo».

«Hai detto qualsiasi cosa, David, e non credo ci sia bisogno di ricordartelo più di una volta». Mio fratello la pensava come me: piuttosto di non mantenere la parola sarebbe morto.

«Claire, qui non si tratta di imparare a suonare! Te l'ho detto così tante volte che ho perso il conto: non puoi provarci con John!»

«Ma io non voglio provarci con John, fratellone. Io voglio solamente dimostrarti che mi puoi insegnare qualche altra canzone».

Diamine, avrei dovuto fare recitazione.

«Non prendermi per scemo, lo so che non è così! Ti impedirò di invischiarti con lui, dovessi rinchiuderti in soffitta per il resto dei tuoi giorni! Non me ne frega niente, Claire, tu con John non ci starai mai!»

«La vuoi piantare con questa storia? Ne abbiamo già parlato un milione di volte, e a me sembra di aver chiarito la faccenda! Primo, la vita è mia e me la gestisco io, e secondo, e questo l'hai detto tu, caro mio, John non si mette mai con quelle più piccole!»

«Non abbiamo chiarito un bel niente se non hai ancora capito che a John non devi nemmeno rivolgere la parola!»

Persi davvero la pazienza.

«Ma la vuoi smettere di dirmi cosa devo fare e cosa no?»

«Non posso se tu continui a insistere per vedere John! Anch'io sono stufo di tutte queste discussioni, ma evidentemente tu soffri di perdita di memoria a breve termine, dal momento che ti devo ripetere ogni santo giorno che tutte quelle che puntano a lui diventano...»

«Ma hai presente chi sono io, eh? Mi conosci? Secondo te io potrei mai diventare come loro? Lo sai benissimo come sono fatta! Piuttosto di trasformarmi in una di quelle sgualdrine mi faccio suora, e sai benissimo che non sto scherzando!»

«Pensavo la stessa cosa di...»

«Smettila!» urlai con tutta la voce che avevo. Non ero mai stata così arrabbiata. «Smettila con tutti i tuoi esempi di brave ragazze che diventano come nessuno si sarebbe mai aspettato perchè si innamorano di John! Mi mandano in bestia! Non sono più una bambina! So come va il mondo!»

«Ma è proprio questo il punto! Tu non sai come va il mondo!»

«Sì, perchè tu lo sai?»

«Ho due anni di esperienza in più di te!»

«E gli occhi foderati di prosciutto! Sai qual'è la verità? Lo sai?»

«Dimmelo tu qual'è la verità!» Quel suo modo di parlare mi faceva imbestialire ancora di più.

«Che non vuoi che io viva la mia vita come un'adolescente normale, perchè anche se ti atteggi a essere un menefreghista e ad avere tanti amici sei solo uno sfigato, e non vuoi che io lo sia meno di te!»

Mi sentii malissimo, anche con tutta la rabbia che mi ribolliva dentro. Non lo pensavo sul serio, e lui lo sapeva. Il problema era che non ci stavamo prendendo in giro come facevamo di solito, ci stavamo urlando contro di brutto.

David non rispose, e io non volli nemmeno guardarlo negli occhi per paura di vedere qualcosa che mi avrebbe fatta sentire ancora peggio. Mi voltai e uscii dalla camera sbattendo la porta, non perchè se fossi rimasta gli avrei spaccato la faccia con un destro ben assestato, ma perchè non sarei riuscita a sopportare a lungo l'atmosfera che io avevo causato dicendo una cosa che in realtà non mi aveva mai sfiorato la mente. Esplosi, piangendo non solo per la litigata con David, ma anche per Sarah, sentendo tutte le loro accuse rimbombarmi nella testa. Scesi giù per le scale, non risposi a mia mamma che mi chiedeva cosa fosse successo, spalancai la porta, travolsi John e il batterista che erano appena arrivati per provare, raggiunsi la strada e cominciai a correre senza una meta, sperando che prima o poi il dolore alle gambe e il fiato corto avrebbero attenuato tutte le emozioni a cui ero in preda.

 

Note

Salut!! Comment ça va? :)

Ho poche cose da dire riguardo a questo capitolo, se non che è solo di passaggio, e che dal prossimo si entrerà più nel vivo della storia. E non preoccupatevi se Claire sembra messa malissimo e le capitano una disgrazia dietro l'altra...Ribadisco che è una ragazza forte e che ci vuole ben altro per abbatterla...Non per niente è campionessa nazionale di boxe! E poi tutti questi casini le rafforzeranno l'animo :)

Ah, un'altra cosa: non ho la più pallida idea di dove si possa leggere la scritta “Atlantic City Expressway”, o cosa sia, ma così a sentimento mi da la sensazione di qualcosa che si trova in un'autostrada...Quindi perdonatemi per eventuali errori :)

Ringrazio ancora tutti quelli che recensiscono e che inseriscono la mia storia tra le seguite, le preferite e da ricordare :) Alla prossima!!

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Capitolo 5
*** Fantasia o realtà? ***


Capitolo 5

Fantasia o realtà?

She's a little runaway

 

 

Corsi per non so quanto tempo. Sentivo la fatica, il fiato corto, il pulsare dei polpacci per lo sforzo, ma allo stesso tempo non sentivo nulla, perchè tutto era nascosto dalla rabbia, frustrazione e sensazione di stupidità che mi rimbombavano in testa e nel cuore.

Alla fine caddi a terra, sfinita, rannicchiata sul prato di non so quale casa, tremando per il freddo, la sete e la stanchezza. Avevo le orecchie ancora piene delle parole di Sarah, gli occhi pieni dello sguardo di David. Erano le persone a cui tenevo di più al mondo, e nel giro di due settimane le avevo perse entrambe, proprio nel periodo della vita che mi ero sempre figurata come il migliore di tutti. Cosa me ne facevo del pugilato se non potevo stare al loro fianco? Cosa me ne facevo di J...

A John non volevo nemmeno pensare.

Rimasi parecchio tempo in quel prato, senza la forza di fare nient'altro. Adesso che ero ferma, il dolore alle gambe era raddoppiato. Chi abitava la casa davanti alla quale mi trovavo doveva essere fuori, perchè tutte le luci erano spente.

In effetti, sembrava che in tutta la via nessuna famiglia fosse in casa. Nel lasso di tempo che trascorsi lì non passò nemmeno una macchina, e appena me ne resi conto iniziai ad aver paura. Qualche metro più in là, un cartello portava la scritta “Dickinson Road”, ed era il nome di una via di cui non avevo mai sentito parlare. Non sapevo nemmeno che ora era, ma doveva essere tardi: il sole era calato da molto tempo e faceva dannatamente freddo. Come se non bastasse, ero in ciabatte e maniche corte.

Dovevo tornare a casa, e in fretta. Mi alzai di scatto, costringendo le gambe a sorreggermi e a muovere qualche passo, e mi incamminai dalla parte da cui ero arrivata. C'era tanto silenzio, troppo, e tutto era terribilmente simile alla scena di un film horror. Cominciavo ad avere paura sul serio, e cercai di convincermi che era tutto tranquillo, che non mi sarebbe successo nulla e che, in ogni caso, ero un pugile professionista e i miei colpi erano un'arma a tutti gli effetti.

Al primo incrocio mi persi quasi completamente d'animo: non mi ricordavo da dov'ero venuta. Stetti ferma lì per alcuni minuti, rabbrividendo e cercando di ricordare qualcosa di quel punto. I nomi delle vie mi erano completamente sconosciuti e non avevo idea della direzione dalla quale fossi arrivata. Alla fine decisi di continuare diritta.

Mi successe la stessa cosa per quattro incroci consecutivi. Continuavo ad andare dritta, sempre dritta, sperando di incontrare prima o poi una strada nota, o un semaforo, una casa, un albero, qualsiasi cosa, perchè stavo veramente andando in panico, e diventava sempre più tardi e le lacrime ricominciavano ad affacciarsi, come se per quella sera non ne avessi versate abbastanza, come se non fossi stata abbastanza male, come se non avessi già abbastanza grane a cui pensare.

Il quinto incrocio fu devastante. Su di me piombò la consapevolezza che erano due chilometri che camminavo senza sapere dove andavo, tutte le case che avevo costeggiato sembravano vuote e non era passata nemmeno una macchina. Mi guardai intorno per cercare una cabina telefonica, ma poi mi ricordai di non avere soldi. Stramazzai a terra una seconda volta, sul duro marciapiede, senza nemmeno la forza per piangere, e decisi di rimanere lì fino a quando non fosse arrivato qualcuno, nonostante tutto il freddo che avevo. Mi addormentai quasi subito.

Fui costretta a riaprire gli occhi da qualcuno che mi parlava, chino su di me. Avevo più sonno di prima. Non doveva essere passato molto tempo.

«Ehi! Ehi, svegliati! Stai bene?»

«Chi sei?» mugugnai, e sentii un gran bruciore alla gola.

«Sono...Ehi, aspetta un attimo...Ma tu sei...Oh mamma mia...Tu sei la sorella di David!»

Riuscii finalmente a mettere a fuoco la scena.

La luce di un lampione illuminava una massa informe di capelli biondi che pendevano ai lati di un paio di occhi azzurri.

Non ci volevo credere. Era tutto spaventosamente ridicolo. Adesso mi sembrava sul serio di essere in un film: il ragazzo di cui ero innamorata e che avevo quasi deciso di dimenticare per non perdere le due persone a cui tenevo di più arrivava a salvarmi da una notte all'addiaccio costellata dai sensi di colpa, dopo essere stato la causa indiretta di tutti i litigi. No, non poteva essere vero. Scoppiai a ridere.

John mi appoggiò una mano sulla fronte. Normalmente sarei morta d'infarto per un gesto del genere, ma andiamo, volete davvero farmi credere che tutto ciò stesse accadendo realmente?

«Dannazione, scotti come l'inferno!» Vidi che voltava velocemente la testa, come per cercare aiuto, ma non c'era nessuno, e anche se la strada fosse stata piena nessuno lo avrebbe visto, perchè lui non esisteva...

Si tolse la giacca di pelle, mi ci avvolse e mi prese in braccio come se fossi stata una piuma. Certo, come no, John Bongiovi che mi metteva la sua giacca e mi prendeva in braccio...Adesso dove mi voleva portare, in sella al suo cavallo bianco? Scoppiai a ridere una seconda volta, così forte che non sentii lo scatto della portiera della macchina che si apriva. Mi appoggiò da qualche parte, sopra qualcosa che non assomigliava per niente al dorso di un cavallo. Non avevo la forza di rimanere seduta, così mi sdraiai continuando a ridere.

Chiuse la portiera e andò a sedersi al posto di guida. Mi guardò negli occhi. «Adesso calmati, che ti riporto a casa. Su, tranquilla». Smisi di ridere. «Brava, stai lì così. Non preoccuparti, ti porto a casa io. Dormi, se vuoi. Io...» Non ci fu bisogno di ripetermelo. Mi addormentai di nuovo, e mi sarei addormentata anche se non l'avessi voluto, anche se quel sedile in realtà era solo frutto della mia immaginazione...

