Tre... facce della stessa medaglia: ira, superbia, accidia.

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ira: Fine di un amore ***
Capitolo 2: *** La Superbia: Attesa ***
Capitolo 3: *** L'Accidia: Funeral Blues ***



Capitolo 1
*** L'ira: Fine di un amore ***


Autore: margheritanicolaevna nel forum e margheritanikolaevna su EFP;
Titolo storia: “Fine di un amore”;
Genere: romantico;
Avvertimenti: forse un what if?, io preferisco pensare a un missing moment;
Rating: giallo;
Fandom: CSI NY;
Pairing: Mac Taylor/Stella Bonasera;
Peccato capitale: Ira
 
 
Qualche tempo fa scrissi a bice94 che, sebbene io non sia una fan della coppia Smacked, non mi è piaciuto il modo in cui gli autori di CSI NY hanno liquidato il personaggio di Stella, senza darci uno straccio di spiegazione e senza nemmeno una scena di addio.
Questa, perciò, è la mia personale versione di ciò che accadde prima della sua partenza per New Orleans.
 
 
Io so che l'odio come l'ira hanno la loro funzione nello sviluppo della società, perché l'odio dà la forza e l'ira sprona al mutamento.
Ivo Andrić, Racconti di Sarajevo, 1946
 
Fine di un amore
 
“Sinceramente, Stella” esclamò Mac Taylor, gettando con un moto stizzito la cartellina gialla che teneva tra le mani sulla scrivania già ingombra di documenti “sono molto deluso dal tuo comportamento!”.
Il tono delle sue parole da distaccato era divenuto ostile e i suoi occhi verdi, solitamente impenetrabili,  in quel momento invece la fissavano mandando lampi di collera.
La donna non rispose, limitandosi ad abbassare lo sguardo sul pavimento e a sperare che quella penosa scenata avesse termine al più presto; ma il tenente era, tra le altre cose, un cocciuto cane da presa e non avrebbe lasciato andare la collega senza prima averle cavato di bocca le risposte che stava cercando.
“Insomma” continuò quindi, implacabile, facendo il giro della scrivania e avvicinandosi a Stella, che invece se ne stava immobile di fronte a lui, come inebetita dalla durezza delle parole che aveva appena udito “abbiamo lavorato fianco a fianco per anni, ne abbiamo passate tante insieme e io pensavo di essere tuo amico”.
“Pensavo che tutti, qui dentro, lo fossimo” aggiunse, dopo una breve pausa carica di amarezza.
“E invece” proseguì, senza staccarle gli occhi di dosso e anzi facendo un altro passo verso di lei “non solo decidi di accettare un nuovo lavoro a New Orleans, ma lasci anche che io lo sappia da Sinclair!”.
Dato che la collega seguitava a non replicare alle sue accuse, il detective, ormai del tutto invelenito, la prese per un braccio come a scuoterla dalla sua inspiegabile inazione e quasi le gridò in faccia: “Se era la carriera che ti interessava, avresti almeno potuto parlarne prima con me!”.
“Sta’ zitto, ti scongiuro: non continuare a vomitare queste assurdità che - ne sono sicura - non pensi davvero…” Stella mentalmente lo implorava di smetterla, sentendo d’improvviso come una specie di lunga spada fredda che le si conficcava dalla gola fino al fondo dello stomaco.
“Basta” lo pregò in silenzio, sollevando su di lui due occhi adesso velati di lacrime.
Ma Mac Taylor non aveva alcuna intenzione di fermarsi: troppo bruciante l’improvviso dispiacere per la repentina partenza della collega e soprattutto troppo vivo l’affronto che non si fosse prima consultata con lui, che oltre tutto era anche il suo diretto superiore.
“Perché hai deciso di andartene? Una promozione è più importante dei tuoi amici?” la incalzò “E io che avevo sempre pensato che a queste cose tu non tenessi affatto!”.
Scosse con lentezza il capo e l’espressione di disgusto che Stella lesse sul suo viso severo fece sussultare sensibilmente la lama gelata che l’attraversava tutta, causandole una fitta di nausea.
“Mio Dio” ripeté spietato il tenente, piegando le labbra sottili in una linea esangue “Che delusione…”.
Basta. Quello era troppo.
Fu come se una mano enorme le avesse stretto il cuore così,
con cinque dita, come si stringe una spugna: fu colta da un furore atroce, da un improvviso odio implacabile verso l’uomo che ancora la fissava con le narici frementi di sdegno.
Stella Bonasera si era ripromessa di non dire niente a Mac delle reali ragioni che l’avevano spinta all’improvviso a scegliere la partenza per New Orleans e che poco o nulla avevano a che vedere col fatto che lì lei sarebbe stata a capo della locale Scientifica; però ora lui aveva oltrepassato il limite e non poteva più tacere.
Avrebbe parlato.
Serrò i pugni irosamente, deglutì e trasse un respiro profondo: l’adrenalina le stava facendo accelerare a dismisura i battiti e le imporporava il viso, ma sapeva con esattezza cosa dire, perché quelle parole erano le stesse che le avevano attraversato la mente un’infinità di volte nei lunghi anni in cui avevano condiviso l’ufficio, prima di riuscire a decidere di lasciare per sempre New York.
Con un gesto brusco, che colse il collega di sorpresa, allontanò la mano che ancora l’uomo le teneva sul braccio, fece due passi verso la parete opposta alla porta, afferrò
una delle fotografie appese al muro e la scagliò sul pavimento con tutte le sue forze.
Il vetro che proteggeva un serissimo Mac nell’alta uniforme da maggiore dei marines si frantumò in mille pezzi, senza che l’uomo potesse far niente per evitarlo.
