La neve e la sabbia

di Alex e Finger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: La banchina ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Complicità ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Vecchie conoscenze ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Un'altra famiglia ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: La Vecchia Capitale ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Strategia ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Il peso di un debito ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: L'ombra ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: Azzardo nobile ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Nessuna alternativa ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: Attesa ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: Ritardi ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13: Un'altra storia ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14: Principi d'Azione ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15: Riparazioni ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16: Pace e Libertà ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17: Voci da lontano ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18: Omaggi ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19: Un segno indelebile ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20: Colui che dona a piene mani ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21: Una questione di fiducia ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22: Allo scoperto ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23: Servire la luce ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24: Sguardi ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25: Bottiglie volanti ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26: Carteggio ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27: Convocazione ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28: Diamante dei Balcani ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29: Vecchi ruoli ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30: Contro il tempo ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31: La pantera ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32: Una calda presenza ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33: Oltre la soglia ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34: Sfida all'autorità ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35: Polvere pirica ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36: Una gabbia di seta ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37: In equilibrio ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38: Aprire il mandato ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39: Domande ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40: Esperimenti ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41: Tempo di pace ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42: Kucuk kiyamet ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43: Ricostruzioni ***
Capitolo 45: *** Capitolo 44: La minaccia ***
Capitolo 46: *** Capitolo 45: Il prezzo del passato ***
Capitolo 47: *** Capitolo 46: Sole d'inverno ***
Capitolo 48: *** Capitolo 47: Un vento freddo ***
Capitolo 49: *** Capitolo 48: Lettere ***
Capitolo 50: *** Capitolo 49: Fine della battaglia ***
Capitolo 51: *** Capitolo 50: Tutta la verità ***
Capitolo 52: *** Capitolo 51: Un canto nel silenzio ***
Capitolo 53: *** Capitolo 52: Aurora ***
Capitolo 54: *** Epilogo ***
Capitolo 55: *** Note finali ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Istanbul,

Rabî Al-Awwal 918
(Maggio 1512)
 

 
 
 
 
 
 





ombra violacea del crepuscolo ammantava il cimitero di Galata, contrastata solo dal chiarore delle fiaccole accese ai quattro angoli del tumulo.

Ezio Auditore, Mentore degli Assassini d’Italia, si era recato lì poco prima del tramonto, con l’intento di rendere un omaggio privato a Yusuf Tazim, Gran Maestro degli Assassini Ottomani, uomo di mente rapida, braccio esperto e lingua audace, un altro buon amico stritolato nella morsa di una lotta che pareva durare da sempre.

I pensieri del Mentore si erano fatti via via più cupi mentre la luce calava e l’appressarsi della notte spingeva la sua mente nei recessi di un’acuta tristezza. Sentiva su di sé tutto il peso di un viaggio che volgeva al termine, durante il quale aveva attraversato la vita come una freccia scagliata dall’arco delle sue scelte. Solo ieri era un ragazzo senza un pensiero al mondo e oggi era a un passo da una verità a cui tendeva con tutto sé stesso e che al medesimo tempo si sentiva restio a svelare.

Costantinopoli aveva esercitato su di lui un fascino così forte che l’idea di lasciarla già gliene faceva sentire il rimpianto, ma le chiavi della Biblioteca di Masyaf, un piombo nella sua scarsella, erano come l’ago di una bussola, e l’ago di una bussola non può che puntare il nord.

Era ormai buio quando udì uno scricchiolio di passi sulla ghiaia.

— Mentore. — disse una voce di donna alle sue spalle, un sussurro, quasi un chiedere scusa per aver interrotto il silenzio.

Ezio si voltò. La donna si teneva fuori dal cerchio di luce delle fiaccole, quasi non osasse entrare in uno spazio che quella luce separava da tutto il resto. Non si mosse finché lui non la invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano, e quando lo fece, Ezio non poté non notarne i passi esitanti, come oppressi da un’infinita stanchezza. Le fiaccole svelarono un viso di cui riconobbe la grazia, sebbene fosse coperto da una maschera di dolore: gli occhi gonfi sembravano aver pianto tutte le loro lacrime e le labbra erano strette nello sforzo di non cedere ad altri singhiozzi. I capelli scuri parevano un cespuglio di rovi e le sue spalle tremavano mentre con una mano tormentava l’orlo della fascia che portava in vita.

Ezio non ricordava di averla incontrata.

— Mentore, immaginavo di trovarti qui. Ti chiedo scusa per averti disturbato…— la sua voce si spezzò, come se il respiro le fosse mancato di colpo. — Mi chiamo Ràhel, sono… ero la compagna di Yusuf. —

Sono stato così distaccato e indifferente da indurre Yusuf a non parlarmi di lei?

— Non… sapevo che Yusuf avesse una compagna. — disse.

— Mi trovavo in missione al tuo arrivo in città. Sono rientrata solo dopo la tua partenza per la Cappadocia. — Vacillò e lui la sostenne.

— Spero potrai perdonare questa mia debolezza…— riprese lei con un filo di voce, tenendo gli occhi fissi a terra. Ezio le sollevò il viso con una mano.

— Guardami. — disse. — Non ho nulla da perdonarti. Credi che io non sia mai stato debole? —

— Tu sei un uomo. —

— E con questo? —

— Non potrai mai avere le debolezze di una donna. —

— Né tu potrai mai avere quelle di un uomo. —

Sembrò spiazzata da quell’affermazione e rimase in silenzio, come per riannodare i capi di qualcosa di cui avesse perso il filo. I suoi occhi si strinsero a ricacciare indietro le lacrime.

— Mentore…—

Ezio sospirò.

— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —

— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —

Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva  gli occhi di lei fissi sul suo viso.

— Perché mi cercavi? —

Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.

— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —

Ezio tornò a guardarla e si vide riflesso nell’incerto, fugace sorriso che compariva sulle sue labbra.

— Ti ascolto. —

Si sedettero nella luce delle fiaccole, sulla nuda terra.

Ormai era notte.

 

 

 

 

 

 





 

Nota delle autrici

Ci rendiamo conto di aver scelto un momento piuttosto complicato per iniziare a pubblicare questa storia. L’uscita di ACIII incombe e i primi esperimenti su Connor cominciano già a fare la loro comparsa... ma dopo tutto questo lavoro abbiamo deciso di correre il rischio. Qualcuno potrà anche dire che Revelations è il capitolo peggiore della serie, ma per quanto ci riguarda siamo state irrimediabilmente conquistate dall’aria di Istanbul, dall’atmosfera di ineluttabile conclusione e dalla figura di Yusuf Tazim. Come Ezio, siamo qui per rendere omaggio.

Alex e Finger


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: La banchina ***


Istanbul,

Rabî Al-Awwal 884
(estate 1479)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 








 

 

vrà avuto sì e no dodici anni. Seduto in fondo a una banchina, le gambe penzoloni, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento fra le mani, osservava il riflesso dei suoi piedi scalzi sull’acqua torbida e immobile del porto. I capelli neri, trattenuti da una fascia azzurra, gli si arricciavano intorno al viso dai tratti ancora infantili, ma gli occhi limpidi e vigili, quasi dell’identico colore della fascia, avevano un’espressione da piccolo adulto, sotto le sopracciglia aggrottate. Non aveva un aspetto florido, ma neanche patito e la casacca impolverata e strappata sulla schiena lasciava intravedere dei graffi freschi.

— Yusuf. — 

      Sobbalzò e portò d’istinto la mano al fianco, trovando solo il vuoto. Sul suo viso comparve un’espressione di profondo disappunto (aveva perso il suo pugnale quello stesso pomeriggio), sostituita un secondo dopo dal sollievo nel riconoscere la voce alle sue spalle. Si voltò con un sorriso insolente.

— So che sei molto coraggioso Dönek, direi troppo a venirmi così di soppiatto alle spalle. — 

— Ho corso un bel rischio, lo so. — disse l’altro ragazzo, che aveva un paio d’anni in più, alzando le mani nell’atto di chi si arrende e sedendosi accanto a lui.

— Che hai fatto? — domandò indicando lo strappo sulla casacca.

— Niente. — 

— Niente. — 

— Già, niente. Sono scivolato da una tettoia. — 

Sulla faccia di Dönek si dipinse un’espressione di esagerata costernazione.

— Tu? Sei scivolato, TU??!! E sei anche caduto magari! Non è possibile!! Oh, NO! Tu sei caduto? Nooooo! Che ne è del tuo prezioso sangue di Ass…—

— Piantala. — 

— …il tuo sangue si è annacquato! O forse tua madre ha…— Non poté finire la frase mentre finiva a capofitto nel porto. Quando riemerse, sputando acqua melmosa e con l’intento di ripagarlo con la stessa moneta, l’altro era in piedi sulla banchina, ormai fuori portata e lo fissava torvo.

— Chiedimi scusa. — disse Dönek tossendo.

— No. Tu devi chiedermi scusa. — 

— Te lo scordi. — 

Rimasero in silenzio per un po’, scambiandosi sguardi di fuoco: nessuno dei due aveva voglia di cedere il punto. Poi negli occhi di Yusuf, malgrado gli sforzi per trattenerlo, affiorò un sorriso e, notandolo, il  viso dell’altro cominciò a distendersi appena, quasi con cautela. Fece un paio di bracciate verso la banchina e si afferrò alle travi.

— Allora, mi dai una mano? — 

— Te lo scordi. — 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Complicità ***


Istanbul,

Rabî Ath-Thânî 884

(Luglio 1479)

 

 

 

 

 

 

 

 

 








 


 

uella borsa aveva un aspetto dannatamente appetitoso. Rivestita di broccato verde, si reggeva sulla spalla del suo nobile proprietario grazie a due sottili cordicelle dorate; era grande quanto il suo cappello e dal modo con cui gli cadeva sul fianco Yusuf era pronto a scommettere che pesasse più della sua testa. Si disse che con tanto denaro avrebbe potuto svaligiare il fırıncı (fornaio) di quartiere e mangiare simit (dolce tipico, a base di sesamo e miele) fino allo svenimento. Lo stomaco gli mandò un segnale inequivocabile e con una smorfia contrariata il ragazzo pensò alla colazione abbondante che Imran gli aveva messo davanti neanche un’ora prima.

Terminata la preghiera, i nobili si erano riversati come un gregge belante nel portico esterno della piccola Santa Sofia. Yusuf si aggiustò meglio nell’ombra della colonna che lo separava dal cortile e fissò a lungo il nobiluomo che aveva puntato. Questi s’intrattenne scherzosamente con alcuni amici e poi si attardò a discutere con un soldato che portava il tipico copricapo pennato da Giannizzero di prim’ordine. Yusuf aveva imparato da poco a distinguere i ranghi tra le fila dell’Impero e solo perché Dönek aveva detto che gli sarebbe tornato utile; ma un pezzo grosso come Qays Bin Husn lo conoscevano anche i lattanti.

Il Gran Giannizzero era scortato da altri quattro rappresentati dell’arma Imperiale più il giovanissimo Murat, che, solo undicenne e da poche settimane, era entrato come ajami (recluta) nell’orta (L’equivalente di un reggimento militare) del fratello maggiore Qays. Addobbato come un principino, l’armatura lo faceva sembrare il doppio di quello che era, autorizzando il passerotto ad atteggiarsi falcone.

Yusuf distolse lo sguardo dal giovane Murat e tornò a studiare scrupolosamente il resto della sorveglianza, sparpagliata nel portico ma abbastanza lontana dal suo punto d’interesse perché gli fosse permesso di agire indisturbato: sarebbe sgattaiolato tra quei grassi gatti da salotto come un piccolo uccellino, approfittando della confusione per arrivare alla borsa e infilarci la mano senza essere visto. Dopodiché sarebbe uscito dall’edificio esattamente come vi era entrato…

 

Atterrò con un gemito nel piccolo cimitero, ruzzolando nell’erba e sbattendo il fianco contro una lapide che si ritrovò poi in mezzo alle gambe. Nella caduta si era graffiato le ginocchia e i gomiti.

Onu yakalar oğlan! (“Catturate quel ragazzino!”) — era una frase che conosceva fin troppo bene.

Yusuf era arrivato solo a sfiorare coi polpastrelli il sontuoso velluto interno della borsa. Gli occhi vispi di Murat lo avevano colto letteralmente con le mani nel sacco e il giovane Bin Husn aveva dato l’allarme, gridando per richiamare l’attenzione del fratello e degli altri Giannizzeri.

Nel portico era scoppiato un gran caos, ma Yusuf aveva estratto prontamente il pugnale e reciso di netto le cordicelle dorate che assicuravano la borsa al suo proprietario, che era balzato in avanti con un grido semplificandogli la manovra. Dopodiché si era arrampicato sul colonnato come una scimmia, mentre alle sue spalle aveva immaginato una dozzina di armi da fuoco puntate su di lui. Era stato Qays a sparare il primo colpo, che aveva fatto saltare una tegola vicino alla sua caviglia, dando a Yusuf l’urgenza di buttarsi, alla cieca, dal tetto dal portico.

Nel violento atterraggio aveva perso la borsa, che aveva volteggiato in aria e riversato il suo contenuto sul prato del cimitero, a pochi passi da lui.

Yusuf imprecò.

Aveva rischiato la vita per una copia del Corano, aperto dove il segnalibro di stoffa era volato via, altri testi dalle copertine spesse come pelli animali e vari ammennicoli. Con lo stomaco che gli vorticava per l’amarezza, afferrò quello che ricordava vagamente un piccolo portamonete e lasciò il cimitero di corsa.

 

 

 

— Perché ci hai messo tanto? — gli domandò Dönek quando vide la sua ombra allungarsi accanto alla propria.

Yusuf si lasciò cadere prima seduto e poi completamente sdraiato sulla banchina. — Lascia stare, — sospirò stremato.

Dönek lo colpì sul fianco con una gomitata.

— Ahi! — sbraitò Yusuf rispondendogli con una ginocchiata.

— Ma se ti ho appena toccato. —

— Sì, ma mi faceva già male! —

— E io che ne so se non me lo dici? —

Yusuf sbuffò e si tirò su, ma solo perché il legno arroventato dai raggi del sole aveva cominciato a fargli sudare la schiena. — Ho borseggiato uno alla Piccola Santa Sofia. —

— Hai aspettato la fine della preghiera? — gli chiese Dönek senza mostrare un grande interesse. Aveva già capito che come minimo Yusuf si era fatto beccare di nuovo.

Il più giovane annuì. — C’erano tanti di quei ricconi… ti saresti divertito, — disse facendosi ombra sugli occhi per guardarlo in faccia, ma Dönek non gli rispose e sembrò meditare.

— La prossima volta assicurati che Qays Bin Husn sia dall’altra parte della città. —

Yusuf spalancò la bocca dimenticandola aperta. — Come lo sai? —

— C’è una cosa che si chiama origliare, Yusuf, e lo fanno tutti i bravi ladri a cui non piace improvvisare, — disse Dönek con quell’aria da saputello che lo imbestialiva.

Yusuf incrociò le braccia e sbuffò ancora. Poi, e sperando che l’altro non lo sentisse, borbottò a bassa voce: — Comunque è stato Murat a vedermi. Ha avvertito lui le altre guardie e io sono scappato sul tetto. Mi hanno sparato e sono dovuto saltare nel cimitero… —

Dönek scoppiò in una fragorosa risata. — Aspetta, hai detto Murat? Ma chi, il bambizzero? Davvero, Yusuf, non la pianti mai di sorprendermi! Ahahah! —

Mentre quello se la rideva di gusto, Yusuf tratteneva a stento l’istinto di spingerlo in acqua.

— La borsa però sono riuscita a prenderla. —

Dönek tornò improvvisamente serio e i due si fissarono.

— Fa’ vedere. —

Adesso sembra molto interessato, pensò Yusuf con una smorfia. — Dentro c’erano solo libri, cianfrusaglie e… —

Dönek fece un’espressione contrariata. — Che libri? Si possono sempre rivendere, — disse interrompendolo.

Un attimo di silenzio.

— E le cianfrusaglie? — chiese poi.

Yusuf si strinse nelle spalle e scosse la testa.

— Tutto qui? — Dönek si avvicinò. — Passi sotto al naso di Qays Bin Husn rischiando la vita e questo è tutto quello che rubi? Ma dove ho sbagliato? — sospirò lasciandosi cadere sulla banchina. — Se avessi io la tua stazza… Quanto talento sprecato… —

— E questi, — concluse Yusuf.

Dönek si tirò su di colpo, mentre Yusuf riversava il contenuto del piccolo portamonete sulla propria mano.

— …dadi? — mormorò Dönek, scambiando con l’altro un’occhiata perplessa.

— Sì, dadi… — ripeté Yusuf. In faccia avevano la stessa delusione, ma quella di Dönek mutò rapidamente in qualcosa che somigliava alla curiosità.

— Dei signori dadi, — disse prendendoli dalla sua mano e Yusuf lo lasciò fare.

Dönek se li rigirò tra le dita e poco dopo, con una scrollata di capelli, disse: — Sono truccati. —

— Truccati? Che significa? — chiese Yusuf.

Ma quello non rispose. Si voltò dando le spalle al Corno d’Oro e, inginocchiandosi, lanciò i dadi sulla banchina. Le pietruzze color rosso d’alizarina cozzarono sulle assi e si fermarono dopo pochi balzi, vicino alle ginocchia del ragazzo. Yusuf contò i puntini sulle dita di una mano e dell’altra ma non arrivò a farne la somma perché Dönek riprese i dadi con sé. Li tirò ancora, e ancora una volta Yusuf provò a contare il risultato, ma Dönek fu più svelto. Il gesto di prendere e lanciare i dati divenne spasmodico, sul volto di Dönek si delineava un sorriso malato. Alla fine di un ultimo lancio il ragazzo catturò i dadi tra le mani e rimase immobile.

— Siamo ricchi… — mormorò.

Yusuf, già spazientito, sbuffò e si alzò in piedi. — Sono degli stupidi dadi, Dönek. —

Il ragazzo più grande lo afferrò per il pantalone e lo tirò di nuovo giù, seduto al suo fianco. Si guardò attorno e poi, trattenendo Yusuf vicino a sé, aprì la mano e gli mise i dadi sotto al naso.

— Conta, avanti. —

Imbarazzato, Yusuf rispose dopo un tempo troppo lungo: — Undici. —

— Bravo, ora conta di nuovo. —

Dönek scosse un po’ il palmo e i dadi saltellarono tra le sue dita.

— Quattro. —

— Ancora. —

— Undici. —

— Di nuovo, dai! —

Yusuf gonfiò il labbro superiore, perplesso.

— Undici. —

Dönek gli sorrise. — E adesso? —

— Undici! — gridò Yusuf, voltandosi a guardare l’amico e dimenticando aperta la bocca.

— Questi dadi sono stati truccati per un gioco che si chiama Azzahr Asil, l’azzardo nobile, — cominciò Dönek accarezzandoli col pollice. — Il gioco è molto semplice e anche molto veloce, fatto per le scommesse rapide che piacciono tanto ai nobili, appunto. Scegli un numero da due a dodici e lanci i dadi. Se il tuo numero esce prima di quello che ha scelto il tuo sfidante, hai vinto. —

— Ma cosa hanno di diverso da tutti gli altri dadi? E perché esce sempre l’undici? —

— Dentro questi dadi è stata scavata una piccola camera d’aria che compromette l’equilibrio tra le facce in ogni lancio, e così aumenta la probabilità che esca un numero piuttosto che un altro! A quanto pare l’undici è quel numero, ma non esce sempre e l’hai notato. Sono stati truccati volutamente in questo modo un po’ imperfetto per, paradosso dei paradossi, sabotare il trucco. Se l’undici uscisse sempre o al primo colpo qualcuno s’insospettirebbe. Invece così possono sembrare dadi normali per una media di ben… — contorcendo il viso in una smorfia fece un rapido calcolo.

— Quattro mani, — dichiarò in fine.

— Non capisco. —

— Non importa. Ora vieni. — Dönek si alzò sollevandolo di peso e, senza mollargli i pantaloni, lo costrinse a seguirlo.

— Dove stiamo andando? — chiese Yusuf quando furono in strada. Si liberò con uno strattone prima che la foga dell’altro lo facesse inciampare e sbucciare qualcos'altro.

— Fidati di me, — rispose Dönek lanciandogli un’occhiata.

Yusuf conosceva quello sguardo.

Dönek aveva di nuovo lo sguardo del gatto che andava a mangiare nella ciotola del cane.

 

 

 

Nel 1454 l’Impero Ottomano e la Persia Sefavide si erano spartiti il piccolo entroterra dell’Armenia. In quell’anno il Sultano Maometto II aveva invitato la comunità a stabilire un patriarcato nella capitale e così, sul confine tra il Distretto storico di Faith e quello rurale di Bağcılar, era nato il quartiere armeno: Samatya. 

Col passare del tempo le imposizioni dell’Impero sulle minoranze si erano fatte più incisive e questo aveva portato ad uno scisma all’interno della stessa comunità: attorno al Sulu Monastiri, un antico complesso monastico greco dove si era instaurato il patriarcato, la popolazione era dimagrita riducendosi ad un’élite di politici e religiosi. In periferia, nella zona litorale che affacciava sul Mar di Marmara, invece, aveva stagnato negli anni la povera gente. Qui si trovavano il trafficato porto dei pescatori e l’allegro mercato del pesce, ma vi si rifugiavano volentieri evasori, ladri e criminali d’ogni sorta.

Ovviamente Yusuf tutto questo non poteva saperlo, e le strade di Samatya, alla luce del sole, gli sembrarono vivaci come il Gran Bazar. Camminava stretto al fianco di Dönek, faticando per tenere il passo delle sue gambe lunghe, e si guardava attorno con gli occhi grandi e le orecchie intasate dalla confusione di suoni. La lingua di cui coglieva solo tante parole confuse era ridondante e piena di consonanti sdrucciolevoli. Nell’aria c’era l’odore penetrante e un po’ dolciastro di una qualche spezia sconosciuta. I vestiti degli uomini erano lunghi come quelli delle donne, colorati di bianco e rosso o verde o blu. La maggior parte degli adulti aveva il capo scoperto, ma alcuni, notò Yusuf con una risatina, portavano cappelli buffi come il fornaio del suo quartiere.

Si erano lasciati alle spalle l’area cittadina e i bei vestiti per addentrarsi in una zona dalle case arroccate, che imitava molto l’ambiente attorno al Foro di Arcadio, nel quartiere di Costantino. Quando raggiunsero il grande mercato, dopo quasi un’ora di cammino serrato, sopraggiunse la puzza nauseabonda di pesce. Si addentrarono nel labirinto di bancarelle prendendo quelle che Dönek dava l’idea di conoscere come vantaggiose scorciatoie, ma più di una volta sbucarono nel retrobottega di qualche pescatore che, scambiandoli per ladri, impugnava il coltellaccio da pesce e li scacciava con insulti che capiva solo lui.

Yusuf si fermò di colpo. — Ma quello è il Marmara Deniz (Mar di Marmara)! — eruppe, decifrando la striscia azzurra sopra i tetti delle casupole, e capì che i piedi gli facevano male perché senza accorgersene avevano attraversato mezza città.

Dönek tornò indietro e lo afferrò per il braccio, tirandoselo addosso. — Non abbiamo tutto il giorno, stupido! Il posto è lontano e tu devi tornare a casa prima che faccia buio. —

Yusuf si liberò con uno strattone e piantò i talloni a terra. — E io che ne so se non me lo dici? — sbottò facendogli il verso.

Il ragazzo irrigidì la mascella. — Cammina, o ti lascio qui. —

Yusuf allungò la mano. — Se vuoi andare da qualche parte allora ci vai senza i miei dadi, — disse. Alla faccia perplessa dell’altro rispose: — Sai com’è, le chiappe erano le mie a Santa Sofia. —

Dönek alzò gli occhi al cielo. — Non fare il bambino, Yusuf! —

— No, infatti, sono serio! Serio come un adulto. Ridammeli. — Le quattro dita della mano tesa si chiusero più volte.

— Scordatelo. —

— Ridammeli! —

— Vieni a prenderli. —

E fu la guerra.

 

Si rotolarono sul terriccio ciottoloso del mercato per lungo tempo, menandosi e mordendosi senza che nessuno intervenisse. Anzi: i venditori di pesce si stendevano sui banconi per assistere alla scena e ridevano così forte da far tremare tutta la bancarella. La gente si fermava ai lati della strada e i bambini gridavano incitando le scommesse, giocandosi i denti da latte sul vincitore.

La foga della lotta aveva infastidito un gruppo di religiosi, che come si accorsero di loro interruppero subito lo spettacolo. Ci vollero due uomini per separarli.

La pelle e il sangue di uno nelle unghie o sulle nocche dell’altro. Avevano i vestiti e i capelli pieni di polvere; lividi, morsi e sbucciature ovunque.

Kokmuş katır (mulo puzzolente)! — sbraitò Yusuf scalciando, ma la presa del religioso sulle sue braccia era salda come la mascella di un cane con un osso in bocca e faceva dannatamente male.

Aptal maymun (stupida scimmia)!  — ringhiò Dönek in risposta, sputando a terra subito dopo.

Erano i loro soprannomi, ormai.

Si fissarono l’un l’altro col fiato grosso, grondanti di sudore, e sembrò che si fossero tranquillizzati, ma all’improvviso, tra le risate dei religiosi e del pubblico, Dönek cominciò a dimenarsi come un ossesso per guadagnarsi la libertà. Le pupille nere grandi come ciottoli, bianco come se avesse visto un fantasma. Quando il religioso lo lasciò con un’imprecazione, non riuscendo più a trattenerlo, il ragazzo ruzzolò a terra e poi scappò via di corsa, aprendosi un varco nella polvere e nella folla.

Yusuf lo guardò sparire dietro le bancarelle e solo allora i lividi cominciarono a fare davvero male. Il religioso alle sue spalle lo rimise in piedi e mentre gli scompigliava i capelli disse qualcosa di divertente in una strana lingua, rivolgendosi ai compagni. Poi gli diede una pacca sul sedere e Yusuf scappò come un puledrino.

 

Ora che Dönek lo aveva abbandonato a se stesso, in una zona della città a lui completamente estranea, Yusuf cominciava ad avere paura. Aveva corso molto, con gli occhi gonfi e arrossati dalle lacrime che il caldo si era portato subito via, e finché i piedi non avevano cominciato a pulsargli dentro le scarpe di canapa. Aveva trovato un posticino appartato, nell’ombra di una baracca sulla spiaggia, e ne aveva fatto la sua tana, dove riposare e leccarsi un po’ di ferite.

Neanche un’ora dopo Dönek ricomparve e lo trovò che si succhiava il mignolo dentro un vecchio scafo.

Quando lo vide, Yusuf si levò lentamente il dito di bocca con aria pentita.

— Ti ho rotto un’unghia? — chiese il ragazzo.

Yusuf annuì e tirò su col naso. — Sei un bastardo… —

Dönek si massaggiò la spalla scoperta, dove una testata dell’altro aveva fatto sbocciare un livido grande quanto un garofano. — Non possiamo andare in quel posto conciati così. Ti riaccompagno indietro, — disse.

Yusuf si alzò e zoppicò verso di lui. — Sei lo stesso un bastardo… — mormorò superandolo.

Mentre s’incamminavano Dönek lo prese sottobraccio.

— Mi fai male, — obbiettò Yusuf con una smorfia.

Quello si scansò. — Scusa. —

 

 

 

A sua madre non piaceva vederlo con addosso tutti quei tagli. Forse l’annoiava doverglieli pulire tutte le volte e sempre gli stessi negli stessi punti, ma solo perché Yusuf si divertiva da matti a grattare via le crosticine. Guardava il sangue formare una bolla, la schiacciava con il dito e, per nascondere il misfatto, dava una leccatina.

Ma quella sera, quando Imran finì di strofinargli la schiena e lavargli i capelli, Yusuf ebbe a mala pena la forza di fare le scale e sdraiarsi a letto. Sua madre salì a portargli la cena in camera, ma si fermò sulla soglia con la scodella tra le mani. Poco dopo entrò senza produrre alcun rumore e sistemò le imposte in modo tale che trapelasse un po’ della frescura notturna. Lasciò un bacio sulla fronte del figlio e spense il lume.

 

La mattina seguente, e per la prima volta dopo tempo immemorabile, Yusuf si svegliò molto tardi.

Negli ultimi minuti di dormiveglia fece una lotta estenuante con il lenzuolo, che non ne voleva sapere di sgrovigliarglisi dalle caviglie, mentre il caldo lo trascinava via dal piacevole torpore del sonno. Spazientito al massimo, sedé di colpo sul letto con gli occhi ancora chiusi e i capelli tutti arruffati e umidicci. Non era neanche uscito di casa e già puzzava di sudore.

Imprecando, piantò i talloni a terra e andò a chiudere la finestra nell’abbaino che sua madre doveva aver dimenticato aperta quand’era passata di lì. Lasciandolo dormire, Imran era salita nella sua soffitta solo per mettergli degli abiti puliti in cima alla cesta. Yusuf si spogliò gettando a terra quelli sporchi e si rivestì con calma; dopodiché lasciò la sua stanza.

Una volta in cucina, alla ricerca disperata di qualcosa da mettere sotto i denti, trovò un biglietto proprio nella prima dispensa dove aveva infilato il naso. Era di sua madre, che si burlava di lui per essere così ingordo e prevedibile. Poi gli chiedeva di raggiungerla al Gran Bazar con il traghetto e portarle i due yaprak dolma (involtini di riso) che aveva preparato quella mattina e lasciato in caldo nel fagotto accanto al forno. Avrebbero pranzato insieme, come al solito.

Leggendo l’ultima riga Yusuf immaginò la sua voce:
 

Benim için küçük savaşçı bal ısıtmak simit,

anne

(“Un simit caldo al miele per il mio piccolo guerriero,

mamma”)

Il ragazzo prese il fagotto del pranzo in una sacca e volò in strada come una cavalletta, cominciando a sentire profumo di sesamo e miele già due passi dopo la porta.

 

 

 

— Con tutti i simit che ti mangi comincio a pensare che tua madre l’abbia comprato, il fornaio! —

Anche quel giorno Talip era di buon umore. Il vecchio traghettatore era un uomo simpatico, che aveva una battuta nuova ad ogni traversata e diversa per tutti i suoi avventori. Ma Yusuf non era un cliente qualunque: lui e Imran prendevano il suo traghetto tutte le mattine per attraversare il Corno d’Oro e raggiungere il quartiere Imperiale, dove la donna lavorava. Avevano instaurato una bella amicizia che andava avanti da quando la famiglia si era trasferita a Costantinopoli qualche anno prima. Yusuf aveva sperato fino all’ultimo di trovarlo alla banchina di Galata, altrimenti avrebbe dovuto noleggiare la barca di uno sconosciuto.

Con la bocca piena di pasta di grano, Yusuf gli diede il buongiorno e pagò il tributo, saltando a bordo e sistemandosi agilmente tra i banchi. Si mise la borsa col pranzo sulle ginocchia e diede un altro morso al simit.

— Se continui così non potrò più caricarti, Yusuf, o affonderemo, — lo canzonò Talip. Appoggiò il remo alla banchina per fare leva e la barchetta prese il largo.

— Allora è un miracolo se non siamo già affondati, — rispose il giovane lottando con un filone di miele.

Talip si accarezzò il pancione da birra, così grosso che Yusuf ci sarebbe entrato due volte. — Io sono vecchio, ma soprattutto sposato da trent’anni. —

— Hai figli, Talip? — chiese tra un morso e l’altro.

— No. —

Il ragazzo inghiottì e poi alzò gli occhi per guardarlo. — Perché? —

L’uomo remava fissando un punto indistinto tra le mura del Topkapi, arroccato come una fortezza sulla punta più esposta della costa opposta. — La mia famiglia è tributaria, Yusuf, e se avessi dei figli l’Impero verrebbe a prenderli per farli combattere nel suo esercito. —

Ora Yusuf masticava con più calma.

Con un sorriso tutto nuovo Talip indicò la sacca sulle sue ginocchia.

Yaprak dolma, — disse Yusuf. — Ne vuoi uno? Tanto a me non piacciono. —

— Sicuro che Imran non si arrabbierà? —

Yusuf si strinse nelle spalle. — Nella tua pancia o qui fuori, affondiamo comunque. —

— Hai il senso dell’umorismo di tua madre. Dammi qua: morivo di fame. —

 

Il proprietario della sartoria non gli era mai piaciuto, e uno dei tanti motivi era che trattava sua madre come una stupida. Nonostante lavorasse per lui da tempo immemore col massimo dell’efficienza, le dava gli ordini col tono di un addomesticatore di scimmie e le riservava i compiti più umili e banali. Quando l’acquisto o la vendita di qualche stoffa richiedeva dei conti difficili, arrotondava le cifre sgangherando il prezzo, e questo creava inevitabilmente una clientela magra e amareggiata. Era perciò un pessimo commerciante senza il minimo senso pratico, e non un uomo cattivo, ma terribilmente frustrato da un lavoro che non lo soddisfaceva.

Quella volta Yusuf entrò nella bottega senza salutarlo e la cosa lo fece imbestialire.

Al termine di una lunga litigata con sua madre, l’uomo si liberò del proprio cappello da sarto e lo mise in testa a Yusuf, che Imran teneva di fronte a sé con due mani sulle spalle. Dopodiché lasciò la bottega quasi correndo, probabilmente per non tornarci mai più.

 

— Mi dispiace per quello che è successo, mamma. —

Imran sospirò e strinse più forte la sua mano, mentre camminavano nella confusione del Gran Bazar. — Kadir bey (suffisso cerimoniale riconosciuto dal Sultano) era un uomo molto triste, e solo perché ha sempre lavorato troppo. Ora avrà il tempo di vivere un po’ e trovarsi una donna che lo sopporti. —

Yusuf si grattò la testa pensieroso. — Quindi adesso la bottega è tua? —

Imran annuì. — E tu dovrai darmi una mano. —

— Mamma! —

— Hai portato il pranzo? —

Lui annuì. — Ma ho dato il mio involtino a Talip. Perché continui a farli? Lo sai che non mi piacciono e quando li fai impuzzolisci tutta la casa, — si lamentò storcendo il naso. — Hai pure dimenticato la finestra aperta.‘Sta notte è bravo chi riesce a prendere sonno… — borbottò.

Imran si fermò a leggere il prezzo di alcune spezie. — Rischiavi di dormire troppo. —

— Certo, ero stanco! —

— E come mai? — chiese con tranquillità.

Yusuf tacque. Doveva aspettarselo.

Mentre attendeva una risposta, che tardò ad arrivare, la donna acquistò del curry e dello zahtar.

— Ero con un amico. —

Imran mise le spezie nella sacca di Yusuf e poi prese nuovamente il figlio per mano. — Davvero? Perché non me lo fai conoscere una volta? Come si chiama? —

Yusuf si torturava un lembo dei pantaloni. — È timido, non penso che l’idea gli piacerebbe. — 

— Tu sii gentile e invitalo a casa nostra; lascia che sia lui a decidere. —

— D’accordo, ma solo se prometti che non cucinerai mai più i yaprak dolma! —

Trascorsero il pomeriggio al porto di Neorion, nel quartiere Imperiale. Imran mangiò il suo involtino e al tramonto Talip li riaccompagnò a Galata. Quando attraccarono alla banchina l’uomo l’aiutò a scendere e si complimentò con sua madre per l’ottima cucina. Arrivarono a casa e Imran accese subito il fuoco per la cena: quella donna non poteva stare senza far nulla.

Yusuf salì di corsa nella sua soffitta e spalancò la finestra nell’abbaino. Si affacciò in strada e una folata rinfrescante di vento serale gli scompigliò i capelli.

Un ragazzo poco più grande di lui passò lì sotto in corsa.

Nazim kokmak (Nazim puzza)! — urlò Yusuf, riconoscendolo.

Sizin kıçını (il tuo sedere)! — rispose il figlio del fabbro e scomparve dietro l’angolo.

Yusuf si sistemò più comodo e aspettò. D’un tratto vide passare una signora anziana avvolta in un lungo burqa azzurro. Fece una perfetta imitazione del verso della gallina e si nascose. La donna si fermò per guardarsi intorno, ma prima che potesse riprendere il suo cammino Yusuf chiocciò di nuovo e di nuovo la vecchiarda si guardò intorno.

Dalla cucina sua madre gli gridò di smetterla. — Altrimenti ti metto in pentola! — aggiunse.

Il ragazzo sbuffò e accostò la finestra.

 

Dopo cena Yusuf si sistemò tra i cuscini del piccolo salotto e iniziò a leggere Il secondo viaggio di Sinbad il Marinaio facendo compagnia a sua madre. Imran finì di pulire i piatti, gli scoccò un bacio sulla testa e poi sedette accanto a lui per aggiustare i conti della bottega.

Quando Simbad arrivò nella valle dei serpenti giganti e un Roc (figura mitologica medio-orientale molto ricorrente, simile ad una grande aquila) oscurò il sole, qualcuno bussò alla porta.

Il ragazzo non mosse un muscolo: era in guerra con se stesso perché leggere quegli stupidi racconti stava cominciando a piacergli e voleva sapere che diavolo si sarebbe inventato ‘sta volta quel Sinbad per sfuggire agli artigli di una colossale aquila gigante…

Imran si alzò e quando la porta fu aperta qualcuno irruppe nella casa, abbracciandola e sollevandola da terra.

Yusuf sbirciò da sopra le pagine: era suo padre, o almeno l’uomo che diceva di esserlo.

 

Si chiamava Yalìm e non sapeva altro di lui; a parte, forse, che faceva un lavoro molto strano che lo teneva molto impegnato. Era un assassino nel senso buono del termine: apparteneva cioè ad un gruppo di uomini e donne che combattevano per la libertà della gente. Era perciò una specie di guerriero, perché aveva l’abitudine di sparpagliare per casa le sue armi con la scusa di doverle usare all’improvviso se qualcuno avesse saputo che viveva lì.

Già, ma Yalìm non viveva lì. Yusuf e sua madre vivevano lì. Quell’uomo non si svegliava la mattina accanto alla sua donna e non faceva colazione con loro. Non aiutava la mamma con la spesa e non sbatteva i cuscini dalla polvere. Non lasciava i simit al miele già pagati dal fornaio per suo figlio, non li accompagnava dall’altra parte del Corno d’Oro e probabilmente non conosceva Talip. Yalìm era perciò un ospite, per il quale bisognava aggiungere un po’ di riso in pentola o togliere il letto quando se ne andava.

E tutte le volte se ne andava allo stesso modo.

Yalìm posò la mamma dopo averla baciata almeno una dozzina di volte e fatta volteggiare tra le sue braccia fino al capogiro. Solo allora lo notò.

— Yusuf! — 

Venne verso di lui e s’inginocchiò sui cuscini, scompigliandogli i capelli. Sbirciando tra le righe esultò: — Ah, Sinbad! Era il mio preferito quando avevo la tua età. —

Yusuf ammiccò e finse di continuare a leggere.

— Hai fame, Yalìm? — chiese Imran avviandosi in cucina.

L’uomo si alzò e andò verso di lei. — Ti ringrazio, aşkım (amore), ma sono solo passato a salutare il piccolo. Domani all’alba parto con gli altri. — Le cinse la vita e appoggiò la fronte contro la sua.

Lo sguardo di sua madre diceva: e a me non saluti?

Yusuf chiuse il libro e augurando la buonanotte salì nella sua stanza.

Sì, mamma: ora ti saluta.

 

Quella notte Yusuf non fu capace di prendere sonno e fissò tutto il tempo il muro contro il suo letto.

Non solo per colpa di Yalìm non era riuscito a sapere come se la sarebbe cavata Sinbad, ma la sua comparsa lo aveva anche costretto ad andare a letto vergognosamente presto. Inoltre sua madre non era riuscita a finire i conti importanti per la bottega che aveva “ereditato”, quindi l’indomani sarebbe stata carica di lavoro e questo l’avrebbe sfinita.

D’un tratto la porta si socchiuse con un cigolio e Yusuf si paralizzò, trattenendo anche il respiro. Poco dopo sentì il peso di un corpo incredibilmente caldo e massiccio affossare il materasso del letto e sdraiarsi dietro di lui, avvolgendolo.

— Lo so che sei sveglio. —

Il ragazzo rimase immobile.

— Se la prossima volta vuoi imbrogliarmi ricordarti che solo i morti non respirano. —

Yusuf buttò fuori l’aria come se stesse sbuffando. — La mamma dorme? — domandò premendo il naso sulla parete, della quale poteva quasi distinguere le venuzze.

Evet (esatto). — Il fiato dell’uomo gli riscaldava la nuca.

— Di già? — si stupì Yusuf.

— Era molto stanca, — disse Yalìm con uno strano sorriso. — Tu sai perché? — gli chiese.

— Oggi ha litigato con il proprietario della sartoria. —

— Le ha fatto del male? —

— No, si è arrabbiato per una cosa stupida… —

Lui sospirò. — L’avevo avvertita che quell’uomo era fuori di testa. —

— Però è stato gentile, mi ha regalato il suo cappello. —

— Davvero? —

— E alla mamma ha regalato tutta la bottega. —

— Non ci credo. —

— Yalìm? —

— Dimmi. —

— Sinbad come uccide il Roc? —

Lui si prese un secondo per riflettere. — Stavi leggendo il secondo viaggio, giusto? Vediamo se mi ricordo… Non lo uccide, fa una cosa molto più astuta. I Roc scendono nella valle per prendere il cibo da portare ai loro nidi, che sono fatti di diamanti. Sinbad si fa catturare e condurre fino al suo nido, dove racimola tutto quello che può, e alla fine si fa salvare dai suoi uomini. Non dire alla mamma che te l’ho detto. —

Yusuf soffocò una risata. — D’accordo. —

Nel silenzio sentirono dei passi leggerissimi sulle scale. Poi la porta si aprì.

Imran lo chiamò e Yalìm si alzò dal letto per raggiungerla.

— Sono qui fuori. Dicono che dovete partire subito, — sussurrò lei.

— Saad… Perdonalo, è fatto così. — L’uomo la baciò in fronte. — Ora torna a dormire, ci rivedremo presto. —

Baba (papà)! — Yusuf si sollevò di colpo.

— Cosa c’è, Yusuf? — domandò Yalìm.

Imran gli strinse la mano.

Il ragazzo esitò. — Conosci Talip? —

L’uomo scosse la testa, smarrito. — No, non lo conosco. —

Mentre scendevano le scale Yusuf lo sentì chiedere a Imran chi fosse questo Talip. Se sua madre diede a Yalìm una risposta, il ragazzo non riuscì a coglierla. Quindi volò fuori dalle coperte e si affacciò alla finestra. Vide due uomini in strada e uno sul tetto proprio di fronte al suo abbaino. Il cappuccio a becco d’aquila si voltò d’un tratto verso di lui e Yusuf si nascose dietro l’imposta della finestra, continuando a tenere il gruppo sott’occhio.

Yalìm comparve sull’ingresso e si unì agli altri Assassini, calandosi il cappuccio sulla testa, senza proferire parola. Poi la notte fece di tutti e quattro un sol boccone. 

 

 

 

 



 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Vecchie conoscenze ***


Istanbul,
 

Ath-Thânî 884

(fine di agosto 1479)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









 

e voci girarono e in poco tempo tutto il Gran Bazar seppe che la bottega di Kadir era passata nelle mani di sua madre. Yusuf si dava un gran da fare per aiutarla e Imran era molto fiera di lui. Esageratamente servizievole con i clienti a tal punto da strappare qualche risata, trovò il pane per i suoi denti.

— Come starà il tuo amico? — gli chiese Imran una mattina. — È tanto che non lo vedi. —

Yusuf era seduto in cima ad una pila di vecchi campioni di bisso e stava leggendo un altro volume dei viaggi di Sinbad, mentre lei finiva di catalogare le nuove stoffe arrivate dall’Italia su un grosso registro. Era ancora molto presto e nel Gran Bazar c’era un silenzio innaturale, mistico. Le litanie religiose attraversavano la città come un sottofondo musicale.

Yusuf sollevò il naso dalle pagine e vide Imran sorridergli appoggiata al bancone con un gomito. Alle sue spalle, di fronte alla loro bottega, il vasaio si era arrampicato su una scaletta e aggiustava la rete di cordame che teneva la sua mercanzia in bella mostra, appesa alle volte.

— Perché non vai a trovarlo? —

Yusuf la fissò a lungo, inebetito. — Ora? —

Lei annuì.

— Ma mamma, il signor Jaabir oggi porta il suo pappagallo! Me l’ha promesso. —

— Il signor Jaabir Ferzan passerà per ritirare il suo ceket (giacchetto) lungo solo domani pomeriggio, perché stamattina doveva accompagnare la madre al cimitero; l’ha lasciato detto al vasaio quando ieri abbiamo chiuso prima. —

Yusuf scivolò giù dalla sua torre di stoffe. — E non vuoi che ti aiuti? —

Lei prese un respiro profondo. — Mi fa ancora male la testa e anche oggi voglio chiudere prima di pranzo, quindi hai il pomeriggio libero, — disse accarezzandogli una guancia. — È una giornata tranquilla, puoi andare adesso, se vuoi. — Gli diede un paio di monete per comprarsi qualcosa da mettere sotto i denti e disse che lo avrebbe aspettato a casa per cena.

Lui non sembrava molto entusiasta, ma accettò, ringraziandola. Le porse il libro e lasciò la bottega.

 

Dönek si era tenuto i suoi dadi, ma dopo l’episodio nel distretto degli Armeni Yusuf avrebbe preferito mollarglieli. I guai non gli dispiacevano perché riusciva sempre a tirarsene fuori, ma il modo con cui Dönek l’aveva abbandonato tra quei religiosi gli aveva lasciato l’amaro in bocca. E se non fosse tornato indietro a cercarlo, Yusuf ci sarebbe morto dietro quella baracca sulla spiaggia.

Arrivò alla banchina e non fu sorpreso di trovarla deserta. Quindi la percorse fino all’ultima asse e scacciò due gabbanelle che si erano piazzate lì a prendere un po’ di sole. Sedette a gambe incrociate e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, fissando il suo riflesso nell’acqua crepato dalle correnti impercettibili.

Sapeva che stava solo sprecando tempo. Erano giorni che mancava il loro appuntamento su quella banchina e non si aspettava certo che Dönek venisse a cercarlo proprio oggi. Ma ormai che era arrivato fin lì non aveva voglia di tornare indietro.

Ben presto il caldo si fece insopportabile e Yusuf decise di togliersi le scarpe di canapa per rinfrescarsi i piedi nell’acqua. Distese le gambe fino allo spasimo ma, con la bassa marea, non arrivava neanche ad intingere l’alluce.

Una spinta sulla schiena lo mandò in acqua di faccia. 

Quando riemerse Dönek lo guardava con le braccia conserte, in piedi al suo posto, con un ghigno tra il divertimento e la soddisfazione.

Aveva avuto la sua vendetta.

 

— Ti ho visto con una donna al porto, qualche giorno fa. Era tua madre? —

Yusuf finì di strizzare la fascia che aveva l’abitudine di portare sulla fronte e poi la stese al sole, sperando che si asciugasse presto. Si sgrullò i capelli liberandoli dell’acqua in eccesso come un cane bagnato. — Sì, si chiama Imran, — disse.

— E tuo padre, quello di cui parli sempre? Lui come si chiama? —

— Yalìm. —

Dopo quella risposta Dönek rimase a lungo in silenzio, torturando con il pugnale un granchio che si era incastrato tra le travi. Sembrava assorto in chissà quali pensieri con un broncio che Yusuf non gli aveva mai visto.

Erano amici, e da lungo tempo ormai, ma obbiettivamente non avevano niente in comune.

Yusuf era l’unico figlio di una famiglia del ceto medio; il lavoro in bottega di sua madre e suo padre in giro a fare il paladino della libertà gli garantivano una vita agiata. Poteva mangiare quello che voleva e in quantità, aveva libri con cui esercitarsi nella lettura e stava imparando a scrivere. L’unica cosa che gli dava rogna era fare di conto, ma per quello c’era ancora tutto il tempo del mondo.

Dönek era un orfano che aveva sempre badato a se stesso; trascinandosi per le strade come uno spettro coglieva al volo le occasioni, prendendosi qui un pezzo di pane e lì qualche moneta che poteva fargli comodo appresso. Dönek non era neanche il suo vero nome, ma il nomignolo che qualcuno gli aveva affibbiato e col quale lo conoscevano un po’ tutti, tra malfattori e concorrenze varie. Di lui non sapeva altro.

Yusuf non aveva mai preso troppo sul serio il rubare, che era sempre stato solo un modo con cui trascorrere le lunghe giornate fuori casa, nel quartiere Imperiale, mentre sua madre lavorava in bottega. Per Dönek invece era una fonte di sostentamento, che come tutti i mestieri richiedeva l'accumulo dell'esperienza finalizzato allo sviluppo e affinamento di una tecnica. E lui ce l’aveva, la tecnica. Quando si erano conosciuti, il primo segreto professionale che gli aveva trasmesso era stato quello di farsi l’occhio su tre tipologie di persone.

Quelle che gridavano e non ti inseguivano.

Quelle che gridavano, ti inseguivano e, alla peggio, ti picchiavano.

Quelle che gridavano e chiamavano le guardie, lasciando a loro il compito di picchiarti.

Solo guardando da lontano la sua ignara vittima, Dönek riusciva a capire se era una del primo, del secondo o del terzo gruppo. Non si sbagliava mai e i suoi colpi andavano sempre a buon fine. Conoscere Yusuf era stata la sfida che almeno una volta nella vita arriva per tutti i bravi cultori della loro arte: fare da maestro.

Ma cosa ci facesse un raggiante dodicenne baciato dalla vita con un relitto umano quasi quindicenne era il mistero dell’amicizia.

— Sei stato in quel posto dove volevi andare? —

— No, non ancora. —

— Ti va di andarci oggi? —

— E perché? Ho venduto i dadi. —

Yusuf era pronto a saltargli alla gola. — Che cosa?! —

Lui scoppiò in una fragorosa risata e gli diede una pacca sulla testa. — Ma ti pare? È vero che ci avrei fatto una fortuna, ma è anche vero che conosco le tasche di chi può raddoppiarcela, questa fortuna. Dai, andiamo. —

 

Quando si addentrarono nel mercato del pesce, Yusuf prese tutto il suo coraggio e chiese perché era scappato come un fifone quando quei religiosi li avevano divisi.

Dönek si guardò attorno e poi gli rispose, a voce bassissima: — Non erano religiosi, Yusuf, ma Bizantini. —

L’altro sgranò gli occhi con la faccia di chi ha bisogno di ripeterselo, e gridando, ma Dönek gli tappò la bocca in tempo e lo trascinò dietro una bancarella. Quando lo liberò, Yusuf poté finalmente respirare.

— E chi diavolo sono, scusa? — chiese.

Guardandolo con aria di scherno, Dönek disse: — Sul serio, tuo padre non te ne ha mai parlato? —

Yusuf scosse la testa.

Dönek sbuffò, come se lui l’avesse costretto a ripetere per la centesima volta qualcosa che sapevano a memoria anche le pietre. — Qui prima dell’Impero c’erano loro e adesso rivogliono la città, ma solo per ricominciare a perseguitare quelli come tuo padre. —

— Perseguitare? —

— Brutta storia, eh? Quando vuoi te ne racconto un’altra. Però ora andiamo, dai! —

Ripresero la marcia ad un ritmo più serrato. Uscirono dal mercato e seguirono la strada sterrata che costeggiava il litorale, dove affacciavano una serie di casupole schiacciate le une contro le altre. Si fermarono di fronte ad un ingresso come gli altri dal quale trapelava una gran confusione e Dönek entrò, sicuro di quello che faceva.

Un alone penetrante di fumo lo inghiottì appena ebbe varcato la soglia e Yusuf non poté trattenere due colpi di tosse. E così, mentre qualcuno che non era Dönek chiudeva la porta dietro di loro, le voci nella locanda si abbassarono di almeno tre toni.

  Dönek avanzò sul percorso di tappeti con passo sicuro, addentrandosi nel labirinto di tavoli affollati e cortine di fumo; Yusuf incollato alla sua schiena. Arrivarono in fondo al salone, dove di fronte all’enorme camino spento c’era un’isola di cuscini. Qui, nelle premure di una donna che gli massaggiava il collo, c’era un uomo con le orecchie a sventola e un turbante più grande della sua testa. Quando li vide poggiò a terra il calice che non aveva fatto in tempo a portarsi alla bocca ed esultò: — Che ti avevo detto, Abdul? I bravi bastardi tornano, tornano sempre dalla mano che li ha nutriti. — 

Un secondo uomo era nascosto dietro di lui, aveva la carnagione del colore del caffè e gli occhi da cavallo. Si tolse il bocchino del narghilè dalle labbra e scacciò il fumo davanti al suo naso per guardare meglio. — Ma non era morto, Ghaalib? — domandò.

— Ti piacerebbe, — sbottò Dönek.

Yusuf soffocò un altro colpo di tosse e il tipo con le orecchie a sventola, Ghaalib, senza alzarsi dal suo altare di cuscini si allungò verso di lui. — È per me? — chiese lascivamente.

Yusuf sobbalzò e Dönek lo spinse dietro di sé. — No, schifoso maiale. Siamo qui per giocare, — disse.

— Giocare? Non prendermi in giro! E cosa avresti da offrirmi? —

Dönek sembrò pensarci solo adesso. — Be’, se vuoi puoi prenderti il ragazzino. È diventato più bravo di me. —

Yusuf fu attraversato da un brivido e sgranò tanto d'occhi. Malgrado fosse al corrente del trucco, non gli piaceva per niente la leggerezza con cui il suo amico aveva fatto quella proposta. Lo fissò, in attesa di sentirlo rimangiarsi le parole appena pronunciate, ma da Dönek ricevette solo un’occhiata fugace. Sembrava tranquillo, come se fosse entrato nella locanda già con quell’idea in testa. Yusuf aveva con sé le monete che gli aveva dato Imran per il pranzo e per un attimo lo sfiorò l’idea di potersi riscattare con quelle. Ma a giudicare dalla portata dell’uomo che aveva di fronte, un baule di gioielli con due gambe e due braccia, capì in fretta di essere costretto a tenersi in tasca i suoi niente più che miseri spiccioli, a confronto.

— Ti ho insegnato io tutto quello che sai, Dönek. Così mi offendi, — ridacchiò Ghaalib.

— Una settimana fa ha derubato un nobile fuori dalla Piccola Santa Sofia, con i fratelli Bin Husn e mezza orta Imperiale nel cortile. Chiedi ai tuoi informatori, controlla! È tutto vero. —

Ghaalib lo fissò a lungo, intensamente. Sembrò attraversarlo un pensiero, forse un ricordo o una voce che era arrivata fin nella sua tana sospinta dal vento. All’improvviso schioccò due dita. La donna si alzò e scomparve nella cortina di fumo, sostituita dalle ombre di due uomini taurini che portarono un basso tavolino da gioco che sistemarono a terra, di fronte al loro signore; poi scomparvero anche loro.

 Dönek si sedette dal suo lato del tavolo e Yusuf lo imitò sotto lo sguardo critico di Ghaalib.

— La merce nel piatto, — disse l’uomo.

Yusuf si costrinse a non gridare quando un paio di braccia nerborute lo strapparono dal cuscino dove si era seduto, accanto all’amico, e lo spostarono di peso dentro ad una grande situla di metallo, come se fosse un oggetto, lontano dai due giocatori.

Dönek fissava il suo contendente.

— Quanto? — gli chiese Ghaalip.

— Tutto. —

Quello se la rise. — Non sono così stupido. Quanto? — e mentre il ragazzo ci rifletteva in un silenzio teso, aggiunse: — Perché sei venuto qui? —

A quel punto Dönek guardò verso di lui, e Yusuf, in quel breve istante, lesse un’ombra di incertezza, di esitazione, nei suoi occhi gialli.

— Duecento, — offrì Ghaalip.

— In una giornata ti portavo quattro volte tanto. —

— Allora quattrocento? —

— Sali, vecchio storpio! Ho fame. —

— Mille. —

L’altro scosse la testa con una risata nervosa. — Ora sei tu che mi offendi. —

Il collo di Ghaalib si gonfiò per la rabbia. — Duemila Akçe. Non vali un granello di sabbia in più, — e sputò nel piatto vuoto alla sua destra, dove la donna di prima svuotò il contenuto di una grossa sacca. Il tintinnio di monete aveva attirato l’attenzione e in poco tempo attorno a loro si raccolse una folla di curiosi.

Yusuf, che spuntava dalla situla solo con le gambe e con le braccia, si dimenò un po’ e riuscì a far cadere il grande vaso di metallo, trovando la libertà. S’immerse nella calca e facendosi largo a spintoni raggiunse il bordo del tavolo. La partita era già iniziata e gli alizarini battevano sul legno il ritmo della loro danza truccata.

 

Quando Dönek aveva avanzato la proposta di usare i suoi dadi, Ghaalib ci era cascato con tutte le scarpe. Quei dadi erano truccati così bene che persino il grande Ghaalib Ali, pesandoli nella propria mano, non si era accorto dell’inganno. Ma un qualche codice d’onore tra chi di onorevole aveva ben poco obbligava i due contendenti a scegliere la coppia di dadi da usare con un lancio di moneta. Dal piatto in palio era stato pescato un bel pezzo d’oro, che quando aveva vibrato sul tavolo aveva dato l’onore a Dönek, di offrire i suoi strumenti diabolici.

Ora il suo amico se la giocava con leggerezza, e infatti, al terzo lancio, un docile cinque e un sei un po’ tartaglione gli regalarono la vittoria.

Un’ovazione si alzò tra la folla e Yusuf, che si era lasciato contagiare dall’atmosfera della partita, saltò in piedi sul tavolo per mostrare le natiche rosate a Ghaalib con una risata fragorosa. Dal fondo della sala attaccò una musica briosa e i due amici cominciarono a ballare come ubriaconi.

Ghaalip rimase immobile per un lungo istante, eterno come una statua mentre tutt’attorno la festa si faceva selvaggia. Poi, all’improvviso, il suo sorriso ammirato tramutò in una spaventosa maschera di crudeltà. Senza che la sua bocca si aprisse per pronunciarlo, diede il comando di ristabilire l’ordine.

In tutti i sensi.

Il tavolino da gioco fu portato via, la folla dispersa e i due ragazzi fatti inginocchiare di fronte a lui con violenza. Lo stesso smarrimento negli occhi, la stessa paura… nonostante la differenza di età, erano entrambi niente più che bambini.

Ghaalip sospirò profondamente, rassegnato. — Ora capisco come si sentiva mio padre quando diceva che non ero degno di essere suo figlio. —

— Io non sono tuo figlio, — digrignò Dönek.

— E ringrazio il cielo! — esultò, suscitando grasse risate. — Ma dopo avermi voltato le spalle, costringendomi a scappare in questo distretto dimenticato da Dio, come hai potuto solo pensare che ti avrei riaccolto a braccia aperte? —

Dönek inchiodò lo sguardo a terra e i capelli gli scivolarono davanti agli occhi. Non rispose.

— Non solo ti presenti qui come se non fosse successo nulla, ma porti anche gli amici e, cosa ancora più stupida, cerchi di fregarmi, — scandì Gaalib, marcando l’ultima frase. — La camera d’aria è il trucco più vecchio del mondo, ma così vecchio che un moccioso come te non poteva certo averlo visto fare ai persiani. — 

Altre risate.

— Ti ho preso con me quando non eri nulla, ed è così che mi ripaghi: calpestando i miei insegnamenti… Mi dispiace solo che tu abbia coinvolto un povero innocente, — disse alludendo a Yusuf, che aveva cominciato a tremare, poi Ghaalib concluse così: — Stranamente tutta questa serie di eventi davvero molto sfortunati non mi ha reso un uomo diverso da quello che ero quando ti ho cresciuto, e quindi ti lascerò solo un monito… — schioccò le dita e la donna venne a consegnargli un pugnale. — Come hanno fatto i Giannizzeri con me. —

Non si era mai alzato dal suo trono di cuscini ricamati perché, solo ora Yusuf lo notò, gli mancava il piede sinistro.

— Te lo ricordi questo, Dönek? —

Silenzio.

— Certo che te lo ricordi. — Diede l’arma ad Abdul e precisò: — Sull’occhio sinistro. Ma non fare il dottore, questa volta. —

Quello mostrò i denti perfetti, bianchissimi, in un sorriso malato e poi si accostò a Dönek, che uno dei due colossi nerboruti tratteneva in ginocchio. Immobilizzandolo come un animale pronto per essere scuoiato, Abdul sollevò il mento del ragazzo e quello non oppose resistenza. Il sangue scorse sulla palpebra chiusa e poi giù, fino al mento, come a indicare il percorso alla lama. Abdul arrivò all’occhio, ma non si fermò, e le urla di Dönek riempirono la locanda.

Yusuf distolse lo sguardo, sentendo le lacrime pizzicargli le ciglia e lo stomaco rivoltarsi dall’orrore. Nel momento in cui il suo amico si accasciò a terra, in preda agli spasimi e agonizzante, notò che Ghaalib lo guardava.

— Massì, anche l’altro. —

Abdul venne verso di lui e per un attimo Yusuf gli fece credere di essere paralizzato dalla paura. L’uomo si chinò avvicinando la lama alla sua faccia, ma il ragazzo si ribellò all’improvviso e riuscì a deviare, anche se parzialmente, la traiettoria dell’arma. Dopodiché si mise in piedi e corse come un furetto verso l’uscita della locanda, scavalcando le sedie e passando sotto ai tavoli per non farsi acciuffare dai clienti più fedeli, che gli riempirono la testa delle loro grida cavernose.

Gli occhi annebbiati, i muscoli tesi allo spasimo.

Spalancò la porta con una spallata.

Era fuori.

 

Corse, a lungo, come non aveva mai corso. I piedi in fiamme, il vento e i capelli che gli frustavano la faccia, il cuore in gola. Raggiunse il mercato del pesce e si perse nel suo labirinto di bancarelle senza mai fermarsi, senza guardarsi indietro. Travolse alcuni passanti, inciampò e rischiò di cadere, ma non lo fece; non vacillò o rallentò la sua corsa prima di aver esaurito tutta l’aria nei polmoni, ma soprattutto non prima di aver messo mezza Istanbul tra lui e Ghaalip.

La sua meta fu un giardino di ulivi e sempreverdi circondato da una bassa ringhiera di ferro, che scavalcò come un leprotto. Atterrò saldamente nell’erba corta e avanzò, convinto di potersi trascinare oltre quegli alberi per nascondersi lì, tra le ombre, ma fece solo pochi passi incerti e traballanti. Quindi, stremato, rovinò a terra.

Il prato rinsecchito e giallino, ustionato dalle calure estive lo pungeva anche attraverso i vestiti. Non sentiva più né braccia né gambe, solo una grande pressa che gli schiacciava cuore e polmoni mentre un fischio gli riempiva le orecchie. Rimase così, immobile per un tempo infinito a lasciarsi cuocere dal sole, che gli batteva sulla schiena e sulle spalle come se fosse sceso dal suo trono di nuvole per venirsi a sedere sopra di lui, che non riusciva a muovere un muscolo. 

Poi, nell’improvviso silenzio rotto solo dal crepitio dei lunghi cipressi scossi dal vento, Yusuf si accorse di un bruciore intenso sulla guancia sinistra; un dolore che era rimasto nascosto dietro a tutti gli altri. Rotolò su un fianco, lentamente, e avvicinò due dita a quel punto di calore diffuso che sentiva esplodergli sulla faccia, ora che il sole vi batteva con tutta la sua violenza. Quando si guardò i polpastrelli riconobbe, nella foschia che gli annebbiava la vista, il colore del sangue e il suo puzzo altrettanto inconfondibile. Fresco, rosso come un rubino o i nuovi velluti veneziani arrivati dall’Italia...

Anne… — con un singhiozzo, si ritrovò quella parola mormorata sulle labbra.

Non una sbucciatura, non un graffio o un morso di qualche randagio che protegge il territorio, non un’innocente crosticina grattata via… ma la lama, la lama che aveva attraversato il volto del suo amico e forse non solo quello… il loro sangue, unito, scorreva nelle sue vene come un patto.

O una condanna?

Non voleva pensarci.

Si alzò e ricominciò a correre.

 

Arrivò ai moli del quartiere Imperiale che il sole stava tramontando. Corse fino in fondo alla banchina e qui cadde in ginocchio e poi gattoni, sporgendosi. Osservò la propria immagine riflessa tra le increspature dell’acqua, ma, prima del colorito pallido, a catturare la sua attenzione fu il taglio obliquo e dall’aspetto profondo che gli attraversava la guancia.

Il pugnale con cui Abdul aveva cercato di sfigurarlo e che Yusuf pensava di aver respinto efficacemente in realtà lo aveva ben più che scalfito. Il brutale monito di Ghaalip era anche sulla sua faccia, ora, e non poteva farci nulla.

— Yusuf… — un mormorio penitente, quasi un chiedere scusa per aver disturbato.

Yusuf si voltò, ma non vide nessuno sulla banchina.

Poi ancora, il sussurro di uno spettro: — …Yusuf. —

La voce di Dönek era resa irriconoscibile dai singhiozzi rauchi di un pianto trattenuto e veniva da una piccola imbarcazione a vela latina ormeggiata lì di fianco. Yusuf si trascinò fino a guardare dentro lo scafo e lo trovò, rannicchiato con le ginocchia strette, tra le sedute di prua e del vecchio cordame. Teneva la testa ripiegata sulla spalla, nascondendo con alcuni giri del turbante intorno alla faccia il motivo del suo dolore, e anche le palpebre dell’occhio sano erano chiuse, strette come le due metà di una cozza rugosa.

Yusuf saltò dentro la barchetta facendola ondeggiare e sedette sul fondo dello scafo di fronte all’amico, chiudendosi anche lui le ginocchia tra le braccia. Doveva averlo sentito arrivare quando aveva corso sulla banchina. — Come stai? — chiese con innocenza; gli era sembrata la cosa più naturale e sensata da dire.

Dönek irrigidì la mascella per impedire al mento di tremare e ai denti di battere, inequivocabili manifesti della paura che si obbligava a nascondere. Senza dire una parola si voltò, regalandogli lo spettacolo orrendo che era la carne viva della palpebra tranciata e della guancia aperta…

Yusuf soffocò un conato di vomito e distolse lo sguardo. — Hai bisogno di un dottore. —

— Te lo scordi!— sbottò l’altro tra i singhiozzi. — Quelli vogliono un sacco di soldi! —

— Be’, tu hai qualcosa e questi me li ha dati mia madre… — si cacciò la mano in tasca e allungò verso di lui gli spiccioli, in bella vista sul palmo disteso, ma Dönek non lo degnò neanche di uno sguardo e si rannicchiò più stretto.

— Non bastano, — disse.

— Allora vendiamo i dadi! —

— NO! —

Yusuf rabbrividì.

Si creò uno strano silenzio, spezzato solo dal lamento di qualche gabbiano, dalla confusione delle strade in lontananza e lo schioccare delle onde tra i piedi delle banchine.

— I dottori fanno anche tantissime domande: — borbottò Dönek, — come te lo sei fatto, quanto tempo fa, dove... —

Yusuf abbassò la testa appoggiando la fronte sulle ginocchia unite, e i ricci sudati gli caddero attorno al viso come una tendina. — Mia madre non mi chiede mai niente, — disse, sperando con tutto il cuore che anche stavolta Imran lasciasse correre…

Quando lo sbirciò con un occhio vide che Dönek lo fissava col suo unico e sano.

— Che vuoi dire? —

Yusuf si sforzò di sorridere.

Sai com’è… voleva conoscerti.

 

Talip aveva già assicurato la barchetta alla banchina con uno strattone alla cima e stava togliendo il remo dallo scalmo quando Yusuf lo chiamò, correndogli incontro sulla banchina. Il traghettatore abitava nel quartiere Imperiale insieme alla moglie che lo aspettava per cena, e aveva salutato il suo ultimo cliente della giornata, un ricco commerciante, con un inchino.

— Miseria, ragazzo! Cosa ci fai in giro a quest’ora? E cosa ti è successo alla guancia? — 

— È una lunga storia, ma ti prego! Puoi portarci a casa? Pagherò io per lui! — indicò Dönek alle proprie spalle.

Il traghettatore non esitò e li fece montare in barca senza perdere altro tempo. — Reina mi ucciderà, — borbottò allentando le cime e incastrando il remo nello scalmo.

Attraccarono a Galata che era notte.

— Su, sbrigati! Tua madre sarà molto preoccupata. — 

Yusuf lo ringraziò e gli lasciò tutte le monete che aveva. Quindi afferrò l’amico per il polso, tirandoselo dietro come aveva fatto Dönek con lui nel distretto degli Armeni. Il ragazzo si lasciava guidare, correndogli dietro sulla strada in salita con una mano a reggere il turbante che nascondeva una metà del suo volto. L’oscurità era densa, a mala pena si vedeva ad un palmo oltre il proprio naso, ma Yusuf conosceva a memoria il percorso e andava spedito, svoltando agli svincoli illuminati dalle lampade pendenti e imboccando le viuzze segnalate dai bracieri. La grande torre vegliava su di loro con le sue arcate, luminose come occhi.

La piccola Moschea, lo slargo, il giardino con il giovane ulivo piantato dal signor Okan e poi, finalmente, la finestra del suo abbaino. L’interno era illuminato.

Anne! Anne! — chiamò Yusuf liberando il polso di Donek, che rallentò il passo fino a fermarsi.

La porta di casa si spalancò e Imran comparve sull’ingresso, gridando il suo nome dalla gioia.

Yusuf corse verso di lei lasciandosi l’amico alle spalle e si tuffò tra le braccia della donna, che lo avvolse come un bozzolo caldo. Inspirò il profumo di spezie dei suoi vestiti e quello di fiori dei suoi capelli, lisci, morbidi, neri, lunghissimi…

 

 — Come ti chiami? —

A quella domanda di sua madre, risuonata con la dolcezza del miele nel silenzio della casa, Dönek non rispose.

Il ragazzo era seduto gambe a penzoloni sul tavolo della cucina e Imran gli stava medicando la guancia, pulendola con della stoffa bagnata. Da quando erano entrati Dönek non aveva emesso un fiato, fissava il pavimento e perciò sembrava che stesse dormendo. Imran lo aveva fatto accomodare su quel bancone da cerusico che improvvisava tutte le volte per il figlio e Dönek si lasciava curare come il migliore dei pazienti. Non gli sfuggì un lamento né un sussulto durante tutta l’operazione.

Fuori era già buio e le guardie pattugliavano le strade senza un suono, viaggiando nell’oscurità  come anime. Dentro, invece, la luce tremolante di un paio di candele illuminava la scodella con l’acqua, le garze nella cesta e la bottiglia di aceto sul tavolo.

Yusuf guardava la scena rapito, sistemato comodo e sommerso dai cuscini in un angolo del salotto. Sentiva la guancia fresca come una rosa, perché Imran aveva finito di occuparsene poco prima; subito dopo gli era salita una fame improvvisa ed aveva aggirato il tavolo per prendere un involtino dal piatto in cucina. Ora masticava lentamente lo stesso boccone di carne già da qualche minuto, senza decidersi a inghiottire.

Imran intinse la pezza nella bacinella e poi la strizzò. L’acqua era rossa.

Yusuf ingoiò la pappetta insipida e non staccò gli occhi dalla medicazione neanche al momento di prendere l’ultimo morso, rischiando così di azzannarsi un dito. Ma alla comparsa dell’ago e del filo si buttò in gola il boccone senza masticare e affondò la faccia tra i cuscini. Nell’oscurità rivide il sorriso lattescente di Abdul e il bagliore del pugnale farsi strada tra i fumi della taverna. La ferita sulla guancia cominciò a bruciargli in assenza d’aria, ma lui strinse i denti e ricacciò indietro le lacrime.

 

 

 

Una sete bruciante lo svegliò. Si accorse di essere solo, nel suo letto e con addosso una camicia lunga di cotone, pulita e leggera. Dalla finestra socchiusa nell’abbaino filtrava una spada di luce che investiva la cesta dei panni e qualche asse del pavimento. Il chiacchiericcio e la confusione saliva fin lì dalla strada.

Dönek!

Scansò le lenzuola e piantò i talloni a terra. Andò ad affacciarsi sulle scale e riconobbe dei passi e il suono di alcune stoviglie. Decise di scendere ma sull’ultimo gradino si fermò, capendo di aver dormito troppo, perché sua madre era già sveglia e stava imbandendo col pranzo il tavolo dove li aveva medicati la sera prima, ma nel salotto non c’era nessun altro.

Quando Imran lo vide fece uno strano sorriso: non si sarebbe mai abituata a vederlo con quello sfregio sulla guancia. — È andato via, — disse.

Yusuf si sedette sulle scale e appoggiò il mento sulle ginocchia, che chiuse tra le braccia.

È proprio da lui…

Imran coprì il piatto di pilaki (piatto tipico a base di fagioli in salsa) per tenerlo caldo e gli venne incontro. —Ha dimenticato questo.— Pescò qualcosa da una mensola lì accanto e glielo porse.

Dimenticato? Si chiese Yusuf con stupore. Prese il portamonete di cuoio rosso dalle sue mani in un gesto troppo lento per non sembrare sospetto.

 — Pensi di poterglielo restituire? — domandò Imran.

Yusuf alzò gli occhi nei suoi e annuì, seppur poco convinto.

Lei gli accarezzò la testa. — Allora dopo pranzo andiamo a trovarlo insieme, che ne dici? —

— Mamma, lui… —

— Lo so. —

Sobbalzò. — Davvero? —

Lei annuì. — Quando ti sei addormentato mi ha detto un paio di cose. —

— Tipo? —

Imran gli mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio e osservò con occhio clinico il taglio sulla guancia. — Tipo che è stata colpa sua ed è molto dispiaciuto. —

Questo non è da lui.

— Certo, almeno uno dei due avrebbe potuto degnarsi di dirmi cos’è successo. —

Ah, adesso fa il dottore pure lei? Pensò meravigliato.

— Siamo caduti, mamma, — disse alzandosi.

— Yusuf. — Imran lo inchiodò sul gradino con lo sguardo che hanno tutte le mamme: quello che ti fa sentire uno stupido quando la bugia più stupida l’hai tirata fuori tu. 

Battendo i piedi a terra il ragazzo quasi urlò: — I randagi, va bene? —

— Di nuovo? —

— Non tutti i cani sono buoni come quello del signor Okan, e per poco non ci strappavano le gambe. Ora dai, sto morendo di sete! —

Imran incrociò le braccia: lo avrebbe lasciato passare non prima di aver saputo la verità. 

Yusuf sbuffò e si arrese. — Abbiamo litigato con dei tipi più grandi… — disse vago.

— Quanto più grandi? — Imran lo fulminò con un’occhiata indagatrice e Yusuf non poté sottrarsi.

— Più grandi, — sbottò alla fine. Aggirò la madre e corse a prendere la brocca di legno dal tavolo. Bevve avidamente e poi la rimise al suo posto con metà del contenuto, mentre un bisogno naturale cominciava a bussare.

— Yusuf, quanto più grandi? Erano adulti? — domandò senza staccare gli occhi azzurri da lui; sembrava preoccupata.

— Parenti di Dönek, — gli sfuggì asciugandosi la bocca sulla manica della camicia.

Imran aggrottò le sopracciglia e per un secondo Yusuf temé di essersi dato la zappa sui piedi.

E se Dönek le ha detto di non averne, parenti?

Un groppo alla gola gli impedì improvvisamente di riscattarsi, ma sua madre fece un gesto con la mano come per scacciare il discorso e piuttosto gli comandò di andarsi a lavare e vestire.

 

— È quella, — disse Yusuf indicando l’ultima banchina prima della grande scogliera.

Dopo pranzo avevano preso insieme la via per il quartiere Imperiale. Talip li aveva accolti sorridente come al solito, non aveva fatto domande o allusioni alla sera precedente e Yusuf lo aveva ringraziato mille volte nella sua testa, promettendosi di regalargli il prossimo simit con cui sarebbe salito sulla sua barchetta.

Yusuf si sedette a gambe penzoloni sulla banchina e col tono di una confessione disse: — Ci incontriamo qui. —

Imran sedette accanto a lui e togliendosi le scarpe e sollevandosi la gonna un po’ sopra le caviglie intinse i piedi nell’acqua. Lei, al contrario di Yusuf, ci arrivava senza sforzi.

Tentò anche lui di rinfrescarsi un po’ le dita dei piedi, allungando le gambe e cacciando la lingua fuori per la concentrazione, ma finì col regalare a sua madre solo un’altra delle sue esibizioni esilaranti. Imran si diede a risa fragorose e Yusuf la spiò: ogni parte di quel viso luminoso sorrideva con dolcezza come per ricordargli, in una muta promessa, che tra qualche anno le cose sarebbero cambiate. 

Aspettarono lì fino a pomeriggio inoltrato, ma nessuno si fece vivo.

Imran doveva andare ad aprire la bottega per ricevere il signor Jaabir, ma Yusuf rifiutò subito il suo invito di rimanere lì ad aspettare l’amico.

Insieme si avviarono verso il Gran Bazar, dove di fronte alle imposte chiuse della bottega li attendeva il signor Jaabir Ferzan. Sulla spalla dell’uomo, in bella mostra, c’era un bellissimo jako, il pappagallo cenerino, dal piumaggio argentato e la coda rossa come un nastro di velluto.

Merhaba! Merhaba! — li salutò ancora prima che potesse farlo il suo padrone.

Si chiamava Nuri e mentre Jaabir parlava con sua madre Yusuf poté tenerlo sul braccio. Era docile come un micio e conosceva ben venti parole nella loro lingua, la metà delle quali erano numeri con cui sapeva fare addizioni e sottrazioni.

— Nel tempo libero potrebbe volare fin qui e dare a Yusuf qualche fondamento di matematica, — postillò allegramente sua madre e Jaabir rise a squarciagola.



 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Un'altra famiglia ***



Istanbul,

Jumâda Ath-Thânî 884

(primi di settembre 1479)











quattro Assassini erano fuggiti per i tetti e il vociare delle strade affollate di Galata, li accompagnava solo di un poco attutito.

Yusuf non ce l’avrebbe mai fatta a tenere dietro a quella corsa forsennata, così suo padre se l’era caricato in spalla senza tante cerimonie e con la voce dura di chi è avvezzo a dare ordini aspettandosi di essere obbedito, gli aveva intimato di tenersi forte e di cercare di non intralciarlo.

Il calore del sole del tardo pomeriggio faceva tremolare l’aria sulle tegole roventi e la città pareva avvolta nella foschia.

Concentrato nello sforzo di bilanciarsi sulle spalle del padre e con un unico pensiero che gli martellava la testa —la mamma è morta Yusuf non si rese conto di quanto tempo fosse passato quando Yalìm lo depositò all’ombra, davanti a una porta tenuta aperta da uno dei compagni.

Il padre lo spinse dentro e insieme scesero per due rampe di scale percorrendo poi una larga passerella di tavole fino a raggiungere un’ampia sala dove un uomo imponente dalle folte sopracciglia aggrottate misurava lo spazio a grandi passi.

— Maestro. —

Yalìm chinò la testa, mentre Yusuf, che si trovava proprio davanti a lui con le sue mani strette sulle spalle, fissava quell’uomo con gli occhi spalancati e la bocca aperta.

— Perdona mio figlio se non ti mostra il dovuto rispetto, ma sua madre è appena stata uccisa, e la casa saccheggiata…—

— Cosa sono queste sciocchezze, Yalìm? Credi davvero che mi aspetti da lui che chini il capo e mi renda omaggio? Ha appena perso tutto quello che aveva, a parte la sua vita e un padre ossequioso. —

Yusuf sentì la presa sulle sue spalle allentarsi, come se le mani del padre avessero perso di colpo tutta la forza. Nel silenzio pesante, il ragazzo abbassò gli occhi sul pavimento consunto quasi del tutto coperto dai tappeti. La nausea gli rivoltava lo stomaco e respirava con difficoltà, mentre le gambe stentavano a reggerlo. Pensò di stare per vomitare, o svenire, o peggio di tutto piangere e di non avere nemmeno la forza per sottrarsi in qualche modo a quella situazione. Poi una voce, appena un sussurro, gli venne in aiuto.

— Vieni con me. —

Una donna dal viso gentile gli sorrideva tendendogli una mano. Yusuf fece d’istinto un passo verso di lei, poi si fermò, voltandosi a guardare il padre, le cui spalle curve sembravano oppresse da un peso insostenibile, attendendo un cenno d’assenso. Gli occhi di Yalìm però, parevano vagare altrove. Timoroso di pronunciare parola, il ragazzo spostò lo sguardo sul Maestro che annuì, dandogli il permesso di afferrare la mano della donna, aggrappandosi ad essa con tutta la poca energia che gli restava.

— Ti chiedo scusa, Yalìm. — disse il Maestro spazzando via la tensione che stagnava nella sala.

— Ti ho rivolto parole troppo dure. —

Yusuf lo vide avvicinarsi a suo padre e stringerlo in un abbraccio un po’ rude.

— Ho sbagliato tutto, Ishak. Ogni cosa. — sospirò Yalìm.

— Non posso restare. —

Di nuovo ci fu silenzio, mentre la donna lo conduceva in un angolo appartato e lo invitava ad accomodarsi sui cuscini colorati sparsi sul pavimento.

— Mi chiamo Zuhre. — disse.

— Riposati. Ti porto qualcosa di caldo. — si allontanò sfiorandogli la testa con una carezza.

Yusuf crollò esausto sui cuscini, mentre le lacrime scavavano due solchi nella polvere che gli imbrattava le guance.

— Per quanto mi riguarda puoi restare. — stava dicendo il Maestro. — Tu e tuo figlio. Lui non correrà alcun pericolo, sempre che non vada a cercarselo. Potrei ammetterlo tra i Novizi, ci sono ragazzi di poco più vecchi di lui. —

— No, amico mio. Devo rifiutare. —

— Perché, Yalìm? Sei il mio secondo in comando e mi hai sempre detto che il ragazzo è sveglio e intraprendente, forse persino troppo. Non credo che un po’ di disciplina potrebbe danneggiarlo. —

Nel suo cantuccio, Yusuf tese le orecchie e si asciugò gli occhi con la manica. Stavano parlando di lui?

Zuhre tornò con una tazza di caffè bollente. Lui la prese mormorando un grazie proprio mentre suo padre rispondeva.

— Perché non ci sono quasi mai stato per lui e sua madre è morta a causa mia. Non so come siano riusciti a trovarla, ma il bersaglio ero io. Sono arrivati armati fino ai denti, aspettandosi di affrontare un avversario impegnativo e invece hanno trovato solo una donna e un ragazzino su cui sfogare la frustrazione di aver mancato l’obiettivo. Quando sono arrivato Yusuf li fronteggiava davanti al corpo di sua madre, con in mano nient’altro che un coltello da cucina. Se avessi tardato anche solo di un attimo, non avrebbe avuto alcuna possibilità. Se resteremo sarà un bersaglio tale e quale a me e ci manca il tempo per insegnargli a difendersi in modo davvero efficace. Se non mi allontanerò dalla Confraternita i miei doveri mi terranno di nuovo lontano da lui e sarà l’Ordine a crescerlo, non suo padre. Ho un figlio che quasi non mi conosce, Ishak, e tu potrai anche dirmi che è stato così per molti di noi, ma non è questo che voglio per lui adesso. Ce ne andremo stanotte. —

Yalìm aveva pronunciato queste parole senza quasi prendere fiato e all’improvviso parve mancargli.

La spina dorsale di Yusuf si era gelata nel sentir rievocare l’accaduto. Le mani strette attorno alla tazza gli tremavano e il ragazzo si sforzò di ingurgitare un sorso di caffé senza rovesciarlo. Era amaro e forte e gli scottò la lingua.

Zuhre gli si era seduta accanto. Non aveva parole per lui e di questo le era grato: qualsiasi parola di conforto in quel momento, gli avrebbe solo fatto venire voglia di urlare e lei sembrava averlo compreso. Le parole del padre che asseriva di volergli stare finalmente più vicino non avevano fatto alcuna presa sulla sua mente stravolta; era come se tutti si fossero dimenticati di lui, parlandone come se non fosse lì, a pochi passi. Solo la presenza silenziosa di Zuhre gli faceva sentire di non essere una specie di fantasma. Yusuf pensò che se se ne fosse andata, lui si sarebbe semplicemente dissolto. La guardò, e timidamente le porse la tazza, come se con quel gesto sperasse di trattenerla. Lei la prese, bevve un sorso e gliela restituì. Lui la posò sul tappeto e si abbandonò sui cuscini, prostrato dalla stanchezza, raggomitolandosi vicino a lei, afferrando l’orlo della sua tunica. Sentì la sua mano sfiorargli i capelli e quel gesto lieve, quasi timoroso fece crollare ogni tentativo di difesa. Cominciò a singhiozzare in silenzio.

— Non puoi portarlo via stanotte, Yalìm. — disse Zuhre, e il tono della sua voce era duro quanto le braccia che ora avvolgevano Yusuf erano morbide e accoglienti.

— Sei un pazzo se pensi di portarlo via in questo stato. Ti dispiace di non essere stato un buon padre per lui e continui a dimostrare di non esserlo. Trascinarlo in una fuga precipitosa e non organizzata è proprio un ottimo modo per iniziare ad accorciare le distanze tra di voi! —

Gli occhi di Yalìm si allargarono costernati di fronte a quel sarcasmo e non una parola uscì dalla sua bocca.

— Devi dargli almeno una notte di riposo e anche tu devi prendertela, sei stravolto quanto lui.— continuò Zuhre. — Non parlare di Imran come se non fosse stata la tua compagna per anni, come se non avesse passato infiniti giorni e notti ad aspettarti con la paura di non vederti tornare, come se al tuo ritorno non ti fossi riposato nel suo grembo, mettendoci un figlio che lei ti ha cresciuto. È morta, Yalìm. Accetta questo dolore. —

Yalìm barcollò di fronte alla forza di quelle parole e si accorse di non avere nulla a cui appoggiarsi. Si mosse incerto verso una panca e vi crollò sopra, la testa fra le mani e il respiro affannoso, come se quei pochi passi gli fossero costati un’enorme fatica. Ishak lo raggiunse e si sedette accanto a lui, nell’intento di confortarlo con la sua vicinanza. Zuhre aveva colto nel segno e il Maestro le rivolse uno sguardo di muta approvazione.

La donna non aggiunse altro e riportò la sua attenzione su Yusuf che nel frattempo aveva ceduto alla stanchezza, cadendo in un sonno profondo e agitato. Chiamò con un cenno uno degli Assassini che lo sollevò delicatamente tra le braccia senza svegliarlo. Lo portarono in una stanza e lo misero a letto.

— Grazie, Raif. Resto io con lui. —

Abbassò la fiamma della lampada e si sedette sul bordo del letto.

Non fu sorpresa, un po’ di tempo dopo, di veder entrare Yalìm. La scarsa luce faceva apparire il suo viso ancora più esausto e il luccicare dei suoi occhi tradiva la presenza delle lacrime che le ombre nascondevano.

— Grazie, Zuhre. — sussurrò roco mentre guardava Yusuf addormentato; poi si voltò e sparì, chiudendosi la porta alle spalle.

Ci vollero tre giorni per organizzare la partenza, durante i quali a Yusuf non fu permesso di lasciare il Covo. Di certo lui non avrebbe voluto allontanarsene. All’idea di percorrere la passerella e uscire nelle strade affollate gli si stringeva lo stomaco e il pensiero del corpo di sua madre abbandonato in una pozza di sangue gli sommergeva il cervello al punto di impedirgli quasi di respirare. Cercava di scacciare quell’immagine sostituendola con una del suo viso sorridente, o arrabbiato, o col ricordo del bruciore degli schiaffi che lei gli aveva rifilato ogni volta che si era cacciato nei guai. Nei momenti in cui riusciva a non pensare a ciò che era accaduto o all’incertezza di ciò che lo attendeva, esplorava le stanze, lasciando indugiare la sua curiosità tra le rastrelliere delle armi e le pile di libri.

Gli Assassini erano assorbiti nelle loro attività quotidiane, ma avevano sempre un gesto o uno sguardo per lui, Zuhre era una presenza discreta e costante, sempre pronta ad essere al suo fianco quando aveva qualche timida domanda o sembrava sul punto di cedere allo scoramento.

Il primo giorno Yalìm e il Maestro Ishak avevano discusso a lungo. Yusuf aveva sentito spesso le loro voci alzarsi di tono, e si era affrettato a togliersi di torno, notando però che nessuno dei presenti sembrava dare peso a quelle dispute, come se ci fossero abituati.

Era stato il nome della città di Bursa a porre fine alle discussioni e nei due giorni successivi i colombi viaggiatori erano partiti e arrivati, gli accordi stretti e i bagagli fatti. Nei pensieri di Yusuf, alcune immagini della città in cui era nato e che aveva lasciato all’età di otto anni, erano molto vivide e tutte ruotavano intorno alla madre. Il ragazzo si rendeva conto che i ricordi di suo padre erano scarsi anche per quanto riguardava la sua vita più recente. Osservava Yalìm e doveva ammettere che l’ammirazione e l’orgoglio che aveva provato per lui erano stati pari alla sua assenza, domandandosi come sarebbe stata la vita con lui e tremando per l’aspettativa e il timore nello stesso tempo. Stentava ad accettare il fatto che per avere suo padre accanto aveva dovuto perdere la madre, così come non riusciva a comprendere gli sguardi che Yalìm gli rivolgeva, quando sembrava accorgersi di lui.

— Zuhre, tu conosci bene mio padre? — domandò la mattina della partenza.

Evet. Cosa vuoi chiedermi? —

— Perché mi guarda con quegli occhi? —

Zurhre gli sorrise e Yusuf pensò che quel sorriso gli sarebbe mancato.

— Perché vede tua madre in te. E perché ha paura. —

— Quindi soffre quando mi guarda, perché pensa a lei che… che non c’è più? E di cosa ha paura?—

— Soffre per lei sempre, anche quando non ti guarda. Lei gli manca, come manca a te, e ha paura che tu gli darai la colpa per quello che è successo, come già se la dà lui. Ha paura di non riuscire ad essere un padre per te. —

— Ma è mio padre, come può non riuscirci? —

— Infatti ci riuscirà, solo che ancora non lo sa. —

Raggiunsero il porto a piedi, trascinandosi i pochi bagagli come viaggiatori qualunque, se non fosse stato per la squadra di Assassini che li seguiva nell’ombra, pronta a intervenire al minimo accenno di pericolo.

Il Maestro Ishak li aveva salutati con poche parole, ma dalla sua voce e dal suo sguardo traspariva un certo rammarico. Padre e figlio erano poi stati oggetto degli abbracci, degli auguri salute e pace, delle parole di cordoglio dei compagni. Zuhre aveva baciato Yusuf sulla fronte e il ragazzo si era buttato tra le sue braccia senza curarsi di nascondere le lacrime. Anche gli occhi di lei erano lucidi e mentre si voltava per l’ultima volta verso di lei percorrendo la passerella verso l’uscita, notò la mano di Raif che le stringeva un braccio.

Non appena misero piede a bordo della nave che li attendeva, la ciurma si diede da fare a mollare gli ormeggi e in pochi momenti, la fiancata si staccò dal molo, allo schioccare delle vele che venivano spiegate e si riempivano di vento.

Yusuf alzò gli occhi verso suo padre, che non aveva aperto bocca da quando avevano lasciato il Covo, e si aggrappò alla sua manica. Non ebbe il cuore di fare altro, ma in quel gesto mise tutte le parole che non riusciva a dirgli, le domande che gli vorticavano nel cervello e il dolore che gli soffocava il cuore.

— Mi dispiace, Yusuf. — disse Yalìm affondando lo sguardo in quello del figlio, dello stesso colore di quello di Imran. — Spero solo di riuscire a farmi perdonare da te. —

— Di che cosa dovrei perdonarti? —

La risposta giunse senza parole e Yusuf si trovò stretto tra le braccia del padre, avvolto nell’odore di tabacco e olio per le armi della sua casacca, che gli trasmetteva calore e sicurezza come mai era accaduto in tutta la sua vita.

Le vele si tesero e le sartie scricchiolarono sotto la forza di una raffica improvvisa e la nave parve fare un balzo in avanti, allargando il braccio di mare che la separava dalla terraferma.

Padre e figlio osservavano in silenzio i minareti di Istanbul farsi più distanti ad ogni attimo, mentre le voci sui moli si affievolivano fino a tacere del tutto, lasciando al loro posto solo il suono delle onde che schiaffeggiavano il fasciame e gli stridii dei gabbiani lungo la scia.

Fu in quel momento che il pensiero di Dönek attraversò la mente di Yusuf. Strizzò gli occhi nella speranza di riconoscerlo tra le persone che ancora riusciva a distinguere sui moli, ma senza risultato, e un altro rammarico si aggiunse a tutti quelli che già gli affollavano il cuore: non era neanche riuscito a salutare il suo amico.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: La Vecchia Capitale ***


Bursa,
 

Rajab 884
(Ottobre 1479)
 
















ra passato poco più di un mese da quando Yusuf e Yalìm si erano stabiliti a Bursa.

