Animali Magici di Lerax (/viewuser.php?uid=19228)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Edvige ***
Capitolo 2: *** Leotordo ***
Capitolo 1 *** Edvige ***
Edvige
L'uomo
entrò nella piccola stanzetta fiocamente illuminata da pochi
raggi del sole che già filtravano dalla finestra.
L'aria
era impregnata dell'odore selvatico delle bestie lì
rinchiuse.
L'uomo
attraverso velocemente la stanza e spalancò la
finestra, lasciando che il sole inondasse la stanza con i suoi
benefici raggi.
Gli
animali, prima in uno quieto dormiveglia, si svegliarono
definitivamente, a parte i piccoli criceti russi e i topolini che
avevano passato allegramente la notte a giocare e scavare e che
adesso decidevano di tornare nelle calde tane.
L'usignolo
pensò di ribadire il dominio dei 36x21 cm della piccola
gabbia, intonando un canto soave ma rumoroso.
Il
canarino al suo fianco rispose all'usignolo facendo sentire il
proprio cinguettare argenteo e in breve tutti i piccoli uccelli
ingabbiati presero a cantare.
L'uomo
riempì le mangiatoie degli uccelli e passò alla
stanza
accanto.
Tuffò
una mano in una gabbia piena di piccoli topi bianchi.
Ci
fu un fuggi fuggi generale, i piccoli roditori corsero in ogni
direzione, squittendo spaventati, ma non avevano vie di fuga.
Tre
topi furono acchiappati dalla mano dell'uomo, tentarono di ribellarsi
alla presa, ma i loro piccoli incisivi incontrarono solo la gomma del
guanto che proteggeva l'arto del carnefice.
Con
i topi in mano, l'uomo si avvicinò alla gabbia di una grossa
civetta candida come la neve.
Era
ancora una bestia selvatica, nonostante fosse in cattività
da
oltre due anni.
L'animale
avrebbe voluto volare via dalla finestra aperta, ma l'ala ormai
atrofizzata glielo impediva, non poteva far altro che accettare le
amorevoli cure dell'uomo.
Non
che fosse infelice o che sentisse nostalgia della
libertà, semplicemente il suo istinto le diceva di volare
via, lontano.
Non
riusciva a abituarsi al rumore.
Era
un essere silenzioso e non capiva perchè anche gli altri non
avrebbero dovuto esserlo.
Lasciò
le cinque piccole uova giallastre incustodite per raggiungere il topo
ancora vivo che era stato buttato nella gabbia.
L'uomo
guardò da dietro le sbarre gli artigli potenti penetrare
nella
tenera carne del roditore che prese a contorcersi e a squittire
invano.
Era
uno spettacolo crudele, ma di certo i Biscottini Gufici non avevano
diversa provenienza.
L'uomo
lasciò la civetta e continuò a occuparsi del
pasto
degli rapaci, con grande rammarico di molti topini bianchi.
Dopo
aver finito il magro pasto la civetta tornò a posarsi sul
nido, riscaldando le uova con il calore del proprio ventre ben pieno
di budella di topo.
Poche
settimane dopo le uova si schiusero.
Quattro
piccole palle di pelo grigio vi uscirono, il quinto non vide mai la
luce del sole.
Per
una settimana la madre si prese amorevolmente cura dei piccoli
pulcini ciechi e indifesi.
Il
decimo giorno l'uomo prelevò due pulcini, ignorando le
proteste
della madre e li trasferì in un altra stanza, con l'intento
di
allevarli a mano per ottenere esemplari docili e adatti alla consegna
della posta, ma non avendo grandissima esperienza con le civette non
voleva perdere tutta la nidiata.
Per
una settimana le cose sembrarono procedere bene, ma una mattina un
pulcino morì improvvisamente, nel palmo della sua mano,
senza
motivi apparenti.
L'altro
pulcino invece continuò a mangiare voracemente e a crescere
rapidamente.
In
breve l'infantile peluria grigia venne sostituita da lucide penne
bianche, gli artigli divennero fatali come quelli della madre, ma a
differenza di essa, il piccolo di tanto in tanto emetteva un verso dai
toni vagamente affettuosi.
La
prima lettera che venne affidata alla civetta arrivò
felicemente a destinazione e allora l'animale venne venduto
all'Emporio del Gufo insieme a altri esemplari e gufi, ormai era
arrivato il momento di abbandonare il nido.
Un
giorno la civetta finì nelle mani del giovane Harry
Potter, Il-Ragazzo-Che-è-Sopravvissuto, Il-Famoso-Potter,
Il-Prescelto
eccetera eccetera.
Edvige, questo
ormai era il suo nome, non sapevo tutto ciò sul proprio
padrone, sapeva solo che non aveva molte lettere da
inviare e ciò le dispiacque moltissimo.
Voleva
dimostrare di essere un ottimo uccello postino, ma non poteva fare
ciò
per cui era stata allevata, predestinata.
Quando
era a casa Dursley spesso doveva star chiusa in gabbia ma sapeva che
ciò non era colpa di Harry.
Quando
era a Hogwarts, passava le notti a cacciar topi e a svolazzare per il
castello.
Durante
la notte, durante le battute di caccia, provava un vago senso di
nostalgia.
Nostalgia
per l'orgoglio che le faceva gonfiare il petto quando una lettera
giungeva a destinazione, quando il destinatario spesso con un sorriso
le affidava una lettera e le offriva un biscottino, certo che la
missiva fosse in zampe sicure.
Da
tempo non provava pù quella sensazione, quasi dimenticata?
Battè
silenziosamente le ali, perlustrando il terreno alla ricerca di
qualcosa da mangiare.
Sentì
il tubare di Leotordo avvicinarsi. Quell'irritante
uccellaccio.