“Ma…” esalò interdetto il detective.
“Vuoi la verità?” sibilò Stella, decisa ad andare per una volta nella vita fino in fondo, “Vuoi sapere perché ho deciso di andarmene?”.
Mac stentava quasi a riconoscere l’amica, il cui volto solitamente dolce e sereno era invece ora trasfigurato da un’ira violenta: gli occhi dilatati, le narici frementi, la respirazione accelerata… Stella pareva all’improvviso posseduta da un demone.
“La verità, Mac, è che io ti amo: mi sono innamorata di te dal primo maledetto minuto del primo stramaledetto giorno in cui ti ho incontrato e che da allora non ho smesso di amarti nemmeno per un istante! Ti sono stata accanto quando eri felice insieme a Claire e, quando lei è morta e io ti ho aiutato a rimettere in piedi la tua vita, ho sperato che per noi due ci fosse almeno una speranza”.
“Ma tu, invece, niente! Ti credi un grande investigatore, uno che riesce a leggere nell’animo umano con acutezza… e invece non hai mai capito niente di me! Hai idea di quanto sia stato difficile dividere il respiro, il giorno e la notte con te senza mai tradirmi? Far finta di essere tua amica per tutto questo tempo e intanto soffrire in silenzio, straziata dalla gelosia?”.
Stella, trascinata dalle violente emozioni che l’animavano, quasi impazzita, afferrò anche la foto che ritraeva Mac mentre stringeva la mano all’ex sindaco di New York  Rudolph Giuliani e la tirò per terra, dove l’immagine terminò ingloriosamente la sua breve esistenza. 
“Maledizione!” gridò Stella, fremente di collera come Mac non l’aveva mai veduta, nemmeno durante il più aspro dei litigi che pure avevano affrontato nei lunghi anni della loro amicizia: “Ti ho visto perdere la tua dignità con donne che non ti meritavano, ho letto la squallida lettera con la quale Peyton ebbe il coraggio di lasciarti senza nemmeno guardati in faccia e in tutto questo tempo, in cui tu ti dibattevi nella solitudine e nella tristezza, ho sperato che ti accorgessi di me, che capissi che ero la sola che avrebbe potuto amarti veramente per come sei, che ero esattamente la persona di cui tu avevi bisogno per essere felice”.
“Eppure tu non mi hai mai degnata di uno sguardo… nel profondo del mio cuore sapevo che la nostra situazione non sarebbe mai cambiata, ma la speranza era più forte di tutto e il mio amore per te saldo come una roccia.
Ricordi quando indagavo sul caso di quella ragazzina stuprata a Central Park? (1) Tu mi dicesti che non dovevo seguire il cuore, bensì le prove e la ragione: ebbene, io non sono mai stata capace di non seguire ciò che mi diceva il mio cuore e per questo ho sprecato inutilmente i migliori anni della mia vita con te, con un uomo che non mi ha mai amato e mai mi amerà”.
“Ma soprattutto” Stella non aveva smesso di fissare Mac negli occhi nemmeno un istante e il suo tono adesso, svanita la collera del principio, era pieno di astio gelido e consapevole “con un uomo che non mi ha mai capita e non mi merita”.
La donna, con un gesto repentino, staccò dalla parete anche la cornice con dentro un Ronald Reagan sorridente, nel pieno del suo potere, e la scagliò sul pavimento dove i suoi frammenti si mescolarono con gli altri.
“Dannazione! E pensare che quando mi seguisti a Salonicco avevo sperato che finalmente quel tuo gesto significasse un passo avanti nel nostro rapporto: ricordi quando ti lessi il futuro nel fondo del caffè greco che avevi appena bevuto? Allora dissi che io ero la donna della tua vita e in quell’istante pensai che se tu mi avessi baciata, se solo ti fossi avvicinato un po’ di più a me, tutto sarebbe andato per il meglio e io sarei stata felice, per la prima volta”.
“Ma non accadde niente. E io finsi di stare scherzando per vincere la vergogna e la delusione” (2).
Mac la guardava stralunato, incredulo per ciò che aveva appena scoperto, ma anche per la consapevolezza di aver perso irrimediabilmente qualcosa di prezioso senza aver mai nemmeno tentato di coglierlo; incapace di muoversi e persino di articolare parola, come paralizzato.
Forse avrebbe potuto replicare qualcosa, cercare un chiarimento, ma sapeva dentro di sé che sarebbe stato tutto inutile di fronte alla collera di Stella: la sua voce - un soffio di animale selvaggio infuriato a freddo, indomabile - rivelava chiaramente che non sarebbe tornata indietro.
“Per questo me ne vado” aggiunse la poliziotta, arretrando verso la porta “Perché ho capito di poter aspirare a qualcosa di meglio che raccogliere le briciole della tua compagnia e consolarti quando sei giù di corda… Quindi va’ all’inferno, Mac Taylor!
All’inferno tu, la tua prosopopea, la tua spocchia, la tua freddezza, la tua incapacità di amarmi!”.
Senza aggiungere un’altra parola, Stella Bonasera si voltò e, facendo scricchiolare sotto le suole delle scarpe i pezzetti di vetro che ormai ricoprivano il pavimento, lasciò l’ufficio della Scientifica e New York City per sempre.
Senza guardarsi indietro.
Per la prima volta dopo molti anni, si sentiva leggera: la porta dell’avvenire era davanti a lei e si stava aprendo.
C’era solamente quella porta e ciò che vi era dietro e lei era da sola, senza nessuno al suo fianco.
Ma Stella Bonasera, per la prima volta dopo molti anni, non aveva paura.
 