La loro vita, durante i primi tempi nella Vecchia Capitale, era sembrata trascinarsi: erano come due naufraghi sbattuti da una tempesta su una costa lontana, che si conoscevano appena, stanchi e a malapena consapevoli di essere vivi.

In una città rinomata per la lavorazione delle sete e la forgiatura delle lame di coltello, Yalìm lavorava presso un fabbro armaiolo noto alla Confraternita, ottimo fabbricante di pugnali da lancio. Teoman era un uomo massiccio, con una folta barba e mani enormi, che governava la sua fucina e i suoi apprendisti come un sovrano assoluto ma saggio, e aveva accolto Yalìm e Yusuf con il sorriso di chi comprende e la discrezione di chi sa.

L’alloggio in cui padre e figlio vivevano era proprio accanto alla bottega e sul retro si trovava un piccolo cortile. C’era voluta un’intera giornata solo per liberarlo dai rottami di metallo e un’altra per rastrellare e spianare la terra, ma alla fine, quello spazio era diventato il loro punto d’incontro, il territorio in cui cominciare, con cautela, ad avvicinarsi. Mentre Teoman mostrava a Yusuf come le lame prendevano forma, Yalìm aveva costruito due spade di legno e con quelle gliene spiegava le applicazioni pratiche, insistendo su come una qualsiasi arma, che fosse impugnata o lanciata, dovesse diventare l’estensione del braccio. Non c’era nulla che potesse rimandare quell’appuntamento serale e il ragazzo lo attendeva con curiosità e trepidazione, perché ogni lezione gli faceva scoprire qualcosa di suo padre. Gli occhi di Yalìm erano sempre duri e concentrati, e sembravano cogliere solo difetti ed errori, ma col tempo Yusuf aveva cominciato a leggervi piccoli indizi che gli facevano capire se si trovasse sulla strada giusta. Probabilmente Yalìm non aveva mai saputo come fare il padre, non ricordava molto il suo, ma aveva pensato che mostrare a suo figlio qualcosa che sapeva fare bene e cercare di trasmettergli le sue conoscenze, potesse essere un modo per imparare a sua volta.

Quella sera, padre e figlio rientrarono dalla fucina particolarmente stanchi. Era stata una giornata davvero pesante, ma dopo cena Yusuf uscì come sempre in cortile, attendendo che il padre lo raggiungesse per il consueto allenamento. L’autunno aveva accorciato le giornate ed era ormai necessario accendere le lampade.

Malgrado la stanchezza gli facesse sentire le braccia pesanti come piombo, Yusuf era ben intenzionato a non darlo a vedere e, con diligenza, si mise a ripassare le posizioni di guardia, concentrato al punto da non accorgersi che il padre si era fermato sulla porta ad osservarlo.

— Questa sera avevo in mente qualcosa di diverso. — disse Yalìm e il ragazzo sobbalzò, abbassando le braccia quasi con sollievo. Stentava a credere che suo padre fosse troppo stanco per allenarsi, ma accolse quel cambiamento in parte con delusione e in parte con gratitudine. Trotterellò fino alla porta e insieme rientrarono in casa.

— Siediti. — disse Yalìm frugando in un cassetto della credenza. Tirò fuori alcuni fogli di carta, una penna d’oca e una boccetta d’inchiostro e li posò sul tavolo. — So che stavi imparando a scrivere, vorrei vedere a che punto sei. —

A Yusuf piaceva scrivere, anche se lo trovava difficile; pensava che ci fosse qualcosa di magico nel modo in cui le lettere prendevano forma sulla carta formando le parole, ma era parecchio tempo che non vi si dedicava e l’idea di quella prova lo mise un poco in agitazione. Si sedette e fissò il foglio di carta sgranchendosi nervosamente la mano destra, agitò la boccetta e la stappò con attenzione, poi afferrò la penna, e dopo averne controllato la punta, prese un bel respiro.

— Cosa devo scrivere? —

— Trattieni la lama dalla carne degli innocenti. —

Yusuf aggrottò le sopracciglia. Che razza di frase era quella? Non poteva cominciare con qualcosa di più semplice? Ci pensò su, cercando di ricordare le linee e le forme e quando credette di essere abbastanza sicuro, intinse la penna e si mise al lavoro.

— Cosa significa, padre? — chiese contemplando senza troppa soddisfazione il risultato dei suoi sforzi che risaltava nero e implacabile sulla carta un po’ ingiallita.

— Significa che sei un po’ fuori esercizio. — disse Yalìm che si era piazzato in piedi alle sue spalle.

— E’ vero. Ma l’ho scritto giusto, no? —

— Sì, l’hai scritto giusto. —

— Ma…—

— Questo è il primo principio del Credo dell’Ordine degli Assassini. —

Yusuf si voltò per guardare suo padre, ma lui si era già spostato e, silenzioso come un gatto, era andato a sedersi di fronte a lui.

— Principio? —

— Una regola. —

— E ce ne sono molte?

— Solo tre. —

Yusuf pensò che se avesse dovuto scriverle tutte, un foglio sarebbe bastato e avanzato.

— Tu sai che appartengo a questo Ordine. —

— Sì, padre. —

— Ma sai cosa vuol dire? —

Yusuf rifletté. Non voleva fare la figura dell’ignorante, o peggio, del bambino, ma in realtà non sapeva molto.

— So che siete guerrieri che combattono per la libertà della gente, e che uccidono i loro nemici.— Non era un granché come risposta, ma purtroppo tutte le sue informazioni si riducevano a questo.

Un sorriso appena accennato comparve sul volto di Yalìm. — E i nemici, chi sono? —

— Quelli… che non vogliono che la gente sia libera? —

— Proprio così. Ma per dire questo dovresti anche sapere cosa significa essere liberi. —

Yalìm lo fissò con occhi attenti, e Yusuf comprese che era quella la domanda difficile.

— Fare quello che si vuole? — tentò, timidamente.

— E se fai ciò che vuoi e questo danneggia qualcun altro? —

— Bè, no, credo che così non andrebbe bene. —

Yalìm incrociò le braccia sul tavolo. — Essere liberi significa pensare con la propria testa e fare le proprie scelte. Significa decidere della propria vita, chiedersi sempre che cosa è giusto e cosa non lo è, e soprattutto perché. Al contrario di quello che si può pensare, la libertà è la scelta più difficile, perché farsi continuamente domande è faticoso e il più delle volte è molto più comodo accettare ciò che ci viene imposto. —

Yusuf fissò suo padre domandandosi dove volesse andare a parare. Gli stava dicendo che essere liberi era difficile, quindi lui combatteva perché le persone dovessero faticare di più, mentre i suoi nemici invece lo facevano per dare loro la strada più facile. La cosa sembrava non avere molto senso.

— Io sono tuo padre, — continuò Yalìm che aveva notato il suo sguardo interdetto. — e ho visto più cose di te e ti voglio bene. Posso dirti di fare qualcosa che ritengo giusto basandomi sulla mia esperienza e tu sei tenuto ad ascoltarmi. Sai che se pensi che quello che ti chiedo non sia giusto, puoi discutere con me per provare a farmi cambiare idea. Puoi anche decidere di non farlo e metterti contro di me, ma questo avrà di sicuro delle conseguenze, e tu devi essere pronto ad accettarle. Questa è la libertà. —

Nel poco tempo in cui avevano vissuto insieme, suo padre era sempre stato disposto ad ascoltarlo, non aveva mai liquidato le sue richieste con un secco rifiuto o senza spiegazioni, ma era vero che discutere con lui era molto faticoso, perché sapeva parlare bene e pareva sempre in grado di smontare ogni sua obiezione con grande facilità. Fargli cambiare idea poi, era davvero un’impresa. Yusuf si era detto spesso che obbedire senza questioni di certo sarebbe stato meno stancante, ma ogni volta era tornato alla carica, con maggior impegno e testardaggine. Quindi anche lui sceglieva la strada più difficile? Avrebbe preferito qualcuno vicino che imponesse le sue decisioni senza possibilità di replica? No, di sicuro no. In quel momento tutto fu chiaro.

— Ho capito, padre. — Il suo sguardo cadde di nuovo sul foglio di carta. — Ma questo cosa c’entra con quello che mi hai fatto scrivere? —

Yalìm si alzò, prese la spada di legno con cui sia allenava e la posò sul tavolo, poi staccò il suo shamshir dal piolo sulla parete, lo sguainò e lo appoggiò proprio accanto.

— Qual è la differenza tra le due? — chiese tornando a sedersi.

Quella vera è più bella, pensò Yusuf, ma diede una risposta diversa: — Con una non ci si può far male, con l’altra invece ce ne si può fare parecchio. —

— Hai ragione, ma solo in parte. — Gli occhi di Yalìm accarezzarono la lama e la sua mano si posò quasi con reverenza sull’impugnatura dello shamshir. — Questo mese ci siamo allenati molto e tu hai imparato tante cose. Quello che devi tenere a mente sempre è che tutto quello che ti insegno ha un solo scopo: sconfiggere l’avversario. E la maggior parte delle volte sconfiggere l’avversario significa ucciderlo. Usiamo le spade di legno per non farci male, ed è in questo che hai ragione, ma in sostanza non c’è alcuna differenza tra le due, perché entrambe hanno lo stesso fine. —

Yusuf vide gli occhi di suo padre diventare più freddi. — Non devi dimenticare che uccidere è una cosa orribile, sempre, perchè dalla morte non c’è scampo, ma se la tua vita o quella di chi ami o la tua libertà di scelta devono essere protette, anche dalla tua volontà di farlo non dovrà esserci scampo. L’intento dovrà essere preciso, diretto al bersaglio, senza errori e con le conseguenze ridotte al minimo. E con questo siamo arrivati a quello che ti ho fatto scrivere, una frase semplice che contiene un discorso molto più vasto. —

Nella mente di Yusuf le serate in cortile assunsero un significato diverso, uno che aveva voluto evitare di vedere. Ricordò con estrema chiarezza la sera della morte di sua madre e in particolare il momento in cui suo padre e gli altri tre Assassini avevano fatto irruzione in casa affrontando gli aggressori in un breve e cruento scontro. Vide lo shamshir, che ora riposava sul tavolo nella sua pulita ed elegante bellezza, volteggiare nell’aria e ricoprirsi di sangue, descrivendo figure che lui stesso aveva eseguito allenandosi, senza volerne però riconoscere il vero scopo. Rabbrividì, e non disse nulla.

Yalìm indicò il foglio. — Agisci nell’ombra. — dettò e la penna di nuovo si mise all’opera, scricchiolando sulla carta.

— Non compromettere mai la Confraternita. —

L’ultima regola era scritta molto meglio della prima.

— Il primo e il secondo principio sono l’onore e la forza dell’Ordine, e sono strettamente legati.— spiegò Yalìm. — Mescolandosi alla folla, rispettando la libertà delle persone e la vita degli innocenti, l’Ordine guadagna rispetto a sua volta e la gente lo aiuta, a volte anche senza saperlo. Il terzo principio è il più importante, perché permette all’Ordine di sopravvivere e riguarda la lealtà.—

Yusuf, senza quasi pensare, intinse la penna e nella parte rimasta bianca del foglio scrisse la parola onore, poi sotto scrisse forza e poi lealtà.

 

ﺮوﻨﻮ

 

 

 

ﺖﻬوّﻮ ﻛ

 

 

ﻖﻴﻠﻴﻠﮕﺎﺑ

 

— Padre, — disse poi. — ma queste regole… se si è sempre liberi di scegliere… si potrebbe anche scegliere di non seguirle? —

Yalìm sorrise, non era così sorpreso da quella domanda, ma non era ancora il momento, forse, di affrontare con suo figlio non ancora tredicenne i paradossi che erano insiti nel Credo dell’Ordine.

— Secondo te? —

— Non lo so, devo pensarci. —

— Ottima risposta. —

 




 

 

 

 

Nota

Le parole che, temo con molta approssimazione, ho trascritto in turco ottomano sono: onur (onore), kuvvet (forza) e bağilik (lealtà). Scrivo “ho trascritto” perchè sono io che ho voluto cimentarmi in questa cosa, che mi divertita molto. Quindi anche gli errori che di sicuro ci saranno, sono una mia responsabilità.

Approfitto per dire che se qualcuno per caso conoscesse il turco (non necessariamente ottomano) e scoprisse qualche orrendo strafalcione, apprezzeremmo molto se volesse segnalarcelo.

 

Se volete dare un’occhiata a qualche illustrazione della storia, opera della mia coautrice:

http://lightshine95.deviantart.com/gallery/40653223

 

Alex

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Strategia ***


Bursa,

Safar 885

(Aprile 1480)


 

 

 












uella mattina Yusuf si lavò alla buona e si vestì in fretta. Nel dormiveglia aveva intravisto Yalìm rifarsi il letto e lasciare la loro stanza molto presto, e lui si era alzato poco dopo e con l’intenzione di sgattaiolargli dietro. Quando uscì nel cortile un frullo d’ali attirò la sua attenzione e Yusuf guardò in alto tra i tetti confinanti, dove un piccolo stormo di piccioni si era appena librato in volo. Era troppo tardi.

È scomparso, pensò con la bocca ancora impastata dal sonno.

Una donna dietro la finestra della casa del fabbro gli faceva segno di entrare.

Yusuf calciò un ciottolo dello sterrato e lasciò il cortile.

 

― Si è preso la giornata libera, ― disse Teoman masticando una focaccia salata.

Yusuf sedette accanto all’uomo al vecchio tavolo, mentre Rasime gli metteva sotto al naso una scodella di latte di capra. Il ragazzo vi intinse un simit e lo addentò voracemente, coltivando la sprecata speranza di finire la colazione in tempo per raggiungere suo padre.

― Per fare ché? ― chiese con la bocca piena.

Teoman tagliò una fetta di formaggio. ― Questo non me l’ha detto. ―

― E cosa ti ha detto? ― domandò ancora Yusuf, prima di prendere la scodella con due mani e tracannare il latte tutto d’un sorso.

― Di tenerti con me in bottega fino al suo ritorno. ―

Yusuf posò di colpo la ciotola sul tavolo e si voltò a guardarlo con un bel baffone di latte. ― Perché? ― obbiettò contrariato. Quella prospettiva andava contro i suoi piani.

Teoman e Rasime si scambiarono un’occhiata.

― Anche questo non me l’ha detto, ― disse il fabbro alzandosi. ― Adesso vieni, oggi voglio mostrarti una cosa. ―

Yusuf rimase seduto ancora per un po', fissando la sua sagoma massiccia oltrepassare la porta e puntare verso la fucina. Ad un tratto Rasime aggirò il tavolo per venirgli a fare una carezza sulla testa.

― Tuo padre sembrava molto arrabbiato, ― gli mormorò complice. ― Yusuf, è successo qualcosa? ― domandò prendendo la sua tazza vuota.

Il ragazzo scosse la testa e si asciugò il latte sulla faccia con la manica della camicia da lavoro.

― No, ― disse perplesso, sorpreso quanto lei. ― Non è successo nulla. ― Incontrò gli occhi della moglie del fabbro con una muta inquietudine.

― Yusuf! ― lo chiamò Teoman e lui scattò come una lepre fuori dalla porta.

 

Nella grande fucina la luce si stava abbassando quando finalmente il fabbro lo congedò.

La giornata era trascorsa con una lentezza straziante per Yusuf, che il comportamento insolito di suo padre aveva reso distratto e anche un po’ ansioso. Nella pausa per il pranzo e nelle ore pomeridiane aveva cercato di estorcere altre informazioni a Rasime, sospettando che nell’occhiata tra coniugi di quella mattina ci fosse nascosto un discorso più ampio, ma la donna aveva scosso la testa a tutti i suoi quesiti, mentre faceva le pulizie e stendeva i panni nel cortile, lasciandolo friggere nel suo tormento. Poi Teoman l’aveva richiamato in bottega per il secondo turno e si era spaccato le braccia un altro po’.

Grondante di sudore, Yusuf uscì dalla fucina e attraversò il cortile del retrobottega che confinava con quello dove si allenavano lui e Yalìm. Suo padre non si era ancora fatto vivo e perciò quella sera si sarebbe dato una pulita come si deve, prima di mettersi alla tavola del fabbro per la cena.

C’era qualcuno seduto al piccolo tavolo nel centro del salottino e quando Yusuf entrò in casa gli era parsa solo un’ombra; quasi non ci badò, ma poi l’ombra si mosse, facendo scricchiolare la sedia, e a Yusuf gelò il sangue. 

È tornato. E chissà da quanto tempo….

Le braccia conserte, lo sguardo perso lontano oltre le finestre che affacciavano sul cortile. Di fronte a lui, abbandonata sul tavolo come la carcassa di una vecchia preda, c’era una coppia di dadi…

Yusuf trasalì, sentendo guance e orecchie tornare ad incendiarsi rapidamente, come se fosse ancora di fronte alla grande bocca della fucina.

― Va’ a letto, ― disse Yalìm d’un tratto, senza voltarsi. ― Domani mi racconterai tutto. ―

Yusuf si avviò verso la loro camera, guardando ora suo padre ora i dadi truccati, e si richiuse la porta alle spalle chiedendosi come avesse fatto a trovarli. Scardinò tutto il cassetto dal comodino e lo rivoltò sopra al letto quasi con rabbia, dandosi dello stupido. Avrebbe dovuto lanciarli in mare durante il viaggio e invece li aveva tenuti nelle tasche, e appena erano arrivati a Bursa li aveva nascosti in fondo a quel cassetto, ancora prima di lavarsi, come il più inestimabile dei tesori.

Prese a pugni il cuscino e poi vi affondò la faccia, soffocandoci un urlo.

Con Imran lo scontro tra la verità e la menzogna era durato giusto il tempo di qualche breve stoccata, e Yusuf ne era uscito in parte vincitore, ma non sarebbe mai riuscito a mentire a suo padre, che gli aveva esplicitamente ordinato di non farlo rimandando la battaglia all’indomani.

Qualcosa, forse un’intuizione, gli suggeriva che Yalìm aveva trascorso tutta la giornata fuori casa solo per pensare alla maniera migliore per fargli rimpiangere le fatiche della fucina. Suo padre non faceva nulla per caso, e se lo aveva mandato a riposare così presto e senza neanche cenare, doveva pur esserci un motivo.

 

Yalìm sfondò la sua guardia entrandovi con tutta la propria figura e Yusuf fu costretto a indietreggiare. Un attimo dopo perse l’equilibrio e cadde seduto sul terriccio del cortile, inghiottito dalla polvere che avevano alzato i suoi stessi piedi.

Da quando avevano cominciato l’allenamento il suo maestro non gli aveva dato tregua, imponendosi nel duello senza più un minimo di correttezza, atterrandolo con uno sgambetto o confondendolo con una finta. Tutti gli insegnamenti, le tecniche, le regole che suo padre gli aveva trasmesso, quel pomeriggio si erano sgretolate come il pane secco appena Yusuf aveva cercato di usarle contro di lui. Aveva risposto all’offensiva di suo padre appellandosi a tutta la sua forza, ma era stato vano, anche quello, come tutti i tentativi di tenere testa ai suoi affondi.

― Alzati. ―

Ora basta.

Di nuovo in piedi Yusuf scagliò a terra la spada di legno. ― Non vale! ― sbottò. ― Sei più grosso di me e te ne stai approfittando! ― aveva inghiottito una goccia di sudore e le ultime parole gli erano uscite rauche, trasformando il suo grido in qualcosa che poteva sembrare il preludio ad una fontana di lacrime. 

Yalìm piantò la sua spada nel terriccio e lo guardò negli occhi con i pugni sui fianchi. Aveva lo stesso sguardo vuoto di quella mattina, quando prima di recarsi in bottega gli aveva fatto vomitare ogni cosa, da come se li era procurati al perché per colpa di quei dadi c’era andata di mezzo la sua faccia. Yalìm aveva preso tutto, tutto come se di quei ricordi non avesse voluto lasciare traccia nella mente di Yusuf. Come se obbligandolo a raccontarglielo, quel brutto incubo avrebbe smesso di tormentarlo e suo figlio avrebbe potuto dimenticarlo. Si era limitato ad ascoltare proprio con quello sguardo che aveva anche adesso, quasi un modo non per prendere tempo, ma per dare a lui il tempo di mettere insieme altre parole. Per dare a chi gli stava parlando la possibilità di riscattarsi prima del suo colpo di grazia.

― Mi dispiace, va bene?! ― gridò Yusuf, afferrando al volo quella possibilità. ― Non ne vado fiero, ma il prezzo di quel gioco l’ho pagato, padre! L’ho pagato sulla mia pelle. ― Se avesse potuto si sarebbe strappato la cicatrice dalla faccia come una maschera solo per fargliela vedere più da vicino.

― Non è questo il punto, Yusuf. ―

La tranquillità con cui suo padre insisteva a rivolgerglisi, senza ostentare neanche un briciolo di compassione per l'atrocità, l'orrore di quei ricordi, lo spiazzò, mandandolo di nuovo seduto sulla nuda terra del cortile.

― L’azzardo è un gioco pericoloso, ma sono ancora più pericolosi i suoi giocatori, ― continuava Yalìm. ― Sai perché? ―

Yusuf scosse la testa.

― Perché il baro, l’imbroglione e il truffatore prima che della frode sono maestri del loro gioco. Come credi che si vincano le guerre? ―

― Con gli uomini, ― rispose Yusuf di getto, come una rapida stoccata, ― e le armi. Chi ne ha di più e più forti… vince. ―

Yalìm lo fulminò con un’occhiataccia. ― A volte rispondi come se avessi il doppio della tua età,  altre come se ne avessi neanche la metà. ―

Yusuf sfoggiò il peggiore dei suoi bronci. E con questo suo padre cosa voleva insinuare?

L’uomo sfilò la propria spada di legno dal terriccio e pulì la lama dalla terra. ― Un bravo combattente potrebbe stendere il suo avversario a mani nude, anche se questi impugnasse la sciabola del Profeta in persona. ―

― Bhé, un solo uomo potrebbe ben poco contro un esercito di spade del Profeta. ―

Yalìm si fece una sommessa risata. Quel ragazzino gli ricordava sua moglie sempre di più e il dolore cresceva insieme al ricordo.

― Quelli come te e il tuo amico sono le prede più facili per gente come Ghaalip, ― continuò Yalìm, sembrando imprimersi quel nome a fuoco nella mente. ― Due cuccioli che inseguono un cinghiale quando ancora un coniglio è più grande di loro: la vostra presunzione è stata la vostra rovina e la sua occasione. Senza contare il risentimento del tuo amico. La vendetta acceca, indebolisce gli uomini, Yusuf, minando il loro operato fino ad impossessarsi del loro animo. ―

― Lo sai per esperienza? ―

Yalìm si voltò a guardarlo, non poco sorpreso da quella domanda. Le rughe sul suo volto si avvicinarono in un sorriso forzato, una fuga disperata da chissà quali ricordi.

― Tutto quello che cerco di insegnarti lo so per esperienza. ―

Yusuf rimase a lungo in silenzio.

― Allora… come si vincono le guerre? ― chiese poi d'un tratto.

― Con la strategia. ―

― Pffffft! ― scoppiò Yusuf. ― Solo nelle leggende o nei racconti di Simbad, papà! ―

― Forse tu conosci un’altra parola, ― disse Yalìm fingendosi pensieroso. ― Le guerre si vincono con l’imbroglio, il più grande di tutti, e la strategia non è altro che questo. ―

― Allora tutti i generali sono uomini senza onore? ―

Yalìm tacque. Era la seconda volta da quando vivevano a Bursa che suo figlio faceva le domande giuste nel momento sbagliato, e anche quella volta non sapeva se sorprendersene o preoccuparsene. Le ombre intorno ai suoi occhi sembrarono farsi più fitte mentre si preparava a quello scontro ormai inevitabile.

― I paradossi dell’Ordine sono un terreno scosceso, Yusuf, ― cominciò, serio, guardandolo dall'alto, ― e la risposta che mi stai chiedendo ne contiene uno, forse il più difficile da comprendere. ―

Il ragazzo non disse nulla e attese che fosse suo padre a continuare, ma con un respiro profondo Yalìm sembrò aver preso una decisone diversa da quella che si aspettava e Yusuf se ne sentì un po’ offeso. Ma dopo giusto un attimo di esitazione, la voce profonda e vibrante di suo padre tornò a scaldargli le orecchie.

― Il fine non giustifica i mezzi. Mai. Eppure in guerra non c’è spazio per la pietà e ogni scorrettezza sembra concessa. Questo perché il Sovrano, il Regno, l’Impero e il Mondo perfetto non esistono, Yusuf, perché l’imperfezione fa parte della natura umana. La sola cosa che non deve condurre nessuna delle tue azioni o fare alcuna delle tue scelte è l’ignoranza. O ciò che ne deriva: la paura. L’odio. ―

― La vendetta. ―

Yalìm s’inginocchio alla sua altezza. ― La Confraternita degli Assassini lotta contro questi cancri del Mondo dall’alba dei tempi e la vendetta è uno di loro. All’inizio assume le sembianze dell’arma più potente di cui possa servirsi un uomo per abbattere i suoi nemici, ma poi diventa traviante, un’ossessione, offuscando il tuo giudizio nel rischio di compromettere il Primo fondamento dell’Ordine. ―

Trattieni la lama dalla carne degli innocenti, ― citò Yusuf guardando a terra come se lo avesse letto da là.

Yalìm annuì soddisfatto. ― Sono contento che te ne rammenti. Sappi che questi principi varranno dovunque andrai e qualunque cammino tu scelga di percorrere, indifferentemente dall’essere un Assassino o un fabbro, ― disse alludendo alla bottega di Teoman. ― Diffida di chi ti dice che il bene non esiste, figlio mio. Esiste, ― gli puntò il dito sul petto all’altezza del cuore, ― qui dentro. ―

Yusuf piantò gli occhi nei suoi, ma lui si stava già alzando.

― Nulla è reale. Tutto è lecito. ― mormorò Yalìm una volta in piedi col tono assorto di una preghiera, ma si riscosse subito dopo, come ricordandosi con chi aveva a che fare. Gli tese la mano libera dalla spada di legno e quando Yusuf l’afferrò senza esitazioni, suo padre lo tirò a sé avvolgendolo in un abbraccio che sapeva di sudore, di spezie e di promesse.

 

 





 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Il peso di un debito ***


Bursa,

Dhul-hijja 886

(Febbraio 1482)

 

 

 

 

 

 

 












on era importante se fuori fosse estate o inverno, il calore della fucina era sempre uguale, così come il rumore.

Azionando il mantice che teneva vive le fiamme nella forgia, Yusuf osservava una nuova lama prendere gradualmente forma sotto i colpi sapienti del martello di Teoman. Era l’ultimo pezzo della giornata e gli apprendisti se n’erano già andati. Il sole ormai basso sull’orizzonte, si intrufolava tra gli edifici, penetrando con raggi polverosi dalle finestre.

Erano passate due settimane dalla partenza di Yalìm, che aveva risposto all’appello del suo Maestro senza premurarsi di rendere nota al figlio la sua destinazione.

— Perché? — aveva chiesto Yusuf quando il padre gli aveva comunicato la sua intenzione di ritornare in missione per la Confraternita.

— E’ la mia vita, — aveva risposto Yalìm — il mio scopo, quello in cui credo. Non ho esitato ad allontanarmene quando è stato necessario: tu avevi bisogno di me. Ma ora… sei grande, Yusuf, e io sento che devo tornare a essere quello che sono. Riesci a capirlo? —

Il ragazzo aveva annuito, orgoglioso perché il padre aveva detto che era grande e allo stesso tempo dispiaciuto di doverlo vedere allontanarsi un’altra volta: si era ormai abituato ad averlo intorno. Quella sera, invece di allenarsi, avevano affilato le armi e controllato gli equipaggiamenti e quando avevano finito, Yalìm gli aveva consegnato una custodia consumata con dentro quattro pugnali da lancio dotati di una sinuosa impugnatura.

— Questi li lascio a te, — aveva detto. — Teoman me ne ha fatti di nuovi. —

Yusuf si era rigirato la custodia tra le mani, contemplandola come se volesse convincersi che fosse vera, sussurrando un ringraziamento. Non aveva mai posseduto un’arma che fosse davvero sua, e adesso ne aveva quattro.

— Stai attento però, ora sono affilati. —

La mattina dopo Yalìm era partito prima dell’alba, gli zoccoli del suo cavallo che sbriciolavano il sottile strato di ghiaccio che ricopriva la strada e la sciarpa colorata che risaltava sulla lana scura del suo mantello da viaggio.

La lama sfrigolò quando Teoman la immerse nella vasca di tempra, sollevando una nuvola di vapore.

— Un’ottima curvatura, sì. — sentenziò il fabbro estraendola con le pinze e osservandola nella luce del sole calante. — Sai dirmi cos’è? —

— Un kijil, Teoman. — rispose pronto Yusuf — Direi per un uomo alto come te. — 

— Ottimo, ragazzo. — disse l’altro. — Metti su un altro bel po’ di muscoli e sarai pronto a rubarmi il mestiere. L’occhio già non ti manca. — La sua risata rimbombò nella bottega, ma si interruppe all’improvviso quando la porta si aprì e tre uomini avvolti nei mantelli fecero il loro ingresso insieme a un refolo d’aria gelata. Avevano visi stanchi e sguardi duri e l’atteggiamento da predatori che Yusuf riconobbe subito.

— Salute e pace, Saad. — disse Teoman rivolgendosi al più vecchio dei tre.

— Salute e pace a te. — rispose quello, con una voce roca e un accento particolare.

— Cosa vi porta nella mia bottega? —

— Notizie. —

Teoman aggrottò la fronte.

— Yusuf, — disse. — vai pure, la cena sarà quasi pronta. Di’ a Rasime che arrivo tra poco. —

Il ragazzo lasciò il mantice e, dopo aver rivolto un breve cenno di saluto ai tre sconosciuti, uscì dalla porta che dava sul retro.

Non era strano vedere degli Assassini nella bottega di Teoman, era già accaduto prima, ma presentarsi all’ora di chiusura era di certo inconsueto e pure irrispettoso. Avevano detto che portavano notizie, la cui importanza forse poteva giustificare il loro comportamento…

Yusuf aveva percorso la metà del cortile che separava la bottega dall’abitazione di Teoman quando un pensiero improvviso lo fece fermare di colpo. Forse quegli Assassini conoscevano suo padre e magari sapevano quando sarebbe tornato. Yusuf si voltò indietro a fissare la porta da cui era appena uscito. Il pensiero allettante della cena cucinata dalle mani d’oro di Rasime combatteva con la curiosità e per un buon minuto il ragazzo se ne stette immobile in mezzo al cortile aspettando l’esito dello scontro, poi, sospirando e con i crampi allo stomaco per la fame, ritornò sui suoi passi e accostò l’orecchio alla porta della bottega.

La voce tonante di Teoman era facilmente riconoscibile: — Quanto avete aspettato? —

Quella di Saad invece appena percettibile: — Il tempo stabilito più un giorno, poi abbiamo dovuto andar via. Non potevamo correre altri rischi. —

— Quindi credi che sia morto, anche se non ne hai la prova. —

— Ne sono quasi certo, purtroppo. Ho voluto comunque aspettare un giorno in più. Mi ha salvato la vita, Teoman. Se non fosse stato per lui non me la sarei cavata solo con questo graffio. —

— Direi che è ben più di un graffio, a vederlo così. Ci sono voluti… diciotto punti! Chi ha eseguito questo pregevole ricamo? —

— Raif, qui, è di sicuro un abile ricamatore. Ma ha la mano pesante. —

Qualcuno ridacchiò.

— Non sto criticando la precisione del lavoro, — tornò a dire Teoman — ma la ferita non ha un bell’aspetto, Saad. Permetti a Rasime di darle un’occhiata e poi fermatevi qualche giorno a riposare.—

— Accettiamo volentieri la tua ospitalità, ma solo per stanotte. —

— Insisto, Saad. Manda avanti la squadra e fermati almeno tu. Sei già stato troppo tempo senza le cure adeguate. —

Il silenzio che seguì durò quel tanto da far pensare a Yusuf che il gruppo fosse uscito in strada e il ragazzo premette ancor di più l’orecchio contro il legno grezzo della porta, trattenendo il fiato nel tentativo di cogliere qualche altro suono finché la voce di Saad non tornò a farsi sentire.

— Non posso, Teoman. Sono già in grave ritardo e devo portare il ragazzo con me, ora che è rimasto solo. Per quanto io e Yalìm non fossimo amici fraterni, ho un debito con lui. —

 

Il fabbro aprì la bocca per replicare, ma non fece in tempo a dire una parola, perché la porta che dava sul retro si spalancò con una violenza tale da sbattere contro la parete. Yusuf stava immobile sulla soglia e i suoi occhi spalancati e le labbra tremanti erano la prova evidente che avesse origliato la conversazione. Teoman mosse un passo verso di lui, ma la reazione del ragazzo fu fulminea: attraversò la fucina in quattro balzi, si fece largo a gomitate tra gli Assassini e infilò l’uscita, allontanandosi di corsa nella luce ormai incerta del crepuscolo. Saad si precipitò fuori a sua volta, con la voce di Teoman che risuonava alle sue spalle: — E’ una lepre, non lo prenderai mai. — e il dolore acuto alla coscia che lo costringeva a fermarsi in mezzo alla strada senza poter far altro che fissare la schiena del fuggitivo che spariva dietro un angolo.

— Tornerà quando avrà fame. — disse il fabbro, che nel frattempo lo aveva raggiunto, posandogli una mano callosa sulla spalla. — Andiamo in casa. Non credo dovremo aspettare molto. —

 

Contrariamente alle previsioni di Teoman, era da poco passata la mezzanotte quando Yusuf trascinò i piedi fin davanti alla porta di casa sua. Era stanco morto, affamato e traboccante di dolore e di furia. Aveva passato le ore correndo e vagando senza meta, finché non si era trovato, senza quasi accorgersene, sul suo tetto preferito e si era rintanato fra i due comignoli, caldi per i focolari accesi al di sotto. Solo quel calore aveva fatto sì che non morisse assiderato, visto che si era lanciato per strada con addosso solo gli abiti che portava nella fucina. Era rimasto lì per un po’, a correre dietro nella  sua mente alla rabbia e la disperazione, che parevano inseguirsi in un circolo senza fine, cedendo ora all’una ora all’altra, piangendo o stringendo i pugni. Era restato lì finché, con addosso una strana calma, si era calato in silenzio dal tetto e si era messo sulla via del ritorno. Era ancora incredulo, arrabbiato e sconvolto dal dolore, ma anche ben deciso a non farsi travolgere oltre da quei sentimenti.

Non fu una sorpresa notare una debole luce filtrare dalle imposte; non si era illuso neanche per un momento di poter sfuggire al confronto con la realtà. Yusuf aprì la porta ed entrò in casa come un innocente che si avvia al patibolo con la determinazione di chi non è stato spezzato. Saad lo attendeva seduto al vecchio tavolo e per fortuna non aveva occupato il posto di suo padre. I segni della stanchezza si erano fatti ancora più evidenti sul suo viso, ma gli occhi erano ben vigili, e acuti come due schegge d’ossidiana.

— Avrai fame. — disse tentando un sorriso e togliendo il tovagliolo che copriva il piatto posato sul tavolo: un paio di focacce, formaggio fresco e olive salate. Yusuf restò in silenzio e si avvicinò con la stessa circospezione di un gatto selvatico che fiuta un’esca sospettando una trappola. Afferrò rapidamente un’oliva e se la cacciò in bocca.

— Non ho abbandonato tuo padre. — disse Saad con voce ferma, passandosi una mano sulla barba disordinata. — So che lo pensi, ma ti giuro che non è così. —

Yusuf prese posto sulla sedia di fronte all’Assassino, fissandolo guardingo.

— Dimmi come è andata, allora. —

L’espressione di Saad reagì a quel tono di sfida indurendosi, se possibile, ancora di più, ma rispose con calma.

— Abbiamo incontrato resistenza e sono stato ferito. La missione è stata portata a termine solo grazie all’abilità e alla determinazione di tuo padre. Senza il suo intervento, non sarei qui. —

Ci sei tu, ma lui non c’è, pensò Yusuf.

— Eravamo inseguiti e abbiamo dovuto separarci per confondere le tracce. Abbiamo stabilito un punto di riunione e un tempo d’attesa, ma lui non è arrivato. Ho deciso di aspettarlo ancora un giorno dopo che il tempo era scaduto, ma non è servito. —

Yusuf scrutò il volto dell’uomo di fronte a lui in cerca di segni di incertezza o di menzogna, ma non ne trovò, vide solo stanchezza e dolore, e forse qualcos’altro.

— Io e Yalìm abbiamo avuto dei disaccordi in passato, — continuò l’Assassino — ma non ho mai avuto nessun dubbio sul suo valore o sul suo onore. Ho un debito con lui ed è come se sentissi di non aver fatto abbastanza, anche se ho fatto più di quello che le regole mi consentivano. Sono qui per riportarti a Istanbul, io e la Confraternita ci occuperemo di te. Non sei rimasto solo, hai ancora una famiglia, mio figlio ha un paio d’anni più…—

— Non verrò con te. — Yusuf si alzò con l’intento di far capire che per lui la conversazione era conclusa.

— Cosa vuol dire non verrai? —

— A me sembra chiaro. Intendi portarmi via di peso? So che la Confraternita dà il massimo valore alle scelte e non credo che vorrai andare contro la mia. Sei venuto qui a farmi la tua offerta e questo ripaga il tuo debito. Sono io che non accetto. —

Saad lo fissava sconcertato, di sicuro non si aspettava una risposta simile.

— Non sai cosa stai dicendo. — disse scuotendo la testa — L’Ordine può garantirti protezione, stabilità, uno scopo. —

— E la morte. —

L’Assassino si alzò, appoggiandosi al tavolo con una smorfia di dolore che gli stirava le labbra.

— Non credere che fuori la vita sia meno dura. — Il suo tono era paterno, ma come velato di minaccia. — Altre cose possono ucciderti: la fame, la fatica, l’ignoranza. Troverai nemici anche fuori dall’Ordine, gente pronta a provare a toglierti tutto ciò che avrai duramente guadagnato o a tradirti per pochi spiccioli. Tu non sai nulla, Yusuf. Anche se tuo padre ha voluto farti crescere fuori della Confraternita, essa ha sempre vegliato su di te, ti ha nutrito e ti ha dato rifugio. Se la rifiuti, sarai davvero solo. —

Yusuf incrociò le braccia sul petto e strinse le labbra, chiudendosi in un silenzio ostinato.

— La rabbia e il dolore hanno offuscato il tuo giudizio. —

— Allora dovrai darmi più tempo. —

L’Assassino osservò quel ragazzo alto e scarmigliato, con la faccia sporca e ancora striata dalle lacrime, che lo sfidava apertamente con gli occhi di sua madre e la lingua arguta e tagliente di suo padre. Saad si rese conto che non c’era altro che potesse dire, nessun’altra argomentazione valida e che quel colloquio era davvero giunto al termine.

La spossatezza che si era sforzato di contrastare fino a quel momento gli piombò addosso tutta in una volta e solo la sua volontà di ferro gli permise di non curvare le spalle sotto quel peso.

— Come vuoi. — sussurrò, e si avviò verso la porta zoppicando.

 

 

La luce entrava dalle imposte aperte, la stanza era piacevolmente calda e il rumore di stoviglie allegro e familiare.

Yusuf si rizzò a sedere sul letto strofinandosi gli occhi e con una folle speranza che gli attraversava la mente. Riconoscere Rasime però, che trafficava intorno al focolare, lo catapultò nuovamente nell’incubo da cui credeva di essersi svegliato.

Non fece in tempo a dire una parola che la donna volò al suo fianco stringendolo in una abbraccio odoroso di fumo e di pane appena sfornato.

Benim küçük. — disse solo Rasime, cullandolo come se fosse un bambino, e lui si abbandonò nel conforto che gli dava dimenticare per un po’ di essere ormai grande.

Quando la moglie del fabbro si staccò da lui tentando di sistemargli i capelli arruffati con goffe carezze, Yusuf si ritrovò a pensare a come già un’altra volta fosse stato il silenzioso sostegno di una donna a impedirgli di andare in pezzi. A differenza degli uomini, le donne sapevano sempre cosa fare in questi frangenti.

— Sono ancora qui? — chiese con la voce arrochita dal sonno.

— Stanno partendo. — rispose Rasime — Teoman ha ancora insistito perché si fermassero, ma quel testone di un uomo non ha sentito ragioni. —  Pronunciò la parola uomo come se si trattasse di un insulto.

— Bè, per te forse è meglio così. — aggiunse poi, tornando al focolare.

— Sai cosa è successo? — domandò Yusuf alzandosi e portandosi accanto alla finestra per spiare non visto gli Assassini che caricavano le bisacce sui cavalli.

— Sì, lo so. — Rasime posò sul tavolo una tazza di latte fumante e due simit coperti di miele.

Saad sembrava ancora stanco mentre montava in sella e il ragazzo dovette ammettere di provare rispetto per quell’uomo e la sua intenzione di onorare un debito.

Suo padre gli aveva insegnato che c’erano molti modi di combattere e che il primo da tentare erano sempre le parole. Mentre si rendeva conto di aver vinto il suo primo scontro la sera prima, un’ondata di tristezza rischiò di sopraffarlo.

— Rasime. — la sua voce tremava.

— Sì, küçük? —

— Ho sbagliato a non andare con loro? —

— Hai solo chiesto del tempo. Molto saggio per un ragazzo della tua età. —

Yusuf aggrottò le sopracciglia.

— Non sono stato saggio. — disse osservando i tre cavalieri incappucciati e avvolti nei mantelli che si avviavano lungo la strada, e poi si voltò, incontrando lo sguardo interrogativo della donna.

— Credi che mio padre sia morto? — chiese.

— Ho ben poche speranze che sia vivo, küçük. —

Yusuf lasciò la finestra e andò a sedersi al tavolo.

— Io ce l’ho quella speranza, — disse dopo aver preso un sorso di latte. — e vorrei aspettarlo, almeno per un po’. —

Rasime abbandonò le sue faccende e si sedette di fronte a lui, le mani intrecciate davanti a sé e rughe di preoccupazione intorno agli occhi.

— Non sarò un peso per voi, — si affrettò ad aggiungere Yusuf. — lavorerò nella fucina. Certo, non sono molto bravo ancora, ma Teoman dice che ho buon occhio per le lame e posso imparare. —

— Yusuf…—

— Terrò la casa in ordine e se mi insegni, posso farmi da mangiare da solo, e…—

— Meglio che sia io a occuparmi di far da mangiare, però se ti fa piacere imparare, sei il benvenuto nella mia cucina. —

— Grazie, Rasime. —

Lei gli sorrise. — Non sei un peso per noi,  ci fa piacere averti qui. — si alzò e prese una scopa per spazzare la cenere che si era accumulata davanti al focolare. — Ma se un giorno vorrai unirti alla Confraternita…— 

— Non voglio farlo. —

Rasime lo guardò con la dolcezza e la comprensione di una madre.

— Non puoi saperlo, Yusuf, non adesso. —

— No, non lo farò. — Lui strinse la tazza con entrambe le mani e i suoi occhi si indurirono. — Non voglio avere niente a che fare con loro, mi hanno portato via tutto. —

La donna sospirò e raccolse la cenere in un secchio.

— Finisci la colazione. — disse aprendo la porta. — Teoman ti aspetta. —

Rimasto solo, Yusuf prese la tazza e un simit e si spostò sullo sgabello accanto alla finestra dove Yalìm usava sedersi ad affilare le armi. Leccandosi il miele dalle dita posò lo sguardo sui pugnali da lancio che lui gli aveva regalato: erano rimasti lì da quella sera che adesso sembrava così lontana, come se appartenesse ad un'altra vita.

Si era svegliato con quella speranza nella testa e ora si stava aggrappando ad essa; era debole, sottile e temeva che potesse rivelarsi vana, ma quella speranza era tutto ciò che aveva.

Fuori dalla finestra, il sole strisciava sull’acciottolato trasformando il ghiaccio in pozze torbide e promettendo una giornata più mite, i tetti gocciolavano e la gente per strada camminava un po’ meno stretta nei mantelli. Dalla bottega cominciarono a risuonare i primi colpi di martello e un paio di apprendisti di Teoman, che ancora indugiavano poco lontano, scattarono come al segnale di un’adunata militare. Yusuf si alzò dallo sgabello e, accorgendosi solo in quel momento di essere stanco prima ancora di cominciare la giornata, si strofinò gli occhi arrossati per lo scarso sonno di quella notte.

La vita era dura, aveva detto Saad. Niente di nuovo.

 

 

— Immagino che Yalìm non tornò. — disse Ezio sospirando.

— No, infatti non tornò. — rispose Ràhel. — Yusuf attese, lavorando sodo e coltivando la sua speranza, che col passare dei mesi si faceva sempre più sottile. Teoman e Rasime lo vedevano incupirsi sempre di più e non furono sorpresi quando, a primavera, lo sentirono comunicare loro che intendeva tornare a Istanbul, ribadendo la sua decisione di non voler unirsi all’Ordine. Provarono a convincerlo a rimanere, ma si resero conto che Yusuf voleva dimostrare a sé stesso e a tutti quanti di poter affrontare la vita da solo e che la sua non era ingratitudine, ma una specie di necessario riscatto. Non poterono far altro che dargli la loro benedizione, con la speranza, alla quale si guardarono bene dal dare voce, che avrebbe finito per trovare rifugio tra le braccia della Confraternita. —

 

           

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: L'ombra ***


      
       Il giorno in cui vi ritornò, Istanbul mostrò a Yusuf il suo lato migliore. Sbarcato a Galata, il volto sorridente e segnato dalle rughe di Talip lo strappò ai ricordi amari in cui si era perso. Il traghettatore lo riconobbe subito, malgrado lui l’avesse già quasi superato in altezza e lo abbracciò con le lacrime agli occhi. Quell’accoglienza, insieme ai rumori e agli odori familiari del porto e l’aria primaverile, lo fecero ben sperare.

Da Talip Yusuf apprese che la piccola abitazione in cui aveva vissuto con sua madre era ora occupata da una famiglia greca, ma non gliene importò: non sarebbe mai tornato in quella casa, che già visitava abbastanza nei suoi incubi. Inoltre, seppe che la bottega di sartoria al Gran Bazar era stata presa in mano da una delle lavoranti di sua madre e che quel poco di buono del suo amico, Dönek, era sparito dalla circolazione a tempo con lui. Talip, da uomo gentile e compassionevole qual era, si offrì di ospitarlo per la notte e gli disse che il giorno dopo avrebbe potuto presentarlo a un suo cugino che gestiva una locanda nel distretto di Costantino. Yusuf lo ringraziò e assicurò di poter pagare il disturbo, il poco denaro che suo padre era riuscito a mettere da parte in quegli anni di lavoro alla fucina gli era stato consegnato da Teoman prima della partenza, ma lui rifiutò.

Fu un inizio fortunato. Grazie alla raccomandazione del traghettatore e alla buona impressione che fece a suo cugino (e alla figlia Damla che aveva forse un paio d’anni più di lui) ebbe una stanzetta in cui sistemarsi vicino alla locanda, attorno a cui gravitavano un’infinità di persone spesso in cerca di lavoratori occasionali.

Yusuf si diede da fare: la fatica non lo spaventava dopo tre anni passati a dividersi tra la fucina di Teoman e gli allenamenti di suo padre, e il suo carattere aperto di certo lo aiutò a integrarsi in poco tempo, ma col giungere dell’inverno la città si mise d’impegno nell’esibire il suo aspetto più duro. I commerci diminuirono e con essi le occasioni di lavoro e mentre la riserva di denaro si assottigliava in maniera preoccupante, quelli che durante l’estate si erano comportati da amici divennero concorrenti spietati. Ogni mezzo pareva lecito per accaparrarsi una misera paga e ognuno aveva il proprio. C’era chi impietosiva, chi minacciava e chi passava all’azione. Yusuf cedeva davanti a chi gli mostrava la moglie e i figli affamati, cercava il più delle volte di evitare i conflitti sottostando alle minacce e quando non lo faceva era costretto a difendersi o a sfuggire ai pestaggi.

Ben presto si ritrovò alla fame, con in testa solo il pensiero di sopravvivere e con le parole che Saad gli aveva detto la sera in cui aveva rifiutato la sua offerta che gli tornavano in mente più spesso di quanto avrebbe voluto. Ma non cedette mai alla tentazione di cercare rifugio presso gli Assassini, né mai toccò i dadi truccati, che si era portato via da Bursa insieme ai pugnali e allo shamshir di suo padre. Decise invece di far buon uso degli insegnamenti di Dönek.  

 

 

 

 

 

Istanbul,

Rajab 888

(Settembre 1483)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 











e nuvole cupe che scaricavano torrenti di pioggia avevano accorciato il crepuscolo. La luce ormai scarsa e le tegole scivolose sarebbero state già un rischio sufficiente senza aggiungervi la paura, la stanchezza e il rimorso.

Mentre correva spinto solo dalla forza di volontà, Yusuf continuava a ripetersi che era troppo giovane per morire e se la vita di qualcun altro era il prezzo per la sua sopravvivenza, era giusto che fosse stato pagato, ma il ragionamento continuava a fare a pugni con le emozioni. Il suo braccio sembrava ancora vibrare per la resistenza che la carne aveva opposto alla punta del pugnale e non riusciva a togliersi dalle orecchie il suono rantolante che era uscito dalla bocca del suo aggressore, né dagli occhi l’espressione quasi sorpresa che era comparsa sul suo viso. Quel ragazzo aveva più o meno la sua età e di certo anche lui pensava di essere troppo giovane per morire.

Combattendo contro i conati del suo stomaco disperatamente vuoto, Yusuf si calò dal tetto nell’ombra di un vicolo appartato. La porta scrostata pochi passi alla sua destra era la salvezza e il riposo. La raggiunse in due balzi e sparì dietro di essa.

Annaspò nel buio imprecando alla ricerca di una candela e altre parole che non avrebbero sfigurato in bocca a un scaricatore della peggior specie si aggiunsero, quando una scintilla provocata dall’acciarino gli bruciò una mano.

La stanza era piccola e disadorna e tutto il suo arredamento era costituito da un tavolo traballante, due sedie spaiate, un baule tarlato e un pagliericcio. A questo si aggiungevano alcune casse piene di oggetti alla rinfusa, vestiti e suppellettili varie, due coperte dal colore ormai indefinibile, una catinella di ceramica sbeccata e una grande brocca piena d’acqua.

Yusuf trascinò il baule contro la porta, si liberò della cintura col pugnale e si sganciò dalla spalla la custodia dei quattro coltelli da lancio che erano stati di suo padre. Si sfilò i vestiti bagnati, che abbandonò sullo schienale di una sedia, e si buttò sul pagliericcio avvolgendosi in una coperta. Lo stomaco brontolava, ma la nausea era ancora troppo forte e comunque non aveva niente da mangiare.

Aveva spiato per quattro giorni quel dannato mercante di seta, aveva annotato i suoi movimenti e visto il denaro passare di mano, aveva anche scoperto dove lo tenesse. Troppo ben sorvegliato anche per solo accarezzare l’idea di metterci sopra le mani, ma Yusuf aveva pensato che l’informazione avrebbe potuto essere ben pagata e magari metterlo in buona luce con la Gilda dei Ladri. Un piano perfetto, finché un concorrente non si era presentato sulla sua strada. Non si era accorto di essere seguito se non quando era stato troppo tardi. Il rumore della pioggia battente aveva nascosto il suono dei passi alle sue spalle e quando un braccio l’aveva improvvisamente afferrato alla gola, solo le ore di inflessibile addestramento a cui suo padre lo aveva sottoposto ogni santa sera degli anni che avevano trascorso nella Vecchia Capitale gli avevano permesso di cavarsi d’impaccio. Yalìm era stato un insegnante severo ed esigente, parco di elogi quanto generoso con le critiche, ma nessuna delle sue estenuanti lezioni avrebbe potuto preparare Yusuf alla durezza di uno scontro reale. Aver assistito all’uccisione della madre lo aveva portato a credere che la morte non avrebbe più potuto impressionarlo, e mentre rabbrividiva sotto la coperta, capì di essersi sbagliato, e che quando si uccide qualcuno è tutto diverso, e niente potrà più essere come prima. In quel momento Yusuf ricordò l’ombra negli occhi di suo padre quando tornava dalle sue missioni e la comprese, domandandosi se qualcuno ora avrebbe potuto riconoscerla nei suoi.

Accompagnato dal mormorio della pioggia che entrava nella stanza dalla stretta finestra priva di imposte, il ragazzo si arrese alla stanchezza e si addormentò.

 

Il bussare insistente alla porta strappò Yusuf al sonno in modo brusco, spaventandolo a morte. Rimase immobile sul pagliericcio, maledicendo se stesso per non aver spento la candela e rendendosi conto che l’unica possibilità di una rapida salvezza era fuggire nudo dalla finestra.

Salak…— sussurrò tra i denti.

Bussarono ancora e il ragazzo si chiese per quanto avrebbero provato prima di spingere la porta e spostare il baule che la bloccava.

— Yusuf, lo so che ci sei, si vede la luce! —

Riconoscere quella voce che non aveva ancora deciso se restare quella di un bambino o trasformarsi finalmente in quella di un adulto, fece tirare a Yusuf un sospiro di sollievo, provocandogli allo stesso tempo un moto di fastidio.

— Vattene Latif! — gridò. — Sono stanco, lasciami in pace! —

Quel ragazzino gli si era attaccato come una patella a uno scoglio da quando, qualche mese prima, lo aveva tolto da certi guai con alcuni bulletti del quartiere.

— Ma Yusuf, ho del guvec (stufato) ancora caldo, Damla me lo ha dato per te. —

Accorgendosi che la nausea era sparita e che i crampi allo stomaco si erano fatti quasi insopportabili, Yusuf si disse che forse dover tollerare la presenza di Latif poteva compensare un pasto gratis. Non era la prima volta che succedeva qualcosa del genere, sembrava proprio che quel piccolo furfante, con gli occhi da cerbiatto e l’aria perennemente affamata, riuscisse a convincere qualsiasi ragazza a fare ciò che voleva, e Damla, la figlia del padrone della taverna dove lavorava come sguattero in cambio di vitto e alloggio, non rappresentava un’eccezione alla regola.

— Un attimo e arrivo. —

— Sbrigati però, piove. —

Yusuf gettò da parte la coperta e si alzò, si infilò qualcosa addosso e, dopo aver lanciato le armi rimaste sul tavolo in una delle casse, si apprestò a spostare il baule.

— Ehi, che succede? Stai facendo uscire una ragazza nuda dalla finestra? —

Come si facesse venire in mente certe idee una canaglia di tredici anni che ne dimostrava a stento undici era per lui un totale mistero. Una ragazza nuda… Tanrı'nın iyiliğini! (bontà divina!)

Quando la porta fu finalmente aperta Latif si precipitò dentro con un sorriso da un orecchio all’altro, posò una piccola pentola di terracotta sul tavolo e dopo essersi cavato di tasca un cucchiaio di legno, tolse il coperchio e si accomodò su una sedia. Il profumo era decisamente invitante e Yusuf si piazzò sull’altra sedia, tirando la pentola verso di sé con l’acquolina in bocca.

Afiyet olsun! (buon appetito!) disse Latif porgendogli il cucchiaio. — Come è andata la tua giornata? —

L’altro si affrettò a scacciare dalla mente i brutti ricordi di quel pomeriggio che rischiavano di guastargli la cena.

— Niente di speciale. — disse, ma il suo tono non doveva essere stato troppo convincente, perché Latif lo squadrò con le sopracciglia aggrottate.

— Non mi incanti sai? La tua faccia dice che è successo qualcosa. —

L’ombra. Pensò Yusuf. Quel ragazzino troppo sveglio stava forse vedendo l’ombra nei suoi occhi?

— Ho avuto dei guai, va bene? E non ho voglia di parlarne. —

— E perché, scusa? Non avrai mica ammazzato qualcuno! — Latif rise, fiero della sua battuta, ma quando vide che il suo amico si era bloccato col cucchiaio a mezz’aria e la bocca aperta, la risata gli si strozzò in gola e suoi occhi si allargarono a dismisura.

— Hai… ammazzato qualcuno… Yusuf? —

Il giovane Tazim sbatté il cucchiaio sul tavolo, facendo sobbalzare il ragazzino.

— Ti ho detto che non ho voglia di parlarne! — la sua voce era piena di rabbia e la nausea era tornata ad assediagli lo stomaco.

— Non… lo dico a nessuno. — balbettò Latif. — Te lo giuro. Su quello che vuoi tu. —

— Non giurare, Latif. —

— E invece sì. Tu sei mio amico, e ti devi fidare di me. Ti fidi di me? —

Yusuf scorse la paura nei suoi occhi. Sapeva di suo fratello, un bastardo di diciotto anni che non si era mai fatto scrupoli a riempirlo di botte e pensò a se stesso come la causa di quel timore, ma poi si rese conto di come stessero davvero le cose: Latif non aveva paura di lui, ma del fatto che potesse negargli la fiducia che tanto desiderava, allontanandolo. Si pentì di aver alzato la voce.

— Mi fido. — disse costringendo le sue labbra in un debole sorriso. — Anche tu sei mio amico.—

Il ragazzino sembrò rilassarsi e dopo un attimo indicò la pentola.

— Non mangi più? —

Yusuf spinse lo stufato verso di lui e gli passò il cucchiaio. — Finiscilo pure. —

Latif attaccò a mangiare con la consueta voracità.

— Davvero hai ucciso qualcuno? — chiese tra un boccone e l’altro.

Yusuf si prese la testa fra le mani, sospirando.

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: Azzardo nobile ***


Istanbul,

Jumâda Al-Awwal 889

(Giugno 1484)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 













ra una mattina soleggiata e un vento benevolo, fresco, soffiava da est, accompagnando con cortesia le navi che entravano nel Corno d’Oro. L'aria era frizzante come la spuma del mare e il rumore della città, vicinissima ai moli, sfondava i suoi confini per unirsi alla confusione del porto già di per sé chiassoso e pieno di anime indaffarate. Gli scaricatori erano sulla banchina, allineati come soldati ad attendere che la grande galea da battaglia di ritorno dalla frontiera occidentale ultimasse l’attracco, e i gabbiani volavano in circolo sopra le loro teste senza risparmiarsi l'ostico coretto di benvenuto.

Yusuf si arrotolò le maniche fin sopra gli avambracci alla moda degli altri scaricatori e finì in tempo per afferrare al volo la cima. La fissò all’immensa bitta di granito mentre venivano calate ben due passerelle, dalle quali scesero a terra in quest’ordine una dozzina di Giannizzeri, venti soldati e cinque cavalli. Il capitano e la ciurma per ultimi, assieme a qualche ospite di riguardo raccolto per strada. Quando la nave fu sgombra, Yusuf e gli scaricatori vi salirono di corsa, sparpagliandosi come formichine voraci sul ponte e fin nella stiva. Quella nave non avrebbe preso il mare prima dell’estate successiva e perciò avevano l’ordine di svuotarla fino all’ultimo sacco, o nel frattempo le provviste avrebbero fatto banchettare i ratti e i gingilli attirato i ladroni. Non fu dimenticata a bordo una sola palla di cannone o cassa di frutta e a pomeriggio inoltrato la nave fu sgombra.

Yusuf stava facendo rotolare l’ultima botte di olio di balena quando notò che all’accesso per la zona delle cabine erano state dimenticate appese le chiavi. Si fermò e uno sfigurato scaricatore greco dietro di lui imprecò, sorpassandolo con la botte che stava facendo rotolare a sua volta fuori dalla stiva. Yusuf attese di essere solo e poi mise in piedi la botte. Non dovette neppure girare la chiave, perché la porta era solo accostata.

La fortuna arride ai belli, ridacchiò tra sé e sé.

Sfilò le chiavi dalla serratura ma un rombo di passi lo fece sobbalzare. Si fiondò all’interno accostandosi la porta alle spalle e dallo spioncino vide lo scaricatore greco di poco prima scendere di corsa la passerella. L’uomo si guardò un po’ attorno, ma alla fine senza farsi troppe domande e con una scrollata di spalle, buttò a terra la sua botte e se la portò via facendola rotolare. Dietro di lui la grata della stiva fu fatta scorrere e sbarrata con tanto di catene.

— Grandioso… — borbottò Yusuf, ma prima di gridare aiuto come un povero scemo avrebbe fatto ciò per cui si era sentito baciato dalla fortuna.

Rastrellò le cabine da cima a fondo come il migliore dei cani da caccia. In pochi minuti aveva raccolto un paio di stivali, delle utili fibbie e un intero cambio d’abiti cui sarebbe bastata una strofinata per togliere l’odore di ascelle, sale e…

Annusò ancora e con una smorfia pensò che avrebbe rinunciato volentieri al profumo dell’alcool che avevano quei vestiti, pur di far sparire puzze che non erano le sue. Seguendo quella pista si mise sulle tracce del vino dolce, che doveva essere nei paraggi e non tardò a fare la sua comparsa. Sepolta in fondo ad una cassa piena di vecchie coperte trovò una bottiglia in ottimo stato e piena per ben tre dita. Fece per stapparla coi denti, ma cambiò idea e la infilò in uno degli stivali. Quindi mise tutto dentro ad un sacco, che aveva improvvisato con una di quelle coperte e cominciava a pesare. Come da manuale trovò un paio di monete sotto al pagliericcio e le assicurò in una tasca dei pantaloni, ma fu mentre si chiedeva cosa poteva inventarsi per uscire di lì, che un luccichio metallico lo richiamò nella cabina del capitano.

La curvatura elegante, il fodero ricamato e l’elsa in avorio. Una scimitarra di terre lontane e dal passato maestoso come il suono della sua lama che lasciava la custodia.

Salam, — la salutò Yusuf ammirato, accecandosi col suo stesso bagliore. La rinfoderò con uno scatto secco e se la legò sulla schiena dopo averla avvolta in un fagotto. Sentiva già il profumo dell’oro che avrebbe potuto ricavarne vendendola a qualche fabbro, alla faccia di chi si era permesso di lasciare incustodito un così raro gioiello. L’occhio per le lame se l’era fatto nella bottega di Teoman e il buon gusto avrebbe guidato i suoi affari anche adesso.

Sognava ad occhi aperti quando il suono di una catena che veniva sfilata lo richiamò bruscamente alla realtà, e subito dopo dei passi frettolosi assieme a delle voci che arrivavano fin lì dalla stiva.

È ora di tagliare la corda, si disse.

Le sue possibilità di fuga si riducevano all’unica finestra in fondo al corridoio di poppa, verso la quale Yusuf si diresse di corsa. Ora le voci poteva sentirle chiaramente, mentre apriva la piccola finestra e scopriva con un'imprecazione che la sua refurtiva non ci sarebbe mai passata. Riuscì a capire solo alcune parole, come “cabina” e “strada”, no! “Frana”, aveva detto “frana”. Oppure… oppure “spada”?!

Abbandonò il sacco suo malgrado e si aggrappò al cornicione esterno, guardando il suo riflesso storpiato dalle onde nell'acqua torbida del porto.

In fondo al corridoio comparvero le sagome di due uomini, e fu quasi certo che lo avessero visto, ma ingoiando il suo coraggio e trattenendo il fiato Yusuf si lanciò nel vuoto ed entrò in acqua di testa dopo un volo di una trentina di piedi. Si lasciò trasportare dalla corrente per un pezzo e quando riemerse dall’altra parte della banchina si riempì d’aria i polmoni. Quindi si spostò a bracciate fino alla scogliera e una volta al riparo dietro di essa si arrampicò fino a riva, dove si stese ad asciugare come un granchio al sole.

Fu felice di sentire le monete ancora nella tasca e l’elsa della scimitarra entrargli tra le scapole, ora le sue uniche fonti di sostentamento sicuro. Quello scherzetto gli era costato l’unico lavoro onesto che fosse riuscito a procurarsi da quando era arrivato ad Istanbul.

 

— Hai rubato…—

— Devo sbarazzarmene, e alla svelta. Conosci qualche pazzo disposto a comprarsela ad un prezzo molto alto? —

— Yusuf, tu hai rubato… —

— E’ una spada come un’altra, Latif. Non fare chiasso. Allora, lo conosci? —

La locanda era piuttosto animata, quella sera. Yusuf e Latif, seduti allo stesso tavolo e anche molto vicini, dovevano quasi urlare per parlarsi.

— Sì, Yusuf, lo conosco, ma non abbastanza pazzo da comprare quella spada. —

Yusuf inarcò appena un sopracciglio. — Perché? È passata di moda? — chiese prima di portarsi il bicchiere alla bocca.

Latif scosse la testa affondando le mani nei boccoli castani. Gli occhi da cerbiatto lo guardavano spalancati e grandi come padelle. — È la spada del Greco, del Gran Visir. Hai rubato la spada di ISHAK PASHA! —

Le guance gli esplosero e il turco sputò tutto il suo abbondante sorso di vino sul tavolo. — Mi prendi in giro?! — urlò mentre si voltava a guardare l’amico.

All'improvviso sull’ingresso del ritrovo fece la sua comparsa un uomo alto e piazzato, coperto di una sfavillante armatura con ricami dorati. Si calò il cappuccio sulle spalle liberando la folta chioma castana e si lisciò i baffi e la barba. — Perdonatemi, buon uomini! —  disse a gran voce, attirando l’attenzione di tutti i presenti. — Sto cercando un ragazzo, alto più o meno così, capellone, occhi azzurri. Porta una fascia in testa e un’ampia scollatura: ma che io sappia, nessuna donna gli corre dietro. — 

L’intera taverna scoppiò dalle risate. Avevano capito tutti a chi si riferiva.

— Ha rubato qualcosa di mia proprietà a cui tengo molto e ve ne sarei grato se… ah, eccolo là! — 

Yusuf, al tavolo più in fondo della locanda braccato tra due botti di Şarap, si afferrò il cotone della camicia richiudendosi la scollatura, come se bastasse quello ad allontanare gli sguardi puntati su di lui. Latif fece saltare lo sgabello, scostandosi, e nel darsi una grattatina alla testa si nascose dietro al proprio braccio; tossì: — Sen ölmüşsün!(sei morto!)

Salak,(idiota)   rispose Yusuf a denti stretti. Prese il fagotto con la spada appoggiato alla parete e scese dallo sgabello. Camminando a testa bassa, attraversò il salone con gli occhi dei presenti a mangiargli l’anima e non appena fu sotto l’ombra del Greco, s’inginocchiò umilmente, offrendogli il fagotto su entrambi i palmi aperti.

— Perdonami, Onorevole Pasha, non avevo idea a chi appartenesse. Riprenditela. —

Per un lungo istante nulla accadde e niente si mosse.

Ishak inarcò un sopracciglio con fare stupito. — Mi stai restituendo ciò che con tanta fatica ti sei guadagnato, prostrandoti ignobilmente di fronte a me con questa platea di uomini senza Dio a testimone? —  domandò il Visir abbracciando la locanda con un gesto teatrale. — Che ti derideranno per tutta la vita dopo averti messo una coppetta in testa e fatto ballare come una scimmia? Sei un ladro senza onore, ragazzo! —  concluse sarcastico.

Un’altra risata generale si diffuse tra i tavoli.

Yusuf sudava freddo. — Mi farai uccidere comunque. Perciò prendi la tua spada, —  ringhiò stringendo i denti. Questa buffonata deve finire. Ho una reputazione, diamine!

Latif, in fondo alla locanda, si mangiava le unghie.

Ishak aggrottò la fronte. — Ucciderti? Certo, se preferisci. Ma per caso vedi guardie che potrebbero soddisfare un simile ordine, alle mie spalle? —

Yusuf aprì un occhio e guardò rapidamente oltre la figura del Visir.

Ishak era entrato da solo.

— No, lordum (mio signore), nessuna… — mormorò.

— E non starai pensando che possa farlo personalmente, vero? —

Il ragazzo ci aveva pensato, ma scosse la testa. — No, lordum, non lo penso. —

Ishak si mosse. Yusuf rimase a capo chino e con le braccia alzate, offrendo la spada, mentre sentiva vibrare la sua armatura e battere i suoi stivali sul pavimento attorno a sé.

— Ti propongo una sfida, — cominciò l’uomo. — Se vinci tu, potrai tenere la spada e dimenticherò la tua faccia. Ma se vinco io, verrai con me. —

Yusuf abbassò le braccia e si voltò di colpo. Incontrò gli occhi azzurri del Visir, che gli sorrideva senza tradire emozioni diverse da un’insana goduria nel vederlo tanto sorpreso.

Il ragazzo dovette trattenere un brivido che lo attraversò dalle punte dei piedi a quelle dei capelli.

Ishak ci stava provando ancora. Dopo tre anni di silenzio era tornato a battere il chiodo: stava provando di nuovo a trascinarlo nella Confraternita…

— Questo miserabile sarà punito nella maniera che lui ha ritenuto più opportuna per se medesimo, — aggiunse l’ex Sadrazam  voltandogli le spalle per parlare ai testimoni, ignari di cosa avrebbe realmente significato la sua vittoria sul giovane ladro.

Ne sai una più del Diavolo, eh Maestro? pensò Yusuf. Questa volta Ishak aveva superato se stesso, obbligandolo con il raggiro ad ascoltare ancora la sua proposta, diventata negli anni lagnosa e supplichevole come un capriccio. Il tutto aveva preso le sembianze di una sfida che non poteva rifiutare, ma dalla quale Yusuf non sarebbe scappato senza prima aver tentato di umiliarlo, vincendo al suo stesso gioco, di qualsiasi gioco esso si trattasse. Allora sì, e solo allora, Ishak Pasha, come Visir della Sublime Porta e non come Mentore degli Assassini, avrebbe ordinato la sua esecuzione senza peli sulla lingua.

Yusuf si strinse nelle spalle.

Era una soluzione come un’altra.

— Accetto. —

 

— Avanti, razza di bastardi! Muovete quelle chiappe mosce, fate spazio! — gridava il locandiere.

Al centro della stanza si aprì un semicerchio sufficiente ad ospitare un elefante e Yusuf non l’avrebbe mai creduto possibile. In pochi minuti la mobilia e le cianfrusaglie furono accatastate negli angoli del salone per improvvisare una piccola arena sulle geometrie folli dei grandi tappeti, che vennero arrotolati e gettati da parte a loro volta. La chiassosa comitiva di scaricatori occupò tutta una panca, le sedie in prima fila si colmarono di nobili mercanti di sale e sui tavoli dietro si alzarono in piedi i membri della ciurma genovese. Tutte facce tranquille e conosciute nella locanda, ma in quel clima da capodanno Yusuf stentava a riconoscerle. Nella confusione aveva perso di vista Latif e si era sentito toccare dappertutto mentre la folla lo spingeva al centro della scena.

Fu il silenzio più assoluto.

Ishak era già lì, inginocchiato come per pregare su un tappeto di filato grosso che gli aveva disteso sotto ai piedi un cliente della locanda, improvvisatosi suo servitore. L’ex Sadrazam era lo specchio della serenità e lo guardava sorridente.

Il ragazzo sedé sul pavimento a gambe incrociate e, ingoiando la paura, disse: — Getta la tua sfida. —

Azzahr asil. Sette mani o tredici carte, come preferisci, — pronunciò Ishak tranquillamente.

Un nuovo brivido gli gelò il sangue. Yusuf aggrottò la fronte e si sentì mancare la terra sotto al sedere.

— Dadi? — domandò dopo un lungo silenzio.

— Due, — fu la risposta del Visir.

— Onorevole Pasha! — Latif si fece largo tra la folla a gomitate. Sbucò nel semicerchio e s’inchinò, porgendo il pugno sinistro all’uomo. — Questi li offre la casa, — disse aprendo le dita.

— Meravigliosi, — esultò il Visir, prendendo i dadi dalla mano del ragazzo e rigirandoseli nella propria. Erano una coppia a sei facce, cubici e color rosso d’alizarina, scheggiati, feriti come guerrieri con un passato pieno di sangue e di dolore.

A Yusuf bastò sfiorarsi la tasca dei pantaloni per capire cos’era successo e il panico lo assalì. Quel diabolico egiziano gli aveva sfilato di dosso i suoi dadi maledetti, pensando di aver fatto un’azione caritatevole mettendoli in mano al Visir. Ma Yusuf non vedeva nulla da ringraziargli, nulla per cui offrirgli da bere dopo il suo trionfo (perché avrebbe vinto, ricordava benissimo la combinazione vincente e come ottenerla.) Vide anzi un orribile presagio nelle circostanze di quella partita, una maledizione che si ripeteva.

Un lancio di cinque anni prima poteva aver ucciso il suo migliore amico. Se qualcosa fosse andato storto, Latif avrebbe potuto essere il prossimo.

Prima che potesse ucciderlo col lo sguardo, il giovane egiziano scomparve nella folla così com’era apparso. Yusuf fece un respiro profondo e fissò il Gran Visir mentre questi giocherellava coi suoi dadi, saggiandone le prestazioni tra le dita. Forse l’esperienza gli avrebbe suggerito che erano truccati, e forse la morte per tentata frode sarebbe giunta prima del tempo e forse…

Ishak lanciò: — Dokuz! —

 

   Furono le sette mani più lunghe della sua vita.

   Nella platea attorno ai due giocatori fioccavano le scommesse. La presenza nel quartiere del Greco aveva attirato nella locanda facce nuove che, rigorosamente, puntavano su di lui. Il chiasso era cresciuto così in fretta e a tal punto da richiamare l’attenzione di una pattuglia di guardie. I due Giannizzeri erano entrati a kijil sguainati e con le peggiori intenzioni, ma non appena avevano riconosciuto chi di dovere al centro della comitiva, si erano slacciati le scarselle dalle cinte ingrossando la puntata sull’ex Sadrazam.

   Erano diventati l’attrazione della serata, pensò Yusuf.

   Ishak non si era fatto scrupoli e chiudendo entrambi gli occhi aveva offerto da bere a tutti i suoi favoreggiatori. Le grandi botti di Şarap turco furono stappate con gioia dalla servitù, che, se al termine della serata il locandiere fosse stato onesto, avrebbe vantato la paga di un mese in un solo giorno! Il vino scese a fiumi e nessuno rimase a bocca asciutta. Giocare con un ricco e rispettabile membro dell’Impero non poteva che avere quelle conseguenze, capì Yusuf.

   Aveva chiamato il dokuz, un nove, ma i dadi gli avevano dato un on bir, il nobile undici. Ishak non si era perso d’animo ed era esploso in una grassa risata contagiosa.

   Tutta quella gioia lo aveva clamorosamente coinvolto, e Yusuf si sorprese a sorridere.

   Ishak non era venuto lì solo per lui, o per riavere la sua spada, o per umiliarlo o per dare spettacolo: bensì era venuto per il suo popolo, per respirare un po’ dell’aria che si viveva tra la gente e circondarsi delle gaiezze che poteva offrirgli. La sua carica a Gran Visir si era conclusa circa venti mesi prima, dopo essere stato eletto per la seconda volta. Le voci dicevano che da semplice Visir era tornato in Valacchia e aveva guidato una spedizione pacifica di cui si sapeva molto poco anche alla corte di Bayezid II, loro Sultano, che non era rimasto indifferente. Le tensioni tra Ishak e la Sublime Porta erano nate al suo rientro in città e sarebbero cresciute ancora, Yusuf ne era certo: quell’uomo aveva troppi segreti.

   Yusuf si allungò a prendere i dadi e assaporò i loro pesi squilibrati nel palmo aperto. Il ricordo di Dönek era così vivido nella sua mente che poteva vederlo lì con lui, ai piedi della folla, inginocchiato a terra per il suo ultimo lancio…

   Yusuf chiuse lentamente le dita sui dadi e chiamò il dört, il piccolo quattro.

   — Yedi! Yedi! Yedi! —  gridò invece la folla.

   Un tre e un quattro.

   Yusuf sorrise. Non avrebbe perso, ma neanche vinto senza prima essersi fatto offrire qualcosa di forte dal Greco, al quale si costrinse a dare un po’ di vantaggio per rendere la sfida più interessante.

   A metà partita il vento cambiò e Yusuf, mentre gli riempivano un bicchiere di rakι, chiamò la cifra vincente: — ON BIR! —  

   Un numero già apparso, che nell’ignoranza popolare aveva meno probabilità di uscire ancora, suscitò lo stupore dei presenti e la collera di chi aveva scommesso su di lui. Qualcuno imprecò, qualcun altro non si risparmiò addirittura una bestemmia.

   Cinque e sei. Un classico.

   I suoi sostenitori esplosero in un grido d’ovazione e il tintinnio delle monete sui tavoli divenne una musica davvero gradevole per le sue orecchie. Yusuf brindò con Latif, al suo fianco, e salutò la vittoria con un lungo sorso di rakι. Se lo sentì scorrere in gola gelido e frizzante; poi, guardandosi intorno con gli occhi annebbiati dal fortissimo sapore dell’anice, trovò Ishak che gli sorrideva.

   — Dio ha scelto un brutto momento per abbandonarmi, — sospirò il vecchio Visir. Si alzò dal tappeto di filato grosso e i Giannizzeri lo circondarono, perché attorno a loro l’atmosfera di festa si era fatta selvaggia.

   Il ragazzo era pronto a rispondere con cordoglio, ma la lingua di Latif fu più svelta della sua.

   — Se il tuo Dio non ti piace, lordum, cambialo! — era bello che brillo.

   Yusuf gli diede una pacca sul collo e l’egiziano ammutolì, ma grasse risate ubriache si erano già diffuse nella locanda a discapito dell’ex Sadrazam, che però ne parve rallegrato a sua volta.

   Al contrario, un Giannizzero scattò verso di loro sguainando il kijil. — Come ti permetti, develer kirli satici (lurido venditore di cammelli!)! Implora perdono! — sbraitò, ma Ishak lo fermò, mettendo un braccio tra lui e i ragazzi. Il Giannizzero mormorò un rito di scuse e chinò il capo, indietreggiando.

   — La tua fortuna ti fa onore, giovane ladro, — disse Ishak. Si allungò a porgergli i dadi e permise a Yusuf di prenderli dalla sua mano. — E anche l’arroganza dei tuoi amici — , aggiunse scoccando un’occhiata all’egiziano.

   Yusuf s’inchinò rispettosamente, costringendo Latif, malfermo sulle gambe, a fare altrettanto.

   Ishak raccolse il fagotto e scoprì l’elsa in avorio della sua scimitarra, che brillò illuminandogli il volto. La impugnò un’ultima volta e poi gliela porse per il manico. — Prendi. Adesso che è tua potrai farne ciò che vuoi: usarla, fonderla, venderla. Adempierà al suo compito qualsiasi destino le riserverai, ma mi ha amato molto e io ho amato lei: perciò me ne separo a malincuore, sappilo. —

   Yusuf accarezzò il filo della lama ricurva con un sorriso malizioso. — Non sentirà la tua mancanza, lo prometto. —

   Il Visir fece una risata sommessa. — Non atteggiarti, ragazzo: con lei non ti servirà. Con nessuna donna ti servirà. Addio. —

   Ishak Pasha lasciò la locanda portando i due Giannizzeri con sé.

   Latif ebbe un singhiozzo. — Non è vero, seni seviyorum, lordum (a me piaci, mio signore)… —  barcollò alzandosi sulle punte.

   Yusuf gli mise una mano sulla faccia e lo allontanò, prima che l’egiziano, in preda all’alcool, riuscisse a baciarlo. — Mi dispiace deluderti, Latif, ma tu non sei una donna. —

   Riavvolse la spada nel fagotto e se la legò in spalla, ma il locandiere si piazzò a gambe larghe sulla porta bloccandogli l’uscita prima che potesse lasciare il ritrovo.

   — Hai giocato nel mio locale! — disse. — Quindi la spada del Greco resta qui. — 

   Yusuf lo guardò inebetito.

   — Io ho perso tutti i miei soldi! — aggiunse un mercante di sale.

   — Oh, avanti, Tamir! — sbottò Yusuf alzando gli occhi al cielo. — Un paio di giorni e ne avrai in tasca il doppio. —

   — A chi vuoi darla a bere, Yusuf? — s’intromise con impeto un moro avvolto in un turbante. — Anch’io ho puntato sul Greco e venderei volentieri la tua carne. Però lo abbiamo capito. Troppo tardi, ma lo abbiamo capito tutti che i dadi erano truccati! — 

   — Truccati? — si stupì un marinaio genovese. — Oh, belìn!

   — Meno male che non ti ho scommesso, vero bellezza? — disse qualcun altro.

   — Maledetto porco! — e si udì uno schiaffo.

   Il cerchio di folla gli si stringeva minacciosamente attorno. Yusuf lasciò cadere le spalle e sbuffò, scacciandosi una ciocca di capelli dagli occhi. Tutta quella faccenda del recriminare lo irritava: perché la gente si ostinava a prenderlo in giro?

   Solo lui poteva prendere in giro la gente.

   — IL SULTANO! — gridò indicando qualcosa alle spalle del locandiere.

   L’uomo si voltò e prontamente Yusuf gli passò sotto le gambe. Aprì la porta con una spallata e sparì nella notte.

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Nessuna alternativa ***



      — Tu sei cresciuto nell’Ordine, Mentore? — domandò Ràhel, tentando per l’ennesima volta di sistemare dietro l’orecchio una ciocca di capelli che si ostinava a non restare a posto.

Ezio esitò: — Potrei dire così. — cominciò. — Ci sono cresciuto, senza saperlo, fino a diciassette anni.—

Era passata un’intera vita, ma ancora il ricordo di quei giorni aveva il potere di stringergli il cuore in una morsa.

— Mio padre, Giovanni, era un Assassino, molto vicino alla famiglia Medici. Fu vittima di una congiura e impiccato per tradimento insieme ai miei due fratelli, Federico e Petruccio, malgrado avessi consegnato al Gonfaloniere le prove della sua innocenza. Petruccio era solo un bambino. —

— Mi dispiace. —

Ezio aggrottò le sopracciglia. — Sono passati più di trent’anni e ancora mi è difficile parlarne. — Si passò una mano sulla fronte. — Quando fuggii da Firenze con mia madre e mia sorella Claudia dopo aver ucciso il Gonfaloniere, cercando rifugio a Monteriggioni presso il fratello di mio padre, fu lui a parlarmi per la prima volta dell’Ordine. Non era mia intenzione rimanere, anche dopo aver scoperto la verità su mio padre, né di portare avanti la sua opera; volevo solo partire e andarmene lontano. Quel che avevo visto sarebbe stato già abbastanza se non mi fosse stata sventolata davanti un’occasione di vendetta. Fu la volontà di coglierla a spingermi tra le braccia dell’Ordine: chi aveva tradito mio padre doveva pagare. La Causa e i Principi, quelli sono venuti dopo. —

Trovandosi a rievocare la sua furia giovanile e con essa gli azzardi, i rischi e gli errori, Ezio si rese conto che non si era mai sopita. La rabbia e l’indignazione per l’ingiustizia avevano solo aggiustato la mira su un campo di battaglia più ampio.

Sentiva addosso gli occhi di Ràhel, che rispettavano il suo silenzio, ma parevano al contempo scrutare le sue riflessioni.

— Yusuf si è tenuto per anni lontano dall’Ordine. — riprese scacciando i ricordi. — Cos’è che lo ha fatto scegliere di tornare sui suoi passi? —

Lei si strinse nelle spalle, come chi crede di star per dare una risposta insoddisfacente.

— Il suo istinto. —

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Istanbul,
 

Jumâda Al- Awwal 892

(Maggio 1487)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 











ici di essere uno che dura, eh? Bhé, vedremo: va’ alla Yangın Anka Kuşu, nel distretto Imperiale, e chiedi di Sümeyya kırmızı, La Rossa. La chiamano così perché gira voce che sia la figlia di un nobile mercante di velluto e che per compiacere i suoi clienti usi dipingersi di rosso, tutta quanta. E quando dico tutta, hmm… non farmici pensare, o mi scoppia l’uccello. —

— Dov’è la fregatura? — 

Quello sghignazzò. —  Solo guardarla spogliarsi ti costa un occhio della testa. È bella come la madre dei Cristiani, fratello. Il loro Dio mi perdoni. —  Buttò in gola un avido sorso di Şarap, perché se l’era sentita improvvisamente secca.

  E tu come lo sai? Dove hai preso i soldi per vederla? — 

Si asciugò la bocca sulla peluria del braccio prima di rispondere. —  La scorsa settimana ho venduto quattro schiavi al Gran Visir, fratello, e per quello più giovane mi è stato offerto il doppio di ciò che valeva, dicendo che aveva buoni denti e muscoli forti. Avrei potuto comprarmi il Gran Bazar con quanto avevo fatto in una sola giornata, ma credimi se ti dico che La Rossa, Allah mi perdoni, vale quelle Akçe e tutte le mogli di Bayezid! —

L’altro scattò in piedi, scostando rumorosamente la sedia e innalzando il suo boccale di vino. — Alla Rossa! —  gridò, e i due amici brindarono.

 

Yusuf tracciava col dito piccoli cerchi sul tavolo mentre ascoltava i due mercanti di schiavi.

Si alzò e si mise in spalla la sacca con la spada del Greco. Lasciò una moneta per il piatto di pilaki che aveva ordinato ma che non avrebbe mangiato e uscì dalla taverna.

Gli era venuta voglia di fare quattro passi nel distretto Imperiale.

 

Due settimane dopo…

 

        I due marinai fecero oscillare il corpo del Giannizzero un paio di volte e poi lo gettarono oltre la balaustra. Senza aspettare lo schianto nell’acqua, sfregandosi e battendosi le mani sui vestiti, si allontanarono verso prua portando con loro una lampada ad olio.

  Questo era l’ultimo, lordum, —  disse il greco dei due, sforzandosi di mettere bene gli accenti al suo turco da bettola. Tese la mano senza esitazione e avanzò verso l’ombra dell’albero maestro, al quale era appoggiato un terzo uomo che parlò con voce tetra e agghiacciante.

  Io non farei un altro passo se fossi in te, scarafaggio. —

Il marinaio greco ritrasse la mano e scambiò un’occhiata impaurita con il compagno a fianco.

— Ma signore, abbiamo fatto come ci avete chiesto ed è stato molto pericoloso, —  disse l’altro, un cipriota. —  Il denaro ci spetta. — 

  Ho detto che sareste stati ricompensati. Non con cosa. — 

L’uomo si staccò dall’albero maestro e abbandonò l’oscurità. Vestiva prevalentemente di colori scuri, tranne che per l’elmo dal pennacchio rosso, e aveva perciò l’aspetto di un influente guerriero o quantomeno un mercenario.

L’uomo fece ruotare una lancia, gridando: —  Ecco, prendi! —  Affondò la coda dell’asta nello stomaco del marinaio cipriota, che si piegò in avanti dal dolore. —  E questo lo offre la casa! —  aggiunse, colpendolo alla faccia con una ginocchiata di una tale violenza da mandarlo disteso sul ponte della nave. Indirizzò uno sguardo cagnesco al greco, ringhiando, e quello mollò la lampada, corse sulle banchine e scomparve in pochi secondi.

Assicurandosi la lancia dietro la schiena, il guerriero si chinò a prendere il lume in una mano e la caviglia del marinaio svenuto nell’altra, trascinandolo sul ponte come un sacco vuoto. Il povero malcapitato si risvegliò troppo tardi e cominciò dimenarsi, graffiando con le unghie il legno che passava sotto le sue braccia distese, ma non riuscì ad aggrapparsi neanche alle cime, prima di essere sollevato di peso per la camicia e lanciato contro la balaustra, perdendo l’equilibrio e cadendovi oltre. Riemerse poco dopo, nuotò a bracciate corte verso la banchina e vi si arrampicò come un micio bagnato.

Il guerriero scese dalla nave nell'eco delle proprie grasse risate e, quando passò accanto al marinaio, lo rimandò in acqua con una pedata nel sedere. Continuò a ridere a lungo e attraversò la banchina, facendosi strada nella notte con la lampada ad olio di cui si era vilmente appropriato.

 

Yusuf osservò il guerriero finché questi non fu troppo lontano, quindi abbandonò il suo nascondiglio dietro le due botti di sale e lo inseguì saltando di ombra in ombra, silenzioso come un felino. Liberò il pugnale e ne pulì la lama su una manica della propria camicia. Esercitò il movimento del braccio un paio di volte e poi fu pronto. Un taglio netto e Sümeyya la Rossa sarebbe stata sua.

Un brivido gli attraversò le ossa.

Di fronte a lui qualcuno aveva deliberatamente occultato i cadaveri di quattro Giannizzeri, spargendo l’incenso di un grave reato contro l’Impero, e maltrattato due poveri innocenti…

Si diede uno scossone.

Gli affari di stato non lo riguardavano, di gente che ce l’aveva a morte con i Giannizzeri ce n’era tanta a Costantinopoli, e la classe povera della città se la passava anche peggio di quei due, in quanto a umiliazioni. E così scelse di diventare cieco, sentendo solo un gran scampanellio di monete venire dalla scarsella che il guerriero portava allacciata in cintura.

Le gambe allenate lo portarono dietro alla sua vittima in una frazione di secondo. Il cuoio cedé e il peso generoso della scarsella gli cadde nella mano sinistra, che passò rapidamente il bottino alla destra che lo assicurò a sua volta nella stoffa intorno alla vita. Rinfoderò il pugnale e riprese a correre, e non sentendo né un grido né un’esclamazione dietro di sé, mentre puntava lo svincolo, assaporò la vittoria mescolandovi l’appagamento della propria ambizione, che aveva il profumo intenso della figlia di un mercante di velluti. Ma prima di prendere la curva si sentì tirare indietro da una forza disumana, che gli afferrò la camicia tra le scapole graffiandogli la schiena e rischiando quasi di spogliarlo. La sua fuga, neanche iniziata, si concluse con una rovinosa caduta tra la polvere.

Il guerriero lo inchiodò al suolo premendogli le nocche sullo sterno, paralizzandolo dal dolore, e Yusuf gli artigliò la manica della veste, tentando invano di sottrarsi alla morsa.

Il guerriero si chinò su di lui.

  Sai che fine fanno i sokak köpeği (cani randagi) come te, se i Giannizzeri li beccano? —  chiese. —  Al mercato degli schiavi o in pasto ai leoni. Ma anch’io un tempo ero come te e so perché lo fai, quindi sarò misericordioso… —  Avvicinò la lanterna che portava con sé al volto di Yusuf, che in poco tempo sentì il calore farsi insopportabile attorno alla cicatrice sulla guancia.

Chiuse gli occhi e cercò di gridare, ma il guerriero gli tappò la bocca e le sue urla diventarono muggiti.

Ecco, si disse il ragazzo, ora sulla faccia avrò un altro bel ricordo delle mie saçmalık (cazzate)!

— Yusuf. —

Il ragazzo trasalì. Non posso avere un debito anche con questo qua!

L’uomo esitò e, allontanando il lume dal viso del giovane ladro, illuminò il proprio.

Yusuf riaprì e sgranò tanto d'occhi. Nonostante l’aria nei polmoni fosse appena sufficiente per sospirare, mormorò, attraverso le dita dell’uomo ancora premute sulla sua bocca: —  Dönek? —

 

 

Ràhel si era chiusa in uno strano silenzio ed Ezio non poté fare a meno di notarlo.

Poi d’un tratto, e facendo una smorfia come se stesse lottando per scacciare qualcosa o qualcuno dalla sua mente, la ragazza si voltò verso di lui.

Con un cenno del capo l’Assassino la invitò a proseguire.

 

 

Avevano camminato lungo il porto, scherzando come quand’erano ragazzini sul tempo che li aveva trasformati e resi quasi irriconoscibili. Yusuf si era sorbito gli scherni sul nuovo taglio di capelli che in quegli anni d’indipendenza aveva lasciato crescere molto. Dönek, invece, aveva la stessa criniera nera di sempre, che incorniciava un paio d’occhi ormai piccoli, un naso assestato e zigomi scolpiti. Aveva messo su dei bei baffi e mantenuto il piccolo pizzetto, entrambi minuziosamente curati. Solo la povertà dei suoi abiti, che Yusuf poté decifrare meglio così da vicino, tradiva le sue origini umili. La tunica grezza gli andava larga nonostante tutta la sua stazza: Dönek lo superava di un palmo pieno, e di fronte a spalle del genere Yusuf non avrebbe voluto essere al posto di uno solo di quei marinai.

Si fermarono in fondo alla banchina con intorno le acque placide del Corno d’Oro. In cielo le stelle erano più luminose delle luci del Topkapi, e una grande luna pigra si nascondeva dietro qualche nuvola di passaggio.

Per un po’ rimasero in silenzio a contemplare i riflessi tra le increspature dell’acqua, ma poi...

  Perché quegli uomini? —  chiese Yusuf, d’un tratto.

Dönek indurì la mascella. —  Io non c’entro. —

  Certo: dopotutto non eri tu che gettavi i cadaveri dei Giannizzeri nel porto. —

  Infatti. —

  Non sono uno stupido, Dönek. —

L’altro scoppiò in una sommessa risata e si voltò a guardare l’orizzonte. —  No, infatti: solo troppo piccolo per capire. —

Yusuf strinse i pugni. Aveva quasi vent’anni, e la sola differenza d’età che ci sarebbe sempre stata tra lui e Dönek non autorizzava quest’ultimo a dargli del bambino. Cominciava ad essere stufo di sentirsi dire che non era all’altezza di nulla.