 

Mi svegliai nel mio letto, sotto otto strati di coperte e con mia madre seduta sull'orlo del materasso che mi guardava preoccupatissima. Accanto a me, sul comodino, c'era il termometro, e sentivo un panno bagnato sulla fronte.

«Mamma...»

Mia madre si chinò per gettarmi le braccia al collo. «Oh, Claire! Grazie al cielo!»

Mi sembrò un tantino esagerato.

«Cos'è successo?» domandai a fatica. Il dolore alla gola sembrava triplicato dalla notte precedente.

«Claire, tesoro mio, eravamo così preoccupati! Non sai quanto siamo stati in pensiero! Erano le quattro quando è arrivato quel ragazzo, John, l'amico di David...»

«John? John Bongiovi?»

«Sì, lui...Un tanto caro ragazzo...Se non fosse stato per lui sarei impazzita! Non sto scherzando, solo un secondo in più e...»

Avevo un mal di testa infernale, e nella mente vorticavano immagini di un principe azzurro con i capelli tutti spettinati che mi posava su un sedile peloso e bianco...Cos'era successo quella notte? Avevo delirato?

«Mamma, cos'è successo?» ripetei.

«Oh, è arrivato John con quella sua macchina, è sceso e ti portava in braccio...Non sai che sollievo per me e tuo padre...Eri addormentata, ma ti sei svegliata appena ti abbiamo portato qui in camera...»

«Non mi ricordo di essermi svegliata».

Mia madre non mi diede retta. «Poi ti abbiamo messo il pigiama e ti abbiamo misurato la febbre, avevi quarantuno...»

«Quarantuno

«Sì, e volevamo portarti all'ospedale, ma poi abbiamo deciso che era meglio lasciarti riposare, all'ospedale c'è sempre casino e ti avrebbero fatto entrare dopo un mucchio di tempo...E quel ragazzo, John, è stato veramente un signore, ha aspettato che ti riaddormentassi per andare via...»

John aveva aspettato che mi riaddormentassi? E da quando in qua era così premuroso? Nonostante non volessi più saperne non potei fare a meno di compiacermene.

«...Comunque ho chiamato il dottore, sarà qua tra mezz'ora...»

Un pensiero mi folgorò. «E David?»

«Ma David è a scuola, cara...Sono le nove e mezza del mattino...»

«No, come si è comportato dopo che...sono uscita?»

«È rimasto in camera sua per tutta la sera. Ha mandato via i suoi amici, quelli che erano venuti per provare, e non ha nemmeno mangiato. Sono entrata da lui quando sei arrivata con John, ma stava dormendo».

Tutta la sera in camera sua, e aveva cacciato gli altri...Avevo proprio avuto un'idea geniale, dicendogli quella frase. Doveva esserci rimasto malissimo, molto peggio di quello che mi ero aspettata. Fui assalita di nuovo dai sensi di colpa. Non vedevo l'ora che tornasse a casa: non sarei stata tranquilla fino a quando non mi fossi scusata. Dovevo parlargli, anche se non mi avesse perdonato. Quella storia aveva già causato abbastanza danni, e io stavo pagando il prezzo più alto, proprio come facevano tutte le ragazze che si innamoravano di John. Tuttavia, la folle idea che mi era venuta la notte prima, quella di lasciarlo perdere, in quel momento non mi sfiorava nemmeno. Quando quel pensiero mi aveva attraversato la mente stavo delirando...E poi potevo lasciarlo perdere qualche ora dopo che mi aveva portata a casa in braccio e aveva aspettato tutto preoccupato che mi addormentassi? Assolutamente no.

Quella giornata fu un calvario. Il medico mi visitò e disse che mi ero presa una bella influenza, mi prescrisse circa un miliardo di sciroppi e antibiotici e fece giurare a mia madre di tenermi inchiodata a letto per almeno due giorni. Mangiai un brodino caldo, il piatto che odiavo di più, e dormicchiai quasi tutto il tempo, pensando per l'ennesima volta a David, a Sarah, a John, a quello che era successo e a quanto asfissianti fossero mio fratello e la mia migliore amica. Tenevo tantissimo a loro, ma come si permettevano di decidere quello che era meglio per me? Dovevo mettere le cose in chiaro. Era ora che la smettessero di considerarmi una bambina.

Quel pomeriggio David tornò presto, molto prima del solito. Non si era fermato a scuola per l'allenamento di baseball, e anche se non aveva mai preso lo sport troppo sul serio era una cosa molto strana. Ebbi paura che la causa di quel comportamento fossero le mie parole, ma non potevo fare a meno di parlargli. Aspettai di sentire i suoi passi lungo il corridoio e lo chiamai.

Esitò qualche istante prima di entrare. Sul volto aveva dipinta l'ultima espressione che gli avevo visto il giorno prima, e mi fece stare malissimo.

«Hai bisogno di qualcosa?» mi domandò bruscamente.

Decisi di non ascoltare la freddezza nella sua voce. «David, mi dispiace. Io non penso veramente quello che ho detto e...»

«Se non ti serve niente me ne vado. Devo studiare un mucchio».

Normalmente avrei detto “Sì, come no”. «David, ascoltami, ti prego. Ero arrabbiatissima e ho detto la prima cosa che mi passava per la testa...»

«La prima cosa che passa per la testa di solito la si pensa».

«No, non è vero! Io...».

«Taci! Pensa quello che vuoi di me, non me ne frega più niente. Ora, se non ti dispiace, vado in camera mia, da solo, così forse mi renderò conto di essere davvero uno sfigato».

«David, aspetta!»

Uscì sbattendo la porta.

Non avrei mai pensato che si potesse stare così male per un motivo diverso dal ricevere qualche montante ben piazzato. E, ironia della sorte, le uniche due persone che reputavo capaci di tirarmi su il morale erano le uniche due persone arrabbiate con me.

Perchè ce l'avevano con me?

Perchè mi ero innamorata del ragazzo sbagliato.

Un corno! Era solo colpa loro se ce l'avevano con me, visto che era un loro problema se non si fidavano di me. Ma come diamine facevano a non fidarsi di me? Ero forse una teppista? Una che non sapeva badare a se stessa? Una poco di buono? Una bambina? No, la verità era che non si fidavano di me perchè mi ero innamorata di John, e tutte quelle che si erano innamorate di John erano così. Ma perchè io non potevo essere diversa da loro?

Che se ne andassero al diavolo.


 

Note

Ehilà!!

Lo so, sono in ritardissimissimissimo!!! Vi prego, non uccidetemi *fa una faccia supplichevole* Ma dovete capire che la quinta superiore non è proprio un periodo di nullafacenza :( Ma adesso il trimestre è finito e per un po' di tempo non dovrei avere particolari problemi. Ok, se mi avete perdonata parlo un po' di questo capitolo :)

Lo so, è ridicolissimo, con David che se la prende tanto, la fuga da casa per un motivo stupido, John che, guarda caso, passava di là nel bel mezzo della notte e tutta l'esagerazione del deliriofiaba...Ma si è praticamente scritto da solo, e per una volta che mi capita non posso cambiarlo radicalmente come se niente fosse :) A parte questo mi piace abbastanza, e spero che lo stesso valga per i lettori che non si sono fatti scoraggiare dalla mia assenza.

Bon, non mi resta altro da dire, se non ringraziare infinitamente chi continua a leggere questa fic nonostante tutte le cavolate che scrivo XDD Quindi...Alla prossima!!

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Capitolo 6
*** Un quinto dell'insieme ***


Capitolo 6

Un quinto dell'insieme

Forgive me

 

 

Rimasi chiusa in casa per una settimana, e furono i giorni più deprimenti che avessi mai vissuto, con David che mi evitata come si evita la peste e con mia madre che non faceva che chiederci cosa fosse successo. Lo giuro, per la prima volta in vita mia non vedevo l'ora di tornare a scuola. Studiando avrei avuto qualcosa a cui pensare che non fossero le discussioni e la mia stupidità, e poi dovevo parlare con Sarah: anche se David non mi aveva perdonato, forse con lei sarebbe andato diversamente. Lo speravo con tutta me stessa.

Il mercoledì mi svegliai particolarmente determinata e ottimista. Avevo puntato la sveglia prima del solito: volevo vedere Sarah prima che arrivassero le oche, e lei usciva di casa molto presto alla mattina. Sarei andata a scuola in bicicletta e l'avrei intercettata all'entrata; inoltre, facendo così non avrei dovuto prendere l'autobus con David.

Le cose andarono proprio come avevo sperato: appena dopo aver messo il lucchetto alla bici vidi Sarah che camminava attraverso il piazzale semideserto. Le corsi incontro chiamandola ad alta voce.

Quando si voltò mi lanciò un'occhiataccia terribile, ma non mi persi d'animo. «Sarah, ti devo parlare».

«Ti parlerò quando sarai tornata in te stessa» rispose, fredda come il ghiaccio.

Ce la misi tutta per mantenere il controllo. «È proprio di questo che ti volevo parlare. Io sono me stessa, Sarah».

«Tu non sei te stessa».

«Io sono sempre stata me stessa, anche se mi sono innamorata di John. Sono sempre io, la tua migliore amica. Dobbiamo litigare perchè mi sono innamorata? È una cosa stupida, Sarah».

«Te l'ho già detto. Non sono arrabbiata perchè ti sei innamorata, ma per la persona di cui ti sei innamorata. John...»

«E io» la interruppi, «ti ho già detto che non si può decidere di chi innamorarsi. Succede e basta, e lo sai».

«Ma...»

«So dove vuoi arrivare. Mi spieghi perchè diamine dovrei essere come loro? Perchè non posso essere diversa?»

«Tutte...»

«No, non tutte» ribattei, con un sorriso benevolo sul volto. «Se tutte diventassero così dopo essersi innamorate di John, Sayreville sarebbe una città di puttane».

«Lo stesso non so se sia una buona cosa. Ci sono anche un casino di ragazze che sono diventate così...»

«E tu sul serio credi che diventerei come loro?»

Sarah spostò lo sguardo. Non pensava niente del genere, lo sapevo bene. Però si vergognava tantissimo che io credessi che lei potesse pensare una cosa del genere.

Parlò dopo qualche secondo di riflessione. «Non lo penso. Come potrei pensare una cosa del genere di te? Sono stata una stupida. Scusami, Claire».

Inclinai un po' la testa per incrociare il suo sguardo. «Quindi siamo di nuovo amiche?»

Alzò il viso, e vidi un gran sorriso stampato sulla sua faccia. «Presumo di sì».

La abbracciai.

«Pensandoci bene» continuò, stretta in una morsa di ferro, «litigare così perchè ti sei innamorata di un ragazzo che nemmeno ti guarda è una cosa abbastanza stupida».