FINE
 

 

  1. Il riferimento è allo stupro di Robin, caso su cui si incentra il secondo episodio della prima stagione di CSI NY. 
  2. Il riferimento è alla scena finale della puntata “Fondi di caffè greco”.

 

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Capitolo 2
*** La Superbia: Attesa ***


Autore: margheritanicolaevna nel forum e margheritanikolaevna su EFP;
Titolo storia: “L’attesa”;
Genere: romantico;
Avvertimenti: what if?;
Rating: giallo;
Fandom: CSI NY;
Pairing: Mac Taylor/Peyton Driscoll;
Peccato capitale: Superbia.
 
 
L'orgoglio non ha niente di proprio; altro non è che il nome dato all'anima che divora sé stessa. Quando questa sconcertante perversione dell'amore ha dato il suo frutto, essa porta ormai un altro nome, più ricco di senso, sostanziale: odio.
Georges Bernanos,
L'impostura, 1927
 
 
L’attesa.
 
Mac Taylor non avrebbe mai dimenticato quella maledetta sera; mai, nemmeno se gli fosse stato attribuito in sorte di vivere per sempre.
I suoi ricordi erano vividi e dolorosi come se, invece di essere passati tre anni, non fossero trascorsi neppure tre giorni: rammentava di essere tornato in ufficio, come al solito stanco ma soddisfatto, per stendere il rapporto sull’ultimo caso al quale lui e la sua squadra avevano lavorato e di avere rovesciato sulla scrivania il raccoglitore della posta quasi oziosamente, senza prestare particolare attenzione a ciò che stava facendo.    
Non aspettava nessuna lettera importante e perciò scorgere, tra le decine di plichi inutili, una busta col timbro delle poste internazionali gli aveva regalato un improvviso brivido di emozione; il sorriso si era allargato sul suo volto quando aveva letto chi ne fosse il mittente. Era strano pensare che Peyton gli aveva scritto una lettera: si sentivano ogni giorno al telefono e lui era tornato a casa solo da poche settimane dopo aver trascorso un periodo insieme a lei in Inghilterra.
Ecco, comunicare in quel modo gli pareva una cosa allo stesso tempo romantica e un tantino antiquata, che non si addiceva perfettamente al carattere della sua fidanzata.
Tuttavia era innegabile che il pensiero che lei avesse occupato del tempo a scrivergli, invece di digitare solo il suo numero di cellulare sul display, lo inteneriva e lo riempiva di una piacevole aspettativa.
Così, con un’impazienza che avrebbe sorpreso non poco coloro che conoscevano il suo atteggiamento solitamente imperturbabile, lacerò la busta e ne tirò fuori un foglio vergato a mano nella bella grafia regolare di Peyton, che aveva imparato a conoscere nel periodo in cui ancora lavoravano fianco a fianco.
 