  Non ho niente a che fare con quei Giannizzeri, Yusuf. Te lo giuro, —  aggiunse continuando a sorridere falsamente.

Il figlio di Yalìm scosse la testa e aprì la bocca, ma non riusciva a trovare le parole per dare al suo amico dell’omicida perché, semplicemente, non voleva trovarle.

Dönek si tolse l’elmo, facendoselo scivolare via dalla testa in un gesto lento e straziante. Poi, tenendolo in mano, vi osservò se stesso riflesso. —  Ho smesso di rubare, Yusuf. Da molto tempo. —

  Dove sei stato? —  non c’era ombra di esitazione nella sua espressione dura, ora più adulta che mai.

Dönek gli lanciò un’occhiata di sottecchi e per un attimo sembrò stupito di vedere tanta maturità solo nel suo sguardo, ma scosse la testa.

  Potrei farti la stessa domanda. —

Yusuf si morse il labbro. Qualcuno doveva pur fare la prima mossa.

  Mio padre mi ha portato via. — 

L’altro annuì. —  Ti ha portato via… —  ripeté col tono di chi si sta dando una risposta diversa e migliore. —  Che tempismo perfetto! Spero si sia divertito a fare il genitore solo quando non aveva nient’altro da perdere, —  ironizzò. Si rinfilò l’elmo e voltò i tacchi, incamminandosi sulla banchina.

  Mia madre era morta. Cosa avrebbe dovuto fare? — obiettò Yusuf andandogli dietro.

Dönek accelerò il passo e svoltò bruscamente in un vicolo. —  Se avesse fatto fronte alle sue vere responsabilità quand’era il momento, tua madre non sarebbe morta. —  Quella risposta sembrava avere più senso per lui che per Yusuf.

— Tu cosa ne sai? Di che stai parlando? —  domandò mentre lo stesso brivido di poco prima gli accapponava la pelle. —  Allora? —  insisté non ottenendo risposta. Faceva fatica a tenere il passo dell’altro che, alto e piazzato, aveva acquisito tutta la mole di uomo lasciandolo decisamente indietro con gli anni.

Dönek si ostinava nel suo silenzio, ma Yusuf era determinatissimo a rompere anche quella barriera. —  Dannazione Dönek, perché non mi rispondi?! In questi anni ho sofferto come un cane all’idea di non averti neppure potuto salutare. Di averti lasciato nei guai, di essere fuggito. Non ne ho avuto il tempo e neanche il modo. Cosa potevo… —

  Cosa potevi fare?! —  esplose l’altro improvvisamente, sopprimendo la voce mortificata dell’amico con la propria. —  Già, effettivamente non hai avuto molta scelta; i bambini non scelgono. Sei scappato, approfittandone finché avevi le gambe per farlo. Ma perché scomodarsi tanto a tornare? Dico io. Non ho bisogno del tuo aiuto: insomma guardami! Guardami ora! —

Avevano seguito le mura del Topkapi fino all’ingresso per le guardie, al quale Dönek alluse con un gesto teatrale.

Yusuf parve ancora più confuso.

  Ho uno scopo ora, —  continuò Dönek andando a ritroso verso la fortezza. —  Tu invece non sei né carne né pesce, e vivi giorno per giorno senza costruirti un futuro. Proprio come tuo padre, che andando in giro ad ammazzare la gente credeva davvero di poter cambiare il Mondo! Col cappuccio bianco sulla testa e il sangue sulle mani, a metà tra il monaco e l’assassino. —

Yusuf si riscosse. —  Tu non lo conoscevi, non puoi parlare così di lui! —  sbottò puntandogli il dito contro come se fosse un’arma.

  Gli uomini si giudicano in base alle loro azioni, Yusuf, e Yalìm era un povero scemo e un illuso, come tutti quelli della sua cerchia, —  ridacchiò dandogli le spalle. —  Ora scusami, ma devo andare a dire al mio signore che i testimoni del suo adulterio con una delle mogli del Sultano sono caduti in un sonno molto profondo! —

Yusuf esitò giusto un istante, prima di bruciare tutto il suo coraggio nel gesto di afferrare l’amico per la veste e costringerlo a voltarsi. —  Mio padre se lo era costruito un futuro, e quel futuro sono io. Dici che hai uno scopo. Bene! Anch’io ne ho uno: vivere. E non promuovere quello di qualcun altro! —  sbottò.

  E il tuo prezioso sangue da Assassino? —  lo stuzzicò.

Yusuf gli soffiò come un gatto. —  Dopo la scomparsa di mio padre in missione, ho rifiutato di unirmi al suo maledetto Ordine e ho deciso di vivere la mia vita. Avevo quindici anni, ma sicuramente molto più talento di te a quell'età nel cavarmela da solo. —

Dönek lo fissava con rabbia mentre Yusuf lo teneva incollato lì dov’era, stringendogli una manica. Il figlio di Yalìm gli diede uno scossone e continuò: —  Se hai da biasimare qualcuno, biasima te stesso! Per avermi voltato le spalle quella volta nel distretto degli Armeni e per essertene andato da casa mia senza salutarmi, scomparendo nel nulla come se non fosse successo niente. Come se tra noi non ci fosse mai stato niente! Non ho dimenticato, Dönek, perché tu e il tuo dannato circolo di amichetti siete sulla mia faccia ogni Santo giorno. —

Con un moto di stizza Dönek fece roteare gli occhi. —  Basta, mi hai davvero scocciato: sei lo stesso ragazzino petulante di allora, —  disse al limite della sopportazione. Sputò a terra e poi aggiunse: —  Comincia a correre, Yusuf, perché ‘sta volta non li rallento per te.—

La malvagità negli occhi.

  AL LADRO! —  gridò.

Pochi secondi più tardi dalla guardiola dell’ingresso al Topkapi si affacciò un Giannizzero, che subito sguainò il kijil mentre dalla porticina nel portone più grande uscivano alcune guardie agili.

Dönek fece schioccare la lingua. —  Ancora qui? —  domandò inarcando un sopracciglio.

Yusuf gli rivolse un’occhiata di braci e lo liberò con uno strattone. —  Sapevo che eri un bastardo, —  disse facendo due passi indietro, —  ma non fino a questo punto. — 

Si voltò e corse via, rigettando in gola le lacrime amare.

Era diventando sordo alle grida dei soldati, tanto era il frastuono del suo cuore.

Tanta era la fatica del suo respiro.

Tanto era il dolore.

 

 

      Con i piedi pesanti come mattoni e le gambe che gli tremavano, Yusuf arrivò alla porta della sua piccola dimora e vi si appoggiò con un braccio.

      Gli ci era voluta tutta la notte per seminare quei soldati, che avevano smesso di inseguirlo solo quando si era addentrato nel distretto povero di Costantino, e trovata rogna con qualche athingana si erano completamente dimenticati di lui.

      Si prese un paio di minuti per regolarizzare il respiro affannato, ma i pensieri lo costrinsero ad ingoiare tanta di quell’amarezza che avrebbe potuto rimettere da un momento all’altro. Entrò e richiuse la porta, ma la sola forza di stare in piedi gli mancò improvvisamente e inciampò prima di arrivare al letto.

Il pavimento non era mai stato così comodo…

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: Attesa ***


Istanbul,

Jumâda Al-Awwal 892

(Maggio 1487)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 











uardava il proprio riflesso nell’acqua esattamente come allora, con la stessa espressione pensierosa e anche un po’ crucciata, la stessa curva nella schiena. In una fresca estate di molti anni prima ci aveva passato un pomeriggio intero così, con le gambe a penzoloni e i gomiti sulle ginocchia, reggendosi la testa. Adesso, invece, le punte dei piedi nudi sfioravano senza difficoltà l’acqua che passava sotto la banchina.

Sedere lì dopo tanto tempo non lo lasciava indifferente. Era il posto dove aveva conosciuto Dönek, e dove si erano incontrati quasi ogni giorno negli anni successivi, il punto di partenza per le loro scorribande per la città, fino a quell’estate in cui sua madre era stata uccisa e aveva dovuto fuggire. Ci era tornato una sola volta dopo il suo rientro a Istanbul, cercando notizie dell’amico che era stato costretto ad abbandonare, ma nessuno era stato in grado di fornirgli delle informazioni. Dönek si era come volatilizzato, per ricomparire come un fantasma la sera precedente. Fato beffardo…

Le parole di quello che era stato il suo migliore amico, compagno di avventure al limite della legalità e maestro di vita nell’ombra dei vicoli dei quartieri più poveri, gli rimbalzavano nel cervello, suscitando amarezza e rabbia. Non riusciva a capacitarsi che quel bastardo gli avesse sguinzagliato dietro un’orda di guardie, dopo tutte le volte che lo aveva protetto e solo pochi minuti prima camminava scherzando con lui come se gli anni non fossero mai passati.

La sua mente pronta e agile si faceva spesso molte domande, ma quella era forse la prima volta che qualcosa lo portava a fare un bilancio della sua vita per intero e detestava che fossero proprio le parole di Dönek a spingerlo in quel territorio incerto. A vent’anni era un uomo fatto che aveva lottato per sopravvivere, aveva rubato e spiato, e si era anche spaccato onestamente la schiena scaricando casse al porto. Aveva ucciso, fortunatamente una volta soltanto e conosciuto le donne (il pensiero di Sümeyya la Rossa gli attraversò il cervello, ma stranamente, non con la stessa urgente attrattiva che aveva avuto soltanto la sera prima). Artigiani e mercanti gli avevano chiesto di lavorare per loro, la Gilda dei Ladri gli aveva offerto un posto nei suoi ranghi, lo stesso Ordine degli Assassini, nella persona di Ishak Pasha aveva tentato di accaparrarselo, ma lui era sempre stato bravo a sfuggire a tutte queste lusinghe, abile a non legarsi a nessuno. Cauto nelle frequentazioni e parco nella fiducia, aveva mantenuto i suoi contatti in molti ambiti, e coltivato parecchie amicizie, riuscendo sempre a rimanere libero. Perché allora in quel momento si sentiva così solo? Perché improvvisamente il futuro si spingeva più avanti di domani e appariva così nebuloso da non permettergli di scorgerne nemmeno una minima parte? L’impronta di suo padre pesava su di lui e a causa di essa si era tenuto sempre accuratamente lontano da qualunque cosa incrociasse il cammino della Confraternita, ma ora non poteva far altro che domandarsi se muovere un passo nella direzione che si era ostinato ad evitare, non avrebbe potuto dissolvere la nebbia che lo opprimeva.

Yusuf sospirò, frustrato, maledicendo Dönek, la Rossa e tutta la catena di eventi, fino alla sua nascita, che lo avevano condotto a quel momento.

Chiunque avrebbe potuto notarli, ma soprattutto Yusuf, che quei cappucci ce li aveva stampati nei ricordi e così nel sangue, non poté fare a meno di voltarsi e fissarli.

Erano tre uomini e una donna e all’apparenza giovani. Due di loro avevano il volto scoperto e sembravano coetanei. Si scambiavano occhiate complici ridendo di qualcosa che indicavano nella folla. Yusuf non fece in tempo a seguire il loro sguardo che al gruppo si unì un quinto elemento e l’allegria generale sembrò scemare per poi disperdersi improvvisamente. Il nuovo arrivato parlava con tono grave ai compagni, da sotto l’ombra del cappuccio, gesticolando come se volesse affettare l’aria. E c’era qualcosa di dannatamente familiare in quei gesti…

Chi aveva tenuto il cappuccio calato sulle spalle fino ad allora se lo sollevò sul volto e il gruppo partì, compatto, lasciando per ultimo il quinto elemento. Questi si guardò attorno (Yusuf buttò subito lo sguardo altrove per non incontrare il suo) e poi anch’egli sparì.

Il ragazzo non ci aveva pensato due volte: si era alzato dalla banchina e aveva corso per raggiungere l’imbocco della strada.

Distinguere quelle sagome bianche tra i veli e le stoffe sgargianti non era stato difficile e per un po’ li aveva seguiti senza fatica, camminando al loro stesso passo tra le bancarelle e la folla. Poi d’un tratto Yusuf li contò, e senza che se ne fosse reso conto, uno di loro era scomparso, perché adesso erano quattro. E da quattro diminuirono a tre, e da tre a due. A quel punto, e per non farsi ingannare ancora dalla distanza che li separava, Yusuf cominciò a correre per raggiungerli, ma i due Assassini davanti a lui accelerarono svoltando di colpo in un cortile.

Entrando nel giardino Yusuf fece in tempo a vedere uno di loro compiere i tre passi sul muro e aggrapparsi alla sommità della parete. Con l’aiuto di uno strano bracciale, dal quale era spuntata una protuberanza metallica che si era allungata più in là del suo polso, l’Assassino ripeté gli stessi movimenti e scomparve sul tetto.

Solo un incompetente della peggior specie si affezionerebbe tanto ad uno strumento del genere. Pensò Yusuf con spavalderia, quasi deluso. Storse le labbra in una smorfia e guardò la parete di fronte a sé.

Ad ogni modo, ora comincia la sfida.

Era un vicolo cieco che avrebbe impedito di proseguire a chiunque, con i suoi due metri di muro, ma a quanto pare non agli Assassini.

E non a lui.

I muscoli per le infinite corse acrobatiche sui tetti li aveva sempre avuti fin dall’infanzia, ma un aiutino come quello strano bracciale avrebbe fatto comodo. Se ne rese conto al terzo tentativo di raggiungere la sporgenza, che afferrò con un gemito. Issandosi sul tetto capì che il peggio era passato, e ora non gli restava che da riguadagnare il terreno perduto.

I cappucci bianchi erano veloci e gli fecero mangiare parecchia polvere, ma Yusuf pensò a tutta la faccenda come una sfida personale: avrebbe seguito gli Assassini senza farsi scoprire fin dove fossero diretti… o fintanto che le gambe gli avrebbero retto.

 

I due Assassini si fermarono nell’ombra di un giardino pensile.

— Qualcuno ci segue, — disse la donna.

— Lo so. —

— Ed è bravo. —

— Ma non abbastanza. —

— Che facciamo? —

— Raduna gli altri e tornate al Covo. Me ne occupo io. —

Lei gli afferrò un lembo del cappuccio, costringendolo a voltarsi. — Sii cauto. —

— È solo una gazza curiosa, Tünay. La spavento un po’ e quella vola via. Non corro alcun rischio. —

O almeno, non io.

 

Entrò agilmente in un sottotetto colonnato, dove si riparò dal sole e trovò ad accoglierlo una piacevole frescura. Appoggiandosi alle ginocchia, Yusuf si convinse che era un buon posto in cui sostare per riprendere fiato. Contò le gocce di sudore che dalla sua fronte precipitavano al suolo e scosse la testa, ansimando.

Li aveva persi, dal primo all’ultimo.

Stava maledicendo se stesso e quei dannati cappucci bianchi per la trentesima volta quando, come richiamato dai suoi pensieri, uno di loro fece la sua comparsa.

Se ne stava seduto sul cornicione a braccia conserte, come se fosse sempre stato lì ad aspettarlo. E invece Yusuf non l’aveva neanche sentito arrivare.

La sorpresa fu tale che il giovane ladro strinse istintivamente le dita attorno all’elsa del pugnale nella cintola, ma senza estrarlo, perché l’Assassino, alzandosi, aveva attirato l’attenzione del ragazzo sulla minacciosa sciabola che portava legata al fianco.

Yusuf alzò entrambe le mani in segno di resa e indietreggiò.

— Ehi, non mi sono spaccato la schiena tutta la mattina per morire su un tetto qualunque, — protestò.

L’Assassino accorciò le distanze e dal suo polso scattò fuori, all’improvviso, quella strana protuberanza metallica che ricordava solo nella forma la classica lama celata in dotazione alla Confraternita, perché terminava con una sorta di uncino… Ma guardandola meglio e più da vicino, Yusuf capì che aveva proprio un duplice e mortale utilizzo. Quindi non riuscì a trattenere un gemito di terrore e poi, balbettando, disse: — Ti avverto, uccidermi sarebbe un gran spreco! —

— Ma davvero? — rispose l’altro, stizzito, in un turco afono e mitigato da vocali chiuse. Era palesemente originario di qualche deserto e aveva una voce calda e profonda, capace di intimidire più di quanto l’oscurità del cappuccio calato sul volto non facesse già.

— Chissà quanto può valere uno come te. — Il tono oscillava tra la minaccia e la beffa.  — È dalla banchina del distretto di Bayezid che ci stai seguendo. Chi ti manda? — domandò imperscrutabile, ora senza più alcuna traccia di scherno nella voce ferma.

Yusuf fu percorso da un brivido. La situazione stava prendendo una piega inaspettata e malauguratamente spiacevole.

L’Assassino fraintese il suo silenzio e si avvicinò minaccioso. — Rispondimi, miserabile. —

— Non mi manda nessuno, — obbiettò. Quel pregiudizio lo faceva sentire troppo vicino ad una certa persona che aveva smesso di chiamare amico neanche dodici ore prima.

— Allora devi essere o un ladro molto ingenuo o un pazzo. —

Yusuf sostenne il suo sguardo e, tanta era l’amarezza che gli risaliva lo stomaco, tanta fu la rabbia con cui disse: — Voglio unirmi a voi. —

Non si pentì di essersi venduto in così poco. Quelle parole gli erano uscite di bocca con la stessa istintività con cui aveva cominciato a seguire il gruppo di Assassini.

      Il suo misterioso interlocutore richiamò la strana lama nel bracciale e, dopo un silenzio eterno, rise sommessamente.

      — Non mi sbagliavo: sei il più folle tra i folli se pensi di avere la stoffa che ci serve. —

      — Il mio nome è Yusuf, — sbottò lui senza tentennamenti. — Mio padre si chiamava Yalìm Nükteli ed è stato uno dei vostri, forse il migliore. Perciò se posso entrare nell’Ordine ho intenzione di chiederlo al tuo Maestro e non a te, che al massimo sei un suo Discepolo. —

      — Yusuf… — ripeté l’altro, improvvisamente cauto e assorto.

      — Ti serve altra stoffa, effendi? — domandò il giovane ladro esibendosi in un inchino per il gusto di schernirlo un po’ sul suo stesso gioco di parole.

      L’Assassino tacque a lungo e sembrò scrutarlo dalla testa ai piedi almeno due volte, prima di rispondere. E quando pronunciò la sentenza, questa era grave e arrogante come la sua persona.

      — Alla Torre di Galata, oggi al tramonto, — disse indietreggiando. — Se tarderai verrò a cercarti, e potrebbe non essere divertente. —

      Saltò con agilità il cornicione e si calò nel vicolo sottostante.

      Yusuf corse ad affacciarsi.

      Era scomparso. 

 

 

 

Durante la sua vita aveva conosciuto, suo malgrado, l’attesa e la pazienza, ma mai una giornata gli era parsa lunga come quella. Le ore che separavano Yusuf dal tramonto e dall’appuntamento con quell’arrogante Assassino, si srotolavano lente in una maniera esasperante e nessuna attività sembrava in grado di farle passare più in fretta, né di allontanare i pensieri che si spintonavano nella sua mente. La pianificazione accurata era un suo punto di forza, ma gestire il tempo tra la pianificazione e l’azione aveva sempre rappresentato un problema per lui: l’emotività era un suo limite. Non era mai riuscito a impedirsi di continuare a pensare a tutte le possibili eventualità, cercando di anticipare anche l’imponderabile. Questo non aveva mai fatto altro che accrescere la tensione e l’ansia, destinate però a sparire al momento della resa dei conti, sostituite da una calma in cui tutto era chiaro e limpido, territorio incontrastato di un istinto quasi infallibile. Innumerevoli volte Yusuf si era detto che era del tutto inutile pianificare ogni cosa nei minimi particolari e avvelenarsi il sangue per l’agitazione quando era certo che l’istinto l’avrebbe servito bene, ma non aveva ancora trovato la formula giusta per mettere in pratica questo proposito.

A questo pensava, mentre vagava per la città cercando di ammazzare il tempo, con i pugnali da lancio di suo padre perfettamente affilati nella custodia, la lama corta infilata nella cintura e la spada di Ishak, lucidata fino a splendere e poi avvolta in un telo grezzo legato ben stretto dietro le sue spalle, che sembrava diventare più pesante ad ogni passo. Stava di nuovo cadendo nella trappola del suo cervello instancabile e la tensione gli afferrava lo stomaco. Cosa doveva aspettarsi da quell’incontro? Perché aveva accettato di andarci? Poteva fidarsi di quell’Assassino? Le cose potevano mettersi male? E se si fossero messe male, sarebbe stato in grado di tenergli testa? E se non fosse stato da solo? C’erano delle donne nel gruppo di Assassini che aveva seguito quella mattina. E se si fosse trovato a combattere con delle donne, sarebbe stato capace di farlo? No, non poteva essere un tranello, non in un luogo così affollato! Cosa aveva da temere da quell’incontro? E se davvero c’era qualcosa da temere, perché aveva deciso di presentarsi all’appuntamento? Poteva anche non andarci. No, non poteva, quello là gli aveva detto che sarebbe andato a cercarlo se non si fosse presentato…

Aveva la sensazione, decisamente sgradevole, di essere chiuso dentro un barile che rotolava per una china scoscesa verso l’ineluttabile: qualsiasi cosa fosse scaturita da quell’evento, avrebbe segnato un punto di svolta nella sua vita. Il cambiamento incombeva su di lui come una nube temporalesca, e non sapeva se temere il fulmine o augurarsi la pioggia.

Era ormai tardo pomeriggio, quando giunse alla locanda dove il suo amico Latif continuava a dare una mano, malgrado le sue ormai regolari frequentazioni con la Gilda dei Ladri.

Damla, che dopo la morte del padre aveva preso con mano decisa le redini dell’attività, lo salutò con un sorriso.

— Latif è di sopra. — disse.

— Grazie, Damla. — rispose Yusuf infilando la stretta scala scricchiolante.

— Se tu e quel rospo sistemaste i sacchi di farina nel magazzino sarebbe di grande aiuto per me!— gli urlò dietro lei.

Aprì la porta della stanza del suo amico senza preoccuparsi di bussare e si domandò se non fosse il caso di richiuderla e ritornare più tardi. Latif era troppo occupato in quello che stava facendo per accorgersi del suo arrivo: stava seduto sul letto con le braccia intorno alla vita di una ragazza accomodata sulle sue ginocchia e le sussurrava nell’orecchio mentre lei gli accarezzava i riccioli scuri.

Altro che rospo… Pensò Yusuf mentre si schiariva la gola con un bieco sorriso sulle labbra.

La ragazza emise uno squittio e balzò in piedi. Un attimo dopo era fuggita con lo scialle tirato sulla testa per nascondere il rossore, lasciando Latif a mani vuote e con un’espressione di sconcerto sul viso.

— Melisa? — domandò Yusuf soffocando una risata.

— Quella era Esel. — rispose Latif contrariato.

— Oh, scusa. Giusto, Esel. Come ho fatto a non capirlo? —

Latif inarcò un sopracciglio e poi scoppiò a ridere.

— Potevi bussare, Yusuf. A quella poverina sarà venuto un colpo! Per non parlare di me poi, per un attimo ho pensato che mi stesse per arrivare una coltellata. —

— Da Melisa? —

— Da suo padre, o da quello di Esel. Damla non approva, ma non è un tipo da coltelli, preferirebbe colpirmi con un mestolo. Non sarebbe la prima volta! —

— Damla vuole che mettiamo a posto dei sacchi di farina. —

— Sei venuto qui per questo? —

— Veramente no. —

Yusuf esitò e fu la fine, Latif si alzò e andò verso di lui, col suo bel viso che sembrava accartocciarsi per la preoccupazione.

— Cosa ti è successo? Sei nei guai? Me lo puoi dire, lo sai. Non avrai di nuovo…—

— No! Non ho ucciso nessuno, te lo assicuro! —

L’altro sospirò di sollievo, riuscendo quasi a sorridere.

— Volevo chiederti un favore. — disse Yusuf slegandosi un sacchetto dalla cintura e lanciandolo all’amico. Il piacevole tintinnio dell’oro risuonò nella stanza.

— Sono un mucchio di soldi! Dove li hai presi? —

— A uno che credevo un amico. — l’amarezza e la rabbia gli indurirono gli occhi e Latif, riconoscendo quello sguardo, non indagò oltre.

— Che devo farne? — chiese soltanto.

— Vorrei che li tenessi al sicuro per un po’, intanto che penso a come usarli. —

Il sorriso di uno che la sa lunga affiorò sulle labbra dell’altro.

— Io un paio di idee le avrei…—

— Be’, pure io, ma preferisco aspettare… che le acque si calmino. —

— Devo preoccuparmi? —

Yusuf rise, ma non poté evitare di sentirsi punto dal senso di colpa mentre ometteva di parlare al suo amico dell’appuntamento alla Torre di Galata.

— No, la devi smettere di preoccuparti per me, sono io il più grande, non è così che funziona.—

Latif lo guardò storto e poi sospirò.

— Va bene. Li nasconderò. —

— Grazie. —

Latif scrollò le spalle.

— Hai detto che Damla ha bisogno di aiuto? —

— Sì. —

— Allora andiamo. Prima che prenda il mestolo. —

Uscirono dalla stanza e scesero le scale.

      Un po’ di sana fatica era quello che ci voleva per far passare le ore e mettere a tacere il cervello.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: Ritardi ***


 











ingraziò e pagò generosamente il traghettatore, come se quel gesto di altruismo potesse riscattarlo da un torto che stava facendo a se stesso. L’uomo ammiccò con l’espressione di chi ha appena visto uno zoppo gettare il bastone e scappare di corsa, ma non disse nulla e tornò sulla sua barca.

Yusuf lo guardò allontanarsi a remate lente e immaginò di essere ancora seduto davanti al traghettatore, di non aver messo piede su quella banchina e di aver gridato ancora in tempo “No, fermo! Pagherò il doppio, ma riportami indietro!”

Il dolore alle braccia per il lavoretto nella locanda di Damla gli ricordò che oltre il Corno d’Oro c’erano solo sacchi di farina da spostare e molliche da raccogliere. Quindi si voltò con convinzione, lasciò la banchina, attraversò la piazza che ospitava alcune bancarelle e poi imboccò un largo viale in salita.

Camminò per tutto il tempo con il naso all’insù, nella speranza di riconoscere un tetto o una sporgenza usata da Yalìm il giorno in cui lo aveva portato a cavalcioni sino al Covo degli Assassini. Dopo aver lasciato Bursa ed essersi stabilito di nuovo a Costantinopoli, non si era mai spinto più in là del quartiere Imperiale per paura di essere risucchiato dal dolore, finendo per visitare quella zona della città solo negli incubi: vedeva sua madre morire e poi si svegliava nel bel mezzo della notte, tremando, aggrappato alla coperta con le unghie e zuppo di sudore… Quei pensieri rievocarono nella sua mente solo immagini sconnesse e sensazioni orribili, così Yusuf li ricacciò in fondo all’anima prima che sopraggiungessero le lacrime. Ciononostante si concesse un po’ di finto smarrimento per raggiungere, riuscendo quasi a stupirsene, la casa della sua infanzia.

Riconobbe le vecchie imposte scricchiolanti della finestra del secondo piano, in quel piccolo abbaino ritagliato nel tetto della sua soffitta dove riusciva ad affacciarsi solo lui, perché un adulto ci si sarebbe incastrato per non uscirne più. Ora, pensò con una smorfia, gli sarebbe toccato lo stesso amaro destino.

Quando l’ingresso si aprì ebbe un tuffo al cuore, come quelle volte che la voce di sua madre saliva le scale fin dalla cucina, rimproverandolo perché la smettesse di infastidire i passanti…

In strada uscì una donna di mezza età dal viso color caffè che gli lanciò un’occhiata fugace prima di tornarsene in casa, come delusa, chiudendo la porta lentamente e senza rumore.

Doveva averlo scambiato per qualcun altro.

E Yusuf, per un brevissimo istante, si era illuso non di meno.
 

Le luci calde del tramonto arricchivano l’atmosfera di contrasti pittoreschi e si era già diffuso per le strade il profumo di cucinato. Aveva appena pagato al fornaio di quartiere un simit quando Yusuf si voltò a guardare il sole calante e poi il grande tetto conico, lontano, spuntare oltre quel labirinto di bassi edifici. Si accorse di essere in ritardo e cominciò a correre, masticando a grandi bocconi.

Le case, arroccate ad arte sul pendio, si erano moltiplicate negli anni fino a dare l’impressione di reggersi l’una all’altra in un equilibrio precario, tra scalette e passerelle coperte, porte e botteghe ritagliate nella pietra. Al vertice di quella fortezza urbana i genovesi avevano costruito un secolo prima il simbolo del loro dominio sulla città, un gigante di mattoni alto più di sessanta metri. La Galata Kulesi troneggiava sul distretto, visibile da ogni luogo e ancora incollata a brandelli delle vecchie mura possenti. Tutto il complesso, quando vi batteva il sole, metteva in ombra metà del quartiere.

Una folata di vento lo travolse con prepotenza e Yusuf capì di essere arrivato: si era lasciato alle spalle l’agglomerato di case e aveva raggiunto il punto più alto del distretto, dove un largo piazzale ad anello circondava la base della Torre. Superò il medico e l’ingresso del cimitero per trovare riposo e buona visibilità su una panchina contro le vecchie mura, accanto ad una bancarella di spezie. La venditrice, una piccola donna avvolta in un lungo burqa azzurro, lo fissò per un po’ e poi tornò a chiudere il sacco di kimyon che aveva tra le ginocchia.

Finito il simit Yusuf si pulì le dita sui pantaloni; poi distese le gambe e fece un respiro profondo.

Eccola, si disse, altra maledetta attesa…
 

Il sole era scomparso lasciando un vago chiarore all’orizzonte. Il medico e la venditrice di spezie avevano preso insieme la via del rientro, chiacchierando. Il silenzio nel piazzale era rotto solo dai passi di una piccola pattuglia ottomana che non fece neanche caso a lui, mentre due omuncoli uscivano e attizzavano i bracieri all’ingresso del cimitero; poi tornarono dentro e, una per una, accesero le fiaccole accanto alle tombe.

Presto avrebbe fatto completamente buio.

E freddo.

Sei in ritardo. —

Yusuf sobbalzò e guardò alla sua sinistra, dove era comparso il simpatico Assassino di quella mattina. L’imbrunire aveva addensato l’ombra del cappuccio sul suo viso, che ora vi scompariva per intero. Yusuf notò che aveva alleggerito l’equipaggiamento: al fianco portava legato solo il fodero con la lunga sciabola.

Lo aveva riconosciuto dalla voce. O meglio, dal tono di voce.

Vuoi scherzare? Sono già un paio d’ore che aspetto, — puntualizzò Yusuf contrariato. Si alzò e sgranchendosi la schiena constatò: — Mi si è anche addormentato il sedere. —

Non credevo che saresti venuto. —

Ci avrei giurato… ma questo non ti dà il diritto di arrivare quando ti pare. —

Ero qui da prima di te. —

Ma davvero? — domandò Yusuf, scettico.

Ti ho osservato. —

E da dove? —

Lui indicò la cima della Torre e Yusuf scoppiò in una risata nervosa.

Mi prendi in giro. —

L’altro scosse appena la testa.

         — E perché diavolo mi hai fatto aspettare, allora? —

Non credevo che saresti rimasto. —

Uomo di poca fede, eh? — borbottò Yusuf. — Be’, sono venuto e sono anche rimasto! Ora dovrò camminare sull’acqua? —

Seguimi. —

L’Assassino lo superò, i passi così silenziosi da dare l’impressione che piuttosto stesse levitando, e Yusuf s’incamminò dietro di lui tenendosi ad una distanza giusto sufficiente per distinguere la sua sagoma, e il perché non c’era neanche bisogno di chiederselo: quel tipo era irritante.


 

Dopo aver girato attorno alla torre, presero una strada capillare e raggiunsero un piccolo cortile. Si fermarono qui, di fronte ad una piccola basilica costruita sullo stile romanico, la cui struttura originale, massiccia e in laterizio, appariva trasandata, provata dal peso di due piani e consumata dai secoli. Il tetto a spiovente e il campanile, aggiunti più tardi, la vestivano secondo la moda italiana che si era diffusa nel quartiere con l’arrivo dei genovesi. Alla facciata era stato aggiunto nello stile locale, invece, un baldacchino di legno divorato dai rampicanti, che si aprivano come tende solo in prossimità delle finestre e dell’ingresso. Una lanterna illuminava la porta e un braciere riscaldava il cortile, dove stavano prosperando una famiglia di tulipani e due giovani palme. Nulla di più comune.

L’Assassino che lo guidava si fermò sotto la lanterna, dove nell’unico punto in ombra accanto alla porta era rimasta nascosta e immobile la sagoma di una donna. I due si dissero qualcosa a voce troppo bassa perché Yusuf potesse sentirli, ma ad un tratto l’Assassina si voltò verso di lui e lo fissò intensamente, a lungo. Dopodiché si congedò con un piccolo inchino ed entrò, scomparendo all’interno e lasciando accostata la porta.

La sua guida si voltò. Alla luce della lanterna la curva delle labbra era appena decifrabile nell’oscurità del cappuccio. — Il Maestro può riceverti. Comportati bene. —

E io che pensavo che mi avresti bendato, — commentò Yusuf divertito.

L’altro rimase in silenzio.

No, infatti: sei più il tipo che dà la botta in testa, vero? —

Entra. —

Varcò la soglia con un groppo al cuore e non mosse mezzo passo oltre, mentre l’Assassino richiudeva la porta alle loro spalle. Quando quello lo superò, Yusuf si sentì come strattonato da una corda comparsa improvvisamente ad unirli, e che gli lasciava neanche un metro di indipendenza.

Scesero due rampe di scale e poi oltrepassarono un arco a sesto acuto sull’imbocco di una passerella di tavole. Qui li accolsero le fondamenta della basilica originaria, tripartita in ampie navate scavate nella pietra sotto il livello della città attuale. Alzando lo sguardo Yusuf poté ammirare le ampie volte a crociera nel gioco modulare tipico dell’architettura romanica, che respirava come un gigante tra le colonne slanciate di granito.

Il percorso era segnalato da un lungo drappo rosso, sospeso sopra la passerella e appoggiato a travi di legno, e che ondeggiava come la coda di un dragone lungo le volte. Alle due estremità, lasciate pendere verso il basso, spifferi di correnti impercettibili cullavano un simbolo a forma triangolare ricamato in oro.

Superata la passerella si alzava un mezzopiano ampio come una piazza e bello come un palco, tra la tappezzeria e le architetture arabeggianti. Tutto il piano era avvolto da un piacevole torpore e invaso dai fumi degli incensi, che si disperdevano in una giungla di tappeti appesi alle travi delle colonne, più basse e sottili, dove giacevano con la stessa indolenza di un animale sopito. L’oscurità era attenuata dal chiarore di alcune pigre candele e il camino era spento. I cuscini e la mobilia erano distribuiti prevalentemente ai lati del grande salone, dal quale si accedeva a tre diverse stanze. C’era un silenzio innaturale e forzato in quel luogo che Yusuf aveva sempre immaginato pieno di movimento e di vita, ora deserto.

La sua guida si era allontanata e la corda invisibile che li legava costrinse con uno strattone il giovane ospite ad accelerare il passo: per raggiungere l’Assassino, Yusuf cominciò a correre…

In un istante ricordò quel luogo che era stato teatro della tragedia più grande della sua vita. I suoi occhi si riempirono di immagini e le sue orecchie fischiarono affollate da centinaia di suoni, finché l’eco dei suoi stessi passi sulla passerella non si confuse a quelli di suo padre...

I ricordi ruppero la diga nella sua mente e gli si riversarono davanti come un fiume in piena. Si rivide seduto tra quei cuscini mentre ascoltava suo padre e il Mentore scambiarsi le ultime stoccate sul destino di entrambi; il sapore amaro del caffè, le cure e il volto sfocato di una donna. Infine Yalìm, fragile che avrebbe potuto spezzarsi, cadere su quella panca con la testa tra le mani.

Da questa parte. —

Yusuf sobbalzò.

L’Assassino lo stava aspettando, immobile come una colonna, sotto l’arco che dei tre conduceva alla biblioteca. L’espressione indecifrabile per via del cappuccio ancora calato sul volto.

Non sono certo qui perché avevo un po’ di nostalgia, si disse Yusuf raggiungendolo. In vista del suo colloquio con il Gran Maestro s’impose di mettere un freno a quelle emozioni, che lo travolgevano anche adesso, mentre la sua guida si annunciava con una formula di rito e lo presentava a qualcuno oltre la soglia.

Una voce dall’interno rispose: — Grazie, lasciaci soli. —

L’Assassino fece un inchino e lasciò la biblioteca, mentre Yusuf entrava come per rubarvi: allungando la testa di qua e di là, controllò se c’era qualcuno nei paraggi che avrebbe potuto denunciare il suo misfatto. Dopodiché il bagaglio gli scivolò dalle braccia fino a terra, dove si posò con un tonfo che rimbombò nel silenzio della sala. Vide un giovane Apprendista chiudere la copertina di una raccolta persiana e un’Assassina riporre un trattato di matematica sullo scaffale; qualcuno doveva averli avvertiti in precedenza, perché appena si accorsero di lui lasciarono la stanza.

Ishak gli dava le spalle, seduto su una comoda poltrona imbottita a compilare uno spesso volume. Il gomito viaggiava senza sfiorare il piano d’appoggio, la scrittura era fluida e ordinata, il polso deciso, e due candele gli illuminavano la strada. Con la mano libera si portava alla bocca la pipa della šīša, aspirava con calma e poi liberava il fumo dal naso.

Sto aspettando, — disse d’un tratto tra una boccata e l’altra.

Yusuf sentì le orecchie arrossarsi per l’imbarazzo di essere rimasto in silenzio fino a quel momento. Quanto tempo era già trascorso? Uno? Due? Tre minuti, forse.

Ishak continuava a scrivere e fumare assieme, senza voltarsi.

Coraggio ragazzo, chiedimelo. —

Il tono tranquillo dell’uomo lo spiazzava. Yusuf balbettò qualcosa ma rinunciò in fretta.

Ishak posò la penna e si appoggiò completamente allo schienale, voltandosi a guardarlo con aria serena. Aspirò un altro po’ di tabacco e poi, dopo aver fatto un piccolo anello di fumo, disse: — Non sei qui per questo? —

Solo allora Yusuf parve capire e fu scosso da un brivido.

Non so cosa quel… merlo ombroso ti abbia detto, ma credo sia ovvio perché sono qui. —

Il Greco aggrottò la fronte pensieroso, riempiendola di tante nuove rughe che Yusuf non gli aveva mai visto. Dal loro incontro nella locanda dei mercanti di sale notò che la barba si era allungata e fatta più ispida, i baffoni ispessiti e nella chioma pettinata ordinatamente all’indietro erano comparsi già parecchi capelli bianchi. Non indossava la sfolgorante armatura della sera in cui aveva cercato di vincerlo a dadi, ma le stoffe più comuni di cui un Assassino potesse coprirsi. Non il Gran Maestro, ma uno tra i tanti.

Ah! — scoppiò l’uomo, — Parli di Amir? — Con il beccuccio del narghilè indicò l’ingresso della biblioteca alle sue spalle e Yusuf si voltò, ma fortunatamente non vide nessuno.

Sì, certo. Mi ha detto che volevi entrare nella Confraternita e che hai… insistito per chiedermelo personalmente. — Ishak rimise la pipa al suo posto e girò la poltrona, sistemandosi di fronte a lui con i gomiti poggiati sui braccioli e le mani giunte sopra al cinturone.

Ebbene, sto aspettando, — disse.

Yusuf scoppiò in una risata sommessa. — Non capisco mai un cavolo di quello che succede qui, vero? Mi sfugge sempre qualcosa. E questo uccide la mia pazienza, Ishak. Quel tipo mi ha fatto aspettare le ore per essere condotto da te. —

Amir è molto ingegnoso: voleva accertarsi che fossi motivato. —

Lo sono, ma... Amir, giusto? Si da troppe arie! E se io fossi stato una persona qualunque, dopo averlo conosciuto avrei preferito farmi monaco, piuttosto. —

Nonostante la battuta di spirito, il volto del Mentore fu attraversato da un’ombra di tristezza.

Quel ragazzo ha sofferto molto. —

Anche io! — sbottò Yusuf, di colpo, piantando gli occhi in quelli del Visir.

Ishak ingoiò le sue parole con la faccia di chi è stato colpito due volte nello stesso punto. Dopo un lungo silenzio si alzò e venne verso di lui.

Yusuf si scansò, ma non seppe dire se per rispetto della sua carica o per paura della sua persona. Immaginò Ishak afferrarlo per le orecchie come avrebbe fatto suo padre e la sola idea gli rivoltò lo stomaco dalla vergogna. Sentiva di dover chiedere perdono di tanta sfrontatezza e per le offese ingiustificate, ma non lo fece.

Contro ogni aspettativa, Ishak lo superò con la sua mole imponente e si trascinò fino alla libreria. Mentre passava in rassegna le copertine recitò: — Tu e quel merlo ombroso avete in comune più di quanto immagini. —

Ma non mi dire… — assentì Yusuf distrattamente. Lanciò un’occhiata alle pagine che il Maestro stava compilando, ma non riuscì a leggervi nulla.

È il figlio di Saad. —

Yusuf ci pensò un attimo.

Questo spiega tutto. —

Ishak tornò seduto sulla sua poltrona con un sorriso contagioso e, fissando un punto nel vuoto davanti a sé, disse: — La sola cosa che accomunava i vostri padri era il grande senso dell’onore e del sacrificio. Tutto il resto poteva marcire nella fossa più profonda assieme al corpo dell’altro. Quando Saad morì, poco tempo dopo averti fatto visita a Bursa, Amir aveva sedici anni e già una grande dedizione per l’Ordine. Suo padre non gli ha lasciato altro, mentre sua madre gli ha insegnato la difficile arte della diplomazia. —

Con me non è stato molto diplomatico, — obiettò Yusuf.

Ishak si strinse nelle spalle. — Solo perché non lo riteneva giusto per se stesso. Col tempo imparerai a conoscerlo, — gli assicurò.

Com’è morto Saad? — chiese d’istinto.

Ishak fece un respiro profondo. — Durante la missione tuo padre tentò di fasciargli una ferita, ma quella si era già infettata. Ha vissuto il tempo necessario per viaggiare fino a Bursa e vedere suo figlio un’ultima volta, qui, a Costantinopoli. —

Yusuf meditò qualche secondo. Ricordava bene di aver visto quell’uomo zoppicare, ma anche imporsi di non farlo mentre lo lasciava solo nella fucina a meditare sulle proprie scelte.

Quindi quando ho detto ad Amir chi ero…—

Ishak annuì mestamente. — Deve essergli passata davanti la vita intera, povero figlio; come sarà successo anche a te entrando in queste mura, — osservò con una punta di sarcasmo. Dopodiché, notando il moto di stizza con cui Yusuf sembrò scacciare i ricordi, si fece oscuro e parlò a voce più bassa: — Sapevo che sarebbe potuto accadere qualcosa e non mancai di avvertirlo di questo rischio. La missione per cui chiamai tuo padre era molto importante. Ciononostante lo lasciai libero di scegliere, e Yalìm scelse il bene che credeva migliore. Tu eri suo figlio, Yusuf, ma nel momento del bisogno tuo padre vedeva l’Ordine come un bambino inesperto che muove i suoi primi passi, che ogni tanto cade gattoni e deve essere rialzato. Amava la sua causa, ma non quanto amava te. Voglio che lo rammenti. —

Il ragazzo piantò lo sguardo a terra e non rispose. Sentiva gli occhi pizzicargli e lo stomaco indurirsi. Era arrivato fin lì imponendosi un certo rigore, ma adesso un’altra parola avrebbe potuto farlo scoppiare.

Ishak si protese verso di lui dalla sedia, come intuendo i suoi pensieri.

Non bisogna dimenticare, Yusuf, ma accettare il dolore, — disse. — Tuo padre questo lo sapeva bene. —

Improvvisamente un’Assassina entrò nella biblioteca, togliendosi il cappuccio e la maschera dal volto. Un attimo dopo Yusuf era avvolto nella morsa dolce delle sue braccia.

Il Maestro si lasciò cadere sullo schienale e roteò gli occhi. — Donne…—

Non era molto alta, ma allungandosi sulle punte arrivò a baciare Yusuf sulla fronte. — Per la miseria, Ishak. Potresti pur mostrare un minimo di umanità! — Quando la donna tornò a terra e lo fissò con più attenzione, Yusuf poté guardarla meglio e cercare di capire chi diavolo fosse… ma la risposta alla sua domanda non tardò ad arrivare.

Zuhre, dovresti essere di guardia alla Bayezid Camii, — la canzonò il Maestro.

Ho lasciato due dei miei. Sono venuta prima che ho potuto, — rispose lei senza distogliere lo sguardo dalla faccia del ragazzo.

Yusuf arrossì.

Ha il naso di Yalìm! — esplose lei.

Il Maestro, con un sorriso divertito, tamburellava le dita sul tavolo. — Qualcosa nel suo sguardo di estremo smarrimento mi dice che non ti ha riconosciuta. —

La donna esibì una smorfia offesa, dando al ragazzo un pugnetto sulla spalla.

Yusuf la squadrò da capo a piedi e pensò che era invecchiata, anche lei, ma erano state le sue le uniche mani che lo avevano accarezzato con dolcezza, fino a farlo addormentare, la notte della tragedia. Quando il ragazzo cominciò a brillare della luce di chi sta rivivendo un ricordo felice, nessuno non poté non accorgersene.

Zuhre si gettò ad abbracciarlo di nuovo e questa volta Yusuf ricambiò, riuscendo ad avvolgerla pur sommersa dall’equipaggiamento. Oltre la spalla della donna, il ragazzo scambiò un’occhiata d’intesa con il Maestro, che si alzò e scomparve dietro la libreria, lasciando aperto sul tavolo il registro giornaliero.


 

Jumâda Al-Awwal 892,

Salı 21

Inviate le lettere a Damasco e Atene.

Incontro con il mercante Kamuran Izer al Gran Bazar.

Incontro con lo scriba imperiale al Topkapi.

                                    Entrate: 1245 Akçe

Spese: 440 Akçe

Annotazioni varie: arruolamento del Novizio Yusuf da Istanbul

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Capitolo 14
*** Capitolo 13: Un'altra storia ***












e sei davvero chi dici di essere…— Amir saltò sulla branda e si allungò a pescare tra i libri impilati con ordine sullo scaffale un panno colorato, che poi sbatté per liberarlo dalla polvere. Yusuf lo degnò solo di un mezzo sguardo interrogativo, tenendosi a distanza e immobile al centro della grande stanza che come Recluta avrebbe condiviso con lui e il resto degli Apprendisti.

Scoppio dalla gioia, pensò con una smorfia. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima che i crampi per la nostalgia della sua piccola tana cominciassero a farsi sentire. Settimane? Giorni? Si chiese.

— …questa dovresti ricordartela, — concluse Amir mentre, agile come un gatto, scendeva dal proprio letto con un balzo. Dopodiché tornò da lui e gli porse la stoffa con un'espressione indecifrabile. Yusuf inarcò un sopracciglio senza muovere un muscolo e per un po' si limitò a studiare l’oggetto dalla mano dell’altro.

Aveva tutta l’aria di una sciarpa, a righe gialle e arancioni, di stoffa grezza ma resistente.

Vuoto totale.

— Devi avermi scambiato con qualcun altro. —

— Era di tuo padre, — ribatté Amir, arrogante.

Poche ore, si corresse.

Yusuf gli rivolse un sorriso esagerato e fece per agguantare la stoffa, ma Amir ritrasse la mano di colpo.

— Non ho detto che puoi prenderla. —  

La fronte del turco si riempì di rughe, il suo sguardo si fece cagnesco.

— Ma hai appena detto che era di mio padre. —  

La tensione era palpabile e quasi involontariamente Yusuf si ritrovò a comparare la stazza del siriano alla propria.

Amir sogghignò, come se se lo fosse aspettato.

— Sì, l’ho detto. Ma era addosso a mio padre, al momento del suo ultimo respiro. —  

“Durante la missione tuo padre tentò di fasciargli una ferita, ma quella si era già infettata.”

Le parole di Ishak e la rivelazione di Amir insieme lo paralizzarono e per un lungo istante i due rimasero a fissarsi, a valutarsi reciprocamente come due abili giocatori d’azzardo: chi fra loro poteva meritare la compagnia del passato più dell’altro? E cosa poteva stabilirlo? Ma soprattutto, valeva la pena spargere sangue, proprio alla sua prima notte nel Covo e nella camerata comune degli Apprendisti, per un pezzo di lana?

No, c’era dell’altro.

Quel merlo ombroso era tutto il giorno che lo provocava. Dal loro primo incontro tra le strade di Istanbul all’appuntamento alla Torre di Galata, tutto ciò che Amir aveva mostrato di sé era solo una pungente arroganza che Yusuf ancora non riusciva a spiegarsi. Ishak aveva provato a rassicurarlo dicendo che Amir era un povero complessato, ma il Mentore l’aveva detto col tono di chi, come un padre fiero delle qualità del proprio figlio, promette che un giorno tutta quella struggente apatia sboccerà in una genuina saggezza. Yusuf non osò dubitare, toccato il fondo non si può che risalire, ma ciononostante Amir restava uno scorbutico e intrattabile compagno di stanza.

— Perché mostrarmelo, allora? — si sentiva di nuovo bambino mentre desiderava con tutto se stesso di strappargli dalle zampe il bavero di suo padre. — Potevi continuare a nascondermelo, tirandolo fuori solo la notte e alzandoti le coperte fino al naso per non far vedere come ti ciucci il pollice. —  

Amir sollevò un po’ il mento, in un gesto che Yusuf sospettava sarebbe diventata una noiosa abitudine, in sua presenza. — La tua lingua ti precede… e se la tua testa è altrettanto veloce, potrò contare sulla rapidità del tuo apprendimento: l’Ordine ha dei ranghi, e come hai detto tu, io sono al massimo un Discepolo del Maestro, ma comunque più in alto di te adesso. — 

Yusuf fece un passo indietro, esageratamente celebrativo. — Ooooh! Come ho fatto a non accorgermene? Non sai quanto mi dispiace. — Si astenne dall’unirvi un inchino.

Amir lo superò puntando verso l’uscita. — Per ‘sta notte ti sarà concesso di riposare, — disse e si voltò. — Ma da domani riceverai un turno di guardia e lo rispetterai assiduamente; sole, luna, pioggia o neve che sia. — Gli lanciò la sciarpa di suo padre come se fosse un disco e Yusuf l’afferrò al volo senza staccare gli occhi dai suoi.

— È inutilizzabile come bavero, — aggiunse Amir, — ma puoi farci una gonnellina, o se preferisci mettertelo in testa. Non m’interessa. —  

Yusuf lo guardò lasciare la camerata e una volta solo andò verso il suo letto, dove buttò il bagaglio e il fodero con la spada che aveva vinto ad Ishak. Quindi vi si lasciò cadere anche lui, con un gran sospiro e l’indolenza di un grosso sacco di farina. Sentiva l’elsa della scimitarra persiana perforargli un fianco, ma per un po’ resistette al dolore e si limitò a fissare le capriate lignee del soffitto avvolto dall’oscurità. La camerata era illuminata solo da qualche candela, e la più vicina era ben tre letti dopo il suo. Yusuf non vedeva perciò più in là di due spanne dal suo naso. Il suo bel naso.

La modestia era una virtù non diversa da tutte le altre e a lui mancava, ma gente come Amir forse neppure conosceva il significato della parola.

Il giro illustrativo per le sale del Covo non era durato molto. Amir aveva ostentato senza riserve tutta l’insofferenza alla sua presenza che, guarda caso, Yusuf ricambiava con gli interessi. Quando lui e Zuhre erano usciti dalla biblioteca, dopo il muto congedo di Ishak, la donna gli aveva fatto presente di non poter protrarre oltre la sua assenza dal campo e con questa scusa aveva affidato il compito di scarrozzarlo per il Covo al primo Assassino.

Uno a caso, davvero! Yusuf scoppiò in una risata nervosa.

Lo avevano trovato nella sala delle armi, ampia e ben illuminata, ad esaminare con accortezza il taglio della sua sciabola.

E poi, logicamente, le presentazioni ufficiali.

— Amir, lui è Yusuf, un nuovo… — 

— Ci siamo già conosciuti, — aveva detto il siriano senza staccare gli occhi dalla lama.

— Abbaia ma non morde: tranquillo, sei in buone mani, — gli aveva mormorato Zuhre prima di defilarsi, e finché anche l’ultima eco dei suoi passi sulla passerella non si era dissolta, nessuno aveva fiatato.

Poi Amir aveva rinfoderato la sciabola con uno scatto secco e si era alzato dai cuscini.

— Seguimi. — 

Aiuto.

Con un po’ di sforzo Yusuf tornò seduto e si tolse la spada del Greco da sotto la coscia. Parve ricordarsi solo allora del bavero di suo padre, che aveva tenuto stretto tra le dita fino a quel momento. Incrociò le gambe e cominciò un lavoro da certosino, stirando le pieghe, soffiando via la polvere e scrostando la sporcizia varia.

Farci una gonnellina, Yusuf scosse la testa, ridendo.

Spiegando la stoffa per lungo da un ginocchio all’altro si accorse che c’era uno squarcio circa a due terzi della fascia. Aggrottò le sopracciglia e il primo pensiero fu di non poter più compiacere il suo superiore con un qualche spettacolino danzante. Il secondo fu rivolto a Yalìm, che immaginò nell’atto di strappare coi denti e poi annodare ben stretto il suo affezionato fazzoletto alla coscia di Saad, improvvisandovi una disperata quanto inutile fasciatura…

Con uno sbadiglio Yusuf tornò disteso a fissare le capriate. Il bavero ripiegato sul petto.

Era troppo sfilacciato per essere ricucito e assolutamente fuori questione che vi si applicasse una toppa, nel rischio di rovinare quell’allegra bicromica. Lo si poteva chiudere in un cassetto e lasciare al tempo e agli insetti il compito di farlo sparire, oppure…

Un gruppo di Assassini entrò in un sottofondo scampanellante di armi e cinghie. Yusuf sollevò appena la testa per sbirciarli, ma nessuno di loro sembrava averlo notato mentre si dirigevano ai propri letti.

— Oggi è davvero strano, — commentò il primo slacciandosi il cinturone e buttandolo sulla branda. — Avreste dovuto vedere la sua faccia quand’è rientrato al Covo dopo di noi. Era pallido come… come un morto. — 

— Ma Amir è un po’ morto, — ridacchiò un secondo, — perché di umano ha ben poco. —  

— Bhé, a parer mio è stato molto umano congedarci tutti e prendersi i nostri turni di guardia, non credete? — chiese un terzo.

— Infatti c’è qualcosa che mi puzza, — borbottò il primo.

— Sì, Serdar, i tuoi stivali! — 

Le risate riempirono la stanza.

— Sei un idiota, Kasim! — sbottò Serdar lanciandogli il cuscino, che arrivò a colpirlo dritto in faccia; quello se lo strinse forte al petto ed esultò: — Ahahah! ‘Sta notte dormirò come un Pasha! — e quindi si sdraiò, evidentemente senza l’intenzione di restituirlo.

Prima che potesse volare qualche dente rotto, uno degli Apprendisti disse:

— A proposito di morti… Vedat è tornato dalla tomba o cosa? — 

Ci fu un improvviso silenzio, poi tutti assieme si voltarono nella sua direzione e il cuore di Yusuf ebbe un singhiozzo. Vide quello che si chiamava Serdar prendere la candela dal mobile accanto al suo letto, venendo verso di lui, e quando Yusuf sedette sul bordo della branda ancora avvolto dall’oscurità, in fondo alla camerata qualcuno che lo aveva scambiato per lo spettro di un loro compagno soffocò un grido di spavento.

— Spero di non aver interrotto nulla, — disse il figlio di Yalìm con un sorriso, mentre il calore della candela gli scaldava un po’ il viso.

Dopo averlo guardato meglio Serdar ricambiò. — Semmai prenditene il merito, e piuttosto perdonaci tu se abbiamo interrotto il tuo sonno. Benvenuto nella Confraternita. — 

Yusuf si alzò per stringergli il braccio fino al gomito.

Ecco: questa è accoglienza! Pensò allargando il sorriso.

— Non ha il sonno un po’ troppo pesante per fare l’Assassino? — commentò Kasim con una risata, comodamente sdraiato tra il cuscino di Serdar e il proprio.

— Alla prossima parola altro che piume! Ti lancio addosso tanto di quel metallo che ti ci tappo la bocca. —  

— Non stavo dormendo, — confessò Yusuf avvicinandosi agli altri.

Serdar lo superò con la candela per andare a rimetterla al suo posto. — Allora sei un po’ timido, — constatò allegramente sedendosi sul bordo del proprio letto.

Yusuf finse di pensarci su. — No, neanche quello. —  

— Perché ti sei unito all’Ordine? — chiese d’un tratto uno degli Apprendisti. — Ti ha trovato Ishak, vero? —  

Fu spiazzato da quella domanda, che racchiudeva una mezza verità difficile da inghiottire, ma non lo diede a vedere e, con molta sicurezza, mentì: — Veramente vi ho seguiti. Oggi. Nel Distretto Imperiale. —  

Kasim si sollevò di colpo a mezzo busto e Yusuf poté vederlo per quello che era: niente più di un ragazzino. — Eri tu!? —  

Yusuf annuì. — Volevo unirmi a voi già da un po’, ma il Discepolo con la sciabola stava riuscendo a farmi cambiare idea. — 

Tra i letti si diffuse un’altra fragorosa risata.

— Sì, Amir ha questo potere, — disse Serdar, l’unico che invece di spalancare la bocca si era limitato a stirare le labbra. Negli occhi lo stesso sguardo di Ishak, la stessa muta compassione di chi sa. — Come ti chiami? — gli domandò; nell’improvviso silenzio che si era creato la sua voce rappresentava in realtà la curiosità di tutti i presenti. Senza contare Amir, sul quale tra gli Apprendisti si era diffuso un parere comune, sembrava il più alto in grado.

Yusuf rispose precisando di chi era figlio e la reazione dell’altro fu immediata, nonché davvero insolita: adombrandosi, Serdar diede l’ordine di spegnere tutte le candele e ficcarsi sotto le coperte senza un’altra parola.

— Ci è stato concesso del riposo, — disse. — Tanto vale non sprecarlo. —  

Yusuf tornò seduto sul suo letto e per un po’ rimase immobile a lasciarsi inghiottire dall’oscurità. Prese il quadrato di stoffa che aveva fatto del bavero di Yalìm e se lo rigirò tra le mani, accarezzandolo coi pollici. Quando i suoi occhi si furono abituati, riuscì a distinguere una ad una le sagome sdraiate nelle brande dei suoi nuovi compagni.

Aveva sentito spesso Yalìm chiamarli fratelli, ma lui non riusciva ancora a vedere così avanti. Piuttosto guardò indietro, ripesando a Bursa, agli allenamenti con le spade di legno nel cortile del retrobottega di Teoman, e si chiese se suo padre sarebbe stato fiero di lui nel sapere che aveva scelto di unirsi alla sua causa.

Se era stata una scelta, quella.

"Tu invece non sei né carne né pesce, e vivi giorno per giorno senza costruirti un futuro."

E se avesse agito per ripicca?

All'improvviso il dubbio gli inondò la mente, costringendolo a stendersi con la speranza di diluirlo nel resto del corpo. All'inizio sembrò funzionare, chiuse anche gli occhi e per un istante fu quasi certo di aver ceduto al sonno, ma poi il ricordo dell'incontro con Dönek tornò a rosicchiargli l'anima.

"Dopo la scomparsa di mio padre in missione, ho rifiutato di unirmi al suo maledetto Ordine e ho deciso di vivere la mia vita."

Era stato così forte nelle sue convinzioni, e allora perché adesso, perché anche adesso vacillava?

Yusuf si girò dall'altra parte dando le spalle alla camerata e appiccicò il naso alla parete.

"La sola cosa che non deve condurre nessuna delle tue azioni o fare alcuna delle tue scelte è l’ignoranza. O ciò che ne deriva: la paura. L’odio. La vendetta."

Le voci del suo passato gli si alternavano spasmodicamente nella testa, finché non si accavallarono del tutto l'una sull'altra e Yusuf non riuscì più a distinguere la propria da quella di suo padre o del suo amico d'infanzia.

"Nulla è reale. Tutto è lecito."

Forse la risposta, la cura per i suoi tormenti era in quelle parole che ricordava appena sussurrate da suo padre. Forse anche Yalìm, come avrebbe fatto Yusuf adesso se ne avesse saputo il significato, vi si appellava in momenti d'incertezza.

"Indifferentemente dall'essere un Assassino… o un fabbro."

Nel bel mezzo di quei pensieri lo fulminò l'immagine di Amir che lavorava alla fucina, e cominciò a ridere senza ritegno finché qualcuno non venne a scuoterlo.

— Ti senti bene? — gli chiese l'Assassino.

Yusuf si mise seduto. — Devo fare una cosa, — disse aprendo il bavero di suo padre e sfilandosi la fascia azzurra dalla fronte. — Puoi portarmi ago e filo? —

Quello inclinò la testa da un lato e i suoi occhi si fecero piccoli come semi.

— È urgente, ti prego! — lo supplicò Yusuf.

L'Assassino si allontanò nell'oscurità della stanza e s'inginocchiò ai piedi del letto di Serdar, dove trascinò fuori sulle assi del pavimento, senza fare rumore, un bauletto. Quindi tornò indietro, porgendogli ciò che aveva chiesto.

— Ci avrei scommesso che eri un tipo… particolare. Sei solito fare cucito nel bel mezzo della notte? —

Yusuf si guardò attorno.

Effettivamente…

 — Puoi lasciami la candela? — domandò.

L'Assassino acconsentì con una scrollata di spalle. — Ma non fare chiasso, dai, siamo stanchi. —

— Non mi metterò a ballare sul soffitto, promesso. —

"O se preferisci mettertelo in testa. Non m'interessa."

Così aveva detto Amir.

Dovette soffocare un'altra risata prima di bucarsi un dito.

 

 

Il cortile degli allenamenti era lungo circa cinquanta passi e largo una trentina. Un ciliegio cresceva poco discosto dal centro e il perimetro era circondato da una tettoia dai cui spioventi le lampade a olio, appese ai quattro angoli e sulla metà dei lati lunghi, fornivano la sola illuminazione, ondeggiando nella brezza.

Il cortile era deserto a quell’ora di notte, eccetto che per la presenza di Yusuf, che vi si era recato tentando di sfuggire all’insonnia e all’inusuale comodità del suo nuovo letto.

Se ne stava seduto sulla panca sotto la tettoia, dal lato opposto alla porta d’accesso, le ginocchia strette al petto e la sciarpa di suo padre, unita alla sua fascia azzurra da un attento lavoro di cucito, avvolta attorno alla mano destra. Nella tasca dei pantaloni, i dadi truccati veterani della sua infanzia, rappresentavano l’altra direzione della sua vita.

Era stata soltanto sua la decisione di far convergere bruscamente quelle due linee che per anni avevano viaggiato l’una accanto all’altra, osservandosi guardinghe, ma ancora una parte di lui stentava ad adattarsi.

La porta d’ingresso si aprì con un cigolio e la figura inconfondibile del Maestro Ishak attraversò lo spazio di terra battuta, provocando nel figlio di Yalìm il rammarico di aver scelto la posizione che gli permetteva di tenere d’occhio l’accesso, sacrificando quella che gli avrebbe fornito una rapida via di fuga.

— Mi piace questo posto di notte. — disse Ishak appoggiandosi con le spalle al pilastro che sosteneva la tettoia, i pollici infilati dietro al cinturone.

— E’ tranquillo quanto è concitato durante il giorno. —

Yusuf rimase in silenzio.

— Questo cortile ha molte storie da raccontare. — continuò il Maestro. — Oltre al sudore, la fatica e l’impegno di Fratelli e Sorelle di ogni rango ed età, ha visto dirimersi controversie, amicizie cementarsi, conflitti palesarsi, ragazze disputarsi un uomo, incontri segreti al chiaro di luna. Non mi stupirei se vi fosse stato anche concepito qualche bambino…— ridacchiò, mentre Yusuf faceva indugiare lo sguardo nelle poche zone d’ombra lasciate dalle lampade.

— Ora potrà raccontare un’altra tua vittoria. — disse sarcastico.

— Preferisco vederla come un premio alla mia pazienza. —

— In un modo o nell’altro hai ottenuto ciò che volevi. —

Evet. È così. Anche se non ho fatto molto in realtà. —

Ishak sorrise fissando il ragazzo, che sostenne il suo sguardo con l’espressione di chi ha perso, ma è ben lontano dal sentirsi sconfitto. Il silenzio si protrasse finché Yusuf si decise a spezzarlo: aveva negli occhi un lampo di sfida.

— I dadi erano truccati. — disse con un sogghigno.

— Lo so. — rispose il Maestro, godendo per un attimo dello stupore che si era dipinto sul volto del giovane.

— Latif me li ha sfilati dalla tasca e te li ha dati prima che potessi accorgermene. —

— Un amico leale. —

Yusuf era sempre più incredulo: quell’uomo sembrava non reagire mai come si sarebbe aspettato.

— Se lo sapevi, perché non te li sei fatti cambiare? —

— Sfidare la sorte non richiede alcuna abilità. — disse Ishak con calma. — Avrei potuto perdere comunque, ma ho perso grazie all’astuzia e alla prontezza del tuo amico. Dopo che tu ti eri umiliato davanti a me, lui ha saputo cogliere l’occasione e correre il rischio di favorirti. Non capita spesso di avere al proprio fianco qualcuno disposto a tanto. Anche tu avresti potuto fare qualcosa quando ti sei accorto di cosa stava succedendo, ma non l’hai fatto, per due motivi. —

— Uno è che sono un ladro senza onore. L’altro? —

La risata del Maestro rimbombò per tutto il cortile, lasciando Yusuf ancora una volta spiazzato.

— Il primo motivo non è che sei un ladro senza onore, ragazzo, anzi, non intervenendo hai voluto preservare il tuo amico da un’accusa infamante. Il secondo è che eri pronto a sfruttare l’occasione di mantenere la tua indipendenza. Entrambe ragioni piuttosto… onorevoli. —

Yusuf era rimasto senza parole.  Di quella partita ricordava solo il vociare della taverna, le scommesse, la tensione e il sapore del raki; non si era mai soffermato a riflettere sul significato di quella sfida, troppo preso dal sollievo di essersela in qualche modo cavata. Si accorse di aver infilato la sinistra nella tasca e di stringere i dadi nel pugno.

Ishak si sedette accanto a lui e gli posò una mano sulla spalla.

— Perché sei qui, Yusuf? —

Il ragazzo distolse lo sguardo, era come se avesse di colpo perduto tutta la sua usuale parlantina e non avere, per una volta, la risposta pronta lo faceva sentire a disagio.

— Non lo so, Maestro…— esitò, cercando di dare una forma ai suoi pensieri. — Sono sempre stato figlio unico, forse ora ho voglia di avere dei fratelli e delle sorelle. —

La mano sulla sua spalla si strinse in una morsa dolorosa e Yusuf resistette all’istinto di sottrarsi alla presa, rendendosi conto di non aver sbagliato la risposta, ma solo il tono con cui l’aveva pronunciata.

— Forse… non so più dove sto andando. —

Le parole aspre di Dönek gli risuonavano nella mente.

— E sono stanco dei combattere da solo. —

La stretta di Ishak si allentò quel tanto che bastava per far cessare il dolore, ma rimase comunque ben salda.

— E contro cosa staresti combattendo? —

Le labbra del giovane si stirarono in una smorfia che voleva assomigliare a un sorriso.

— Eh… non saprei proprio dirlo. —

Non riusciva a pensare a quei suoi anni come del tutto inconcludenti. Aveva lottato, all’inizio solo per trovare un po’ di cibo ogni giorno, poi per riuscire a vivere dignitosamente; non da molto tempo poteva dire di essersi garantito un certo benessere e di aver spostato la lotta dalla mera sopravvivenza al mantenimento della propria libertà da qualsiasi influenza, fosse questa esterna, o proveniente dal suo stesso sangue. Aveva avuto fame per anni e quando era riuscito a mangiare ogni giorno si era accorto di desiderare dell’altro: un paio di stivali nuovi, un mantello più pesante, armi più affilate, attrezzi da scasso migliori, più informazioni, libri, le carezze di una ragazza, e ora una nuova direzione.

Yusuf fece scivolare tra le dita la vecchia sciarpa sgualcita di suo padre: era una delle poche cose che gli erano rimaste di lui, insieme a quattro pugnali da lancio perfettamente bilanciati e la capacità di usarli al meglio.

— Ho sempre rispettato le tue scelte. — stava dicendo il Maestro. — Come ho rispettato quelle di tuo padre. —

— Mio padre è tornato da te alla fine, ma non da me. —

— Mi biasimi per questo? O biasimi lui? —

— Per un po’ ho fatto tutte e due le cose. —

— Lo capisco. E ora? —

— Ora no. — tese la sciarpa tra le mani, come per provarne la resistenza e riportò gli occhi negli occhi di Ishak, con il medesimo intento.

— Non voglio buttare via quello che mio padre e mia madre hanno costruito. —

— Te stesso? —

Evet. —

Ishak annuì in silenzio. Vedeva sul viso di quel ragazzo la testardaggine di Yalìm, stemperata però da una minore rigidità. Per un attimo, il Maestro riuscì a gettare uno sguardo nel futuro, ai problemi che il carattere del suo nuovo Adepto gli avrebbe creato e alle soddisfazioni che gli avrebbe portato: un lavoro duro e una splendida sfida.

— Non stai rinunciando alla tua libertà, Yusuf. Scoprirai presto che l’Ordine ha le sue regole, ma anche i suoi paradossi. —

Si alzò dalla panca  e si avviò verso l’uscita facendogli cenno di seguirlo. Yusuf obbedì, quasi sorpreso di sé stesso, e tenne dietro ai suoi lunghi passi , con la confusione che si attardava nella sua mente e una misteriosa serenità nel cuore.

Quando scomparvero dietro la porta, il cortile annotò un’altra storia.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14: Principi d'Azione ***


— Trovarsi a vent’anni in mezzo ai Novizi la maggior parte dei quali non superava i tredici fu una strana esperienza per Yusuf. —

— Posso immaginarlo. — disse Ezio sorridendo appena.

— Il Maestro sapeva di avere a che fare con una specie di cavallo selvaggio che avrebbe dovuto domare in fretta, ma si rendeva anche conto che era essenziale trovare la strategia giusta. La mattina dopo il suo arrivo al Covo lo inserì in una esercitazione di base: posizioni di guardia con varie armi, semplici parate e contrattacchi, lancio di pugnali da corta distanza, tanto per valutare il suo livello. Yusuf credette di morire dalla noia, ma poi, quello stesso pomeriggio, le cose cambiarono radicalmente. Ishak aveva deciso di passare alla mano pesante. —

 

 

Istanbul,

Jumâda Al- Awwal 892

(maggio 1487)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 








e parole di Yalìm gli risuonavano nella mente.

La presa salda, ma morbida. Il braccio forte, ma senza tensione.

Stringeva l’elsa della spada con troppa decisione e le vibrazioni dei colpi gli arrivavano fino alla spalla.

Su un attacco d’impeto, schiva con un’uscita parziale o totale, il peso dell’avversario gioca a tuo favore. Colpisci quando il suo attacco raggiunge il punto che ha scelto.

Era in ritardo. La punta della sciabola gli aveva mancato il fianco di un soffio, portando via qualche filo alla casacca e Amir era già fuori portata.

Se la misura si stringe cedi, non disperdere energia nella parata, o il contrattacco sarà lento.

Bloccò un fendente dall’alto cercando di contrastarne la forza e fu un errore: dovette indietreggiare di un passo, sovrastato da quell’assalto. Ormai non c’era più tempo per contrattaccare e solo la pietà di Amir, che allentò la pressione su di lui, gli permise di cavarsi d’impaccio.

Colpire d’incontro è spesso casuale, e rischioso. Richiede grande sicurezza, coraggio e determinazione. Riconoscerai chi predilige questo atteggiamento dalla sua posizione statica e solo in parte tesa, pronta a scattare al momento giusto e cioè quando il colpo dell’avversario si è realizzato per poco più della metà.

Tentò un affondo quasi disperato, ma Amir uscì appena dalla sua traiettoria in modo elegante, bloccando la lama a un pollice dal suo collo. Non c’era proprio niente di casuale in quello che il suo avversario faceva e di certo sapeva prendersi i suoi rischi con grande freddezza.

Anticipare l’avversario richiede grande spirito d’osservazione. Dovrai prevedere con estrema precisione quello che sta per accadere. Potrai anticipare con efficacia solo se il colpo dell’avversario si realizzerà al massimo per un quarto.

Negli ultimi minuti non era riuscito a chiudere un colpo. Amir sembrava leggergli nel pensiero, senza mai concedergli nulla che permettesse anche solo di intuire quale sarebbe stata la sua azione successiva. Desiderò con tutte le sue forze essere ancora sulla banchina al porto. Qui non avrebbe trovato altro che umiliazione.

Non mostrare subito i tuoi colpi migliori, tienili per quando sarai stanco.

Dire che era stanco era davvero troppo poco, lo era così tanto che non riusciva neanche a ricordare di aver mai avuto dei colpi migliori. Non c’era niente, assolutamente niente, che avrebbe potuto tirar fuori in quel momento per salvarsi dalla totale disfatta. Era senza fiato, senza più forza nel braccio e sentiva bruciare la pelle dove Amir lo aveva volutamente accarezzato con la lama. Stranamente non provava rabbia, e comunque, neanche quella sarebbe stata in grado di fargli cambiare la situazione.

Potrai avere un vero vantaggio su chiunque quando con poche occhiate saprai valutare che tipo di avversario hai davanti. Il tuo scopo non è imporre il tuo atteggiamento, ma adattarti al suo per scoprirne le debolezze.

Aveva capito quasi subito che tipo di avversario fosse Amir: uno da evitare, uno che non poteva permettersi di affrontare, uno contro il quale la miglior difesa era la fuga. Ai suoi occhi pareva non avere debolezze, era calcolatore, preciso e sicuro di sé. L’unico modo che Yusuf conosceva per adattarsi a lui era riconoscere tutte le proprie manchevolezze e mettersi a lavorare sodo per colmarle.

Con un sorriso e un sospiro, alzò la mano sinistra in segno di resa. Amir accettò con un cenno del capo e non disse nulla, semplicemente fece un passo indietro rinfoderando la sciabola.

Yusuf si voltò verso Ishak, pronto a subire il suo giudizio e anche a vedersi accompagnare senza tante cerimonie alla porta del Covo. Il viso del Maestro era quasi imperscrutabile, ma nei suoi occhi c’era la stessa espressione che aveva scorto in quelli di Teoman, quando esaminava un pezzo di ferro immaginando l’oggetto che avrebbe potuto trarne. Cosa stava vedendo in lui? Una spada, una pentola o un semplice fermaporta?

— Fatti medicare quei graffi. — disse Ishak. — E immagino che dovremo trovarti un’altra casacca. —

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Capitolo 16
*** Capitolo 15: Riparazioni ***


Istanbul,

Rajab 892

(Luglio 1487)

 

 

 

 

 

 

 

 






oveva essere già difettosa o non si sarebbe spezzata per così poco. —

Queste le parole di conforto di Serdar mentre, su ordine di Amir, lo accompagnava dal fabbro a far fondere quel che restava della sua lama uncinata. Dopodiché, ma non prima di qualche settimana, gliene sarebbe stata data una nuova.

— Meno male, credevo di essere ingrassato, — disse Yusuf, sforzandosi di sorridere mentre slacciava le cinghie che assicuravano il meccanismo all’avambraccio. Un po’ gli dispiaceva separarsene già, dopo appena due mesi di convivenza forzata ma davvero piacevole. Aveva scoperto a poco a poco l’utilità di quell’arnese dall’aspetto insolito, domandandosi più volte quanto potesse essere stato scomodo fare l’Assassino ai tempi di suo padre. La lama uncinata era un’invenzione relativamente giovane, ma decisamente propizia! Durante la corsa acrobatica permetteva di raggiungere sporgenze e appigli fino ad allora disumanamente distanti. Ma non solo: da un paio d'anni la Confraternita aveva teso fra i tetti dei provvidenziali cavi che permettevano, con l'uso dell'uncino a forma di testa d'aquila, di spostarsi molto più rapidamente da un quartiere all'altro.

Serdar calciò una pietra con una sommessa risata. — Dopo la tua buffonata nel cortile delle lavandaie come minimo le cuoche ci terranno a stecchetto per tre mesi. —

Yusuf sospirò. 

Quella giornata era cominciata nel peggiore dei modi.

Dopo una serie di richiami Serdar lo aveva svegliato con uno schiaffo e Yusuf, per lo spavento, si era voltato di colpo cadendo fuori dal letto.

La camerata intera aveva riso per un quarto d’ora.

La vocina acuta di Kasim che gli faceva domande assurde lo aveva tormentato mentre si lavava la faccia e Yusuf aveva dovuto combatterlo a ciabattate, inseguendolo per tutto il bagno pur di riavere il telo che lo copriva dai fianchi in giù.

I suoi compagni si erano fatti altre risate.

Rientrando nella camerata profumato come una rosa, Serdar gli aveva lanciato addosso un pezzo indefinito della sua uniforme, rimproverandolo come avrebbe fatto sua madre per averla lasciata, appallottolata e sporca di fango, sul pavimento della camerata. L’esercitazione all’aperto del piovoso pomeriggio precedente lo aveva distrutto e troppo stanco per fare lo sforzo di imitare i suoi compagni che se n’erano occupati quella sera stessa, Yusuf aveva finito per dimenticarsene.

— Quindi adesso te la lavi da solo, e nel cortile delle lavandaie sotto le cucine, — aveva detto Serdar col tono di una minaccia. — E mentre aspetti che si asciuga, raditi quella barba! Ti si riconosce anche col cappuccio. —

— Ma non era Amir quello stronzo? — aveva borbottato Yusuf avviandosi.

        Il cortile delle lavandaie lo aveva accolto deserto, e seduto sul bordo della fontana aveva strofinato via, con la premura di una mammina, tutte le macchie di fango e gli acciacchi. Finito di lavarla, aveva steso l’uniforme sulle pietre ad asciugare, e nel silenzio, rotto solo dall’acqua corrente della fontana, si era diffuso un parlottio concitato. Con la coda dell’occhio aveva notato le cuoche affacciate sul cortile, dove Yusuf si era avventurato spudoratamente con nient’altro addosso che l’asciugamano attorno alla vita. Aveva ammiccato con un sorriso esagerato alle donne, facendole diventare viola per l’imbarazzo quando si era slacciato il telo dai fianchi e aveva cominciato a lavarsi lì, sotto le cucine, con totale e maliziosa indifferenza.

Le cuoche erano scomparse assordate dalle loro stesse grida.

Tutto soddisfatto stava riallacciandosi l’asciugamano alla vita scrollandosi i capelli come un cane bagnato, quando si era accorto di un paio di occhietti scuri ancora affacciati a quella finestra.

Ayla, la più giovane delle cuoche, non aveva abbandonato il davanzale o distolto lo sguardo un momento dal suo fisico perfetto. E anzi, compiaciuta, gli aveva sorriso e si era aggiustata una ciocca dei liscissimi capelli neri dietro l’orecchio, ostentando una porzione del collo affusolato e dei seni abbondanti. I due avevano fatto in tempo a scambiarsi solo uno sguardo languido, prima che una grassa cuoca si affacciasse alla finestra e gli desse del povero diavolo, sbattendo le imposte e sottraendogli la ragazza.

Pensando che non era un addio e rientrando con l’uniforme asciutta sulle spalle, Yusuf si era quasi illuso che la sua giornata stesse migliorando.

Ma Amir doveva ancora metterci il suo.

Il siriano era entrato nelle camerate sbattendo la porta. — Una cuoca è venuta a lamentarsi: ha detto di aver visto uno dei nostri importunare sua figlia, ne sai qualcosa? — gli aveva chiesto mentre Yusuf si rivestiva.

— Ma era un elefante! Ha fatto così in fretta? — aveva ridacchiato allacciandosi gli spallacci.

— Non puoi fare gli occhi dolci con le cuoche, ha delle conseguenze! — poco in vena di scherzi, come al solito.

— Ha cominciato lei! —

— Perché eri nel cortile delle lavandaie? —

— Mi ci ha mandato Serdar, prenditela con lui! —

Amir aveva soffocato a stento l’ennesima replica. — Non puoi andartene in giro mezzo nudo, — aveva aggiunto abbassando la voce, col tono di chi preferisce non immaginarsi la scena. — Anche questo avrà delle conseguenze. — Poi aveva puntato la porta.

— E il libero arbitrio!? — gli aveva urlato dietro Yusuf. — È passato di moda, fammi capire!? —

Serdar era venuto a cercarlo e lo aveva trascinato affettuosamente per un orecchio nel cortile degli allenamenti, dove Yusuf si era finalmente riunito ai suoi compagni di rango per l’esercitazione con la lama uncinata. Complessivamente l’addestramento aveva riempito tutta la giornata: prima avevano studiato qualche mossa specifica nel cortile, tra cui l’aggancio e fuga e l’aggancio e lancio, sotto la supervisione del merlo ombroso che controllava la loro cottura dall’ombra della tettoia. Poi, finalmente liberi, si erano divertiti, peggio dei ragazzini, a bighellonare tra i tetti del quartiere. Dondolarsi come scimmie ai vasi pendenti e alle sporgenze era stata la parte più divertente, finché non si era fatto il tramonto e Amir non li aveva richiamati all’ordine con la sua caratteristica delicatezza.

Attraversavano il piazzale attorno alla Torre, tornando verso il Covo in fila come formichine e con i mattoni sulle spalle per la stanchezza che si era fatta sentire all’improvviso, quando a Yusuf era venuta la sorprendente nonché folle idea di scalare, contro ogni regola, il grande mastio genovese. Si era staccato dal gruppo e aveva salito a due a due i gradini che precedono l’ingresso della Torre; fatti i tre passi, si era aggrappato con entrambe le mani al cornicione della porta. Quindi con un balzo e richiamando la lama uncinata aveva cominciato la scalata…

Amir si era accorto troppo tardi di essere arrivato di fronte all’entrata del Covo da solo ed era tornato indietro coi pugni serrati masticando rimproveri.

Ma il fato aveva già provveduto.

Sul piazzale aveva sorpreso gli apprendisti in cerchio attorno a Yusuf, che si stava alzando da terra in quel momento, massaggiandosi il fondoschiena e borbottando qualche colorata imprecazione. Amir si era piazzato di fronte a lui con la peggiore delle sue occhiate truci e Yusuf aveva rabbrividito.

Glielo dico? Si era chiesto il figlio di Yalìm con la testa incassata tra le spalle.

— Yusuf, ho trovato l’altro pezzo della tua lama! —

Quanto odiava quel ragazzino.

Amir aveva preso il frammento dell’uncinata dalle mani di Kasim e se l’era rigirato tra le proprie senza dire una parola. Studiandolo di sottecchi Yusuf aveva pensato che il siriano sembrava uscito da uno dei racconti di Simbad della sua infanzia: gli occhi luminosi come gemme e le narici larghe e fumanti come quelle di un dragone che si prepara a sputare tanto di quel fuoco…

Yusuf kokmak.

Yusuf si riscosse dal fissare le braci e scrutò dentro alla bottega del fabbro sgranando tanto d’occhi. — Sizin kıçını, — sbottò aggrottando le sopracciglia. — Ci conosciamo? —

Un attimo dopo l’uomo che era all’interno abbandonò il mantice per appoggiarsi al bancone con un gomito e Yusuf poté guardarlo meglio. Era poco più grande di lui, il viso abbronzato e imperlato di sudore, le bracca forti, gli occhietti vispi che lo studiavano con altrettanta curiosità.

Yusuf fu scosso da un brivido.

— Nazim? —

— Yusuf. —

— Nazim! —

— Yusuf! —

L’uomo uscì dalla bottega e i due si abbracciarono con trasporto sotto l’occhiata indagatrice di Serdar che, uno per l’allenamento, l’altro per i bollori della fucina, non seppe dire chi puzzava di più.

Quando fu libero dalla morsa consistente del fabbro, Yusuf spiegò a Serdar che lui e Nazim si conoscevano da quand’erano ragazzi, svelandogli di aver vissuto un certo periodo a Galata con la madre prima dell’incidente, di cui il giovane fabbro disse di aver saputo. All’epoca la fucina che aveva ereditato da suo padre era già di appoggio alla Confraternita.

— Brutta storia, brutta davvero, — borbottò tornando dentro la bottega. — Ma dimmi, cosa posso fare per te? —

Yusuf gli allungò le due metà del paziente e Nazim cercò di farle coincidere, ma quel genere di metallo, affermò, si doveva lavorare tutto daccapo. Niente di nuovo.  — Ti manda Amir, vero? Non è la prima volta che fa un gran chiasso per via degli apprendisti che rovinano l'equipaggiamento durante le esercitazioni. Odia chi si mette in mostra. —

— Davvero? — fece Yusuf, fingendosi sorpreso.

Nazim rise. — Sì, hai proprio l'aria di quello che le ha già prese! —

— E sarà meglio rientrare, se non vuoi prenderne altre, — lo canzonò Serdar.

— Bentornato. — Nazim gli allungò un braccio nerboruto sopra al bancone. Yusuf glielo strinse fino al gomito, ringraziò e promise che sarebbe passato volentieri a trovarlo non appena il nuovo prolungamento del suo braccio fosse stato pronto.

 

— Yusuf, un momento, — lo chiamò Serdar mentre attraversavano la passerella del Covo, prendendolo da parte. — Mi dispiace per quello che è successo. —

Yusuf si era fatto perplesso. — Parli dell’episodio con le cuoche? —

Serdar ridacchiò sommessamente. — Anche: Ayla è un diavolo di donna e sua madre la peggiore delle suocere, avrei dovuto avvertirti del pericolo. — Dopo una breve pausa s’incupì. — Ma mi riferivo all’attacco dei bizantini. Non sarebbe dovuto succedere. —

— Cosa sai? —

Serdar si avviò sulla passerella. — I nostri padri seguivano quel gruppo da mesi, ma una falsa pista li condusse fuori città insieme a Saad e Raif. Un errore imperdonabile. Al loro rientro scoprirono che erano rimasti nascosti nel Distretto degli Armeni spacciandosi per monaci locali e se intervennero in tempo per salvarti non fu un caso. Grazie a te ancora una volta gli Assassini dovevano un favore alla Gilda dei Ladri. —

Distretto degli Armeni…

Yusuf lo fermò in mezzo al salone centrale. — Hai mai sentito parlare di un uomo chiamato Ghaalip? — chiese cupo.

Serdar esitò un attimo. — Sì, mi suona familiare. Ma da come l'hai chiesto sembrerebbe che… —

— …mi aspetti di sapere che è morto? Sì, è così. — Disse Yusuf con due braci negli occhi.

Serdar fece un passo indietro, come se avesse avuto paura di scottarsi. — Allora rallegrati: quel nome è sui nostri registri da un bel pezzo. Mi sorprende che tu non lo sappia… —

— Sono due mesi che mi spacco la schiena qui dentro, ma quando si tratta di segreti possono passare anche dieci anni, vero? —

Serdar ridacchiò sommessamente. — No, non si tratta affatto di un segreto. Dopotutto fu tuo padre a dare quel nome ad Ishak senza troppe spiegazioni, in una lettera scritta durante il vostro soggiorno a Bursa. Me lo ricordo come fosse ieri: mio padre era a capo delle indagini, ma non ci fu bisogno di grandi svolazzamenti per capire che Ghaalib era uno dei tanti parassiti della città. La Confraternita gli chiuse baracca e mi pare che proprio Saad avesse la piuma. —

Ci fu un lungo silenzio, rotto solo dall'eco di alcune voci lontane tra le stanze del Covo; poi Serdar gli strinse una spalla e Yusuf lo guardò dritto negli occhi marroni.

— La Confraternita ha vegliato per intere notti anche dopo la vostra partenza e tua madre… Bhé, so che è stata seppellita nel cimitero del Covo. Perciò quando hai voglia… —

Yusuf lo ringraziò di cuore, ricambiando la stretta. Poi lasciò il salone, trottò fino alle camerate senza voltarsi e si buttò sul letto con tutto l’equipaggiamento, ritrovandosi a fissare le capriate del sottotetto come la sua prima notte. Non sarebbe andato a cena con gli altri apprendisti per ovvi motivi, e avrebbe usato quel tempo, prima che Amir venisse a chiamarlo per il suo turno di guardia, per indugiare un altro po’ sul cuscino…

Doveva pensare.

Aveva voglia di fare tutt'altro, ma doveva pensare.

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16: Pace e Libertà ***


Istanbul,

Ramadan 892

(Settembre 1487)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 














una sera piovosa Serdar, accompagnato da un novizio che prese il suo posto sotto la tettoia, venne a salvarlo da un malanno dicendo che il Maestro lo aveva convocato, ma strizzandosi il becco del cappuccio mentre attraversavano la passerella Yusuf non riusciva ad essergliene grato. Da quando era entrato nell’Ordine nulla aveva turbato la routine degli allenamenti e dei turni di guardia, e perciò la convocazione in sé lo turbava senza ritegno.

Infilandosi un cambio pulito nelle camerate incontrò gli occhi di Serdar, che non aveva mai visto così serio, e la cosa non lo rassicurò di certo.

 

— Templari? — chiese Yusuf perplesso.

Il Mentore inarcò entrambe le folte sopracciglia. — Davvero tuo padre non te ne ha mai parlato? —

Erano soli nello studiolo del Maestro, una stanza quasi segreta ricavata molto tempo addietro da una frazione della biblioteca del Covo. Ishak lo aveva voluto come luogo privato non appena aveva dovuto spartirsi tra Divano e Ordine, ma anche quando non c’erano guai seri che richiedessero la sua attenzione era capace di passarvi chiuso dentro giornate intere o molte ore della notte. Con gli anni al servizio dell’Impero ormai solo un ricordo, tutti i suoi trofei di guerra facevano bella mostra in un disordinato trionfo di culture, poiché niente, in realtà, sembrava al suo posto. Il caos regnava sovrano. Tra i libri sparsi ovunque, spuntavano gingilli collezionati nelle diverse imprese militari, tappeti e arazzi che, arrotolati in un angolo, non erano mai stati aperti per mancanza di superfici da coprire. Allo stesso modo giacevano mappe per tesori sconosciuti, vasi e tele dipinte con bellissime scene naturali. Il tutto emanava un intenso profumo di antico.

Yusuf scosse la testa. — So soltanto che prima dell’arrivo dell’Impero gli Assassini venivano perseguitati. —

Ma non l’ho saputo da mio padre, aggiunse tra sé e sé.

Una pila di carte formava una muraglia tra lui e il Maestro, seduto dall’altro lato della scrivania.

— Tutt’ora i servi di Bisanzio reclamano la loro terra e il nostro sangue… — sussurrò cupo Ishak. — Ma di questo parleremo a breve, — disse alzandosi. — Cosa sai del Credo? —

— I Tre Principi, Mentore. —

— Recitali. —

— Trattieni la lama dalla carne degli innocenti. Agisci nell’ombra. Non compromettere la Confraternita. —

Ishak annuì compiaciuto. — Molto bene. Conosci il loro significato? — gli chiese girandogli attorno.

Yusuf si passò una mano tra i capelli e li afferrò come stava afferrando i ricordi. — Mio padre mi disse qualcosa, una volta… — fissò un punto indistinto tra i ricami della poltrona di Ishak, ora vuota, viaggiando con la mente ad una primavera di molti anni prima. Rivide il cortile dove Yalìm lo allenava con le spade di legno e sentì il sudore scorrergli sulla pelle come allora, quando rimaneva a guardare le braci della fucina di Teoman ingrossarsi del fiato di un dragone per mantice…

Ishak venne dietro di lui a stringergli le spalle e quel contatto lo richiamò del tutto alla realtà, scaraventandolo nello studiolo.

— Ma ero troppo piccolo, — concluse Yusuf, sconsolato, accarezzandosi una guancia e pungendosi con la sua stessa barba, che ora più che mai gli ricordava quanto tempo lo separasse da quei giorni.

— E lui lo sapeva, — aggiunse incurvando le spalle e Ishak gliele liberò.

— Ha voluto proteggerti, Yusuf, ma senza lasciarti disarmato, — disse il Mentore strizzandogli un occhio.

— Già… — ripensò ai pugnali da lancio che Yalìm gli aveva donato alla vigilia della sua partenza da Bursa. — Disarmato? No. Confuso? Neanche. Ma solo, quello sì, e come un cane. — C’era rabbia nelle sue parole e non ebbe riserbo di mostrarla tutta, come scudo, a quello che Ishak stava per dirgli.

Il Maestro annuì come se avesse preso una decisione.

— Ti sei mai chiesto perché ci chiamiamo Assassini? — lo interrogò.

— Per… tradizione? —

      Ishak ridacchiò.