«Taci, valà. È una settimana che me lo ripeto. Bè, mettiamola così: almeno non corro il rischio di diventare una puttana».

Ridemmo di gusto, come se non fosse mai successo niente. «Mi sei mancata, Claire».

«Sì, e poi non riuscivi più a sopportare le oche» sogghignai.

Gli occhi le si illuminarono d'immenso. «Claire, hai dannatamente ragione! Le oche! Non sai quante cose ho scoperto...» Eccola partita alla carica con i suoi monologhi esaltati, come aveva sempre fatto. Ebbi la netta sensazione che non avesse parlato molto, in quelle tre settimane, e quindi adesso sarebbe stata ancor più logorroica, dovendo recuperare il tempo perduto. Mi aspettavano molte ore di pettegolezzi.

Mi sentivo una meraviglia. Non avevo recuperato David, ma riuscirci con i consigli di Sarah sarebbe stato molto più facile: ero ancora più ottimista di quando mi ero svegliata quella mattina. Quando arrivarono le oche, una decina di minuti dopo, Sarah le mandò tutte a quel paese in una maniera che meritava un premio Nobel, e a pranzo si sedette al tavolo della compagnia di Fred insieme a me, ma parlammo tutto il tempo per conto nostro, spettegolando e facendo i raggi X a tutti gli altri studenti. Il liceo come l'avevo sempre immaginato era finalmente iniziato.

Ma non avevo fatto i conti con una cosa che in quella settimana di malattia mi ero completamente dimenticata, e che era destinata a rovinare tutto il mio buon umore.

«Rashbaum, hai finito di combinare casini con tutte le persone a cui vuoi bene?»

«Allora è un peccato che non ti voglia bene» ribattei.

«Ma che razza di risposta è?» Mi si affiancò. «Cosa c'è, tutti queste discussioni ti hanno fatto perdere il senso dell'umorismo?»

«Almeno io so cos'è, il senso dell'umorismo».

«Mi sei calata, Rashbaum...Andiamo, così non c'è soddisfazione a infastidirti! Ma suppongo che in questo periodo non ci riuscirei lo stesso, con tutti i sensi di colpa che avrai...»

«Un'altra parola, Sabo, e ti giuro...»

«Cosa mi vuoi fare, eh? Mi pesti?»

«In effetti potrei».

«Troppo facile, sei un'esperta. Ma se davvero vuoi farmela pagare, io ho un'idea migliore».

«E da quando in qua tu hai idee buone, col cervello che ti ritrovi?»

«Aspetta di sentirla, e poi giudica». Mi guardò negli occhi con un guizzo trionfale. «Vediamo chi suona meglio, se tu le tue tastiere o io la mia chitarra».

Era un'idea ragionevole. Avrei accettato subito, ma c'era un problema: David. Dove c'era Sabo c'era anche John, e se lo avessi incontrato mio fratello si sarebbe arrabbiato ancora di più. Ma non potevo assolutamente rifiutare, per una volta che avevo la possibilità di chiudere il becco a Sabo.

«A una condizione» risposi. «Ci saremo solo tu e io, senza la band».

«Cos'è, hai paura di fare brutta figura?»

«Ho i miei motivi, e di sicuro non li spiegherò a te. In ogni caso, o si fa così o niente». In quel modo, anche se Sabo non avesse accettato la condizione, avrei dimostrato di non temere un confronto con lui nel suo campo.

«Affare fatto». Ci stringemmo la mano, ovviamente cercando di stritolarcela a vicenda. «Verrò a casa tua oggi pomeriggio appena dopo la scuola. E già che ci sei fammi trovare pronta una coppa di gelato. E non tentare di farmi credere che non ce l'hai: quando veniamo a provare David ce la offre sempre, quindi è ovvio che hai la scorta».

Avevo scoperto chi finiva tutto il mio gelato. «Sai cosa ti dico? Vattelo a comprare, il gelato. E ricordati: nessuno a parte te».

Ci allontanammo in direzioni diverse senza salutarci.

Quello si stava davvero rivelando un giorno fantastico: con un po' di fortuna sarei riuscita a vincere la sfida. L'unico problema era che l'unica canzone che sapevo, Smoke On The Water, era estremamente semplice anche con la chitarra, e di solito tutti la sapevano suonare. Cosa sarebbe successo se ci fosse stato un pareggio?

 

Sabo fu puntualissimo. Scese dallo scuolabus, corse a casa sua a recuperare la chitarra e fu subito davanti alla mia porta a suonare il campanello. Con lui non c'era nessuno.

«Sei pronta a perdere?»

«E tu?»

Dopo questi convenevoli da film western andammo in garage, che era stato colonizzato dagli strumenti della band, cosa che aveva mandato in bestia mio papà, costretto a parcheggiare l'auto lungo il viale. Mi posizionai dietro le tastiere, mentre Sabo sistemava la sua chitarra elettrica rossa.

«Che canzone proponi per iniziare?»

Per iniziare? Si aspettava che ne conoscessi più di una?

«Smoke On The Water».

«Eh, ma allora non c'è gusto!»

«O questa o niente».

«Ma un corno! Vuoi sfidare me, che sono un asso, con una canzone che anche i neonati sanno suonare? Sai che c'è? Secondo me non sei per niente brava, e vuoi suonare la più semplice che esiste per mascherare la tua incapacità».

«Visto che è la canzone più semplice che ci sia perchè non la vuoi suonare? Si potrebbe pensare che non sei capace». Ho sempre creduto che avere la risposta pronta fosse una delle più grandi doti che si potessero possedere.

«Si può pensare che io non sia capace? Ma senti quest'insolente! Ti faccio vedere io...» Finalmente si decise a suonare, ma si fermò quasi subito.

«Cos'hai, non sai fare l'accordo?»

«Nel riff iniziale non ci sono accordi, genio!»

«E allora cosa c'è?»

«Non possiamo suonare senza nessuno che canta».

«Questa è solo una scusa bella e buona. io suono sempre senza nessuno che canta».

«Sì, ma tu hai le basi».

«Non è vero».

«Rashbaum, ricordati che sono sempre il tuo vicino di casa, purtroppo, e che, sempre purtroppo, i muri di queste case non sono per niente spessi».

Questa volta non seppi cosa ribattere, ma gli ricordai con una punta di saccenza che avevo detto nessuno all'infuori di noi due.

«E allora questa cosa non si fa».

«Cos'è che non si fa, Sabo?»

Impallidii. Era entrato mio fratello, che doveva aver sentito la voce di Sabo ma non la mia. Erano parecchi giorni che non ci trovavamo così vicini. L'espressione sorpresa lasciò spazio in un secondo a uno sguardo così accusatore che mi venne quasi da piangere.

Sabo si vide offerta una situazione d'oro sopra un piatto d'argento. «Io e tua sorella stiamo facendo una gara per decidere chi è più bravo a suonare» spiegò con il suo ghigno che esponeva solo prima di divertirsi un mondo a spese degli altri. «Pensavo che ti avesse avvertito».

Sperai che la mia ira potesse accoltellarlo a distanza.

«No, non mi ha avvertito» rispose David guardandomi malissimo.

«Ad ogni modo ci serve qualcuno che canti, altrimenti questa sfida non si può fare. Canti tu, David?»

Sabo, figlio di...Lo faceva apposta, quel verme imputridito! Forse un bel pugno dritto sul naso gli avrebbe insegnato a farsi gli affari suoi.

«Così da offrirti l'ennesima occasione per prendermi in giro perchè sono stonato? Non ci penso nemmeno» rispose mio fratello con mio grande sollievo. Sperai che se ne andasse.

Evidentemente, il giorno che quella mattina si era prospettato tanto felice e fortunato non era deciso a rimanere tale. «Certo che sei stonato, David, lo sappiamo tutti. Ma se vuoi farci un concertino non ti diciamo di no, a patto che poi tu vada a prendere qualche birra e quegli ottimi gelati che compra tua madre».

Se prima la mia ira avrebbe dovuto accoltellare Sabo, adesso lo voleva sottoporre alle torture più dolorose. Cosa ci faceva John nel mio garage, quando avevo espressamente vietato a Sabo di portare chicchessia?

«Ehi, John, non ti aspettavamo così presto» lo salutò, del tutto immune alle mie minacce oculari.

«Lo so, ma sono venuto a cercarti a casa tua, e tua madre mi ha detto che eri qui...Perchè, poi?»

«Ho sfidato la Rashbaum, per vedere chi è più bravo a suonare» spiattellò lui.

John, che non si era accorto di me, mi salutò appena David si spostò un poco e smise di nascondermi. «Ciao, sorella di David! Non sapevo che fossi guarita...Come stai?»

Questa volta, anche se sentii le guance avvampare, riuscii a pronunciare un timidissimo «Bene». Percepii l'irrigidirsi di mio fratello, ma non potevo rispondere a monosillabi dopo quello che era successo una settimana prima. «Grazie per avermi riportato a casa quella notte».

«Figurati. Stavo tornando a casa, ero stato a casa di un'amica, su a Ginsberg Place...» raccontò, facendo l'occhiolino a Sabo.

«Sì, dai, raccontaci ancora una volta delle tue sgualdrinelle...»

Erano il batterista e il bassista. Ma perchè diamine erano tutti lì a quell'ora? Anche loro due erano passati a casa di Sabo?

«E questa chi è?» domandò molto finemente il bassista, neanche fossi stata un animale dello zoo.

«È la sorella di David» spiegò John tutto contento. Ricordare la sua “amica” doveva averlo messo di buon umore. «Si chiama...Ehi, com'è che ti chiami?»

«Claire» mormorai flebilmente.

«Claire? Mmm...Una ragazza che ho conosciuto al mare due estati fa si chiama Claire. Ha due gambe che vi raccomando...»

«Grazie, John» tagliò mio fratello. «Bene, dal momento che siamo tutti qui direi di cominciare le prove...»

«E la nostra sfida?»

«Quale sfida?» chiese il batterista. Sabo si lanciò per l'ennesima volta nelle spiegazioni, e io desiderai con tutta me stessa di svanire nel nulla. Non era un problema suonare davanti a Sabo, ma tutta quella gente mi metteva in ansia. No, diciamoci la verità, per una volta: John e il suo possibile giudizio mi mettevano in ansia.

«Ma se vi serve qualcuno che canti» disse con mio supremo terrore, «ci sono io!»

David si girò dall'altra parte, senza intervenire, probabilmente perchè si ricordava della sfida che mi aveva lanciato la settimana prima. Gli altri non ebbero nulla da obiettare. Io ero morta e sepolta.

Anche il bassista e il batterista si sistemarono ai loro strumenti. Per fortuna, dalla sua postazione al microfono John mi dava le spalle.

«Su, Dave, fammi un bel riff!»

E Sabo cominciò.