“Caro Mac, ti scrivo questa lettera perché so che se ti chiamassi il suono della tua voce mi farebbe sentire persa. So che te ne sei andato via da Londra il mese scorso perché era ora di tornare a casa, ma da allora mi sono resa conto di una cosa: la mia casa è questa, ho un nuovo lavoro qui. La mia famiglia è qui. La mia vita è qui, Mac” (1).
Leggere e comprendere era stato un istante e un ago sottile e appuntito era penetrato fino alla cruna proprio dentro al suo cuore.
La sua espressione era mutata subito ed era stato costretto a sedersi perché, d’improvviso, si era sentito come se qualcuno gli avesse gettato sulle spalle un peso insostenibile: le gambe fiacche, il cuore che gli martellava furiosamente nel petto in bilico tra l’ansia di sapere, il desiderio di non sapere e l’insensata speranza di essersi sbagliato.
 
“La mia vita è qui, Mac. E, per quanto avrei voluto che tu rimanessi qui e ne diventassi parte, so che il tuo lavoro e la tua vita ti porterebbero inevitabilmente lontano di nuovo”.
 
Aveva resistito a stento alla tentazione di strappare in mille pezzi quell’insulso pezzo di carta, tirare fuori il cellulare e chiamarla: a cosa sarebbe servito? Sarebbe stata solo un’umiliazione del tutto indegna di lui e non le avrebbe fatto cambiare idea, ne era certo.
Nel suo petto, la sorpresa e la delusione del primo momento avevano rapidamente ceduto il passo alla rabbia: come aveva potuto fargli questo? Fare questo a lui, a lui che l’aveva accolta a lavorare alla Scientifica di New York fidandosi del suo talento anche se era straniera e non possedeva alcuna specifica esperienza nel campo delle analisi forensi… proprio a lui che le aveva offerto una possibilità tanto ambita, aprendole le porte del suo laboratorio prima e del suo stesso cuore poi.
A lui, che per amor suo aveva tentato di modificare il proprio modo di fare, smussando gli angoli di un carattere spesso difficile e sforzandosi di trattarla con più dolcezza, anche di fronte agli altri; a lui, che per accontentarla aveva vinto la sua naturale ritrosia, accettando di vivere la loro storia d’amore alla luce del sole nonostante le chiacchiere e i pettegolezzi che inevitabilmente lo avevano investito, nella sua posizione di capo del laboratorio.
A lui, che le aveva salvato la vita mettendo a repentaglio la propria, che aveva forzato il suo leggendario stakanovismo prendendosi - per la prima volta dopo anni di lavoro ininterrotto -  qualche settimana di vacanza per accompagnarla in Inghilterra dalla sua famiglia.
Ecco, lui si era fidato di Peyton, le aveva consentito di riempire il vuoto lasciato nel suo cuore dalla morte di Claire, di abbattere le barriere che aveva innalzato nel tentativo di proteggersi da un nuovo dolore e questa era la ricompensa per il suo amore, la sua fiducia e la sua dedizione!
 
“Potremmo fare avanti e indietro con l’aereo per un po’ in una relazione a distanza, ma sono sicura che - per quanto vicini - ci sarebbe sempre un oceano in mezzo a noi, a dividerci. È meglio dirci addio, amore mio”.
 
Aveva gettato la lettera sulla scrivania con stizza e si era alzato di scatto, serrando i pugni per la rabbia repressa e cercando si scacciare dalla mente gli epiteti volgari che stava associando al nome della bella patologa inglese perché, nonostante tutto, era un cavaliere.
Maledetta ingrata - ricordava di avere pensato - lasciarlo così, con quel messaggio tanto freddo e impersonale, senza dargli neppure la possibilità di guardarla in faccia o di risponderle! Senza lasciargli nessuna chance di cambiare le cose.
Eppure lei sapeva quanto aveva sofferto a causa del suo lutto e come era stato difficile per lui aprirsi di nuovo all’amore…
Amore. Sì perché, al di là di tutto, Mac l’amava ancora.
Follemente.
Disperatamente.
Insensatamente.
 