— Sì, in parte è così, — disse. — Fino a quattrocento anni fa il ramo del nostro Ordine risiedeva in un solo luogo, una fortezza tra le montagne conosciuta come Alamut, “Il nido delle aquile.” Un secolo più tardi la stessa Confraternita occupò una seconda fortezza, nei pressi di una cittadella di nome Masyaf. L’invasione mongola segnò la fine di quel potere centrale e della Setta degli Assassini così come l’aveva conosciuta il Mondo fino ad allora. Alamut cadde per prima e fu rasa al suolo, mentre la gente di Masyaf e gli Assassini rimasti a presiederla la abbandonarono per tempo, e al loro arrivo le truppe di Hülegü Khan non trovarono che polvere. La nostra Confraternita qui, ad Istanbul, fu fondata da due esploratori italiani scampati all’orda mongola, ed è relativamente giovane, come tutte le altre. Sono cambiati i luoghi e i tempi, Yusuf, ma non il nostro scopo e i mezzi per perseguirlo, e su questo ti do ragione. —

Özgürlük. —

Ishak era tornato dall’altra parte della sua scrivania e si fermò a guardarlo. — Continua. —

Libertà, — ripeté Yusuf, lo sguardo perso nel disegno del tappeto sotto i suoi piedi. — A mio padre piaceva molto questa parola. —

Sotto i baffoni del Mentore si stirò un sorriso. — Scommetto che gliene piaceva anche un’altra: Barış. —

Yusuf sollevò la testa, sorridendo a sua volta come in risposta ad un complimento, e annuì, ma a poco a poco un soffio freddo congelò l’allegria sul suo viso, che alla fine si ruppe in pezzi come una maschera di vetro.

— Ma può esserci pace dove è stato versato del sangue? — mormorò appena.

      Anche il suo sorriso sparì e Ishak inspirò profondamente. — Perseguiamo la pace, ma pratichiamo l’omicidio. Incoraggiamo il libero arbitrio, ma abbiamo regole di ferro. Condanniamo la fede cieca, ma siamo i primi a praticarla. I paradossi intrinseci nel Credo sono stati spesso le armi più potenti nelle mani dei nostri nemici. Perché non tutti sono disposti ad ascoltare. A capire. A dubitare. — Si sedette e fissandolo dritto negli occhi concluse: — Vivere nelle contraddizioni ci permette di comprendere che il nostro Credo non comanda di essere liberi, ma di essere saggi. —

La libertà è la scelta più difficile. Così aveva detto suo padre. Perché significa far fronte ad altre scelte, poté concludere da sé. E poi…

— Nulla è reale. Tutto è lecito. Hai mai sentito questa frase? —

Yusuf parve illuminarsi.

Ishak sogghignò. — Lo prendo come un sì. —

— Cosa significa? —

— Tutto. —

Yusuf inclinò la testa da un lato e Ishak non poté che sorridere ancora.

— È l’essenza della nostra causa, nonché una valida argomentazione di sostegno ai nostri paradossi. Nulla è reale. Gli Assassini sono alla continua ricerca della verità. Questa ricerca li autorizza alla pratica dell’omicidio, perché ogni uomo che passa al filo delle loro lame assottiglia la cortina dell’illusione. Tutto è lecito. Il libero arbitrio è la più alta potenza umana, l’unica che insieme alla capacità di resistere ai nostri istinti ci allontana dalle bestie. Gli Assassini lo difendono, sempre e ad ogni costo. — Si concesse una pausa, dando alle proprie parole il tempo di mettere radici al posto giusto nella testa del suo giovane Adepto.

Quando Yusuf fece un respiro profondo il Maestro seppe di poter continuare e, più grave, disse:

— Ma anche la nostra, come tutte le nobili cause, ha i suoi oppositori. —

 

      Chi desiderava quel genere di potere che solo l’ignoranza e la menzogna potevano dare?

Chi promuoveva la paura e l’ipocrisia come unici mezzi per governare?

Chi erano i nemici della libertà e della verità?

      Chi erano i nemici dell’Ordine?

I millenari rivali degli Assassini predicavano un Mondo perfetto in cui la legge dei pochi avrebbe governato sui più, e avevano attraversato la storia col nome di Templari.

Nei secoli la loro presenza si era annidata come un’edera rampicante ai vertici delle società, con l’unico intento di sabotarne i traguardi e, laddove possibile, assumerne il controllo.

— Stessi scopi, ma metodi differenti. Anche il loro fine è la pace, ma può essere chiamata così se è riducendo il popolo all'ignoranza e in schiavitù che intenderebbero mantenerla? —

Yusuf scosse la testa.

Ishak batté i pugni sul tavolo facendo cadere una pila di carte. — Parla, ragazzo! Come Dio ti ha fatto dono della parola, a mille dei tuoi fratelli ha dato la capacità di pensare con la propria testa e di combattere per i propri principi! — disse a gran voce. — Perché questo significa essere Assassini. Significa essere “uomini di principio”. —

— No! — disse allora Yusuf, quasi gridando.

Ishak lo fissò a lungo, il viso rosso per l’emozione, incatenando i loro occhi e rimanendo immobile come una statua sulla sua poltrona. Dopo un silenzio eterno si lisciò i baffoni per ben due volte senza smettere di guardarlo, come se Yusuf fosse un buon tappeto (o un ottimo fermaporta) e ne stesse valutando il prezzo.

— Puoi andare. — 

Yusuf aggrottò le sopracciglia. — Dove? —

Ishak sollevò un po’ il mento e il ragazzo si voltò.

Amir sostava sulla porta, la maniglia in una mano che lentamente cadde lungo il fianco. Teneva il cappuccio abbassato sulle spalle, ostentando il viso aguzzo, occhi contornati da ciglia fittissime e guance scavate, puntellate da un sottile filo di barba.

Poteva essere una serata tranquilla, un pensiero che passò nella mentre di entrambi.

 

— Non vuoi sapere cosa mi ha detto? — chiese Yusuf mentre si avviavano alla mensa.

Amir tacque.

— E dai, neanche un po' di curiosità? —

Silenzio.

— Sembri un po’ sciupato, — commentò.

In realtà Yusuf sapeva benissimo che da dieci giorni a quella parte Amir era costretto ad assidue preghiere pure nel bel mezzo della notte, quando lasciava le camerate portandosi sottobraccio un piccolo tappeto e non tornava prima di averci speso inginocchiato non meno di un’ora. La sua religione lo teneva inoltre ferreamente lontano dai pasti per tutto l’arco della giornata, concedendogli qualche misera pietanza insipida all’alba e al tramonto, senza distinzione. Infine, ma solo per mero e irremovibile gusto personale, non rivolgeva la parola a niente e a nessuno all’infuori del suo Dio, che non aveva mai stabilito una regola stupida come quella, ma che Yusuf sarebbe riuscito a fargli infrangere.

— L’altro giorno ho rivisto Ayla. —

Amir si fermò sotto l’arco che dalla biblioteca buttava nel salone centrale, dove alcuni apprendisti seduti attorno a un tavolo si voltarono a guardarli. Tra questi c’era Serdar, che indurendo la mascella e allargando le narici fulminò Yusuf con un’occhiataccia, come a suggerirgli di non stuzzicare il cane, soprattutto quando ha il collare stretto.

— Abbiamo parlato un po’, — continuò il turco rimanendo dietro di lui e Amir ancora non si mosse.

— Il lavoro nelle cucine non fa per lei. —

Gli apprendisti trattenevano il fiato.

— Vorrebbe unirsi alla Confraternita, ma il mio rango non mi permette di darle un’udienza con il Maestro e mi chiedevo se tu, che hai proprio un gran tatto in queste cose, non… —

— Stai mentendo. —

La sua voce lo aveva interrotto come lo scoppio di una lastra di ghiaccio che si stacca dalla banchina alla fine dell’inverno, per poi naufragare senza un suono nelle acque placide del Corno d’Oro, e Amir uscì dal salone proprio come quella lastra.

Yusuf lasciò cadere le spalle. — Oh! Ma dai! — esclamò, del tutto deluso dal suo misero e insoddisfacente successo.

— Cosa ti aspettavi? — gli chiese Serdar alzandosi e venendogli incontro. — Che ti avrebbe picchiato? No, Amir non è il tipo, ma preparati al peggio. Chi tira la corda con le regole della Confraternita e dorme sotto il suo stesso tetto, eheh, finisce per dormire poco. — Gli diede una fraterna pacca sulla spalla. — Ora mettiamo qualcosa sotto ai denti. —

Seduti davanti ad una zuppa di mercimek (lenticchie) densa come del cacιk (yogurt) vecchio di un mese e che entrambi fecero affogare nell’olio d’oliva, Serdar gli chiese se quello che aveva raccontato ad Amir fosse vero.

Yusuf negò platealmente. Non si vedeva con Ayla da mesi.

— Bhé, le voci corrono, fratello, e nel salone non c’erano solo le mie e le orecchie di Amir. — Serdar caricò il cucchiaio di zuppa fino a farne straripare e se la buttò in gola.

— Penso che domani il Maestro vorrà vederti di nuovo, — disse in fine con la bocca piena, sforzandosi di trattenere una risata per non rischiare di strozzarsi.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo delle autrici

 

Volevamo approfittare di questo spazietto per scusarci della prolungata assenza; siamo state entrambe letteralmente sommerse dagli impegni a tal punto da ricavare a mala pena il tempo di scriverci qualche e-mail, figuriamoci discutere eventuali pubblicazioni. Ciononostante la storia va avanti e siamo ormai quasi a metà, perciò pensiamo sia giusto cogliere l'occasione per ringraziare chi segue le nostre fatiche (di Ercole) con tanto entusiasmo e anche chi lo fa in silenzio.
     A presto!

     Alex e Finger

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Capitolo 18
*** Capitolo 17: Voci da lontano ***


Istanbul,

Rabî Al—Awwal 893

(Febbraio 1488)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






 





categoricamente, d’inverno, per qualche sana pietà del loro capo squadra Yusuf fu lieto di scoprire che i turni di guardia si accorciavano per tutti. Quell’anno la neve era caduta a barili e per le strade si camminava a mala pena, ma sui tetti era anche peggio, non potendo guardarti da una tegola spostata come da un camino. In tutto questo l’uniforme non garantiva una sufficiente protezione dal freddo e anche tra i Maestri Assassini era diventato consueto l’uso di mantelli, che confondevano i ranghi.

Quella mattina una lastra di nuvole aveva stazionato sopra la città senza dare troppo fastidio e la temperatura, anche se un po’ bassa, era rimasta costante. I mille colori di Costantinopoli si erano attenuati, mitigati da quell’eterno grigiore, e le vie erano silenziose.

Yusuf, Kasim e Serdar stavano rientrando dal giro di pattuglia quando, attraversando il grande piazzale attorno alla Torre, il più giovane dei tre affondò per metà nella neve fresca, suscitando chiassose risate.

— Ah, dolce vendetta, — disse Yusuf.

— E dai ragazzi, aspettatemi! — li implorò facendosi strada a bracciate.

Un Assassino venne loro incontro dal Covo e disse a Serdar che il Maestro lo aveva convocato con urgenza. Yusuf, che quella mattina si sentiva propizio alla bontà, tornò indietro e aiutò il piccolo Kasim ad uscire dal mare di neve. Mentre sollevava il ragazzino di peso lanciò un’occhiata oltre l’ingresso del cimitero, proprio lì accanto, e fu sorpreso di vedere una persona pregarvi. 

Rimettendolo in piedi, suggerì a Kasim di camminare sulla neve battuta da Serdar. — Io ti raggiungo tra un attimo, — aggiunse e il ragazzino corse via senza neanche ringraziarlo, impaziente di scaldarsi le guance davanti al camino del Covo.

Yusuf varcò l’ingresso del cimitero con la curiosità di visitare la tomba di sua madre, che era stata seppellita lì, contrariamente ad una convenzione non scritta, in mezzo agli Assassini. Come Apprendista non gli era mai avanzato il tempo neanche di respirare, senza il permesso dei suoi superiori, quindi si era ritrovato impossibilitato a farle visita fino all’inizio di quell’anno. All’epoca la storia che Yalìm si fosse unito ad una donna esterna alla Confraternita poteva aver fatto scalpore come il suo incontro con Ayla la cuoca, e perciò le parole di Serdar dell’estate passata lo avevano colpito molto…

La figura inginocchiata gli dava le spalle ed era avvolta in un pesante mantello, ma sembrò non fare caso a lui neppure quando il crepitio della neve fresca sotto i suoi passi ruppe il silenzio del camposanto. Yusuf la superò e poco dopo fu sicuro di aver battuto l’intero cimitero, riempiendolo delle sue impronte ma senza essere riuscito ad identificare il tumulo di Imran. Quindi, per esclusione, si avvicinò all’unica lapide che non aveva ancora letto, ovvero quella su cui stava pregando la persona avvolta nel mantello, che si chinò in avanti posando la fronte tra le mani e a contatto con la gelida terra.

Se i caratteri non mentivano, e se non era un’allucinazione, la figura che pregava per l’anima di Saad doveva essere suo figlio, che commemorava così l’anniversario della sua morte.

Amir si sollevò; aveva gli occhi chiusi e le labbra gli tremavano di una preghiera sottile e invisibile come il filo di una ragnatela. Uno sbuffo di vento gli scacciò il cappuccio del mantello dalla testa e in quel momento la sua bocca si serrò. Quindi aprì gli occhi, lentamente, e fissò un punto indistinto dritto davanti a sé rimanendo immobile, dando l’impressione che si fosse congelato.

— È quella sotto l'ulivo. —

Yusuf sobbalzò.

Amir si voltò a guardarlo. — La tomba di Imran. È quella sotto l'ulivo, — spiegò, e gli indicò il luogo con un cenno del capo.

Yusuf si voltò, incerto se dargli le spalle fosse un rischio o meno, e raggiunse l'albero indicato sentendo su di sé gli occhi di Amir, due pietre nere incastrate nel mogano della sua pelle, in forte contrasto col biancore dell'inverno.

Lì, sotto le fronde dell'ulivo, nel punto più estremo del cimitero, quasi contro la stessa inferriata che divideva il Mondo dei vivi da quello dei moti, lì un sottile strato di ghiaccio era bastato a coprire l'iscrizione per intera, rendendo la lapide quasi invisibile, e lì Yusuf cadde in ginocchio nella neve fresca, cominciando a scrostare la pietra a mani nude. Quand'ebbe liberato il solo nome di sua madre si fermò, e con le dita tremanti e arrossate ne accarezzò l'intaglio, elegante e preciso, poggiandovi poi la fronte.

Merhaba, anne (ciao, mamma)

Amir si alzò senza rumore e fece per lasciare il cimitero, ma ad un tratto Yusuf parlò.

— Perché non c'è nessuno vicino a lei? — chiese, non riconoscendo la sua stessa voce, ora profonda, rauca.

Amir non rispose e spostò il peso all'indietro, sembrando non capire.

Eppure Yusuf l'aveva notato subito.

Non solo quella di Imran era l'ultima tomba, venendo dall'ingresso principale, ma anche la più isolata, uno raggio di quattro braccia la separava dal resto degli ospiti del cimitero, ma la sua domanda voleva una risposta ben precisa e sicuramente anche un'abile mente come quella di Amir questo non l'avrebbe mai capito…

Lui dov'è?...

Yusuf strinse i pugni sulle cosce, artigliandosi i pantaloni, e una lacrima, calda, anzi rovente, gli attraversò la cicatrice.

Dov'è mio padre?...

— Il suo corpo non è mai tornato indietro. —

Yusuf sgranò gli occhi, irrigidendosi.

Amir, alle sue spalle e nello stesso punto dove l'aveva lasciato, si spazzò via un po’ di neve dal mantello. — La missione era difficile, — continuò. — I rischi c’erano e tuo padre li conosceva. Non tornare a casa era uno di quelli. —

— Sembri saperla lunga, — commentò Yusuf amaro. Si alzò e si voltò nella sua direzione. — Dimmelo, allora: cosa c’era di tanto difficile? —

Amir indurì l’espressione, se era possibile, più del solito e Yusuf non poté far ameno di pensare che era proprio figlio di suo padre.

— Quattro omicidi in quattro posti diversi, contemporaneamente, — disse Amir alzando un poco la voce. — Il monito doveva essere chiaro, il colpo deciso, ma il Terzo Principio protetto. Ci piace pensare che tuo padre si sacrificò a questo scopo. —

Sacrificò? — eruppe Yusuf.

Amir non rispose. Forse avrebbe voluto, e magari col solito abuso di potere, ma facendo svolazzare il mantello si avviò all’uscita del cimitero, stroncando così la conversazione.

Yusuf lo inseguì di corsa pretendendo a gran voce qualche parola di più e una volta fuori accadde qualcosa che aveva davvero dell’incredibile.

Poco dopo Serdar e Kasim si affacciarono nel piazzale attorno alla Torre e il Gran Maestro comparve dietro di loro.

— Non avevo dubbi, — borbottò Ishak superando i giovani Apprendisti e buttandosi nella neve alta.

 

Si erano accapigliati come due ragazzine, rotolandosi nella neve del piazzale, e l’eco degli insulti che si erano ringhiati rimbombava ancora nello studiolo del Maestro, dove erano stati convocati e fatti sedere, per sicurezza, esageratamente distanti l’uno dall’altro. Era stato dato loro solo il tempo di cambiarsi d’abito, entrando nel Covo, poiché la neve intrappolata nei vestiti e nei punti più impensabili si era sciolta annerendoli e facendoli sembrare due gatti randagi, reduci di un acquazzone che li aveva sorpresi a bisticciare in un vicolo, con graffi e morsi ovunque.

— Zuhre vi sta preparando del caffè, — disse Ishak accomodandosi sulla poltrona. — Amir lo prende scuro. Nel tuo, invece, le ho detto di metterci dello zucchero; ho fatto bene? — gli chiese da dietro la scrivania, sommersa di carte.

Che intuito. Yusuf annuì e tirò su col naso, manifestando i primi sintomi da raffreddore.

Ishak si lasciò cadere sullo schienale, con un profondo sospiro e uno strano sorriso. Lui, la neve che si era preso quando aveva tentato di separarli, ce l’aveva ancora sui vestiti. All’improvviso scoppiò in una sommessa risata e i due ragazzi si scambiarono un’occhiata perplessa, la prima dopo la loro convocazione nello studiolo.

— Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, — disse Ishak rosso in viso. — Prima che vi accusiate a vicenda: chi ha cominciato? — chiese sforzandosi di tornare serio.

Amir chinò la testa fino a sfiorarsi il petto col mento. Il gesto fu eloquente.

Gli occhi del Maestro si fecero grandi come biglie. — Questa sì che è una sorpresa… —

— Mi ha aggredito lui, — sopraggiunse Yusuf sentendo le nocche del siriano riaffiorare sulla guancia. — Gli avevo chiesto semplicemente…! —

Il Greco lo interruppe con un’alzata di mano. — Ho appena parlato, Yusuf. —

Anche il turco abbassò la testa.

Ishak guardava il giovane siriano come si guarda un bastardo disubbidiente. — Posso immaginare cosa volessi sapere, — disse tamburellando le dita sui braccioli della poltrona, ma ad un tratto li artigliò con vigore. — La missione che uccise i vostri padri era degna del loro rango e tutte le eventualità erano state contemplate. Nessuno era stato escluso dal rischio e tutti avevano accettato il loro ruolo. Ma senza dubbio su Yalìm sarebbe gravato il peso più grande. — Dopo una breve pausa liberò i braccioli e si protese in avanti, facendosi spazio sul tavolo per appoggiarvisi coi gomiti. A quel punto si rivolse esclusivamente a Yusuf, che fissò dritto negli occhi. — All’epoca seguivamo un piccolo distaccamento filotemplare noto come Dört Kuyruklar, le Quattro Code. In realtà i membri erano cinque. —

— Non sanno contare? — si stupì Yusuf a bassa voce.

Ishak ignorò la battuta. — Il quinto uomo, la Testa, per via del ruolo che ricopriva era avvolto dal più oscuro mistero ed era impossibile arrivare a lui direttamente. In soli vent’anni era cambiato due volte e fu impossibile ottenere informazioni su di lui dalle Code, che invece erano rimaste sempre le stesse e a pari fedeltà garantivano il silenzio sul suo nome con la vita. La missione consisteva perciò in un quadruplice omicidio e tuo padre era a capo di una delle quattro squadre impiegate sul campo. Un gradino sotto di lui il padre di Amir, Saad, e poi due Assassini di quarto livello, Raif Hızlı e Yasar Değerli, il padre di Serdar. —

— I Titani della Confraternita, insomma, — commentò Yusuf ammirato.

Ishak annuì sornione. — Sì, erano i migliori. —

— E il bersaglio? —

— A loro toccò il più meschino dei quattro: Bharat Chittesh, un mercante indiano che da qualche anno a quella parte si era pericolosamente appropriato del monopolio sulla polvere da sparo. Le Code funzionano come le teste di un’idra. Avevamo già tentato in passato e sapevamo che tagliare le appendici non sarebbe bastato per sbarazzarcene una volta per tutte, ma così facendo la nuova Testa avrebbe dovuto ricominciare da zero, arruolandone altre quattro, e noi avremmo potuto restringere il campo in base alle sue scelte. Grazie al successo di tuo padre e delle altre squadre la Testa abboccò e mettemmo insieme una serie di informazioni. Adesso sappiamo che due delle sue nuove Code sono influenti capitani e mercenari stranieri: è ricco. La terza è un esponente della comunità cristiana dell’Albania, altissimo prelato: è cattolico. Sappiamo anche chi è l’ultima Coda, ma ci ha mandato un po’ fuori strada. Zuhre è a capo delle indagini da due anni, ma senza risultati appaganti, e abbiamo ragione di credere che la Testa sia cambiata ancora. —

— Perché sono così pericolosi? — chiese Yusuf.

— Non ti basta che sono Templari? — sbottò Amir all’improvviso.

Ishak batté il pugno sul tavolo e una pila di carte si rovesciò a terra. — Oggi sei fuori di te, Amir. Va’ a stenderti. —

Il siriano si alzò scostando rumorosamente la sedia e uscì dallo studiolo sbattendo la porta.

— Perdonalo. —

— Non ho molta voglia di farlo, — confessò Yusuf amaramente.

Ishak sospirò. — Posso capire. —

Zuhre entrò in quel momento portando due tazze su un vassoietto di legno, o altrimenti non avrebbe potuto aprirsi la porta. — Amir? — chiese richiudendola.

— Strano che tu non l’abbia visto, — si stupì Ishak. — È appena uscito con tanta di quell’aurea nera attorno… —

Zuhre si strinse nelle spalle e sedette sulla sedia lasciata vuota dal siriano. — Non si butta niente, — disse porgendo a Yusuf la sua tazza e poi prendendo un sorso da quella di Amir. Un attimo dopo il suo viso si contorse in una smorfia schifata. — Bleàh! Ma come fa a piacergli?! —

— Anche a me piace così, — pervenne il Maestro. — Almeno sembra caffè e non una camomilla per bambini. — 

— Cos’ha Amir che non va? — chiese la donna allungandogli la tazza e Ishak l’accolse con un sorriso.

Yusuf appoggiò i gomiti sulle ginocchia e tenne il bicchiere con entrambe le mani per attingervi il calore. — Oggi più del solito, intendi? —

Il Gran Maestro fece una risatina sommessa e si buttò in gola un lungo sorso di caffè.

— Poverino, ma cosa vi ha fatto? — sbottò la donna.

I due uomini si scambiarono un’occhiata complice.

— Non si parla male delle persone che non ci sono! — li rimproverò lei.

— E chi sta parlando? — borbottò Ishak nascondendo tutto il grosso naso nella tazza.

Zuhre gli lanciò una delle inutili scartoffie che ingombravano la scrivania, ma chissà se bastava il solo peso del suo rango per concederle simili libertà col Gran Maestro, che si fece un’altra risata.

L’ironia di quell’insolita dimostrazione d’affetto lo aveva decisamente sorpreso e Yusuf si permise un risolino. Accavallando le gambe Zuhre gli rivolse un luminoso sorriso, che per qualche assurdo motivo gli ricordò quelli di sua madre.

Ishak si schiarì la gola. — Mi sento un po’ scavalcato. —

Più tardi la donna prese congedo e quando furono soli, dopo un lungo silenzio, il Maestro posò la tazza sul tavolo e si alzò. Aggirò la scrivania e andò verso l’uscita dello studiolo. Nel passargli accanto gli posò una mano sulla spalla. — Aspetta qui, — disse e il ragazzo non si mosse.

Mentre attendeva il ritorno del Mentore Yusuf finì il caffè e si guardò attorno in cerca di un buco dove posare la tazza, ma era pressoché impossibile. Poco dopo sentì la porta chiudersi e si girò completamente sulla sedia, vedendo che Ishak era rientrato con un paio di grossi volumi polverosi.

— Non avrei mai creduto necessario consultarne di così vecchi! — esultò il Mentore tornando seduto sulla poltrona e lasciando cadere sul tavolo i libri, che fecero un gran tonfo e alzarono una nube di polvere.

— Durante la sua ultima notte Saad curò personalmente il rapporto della missione. —

Yusuf rivide nella propria mente l’uomo zoppicante che gli aveva parlato a Bursa; lo immaginò combattere l’agonia e portare a termine anche quel compito, ostentando la stessa forza e la stessa perseveranza con cui aveva respinto il dolore nella fucina di Teoman.

Ishak gli lesse tutto quello negli occhi mentre apriva il primo volume.

— So cosa stai pensando, — disse. — Saad era un guerriero, e la sua lotta contro la morte era costante. Quello di qualche anno fa è stato l’ultimo di una lunga serie di scontri, ma l’unica volta nella vita in cui abbia accettato la sconfitta. Tuo padre si lamentava spesso della sua ostinazione. —

— Questo era Saad l’Assassino, ma Saad il padre? —

Ishak si rallegrò di quella domanda, quasi sentirsela porgere fosse la conferma a qualcosa di molto più personale. Chiuse quel volume e ne aprì un secondo. — Tu come credi che fosse? — gli chiese di rimando scoccandogli un’occhiata da sopra le pagine.

Yusuf scosse la testa e guardò il fondo della propria tazza vuota, dove grumi di zucchero e residui di caffè si erano amalgamati in una pappetta densa. Pensava a Saad come al padre che avrebbe potuto essere Yalìm, se invece di portarlo a Bursa fosse rimasto ad Istanbul per crescerlo fin da subito nella Confraternita, e di conseguenza a quanto lui e Amir sarebbero stati simili.

— Severo. —

— Non dirlo come se bastasse non esserlo per incarnare il padre perfetto, — polemizzò il Mentore crucciato, scorrendo con un dito sulle righe.

Yusuf si fece una sommessa risata. — L'Ordine ha anche delle regole per il bravo genitore? —

— Non scritte, insieme a tante altre, ma ci sono, — mormorò Ishak distrattamente. All’improvviso s’illuminò, ma senza dire nulla ruotò il volume che aveva davanti e lo allungò a Yusuf, che lo prese dalle sue mani e se lo tirò in grembo. Era leggero, le pagine scricchiolanti e un poco ingiallite.

— Quando hai finito lascialo sul tavolo con gli altri e vattene: hai il mio permesso ufficiale di far sparire quelle occhiaie, — disse il Mentore alzandosi. Prese le tazze vuote sul vassoietto e di nuovo imboccò l’uscita dello studiolo, ma ‘sta volta richiudendosi la porta alle spalle.

 

A caratteri stretti e ordinati, Saad aveva riempito due pagine col resoconto di una missione durata appena un giorno. La penna si era posata senza incertezze sulla carta, registrando la data, il nome dell’Assassino che aveva curato il rapporto e un breve elenco delle caratteristiche della missione. Poi ad un ritmo spezzato, come se alla fine di ogni frase si fosse interrotto per riprendere fiato, Saad aveva stilato una dettagliata cronologia degli eventi con la nitidezza di chi li sta rivivendo davanti ai propri occhi, ma con l’urgenza di chi sta raccontando un incubo.

 

 

Dhul-hijja 886,

Cuma 26

 

Abū Amir Saad bin Farìd al-Suriyâī al-Quais,

Rapporto dell’uccisione della Quarta Coda Bharat Chittesh.

 

Data: 10 Dhul-hijja 886

Località: Ankara, Anatolia centrale

Caposquadra: Maestro Assassino Yalìm Nükteli;

Secondo: Maestro Assassino Saad al-Quais;

Alleati: Assassini di Quarto Livello Raif Hızlı e Yasar Değerli;

 

Distretto povero di Ankara, mattina.

Entriamo in città all’alba e nulla tradisce la nostra presenza fino all’incontro con Yalìm, che da Bursa ci ha preceduti e aspettati alla Devenin Hanin, la Locanda del Cammello. L’oste ci informa che l’indiano è ad Ankara da tre giorni e partirà in anticipo, forse prima della prossima settimana. Ridiscutiamo i dettagli della missione. Nessuno deve affilare le armi.

 

Moschea di Khan-Arslan, tarda mattinata.

Bharat si incontra qui con il nostro informatore e riscuote l’incasso del carico di polvere. Quindi si avvia ai suoi alloggi nell’antico Jam del governatore, scortato dalle guardie e due cani rossi domestici.

 

Kizilbey Jam, pomeriggio.

La sorveglianza è numerosa: a ondate di tre battono il cortile esterno e il terrazzo. Archibugieri all’ingresso, balestrieri sui tetti. Non c’è modo di varcare i cancelli e la servitù è ostile.

Attendiamo l'oscurità.

 

Notte.

Yasar silenzia i balestrieri. Yalìm entra dal birun sul retro. Raif ed io lo attendiamo nel corridoio orientale, dove abbiamo legato i due cani. Ma il nostro informatore ha parlato e l’indiano ci aspettava. La missione sembra compromessa e ripieghiamo verso il Distretto povero, dove otteniamo la fuga. Ho riportato una ferita, solo uno strappo, ma sono necessari punti e un bendaggio.

 

Rovine del Monumentum Ancyranum, vigilie.

Raif ha recuperato il nostro informatore. Lo interroghiamo e scopriamo che ci ha venduti a Bharat molto tempo prima del nostro arrivo in città. La missione era persa in partenza.

Cammino con difficoltà. Yalìm prende Yasar affidandomi la ritirata e il compito di farla sembrare tale. Fissiamo un luogo d’incontro, una frazione a nord, poche leghe fuori le mura.

 

Villaggio contadino di Oltan, alba.

Yasar torna da solo.

L’indiano è morto.

 

Difficoltà generale: elevata

Alleati caduti: 1

 

I caratteri delle ultime annotazioni erano tremolanti e appena accennati, in carenza d’inchiostro, ma Saad aveva forzato il pennino sulla carta fino all’ultima lettera dell’ultimo rigo, dove una piccola sbavatura aveva aggiunto all’unico alleato caduto una codina sottile e ondeggiante, che si assottigliava verso il bordo della pagina come il grido di una voce sempre più debole e lontana…

 

 

 

Quando Yusuf entrò nella camerata degli Apprendisti, trascinandosi fino al suo letto con le spalle curve, si fermò un attimo a guardare un punto ben preciso nell’oscurità.

Amir, inghiottito dalle coperte fino alle orecchie, gli dava le spalle, immobile come poteva esserlo solo...

 Se la prossima volta vuoi imbrogliarmi ricordarti che solo i morti non respirano.”

Ricordare quelle parole di suo padre con tanta naturalezza gli strappò un sorriso nel buio.

Si spogliò in silenzio e s’infilò sotto le coperte senza farle frusciare, confortato dall’idea di non essere l’unico, quella notte, a rimanere sveglio per il forte russare di Serdar.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

Una delle tematiche che ci siamo trovate ad affrontare fin da subito, analizzando la figura di Yusuf, era la questione del suo "cognome". Ebbene, effettuando le dovute ricerche siamo giunte alla consapevolezza che "Tazim", diversamente da come credevamo in seguito ad una traduzione superficiale ed errata, non sta per "cane da caccia", ma è un generico appellativo di magnificenza, relativo probabilmente alla sua carica di Gran Maestro dell'Ordine degli Assassini Ottomani al momento delle presentazioni ufficiali con Ezio, nonché, forse più probabilmente, ad un non-dato-sapere gesto eroico da qualche parte nella sua vita…

Tutta questa premessa per arrivare a parlarvi della questione dei cognomi nel mondo arabo, che personalmente troviamo entrambe molto affascinante.

Fino al 1935 nell'Impero Ottomano (oggi ridotto alla sola Turchia) il nome di una persona era composto da più parole, ciascuna delle quali serviva ad indicare una caratteristica di quella persona. Presentarsi col proprio nome completo (che spesso era davvero, davvero lungo!) equivaleva cioè al gesto, oggi, di porgere un documento, con elencati il luogo di nascita, le caratteristiche, eventuali parentele (*coff coff* raccomandazioni *coff coff*) etc…

 

Le componenti di un nome arabo sono:

 

·        Il kunya, cioè il nomignolo di rispetto legato al nome di un figlio (es. "padre di", "madre di");

·        L'ism, cioè il nome "di battesimo" del soggetto in questione (es. Marco, Luigi, Filomena - che fantasia! Sembrano usciti dai problemi delle elementari);

·        Il nasab, il patronimico (es. "figlio di", "figlia di");

·        Il nisba, che indica la provenienza geografica (es. "il siriano", "l'egiziano, etc…);

·        E in fine il laqab, forse il più inconsciamente conosciuto da tutti, ovvero il titolo onorifico o il soprannome (es. "lo storpio", "il magnifico", "il grande", etc…);

 

Passiamo agli esempi concreti, ora.

Il nome arabo completo con cui Saad si presenta nel rapporto è:

 

Abū Amir Saad bin Farìd al-Suriyâī al-Quais

 

Ovvero:

 

Padre di Amir Saad figlio di Farìd il siriano il fermo

 

(kunya) (ism) (nasab) (nisba) (laqab)

 

Ora, è congettura (per non annoiare il malcapitato) ridurre la propria presentazione all'ism e al laqab, ovvero quello che sì, possiamo considerare una sorta di accoppiata nome-cognome all'occidentale. Con questo metodo abbiamo presentato il resto dei personaggi.

 

Serdar "Hakem" - colui che sa le regole

Yasar "Değerli" - il fine

Raif "Hızlı" - lo svelto

Yalìm "Nükteli" - l'arguto

 

A voi il divertimento di riconoscere il come e il perché dell'accostamento di laqab col suo rispettivo proprietario.

A presto!

 

P.S.

La micho si è anche divertita a trascrivere il nome di Saad coi caratteri arabi. Che eleganza.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18: Omaggi ***


Istanbul,

Rajab 893

(Giugno 1488)

 

 

 

 

 

 

 

 

 












rano ombre con i cappucci calati sul volto.

Evitavano le lame di luce che la luna gettava nelle strade, scivolando da una zona oscura all’altra e i loro passi non producevano alcun rumore.

Quando scalarono il lato buio di un edificio privo di sorveglianza e raggiunsero il terrazzo, i loro respiri allenati avevano accelerato solo un poco. L’odore del sangue che avevano addosso si disperdeva nell’aria quasi immobile.

La tettoia, da cui i rami di un gelsomino in fiore debordavano in una massa intricata, forniva un ottimo nascondiglio, e lì si fermarono, tendendo i sensi per cogliere qualunque accenno di inseguimento. Il silenzio era irreale e nella percezione amplificata dell’allerta, il profumo dei fiori colse Yusuf di sorpresa, con una forza inaspettata. Dolce e del tutto pacifico nella sua indifferenza ai fatti di quella notte, il profumo ebbe su di lui un effetto calmante e il tempo ricominciò a scorrere alla consueta velocità. La tensione si allentava, consentendogli ora di sentire il leggero affaticamento dei muscoli e il sudore che gli scorreva lungo la schiena.

— Resta concentrato. — disse la voce di Amir. — Abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare.—

Yusuf si riscosse, sorpreso di non notare l’usuale asprezza nel suo tono, quanto dal fatto che fosse stato lui a interrompere il silenzio in cui l’intera missione si era svolta. Solo in quell’istante fu conscio della perfetta sincronia in cui avevano agito, quasi fossero le parti di un unico meccanismo, come se i loro pensieri e reazioni si fossero sfiorate, prevedendosi e anticipandosi in una specie di strana consapevolezza.

— Hai fatto un buon lavoro. — disse ancora Amir. Il chiarore della luna riflesso dall’edificio di fronte ne delineava la sagoma e nell’ombra del cappuccio Yusuf riusciva a distinguere solo lo scintillio dei suoi occhi, mentre si domandava se fosse vero che il merlo ombroso gli stesse facendo un complimento. Furono molte le frasi sarcastiche che gli vennero in mente, ma preferì tenerle per sé: qualcosa gli suggeriva che le sorprese non fossero ancora finite.

— Non hai avuto esitazioni e sapevi già cosa aspettarti. Non è stata la prima volta, vero? —

La schiettezza di quella domanda lo lasciò disarmato.

— No, infatti. — rispose. — E come quell’altra volta, adesso ho la nausea. —

Aveva pronunciato quelle parole esponendosi allo scherno di Amir, ma stranamente lui tacque, si sporse con cautela dalla balaustra e buttò lo sguardo in strada, dove nient’altro che una zuffa di gatti aveva attirato la sua attenzione.

— La nausea è normale. — disse poi. — Uccidere è  sempre una cosa orribile. —

Sentire quelle parole sulle labbra di Amir fece a Yusuf uno strano effetto.

— Mio padre me lo disse quando non avevo ancora tredici anni. —  sussurrò.

— La stessa età che avevo io quando mio padre lo disse a me. —

Di nuovo il silenzio li avvolse insieme al profumo del gelsomino. Una bolla di misteriosa tranquillità si era creata su quel terrazzo, come se tutto fosse sospeso, anche le loro animosità dell’anno appena trascorso.

— Vorrei avere il cuore di pietra. — disse Yusuf dopo un po’, mentre una massa di nubi si addensava davanti alla luna, sprofondando la terrazza nella quasi totale oscurità. — Forse così non avrei più la nausea e tutto sarebbe più facile. —

— Augurati che non accada mai. — Il tono di Amir era lugubre. — L’insensibilità può sembrare confortevole, ma la vita perde ogni sapore. E una vita così… finisce presto. —

Sembrava parlare per esperienza.

— Mi sono sforzato molto per indurire il mio cuore da quando mio padre è morto. — continuò.

— Ma non ci sono riuscito. —

— Io ho avuto l’impressione che fossi proprio sulla buona strada. Che cosa è successo? —

Amir si lasciò sfuggire una breve risata e Yusuf ne rimase sconcertato: era la prima volta che lo sentiva ridere per qualcosa che aveva detto, forse la prima volta che lo sentiva ridere in assoluto ed era un suono gradevole. Al punto che anche lui si ritrovò a sorridere nel buio.

— Sei stato tu. —

— Io? —

— Ho avuto un’avversione immediata per di te. Ti sei presentato sbandierando il nome di tuo padre come se potesse garantirti l’ingresso nella Confraternita, dopo che per anni l’avevi rifiutata, dopo che mio padre ti aveva offerto aiuto e tu gliel’avevi sbattuto in faccia, dopo che lo stesso Maestro ti aveva corteggiato. Pensavo di poter controllare le mie emozioni, ma controllare la rabbia verso di te mi era impossibile. — La sua voce era calma, venata di qualcosa che Yusuf faticava a riconoscere, come una specie di amaro divertimento.

— Conosci la favola cristiana del figliol prodigo? —

— Sì. —

— Io mi sentivo come il figlio obbediente. E non solo, pensavo anche che se mio padre non avesse perso tempo a venire a Bursa per portarti con sé… —

— Mi incolpi della sua morte?—

— L’ho fatto. —

Yusuf si irrigidì. Tu e quel merlo ombroso avete in comune più di quanto immagini. Questo aveva detto Ishak e non c’era nulla di più vero. Ognuno di loro aveva sofferto, aveva scaricato colpe dove non ce n’erano e reagito con insofferenza alla presenza dell’altro.

— Il Maestro aveva molta fiducia in te, — riprese Amir. — e questo mi faceva infuriare, allontanandomi sempre di più dal mio intento di costruirmi un bel cuore di pietra. Non mi ero reso conto che obbligandomi a starti a stretto contatto lui mi includeva in quella fiducia. Mi ha costretto ad accorgermi della tua determinazione, delle tue capacità e dei tuoi risultati. Sapeva bene che lottavo ogni giorno per non ammettere ciò che vedevo neanche con me stesso e anche che prima o poi avrei dovuto cedere. —

Il cielo si era completamente coperto e cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia.

— Ma Amir lo abbiamo lasciato indietro? — chiese Yusuf.

Il siriano si limitò a ridere di nuovo: aveva davvero una bella risata.

— Muoviamoci. — disse poi, ritornando al suo tono da insopportabile caposquadra.

— Dobbiamo raggiungere il Covo del Distretto Imperiale. —

Un attimo dopo erano in corsa sui tetti, e si lasciavano alle spalle il profumo del gelsomino.

 

Attraversarono il Corno d’Oro all’alba, sotto una pioggia scrosciante. La stanchezza per la notte insonne bussava alla porta. Avevano potuto riposare solo poche ore al Covo del Distretto Imperiale e i loro abiti, che avevano stentato ad asciugarsi durante quella breve sosta, ora erano di nuovo fradici.

Quando giunsero al Covo principale il Maestro Ishak li aspettava nello studiolo per ricevere il loro rapporto. Li ascoltò serio e compunto, osservandoli con quei suoi occhi acuti mentre li interrogava sui minimi particolari e alla fine li congedò, non senza lasciarsi sfuggire un sorriso sornione. I due Apprendisti si inchinarono con reverenza e uscirono, per poi scambiarsi un’occhiata appena la porta fu chiusa.

— Sembrava un gatto che ha appena leccato tutta la panna.— disse Yusuf.

— E ne aveva i baffi pieni. — aggiunse Amir.

Lasciarono la biblioteca, con Amir che si teneva un passo dietro a Yusuf. Dapprima questi non ci badò, ma quando incrociò alcuni confratelli e loro si fermarono chinando il capo, capì. Il siriano si era tenuto in disparte per permettergli di ricevere l’omaggio della Confraternita. Era tornato vivo dalla sua prima missione e questo lo sollevava dalla sua condizione di Novizio: chiunque incontrasse gliene rendeva merito, qualunque fosse il rango a cui apparteneva.

Rispose alla reverenza dei Novizi, alla partecipazione degli Apprendisti e alla muta approvazione degli Assassini con l’orgoglio che gli raddrizzava le spalle nonostante la stanchezza e una curiosa sensazione di disagio per il fatto di trovarsi al centro della scena.

La camerata li accolse nella sua tranquillità e Yusuf fece appena in tempo a liberarsi delle armi (che abbandonò sul pavimento, mentre Amir le ripose con ordine sugli scaffali) e degli abiti bagnati (che finirono nel mucchio insieme alle armi, mentre Amir stese i suoi sullo schienale di una sedia) prima di crollare sul letto arrotolandosi in una coperta.

Il siriano fissò lui e poi il suo disordine scrollando la testa. A certe cose non c’è rimedio, pensò aggrottando le sopracciglia, ma era troppo stanco per discutere.

Non era passata neanche un’ora, che la porta della camerata si spalancò rumorosamente. Amir si drizzò a sedere sul letto, rivolgendo il suo sguardo più truce al Novizio di al massimo quattordici anni che si era precipitato dentro tenendo tra le mani un pacco lungo e stretto.

— Cosa vuoi? — Il suo tono era così severo che il ragazzo indietreggiò di un passo.

— Vattene subito, eşek ağrı! (rompipalle!) — ringhiò Yusuf aprendo solo un occhio. — Non vedi che stiamo dormendo? È troppo difficile da capire? È possibile avere un po’ di rispetto per il riposo di chi… —

— Dai, smettila. Ormai ci ha svegliato. Tanto vale sentire cosa ha da dire. — lo interruppe Amir. — Prima di trovare qualche compito degradante da affidargli. —

— Sentiamo allora. — disse Yusuf sbadigliando.

Il Novizio deglutì un paio di volte prima di avvicinarsi e porgergli il pacco senza una parola, poi fece due passi indietro, rimanendo impalato e sforzandosi di risultare impassibile.

— Che cosa aspetti? Il compito degradante? — Yusuf scoppiò a ridere. — Levati dai piedi, köpek yavrusu! cucciolo (di cane) Il Maestro Amir, qui, stava scherzando. —

Quello non se lo fece ripetere due volte e sparì in men che non si dica, sbattendosi la porta alle spalle.

— Ah, il dolce sapore dell’abuso di potere… — sospirò il figlio di Yalìm afferrando un pugnale dal mucchio delle armi e tagliando lo spago che legava il pacco, mentre Amir, curioso, di sporgeva dal suo letto. Svolse i numerosi strati di carta, fino a raggiungere un sacchetto di seta preziosa e spessa di color rosso scuro che avvolgeva una forma inconfondibile. Con il cuore che gli galoppava nel petto e le dita ansiose, Yusuf slegò i lacci che lo chiudevano. Il kijil aveva un pomello lavorato, una guardia semplice e un fodero di cuoio senza fronzoli, la cui unica decorazione consisteva in due linee verticali impresse a fuoco che si univano in un ricciolo tagliato che era il marchio di Teoman. Con il respiro corto, Yusuf strinse l’impugnatura, che sembrava essere stata costruita su un calco della sua mano, ed estrasse la lama di un palmo, scoprendo le variegature dell’acciaio damasco. Si voltò verso Amir, e il suo sguardo ammirato lo invitò a proseguire. La lama si liberò del fodero con un suono musicale, mostrando una curvatura elegante e un controtaglio affilato. Era solida, del giusto peso e perfettamente bilanciata.

— Splendida. — sussurrò Amir.

— Teoman è un artista. — commentò Yusuf fissando i propri occhi riflessi nell’acciaio privo di difetti e ricordando le giornate a Bursa passate al mantice.

Quando il kijil tornò nel fodero parve portar via con sé un po’ di luce dalla stanza.

Yusuf lo appoggiò sul letto e tornò a sdraiarsi, nascondendo ad Amir la commozione evidente sul suo viso.

Non scriveva a Teoman da troppo tempo. Era il momento di provvedere. Dopo aver dormito almeno fino al giorno dopo.

 

 

— Fu una delle ultime volte che Amir si riposò nella camerata degli Apprendisti: la settimana dopo fu elevato al rango di Assassino e da quel momento ebbe una stanza privata. Questo, unito al fatto che la loro ostilità era come evaporata, cambiò completamente la vita di Yusuf. Era sconcertante per lui non sentirsi apostrofare di continuo con acidi commenti al suo disordine o al suo scarso rispetto delle regole o ai suoi atteggiamenti riprovevoli, al punto di sentirne quasi la mancanza. Sembrava che l’investitura avesse reso Amir più umile e meno freddo, come se la prova evidente del raggiungimento di un obiettivo lo avesse rimesso in pace col mondo. Fu con una certa riluttanza che Yusuf ammise in cuor suo che il nuovo Amir era persino piacevole e mostrava ogni giorno nuovi lati di sé che erano rimasti a lungo nascosti, come soffocati da un eccesso di rigore. Col tempo, il rispetto che aveva iniziato a provare per lui crebbe a dismisura fino a trasformarsi in vera amicizia. Il Maestro li guardava con orgoglio, soddisfatto di vedere come i figli erano riusciti a colmare il divario che c’era stato tra i loro padri. Per Yusuf, Amir fu un punto di riferimento durante tutto il suo apprendistato e anche dopo. —

— Quanto durò l’apprendistato? — domandò Ezio.

— Cinque anni. —

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19: Un segno indelebile ***


Istanbul,

Jumâda Ath- Thânî 897

(Aprile 1492)

 

 







mir lo intercettò sulla passerella, mentre si avviava verso un esasperante appostamento al distretto di Bayezid che gli avrebbe portato via l’intero pomeriggio.

— Tutti i tuoi incarichi di oggi sono annullati, Yusuf. — Il siriano gli posò una mano sulla spalla con uno strano scintillio negli occhi. — Il Maestro mi manda a dirti che ti aspetterà in cima alla Kulesi (torre , di Galata) subito dopo l’Isha’a (preghiera della notte) e di usare questo tempo per salutare il tuo Apprendistato. —

Il cuore di Yusuf fece una capriola e una vampa di calore gli risalì le guance, seguita subito dopo da un brivido. Amir stirò le labbra in un sorriso.

— So che i Cristiani vegliano in chiesa un’intera notte, in ginocchio, prima di essere nominati Cavalieri. — disse. — Per tua fortuna ai nostri Apprendisti non è richiesto nulla di simile, vengono avvisati perché abbiano modo di prepararsi e sono esentati dagli incarichi perché l’agitazione li renderebbe distratti. Puoi fare quello che vuoi. —

Yusuf non poté trattenere una smorfia di disappunto. — Avrei preferito che mi tirassi giù dal letto stanotte, sai che detesto… —

— Aspettare. Sì, lo so. Vedila come una prova ulteriore. — Amir gli strinse la spalla e si voltò per andarsene.

— Aspetta! — Yusuf avrebbe voluto rimangiarsi immediatamente quella richiesta che non era riuscito a trattenere e il tono quasi di supplica con cui gli era uscita di bocca, ma ormai il danno era fatto. — Hai tempo per un paio di scambi in cortile? —

Amir si bloccò e tornò a guardarlo. — Ce l’ho. — Il suo sguardo prometteva umiliazione.

 

Le nuvole correvano nel cielo e le loro ombre si inseguivano sulla terra battuta del cortile. Quel paio di scambi si stava protraendo da più di un’ora, sotto gli occhi curiosi di un gruppetto di Novizi. Serdar, che dirigeva il loro addestramento, aveva dovuto interromperlo anzitempo, perchè tutta l’attenzione dei ragazzi era calamitata da quei due che si affrontavano come se ne andasse della loro stessa vita. Con l’aria di chi sa sfruttare al meglio le situazioni, l’affabile Serdar li aveva fatti sedere sotto il ciliegio.

— Chi di voi sa dirmi le caratteristiche dei due avversari? — domandò all’improvviso e il silenzio fu imbarazzante.

— Nessuno? Neanche uno che vuole mettersi in mostra? Allora toccherà scegliere a me. — disse facendo circolare uno sguardo severo in mezzo ai suoi allievi, che tentarono in ogni modo di non attirare l’attenzione su di sé.

— Sarah? —

La ragazzina arrossì. — Amir è più... bravo. — balbettò.

— Davvero una spiegazione esauriente. — ironizzò Serdar. — E da cosa lo capisci? —

— Sembra che sappia da prima dove arrivano i colpi. —

— Qualche idea su come si batte un avversario simile? —

Nessuno rispose.

Yusuf indietreggiò, asciugandosi il sudore dalla faccia. La sua guardia si abbassò leggermente e quel segno di stanchezza non sfuggì ad Amir, che si infilò nel varco d’impeto, attendendosi un fiacco tentativo di parata che avrebbe potuto sfondare facilmente. Le lame cozzarono, ma invece di opporre resistenza, Yusuf ruotò il polso e si spostò di lato, facendo sfilare l’avversario e accarezzandogli il fianco con il filo del kijil, solo un pollice al di sopra del cinturone.

— Ingannandolo. — sentenziò Serdar, mentre Amir infilava due dita nel taglio sulla casacca con un sguardo stranamente soddisfatto.

— Questo trucco non potrai usarlo mai più. — disse il siriano.

— Non con te. — ribatté Yusuf rinfoderando il kijil e rivolgendo un inchino alla platea di Novizi, che si trattenne a stento dall’applaudire. Poi raggiunse l’amico e, sollevandogli il braccio, osservò tutto fiero il risultato del suo stratagemma.

— Neanche una goccia di sangue. — sogghignò.

— Fortuna. — replicò Amir.

— Fortuna tua che sono così preciso. Bisognerà rammendare solo la casacca. —

— Ho ancora il tempo di chiedere a te di farlo. —

— Sai che sono molto preciso anche in quello, ma rammendare la tua pelle sarebbe stato più soddisfacente. —

— Ah, no. Per nulla al mondo mi metterei in balia di quelle tue manacce. —

— Non si sa mai a quali sorprese la vita può sottoporci... —

I due si avviarono verso l’uscita continuando a stuzzicarsi.

— Un consiglio per il futuro. — disse Serdar rivolto ai suoi allievi. — Potrete apprendere molto da chi è più abile di voi, ma imparate a non sottovalutare mai chi lo è di meno. —

 

Il richiamo al Maghrib (preghiera del tramonto)trafisse le orecchie di Yusuf, avvisandolo che le ore più difficili stavano iniziando. Sembrava che il sole affondasse dietro i minareti con maggiore lentezza del solito, quasi volesse attardarsi a prendersi gioco di lui.

Era una tortura: inseguiva pensieri senza forma e costrutto da ore ed ore, ma quando giunse l’Isha’a e l’attesa finalmente si concluse, non ci fu più tempo per i dubbi e le domande e in quel momento, come sempre era accaduto durante tutta la sua vita, la calma scese nella sua mente.

Cinque anni prima aveva scelto di unirsi alla Confraternita, assediandone faticosamente le regole fino a farle sue e quella notte rendeva irrevocabile la direzione intrapresa. Yusuf si disse che quella cerimonia non era per lui, che aveva già ben chiaro nel cuore chi era, così come non lo era stata per nessuno prima di lui. Era per l’Ordine, che aveva bisogno di un segno indelebile della dedizione e dell’impegno richiesti dalla sua causa.

Mentre percorreva la passerella per uscire dal Covo sentì su di sé gli sguardi dei pochi presenti e li ignorò. Nessuno gli rivolse la parola.

Fuori, la brezza umida sapeva di salmastro e non c’era luna né una stella in cielo. Yusuf percorse le strade silenziose come un’ombra fra le ombre fino all’imponente base della Torre di Galata, pensando che non sarebbe stata quella notte a renderlo un Assassino, perchè lo era dalla prima volta che aveva preso una vita per conto della Confraternita.

Si è Assassini per sempre, riflettè, è la morte a farti entrare nell’Ordine e solo la morte può fartene uscire. Osservò quel pensiero con distacco, alla luce fredda della sua determinazione e in esso rivide gli occhi di suo padre la sera prima della partenza da Bursa. Sento che devo tornare a essere quello che sono, aveva detto. Si domandò se Yalìm, che lo aveva lasciato del tutto libero, sarebbe stato orgoglioso di lui e cosa avrebbe pensato sua madre, che aveva amato un uomo con quell’ombra negli occhi, uno che la lasciava sempre sola inseguendo il dovere...

Con questi pensieri nella mente Yusuf scalò la Kulesi, con il gusto di sentire i muscoli affaticarsi e il respiro farsi corto, spinto verso l’alto dalla forza del suo braccio, del quale la lama uncinata era ormai l’estensione e sapeva trovare, anche nell’oscurità, gli appigli certi di una via sicura. Il silenzio delle strade si allontanò, lasciando il posto alla voce del vento primaverile, che gli gonfiò gli abiti e gli strappò il cappuccio, facendo sbattere i capi della sciarpa di suo padre che portava legata sulla fronte. I ricordi andavano e venivano, scandendo il ritmo dell’ascesa, accompagnandolo nei movimenti che aveva eseguito un’infinità di volte, ogni giorno, per ore, fino all’estenuazione, costringendo il suo corpo a sollevare sé stesso e la sua mente a sollevarsi dalla fatica, dai lividi, dal gelo e la calura, affilando la sua volontà come si affila una lama.

La luce di un braciere lo accolse quando si issò sulla piattaforma che circondava il tetto conico della torre e accanto ad esso il Mentore, con il cappuccio calato sulle spalle, celava un sorriso sotto i folti baffi. Alla sua sinistra Zuhre e i quattro Maestri Assassini di più vecchia nomina, tutti a capo scoperto, lo fissavano in silenzio, solenni. Yusuf piegò un ginocchio a terra e chinò la testa, per il rispetto che era dovuto ai suoi massimi superiori e anche per sottrarsi a quegli sguardi che parevano scavargli dentro l’anima.

— Yusuf, figlio di Yalìm e Imran. — lo richiamò la voce di Zuhre.

Conscio di non poter più nascondersi dietro quel gesto di ossequio e che era giunto il momento di alzarsi, Yusuf lo fece, con il cuore che ancora correva per lo sforzo della scalata, fronteggiando i presenti con il viso impassibile.

Ishak fece un passo avanti e il vento si impadronì della sua sopravveste scura, facendone ondeggiare gli orli.

Laa shay'a waqi'un moutlaq bale kouloun moumkine. — disse con voce ferma e autorevole.

Con un brivido che gli percorreva l’intero corpo Yusuf si accorse di star trattenendo il respiro, quasi fosse stato appena sfiorato da qualcosa che credeva di conoscere, ma che solo in quel momento gli si rivelava in tutta la sua potenza.

— Queste parole attraversano i secoli e sono da sempre l’essenza del nostro Credo. — proseguì il Maestro e nel silenzio che seguì, il crepitio del braciere e il sibilo del vento parvero assordanti. Gli occhi di Ishak erano incatenati ai suoi, lo tenevano stretto in una morsa a cui non avrebbe potuto sfuggire neanche se avesse voluto, ma che allo stesso tempo gli trasmetteva forza e sostegno e un nuovo, misterioso senso di unità.

— Dove gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda... —

Yusuf prese un respiro profondo. — Nulla è reale. —

— Dove gli altri sono limitati dalla morale o dalla legge, ricorda... —

— Tutto è lecito. —

— Agiamo nell’ombra per servire la luce. Noi siamo Assassini. —

Ishak fece un altro passo verso di lui, gli si affiancò e, posandogli la destra sulla spalla, lo spinse verso il braciere. Zuhre afferrò la molla che giaceva tra le braci e Yusuf ne osservò le estremità arroventate con una freddezza che non avrebbe mai sospettato di possedere. Aveva visto la mano di Amir fasciata dopo l’investitura e quel marchio guarire e sbiadire nel tempo fino ad assomigliare a una qualsiasi cicatrice.

— Non potrai cancellare questo marchio come non potrai cancellare il tuo impegno. — disse il Maestro facendo scivolare la mano sotto il suo avambraccio sinistro e sollevandoglielo. Yusuf sentì la sua stretta forte quando la molla si chiuse sul suo anulare e il dolore saettò per un attimo lungo i suoi nervi fino alla spalla. Chiuse gli occhi facendosi sfuggire solo un sospiro e quando li riaprì Zuhre lo guardava con la stessa espressione che aveva sua madre quando gli medicava i graffi con spietata efficienza. Ishak si era spostato sul bordo della piattaforma dove una breve ed esile passerella di legno collegava la torre al cielo. Con un braccio, lo invitò a percorrerla e lui obbedì, mentre qualche goccia di pioggia cominciava a cadere, facendo sfrigolare le braci alle sue spalle.

La città, laggiù, a perdita d’occhio, non era altro che un mare di luci tremolanti come stelle e quando Yusuf si lanciò nel vuoto fu certo di stare volando. Il vento e la pioggia che vorticavano attorno a lui erano una mano fresca e carezzevole che pareva sostenerlo, mentre il corpo si disponeva naturalmente nella posizione del volo, e ogni centimetro della sua pelle pizzicava, come se vere piume stessero per spuntare da ogni poro.

Era chiamato Salto della Fede quel misterioso rito di passaggio, ma Yusuf non seppe spiegarsi, né mai avrebbe saputo farlo, se fu la fede a salvarlo dalla caduta o se piuttosto gli consentì di scegliere tra tornare a terra o allontanarsene per sempre. Visse quegli istanti in uno stato alterato di coscienza, come dentro un sogno che si sentiva in grado di prolungare all’infinito e dove ogni cosa era alla portata di un semplice atto di volontà.

Giù, pensò a malincuore, e un gran mucchio di fieno lo accolse prontamente.

Poi due mani decise lo afferrarono, tirandolo fuori.

— Benvenuto nell’Ordine. — disse Amir e un attimo dopo Yusuf si trovò stretto in un abbraccio un po’ rude, chiedendosi se fosse più strano quello o la sensazione di avere di nuovo la terra sotto i piedi.

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20: Colui che dona a piene mani ***


Istanbul,

Muharram 900

(primi di Ottobre 1494)

 

 

 

 

 

 

 

 

 












l dolore e la perdita di sangue gli annebbiavano la vista e Yusuf era ben conscio che non avrebbe resistito ancora a lungo. Arrancava, appoggiato ad Amir, senza riuscire a capire come quella notte, cominciata con la sola incombenza di recarsi ad un incontro con un informatore, si fosse trasformata in pochi attimi in un inferno in terra, con due reclute morte e un dannato quadrello di balestra piantato nella sua coscia.

— Devo fermarmi. — ansimò.

— Dobbiamo proseguire. — Il siriano aveva messo su quell’odiosa espressione da caposquadra inflessibile, la sua preferita quando erano Apprendisti.

— Dammi tregua, Amir. Quelli non ce l’hanno fatta ad ammazzarmi, vuoi farlo tu? —

Inciampò, tirandosi dietro l’amico ed entrambi scivolarono a terra, esausti, contro il muro di un edificio. Amir buttò un’occhiata distratta  alla propria spalla sinistra, che sanguinava da un taglio superficiale.

— Puoi valutare l’opzione di lasciarmi qui. — disse Yusuf stringendo i denti. — Pure tu non sei riuscito a cavartela senza neanche un graffio. —

— Sono sempre messo meglio di te. —

— Appunto, non ci arrivo fino al Covo più vicino in queste condizioni. Ci resto secco prima. —

— Stai esagerando. —

Un rumore di passi nel vicolo li mise in allarme.

 

Sami bin Anuar al-Yazdī al-Jawad si sentiva morire dal sonno mentre si dirigeva con passi stanchi verso casa. La borsa che conteneva i suoi rimedi e i ferri del mestiere pesava come se fosse piena di pietre e la lampada che portava per illuminarsi il cammino aveva quasi esaurito l’olio. Era stata una giornata interminabile: le febbri dell’inizio dell’autunno non davano tregua alla popolazione del distretto e quelli come lui, che erano disposti a prestare la loro opera anche senza ricevere niente in cambio erano strangolati dal lavoro.

Era quasi arrivato e stava già immaginando di buttarsi a letto con infinita soddisfazione quando, svoltando in un vicolo, udì delle voci sussurrare nella penombra e distinse le figure di due uomini seduti per terra a pochi passi da lui. Si bloccò, ma era già troppo tardi: era stato notato a sua volta.

Maledisse la propria sfortuna, quando uno dei due si alzò, posando la mano sull’impugnatura della spada che pendeva, evidente, dal suo fianco, ma non riuscì a trattenersi dal sollevare la lampada per vedere in viso con chi avesse a che fare. Notò subito il cappuccio che gli oscurava il volto, la casacca strappata sulla spalla sinistra e il sangue che la inzuppava.

— Sono un medico. — disse con tono privo di emozioni, pensando che se gli avesse offerto una mano, magari quel tagliagole l’avrebbe ritenuto utile evitando così di ucciderlo immediatamente.

— Ti serve aiuto? —

Quello parve esitare, i suoi occhi andarono alla borsa che Sami aveva con sé, ma la mano non si allontanò dalla spada.

— Non a me. — disse con un tono freddo e quasi minaccioso, indicando il suo compare che era rimasto seduto a terra.

Sami gli rivolse un’occhiata come a chiedere il permesso di avvicinarsi e, avendo ricevuto un silenzioso cenno di assenso, si accovacciò accanto all’altro uomo. La fiamma della lampada languiva, ma gli permise di notare l’impennatura di un dardo che spuntava dalla sua coscia destra. La perdita di sangue era stata abbondante, ma rallentata legando stretto qualcosa di simile a una sciarpa a monte della ferita.

— Avete fatto bene a non cercare di estrarre il dardo. — Sollevò la luce per osservare il viso del ferito: respirava rapidamente, sudava nonostante la fresca aria notturna e appariva pallido in maniera preoccupante.

— Casa mia è in fondo alla strada. — disse, passandosi un braccio dell’uomo attorno al collo e percependo il battito veloce e debole del suo polso. — Pensi di farcela? —

— Farò del mio meglio. — rispose quello con una smorfia e aggrappandosi a lui e al suo compare riuscì a tirarsi in piedi.

Arrivarono faticosamente davanti alla porta, la varcarono e nel piccolo vestibolo la lampada esaurì l’olio e si spense.

— Un momento. — disse Sami. — Faccio un po’ di luce. —

Entrò alla cieca in una stanza attigua, cercando a tentoni una candela e cavandosi di tasca l’acciarino.

 

— Non so se sia stata una buona idea. — sussurrò Yusuf nell’oscurità.

— L’alternativa era restarci secco. — rispose Amir, sarcastico.

Il chiarore di una candela comparve oltre il vano di una porta e la luce aumentò gradualmente mentre altre ne venivano accese. Il medico tornò da loro e insieme entrarono in una stanza che avrebbe fugato il dubbio di chiunque sull’uso a cui era destinata. Uno scaffale stracolmo di boccette di ogni foggia e colore ricopriva un’intera parete, un’altra ospitava una libreria, i cui ripiani erano imbarcati dal peso dei tomi e la terza era occupata dal focolare, accanto al quale un alambicco in vetro sfoggiava la sua forma elaborata. Fasci d’erbe essiccate erano appesi alle travi del soffitto, al di sotto delle quali stava un banco da lavoro ingombro di ciotole in terracotta, bottiglie, un mortaio di pietra e di una moltitudine di strumenti chirurgici dall’aspetto minaccioso. Accanto al focolare, con il lato corto addossato alla parete, c’era un alto tavolaccio che il medico coprì con un lenzuolo pulito e su cui aiutò Yusuf a distendersi, per poi spostare la cenere che copriva le braci e ravvivare le fiamme, mettendo a scaldare una pentola d’acqua e alcuni strumenti.

— Mi chiamo Sami al-Jawad, — disse mentre si lavava le mani con l’aceto. — presto la mia opera in questo distretto da alcuni anni e ho studiato alla Sahn- i Seman, se sapete cos’è. —

Amir annuì. La Corte degli Otto era la scuola fondata in città dal Sultano Mehemet II e la medicina era una delle discipline che vi venivano insegnate. Lo sconosciuto aveva buone credenziali, sempre che non avesse mentito per ispirare maggior fiducia.

— Bene. — continuò Sami. Aveva versato in una ciotola alcuni misteriosi granelli e polveri provenienti da diverse boccette e vi aveva aggiunto un mestolo d’acqua calda. Quando il tutto si fu trasformato in un liquido torbido dal colore indefinibile, porse al ciotola a Yusuf.

— Bevi. — disse. — Serve per il dolore. Non ti stordirà immediatamente, ma ti aiuterà dopo. —

L’Assassino pensò che la presenza di Amir costituisse per il medico una sufficiente motivazione per non tentare di avvelenarlo, e tracannò la mistura dal sapore orribile con la massima dignità che poté dimostrare. Poi tornò a distendersi, con il dolore alla coscia che gli dava il tormento e sapendo bene che il peggio doveva ancora venire.

Sami tagliò con un coltello la gamba dei suoi pantaloni e sciolse il laccio improvvisato con la sciarpa di suo padre. Una fitta di dolore lo artigliò, risalendogli lungo l’inguine fino al fianco e Yusuf si sforzò di non pensare all’esito nefasto dell’ultima volta che quella sciarpa era stata adoperata per un analogo uso. Mentre un lamento gli sfuggiva dalle labbra, lanciò un’occhiata ad Amir che, pallido ma impassibile, di sicuro stava cercando di impedire ai suoi pensieri di prendere la stessa direzione.

— Dobbiamo fare in fretta. — sentenziò il medico. — Il sanguinamento segue il battito del cuore, ma dall’entità dell’emorragia deduco che non si tratti di un grosso vaso. —

Amir era impallidito, se possibile, ancora di più: la sua esperienza di ferite gli diceva che quella era una pessima notizia e pregò che non solo il medico non avesse mentito sulle sue credenziali, ma che fosse anche bravo, molto bravo.

Sami lavò la ferita con l’aceto, ma Yusuf quasi non ne sentì il bruciore, tanto era lo strazio che già sopportava, mentre l’asta del quadrello veniva tagliata con una grossa cesoia. Fissò lo sguardo sulle travi del soffitto, con il respiro che gli raschiava in gola e la bocca arida come un deserto.

— Ora deve muoversi il meno possibile. Tienilo fermo. —

Sentì le mani forti di Amir immobilizzargli la gamba e irrigidì i muscoli, augurandosi che la maledetta pozione facesse effetto in fretta.

Era stato ferito, medicato e ricucito parecchie volte e non avrebbe mai scordato la lama del pugnale di Ghaalib che gli sfregiava la faccia, ma niente avrebbe potuto prepararlo a quello che seguì. Udì appena il sussurro di Amir che lo esortava a farsi coraggio, mentre qualcosa gli penetrava nella carne, scavando deciso e senza un’ombra di pietà attorno alla punta del quadrello. Urlò con tutto il fiato che aveva e la voce gli si spezzò, mentre le lacrime gli riempivano gli occhi e cercava disperatamente di sottrarsi a quella tortura. Ma il suo amico aveva una stretta d’acciaio e una volontà incrollabile, e forse solo un intervento del suo Dio avrebbe fatto sì che mollasse la presa. Non aveva più aria nei polmoni, il cuore correva a un ritmo forsennato e una nebbia del colore del sangue gli invadeva il cervello. Sentì le forze che lo abbandonavano e dimenticò come fare per prendere un altro respiro che gli consentisse di gridare di nuovo.

Yusuf svenne.

Sami fece leva un’altra volta con il suo strumento acuminato e finalmente la punta del quadrello divenne visibile, poi infilò le dita nello squarcio e la tirò fuori.

— Una dannata punta da caccia. — disse con disprezzo osservandola da vicino. La gettò in una bacinella e si rimise al lavoro. Recitando nella sua mente le parole di Abul Qasim Al-Zaharawi, medico nato nell’anno 324, piazzò l’indice nel punto dell’emorragia e premette finché il sangue smise di uscire, poi estrasse il cauterio dal fuoco. Non amava particolarmente quello strumento, che a suo avviso veniva usato con troppa disinvoltura, ma in quel caso era l’unico modo per sigillare il vaso lesionato. Lo applicò con cautela e precisione, mentre l’odore di carne bruciata gli afferrava le narici e, dopo aver valutato che la perdita di sangue si era fermata, lo ributtò sul focolare, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica. Sospirando per il sollievo sollevò le palpebre del suo paziente che giaceva svenuto sul tavolaccio e ne controllò la regolarità del respiro, superficiale e affrettato. Ricucì i lembi della ferita, che aveva allargato per avere più spazio di manovra, e dopo avervi applicato un impiastro e un tampone spesso, la fasciò stretta e con cura.

— Lascia che dia un’occhiata a quella spalla. — disse lavandosi le mani dal sangue, ma l’altro non gli rispose, sembrava non riuscire a staccare gli occhi dal suo compare. La preoccupazione sul suo volto era evidente.

— Per sua fortuna è svenuto e la pozione sta facendo effetto. Dormirà almeno fino a domani a mezzogiorno. —

Quello sembrò riscuotersi e gli rivolse uno sguardo pieno di domande.

— Appare forte e in ottima salute, sono intervenuto in fretta e l’impiastro che gli ho messo mi ha sempre dato ottimi risultati. Gli salirà la febbre, ma ci sono buone possibilità che vada tutto bene. Ora fammi controllare la tua ferita. —

— Grazie. — rispose lui e solo in quel momento Sami si rese conto che, a parte il cinturone con la spada, era parecchio ben armato per essere un qualsiasi tagliagole di strada. Ostentò un’aria indifferente mentre lui sganciava le fibbie del suo equipaggiamento per sfilarsi la casacca.

Il taglio non era profondo e aveva già smesso di sanguinare. Bastarono pochi punti e una fasciatura per sistemarlo.

— Devo informare il… nostro padre. Prima che sorga il sole. — disse il giovane mentre si rivestiva e si riappropriava delle sue armi. Sami lo fissò negli occhi scuri, in cui era tornata a brillare la durezza di una minaccia non troppo velata  e ricordando quelli azzurri del suo compagno, si disse che se quei due erano fratelli, lui era una danzatrice del ventre.

— Stai tranquillo per tuo fratello. — lo rassicurò sostenendo il suo sguardo. — E’ in buone mani e non è mia abitudine denunciare i miei pazienti, non potrei più lavorare qui. —

Lui annuì, senza che la sua espressione mutasse e poi scivolò, letteralmente, fuori dalla stanza. Quando uscì, il medico non sentì nemmeno accostare la porta.

 

Amir attraversò il distretto di corsa. Il barcaiolo fedele alla Confraternita si era addormentato sul molo e fu necessario scuoterlo un paio di volte per strapparlo ai suoi sogni.

— Ho fretta. — sussurrò l’Assassino e, malgrado durante la traversata del Corno d’Oro il ritmo della vogata fosse sostenuto, pensò che se non avesse avuto l’impedimento della spalla ferita, avrebbe preso i remi lui stesso.

Il cielo era ancora scuro quando entrò al Covo e Zuhre lo accolse con uno sguardo preoccupato: erano partiti in quattro e tornava da solo.

— Cosa è successo? — domandò la donna infilando le dita nello squarcio sulla sua casacca.

— Devi svegliare il Maestro, Zuhre. — rispose Amir. — Un’imboscata. Mahdi e Zeev sono morti, Yusuf è ferito. —

— Dov’è? —

— A casa di un medico nel distretto di Costantino. Grazie ad Allah lo abbiamo incontrato e ci ha offerto il suo aiuto. Senza di lui… —

Zuhre gli strinse un braccio. — Riprendi fiato, Amir. Sveglio il Maestro e ti mando due Apprendisti. Di’ loro dove recuperare Zeev e Mahdi. — Sul suo viso si affacciò la rabbia.

— Dannazione, due reclute perse in una sola notte. — borbottò dirigendosi verso gli alloggi del Maestro.

 

 

L’alba sorprese Sami addormentato su uno sgabello, le braccia incrociate sul banco da lavoro e la testa appoggiata su di esse. Fu un mormorio indistinto a strapparlo al sonno e sulle prime, non capì di cosa si trattasse; quasi non si rendeva neanche conto di dove si trovasse, ma quando alzò la testa un feroce crampo al collo lo svegliò completamente, facendogli tornare in mente gli avvenimenti della notte appena passata.

Era il suo paziente a mormorare nel sonno e Sami, sforzandosi di rimettere in moto i muscoli anchilosati, si alzò per controllarlo. Posandogli una mano sulla fronte constatò che la febbre era salita, ma non in maniera preoccupante e la ferita non aveva ripreso a sanguinare; se non fossero sopraggiunte complicazioni, il riposo avrebbe fatto il resto e per il momento, quello era garantito dalla pozione a base d’oppio.  Poteva dirsi soddisfatto del suo lavoro e si concesse un sorriso, seguito subito da uno sbadiglio. 

Aveva imparato da tempo a non chiedere nomi e a non fare più domande del necessario, ma quell’incontro notturno aveva stimolato la sua curiosità come di rado gli era accaduto. Gli abiti dei due sconosciuti si assomigliavano, pur non essendo identici e la foggia dei loro cappucci era particolare, inoltre, mentre liberava il ferito delle armi e delle protezioni per farlo stare più comodo, la sua attenzione era stata attirata dalle polsiere: non ne aveva mai viste di uguali. Chi diavolo erano quei due? Avevano l’atteggiamento dei guerrieri di professione, ma qualcosa in loro li distaccava completamente da qualsiasi altro soldato o mercenario con cui avesse mai avuto a che fare. Non era certo la forza bruta la loro risorsa più temibile, per quanto i loro corpi dimostrassero un duro e continuo addestramento, ma piuttosto l’abitudine al silenzio e alla furtività, come fossero dei predatori notturni. Se non avesse saputo che la Setta degli Assassini era dispersa ormai da più di due secoli, non avrebbe stentato a credere che quei due ne facessero parte.

Il poco che si sapeva sulla Setta era dovuto a cronisti che ne erano senz’altro detrattori, e ne avevano documentato solo la spietatezza e il fanatismo. Non esistevano notizie giunte di prima mano e Sami era ben conscio di ciò che i cronisti erano in grado di raccontare per compiacere la parte con cui erano schierati. La paura poi, non ispirava certo le lusinghe ed era molto difficile non temere qualcuno a cui era sempre stato praticamente impossibile sfuggire.

 Sami ricordò l’interminabile viaggio che aveva condotto lui e suo padre, un ricco mercante di seta, da Yazd, nel cuore della Persia, fino a Istanbul, in particolare la sosta in una valle delle montagne dell’Alburz, in cui si annidava la fortezza di Alamut…

Si riscosse sentendo bussare alla porta. Gettò un’occhiata al suo paziente, che aveva smesso di mormorare e pareva dormire un sonno tranquillo e uscì dallo studio, tirandosi alle spalle la tenda che lo separava dal vestibolo. Socchiuse il battente e guardò fuori, trovandosi davanti un uomo dall’aspetto imponente, che pareva tenere le spalle un po’ curve per mascherare la sua altezza. I suoi abiti ricordavano quelli dei due sconosciuti di quella notte, ma erano completati da una sopravveste lunga e scura come il cappuccio che gli ombreggiava il volto, di cui si riuscivano a scorgere solo i folti baffi e la barba ispida. Portava la sopravveste scostata dal fianco, a tener libera una spada ricurva dal fodero semplice ed elegante, su cui appoggiava la mano sinistra distrattamente, senza alcun accenno di minaccia.

— Salute e Pace. — esordì con una voce calda e profonda. — Sei tu Sami al-Jawad, il medico?—

— Sono io. — rispose Sami, quasi intimorito dalla naturale autorevolezza che emanava dal suo interlocutore. — Salute e Pace a te. — si affrettò ad aggiungere. Poi si fece da parte invitandolo con un gesto ad entrare e solo in quel momento si accorse che dietro di lui c’era una donna, anch’essa incappucciata ed armata, che non disse nulla e non accennò ad entrare, ma anzi, voltò loro le spalle per controllare la strada.

L’uomo varcò la soglia e fece alcuni passi all’interno, mentre il medico chiudeva la porta.

— Mi hai reso un grande servigio questa notte. — disse. — E sono qui per ringraziarti e per ricompensarti. — Si calò il cappuccio sulle spalle e il cuore di Sami perse un battito. Il tempo aveva scavato nuove rughe sul suo viso e i capelli e la barba si erano ingrigiti, ma sarebbe stato impossibile non riconoscere l’ex Sadrazam Ishak Pasha, che dopo aver lasciato la carica, si era ritirato a vita privata dodici anni prima. Come comportarsi ora? Mostrare deferenza dando a vedere di averlo riconosciuto o limitarsi al distacco che avrebbe avuto con chiunque?

— Tuo figlio ancora dorme. — disse orientandosi verso la seconda opzione. — E come ho detto a suo fratello, dormirà almeno fino a mezzogiorno, la pozione che gli ho dato era piuttosto potente. Se vuoi vederlo, è nell’altra stanza. —

Il Visir annuì e il lieve sorriso che si disegnò sulle sue labbra fece capire a Sami di aver scelto il giusto comportamento. Il medico tirò la tenda e lo introdusse nello studio.

Ishak si avvicinò al tavolaccio con le sopracciglia aggrottate, scostò i capelli sudati dalla fronte del paziente ed esaminò la fasciatura con l’attenzione di chi ha accumulato parecchia esperienza.

— Mi è stato riferito che sei intervenuto con rapidità e sicurezza e che senza di te non avrebbe avuto alcuna possibilità. —

— Siamo stati entrambi fortunati. — si schermì Sami, prendendo la punta del quadrello e porgendola al suo ospite. — Non è penetrata abbastanza a fondo da danneggiare un vaso più grosso. In quel caso, ci sarebbe stato ben poco da fare. —

Ishak si rigirò la punta tra le dita, e i suoi occhi si erano induriti mentre la esaminava, come se fissarla con insistenza avesse potuto rivelargli qualcosa su chi l’avesse scagliata.

— La tua modestia ti fa onore. — disse poi sollevando lo sguardo su di lui. — Ho conosciuto molti medici, ma solo pochi che sarebbero stai capaci di fare quello che hai fatto tu. —

— La procedura è nota da tempo… —

L’altro liquidò la sua precisazione con un gesto della mano.

— Immagino che questo ragazzo abbia urlato come un’aquila. — sogghignò.

Sami si strinse nelle spalle. — Quando ho cauterizzato era già svenuto. — 

Il Visir girò attorno al tavolaccio, osservando ogni cosa nella stanza e soffermandosi in particolare sui libri che affollavano lo scaffale. Aveva un’espressione pensosa e si accarezzava i baffi con insistenza; malgrado la dimostrazione di apprezzamento che già gli era stata rivolta, Sami sentì sé stesso sotto esame insieme allo studio. Tacque, con addosso una vaga sensazione di disagio e un altrettanto vago desiderio di fare buona impressione.

— So che hai studiato alla Sahn-i Seman. —

Evet. —

— Le tue capacità mi fanno pensare che ne sarai uscito con un’ottima valutazione. —

Sami si irrigidì, domandandosi se Ishak stesse solo facendo conversazione. Avrebbe potuto semplicemente mentire, ma l’istinto lo spinse a non farlo.

— In verità, non ho mai completato gli studi. —

Gli occhi del Visir si piantarono nei suoi, ma lui non vi lesse la disapprovazione che si aspettava, quanto piuttosto una sorta di ammirazione. Ne fu sconcertato.

— A quel che posso vedere i tuoi studi sono più che completi, Sami al-Jawad. — disse Ishak.  — Non so perché tu abbia lasciato la Corte degli Otto prima del tempo, e non mi riguarda. Quello che mi riguarda invece è che hai proseguito la tua istruzione sul campo, senza rinunciare a prestare la tua opera. Una scelta coraggiosa, al punto da sembrare azzardata. — Sorrise appena. — E ti sono grato per averla fatta. —

   Il disagio scomparve dal cuore di Sami, sostituito dalla sorpresa per aver ottenuto la gratitudine di  quell’uomo, noto per il suo ineccepibile onore e indiscusso carisma, ammettendo qualcosa per cui l’autorità costituita lo avrebbe considerato alla stregua di un qualsiasi ciarlatano. 

— Visto che mi hai confessato un tuo segreto, — riprese il Visir. — te ne confesserò uno mio.— Era tornato accanto al tavolaccio e fissava il ferito, che continuava a dormire come se nulla stesse accadendo.

— Questo qui non è mio figlio. E neanche quell’altro, ma è come se lo fossero. —

Sami continuò a tacere, spiazzato da quell’ammissione e chiedendosi ancora in cosa fosse incappato. Ishak scrutava le sue reazioni, con uno scintillio quasi divertito negli occhi.

— Molto bene. — disse poi marciando deciso fuori dallo studio scostando la tenda. — Quando potrò portarlo via di qui? —

Il medico lo seguì. — Se tutto procede bene, potrai farlo domani sera, in barella e senza scossoni; non potrà camminare per almeno cinque giorni, ma probabilmente sarà troppo debole per provarci. Niente strapazzi finché avrà i punti e anche dopo raccomando cautela per un’altra settimana.

Ishak ridacchiò. — Bisognerà legarlo. —

— Se è necessario, fallo. Quella ferita può ancora portarselo nella tomba. —

Il Visir annuì tornando serio, gli mise in mano un sacchetto tintinnante di peso considerevole e si diresse verso la porta.

— Salute e pace, Sami al-Jawad. — disse afferrando la maniglia.

— Salute e pace a te. —

Ishak uscì in strada. La donna che era rimasta di guardia sull’uscio si voltò, e malgrado non riuscisse a scorgerne gli occhi, celati dall’ombra del cappuccio, Sami sentì il suo sguardo su di sé. Anche questa volta lei non pronunciò parola e si avviò al fianco del Visir con i passi leggeri e guardinghi di un animale schivo e pronto a scattare.

Sami rimase ad osservarli finché non sparirono in fondo al vicolo; l’incedere di Ishak Pasha mostrava la stessa pericolosa eleganza.

 

 

Un fioco barlume di coscienza si fece largo nel cervello di Yusuf.

Era un odore. Forte, acuto, nauseante. Cercò di muovere la testa per allontanarsi, ma ebbe l’impressione che i muscoli non gli obbedissero, o che fossero troppo deboli per spostare un peso così enorme. Sollevò le palpebre con estrema fatica e, lentamente, mise a fuoco ciò che si trovava davanti ai suoi occhi: travi scure, da cui pendevano fasci di erbe. Dove si trovava?

Una voce, fuori dal suo campo visivo, e forse lontana qualche lega, pronunciò parole incomprensibili e qualcosa di fresco si posò sulla sua fronte. Aveva in bocca un sapore orribile e percepiva a stento il resto del suo corpo; una sensazione, in fondo alla sua mente, gli sussurrava che forse era meglio così.

Ancora quella voce, ma questa volta riuscì a capire cosa stesse dicendo.

— Come ti senti? —

      Yusuf aprì le labbra, che sembravano incollate tra loro, ma la lingua impastata non gli avrebbe permesso di pronunciare alcuna parola, anche se fosse stato in grado di ricordarne almeno una.

Fu aiutato a sollevarsi, una tazza gli fu avvicinata alla bocca e una piccola quantità d’acqua gli inumidì appena le labbra, dandogli un po’ di sollievo. Placare la sete divenne il suo pensiero più urgente, ma la tazza gli fu subito sottratta e un viso gli comparve davanti. Lo osservò, mentre in modo graduale le sue membra cominciavano a riacquistare un po’ di sensibilità e con essa, uno sgradevole bruciore iniziava a rosicchiargli la coscia destra.

Fu in quel momento che tutto gli ritornò in mente: l’imboscata, le reclute uccise, la fuga, Amir… dov’era Amir? E poi il medico nel vicolo che aveva offerto loro aiuto. Ecco a chi apparteneva quel viso. Yusuf rabbrividì, ricordando di che tipo di aiuto si era trattato.

Sollevò una mano e tentò di riappropriarsi della tazza, ma le sue dita erano così deboli che non riuscirono ad afferrarla.

— Non posso darti da bere finché non sono certo che riesci ad inghiottire. — disse il medico.          — Rischi di soffocarti. Sai dove ti trovi? —

Yusuf si sforzò di annuire. — Nel… distretto… di… Costantino. — articolò faticosamente, quasi senza riconoscere la propria voce: gli sembrava di avere la bocca piena di sabbia e la gola gli faceva male.

— Ti ricordi cos’è successo? —

Evet. Sono stato… ferito, e tu mi hai… torturato. —

L’altro sorrise appena, stringendosi nelle spalle. — Purtroppo non avevo alternative. Ho dovuto sbrigarmi, o saresti morto. —

Yusuf fece una smorfia, mentre il dolore aumentava e i pensieri si facevano via via più lucidi.

— Adesso posso bere? —

Riuscire a mettersi seduto, anche con l’aiuto del medico, gli costò uno sforzo notevole e un paio di fitte lancinanti alla coscia, un cuscino gli fu sistemato dietro la schiena e finalmente ebbe l’agognata tazza tra le mani.

— A piccoli sorsi. —

Yusuf ubbidì.

— Dov’è… quello che era con me? — domandò quando la tazza fu vuota.

— Se n’è andato poco dopo che ho finito di medicarti. E all’alba un altro uomo è venuto a farti visita. —

— Chi? —

— Alto, barba e baffi grigi, sopravveste e cappuccio scuri. Autorevole. Non ha detto il suo nome. —

Il Maestro era venuto ad accertarsi delle sue condizioni.

— Era solo? —

— C’era una donna con lui, ma è rimasta fuori dalla porta. —

E Zuhre lo aveva accompagnato.

Yusuf fissò il medico che gli aveva salvato la pelle e solo in quel momento ricordò il suo nome.

— Sami al-Jawad. — disse. — Grazie. —

— Dovere. —

— Ho comunque un debito con te. —

— No, nessun debito, ho già ricevuto un compenso. — Indicò un sacchetto posato sul tavolo da lavoro. — Ed è più di quanto fosse necessario. Stai molto a cuore a quell’uomo. —

— Gli stiamo a cuore tutti. — sussurrò Yusuf e poi si sarebbe morso la lingua.

Avrebbe fatto meglio a tacere finché gli effetti della pozione non si fossero del tutto esauriti: la sua scarsa lucidità rischiava di mettere in pericolo il Terzo Principio.

 

 

Amir aveva fatto visita a Yusuf la sera precedente e Zuhre quella stessa mattina.

— Si lamenta come una ragazzina. — aveva sentenziato il siriano, mentre la donna si era limitata a riferire che era pallido e sofferente. Sul viso di entrambi, però, Ishak aveva riconosciuto il sollievo e questo lo aveva rassicurato sulle reali condizioni del ferito. Il medico aveva accordato il suo permesso a portarlo via e il Mentore si era recato nel distretto di Costantino accompagnato da un Assassino di scorta e da due robusti Apprendisti che avevano caricato Yusuf su una barella, sopportando le sue proteste e i suoi insulti per la loro mancanza di grazia e riguardo. 

Il richiamo all’Isha’a si era appena spento nella notte di Istanbul e il Maestro sedeva nel vestibolo dell’abitazione di Sami, mentre il medico, nello studio, era impegnato con la preparazione degli impiastri e delle pozioni necessarie al paziente dopo il suo trasferimento.

Ishak osservava la stanza in silenzio. Era umile, ma non priva di buon gusto: i pochi tappeti erano senz’altro pregiati, ma mostravano qualche sfilacciatura e i mobili, costruiti da una mano capace, in particolare le due belle poltrone su una della quali stava seduto, avevano bisogno di un po’ di manutenzione. L’impressione generale, che non sfuggì all’occhio attento dell’ex Sadrazam, era di una trascuratezza voluta, come se ostentare agiatezza non fosse ritenuto consono dal proprietario.

— Ho scritto una nota per il tuo medico di fiducia. — disse Sami uscendo dallo studio con alcune boccette e un foglio arrotolato tra le mani. — Ci sono le dosi delle pozioni e dell’impiastro che ho usato. Ne ho preparato… —

Ishak lo interruppe con un gesto della mano. — Siediti, Sami al-Jawad. — disse. — Parliamo un po’. —

L’altro lo fissò aggrottando le sopracciglia. Forse si sentiva infastidito dal fatto di essere invitato a sedersi da uno sconosciuto in casa propria, ma dopo una breve esitazione, raggiunse la poltrona e si accomodò.

— Vuoi sapere qualcos’altro sulle cure da prestare al ferito? — chiese appoggiandosi in grembo le boccette con cautela, la stessa cautela che traspariva dalla sua voce.

— In realtà avrei una domanda personale. — rispose il Maestro. — Ma se ritieni che lo sia troppo, sei libero di non rispondermi. È solo una curiosità e posso vivere anche senza averla soddisfatta. —

Ishak avrebbe potuto soddisfare comunque la sua curiosità, ma riteneva che è dal modo in cui le persone rispondono (o non rispondono) a domande dirette che si ricavano le impressioni più veritiere su di loro.

Sami annuì, invitandolo, in silenzio, a proseguire.

— Che cosa ti ha spinto a decidere di prestare la tua opera anche senza aver completato gli studi? —

Il medico non poté trattenere un sorriso un po’ amaro.

— Mio padre avrebbe detto la testardaggine, e l’incoscienza. — Nei suoi occhi sembrò passare un ricordo doloroso. — Aveva ragione, in un certo senso, ma è grazie a questi difetti che sono arrivato dove mi trovo ora. —

Ishak si lisciò i baffi con espressione pensierosa. — Chiamarli o meno difetti dipende solo dall’angolazione da cui li si guarda. — disse.

— L’angolazione di mio padre era spesso quella sbagliata. — sospirò Sami facendo vagare lo sguardo nel vuoto.

— I padri pensano il più delle volte che tracciare una via per i figli sia un modo di proteggerli, di mettere la propria esperienza al loro servizio, ma è un errore. — disse il Maestro appoggiandosi col gomito al bracciolo della poltrona. — I figli non sono alberi a cui possiamo dare la forma che vogliamo, che per la natura stessa delle loro radici possiamo confinare nel nostro giardino. Le radici dei figli sono diverse, vanno lasciate libere di muoversi. —

Il medico riportò gli occhi su di lui. — Mio padre mi ha lasciato libero, di decidere il giardino che preferivo. Era un seguace della Mazdayasna daēnā, il cui dualismo etico è incentrato sulla libera scelta. — C’era una punta di sarcasmo nel suo tono. — Ma quando ho manifestato l’intenzione di spostarmi in un bel campo di erbacce, la sua idea di libertà si è nettamente ristretta.—

Ishak non disse nulla e attese che andasse avanti.

— Mi permise di studiare medicina, pur lamentandosi che il suo unico figlio non avrebbe commerciato in seta come lui e che la sua attività, nel futuro, avrebbe dovuto essere affidata ai suoi cugini. Riconosceva il prestigio che derivava dalla direzione che avevo preso. Lo riconobbe finché, giunto quasi alla fine degli studi, gli comunicai il mio desiderio di dedicarmi al popolo, vanificando la sua ambizione, che arrivava tanto lontano da sognarmi al servizio del Sultano in persona. Smise di finanziare la mia permanenza in città, sperando che tornassi sui miei passi. —

— Speranza vana. — sussurrò il Maestro.