Non dovevo fare altro che tranquillizzarmi e suonare quella canzone, cosa che sapevo fare benissimo. Chiusi gli occhi e con il pensiero tornai indietro nel tempo, a prima che io e David litigassimo. Ero nella sua camera illuminata dal sole che entrava dalla finestra, era solo un'altra lezione di tastiera e io stavo per suonare un brano che ormai mi veniva naturale come respirare. Quando arrivò il momento riaprii gli occhi e cominciai a premere i tasti.

Era tutto estremamente semplice. Era sul serio solo un'altra lezione di David, e non dovevo quasi pensare ai movimenti successivi, perchè mi venivano naturali.

All'improvviso mi resi conto che ero la tastierista di John, seppur per un brano solo, e che non era niente di speciale. Ero una tastierista e basta. La cosa che mi fece sentire magnificamente, invece, era suonare davvero, suonare con una band al completo, sentire la voce e la chitarra e il basso e la batteria, essere solo un quinto dell'insieme ma sapere che senza di me tutto quello non sarebbe stato possibile. Era la prima volta che provavo una sensazione del genere. A chi diavolo importava di Sabo? Cos'era una stupida sfida rispetto alla sensazione che le note arrivassero fino ai tasti percorrendo le dita, le mani, le braccia e partendo direttamente dal cuore?

La canzone finì troppo presto.

«Mannaggia la miseria, ma come diavolo hai fatto a insegnarle così tanto in così poco tempo?» domandò John a mio fratello, strabiliato, appena la canzone finì.

«Io sono stato bravo almeno quanto lei, se non di più» squittì Sabo risentito.

«Dave ha ragione» commentò il bassista, a cui evidentemente non stavo simpatica. «Dovrete fare un'altra canzone».

«È giusto» concluse John. «Avanti, proponetene un'altra».

«Sweet Home Alabama!»

«Ecco, mi pareva» sorrise John illuminando tutta la stanza. «Dave adora quella canzone. A te va bene?»

Mi vergognai tantissimo. «Non la so suonare».

«Allora ho vinto io!» esultò Sabo.

«Dave, non è per niente corretto». Almeno il batterista era dalla mia parte. «Facciamo scegliere a lei».

«Veramente io so suonare solo Smoke On The Water».

«Ecco perchè volevi suonare assolutamente quella! Povera sfigata...» Gli avrei tagliato la lingua. Mio fratello si irrigidì nuovamente.

«Perchè non le hai insegnato altro?» gli chiese John.

David esitò un po' prima di rispondere. Sembrava che stesse considerando un'infinità di cose, come quando uno deve decidere tra due appuntamenti a cui vorrebbe partecipare con tutto se stesso e non sa quale scegliere. Guardò John, poi guardò me, infine distolse lo sguardo e disse: «Avevamo fatto un patto: se mi avesse dimostrato che era brava le avrei insegnato altre canzoni. Direi che la dimostrazione me l'ha data».

John fischiò e gli altri due applaudirono. Feci uno dei miei sorrisi grandi e ridicolissimi: ero profondamente lusingata. Ma più che altro mi importava di quello che aveva detto David. Forse mi avrebbe perdonata!

Notai appena che Sabo era pieno d'astio. Aveva vinto la sfida, ma nessuno se ne curava, ed era una cosa che non aveva mai sopportato.

Li lasciai provare in pace e andai all'allenamento. Mi presi una bella lavata di capo da Redton, visto che non mi ero allenata per una settimana intera, ma il pensiero che forse ora David era disposto a perdonarmi mi sostenne per entrambe le due ore. Tornata a casa corsi subito in camera sua per parlargli.

«Grazie».

«Grazie di cosa?»

Brutto, bruttissimo segno.

«Di darmi di nuovo lezioni di tastiera».

«Sì, Claire, ti darò di nuovo lezioni di tastiera. Ma ricordati che questo non vuol dire che ti ho perdonata».

«David, ti ho già detto che non penso veramente quelle cose...Cosa devo fare perchè tu lo capisca?»

«Cosa stai facendo? Mi supplichi?»

«Andiamo, David! Sul serio sei convinto di essere uno sfi...»

«Smettila immediatamente». Gli tremava la voce.

Ci vidi rosso. Perchè continuava a comportarsi così? Va bene che ci era rimasto male, ma cosa pensava di fare continuando così? Gli avevo chiesto scusa (o meglio, ci avevo provato) in ventimila modi diversi, e lui si ostinava ancora a tenermi il broncio. Avrei voluto dirgli quattro parolacce, ma la parte razionale del mio cervello me lo impedì. Se si era arrabbiato a tal punto dopo che gli avevo detto che era uno sfigato, figurarsi cosa avrebbe fatto se gli avessi urlato qualche insulto. «Sai una cosa? Vado al club della scuola, a prendere lezioni di tastiera. Non ho intenzione di passare del tempo con qualcuno che fa del suo meglio per cancellarmi dalla sua vita».

Uscii dalla camera senza nemmeno osservare la sua reazione.

 


Note

Ave popolo :)

Questi ritardi minacciano di diventare un'abitudine!! Ma almeno non pubblico tardi come l'altra volta XD Spero che nel frattempo non vi siate dimenticati la storia...Se invece l'avete fatto correte a rileggerla :P

Giornata impegnativa per Claire! Ma almeno John le ha fatto un complimento :) E poi non so voi, ma io un David così imbronciato non lo sopporto. E dire che l'ho creato io!! Vedremo cosa si può fare. Almeno Sarah è tornata in se stessa :)

Per il momento non ho nient'altro da dire...Ma ho già ben i mente i prossimi 3-4 capitoli e sono sicura che non vi deluderanno...Anzi!! *cerca di non mostrarsi troppo sicura di sè*

Grazie a tutti quelli che continuano imperterriti a leggere la mia storiella *-* Siete troppo caaari *-*

Alla prossima!!

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Capitolo 7
*** Bugie a fin di bene ***


Capitolo 7

Bugie a fin di bene

If that's what it takes...

 

 

 

Arrivò ottobre, tra gli estenuanti allenamenti di boxe, gli sguardi gelidi di David, la scuola, i pettegolezzi di Sarah e gli insulti di Sabo. Quanto a John, non lo avevo più visto, se escludiamo le volte che ci eravamo casualmente incrociati per i corridoi della scuola, salutandoci brevemente. David trovava sempre una scusa per non darmi lezioni di tastiera; all'inizio la cosa mi aveva dato un fastidio tremendo, ma quando aveva detto che doveva andare a studiare da un suo compagno di classe rinunciai ad insistere (in vita sua non aveva mai preso la scuola così sul serio da andare a studiare da un compagno di classe). Adesso il mio futuro da tastierista era nelle mani dell'orchestra della scuola, e un po' mi dispiaceva, perchè la signorina Yen non era nemmeno paragonabile a David, senza contare che considerava il rock la rovina della musica. Cercavo di esercitarmi molto a casa quando mio fratello non c'era, usando i suoi spartiti.

Insomma, la mia vita da liceale andava avanti tra alti e bassi, ma comunque ero una liceale normale con una vita normale.

Avrei dovuto sapere fin dall'inizio che era troppo bello per durare.

 

La seconda settimana di ottobre ricominciai a prendere lo scuolabus, perchè nemmeno il rapporto tra me e mio fratello era freddo come l'aria delle sette e mezza di mattina. Scendendo individuai subito Sarah che mi veniva incontro a passo di carica. Aveva un'espressione seria e determinata, e poco ci mancava che le uscisse fumo dal naso. Conoscevo bene quell'espressione: le si dipingeva in volto quando, secondo lei, era arrivato il momento di dare una svolta alle nostre vite. In media, mi guardava in quel modo una volta ogni due mesi, e allora erano guai.

Era a pochi passi da me. Tempo cinque secondi e avrebbe esordito dicendo “Tesoro, dobbiamo assolutamente darci una mossa”.

«Tesoro, dobbiamo assolutamente darci una mossa». Cosa avevo detto?

Finsi di non sapere a memoria il copione. «Che succede?»

«Non possiamo continuare così. Guardati intorno!» Fece una giravolta e spalancò le braccia verso la massa di studenti in attesa di entrare. Con la sua mossa teatrale rischiò di colpire sul naso uno studente di terza che dava l'impressione di poter uccidere per molto meno. Un paio di persone ci guardarono male. «Cosa vedi?»

«Un'orda di adolescenti con una fifa blu per il test?» tentai.

«No!» proruppe lei. «Guarda! Sono tutti adolescenti senza problemi, con una vita stupenda! E sai perchè hanno una vita stupenda?»

«Perchè per una volta hanno studiato?»

«No, Claire!» sbuffò, come se fosse la centesima volta che cercava di farmi notare una cosa ovvia. «Hanno una vita stupenda e senza problemi perchè hanno qualcosa da fare il sabato sera! Siamo liceali, Claire. È ora che cominciamo a divertirci sul serio». Sul suo viso spuntò un sorrisetto. Fissava il cortile pieno con estrema soddisfazione: aveva scoperto il segreto di tanta spensieratezza.

Pensavo di conoscere la piega che stava prendendo la conversazione, e non sapevo se mi piacesse. «Noi ci siamo sempre divertite un sacco...»

«Sì, ma è ora di cambiare. Abbiamo quattordici anni, non possiamo più passare le sere a guardare film smielosi e i pomeriggi a giocare a Monopoli!»

«E cosa vorresti fare al posto di guardare film e giocare a Monopoli?»

«Per il Monopoli devo ancora limare i dettagli...Ma per quanto riguarda i film ho già la soluzione». Aprì una tasca della tracolla, rovistò un po' e alla fine ne estrasse un foglio tutto stropicciato, col trionfo inciso sul volto.

«Che cos'è?»

«Me l'ha dato mio cugino Al. È il volantino per un concerto rock allo Shock Club, questo sabato sera».

«Lo Shock Club? Ma come ti è venuta un'idea del genere?» Lo Shock Club era un locale esclusivo di Woodbridge, un posto dove si beveva e si ballava al ritmo delle canzoni di band emergenti che vi suonavano quasi tutte le settimane. Di solito la gente faceva quasi a pugni per entrare, dato che era gettonatissimo e non molto grande, e chi entrava astemio usciva ubriaco. Non era affatto il posto in cui avrei passato i miei sabati sera.

«Perchè dici così? Tutti quelli che ci vanno si divertono sempre tantissimo! E poi tu hai una vera passione per il rock!»

«Non è quello...Lo sai che non mi piacciono i posti pieni di gente. E hai una vaga idea di quanto fumo e alcool ci sarà là dentro?»

«Da quest'estate è vietato fumare all'interno» mi informò, sempre più determinata a passare un sabato sera rockeggiante. «E per quanto riguarda l'alcool...Tutti lo bevono, no? Non sarà poi così pericoloso». Su quest'ultima cosa avevo i miei dubbi.

Non replicai; Sarah percepì l'aura di titubanza che mi circondava e partì con la sua scenata: «E dai, Claire! Vuoi passare la giovinezza chiusa in casa? Ci sarà un mucchio di gente simpatica...»