***
 
Rammentava di essere andato quella sera - come ogni altro mercoledì - a suonare con la sua band nel solito pub di Soho; anche allora la musica lo aveva fatto stare un po’ meglio, aiutandolo a distrarsi dal dolore che lo tormentava.
A un tratto aveva scorto Stella seduta in mezzo al pubblico: lei gli aveva sorriso dolcemente quando i loro sguardi si erano incrociati e lui aveva ricambiato il gesto.
Sì, la sua collega era una buona amica: una persona onesta, limpida, che forse sarebbe stata capace di meritare il suo amore.
Eppure - nonostante ciò e nonostante avesse perfettamente compreso la vera natura dei sentimenti che Stella provava per lui - non le si era mai avvicinato, nemmeno quella sera in cui ne avrebbe avuto un disperato bisogno: aveva deliberatamente scelto di non farlo, come del resto non aveva più voluto legarsi davvero a nessuna negli anni seguenti.
La mattina dopo, in ufficio, lei gli aveva raccontato di aver trovato per caso la lettera sulla sua scrivania e di aver pensato che forse poteva fargli piacere vedere un volto amico in quel momento di tristezza.
Allora si era affrettato a cambiare discorso, spostando la conversazione sulle solite questioni di lavoro che li impegnavano e rivolgendole uno sguardo che era rimasto pur sempre gentile e professionale: nulla era mutato nella sua espressione, niente era apparso all’esterno dello sconvolgimento bestiale che lo aveva lacerato in quegli istanti. Come nulla, nel periodo che era seguito, aveva mai tradito il dolore di pensare Peyton tra le braccia di un altro uomo, la sofferenza rovente che lo bruciava tutto e impercettibilmente gli accendeva il viso quando quelle immagini gli attraversavano la mente.
Un altro uomo, un tizio qualsiasi: termine generico che perfettamente si attagliava a un qualunque generico insignificante individuo che in quel momento fosse stato accanto a lei, al suo posto.
C’erano state, certo, occasioni che avrebbe potuto cogliere: aveva incontrato donne che in un altro momento avrebbe trovato interessanti, eppure nessuna era riuscita a smuoverlo dal suo testardo proposito, figlio dell’alterigia secolare (ma taciuta e forse inconsapevole) dei Taylor, di aspettarla.  
Perché Mac Taylor aveva, in cuor suo, deciso: l’avrebbe attesa, fosse anche per tutta la vita, perché prima o poi - ne era certo - sarebbe tornata da lui.
Perché lui era lui e tutti gli altri non erano come lui e Peyton, che una volta l’aveva amato, non avrebbe potuto che alla fine comprendere che senza di lui non aveva senso vivere.
A volte era stato sul punto di cedere - troppo lunga e dolorosa la sua attesa solitaria - ma poi aveva tenuto duro, consapevole che se non fosse riuscito a resistere, se non avesse tenuto fede alla sua inflessibile, disperata decisione di attendere, rispettando se stesso e i suoi sentimenti per lei, tutto sarebbe finito.
E lui stesso sarebbe stato irrimediabilmente trasformato ai suoi occhi in uno qualunque, in un uomo che non ce la fa a controllarsi, schiavo dei propri sensi volgari: uno qualsiasi, come quelli con cui l’inglese di sicuro si accompagnava.
Ma lui era Mac Taylor, non uno qualsiasi.
 
***
 
Aveva custodito il suo segreto per così tanto tempo, nella solitudine e nel silenzio, che quando aveva visto Peyton comparire all’improvviso alla finestra del palazzo di fronte al suo per poco il  cuore non gli si era fermato (2).
Non è proprio come avevo immaginato che ti avrei rivisto” gli aveva detto lei quando erano rimasti finalmente da soli, fissandolo con quei suoi maledetti occhi verdi stregati mentre lui la guardava, invece, come se non credesse che ciò che stava loro accadendo fosse realmente possibile.
Tutto ciò che riguarda noi due è sempre stato imprevedibile” aveva udito la sua voce risponderle, meravigliandosi di come fosse riuscito a mantenere il controllo di sé.
“Per questo è stato così bello…”aveva cinguettato lei gettandogli le braccia al collo, stringendosi contro il suo petto e avvicinando le labbra alle sue, come se fosse tornata a casa dopo essere stata via solo qualche giorno o qualche ora. Come se non gli avesse spezzato il cuore.
In quell’istante Mac Taylor sentì che, nonostante tutto, era possibile e che stava accadendo davvero; chiuse gli occhi per godere meglio la sua presenza, l’odore delicato di lavanda che esalava dai suoi capelli e il suono del suo respiro leggermente affannoso che gli pareva di non aver mai dimenticato negli anni trascorsi lontano da lei.
Poi, in quegli attimi di perdimento mentre la teneva tra le braccia come se nulla fosse cambiato, lentamente si rese conto della verità: la verità era che di lei non gli importava più nulla, che non sentiva più niente per la donna che aveva atteso inutilmente per tutti quegli anni.
Che, anzi, in quel momento il solo pensiero che lei lo toccasse, che lo desiderasse dopo quel tempo durante il quale era stata di altri - di altri qualsiasi che non erano lui - gli faceva quasi orrore; che sentire la sua pelle contro la propria gli aveva provocato un moto di ripulsa, come essere toccato da un viscido serpente squamoso.
La fissò e si rese conto ancor più nettamente che il suo volto, la sua voce, il suo profumo, ogni cosa di lei gli era insieme familiare eppure disperatamente estranea, dolorosamente indifferente.
 