Evet. Avevo scelto il mio campo d’erbacce e niente avrebbe potuto tenermene lontano. Non sarei rientrato a casa con la coda tra le gambe, ma dovevo sopravvivere. L’unico modo che avevo per farlo era mettere a frutto quello che avevo imparato fino a quel momento, ma questo non mi concesse più il tempo per continuare a studiare alla Sahn-i Seman. —

Ishak sentì crescere dentro di sé il rispetto per l’uomo che sedeva davanti a lui, vedeva trasparire dal suo atteggiamento all’apparenza umile e pacato e al di là del suo semplice raccontarsi, una volontà ferrea e un intento nobile, una coerenza che nulla avrebbe scalzato. Aveva di fronte un uomo che aveva perseguito il suo scopo rinunciando all’agiatezza della sua famiglia, all’appoggio di un padre e si era rimboccato le maniche scegliendo la strada più dura.

— Ho tirato avanti con fatica, — stava continuando Sami. — fino alla sua morte. —

La tristezza si dipinse sul suo viso, ma senza alcuna traccia di rammarico. — Mi fa piacere pensare che alla fine abbia accettato quello che ero, visto che ha deciso di non diseredarmi. —

Si alzò con sospiro dalla poltrona.

— Hai qualche altra domanda? — chiese con un sorriso quasi imbarazzato; era evidente che non aveva raccontato quella storia molto spesso.

Ishak si alzò a sua volta. — In effetti una l’avrei. —

— Dimmi pure. Non ho altri vergognosi segreti da nascondere. —

— Hai detto di aver scritto una nota per il mio medico di fiducia, ma al momento non ne ho uno.—

La sorpresa si dipinse sul viso di Sami.

— Vorresti ricoprire tu questo ruolo? —

Il medico fece un passo indietro. — Essere al tuo servizio mi costringerebbe ad abbandonare la gente di qui. Non posso accettare. —

Il Maestro sorrise sornione. — Questo mi fa capire che sai bene chi sono stato, che lo hai saputo dal primo momento. —

L’altro annuì.

— Non ti sto chiedendo di essere al mio servizio, ma al mio fianco. Ci sono molti modi di dedicarsi al popolo, Sami al-Jawad, tu ne hai scelto uno, io un altro ed entrambi abbiamo ricevuto un’educazione che proprio alle scelte attribuisce la massima importanza. Hai combattuto per restare libero e grazie a questo ora puoi combattere per la tua gente, portando aiuto, liberandola dalla sofferenza. —

— A volte solo la morte può liberare dalla sofferenza. — disse Sami, cupo.

— E’ così. — rispose Ishak. — Talvolta la morte è un male necessario. —

Rimasero in silenzio, ciascuno valutando dentro di sé le parole dell’altro.

— Ti chiedo solo di pensarci. — disse poi il Maestro sollevandosi il cappuccio sul capo e tendendo le mani per prendere le boccette che ancora Sami teneva tra le sue. — Rispetterò la tua decisione. —

Il medico gli aprì la porta. — Come farò a comunicartela? — domandò strappandogli un sorriso.

— Vieni alla Torre di Galata. —

Detto questo, il Maestro si avviò lungo il vicolo, con l’Assassino di scorta che gli si accostava in silenzio, come un’ombra nella notte.

 

 

Era passata una settimana da quella notte disgraziata e Yusuf, già da un paio di giorni, aveva deciso che preferiva un po’ di dolore all’intontimento provocato dalle pozioni e per quanto le sue forze fossero ancora scarse, già si sentiva sopraffatto dalla noia. Gli ammonimenti di Amir, di Zuhre, del Maestro e di chiunque gli avesse fatto visita, non lo avevano trattenuto dal tentare, il giorno prima, di posare i piedi sul pavimento con l’intenzione di alzarsi e solo le vertigini, il senso di nausea e i sudori freddi l’avevano fatto desistere. Nervoso e frustrato, aveva cacciato a male parole il Novizio che gli portava i pasti, ottenendo solo di masticare nient’altro che il suo senso di colpa fino a sera, quando aveva avuto modo di chiedergli scusa.

Suo unico conforto era stato apprendere, quella mattina da Amir, che gli autori dell’imboscata erano stati identificati grazie alla forma particolare della punta estratta dalla sua coscia, che solo un fabbro del distretto Imperiale fabbricava, decantandone le doti di penetrazione, ideali per la caccia grossa. Furioso per aver rischiato la pelle quanto per essere stato trattato alla stregua di un comune cinghiale, Yusuf aveva chiesto all’amico se avrebbe fatto parte della spedizione punitiva e, avendo ricevuto risposta affermativa, lo aveva pregato di portare i suoi saluti al balestriere che lo aveva colpito.

La missione era programmata per quella sera, e vivere la tensione che la precedeva confinato nel suo letto, invece che affilando le armi, si stava rivelando insopportabile. Dopo l’Asr (preghiera del pomeriggio) il libro che Yusuf aveva in grembo e giaceva aperto alla stessa pagina da ore si ritrovò a volare attraverso la stanza e proprio in quel momento la porta si aprì. L’Assassino si voltò di scatto, indeciso se rivolgere a chiunque stesse entrando una sequela di improperi o una supplica accorata per farlo uscire di lì, ma ammutolì, trovandosi di fronte Sami al-Jawad. Il medico aveva afferrato il libro al volo.

Muovi con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico. — lesse Sami a voce alta dalla pagina che gli era capitata sotto gli occhi. — L’Arte della Guerra è una lettura affascinante. — aggiunse poi, abbozzando un sorriso. Yusuf pensò che in quel momento sarebbe stato mille volte più apprezzabile per lui mettere mano  alla sua lama, piuttosto che leggere come farlo su un libro.

— Era uno dei preferiti di mio padre. — mugugnò. — Ma tu cosa fai qui? —

Sami si chiuse la porta alle spalle.

— Il tuo Maestro mi ha chiesto di controllarti. — pronunciò la parola  Maestro con una lieve esitazione, nascondendola dietro un’espressione compassata e professionale. — Pare che salvare la tua vita abbia cambiato del tutto la mia. —

Yusuf rise nell’udire quella sua sconcertata riflessione. — Il Maestro di sicuro direbbe che sei stato tu a cambiare la tua vita, non certo il fatto di aver salvato la mia. — commentò. — Immagino che faccia uno strano effetto trovarsi qui. —

— In mezzo a gente che non dovrebbe neanche esistere? Molto strano, sì. Inquietante, direi. —

Sami non poté trattenere un brivido, ma poi scosse la testa e si avvicinò al letto.

— Come ti senti? — chiese aiutando Yusuf a piegare il ginocchio per sollevare la coscia dal materasso e iniziando a svolgere la fasciatura.

— Debole, inutile, un peso morto. — rispose l’Assassino con un tono tra il depresso e l’esasperato. — Ti prego, fammi uscire di qui. —

Sami sollevò lo sguardo dalla ferita e lo fissò negli occhi, tastandogli la fronte col palmo della mano.

— Niente febbre, nessuna traccia di infezione e i punti si sono già allentati. — sentenziò.

— Dolore? So che rifiuti le pozioni da due giorni. —

— Sopportabile. Preferisco stare sveglio. —

— E soffrire sentendoti un inutile peso morto? — sorrise il medico. — Questo è ammirevole. —

Yusuf gli rivolse un’occhiataccia.

— Dico sul serio. È molto facile arrendersi al potere sedativo delle pozioni. Te la senti di fare qualche passo? —

— Sì. —

Sami annuì. — Aspetta. — disse. Uscì dalla stanza e dopo aver dato un’occhiata all’esile Novizio che attendeva fuori dalla porta si allontanò lungo il corridoio. Tornò poco dopo in compagnia di Serdar che sfoggiava un sorriso da un orecchio all’altro.

— Non dire una parola. — gli intimò Yusuf e quello scoppiò a ridere.

— Non hai il rango per darmi ordini. — disse poi in tono canzonatorio.

— Mi pare che abbiamo lo stesso rango. —

— Certo, ma io ce l’ho da più tempo di te. — Poi si rivolse al medico. — Mi dispiace, Dottore, ma siamo dei pazienti insopportabili, dovrai farci l’abitudine. Per tua fortuna hai iniziato con questo qui, che è il peggiore di tutti, dopo sarà una passeggiata. —

Yusuf borbottò un insulto, ma tale era il sollievo per poter finalmente provare a uscire da quella stanza, che si ritrovò a ridere a sua volta, mentre metteva i piedi giù dal letto. Sami e Serdar gli si affiancarono, chinandosi per circondarlo con le braccia e lui si appoggiò alle loro spalle tirandosi in piedi. Di nuovo le vertigini lo assalirono, facendogli temere di svenire, dando ben misera prova di sé e procurandosi un altro giorno di confinamento.

— Tutto bene? — chiese Sami, mentre Serdar, stranamente, rimaneva in silenzio.

— Sì. — rispose dopo un paio di respiri profondi.

— Bene. Appoggiati a noi e carica poco peso. Se sei stanco dillo, fare i duri non è di alcuna utilità. —

Lentamente uscirono dalla stanza e si avviarono lungo il corridoio. Yusuf avrebbe voluto uscire nel cortile degli allenamenti, ma Sami fu irremovibile: al massimo avrebbe potuto raggiungere il salone centrale, se ce la faceva. E infatti, quando vi arrivò, dopo un paio di soste, era in un bagno di sudore e spossato come se avesse corso per ore inseguito da un’orda di nemici. Quasi crollò sulla poltrona accanto al camino acceso e mentre una giovane e solerte Apprendista gli piazzava addosso una coperta, si sentì un vero relitto.

Amir, che usciva in quel momento dalla sala delle armi, seguito dalla squadra che lo avrebbe accompagnato nella missione di quella sera, gli rivolse un sorriso soddisfatto e sparì in biblioteca, diretto allo studiolo del Maestro. Serdar offrì a Sami da fumare ed entrambi si sedettero sui cuscini attorno al narghilè. Il medico, ora che la sua attenzione non era più concentrata sui suoi doveri professionali, appariva un po’ spaesato, ma l’affabilità di Serdar fece sparire in fretta dai suoi occhi ogni disagio. Chiunque entrasse nel salone dava un’occhiata a quel volto nuovo, salutava Yusuf con un sorriso, per poi essere subito assorbito dalle sue occupazioni.

La Confraternita era abituata ad accogliere, constatò l’Assassino rilassandosi contro lo schienale della poltrona, e questo era il più positivo dei suoi paradossi.

 

 

 

* Il nome completo di Sami significa: "figlio di Anuar, da Yazd, Colui che dona a piene mani";

* L'anno 324 del calendario islamico, corrisponde al 935 d.C.

* Mazdayasna daēnā: religione monoteista nota anche come Zoroastrismo;

* L'Arte della Guerra: trattato di strategia militare attribuito a Sun Tzu, generale cinese vissuto tra il VI e il V secolo a.C.

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21: Una questione di fiducia ***


   — Parlami dell'Alleanza. —
   Ràhel alzò gli occhi dal tumulo e scoprì che Ezio la fissava, intensamente, con una ruga profonda tra le sopracciglia.

   — Yusuf te ne ha mai parlato? — chiese lei, cauta.

   — Evet, — rispose nell'attimo di un sorriso. — Se ne faceva cenno nelle pagine di diario che mi hanno condotto all'armatura di Ishak Pasha. Yusuf mi aiutava a tradurle quando aveva tempo. —

  Ràhel annuì. — D'accordo, ma… è complicato… — scosse la testa, ma Ezio le lasciò il tempo di cui aveva bisogno. Dopo un lungo silenzio durante il quale Ràhel aveva cercato, trovato, e pesato le parole al granello nella testa come nel cuore, parlò:

   — Contrariamente a come potresti pensare, furono giorni davvero oscuri per il nostro Ordine, — cominciò salda, senza incertezza. — Erano nate delle voci sull'esistenza degli Assassini, troppe per metterle a tacere, finché un giorno alle orecchie dei nostri informatori più fidati arrivò l'eco di una recentissima seduta del Divano, che, unanimemente, aveva stabilito di voler redigere un'Alleanza con la nostra Confraternita. Sapevano che eravamo in città. —

   Ezio respirava piano senza distogliere gli occhi dai suoi e Ràhel continuò, con la fermezza di una statua.

   — Per la prima volta dopo quasi tre secoli la Confraternita aveva perso la segretezza, uno dei suoi punti di forza. Bisognava agire in fretta, o la luce a cui eravamo stati esposti avrebbe finito per abbagliarci e renderci vulnerabili. Accettare le condizioni della Sublime Porta rappresentò un cambiamento enorme, ma inevitabile. In quell'anno 1497 del calendario Cristiano, Mentore, accaddero molte cose, ma tra tutte, quella del nostro Maestro fu una mossa di altissima strategia. —

 

Istanbul

Rabî Ath-Thânî 902

(Gennaio 1497)

 










l brusio nel salone centrale del Covo era assordante. Assassini di tutti i ranghi avevano invaso le panche e i tappeti sommersi di cuscini, ma chi non aveva trovato spazio per sedersi aveva riempito quello tra una colonna e l’altra, appoggiandosi ad esse nella lunga attesa.

Il Visir Ibrahim Pasha era attraccato a Galata quella mattina accompagnato da un manipolo di Giannizzeri. Era un uomo piuttosto anziano, con una lunga barba bianca come la neve e sopracciglia sfilacciate come una vecchia corda. Recava con sé un bastone a cui si appoggiava di rado, quasi ne avesse vergogna, e gli abiti, sete e pellicce di meravigliosa fattura, gli restituivano un po’ della gloria vissuta al fianco di ben tre Sultani. Amir lo aveva ricevuto sulla banchina e il Visir, come se ne fosse già stato informato, lo aveva seguito disponendo che i suoi Giannizzeri attendessero ai moli. Ibrahim e Amir avevano parlato durante tutto il tragitto e solo davanti alle porte del Covo, quando Yusuf e Serdar erano balzati giù dai tetti dietro di loro, il vecchio Visir aveva saputo che il giovane siriano non era stato il suo unico accompagnatore. Poi, entrando, un silenzio teso aveva accolto Ibrahim nel Covo. Gli Apprendisti e le Reclute, disposti lungo la passerella, avevano omaggiato il visitatore con inchini muti e profondi degni del Sultano in persona, e sul grande piano del salone centrale il Gran Maestro lo aveva ricevuto con riguardo, circondato dagli Assassini di rango più alto. A quel punto il viso rugoso dell’anziano Visir era sembrato adombrarsi nel riconoscere l’ex Sadrazam Ishak Pasha al vertice dell’Ordine, e mentre tra gli Assassini saliva la tensione, il Mentore gli aveva indicato la biblioteca. I due si erano appartati nello studiolo.

— Quanto tempo ci vorrà a sua Vecchiezza per darci un dannato nome? — sbottò Kasim sistemandosi meglio tra i cuscini. — Non ne potevo più del cortile e i suoi maledetti fantocci di paglia. —

— Non hai capito proprio niente, eh? — lo beccò Sami.

— Cosa c'è da capire? Qualcuno dei suoi bambolotti fa i capricci e Bayezid, che vuole liberarsene senza scandali, manda la sua marionetta fidata ad incaricarci di fare il lavoro sporco. —

— Può anche darsi che il nostro ospite sia qui per questo, ma c'è una questione ben più grave, — ribatté il medico. — Il Sultano non dovrebbe neppure sospettare l'esistenza della Confraternita in città, e all'improvviso un funzionario dell'Impero viene a prendere un caffè col Maestro? A volte sei così sconsiderato, Kasim, che penso seriamente di dover dare una controllatina sotto a tutti quei capelli. —

— Sami, stai sprecando fiato: è un povero scemo e non puoi curarlo, — ridacchiò Serdar sottovoce come se in realtà non gli importasse, distratto da un rompicapo ad incastro che lo teneva impegnato da ore.

 Kasim fece per ribattere, ma alla fine si alzò e sbuffando disse: — Vado a sgranchirmi le gambe. Qualcuno sia carino e mi tenga il posto. —

Serdar fece schioccare la lingua un paio di volte. — Mi spiace, ma vogliamo tutti essere in prima fila quando Ishak uscirà da lì e sceglierà l'Assassino incaricato per questa missione, — disse mentre risolveva la prima faccia del suo rompicapo. — C'è aria di promozione. —

— Bhé, qualsiasi cosa ci sia nell'aria, almeno non puzza come i tuoi stivali! — ridacchiò Kasim col suo caratteristico tono di voce non esattamente discreto e metà della sala si voltò a guardarli proprio mentre Serdar scattava come una molla con uno sguardo omicida. Scomparvero entrambi nella folla di cappucci bianchi e occhi sgranati della passerella, poi le risate di Kasim non si sentirono più.

 

— Speravo che venissi, — disse Ishak sedendo sulla sua poltrona.

Ibrahim non rispose e rimase in piedi guardandosi attorno. Mentre gli occhi scorrevano le mensole affollate come gli spalti di un teatro, la tela di rughe sul suo volto parve distendersi e un sorriso affiorare sotto quei lunghi baffi. Ad un tratto colpì un antico candeliere di metallo inciso d’argento con il piede del suo bastone e nello studiolo si diffuse un ronzio incredibilmente morbido.

— Azerbaigian, — disse senza tono quando il metallo finì di cantare. — Avevi ragione: non ne fanno più così. —

Ishak ridacchiò. — Mi desti dell’avido, e ad un Visir non era conveniente, ma quel mercante mi stava facendo un ottimo prezzo. —

— Non lo hai mai usato. Comprasti solo un ricordo. —

Il vecchio Ibrahim Pasha accarezzò una cinta dorata, opaca di polvere, appesa vicino all’ingresso insieme al fodero altrettanto trascurato di una scimitarra persiana.

— Uno dei tanti. — 

Appoggiò il suo bastone al bracciolo della sedia e finalmente si accomodò.

— Perché sono qui? —

— Dimmelo tu. —

— Un Ordine estinto da secoli mi ha invitato a sedere col suo Mentore e ho accettato. Alla mia età non temo più la morte, e mentre tu collezionavi candelieri, amico mio, io inseguivo misteri. Piuttosto, come sapevi che non vi avrei denunciato al Sultano? —

— Perché qualcuno l’ha già fatto. —

Silenzio.

Ibrahim sospirò. — Allora è per questo che sono qui. —

— Un nome, vecchio mio. Non ti chiedo altro e nessuno saprà. —

Il Visir scosse la testa. — Non posso aiutarti. —

— In onore della nostra amicizia, Ibrahim, ti supplico di… —

— Sei diventato sordo, eski aslan(vecchio leone)? Ho detto che non posso aiutarti, e non perché non lo voglia. —

Il Maestro degli Assassini si abbandonò sullo schienale, lentamente. — Hai appena detto di non temere la morte, — sussurrò. 

Ibrahim piantò gli occhi nei suoi. — Io sarò Gran Visir di nuovo, Ishak, e quando quel giorno arriverà voglio essere pronto. Voglio essere vivo. —

— L’Ordine protegge i suoi alleati. —

Il vecchio Visir digrignò i denti bianchi e le rughe profonde riaffiorarono sul suo viso. — Sono stato uno sciocco a venire. Una semplice lama nella gola sarebbe stato meno doloroso del vederti a capo di questa… congrega maledetta! —

Una cortina invisibile di vetri taglienti calò nello studiolo, ferendo a sangue le anime di entrambi i suoi ospiti. Il silenzio fu lungo e intenso come una pugnalata non mortale. C’era ancora speranza.

— Non pretendo che tu capisca… — mormorò Ishak, penitente, sembrando accettare la sconfitta.

— Da quanto tempo? — chiese Ibrahim con crudezza, interrompendolo.

Ishak chinò la testa e fece un respiro profondo. — Aksaray. —

Il vecchio Visir serrò la mascella e recuperò il suo bastone. La sedia scricchiolò.

— Ibrahim, — lo chiamò Ishak un istante prima che si alzasse. — Cosa hanno visto i tuoi occhi qui? —

Sulle prime l’altro sembrò non aver inteso la domanda, ma gli inchini, gli omaggi che spontaneamente ciascun membro della Confraternita gli aveva rivolto non potevano non averlo colpito.

— Devozione, — rispose Ibrahim, cauto. — Rispetto. Lealtà. Ho visto il tuo spirito nei loro occhi insieme a qualcosa che temo sarà la vostra stessa rovina. —

— Il sacrificio. —

— Sì, il sacrificio… — il vecchio Visir masticò quelle lettere come se fossero il suo ultimo pasto. — Ammiro molto la tua opera, Ishak. Sei rimasto il grande esempio di virtù che eri destinato a diventare. Ciononostante ti aspetti che mi unisca al tuo complotto contro lo stesso governo di cui faccio parte. Di cui tu stesso hai fatto parte! Non chiedere la mia fiducia, non in questo. —

Il Mentore si protese verso di lui. — Ho pregato giorno e notte perché accettassi quell’invito e le mie preghiere sono state ascoltate. Io non la chiedo, a questo punto io imploro la tua fiducia. —

Un nuovo silenzio s’impossessò dello studiolo.

— Il nome, Ibrahim. —

Bāyezīd-i sānī. —

Ishak lo fissò, ammutolito.

— Alla chiusura dell’ultima riunione nella Sala delle Udienze è stato lui a nominarvi, — spiegò il vecchio Visir. — L’eco quasi leggendaria delle vostre gesta sembra averlo interessato tanto o più della discrezione con cui operate. —

— Non menti, — constatò il Mentore sgranando tanto d’occhi.

— Affatto. —

— Ma non può essere l'unica verità. —

Ishak si alzò e rifletté per dei lunghi minuti, passeggiando avanti e indietro di fronte all'amico, che nel frattempo lesse due volte la preghiera ricamata sul tappeto sotto alla propria sedia.

— Gli altri Visir cosa dicono? — domandò Ishak ad un tratto.

— Non dicono. Il Sultano ha preso la decisione da solo. O almeno, così ci è dato sapere. 

— E Davud? —

— Una tomba. —

— Devo incontrarlo. —

— E in quali vesti? —

Ishak ci pensò un momento. — Entrambe. —

Ibrahim si lasciò sfuggire una risata nervosa. — Eccolo di nuovo, il pazzo che ha sfidato le armate di Vlad Tepes con appena cinquanta Giannizzeri e qualche fante mentre io pescavo veneziani a Limni(Lemno,  Isola del Mar Egeo). Se pensi di poterti guadagnare un’udienza col solo peso del tuo vecchio rango, amico mio… —

— Organizzami un incontro. —

— È già stato fatto. —

Ishak sgranò tanto d'occhi. — Cos… —

In quell'istante una figura entrò nello studiolo come se vi ci fosse stata lanciata di peso, si richiuse la porta alla spalle con un gran baccano e andò ad affiancare il Gran Maestro oltre la scrivania. Fece per chinarsi al suo orecchio, con ancora un accenno di fiatone, ma Ishak la fermò.

— Non ho segreti con quest'uomo. Non più. —

Zuhre esitò giusto un istante, guardando ora il Maestro ora il suo ospite, come se lo avesse notato solo in quel momento.

— Ieri mattina il Divano ha sorteggiato tra i suoi componenti l'incaricato di prendere contatto con gli Assassini, — mormorò, sprofondando nell'ombra del cappuccio. — Ma… —

— Ma avete scoperto che il sorteggio è stato truccato e l'incarico è caduto, guarda caso, sulle mie spalle, — concluse Ibrahim, interrompendola e lanciando alla donna un'occhiata prima di cambiare posizione sulla sedia con una certa fatica.

Lo stupore sul volto del Maestro aumentava visibilmente. — Hai architettato tutto questo dopo aver ricevuto la mia lettera? — chiese appoggiandosi allo schienale.

— Certamente. —

— Perché? —

— Non ho molti rivali in consiglio, — disse Ibrahim con una smorfia, — ma volevo ugualmente la garanzia che al termine di questa seduta tu non dessi loro la soddisfazione di far recapitare al Topkapi la mia testa. —

— Non è tra i nostri usi, — ridacchiò Ishak, trattenendo a stento l'isteria.

— Per vostra fortuna. —

Il tono del Visir si era fatto ora serio e intimidatorio. Ibrahim gettava via, senza pietà, il costume di un vecchio amico per quello di un austero rappresentante imperiale e Ishak, conscio di quel cambio di ruolo, si inarcò sulla poltrona.

— Ora capisco, — disse il Maestro, — se il mio invito avesse nascosto una subdola trappola per toglierti la vita, con la coccarda del Sultano nelle tasche nessuno qui avrebbe osato torcerti un capello. Eppure non ti sei annunciato come uomo di Bayezid, correndo lo stesso questo rischio. —

— Dopo averti riconosciuto, confesso di aver confidato nella nostra amicizia. —

— Resta comunque il fatto che ti sei preso gioco di me da quando hai messo piede nel mio Covo, — sottolineò Ishak con una punta di scherno.

— E tu di me da quando ti conosco, a quanto pare. —

— Potrai mai perdonarmelo? —

— Solo se prometti che quest'alleanza porterà un po' di pace nel cuore del nostro Sultano. — 

Nel silenzio dello studiolo Zuhre s'irrigidì, tradendosi col gesto di stringere i guanti di cuoio.

Ishak, gli occhi incatenati a quelli del Visir, dissimulò con un sorriso la morsa gelida che gli aveva attanagliato lo stomaco.

E il cuore.

— Hai la mia parola. —

 

Yusuf finì di parlare con uno dei due Maestri Assassini che presidiavano l’ingresso della biblioteca bloccandovi l’accesso e andò a sedersi accanto ad Amir con l’aria inquieta. I cuscini erano caldi.

— Il Sultano vuole un’alleanza. — 

— Lo so. —

— Miseria… Allora è vero. Credevo che fossero solo delle voci. —

— E credi che altrimenti il Maestro sarebbe rimasto chiuso nel suo studio un’intera settimana senza smentirle o incaricare nessuno di farlo? —

Yusuf era sempre più scettico. — Ma perché? —

Amir tacque. Con gli occhi alla biblioteca prendeva boccate profonde dal narghilè espirando via il fumo dalle narici, immobile come poteva restare immobile un portaincenso. Yusuf studiò a lungo quella sua fronte appena corrugata, inequivocabilmente massima manifestazione d’inquietudine... Dopodiché prese la seconda pipa fissata all’imboccatura del vaso e cominciò a fumare insieme ad Amir, assumendo senza accorgersene la sua stessa espressione.

L’opinione del Maestro in merito alla richiesta di un’alleanza tra l’Ordine e la Sublime Porta si era fatta desiderare parecchio nelle ultime settimane e quell'ulteriore attesa, senza che nessun Assassino all'infuori del suo secondo al comando ne fosse al corrente, stava mettendo a dura prova la pazienza dei più e di chi, come Yusuf, odiava le attese.

Ibrahim Pasha si era presentato a Galata con un misero preavviso di poche ore e neppure Yusuf e Serdar che avevano composto la squadra di scorta erano riusciti a far pesare il loro rango per ottenere più informazioni sul reale motivo della sua visita, che, nonostante la gran cerimonia d’accoglienza, sembrava trascendere qualsiasi presupposto politico.

Cercando di distrarsi, colse alcune parole della conversazione di un gruppo di Assassini alle sue spalle e non poté far altro che incanalare i propri pensieri in quella direzione.

Zuhre era rientrata all'inizio della settimana da una vittoriosa trasferta in Macedonia, dove l'ultima del più recente ciclo di Code aveva finito i suoi giorni. Tutti e quattro i Maestri impiegati nella missione erano tornati senza un graffio, ma questo perché, con grande sorpresa della Confraternita tutta, la Coda non si era mostrata esageratamente ostile nel ricevere la visita degli Assassini. Molti dettagli della missione erano ancora un mistero e il rapporto stesso non era ancora stato scritto, ma Yusuf dubitava che Zuhre l'avrebbe fatto tanto presto, ora che misteriosamente l'Impero era venuto a bussare alla loro porta, poiché come secondo in comando aveva il dovere di affiancare il Gran Maestro nelle scelte dei prossimi giorni.

Yusuf aggrottò le sopracciglia. Una vaga traccia prendeva forma nella sua mente.

— Pensi che tutta questa storia c'entri qualcosa con la Coda che Zuhre ha ucciso in Macedonia? — chiese ad Amir.

Il siriano scostò appena le labbra dal beccuccio. — È una possibilità. —

Seytan, fratello! Se sai qualcosa dimmelo o impazzisco. —

L’altro si fece una risata nervosa mentre il turco lo fissava crucciato.

— Non sto scherzando. —

— E sarebbe meglio che per un po’ ti dimenticassi come si scherza, Yusuf. —

— Dimmelo, Amir. Dimmi cosa sta succedendo. —

Il siriano si guardò attorno. Kasim e Serdar, riappacificati come due agnellini, avevano unito le forze per risolvere il rompicapo e Sami si era allontanato per aggiornarsi sulle condizioni del Novizio a cui aveva estratto, uno ad uno, i minuscoli frammenti di un proiettile d’archibugio dal polpaccio. Nel complesso l'attenzione generale della sala era scemata considerevolmente.

— Ibrahim e Ishak sono amici da molto tempo, — cominciò Amir con cautela. — Ibrahim ha vegliato il fianco scoperto di Maometto II nella prima Guerra con Venezia mentre il nostro Maestro lasciava il campo occidentale per spedire Vlad l’Impalatore nel regno dei defunti. Ad Aksaray hanno domato assieme una rivolta cittadina sfociata in una sanguinolenta guerriglia tra clan e viaggiato fino alle coste dell'India. Hanno condiviso dolore ed esperienze, vissuto lontani con il corpo ma vicini con lo spirito e la mente. Non è un caso che tra tutti i Visir del Divano, Ishak abbia invitato proprio lui.  

— Un attimo. — Yusuf rabbrividì. — È stato il Maestro a invitarlo? —

Amir annuì. — So che immaginavi il contrario, ma è solo colpa del tuo rango, — spiegò.

— Ah, già: dimenticavo il tuo nuovo completino, — ridacchiò Yusuf alzando un lembo della veste dell'altro.

Amir lo fulminò con un'occhiataccia. — Ibrahim sarà il nostro contatto nel Divano, — continuò. — Almeno finché il Maestro non deciderà di esporsi personalmente. —

— Che cosa?! —

— Hai altresì dimenticato che il nostro Mentore è stato anche Visir? Gran Visir? — sottolineò Amir.

Yusuf rabbrividì. La serata nella taverna dei mercanti di sale tornò vividissima nella sua mente, ma dopo poco si accigliò. — Comunque allearsi con il Sultano non ha senso. Riesumare la Confraternita dalla sua condizione di segretezza non ha senso! È un rischio altissimo e gli Assassini ne hanno fatto a meno per trecento anni. —

— La segretezza è compromessa, ormai, e questo Ishak lo sa bene. — Amir tornò a guardare la biblioteca. — Perciò io credo che lo farà. Accettare l’alleanza, intendo. Potrebbe funzionare. Alleviare le conseguenze e…—

— Eeeeee cosa? — sbottò il turco.

Amir sbuffò un anello di fumo e un attimo dopo si alzò di colpo, prima di riuscire a rispondere, perché vi aveva visto qualcosa attraverso.

I Maestri sull'ingresso della biblioteca si erano fatti da parte e il vecchio Visir era comparso da solo nel salone centrale. In un fruscio di vesti e tintinnio di cinghie tutti i presenti furono in piedi, e chi dalle panche chi dai cuscini, guardarono l'anziano delegato imperiale imboccare la passerella seguito dai due Maestri Assassini,  che lo avrebbero accompagnato fino alla banchina di Galata, dove lo attendevano la sua scorta e il traghettatore fedele alla Confraternita per rientrare al Topkapi.

Nel più totale silenzio, ora assordante, Amir tornò a guardare l'ingresso della biblioteca e Yusuf con lui.

Il dubbio aveva dilagato nei cuori mentre Ishak entrava nel salone col passo di un grosso felino. Le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo che scorreva i loro giovani e giovanissimi volti dilaniati dalla tensione di quel momento, di quell'attesa che si era protratta fino all'assurdo. Zuhre era la sua ombra ed entrambi avevano un’espressione indecifrabile piena di stanchezza, come se invece di una pacifica conversazione, nello studiolo si fosse tenuto un incontro di lotta.

Per dei minuti eterni Ishak vagò nella stanza, tirando giocosamente il becco del cappuccio ad un Apprendista e stringendo qualche spalla. Quando passò accanto al loro gruppo, portando con sé gli occhi di tutti i presenti, Yusuf deglutì rumorosamente e a Kasim scappò un risolino isterico. Amir era una statua e il Mentore lo fissò per un lungo momento, prima di tornare sui propri passi. Alla fine trovò la sua meta al centro esatto del grande salone e sciogliendo le mani comunicò il verdetto.

— Avremo udienza con il Divano domani dopo l’Asr(preghiera del pomeriggio). Per stanotte i turni di guardia saranno raddoppiati. So che molte domande affollano le vostre menti, ma pazientate e ne usciremo indenni, ve lo prometto. —

Tornò nella biblioteca e nessuno lo rivide fino a sera.

 

Quando fu nei pressi del porto, Ibrahim Pasha fermò la sua scorta che gli era corsa incontro dalle banchine e si voltò a guardare i tetti delle case che si era appena lasciato alle spalle.

I suoi vecchi occhi non lo tradirono.

S'inchinò in direzione di qualcosa che solo lui aveva visto e i Giannizzeri si scambiarono un'occhiata perplessa.

— Onorevole Ibrahim, abbiamo tardato anche troppo, — disse uno. — Sfideremo la collera di Bayezid tardando ancora. —

— Non è il Sultano che temo, — mormorò cupo il Visir riprendendo il cammino verso la banchina.

— E neanche gli Assassini. —

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22: Allo scoperto ***


















uell’assolato pomeriggio la cupola del Divano situato nel secondo cortile, accanto alle mura occidentali del Topkapi, sarebbe stata testimone di una riunione fuori dall’ordinario.

 Una falsa calma brezza invernale scuoteva le palme e i ciliegi del birun(cortile), arrivando in spifferi gelati alle caviglie dei soldati di guardia, gli unici abilitati al possesso delle armi in quella zona del palazzo, e risalendo loro la spina dorsale. La Salat al-Asr(preghiera del pomeriggio) si era da poco conclusa nell’edificio comune e adesso molti, se non tutti i consueti frequentatori e politicanti, sedevano comodi sul divano rivestito di velluto rosso che correva lungo le pareti, scambiandosi gli ultimi disperati appelli in vista di un futuro incerto, scosceso come un tortuoso pendio.

L’inquietudine divorava i loro volti.

— Ho letto che prima di ucciderle, somministrano alle vittime una sostanza che le obbliga a dire solo la verità. —

— Non agiscono mai sotto la luna piena e le loro donne non hanno il mestruo. —

— Aspetta… ci sono donne? —

— Se le voci sono vere, possono volare e arrampicarsi come i ragni. —

— Le donne? —

— No, anche gli uomini. —

— Per Allah… —

— Già, ma la cosa più incredibile… —

Il groviglio di voci cessò e il grande salone delle udienze fu invaso dal silenzio.

Il Gran Visir Davud Pasha, un pilastro sotto l’arco d’ingresso, inquisì i presenti e la sala intera da sotto il suo turbante di seta bianca finché, quasi con delusione, domandò: — Loro dove sono? —

Dal fondo si elevò la figura di un uomo vestito di verde e porpora con un turbante arancio chiaro. Socchiudendo un po’ gli occhi, come per stanchezza, disse: — Non sono ancora arrivati, effendi, ma già che sei qui il Consiglio vorrebbe discutere alcuni dettagli con te, prima dell’arrivo dei nostri ospiti. —

Per un istante Davud sembrò gonfiarsi per la collera, ma entrò in sala senza dire nulla, attraversandola con calma mentre dietro di lui, come tante formiche disciplinate, una carrellata di Giannizzeri si disponeva rapidamente lungo le pareti, sommandosi ai soldati già presenti. Poi le porte furono chiuse.

— Ditemi. —

Quando Davud Pasha si fu accomodato accanto al capo dei Giannizzeri, dal gruppo degli ulema, i sapienti, si alzò un uomo anzianissimo con una coppia di folti baffi bianchi. Non appena lo riconobbe, Davud si sciolse tra i cuscini e alzò gli occhi al cielo con un sospiro, sperando che quella volta la morte cogliesse almeno uno dei due prima che cominciassero a sanguinargli le orecchie come l'ultima volta che Lemi il Siriano aveva preso parola.

Sadrazam! — cominciò il vecchio dandosi un tono solenne. — Servo il mio Sultano da quando ne ho memoria e penso di parlare a nome dell'intero Consiglio confessandoti il mio timore più grande riguardo a questa faccenda! —

Mentre questi si pronunciava, le porte del salone si aprirono senza rumore per lasciar passare quelli che con la coda dell’occhio parevano il reis efendi(capo degli scribi) e il suo seguito di amministrazione. Poiché la riunione ufficiale per cui l'etichetta li vedeva altrove doveva ancora iniziare, nessuno vi badò e il sapiente continuò il suo discorso.

— … io temo per la vita del nostro Sultano, Sadrazam, come per la mia. Ospitare dei sicari del Diavolo sotto questa cupola sarebbe un affronto a Dio oltre che un incontenibile pericolo per ognuno di noi! —

— Guardati attorno, Lemi bey, — intervenne una voce estranea, allegra ma allo stesso tempo tuonante, che scosse l’intero salone. — Ho portato un numero di uomini pari a neanche la metà dei Giannizzeri che ti circondano ora e credi che avrei il coraggio di sguainare le armi? Neppure ne posseggo. —

Davud si rizzò tra i cuscini come una molla quando il capo dei Giannizzeri al suo fianco sguainò il kijil all’improvviso. — Assassini! — gridò l'armigero.

Al suono di quella parola si sollevò un’ovazione e solo allora anche il resto dei Consiglieri sembrò accorgersi degli otto cappucci bianchi sparsi nella folla. Politici e funzionari presero subito le distanze, lasciando passare i Giannizzeri che circondarono la minaccia a kijil sguainati, ma gli Assassini non mossero un dito, rimanendo con la testa bassa e l’ombra del cappuccio sul volto, rendendo impossibile, nella confusione generale, distinguere chi di loro stesse parlando.

Nel frattempo Davud si era alzato, e come tutti aveva cercato di mettere più terreno possibile tra sé e i loro nuovi ospiti, ma a differenza degli altri Visir si muoveva con una lentezza quasi surreale, come se stesse galleggiando in una dimensione del tempo che non gli apparteneva, mentre il cuore gli rimbombava in gola… Quando sentì i raggi del sole battergli sulle spalle attraverso la grande vetrata seppe di non poter andare oltre e, istintivamente come per cercavi aiuto, gettò un'occhiata alla grata ricavata nella parete occidentale della sala, dietro alla quale si celava la stanza segreta da dove il Sultano assisteva, quando ne sentiva la necessità e in segreto, alle sedute del Divano. Anche come Gran Visir non avrebbe dovuto esserne al corrente, l'esistenza di quella stanza era dominio della famiglia reale e di nessun altro, eppure lo aveva scoperto e adesso si domandava se, giunti gli Assassini, oltretutto senza preavviso, Bayezid si trovasse effettivamente lì a osservare le sue mosse…

Scacciò bruscamente quei pensieri, distogliendo lo sguardo dalla grata, e richiamò l'ordine con un ruggito che scavalcò tutti i mormorii, le grida, i sussulti. Ottenne un silenzio immediato e gli occhi di tutti si puntarono su di lui. I suoi, ancora grandi per lo stupore, sembravano cercare una in particolare tra le facce che gli si negavano così ostinatamente, coperte dai cappucci bianchi… e allora gettò la sua esca, dicendo: — Se gli usi del nostro Consiglio vi sono nuovi, lasciatevelo dire, Assassini: avreste dovuto farvi annunciare prima di mostrarvi al nostro cospetto. —

— Mi duole contraddirlo, ma il Sadrazam si sbaglia, — fu la risposta.

Poi una delle figure, la più grossa di stazza tra quelle sparse nella sala, si calò il cappuccio sulle spalle.

— Perché conosco benissimo gli usi di questo Consiglio. —

La reazione fu devastante.

— Traditore! —

— Maledetto! —

— Che Allah ti condanni, sporco Yunan(greco)! —

Ishak Pasha sosteneva lo sguardo pallido di Davud attraverso la sala, scavalcando i volti inferociti dei Visir che inveivano come galline disturbate durante la cova. Ibrahim, in mezzo a loro, era l’unico a fissarlo con le labbra serrate. I pugni chiusi in grembo con forzata compostezza, perché in realtà avrebbe voluto sciogliersi sui tappeti come della neve al sole per poi scomparire. Era solo questione di tempo prima che le stesse accuse che Ishak si faceva scorrere addosso senza piegarsi ricadessero anche su di lui. Lui, Ibrahim Pasha, che si era offerto volontario per portare il volere di Bayezid nel cuore della Confraternita degli Assassini e che al suo ritorno aveva tenuto nascosta la verità sull'identità del loro Mentore al Divano intero.

Al Sultano.

A Dio.

Davud conquistò il silenzio con una muta alzata di mano. Il volto, una maschera di marmo, dura, senza espressione.

— È vero che non hai armi con te? — chiese semplicemente senza staccare gli occhi dai suoi.

Ishak forzò un sorriso. — Puoi ordinare di perquisirci, se lo desideri; ma penso che questa riunione sia destinata a protrarsi già abbastanza senza che vi si aggiungano anche certe ridicolezze. Come ho detto, non siamo venuti per nuocere. —

— Lo so bene perché sei qui, Yunan. Il Sultano in persona ha voluto quest'incontro e ora io sono il suo portavoce, — disse Davud, cauto. — Ma non si è mai troppo prudenti. — Quindi allargò le braccia rivoltando i palmi delle mani all'insù e quello fu l'ordine dato ai suoi Giannizzeri di perquisire gli Assassini.

 

Yusuf si era sentito toccare in ogni dove senza limiti di decenza e alla fine non poté che tirare un sospiro di sollievo nel ricordare che Ishak aveva composto la propria squadra di scorta appositamente al maschile, o le conseguenze sarebbero state catastrofiche.

— La parità tra sessi è uno dei nostri principi più validi, ma al cospetto del Divano sarebbe meglio assecondare qualcuna delle loro usanze. Almeno finché non condivideremo la loro Cupola non più come Assassini, ma come servitori del Sultano. —

Servitori? — aveva obiettato Zuhre. — Non stiamo barattando mille anni di libero arbitrio per una cuccia calda, Ishak, e devi metterglielo in testa. —

— Ovvio che non è mia intenzione venderci come mercenari qualunque alla Sublime Porta, ma non ci offriranno un titolo migliore, te lo garantisco. —

Poi Maestro e Assassini erano partiti, lasciando il Covo nelle mani attente di Zuhre.

 

I pensieri lo avevano trascinato lontano dalla riva e quando Yusuf si ritrovò nella confusione del salone capì di essersi perso qualche passaggio importante che avrebbe estorto volentieri ad Amir quella sera stessa.

— È quello che dice la gente! — gridò qualcuno. — La Confraternita degli Assassini è tornata a macchiare le nostre strade di sangue e… —

— La gente dice tante sciocchezze, — ribatté Ishak, interrompendolo prima che fosse troppo tardi per togliere quella parola anche dai tappeti. — Mi sorprende che il Divano abbia deciso di credere proprio a questa. —

La voce del Maestro si diluì e poi estinse in un'eco di disappunto, che andava diffondendosi tra i consiglieri di Bayezid come un vespaio.

— Cosa stai insinuando, Yunan? — domandò un vecchio, alzandosi da un gruppo di anziani per fronteggiarlo. — Che l'Impero e i suoi governanti siano degli sciocchi ignoranti incapaci di distinguere la menzogna dalla verità? —

— No, Alim Bey, o avendone fatto parte, a suo tempo, dovrei considerarmi altrettanto. —

Qualcuno rise.

— Allora cosa vai predicando? — chiese una voce nuova, limpida, relativamente giovane in quel corteo di tartarughe imbellettate d'oro e di seta.

Ishak fece un respiro profondo e si inumidì le labbra. — Il nostro Ordine ha vissuto indisturbato e nella segretezza per quasi trecento anni. Adesso improvvisamente, dal giorno alla notte, metà Istanbul parla di noi. Vi invito a riflettere su questo, fratelli. —

— Non hai il diritto di chiamarci fratelli! — esplose un molla(categoria dei "maestri", detentori di alte cariche) dalla sua poltrona di cuscini. — Tu non sei più un membro di questo Consiglio! O forse dovrei dire che non lo sei mai stato? —

— Adesso basta. —

Ancora una volta Davud restituì il silenzio.

— Ma, effendi, Tarik Bey ha sollevato una questione interessante e… — obiettò qualcuno, ma il Gran Visir mimò di tagliarsi la lingua e quello, in un angolo della sala, chinò la testa e non parlò più.

— Niente di tutto ciò è realmente d'interesse per questo Consiglio, che non riesco a capire cosa creda di ottenere, — cominciò Davud a gran voce. — Fratelli, condivido il vostro sconcerto nell'apprendere questa… verità, ma se qualcuno dei presenti pensa davvero di potersi elevare al di sopra delle sue gesta e condannare Ishak Pasha per tradimento, parli ora e con chiarezza senza farci perdere altro tempo! —

Era furibondo e nessuno osò sfidare ancora la sua collera.

— Bene. E adesso le condizioni per l'accordo. —

 

Nel suntuoso birun esterno il sole cominciava ad abbassarsi sull'occidente, tingendo d'arancio le palme, i bei cespugli e le cotte dei Giannizzeri che, come statue, presidiavano il perimetro. Un po' di quella luce filtrava nel salone del Divano, sfiorando i disegni sulla grande cupola arabescata, che brillava come una perla cambiando colore a sua volta.

Yusuf inclinò oltremodo la testa, nascondendosi meglio nel cappuccio mentre cercava invano di reprimere l'ennesimo sbadiglio.

Avevano trascorso già due lunghe ore sotto quella maledetta Cupola, la cui imponenza non faceva più lo stesso effetto di quando era entrato e anzi sembrava soffocarlo, dando l'impressione che la stanza si stesse gradualmente restringendo. Tutti quei turbanti setosi, le piume decorative e i gioielli cominciavano a fargli girare la testa mentre perdeva la capacità di distinguere una voce dall'altra. Lanciò un'occhiata attraverso la folla ad Amir, che insieme ad un altro Maestro Assassino e come un'ombra, aveva seguito il Mentore fin nel centro del salone, al cospetto perfettamente simmetrico del Gran Visir. Da lì Ishak Pasha aveva tenuto un breve colloquio quasi privato con il Sadrazam, mentre il capo dei Giannizzeri, stretto al suo fianco, aveva rinfoderato il kijil. In lui come nel resto dei presenti ogni sentimento di avversità verso i loro ospiti sembrava essersi sopito, dopo il brusco intervento di Davud che aveva messo a tacere anche il più piccolo guaito in quella cagnara, ma aveva ancora la mano poggiata sull'elsa dell'arma. O meglio, le dita quasi arpionate su di essa.

Yusuf aveva cominciato a fissare il capo dei Giannizzeri con insistenza perché aveva come l'impressione di conoscerlo… ma quando Davud Pasha girò appena il capo trovandosi perfettamente sulla linea del suo sguardo, se ne accorse troppo tardi e non fece nulla per sfuggirvi. Lentamente l'espressione di Davud mutò, passando dallo sconcerto al nero livore in pochi secondi, come offeso da quell'impertinenza tutt'altro che consapevole, finché Amir, voltandosi con un sopracciglio sollevato, non seguì quella linea. Il siriano vi si intromise con prepotenza per scoccargli un'occhiata di rimprovero e Yusuf abbassò di nuovo la testa.

In quel momento Ishak, con l'umiltà di un comune sottoposto, si fece da parte per lasciarlo passare e il Gran Visir avanzò per parlare alla sala.

Fu un discorso lungo e cerimonioso che iniettò nei cuori dei presenti le emozioni più diverse; emozioni che trasudavano chiaramente da ogni centimetro della loro pelle e che le si sarebbe potute raccogliere in una damigiana, per poi berne una miscela salata di paura, rancore, dubbio…

Quasi all'unanimità il Divan - i Hümayun temeva quell'alleanza più dell'Apocalisse, ma se non aveva alzato la propria voce era per via di un terrore più concreto, un terrore che paralizzava cuore e mente come un veleno: il terrore di sfidare la collera di Bayezid, che voleva quell'alleanza.

E perciò la collera di Dio.

 

"… diritto di oltrepassare il Corno d'Oro, diritto di acquistare articoli da guerra, diritto di…" un attimo… non credo ai miei occhi! "Diritto di libero scambio."  Libero scambio?! Ma cosa credeva che facessimo fino a ieri? Che assaltassimo i convogli?! —

Zuhre lanciò la copia del contratto sulla scrivania e quello si arrotolò malamente su se stesso.

— Che orribile farsa! — disse, sprezzante.  — Non so tu, vecchio mio, ma io non sopporto di essere presa in giro in questo modo. Dove sono il diritto di camminare sui tetti, il diritto di vestire cappucci, il diritto di immunità? Ishak, dov'è la nostra maledetta immunità?! —

L'improvviso pugno sul tavolo la fece sobbalzare, e Zuhre, per la prima volta da quando erano rientrati, in silenzio e rigida come un sasso, si portò indietro sullo schienale della sedia, mentre una pila di carte scivolava a terra trascinando con sé la pergamena dell'alleanza.

Il Gran Maestro fissava un punto indistinto sul legno ora scoperto della scrivania; la fronte aggrottata piena di rughe, i muscoli tesi fino allo spasimo. Le tempie gli pulsavano senza tregua da quella mattina e metà delle energie le aveva spese per reprimere il fastidio. Ora, al concludersi di una giornata come quella, di energie ne aveva ben poche e il dolore lo aveva reso insofferente. Era colpa della sua età, ne era perfettamente consapevole, ma non poteva farci nulla. Quando, dopo un tempo infinito, sentì il fischio nella sua testa abbassarsi di volume ritrasse il braccio dal tavolo e nascose il pugno in grembo, i suoi occhi erano lucidi come dopo un pianto, ma a quel punto nello studiolo non c'era più nessuno.

Si era abbandonato sulla poltrona a massaggiarsi le tempie quando sentì bussare.

— Avanti. —

Amir entrò e si richiuse la porta alle spalle senza rumore, e senza rumore si chinò a raccogliere la copia del contratto che aveva rischiato di calpestare. Tenendola tra le mani come una reliquia si chiese quale circostanza di eventi poteva averla fatta arrivare in terra e già così presto; ne rilesse alcuni passi con un sorriso trionfante e solo più tardi si accorse che il Maestro lo fissava.

— Zuhre che ne pensa? — chiese il siriano con tono di voce appena sufficiente a farsi sentire.

Ishak non rispose subito, indugiando di nuovo sul legno del tavolo.

— Teme per la mia vita. E per quella di tutti noi. —

— No, — obiettò il ragazzo, scuotendo la testa e agitando la pergamena come per risvegliarla. — Abbiamo questa, adesso, e anche se non c'è scritto a chiare lettere il Sultano non permetterà che ci venga torto un capello. —

— È qui che ti sbagli, — colpì secco Ishak, protendendosi sul tavolo. — Quest'alleanza si basa sulla paura, e anche se non c'è scritto a chiare lettere, — recitò le sue parole, — il Sultano ne ha più di tutto il suo seguito messo insieme. Non può ammetterlo, ma è così. Come un animale impaurito è pronto a mordere per difendersi, senza scommesse, e lo farà prima di noi se solo vedrà un cappuccio bianco aggirarsi troppo vicino al suo balcone. Come se non bastasse metà del Divano mi odia e Ibrahim rischia di perdere come minimo la sua carica politica se non la testa, a causa mia… —

Dopo un lungo silenzio Amir fece per replicare, ma d'un tratto Ishak si alzò, scostando rumorosamente la poltrona, lo fissò dritto negli occhi e puntò un dito verso l'uscita.

— Quando varcherai quella soglia avrai un compito: rassicurare i tuoi fratelli che l'incontro al Topkapi è volto a nostro favore, che nessun askeri(categoria dei militari) taglierà loro la gola durante il turno di guardia e che il Terzo Principio è stato protetto a dovere: non sfideremo la paura di qualcun altro senza prima aver domato la nostra… E rimandami indietro quella donna: abbiamo molto altro lavoro da fare. —

— Tutto ciò avrà delle conseguenze, Maestro. —

— Non osare, ragazzo! — Per la seconda volta Ishak batté il pugno sul tavolo e si sorprese a provare un dolore che in qualche modo tentò di reprimere, fallendo miseramente col gesto di stringere la mano fino ad arrossare ulteriormente le nocche.

E per la seconda volta si ritrovò solo e abbandonato sulla poltrona.

 

 

 

 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23: Servire la luce ***


— Tu non sei nata a Istanbul, vero Ràhel? — domandò Ezio. — L’ho immaginato dal tuo accento, ma non riesco a ricordare dove l’ho già sentito. —

— E’ vero, Mentore, non sono di qui. Se non ho perso il mio accento in quindici anni, penso che non lo perderò mai più. —

Ràhel sospirò.

— E credo anche di sapere dove l’hai sentito. —

 

 

Istanbul

Rajab 902

(Marzo 1497)

 










a gente per strada si affrettava verso casa, e quando un altro lampo attraversò la stretta porzione di cielo scuro tra gli edifici, Ràhel riuscì appena a contare fino a quattro prima che il tuono facesse vibrare l’aria. Il temporale si stava avvicinando rapidamente e la ragazza abbandonò la speranza di arrivare asciutta a destinazione, anche se, secondo le informazioni che aveva, non mancava molto. Fu ai piedi della Torre di Galata che un torrente di pioggia si rovesciò dal cielo. Le poche persone rimaste all’aperto si misero a correre in cerca di riparo, ma Ràhel non cambiò il suo passo, il pensiero rivolto alla corda della balestra che portava sotto il mantello da viaggio di lana grezza e a quanto l’umidità ne avrebbe alterato l’efficienza.

Quando giunse davanti al cortile che le avevano descritto, pioveva, se possibile, ancora più forte. La luce delle lampade sembrava farsi strada a fatica in mezzo a quel diluvio e alle ombre della sera, e il rumore della pioggia quasi sovrastava il clangore di incudine e martello proveniente dalla vicina bottega di un fabbro.

I sensi dai Ràhel si fecero più attenti, inducendola a sfiorare con la mano l’impugnatura della katara, quando una figura avvolta in un mantello simile al suo parve materializzarsi poco lontano da lei, sulla sinistra.

— Chi sei? — chiese la figura.

— Rahel lui Ciprian (Rahel (figlia) di Ciprian) — rispose lei senza esitare.

— Servo la luce in Valacchia. — aggiunse nel suo turco un poco incerto.

— Un lungo viaggio, Sorella. Perché sei qui? —

— Ho urgenza di parlare con il Maestro Ishak, Fratello. —

Il silenzio dell’altro sembrava invitarla a proseguire.

— Devo riferire le notizie che porto a lui personalmente. —

Lui sembrò valutare per un paio d’attimi la sua risposta e poi emise un fischio acuto, e un’altra figura incappucciata uscì dalle ombre al suo fianco. Ràhel si accorse di stringere più forte l’impugnatura dell’arma, anche se nessuna tensione sembrava provenire dai due uomini di fronte a lei. Si costrinse ad allentare la presa.

— Vieni. — disse il primo Assassino. — Non è proprio la serata adatta a continuare coi convenevoli qua fuori. —

Un riquadro di luce ambrata comparve sul muro quando una porta appena distinguibile si aprì su un’anticamera che spariva oltre una rampa di scale in discesa.

Il confratello le fece cenno di entrare e poi la seguì abbassandosi il cappuccio. Era un uomo sulla trentina, con una corta barba scura, una cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra e una fascia colorata che gli cingeva la fronte tenendo a stento a bada i capelli umidi e neri. Gli occhi chiari, sotto le folte sopracciglia, la fissavano con curiosità.

— Sono Yusuf Tazim. — disse. — Servo la luce nella bella Istanbul. —

Ràhel abbassò a sua volta il cappuccio gocciolante e non riuscì a non rivolgergli un sorriso incerto. Avrebbe voluto mantenere sul suo viso un’espressione simile a quella di un muro di pietra, ma quella faccia era troppo aperta ed amichevole per permetterle di tener fede a quel proposito.

— Accomodati. — continuò lui scendendo le scale.

— Il Maestro è sepolto da ore nel suo studio. Manderò a vedere se può riceverti subito. —

I loro passi echeggiavano sull’alto soffitto da cui pendevano stendardi col simbolo dell’Ordine, mentre percorrevano la passerella di legno fino alla sala principale. Ràhel non poté fare a meno di paragonare l’opulenza dei tappeti che ricoprivano quasi tutto il pavimento con il gelido rigore della sua Sede in patria. I grandi camini accesi riscaldavano l’ambiente e Ràhel si avvicinò al fuoco togliendosi il mantello. Si guardò intorno in cerca di un posto dove appoggiarlo senza che sgocciolasse sugli intricati disegni di lana colorata. Yusuf glielo prese prontamente di mano e lo appese ad un gancio accanto al camino, poi si rivolse a uno sparuto giovane Apprendista e gli ordinò di andare a riferire al Maestro che avevano una visita dalla Valacchia.

— Non si farà un sol boccone di te. — disse di fronte all’espressione timorosa del ragazzo.

— Probabilmente sta solo aspettando qualcuno che lo salvi dalle carte. —

Quello annuì, e si avviò con passo lento, mentre Yusuf distribuiva ordini agli altri Apprendisti presenti facendo comparire asciugamani, una tazza di caffé bollente e un paio di babbucce morbide.

Ràhel lo ringraziò, un po’ sorpresa da quell’accoglienza, si sfilò la balestra dalle spalle e la posò sul tavolo, poi si accomodò su una sedia e dopo aver lottato con gli stivali fradici, mise i piedi nelle babbucce calde e meravigliosamente asciutte.

— Un’arma di pregevole fattura. — sentenziò Yusuf, gli occhi ammirati sulla balestra.             — Leggera e maneggevole. Che tipo di dardi preferisci? —

— Quadrelli in legno con punta in metallo. — rispose Ràhel prendendone uno dalla faretra agganciata alla cintura e porgendoglielo.

— Quest’impennatura tinta di porpora è usuale in Valacchia o è solo una piccola concessione alla tua vanità? —

Ràhel si irrigidì per un attimo a quella domanda, ma si accorse dall’espressione di Yusuf che non c’era alcun intento polemico nelle sue parole, solo semplice curiosità e voglia di scherzare in modo amichevole.

— Tu mi parli di vanità? — chiese mantenendo lo stesso tono ironico e indicando con un gesto l’ambiente circostante.

Yusuf rise.

— E comunque quell’impennatura è il mio segno distintivo. — continuò lei. — Puoi chiamarla vanità, se vuoi. —

Un rumore di passi decisi li interruppe e Ishak Pasha fece il suo ingresso nella sala con un cipiglio severo. Bastava il suo carisma a identificarlo come il Maestro. Ràhel saltò in piedi e un attimo dopo piegò un ginocchio a terra e abbassò la testa in segno di deferenza.

— Alzati. — ordinò la voce di Ishak, ma quando Rahel obbedì e sollevò lo sguardo verso di lui, credette di scorgere un lieve sorriso.

— Salute e pace, Maestro. Sono Ràhel lui Ciprian, servo la luce in Valacchia. —

— Benvenuta. —

— Ti chiedo perdono per averti disturbato senza alcun preavviso, ma mi sono trovata nella condizione di dover partire in fretta e… senza informare la mia Sede. — disse Ràhel incespicando un po’ sulle parole.

Un brusio si diffuse tra gli apprendisti e Yusuf aggrottò le sopracciglia. La parvenza di sorriso era del tutto scomparsa dal volto di Ishak.

— Andiamo nel mio studio. — disse il Maestro. — Yusuf, trova Zuhre, chiama Amir e fallo sostituire, poi raggiungeteci. Vieni, Ràhel. —

Yusuf scattò verso l’uscita, mentre Ràhel seguiva il Maestro allontanandosi dai borbottii della sala.

Lo studio era piccolo e accogliente e la carta la faceva da padrona: libri, mappe e documenti erano ovunque, in pile disordinate e dall’equilibrio precario.

Ishak spostò da una sedia un fascio di fogli e le fece cenno di accomodarsi. Lei si sedette rigida e si sottopose non senza qualche ansia all’esame di quegli occhi duri e penetranti, ripetendo dentro di sé il discorso che aveva cercato di prepararsi durante il viaggio e che continuava a cambiare nella sua mente. Si accorse di avere le mani sudate. E la balestra era rimasta nella sala.

Quando Yusuf entrò nello studio seguito da un altro Assassino dal viso affilato e gli occhi attenti, e da una donna sulla quarantina dall’aria dura e materna allo stesso tempo, la ragazza aveva cambiato la sua frase introduttiva almeno una decina di volte.

— Amir, Zuhre, questa è Ràhel, dalla Valacchia. — disse Ishak.

— Salute e pace, Sorella. — Amir accompagnò le sue parole con un lieve cenno del capo.

— Benvenuta a Istanbul, Ràhel. — disse Zuhre con un breve sorriso.

— Salute e pace a voi. —

Ràhel si era di nuovo alzata, ma si sedette subito quando vide tutti gli altri sgombrare le sedie dai loro fardelli per accomodarsi senza tante formalità.

— Dunque cosa ti porta a farci visita in segreto? — esordì il Maestro, di certo non era uno da girare intorno agli argomenti.

La ragazza sentì una goccia di sudore rotolarle lungo la schiena.

— Mio fratello maggiore, Vali. Non ne ho notizie da circa un mese. —

— E qualcosa ti porta a credere che possa trovarsi qui? —

— Lo temo. —

Gli occhi di Ishak si fecero ancora più acuti, le labbra strette in una linea dura.

— Che cosa temi di preciso? —

— Che abbia tradito il Credo. E che possa essere una minaccia per tutti voi. —

Il silenzio calò nello studio come una cappa gelida. Aver pronunciato finalmente quelle parole a voce alta le faceva rombare il sangue nelle orecchie e allo stesso tempo le alleggeriva il cervello e le appesantiva il cuore. Girò lo sguardo sui presenti tormentando l’orlo della veste: il viso del Maestro mostrava la stessa emozione di un blocco di granito, Amir ostentava un’espressione quasi altrettanto impassibile, ma un muscolo si contraeva sulla sua guancia, mentre Yusuf si accarezzava la barba con negli occhi qualcosa di molto simile a un rabbioso sconcerto. In quelli di Zuhre c’era lo sguardo di una lupa che fiuta i cacciatori vicino alla tana dei suoi cuccioli.

— Avevo il timore che i nostri accordi con la Sublime Porta  avrebbero potuto portare qualche ripercussione. — sospirò Ishak.

— Il nostro Credo ha solo tre regole e il nostro fine ultimo dovrebbe andare al di là delle differenze nazionali e politiche, considerando l’umanità come un unico popolo. La libera scelta che è il centro di tutto quello in cui crediamo ci spiana la strada, ma altrettante volte ce la ostacola. In molti di noi convivono due anime che spesso è difficile conciliare, quella dell’Assassino e quella dell’uomo, con le sue origini, i suoi retaggi e le sue esperienze. —

Ràhel ascoltava in silenzio le parole che il Maestro sembrava rivolgere a sé stesso più che a lei.

— La Valacchia è una terra travagliata, insanguinata dalle rivolte contro gli Ottomani di cui è tributaria da anni e dalle lotte intestine per il titolo di Voivoda. Io lo so bene. Se pensi che tuo fratello possa essere una minaccia per noi è evidente che hai già immaginato quale anima possa aver vinto la guerra nel suo cuore. —

Ràhel abbassò gli occhi sulla veste ormai stropicciata.

— Vali… mi ha cresciuta. — sussurrò. — Quando i nostri genitori sono morti ero appena nata e lui aveva dodici anni. Non abbiamo mai vissuto la miseria perchè le nostre origini ci garantivano una rendita e delle terre. Lui… è stato tutta la mia famiglia fino a quando si è unito alla Confraternita e in questo modo me ne ha dato anche un’altra. Avevo otto anni. —

Con uno sforzo immenso di volontà, costrinse la sua voce a non tremare.

— La vita nell’Ordine è stata l’unica che ho conosciuto. Per Vali non è stato così, solo ora me ne rendo conto. Credo che l’Ordine per lui sia stato il tentativo di trovare uno scopo che mettesse in ombra, come hai detto tu, Maestro, la lotta che aveva dentro. Per dieci anni ha servito la Confraternita facendosi onore. Poi è arrivata la notizia degli accordi che ha creato non poco scompiglio. Ci sono state discussioni, ma la consapevolezza di perseguire un fine superiore ha pacificato gli animi. Non devi dubitare della nostra lealtà, Maestro. —

Un lampo d’orgoglio passò nei suoi occhi.

— Ma Vali…— continuò mentre quel lampo svaniva velocemente come era comparso.

— … non ha fatto neanche un commento. La Confraternita Ottomana si alleava con gli oppressori della sua terra e lui è rimasto in silenzio. Un po’ mi ha sorpreso, ma il sollievo è stato più forte. Io non ho capito, ero la persona più vicina a lui, sua sorella, e non ho capito… è partito in missione e dopo aver mandato notizie di averla portata a termine non è tornato. Ho aspettato, con il presentimento che non l’avrei più rivisto, con dubbi e pensieri di cui mi sono vergognata al punto di costringermi a soffocarli, e invece hanno continuato a crescere e con loro l’orrore per quello che credevo potesse fare. La Sede lo sta ancora aspettando, ma io… non ho potuto continuare a farlo. —

Ràhel si sentiva stanca, e svuotata, come quando si dà di stomaco per un’intera notte. Aveva la nausea dei suoi pensieri, ma non poteva impedirsi di dar loro ascolto. Puntò gli occhi in quelli del Maestro Ishak.

— E’ vero, credo di sapere quale anima abbia vinto in lui. Temo che Vali cerchi vendetta contro gli Ottomani e contro gli stessi Assassini. È solo un mio sospetto, e mi auguro con tutto il cuore di sbagliare. Non ho osato informare la mia Sede perchè non voglio infangare il suo nome prima di avere delle prove, ma informo te, Maestro, perché se dovessi avere ragione, spero che tu possa aiutarmi a trovarlo, e a fermarlo. —

Ishak Pasha parve soppesare a lungo le sue parole, mentre la maschera d’impassibilità di Amir si era incrinata, Yusuf faceva scattare e rientrare la lama celata in modo ossessivo e Zuhre la fissava con un’ombra di compassione negli occhi da lupa. La tensione nell’aria si era fatta palpabile e Ràhel si trovò a domandarsi se quella sua decisione non avrebbe condotto ad un inevitabile disastro.

— Ti ringrazio di avermi informato. Penso che tu abbia fatto la scelta giusta. — disse Ishak.

— Ti  aiuteremo, e puoi restare, ma tra un po’ di tempo dovrai permettermi di dare notizie di te alla tua Sede. —

Permettermi? Ha detto permettermi? Quasi non poteva credere al fatto che quell’uomo potesse anche solo pensare di consultarla prima di fare qualsiasi cosa.

— Grazie, Maestro. —

— Qual è il tuo rango, Ràhel? —

— Apprendista di nono livello, Maestro. —

— Quanti anni hai? —

— Diciotto. —

— Specialità? —

— Balestra, Maestro. —

— Bene, considerati ai miei ordini da ora. Amir, trovale un posto nella camerata delle Apprendiste. Yusuf, mostrale il Covo. Zuhre, rimani. Potete andare. —

Ràhel scattò in piedi come una molla, e si accodò ai due Assassini che già si avviavano fuori dallo studio. La personalità del Maestro l’aveva colpita profondamente e si chiese, dopo essersi voltata per un attimo indietro a guardarlo, quale delle sue due anime avesse conosciuto.

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24: Sguardi ***


Istanbul,

Chawwâl 902

(Giugno 1497)

 

 










ella sala delle armi l’unico suono era il confortante stridere della cote sull’acciaio.

Yusuf provò con il pollice il filo del kijil e trovandolo soddisfacente, posò la pietra sul pavimento e si stirò, allungandosi sul tappeto. Era stato talmente assorbito nell’affilatura da non accorgersi di non essere più solo in mezzo alle rastrelliere. Ràhel  era seduta a gambe incrociate su un cuscino poco lontano da lui e stava smontando la corda della balestra. Si era raccolta i capelli infilandoci un quadrello spuntato e il colore acceso dell’impennatura faceva bella mostra di sé sui riccioli scuri.

Nella sua mente, Yusuf si immaginò mentre sfilava quel fermaglio improvvisato e si domandò come sarebbe stato affondare le dita in quella massa intricata.

Sospirando, riprese la pietra e diede un’altra passata al filo già perfetto del kijil. Se voleva restare a guardare la ragazza ancora per un po’, doveva inventarsi in fretta qualcosa da fare, o lei si sarebbe accorta del silenzio. Allineò sul pavimento tutti i suoi pugnali da lancio e riprese il lavoro di affilatura, gettandole ogni tanto degli sguardi fugaci.

Notò che piccole rughe le si formavano sulla fronte mentre osservava con attenzione i fili ritorti di canapa e ne saggiava la consistenza con le dita sottili dalle unghie corte, in cerca di imperfezioni o segni di usura, quasi che servirsi di un solo senso per quella operazione non fosse sufficiente. Ne apprezzò la scrupolosità e si disse che non gli sarebbe dispiaciuto affatto essere toccato con la stessa cura. Si affrettò a far sparire dal suo viso il sorriso sbieco che vi si era affacciato.

Sono concentrato. O almeno devo sembrarlo.

Un altro paio di passate alla lama. Un altro sguardo rapido.

Ràhel aveva montato una nuova corda e la stava cerando con gesti lenti e misurati. Una ciocca ribelle simile a un viticcio le ricadde davanti al viso e lei se lo sistemò con stizza dietro l’orecchio, poi si alzò, infilò un piede nella staffa e piegò le ginocchia quel tanto che bastava ad agganciare la corda all’uncino che aveva alla cintura. Distese le gambe portando la canapa alla massima tensione e poi la rilasciò lentamente. Il quadrello scivolò via dai suoi capelli e cadde sul pavimento.

Yusuf posò il pugnale che aveva in mano e ne prese un altro. Quando rialzò gli occhi lei era in piedi e stava lottando con la sua chioma per rimetterla in ordine. Aveva ancora il piede infilato nella staffa e la balestra appoggiata alla gamba. Le braccia alzate mettevano in evidenza la curva dei seni sotto la veste morbida e Yusuf valutò che erano della misura giusta per riempire le sue mani. Indugiò su quel pensiero finché un’inequivocabile sensazione al basso ventre non lo riportò bruscamente alla realtà.

Si affrettò a dare un altro colpo di cote alla lama: forse il silenzio si era protratto troppo a lungo.

Ràhel arrotolò la vecchia corda e la infilò nella cintura, poi, con la balestra in spalla gli passò davanti rivolgendogli un breve cenno di saluto e si avviò verso l’uscita. Mentre seguiva con gli occhi il movimento dei suoi fianchi incontrò lo sguardo di Amir che, sulla porta, lo fissava sogghignando.

— Ancora una passata e non avrai più niente da affilare. —  disse il suo caro amico e lei scoppiò a ridere.

Yusuf si rese conto di essere stato due volte smascherato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

Quella sotto è la ricostruzione di una balestra a braccio simile a quella di Ràhel. La sua in realtà dovrebbe essere più piccola, di certo di lunghezza non superiore ai 60 cm.

 

 

 

Si vede bene la staffa in cui lei infila il piede per tendere la corda. Esistevano molteplici sistemi di caricamento, certe balestre potevano essere caricate con la sola forza delle braccia, come quella di Ezio, detta “manesca”, ma abbiamo pensato che per i muscoli di una ragazza, il sistema “a un piede” fosse più appropriato.

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25: Bottiglie volanti ***


Istanbul,

Dhul-hijja 902

(Agosto 1497)

 

 












àhel sentì aprirsi la porta del Covo e un rumore di stivali che percorrevano la passerella di tavole, accompagnato da schiamazzi e risate.

Posò il libro e uscì dalla biblioteca mentre Yusuf e altri quattro compagni erano ormai arrivati nella sala principale continuando a parlare a voce alta tutti insieme: Ràhel non riusciva a capire una parola.

Erano coperti di polvere e pagliuzze di fieno, Yusuf brandiva una bottiglia e rideva, mentre da un profondo taglio al braccio sinistro colava sangue sul pavimento.

Ràhel rimase come impietrita a osservare la chiazza rossa che si allargava sulle mattonelle sconnesse. Pensò a uno straccio per pulire quel disastro, poi a una benda, ai lembi della ferita da ricucire, al braccio nudo di Yusuf, poi alla sua spalla nuda, alla curva del suo collo, al sorriso insolente, ai suoi occhi azzurri colmi di allegra ironia che, seguendo i pensieri, aveva finito per incontrare.

— Sarà meglio che dia un’occhiata a quel braccio. —    

La voce di Sami si fece largo a spintoni in quello strano momento.

— Ràhel, dammi una mano. —  

Senza perdere altro tempo lei si voltò, dirigendosi verso la credenza che conteneva l’occorrente, senza però riuscire a sfuggire alla voce di Yusuf che rincarava la sua dose di imbarazzo.

— Sì, Ràhel, dagliele anche tutte e due! Il nostro dottore non ha neanche concluso gli studi di medicina, preferisco avere le tue di mani addosso! —  

Altre risate.

Rahel non arrossiva mai, ma aveva una curiosa sensazione di caldo sul viso mentre frugava nei cassetti. Alle sue spalle sentiva il suono familiare di polsiere slacciate e gettate sul tavolo, fibbie sganciate, armi deposte, fruscio di vesti sfilate. Su tutto questo, ancora la voce di Sami.

— Cosa è successo? Mi sembrava di aver capito che si trattava solo di portare via una piccola cassa da un magazzino del porto. Entrare e uscire furtivi come gatti. —  

— La cassa ce l’abbiamo. —  disse qualcuno.

— Marinai ubriachi e attaccabrighe mentre tornavamo indietro. —  aggiunse qualcun altro.

— Ubriachi. —  ripetè Sami. — E sei riuscito a farti colpire? —  

Certo il tono del dottore non dimostrava il minimo rispetto per chi, malgrado gli fosse inferiore d’età, gli era superiore di rango.

— Hanno usato le bottiglie prima dei coltelli. — disse un altro.

— Già, bottiglie da lancio. —  precisò Yusuf. — Mi hanno colto di sorpresa con la prima, ma la seconda l’ho presa al volo. —  

— E dal tuo fiato direi che ti sei anche concesso un bel sorso…—

— Solo a scopo terapeutico. —  

— Sì, certo, non avevo dubbi in proposito. Ràhel! Arriva quella roba? —  

La ragazza sobbalzò e tornò indietro a passo spedito. Srotolò l’involto che conteneva una serie di strumenti dall’aspetto sinistro e lo posò sul tavolo insieme a una bottiglia di aceto e a una pila di bende. Sami osservava la ferita con occhio critico.

— Ci sarà da divertirsi, è piena di vetri. — sentenziò versando una notevole quantità di aceto sul taglio e afferrando un paio di pinze.

Şeytan! — imprecò Yusuf a denti stretti.

I frammenti di vetro si accumulavano sul tavolo e Ràhel ebbe modo di sentire molte altre parole, di cui fortunatamente non conosceva il significato, che suscitarono l’ilarità dei presenti, mentre il medico continuava impassibile la sua opera.

Sami diede l’ultimo punto e tagliò il filo.

— Fascialo, Ràhel. E non stringere troppo. — disse alzandosi dalla panca per lasciarle il posto. Lei afferrò una benda e si mise al lavoro, sforzandosi di non perdere la concentrazione inseguendo le gocce di sudore che rotolavano sul torace di Yusuf.

Una volta aveva chiesto a una consorella cosa vedesse quando guardava l’uomo di cui si era innamorata.

— Vedo dei bambini identici a lui che si azzuffano sul pavimento. —  

Ràhel non vedeva bambini quando guardava Yusuf. Vedeva gli occhi azzurri e il sorriso sfrontato, le mani forti e callose, i muscoli che si tendevano sotto i vestiti, il braccio che era tutt’uno con il kijil, la sicurezza e l’arroganza con cui combatteva o anche solo camminava. Sentiva la sua voce sbraitare ordini, il suo respiro affannato dopo uno scontro, la sua risata schietta. A volte, quando lo guardava, non vedeva niente, e immaginava un luogo buio in cui quelle sue mani avrebbero potuto sfiorare…

— Ràhel. —  

… la sua pelle e quelle sue braccia…

— Ràhel! Hai finito? Mi piacerebbe togliermi di qui prima che Sami si inventi qualche altra tortura a cui sottopormi! —  

Questa volta era certa, del tutto sicura di essere arrossita. Legò la fasciatura e alzò gli occhi sul viso di Yusuf.

— Grazie per le tue cure. — disse lui con un sorriso che fece perdere al suo cuore un paio di battiti.

— Di certo io non devo aspettarmi gratitudine, vero? — sbottò Sami. — Forse se avessi una massa di riccioli e delle lunghe ciglia…—

Le risate si sprecarono.

— E’ stato un piacere. — rispose Ràhel con un tono sfacciato che sorprese lei stessa per prima.

Guardò Yusuf alzarsi, flettere il braccio un paio di volte non senza una smorfia di dolore e allontanarsi con passo fluido verso la sua stanza. Non riusciva a staccare gli occhi dalla sua schiena.

— Puoi anche andargli dietro, benim kiz.(ragazza mia) sussurrò la voce di Zuhre strappandola dall’incantamento. — Nessuno avrebbe qualcosa in contrario. — C’era divertimento nel tono della donna, ma anche comprensione.

— Ho notato le occhiate che gli lanci, e non sono la sola. Pensi di amarlo? —  

— Non vedo bambini quando lo guardo, Zuhre. — disse la ragazza alzandosi dalla panca.          — Quindi non lo amo. —  

Lasciando l’altra con un’espressione interdetta sul viso, Ràhel ritornò in biblioteca.

 

 

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26: Carteggio ***


Istanbul,

Muharram 903

 

 

A Istvàn cel Mare

Gran Maestro degli Assassini di Valacchia

 

 

Istvàn, fratello mio,

gli ultimi mesi sono stati estremamente complicati, ma cominciano a dare i loro frutti. Spero quindi che perdonerai se ho atteso tanto ad informarti di un fatto che di sicuro ti sta a cuore.

Nel mese di Rajab dello scorso anno si presentò presso la mia Confraternita una tua Apprendista di nono livello di nome Ràhel lui Ciprian, con l’intento di avvertirmi del possibile pericolo rappresentato da suo fratello Vali, scomparso un mese prima durante il rientro dalla sua ultima missione. Mi confessò altresì di essersi allontanata dalla propria sede in segreto, senza renderti partecipe della sua decisione.

 Mi colpì profondamente la scelta coraggiosa e onorevole di una ragazza così giovane di esporre sé stessa a un’accusa di insubordinazione e tradimento, per il timore che quella che considerava una sua semplice intuizione potesse, se si fosse rivelata infondata, gettare inutilmente discredito sul nome di suo fratello. Con l’autorità e l’indipendenza che mi deriva dall’essere Gran Maestro, decisi di rispettarla.

In questi mesi sono state svolte indagini accurate che non hanno procurato alcuna prova certa del tradimento di Vali, dimostrandomi tuttavia le doti innegabili di sua sorella. Ràhel è forte, determinata, acuta, affidabile e si è facilmente conquistata un posto di rilievo tra gli Apprendisti.

Caparbiamente si ostina a sentire come solo sua la responsabilità di riportare la vita di suo fratello sulla via del Credo o di porvi fine. Dimostra molta freddezza in queste sue intenzioni, malgrado il dilemma che di certo la sta lacerando. Ciononostante svolge i suoi compiti con estrema efficienza e rispetto delle regole.

Ti annuncio quindi la mia intenzione di elevarla al rango di Assassina. Se desideri richiamarla in patria per provvedere personalmente alla sua investitura, io non potrò far altro che lasciarla libera.

 

Ishak Pasha

Gran Maestro degli Assassini Ottomani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Târgovişte,

Muharram 903

 

A Ishak Pasha

Gran Maestro degli Assassini Ottomani

 

Leone di Battaglia,

non puoi immaginare il sollievo che portano le tue parole qui, nel cuore della Valacchia e del mio Ordine, dopo tutto questo tempo.

All’inizio dell’anno cristiano non avemmo più notizie di Vali e l’oscurità della notte crebbe nelle nostre stanze, ma la scomparsa di Ràhel, solo poche settimane più tardi, piombò sulle mie spalle come una montagna. Arrivai a pensare un destino orribile, per entrambi, ed ebbi paura come mai avevo avuto in tutto il mio mandato.

L’animo di Vali è nobile, distinto, ben predisposto ai fini del nostro Ordine, ma sapevo che un giorno sarebbe affogato nel suo stesso onore...

Lui e Ràhel erano una famiglia nella famiglia; quella determinazione che tu vedi in lei non è altro che un’ombra, l’ombra di suo fratello, che l’ha seguita nel suo addestramento, che la segue anche adesso e la seguirà sempre. Ràhel è perciò un’arma, un’arma potente, nelle mani di chi riesca ad impugnarla. Perché tanta è la forza, tanta è l’indipendenza. Fossi in Vali, temerei il confronto che sua sorella cerca.

Prego perché questa battaglia finisca presto e il tuo Ordine ne esca illeso, fratello. Vali è un Assassino capace, migliore di molti degli uomini che ho addestrato con lui, ma non di tanti altri che tu puoi reclutare per fermarlo. L’unica cosa che ti chiedo è di tenere la mano di sua sorella lontana dalla sua gola prima del tempo. Mi sento fin troppo responsabile della vita di entrambi.

 La mancanza di Ràhel si è avvertita subito tra i miei allievi, sotto tutti i punti di vista, e perciò non mi sorprende che la ragazza si sia fatta notare con tanta rapidità tra i tuoi ranghi. Saperla viva e saperla al tuo fianco, amico mio, è due volte una gioia. Ti comunico ufficialmente, quindi, che per me e per la mia famiglia sarebbe un onore inestimabile e inestinguibile veder realizzata la tua più che splendida iniziativa.

 

 Istvàn cel Mare

Gran Maestro degli Assassini di Valacchia

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 27: Convocazione ***


Istanbul

Muharram 903

 (Settembre 1497)

 











l quadrello si piantò con precisione al centro del bersaglio. Era l’ultimo.

Ràhel abbassò la balestra e fissò la costellazione di pennacchi rossi per un lungo istante, tutt’altro che soddisfatta, poi appoggiò l’arma ad un pilastro della tettoia e andò a riprendere i suoi quadrelli, che estrasse rabbiosamente dalla paglia. Mentre li infilava nella faretra da gamba si accorse che sul bersaglio accanto qualcuno si era divertito a dipingere alla meglio un viso umano sotto un cappuccio come quello della sua uniforme valacca.

— E’ tuo fratello, non lo riconosci? — disse un Assassino che se ne stava appoggiato con le braccia conserte nell’ombra della tettoia, circondato da alcuni compagni che soffocarono a stento le risate.

Ràhel gli rivolse un’occhiata impassibile. Voltò i tacchi e tornò a recuperare la sua balestra. Si chinò per tendere la corda e incoccò il quadrello lentamente, senza alzare lo sguardo.

Non era la prima volta che subiva quel genere di aggressione.

Quando era arrivata ad Istanbul per avvertire del pericolo del tradimento di suo fratello, era stato necessario mettere al corrente l’intera Confraternita, senza eccezioni di rango, bravura o intelligenza, sul rischio di un attacco dall'interno. L’Assassino di terzo grado Tevrat era uno di quelli che ancora e ostinatamente, come se ne avesse davvero colpa, le rimproverava a modo suo di aver permesso che accadesse; o meglio: di aver permesso che la minaccia di un traditore costringesse lui e i suoi amici a turni di guardia doppi.

Non era degno di quel titolo.

Con un scatto fulmineo delle braccia Ràhel alzò la balestra fino al livello degli occhi e scoccò, colpendo il disegno sul pagliericcio nel suo centro perfetto. Dopodiché con la stessa velocità spostò il mirino sul ragazzo, e Tevrat e i suoi amici se la diedero a gambe con le orecchie basse come conigli, gridando che era una pazza.

È scarica, idioti.

— Ràhel! —

Voltandosi non aveva potuto fare a meno di portare la balestra con sé e Yusuf si era piegato come il fusto di un alberello in balia del vento, tirando indietro tutta la testa.

— Sono disarmato! — disse il turco alzando le mani.

Ràhel abbassò l’arma con un sorriso.

 

Serdar si unì a loro sulla strada per la biblioteca; Zuhre e Amir erano già nello studiolo e quando entrarono Ishak aveva in mano una lettera che si apprestò a richiudere e ad infilare nel cinturone.

— Se trovate posto sedetevi, ma tanto sarò breve, — disse.

Nessuno si mosse.

Il Maestro li guardò negli occhi, uno ad uno.

— Vi ho convocati qui al fine di mettervi al corrente della nostra situazione attuale nella caccia alle Quattro Code, per la cui riuscita mi sento costretto a coinvolgere ogni giorno un numero sempre crescente di braccia, menti e cuori. Ràhel è già stata informata sulla minaccia che rappresentano questi cinque uomini per la stabilità e la pace intestina del nostro Impero, e parlerò perciò dando per scontata la medesima conoscenza in ognuno di voi. —

Un cenno d'assenso, all'unisono.

— Ottimo. —

Ishak prese un respiro profondo.

— In quest’ultimo anno sono accaduti avvenimenti molto importanti che hanno suscitato spiacevoli, ma inevitabili reazioni. Una di queste reazioni, e avevamo i nostri sospetti, sarebbe stato il passo falso della Testa che stiamo cercando. Quando l’anno scorso mandai Zuhre a Skopje, in Macedonia, per eliminare la quarta di un ultimo ciclo di Code, l’uomo era un nobile ottomano che poco prima di morire tentò di riscattarsi dandole due parole: Kubbealtı Vezirler. —

— I Visir della Cupola? — si stupì Serdar. — No, è impossibile! — la sua risatina isterica risuonò nell'ambiente stretto e polveroso dello studiolo, morendo ben presto.

— Un Templare tra i membri del Divano, — spiegò Amir all'occhiata confusa di Ràhel.

— Restringe il campo, — ne convenne Yusuf con una smorfia. C'erano almeno un mezzo migliaio di Visir in tutto l'Impero e quelli che, alternandosi, partecipavano alle riunioni del Divano non erano mai inferiori ad una cinquantina di teste.

Ishak si spostò dietro alla sua poltrona e artigliò lo schienale. — Al ritorno di Zuhre non ci fu tempo di condurre ulteriori indagini: qualcuno abbastanza vicino al Sultano da poter sussurrare nelle sue orecchie senza il rischio di essere pizzicato aveva messo in circolo le voci sull'esistenza degli Assassini, ma a parte i nostri alleati, solo un Templare avrebbe potuto sapere che l'Ordine è ancora in vita. In qualche modo la Testa era stata informata del voltafaccia della sua ultima Coda e fu questo, supponiamo, a spingerla a tradirsi spontaneamente. Con il pretesto di un'alleanza, il nostro nemico aveva messo in tavola un gioco pericoloso per ambedue le parti ed io, come Visir e Gran Maestro degli Assassini, accolsi questo rischio, accettando il suo invito a parteciparvi. —

— Non possiamo chiedere semplicemente a Bayezid di dirci chi è stato a fare la soffiata? — intervenne Yusuf.

Ishak ridacchiò sommessamente. — Amir, diglielo tu. —

— Il Divano è composto da uomini mostruosamente fedeli al Sultanato, — cominciò il siriano con sicurezza. — La maggior parte sono figli di famiglie cristiane, giovanissimi, il reclutamento tributario li raccoglie e poi li smista: soldati o servi, ma in entrambi i casi trascorrono la vita intera a servire l'unica causa che conoscono. Il Divano si costruisce, perciò, un guscio di anime, compatto, inviolabile e organico; i suoi membri, Sultano escluso, ponderano, discutono e poi agiscono come una cosa sola. Bayezid non conosce il tuo gioco, Maestro, e se vedesse marcire una spiga nel suo campo darebbe agli Assassini la colpa, e non solo l'alleanza cadrebbe, ma l'Ordine tornerebbe ad essere perseguitato. —

— Insomma penserebbero che abbiamo accettato l'alleanza solo per farli fuori più da vicino e con meno problemi, — sintetizzò Serdar.

Amir annuì.

— Convocai Ibrahim Pasha a questo proposito, — riprese Ishak, — sperando di poter soffocare per tempo e nell'ombra la voce che ci aveva esposti, ma quando egli mi fece il nome del Sultano seppi che era già troppo tardi: spingendo avanti un'entità inattaccabile come Bayezid, il nostro astuto nemico aveva già fatto la sua abile mossa. Al fine commisi il grave ma necessario errore di mettere Ibrahim al corrente dei segreti che vi sono stati rivelati in questa udienza, narrandogli delle Code e dell'obbligo morale, in quanto Ordine degli Assassini, di intervenire, ma mi comportai da egoista, mettendo a rischio allo stesso tempo la sua carriera e la sua vita, e ora molte delle nostre squadre di cui voi stessi avete fatto parte nelle ultime settimane sono impiegate per la sua protezione. Questo perché quando la Testa cadrà, e solo per aver avuto rapporti con gli Assassini, agli occhi della Sublime Porta Ibrahim sarà il primo sospettato. Voglio che siate pronti a tutto. —

Gli Assassini si scambiarono un'occhiata d'intesa.

— Bene, — sospirò Ishak sedendosi. — Penso di non dire nulla di nuovo rivelandovi che dopo mesi di totale sterilità, la Testa sta partorendo un nuovo ciclo di Code. Questa volta non lo soffocheremo, ma faremo quanti più prigionieri possibili. — Aprì un libro che aveva lì davanti sulla scrivania e Zuhre gli si affiancò, indicandogli qualcosa tra le pagine. Lui la ringraziò, prese la penna e cominciò a scrivere.

— In quarant'anni di caccia alle Code ho capito che il loro punto di forza è l'intesa. Giocano questa carta nel modo in cui ci affrontano, fedeli solo a loro stessi, perfettamente inseriti nel loro contesto. —

— Che copioni, — commentò Yusuf.

Ishak ricaricò il pennino d'inchiostro. — Ora non mi dilungherò sui motivi che mi hanno indotto a scegliervi per questa missione, ma vi basti sapere che negli ultimi mesi ho osservato molto. Ciascuno di voi ha intrapreso la via dell'Ordine per ragioni differenti, ma ciò che alimenta la vostra dedizione ad esso è molto simile all'unanimità che unisce i nostri avversari. E la politica di combattere il fuoco col fuoco è una delle mie preferite... —

— Preparate un bagaglio leggero, — disse Zuhre. — Partiremo 'sta notte. —

 

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 28: Diamante dei Balcani ***


Salonicco,

Safar 903

 (Ottobre 1497)

 











a nave entrò nel Porto di Costantino come una scheggia. La ciurma, composta da pochi ma abili membri, si adoperò efficientemente per l’attracco e in pochi minuti le grandi vele latine erano ammainate, la stiva sgombra e i ponteggi già in strada, calati con un tonfo sordo.

Era una mattina soleggiata e all’orizzonte neppure l’ombra di una nuvola minacciava l’allegra serenità di Salonicco, che splendeva come un diamante rotolato giù dai Balcani per gettarsi nel Golfo Termaico.

Il grande Arsenale, costruito nella zona occidentale della città in epoca bizantina e sulle rovine del più antico porto greco, ospitava imponenti navi mercantili ed era teatro di maestosi arrivi e partenze. Schiocchi di fruste e boati di vele issate nel vento si mescolavano alle urla in volgare locale dei marinai, che dalle grandi banchine di pietra e laterizio gestivano il traffico, lanciavano e afferravano i giganteschi anelli di cordame, scaricavano e caricavano merci, salivano e scendevano dagli alberi con la rapidità di ragni.

Amir si caricò in spalla la sacca con le proprie armi e seguì Ràhel che, dietro a Serdar, Zuhre e Ishak, stava lasciando il ponte della nave per la passerella. Il siriano si fermò accanto all’albero maestro e si parò gli occhi dal sole con la mano, guardando in alto.

— Yusuf, tu prima di chiunque altro avresti dovuto notare che siamo arrivati, da lassù! —  commentò non senza attirare l’attenzione di alcuni marinai, che interruppero le loro mansioni seguendo il suo sguardo per accertarsi che non fosse pazzo.

Yusuf, in equilibrio sul bordo della coffa, si reggeva al sartiame con un braccio e l’altro era teso all’indietro come se si stesse preparando ad un salto della fede. La brezza fresca del primo autunno gli scompigliava i capelli, che un po’ la sciarpa di suo padre stretta in fronte riusciva a tenergli lontano dal viso. Negli occhi si specchiavano il cielo e i tetti della cittadella, sviluppata lungo la costa dove troneggiava la grossa Torre dei Leoni che il Sultano Murad II, conquistatore della città, aveva fatto costruire sulle rovine di un bastione bizantino. La melodia urbana arrivava fin lì nella confusione di voci e versi d’animali. Le strade, affollatissime e piene di colori, formavano un reticolato urbano ben sviluppato, con larghi corsi principali paralleli alla costa e ampi incroci collegati tra loro da viuzze capillari. Nel complesso Salonicco aveva l’aspetto di una grande fortezza, arroccata sul dolce pendio che dai Balcani si tuffava nel Golfo.