«Gente fumata, vorrai dire!»

«...Ci divertiremo tantissimo...»

«Io non ho bisogno di andare allo Shock per divertirmi!»

«...E c'è un concerto rock dal vivo! Ci sono questi tizi, mi pare si chiamino Whale Freshy o qualcosa del genere, che sembrano essere molto bravi...»

Mi guardò con una faccetta maliziosa. Sapeva benissimo che tasti andare a toccare per convincermi, la bifolca! Un concerto rock...Non ne avevo mai visto uno, e anche se la band era sconosciuta cosa importava? A quel tempo caterve di gruppi emergenti diventavano famosi da un giorno all'altro. Ma la fama del posto mi lasciava ancora un po' titubante.

«Anche se fosse...Pensi che i nostri genitori ci lasceranno andare? Sanno benissimo che razza di posto è, e poi non vorranno che torniamo a casa tardi...»

«Non ti preoccupare di questo, ho già pensato a tutto. Ci andremo con Al, faremo credere a tutti che ci terrà d'occhio per tutta la sera e non avremo problemi».

A me sembrava che il piano facesse acqua da tutte le parti, ma sapevo che Sarah era ormai convinta che fosse tutto deciso e a posto. E potevo lasciarmi sfuggire l'occasione di assistere a un concerto rock praticamente dietro l'angolo?

«Va bene, Sarah, chiederò ai miei il permesso».

«Sapevo che alla fine ti avrei convinta!» esclamò tutta contenta, buttandomi le braccia al collo. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare» continuò mentre ci dirigevamo verso l'entrata.

«Mica dobbiamo fare una ricerca, eh!»

«No, ma dobbiamo andare a comprarci qualcosa di decente da metterci addosso, non possiamo mica presentarci allo Shock vestite come quando andiamo a scuola! E sabato mangi da me, che ci dobbiamo preparare. Dobbiamo vestirci, truccarci...»

«Truccarci?»

«Sì, truccarci. Non si va mai a una festa se non si dimostrano minimo minimo due anni in più...»

«Ma io non voglio dimostrare due anni in più!»

«Fidati di me! Faremo tutta un'altra impressione se sembreremo più grandi. Dobbiamo pur superare il controllo dell'età, no?»

«C'è un controllo dell'età?»

Sarah sbuffò nuovamente. «Dappertutto c'è un controllo dell'età, Claire. Ormai non si può più nemmeno entrare in bagno senza mostrare un documento! Ma allo Shock non controllano mai molto, non ti preoccupare».

Ovviamente ero più preoccupata di prima. E se ci avessero chiesto il documento? Ma ormai non sarebbe servito a niente ribattere: Sarah mi avrebbe costretta, in un modo o nell'altro. «Va bene, va bene, mi truccherò. Ma niente di pesante!»

«Lascia fare a me!» mi strillò mentre si dirigeva a scienze, mentre io tiravo dritto per storia.

I “lascia fare a me” non mi erano mai piaciuti. Implicavano sempre qualcosa che non si voleva fare, e a me piaceva avere tutto sotto controllo. Senza contare che, se “lasciavo fare a lei”, sarei passata da campionessa di boxe a principessina nel giro di un paio d'ore, cosa che, appunto, non volevo fare. In ogni caso, ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.

Non ero così sicura che mia madre mi avrebbe dato il permesso di andare allo Shock, anche se ci avesse accompagnato Al. Era sempre stata parecchio protettiva con me, e rompiscatole come tutte le madri. Per addolcirla un po' non mi lamentai per tutto il giorno, lavai i piatti, stesi il bucato e riordinai perfino la mia stanza. Dopo cena, mentre eravamo in salotto a guardare la televisione e controllando che David e papà non fossero nei paraggi, nel caso qualcun altro avesse avuto qualcosa da ridire, le chiesi il permesso.

Mi lanciò il tipico sguardo non-te-lo-permetterò-mai. «Lo Shock Club?»

«Sì, mamma. Ma non devi preoccuparti, ci andremo con Al, il cugino di Sarah».

«E chi sarebbe?»

«Non te lo ricordi? È venuto qui qualche volta. Alto, capelli neri, occhi castani, sempre con le scarpe di basket addosso...»

Potevo vedere gli ingranaggi nel cervello di mia madre che lavoravano a pieno ritmo per attivare la sua scarsissima memoria.

«Mmm...Sì...Mi sembra di ricordare...»

«Ma sì che te lo ricordi» continuai con una faccia tosta insuperabile, «quel ragazzo tranquillo che parlava sempre di iscriversi a giurisprudenza...» Mia madre aveva un debole per i giovani che volevano diventare avvocati.

«Sì! Ho capito chi è! Adesso me lo ricordo bene». Naturalmente, mia madre non lo aveva mai visto. «Suppongo che con lui non vi potrà succedere niente di male. Ma a che ora tornerete?»

«Il concerto comincia alle nove, e ci dovrebbero essere quattro o cinque gruppi. Ma suoneranno solo poche canzoni a testa, quindi per mezzanotte dovrebbe finire tutto». In ogni caso non avevo intenzione di rimanere là per un minuto di più.

«E vi devo venire a prendere?»

«No, mamma, ti ho detto che andremo con Al. Ci riaccompagnerà lui...E se decidesse di fermarsi un po' di più penso che ci possano venire a prendere i genitori di Sarah. Per loro non è un problema». Altra bugia.

«Ora che ci penso, sabato David va a Woodbridge a vedere un film. Se ci fossero problemi potrebbe riportarvi lui».

«No, abbiamo già pensato a tutto. E poi magari il film finisce prima di mezzanotte». La sola idea che David mi riportasse a casa mi faceva sentire male, e poi non volevo che sapesse che andavo allo Shock.

«Bè, penso che per una volta tu possa uscire il sabato sera...D'altra parte è ora che cominci a organizzarti da sola. Stai diventando grande, Claire...» Con un veloce “grazie” troncai il discorso diabetico di mia madre e mi dileguai.

 

Note

Ciao a tutti!!

Non sprecherò più tempo a scusarmi per i ritardi...Avete capito anche voi il mio andazzo XD

Poco da dire riguardo a questo capitolo, a parte che, come avete visto, la mia mente non ha voluto saperne di partorire un titolo decente...Un episodio di passaggio, ma moooolto più importante di quello che sembra adesso. I prossimi capitoli sono quasi pronti, ma scordatevi che vi anticipi qualcosa...Visti i miei ritardi, voglio farvi soffrire per la curiosità muhahahahaha :D

Grazie per tutte le recensioni e compagnia bella, siete dei grandi.

Au revoir!!

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Capitolo 8
*** Amicizia ***


 

Capitolo 8

Amicizia

Is there anybody out there looking for a party?

 

 

 

«Tu sei pazza».

Dietro di me Sarah sorrideva compiaciuta, contemplando il mostro che aveva appena creato.

Era stato il peggior sabato della mia vita. Sarah mi aveva buttata giù dal letto alle nove di mattina, come se la sera prima non mi fossi allenata fino alle dieci e mezza, mi aveva spinta a forza nella doccia, aveva recuperato qualche banconota dal mio salvadanaio, naturalmente senza chiedere il permesso, e mi aveva perfino asciugato personalmente i capelli, il tutto senza rivelarmi il motivo di una così grande agitazione. Poi mi aveva trascinata fuori di casa.

Seduta nella sala d'attesa dell'estetista, mi ero domandata per una buona mezz'ora perchè Sarah avesse inscenato quel teatrino per farsi accompagnare lì. Solo quando l'estetista aveva annunciato «Rashbaum» avevo cominciato a sospettare qualcosa, e i miei sospetti erano stati confermati quando mi aveva detto «Bene, gambe e ascelle. Togliti pure i jeans». Uscita da quella stanza delle torture, la prima cosa che avevo fatto era stata dire quattro parolacce alla mia (si fa per dire) migliore amica, che in risposta aveva sfoggiato il suo sorriso più raggiante.

Era seguito un giro al centro commerciale per scegliere i trucchi, lo smalto, la borsa, le scarpe e gli accessori, visto che il giorno prima avevamo comprato solo i vestiti. Così, in due o tre ore se ne era andata la metà dei miei risparmi, e con essa la possibilità di comprare un paio di guantoni nuovi.

«Stai benissimo!» esclamò entusiasta.

Le lanciai un'occhiataccia attraverso lo specchio. «Io ti odio».

«Dai, su, che alla fine di questa serata mi ringrazierai».

«Spera che non ti uccida, piuttosto».

La Claire che avevo davanti a me non ero io. Claire Rashbaum non si copriva la faccia con mezzo chilo di fondotinta e non impiastricciava gli occhi con matita, mascara, ombretto e altre venti diavolerie uscite dalla scatola che Sarah aveva scelto con sicurezza in profumeria. Claire Rashbaum non aveva le unghie nascoste sotto un fastidiosissimo smalto color cacca, o qualunque fosse il nome di quella tonalità di marrone. Claire Rashbaum non portava scarpe con i tacchi, né quintali di bracciali. Ma soprattutto, Claire Rashbaum non indossava mai, mai e poi mai vestiti con una gonna così corta e di un colore così strano, per non parlare dei tacchi esagerati con i quali facevo fatica a non rendermi ridicola.

«Sei uno schianto. Farai voltare le teste di tutti i ragazzi» cantilenò Sarah deliziata.

«Ma è proprio questo quello che mi preoccupa!»

«Non ti preoccupare, quando sarai lì ti dimenticherai di non avere addosso una delle tue amate felpone».

«E invece sai che faccio? Me ne metto una, ecco che faccio...»

Sarah si piazzò davanti ai vestiti che avevo indossato fino a poco prima. «Scordatelo. Non puoi andare allo Shock Club con la felpa, ti riderebbero dietro».

«Sempre meglio che essere stuprata!»

«Esagerata! Non dire sciocchezze. E poi sarai felicissima di essere vestita così se al concerto ci fosse anche John...» ghignò maliziosa.

Ero quasi senza parole. «Cosa ti è successo?! Non eri tu quella che mi doveva impedire di frequentare John?»

«Veramente quello era tuo fratello» precisò lei, inclinando la testa per infilare meglio un enorme orecchino pendente.

«Ah, ecco, mi pareva». Opportunista che non era altro.

Mi infilò a forza la borsetta (che aveva scelto lei) in mano e mi spinse fuori dalla camera da letto. In salotto c'era già Al che ci aspettava con le chiavi della macchina in mano.

«Era ora!» si lamentò sorridendo. «Li avete cuciti adesso quei vestiti?»

«Come stiamo?» chiese Sarah facendo un giro su se stessa con gli occhi che luccicavano.

Al mi guardò esterrefatto ed incantato. La cosa non mi piacque per niente.

«Lo so, lo so, è bellissima» cinguettò Sarah. Le avrei volentieri assestato un gancio destro; almeno sarebbe servito a rilassarmi e togliere quel fastidiosissimo rossore dalle guance. «Quando avrai finito di mangiartela con gli occhi» continuò, «ti sarei grata se facessi capire anche a me quanto bene sto con questo favoloso vestito».