Lei aprì gli occhi ignara, certa del proprio potere, e tentò di baciarlo di nuovo.
Ancora una volta, come anni prima.
Ma Mac, che pure l’aveva attesa così a lungo sicuro che sarebbe tornata, non era felice di quel trionfo.
L’amaro fiore della verità era ormai sbocciato dentro di lui: sapeva adesso di aver aspettato Peyton così a lungo non tanto per amore quanto per superbia, sfrenata alterigia, per dimostrare a se stesso e a lei che sarebbe tornata, che gli altri uomini non avevano significato niente e che era rimasto nel suo cuore.
Per poter essere lui a decidere di respingerla per sempre, una volta che lei fosse tornata, riprendendosi così la chance che gli aveva rifiutato anni prima con quella lettera stucchevole.
Forse - comprese con rassegnato dolore - aveva smesso di amarla fin dal primo istante in cui l’aveva abbandonato così vilmente, senza nemmeno guardarlo negli occhi; dall’esatto momento in cui l’aveva tanto umiliato, lui che le umiliazioni non aveva mai tollerato.
Aveva creduto di amarla. Solo creduto.
E aveva scelto di attenderla con la ragione, non con il cuore.
Si scostò da lei con un sorriso gentile, ma indifferente, e per la prima volta la guardò come una qualsiasi.  
 
FINE
         

 

  1.  Le frasi in corsivo sono il testo esatto della lettera che Mac riceve da Peyton nella puntata “Tempo scaduto” della quarta stagione;
  2.  La scena è ripresa dal finale della puntata “Punti di vista” della sesta stagione di CSI NY.

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Capitolo 3
*** L'Accidia: Funeral Blues ***


Autore: margheritanicolaevna nel forum e margheritanikolaevna su EFP;
Titolo storia: “Funeral Blues”;
Genere: drammatico, introspettivo;
Avvertimenti: what if? angst;
Rating: giallo;
Fandom: CSI NY;
Pairing: Mac Taylor/Don Flack
Peccato capitale: accidia
Introduzione: questa fic è costruita come un monologo interiore di Mac Taylor il quale, assistendo al funerale dell’amico e collega Don Flack, si interroga su ciò che ha fatto e su ciò che avrebbe, invece, potuto fare per aiutarlo. L’antefatto immaginario - perché nella serie non va così ovviamente - è che dopo la morte di Jessica Angell Don non sia più riuscito a riprendersi e si sia lasciato andare sempre più, fino all’epilogo tragico. È un what if? in chiave drammatica di una scena dell’episodio “Il nido del cuculo” in cui effettivamente si vede Don che, ubriaco e stravolto, viene picchiato e rapinato da due tipi armati di coltello in metropolitana. Anche la frase che Mac menziona gli è stata davvero detta in un teso dialogo tra i due.
Questa one-shot, per un’infinità di ragioni che lei di certo capirà al volo, non può che essere dedicata a Lubylover: ormai sono su efp da un anno, frequento il fandom assiduamente e mi sono resa conto che scrivere di Don Flack senza aver letto le sue fic sarebbe arduo e insidioso. La prima parte è, infatti, debitrice dell’ultimo capitolo della sua “Dov’eri quando il mondo cessò?”.
Spero ti (e vi) piaccia.   
 
Funeral Blues
 
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome”

La voce del cappellano militare attraversa alta e ferma l’aria resa precocemente tiepida da un’inaspettata primavera; le sue parole non tradiscono alcuna emozione, non c’è nessun tremito a incrinarle.
Povero, vecchio reverendo Caldwell, ci conosciamo da anni, so che sei stato in Libano e in Afghanistan prima di arrivare qui a New York e chissà quanti onorati servitori dello Stato hai accompagnato verso la tomba nel corso della lunga carriera di cappellano militare; mi sono sempre chiesto se è l’abitudine al dolore che ti ha reso all’apparenza così distaccato, oppure se dipende dal fatto che non hai conosciuto la persona che adesso giace distesa nella bara di mogano avvolta nella bandiera a stelle e strisce.
Al contrario, per me - che pure tutti considerano un uomo severo, quasi freddo - riuscire a trattenere le lacrime è già quasi un miracolo e non so come farò a pronunciare le poche parole che i colleghi mi hanno chiesto di dire senza cedere al pianto.
“Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza”.