Durante il dominio bizantino, seconda solo alla perla gemella Costantinopoli, Tessalonica aveva continuato a vantare una posizione strategica e un’imponenza economica senza eguali. Era lo scalo obbligatorio per tutte quelle merci che dovevano raggiungere l’entroterra dell’antica Macedonia e il primo grande porto con sbocco sul Mar Egeo. La rotta che la collegava ad Istanbul era trafficata tutto l’anno, e non solo a scopi commerciali: mantenere i contatti con la Penisola Balcanica era una delle priorità della Sublime Porta, che presto o tardi sarebbe tornata a battere la Rumelia per ingrossare le fila sui confini dell’Impero.

Salonicco brillava come un diamante in mare, certo, ma era un miracolo in terra.

I Sultani Ottomani avevano provato severamente quella città, imponendosi con durezza sulla sua gente e sul suo passato. Nell’ultimo secolo due volte i Turchi l’avevano assediata e due volte Bisanzio se l’era ripresa, senza contare l’oltraggioso cedimento della sua giurisdizione a Venezia, che avrebbe dovuto difenderla dagli Ottomani. Con la conquista turca di Costantinopoli, l’Impero Romano d’Oriente aveva definitivamente cessato di esistere e le province erano state rimescolate e spartite dallo stesso Maometto II. Ora Bayezid custodiva gelosamente il Tridente Calcidico, perché le tensioni nella vicina Ungheria stavano rianimando le braci di una rivolta nella sharia Serba e la Sublime Porta non poteva concedersi deficienze nelle sue province.

Ecco il perché di tanto stupore e meraviglia. Ci si aspettava di trovare polveri e rovine, malattia e disperazione tra le sue mura, e invece Salonicco era sopravvissuta all’egemonia degli invasori preservandosi come una reliquia nel suo intimo Golfo Termaico, che l’avvolgeva in due braccia di basse scogliere fatali a chi non vi avesse domato il vento già una volta.

Yusuf trotterellava giù dalla passerella con la sacca in spalla e l’aria spensierata quando Serdar gli venne incontro.

— Te la sei presa comoda! — disse stringendogli una spalla mentre l'altro posava a terra il suo bagaglio.

Stiracchiandosi, Yusuf obbiettò: — Hai sempre da commentare, vero Serdar? Tu russavi ancora bello beato mentre io guardavo l’alba, —  concluse con uno sbadiglio, prova inconfutabile delle sue parole.

— Almeno io ho risparmiato energie a dovere e non rischierò di addormentarmi camminando, —  ridacchiò l'altro in risposta.

— Prendete le vostre cose e andiamo, — intervenne Zuhre. — Il Maestro ha riconosciuto il nostro contatto, non perdiamo tempo. —

 

Era vestito sobriamente ed era venuto da solo, piccolo e abbronzato dagli occhi allegri. Si chiamava Samuele Abrabanel ed era un giovane sefardita nato a Lisbona, ma come molti del suo popolo aveva sottostato alla scacciata della comunità ebraica dalla Penisola Ispanica e lasciato la patria troppo giovane per ricordarne qualcosa. Si era rivolto ad Ishak coi dovuti ossequi in greco antico, ma alla presenza degli altri Assassini proseguì in un turco quasi perfetto, tradito solo dagli accenti tipicamente stranieri.

Suo padre Isaac Abrabanel, disse presentandosi, era stato vicino tanto così dalla carica di Tesoriere Reale ed era noto in Europa per i suoi trattati di filosofia. Solo quindicenne, Isaac lo aveva imbarcato per Tessalonica, dove però, nonostante il dramma e sotto l’ala del Gran Rabbino della città Joseph Fasi, in poco tempo Samuele era diventato uno stimato e popolare talmudista.

— Samuele, le tue cronache sono davvero molto interessanti, e spero di poterle aggiungere presto alla mia biblioteca, — lo interruppe Ishak con un sorriso dispiaciuto, — ma ti prego di scusarmi se insisto col metterti fretta: è importante che tu ci conduca al Monastero prima del tramonto. —

Il ragazzo si riscosse. — Sì, sì, certo! —  balbettò aggiustandosi la kippah, e mentre guidava gli Assassini fuori dal porto aggiunse: — Perdonami onorevole Pasha, ma vedere tanti bei giovani volti dopo anni di pelli anziane e lunghe barbe brizzolate deve avermi emozionato! — 

Ishak si accarezzò i folti baffoni con due dita. — Intendi dire che la mia, di lunga barba brizzolata, non ti entusiasma neanche un po’? —  rise divertito prendendo sotto braccio il giovane rabbino, che piccolo com’era poteva comodamente entrare per lungo nel fodero della sua scimitarra.

— Amir, di quale Monastero parla il Maestro? —  domandò Yusuf al compagno che gli camminava accanto.

— Del Monastero di Latomos, nella vecchia Acropoli, —  rispose quello. — Ora la sua cappella è una Moschea, ma la comunità ospita da sempre pellegrini e piccole minoranze senza troppi problemi, ed è lì che staremo. —

Zuhre chiudeva la fila, davanti a loro c’era Ràhel che proseguiva attaccata al Maestro neanche fosse la sua ombra. Amir seguì lo sguardo di Yusuf, puntato troppo in basso rispetto alla vita dell’Assassina valacca, e ridacchiò.

— Devo ripeterti che saremo ospiti di un Monastero? —  lo schernì.

Yusuf si sistemò meglio la sacca sulle spalle. — Quanto tempo? —  chiese, come se sentirselo dire avrebbe alleggerito anche quel fardello.

— Tre settimane, —  rispose Amir. — Un mese al massimo. —

— Quella ragazza è un pezzo di ghiaccio, — s'intromise Serdar sottovoce. — Ed è bravo chi riesce a scioglierla. Ma tranquillo, Yusuf, il tuo alito asciugherebbe in pochi minuti interi ghiacciai! —

— Che simpatico, — borbottò il turco mentre Amir ingoiava un sorriso.

Serdar gli diede una pacca sulla spalla. — Sei già a buon punto. Piuttosto, attento a non scottarti! Sapevi che anche il ghiaccio lascia delle brutte ustioni? —

Yusuf inarcò un sopracciglio. — L'hai sentito come Serdar fa il saputello, Amir? Lo spirito del nostro dottore dev'essersi impossessato di lui per perseguitarci anche qui! —

Una chiassosa risata generale regalò loro un'occhiataccia del Maestro, la cui espressione lasciava sospettare che qualcosa di troppo potesse aver sfiorato le sue orecchie e non solo.

 

Come ogni Acropoli greca, anche quella di Salonicco sorgeva nel punto più alto della città, ed era ben visibile dalla piazza attorno alla piccola basilica di Santa Sofia, che aveva tutto da invidiare alla loro. Qui erano giunti dopo aver camminato lungo il corso principale, che s’insinuava tra i palazzi parallelamente alla spiaggia, ed erano stati assaliti dalla foga del mercato, che si svolgeva tipicamente attorno alle zone di culto, a differenza di Costantinopoli le cui leggi non lo permettevano.

— Certe restrizioni del vostro Impero non riescono ad imporsi come dovrebbero sulla gente di Salonicco, che vive di queste selvatichezze, —  disse Samuele abbracciando la piazza con un gesto teatrale. Dopodiché si avvicinò ad uno dei mercanti e vi contrattò in una lingua che Yusuf ascoltò per la prima volta.

— Chiudi la bocca, Yusuf, o entreranno le mosche, —  gli fece notare Ishak allegramente. — È Judemzo, —  continuò il Mentore, — una forma canonica dell’Ebraico poco conosciuta, diffusasi in Spagna, che qui parlano in molti. —

— E tu lo parli? — gli chiese Yusuf.

Evet. Come Gran Visir mi si richiedeva di saper parlare anche ai cavalli. —

A proposito di lingue: Amir si era avvicinato ad un banco di stoffe e insieme a Zuhre ne valutava il rapporto qualità prezzo, importunando il mercante con domande brevi e asciutte come la sabbia. L’uomo si mise le mani tra i capelli: il greco rudimentale dei due Assassini, che si sfidavano ad una gara di pronuncia, gli faceva fischiare le orecchie.

Serdar si era procurato qualcosa da mettere nello stomaco.

— Noci, — disse a Yusuf con la bocca piena, offrendogliene da un sacchetto.

Questi se ne buttò tra i denti una manciata e masticò così in fretta da ignorare il loro sapore un po' aspro e decisamente insolito.

Ha ragione, è proprio un pezzo di ghiaccio.

Ràhel era rimasta per tutto il tempo vicina al Maestro con le braccia nascoste sotto al mantello, e non aveva allontanato la mano dalla balestra neanche per salire sul carro che Samuele aveva affittato per risparmiare loro la fatica di proseguire a piedi la salita verso l’Acropoli.

L’unica strada diretta per il Monastero e percorribile con quel mezzo non era molto conosciuta e usciva dal centro, costeggiando per un tratto le mura esterne della cittadella. Questo diede modo ai viaggiatori di ammirare la campagna macedone, che in quel periodo dell’anno si tingeva di colori caldi e mielati.

Il sentiero si faceva più ripido man a mano che l’Acropoli si avvicinava. Quando i due asinelli che li trainavano cominciarono a strusciare gli zoccoli sul terriccio, fu il momento di proseguire a piedi, ma non doveva mancare ancora molto. Le mura della città alta li sovrastavano e l' arco a tutto sesto dell’ingresso all' Acropoli si aprì di fronte a loro protetto da una torre molto simile a quella del lungomare.

Samuele indicò un’imponente costruzione sullo sfondo dei tetti in pagliericcio. — Quella è la Fortezza dell’Eptapirgo, in passato la residenza preferita dai funzionari imperiali in visita a Salonicco, ora ridotta a stalla e magazzino del Monastero, che ha accettato la cessione della sua e della giurisdizione della Turgos Trigoniou, la Torre, senza fare troppi complimenti. La comunità è padrona dell’Acropoli da almeno sessant’anni e la cosa infastidisce molto il vostro Sultano, tanto da temere che presto o tardi qualche principe ottomano eccentrico possa interessarvisi, farne la sua residenza e scacciare a pedate questa gente. — 

Si addentrarono quindi nel Sobborgo di San Davide, dove basse e rudimentali abitazioni si arroccavano le une sulle altre soffocando gli stranieri in vicoli e passaggi angusti.

— È assurdo pensare che la malavita si sia annidata come un’infezione nel cuore dell’Antica Polis ellenica, —  continuò Samuele, — proprio dove tutto lo splendore di Salonicco ha avuto la sua Arché, la sua origine, per dirla nella lingua dei trattati di mio padre. Ma è proprio qui che l’umiltà coltiva la speranza e la compassione, in questo grande campo di anime tormentate dalla miseria. La comunità fa quello che può: due terzi del raccolto dei campi vengono distribuiti ogni settimana e ogni settimana l'erborista visita i bisognosi, ma non avendo veri medici a disposizione il male che affligge questa gene viene solo diluito, non estirpato. —

Il complesso monastico di Latomos li accolse in quel religioso silenzio tipico di un eremita, in tutta la sterilità delle sue mura in laterizio e dei tetti a spiovente. La piccola chiesetta annessa si presentava, dall’esterno, come una costruzione non troppo alta a croce greca inscritta e l’ingresso al Monastero era preceduto da un quadriportico colonnato di ordine dorico composito, materia di scarto che proveniva dai resti di altri monumenti.

Entrarono nel chiostro, dove due donne anziane stavano raccogliendo in ceste di vimini i panni stesi al sole sul cornicione del secondo piano, e un uomo vestito di un lungo abito azzurro e bianco venne loro incontro. — Onorevole Pasha, questa città ha pianto la tua partenza per molte notti, — disse ad Ishak con tono profetico; le mani nascoste nelle ampie maniche e il passo lento, quasi teatrale mentre scendeva gli ultimi gradini.

— La città, dici? E che fine ha fatto il mio migliore amico? A lui non sono mancato? — 

Un attimo dopo i due si abbracciarono con trasporto, distruggendo l’atmosfera di convenevoli. Quando si staccarono, l’uomo rivolse a Yusuf e agli altri Assassini un ampio sorriso. Disse: — A voi, miei giovani amici, Salonicco parlerà servendosi di questo umile interprete: la Ninfa del Thermaico vi da il benvenuto! E questo suo prezioso gioiello di pietra sarà la vostra casa, —  concluse alludendo al Monastero alle sue spalle.

Gli Assassini ringraziarono simultaneamente con un cenno del capo. Samuele, adempito il proprio compito, prese congedo e lasciò il Monastero dopo aver salutato con calore i suoi nuovi ospiti.

 

Timotheos: questo il nome del più alto responsabile della Comunità di Latomos, il cui ruolo, anche dopo la conquista ottomana della città, si identificava ancora in quello di un Diacono cristiano. Li accompagnò per un rapido giro del Monastero, passando per gli alloggi decisamente spartani dove gli Assassini lasciarono i propri bagagli e le armi; poi li invitò festosamente a tavola, per un abbondante pranzo rifocillante che, nonostante le regole, si protrasse fino al tardo pomeriggio.

La mensa aveva dimensioni e aspetto modesto. Le pitture parietali in parte mangiate dai secoli davano un po’ di colore alle pietre sterili, il soffitto a capriate lignee dipinte era molto basso e finiva col rimpicciolire la sala più di quanto non lo fosse già.

I monaci avevano già lasciato i loro posti da un pezzo, richiamati dai quattro rintocchi di una campana, e nella mensa erano rimasti solo Timotheos e gli Assassini di Costantinopoli, mentre alcuni orfani finivano di sparecchiare e pulire le tavolate.

Ràhel indugiava con modestia sul cibo, seduta di fronte a Zuhre che l’aveva forzata a non lasciare la mensa quando, consumata a forza la prima portata, aveva provato a scavalcare la panca. Era tesa come una corda: nonostante si fosse separata dall’armamentario pesante come tutti gli altri da non più di un’ora, già sembrava rimpiangerne la rassicurante compagnia. Il suo comportamento dava nell’occhio, ma fortunatamente Timotheos, Ishak, Amir, Serdar e soprattutto Yusuf conversavano due tavoli più in là.

Un orfanello inciampò sulle pietre grezze del pavimento e la pila di scodelle che stava portando nelle cucine cozzò al suolo.

Per lo spavento Ràhel sobbalzò. Il cucchiaio le sfuggì di mano e fece un bel tuffo nelle verdure.

— Devi calmarti. —

La ragazza tenne gli occhi bassi e scansò il piatto. — Tanto non avevo più fame, —  mormorò.

Zuhre incrociò le braccia sotto al seno. — Non è una missione come le altre. Siamo tutti un po’ tesi, — disse.

— Non proprio tutti, — apostrofò Ràhel. Lanciò un’occhiata attraverso la sala e Yusuf sorrise verso di loro con le guance piene di cibo.

La ragazza affondò il viso nelle mani, sbuffando.

Zuhre fu quasi certa di averla sentita mormorare “Aiuto!” e perciò, con un sorriso sincero e anche un po’ divertito, decise di assecondare quella supplica.

Ma a modo suo.

— È un bel ragazzo, —  esordì la donna, distrattamente, giocando con una mollica.

 Ràhel aprì le mani come tende facendole scorrere fino alle tempie e la fissò con disappunto.

Zuhre era tranquilla. — Certo, ogni tanto tutta quella barba potrebbe mandarla un po’ a spasso. —

Le labbra della ragazza sbiancarono, ma in compenso le sue guance avevano assunto un tono caldo. Veramente a me piace tutta quella barba.

Zuhre sospirò, persa nei ricordi. — Sono una delle poche fortunate ad aver visto quelle guance lisce come poteva esserlo il suo sederino da bambino. —

Ràhel represse una risata e incrociando le braccia sul tavolo vi appoggiò il mento. — Come è successo? — chiese percorrendosi la guancia sinistra con un dito. — È un brutto taglio. — 

— Perché non glielo chiedi tu, benim kiz? Non è una storia che gli piace raccontare, e dubito che a conoscerla sia qualcuno ancora in vita, ma con te potrebbe fare un'eccezione. —

Non c'era malizia nelle sue parole, solo un bel po' di quell'istinto con cui tutte le donne sanno procacciarsi, come leonesse, un buon pasto nella felicità altrui.

Ràhel scosse la testa con rassegnazione e Zuhre sospirò.

— Vicino alle vecchie mura ho visto dei covoni di paglia, entrando nell’Acropoli, — disse ad un tratto la donna, attirando su di sé occhi sottili e luminosi, sorridenti e pieni di una flebile riconoscenza.

— Va’ ad allentarti. —

Ràhel scattò come una molla, scavalcò la panca e volò fuori dalla mensa.

 

— Più ti guardo e più mi sento vecchio, Timo, — disse Ishak riempiendosi il calice di Ippocrasso, un’antica bevanda tipica a base di assenzio e dal gusto aromatico molto penetrante. Il Mentore ne buttava giù un bicchiere dopo l’altro senza riuscire a separarsene, come se quella grassa otre ormai leggera fosse un ricco parente riacquisito.

— Sei stato tu a suggerirmi questa vita, ed è stata lei a ridurmi così, —  rispose il religioso afferrandosi la folta ed ispida barba scura, che gli incorniciava gran parte del viso lungo e asciutto. — Ma non ho rimpianti di aver lasciato le armi, almeno non guardandoti. —

Ishak scoppiò in una fragorosa risata e versò altro vino d’erbe all’amico di fronte.

Amir tracciava dei lenti cerchi sul filo del proprio boccale vuoto, ascoltando con distrazione la conversazione sempre più privata tra il Mentore e Timotheos. Era pensieroso da quando avevano lasciato l’arsenale e senza un motivo che scavalcasse i presupposti della loro missione.

Invece qualcuno quei presupposti li aveva già belli che dimenticati, insieme ad una buona dose di decoro.

Yusuf ruttò sommessamente e allungò le gambe sotto al tavolo, accarezzandosi la pancia con un sorriso felice. — Non credevo che avrei mai mangiato tanto cacık senza scoppiare. —

Amir sogghignò. — Già, hai sorpreso anche me. I greci lo chiamano tzatzíki, e lo mettono su qualsiasi cosa. — 

Sta bene su qualsiasi cosa! —  ridacchiò Yusuf pulendo la ciotola della salsa con la mollica del pane.

D'un tratto Serdar si alzò, scansando rumorosamente tutta la panca su cui era seduto, e volò fuori dalla mensa con una mano premuta sulla bocca.

— Ha comprato delle strane noci al mercato, — spiegò Yusuf anche ad Ishak e Timotheos, voltati verso di lui con un'espressione inequivocabile. — Un sacchetto pieno! — 

Il Diacono scosse la testa con una risata e poi convocò l'erborista del Monastero, a cui commissionò un rimedio a base di aglio per indigestione non di noci, ma di pistilli di una pianta dal nome impronunciabile.

 

Ràhel guardava il tramonto dall’alto della Turgos Trigoniou, la Torre all’ingresso dell’Acropoli, seduta a gambe penzoloni su quel che restava dei merli di pietra, un tempo massicci e ben levigati, ora ridotti come i denti di un vecchio, mentre il vento soffiava con la forza di una carezza e gli ultimi raggi di sole le scaldavano il viso.

Pensava. Da quando era arrivata ad Istanbul aveva avuto molto tempo per farlo e forse ci aveva fatto un po' il callo, lei che era cresciuta così in fretta in mezzo alla guerra e alle atrocità che tutt'ora devastavano la sua terra. La sua casa. La sua famiglia.

Come una sciocca si chiese dove fosse suo fratello e cosa stesse facendo, ma non azzardò d'immaginazione poiché credeva fin troppo nel legame di sangue che li univa e i presentimenti più oscuri, anche se vaghe sensazioni, potevano essere veri. Eppure, ora che la vera natura dei Patti con la Sublime Porta le era stata svelata, metteva in dubbio quel legame. Pensare che Vali aveva scelto di rinnegare ogni principio di fratellanza tra le Confraternite, nonostante che gli obblighi di una casa nei confronti della vicina avrebbero continuato ad essere tutelati, le apriva nel cuore una profonda e dolorosa voragine.

È ancora mio fratello?

Allora chiuse gli occhi e ricostruì nella propria mente la grande torre ottagonale che era sede della sua Confraternita. Immaginò di tornarvi, a cavallo e al galoppo, dopo molti anni e si vide nelle forme di una donna ormai fatta, bellissima, fiera, accolta dai suoi fratelli e sorelle con gli abbracci forti e appassionati che si era fatta mancare il giorno della sua partenza. Vide il suo Maestro riconoscerle il rango acquisito lontano da casa con una cerimonia solenne (e qui sognava in grande) designandola suo successore.

Per accompagnare quel tripudio di fantasia, si ritrovò tra le labbra le note di una ballata che aveva danzato molte volte, nelle notti invernali, al suono della gadulka di Csán attorno al fuoco. Il cielo sopra a Salonicco aveva assunto gli stessi colori delle fiamme e la frescura serale si era fatta frizzante come la Zuica di prugne che aveva iniziato a bere molto giovane, assieme ai fratelli e alle sorelle, per dimenticare il sangue delle sue vittime e scaldare il proprio…

Ben presto il ricordo di quei giorni divenne una pietra nello stomaco, che rischiava di sbilanciarla in avanti e farla precipitare giù dal bastione. Uno sbuffo prepotente di vento allentò il quadrello che le teneva i capelli, che le frusciavano attorno alle orecchie come avrebbe sussurrato un prigioniero al suo carceriere, e poco dopo la ragazza assecondò quella supplica, sfilandosi con lentezza il dardo di balestra dalla nuca e rigirandoselo tra le dita. Accarezzò l’impennatura porpora con la devozione di un rituale, mentre i ricci scuri le ondulavano attorno al viso solleticandole la fronte e le guance, e mormorò un'ultima volta il ritornello della ballata.

Il Mentor István cel Mare spense il fuoco con una secchiata di neve e la musica cessò.

Ràhel assicurò il quadrello assieme agli altri nella cintura. Si issò il cappuccio sul volto e abbandonò la torre.

Era notte.

 

La conversazione tra il Mentore e il Diacono Timotheos si era spostata all’esterno, sotto il cielo stellato nel piccolo chiostro, dove Amir e Yusuf li seguivano in silenzio. I due saggi passeggiavano l’uno accanto all’altro con tranquillità, colmando di ricordi e aneddoti personali le lacune del tempo che li aveva tenuti lontani in quegli anni.

Dalla conversazione emerse che erano stati arruolati insieme e giovanissimi tra le fila dell’Impero Ottomano, ma che solo uno aveva scalato la gerarchia arrivando ad impugnare la carica di Gran Visir. L’altro, rifugiatosi negli ordini religiosi, di gerarchia ne aveva scalata un’altra.

— Qualcosa ti affligge, fratello. I tuoi occhi parlano per te, —  disse ad un tratto Timotheos.

— Sono preoccupato per la tua gente, —  spiegò Ishak lisciandosi la barba pensieroso. — Ci avete offerto ospitalità correndo un grande rischio. —

Il Diacono ridacchiò sommessamente. — Il monastero corre rischi ben più terreni della vostra faida con i Templari. Non saranno certo loro a buttare giù queste mura. —

— Samuele è stato molto esplicito, a riguardo, —  cominciò Ishak. — Ma non posso smentirlo: tempo un anno e la Serbia esploderà. Bayezid sarà impegnato sulla costa africana, ma ho ragione di sospettare che manderà il suo Gran Visir a scuotere queste terre. Davud è sempre stato un ottimo stratega e gode dell’appoggio di molti, tra i membri del Divano… Gli servirà un avamposto e Salonicco sarà al centro del conflitto. Di nuovo. —

Timotheos sospirò. — In passato è stata dura resistere mentre l’Impero si attaccava alle nostre caviglie come un’avida sanguisuga. Supereremo anche questa, Onorevole Pasha, se ci assicurerai un po’ della tua protezione, — e nel dirlo sorrise per sottolineare la richiesta nascosta in quelle parole.

Ishak sembrò illuminarsi. — Mi hai letto nella mente, maledetto! — esultò e le orecchie gli arrossirono per la gioia.

Amir aveva preso le distanze e Yusuf lo imitò, rallentando il passo.

— Vuole creare una Confraternita, — disse il siriano senza staccare gli occhi dalla schiena del Gran Maestro, che si allontanava insieme al Diacono. — In questo Monastero. Se ci pensi è perfetto, — aggiunse con voce assente; l’idea sembrava entusiasmarlo solo a metà.

Yusuf annuì. — Come no: quartiere residenziale, vista mare, fortezza e cappella annesse, anziane lavandaie, graziosi orfanelli, polverosa biblioteca, orto e ampio salone da pranzo. Chi non vorrebbe vivere qui? — ironizzò. — No, fratello, sarebbe meglio una baracca al porto. In città c’è sicuramente più vita e forse qualche ragazza che non abbia l’età del Mentore. — 

— Tu…! — Amir fece in tempo solo a fulminarlo con un’occhiataccia perché Zuhre comparve dietro di loro e sopraggiunse col dovere, interrompendoli.

— Farò io il primo turno di guardia, che per la notte dividerò con Amir, — stabilì la donna.

Il siriano chinò il capo e prese congedo. Attraversò il chiostro e andò verso i gradini che portavano al secondo piano, dove lo attendeva la sua sciabola da coccolare.

Unica donna che riesca ad amarlo. O meglio… che sia obbligata a sopportarlo, pensò il turco tra sé e sé.

Zuhre si rivolse a lui: — Yusuf, visto che hai tanta voglia di scendere in città, all’alba ci precederai con Ràhel per qualche indagine. — 

— Un piacere pari al dolore, ridacchiò quello salendo le scale.

 

Ishak si separò da Timotheos augurandogli la buona notte e raggiunse Zuhre, ormai sola nel cortile, che gli illustrò gli ordini appena dati. Dopodiché passeggiarono l'uno accanto all'altra nella quiete del piccolo chiostro, tra il lamento dei grilli e il canto di un gufo.

— Sono sorpreso, — cominciò d'un tratto il Mentore.

— Di cosa? —  chiese la donna.

— Del tuo silenzio. —

Zuhre guardò a terra senza rispondere.

— Ho veduto Yusuf ridere, — riprese lui, — Amir lamentarsi, Ràhel allenarsi e Serdar dare di stomaco. Ma tu, Zuhre, non sei te stessa. Non qui. —

— Ho paura. —

— Anch'io. —

Lei si fermò ma Ishak, quasi non se ne fosse accorto, continuò a camminare.

— Sai come la penso su questa missione, — disse cauta.

Il Greco annuì. — È l'ultimo atto di una lunga e feroce tragedia, — disse, richiamandola al suo fianco con un gesto della mano. — Ma abbiamo finalmente l'occasione di mettere la parola fine, ed è questo quello che conta, non il prezzo da pagare. —

— Tu sembri così… — Zuhre si fermò di nuovo.  — Pronto. —

Ishak ridacchiò. — Ho aspettato questo momento per quarant'anni. Il mio Maestro prima di me mieteva Code senza sapere di dover mirare ad una Testa e adesso posseggo finalmente la pietra per schiacciarla, — sussurrò, mimando il gesto di stringere un sasso nella grande mano callosa.

Zuhre si appoggiò ad una colonna. — E dopo? —

Ishak piantò gli occhi nei suoi, leggendovi la seconda parte di una domanda che lei aveva fatto solo a metà, e il sorriso scomparve.

— L'alleanza non durerà, — sentenziò in fine.

— E il Traditore? —

— Continuerà ad esserlo. —

Anche i grilli smisero di cantare e il gufo, pronto per la caccia, lasciò la sua tana senza far scricchiolare un rametto o frusciare una piuma.

Ishak si appoggiò all'altro lato della colonna, guardando il cielo stellato. — Per questo ho voluto Ràhel con noi, — disse. — Non tornerà nella sua terra molto presto... —

— Istvàn cosa ne pensa? — chiese lei.

— Si è raccomandato di farla mangiare, — le comunicò allegramente.

Zuhre si permise un risolino.

— Non mi dire. —

— Pensa che il nostro cibo non sia abbastanza sostanzioso. —

— Si vede proprio che non vi incontrate da vent'anni. —

Ishak si accarezzò la pancia libera dal cinturone che aveva slacciato, preventivamente, prima di mettersi a tavola. — Devo ammettere che non ho più ricordi di me senza questa, ed è davvero frustrante. —

— Fortunatamente in squadra abbiamo un ottimo palato che può persuaderla a sufficienza, — aggiunse lei.

Ishak aggrottò la fronte, inarcando un sopracciglio, e le lanciò un'occhiata da sopra la sua spalla. — … Aspetta, non ti riferisci a me. —

La donna sorrise nel buio, guardando a terra. — Sei davvero così cieco, Maestro?  — mormorò come se avesse spolverato e letto da un vecchio copione.

Dopo un lungo silenzio Zuhre si diede il compito, prima di adempiere al suo turno di guardia, di far visita a Serdar e al suo stomaco capovolto, ma Ishak la fermò sfiorandole un braccio e con un sorriso, anche se un po' stanco, le offrì una sorta di congedo anticipato.

— Va' da Serdar e poi va' a coricarti; starò io sotto le stelle, che questa sera sono così belle. —

 

Ràhel rientrò al Monastero a notte fonda e mentre attraversava il cortile avvolto dalle tenebre sentì sulla schiena gli occhi del Gran Maestro, una grossa macchia nera nel cielo stellato, di guardia sul tetto del quadriportico. Sorrise in quella direzione e non ebbe in cambio nessuna ostilità, ma accelerò comunque il passo. Salì i gradini silenziosa come un gatto e sul pianerottolo notò che la porta della stanza di Yusuf era aperta. Non osò affacciarvisi; almeno non subito e non prima di aver vinto sulla metà di se stessa che le implorava di non farlo. Il chiarore fioco di una candela bastava ad illuminare una zona della celletta in cui l'Assassino aveva ammassato, caoticamente, il suo equipaggiamento. Il pagliericcio era vuoto e le coperte gettate da una parte, come se avesse avuto l'urgenza di spogliarsene.

— Sì, non erano noci. Decisamente, — sentì borbottare alle sue spalle.

Quando si voltò Yusuf, a torso scoperto, stava facendo il nodo alle braghe.

— Quelle le digerirei, e senza prob… — il turco s'interruppe di colpo non appena la vide e un attimo dopo sfoggiava il più assassino dei suoi sorrisi.

Ràhel fece un passo indietro, uscendo dalla sua stanza, e aspettò che lui la superasse per entrarvi.

— Cercavi qualcosa? — le chiese Yusuf rimanendo sulla soglia.

— No. —

Un altro passo.

— Qual… cuno? —

— Come sta Serdar? — domandò d'un tratto.

Yusuf sbuffò. — Anch'io ho mangiato quei maledetti pistilli, ma a quanto pare Zuhre non viene a coccolarmi. —

— Ti sbagli, — sopraggiunse la ragazza. — Quella donna tiene molto a te, come una madre, — mormorò.

Yusuf tacque.

Senza darsi un perché, ricordò le parole con cui Ràhel, la sera del suo arrivo nel Covo di Galata, aveva riscattato la propria persona ingoiando il tradimento di suo fratello come si fa con un impiastro amaro di Sami. Nei mesi in cui aveva vissuto al fianco degli Assassini Ottomani non si era fatta mancare nessuna delle moltitudini di esperienze che quella convivenza aveva avuto da offrirle. Aveva prestato aiuto al loro medico di bordo, partecipato a innumerevoli missioni e tappato il turno di guardia di qualche apprendista malaticcio. Aveva fatto pesare il suo rango fin da subito e ne aveva acquisito un nuovo, garantendosi il posto di balestriera nella squadra speciale composta su misura per quella missione. Nonostante la giovane età, Ràhel era una predatrice fatta, meticolosa e letale come una leonessa, e c'erano ben poche cose che potessero piegare il suo animo: in cima a tutte l'argomento Vali, sicuramente da evitare, ma subito dopo c'era il suo passato di principessa decaduta di chissà quale influente famiglia sterminata senza pietà, orfana scampata alla morte ma prigioniera di se stessa in una bella prigione di ghiaccio. Ferita, ma più agguerrita che mai. Quanta rabbia, quanta grinta… quanta passione poteva ardere in quella piccola donna?

Lo sguardo gli cadde più in basso, dove l'ampio cappuccio dell'uniforme valacca, ora gettato sulle spalle, lasciava in vista una porzione del collo affusolato. Se si fosse allungato sulle punte, la differenza d'altezza avrebbe permesso a Yusuf di intravedervi ben altro, ma ricacciò certi istinti in fondo all'anima e si limitò a ringraziare la generosità di quel cappuccio.

Il silenzio era diventato un po' lungo.

Yusuf si schiarì la gola. — A proposito di Zuhre, — disse, risvegliatosi come da un sogno. — Domani vuole che andiamo in città, solo tu… ed io, per avvantaggiarci un po' di lavoro. Sai, gente da pestare, qualche borseggio. Vecchia scuola, insomma, — farfugliò frettolosamente.

Ràhel inclinò la testa da un lato.

— Hai capito almeno una parola di quello che ho detto? — chiese Yusuf con più calma, scandendo bene tutte le sillabe.

Ràhel gli voltò le spalle e si allontanò verso la sua stanza borbottando nella propria lingua.

Yusuf sospirò.

— Buonanotte anche a te. —

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29: Vecchi ruoli ***















ll’alba Yusuf lasciò la sua stanza e trovò la ragazza valacca già sveglia ad attenderlo nel chiostro, saggiando le punte dei propri quadrelli. Seduta a gambe incrociate sul muretto di cinta, col volto illuminato da un pallido sole, Yusuf la paragonò ad un fiero
karahindiba, sbocciato nella notte tra la camomilla e le margherite del prato. Si sforzò di scendere le scale silenzioso come un predatore, ma non riuscì ad avvicinarsi a lei che di qualche misero passo, prima di essere sfacciatamente scoperto e canzonato in quella lingua briosa e frizzante.

Am început să cred că cineva a pus otravă în dvs bere. —

Yusuf, che non aveva capito una sola parola, gonfiò il petto e fece per replicare.

Ràhel ridacchiò. — Una volta vidi un gabbiano atteggiarsi allo stesso modo: si era appollaiato impettito in cima alla statua di aquila che sovrasta il nostro Vizuină. — Il suo turco migliorava, ma ricorreva spesso e volentieri a termini madrelingua, e ogni tanto confondeva singolari e plurali, ma risultava lo stesso abbastanza chiara. Assicurò anche l’ultimo quadrello nella piccola faretra da fianco e saltò giù dal muretto.

— Pensi che sia ancora là, quel gabbiano? — le chiese Yusuf mentre si avviavano.

— Vali lo uccise con un pugnale da lancio quand’ero piccola, — rispose lei senza tradire alcuna emozione.

Yusuf fece una smorfia. — Doveva essere un gabbiano molto pericoloso. —

— Mio fratello aveva manie di grandezza. E ricordo che quel fatto diede da ridere a tutta la famiglia per molte settimane. —

Chiamava famiglia i suoi fratelli e le sue sorelle del Covo in Valacchia, ma con una sfumatura decisamente diversa da come avrebbe potuto farlo Yusuf con chi lo aveva cresciuto solo negli ultimi dieci anni.

Lasciando il Monastero salutarono Amir, appollaiato come un falco sulla cupola della piccola chiesa, e il silenzio li accompagnò per tutto il tragitto. Attraversarono l’Acropoli e scalarono le mura, fin nel cuore di una Salonicco ancora sopita. Giunsero nella grande piazza attorno a Santa Sofia quando il sole scaldava già i loro visi e si divisero.

Il mercato si metteva su a piccoli pezzi e la confusione per le strade crebbe lentamente, fino a soffocare del tutto l’atmosfera magica di una grande città portuale nel suo primo mattino. Un tappeto di gabbiani e piccioni grandi entrambi come gatti camminava nella piazza che ospitava i banchi del pesce, dove i commercianti, però, non si lasciavano impietosire dai loro starnazzi affamati. Al terzo rintocco di una campana, una mandria di donne prosperose e svelate invase il mercato della frutta che Yusuf stava attraversando, costringendolo a salire sui tetti per non esserne travolto. Fu allora che, dall'ombra di un balconcino colonnato, riconobbe Ràhel attraversare la piazza e fermarsi ad un bancone di pesche, dove acquistò un frutto con la sola lingua del denaro. Poi la ragazza passò sotto al suo balconcino, imboccando una stradina fatta di gradini scoscesi e chiusa tra due basse palazzine sommerse di rampicanti. Yusuf la seguì, saltando da un tetto all'altro per non essere visto, e questa volta riuscì a sorprenderla, atterrando con un balzo proprio di fronte a lei, che per lo spaventò lanciò in aria la pesca già snocciolata e portò la mano sotto al mantello.

Yusuf abbassò lo sguardo sul frutto ridotto in poltiglia. — Peccato, poteva essere utile alle nostre indagini, — disse.

Ràhel imprecò animosamente e poi si lanciò con sfida a sostenere il suo sguardo. — Anche tu stai facendo un buon lavoro. — Nella sua voce c'era tutt'altro che reale ammirazione. — Da quant'è che mi segui? —

Di tutta risposta lui la trascinò nell'oscurità, avvolgendola in un abbraccio che non ammetteva ribellioni ma al contempo delicato.

Ràhel chiuse gli occhi.

La sua casacca aveva un profumo accattivante di spezie e salsedine marina raccolta durante il viaggio; il calore che emanava il suo corpo fasciava come un bozzolo e il battito del suo cuore scandiva il ritmo di una danza lenta, quasi ipnotica… Ma qualcuno, nelle sue orecchie, quella danza la stava ballando con dei rumorosi stivali da guerra. Quando lui l'allontanò, frastornata Ràhel riaprì gli occhi e lo spettacolo che intravide da sopra la spalla di Yusuf, accovacciato sui gradini a guardare in strada, le trasmise l'urgenza di accarezzare l'impugnatura della katara sotto al mantello.

La pattuglia ottomana raggiunse di corsa il centro della piazza e il comandante, un Giannizzero dal copricapo pennato, ordinò ai suoi uomini di setacciare l'intero mercato da cima a fondo. La gente cominciò ad urlare.

— Io l'ho pagata la pesca, — mormorò Ràhel scoccandogli un'occhiataccia.

Yusuf strinse la presa sul kijil. — Mettiamo le cose in chiaro, — sibilò. — Ho un certo rango e me lo sono guadagnato. —

Ràhel inarcò un sopracciglio.

— Non ho fatto nulla per attirare la loro attenzione. Perciò non stanno cercando me! — sbottò ancora lui.

Il Giannizzero era una colonna in mezzo al caos del mercato, mentre i suoi uomini, come mastini da caccia, rivoltavano i banchi importunando la folla composta per la maggior parte da donne e bambini. La gente si lasciava percuotere; aveva imparato a subire senza rispondere e qualche urlo, al pari degli starnazzi dei gabbiani, non impietosiva i suoi aguzzini.

— Anche il porto era pieno di guardie, — disse Ràhel mentre lasciavano la zona del mercato. — Non ho mai visto tante fețe din metal (facce di metallo - qui Ràhel si riferisce ai Giannizzeri con una specie di nomignolo coniato dalla sua gente) nemmeno intorno al palazzo del vostro Sultano. —

— Quando siamo arrivati non c'era un cane e ora questo! È successo qualcosa, — affermò Yusuf.

— Ed è successo 'sta notte. —

 

Al loro rientro al Monastero un giovane novizio li scortò nella biblioteca, dove Ishak e Zuhre stavano consultando alcuni volumi.

Lucernari circolari si alternavano a piccole finestre sull’unica parete libera dagli scaffali e fasci di luce cadevano qua sui banchi per la scrittura, là sul pavimento, diffondendo nella sala un chiarore asciutto in cui volteggiava, luccicando, il pulviscolo.

Il Maestro era molto concentrato e perciò Zuhre fu l'unica ad accorgersi del loro arrivo, alzando gli occhi dal testo.

— Le vostre facce… — mormorò la donna e allora anche Ishak alzò lo sguardo, portando con sé la lente che lo aiutava nella lettura.

— Un gran numero di guardie ottomane batte le strade di questa città, — spiegò Yusuf avanzando tra i banchi per la scrittura. — E fino a ieri non volava una mosca. —

— Il Gran Visir è a Salonicco, — disse una voce alle loro spalle.

Timotheos entrò nella biblioteca e il Mentore si accigliò, posando la lente sulle pagine.

— Questo non me l'avevi detto. —

— Ho dato per scontato che lo sapessi, — confessò il Diacono superando i due giovani Assassini.

— Quindi sono suoi gli uomini che seminano terrore nei mercati? — eruppe Yusuf.

Timotheos gli rivolse un'occhiata inarcando il lungo sopracciglio. — Sicuramente, — ne convenne.

— Da quanto tempo è qui? — domandò Zuhre.

— È arrivato via terra qualche settimana fa, da Skopje, — rispose il Diacono.

— Il motivo della sua visita? — insisté la donna.

— Penso a pacifici scopi politici. —

— Sì, davvero pacifici! — sbottò Yusuf. — Ho visto con quanta pace i suoi… —

— Spende le sue serate organizzando suntuosi banchetti cui partecipano nobili e uomini politici d'ogni dove, — spiegò il religioso, interrompendolo. — Ieri sera ce n'è stato uno nel vecchio Distretto Imperiale e come minimo una dozzina di ladri hanno cercato di intrufolarvisi per fame, perciò è questione di tempo prima che le loro mani mozzate pendano come monito sotto al palazzo del Vali. —

— È lì che alloggia? — chiese il Mentore con un'ombra ad oscurare i suoi occhi chiari.

Timotheos annuì. — E immagino che non abbia in progetto di partire molto presto. —

— Perché dici questo? — domandò ancora Ishak.

Il religioso gli scoccò un'occhiata sorpresa. — Come Visir ma anche come Assassino dovresti sapere meglio di me che la politica di questa città è divisa, ancora una volta, perfettamente a metà tra nobili e mercanti. Davud è qui per eleggere un nuovo governatore, ma più banchetti organizza, più il caos aumenta e con esso la paura che si chiami un forestiere. —

— Non interferiremo, — lo interruppe Zuhre richiudendo il volume. — Davud e nessun altro deve sapere che siamo qui. —

Lei e il Maestro si scambiarono un lungo sguardo.

— Avete dei sospetti su di lui? — chiese Timotheos.

Ishak si riempì d'aria i polmoni e nel momento di liberarsene le rughe sul suo viso si erano distese solo un po'. 

— Tanti quanti ne ho sul Sultano. —

 

Quel pomeriggio Ràhel e Yusuf rimasero di guardia al Monastero, dando il cambio ad Amir e Serdar che scesero in città per condurre nuove indagini. Zuhre si trattenne nella biblioteca in compagnia di Timotheos, che le procurò qualche cartina dettagliata di Salonicco che potesse studiare, e il Maestro…

Ràhel entrò di colpo.

— Non riesco a trovarlo. —

Zuhre alzò gli occhi dalla mappa del Distretto Ottomano e la fissò, interdetta, attraverso la stanza.

— Cosa significa "non riesco a trovarlo"? —

Yusuf comparve dietro di lei e Ràhel si fece da parte.

— Anche nella chiesetta non c'è, — disse il turco. — E i tetti sono sgombri da qui al mercato, dove qualcuno ha organizzato la riunione mondiale dei gabbiani. Questa città ne è piena! —

Timotheos ridacchiò, continuando a scorrere le pergamene tra gli scaffali come se niente fosse.

Zuhre ringraziò il novizio che le aveva tenuto stesi gli angoli della cartina e quello poté riarrotolarla, mentre lei andava incontro ai due Assassini con preoccupazione crescente.

Yusuf si strinse nelle spalle. — A parte uno zoppo e la gilda delle anziane lavandaie al completo, non ho visto nessuno lasciare il Monastero. —

Zuhre si accigliò. — Dimentichi che sono stati i suoi occhi ad insegnare ai tuoi come si guarda, Yusuf. Ma non aveva motivo di andare in città. Non da solo! — eruppe. — O non senza aver avvertito almeno uno di noi! —

Serdar comparve sulla soglia massaggiandosi la pancia.

— Sono ancora pallido, vero? — chiese, notando con una smorfia che aveva attirato e non poco l'attenzione su di sé. — Infatti stavo cercando l'erborista, ma devo aver sbagliato… —

Zuhre lo afferrò per una spalla. — Il Maestro ti ha detto se andava da qualche parte? —

Serdar guardò in faccia uno ad uno i suoi compagni prima di rispondere.

— Perché, a voi no? —

 

Una falce di luna splendeva nel cielo ancora senza stelle di quella sera gradevolmente rinfrescata da un soffio ponentino, e per le strade si era appena spenta l'eco della preghiera del tramonto. L'interno del palazzo del Vali di Salonicco, nel cuore del Distretto Ottomano, era ben illuminato, segno che molte attività vi si stavano svolgendo, e l'Eunuco Alaattin Semiz le stava gestendo tutte col massimo dell'efficienza.

Era un omuncolo robusto e dal collo taurino, incassato tra due spalle larghe e avvolto da un pronunciato turbante di seta che raccontava tutta la sua storia. Infatti di quella seta l'aveva fasciato sua madre il giorno in cui era stato sottoposto all'evirazione, che aveva fatto di Alaattin un khāṣī molto apprezzato. Era entrato nella corte del Sultano giovanissimo e dopo un breve periodo al suo fianco era stato ceduto, come dono, dallo stesso Bayezid al nuovo Sadrazam, che serviva ormai da quindici anni.

Venendo dalle cucine del palazzo per annunciare che la cena era pronta e gli invitati già accomodati nella sala da pranzo, commise l'usuale quanto tollerato errore di entrare senza bussare nell'appartamento del secondo piano e vi sorprese, in piedi sul tappetto, il suo signore Davud Pasha in compagnia di un ospite decisamente… inconsueto.

As-salām ‘alaykum, Ishak Pasha, — balbettò l'Eunuco inchinandosi con rispetto, del tutto sorpreso da quell'incontro del quale non era stato messo al corrente… lui, che gli incontri del Gran Visir li aveva gestiti tutta la settimana! Si chiese anzi come avesse fatto il Greco a passargli sotto al naso senza che avesse potuto preannunciarne la visita. Poi con la coda dell'occhio sembrò notare la finestra sul cortile interno solo accostata e le sue sopracciglia ben disegnate s'ingobbirono.

Ishak chinò appena la testa nella sua direzione. — Wa ‘alaykum as-salām, Alaatin Semiz. Ti trovo ancora in ottima forma, — commentò con un sorriso gentile.

Il consigliere mormorò un timido ringraziamento. — Devo aggiungere un posto, Sadr-ı âlî? — domandò rivolgendosi al padrone di casa.

— Lasciaci, — ordinò Davud bruscamente.

Evet. —

Chinò la testa e richiuse le porte.

 

Era l'alba del loro terzo giorno a Salonicco e la tensione si era tramutata in paura quando Ràhel, finalmente e dopo un'intera notte di veglia, scorse le sagome dei suoi compagni salire verso le mura dell'Acropoli. La ragazza si apprestò a discendere la grande torre e con tre balzi raggiunse la strada intercettando il loro cammino, ma Zuhre e Amir, in testa al gruppo, la superarono senza dire una parola.

Al contrario, Yusuf si era fermato al lato del sentiero in prossimità di un piccolo pozzo, slacciandosi di dosso armi e bisacce. Scansò il cappuccio, si tolse la fascia e appoggiandosi al bordo immerse nell'acqua tutta la testa.

— L'avete trovato? — gli chiese Ràhel dopo averlo raggiunto.

Sollevandosi, Yusuf le diede un secondo per indietreggiare e dopodiché si sgrullò per bene, da bravo cane bagnato. 

— Sì. —

Come quella volta delle bottiglie da lancio, Ràhel si ritrovò a seguire il percorso delle gocce d'acqua lungo il suo collo e fin nelle profondità del cappuccio, calato sulle spalle.

— Dove aveva detto Serdar? —

Lui si sedette sul bordo del pozzo e cominciò a riallacciarsi la fascia sulla fronte.

L'appostamento attorno al palazzetto residenziale nel Distretto Ottomano era durato delle lunghe ore senza che si alzasse in volo una mosca. Lui e Amir avevano sorvegliato la sorveglianza (il compito più difficile che avesse mai svolto!) fino alla noia e poi Zuhre li aveva ricondotti al Monastero con la rabbia che le gonfiava le vene. Le parole della donna gli tuonavano ancora nelle orecchie come appena usciti dal Distretto Ottomano.

— Stabiliamo di mantenere le distanze e lui che fa? Si autoinvita alla tavola di Davud insieme ad altri quaranta membri dell'Impero, e per giunta senza parlarmene. Questa missione non ha un minimo di coerenza! —

Di tutto ciò Yusuf non disse nulla alla ragazza, rispondendole un misero:

— Sì. —

Ràhel alzò gli occhi al cielo.

— Potresti anche sforzarti di mettere più di tre parole nella stessa frase. Guarda che capisco, — sbottò.

Yusuf le lanciò solo un'occhiata e concluso il suo rituale lasciò il pozzo, borbottando nel turco più stretto e apparentemente senza senso che Ràhel avesse mai sentito.

 

Il Maestro rientrò al Monastero da solo e molto più tardi.

Amir lo vide comparire sul sentiero col tramonto alle spalle e lo aspettò, immobile come un rapace, senza abbandonare la sua postazione sul tetto della chiesetta. Zuhre lo aveva scelto per quel turno di guardia perché il siriano era l'unico che riuscisse a sopportare ore di apparente immobilità soffrendo il caldo meno di tutti. E i pomeriggi, a Salonicco, erano ancora torridi come in piena estate.

— Bel tentativo, — disse Ishak, alzando la voce per farsi sentire, mentre passava sotto di lui. — Ma lo so che mi avete seguito. —

Amir lasciò il suo avamposto con un balzo e si affiancò al Gran Maestro sulla strada per il Monastero.

— Non seguito, raggiunto, — lo corresse. — Serdar ce l'ha detto dopo lʿAṣr. —

— Se l'è presa comoda. — Non c'era rimprovero nella sua voce e anzi… forse della sottile riconoscenza.

Il siriano aggrottò la fronte. — Perché… —

Ishak si fermò e gli posò le mani sulle spalle.

— Ci sono cose che devo fare da solo, Amir, — disse fissandolo dritto negli occhi. — Per via del ruolo che ancora ricopro; dell'uomo che ancora, per qualcuno, rappresento. —

L'Assassino annuì.

— Capisco. —

Ishak sorrise e gli strinse più forte le spalle.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30: Contro il tempo ***


— Dopo quello strano fatto i giorni si inseguirono quasi con tranquillità, e dico quasi perché la caccia all'unica Coda di cui sospettavamo solo l'esistenza, come disse Yusuf, ci stava "facendo rimpiangere gli allenamenti di Amir." Sapevamo che in Grecia si nascondeva la più giovane del nuovo ciclo di Code, ma non sapevamo altro: era frustrante. Uno dei nostri informatori più fruttuosi si chiamava Varsos e viveva al Porto dove, quando non era impegnato a spaccarsi le braccia con le casse, accoglieva i visitatori e li guidava nella città per pochi spiccioli. Fu Timotheos ad indicarcelo fin da subito e non lo abbandonammo più. Conosceva Salonicco come le dita dei suoi piedi e il nostro Mentore lo prese ben presto in simpatia, invitandolo sempre più spesso ad attardarsi nel Monastero. —

Ezio accennò un sorriso. — C'è aria di reclutamento. —

Ràhel ridacchiò. — Un uomo come Ishak non si impressionava facilmente, ma non sarebbe rientrato ad Istanbul senza almeno un ricordo della sua casa, e Varsos era giusto la "mappa" con due braccia e due gambe che mancava nel suo studiolo. —

Ezio sorrise con affetto, chiedendosi quando gli sarebbe stato concesso l'onore di visitare quel santuario di leggende e babele di culture che poteva essere lo studiolo privato di Ishak Pasha.

— Una mattina, — riprese Ràhel, — quando Serdar insisté di poter tornare al mercato per fare i conti col mercante che gli aveva spacciato quei pistilli per noci, scoprimmo nuove a dir poco sconcertanti. Era a Salonicco Petro Zenas, un nobile macedone che si era fatto la fama di ribelle e di cui la gente preferiva ignorare l’esistenza. Da qualche settimana a quella parte aveva dimora fissa nel vecchio Distretto Bizantino, e in uno scambio di lettere codificate gli era stato promesso un fruttuoso compenso in Akçe per l’omicidio di un uomo molto caro al nostro Mentore. Come Visir, Ishak conosceva la sua leggenda meglio di chiunque altri: per anni quel piccolo principe diffamato dalla condanna a morte del fratello aveva scagliato pietre contro l’Impero e nascosto la mano, fomentando rivolte e attentando alla vita dei funzionari ottomani…

 













na palla al piede, insomma, —  commentò Yusuf con del sarcasmo amaro.

Amir gli scoccò un’occhiataccia. — E’ chiaramente una Coda, e la Testa deve averla reclutata in vista del nostro soggiorno qui, — disse cercando l’approvazione negli occhi del Mentore. — Perché ormai è chiaro che la sorveglianza non si è ingrossata al nostro arrivo per caso. Forse la nostra Testa si nasconde proprio tra gli ospiti di Davud. —

Nella biblioteca che era diventata la loro base operativa, Ishak rileggeva con attenzione la copia della lettera che il siriano aveva intercettato quella mattina.

— Dobbiamo essere cauti e abbiamo bisogno di conferme più concrete, — disse. — Tutta questa faccenda potrebbe essere una convergenza di eventi non casuale e potremmo uscirne danneggiati, — li ammonì piegando il foglio e assicurandolo nel cinturone. — Non voglio tornare ad Istanbul con più nemici di quanti ne avevamo alla nostra partenza. Ora aspettatemi fuori. — 

Amir annuì, si esibì in un inchino e si avviò fuori dalla biblioteca.

— Ma con qualcuno di meno, — ridacchiò Yusuf seguendolo.

— Timo, —  lo chiamò Ishak quando furono soli. — Ho bisogno di vedere Jospeh Fasi il prima possibile. —

Il Diacono finì di spolverare lo scaffale e cominciò a riempirlo dei libri che aveva posato sui banchi.

— Posso organizzarti un incontro. —

Ishak gli scoccò un sorriso eloquente.

Non è un incontro ufficiale, che voglio.

Timotheos lo fissò, a lungo, con un libro in una mano e la pezza nell'altra.

— Il Tesoriere vive nel cuore del piccolo distretto ebraico, ad ovest, sulla collina alle spalle della Basilica della Vergine. Lascia raramente i suoi appartamenti, ma non hai nulla da temere, amico mio: è già estremamente sorvegliato. —

— Questo sarò io a dirlo. —

 

Nel primo pomeriggio si misero tutti in marcia. Attraversarono la città a piedi seguendo il grande viale centrale che divideva in due la polis collegando il distretto Bizantino, ad est, con quello Ottomano, ad ovest, e il centro dell’antica Agorà li accolse affollatissima: il candore del marmo ellenico soffocava nei colori accesi di stoffe, tappeti, spezie e cianfrusaglie del mercato sempre florido nella grande Salonicco, il cui pomposo commercio le aveva permesso di boccheggiare anche nei momenti di crisi. Superarono la Soğuksu Camii, nome con cui gli Ottomani avevano ribattezzato la basilica indicata da Timotheos, e qui si addentrarono nel quartiere ebraico, dove, in una frazione dell’antica Tessalonica greca, ruderi di mura compivano una curva dolce intorno alla collina intrappolando un complesso di edifici bassi e dall’aspetto antico. La residenza di Jospeh Fasi si presentò ai visitatori come la facciata di una modesta palazzina dall’architettura tipicamente romanica, circondata da casette basse che l’abbracciavano con vigore come tanti fedeli.

Ishak appoggiò la mano sull’elsa della spada e con un gesto diede ai suoi Assassini l’ordine di imbracciare le armi. Nessuna guardia presidiava l’ingresso al palazzo e la porta era solo accostata. Qualcosa la ostacolava dall'interno e Yusuf e Serdar dovettero far forza per aprirla.

L’atrio senza finestre, ampio ma povero di mobilia, era silenzioso e il grande braciere centrale era spento.

Bok… — digrignò Serdar.

Ishak sguainò la spada e si lanciò sulle scale senza dare ordini precisi e Zuhre e Ràhel lo imitarono poco dopo con la stessa urgenza.

— Ecco dov’erano le guardie… —  commentò Amir ombroso.

Yusuf diede un calcetto al cadavere appoggiato contro la porta e quello crollò a terra. Il salone ne era disseminato e c’era quasi un morto per gradino…

 

Un grassoccio monachello attraversò il chiostro correndo trafelato e calpestò erroneamente la camomilla. Spalancò le porte della biblioteca e trovò il Diacono Superiore Timotheos che miniava al banco. S’inginocchiò, esausto, ai suoi piedi.

— È la camomilla del cellario quella sotto ai tuoi sandali, Phistéos? —  domandò il Diacono senza interrompersi.

Quello tremò. — Perdonatemi, Diákonos, ma sono giunte notizie sconcertanti dalla cittadella ebraica. —

 

Joseph Fasi, il primo dhimmi a Salonicco dopo il censimento ottomano del 1478, capo e tesoriere della Comunità Sefardita della città, uomo di grande cultura e amore per la patria e per il suo popolo, era morto all’età di sessantasette anni.

Il suo corpo senza vita era riverso sul pavimento, in una pozza di sangue, ai piedi del grande scranno nel centro della stanza. Al momento della scoperta indossava gli abiti comodi e informali di chi si è chiuso in casa tutta la giornata. La folta barba bianca incorniciava un viso allungato, bello, ma deformato da una morte lenta e dolorosa. Era stato colto di sorpresa e alle spalle, mentre compilava dei registri. Poiché la ferita nella schiena non era molto profonda e lo aveva ucciso per dissanguamento, il vecchio Sefardita aveva avuto il tempo di alzarsi, voltarsi e guardare in faccia il suo assassino prima di rovinare nell’oscurità del tappeto.

Amir s’inginocchiò. Molto del sangue attorno al corpo del Tesoriere si era essiccato, la sua carne freddata: il gesto di poggiargli due dita sul collo fu solo una cerimonia.

Scosse la testa. — Siamo arrivati tardi… troppo tardi, Mentore. Mi dispiace. — 

Il siriano si alzò e tornò in fondo al gruppo.

Ishak si chinò su un ginocchio per chiudergli gli occhi. — Chi ti ha ucciso ha sfidato gli Assassini, fratello, —  disse.

— E voleva che lo trovassimo, — aggiunse Yusuf.

Dopo che Ishak ebbe incaricato Zuhre e Serdar di rimanere nella zona ad indagare, Amir, Yusuf e Ràhel lo seguirono sulla strada del ritorno verso l’Acropoli. Raggiunsero il Monastero di gran corsa e quasi sfondarono la porta della biblioteca.

— Jossef Fasi è morto. —

L’espressione del Diacono Timotheos, che misurava il pavimento della stanza a grandi passi, non si deformò di un pelo.

— Lo so. —

Ishak indietreggiò, sorpreso. — Come? —

Il religioso sembrò avere la risposta, ma poi, riflettendo, chiamò dai banchi il grassoccio monachello di quella mattina e gli fece la stessa domanda.

Phistéos tremò. — È venuto qui un uomo, — disse rivolto anche al Visir.

— Chi? —  indagò Ishak sempre più oscuro, ma Timotheos congedò bruscamente il monachello prima che questi potesse rispondere; quindi nella biblioteca rimasero solo gli Assassini e il Diacono.

Il Mentore lo fissava, ma il religioso si ostinava in un tormentato silenzio.

— Samuele? — mormorò Ishak.

Timotheos scosse la testa. — È scomparso, —  disse. — Una settimana fa. —

— La mattina dopo il nostro arrivo, — rifletté Amir. — Non è una coincidenza. —

— No, infatti, — replicò il Diacono, fermandosi al centro della piccola biblioteca e incrociando le braccia. Lo sguardo penetrante, sotto le lunghe sopracciglia nere, trasmetteva una grande inquietudine. Gli occhi del cervo maschio che vede la lince avvicinarsi alla sua mandria: ora sono preoccupato per la mia gente.

Ishak fece un passo verso di lui. — Non permetteremo loro di superare le mura dell’Acropoli, —  digrignò. — È una promessa. —  

— No, —  replicò il religioso. — Se resterete qui ad aspettarli la partita si aprirà secondo le regole che si sono prefissi e sarà un massacro. Dovete anticiparli, stanarli in città. —

— E voi? —

Timotheos si esibì in un sorriso forzato. — Non troveranno ciò che stanno cercando, e questo forse potrebbe indurli a riporre le armi, almeno di fronte ai servi di Dio. — 

— Se avessi voluto scappare non sarei venuto fin qui, Timo! — obiettò Ishak impetuoso.

— E non ti sto chiedendo di farlo! —  rispose a tono il Diacono, sciogliendo le braccia. — Ma solo di tener conto dell’integrità del tuo Ordine. I tuoi nemici sono organizzati e chi li guida non è il genere d’uomo che si fa scrupoli. Jossef era anche mio amico, ma davvero non capisci perché proprio lui? L'uomo che è venuto qui stamane è un semplice, un contadino che vive in quest'Acropoli, un commerciante onesto che vende in piazza ciò che è di troppo per la sua tavola; dice di aver sentito i Giannizzeri cercare degli stranieri con cappucci bianchi, accusati di aver assassinato il Tesoriere. Vogliono incastrarti, fratello. Perciò placa la tua collera, o ci ucciderai tu stesso. — 

Ishak strinse le labbra e chinò la testa. Dopo un lungo e teso silenzio, mormorò con calma: — Saggio. Lo sei sempre stato, amico mio, ma la guerra non ti ha mai perdonato questa debolezza. — 

Timotheos gli mise le mani sulle spalle e con gli occhi passò in rassegna i tre Assassini dietro di lui. — Diventare la guida dei cuori bianchi del Mondo, puri, valorosi, liberi: di non essere stato al tuo passo nella carriera militare, Ishak, rimpiango solo questo. —

Si abbracciarono con trasporto.

 

La corsa contro il tempo era cominciata: se dall’altra parte del tavolo c’era chi, come aveva detto Timothoes, non si faceva scrupoli a spargere sangue sulla scacchiera, giocando sporco a spese degli innocenti, c’era poco da esitare. Anche chi aveva recato notizie al Monastero riguardo la morte di Jossef Fasi era direttamente coinvolto, pedina di chi voleva che la notizia arrivasse tra quelle mura. Un invito a fare la propria mossa.

Superando la grande Torre a guardia dell’Acropoli, videro venir loro incontro Serdar, che non appena li raggiunse si appoggiò alle ginocchia per riprendere fiato. Doveva essere arrivato di corsa fin lì dal quartiere ebraico, perché era un bagno di sudore e pallido come la luna. Le gambe cedettero.

— Dell'acqua, — ordinò Ishak, reggendolo.

 Ràhel volò in direzione del pozzo più vicino.

— Davud Pasha… — mormorò Serdar tra una boccata d'aria e l'altra, mentre Amir e Yusuf lo toglievano dalle braccia del Mentore per portarlo all'ombra di un ulivo; qui lo misero seduto appoggiandolo al tronco con le gambe distese.

— Il Gran Visir è salpato… dall’Arsenale. —

— Anche questa non è una coincidenza, —  borbottò Yusuf. — Non lo è affatto. — 

— Che altro? —  chiese Ishak con un'espressione indecifrabile.

Serdar deglutì. — È diretto… ad Istanbul. Abbiamo scoperto che è coinvolto… nell’omicidio… di Jossef e Zuhre… si è introdotta nella sua nave. — 

Ràhel tornò con un catino di terracotta e lo passò ad Amir, che aiutò il compagno a bere a piccoli sorsi.

— Davud è la Testa, —  mormorò Yusuf  sgranando tanto d'occhi, — e tu eri in casa sua… — concluse alzando lo sguardo verso di lui.

Il Mentore strinse i pugni tanto forte da far sbiancare le nocche e sollevandosi si allontanò, lo sguardo perso nel vuoto.  — Sono stato così cieco… — mormorò, indietreggiando.

— No, —  cominciò Amir, scettico, scuotendo la testa. — Maestro, dopo di te e per quindici anni Davud ha guidato il Divano con devozione totale alla Sublime Porta ed è tutt’ora un tuo grande sostenitore. Tutta questa storia è solo un'orribile coincidenza e Zuhre lo scoprirà presto! —

Il Maestro si voltò e accarezzandosi il viso con una mano uscì del tutto dall'ombra dell'ulivo. Non rispose.

— Zuhre ha intenzione di togliergli la vita? — chiese Yusuf in un sussurro.

— No, — singhiozzò Serdar con gli occhi arrossati. — O almeno non finché… sarà da sola e su quella nave… Sarebbe… un suicidio. —

Ci fu un lungo silenzio.

Lo sguardo del Mentore puntava l'orizzonte, oltre i tetti di Salonicco e oltre la costa, dove cielo e mare si sfioravano. Laggiù, riusciva quasi a immaginarla, c’era una pantera in mezzo ai leoni.

Serdar deglutì a fatica.

— E lei… lei ha bisogno di prove. —

 

Ràhel lo guardò dritto negli occhi.

— Davud Pasha aveva costruito moschee, terme, mercati e scuole; Istanbul è piena dei suoi manifesti di pace che gli regalarono prestigio e il favore della gente. Nel momento di allontanarsi dalla carriera politica per dedicarsi alla Confraternita, Ishak aveva riposto in lui tutta la sua fiducia e la sua stima, designandolo personalmente a Bayezid come suo successore ideale, lodando i successi, le vittorie e l’onore dimostrato nelle ingenti campagne militari. Una di queste Davud l’aveva condotta in Albania, la terra da cui il reclutamento tributario che l’Impero imponeva alle province cristiane l’aveva strappato in tenera età. Anche Ishak aveva lasciato Salonicco, giovanissimo, per lo stesso motivo. Ma mentre per uno la guerra era stata l’unica e trionfante possibilità di sostentamento, per l’altro doveva aver significato solo sofferenza e dolore ingiustificati. Essere a capo delle Quattro Code, ed esserlo sfuggente come un piccolo ragno dorato, gli aveva permesso di costruirsi la sua tela invisibile. Gli anni al potere lo avevano trasformato non in un’infida vipera, ma in un minaccioso e calcolatore dragone, con ali da pipistrello e zampe da leone, e come tutte le creature dal duplice aspetto era duplice il suo schieramento: riuscendo a nascondere abilmente la sua ambiguità sotto al turbante, dal giorno dei patti tra la Sublime Porta e gli Assassini Davud Pasha aveva continuato a mostrarsi un promotore dell’Impero, ma con un nuovo fine, e un po’ diverso da quello che ci si potesse aspettare… —

Ezio non disse nulla e Ràhel, greve, proseguì:

— Il sotterfugio, la bugia, il tradimento e la corruzione avevano trovato il loro perché. La nostra missione sarebbe stata impedire la riscossa di un sedizioso Templare nonché influente Visir, vittima del devshirme, dal radicato rancore. —

— Perché fuggì? —

— Fuggire? —

La ragazza esplose in una risata sommessa.

— No, Davud non stava fuggendo. —

Un'ombra passò nei suoi occhi verdi.

— Davud stava tornando ad Istanbul per prepararsi a raccogliere da lì i frutti di ciò che aveva seminato proprio alle nostre spalle. Con un misterioso gioco di ombre e nell'arco di una notte, si era trasformato da preda a cacciatore. Il Mentore capì immediatamente che era stato Samuele a tradire la nostra presenza nel Monastero, ma non osò immaginare con quale ricatto Davud fosse riuscito ad estorcergli quell'informazione... L’omicidio di Jossef? Un’esca, una scusa per trattenerci in Grecia mentre la Testa prendeva il vento verso Costantinopoli, con il chiaro intento di accusarci della sua morte al Sultano in persona e rivoltarci contro l'intero Divano. —

Dopo una lunga pausa sollevò lo sguardo e lo piantò dritto in quello di Ezio, che la osservava in un silenzio ossequioso.

 — Tutte le azioni avventate, siano queste pure necessarie e nel giusto, hanno un caro prezzo… — disse Ràhel. — Salendo su quella nave Zuhre aveva scelto il male minore e nessuno le rimproverò mai quella scelta; neppure lo stesso Ishak. Ma ora la nostra attenzione era tutta per Petro, responsabile della morte di Jossef e unico capro espiatorio per il nostro riscatto da una nuova ondata di persecuzione. Dovevamo stanarlo e costringerlo a seguirci in catene fino alla Sublime Porta. A quel punto ci avrebbero pensato Bayezid e la sua cerchia a compiere una parte della nostra vendetta. —

 

 A notte fonda si mossero in direzione del distretto Imperiale addentrandosi nell’Ano Poli, uno dei quartieri sviluppatosi attorno all’Acropoli nonché tra i più antichi di Salonicco. Qui il manifesto bizantino e le architetture classiche si miscelavano senza un canone preciso, in un assembramento caotico di stili che risultava lo stesso piacente. Era una zona molto popolosa, residenziale, nonostante fosse a ridosso della collina e perciò in una poco agevole pendenza. Scendendo incontrarono la basilica di San Paolo e poi, continuando dritto, videro stagliarsi la grande Tomba dell’Imperatore Galerio, un imponente mausoleo circolare che sotto Teodosio era stato trasformato in basilica consacrata a San Giorgio. Per via dei festeggiamenti in onore di Demetrio, il patrono della città, quella notte i fedeli cristiani di Tessalonica si erano riversati come un fiume nel grande viale che accompagnava al mausoleo, dove il Martire romano era passato a fil di lama. Contemporaneamente, dall’altra parte del distretto e nella basilica a lui consacrata, si stava svolgendo una messa in suo onore.

Facendosi largo nella folla, Ràhel riconobbe le ombre di Serdar, Yusuf e Amir appostati in cima al mausoleo. Le additò al Mentore e subito aggirarono il monumento per scalarlo sul retro.

Amir venne loro incontro con uno strano sorriso. — Non lo abbiamo ancora trovato, Maestro, ma sappiamo dove cercare. — 

Erano mercenari senza insegne, uomini di varie lingue, aspetto ed etnie, ma tutti pronti a dare la vita per il signore che li pagava. Si nascondevano fuori le mura, nei pressi di una vecchia cisterna piovana in disuso da secoli, ma che nelle sue epoche migliori era stata parte integrante di un monumentale complesso termale, ora ridotto a macerie.

— Che Allah li perdoni, tutti quanti. —  A queste parole Ishak aggiunse l’ordine di separarsi e fare, nell’ombra, piazza pulita. — Ma se trovate Petro Zenas, assicuratevi che possa tornare con noi a Costantinopoli, vivo. — 

L’oscurità dell’antica cisterna giocò a loro favore. Ogni passo, ogni torcia che si spegneva, ogni piccolo gemito era calcolato, in quella danza della morte dalla sincronia perfetta. Della loro presenza lì non lasciavano traccia, aprendosi nel silenzio la strada verso il cuore delle terme.

 

Ishak si chinò ad esaminare il cadavere e prese dalle sue tasche un pugno di monete.

Akçe imperiali, —  mormorò.

Ràhel finì di ricaricare la balestra e se la mise in spalla, avvicinandosi. — Sono molti soldi? — 

— Più di quanto potrei permettermi io, —  rispose il Maestro lasciando le monete sul petto dell’uomo.

Mentre Ishak si rialzava, un luccichio metallico attirò l’attenzione della ragazza oltre le sue spalle, ma Ràhel fece in tempo solo a gridare: — Mentor! — 

Il buio piombò all’improvviso.

 

Serdar fece capolino nel calidarium con un balzo da un foro del soffitto, dal quale aveva visto i soldati trascinare via i corpi inermi di Ràhel e del suo Maestro. — Bok, — imprecò, e continuò a ripeterlo sottovoce mentre, spostandosi di ombra in ombra, seguiva la scia di sangue che andava verso il frigidarium.

 

Amir si calò con agilità nell’anticamera della zona adibita a palestra e trovò Yusuf che, tra le ombre di due colonne, torceva il collo ad un uomo di pattuglia. Prima che il corpo si accasciasse al suolo, il siriano gli sfilò dalla mano la torcia e la spense senza suoni in un cumolo di sabbia.

— Ho vinto, — disse avvolto dalle tenebre.

Amir aggrottò le sopracciglia. — Scusa, qual era la sfida? —  

Yusuf lo superò con una risata, lasciandolo ancora più confuso, ma d'un tratto Amir gli mise una mano sulla bocca e lo trascinò nell'ombra. 

Dai resti dell’antico frigidarium venivano delle voci, troppe per rischiare uno scontro.

I due Assassini si nascosero dietro le macerie di alcuni basamenti e rimasero in ascolto.

Un focolare da accampamento era stato improvvisato al centro della sala, sul fondo della piscina prosciugata. Buona parte della cupola era crollata e dal lucernario del progetto originario si potevano ora vedere intere costellazioni. Tra i vari mercenari di pattuglia spiccavano due uomini: il primo, alto e piazzato, misurava a grandi passi il perimetro della piscina girando attorno al fuoco; il secondo sedeva sui gradini di accesso alla vasca e fissava, con i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo assorto, le fiamme scoppiettanti che proiettavano lunghe ombre sulle pareti.

Chi dei due fosse Petro Zenas solo Ishak poteva dirlo.

— Odio questa diavolo di attesa. La odio, —  borbottò quello in piedi.

— Arriveranno. L’Albanese mantiene sempre le sue promesse, —  disse quello seduto che sembrava più calmo.

— Oh, non lo metto in dubbio! Ma arriveranno prima i miei soldi o quei maledetti Assassini? — 

— Devi calmarti. —

In uno scatto d’ira l’uomo in piedi afferrò una pietra da terra e la scagliò con impeto nel fuoco, che sputò un getto di scintille. — Con la prossima ci spacco il tuo brutto naso se mi ripeti un’altra volta di stare calmo! —

— I soldi arriveranno, Petro, e prima degli Assassini. Te lo garantisco. — 

Mi spiace deluderti, Yusuf stava per alzarsi e sguainare il kijil, ma Amir lo tirò di nuovo nascosto dietro le macerie.

Nel frigidarium fece capolino un manipolo di soldati e sulle prime Petro Zenas e il suo compagno sfoderarono le armi, mentre i mercenari al loro servizio formavano un semicerchio attorno ai gradini della vasca.

Una sacca dall’aspetto pesante venne lanciata ai piedi di Petro Zenas e le monete luccicanti si riversarono sul fondo della piscina aprendosi come una macchia d’inchiostro dorato.

Petro fece una smorfia schifata.

— Tutto qui? Non è neanche la metà! —  protestò.

Dal gruppo emerse un Giannizzero.

— Tu non hai fatto neanche metà del lavoro, —  disse, poi tra gli uomini alle sue spalle si aprì un varco e i corpi esanimi di Ràhel e del loro Maestro furono trascinati avanti e lasciati cadere al cospetto del macedone. La ragazza sembrava solo svenuta, ma Ishak respirava affannosamente come un cavallo ferito.

Di nuovo Yusuf sfiorò l’elsa del kijil e di nuovo Amir lo fermò prima che andasse incontro al suicidio.

Petro Zenas si voltò per scoccare un’occhiataccia al suo socio. — I soldi arriveranno, Petro, e prima degli Assassini. Te lo garantisco!  gli fece il verso. — A quanto pare erano sullo stesso carro…—  borbottò. Quando tornò a guardare il Giannizzero di fronte a sé, aveva un’espressione d’acciaio. — Dove li avete trovati? —

— Nella zona del calidarium, —  rispose la guardia ottomana.

— E ce n’erano altri? —

— Due sono stati più che sufficienti per decimare la tua sorveglianza. —

Petro represse un nuovo scatto di collera. Il volto si era fatto paonazzo. — È impossibile. — 

— Sono qui per assicurarmi che con quei soldi tu paghi gli uomini che ti restano e dia loro il congedo: hai sottovalutato i nemici del mio Signore, ma non salderai il debito del tuo errore con una vita in più tra quelle che ti hanno servito stanotte. —

— Allora Davud sapeva che sarebbero venuti a cercarmi! —

— Ovviamente. Eri tu stesso parte della sua trappola. —

Petro indietreggiò per chinarsi a raccogliere le monete. — Voi Ottomani maledetti… vi sentite i padroni del mondo e siete tutti uguali, —  borbottò facendo il nodo alla sacca con uno strattone. — Andiamocene, Ariston. —

Petro Zenas, il cupo fratello Ariston e i loro mercenari sgombrarono il frigidarium.

— Dobbiamo fare qualcosa, — sibilò Yusuf estraendo di un palmo il kijil dal suo fodero.

Amir dissentì con una parola nella sua lingua. — Hai sentito cosa ha detto il Giannizzero? È una trappola e se usciamo allo scoperto sarà la fine. Anche senza i mercenari di Petro, hai visto quanti sono? — 

L’altro lo afferrò per la veste con violenza. — Quindi lasceresti il tuo Mentore a morire, fammi capire? —  digrignò tra i denti.

— Non li uccideranno. —

— Come fai ad esserne così sicuro? — 

— Perché non lo ha ucciso quando ne ha avuto l'occasione? Te lo dico io perché! La stima tra Ishak e Davud è sempre stata molto, troppo alta e reciproca, e lo sapresti se quel giorno al Topkapi non avessi dormito in piedi! —

— Ma Davud è un Templare, Amir! Devo farti un disegno?! — 

Un grido squarciò la sala del frigidarium e i due Assassini si voltarono all’unisono.

Ràhel estrasse dalla coscia del Giannizzero la lama del suo piccolo pugnale da stivale, che nel momento di requisirle le armi i suoi aggressori non le avevano trovato addosso, e tre soldati le vennero incontro: lei schivò il colpo e aprì uno squarcio sulla gola del primo, mandò a terra il secondo finendolo con un affondo preciso nel petto, ma il terzo riuscì a disegnarle un taglio profondo sulla spalla; subito dopo, e con un ruggito, Ràhel lo disarmò e lo costrinse a indietreggiare.

Ora la ragazza ringhiava come una lince ferita in balia degli avvoltoi, respingendo chiunque tentasse di avvicinarla. Attorno a lei, e al corpo di Ishak cui faceva scudo col proprio, si creò un’ampia bolla di terra vuota.

Il Giannizzero che aveva ferito alla gamba venne aiutato a rialzarsi e portato dietro le fila dei suoi uomini, che avanzarono camminando sui cadaveri dei loro compagni.

In quel momento di stallo Yusuf e Amir saltarono fuori dal loro nascondiglio e, sguainando il kijil e la sciabola, si avventarono sui soldati.

Fu il caos e lo scontro violento e implacabile, ma quando anche Serdar lasciò il suo nascondiglio per unirsi alla battaglia, la fazione nemica, malgrado fosse in maggioranza, venne sopraffatta. Allo stremo delle forze e ormai solo, il Giannizzero sollevò l’arma da fuoco puntando la canna tremante contro di lui, ma Yusuf, quasi con facilità, gli rivoltò il braccio e lo disarmò. Dopodiché Amir, colpendolo sul collo con l’elsa della sciabola, concluse l’opera mandandolo a terra.

— No! —

Il grido di Ràhel aveva fatto tuonare il salone.

Era china sul corpo del Maestro e gli teneva la testa sollevata, mentre Ishak si premeva con vigore una mano sul fianco, artigliando le cinghie dell’armatura come per volerle strappare via. Amir si chinò su di lui e fece per aiutarlo, ma il Mentore lo fermò.

Le labbra erano pallide e il sudore gli imperlava la fronte insinuandosi tra le rughe profonde. — Petro…—  mormorò. — Amir, non lasciarlo scappare… Devi… portarlo al Sultano, far… farlo confessare…Va’! —  il comando rimbombò nel frigidarium con la potenza di un tamburo e il pavimento delle antiche terme sembrò tremare sotto di loro.

Il siriano si rialzò coi pugni serrati. Il viso ambrato si era indurito come la pietra e gli occhi neri, pieni di luccichii, ridotti a due fessure.

— Ràhel, Serdar: con me, — disse in un filo di voce.

Mentre passava dalle braccia della ragazza a quelle di Yusuf, Ishak avvicinò le palpebre e annuì debolmente, come per dare il suo assenso.

Amir e Serdar volarono fuori dal frigidarium ma Ràhel indugiò sull’uscita prima di seguirli e, voltandosi, incontrò lo sguardo saldo di Yusuf. Poi un richiamo, forse di Serdar, e l'oscurità se la portò via.

 

Il fuoco al centro del frigidarium proiettava le loro ombre, lunghe e nere, sui giochi di marmo del pavimento, ma andava spegnendosi. La luce si era abbassata e qualche tronchetto aveva ceduto, sbriciolandosi in una pioggia di scintille.

Il silenzio era rotto solo dal tintinnio del metallo. L’Assassino finì di slacciare anche l’ultima cinghia e lo spesso cinturone decorato scivolò a terra. Ishak inspirò profondamente e Yusuf lo sentì rilassarsi tra le sue braccia.

— Grazie, ragazzo mio… — 

— Onorato, Mentore, —  sussurrò Yusuf di rito.

Il colpo d’arma da fuoco aveva ignorato l’armatura e scavato in profondità, forando la cotta e il camicione fino a raggiungere la carne del fianco. Chiunque gli avesse sparato, lo aveva fatto vigliaccamente, a bruciapelo e alle spalle, sapendo anche dove puntare la canna.

Per un po’ rimasero così, immobili come un tutt’uno e riscaldati dal focolare, che stentava il suo scoppiettio a pochi passi da loro.

— Domani sarà bel tempo, — disse Ishak d’un tratto.

Solo allora Yusuf si accorse che il Mentore aveva riaperto gli occhi e fissava il cielo stellato sopra le loro teste. Chissà da quanto, si chiese.

— Dici? — domandò seguendo il suo sguardo.

Ishak sospirò. — Salperete col mare calmo, grazie a Dio… — 

Yusuf si sforzò di sorridere. — Ancora credi nel tuo Dio? — 

Anche il vecchio stirò appena le labbra. — Non mi ha mai abbandonato, —  mormorò con commozione.

— Neanche noi, Mentore. —

Ishak gli strinse una mano. Negli occhi il fuoco e le stelle.

Il dolore era scomparso.

 — Lo so. — 

 

— Quel dì di ottobre il nostro Mentore moriva secondo il disegno templare, e quel giorno, non l’Impero o l’Ordine, ma i patti che li univano vennero meno. Ishak Pasha non era stato né Mentore né Visir. Tutta la sua vita l’aveva consacrata al mezzo, all’equilibrio tra le parti, alla giustizia che è naturale in tutte le cose. Sarebbe stato ricordato o dimenticato, a seconda delle ere, come l’intermediario tra due mondi, come il ponte tra due strisce di terra inconciliabili. Il messaggero della neve per la sabbia. —

Ràhel alzò gli occhi nei suoi ed Ezio distinse chiaramente le lacrime appoggiate sul filo delle sue palpebre.

— Fu seppellito lì, a Salonicco, nella sua casa, nella terra dalla quale lo stesso Impero che poi aveva servito con tanto onore lo aveva strappato solo bambino, cancellando dai suoi ricordi il volto dei suoi genitori, ma non quello dei suoi amici. Timotheos celebrò il rito e mise sulla sua tomba la prima pietra. Yusuf, l’ultima. —

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 31: La pantera ***


— Con la morte di Ishak e la Confraternita sprovvista di una guida, Davud era sicuro di farsi concedere il permesso di mettere a ferro e fuoco l'intero Distretto di Galata pur di arrivare al nostro Covo centrale e proclamare la totale sconfitta degli Assassini. —

— Ma Zuhre? Lo fermò in tempo? — domandò Ezio con la curiosità di un bambino;  i riflessi delle fiaccole danzavano nei suoi occhi scuri come tante lucine.

Ràhel gli sorrise, commossa.

 — Se fosse andata diversamente, né io né nessun altro sarebbe vissuto così a lungo da raccontarlo. —

Ezio, imbarazzato, riacquistò la compostezza smarrita. — Logico. —

 

 

 

 

 

 

Ak Deniz,

Safar 903

 (Ottobre 1497)

 

 












hi, tu! —

— E’ un povero straccione, lascialo stare. —

— Com’è salito sulla nave? —

         — Che ti importa? Ti dà fastidio? Guardalo! Sta tutto il giorno a pregare. Davud ha detto che ci porterà fortuna. Dai, andiamo. —

La sera precedente era andata peggio.

— Secondo me è morto… —

Un calcio.

Aveva cominciato a pregare più forte, tanto per non farsi colpire ancora.

— Che preghiera è? — aveva chiesto l’altro tendendo l’orecchio.

— Bhò, aspetta… —

Un altro calcio.

Adesso il mormorio era diventato quasi un grido.

— Ancora non sento! Avanti vecchio, canta più forte! Ahaha! —

Aveva irrigidito tutti i muscoli per prepararsi al terzo.

— Voi! Cosa state facendo? —

In coro: — Sadrazam… —

— Miscredenti! Lasciatelo in pace e tornate in coperta! Forse le sue preghiere ci libereranno da questa pioggia maledetta… —

Mentre quelli scappavano via di corsa Davud aveva posato un paio di monete accanto alla sua testa, premuta sul misero musallah che si era procurata prima di salire a bordo assieme ad un mantello logoro, per stare comoda nella parte.

         — Prega perché Dio benedica il nostro viaggio. —

Tu dammi una buona ragione per farlo, aveva pensato Zuhre sbirciando da sotto il cappuccio fradicio la sagoma del Gran Visir allontanarsi nella pioggia battente.

Il ponte della nave era deserto.

Solo lei e il Sadrazam, entrambi in balia della tempesta.

Aveva sentito l’archibugio riscaldarsi tra le sue ginocchia come per chiederle di essere usato. Avrebbe potuto estrarlo e sparare, era carico e il suo bersaglio neanche troppo lontano, ma il boato avrebbe attirato l’attenzione... e lei era sola, su quella nave diretta ad Istanbul piena zeppa di Giannizzeri, braccata non diversamente da un solitario topolino nella stiva sorvegliata da una dozzina di gatti, quindi persino la lama celata si riduceva a niente di più utile di un coltello per sbucciare la frutta.

         Quella mattina, col bel tempo e dopo un’intera nottata trascorsa in ginocchio penitente come una peccatrice, Zuhre ringraziò il Dio che aveva finto di pregare per averla salvata da qualche altro calcio. Ammiccò appena con la testa incappucciata per ringraziare il Giannizzero che, imparata la lezione di umiltà dal suo signore, l’aveva graziata portandosi via il compagno.

Verso metà giornata il suo marinaio preferito, quello con la faccia paffuta e i baffoni, le si avvicinò offrendole una prugna. Lei accettò, facendo uscire timidamente una mano da sotto il mantello, e lo ringraziò con un gesto del capo unendovi una vera preghiera a voce. L’uomo le sorrise di rimando e se ne tornò a lustrare la balaustra prendendo a morsi una mela.

Zuhre se lo spiava attraverso la filatura grossa del suo cappuccio. Era proprio un tipo bonario, l’unico che già in tre giorni di viaggio le aveva riservato della compassione materiale, offrendole tutte le volte metà del suo misero pasto e venendo a posarle sulle spalle, al calar del sole, un altro mantello. Ma obbligata in ginocchio o nascosta nella penombra per non lasciar intendere la reale natura della sua persona, Zuhre non era salita su quella nave fingendosi uno straccione tanto per non pagare la trasferta. Il travestimento reggeva, ma doveva muoversi al più presto: di giorno mendicante e di notte Maestra Assassina in lotta per riscattare l'integrità del suo Ordine sull'orlo di una vile cospirazione, puntava di intrufolarsi nei meandri nella nave come un topo in cerca del formaggio, sgusciando tra le ombre e le guardie senza colpo ferire per portare alla luce una prova della quale, una volta al cospetto del Divano, avrebbe potuto servirsi per condannare la vera natura di Davud.

         In questo il suo affezionato benefattore le sarebbe stato d’aiuto.

 

         Quando l'ennesima pattuglia l'ebbe superata, Zuhre si alzò, prima in ginocchio e poi sulle punte facendosi scivolare di dosso la mantella senza un fruscio; quindi prese i due sacchi di polvere da sparo che si era fatta portare dal suo marinaio preferito con la scusa di usarli come accomodamenti per la schiena di un vecchio e li sistemò sul musallah in modo che simulassero una figura inginocchiata, coprendoli infine col suo mantello. Si nascose dietro alcune casse ad attendere il ritorno della pattuglia e, notando che il trucco reggeva, lasciò il ponte e si calò sottocoperta come una lucertola. Superò l'alloggio delle guardie ed evitò tutte le stanze illuminate. L'archibugio in spalla, cinque pugnali da lancio ben affilati, lama celata pronta all'uso.

          Nell'ultimo periodo del suo apprendistato, in una delle missioni che le sarebbe valsa la promozione ad Assassina, le indagini l'avevano portata ad un mercante molto noto, all'epoca, per il contrabbando di animali dall'oriente delle leggendarie foreste indiane all'occidente affamato di stranezze. Il fascino della pantera in quella Babele di bestie era riuscito ad impressionarla e tutt'ora portava con sé il ricordo degli occhi gialli, delle zampe possenti e del manto nero come la notte.

Salì la chiocciola per il piano nobile senza far scricchiolare le assi e qui si acquattò, come una pantera pronta al balzo, dietro la porta socchiusa.

 

— Trovò quello che stava cercando, ma se ne impossessò solo allo sbarco, o Davud avrebbe sospettato troppo presto di avere a bordo non un mendicante ma un abile… ladro. —

— Immagino che se ne accorse lo stesso. —

Ràhel sospirò.

— La perfezione non esiste, eppure le azioni di Zuhre su quella nave e ad Istanbul durante l'assenza del Maestro ne valsero la nostra salvezza. —

Ezio si era fatto perplesso. — Cosa trovò? — chiese. — Con quale oggetto, intendo, Zuhre poté sostenere la sua accusa al Sadrazam? —

Ràhel sorrise.

— Non ho parlato di oggetti, Mentore. —

 

— Samuele di Isaac Abrabanel, al cospetto di questa corte tu accusi il vezir-i âzam Da'ud Paşa di complotto, sedizione e tradimento ai danni della Sublime Porta e degli Assassini, suoi alleati, poiché vero ed unico mandante e responsabile della morte del Gran Rabbino di Salonicco Jossef Fasi. —

La sala del Divano era colma dei suoi membri, che convocati senza urgenza al montar del sole erano stati costretti poi ad affollare la sua cupola fino a mattina inoltrata.

— Sì, e sono la mia sola fedeltà e riconoscenza alla Bab-ı Ali a chiedere che la sua corte prenda immediati provvedimenti. —

Samuele acquistò, con quelle parole, un certo livello di apprezzamento tra i Visir, schierati come una platea attorno a lui che era il suo centro e Ibrahim Pasha, in assenza del Gran Visir, il suo fulcro. Il gracile micetto che aveva accolto gli Assassini nel grande Arsenale di Salonicco esplodeva ora della fierezza di una lince in mezzo ai pavoni.

— I vostri emissari lo confermeranno tra qualche giorno, — aggiunse Samuele, — e lo stesso Davud sta venendo qui per comunicarvelo, convinto nella riuscita del suo piano, ma è solo grazie agli Assassini, che mi hanno tratto in salvo allo sbarco della sua galea, se sono potuto giungere per tempo a testimoniarlo. —

Progettare, o meglio, improvvisare la fuga di Samuele dalle grinfie di Davud e condurlo per tempo al Topkapi prima che potesse giungervi il Gran Visir, era stata un'azione degna di promozione  per tutti gli Assassini che Zuhre aveva chiamato a parteciparvi. Annunciato Samuele come il rappresentante della Comunità Ebraica di Salonicco, la sua richiesta di un'udienza lampo era stata accolta con benevolenza, e scortato dagli Assassini aveva fatto il suo ingresso nel Salone della Cupola sotto gli occhi della Corte intera, capeggiata da Ibrahim e già riunitavi per altre questioni. Sulla notizia della morte di Jossef Fasi qualcuno non aveva trattenuto il proprio scetticismo, ma nessuno aveva potuto ignorare i segni delle catene sulle sue braccia e il suo appello, fin troppo plateale e disperato per sembrare falso.

— E quali provvedimenti potrebbe prendere questa corte sul suo più fedele servitore dell'ultima decade? — chiese Ibrahim, solennemente, da sotto il grande turbante bianco.

— L'esilio, — rispose Samuele con sicurezza.

Zuhre si voltò a guardarlo, due volte sorpresa da quell'iniziativa. Poi scambiò un'occhiata coi due Maestri presi in prestito e al volo dal Covo di Imperiale, poiché la sua sola presenza nel Divano tra tutti quegli uomini avrebbe contato ben poco, e questi approvarono con un cenno del capo.

Erano entrati al Topkapi con la speranza di ottenere la sua esecuzione, ma per via del prestigio di cui era ricoperto e del puzzo di fama che lo precedeva, Davud sarebbe rimasto sotto la custodia della Sublime Porta ancora a lungo. Adesso l'alleanza non sembrava più una gloriosa scacchiera, ma un'ingegnosa scatola rompicapo al cui interno c'era, come premio, la Testa delle Quattro Code. Dovevano essere cauti.

— O quantomeno l'esonero dalle prossime elezioni, — si apprestò a dire il giovane talmudista.

D'un tratto la grande porta di accesso alla sala si aprì per lasciar passare un manipolo di Giannizzeri. Un attimo dopo, tutti i Visir, in un caotico fruscio di vesti, furono in piedi. Tutti tranne Ibrahim.