Anche Al arrossì e si affrettò a spiattellare: «Sei fantastica, Sarah».

La mia (si fa per dire) migliore amica fece la prima buona azione della giornata, evitando che calasse un silenzio imbarazzante dicendo: «Bè, andiamo?»

Mano a mano che ci avvicinavamo a Woodbridge avevo sempre meno voglia di entrare allo Shock, anche se Al continuava a decantare le qualità della band di cui aveva parlato Sarah (che, per la cronaca, si chiamava Shark Frenzy e non Whale Freshy). Speravo che la mezzanotte arrivasse presto, ma in ogni caso non vedevo come avrei fatto a resistere per tre ore in quel postaccio. Per di più avevo un brutto presentimento.

«Al?» chiamai.

«Sì?»

«Ci chiamerai tu a mezzanotte?»

«A mezzanotte? Perchè?»

«Dobbiamo tornare a casa, a mezzanotte» spiegai, cercando di mantenere la calma.

«Mezzanotte? Tu vorresti tornare a mezzanotte? Diamine, nemmeno quando avevo dodici anni tornavo a mezzanotte!» si vantò lui.

«Sarah?» dissi io, inarcando un sopracciglio.

«Sì?» rispose lei.

L'avrei diseredata, giuro.

Non sprecai fiato per ribattere e urlarle addosso.

Se non mi avesse tenuto il muso da più o meno due secoli avrei potuto raggiungere David al cinema, ma, vista la situazione, non l'avrei fatto nemmeno se mi avessero pagata. Quindi mi restava una sola cosa da fare. Rassegnarmi.

Non ci impiegammo molto ad arrivare a Woodbridge. Mancava mezz'oretta all'apertura, ma trovammo un parcheggio solo per grazia divina. Impallidii quando vidi quanta gente era accalcata davanti all'ingresso.

Una massa enorme di adolescenti, quasi tutti con una sigaretta in mano, parlavano ad alta voce con gli amici, ridevano e si chiamavano da una parte all'altra del parcheggio. Erano quasi tutti rockettari capelloni. Tutti urlavano per farsi sentire sopra il casino, e le frasi più pronunciate erano “Hai una sigaretta?” e “Passami quella birra”.

«Cominciamo bene» dissi a Sarah.

«Decisamente!» esclamò lei, al settimo cielo. Mi voltai per vedere cosa stava facendo: aveva una Heineken in mano.

«Ehi, ehi, basta!» intervenne Al. «Non avrai mica intenzione di ubriacarti? Che poi tua mamma mi uccide».

«Mamma mia, è solo una birra!»

«Sarah, non costringermi a farti da baby sitter». Mi ricordò molto mio fratello.

Lei sbuffò, ma gli lasciò la bottiglia.

«Quando saremo dentro vedi di controllarti, per favore» le dissi.

«Ma sì, era solo per provare. Credi davvero che sarei capace di ubriacarmi?»

In verità la risposta era “sì”, ma mi trattenni.

Continuava ad arrivare gente, i buttafuori davanti all'ingresso lanciavano occhiate burbere e non c'erano segni di un'apertura imminente. Mi misi a scrutare la folla, per quanto possibile, per vedere se conoscevo qualcuno. C'erano un po' di ragazzi della mia scuola, quel cretino del bassista degli Expressway con la sua orrenda ragazza e addirittura la mia eterna nemica sul ring, quella befana cicciona.

«Hai individuato John con la sua ragazza?» mi chiese Sarah, vedendo le occhiate piene d'odio che le lanciavo.

«No» risposi, cercando di non sembrare troppo delusa.

«Magari arriverà più tardi».

«Ragazze, sono arrivati dei tizi che conosco. Vi lascio».

«Chi sono? Chi sono?» saltò su Sarah, allungando il collo.

«George Nett e Douglas Aller. Nessuno che voi conosciate».

Io e Sarah ci scambiammo un'occhiata di puro terrore. George Nett e Douglas Aller erano i migliori amici di David, e a quell'ora avrebbero dovuto essere al cinema con lui.

«Bè, io vado. Sarah, mi raccomando».

«David è al cinema, vero?»

«Sì» dissi io a mezza voce, sperando che fosse vero.

Se David mi avesse vista allo Shock sarebbe successo un disastro. Sarebbe andato a spiattellare tutto a mia mamma, le avrebbe spiegato che posto era veramente quel locale, visto che era arrabbiato con me avrebbe tirato in mezzo anche John, e io mi sarei sognata il mondo esterno almeno fino al mio sedicesimo compleanno.

Sarah aveva capito tutto quello che stava dietro a quel “sì” poco convinto. «Che vuoi fare?» mi chiese nell'istante in cui i buttafuori cominciavano a far entrare la gente.

Non so quale dannatissimo motivo mi spinse a rispondere «Entriamo», dopo aver passato un pomeriggio intero a considerare tutte le ragioni per le quali non avrei dovuto assolutamente entrare e dopo aver scoperto che da un momento all'altro poteva spuntare fuori mio fratello, ma sta di fatto che lo feci. Sarah mi guardò nascondendo lo stupore, ma ovviamente non cercò di riportarmi sulla via della ragione, con tutta la voglia di fare casino che aveva. Mentre la parte razionale del mio cervello pregava tutti i santi del calendario che i buttafuori si accorgessero che non avevamo sedici anni, mi resi conto che Sarah mi aveva dato la possibilità di tornare a casa, ed era un bel po' di tempo che non si mostrava disposta a sacrificare una cosa importante come la serata che progettava da una settimana. “E io”, pensai quando i buttafuori ci fecero passare senza problemi, “ho buttato via questa possibilità come una cretina”. Pazienza, ormai il danno era fatto. E poi, l'atteggiamento di Sarah mi aveva risollevato il morale.

Senza lasciare margine di protesta a Sarah, che voleva a tutti i costi accaparrarsi un posto in prima fila, mi gettai verso un tavolino vuoto, posai la borsa sulla sedia che rimaneva e osservai il locale.

Lo Shock consisteva in una sala rotonda, che io mi ero aspettata, sperando nell'impossibile, molto più piccola. Da un lato, il bancone del bar, dietro cui erano impilati liquori di cui non immaginavo nemmeno l'esistenza, era nascosto da una massa di giovani che spingevano, strattonavano, sgusciavano e pressavano per ottenere chissà quale cocktail. Molti tavolini erano disseminati per la sala, mentre sul fondo un palco dominava un ampio spazio, vuoto ancora per poco.

Mentre Sarah si deliziava gli occhi guardando i rockettari maschi avvolti da quella luce soffusa, io mi diedi alla caccia di David. Quando Al, George e Douglas entrarono, di mio fratello non c'era l'ombra. Meglio così, ovviamente, ma...Dove cavolo era? Non era mai successo che uscisse senza di loro.

«Credo che andrò a prendermi una birra» annunciò Sarah, alzandosi. «Laggiù c'è un tipo molto carino...»

«Vedi di non ubriacarti. E stai attenta al portafoglio».

«Sì, mamma» brontolò, senza darmi veramente retta.

Sperai che non ci mettesse troppo.

Cercai di tranquillizzarmi. Se David non era entrato con George e Douglas, probabilmente non sarebbe entrato per niente. Dopotutto, erano affari miei cosa faceva e dove andava, dal momento che avevamo litigato proprio perchè lui voleva sapere cosa facevo e dove andavo io?

Se fosse arrivato avrei escogitato qualcosa al momento. Anche perchè avevo problemi più urgenti a cui pensare. Sabo, per esempio, che aveva appena fatto il suo ingresso trionfale e stava puntando dritto verso di me.

Gli lanciai un'occhiataccia ancor prima che aprisse bocca. Cosa che, naturalmente, non lo fermò.

«Sei venuta ad elemosinare un corso di tastiera dai grandi, Rashbaum?»

«Visto che sei così bravo, perchè non sei dietro le quinte a prepararti?»

«E chi ti dice che non lo abbia mai fatto?»

«In ogni caso, non ho bisogno di elemosinare alcun corso, io...»

«Ah sì? Non mi risulta che quello sfigato di tuo fratello abbia ricominciato a darti lezioni...»

Avrei potuto mantenere la calma ancora a lungo, se Sabo non avesse detto “sfigato”. Scattai in piedi, incapace di stare seduta a farmi prendere per i fondelli da un idiota. «Smettila subito!»

«Altrimenti cosa fai, eh? Mi lanci addosso quella tua borsetta?»

«N...»

«Ehi, aspetta un attimo!» mi interruppe, squadrandomi in un modo che non prometteva niente di buono. Per lui, s'intende. «Hai una borsetta? Claire Rashbaum ha una borsetta? E guarda un po', ti sei anche truccata e vestita da donna!» Avrebbe dovuto ringraziare il cielo che nessuno ci stesse guardando, perchè altrimenti lo avrei spedito all'ospedale. «A cosa dobbiamo questo cambiamento?» Ghignava, ghignava come sempre. Valutai seriamente la possibilità di togliermi la soddisfazione una volta per tutte e fargli chiudere quegli occhietti meschini con un paio di colpi. Per sua fortuna arrivò Sarah.

«Ciao Dave!» cinguettò.

«Adesso si spiega tutto!» esclamò Sabo. «Sei stata tu a trasformarla in una femmina!»

Sarah non aveva capito niente. «Lo so, non è bellissima?» commentò, guardandomi con gli occhi che luccicavano dalla contentezza.

«Oddio, da qui a dire una cosa del genere...» Ok, Claire, mantieni la calma. È solo Sabo. È solo un insetto ripugnante che ti vuole irritare. Ma tu non gli darai questa soddisfazione, vero?

«No, no, stasera è bellissima. Stasera è pronta per fare colp...Ahia!» Le avevo rifilato un pestone. Ma era pazza o cosa?

«Stasera sono pronta per tirarti quattro sberle, Sabo, se non te ne vai subito!»

«Minacciamo, anche? Guarda che tutta questa mascolinità non si addice a quel tuo vestitino...»

«Nemmeno la spavalderia si addice a un insetto infestante come te, se è per questo».

«Da che pulpito!» ribattè. «Guarda cosa mi devo sentir dire da un gorilla con un tutù...» Il rumore dello schiaffo sembrò risuonare in tutto il locale. La faccia di Sabo ruotò per il colpo.

Pensandoci ora, mi dispiace non averlo guardato negli occhi, perchè la sua espressione doveva essere uno spettacolo, ma ero troppo occupata a guardare Sarah con la bocca spalancatan per lo stupore.

«Non ti permettere mai più!» strillò, la rabbia dipinta sul volto e il braccio ancora teso dopo il colpo che aveva appena sferrato. «Non ti permettere mai più di parlare così alla mia migliore amica, capito?»