È uno splendido pomeriggio di metà aprile, l’aria è tiepida e profumata di erba tagliata di fresco e dall’oceano spira una brezza deliziosa; i raggi del sole appena calante bagnano di luce dorata le lapidi bianche, tutte uguali. Se questo posto non fosse così impregnato di dolore, ecco, oggi sarebbe persino ameno.
È uno splendido pomeriggio di metà aprile e Don Flack è morto: Don, possibile che tu non sia più da nessuna parte? Davvero non ci sei proprio più?
Il cielo è così azzurro, le ombre così dense che a prenderne coscienza si prova un senso di stupefatta meraviglia per tutte le cose… Don, non puoi più sentire neanche questo?
Affiorano alla mia mente le parole di una vecchia poesia, non ricordo di chi: allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni, spegnete le stelle, imballate la luna, smontate pure il sole, svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco perché ormai più nulla  può giovare (1).
Mi guardo intorno: siamo tutti qui per te, riuniti innanzi al marmo finale, tra gli infausti cipressi. I tuoi genitori sono seduti in prima fila, lo sguardo assente e come impietriti da un dolore muto, senza più lacrime.
Danny ha gli occhi gonfi e arrossati, non ricordo di averlo visto così sconvolto nemmeno quando morì il piccolo Ruben; Lindsay si stringe a lui e fatico a capire chi dei due sostenga l’altro.
Stella è pallida come un cencio e sembra non avere nemmeno la forza di reggersi in piedi: fortunatamente Adam e Sheldon le stanno accanto e lei pare trarre conforto dalla loro vicinanza.
Samantha no, mi hanno detto che ha avuto un malore e non l’hanno fatta uscire dall’ospedale: con la sua vita sballata, scommetto che era sicura che non saresti stato tu il primo dei due ad andarsene…
“Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca”

Ecco, tra poco toccherà a me; poi il suono delle cornamuse e le parole di “Minstrel Boy” (2) riempiranno l’aria e tutto sarà davvero finito. Finito per sempre.
Il nostro mondo, ciò che avevamo costruito giorno dopo giorno, il lavoro, la squadra: tutto oggi finisce insieme a te.
Tutto domani ricomincerà, ma non sarà mai più lo stesso.
Dio Santo, Don, ma come ti è potuta accadere una cosa del genere? Un poliziotto esperto come te: com’è stato possibile? Non avrei mai immaginato che la tua vita sarebbe stata spezzata  dal coltello di due balordi strafatti di crack incrociati una notte in metropolitana. 
In quali abissi di dolore era precipitata la tua anima senza che nessuno di noi fosse riuscito a capirlo?
Ieri mattina, quando sono arrivato in ufficio, ho avvertito una calma insolita: era appena una sfumatura, eppure sentivo che quella era una calma anormale, che conteneva un sentore di morte. Come se fosse avvenuta la fine di qualcosa; era un’impressione così chiara da averne paura.
L’aria si era fatta stagnante, immobile, e senza ancora avere capito mi sentivo come al tappeto: la tristezza copriva i miei pensieri, impregnava la stanza, avvolgeva la città.
Poi ha squillato il mio cellulare.
 
Non si salverà. Non vuole salvarsi.
Questo pensavo, guidando come un pazzo verso il Trinity.
Sono stato una delle persone a te più vicine e Dio sa quanto ti ho voluto bene, eppure questo pensiero non mi ha abbandonato mentre aspettavo di parlare con un medico, seduto su una scomoda poltroncina di plastica. Risuonava dentro di me come se lo stessi ripetendo ad alta voce e poi rimbombava tra le pareti asettiche dell’ospedale.
 