Davud non mosse che un passo nella sala prima di notare, sgranando tanto d'occhi, i tre cappucci bianchi intorno alla sagoma del piccolo sefardita, sfuggito solo poche ore prima alle catene della sua nave. Il collo del Sadrazam si irrigidì mentre scorreva con lo sguardo i volti accigliati dei Visir, cercando qualcuno.

Sorrise.

Almeno una metà della sua partita era stata giocata.

E vinta.

Poi anche l'anziano Ibrahim, con una certa fatica, si alzò. — È la verità? — chiese piantando gli occhi in quelli del Gran Visir.

Davud allungò il suo sorriso, che più lo si guardava più somigliava ad un ghigno, ma non disse nulla.

Dopo un tempo infinito Ibrahim si schiarì la gola, lisciandosi le pieghe dell'abito. — Molto bene. Sottoporrò personalmente la questione al Sultano, ma nel frattempo… arrestatelo. —

Ibrahim lasciò il Divano scortato da due uomini armati, e al suo passaggio Davud si pronunciò in un profondissimo inchino, rimanendo così mentre i Giannizzeri si stringevano attorno a lui.

 

— Anche se con tre giorni di ritardo, il nostro rientro ad Istanbul non fu meno trionfale. Trascinammo Petro Zenas in catene fin nel cuore del Topkapi e nessun Giannizzero sfoderò le lame al nostro arrivo. L'alleanza era salva. —

— A Bayezid, insomma, era bastata la parola di una donna e un ebreo per arginare i poteri di un membro del suo Impero, — commentò Ezio, ammirato.

— Ha dell'incredibile, — rispose Ràhel ostentando un sorriso. — Ma infatti non fu un successo completo. —

— Scappò. —

Ràhel annuì. — Davud prese il largo sotto la protezione del Sultano che ci negò di inseguirlo. Nei mesi successivi la Confraternita ebbe da sgrovigliare altri nodi e nessuno osò contestare quella restrizione, che persino Zuhre non si astenne dal confessarci di aver ingoiato con amarezza, ma per alcuni la rabbia e lo sdegno erano davvero incontenibili… —

Si era artigliata un lembo della fascia sui fianchi e ora lo liberava con un respiro profondo.

— Samuele tornò in Italia a soccorrere il padre morente e concludere la sua formazione, l'arruolamento ufficiale di Varsos coincise con l'estremo saluto all'anima di Ishak e Zuhre vide la sua prima alba come guida della Confraternita il giorno in cui Davud Pasha venne destituito definitivamente dalla carica di Gran Visir. Non Ibrahim, come la Confraternita e lo stesso Ishak avevano sperato, ma gli succedette un certo Hersekzade Ahmed Pasha, bosniaco, designato dal Sultano stesso nonché marito di sua figlia. Rancore e commozione sembravano camminare allo stesso passo… — mormorò persa nei ricordi. — In onore del nostro Mentore caduto in Grecia, Bayezid tenne una cerimonia solenne cui invitò a partecipare i figli e i fratelli di ambedue le sue anime. Per l'occasione venne spolverata la prestigiosa armatura dalla quale Ishak si era separato il giorno in cui aveva interrotto, per la seconda volta, il vincolo di Gran Visir, e a Murat Bin Husn, capo dei Giannizzeri, fu affidato il fardello di custodirla. —

— Il… Bambizzero? — azzardò Ezio.

Ràhel esplose in una risata sommessa. — Sì, proprio lui. Quando quella sera Yusuf rese noto a me e a pochi altri privilegiati l'episodio alla piccola Santa Sofia della sua infanzia, specialmente Serdar non poté che trovarlo un ottimo pretesto di scherno. —

Fece una lunga pausa, durante la quale sembrò dimenticare il motivo della sua allegria.

— La promessa fatta ad Ishak sulla difesa degli alleati incombeva tra i nostri nuovi doveri, — riprese Ràhel, cupa. — Per dilemmi politici che solo un uomo della sua esperienza avrebbe saputo gestire, un anno più tardi Ibrahim Pasha fu investito della tanto attesa carica di Gran Visir, ma i suoi nemici si moltiplicavano in fretta proprio tra i membri del suo governo e lo stesso Bayezid diventava sempre più diffidente, vedendo nella familiarità che Ibrahim aveva con la Confraternita una sorta di minaccia e nella fermezza con cui aveva fatto rinchiudere Davud l'avidità politica di un vecchio vicino ai suoi ultimi giorni. Noi Assassini potevamo fare ben poco, ma ciononostante Ibrahim, nella sua immensa saggezza, comprese e accettò i nostri limiti, resistendo alle ingiurie, non negandoci mai il suo aiuto o la sua riconoscenza in nome dell'amicizia che lo legava ad Ishak. —

 

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32: Una calda presenza ***


Istanbul,

Rabî Ath- Thânî 903

(fine di Dicembre 1497)

 

 











on riesco a immaginare come Ishak potesse capirci qualcosa qui dentro. — sospirò Zuhre entrando nello studiolo e gettando uno sguardo sconsolato al disordine che regnava sovrano.

— Sono due mesi che cerco di mettere a posto e sembra un’impresa impossibile. È frustrante!—

Si accasciò su una sedia accigliandosi e le poche rughe intorno ai suoi occhi si accentuarono.

Yusuf entrò dietro di lei con passo deciso e lo spostamento d’aria fece crollare una pila di carte che sostavano, instabili, su un tavolino basso accanto alla porta.

— Tu dovresti aiutarmi! — esclamò la donna rivolgendogli un’occhiataccia.

— Scusami. — rispose lui, chinandosi e rimettendo insieme i fogli in un mucchio scomposto.

— Cosa sono? — domandò Zuhre temendo già la risposta.

Yusuf sfogliò le pagine.

— Valutazioni dei Novizi. — disse. — Di cinque anni fa. — aggiunse poi.

Zuhre alzò gli occhi al cielo.

— E delle note di carico. Molte note di carico. — continuò l’altro. — E l’inventario dei magazzini, e… delle lettere d’amore! —

— Stai scherzando vero? —

— Sì, almeno sulle lettere d’amore. —

La donna sorrise.

— Non è detto che non finiremo per trovare anche qualcosa del genere… Piazza quella roba dentro quello stipo. — disse indicando un mobile alla sua sinistra. — Sempre che ci sia un po’ di spazio! —

Yusuf aprì lo sportello e fissò l’interno già stracolmo con l’aria di chi si appresta a una sfida impari. Mentre si dava da fare cercando di appiattire la montagna di carta già presente per ricavare il posto per la nuova pila, la sua attenzione fu attirata da qualcosa di inconsueto; allungò la mano dietro ai documenti e la ritirò che stringeva il collo allungato di una bottiglia polverosa.

— E quella cos’è? — chiese Zuhre, incuriosita.

Yusuf pulì la bottiglia con la manica, ma poiché l’etichetta era del tutto illeggibile, afferrò il tappo e, con qualche sforzo, riuscì ad aprirla. Un profumo forte di anice gli assalì le narici trascinando con sé una marea di ricordi.

— Raki. — sentenziò. — Di ottima qualità. —

Gli occhi del Gran Maestro degli Assassini Ottomani brillarono tra il divertimento e la malinconia.

— Vai in cucina a prendere i bicchieri. — ordinò distogliendo lo sguardo con una smorfia dal prezioso servizio di calici che sfoggiava la polvere su un alto scaffale.

Dopo aver posato quasi con reverenza la bottiglia sulla scrivania, Yusuf scattò oltre la porta con un sorriso sulle labbra. Un’idea gli stava attraversando la mente.

Mancavano un paio d’ore alla mezzanotte, il Covo era tranquillo e silenzioso e Yusuf attraversò la sala principale imboccando il corridoio che portava alle stanze. Bussò a una porta e Ràhel gli aprì avvolta in una pesante vestaglia di lana.

— Che c’è? — chiese allarmata.

— Vieni con me in cucina. —

— In cucina? —

— Ho trovato una bottiglia di raki nascosta nello studiolo. —

— Una bottiglia di raki? —

— Sì. —

— E…—

— E Zuhre mi ha mandato a prendere i bicchieri. —

Con una mano la ragazza si stringeva la vestaglia sul petto e con l’altra cercava nervosamente di rimettere ordine nel cespuglio selvaggio che erano i suoi ricci. Nei suoi occhi verdi c’era un’espressione perplessa e incerta.

— Vieni con me, Ràhel. Per favore. — disse Yusuf con un sorriso e un tono supplichevole.

— Va bene, — cedette lei. — ma almeno lascia che mi vesta. —

— Per me puoi anche restare così. —

Ràhel lo guardò con un’aria di rimprovero. — Non starai dicendo sul serio! —

La porta si chiuse con uno scatto secco.

Yusuf si appoggiò alla parete, con un ginocchio piegato e la suola dello stivale a contatto con le pietre grezze del muro, le braccia incrociate sul petto e un luccichio malizioso negli occhi.

Dicevo sul serio invece, pensò.

Quando Ràhel uscì dalla stanza, aveva domato la sua chioma in una grossa treccia e indossava la sua divisa, le gambe dei pantaloni infilate in un paio di spesse calze di lana e i piedi avvolti in morbide babbucce. Insieme si avviarono verso la cucina.

— Amir e Serdar sono già rientrati dal controllo delle sentinelle? — chiese Yusuf mentre entravano nell’ampio locale deserto dove un solo paio di lampade lasciate accese per la notte scacciavano l’oscurità.

— No, ma dovrebbero farlo tra poco. —

— Bene. — disse Yusuf posando i bicchieri e una tazza sull’ampio tavolo. — Metti al fuoco quel bricco di caffé. Amir non beve alcolici, ma almeno avrà modo di scaldarsi. —

— Che intenzioni hai? —

Ràhel ravvivò le braci nel focolare e appese il bricco sotto la cappa.

— Solo un brindisi tra amici. —

— Pensi di invitare qualcun altro? — domandò lei contando i bicchieri.

— Sì. — rispose Yusuf con uno sguardo pensoso. — Ishak. —

La ragazza rimase in silenzio con la commozione che si faceva strada nei suoi occhi. A due mesi dalla sua morte, quell’uomo le mancava terribilmente. La sua scomparsa aveva lasciato un vuoto sconcertante nel cuore della Confraternita e un enorme peso sulle spalle di Zuhre che, malgrado l’innegabile forza di carattere e la stima di cui godeva, stava ancora faticando per riannodare i fili dispersi di quella tela strappata.

Yusuf non aveva aggiunto una parola e anche lui sembrava perso nei pensieri, quando la particolare acustica del Covo portò fino in cucina l’inconfondibile suono di stivali sulla passerella.

— Amir e Serdar. — disse Yusuf afferrando con una mano i bicchieri impilati e la tazza con l’altra.

— Andiamo. —

Ràhel tolse il bricco dal fuoco con uno strofinaccio e lo seguì.

Incontrarono i due Assassini che si scaldavano davanti al camino della sala principale.

— Tutto bene là fuori? Nessuno si è addormentato in servizio? — chiese Yusuf.

— Tutti svegli e all’erta. — rispose il siriano. — E’ ancora presto. — aggiunse Serdar con un sogghigno. Poi indicò i bicchieri.

— Che state facendo? —

— Una piccola riunione privata nello studiolo. Venite, abbiamo fatto aspettare il Maestro a sufficienza. —

Quando Zuhre alzò lo sguardo, non fu del tutto sorpresa di veder entrare Yusuf seguito da Amir, Serdar e Ràhel; tutti e quattro avevano gli occhi lucidi e strani sorrisi sulle labbra.

La donna si alzò e annuì in silenzio, perché la stessa commozione che vedeva sui loro visi le aveva strozzato in gola qualsiasi parola. Sgombrò una porzione di scrivania e spostò una vecchia mattonella di ceramica sbrecciata, che faceva da fermo a un fascio di pergamene, per permettere a Ràhel di posarvi sopra il bricco del caffé. I bicchieri e la tazza furono riempiti e gli sguardi di tutti indugiarono su quel calice che non sarebbe stato svuotato.

Ràhel ricordò il lieve sorriso con cui il Maestro l’aveva accolta al suo arrivo al Covo.

Yusuf sussultò, rammentandosi della stretta ferrea di Ishak nel cortile degli allenamenti, la notte che aveva seguito il suo ingresso nella Confraternita.

Amir ripeté nella sua mente ogni parola che il Mentore gli aveva rivolto il giorno della morte di suo padre.

Serdar si sfiorò il marchio sull’anulare sinistro, che si era infettato dopo la sua investitura, rischiando di fargli perdere il dito. — Saresti come gli Assassini di una volta. — gli aveva sussurrato il Maestro, trasformando la sua vergogna in orgoglio.

Zuhre risentì su di sé lo sguardo di quell’uomo forte ed affabile mentre le comunicava la sua decisione di affidarle l’onore di guidare la Confraternita dopo di lui.

Tutti loro percepirono, mentre svuotavano i bicchieri (e la tazza), la mano di Ishak posarsi sulle loro teste e la sua presenza riempire di calore il freddo studiolo. Si erano sentiti soli, prostrati e allo sbando, ma non avevano chinato la testa e si erano invece rimboccati le maniche. A nessuno di loro era stato insegnato ad arrendersi.

Yusuf chiuse gli occhi, gustando sulla lingua insieme al sapore d’anice, una sensazione di calma serenità velata di tristezza, e quando li riaprì, quasi si aspettò di trovare vuoto il bicchiere lasciato sul tavolo in onore del Maestro.

Ci fu solo un incrocio di sguardi, perché la condivisione di quel momento avrebbe reso vuote e inutili le parole e il silenzio rimase sospeso a vibrare nell’aria finché una massa di fogli non scivolò giù dal tavolo, forse spinta da uno spiffero che si era fatto strada tra le coperture del lucernario.

Tutti e cinque sobbalzarono, scoppiando poi in una risata e l’incanto si spezzò. Zuhre posò il bicchiere.

— A domani. — disse sparendo oltre la porta.

Amir bevve un altro sorso di caffé. — Pensavo di stendermi qualche ora prima del prossimo controllo. —

Yusuf ridacchiò. — Dillo che non aspetti altro che beccare qualcuno a dormire per far pesare il tuo rango! —

— Già, è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che è successo. — rispose Amir sollevando un sopracciglio. — Mi pare che fosse proprio con te. —

— Anche a me sembra di ricordare qualcosa di simile… — aggiunse Serdar.

— Belle figure che mi fate fare, fratelli. —

Il siriano si avviò sogghignando verso l’uscita.

— Comportati bene. — gli disse voltandosi a guardarlo da sopra la spalla, e poi se ne andò, seguito da Serdar che ridacchiava.

Ora che l’emozione di quella cerimonia silenziosa si era spenta, Ràhel rabbrividì per il freddo e Yusuf lo notò. Afferrò lo bottiglia che non essendo ancora stata tappata sembrava dargli licenza di servirsi e disse: — Si gela, usciamo di qui. —

In biblioteca i bracieri si erano quasi spenti, così proseguirono fino alla sala principale, dove le braci nel camino erano ancora abbastanza calde per essere ravvivate.

Nella debole luce delle poche candele rimaste accese, Yusuf gettò un paio di ciocchi sugli alari e in pochi attimi le fiamme si arrampicarono alte e vivaci su per la grande cappa.

C’erano dei cuscini sparsi sul pavimento sopra gli strati di tappeti che impedivano al freddo di penetrare nella sala, e i due si accomodarono lì, godendosi quel piacevole calore. I bicchieri furono di nuovo riempiti e ancora una volta le parole divennero inutili.

Sorseggiavano il raki in silenzio, inseguendo con gli occhi le lingue di fiamma e i pensieri con un angolo della mente. Entrambi si chiedevano cosa ci facessero lì e non sapevano darsi risposta, ma a nessuno dei due importava. C’era solo quel tranquillo momento di pace, il primo da due mesi a quella parte e quei momenti andavano colti e gustati appieno.

Yusuf osservava la luce del fuoco danzare sul viso di Ràhel e i ricci sfuggiti alla treccia disegnare strane ombre sulle sue guance. Era troppo tardi quando si accorse di star sfiorando con un dito una di quelle ombre, e in un solo attimo mille domande gli riempirono la mente. Ma non accadde nulla, lei chiuse semplicemente gli occhi e tutto quello che Yusuf poté fare fu posare il bicchiere sul pavimento e farsi un po’ più vicino, scostandole i capelli dalla fronte per poi affondare la mano in quella massa intricata e morbida. E poi si avvicinò ancora, fino a sentire il sapore del raki sulle labbra di lei.

Quando se ne staccò, gli occhi verdi di Ràhel lo fissavano con un’espressione che non riuscì a comprendere e che finì col dimenticare, perchè le mani della ragazza gli si posarono sul viso, il pollice che gli accarezzava la cicatrice. Le circondò la vita con le braccia mentre lei lo baciava a sua volta, lasciandolo piacevolmente sorpreso. Aveva immaginato innumerevoli volte come avrebbe potuto essere quel momento, ma la realtà stava facendo impallidire la fantasia. Yusuf si rese conto di non aver mai voluto tanto una donna come ora voleva lei, e allo stesso tempo che non sentiva alcuna urgenza di averla, come se l’attesa fosse dolce quanto la soddisfazione. Era un pensiero nuovo e sconcertante.

Tenne Ràhel avvolta in un abbraccio delicato. Lei aveva appoggiato la testa sul suo petto e con una mano gli stringeva la casacca come avrebbe fatto una bambina. Il tempo passò, indefinito, le fiamme calarono ed erano ormai di nuovo ridotte a braci, quando un rumore di passi giunse dal corridoio delle stanze, per poi cessare, ovattato dai tappeti. Yusuf non si mosse, alzò solo gli occhi.

Amir stava andando a controllare le sentinelle, il pesante mantello di lana scostato dal fianco per lasciare libera la sciabola. Il siriano si fermò a pochi passi e non proferì parola. C’era un velo di divertimento nel suo sguardo, ma anche qualcosa di simile a una muta approvazione. Incredulo, Yusuf tenne chiusa la bocca, non osando sfidare la sua fortuna e perché, un’altra volta quella sera, sembrava non esserci bisogno di parlare.

Anche Ràhel non si era mossa, forse si era addormentata, ma abbassando lo sguardo su di lei, Yusuf si accorse che stava fissando Amir di sottecchi, sorridendo appena e si chiese se l’approvazione che aveva visto sul volto dell’amico non fosse tutta rivolta a lei.

Amir riprese a camminare in silenzio, finché i suoi passi tornarono a farsi sentire sulla passerella di tavole e sulle rampe di scale. Il vento sibilò quando uscì, e la corrente ravvivò per un attimo le braci nel camino. Poi la porta si richiuse, lasciando fuori l’inverno.

 

 

 

 

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Capitolo 34
*** Capitolo 33: Oltre la soglia ***


      — Nei mesi successivi al mio arrivo a Istanbul, la Confraternita si era dovuta confrontare con le conseguenze causate dal patto segreto con la Sublime Porta. Una di queste era mio fratello Vali.—

Ràhel gli gettò uno sguardo sfuggente ed Ezio preferì tacere.

— C’erano stati messaggi che non erano giunti a destinazione, corrieri scomparsi nel nulla, armi sottratte. In alcuni casi le indagini non avevano dato alcun esito e allora ero stata certa che dietro ci fosse lui. Era molto abile e combatteva con le nostre stesse armi. Io sentivo il suo sguardo su di me e non potevo fare nulla. Era come avere un fantasma alle calcagna, una presenza inquietante che non riesci a vedere, che ti sguscia tra le dita quando senti di stare per afferrarla. Al mio rientro da Salonicco pensai che quello era il momento ideale per colpire il cuore della Confraternita, destabilizzata dalla scomparsa del Mentore. Allo stesso tempo però, mi dissi che l’ incertezza che avvolgeva gli accordi con il Sultano avrebbe potuto significare per Vali l’occasione per fare un passo indietro. Aspettai la catastrofe, o il miracolo, ma non accadde nulla fino a quel pomeriggio di febbraio... —

 

 

Istanbul

Jumâda Ath- Thânî 903

(Febbraio 1498)

 

 











na sottile falce di luna appena velata da poche nuvole era l’unica fonte di luce su quel terrazzo appartato.

Ràhel stringeva tra le dita il quadrello dall’impennatura tinta di porpora che aveva raccolto quello stesso pomeriggio su quello stesso terrazzo, e fissava il volto del fratello con un’intensità tale da farle bruciare gli occhi.

Trovare quel quadrello le aveva fatto capire che la resa dei conti era finalmente arrivata, che Vali le chiedeva un incontro e che da quell’incontro sarebbe dipeso molto, troppo… una responsabilità che trovava quasi insopportabile, ma che non aveva modo di sfuggire.

Vederlo su quel terrazzo aveva scatenato in lei una tempesta di emozioni contrastanti, ma il primo desiderio era stato quello di buttarsi tra le sue braccia e piangere e gridare e colpirlo, forse, con un pugno. Solo l’atteggiamento freddo di Vali aveva fatto sì che si trattenesse, ma con estrema fatica.

Avevano parlato. Lei gli aveva posto domande le cui risposte le avevano fatto capire, quasi da subito, di non avere speranza di fargli fare un passo indietro. Tutta la determinazione che l’aveva accompagnata lungo la strada si era sgretolata e ridotta in polvere: quell’incontro era la fine di tutto, era un addio.

— Ti uccideranno. — sussurrò con il respiro che le si mozzava in gola.

Vali rise, la risata amara di chi non ha più niente da perdere.

— Sì, Ràhel. Mi ucciderete. — 

Aveva reso la via del ritorno volutamente lunga e tortuosa. Aveva corso e camminato e corso di nuovo. Si era seduta sul bordo di una fontana a piangere e poi si era sciacquata il viso con l’acqua gelata. Di nuovo aveva corso, volato sui tetti, era sfuggita alle guardie come un’ombra desolata, aveva pianto ancora.

Entrò nel Covo rivolgendo un cenno distratto a chiunque si trovasse di guardia e percorse le scale e la passerella con le spalle curve e gli occhi bassi, decisa a chiudersi nella sua stanza e fiduciosa, data l’ora tarda, di non incontrare nessuno, perlomeno nessuno che avesse voglia di rivolgerle la parola.

Invece qualcuno c’era.

Yusuf se ne stava lì, in piedi, appoggiato al tavolo con le braccia conserte. La sua posa era rilassata, quasi indolente, ma Ràhel poteva intuire la tensione nella rigidezza della sua mascella e la durezza dei suoi occhi le provocò un brivido. Passò oltre senza dire nulla, nella speranza di potergli ancora sfuggire.

— Ràhel. — 

La sua voce la colpì come una staffilata, bloccandole il passo e pure il respiro. Come aveva potuto anche solo immaginare di potersi sottrarre?

Non si mosse, non si voltò, rimase lì come una pietra inanimata, anche quando la mano di Yusuf si posò sulla sua spalla.

— Sono stanca. — sospirò.

La presa di Yusuf si spostò sul suo braccio e strinse.

— Sei stanca. — Il suo tono era acciaio puro.

Per tutta risposta Ràhel cercò di liberarsi con uno strattone, che risultò troppo debole per ottenere un qualunque effetto.

— Ho bisogno di dormire. Possiamo parlarne domani? — 

— No. — 

Con un passo rabbioso in avanti lei tentò ancora di allontanarsi, ma la presa di Yusuf non si allentò, si fece anzi più forte, costringendola a voltarsi.

— Non possiamo parlarne domani. — le disse, gelido. — Non possiamo parlare domani di dove sei stata stanotte. E soprattutto con chi. — 

Un’onda di calore si arrampicò sulle guance di Ràhel.

— Tu… mi hai fatto seguire! — La rabbia le fece stringere i pugni e tremare le labbra.

— No. Ti ho seguito io. — La sua voce era del tutto priva di emozione. — Ho notato il quadrello che hai raccolto oggi pomeriggio, quando pensavi che nessuno ti vedesse. L’impennatura porpora. Era uguale a uno dei tuoi. Non potevo dire a nessun altro di seguirti ed esporti a un’accusa di tradimento. — 

— Così l’avresti fatto per proteggermi? — 

— Avevo dei dubbi. Dovevo sapere. — 

— Non avevi il diritto…— la voce di Ràhel andò in frantumi. Aveva la gola in fiamme per tutte le lacrime di quella notte.

— Non dovevi intrometterti. — disse rauca. — Non ho bisogno della tua protezione, so fare da sola. E il fatto che ti abbia baciato un paio di volte non ti da alcun diritto su di me! — 

Un lieve sorriso beffardo increspò le labbra di Yusuf.

— I tuoi baci non mi danno alcun diritto su di te come persona, ma ti sono superiore di rango e questo mi concede dei diritti su di te come Assassina. — 

Ràhel avvampò, ma non staccò gli occhi furiosi dai suoi.

— Potresti aver violato il terzo Principio, stanotte. — continuò lui.

— Potrei? L’ho fatto, Yusuf. Ho incontrato un... traditore. — 

— Non ho sentito di cosa avete parlato, ma posso dirti l’idea che me ne sono fatto. — 

La lasciò finalmente andare e di nuovo incrociò le braccia sul petto.

— Lo vuoi sapere? — 

Ràhel annuì con aria di sfida.

— Penso che tu sia andata da lui con la speranza di farlo ragionare. Penso che tu l’abbia fatto in segreto non perché temessi di attirare sospetti e accuse su di te, ma solo perché credevi che fosse tua, e soltanto tua, la responsabilità di fare il tentativo. — 

Le spalle di Ràhel si curvarono e gli occhi si abbassarono. Tutta la rabbia si sciolse, formando una pozza gelata in fondo al suo cuore.

— Penso che dentro di te sentissi che se anche non fosse andata bene, avresti almeno potuto dirgli addio. — 

Lei trattenne un lamento, chiedendosi come facesse quell’uomo a scrutare con tanta precisione dentro la sua anima.

— Penso che non sia andata bene. — 

Ràhel non disse nulla. Le dita di Yusuf le sollevarono il viso.

— Mi dispiace. — disse e i suoi occhi erano sinceri. Lei rimase per un po’ a fissarli, mentre una terribile domanda prendeva forma nella sua mente.

— L’hai ucciso? —

— Mi è sfuggito. — rispose Yusuf. — Ho fatto un errore. —

Le labbra di Ràhel tremarono. Il sollievo e la delusione si contendevano la sua anima a morsi. Ebbe a stento la forza di chiedere: — Quale? —

— Ho esitato a intervenire mentre parlavate, per riguardo a te. —

Grata e allo stesso tempo oppressa da quella rivelazione lei gli voltò le spalle, dirigendosi con passi malfermi verso la sua stanza. Lui non fece nulla per trattenerla.

 

 

Il fuoco del camino si assopiva nella sala principale deserta. Sul tetto del Covo i due Assassini di guardia spiavano con gli occhi stanchi il cielo che cominciava appena a schiarirsi ad oriente. Il turno stava per finire. Le candele ormai quasi del tutto consumate gettavano un debole chiarore sui libri e le mappe sparsi sulla scrivania dello studiolo del Maestro.

Nella sua stanza, Ràhel si stringeva nella veste da notte, sotto le coperte, senza riuscire a scacciare il freddo. Nella sua mente i pensieri si inseguivano forsennati, impedendole di prendere sonno. Il viso di Vali e quello di Yusuf si sovrapponevano senza sosta. Suo fratello l’aveva tradita e Yusuf l’aveva protetta. Yusuf, un confratello, un suo superiore, a cui si era avvicinata pericolosamente, come trascinata da una forza misteriosa a cui non poteva resistere. Aveva avuto due famiglie riunite in una: Vali e la Confraternita. Ora aveva una sola famiglia, senza Vali, e quella famiglia l’avrebbe ucciso, per difendersi dalla minaccia che lui rappresentava. Una minaccia, questo era. Lei l’aveva lasciato andare e Yusuf se lo era fatto sfuggire solo per permetterle di dirgli addio. Entrambi avevano messo in pericolo la Confraternita, ma la responsabilità maggiore ricadeva su di lei. Cosa avrebbe dovuto fare? Poteva infilare una lama tra le scapole di suo fratello?

Ràhel si rigirò nel letto, trovandosi a fissare il soffitto buio. Qualsiasi cosa avesse scelto di fare, si trattava comunque di tradire la sua famiglia, una delle sue famiglie… Dio, non c’è via d’uscita… rischiava d’impazzire.

Si mise a sedere, passandosi le mani sul viso. Un’ansia tormentosa le attanagliava lo stomaco e il freddo non l’abbandonava. Gettò da parte le coperte e, rabbrividendo, si alzò. Uscì dalla stanza e i suoi piedi nudi percorsero il corridoio pieno d’ombre, fino a portarla davanti a una porta chiusa.

Alzò una mano per bussare e si bloccò, riportando il braccio lungo il fianco. Scuotendo la testa si voltò per tornare sui suoi passi, ma ancora una volta si ritrovò immobile nella penombra. Girò lo sguardo indietro e di nuovo i piedi la ricondussero dov’era un attimo prima. Appoggiò la fronte alla porta, con il cuore che sembrava volerle sfondare il petto e il respiro affannoso. Le mani sfiorarono i fregi delicati incisi sul legno.

Che sto facendo? Che sto facendo? Non posso restare. Non posso andarmene.

A questo stava pensando quando la porta si aprì.

Ormai era tardi per tutto: Yusuf la guardava con la sorpresa sul viso.

Il sospetto si era nutrito di lui per tutto il pomeriggio, trasformandosi in un mostro che divorava ogni cosa. Prima non aveva potuto trattenersi dal seguirla, con l’ansia di chi sta cercando la smentita a qualcosa che già in cuor suo si rifiuta di credere, né poi dall’affrontarla apertamente. Era furioso per aver esitato e per essersi fatto sfuggire l’occasione di porre fine alla vita di un traditore, aveva voluto essere duro e freddo, e far pesare il suo rango, ma le reazioni di lei avevano dato conferma alla sua intuizione, e il sollievo era stato tale da sollevare il peso del suo fallimento e da dover far forza su sé stesso per lasciarla andare, per impedirsi di afferrarla in quello stesso momento e sfamare il suo istinto che la voleva vicina, più vicina che a contatto.

Quella notte, l’attesa che gli era apparsa dolce in quei mesi, era diventata intollerabile, al punto da togliergli il sonno. Al punto da farlo pensare di alzarsi e di andare da lei, per provare a spingere quel gioco di sguardi e contatti fugaci solo di un piccolo passo più avanti. Malgrado tutto.

Forse si era addormentato e stava sognando, ma lei era lì, davanti alla sua porta.

Ràhel tremò, e il freddo la rese consapevole di essere appena vestita. Lo stupore di Yusuf si mutò in un sorriso che lei ricambiò timidamente, notando che lui si trovava nelle sue stesse condizioni. Piedi nudi, pantaloni morbidi, una casacca che sembrava essersi infilato di fretta, senza neanche allacciarla. La ragazza si accorse di stare indugiando con gli occhi sulla sua pelle scoperta e che la stretta allo stomaco era scesa più in basso, trasformandosi in qualcosa di diverso e dolorosamente piacevole.

La mano di Yusuf era calda quando si posò sul suo fianco, le sue labbra erano calde e morbide quando si impadronirono delle sue, tutto il suo corpo era caldo quando si trovò stretta contro di lui. Si abbandonò a quella splendida sensazione di terrore e stordimento, mentre la trascinava dolcemente, e inesorabilmente, dentro la stanza. Si trovò prigioniera fra lui e il legno della porta chiusa, assediata dalle sue mani e dalla sua lingua, dalla barba che le solleticava il viso, dal suo respiro tiepido sul collo. Ràhel affondò le dita fra i suoi capelli arruffati, ricambiando i suoi baci sempre più profondi, respirando a stento dentro la sua bocca. Si staccarono dalla porta e Yusuf la condusse come un guscio in mezzo alla tempesta attraverso la stanza e verso il letto, fino a caderci sopra. Ora lei sentiva il suo peso addosso, e la sua presenza calda e prepotente contro il ventre. Capì di temerlo e di volerlo allo stesso tempo, mentre la sua mano si faceva  più audace, insinuandosi sotto la veste da notte, risalendo lungo la coscia per poi arrestarsi di colpo…

Frastornata, Ràhel aprì gli occhi per incontrare lo sguardo un po’ febbrile, ma solido di Yusuf.

— Tu… —  iniziò lui, come se avesse percepito i suoi pensieri, ma non riuscì ad andare avanti. Intuendo la domanda, Ràhel scosse appena la  testa.

— Io non l’ho mai fatto… —  mormorò, avvolgendo le braccia attorno al suo collo e stringendolo con tutte le sue forze, come se avesse paura che quella rivelazione potesse allontanarlo da lei.

— Puoi fermarmi se vuoi. —  sussurrò Yusuf nel suo orecchio. — Quando vuoi. — 

La mano riprese il viaggio fino al suo fianco, spostandosi e indugiando, fino alla sua parte più segreta. La sorpresa per le sconosciute e sconvolgenti sensazioni che quelle dita delicate le stavano facendo provare le fece sfuggire un gemito. Artigliò la schiena di Yusuf sotto la casacca percependo con i polpastrelli le cicatrici che segnavano quella pelle ambrata e morbida, cercò le sue labbra ancora e ancora, senza fiato, senza pensiero, afferrando quel momento come se fosse l’ultimo della sua vita, come se non ci fosse futuro. Il cotone sottile che ancora li separava finì sul pavimento.

— Fermami… —  ansimò Yusuf. — Fermami, Ràhel… —

Lei non lo fermò, si spostò un poco per lasciarlo passare e sentirlo entrare fu un dolore che durò lo spazio di un respiro. Si lasciò andare a quel ritmo che la travolgeva, accompagnandolo e assecondandolo, assaporando quel fuoco che ardeva nel suo centro. Yusuf si muoveva dentro di lei, sempre più a fondo, investendola con ondate di calore e piacere sempre più ampie e potenti, finché ne fu sopraffatta e un grido le uscì dalle labbra. Ebbe paura che di lei non sarebbero rimaste che ceneri un attimo prima che ogni pensiero fosse spazzato via dalla sua mente.

Il silenzio fu poi  riempito solo dai loro respiri che rallentavano e dai suoni attutiti del Covo che si svegliava. Era l’alba, e le sentinelle rientravano dirigendosi con passi stanchi verso gli agognati letti, scambiando saluti con chi andava a rimpiazzarle.

Yusuf recuperò la coperta attorcigliata che era finita sul pavimento insieme a tutto il resto e vi avvolse entrambi senza dire una parola. Il suo sguardo rendeva inutile qualsiasi parola. Anche Ràhel non disse nulla, si raggomitolò con la schiena contro il suo petto e chiuse gli occhi. Si sentiva indolenzita, stanca, stranamente serena e, ancorata alla realtà solo dalle braccia che la circondavano e dalla saldezza del corpo che sentiva contro di sé, aspettò rassegnata che la ferita che quella sera non era stata chiusa una volta per tutte iniziasse a sanguinare di nuovo, ma si addormentò prima che potesse succedere.

L’attesa era finita. Liquefatta come neve in una giornata primaverile, spazzata via come sabbia da una raffica di vento, in una notte che era nata all’ombra del sospetto e del dolore. Yusuf si sentiva frastornato, ubriaco di gioia e morto di paura. Soddisfatto e in preda ai dubbi. Si chiese se non avesse approfittato di un momento di fragilità di Ràhel, se non avrebbe invece dovuto ingoiare i propri desideri e rimandarla indietro, se non avrebbe dovuto comunque fermarsi prima che fosse troppo tardi, prima di dare tutto, e prendersi tutto…

Ràhel dormiva, del tutto incurante dei pensieri che lo agitavano, come del fatto che solo poche ore prima lui avesse avuto la ferma intenzione di uccidere suo fratello. La sua pelle morbida gli teneva caldo. Affondò il viso in quei ricci che profumavano di spezie e di incenso, come la notte di Istanbul e si disse che se lei si sentiva così al sicuro tra le sue braccia da cedere al sonno, allora forse non aveva sbagliato tutto e non c’era nulla di cui sentirsi in colpa. La strinse con delicatezza, temendo di svegliarla e cancellò dalla mente le incertezze e le ansie, finché non rimase soltanto la dolcezza e la pace di quel momento.

Mentre scivolava nel sonno pensò che avrebbe dovuto alzarsi, che le necessità della Confraternita non si sarebbero certo fermate per lui, che c’erano incarichi e incombenze e turni di guardia…

 

Dovrete sfondare la porta.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 34: Sfida all'autorità ***


Estratto da “In mezzo alla scacchiera”

Una biografia del Maestro Ishak Pasha

di Melike Anlatıcı

 

 

 

Paradossi

 

 

 

 

 

Spunti per la riflessione, sproni al ragionamento, prove per la coerenza, i paradossi del nostro Ordine ne hanno spesso esposto il fianco alle critiche dei detrattori.

Per quanto la nostra storia sia costellata di esempi che testimoniano l’esistenza di tali paradossi, il Gran Maestro Ishak degli Assassini Ottomani è forse l’autore di quello che può apparire il  più eclatante di essi.

Nulla sembra più lontano dai dettami del nostro Credo della struttura dispotica del Sultanato Ottomano, dove la forza e la sua applicazione severa e inflessibile è l’unico strumento utilizzabile per assicurare il mantenimento dell’ordine, della pace e della prosperità. Eppure il Mentore sugellò un accordo, un’alleanza, con un potere la cui visione del mondo era molto più vicina a quella dei nostri nemici.

Le ragioni di questa scelta possono essere a prima vista identificate nelle parole del Maestro, che definiva sè stesso “un uomo con due anime” e nessuna descrizione è più calzante per chi fu elevato alla guida della Confraternita Ottomana nel pieno svolgimento del suo primo mandato come Gran Visir. Ma il paradosso insito nella decisione di stringere patti con la Sublime Porta è solo apparente, e questa complessa e intricata manovra politica ha una spiegazione del tutto logica.

La caccia da parte degli  Assassini alle Code Templari e alla loro Testa, aveva la sua controparte; le due fazioni erano allo stesso tempo cacciatori e prede e questa situazione, di per sè, non rappresentava nulla di inconsueto. Il confronto aveva assunto però gli stessi contorni incerti e delicati di quello tra due avversari che si cercano in una stanza buia. Notizie di un’infiltrazione al livello dello stesso Divano erano giunte al Maestro da fonti attendibili, precedendo solo di poco tempo la diffusione di voci che raccontavano della volontà di Bayezid di stringere un contatto con l’Ordine, che in realtà avrebbe dovuto essere scomparso da secoli.Uno dei due contendenti chiusi nella stanza buia aveva rovesciato una sedia nel tentativo di far inciampare il suo avversario in modo che rivelasse così la sua  posizione ma, nel farlo, aveva prodotto un lieve rumore.

C’è un’unica prospettiva in cui, da entrambi i lati dello schieramento, l’alleanza può essere vista: quella di  una trappola.

Essa ebbe forti ripercussioni sulla Confraternita: se ne attenuò la clandestinità,  ne accentuò i limiti, scatenò dissenso e provocò tradimento, aprendo un periodo di difficili equilibri.

Il Maestro scelse di accendere una torcia nella stanza buia, di rivelarsi per primo in modo da poter vedere in faccia il suo avversario e, sebbene esporsi a questo rischio gli costò la vita, alla fine fece scattare la sua trappola  e la battaglia contro le Code Templari fu vinta...

 

 

 

 

Istanbul

Rabî Al-Awwal 904

(Ottobre 1498)

 

 











n debole scricchiolio disturbò il sonno leggero di Ràhel, ma fu il sentore di ferro e di sangue a svegliarla del tutto.

Aprì gli occhi restando perfettamente immobile, eccetto che per la destra che si allungò lentamente verso il pugnale che teneva accanto al letto. C’era un’ombra nel vano della porta, netta, contro il debole chiarore del corridoio. L’ombra fece un passo all’interno e il battente si chiuse alle sue spalle, riportando l’oscurità nella stanza.

Non ci fu alcun rumore, solo, poco dopo, la percezione del peso di qualcuno che si sedeva sul letto e l’odore acuto e metallico che portava con sé.

— So che sei sveglia. — Un sussurro pieno di stanchezza.

Lei allungò la mano nel buio verso l’origine di quella voce, solo per sentirsela afferrare e baciare sul palmo.

— Ti sveglieresti anche se una piuma si posasse sul tuo letto. — continuò la voce.

— Tu non sei esattamente una piuma, Yusuf. —

— Stanotte lo sono. Nel significato preciso che può darle un Assassino. —

Turbata dal tono gelido e lugubre come una campana a morto, Ràhel si alzò e accese una candela.

Il sangue che ricopriva la mano e la polsiera di Yusuf e che impregnava anche la manica fino al gomito era ormai secco, c’erano un paio di strappi sulla sua casacca e dalla custodia mancavano la metà dei pugnali. Niente di inusuale, l’aveva visto rientrare lacero e sporco di sangue innumerevoli volte, ma questa era diversa: era sparito per un’intera settimana, senza informare nessuno, nemmeno lei, dei suoi propositi. E Amir era sparito con lui. Rischiavano entrambi una severa punizione.

Ràhel lo fissò negli occhi… non gli aveva mai visto quegli occhi. Un’oscurità sconosciuta li riempiva, un baratro profondo e insondabile. Ràhel stava in piedi davanti a lui con la paura di precipitare in quell’abisso, ben conscia che una caduta del genere avrebbe significato un volo senza mai fine.

— Amir era con te? — chiese, tentando di riprendere contatto con la realtà.

— Sì. —

— Solo Amir? —

— Solo lui. Non avremmo lasciato quel cane a nessun altro. —

La ferocia pura che vide balenare nel suo sguardo le fece capire che quei due avevano riservato soltanto a loro stessi la vendetta che tutta la Confraternita agognava ormai da un anno. Fu con un certo bieco appagamento che si immaginò il corpo senza vita di Davud Pasha abbandonato chissà dove, meglio se in un lurido vicolo.

— Sei soddisfatto? —

— Lo sono. —

Un sorriso sinistro comparve sulle labbra di Yusuf, per poi disintegrarsi solo un attimo dopo in un’espressione di smarrimento.

— Ma pensavo che lo sarei stato di più. —

Afferrò la veste di Ràhel tra le mani e attirò la  ragazza a sé, appoggiando la fronte sul suo stomaco.

— Ho sentito lo sguardo di Ishak su di me. — disse in un sospiro. — La sua mano guidava la mia. —  Si interruppe come per riprendere fiato, con fatica. — E adesso mi sento come se avessi perso la strada. —

Ràhel gli accarezzò la testa, con una fitta dolorosa che le trapassava il petto. Condivideva con lui quel senso di vuoto, reso però ancora più profondo dal fatto di essere stata esclusa dai suoi piani.

— Perché non mi hai detto cosa volevi fare? —

Yusuf alzò la testa, a fronteggiare la punta di accusa che aveva percepito in quella domanda.

— La verità è che ho iniziato a indagare in segreto, mettendo in moto tutti i miei contatti, riscuotendo tutti i favori che avevo fatto in passato e non ne ho parlato a nessuno. Non volevo che quello che avevo scoperto arrivasse all’orecchio di Zuhre, perché sapevo che non mi avrebbe mai affidato la missione, e io la volevo per me. —

— E per Amir. —

— Quello l’ho capito soltanto dopo. — Nei suoi occhi c’era del rammarico, ma non si stava scusando, voleva solo che lei comprendesse. — Ishak ha forgiato Amir e me, non solo come singoli, ma come squadra, vedendo che le doti di uno potevano compensare le mancanze dell’altro. Credo che abbia avuto chiaro fin da subito che se i nostri padri erano stati fratelli solo nella loro dedizione all’Ordine, noi potevamo essere molto di più. —

Ràhel non avrebbe potuto che dare ragione al Mentore: se quei due non erano fratelli nel sangue, di certo lo erano nell’anima.

— La caccia alle Quattro Code si è portata via i nostri padri, e poi Ishak. — continuò Yusuf.

— Ci ha diviso e poi ci ha unito attraverso di lui. Ho voluto che fossimo noi a finirla. —

Lei gli si sedette accanto sul letto. Tutto aveva un senso, anche se il rimpianto per essere stata lasciata indietro ancora si dibatteva debolmente in fondo al suo cuore.

Rimasero in silenzio, finché un discreto bussare non li distolse dalle loro riflessioni.

— Avanti. — disse la ragazza.

Un Assassino dall’aria assonnata mise dentro la testa.

— Scusa se ti disturbo, Ràhel. Sto cercando… —

— Sono qui. — rispose Yusuf senza lasciarlo concludere.

— Il Maestro ti aspetta nello studiolo, — disse quello con l’aria preoccupata. — e la sua espressione non promette niente di buono. —

— Allora non è il caso che la faccia attendere di più. —

Yusuf si alzò, e dopo aver rivolto a Ràhel un sorriso stanco, uscì dalla stanza.

La notte sarebbe stata ancora lunga. 

 

Come qualunque altro Assassino, Zuhre era abituata alle notti di veglia e come ogni Maestro, di certo non rifuggiva la responsabilità, ma raccogliere l’eredità di un uomo come Ishak Pasha, non era stato di certo uno scherzo. L’uccisione del Mentore, oltre a scuotere nel profondo il tessuto stesso della Confraternita Ottomana, aveva assottigliato il recente legame tra gli Assassini e l’Impero, come se solo la presenza del suo artefice primario avesse potuto garantirne la stabilità. La sensazione, sgradevole oltre ogni dire, era quella di qualcosa che sfugge tra le dita.

Era stato un anno difficile. L’interpretazione del Credo da parte di Ishak era stata sempre ardita e innovativa e l’ultimo atto della sua naturale propensione alle scelte controcorrente era stato quello di mettere una donna alla testa della Confraternita. Durante i giorni successivi alla sua nomina, Zuhre aveva mostrato il suo dolore come tutti e nessuno le aveva negato il rispetto che si era guadagnata, ma il confronto con il suo predecessore aveva rischiato di schiacciarla e ora, dopo un anno esatto, quell’atto di insubordinazione era giunto a minare la sua autorità.

Era stata una settimana infernale. Yusuf e Amir erano scomparsi dal Covo una mattina, e nessuno ci aveva fatto molto caso, trattandosi del loro giorno di riposo, ma il loro mancato rientro aveva fatto scattare l’allarme. Le informazioni reperite erano state molteplici e contrastanti e se la cosa, da una parte, aveva allontanato il timore che potessero essere andati incontro a un destino irreparabile, dall’altra aveva scatenato domande se possibile più inquietanti.

L’ansia e la preoccupazione di Zuhre avevano raggiunto il proprio apice a metà della settimana, quando la visita da parte di un Ladro di nome Latif, le aveva trasformate in furia.

— Sto aspettando! — gridò il Gran Maestro afferrando con entrambe le mani lo schienale della poltrona dietro cui stazionava. Era l’unico modo che aveva trovato per non portarle sui fianchi assomigliando così a una qualsiasi madre adirata. Inoltre, aver posto tra sé e i due fedifraghi la poltrona e la scrivania le forniva un ostacolo appena sufficiente ad impedirle di mettere loro le mani addosso.

— Maestro, — iniziò Amir fissando il pavimento. — il nostro comportamento è stato inqualificabile. —

— Ma di certo ha portato vantaggio alla Confraternita. — aggiunse Yusuf, con la testa bassa a sua volta. La tentazione di Zuhre fu di scavalcare la scrivania e prenderlo a schiaffi.

— L’arroganza delle tue parole è resa solo più offensiva dal tuo atteggiamento di modestia! — ringhiò. — E’ evidente che non stai chiedendo perdono. Quindi, se hai qualcosa da dire per giustificarti, fallo guardandomi in faccia. —

Yusuf alzò gli occhi e Zuhre vi piantò i suoi. Trovò la determinazione che si aspettava, ma fu sorpresa di notare lo smarrimento che trapelava da essa.

— Parla. —

Anche Amir alzò la testa e si voltò verso il compagno con uno sguardo eloquente: per una volta stava accettando un ruolo subalterno.

— Davud Pasha è morto, — disse Yusuf. — e ho ragione di credere che le Quattro Code siano finite per sempre. Abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per… —

— In vostro potere? IN VOSTRO POTERE?!? — Questa volta il Maestro non poté fare a meno di annullare lo spazio che la separava dai suoi due sottoposti. Aggirò la scrivania, afferrando un frustino dal manico intarsiato che giaceva abbandonato su uno scaffale.

— Qui si tratta del mio potere! — Agitò il frustino sotto il naso di Yusuf. — E voi due, — ora lo stava sventolando sotto quello di Amir. — avete deciso di aggirarlo, mettendo in discussione la mia autorità, perché sapevate che mai, mai e poi mai vi avrei affidato un compito simile. Non avevate il rango per questa missione, e come se non bastasse, eravate coinvolti da vicino. Mai affidare la vendetta dell’Ordine a chi va a caccia di una vendetta personale. Voi eravate lì quando Ishak è morto, voi siete stati testimoni della sua uccisione, voi non dovevate essere la mano dell’Ordine! — Abbattè il frustino sul piano della scrivania, mandando in frantumi una delicata bottiglietta di vetro di Murano e gettando lo scompiglio fra le carte.

— Ma abbiamo avuto successo… — azzardò Amir, ritrovando la voce solo in quel momento.

— Taci tu! — sbottò Zuhre. — Da te poi, non me lo sarei mai aspettato. — Piegò il frustino tra le mani, prendendo a misurare ad ampi passi lo spazio ristretto dello studiolo.

— Bene, avete avuto successo. — riprese con gli occhi che sembravano due pozze di lava incandescente. — Ma avreste potuto combinare un disastro. E tu,— Puntò il frustino contro Yusuf. — hai avuto la faccia tosta di mandare il tuo amico a rassicurarmi sulla vostra lealtà. A rassicurarmi! E senza fornirmi alcuna informazione! Ti rendi conto della figura meschina che mi hai fatto fare? —

Yusuf prese fiato per rispondere.

— No, stai zitto. E sii grato perchè non ti permetto di peggiorare ulteriormente la tua situazione.—

L’Assassino chiuse la bocca.

— Spero che abbiate avuto sufficiente soddisfazione dal vostro successo. Godetevela finché potete, perché non durerà. La Confraternita potrà anche esservi grata per il servigio che le avete reso, ma solo quando avrete pagato per i vostri errori. Ora toglietevi dai piedi, ho bisogno di riflettere su qualcosa che dia soddisfazione a me: la vostra punizione. —

I due Assassini si inchinarono e lasciarono lo studiolo. Zuhre lanciò con rabbia il frustino sullo scaffale e si lasciò cadere sulla poltrona, contemplando i frammenti di vetro colorato sparsi sulla scrivania. La furia ancora le stringeva lo stomaco.

Cosa doveva fare con quei due? Davud Pasha era morto. Non poté formulare quel pensiero senza che un vago piacere si insinuasse tra i fumi dell’ira. Ma quella era un’altra questione.

Si alzò e uscì dallo studiolo, diretta alle sue stanze. Era certa che non avrebbe chiuso occhio, sperava soltanto che la stessa sorte sarebbe toccata a quei due disgraziati.

Per quanto riguardava uno, non ne era affatto certa.

Dopo la memorabile strigliata nello studiolo, Yusuf e Amir si erano separati senza quasi una parola. Morti di stanchezza e provati dall’incontro con il Maestro, ad entrambi pareva di non avere neanche la forza di trascinarsi fino alle loro stanze, per quanto dubitassero che sarebbero riusciti a prendere sonno.

Quando Yusuf chiuse finalmente la porta dietro di sé, fu tentato di buttarsi sul letto così com’era, ma si costrinse a liberarsi dell’equipaggiamento, degli abiti sporchi e di lavarsi almeno la faccia e le mani nella bacinella accanto alla finestra.

Come aveva temuto, malgrado gli sembrasse di dover crollare da un momento all’altro, i pensieri lo tennero sveglio e continuò ad aggrovigliarsi nelle coperte finché, esasperato, non si decise ad alzarsi, a rivestirsi e ad uscire di nuovo.

Il grattare della penna sulla carta lo accolse nella biblioteca, rivelando la presenza di qualcuno vittima a sua volta dell’insonnia.

Cosa poteva scrivere Amir a quell’ora di notte?

— Il rapporto della missione. — disse il siriano alzando appena gli occhi dal suo lavoro. — Per quanto si sia trattato di una missione illegale, merita comunque un posto negli annali. —

— Non starai cominciando ad apprezzare un po’ troppo la sfida all’autorità? — chiese Yusuf notando il sorrisetto sfuggente che era apparso sul viso dell’amico. Amir non raccolse la provocazione.

— Tu piuttosto, cosa fai qui? —

L’altro occhieggiò tra gli scaffali.

— Pensavo di portar via tutti i testi che trattano di metodi di tortura. In modo che Zuhre non possa cercare lì la sua soddisfazione. —

— Non mi sembra granché come idea, era talmente furiosa che non credo avrà bisogno di documentarsi sui libri per trovare qualcosa di terribile a cui sottoporci. —

Yusuf fece una smorfia.

— Il tuo spirito mi commuove. — disse appoggiandosi alla scrivania e sbirciando le pagine.

Amir posò la penna e girò il registro verso di lui. — Dai pure un’occhiata, non vorrei aver tralasciato qualcosa. —

E come avrebbe potuto? La precisione e l’amore per i particolari ne facevano un narratore chiaro e conciso che descriveva la realtà nella sua interezza e senza orpelli. Per Yusuf fu come rivivere tutto quanto una seconda volta, ed era così preso dalla tensione della caccia rievocata da quelle righe, che quando la porta si aprì di schianto, si sentì come strappato via da una sorta di stato onirico. Sobbalzò, cercando di mettere a fuoco la causa di quel trambusto.

Se ne stava piantata nel vano della porta, la divisa stazzonata di chi si è vestito di fretta, i capelli lunghi e rossicci scarmigliati e pieni di nodi. Il viso pallido sfoggiava occhiaie scure e lo sguardo feroce attraversava la biblioteca come una freccia infuocata. Amir era saltato in piedi e Yusuf si ritrovò a domandarsi se era davvero puro terrore che aveva visto dipingersi sulla faccia dell’amico.

— Nalan… — sussurrò questi con un filo di voce.

— Tu… — ansimò lei puntandogli l’indice contro e attraversando a passo di marcia lo spazio che li separava, con un cipiglio tutt’altro che rassicurante. — Sei un maledetto bastardo! —

Gli afferrò la camicia e si sollevò sulle punte dei piedi, arrivando così ad avere gli occhi all’altezza dei suoi.

— Per una settimana intera sei sparito! — strillò. — Potevi essere morto per quanto ne sapevo!—

— Ero in missione. —

— Ah, e per conto di chi, che tutta la Confraternita ha battuto la città cercando informazioni su voi due? —

Dovevo far sparire quei libri, pensò Yusuf sentendosi di colpo compreso nella furia della ragazza, anche se i suoi occhi fiammeggianti non avevano altro oggetto che Amir, il quale… non disse nulla! E non solo, la circondò con le braccia e appoggiò la fronte alla sua!

— Io ti ammazzo. — lo minacciò Nalan con il respiro corto, lasciando andare la camicia e posandogli una mano sul viso in una carezza rude come uno schiaffo. — Io ti… — continuò, mentre Amir la stringeva di più, sussurrando un: — Mi dispiace. —

Qualcosa di simile al sollievo parve rilassarle un po’ l’espressione, che ritornò però ad indurirsi quando si voltò verso Yusuf rivolgendogli un’occhiata eloquente.

— Sto morendo di sonno. — disse lui simulando, senza troppa fatica, uno sbadiglio. — E non oso pensare a cosa ci aspetta domani. Meglio cercare di recuperare le forze. —

Amir lo fulminò con lo sguardo e Yusuf si avviò verso l’uscita, a passi volutamente lenti e strascicati. Sentì Nalan chiedere: — Ora mi vuoi spiegare cosa avete combinato? — e Amir rispondere: — Dopo. —

Yusuf scoppiò a ridere, con il preciso intento di farsi sentire, mentre chiudeva, con discrezione, la porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 35: Polvere pirica ***


— Era l’Alba della Seconda Guerra con la vostra Venezia e la tensione camminava per le strade. Ricordo che una mattina Zuhre ci mandò a ricevere un carico di polvere da sparo che stava entrando in città dall’Inghilterra. Più della metà di quel carico era destinata alle quasi duecento navi che il Sultano stava mettendo in mare, ma il nostro Gran Maestro era riuscito a farsene concedere da Bayezid stesso una piccola parte, assieme al via libera per la sperimentazione delle nostre prime bombe tattiche. —

 

 

Istanbul,

Cha`bân 904

(Marzo 1499)

 











l rifornimento di polvere pirica dall’Inghilterra era arrivato a Costantinopoli con due settimane di ritardo. Come se non fosse bastato, la nave mercantile che aveva trasportato il prezioso carico stava sostando nell’Arsenale già da quindici ore. E per finire, l’incaricato di richiedere la delega di cessione firmata da Bayezid, che aveva autorizzato gli Assassini a prelevare una percentuale del carico, si era dimenticato di andare a ritirarla.

— Appena porteremo al Covo questa nuova polvere, e solo se riusciremo a farcela consegnare, come prima cosa Zuhre la userà per farti saltare la testa, — fu il commento sarcastico di Ràhel. Lei e Yusuf si erano riparati nell’ombra di un magazzino e guardavano in direzione della banchina.

I gabbiani si rincorrevano in cerchi perfetti nel cielo azzurro del primo pomeriggio. I loro lamenti affamati arrivavano sulla terra ferma accompagnati dai sospiri di un vento tiepido e lo schioccare dell’acqua placida tra le barche ormeggiate. 

Yusuf si grattò nervosamente la barba folta sotto al mento. — Potrei sempre mandare qualcun altro a consegnargliela, —  disse gettando uno sguardo verso la fine della banchina, dove Amir stava discutendo animatamente con il mercante di polvere da sparo. Questi, un omuncolo coi baffoni e il nasone all'ingiù, era sceso dalla nave camuffato da gran signore locale assieme alla sua piccola scorta, e non la smetteva di gesticolare tutt’altro che educatamente. I due erano troppo lontani per sentire cosa si stavano dicendo, ma la faccia sconsolata di Amir e quella paonazza dell’inglese erano ben traducibili anche da una simile distanza.

— Spero tu stia scherzando, —  la ragazza si voltò a guardarlo, spostando il peso sull’altra gamba e incrociando le braccia sotto al seno. — Amir si sta facendo in quattro per rimediare al danno che hai fatto, perciò non sarà lui l’Assassino che Zuhre chiuderà in una botte e farà rotolare giù dalla scogliera. A quest’ora potevamo già vantare tanti di quei nuovi ordigni esplosivi, se fossi passato al Topkapi come non ho fatto altro che ricordarti, da un mese a questa parte! — Quando riprese fiato, le prove per dubitare del fatto che l’altro l’avesse ascoltata fin dall’inizio c’erano tutte.

Yusuf gettò uno sguardo più in basso rispetto alla linea delle spalle della ragazza. — Davvero? Allora perdona questo Assassino distratto, gli dev’essere sfuggito, —  disse con un sorriso eloquente, avvicinando il volto a quello di lei.

Ràhel alzò gli occhi al cielo e lo spintonò contro la parete del magazzino, in un gesto altrettanto eloquente. Ma il turco le aveva già cinto la vita con un braccio e nello sbilanciarsi verso il muro l’aveva tirata con sé fino ad avercela addosso come una seconda pelle. La baciò a tradimento, e a lungo, nell’ombra del magazzino desolato, testimoni solo qualche cassa di spezie e la salsedine incrostata su del vecchio cordame.

 

Amir azzardò un inchino profondo al bey inglese, sommandovi il rituale saluto e augurio di pace in quella lingua barbara che si era sforzato di imparare negli ultimi tempi come non mai. Da quando aveva dovuto occuparsi lui degli affari esteri della Confraternita, poteva vantare un buon repertorio d’inglese, indiano, egiziano, greco e italiano, oltre al turco e all’arabo locale. Ora che la Setta stava sperimentando questa polvere da sparo, poi, doveva stare al passo con la bussola dell’ingegneria bellica che una volta puntava in Arabia, un’altra volta in India, e infine anche nelle terre degli infedeli. 

Il mercante di polvere non lo compiacque con un saluto degno della sua cultura, e Amir si allontanò dalla banchina maledicendolo in tutte le lingue che sapeva. Giunse sull’ingresso del magazzino dove ricordava di essersi separato da Ràhel e Yusuf, ma non osò entrarvi: li intravide avvinghiati nella penombra e non dovette sforzarsi d’immaginazione sul come avessero ingannato il tempo quei due.

Richiamò la loro attenzione simulando un colpo di tosse, e si voltò a guardare la banchina mentre i compagni gli venivano incontro bisbigliandosi rimproveri a vicenda.

— Perché ci hai messo tanto? —  domandò Yusuf, sforzandosi di assumere un tono intimidatorio.

La ragazza, che si stava aggiustando la grossa treccia di ricci scuri, gli diede una gomitata.

Amir unì le mani dietro la schiena e grattò il terriccio sotto ai suoi calzari. — La nave ha tardato perché è stata costretta ad uno scalo ad Algeri. Se ho capito bene, il suo interprete era malato come metà della ciurma. —

— Peste? —  esplose la ragazza.

— No, un’epidemia intestinale, forse dovuta al cattivo cibo, —  rispose Amir.

— La polvere? Ce la darà? —  chiese Yusuf.

— Sì, ce la darà, ma il problema è un altro: qualcuno ad Algeri gli ha comprato metà del carico al doppio del prezzo. Se il resto non fosse stato destinato alle armate di Bayezid, avrebbe venduto anche la nostra parte. Ora non potendo permettersi di soddisfare le nostre richieste, ci invita ad aspettare il prossimo carico, che sarà qui tra non meno di quattro mesi. —

— Quattro mesi? Ci prende in giro? —  sbottò Ràhel voltandosi a guardare con rabbia la sagoma dell’inglese che, dalla banchina, dirigeva lo scarico della sua grassa caracca. — Vado a farci due chiacc…—

— Ferma, tu, —  Yusuf l’afferrò per il cappuccio tirandola indietro. — Amir, va’ dall’inglese e avanzagli un quarto della nostra richiesta iniziale. Zuhre non sarà contenta, ma la Confraternita dovrà farsela bastare…—  concluse con una smorfia.

Amir annuì. — Proverò, ma c’è un’altra cosa. —

— Dicci. —

— Quei documenti gli servono, e non ci lascerà aprire un solo barile prima di averli. —

Yusuf imprecò.

Ràhel si mise le mani sui fianchi e, dopo aver fulminato il compagno con un’occhiataccia, disse senza scrupoli: — Secondo me il mezzo carico ad Algeri l’ha venduto in nero e pensa di poter tappare i vuoti nei suoi registri truccando il nostro trasferimento. -

— Non sarebbe la prima volta, — osservò Amir sottovoce.

— Se Bayezid sa che il resto del carico che gli era stato promesso ce l’abbiamo noi, — continuò la ragazza, — per lui tutto filerà liscio come l’olio e la ramanzina del Sultano ce la becchiamo noi. Se invece l’inglese lasciasse le cose come stanno, domattina vedremmo la sua testa penzolare ad Ayasofya. —

— Non possiamo permetterci che venga giustiziato, ha degli ottimi prezzi, —  obiettò Yusuf.

— Qui si tratta di truffare il Divano, Yusuf, e per di più in favore di un occidentale. Non è uno scherzo, — assentì Amir. — Qualcuno deve andare da Bayezid e spiegargli le cose come stanno, —  suggerì il siriano, — dire lui la verità sul mercante inglese e il carico venduto ad Algeri. Che indaghi il Sultano, per conto della Confraternita, così noi prima avremo la nostra polvere e poi l’occidentale quello che si merita. — 

Yusuf sospirò gonfiando il petto. — E va bene, andrò io. Ràhel, accompagnami. Amir, sai cosa fare. —

Quello si portò il pugno chiuso sul cuore e chinò il capo. — Dirò all’inglese di metterci da parte la quarta parte della nostra richiesta iniziale, e attenderò con lui il vostro ritorno. —

 

Ad aspettarli fuori dalle mura orientali dell’Arsenale c’erano molti apprendisti pronti a caricarsi in spalla i barili.

Kasim, come vide i due Assassini varcare la soglia dell’Arsenale, si precipitò in sella al cavallo che trainava un carretto coperto da un telo, ma Yusuf lo fermò afferrando le briglie dell’animale all’altezza del morso. Accarezzando la criniera ispida, si rivolse a tutti gli Assassini lì presenti: — C’è stato un disguido con il mercante di polvere. Amir è rimasto con lui sulla banchina, ma Ràhel ed io dobbiamo andare al Topkapi per risolvere la questione. Poiché la nostra razione di polvere è molto inferiore a quella che ci aspettavamo, saranno sufficienti meno della metà di voi per trasportarla, purtroppo. —

Ci fu un’esultanza generale.

— Zuhre avrà voglia di mangiarsi vivo qualcuno, — disse Serdar avvicinandosi.

— Perché non ti offri tu? — ribatté Yusuf. — O se preferisci puoi andare a fare un po’ di compagnia ad Amir: quel signorotto occidentale non è proprio dell’umore migliore e il nostro esperto in lingue potrebbe uscirne pazzo, —  ridacchiò. 

— Preferisco, — rispose quello passando la porta.

L’avidità di un uomo finisce sempre per danneggiarne cento, pensò Yusuf seguendo Serdar solo con gli occhi, mentre ripensava a quel maledetto inglese che gli aveva appesantito la coscienza.

— Dobbiamo sbrigarci. —  Ràhel, che si stava slacciando la faretra da gamba porgendola insieme alla sua balestra ad una novizia, richiamò la sua attenzione. — O saremo costretti ad interrompere il Sultano durante la preghiera.

Alla sola idea, Yusuf fu scosso da un brivido. — Sì, sbrighiamoci. — disse separandosi dal suo kijil.

Nel Topkapi gli unici autorizzati a portare le armi erano i Giannizzeri, tanto valeva anticipare scomode perquisizioni.

 

Ebbero la sfortuna di arrivare troppo tardi, ma non perché Bayezid si fosse già chiuso nel rituale pomeridiano dell’asr. Anzi, il Sultano non avrebbe avuto neanche il tempo di inginocchiarsi, di lì a sera. E il Dio di tutti loro l’avrebbe punito.

Un ufficiale dei Giannizzeri li scortò nell’anticamera che precedeva la sala delle Udienze riservata ai colloqui più intimi, uno dei quali doveva essere in corso. Attesero in piedi per un tempo infinito, in quel modesto atrio luminoso, senza perdersi nella confidenza dei pregiatissimi cuscini disposti a terra su tappeti enormi.

— State sprecando tempo, Assassini. Il Sultano non riceverà nessuno fino all’ora dell’isha'a. —  Così parlò il Gran Visir Ibrahim Pasha quando comparve sotto l’arco che buttava nei giardini esterni.

Yusuf e Ràhel s’inchinarono profondamente mentre quell’uomo piccolo e anziano, dai baffoni bianchi e lunghi almeno quanto il suo cappello, veniva loro incontro sorretto da un bastone.

Unico turco a ricevere il titolo di Sadrazam dopo una serie di croati, albanesi e greci come Ishak, si era sempre mosso a suo agio nell’immensa uccelliera reale che era il Topkapi, perciò lo trovarono sereno e pacifico… o almeno così fu nei loro confronti. Veniva dalla Agalar Camii(la più antica moschea annessa al complesso del Palazzo Reale Topkapi), dove si era rifugiato a pregare di consuetudine sfuggendo alle noiose chiacchiere politiche, che nonostante la veneranda età lo costringevano ancora al fianco del Sultano e a capo degli altri Visir. Non era scortato da nessuna guardia, ma questo perché i venti Giannizzeri sparpagliati negli angoli di ogni stanza potevano bastare. Al suo fianco c’era però una donna completamente coperta, se non fosse stato per due occhi celestiali che indugiarono a lungo sulla sagoma di Yusuf, prima di spostarsi sul pavimento colorato. Era Amina, una delle quattro mogli di Ibrahim, nonché la fedele colomba di cui la Confraternita si serviva per sorvegliare il loro alleato anche nel quotidiano.

Il Gran Visir si appoggiò al suo bastone intarsiato con entrambe le mani. Dalle larghe maniche di seta decorata spuntavano dita affusolate e rugose. Fissò a lungo le porte chiuse del Divano e commentò così: — Da quando Mesih Pasha è tornato da Algeri, il Sultano passa molto tempo lì dentro... —

— Algeri: questa città l’ho sentita fin troppo nominare, oggi…—  mormorò Ràhel senza che l’anziano Visir potesse sentire.

Yusuf aveva avuto la sua stessa intuizione. — Cosa ci faceva lì, l’onorevole bey? —  domandò a voce alta.

Ibrahim si strinse nelle spalle magre con un brivido. — Mercato, forse? Solo Allah può dirlo. Mesih Pasha non ha l’abitudine di parlare con chiarezza a noi altri della Sublime Porta, se non in presenza del qaysar-i Rum(cesare dei Romei, uno dei tanti titoli del Sultano). E anche Bayezid ultimamente lo si vede poco… —  Fece una pausa e un profondo respiro. — Bayezid ha voluto che la sala fosse piena e così il Kapudan è stato richiamato dal Confine d’urgenza. La seduta è cominciata questa mattina all’alba e non è ancora finita. Temo il peggio… — 

Quando Ibrahim Pasha si rivolse esclusivamente all’Assassino, Ràhel indietreggiò calandosi il cappuccio sul viso.

— Ma dimmi: cosa ti porta al Topkapi, Yusuf Tazim? — domandò il vecchio con un sorriso.

L'Assassino trasalì. Raramente qualcuno gli si rivolgeva in quel modo se non era lui il primo a presentarsi con quel nome (tanto per tener fede alla sua vanità) e che lo avesse fatto proprio il Gran Visir gli riempì il cuore di aria. Quel sorriso, poi, poteva significare solo una cosa: Ibrahim sapeva, sapeva di chi era stata la mano che aveva chiuso un cerchio durato quarant'anni…

— E perciò pensi che possa aver comprato Mesih Pasha quella polvere da sparo inglese, —  dedusse Ibrahim non appena finì il suo racconto.

Yusuf annuì, seppur poco convinto. — Ma è solo un’ipotesi. —

— Certo, certo…—  mormorò distratto il Sadrazam. — Ma tu cosa stai inseguendo, Assassino: la polvere per fare la guerra o la guerra stessa? —

Yusuf, turbato da quella domanda, abbassò la testa e prese congedo dal vecchio, che andò a sedersi con l’aiuto della sua concubina lontano tra alcuni cuscini.

Ràhel gli sfiorò una spalla. — Tutto bene? —

L’altro sospirò. — Questa storia non mi convince, Ràhel, e Ibrahim mi ha messo in guardia. C’è qualcosa che ci sfugge, perché non è stato il caso a prendersi quella polvere. Ma muovere accusa contro un Visir, di nuovo e proprio ora, con la Guerra e tutto il resto… sembrerebbe una barzelletta e finirei per mettere l’Ordine nei guai. Non posso proprio permet… —

I battenti del Salone delle Udienze si socchiusero, e tutto l’atrio sembrò congelarsi. Dall’interno giungevano delle deboli voci, appena dei sussurri che nessuno riusciva a distinguere. Quindi dalla porta emerse la figura imponente di un uomo vestito con un lussureggiante abito nero, decorato di seta dorata che vi si arrampicava come edera. Il copricapo grande e tondeggiante era dello stesso freschissimo cotone bianco dei pantaloni, che terminavano negli stivali da guerra. Gli bastò un rapido sguardo per catturare tutta l’immensità del salone; dopodiché andò incontro ad Ibrahim Pasha, che nel frattempo si era rimesso in piedi da solo con un po’ di fatica, perché la donna era scomparsa.

Dal Salone emersero poi diverse altre figure, tra cui Mesih Pasha che Yusuf non stentò a riconoscere. Tra tutti quegli abiti ingombranti e quelle sete sgargianti, infatti, era l’unico che come Bayezid sembrava appena rientrato dal campo di battaglia. Il turbante rosso, la casacca corta, della seta attorno alla vita, stivali alti e polsini di metallo.

— È il nostro uomo, —  constatò Ràhel.

— Sì, ma devo parlare con il Sultano, prima, —  fu la risposta secca del turco.

— Ne sei sicuro? Non sembra dell’umore migliore…—  borbottò la ragazza.

Bastava guardare l’espressione turbata di Ibrahim, a cui il Sultano si stava rivolgendo con parole di pietra, per capire che genere di tensione c’era nel palazzo. Un manipolo di Giannizzeri si era stretto attorno ai due, mentre gli altri membri del Divano li osservavano, ammutoliti, a distanza.

— È il minimo, se non è riuscito a pregare, —  ironizzò Yusuf.

— Yusuf, Mesih Pasha sta lasciando il Topkapi, —  lo informò la ragazza, che aveva visto la figura del Visir avviarsi verso il birun con una piccola scorta armata.

— Dobbiamo parlare ad entrambi e prima che Mesih scompaia ancora dalla città, dannazione, ma non posso sdoppiarmi! —  imprecò Yusuf.

Ràhel fece un passo verso il Sultano. — Ferma Mesih, io ti chiamerò non appena Bayezid potrà riceverti. —

Yusuf la ringraziò con un sorriso poco convinto. L’idea di lasciarla sola nella corte, in mezzo a tutti quegli uomini che di certo non la consideravano loro pari, non gli piaceva neanche un po’, ma era costretto a decidere in fretta… Dovendo avere delle risposte prima di azzardare qualsiasi ipotesi al Sultano, scattò di corsa verso il cortile esterno, inseguendo le ormai lunghe ombre di Mesih Pasha e la sua scorta.

Mesih Paşa! —  lo chiamò.

I primi a voltarsi furono gli armigeri, mentre il Visir si fermò solo due passi più avanti.

Yusuf s’inchinò rispettosamente recitando una formula di saluto. Dopodiché si scusò per l’urgenza e l’arroganza con la quale aveva richiamato la sua attenzione.

L'uomo assottigliò i piccoli occhi scuri. — Cosa posso fare per te, Assassino? — 

Il Kapudan Mesih Paşa, di origini greche, era ammiraglio maggiore della flotta ottomana. Temuto e rispettato per via delle sue rare ma calcolate e fatali apparizioni, era il boia di pirati più temuto dell'Impero e in guerra il suo vessillo avrebbe fatto tremare gli alberi delle galee veneziane. Il Divano intero e lo stesso Ibrahim nutrivano una grande soggezione nei suoi confronti e come se si fosse trattato di un morbo, persino Yusuf se ne sentì sopraffatto.

— Sto indagando per conto del Sultano sulla vendita di metà della sua razione di polvere inglese, la cui scomparsa risale ad uno scalo della nave mercantile ad Algeri, dove voi vi trovavate, — disse Yusuf preoccupandosi di pesare bene le parole. — Mi chiedevo se aveste qualche…—

— Sì, ero ad Algeri, ma per questioni politiche che hanno riempito tutte le mie giornate lì, —  tagliò Mesih Pasha lisciandosi la folta barba scura. — Ho messo piede al porto solo per salire e scendere dalla mia nave. Il Sultano mi ha reso noto il ritardo della sua spedizione questa mattina, ma se avessi saputo del suo prezioso carico quand’ero ancora sulla costa algerina, lo avrei trasferito nella mia stiva e consegnato personalmente nelle sue mani. Ci avrà pensato bene qualche pirata.  

In quel momento Yusuf venne superato da una figura che si unì alla scorta del Gran Visir, e quando si voltò l’Assassino non riuscì a trattenere un tremito nelle mani.

L’uomo aveva occhi che scintillavano come topazi mentre una profonda cicatrice gli attraversava per lungo la guancia sinistra, dal sopracciglio alla mascella.
— Il Visir Mesih Pasha deve lasciare la città immediatamente. Non hai il diritto di trattenerlo oltre,
kaba(zotico)! — inveì minaccioso a pugni serrati.

Yusuf strinse i pugni, ma Mesih Pasha parlò prima che l’Assassino potesse rispondere.

— Ignora questo cane che abbaia. C’è altro? —  gli domandò alzando un po’ il mento e la voce, come per sottolineare la sua superiorità.

— No, onorevole Pasha. Nient’altro. —  Yusuf fece un secondo inchino, più profondo e lungo del precedente. Mentre era ancora piegato col volto che guardava le mattonelle del birun, ascoltò i passi dei soldati che si allontanavano dietro al Gran Visir. Solo un’ombra indugiò più delle altre.

Yusuf si sollevò lentamente.

Il cane da guardia di Mesih lo fissava con insistenza, ma l’Assassino non indietreggiò di fronte alla sua figura resa imponente dal sole calante, che gli rovesciava una pioggia dorata sui decori della casacca.

Si guardarono a lungo e in silenzio, finché il figlio di Yalìm non parlò per primo.

— Ti trovo bene, Dönek: almeno ora non uccidi per fame. — 

— Anche tu non te la passi male, Yusuf. —  Così dicendo si piegò in una riverenza esagerata. — I miei ossequi, Tazim. —  La sua risata gli raggelò il sangue e il volto di Yusuf s’indurì oltremodo.

— Come mai tanta fretta di andar via? — chiese, gelido.

Dönek si risollevò d’un tratto. — Ti burli di me, Assassino? Pensi che ti inviterò a prendere un caffè raccontandoti i piani del mio signore? No, mi spiace, dovrai scoprirli da solo. —

— Mesih ti tratta come una bestia, e il Dönek che conoscevo non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. — 

Quella risposta lacerò qualcosa nel profondo dell’altro, che indietreggiò guardandolo con odio. — I Paleologi da cui discende sono una famiglia ancora piuttosto influente… Mesih è un approdo sicuro, ma temporaneo, —  disse Dönek con la malvagità negli occhi.

Ad interromperli fu la corsa trafelata di Ràhel sulle scale.

— Yusuf! Dobbiamo andarcene via, subito. —

— Perché? — le chiese lui senza staccare gli occhi dal vecchio amico, che invece aveva incollato i suoi, lucidi e languidi, sulla figura della ragazza.

— Non lo so, non si capisce più niente, c'è un tale casino… Bayezid è una furia, ci vuole fuori dal Topkapi e… — le sue parole si spensero a poco a poco quando l’uomo di fronte a loro cominciò a ridere sommessamente.

— Ed è solo l’inizio, — mormorò.

— Dillo chiaramente se devo chiamarti traditore! —  gridò Yusuf portando d’istinto la mano sull’elsa del kijil, ma trovò solo il vuoto.

Ràhel lo fermò e con un cenno della testa gli fece notare che alcuni dei Giannizzeri di pattuglia si erano voltati a guardarli.

Un attimo dopo Dönek era già scomparso, lasciando gli occhi vitrei di Yusuf a fissare il vuoto, come se l’allegoria in carne e ossa del suo passato fosse ancora lì di fronte a lui. Inevitabilmente, i ricordi presero ad accavallarsi gli uni sugli altri come la prima volta che l’aveva rincontrato dopo tanto tempo, provocandogli lo stesso dolore di allora…

— Chi era? —  la voce di Ràhel lo sottrasse dal turbinio di quei pensieri amari che gli avevano scavato una ruga profonda sulla fronte.

— Un pazzo. —

Yusuf si avviò verso l’uscita. 

Che Bayezid si tenga la nostra polvere.

Ràhel lo raggiunse con una corsa e insieme lasciarono il Topkapi.

Ne avrà più bisogno lui di noi.

 

 

 

 

 

— Yusuf aveva capito più di chiunque altro che qualcosa stava cambiando drasticamente e l’incontro con Dönek aveva solo ispessito quella consapevolezza. Ibrahim era stato molto chiaro: il Sultano non aveva tempo per niente e per nessuno perché la Guerra era tornata a scuotere il suo Impero. Rientrammo al Covo a mani vuote, ma Zuhre seppe capire e diffuse nella Confraternita, come legge, questo monito: la storia stava facendo il suo corso e noi ci saremmo limitati ad agire nell’orbita del nostro Credo, in quel ruolo marginale e di sussidio al bene comune. Il nostro Gran Maestro ci raccontò di come la Confraternita aveva vissuto durante le guerre del passato, di come anche prima della scesa a patti con gli Ottomani aveva avuto la sua gloria e di come pure adesso, abbandonata a se stessa, avrebbe trionfato. In quelle parole rividi lo spirito di Ishak e il grande insegnamento che ci aveva lasciato: il sacrificio. Sarebbero stati anni difficili.

— E Ibrahim? —

— Morì in battaglia quell'estate e Mesih Pasha gli succedette sul ponte di una nave, senza troppe cerimonie. In Guerra non c'è tempo e persino alla morte viene rubato il suo... —

 

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Capitolo 37
*** Capitolo 36: Una gabbia di seta ***


La guerra volgeva a favore degli Ottomani. Dopo l’alleanza col Regno d’Ungheria e Papa Alessandro VI, l’unica vera vittoria che i Veneziani riportarono fu la conquista di Santa Maura. L’alleanza di Venezia col Papa Templare mise in agitazione gli Assassini Ottomani e il nostro Gran Maestro, che teneva contatti coi Confratelli veneziani all’insaputa della Sublime Porta, organizzò una missione congiunta, tesa allo scopo di concludere la guerra nel più breve tempo possibile. E non solo, l’unico modo per tenere lontano le grinfie templari era che Venezia fosse sconfitta e costretta ad accettare pesanti condizioni di pace. —

Ezio aggrottò le sopracciglia.

— A volte ancora non mi capacito di quanto lontano si sia spinta la mano dello Spagnolo. —

— All’inizio di luglio del 1502, Yusuf partì. Zuhre l’aveva messo al comando di una squadra di dodici, della quale né Amir né io facevamo parte. Restammo a Istanbul per due ragioni molto diverse: Amir era, insieme a Yusuf, il Maestro Assassino di rango più elevato e proprio per questo fu trattenuto, a me Zuhre negò il permesso di partire perché potevo rappresentare una… distrazione. —

— L’Ordine ha questa regola non scritta. —  disse il Mentore. — Viene quasi sempre rispettata.—

— I particolari della missione non furono divulgati. —  continuò Ràhel. —  L’unica cosa che si seppe fu una generica destinazione: la Grecia. Questo diceva tutto e niente, ma di certo non fu un caso se gli scontri e le scaramucce cessarono nel settembre di quello stesso anno… —

 

 

Istanbul,

Dhul- hijja 907

(primi di Luglio 1502)

 

 











a partenza doveva svolgersi in totale segreto.

Gli Assassini avevano abbandonato le loro vesti abituali e raggiunto la nave alla spicciolata, durante il pomeriggio e le prime ore della notte, portando con sé solo le lame celate e un pugnale nascosto nello stivale. Il grosso delle armi era stato caricato in casse di spezie.

Solo il loro comandante mancava all’appello ed era rimasto chiuso nello studiolo con il Gran Maestro per quasi tutta la notte. Quando ne uscì, Ràhel notò che anche la fascia colorata che era appartenuta a suo padre era sparita dal suo abbigliamento.

— Se vuoi accompagnarlo al porto, —  le aveva detto Zuhre. — procurati dei vestiti adatti. Amir verrà con te, anche lui vuole salutarlo e inoltre, una devota moglie turca non se ne va in giro da sola di notte. —

Quando Yusuf la vide, restò bloccato sulla porta, fissandola con uno strano sguardo. Ràhel non era abituata agli abiti femminili, ma il caftano che indossava, di morbida seta del colore delle prime foglie primaverili, era confortevole e voluttuoso nella sua semplicità. E le ampie maniche non sarebbero state d’ostacolo alle sue lame celate.

— Questa sì che è una bella sorpresa. —  disse Yusuf avvicinandosi e saggiando con le dita la consistenza del tessuto. — Dove hai nascosto la tua katara? —  le sussurrò poi all’orecchio.

— Voi due! —  li apostrofò Zuhre dallo studiolo. — Chiudete almeno la porta!

— Chiedo perdono! —  disse lui ridacchiando e affrettandosi ad eseguire l’ordine.

— Secondo te dove potrei metterla? —  chiese Ràhel spazientita. — Ho solo un pugnale legato alla  coscia. —  aggiunse poi con aria da cospiratrice, abbassando la voce.

Tanri…—  Yusuf alzò gli occhi al cielo.

— Però se dovessi estrarlo farei oltraggio alla pubblica decenza. —

— Credo che se fossi costretta a farlo, la decenza sarebbe l’ultima delle tue preoccupazioni. Se la segretezza di questa operazione fosse compromessa…—

Ràhel sbuffò. Si era adattata come tutti l’alone di mistero che circondava quella missione e quanto sarebbe durata, ma era insofferente al fatto di non aver potuto farne parte. Si accigliò, osservando con aria critica le scarpine a punta che spuntavano dall’orlo del caftano. Yusuf sorrise, la afferrò per un polso e le fece fare un giro su sé stessa. La seta frusciò piacevolmente.

— Ho dovuto avere l’ordine di partire per un tempo indefinito per poterti vedere vestita così. —  sospirò. — Non c’è giustizia a questo mondo! —  Poi l’attirò a sé.

— Baciami ora. Non credo che al porto la decenza lo consentirà. —

La infastidiva terribilmente non poter andare con lui, che la sua balestra non avrebbe potuto coprirgli le spalle. Ràhel si diede della stupida, mentre scivolava tra le sue braccia: lui di certo se la sarebbe cavata anche senza la sua protezione, era un Maestro Assassino, che diavolo! La verità era che la faceva sentire a disagio ammettere che le sarebbe mancato.

— Dobbiamo andare. —  mormorò Yusuf posandole un bacio sulla punta del naso. — Se Zuhre ci trova ancora qui…—

Amir aspettava nella sala principale.

 

La calda notte estiva volgeva al termine.

Ràhel camminava un passo dietro Amir mentre facevano ritorno al Covo e quella posizione sottomessa la innervosiva. Il velo che le lasciava scoperti solo gli occhi pareva soffocarla e la seta del caftano aveva perso tutto il suo fascino. Non riusciva ad immaginare come si potesse passare la vita dentro quella morbida prigione e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione per potersela strappare di dosso. Essere cresciuta nell’Ordine non l’aveva mai fatta soffermare sulla condizione delle altre donne, che dovevano affidarsi a un uomo per la loro difesa, o anche solo per essere considerate rispettabili. La cosa la faceva infuriare. Lei non aveva bisogno di un uomo, anzi, qualsiasi uomo comune si sarebbe trovato a mal partito affrontandola, e solo il suo onore personale e la lealtà verso la Confraternita la rendevano rispettabile. Nessuno poteva sostituirsi alla sua propria coscienza nel fare delle scelte, mai e poi mai avrebbe consentito una cosa del genere… ma Yusuf già le mancava. La naiba!

Scalciò con rabbia un ciottolo e Amir si voltò, sollevando un sopracciglio.

— Scusa. —  sussurrò lei. — Non sopporto più questa roba addosso. —  

— Ti capisco. —

— Davvero? —

— Una volta mi sono infilato un burqa. —

Quando varcarono la porta del Covo, Ràhel si affrettò a togliersi il velo e posò una mano sul braccio di Amir.

— Un  burqa. Sul serio? —

Lui sorrise, annuendo. — E’ stato prima che tu arrivassi qui. In missione, a Damasco. Quando torna, puoi fartelo raccontare da Yusuf, se vorrà. L’unica altra persona, a parte lui e me, che era al corrente di questo… particolare, l’ha portato con sé nella tomba. —

Ràhel lo squadrò, interdetta.

— Vuoi dire che è stata un’idea del Maestro Ishak? —

Amir le rivolse un’occhiata misteriosa. — Fidati. —  disse poi. — Un burqa è un ottimo stratagemma per nascondersi in piena vista. —

— Non ho dubbi. —  Ràhel sorrise. — Ma chissà quanto dovrò aspettare per sentire questa storia. — Si accasciò pesantemente sui cuscini accanto al camino spento e il sorriso svanì, sostituito da una specie di broncio, mentre iniziava a stropicciare l’orlo di una manica del caftano.

Amir entrò in biblioteca, dove alcuni bracieri, anche d’estate, preservavano i volumi dall’umidità, e tornò dopo qualche minuto con fra le mani un narghilé già acceso. Si sedette accanto a lei, lo piazzò sul pavimento e le porse una delle due pipe.

Restarono in silenzio per un po’, mentre il profumo del tabacco aromatico si spandeva per la sala.

— Nervosa? Arrabbiata? Preoccupata? —  chiese Amir tra una boccata e l’altra.

Lei scosse la testa.

— Non è proprio il caso di fare la dura, Ràhel. Non con me. —

Lei soffiò il fumo con stizza, ostinandosi a non dire nulla.

— Se la caverà, anche senza di te e anche senza di me. Ci sa fare, ha esperienza, sa stare al comando e sa mettersi nei panni degli altri. So che già ti manca e a malincuore devo ammettere che manca pure a me. —

Ràhel sollevò il mento e nei suoi occhi apparve un lampo d’orgoglio testardo. — Non ho bisogno di lui. —  sbottò.

Amir sospirò poi le lanciò uno sguardo tra il severo e il divertito.

— Che discorsi! Nemmeno io ho bisogno di lui! Non stiamo parlando di bisogno, ma di piacere.—

Lei lo fissò, interrogativa e la ruga sulla sua fronte si approfondì.

— So che sei capace di bastare a te stessa. —  continuò il siriano. — Sei una donna equilibrata e che non dipende da nessuno, ma essere indipendenti non significa negarsi il piacere o fingere che questo piacere non ci manchi. Tu provi dei sentimenti per lui, come li provo io e apprezzi la sua compagnia esattamente come me. —  ridacchiò. — Direi non proprio esattamente…—  

A quella precisazione Ràhel non poté trattenere un sorriso.

— Non c’è niente di sbagliato se sei preoccupata per lui, se vorresti essere lì a coprirgli le spalle o se ti dispiace di non sapere quando lo potrai rivedere. Avrai già abbastanza a che fare con tutte queste cose senza che ti metta anche a fare a botte col tuo orgoglio. —

Che Amir serbasse il dono dell’empatia dietro la sua aria rigida e severa era noto a tutti, ma a Ràhel non era mai capitato di essere coinvolta di persona in questa sua innata capacità. Non poteva far altro che ammettere di sentirsi più calma e anche se quelle poche e semplici parole non avevano completamente appianato i suoi conflitti, tutta la loro verità le appariva evidente.

— Grazie, Amir. —  disse.

— Non c’è di che. —  rispose lui. — Ma forse è meglio se vai a cambiarti. Quel vestito ti sta bene, ma potrebbe farti apparire come una sciocca ragazzina che si strugge d’amore. —  aggiunse con un sogghigno.

Ràhel gli tirò un cuscino, poi si alzò e marciò decisa verso la sua stanza.

Quando aprì la porta si sorprese di trovare una candela accesa che, ormai quasi del tutto consumata, spandeva la sua luce incerta dal comodino. Appoggiata sul letto con noncuranza, c’era una fascia colorata che avrebbe riconosciuto ovunque.

Continuò a fissarla con il cuore in subbuglio, mentre si sfilava il caftano e indossava la sua divisa. Poi la prese, la rigirò tra le mani e se la legò stretta in vita.

Questo sì che mi farà sembrare una sciocca ragazzina che si strugge d’amore… ma che m’importa?

Per niente al mondo avrebbe rinunciato al piacere che le dava tenerla addosso.

 

 

 

 

 

'? o te dove potrei metterla,

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 38
*** Capitolo 37: In equilibrio ***


Istanbul,

Muharram 908

(fine di Luglio 1502)

 












uella settimana prometteva di essere la più calda dell’anno. L’estate fino ad allora incerta, sembrava esplosa all’improvviso.

Perfino Amir, che soffriva il caldo quanto una lucertola, aveva accantonato le rigorose maniche lunghe e Ràhel si era trovata a considerare l’idea di tagliarsi i capelli. Per le strade, spostarsi velocemente da una zona d’ombra ad un’altra era la sola preoccupazione di chiunque, ma sui tetti, con il sole inferocito che non concedeva scampo, la sensazione era quella della graticola. Di notte poi, con le tegole che restituivano il calore accumulato nelle ore diurne, la situazione non migliorava un granché.

Le mura spesse rendevano il Covo principale un’oasi in mezzo all’inferno, e Ràhel stava pensando proprio alla deliziosa frescura della sua stanza, mentre rientrava da uno sfiancante quanto poco proficuo appostamento nel distretto di Costantino. Era stata acquattata per ore in una fetida catapecchia simile ad un forno, sorvegliando un venditore del mercato nero dal quale nessuno si era fermato a comprare alcunché. Controllare ogni voce che giungeva al Covo a volte pareva soltanto un totale spreco di tempo!

Malgrado fosse tardo pomeriggio, il calore del sole non accennava a diminuire e la brezza leggera era un alito rovente. Il cappuccio impediva ai raggi spietati di arrostirle il cervello, ma allo stesso tempo rischiava di soffocarla e la pelle delle braccia, che si era arrossata il giorno prima durante il suo turno di guardia sul tetto del Covo, le prudeva in modo quasi insopportabile. Nervosa e quasi morta di sete, Ràhel decise di calarsi il cappuccio sulle spalle e di fermarsi a una bancarella dove le ultime albicocche della stagione avevano attirato la sua attenzione.