Sabo la guardò, stupito e preoccupato. Apriva e chiudeva la bocca, incapace di articolare mezza sillaba. Qualche metro più in là, i suoi amici, un manipolo di energumeni con le rispettive ragazze al seguito, erano piegati in due dalle risate. Non sapendo cos'altro fare, e dovendo in qualche modo ripristinare la sua aria di superiorità, si defilò dalla nostra vista per andare a tappargli la bocca.

«Sarah...Tu...Sei stata incredibile!»

«Oh, non è niente!» rispose lei con finta modestia, pavoneggiandosi compiaciuta. «Bisogna chiudere la bocca in qualche modo, ai ragazzi così. E possibilmente fargli male». Eccola lì, con la sua lezioncina di moralità e solidarietà femminile. «Il tipo carino al bancone è fidanzato» mi informò per rompere l'atmosfera che si era creata. «Andiamo vicino al palco, allora?»

«Tutto quello che vuoi» risposi estasiata.

L'espressione di Sabo si volatilizzò dalla mia testa prima di quanto avrei voluto. Dopo una decina di minuti da quando Sarah mi aveva trascinato in prima fila in mezzo a gente esagitata e già mezza ubriaca, dai quali Sabo si era astenuto, salì sul palco un ragazzo che presentò il primo gruppo.

Già da come si presentarono capii che erano ad un livello superiore rispetto agli Expressway. Avevano circa vent'anni, erano carichi e sicuri di se stessi quanto lo possono essere tre musicisti tra l'adolescenza e l'età adulta. Appena il batterista schiantò la bacchetta contro il piatto, tutto il pubblico esplose. Sarah, c'era da aspettarselo, saltava come una pazza e strillava al cantante che era un figo pazzesco. Io decisi di mandare all'aria le mie preoccupazioni. Mi dimenticai di David, di Sabo, di John e di tutto il resto, e dopo due minuti ero lì, a un concerto rock, sotto al palco, e mi scatenavo con la mia migliore amica.

 

 

 

 

Buondì!!

Prima di tutto ho un messaggio importantissimo per chi deve ancora fare la quinta superiore: non fate come me. Studiate anche quando non avete voglia. Perchè non avrete mai voglia di fare niente, e ogni pomeriggio che passerete lontano dai libri non farà altro che farvela passare ancora di più. Ma non prendetevi all'ultimo come ho fatto io. E preparatevi ad un anno di inferno.

Detto ciò, che era un po' una giustificazione per i miei mesi e mesi e mesi di assenza da EFP (spero che non vi siate dimenticati la storia!!), posso parlare di questo capitolo.

Che dire, mi ha proprio soddisfatta. Ci ho messo tantissimo a scriverlo, ma è stato divertente :) Non so se sono più soddisfatta io o Claire! E la “cosiddetta migliore amica” si è rivelata sul serio la migliore amica...La nostra Claire non aveva motivo di dubitare. Io lo dico sempre, mai dubitare dei migliori amici!!

Anche se non possono venire con te a vedere il concerto dei Bon Jovi per il tuo diciannovesimo compleanno. Che rabbia >.<

Ci sentiamo al prossimo capitolo!! 

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Capitolo 9
*** Sigarette e chiacchierate ***


Capitolo 9

Sigarette e chiacchierate

Till we ain't strangers anymore

 

 

«Ho bisogno di bere qualcosa» dissi a Sarah, che non esitò un istante a prendermi per mano e condurmi lontano dalla calca che si dimenava, verso il bancone semivuoto.

«Non sono dei grandi?» mi chiese con gli occhi che luccicavano.

«Sono incredibili!» risposi, urlando per sovrastare un assolo di chitarra del terzo gruppo.

«E io che ti avevo detto? Pensa che non volevi nemmeno venire...»

«Smettila subito» ordinai con un sorriso. «Cosa prendi?»

«Una Heineken. Ho una sete...Tu?»

«Ne prendo una anch'io». Dubitavo che avrei trovato qualcosa di analcolico allo Shock Club. E poi, tutti là dentro sembravano pazzi per la Heineken. Doveva essere buona.

Mentre sorseggiavamo la birra mi si affiancarono George e Douglas. Trasportata dall'atmosfera, li salutai.

«Oh, guarda chi c'è! Che ci fai qui?» mi chiese George. Era stranamente perplesso.

«Quello che fate v...»

Poi sbiancai.

Avevo fatto la frittata. Quei due sarebbero andati a spiattellare tutto a David.

«Ecco...Io...»

«Ciao ragazzi!» strillò Sarah. «Come va?»

«Oh, ci sei anche tu!» esclamò Douglas appoggiandosi al bancone in quella che probabilmente credeva essere una posa sexy.

«Vi state divertendo?» riprese Sarah.

«Se ci stiamo divertendo?»

«Questi sono bravetti, ma aspettate di sentire i prossimi...Noi siamo qua solo per loro».

«Chi sono?»

«Si chiamano Shark Frenzy».

«Ah, sì, quelli di cui mi parlava Al...»

«Li tengono per ultimi perchè sono i più bravi, e per di più il chitarrista è di Woodbridge. Li tengono buoni fino alla fine per guadagnare di più...» spiegò George.

«Il chitarrista è di Woodbridge, hai detto? Ed è carino?» chiese Sarah. Ovviamente.

La risposta alla domanda di Sarah poteva aspettare. «Perchè David non è con voi?» Ormai il danno era fatto, e una mia curiosità aspettava di essere soddisfatta.

«Avete chiarito?» chiese quel pettegolo di George.

«Non te l'ha detto?» domandò quell'apprensivo di Douglas.

«No, non me l'ha detto, evidentemente. Ed è stranissimo che non sia con voi il sabato sera a un concerto rock. E sul chiarimento ci sto lavorando» aggiunsi, visto che George mi guardava male.

«Non so se te lo dovremmo dire» mi rispose Douglas. «Alla fine sono affari suoi».

«Come sarebbe a dire? È il vostro migliore amico!» intervenne Sarah, che voleva notizie del suo amore segreto.

«Non è poi così strano che non sia con noi...Sta crescendo, il ragazzo» sentenziò Douglas con un sorrisetto soddisfatto.

«Già...Ha cominciato a preferire il cinema ai concerti».

«Ha detto che andava al cinema, in effetti...Ma come mai? Tra un concerto e il cinema preferisce venti volte il concerto!»

«Lui sì...»

«Come sarebbe a dire lui sì?»

«Una ragazza?!» esclamò Sarah, che si aspettava sempre il peggio. «È andato al cinema con una ragazza?»

«Esatto» confermò George. «Ed era anche ora, se devo dirla tutta. Quei due si guardano da...Quanto sarà?»

«Più o meno quattro anni» completò Douglas.

Sarah fu sul punto di piantare un'espressione sconvolta e addolorata, ma riuscì a mantenere il controllo. Io ero semplicemente a bocca aperta.

David con una ragazza? Ed era innamorato da quattro anni e io non me ne ero mai accorta? No, era troppo strano. L'idea che mio fratello di potesse innamorare non mi aveva mai sfiorato la mente. Lui era mio fratello, non so se mi spiego. L'aria sognante e lo sguardo perso nel vuoto non gli si addicevano per niente. Mi chiesi quanto strano sarebbe stato, per un po' di tempo, guardarlo sotto quella luce nuova. Poi mi ricordai che, se andavamo avanti così, la prossima volta che lo avrei guardato sarebbe stata al suo matrimonio con questa fantomatica ragazza.

«Chi è?» domandò Sarah, con la voce che tremava leggermente.

«Kate Stevens, il capitano della squadra di nuoto».

Bè, almeno era una bella ragazza. Simpatica, intelligente, con la testa sulle spalle.

«Io...Io penso che andrò a sedermi un attimo» disse Sarah.

«Vado anch'io. Ci vediamo in giro».

Sarah si lasciò cadere su una sedia con aria sconsolata, ma non quanto avrei immaginato.

«Dai, non abbatterti...» cominciai, senza sapere bene cosa dirle.

«Non ti preoccupare» tagliò corto lei guardandosi le mani. «Prima o poi sarebbe successo. Tuo fratello mi piace, lo sai, ma è sempre stato ovvio che non avrebbe mai potuto innamorarsi di me».

«Sei sicura che è tutto a posto?» le chiesi. Aveva passato tre anni a decantarmi i pregi di David e adesso che lui frequentava un'altra si comportava come se andasse tutto a meraviglia? No, non poteva veramente stare così bene.

«Sì, è tutto a posto. Cioè, oddio, adesso non è tutto a posto, ma tra un paio di giorni mi passerà, vedrai». Sì, come no. Aveva gli occhi lucidi. «Però forse è meglio se torniamo a casa, non me la sento di stare qui» concluse con voce spezzata.

A dire il vero, io non volevo tornare a casa. George e Douglas mi avevano messo una gran voglia di sentire gli Shark Frenzy. Chissà quanto era bravo il tastierista...No, volevo rimanere. Ma Sarah si era appena asciugata una lacrima. Non potevo pretendere che rimanesse lì come se nulla fosse, anche se il trucco non sarebbe colato (i suoi cosmetici erano rigorosamente a prova d'acqua). E poi lei mi aveva dato la possibilità di tornare a casa, dopo una settimana in cui aveva sognato lo Shock giorno e notte. Non era questione di ricambiare il favore, era questione che Sarah era la mia migliore amica ed era mio dovere farla stare bene, qualsiasi cosa fosse servita. E in fondo quello era solo un concerto allo Shock. Gli Shark Frenzy non erano di Woodbridge? Di sicuro ci sarebbero state altre occasioni di sentirli.

«Vado a cercare Al. Gli dirò che ti senti un po' male, quindi reggimi il gioco. Non muoverti di qui». Mi allontanai, senza guardare se altre lacrime rigavano il volto di Sarah.

George e Douglas erano ancora al bancone del bar. Sperai che sapessero dove potevo trovare Al, e che lui non fosse in mezzo alla ressa di rockettari scatenati sotto al palco.

Ma prima che potessi raggiungerli, qualcuno mi piazzò un braccio attorno alle spalle e mi trascinò con forza verso l'uscita.

«Ehi!» esclamai, presa alla sprovvista, cercando di divincolarmi. Chi c'era, là dentro, che aveva così tanta confidenza da me? Forse era Al ubriaco. Almeno mi aveva risparmiato la fatica di cercarlo.

«Ehi, piano! Abbiamo i bollenti spiriti?» chiese un'ironica voce maschile incredibilmente vicina al mio orecchio.

Non era Al. Ma che cavolo voleva da me uno sconosciuto? Mi agitai ancora di più, cercando di assestargli una gomitata nello sterno per liberarmi.

«Calmati!» mi ordinò a due passi dall'uscita.

«Lasciami!» gridai, guardandolo in faccia per la prima volta.

Arrossii così tanto che, probabilmente, nemmeno l'abbondante strato di trucco che Sarah mi aveva spalmato in faccia riuscì a nasconderlo.