Non si salverà. Non vuole salvarsi.
Tu eri un eccellente investigatore, una brava persona. E un buon amico.
Mi sei sempre stato d’aiuto, in ogni momento in cui ne avessi bisogno: quando abbandonai, furioso, l’aula dove si si teneva l’udienza disciplinare contro di me per la morte di Clay Dobson, tu cercasti di impedirmelo e facesti di tutto per convincermi che era un gesto sbagliato e che Sinclair me l’avrebbe fatta pagare (3).
Allora mi fissasti con i tuoi occhi grandi in quel modo diretto così inequivocabilmente tuo, privo di affettazione, e il tuo sguardo era così franco e aperto che per me fu difficile mantenere delle riserve: anche nei momenti di maggiore agitazione, anche nel vortice della tristezza, quel tuo sguardo trasparente è sempre stato uguale.
Questo prima di Jessica.
La sua morte ti ha cambiato e io non me ne sono accorto: adesso è chiaro che l’amavi, che lei amava te… forse facevate addirittura dei progetti insieme? Non l’ho mai saputo con esattezza, ma dopo quella maledetta sparatoria tu eri diventato lo spettro di te stesso: non avevi più energia, né vitalità, eppure vivevi trascinando i tuoi giorni uno dietro l’altro nella solitudine.
Lei ti amava, tu l’amavi al punto di non riuscire a sopravviverle: chissà se Claire ha mai amato me allo stesso modo?
Ti ho perso, ti ho lasciato solo: avrei dovuto fare di più, non riesco a smettere di pensarlo. Forse avrei potuto fermarti.
Ti ho perso, ti ho visto avvicinarti alla morte poco a poco davanti ai miei occhi e non sono riuscito a evitarlo.
Alcuni sostengono che se qualcuno decide di morire nessuno può impedirlo, io non lo so; so solo che il rimorso mi tormenterà per il resto della mia esistenza.
Negli ultimi tempi eri come una brace che sta per spegnersi, sembravi un uomo molto più vecchio dei tuoi anni e non un ragazzo giovane con tante cose ancora davanti a sé.
Quando ti ho visto iniziare a vacillare, lo sguardo perso e l’alito che rivelava chiaramente che avevi bevuto, avrei dovuto parlare con te, starti vicino.
E nel momento in cui hai cominciato a non rispondere al cellulare, a non venire in ufficio senza dare spiegazioni, sarei dovuto uscire a cercarti e ascoltarti come un amico o un fratello maggiore e non solo come un capo esigente.
“Non sono il tuo confessore” ti ho detto brusco: infatti, il tuo confessore forse sarebbe riuscito a salvarti.
Ma io no: io, troppo occupato nella mia routine quotidiana, così assorbito dal lavoro da non rendermi conto del dramma che stavi vivendo accanto a me.
Io, newyorkese perfetto, traslucido e inflessibile.
Così lontano dagli altri, così incapace di dare, così chiuso nella mia nascosta astenia dei sentimenti.
“Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni”.(4)

Accidia: alle superiori ho studiato che vuol dire incuria, indolenza, dalla parola greca akedìa, senza cura.
È un peccato capitale perché un è vizio dell’intelletto, un difetto dell’anima e non un fatto fisico, come i pigri che fanno fatica ad alzarsi al mattino.
Io sono tutt’altro che pigro, all’esterno: lavoro oltre dodici ore al giorno, a volte per settimane di fila, e sono anni che non mi prendo una vacanza.
Ufficio, casa, poche ore di sonno e poi di nuovo lavoro, lavoro e basta: a volte dentro di me avverto una sensazione acuta - ora confusa, ora invece chiarissima - di assenza, di irrealtà, di grande stanchezza e pigrizia, mascherata dietro la mia apparenza di uomo attivissimo, di ingranaggio perfettamente inserito nel sistema.
Se avessi capito quanto soffrivi, Don, quanto bisogno avessi di aiuto, avrei potuto impedirti di scendere uno a uno i gradini che ti hanno condotto all’inferno; ma no, il tuo capo - il tuo accidioso capo - non l’ha fatto, vittima del suo segreto, della sua incurabile incuria.
Ecco, il cappellano mi cede il suo posto di fronte alla bara e io percorro i pochi passi che mi separano dal microfono nel silenzio rotto solo da qualche singhiozzo trattenuto.
Sento l’odore della morte, contemplo l’immagine della disperazione.
Il prosciugamento.
La sete.
Quella condizione spirituale in cui sembra che le cose perdute superino di gran lunga quelle ottenute: la fine.
FINE
(1) La frase è una citazione della poesia “Funeral Blues” di W.H. Auden, resa famosa dal film “Quattro matrimoni e un funerale”.
(2) "Minstrel Boy",  sentita anche in un funerale nella serie Criminal Minds, è una ballata di origine irlandese composta da Thomas Moore e ha una lunga tradizione: veniva cantata dai soldati di origine irlandese durante la guerra civile americana.
Dopo la seconda guerra mondiale si è estesa a tutti i corpi di polizia e anche ai pompieri.
(3) Il riferimento è alle puntate “Dieci anni dopo” e “La carta vincente” di CSI NY, in cui si racconta dello stupratore omicida Clay Dobson della cui morte è ingiustamente accusato Mac.
(4) Le parole sono tratte dal Salmo 23 e sono sovente usate nelle cerimonie funebri negli USA.

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