Accelerò
il battito delle ali.
Era
un essere silenzioso e non capiva proprio perchè anche gli
altri non lo potessero essere.
Quando
l'ululato fu abbastanza lontano, rallentò il volo e riprese
a
scrutare il terreno.
Silenziosamente
scese giù in picchiata e affondò le zampe nella
tenera
carne di un topo.
Ritornò
in quota, con il topo morente che squittiva fra le zampe.
Rientrò
nella Guferia, si posò con una zampa su un trespolo e
iniziò
a strappare brandelli di carne dal corpo ormai morto del
topo.
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Capitolo 2 *** Leotordo ***
Leotordo
Quanto era grande il mondo!
L'erbetta soffice aveva attutito la caduta.
Leotordo(anche se non era ancora il suo nome) saltellò
facendosi strada nella foresta verde di foglioline e fiori appena
risvegliati dal tepore notturno.
Beccò il terreno curioso di scoprirne il sapore,
ma
incontrò solo la superficie fredda e dura di un sasso
parzialmente coperto dal muschio.
Contrariato aprì le ali, tentando di spiccare il
volo, ma le
agitò invano, svolazzò per pochi
secondi prima di
ricadere a terra.
Stufo, smise di tentare e piroettò esplorando il
mondo
con cui aveva improvvisamente cozzato, con un velo di
nostalgia per il nido.
Si avvicinò a una coppia di insetti intenti a corteggiarsi
su una foglia, ma i piccoli coleotteri, forse desiderosi di
maggiore
privacy, ronzarono rumorosamente e se ne andarono lontano.
Il pulcino li seguì con gli occhi sproporzionati per quel
piccolo corpicino e vide, alta nel cielo, Mamma
Gufa che tornava
dall'ultima battuta di caccia, stringendo un grosso insetto nel becco.
Gli venne nostalgia, la fame aveva preso il posto della
curiosità.
Mamma Gufa sentiva pigolare in lontananza, non era forse un pulcino?
Ruoto il capo per ascoltare meglio, ma appena giunse al nido, tutti i
suoni vennero coperti dagli insistenti richiami dei piccoli gufi
affamati.
Dimentica dei pigolii sentiti in volo, imbeccò i piccoli.
I baffi della bestiola fremevano mentre annusava accuratamente
l'aria, le orecchie ritte per captare il minimo rumore.
Il vento lo informò che nelle vicinanze c'era la sua merenda.
Annusò l'aria ancora un ultima volta per decidere la
direzione e poi partì all'inseguimento dell'usta,
finchè non lo vide.
Piccolo e indifeso, il pulcino continuava a cinguettare ignaro.
La faina era pronta a scattare, quando le nari la informarono
del Suo arrivo, l'aria era pregna del Suo odore e andava rafforzandosi.
Diede un ultimo sguardo alla preda e senza nemmeno troppi rimpianti,
con
un guizzò si dileguò nella macchia.
Leotordo sentì il fruscio dietro a se, ma non vide nulla.
Sentì un altro rumore davanti a se e vide una strana
creatura.
Enorme e rumorosa, avanzava senza paura.
Spaventato dalle dimensioni dell'enorme bestia, Leotordo
fuggì il più silenziosamente possibile.
Ormai dimenticò di Mamma Gufa e della Bestia,
saltellò allegramente, gonfiando il petto e
aprendo le ali,
quasi volesse abbracciare il mondo.
C'era un tronco secco e nero, sempre saltellando e
svolazzando, vi ci
salì e forse per errore, o forse per decisione
propria, cadde.
Il mondo si avvicinava velocemente, gli andava contro...
Spalancò le ali e scoprì che volava,
finalmente.
Continuò a volare a lungo soddisfatto, senza preoccuparsi
del
vento che si faceva sempre più violento.
Troppo violento.
A un certo punto il vento da amico gioviale e compagno di giochi
divenne suo nemico e lo ricacciò indietro, facendogli fare
mille capriole in aria.
Se avesse avuto più esperienza di volo, Leotordo avrebbe
fatto poche semplici mosse che gli avrebbero consentito di riprendere
possesso del proprio corpo, ma dato che era inesperto e fino a
pochi minuti prima aveva volato solo nei suoi sogni, venne sballottato
qua e la dal vento.
Si risvegliò in una gabbia.
Non sapeva di essere in gabbia perchè non c'era mai stato,
ma
non importava.
Era vivo e tanto gli bastava.
Ululò allegramente, felice.
Tentò di spiccare il volo ma andò a sbattere
contro le sbarre della gabbia.
Per un secondo rimase perplesso e tentò di nuovo a volare e
di nuovo andò a sbattere contro la gabbia.
Ululò selvaggiamente, spaventato.
Ma come, aveva appena imparato a volare e già non poteva
più farlo?
Cozzò contro le sbarre d'acciaio, frullando le alucce
finchè il velo blu che copriva la gabbia venne tolto.
Un essere simile alla Bestia fece capolino, ma non sembrava
ostile.
L'uomo (perchè sì, la Bestia non era altro che un
essere umano) aprì la porticina della gabbia e
entrò col palmo aperto.
Diffidente, Leotordo si allontanò il
più
possibile.
Restò immobile in un angolo della gabbia, deciso a
non
spostarsi, ma anche la mano non sembrava voler desistere.
Alla fine, la curiosità del cucciolo inesperto
prese il
sopravvento.
Saltellando si avvicinò, fermandosi per accertarsi che la
mano non facesse movimenti bruschi.
Sul palmo c'erano delle cose nere, cauto, ne
beccò una e
scoprì che era buona.
Ormai del tutto tranquillo, beccò anche le altre cose nere e
quando finì, la mano si ritirò e il
velo
tornò a oscurare la gabbia.
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