«Calmati, per carità!» esclamò John, guardandomi con i suoi occhi azzurri e portando alle labbra una bottiglia di birra.

«E tu potresti anche salutarmi senza farmi morire di paura!» Mi domando ancora oggi da dove fosse uscito tutto quel coraggio.

«Esagerata!» sogghignò, facendomi cenno di uscire. «Strano che quell'uomo asfissiante che ti ritrovi come fratello ti abbia lasciata entrare allo Shock» disse, fermandosi accanto a una macchina parcheggiata davanti all'uscita.

«Non sa che sono qui» precisai, chiedendomi se John fosse a conoscenza del nostro litigio.

«Birichina» commentò con un sorriso complice. «Entri allo Shock anche se sei troppo piccola e tuo fratello nemmeno lo sa? E hai solo dodici anni...Se continui così comincerai presto a seguire le mie orme».

Menomale che il trucco doveva farmi sembrare più grande.

«Veramente, di anni ne ho quattordici». Lui rimase impassibile, continuando a fissarmi mentre finiva la sua birra tutto d'un fiato. «Bè, che c'è?»

«In che senso?»

«Perchè mi hai trascinata qua fuori?» Al freddo, aggiunsi mentalmente.

«Mi volevo fumare una sigaretta in santa pace, ma poi ti ho vista e ho deciso di farmi una chiacchierata. Vuoi fare un tiro?»

«No, grazie» risposi arrossendo. John Bongiovi voleva chiacchierare con me! E mi aveva pure offerto un tiro della sua sigaretta! Mi sentivo quasi male.

Prese un pacchetto di Winston dalla giacca, ne estrasse una sigaretta e la accese.

«I miei quattro amici vandali là dentro mi hanno detto cos'ha combinato la tua amica a Dave...»

«Bè, se lo meritava» affermai. Non mi importava se Sabo era il braccio destro di John. Non avrei smesso di odiarlo solo perchè erano amici, né per nessun altro motivo. «L'unica cosa che mi dispiace è non essere stata io a mollare quello schiaffo».

«Ehi!» esclamò, guardandomi un po' storto. «È di Dave che stai parlando, non dell'ultimo secchione sfigato. Stai attenta a cosa dici di lui in mia presenza, sorella di David».

Ma perchè un ragazzo dello spessore di John se ne andava a bighellonare in giro con uno come Sabo?

E, tra parentesi, si era già dimenticato il mio nome.

Avevo davvero paura di parlare con un tipo del genere? Anche se i suoi occhi fissi nei miei e la mano tra i capelli mi davano una risposta inequivocabile, decisi di protestare.

«Mi dispiace, ma su Sabo non transigo. Mi rende la vita impossibile da quando avevo sette anni, quindi era proprio ora che ricevesse una lezione come si deve».

La mia pelle d'oca cominciava a farsi sentire prepotentemente.

Mi squadrò per qualche secondo, dando qualche colpettino alla sigaretta per far cadere la cenere. «In effetti, a volte con te esagera un po'. Forse se la meritava davvero, una lezione. Bè, come vanno le lezioni di tastiera?»

Eccola là. Non poteva chiedermi come andavano gli allenamenti, o come stava mia nonna, o cosa avevo intenzione di fare il giorno dopo? No, doveva chiedermi delle lezioni di tastiera.

«È un po' di tempo che David non mi dà lezioni...»

«Lo so» sorrise John.

Ebbi un tuffo al cuore. Cosa voleva dire che John lo sapeva? Cosa diamine gli aveva detto quella testa bacata di mio fratello? Poteva avergli detto... Mi proibii di pensarci.

«Quel vecchio volpone di David» proseguì John. «Si sta dando alla pazza gioia con quella bella ragazza che si è trovato».

Tirai un sospiro di sollievo.

«Comunque, per il momento vado al club di musica della scuola». Cominciavo a fare fatica a non battere i denti.

John mi guardò con aria schifata. «Il club di musica della scuola? Come cavolo fa la sorella di David Rashbaum a frequentare certi postacci?»

«E cosa...»

«Ma tu sei praticamente nuda!»

Quella volta il trucco non bastò nemmeno lontanamente a coprire il rossore.

«Scusami, non me ne sono accorto...Finisco la sigaretta e rientriamo».

«No, no, sto bene» mormorai, cercando di scaldarmi le braccia come meglio potevo.

John non mi sentì nemmeno. «Intanto prendi questa» disse, affrettandosi a togliersi la giacca.

Stavo forse sognando?

John mi aiutò ad indossare la giacca, più grande di tre o quattro taglie, e rimase in maniche corte.

«Guardati, sei tutta rossa dal freddo...Mi sbrigo, promesso» concluse, e fece un lungo tiro. Sì, rossa dal freddo, come no.

Per me poteva fumarsi anche dieci pacchetti interi.

«Che stavi dicendo?»

«Dove vado a prendere lezioni di tastiera, se mio fratello non me le dà e il club della scuola è un postaccio?»

«Conosco un po' di gente che farebbe al caso tuo...Ma già che ci sei perchè non vieni alle prove?»

Sì, e David?

«Potrei, ma...Ho gli allenamenti proprio alla stessa ora». Non avevo neppure bisogno di inventarmi una scusa.

«Bè, sei fortunata» mi sorrise. «Abbiamo cambiato gli orari. David vuole la sera libera...Ha proprio perso la testa, questa volta».

Bellissimo piano, peccato che di mezzo ci fosse mio fratello. Dovevo rinunciare per quel cretino? O dovevo fregarmene? Dovevo consultarmi con...

«Sarah!»

«Eh?»

«Devo andare...Devo fare una cosa urgentissima!» Come diamine avevo fatto a dimenticarmi di Sarah?

«Aspetta, ho finito» disse John, gettando la sigaretta a terra e rientrando.

Sarei tornata a casa con la sua giacca addosso, se lui non mi avesse trattenuta per un braccio appena rientrati nel locale.

«Aspetta un attimo» dissi, strappandomela di dosso.

«No, intendo...Ascolta!» Nella foga non mi ero resa conto che sul palco c'era un nuovo gruppo. «Il chitarrista...Lo senti?»

E io lo sentivo. Non so come spiegarmi meglio, certe cose non si possono spiegare. Ma lui sì che era un chitarrista. Non come John, che suonava per divertirsi, né tantomeno come Sabo, che era una mezza calzetta. Lui suonava perchè si sentiva la musica dentro. Ci avvicinammo al palco, incantati da quei suoni.

«Quanto vorrei un chitarrista così» mormorò John, incapace di distogliere lo sguardo dalle dita che accarezzavano le corde. «E, a dire la verità, non mi dispiacerebbe nemmeno la sua chitarra».

«Vai a parlargli» suggerii.

«Non servirebbe a niente. Lui...»

«Ehi!» Mi voltai e vidi Al.

«Eccoti qui! È mezz'ora che ti cerco. Dobbiamo andare, Sarah non si sente bene».

«Ma come?!» protestò.

«Dai, andiamo» gli ordinai, prendendolo per il polso.

John, perso a fissare il chitarrista, non si era nemmeno accorto che non lo stavo ascoltando. «...e fa già parte di un altro gruppo».

Gli toccai il braccio per costringerlo a voltarsi e lo fissai negli occhi. «Tu vai a parlarci. Non si sa mai quello che potrebbe succedere in futuro».

E successe qualcosa. Dovette per forza succedere qualcosa, perchè rimase senza parole, cosa mai successa in tutta la sua vita, figurarsi con una quattordicenne.

Mi sembrava troppo sperare che si fosse accorto che quella sera anch'io avevo sedici anni.

Mi feci strada tra la folla, trascinandomi dietro Al. Sarah era dove l'avevo lasciata. «Dove diamine eri finita?» Sembrava stanchissima.

«Scusa, non riuscivo a trovarlo».

Nel locale la musica non risuonava più. Prendemmo le nostre cose e uscimmo, seguiti dalle parole del cantante.

«Un grande applauso per il nostro chitarrista, l'insostituibile Richie Sambora!»

 

 

 

Note

 

Buondì!!

Sì, sono tornata. Una parte di me dice che avevate ormai perso la speranza, mentre l'altra si chiede se sul serio questa storia è abbastanza per farvi perdere la speranza.

Ho delle spiegazioni da dare per il ritardo geologico con cui pubblico questo capitolo, che peraltro ho scritto tipo in primavera. Non ho aggiornato prima perchè, come faccio abitualmente, ho aspettato di concludere il capitolo successivo, nel caso avessi dovuto cambiare qualcosa. Il capitolo 10, che è già pronto (salvo imprevisti), è stato un parto e mi è pure riuscito male. Non so nemmeno se lo pubblicherò. Ho perso l'ispirazione, completamente, e anche la passione che avevo per i Bon Jovi quando ho iniziato a scrivere questa storia nell'agosto del 2011. Mi piange il cuore a dirlo, ma è così. Sono sempre i miei preferiti, ma qualcosa si è affievolito.

Ora, però, lasciamo perdere i deliri di una fan-non-più-così-fan, e parliamo di questo capitolo. So che è un capitolo col botto, più o meno. Parecchi di voi aspettavano l'entrata in scena di Richie (a proposito, qualcuno sa cosa sta succedendo tra lui e la band? Non sono molto informata, chiedo venia), ed eccolo qua :) A quanto mi risulta, Richie e Jon si sono conosciuti dopo il liceo. Di solito non mi piace forzare il reale corso degli eventi, ma ho fatto un'eccezione perchè l'idea mi intrigava, e può essere che ne farò delle altre...Non so. Spero comunque che il capitolo sia abbastanza bello da risvegliare in voi un po' d'interesse :) Sempre che ce ne sia mai stato, ovviamente.

Ho un paio di idee carine per il proseguimento della storia, ma non so se riuscirò a metterle nero su bianco. Sono in una profonda crisi letteraria, e non lo dico per fare la melodrammatica. Non so quando ricomincerò a scrivere, né se lo farò sul serio. Come dicevo prima, non so se pubblicherò il prossimo capitolo, sia perchè è davvero brutto, sia perchè se questa fanfiction è destinata a rimanere incompiuta preferisco che l'ultimo capitolo sia questo, che rappresenta la fine della prima parte della storia, oltre a piacermi un sacco.

Sono consapevole di tenere un po' sulle spine quei pochi che si ricordano di questa fic e che l'hanno apprezzata, ma non voglio deludervi ancora, quindi è meglio che sappiate come stanno le cose. Ora come ora sento che se riprendessi a scrivere non otterrei i risultati di una volta e finirei per stare solo peggio. Sono in questo “periodo no” da un bel po' di tempo, ormai, e sto cominciando a perdere le speranze. Ma nella vita non si sa mai. Quindi, se avete voglia, tempo e motivi per farlo, tenete d'occhio la pagina :)

Grazie a chi ha letto questo capitolo, a chi recensisce e ha recensito, nonostante tutto. Rimango della mia opinione: siete i migliori.

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