— Perdonami se ti disturbo, leydim. — disse una voce alle sue spalle, mentre addentava un frutto con soddisfazione. Si voltò, rivolgendo un’occhiata truce a chi stava interrompendo il suo spuntino e si trovò davanti un uomo sui trent’anni, sfacciatamente bello e ben consapevole di esserlo, a giudicare dalla posa rilassata e dal sorriso disarmante che sfoggiava sul viso rasato.

— Spero che quella non sia tutta la tua cena, — continuò lui, posando gli occhi color dell’ambra sulle tre albicocche rimaste nella mano di Ràhel, — perché il fatto che abbiamo una conoscenza in comune mi permetterebbe di provvedere con qualcosa di più, o di meglio. —

Lei lo squadrò sospettosa, aggrottando le sopracciglia.

— Mi chiamo Latif Açık Kahverengi e Yusuf Tazim è uno dei miei più vecchi amici. —

Ràhel conosceva quel nome, ma non ne aveva mai incontrato il proprietario.

— Stai insinuando che la cucina alla Gilda dei Ladri sia superiore alla nostra? — lo punzecchiò.

— No di certo. La vostra sede ha sempre avuto cuoche di tutto rispetto. Ricordo in particolare una certa Ayla… —

Lei sogghignò. Non era stato certo Yusuf a raccontarle di Ayla, bensì Serdar, che pareva avere un gusto particolare per gli episodi piccanti che riguardavano la Confraternita. In quell’occasione, Ràhel aveva riso fino alle lacrime immaginandosi lo scandalo nel cortile delle lavandaie, soffocando la punta di gelosia e il pizzico di eccitazione che quel pensiero le aveva provocato. L’espressione maliziosa sul viso di Latif le comunicava che anche lui era a conoscenza dell’episodio, confermandole che era davvero chi diceva di essere. Solo un amico avrebbe potuto essere al corrente di un fatto del genere.

Il Ladro si asciugò il sudore dalla fronte con l’avambraccio e la invitò con un gesto a spostarsi all’ombra, lontano dalla bancarella e dagli occhi adoranti della venditrice. Lei lo seguì morsicando un’altra albicocca.

— So che Yusuf è partito. — disse Latif appena si trovarono al riparo di una tettoia sbilenca e Ràhel si irrigidì. — E mi ha incaricato personalmente di comunicare a te quello che normalmente avrei riferito a lui. — Continuava a sorridere, ma i suoi occhi erano diventati più freddi.

— Ho ragione di sospettare che i motivi della sua partenza possano arrivare in breve tempo dove non dovrebbero. —

Ora anche il sorriso era svanito.

— Sarebbe un disastro. — sussurrò Ràhel. — Cosa sai? —

— Non molto, ancora. Ma conto di sapere qualcosa di più questa sera. — Sul suo viso comparve un lampo di cupa determinazione, ma un attimo dopo scomparve, quasi fosse trapelato suo malgrado.

— Sarò nel parco a est di Hagia Sophia  a mezzanotte. — disse. — Parlerò solo con te. — Un lieve inchino e si allontanò tra la gente.

Ràhel seguì con gli occhi il suo passo leggero finché Latif non sparì dietro un angolo. Con l’inquietudine che le serrava lo stomaco, si domandò da quando il Ladro la stesse seguendo senza che se ne fosse accorta e, nel caso che i suoi sospetti avessero trovato conferma, quanto tempo rimanesse per sventare la minaccia.

Quando arrivò al Covo era quasi il tramonto. Esausta, inzuppata di sudore e rabbrividendo per la differenza di temperatura tra l’esterno e l’interno, fermò il primo Apprendista che le si parò davanti.

— Dov’è il Maestro Amir? — chiese senza mezzi termini.

— Credo nella sala delle armi… — cominciò quello, ma lei era già schizzata via di corsa, rischiando di travolgere un gruppetto di Novizi diretti a cena.

Amir alzò gli occhi sentendola entrare.

Tanrı'nın iyiliğini,  Ràhel! Che ti è successo? — Posò la sciabola che stava affilando con la consueta cura e fece per alzarsi, ma lei si sedette di schianto sul pavimento, cercando di riprendere fiato.

— Ho corso fin qui dal distretto di Costantino. — rantolò.

— Il venditore. Quindi le voci sono… —

— No. — lo interruppe Ràhel. — L’appostamento è stato inutile. —

— E allora? —

— Ho incontrato un Ladro di nome Latif Açık Kahverengi. —

Sulle labbra di Amir si disegnò un sorrisetto. Sembrava parecchio incuriosito.

— Il contatto di Yusuf nella Gilda. —

— Non è stato un incontro casuale, Amir. Yusuf gli ha passato di persona la consegna di riferire a me in sua… assenza. —

Il siriano si accigliò. — E…? —

— Sospetta che qualcuno possa essere al corrente delle ragioni della sua partenza. —

Amir posò d’istinto la destra sull’impugnatura della sciabola, in un gesto che significava pericolo.

— Mi aspetta a mezzanotte nel parco di Hagia Sophia. — continuò Ràhel.

— Verrò con te. —

— Ha detto chiaramente di andare da sola, non parlerà con nessun altro. —

— Resterò nell’ombra. —

 

Non c’era luna, e il refolo di vento che si era levato da nord faticava a smorzare la calura.

All’altezza del Gran Bazar, Ràhel proseguì per la sua strada, mentre Amir prendeva quella dei tetti. Era una notte tranquilla e silenziosa, e avvicinandosi alla mole di Hagia Sophia, la ragazza non vide anima viva, ma i suoi sensi tesi al massimo erano quasi in grado di percepire il filo invisibile che la legava al siriano e alla sua discreta copertura. Quando entrò nel parco, la sensazione di essere sorvegliata anche da qualcun altro divenne ingombrante.

Si aggirò fra le panchine e le pergole nel più completo silenzio e con solo la luce delle stelle a indicarle la strada. Latif non le aveva comunicato un luogo preciso, sarebbe stato lui a trovarla.

— Sei come un gatto, leydim. — Un sussurro dal buio, e un’ombra si materializzò accanto a lei.

— Questo ci rende simili. — rispose Ràhel, che non l’aveva sentito arrivare.

Latif ridacchiò.

— Mi stai facendo un gran bel complimento. Sediamoci. — Le appoggiò una mano sul gomito e la sospinse con gentilezza verso una panchina, dove si accomodarono. Ràhel distingueva appena i suoi lineamenti.

— Tredici Assassini. — cominciò Latif con quella sua voce vellutata. — Imbarcati su una nave diretta in Grecia. Capitano leale all’Ordine, equipaggio fidato. —

Come poteva Latif conoscere quei particolari? Yusuf di certo non se li era lasciati sfuggire. Ràhel non disse nulla, non volendo dare conferma della correttezza delle informazioni.

— Un marinaio però, si è fatto ammazzare tre giorni prima della partenza durante una rissa in una taverna ed è stato prontamente rimpiazzato. Non una gran perdita, visto che prima di morire ha spifferato ogni cosa a chi lo ha tolto da questo mondo, che gli aveva promesso un bel sacchetto gonfio di Akçe preferendo poi sostituirlo con una lama ben affilata. —

— Sai chi l’ha ucciso? —

Evet. Da questa sera. E mi dispiace dover ammettere che è uno dei miei. —

Nei suoi occhi scintillava una rabbia a stento trattenuta. — Sospettavo di lui da tempo, ma per ragioni ben lontane da quelle che ho scoperto. La Gilda è leale al vostro Ordine, in un certo qual modo. Fin dalla fondazione della Confraternita i contatti sono stati tenuti dai singoli, attraverso accordi privati che si riflettevano sui due gruppi portando vantaggi reciproci: informazioni, protezione, appoggio, denaro. È un equilibrio che non può essere messo in pericolo per nessuna ragione: ciascuna delle due parti ne sarebbe irrimediabilmente danneggiata. Yusuf ha scoperto questo solo dopo essersi unito all’Ordine ed io, che già frequentavo la Gilda, sono diventato il suo contatto, mentre lui diventava il mio, con la nostra amicizia che cementava l’accordo. —

Latif fece una pausa, sospirando, e quando ricominciò a parlare la sua voce vibrava d’indignazione. — Quell’uyuz köpek ha violato gli accordi minacciando l’equilibrio, tradendo quindi sia noi che voi. Ha già pagato con la vita, ma non prima che gli avessi tirato fuori tutta la verità. —

Ràhel osservò il suo viso nella semioscurità: la spietatezza che vi era comparsa non ne diminuiva affatto il fascino, donandogliene, se possibile, ancora di più.

Un lupo travestito da cerbiatto, pensò.

— L’ho fatto personalmente, e senza testimoni. Il vostro segreto è al sicuro con me, in nome dell’accordo che ho con Yusuf e che adesso è passato a te, ma si trova comunque in pericolo. —

Si sganciò una borsa dalla cintura e la consegnò a Ràhel.

— Cinquecento Akçe. — disse. — E’ quanto il bastardo ha ricevuto da un mercante di origine italiana che si proclama politicamente neutrale e forse lo è davvero, visto che, alla luce dei fatti, serve interessi di natura ben diversa. —

Con un brivido, Ràhel rifletté che quelle informazioni sarebbero state un pericoloso cavo d’innesco nelle mani dell’Impero o dei Veneziani, ma la miccia si accorciava drasticamente se erano giunte all’orecchio templare.

— Dove possiamo trovarlo? —

Il Ladro sogghignò. — Ha concluso l’affare questa sera ed è in partenza, ma si sente bruciare la terra sotto i piedi e resta nascosto. Conosco la sua faccia e ogni suo luogo d’interesse è già sorvegliato. Non può muoversi, né tentare di lasciare la città senza che io lo sappia. Sarà vostro in breve tempo. —

— Ti ringrazio, sei una risorsa preziosa. —

Latif si alzò e lei lo imitò.

— E’ un onore, leydim. Spero che sarai tu a finirlo. — La chiostra dei suoi denti balenò nella notte. — Puoi contare su di me sempre, anche se ti sentissi sola. —

Un attimo dopo era scomparso e Ràhel rimase immobile per qualche minuto, con la borsa in una mano e l’altra posata sulla katara alla sua cintura.

Mentre si dirigeva all’uscita del parco e poi verso il Gran Bazar, dove si sarebbe ricongiunta con Amir, la tensione dell’attesa già cresceva dentro di lei insieme al gusto della caccia imminente, ma la sfacciataggine di Latif continuava a farla sorridere.

 

Muharram 908

Salı 27

 

Ràhel lui Ciprian

Rapporto dell’uccisione di Bruno Del Buono, mercante in Istanbul

 

Data: 26 Muharram 908

Luogo: Istanbul, distretto di Bayezid

Caposquadra: Maestro Assassino Amir al-Wadid

Secondo: Assassino di Terzo Livello Ràhel lui Ciprian

In appoggio: Gilda dei Ladri

 

Distretto di Bayezid Sud, alba.

Il contatto alla Gilda dei Ladri riferisce che il bersaglio è rifugiato in una residenza signorile non lontana dall’Arsenale. Il sopralluogo rivela mercenari all’ingresso nel numero di sei, archibugieri sul tetto nel numero di due per lato. Totale forze ostili in vista quattordici elementi. Non è esclusa la presenza di ulteriori guardie a personale difesa del bersaglio. Un assalto diretto alla residenza risulta azzardato, ma soprattutto troppo palese.

 

 

Sostavano su quel terrazzo da diversi minuti e il sole, da poco sorto alle loro spalle, li rendeva invisibili agli archibugieri sul tetto della residenza.

— Non possiamo ingaggiare una battaglia. — sentenziò Amir, cupo.

Latif, che aveva accompagnato lui e Ràhel sul posto e si era tenuto in disparte fino ad allora, lasciandoli alle loro valutazioni, fece un passo avanti.

— Ne convengo, lordum. Ma dovrà muoversi, sappiamo che è in partenza. —

— Un agguato è la sola possibilità. — disse Ràhel. — Di certo non si sposterà circondato da un esercito, darebbe troppo nell’occhio. Ma non sappiamo dov’è diretto, né con che mezzo intende lasciare la città. Senza conoscere il suo percorso in anticipo, evitare lo scontro diretto diventa difficile. —

Amir misurava il terrazzo a passi lenti, un occhio al tetto, un occhio alla strada.

— Non possiamo permetterci che questo incarico non vada a buon fine, c’è troppo in gioco. Posso prendere in considerazione anche lo scontro diretto, ma solo come ultima risorsa. —

— Scommetterei su una nave. — suggerì Latif e i due Assassini lo fissarono con occhi che dicevano che l’azzardo non era contemplato.

 

 

Covo di Bayezid Sud, mezzogiorno.

Le sentinelle riferiscono che il bersaglio non si è mosso dalla residenza. I turni di guardia dei mercenari hanno durata di quattro ore, brevi quanto basta per non compromettere l’attenzione.

Sono in corso indagini per determinare le intenzioni del bersaglio che sappiamo in procinto di lasciare la città.

Sorveglianza: Apprendista di Nono Livello Asil Dikkatli

Staffette: Apprendista di Quinto livello Selen Ahu, Apprendista di Quarto Livello Iskender Sakin

 

 

Sul soppalco caldo e silenzioso la tensione si toccava con mano. Ràhel si aggirava tra le scorte e i banchi di lavoro come un animale rinchiuso, mentre Amir, seduto con un libro tra le mani, ostentava una calma apparente.

— Smettila, Ràhel. Mi fai girare la testa. — sbottò infatti, sollevando gli occhi dalle righe su cui stava solo simulando di essere concentrato.

— Scusami. — rispose la ragazza estraendo di tre dita la katara dal fodero per controllare che scorresse bene. — Quest’attesa mi fa imbestialire. Come fai a essere così tranquillo? —

— Non lo sono, sto solo facendo finta. —

— Oh, e come fai a far finta così bene? —

Amir chiuse il libro di scatto e sospirò.

— Pratica. — disse. — A mio padre piaceva dire: se c’è rimedio, perché preoccuparsi? E se non c’è rimedio, perché preoccuparsi? In teoria non fa una piega, ma non sopportavo sentirglielo dire, così ho imparato a dissimulare.  E mi è stato molto utile, passando buona parte della mia vita di Assassino a stretto contatto con uno che detesta le attese ben più di me. —

— Yusuf. — Ràhel pronunciò quel nome come un sussurro. — Volevo partire con lui per coprirgli le spalle e adesso devo farlo qui. —

Evet. Come vedi, riesci lo stesso ad essere utile. —

Agitando le mani esasperata, lei ricominciò a far risuonare coi suoi passi tutto il pavimento del soppalco.

— Sì, se Latif trova quella maledetta nave in tempo, se poi è davvero una nave, se c’è un posto lungo il percorso che fornisca un appostamento a prova di errore, se… —

— La troverà. — tagliò corto Amir. — E’ molto capace, e la sua amicizia nei confronti di Yusuf rasenta la devozione, una devozione che ora appartiene a te. —

A Ràhel non sfuggì la punta di sarcasmo nella sua voce.

— Ti senti scavalcato? — domandò, trascinando una sedia accanto a lui.

— Un po’. —

— Amir, io… — Si sedette senza appoggiarsi allo schienale, attorcigliandosi  nervosamente intorno alle dita un capo della fascia di Yusuf.

— Lascia stare. —

— No, non so perché quel nebun abbia fatto una cosa così. Doveva passare la consegna a te, che condividi il suo rango, che sei  il suo migliore amico, suo… fratello. —

— E tu sei la sua donna, Ràhel. —

— E allora? Tu sei senz’altro più adatto a gestire questo accordo, sei cresciuto in questa città e ne conosci gli equilibri meglio di me. —

Amir allungò una mano e la posò su quella della ragazza, impedendole di tormentare ulteriormente la fascia.

— Smettila, — disse. — la farai diventare uno straccio più di quanto già non sia. —

Lei allargò le mani sulle ginocchia.

— Yusuf si fida di te, ma forse ha voluto metterti alla prova. — continuò il siriano e Ràhel si accigliò. — Per vedere se ero in grado di gestire un contatto alla Gilda dei Ladri? —

Amir inarcò un sopracciglio. — Di certo non ti è sfuggito che Latif è un concentrato di fascino virile… —

— Cosa?!?! —

La ragazza saltò in piedi quasi rovesciando la sedia, gli occhi furibondi e le guance in fiamme.

Fiu de catea! Cu tot respectul pentru mama lui! —

Amir non poté evitare una risata: Ràhel dimenticava spesso il turco nei momenti di rabbia e anche se lui non conosceva il significato preciso di quelle parole, il tono non lasciava spazio a dubbi.

In quel momento udirono la porta del covo aprirsi,  e i passi dell’Assassino di guardia salire la scala. Quando raggiunse il pianerottolo, quello sollevò una mano, mostrando un foglio ripiegato e legato con uno spago.

— Un ragazzino cencioso l’ha consegnato all’ingresso. — disse. — Ha fatto il nome di Ràhel.—

 

 

Covo di Bayezid Sud, primo pomeriggio.

Ricevute notizie dal contatto. Si allega il messaggio.

 

Avrei vinto la scommessa: si tratta di una nave.

È ancorata alle banchine al confine sud tra i distretti di Bayezid e

Imperiale.

Una scelta infausta, ma non certo per voi.

Salperà subito dopo l’Asr. Il tempo stringe.  

 

 

Giusto il tempo di scambiarsi un’occhiata d’intesa e avevano lasciato il Covo. Non avrebbero potuto immaginarsi un’eventualità migliore nemmeno nelle loro più sfrenate speranze.

Una magnifica porzione di mura si affacciava su quelle banchine, abbracciandole con i suoi due spezzoni in un aperto angolo unito al vertice da una torretta e al termine del camminamento merlato un’altra torretta di altezza inferiore si protendeva nel mare. Per un motivo quanto mai opportuno la sorveglianza era quasi inesistente. Una compagnia di mercenari aveva stabilito la sua base proprio negli edifici prospicienti il braccio settentrionale delle mura e ne controllava l’unico varco. Oltre di esso, in un ampio spiazzo circondato dal mare su tre lati, quasi ogni notte si svolgevano combattimenti clandestini, sui quali i funzionari del Divano sembravano chiudere volentieri un occhio, se non addirittura entrambi. Il Covo, inoltre, si trovava più vicino a quella zona  di quanto non fosse la residenza e nessuna staffetta era giunta a riferire che il bersaglio aveva lasciato il suo rifugio. Si trovavano in una netta posizione di vantaggio.

Procedettero a passo veloce, trattenendo a stento l’istinto di mettersi a correre. Il sole era scomparso dietro una coltre pesante di nuvole e l’umidità spezzava il respiro.

Quando raggiunsero un vicolo deserto ai piedi delle mura, Latif era lì ad attenderli, proprio nel punto da cui era più facile raggiungere la sommità sfruttando gli edifici addossati.

Size sağlık, Assassini. — sussurrò. — La fortuna è vostra amica oggi. —

Size barış, Latif. — rispose Amir. — Con il tuo contributo. —

Ràhel rimase in silenzio. Osservava il bel viso del Ladro e la sua figura atletica: si sentiva ribollire di rabbia. Si impose la calma e la concentrazione, immaginando di incanalare tutta quella furia nella punta dei suoi quadrelli.

— La compagnia di mercenari che si è sistemata qui non è la stessa che il nostro mercante ha assoldato. — spiegò Latif. — Non potrà passare dal varco. Gli resta un’unica via per raggiungere la nave. —

— Aggirare le mura dalla parte opposta con una barca. — concluse Ràhel. — Saliamo. —

La scalata fu agevole e raggiunsero il camminamento in breve tempo, percorrendolo poi tenendosi bassi dietro alle merlature. Non c’era sorveglianza nella parte che si allontanava dal varco e si appostarono in completo silenzio sulla torretta che chiudeva le mura, da cui la visuale copriva tutta la zona interessata.

Ràhel valutò le distanze. Avrebbe potuto colpire il bersaglio ancora a terra: il tiro sarebbe stato più semplice, ma avrebbe attirato l’attenzione delle persone presenti sui moli. Decise quindi che avrebbe scoccato nel momento in cui la barca si fosse trovata a metà del tragitto fra la riva e la nave, mentre aggirava l’angolo meridionale della torre. La difficoltà sarebbe stata accentuata dal movimento dell’imbarcazione, che si sommava a quello delle onde, ma fortunatamente, il mare era calmo. Lo spazio fra i merli costituiva un’ottima postazione, ma doveva eseguire un tiro preciso e letale, o nel tempo che le sarebbe occorso per ricaricare, la barca sarebbe avanzata tanto da obbligarla a spostarsi nel varco successivo. Avrebbe dovuto farlo comunque, se voleva eliminare anche la scorta, che dubitava sarebbe stata costituita da più di un mercenario, date le dimensioni delle piccole lance che vedeva ormeggiate nei dintorni, ma se avesse fallito il primo tiro, avrebbe avuto meno tempo a disposizione.

Scambiò uno sguardo con Amir, estrasse cinque quadrelli, li sistemò a portata dopo averne lisciato l’impennatura tra le dita e si dispose all’attesa.

Latif si posizionò sul lato sud orientale, da cui poteva tenere d’occhio i moli e il loro accesso: era il solo in grado di riconoscere il mercante.

Amir, il cui unico ruolo era quello di supervisore, deputato dal suo rango a prendere le decisioni del caso, si sentiva quasi del tutto inutile. Ràhel avrebbe potuto occuparsi della missione da sola, con Latif ad indicarle il bersaglio, ma la posta in gioco era troppo alta e Zhure aveva voluto un Maestro Assassino alla testa della squadra.

Le nubi avevano assunto il colore plumbeo della tempesta imminente e una brezza tesa si era alzata da est. Ràhel calcolò che non fosse ancora abbastanza forte da influire sul tiro in maniera rilevante, ma si preparò alle necessarie correzioni di mira.

— Arrivano. — avvisò Latif mentre un tuono brontolava in lontananza. — Capo scoperto, tabarro verde, quattro mercenari di scorta armati di archibugi. —

Amir, dietro la copertura delle merlature, fissò il cielo con occhi critici; Ràhel caricò la balestra e si mise in posizione.

— La barca è piccola. — continuò il Ladro. — Oltre al barcaiolo, può portare con sé un solo mercenario. Gli altri tre sorvegliano il molo. —

Un lampo si disegnò nel cielo e in breve tempo il tuono lo seguì.

— Sono partiti. —

Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia e Ràhel imprecò tra sé. Se la corda di canapa si fosse impregnata d’acqua la potenza del tiro si sarebbe ridotta. La fortuna li aveva favoriti già abbastanza per pensare che potesse continuare a farlo.

— Hanno fretta, non costeggiano le mura, hanno scelto un percorso diretto. —

Bersaglio più lontano, ma migliore angolazione per un colpo letale.

— Uno, due. Uno, due… — Latif scandiva a voce alta il ritmo della vogata.

La pioggia aumentò d’intensità, mentre il richiamo all’Asr si spandeva dai minareti nell’aria densa. Amir mormorò la preghiera a fior di labbra, quasi a chiedere aiuto, o perdono.

Quando il temporale si abbatté su di loro, diminuendo drasticamente la visibilità e il vento rinforzò, ricoprendo il mare di basse creste biancastre, la situazione si fece complicata.

— Amir. — chiamò l’Assassina, mentre la sua mente ricapitolava tutte le variabili di cui tener conto.

— A tua discrezione, Ràhel. — rispose il siriano con voce piatta, sovrastando lo scrosciare della pioggia.

— Ci siamo. — disse Latif.

La prua della barca sbucò dalla merlatura, entrando nella visuale di Ràhel. Lo sguardo della ragazza si incuneò sul bersaglio, acquisendone il movimento, la velocità, la distanza e la posizione del tabarro verde.

L’Assassina scoccò, e il suono della corda ormai bagnata le risuonò nelle orecchie come uno schianto. Il quadrello volò, più in alto e più a sinistra di quanto avrebbe dovuto, ma il vento lo spinse, la pioggia lo appesantì e la barca gli corse incontro, portando la gola del mercante esattamente sulla sua traiettoria.

Bruno Del Buono si accasciò sulla panca e il barcaiolo si gettò in mare, lasciando al piccolo guscio solo l’abbrivio dell’ultimo colpo di remi. Il mercenario non poteva imitarlo, gravato com’era dall’equipaggiamento e dalle armi e alzò gli occhi verso l’unico punto da cui la morte poteva essere arrivata. Sollevò l’archibugio mentre la balestra veniva ricaricata.

Ràhel si spostò nel varco successivo tra i merli e scoccò nel momento in cui una palla di piombo si infrangeva sulle pietre, facendo volare un paio di schegge che le ferirono un sopracciglio. Il mercenario precipitò in acqua con un quadrello nel petto.

Sulla torretta la pioggia continuava a farla da padrona, appesantendo i vestiti, ma non certo gli animi.

— Via. — ordinò Amir. Ràhel raccolse i quadrelli rimasti e i tre si avviarono rapidi.

— Sei ferita, leydim. — disse Latif quando furono al sicuro nel vicolo ai piedi delle mura. La ragazza scostò i ricci bagnati che le si erano incollati alla fronte e si tastò il sopracciglio. Le bruciava appena, ma il sangue mescolato con la pioggia le colava lungo la guancia. Il Ladro si tirò la manica sul palmo e premette sulla ferita, afferrandola dietro il collo per impedirle di sottrarsi.

— Sono impressionato. — disse con gli occhi seri. — Yusuf mi aveva detto che la tua abilità era pari alla tua grazia, ma quello che hai appena fatto ha superato di parecchio ogni mia fantasia. — Sorrise, e nel suo sguardo si affacciò il divertimento.

— Ti ringrazio. — sussurrò Ràhel, con voce flautata. Anche tu mi stai mettendo alla prova? pensò, lasciandosi andare a una risata. Amir si avvicinò e spostò la mano di Latif per osservare il taglio.

— Non sanguina più. — disse secco, assumendo il tono che si addiceva a un caposquadra severo.

— Muoviamoci. —

Voltò le spalle con un sogghigno che gli piegava le labbra.

Dietro le mura, la nave salpava le ancore senza il suo esimio passeggero a bordo.

 

 

Distretto imperiale Sud, dopo l’Asr.

La ritirata non presenta alcun ostacolo. La pioggia battente copre la fuga e nessuno sembra essersi accorto di noi o di quanto è accaduto.

 

Distretto di Bayezid Sud

Ci viene riferito da alcune sentinelle agli ordini del contatto che il barcaiolo scampato all’agguato ha raggiunto la riva e riferito i fatti ai mercenari lasciati di guardia. Costoro non hanno mostrato reazioni rilevanti, avendo probabilmente già ricevuto il pagamento, e hanno abbandonato la posizione con sollecitudine.

Ci separiamo dal contatto in prossimità del Covo e procediamo per la Sede Principale.

 

Difficoltà generale: media.

Nessuna perdita.

 

 

Ràhel posò la penna e soffiò sulle righe appena scritte, rileggendole. Annuì soddisfatta, constatando che non c’erano errori e che la scrittura appariva abbastanza fluida e ordinata.

Il temporale del giorno prima aveva rinfrescato l’aria e se pure aveva incrementato la difficoltà della missione, pure lei lo benediceva, come facevano tutti. L’alba era sorta limpida quella mattina e il vento che si era disposto da nord, aveva spazzato via tutta l’umidità. La città respirava di nuovo e anche i turni di guardia sarebbero stati più sopportabili.

Si appoggiò allo schienale con un sospiro. L’arrossamento sulle braccia si era trasformato in un bel colore dorato che contrastava col segno bianco lasciato dalle polsiere e la ferita sul sopracciglio aveva già cominciato a fare la crosta. La tensione aveva lasciato il posto a un torpore diffuso e un senso di confortevole sollievo le allagava il cuore. Pensò a Yusuf, cercando di immaginarsi dove fosse in quel momento, quali rischi stesse correndo, quali difficoltà stesse affrontando e fu felice e fiera di averlo sottratto almeno a una. Vide i suoi occhi, sentì la sua risata e percepì il suo tocco sulla pelle, rifugiandosi poco a poco in un angolo della sua mente dove tutto sapeva solo di lui. Si abbandonò a quelle emozioni gustando la dolcezza un po’ amara dei ricordi e il languore della sua assenza.

Prova superata, bastardo, pensò con un sorriso. Sento la tua mancanza forse più di prima.

Chiuse gli occhi e rivide l’impennatura porpora del suo quadrello che saettava fra le gocce di pioggia, diretto, teso, guidato dalla sua rabbia…

Oh sì, é stato uno dei miei tiri migliori, mi dispiace solo che tu non fossi lì a vederlo.

 

 

 

 

                                                                                

 

 

 

 

 

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Capitolo 39
*** Capitolo 38: Aprire il mandato ***


Istanbul,

Dhul-hijja 908

(Giugno 1503)

 











l silenzio dello studiolo era rotto solo dal grattare del pennino sulla carta. Anche l’aria era immobile e ogni oggetto lì dentro sembrava assistere come un muto spettatore alle parole che Amir stava vergando con mano sicura, alla velocità dello scrivano del Sultano. I caratteri ordinati si specchiavano nei suoi occhi neri e un po’ lucidi, l’inchiostro creava linee sinuose sul fondo giallo delle pagine. Il lucernario sul soffitto ritagliava un cerchio perfetto nel cielo limpido e un uccellino curioso vi si era affacciato. Il suo canticchiare gli aveva tenuto compagnia per un po’ mentre compilava i registri, ma quando la porta dello studiolo si aprì di colpo, volò via in un frullo d’ali.

Yusuf, sorpreso di trovarlo lì, s’immobilizzò con la maniglia in mano. — Che ci fai qui? — chiese, interdetto. Insieme a lui aveva fatto capolino nello studiolo l’eco della confusione che animava il salone centrale, dove gli Assassini rientrati dalla Grecia erano stati risucchiati dalle cerimonie dei loro compagni.

— Bentornato, — disse Amir senza staccare gli occhi dal registro.

Yusuf ridacchiò. — Alla faccia! Il Covo è una festa e tu fai il solito eremita. Sei il mio migliore amico: hai il dovere di accogliermi decentemente. —

Il siriano stirò le labbra in un sorriso. — Ho quasi finito. —

— Vorrà dire che andrò a festeggiare con qualcun altro. Ràhel? —

— Non riusciva a stare ferma per l’emozione e l’ho mandata a sbrigare una faccenda nel Gran Bazar. La vedrai ‘sta sera. —  e poi, senza bisogno di sbirciare la faccia contrariata di Yusuf, aggiunse con scherno: — Ma se proprio non puoi aspettare ci appartiamo. —

Yusuf scoppiò in una fragorosa risata. — Ti prego, risparmiamelo. Zuhre? — 

La penna si fermò. Amir la posò lentamente e senza rumore accanto alle pagine e si lasciò cadere sullo schienale. L’espressione, più scura del solito, era comunque indecifrabile. Il sorriso di poco prima morto in tragedia sulle sue labbra.

— Chiudi la porta. —

Yusuf fu attraversato da un brivido, ma fece come chiesto.

Il resto del Mondo poteva aspettare fuori da quello studiolo.

 

Ezio era rimasto in silenzio e Ràhel poteva leggergli negli occhi le parole che stava tenendo per sé, come se avesse intuito ogni cosa e ne fosse stato trafitto all’improvviso.

Dopo aver preso un profondo respiro lei continuò.

— Il nostro Gran Maestro ci aveva lasciati nel mese precedente. Nessuno degli Assassini impegnati in Grecia ne era stato messo al corrente per non compromettere l’esito della missione, ma soprattutto per umanità. La Guerra era finita, la Pace firmata e non si contavano perdite. La Confraternita doveva festeggiare, unanimemente, il successo della missione. L’occasione per commemorare la nostra vecchia guida e presentare la nuova si offrì ufficialmente quella sera, nel cortile degli allenamenti che era stato disposto come un anfiteatro attorno ad un grande fuoco… —

 

Amir si fece avanti raggiungendo il centro del cortile, e camminando attorno al focolare per accogliere gli sguardi commossi di tutti i presenti, celebrò il Gran Maestro con parole che sembravano poesia. Quando finì, uno scrosciare di applausi riempì il cortile degli allenamenti e nel nuovo silenzio, rotto solo delle fiamme scoppiettanti, un barbat (strumento a corde simile alla lira) attaccò una musica soffusa e dolcissima. Era Serdar, che nei giorni successivi alla morte di Zuhre aveva composto quella melodia dedicandola al Maestro. Esaurite le note Kasim si permise di schernirlo, insinuando il sospetto che fosse stato per tutto quel tempo un pretendente alla sua mano, ma Serdar accampò una verità ben diversa, cogliendo la solennità della serata per dichiararsi ad una giovane Assassina, che in preda all’euforia, lo baciò.

Amir lasciò correre ogni cosa. La figura stagliata contro le fiamme del focolare, le braccia conserte, un sorriso tremolante. Giustificava ogni spontaneità o leggerezza dei suoi compagni e anzi la condivideva con un luccichio inconfondibile negli occhi.

Incontrò lo sguardo di Ràhel, che era comparsa in quel momento sotto la porta che conduceva al Covo, e quasi senza accorgersene Amir si ritrovò a tergersi gli occhi col pollice. Dietro di lei, prima solo un’ombra, c’era il loro nuovo Maestro.

 

— Quand’è successo? — gli aveva chiesto Yusuf sedendosi, con una lentezza straziante, di fronte a lui.

— Il mese scorso, — la risposta di Amir da dietro la scrivania, dove ora sembrava quasi sprofondare. — Era malata, e da tempo. —

— Da quanto tempo? Non sapevo nulla. —

 

Yusuf lo raggiunse al centro del cortile e la sua ombra si allungò accanto a quella di Amir. Il siriano fece un passo indietro, allontanandosi cerimonioso dal fuoco, e quella di Yusuf divenne l’ombra più lunga.

 

— Quindi adesso sei tu. —

Amir aveva scossa la testa.

— Serdar? —

Con la mezza risata di chi si aspettava di sentir proporre quel nome, Amir aveva negato di nuovo, e il silenzio era stato una risposta eloquente.

 

Gli occhi del cortile erano puntati tutti su di lui. Si aspettavano qualcosa, ma una parola di conforto o qualcuna delle sue uscite esilaranti?

Yusuf si schiarì la gola. — L’ho già detto a lui e lo ripeterò a voi, — cominciò alludendo ad Amir. — Chi era con me in Grecia può garantire che le piaghe sui miei piedi sono vere. —

Un po’ di risate qua e là tra le panche alleggerirono l’atmosfera. Quelle di Kasim erano sempre le più chiassose.

 

— Mi sono fatto un eşek (culo) così in Grecia, e ora questo! — aveva sbottato il turco alzandosi di colpo dalla sedia, dopodiché aveva iniziato a fare avanti e indietro nel poco spazio libero dello studiolo.

— Yusuf, non hai dodici anni. Controllati. —

— Cos’è, uno scherzo? Amir, non prendermi in giro! —

Il siriano lo aveva guardato inarcando un sopracciglio. Mi conosci da vent’anni. Ti sembro il tipo?

 

— Non è stato facile, — continuò Yusuf serio, voltandosi per abbracciare con gli occhi tutti i presenti. — Giorno dopo giorno la terra si faceva più calda e l’alito dell’Impero sul nostro collo più pesante. E dall’odore poco gradevole. —

Questa la capirono solo gli Assassini che lo avevano seguito in Grecia, che si abbandonarono ad altre risate nostalgiche.

 

— Fammi indovinare, — aveva cominciato Yusuf, arrabbiato. — Sono stato l’ultimo a saperlo. —

— Di che parli? — gli aveva chiesto il siriano massaggiandosi la radice del naso.

— Del matrimonio del medico con la fioraia… Secondo te?! — aveva sbattuto i palmi sulla scrivania e c’era mancato poco che facesse volare via tutti i fogli in equilibrio precario.

Amir aveva continuato a guardarlo, impassibile, senza capire.

Gli occhi chiari di Yusuf, cerchiati dalle fatiche della Grecia, erano grandi e profondi come pozzi. — Gran Maestro dell’Ordine degli Assassini Ottomani Yusuf Tazim… Suona anche male! — aveva sbottato, lamentandosi come di un brutto abito.

 

— Abbiamo riportato una duplice vittoria: — continuò Yusuf. — Contribuire alla fine della Guerra ha rimesso in buona luce la Confraternita agli occhi del Divano e confinato l’egemonia Templare lontano dalle nostre coste. In questo l’alleanza con gli Assassini Veneziani, allarmati quanto noi dalla scesa in campo del Papa Spagnolo al fianco della loro Serenissima, ha giocato un ruolo cruciale e voglio che sia noto. I Confratelli italiani si sono dimostrati validi alleati, nonché abili cuochi! Senza il loro supporto sul campo sarebbero tornati meno della metà di noi. — Si accorse troppo tardi di aver insediato involontariamente altra inquietudine nella sua platea e perciò si affrettò ad aggiungere: — Oppure saremmo tornati tutti lo stesso, ma con qualche okka (unità di misura del peso) di meno. —

Altre risate.

Non riuscì a non notare lo sguardo indagatore di Ràhel, che dopo quella confessione aveva preso a studiarlo di sottecchi, come se i danni da banchetto fossero quantificabili anche attraverso i vestiti…

Tranquilla, dopo mi lascio controllare per bene, ridacchiò Yusuf tra sé e sé e la ragazza, come leggendogli quel pensiero sulla faccia, distolse lo sguardo mal celando l’imbarazzo.

 

— Zuhre aveva le idee piuttosto chiare già da prima della tua partenza, — aveva azzardato il siriano. — Metterti alla testa della squadra è stata una sua idea e sarebbe stato il tuo esame. Ha lottato finché ha potuto. Sapere della Pace firmata deve esserle bastato. —

— Questo, — aveva scandito Yusuf puntandogli contro il dito come se fosse un’arma. — Questo non è di conforto, Amir. —

— Allora cosa vuoi che faccia? — aveva sbottato l'altro lasciandosi cadere contro lo schienale e alzando le mani.

— Tanto per cominciare potresti offrirti di scambiarci di posto, o non ci avevi ancora pensato? — 

— Ma certo, accomodati! — Amir si era alzato scostando rumorosamente la poltrona ed era uscito dallo studiolo sbattendo la porta. Una scena che si ripeteva.

Ma che…Yusuf si era voltato sulla sedia, interdetto. Stavo scherzando, razza di permaloso!

 

— L’Ordine e ciò che rappresenta ci insegnano a trascendere le differenze etniche e a guardare sempre in un’unica direzione: la libertà. Ebbene io vi dico che liberamente quegli uomini e quelle donne hanno scelto di affiancarci, staccandosi dalla loro stessa patria e dai suoi interessi a sostegno di una causa più giusta, la nostra causa; quella che nessun governante o politico, da ambedue le parti, si è degnato di guardare e che ancora una volta è toccato a noi soli difendere; la stessa libertà che anni di Guerra ci hanno portato via e che lo zampino Templare rischiava di soffocare per sempre. —

Ora tra le panche non volava una mosca, e lo scoppiettio del grande fuoco alle spalle del Maestro era l’unico suono.

 

Era rimasto a fissare lo scranno vuoto davanti a sé per un tempo infinito, prima di alzarsi anche lui e avventurarsi con la cautela di un cerbiatto dall’altra parte della scrivania. Quando si era seduto aveva percepito l’imbottitura della poltrona ancora calda. Aveva stretto i braccioli così forte da sentirli scricchiolare e finché il legno non gli era entrato sotto le unghie, con il cuore che cercava di sfondargli il petto come i colpi di un cannone. Lottando contro la vista che aveva cominciato ad annebbiarsi, aveva sfogliato gli ultimi registri, ma aveva letto inutilmente e con distrazione: le parole gli scivolavano davanti agli occhi e la stanchezza del viaggio gli piombava addosso tutta in una volta. Si era abbandonato sulla poltrona in una posa da marionetta dai fili tagliati e non si era mosso per ore, fino a sera inoltrata, quando Ràhel era venuta a cercarlo proprio lì, dove si era rivolta a lui, e per la prima volta, con il nome di Maestro

 

— Dopo la morte del Mentore Ishak, di cui alcuni di voi conosceranno solo l’eco della leggenda, Zuhre ci ha guidati in anni difficili e di confusione per la Confraternita. Il nostro ruolo agli occhi del Divano si assottigliava, la nostra presenza sfumava come consumata dai bollori di un conflitto che durava da anni e stava per esplodere! — prese del terriccio e lo lanciò con foga nel fuoco, risvegliando un guizzo di scintille tra i ciocchi. — La Guerra con Venezia ci ha spinti lontano mentre come le onde di un mare in tempesta inghiottiva le nostre risorse migliori, troncandoci i contatti con le Confraternite dell’Occidente ed estraniandoci alla politica. —

— Grazie a Dio! — esultò un Assassino, suscitando qualche magra risata.

Yusuf si costrinse a sorridere. — In questo senso noi diventiamo nemici della politica. — Fece una pausa, quindi riprese con più calma. — Ma Ishak è stato entrambe le cose, Visir e Mentore, riuscendo a far convivere dentro di sé due uomini inconciliabili. La sua missione è stata dimostrarci che questo ruolo è spesso necessario. Zuhre, invece… lei è stata il trapasso di un’epoca. Ha afferrato con forza le redini della Confraternita nel momento in cui tutto sembrava vacillare e sotto di lei la minaccia delle Quattro Code è stata estinta per sempre. La pace che vivremo ora è merito delle forze congiunte di tutti i Mentori che mi hanno preceduto. Non vi prometto che sarà eterna e i nostri nemici attendono solo di potercela guastare, ma come vostro nuovo Maestro prendo l’impegno di salvaguardarla nel ricordo di chi ha lottato per farcela avere. Da questa sera si è chiuso un capitolo amaro nella storia del nostro Ordine, e adesso è ora di goderci un po’ di dolce Şarap! —

Le sue ultime parole furono accolte con un’ovazione che fece tremare le tettoie.

— Cominci già con promesse che non puoi mantenere, Maestro? — lo ammonì Amir. — Non penso ce ne sia per tutti. —

— Di che ti preoccupi? Tu neanche puoi, — rimbeccò Yusuf prendendo Ràhel sottobraccio. — Ma i miei ragazzi se lo meritano. In alternativa inventeremo qualcosa, un gioco con le carte, un balletto. —

Amir si permise una risata. — Dove stai andando? —

— Fatti i fatti tuoi, — lo schernì Yusuf, un braccio di Ràhel attorno alla vita mentre tornavano con lo stesso passo dentro il Covo.

— Non sei Maestro neanche da un giorno e già scarichi responsabilità, — commentò il siriano, sarcastico.

— Credevo ti piacesse dare ordini, quindi se non hai idee puoi bacchettarli tutti sul didietro e mandarli a letto come sai fare fin troppo bene, — ribatté Yusuf.

Amir lasciò cadere le spalle, sconfitto, senza riuscire a rimproverare nulla a quei due che erano stati lontani per quasi un anno, e che andavano sfacciatamente ad appartarsi con tutto il diritto di festeggiare nel modo che preferivano.

 

 

 

 

Il fuoco si abbassava, gli Apprendisti lasciavano le panche chi per raggiungere il proprio letto e chi, con un atteggiamento tutto diverso, per avviarsi al proprio turno di guardia. Quando del focolare non rimase che un grumo di cenere in un cerchio di pietre annerite, Amir stava rientrando per ultimo nel Covo, dietro a Serdar con in braccio la nuova amante.

Andate e moltiplicatevi, pensò il siriano tenendo per sé una risata, mentre augurava un buon sonno ad entrambi ma senza crederci troppo. Anche per lui la notte sarebbe stata ancora lunga.

Tornò nella biblioteca, che preferì allo studiolo quando vi si appartò a lume di candela per ultimare il lavoro interrotto da Zuhre su alcuni registri, di cui si era occupato solo provvisoriamente dopo la sua morte e in assenza di Yusuf, ma qualcosa gli diceva che era un compito che sarebbe spettato per sempre a lui. Qualche ora più tardi non fu sorpreso di vedere il loro nuovo Maestro ancora sveglio, sgattaiolare nel salone centrale e accorgersi di lui.

— Instancabile, — lo canzonò Yusuf allacciandosi la vestaglia.

Amir ricaricò il pennino d’inchiostro e gli lanciò giusto un’occhiata. — Potrei dire la stessa cosa di te, — sghignazzò.

— Io ho i miei buoni motivi. Tu che scusa hai? —

— La scusa di aver bisogno di molto meno sonno di te, — disse Amir voltando pagina. — Hai intenzione di aspettare sveglio la tua prima alba da Maestro? — gli chiese.

— Veramente ho dimenticato di fare una cosa, — mormorò Yusuf, — e speravo che tu potessi accompagnarmi. —

L'altro fermò la penna. — Nel bel mezzo della notte? E dove? —

Yusuf piantò gli occhi nei suoi e Amir poté leggerli come le pagine di un libro.

— Va bene, — acconsentì il siriano con un sorriso. — Ma non fare il sacrilego e mettiti qualcosa addosso. —

 

Ràhel si alzò. Era la prima volta da quando aveva cominciato il suo racconto ed Ezio la imitò non senza trattenere una certa fatica, dopo tanto tempo di immobilità, nel risvegliare le ossa. La ragazza gli mostrò il luogo per il riposo eterno del loro trascorso Gran Maestro, dove senza sforzo nel tradurre i caratteri arabi che erano scolpiti sulla lapide, Ràhel lesse il nome di Zuhre in appena un sussurro, come se altrimenti avesse potuto svegliarla.

— Una donna alla guida di una Confraternita, — disse Ezio mentre tornavano seduti dove la terra era ancora calda. — La storia del nostro Ordine ne ha viste forse troppe poche, ma davvero valide. —

— Tua sorella ne è un esempio? — chiese lei.

— Claudia ha coltivato una grande saggezza che purtroppo è spesso vacillante; ha guidato i Confratelli di Roma in mia assenza, ma non porterà lei questo fardello. Stabilire una successione è il più arduo dei doveri di un Maestro: della tua scelta dipenderanno le sorti future, e poiché non siamo cartomanti ma uomini liberi, imporre è sempre un azzardo e una limitazione. —

Ràhel ne convenne, seppur con distrazione. — Quella sera Yusuf e Amir vennero qui, e vi rimasero a lungo, — disse, e le sue parole fluttuarono come i fumi degli incensi, salendo nel cielo stellato.

Limpido come lo era allora.

 

Il canto dei grilli e l’ultima parola di una soffusa preghiera, poi Amir si alzò silenzioso come un gatto, stringendogli una spalla, e lasciò il cimitero.

Perso nel tempo Yusuf guardò ad est, dove il sole si stava affacciando timidamente, rischiarando una porzione di cielo mentre la coperta di stelle veniva ritirata via ad Occidente.

In un battere di ciglia il silenzio immobile e sacro del nuovo giorno fu pieno di rumori, di voci, di musica. Il passato, un vecchio libro polveroso e dalle pagine scricchiolanti, si chiudeva già pieno di emozioni, insegnamenti e ricordi e il futuro, un foglio bianco, attendeva solo di essere scritto.

Odio questa parte: mi ci vorrà minimo una settimana per scrivere quel rapporto, pensò Yusuf alzandosi e sgranchendosi la schiena. Ma aspetta un attimo… Poi un'idea parve passargli per la mente e un sorrisetto perfido gli stirò le labbra.

Adesso posso ordinare a qualcuno di farlo per me.

 

 

  La mattina dopo, Amir entrò nello studiolo portando sottobraccio un registro nuovo di zecca e si stupì di trovarvi Yusuf che sonnecchiava sulla poltrona.

— Buongiorno, Maestro. — esordì, mentre l’altro si stirava come un gatto. — Non credevo di trovarti già in piedi. —

— E infatti non lo sono. Non sono neanche del tutto sveglio, — Fece una smorfia e sbadigliò. — ma come puoi vedere, non mi sottraggo ai miei doveri. Cos’hai lì? —

Amir depose il registro sulla scrivania. — Visto che hai parlato di doveri, eccotene qui uno: devi scrivere il rapporto della missione. Spero che avrai preso appunti sul campo. —

Yusuf aggrottò le sopracciglia.

— Cos’è, una domanda trabocchetto, Amir? È ovvio che non ho preso appunti sul campo, era una missione segreta! E in quanto al rapporto, be’, sarà molto divertente fare rapporto a me stesso. Una specie di dialogo interiore… —

Il siriano sorrise soddisfatto e Yusuf sospirò. — Vedo che non hai perso la maledetta abitudine di interrogarmi come quando eravamo Apprendisti, o solo semplici Assassini; mi sei sempre stato superiore di rango. — Parve riflettere su questo punto. — Amir, non ti sembra un po’ strana questa situazione? —

L’altro si limitò a rivolgergli uno sguardo indecifrabile, poi posò la punta dell’indice sulla copertina del registro.

— Scrivi qualcosa, Yusuf. È tradizione che il nuovo Maestro apra il suo mandato con un registro nuovo. — disse, e voltandogli le spalle, lo lasciò da solo con i suoi dubbi e le sue domande.

Nel silenzio, il Gran Maestro dell’Ordine degli Assassini Ottomani Yusuf Tazim rimase a lungo a fissare quel pesante tomo di carta intonsa, che sembrava sfidarlo con i delicati fregi impressi a fuoco sul cuoio che lo racchiudeva. Non aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto mai scrivere per aprire il suo mandato, così come gli sfuggiva che cosa avrebbe dovuto fare ora che quel ruolo gli era precipitato addosso come una frana. Aiuto, pensò, ma non c’era nessuno più in alto di lui a cui rivolgersi; fu preso da un senso di vertigine. Almeno Ishak aveva il suo Dio. Per un attimo rimpianse di non aver ricevuto un’educazione religiosa, mentre apriva il registro con l’atteggiamento mentale di chi si pone di fronte a un avversario impegnativo.

C’era un foglio di carta pregiata, ripiegato e chiuso dal sigillo del Maestro, in ceralacca porpora. Lo spezzò con l’inquietudine che gli accelerava i battiti e un pizzicore in fondo alla gola. Deglutì un paio di volte e prese un respiro profondo prima di spiegare il foglio e posare gli occhi sulle fitte righe che lo ricoprivano.

 

 

 

Istanbul,

29 Dhul-Qa`da 908

 

Yusuf,

ti scrivo come tuo Maestro, come una madre e come un’amica.

Ricordo come fosse accaduto ieri quando arrivasti al Covo. Eri un bambino impaurito e sconvolto dal dolore, che sembrava non avere più niente a cui aggrapparsi, a parte un padre che quasi non conosceva e un futuro incerto.

La scelta di Yalìm di unirsi a una donna che non fosse un’Assassina, di sposarla e di crescere suo figlio al di fuori della Confraternita è stata inusuale e in alcuni casi anche criticata, ma agli occhi dell’Ordine, non poteva che essere rispettata. Tuo padre era un uomo che non smetteva mai di farsi domande e di cercare con impegno e costanza le risposte. Voleva che conoscessi qual era la sua vita, i principi che la regolavano e su cui si reggeva, ma anche che avessi ben chiaro che poteva esserci qualcos’altro per te, per quanto ritenesse che onore, forza e lealtà dovessero essere i fondamenti di qualunque vita.

Gli somigli molto, anche se la vitalità, l’irruenza e lo spirito a volte sfacciato che hai ereditato da tua madre insieme agli occhi, nasconde spesso la complessità e l’assennatezza che ti viene da lui.

So quello che stai pensando.

Sei stanco per il viaggio e per una missione difficile che ti ha tenuto lontano a lungo. Immaginavi di tornare a casa e goderti il riposo, la pace tanto duramente raggiunta e il tuo successo, e invece ti ritrovi caricato di una responsabilità maggiore, per la quale non ti senti pronto e che pensi di non meritare.

Non è così.

In te c’è tutto quello che serve.

Hai avuto il coraggio di rifiutare l’Ordine e quello di unirti ad esso.

L’umiltà di accettare che avevi una lunga strada da percorrere e la forza di lavorare senza risparmiarti.

La volontà di discutere e la determinazione nel confronto.

L’ardimento per sfidare l’autorità e l’intelligenza di accoglierne le conseguenze.

Quel bambino spaventato è diventato l’uomo a cui avrei affidato la vita ogni giorno e a cui mi sento oggi di affidare la guida della Confraternita.

Abbine cura, Yusuf. Reggi questa famiglia con giustizia e verità, con autorità e comprensione, con la mente, con le mani e con il cuore.

E senza perdere mai il tuo sorriso.

 

Questa è la mia Scelta e questo Stabilisco e Impongo.

 

ﻴﺠﻴﺎﺮﺍ ﺖﺎﻘﻴﻘﺎﺣ ﻪﺮﻌﻮﺫ

ﻰﺼﺎﺠﻮﺣ ﻞﻴﻘﺍ ﻖﻴﻠﺸﺀﺬﺮﺎﻗ ﻰﻠﻨﺎﻤﺼﻭ ﻦﻴﺮﻬﻠﻴﺸﺎﺧﺸﺎﺣ

 

Zuhre Hakikat Arayıcı 

Gran Maestro dell’Ordine degli Assassini Ottomani

 

 

Rimase a fissare la frase di rito che chiudeva la lettera, quella che suggellava la successione, attribuendole valenza di legge all’interno dell’Ordine. La Scelta del Maestro era irrevocabile e niente avrebbe potuto scalzare il successore dal suo posto, a parte la morte o la rinuncia volontaria. Secondo quanto Yusuf sapeva dalla storia della Confraternita, nessuno aveva mai rinunciato e per quanto continuasse a considerarsi immeritevole, nemmeno lui l’avrebbe fatto. Non avrebbe sfidato un’altra volta la sua autorità, né sarebbe venuto meno alla fiducia che lei gli aveva concesso. Quella donna, che era stata il suo Maestro, una madre e un’amica, non meritava questo, anche se le motivazioni della sua decisione ancora gli risultavano oscure.

L’assenza di Zuhre era come un nodo dentro il suo cuore, che lo faceva sentire solo e, ancora una volta, privo di direzione.

Stringendo la lettera in mano si alzò, e aperta la porta dello studiolo gridò: — Amir! —

Gli Assassini che si trovavano in biblioteca si voltarono allarmati e il siriano comparve da dietro una libreria, con alcuni volumi tra le braccia e l’aria di chi si aspettava quell’imperiosa convocazione.

— Lo sapevi vero? — chiese Yusuf mostrando la lettera quando furono di nuovo nell’intimità dello studiolo.

— Sì. L’ha scritta il giorno prima di andarsene. —

Questa è la mia Scelta — citò Yusuf. — e questo Stabilisco e Impongo.

L’altro annuì.

— Quindi è ufficiale, non ho nessuna scappatoia. —

— Pensavi di averla? —

— No. —

Amir lo guardò strofinarsi gli occhi per scacciarne la stanchezza e la commozione, sedersi alla scrivania, stappare una boccetta d’inchiostro e prendere la penna. Sembrava non volersi separare dalla lettera, che ancora teneva stretta fra le dita della sinistra.

 

Istanbul,

20 Dhul-hijja 908

 

Io, Yusuf Tazim, Gran Maestro dell’Ordine degli Assassini Ottomani,

 

Stabilisco e Impongo che il Maestro Assassino Amir bin Saad al-Suriyâī al-Wadid

sia da oggi il mio Secondo in Comando.

 

Il mandato era stato aperto.

 

 

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Capitolo 40
*** Capitolo 39: Domande ***


Istanbul

Muharram 909

(Luglio 1503)

 

 











l kijil sfuggì alla presa di Yusuf e finì a terra descrivendo un lungo arco aggraziato.

La sensazione del filo perfetto di una sciabola siriana contro la gola  è sempre inquietante, anche se la mano che la regge appartiene a un amico fidato.

— Adesso basta, Yusuf. —  Amir aveva il fiato corto. — Se vuoi morire, il colpo di calore non mi sembra una soluzione onorevole. —

Il cortile degli allenamenti era schiacciato da un sole implacabile e la polvere danzava nell’aria tremolante.

Yusuf non rispose, si sottrasse alla minaccia con un movimento fluido e si avviò verso il kijil a passo deciso, sfilandosi la camicia zuppa di sudore.

Interdetto per l’atteggiamento dell’amico, che raramente aveva visto così cupo in tutta la sua vita, Amir rinfoderò la sciabola e si portò sotto la tettoia che circondava il cortile, dove afferrò un orcio d’acqua e bevve avidamente. Yusuf lo raggiunse all’ombra, e Amir gli porse l’orcio senza dire nulla. Aveva sospettato fin dall’inizio che quell’allenamento fosse una scusa e che il nuovo Maestro degli Assassini Ottomani avesse qualche boccone amaro da ingoiare… o da sputargli addosso. Ostinato nel suo silenzio, il siriano si accasciò su una panca, asciugandosi il sudore con il dorso della mano. 

Yusuf continuava a tacere, togliendo la polvere dal kijil con la camicia ormai ridotta a uno straccio. Sembrava voler prendere tempo.

— Mi hai disarmato. —  disse finalmente.

— Mi sembra sia già successo, qualche volta. —  ribatté Amir senza dare troppo peso alla cosa.

— E quante volte l’ho fatto io? —  

— Qualcuna di meno, direi. —

— Quindi sei più bravo di me. —

Amir aggrottò le sopracciglia.

— Quante lingue conosci? —

— Io… bè… —

— Quante trattative hai chiuso con successo? —

— Abbastanza direi, ma… —

— Mai disobbedito agli ordini? —

— No… —

— Mai agito di tua iniziativa senza informare i superiori? —

— Almeno una volta. C’eri anche tu, mi pare. —

— Giusto, quella non conta. —

Una breve pausa.

— Tieni il conto di quelli che hai perso sotto il tuo comando? —

— Sì, e lo sai. Tutte queste cose che mi chiedi, già le sai, dove vuoi arrivare? —

Yusuf rinfoderò il kijil con un gesto secco.

— E allora, perché io, Amir? —

Gettò con rabbia la camicia sulla panca e allargò le braccia, alzando gli occhi verso il cielo.

— PERCHE’ IO? —

Amir non rispose.

— Dovevi essere tu. —  disse l’altro lasciando cadere le braccia. — Il più delle volte mi sembra di non riuscire a sopportare il peso di questa responsabilità. —

Crollò sulla panca accanto all’amico, appoggiandosi con la nuca contro il muro.

— Quando mi chiamano Maestro neanche mi giro. —

Amir rise.

— E’ perché non mi rendo conto che stanno parlando con me. Persino Ràhel ha preso a chiamarmi Maestro. —

— Anche in privato? —  chiese Amir con una punta di malizia.

Yusuf si voltò a guardarlo con un sorriso storto.

— Qualche volta…—

— E la cosa presenta dei… vantaggi? —

Yusuf gli allungò una gomitata nelle costole, ridendo, ma quello sprazzo di allegria durò ben poco.

— Zuhre mi ha incastrato per bene. —  sospirò.

— Zuhre era saggia. —  replicò Amir. — Una scelta particolare da parte di Ishak mettere una donna alla testa della Confraternita, ma nessun uomo avrebbe potuto essere migliore di lei. —

— E una scelta rischiosa da parte di Zuhre mettere me al comando. Perché credi lo abbia fatto?—

— Forse perché lo meritavi? —

— Non ne sono così convinto…—

Una lampo di  esasperazione attraversò il viso di Amir.

— Mi chiedo dove sia finito l’Assassino che passava la metà del suo tempo a combattere e l’altra metà a raccontare le sue vittorie con toni fin troppo enfatici. Dov’è l’uomo che mi ha convinto a uscire in caccia di chi aveva tradito il Maestro, perché desiderava solo per sé, e per me, la vendetta di tutta la Confraternita? Ricordo molto bene quei giorni, Yusuf, ricordo bene la furia che ti animava e che eri riuscito a trasmettermi. Un’azione temeraria, rischiosa oltre ogni limite, senza il consenso dei superiori, senza neanche informarli! Ma ti sarò sempre grato per avermi coinvolto, di aver voluto dividere con me il sapore amaro che quella caccia ti ha lasciato. —

Yusuf fissava il vuoto, lo sguardo oscurato dai ricordi.

— Un capo prende iniziative. —  continuò Amir. —  Ispira i suoi uomini, trasmette loro coraggio e li spedisce in braccio alla morte. Condivide la vittoria, la sconfitta e tutto quello che portano con chi ritorna. Onora i morti e rincuora i vivi. —

— Posso fare tutto questo, Amir? —

Il siriano sorrise, stringendo la spalla dell’amico.

— Puoi farlo. Non hai fatto altro da quando ti conosco. Non devi cambiare te stesso per guidare al meglio la Confraternita. Nessuno dubita di te, non c’è stato un solo parere contrario alla tua nomina. —

Yusuf si alzò e raddrizzò le spalle.

— Un altro scambio? —  chiese posando la mano sull’elsa del kijil.

— Non credo tu abbia tempo. —  rispose l’altro indicando Ràhel che stava attraversando il cortile rovente.

— Una persona vuole vederti, Maestro. —  annunciò la ragazza.

Amir ridacchiò, mentre Yusuf alzava gli occhi al cielo. Ràhel spostò lo sguardo da uno all’altro, perplessa.

Il Comandante Haci Ahmed Muhiddin Piri ti aspetta nello studiolo. —  continuò.

— Forse dovresti vestirti. —  aggiunse con un sorrisetto.

— Il Comandante…—  Yusuf gettò uno sguardo sconsolato alla camicia appallottolata sulla panca.

— Gli ho detto che ti stavi allenando, quindi credo che non si offenderà se ti prendi un po’ di tempo per renderti… presentabile. —

— Grazie, Ràhel. —

Mentre attraversavano il cortile diretti all’uscita, Yusuf pensò che non si sarebbe mai immaginato che l’ex Comandante Ottomano potesse presentarsi di persona al Covo interrompendo i suoi allenamenti, né riusciva a figurarsi il motivo di quella visita.

Dovrò farci l’abitudine…

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Capitolo 41
*** Capitolo 40: Esperimenti ***


— Il… Comandante? — chiese Ezio, perplesso.

Ràhel sorrise, sistemandosi più comoda. — Yusuf deve avertelo presentato con un nome un po’… diverso, Mentore, ma lo conosci bene. —

Ezio ci pensò giusto un attimo e quando capì il suo viso parve illuminarsi.

— Si erano conosciuti durante il viaggio di ritorno dalla Grecia, — continuò Ràhel. — Sai bene quanto me che per pena o concordia le battute spigliate di Yusuf sarebbero riuscite a strappare un sorriso a chiunque e Piri era capitano della nave che li stava riportando a casa. Erano coetanei. —

— Non lo avrei mai detto, — si stupì il Mentore.

Il sorriso della donna filò come il miele.

— Yusuf era giovane dentro. Non ingenuo, ma ardito. —

— Un adolescente, — ne convenne Ezio con una mesta risata.

Ràhel annuì e passò una mano delicata sul filo della terra, come per attingervi i prossimi ricordi. Chiuse gli occhi.

        — Nonostante la pace e le acque serene, sentiva il suo nuovo ruolo farsi ogni giorno più opprimente: il dubbio lo lacerava, una paura inspiegabile soffocava ogni sua iniziativa; con Amir lontano, a capo del Covo nel Distretto Imperiale e spesso in missione fuori città, le responsabilità di Galata pesavano sulle sue sole spalle, e il suo malessere si rifletteva inevitabilmente sulla Confraternita, che ne soffriva quanto lui. La visita al Covo di Piri "Reis", con cui Yusuf scoprì di poter ingannare il caldo, condividere il turbamento e anche un po’ di responsabilità, fu una ventata d’aria fresca. —

 

 









esplosione fece tremare la tettoia del cortile, spaventando uno stormo di piccioni, e la sua eco ruggì fin sotto le volte della passerella, che Amir stava attraversando in un tintinnio di armi insieme ad alcuni dei suoi Apprendisti e dove si fermò di colpo guardando in alto, aspettandosi che il soffitto crollasse da un momento all'altro. Quando il terremoto cessò si voltò a scambiare un'occhiata coi suoi Assassini e in cambio ricevette sguardi allucinati.

Ràhel comparve sotto l'arco della biblioteca leggendo un libro e non si scompose neanche un po' quando l'ennesima esplosione fece tremare le fondamenta del Covo. Anzi, distrattamente alzò gli occhi dalle pagine, lo vide e gli venne incontro con un sorriso.

— Che succede? — domandò Amir, gelido, prendendole una mano, come se in quel modo avrebbe potuto salvarsi quando una voragine si fosse aperta nel terreno.

Ràhel aggrottò le sopracciglia. — Yusuf non te ne ha parlato nelle lettere? — chiese.

— Quali lettere? —

Un nuovo boato scosse le assi sotto i loro piedi.

— Mi stai dicendo che mentre eri ad Ankara non hai ricevuto lettere? — insisté lei.

— Neanche una riga. Ma per Allah, mi dici che diavolo sta succedendo qui?! —

La ragazza digrignò qualcosa tra i denti e poi si avviò verso il cortile degli allenamenti, facendogli segno di seguirla.

Non appena uscirono all'aperto ci fu l'ennesima esplosione e dal centro del cortile si levò una nuvola di polvere che una manata di vento portò dritta su di loro. Amir si parò dietro un braccio e alle sue spalle sentì qualcuno degli Assassini tossire mentre Ràhel, immobile al suo fianco, chiuse solo un po' gli occhi. Quando la nube passò, la ragazza si separò da loro e andò dritta fin dall'altra parte del cortile, dove due figure chine a terra parlavano e si scambiavano i pezzi di qualcosa, sembrando giocare nella sabbia come bambini. Yusuf e Serdar, due facce annerite e piene di polvere, l'accolsero con sorrisi smaglianti.

— A cosa dobbiamo la visita? — chiese il Maestro.

— Mi avevi detto di avergli scritto! — ringhiò Ràhel puntando un dito alle proprie spalle.

Yusuf si sporse oltre la sua figura allungando un po' il collo e vide Amir sotto la tettoia, circondato dai suoi Apprendisti, guardarsi attorno come se fosse sulla Luna. Poi i loro sguardi s'incrociarono e Yusuf esplose in un nuovo, enorme sorriso. — Amir! — gioì, alzandosi e scattando verso di lui senza che Ràhel riuscisse ad agguantarlo.

— Ne parliamo 'sta sera, — le mormorò il Maestro facendo qualche passo al contrario, e quando si voltò trovò l'armatura di Amir a fargli da muro. Si gettò ad abbracciarlo lasciandogli il segno del suo passaggio sulle vesti e salutò gli Assassini che erano con lui offrendo strette di mano che tutti, facendo facce davvero strane, accettarono; ma prima che Amir potesse fare qualsiasi domanda e Yusuf dargli la risposta assurda che si aspettava, alle spalle del gruppo di Assassini che intasavano l'accesso al Covo si levò una voce rauca e solenne che chiedeva permesso con la delicatezza di un elefante. Amir ebbe un tuffo al cuore, mentre si scansava, quando vide la barba scura e gli occhi piccoli sotto nere sopracciglia, che insieme al timbro di voce gli avevano ricordato fin troppo Ishak…

— Ecco qua, Yusuf. Queste faranno un bel botto davvero! — stava dicendo lo sconosciuto porgendo al Maestro una serie di contenitori sigillati con spago o colla di pesce, grandi quanto il pugno di un uomo adulto. Dopodiché fece per avviarsi oltre il cortile.

— Aspetta, Piri, devo presentarti una persona, — disse Yusuf tenendo in braccio gli esplosivi come si tiene un bambino in fasce.

— Amir ibn Saad, — si presentò il siriano facendo un piccolo inchino con la testa.

L'altro si lisciò i baffi squadrandolo con l'attenzione di un geometra. — E così tu sei Amir, quello che cerca il pelo nell'uovo quando c'è in ballo il regolamento e che perciò non avrebbe mai dovuto vedere tutto questo… Tanto piacere davvero! Puoi chiamarmi Piri, ma senza il "reis" come ogni tanto fa il tuo amico qui: mi fa sentire vecchio ed è una cosa che facevano anche quelle scimmie che si spacciavano per uomini sulla mia nave. —

— Eri Capitano? — domandò Amir, sinceramente colpito.

— Lo sono tutt'ora, visto che ho ancora la testa sulle spalle, ma adesso che costruisco bombe chissà per quanto ci resterà, ahaha! — e dicendo così prendeva congedo, raggiungendo Ràhel e Serdar sotto la tettoia dall'altra parte del cortile.

— A quanto pare un solo pazzo non bastava… fammi capire, ti sentivi solo? — chiese Amir dopo aver congedato i suoi Assassini che erano scappati come lepri al sicuro tra le mura del Covo.

Yusuf scoppiò in una fragorosa risata. — L'ho conosciuto nel rientro dalla Grecia, — gli spiegò. — Sapeva tutto di noi, della Confraternita intendo, sosteneva anche di aver conosciuto Ishak, una volta, e quando… —

— Attenzione, laggiù! — gridò Serdar e Yusuf fece appena in tempo ad agguantare il siriano per il cappuccio prima che una nuova esplosione gli riempisse l'armatura di polvere. Amir lo ringraziò in appena un mormorio.

— … e quando mi sono ricordato che aveva detto di avere una certa esperienza con la polvere da sparo, mi è tornato in mente che avevamo questo "progettino" in sospeso da qualche anno, così… —

— Così ti è venuta la grandiosa idea di far saltare in aria il Covo e mezzo distretto? — sbottò Amir, interrompendolo.

— E dove potevamo provarle, sennò? — sussurrò Yusuf incassando la testa tra le spalle e aggiustandosi le bombe tra le braccia.

— Fuori le mura della città, per esempio! — rispose lui. — O avevi intenzione di invitare tutte le pattuglie di Giannizzeri del quartiere a farci visita?! —

Ci fu un'altra esplosione, più forte delle precedenti, e quella volta la nube di polvere li investì entrambi.

— Calma, fratello! Non c'è pericolo! — gridò Serdar attraverso il fumo. — Quelle lepri coi pollici opponibili della Gilda dei Ladri si stanno dando da fare per tenere occhi e orecchi indesiderati lontani da qui! —

Amir si lasciò sfuggire un'imprecazione nella sua lingua. — Che sciocchezza… — borbottò massaggiandosi la radice del naso.

— Credevo che saresti stato contento… — mormorò Yusuf, dispiaciuto. — Insomma, guarda un po' che roba! — si voltò, pescò una bomba tra quelle che aveva in grembo e la lanciò. Ma anche Serdar, dall'altra parte del cortile, aveva fatto lo stesso…

Piri Reis afferrò lui e Ràhel per le braccia e buttandosi con loro a terra gridò: — AL RIPARO! — 

Gli Apprendisti che assistevano dalla tettoia si buttarono giù cercando rifugio dietro le colonne e Yusuf e Amir si rannicchiarono contro la parete.

Passò qualche secondo, poi anche un minuto durante il quale un paio di piccioni si appollaiarono lungo la staccionata del campo, ma non accadde nulla.

Yusuf lanciò un'occhiata al cortile e vide che le due bombe erano ancora lì, nella sabbia, intatte e immobili come pietre.

La risata fragorosa di Piri, che si alzò spolverandosi le vesti, riecheggiò nell'aria immobile del cortile. — Qualunque sia il vostro Dio, Assassini, vi consiglio di ringraziarlo calorosamente, — disse mentre dietro di lui Serdar aiutava Ràhel ad alzarsi.

— Ci darò un'occhiata per capire cos'è andato storto. Forza, giovani, qualcuno me le riporti qui, — disse il Capitano rivolgendosi alla platea, ma gli Apprendisti ancora nascosti dietro le colonne della tettoia si scambiarono solo un'occhiata e nessuno si mosse.

— La prossima vuoi provarla tu? — gli chiese Yusuf allungandogli una bomba.

— Tieni quegli affari demoniaci lontani da me, hai capito? — sbottò Amir. Poi puntando l'ingresso del Covo disse che sarebbe tornato quella sera per scoprire se la Torre di Galata fosse stata ancora in piedi, ma che nel frattempo avrebbero dovuto spostare quell'esercitazione fuori dalle mura cittadine, come aveva suggerito.

 

Il tramonto sulle colline coperte dai campi era di colori caldi e avvolgenti. Le nuvole erano lunghe e piatte, distese dal vento come tante tovaglie a coprire un unico grande tavolo. Da lì la chiassosa Istanbul non era altro che un cumulo di tetti scintillanti che mormoravano, affacciati sul mare piatto come una donna vanitosa davanti al suo specchio, e il Bosforo una crepa nel quadro. Una coppia di piccoli falchi passò sopra le loro teste iniziando una danza che li vedeva impegnati in prodigiose evoluzioni aeree, e dopo averglieli indicati con un sorrisetto beffardo Yusuf circondò la vita di Ràhel con un braccio, schioccandole a tradimento un bacio sul collo. Poi, e prima che potesse beccarsi la reazione di lei, un'Apprendista moooolto sconsiderato (e altrettanto coperto di polvere da sparo) risalì la collina da dove i due avevano assistito allo sgombero del campo d'addestramento improvvisato nella valle per dirgli che il Capitano desiderava parlargli prima di tornare in città.

— Ho lasciato i progetti di tutte le bombe testate oggi a quell'Assassino con gli occhi da pesce, come si chiama? Ah, già, Serdar, — disse Piri quando Yusuf e Ràhel lo ebbero raggiunto ai piedi del campo, da dove aveva supervisionato l'addestramento con una severità che avrebbe fatto invidia ad Amir. — E ho notato che il vostro medico è l'unico qui ad avere le dita abbastanza sottili da poter sistemare lo stoppino senza il rischio di saltare in aria. Ovviamente se non si contano i bei volti che ci dispiacerebbe molto veder pieni di polvere, — aggiunse accennando un sorriso e un piccolo inchino verso di lei e Ràhel lo ringraziò allo stesso modo. — Perciò credo che d'ora in avanti tu abbia tutti i mezzi necessari per cavartela da solo, Yusuf. —

— È un addio? Così presto? — chiese lui, dispiaciuto. 

— Per tutti i demoni del mare, no! — esplose Piri. — Ho comprato una casetta in città, vicino al Gran Bazar. Un posto non esattamente tranquillo, mi dirai tu, ma almeno potrò dedicarmi senza intoppi a questo e altri dei miei passatempi. Ho saputo che voi Assassini viaggiate parecchio, — disse mentre si avviavano, chiudendo la fila di Assassini che lasciavano la valle carichi di attrezzatura, sacchi di polvere e quant'altro era stato necessario per mettere su il campo.

Yusuf annuì. — Gli ultimi sono rientrati stamattina da Ankara e li guidava proprio Amir, ma la scorsa settimana abbiamo mandato due squadre in Egitto per gettare un occhio su un paio di rappresentanti poco… rappresentativi, — concluse con una smorfia.

— Capisco… — assentì Piri rigirandosi un baffo. — Bhé, come se la cavano col disegno? —

Yusuf gli lanciò un'occhiata interrogativa. — Tutte le reclute sanno leggere e scrivere, e i migliori insegnano agli altri, ma… —

— Ma qualcuno di loro tiene in mano la grafite piuttosto bene, — intervenne Ràhel.

Piri annuì soddisfatto. — Se mentre sono in missione qualcuno di loro potesse fare rilevamento per mio conto, basterebbe come compenso per i miei servigi. —

— Che genere di rilevamento? — chiese Yusuf.

— Mappatura del territorio, foreste, città, coste... tutto il più dettagliatamente possibile. —

— E contribuire così alla tua fama di cartografo? — ridacchiò Yusuf.

— Mi sembra uno scambio equo. — assentì lui e poi, rigirandosi tra le mani un involucro ad innesco aggiunse: — Quant'è vero che io contribuisco alla vostra di dissipatori della quiete pubblica. —

Risero tutti assieme.

 

 

 

 

 

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Capitolo 42
*** Capitolo 41: Tempo di pace ***


Istanbul

Domenica 29 Safar 910

(11 Agosto 1504)

 











l sole mattutino già schiacciava come una pressa e la lieve, umida brezza che soffiava dal Corno d’Oro non forniva alcun refrigerio. La tettoia di canniccio costituiva solo un minimo riparo dalla calura, le banchine erano quasi deserte e le imbarcazioni dondolavano appena sull’acqua quasi immobile.

— Perché siamo qui, Yusuf? — chiese Ràhel addentando con gusto il suo simit e leccandosi i semi di sesamo dalle dita.

— Per nessun motivo in particolare. — rispose Yusuf con la bocca piena. — O meglio, sì, un motivo c’è. Avevo voglia di passare con te una mattinata oziosa. —

— Corrompendomi col cibo? —

— Può darsi, anche se la mia sola, affascinante presenza dovrebbe essere sufficiente. —

Ràhel rise e poi gli scoccò un’occhiata in tralice, così al limite della sfacciataggine che Yusuf si guardò intorno alla ricerca di un luogo appartato in cui trascinarla. Lei rise ancora.

— Sei un libro aperto, Maestro. Con quegli occhi rischi l’arresto per oltraggio alla pubblica decenza. —

— Potrei dire lo stesso di te, e non parlo solo degli occhi… il problema è che non avremmo di certo una cella in comune. —

— Vergognati. —

Stavolta fu Yusuf a scoppiare a ridere, quell’aria di falsa indignazione che era comparsa sul viso della ragazza era proprio comica.

— La pace è davvero pericolosa…— disse rilassandosi contro la parete a cui era appoggiato e cacciandosi in bocca l’ultimo pezzo di simit. — Ti fa abbassare la guardia e ti rende distratto. Sono mesi che non uccido nessuno. — sogghignò accarezzando l’elsa del kijil. — Non che questo mi renda particolarmente infelice, ma rischio di perdere l’allenamento. —

— Con le esercitazioni massacranti a cui stai sottoponendo tutti, te stesso per primo, non credo che ci sia questo pericolo. — sospirò Ràhel massaggiandosi la spalla ancora dolorante dal giorno prima.

— Stai contestando il mio modo di guidare la Confraternita? —

— Assolutamente no. — l’aria remissiva di certo non le si addiceva.

— L’afa rende nervosi tutti quanti, meglio che io li faccia stancare prima che decidano di sfidarsi a duello per motivi futili nel cortile del Covo. — replicò Yusuf. — Ieri Amir ha dovuto separare due Novizie di quattordici anni che si stavano accapigliando, un attimo prima che sfoderassero le lame. Neanche più le ragazze dimostrano un po’ di buon senso! — alzò gli occhi al cielo, mostrando i palmi in un gesto di costernazione.

Malgrado non fosse cresciuto fin da bambino all’interno dell’Ordine che, in contrasto con l’opinione comune, poneva uomini e donne sullo stesso livello, con gli stessi diritti ed uguali doveri, Yusuf ne aveva assimilato in fretta la visione paritaria. Inoltre mostrava di apprezzare la maggiore riflessività delle donne, la loro capacità di mediare e soprattutto la loro abilità nel mettersi nei panni degli altri. Nelle squadre di Novizi, la maturità delle ragazze le poneva spesso al comando, a discapito della forza e dell’impulsività dei ragazzi. Il Maestro pensava che il diffuso pregiudizio che considerava le donne emotive e gli uomini razionali fosse sostanzialmente sbagliato: aveva visto uomini gettarsi in uno scontro senza riflettere e donne portare facilmente una trattativa a buon fine. Era stato testimone anche del contrario, seppure in misura minore ed era arrivato nel tempo alla conclusione che generalizzare o affidarsi ai luoghi comuni non portava buoni frutti a chi si trovava in una posizione di comando.

— Vorresti ascoltare il consiglio dettato dal buon senso di una donna? — domandò Ràhel. Ancora quell’atteggiamento sottomesso e ossequioso, la ragazza voleva farlo impazzire!

— Sono tutto orecchi. —

Al fine di celebrare la pace che ci è stata concessa da ormai più di un anno, il Maestro indice una competizione che si terrà nel Cortile degli Allenamenti del Covo principale del Distretto di Galata.

Tutte le armi sono ammesse, opportunamente divise in categorie.

Tutte le controversie potranno essere regolate all’interno dei singoli scontri e dovranno considerarsi risolte dall’esito degli stessi. Non sarà concessa alcuna contestazione successiva.

Gli scontri dovranno essere incruenti, per quanto il primo sangue sarà tollerato.

Ai  vincitori il Maestro assegnerà una cintura decorata in argento, Ràhel offrirà un bacio…

 

— Puoi essere serio solo per un momento? — domandò Ràhel osservando con aria critica le parole che Yusuf stava vergando in bella calligrafia sul retro di un vecchio documento.

— Scusa, è solo la brutta copia. —

 

                                                                                              … al Maestro stesso, che comunque per ragioni inerenti alla sua carica, non parteciperà alla competizione.

 

— Piantala, Yusuf! —

Ràhel gli strappò il foglio da sotto la penna, provocando uno scarabocchio e lui ridacchiò, fissandola mentre sventolava quel pezzo di carta a mo’ di ventaglio con aria spazientita. Prese un altro foglio e intinse la penna nel calamaio.

 

Il Maestro offre un bacio alla vincitrice nella competizione con la balestra.

 

— YUSUF!!! —

 

Il Maestro potrebbe prendere in considerazione la possibilità di onorare la suddetta vincitrice con un incontro privato che si terrà…

 

Ràhel si sedette sul tavolo dello studiolo con le braccia conserte e la sua coscia sfiorò la mano di Yusuf, che alzò la penna dal foglio e sollevò lo sguardo verso di lei.

— Attento a quello che scrivi. Non ho intenzione di partecipare, e dubito che usciresti intero da un incontro privato con Yelina. —

La seconda miglior balestriera dopo Ràhel superava in altezza quasi tutti i suoi confratelli e con la sua stazza avrebbe potuto batterne a mani nude la maggior parte.

Yusuf scoppiò a ridere.

— Stai ricattando il tuo Maestro. — disse poi atteggiando il viso in un’espressione di esagerata serietà. — Oserei dire che abbiamo una controversia. — posò la penna e le appoggiò la mano sul ginocchio.

— Data la mia posizione, non penso di poter regolare i conti con te all’interno di una competizione ufficiale. Non sarebbe… dignitoso. —

— Già, che vergogna! — disse lei scivolando dalla scrivania fin sulle sue gambe. — Se vuoi, il cortile è da quella parte. —

Yusuf le circondò la vita con le braccia, accostandola a sé ancor di più.

— E’ quasi mezzogiorno e si muore dal caldo. Possiamo rimandare a dopo il tramonto? — gemette annoiato. Ràhel gli puntò le mani contro il petto, allontanandolo, gli occhi che lo irridevano.

— Non ti facevo così codardo. —

Un istante dopo si era sottratta alla sua presa e in piedi, con una mano su un fianco, indicava la penna con espressione severa.

— Scrivi! —

Il Maestro abbassò la testa fingendosi contrito e afferrò un altro foglio.

I Novizi trottarono per la città, e in poche ore il bando della competizione faceva bella mostra di sé nell’atrio di ogni Covo. Non fu offerto alcun bacio come premio e soprattutto la possibilità di comporre le dispute attirò l’attenzione.

— Maestro, posso parlarti? — la Novizia fermò Yusuf tra la biblioteca e la sala delle armi.

— Certamente. — rispose lui, affabile.

Amir, che stava transitando nella direzione opposta, ridacchiò nel superarli, mormorando qualcosa che Yusuf udì a stento.

Buona fortuna? Pensò rivolgendo all’amico un’occhiata interrogativa.

— Ti ringrazio, Maestro. — La ragazza alzò gli occhi che aveva tenuto bassi fino a quel momento, rivelando uno sguardo che lanciava fiamme.

— Si tratta di Nur, Maestro. Quella sürtük ha insultato la mia famiglia intera. Ha osato dire che mio padre non si meritava di seguirti in Grecia, che il suo avrebbe dovuto farlo, che mia madre non sa neanche di chi sono figlia e che mio fratello maggiore è stato elevato di rango solo per i meriti del suo caposquadra. Ha detto queste yalan (bugie) solo perché Bayar mi ha chiesto una volta, una sola volta, di allenarmi alla spada con lui, e lei pensa che Bayar sia una sua proprietà, e lui non la degna di uno sguardo! E poi è gelosa perché con la spada corta sono più brava di lei, e…—

Yusuf alzò una mano per arginare quel torrente in piena.

— Eleni, giusto? —

— Sì, Maestro. —

— E Nur è la Novizia da cui il Maestro Amir ti ha separato nelle camerate, mi sbaglio? —

— No, Maestro .

— Hai letto il bando, Eleni? —

— Proprio per questo volevo chiederti…—

— Non ho nient’altro da dirti. —

 

La mattina dopo un nuovo stringato annuncio fu affisso accanto al primo.

 

Il Maestro non è interessato alla natura delle controversie.

Combattete con onore e con onore accettate il giudizio del campo.

 

 

 

 

 

 

Yusuf studiava le carte domandandosi cosa avesse messo in moto. Tutti i fogli che aveva davanti riguardavano la competizione e chi aveva deciso di parteciparvi: praticamente l’intera Confraternita! C’era voluta una giornata per mettere ordine fra tutti quei nomi, suddividendo gli incontri per rango e per armi, senza contare che chi aveva deciso di regolare un conto in quella sede aveva ovviamente indicato il suo avversario e che il vincitore avrebbe poi dovuto essere inserito all’interno del programma degli incontri regolari.

Non si litiga mai tanto come in tempo di pace! Pensò il Maestro osservando il foglio su cui erano annotati tutti coloro che avevano una controversia da risolvere, che sarebbero stati i primi ad affrontarsi quella mattina. Di certo era al corrente di contrasti, antipatie e addirittura inimicizie, ma non avrebbe mai pensato che certi disaccordi potessero essere considerati tanto gravi da doverli dirimere sul campo. In tutti e quattro i gruppi di rango in cui la competizione era stata suddivisa, erano presenti dei nomi. Novizi e Apprendisti si spartivano quasi equamente la fetta più grossa e di alcuni fra gli Assassini e i Maestri, fu più sorpreso che di altri.

Posto che era stata decisa una pausa durante le ore più calde e che nessuno poteva stabilire in anticipo la durata di un incontro, Yusuf si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto per avere dei vincitori.

Amir comparve nel vano della porta dello studiolo accompagnato da Sami.

— Il cortile è gremito, Yusuf. La tensione sale. Manchi solo tu. — disse.

Il Maestro si alzò, afferrando l’elenco degli incontri.

— Spero tu non sia troppo arrugginito. — disse passando accanto al medico.

— Spero di non aver troppo da lavorare. — rispose l’altro con un sogghigno.

I tre si avviarono verso il cortile.

Sulle panche non c’era un posto libero, le tettoie erano affollate e qualcuno aveva guadagnato i tetti circostanti per garantirsi un’ampia visuale. Solo chi era di guardia era rimasto ai Covi. La confusione che si era scatenata nei giorni precedenti tra quelli che tentavano di cambiare turno per seguire un incontro in particolare, aveva fatto temere Yusuf di dover aggiungere qualche altro nome alla lista delle controversie.

Salutato da inchini rispettosi seguiti subito dopo da urla di incitamento, il Maestro raggiunse il suo posto d’onore sotto il ciliegio, dove gli arbitri e Ràhel lo stavano aspettando. La ragazza aveva abbandonato la consueta, severa divisa e portava, sopra i pantaloni morbidi e scuri, una camicia leggera e senza maniche, con una profonda scollatura che lasciava scoperta una buona porzione di seno. Gli sorrideva senza ombra di malizia, ma di sicuro era ben conscia di quella provocazione che lo avrebbe lasciato a languire almeno per tutta la mattinata. Rivolgendole uno sguardo critico in cui gli occhi attenti di lei non avrebbero stentato a riconoscere il suo vero stato d’animo, Yusuf scambiò qualche parola con gli arbitri consegnando loro l’elenco degli incontri.

— Possiamo cominciare. — disse il Maestro accomodandosi sulla panca che era stata preparata per lui e Amir gli sedette accanto, mentre Ràhel aiutava Sami a sistemare gli strumenti su un tavolaccio. Gli arbitri chiamarono la prima coppia di contendenti.

I Novizi si affrontarono con irruenza e impegno e Yusuf non ebbe dubbi che molti di loro avessero deciso di sfidarsi con l’unico intento di mettersi in mostra. Amir, come al solito più informato di lui, esponeva con dovizia di particolari le ragioni dello scontro, spesso accompagnandole con un sorriso o uno sguardo d’intesa. Il Maestro ascoltava tentando di mantenere, non senza un certo sforzo, un’espressione impassibile, e rivedendo sé stesso e l’amico che si sfidavano in quello stesso cortile, carichi di rabbia e di orgoglio.

I primi combattimenti si conclusero in fretta e senza feriti e Yusuf annotò su un foglio tutti gli errori tecnici e tattici che avevano condotto lo sconfitto a una situazione senza via d’uscita, portando l’arbitro a dichiararlo morto.

Fu quando Eleni mise piede nell’arena che l’atmosfera cambiò nettamente.

— Sami. — disse Amir stirando le labbra in un sorriso che lasciava solo un minimo spazio al divertimento. — Credo che potrebbe toccarti lavorare. —

Davanti all’unico scontro di cui aveva saputo in precedenza le ragioni, Yusuf si accorse di essere teso.

Eleni era di quasi una spanna più bassa di Nur e molto più esile, e aveva arrotolato la lunga treccia scura in una stretta crocchia sulla nuca, in modo che non l’impacciasse nei movimenti. Dimostrava meno dei suoi quattordici anni, a differenza dell’altra, che con una massa di corti riccioli ramati spettinati ad arte sembrava già una donna fatta, ma il suo atteggiamento spavaldo, con il mento sollevato e lo sguardo che avrebbe potuto trapassare una lastra di metallo, faceva sì che tutti gli occhi fossero puntati su di lei. Estrasse la sua spada corta con studiata lentezza e il suono dell’acciaio che strideva contro il fodero ridusse l’intera folla al silenzio.

Eleni assunse una posizione di guardia rilassata ed elegante, la lama a proteggerle l’avambraccio, e con la mano libera rivolse alla sua avversaria un gesto insolente che la invitava a farsi sotto. L’ombra di un dubbio attraversò per un attimo il viso di Nur, ma fu prontamente sostituito da un sorriso di scherno.

Mentre le due ragazze si studiavano girandosi intorno, Yusuf non poté fare a meno di cercare tra la folla quello che era, forse solo in parte, l’oggetto del contendere. Bayar, un diciassettenne alto e scuro di capelli, stava in piedi sotto la tettoia, circondato dai compagni che gli davano di gomito e gli sussurravano battute di sicuro salaci. Sorrideva, ma il sorriso non gli raggiungeva gli occhi e non sembrava dare corda a nessuno. Di certo si sentiva lusingato da quella situazione, chi non lo sarebbe stato? Ma preoccupazione e imbarazzo sembravano togliere un po’ di sapore a quella blandizie.

Sulla terra battuta del cortile Nur tentò un affondo, prontamente schivato da Eleni che colpì di rimessa, costringendo l’avversaria a parare in modo precipitoso. Le due si separarono riprendendo a studiarsi. Nur aveva il vantaggio di un maggiore allungo, ma Eleni sembrava non essere mai dove lei si aspettava. Rapida e pronta, pareva danzare intorno alla lama dell’altra senza apparente sforzo, anticipando ogni sua mossa con l’intento di farla arrabbiare, e stancare. Nur stava cadendo nella trappola con tutti gli stivali. Eleni cercava dei varchi nella guardia dell’altra, e se per il momento non ne trovava non si poneva il problema. Il suo atteggiamento era freddo e paziente, teso alla difesa e a risparmiare energie, diretto a sfruttare il minimo errore nel momento in cui si fosse presentato. Quando Eleni cambiò tattica all’improvviso, portando una serie di attacchi veloci e precisi, Nur fu costretta ad indietreggiare cedendo terreno. La treccia di Eleni si sciolse, frustando l’aria. Nur non aveva previsto quell’impeto e il suo equilibrio ne risentì, permettendo all’altra di stringere la misura. Dal pubblico si alzò un mormorio mentre le ragazze si trovavano in una posizione di stallo, le lame incrociate nel tentativo di sopraffarsi con la sola forza del braccio. Ma una era stanca, al contrario, solo una goccia di sudore stava scivolando dalla tempia dell’altra. A un passo dal fallimento e sentendosi senza via d’uscita, Nur afferrò la treccia della sua rivale circa a metà della lunghezza, tirando con forza, cercando di portare l’equilibrio dalla sua parte e la maschera di calma irridente di Eleni si incrinò in un’espressione di furia compressa.

Σκύλα. — sussurrò rabbiosa. Poi, con un movimento rapido che nessuno mai avrebbe potuto prevedere, infilò la lama sotto la treccia e diede un taglio netto. Un attimo dopo una basita Nur si ritrovò disarmata e sdraiata nella polvere, con Eleni a cavalcioni su di lei e due spanne di acciaio affilato che le premevano contro la gola. La folla trattenne il respiro.

— Sei morta. — decretò l’arbitro ed Eleni si alzò, con quel minimo di ritardo che spillò due gocce di sangue dalla pelle della rivale.

Bayar aveva gli occhi spalancati, ma sorrise sollevato iniziando ad applaudire, seguito a ruota da tutti i presenti che si liberarono della tensione lanciando grida selvagge.

Eleni si chinò, strappando la treccia dalla mano di Nur che ancora la stringeva e avviandosi con passi lenti e misurati verso il Maestro.

— Mi scuso di essere stata insolente con te e di averti fatto perdere tempo con i miei… aptalca konuşmalar (discorsi insensati). E’ stato un onore vincere davanti a te. Il conto è stato saldato e già non sento più alcun rancore verso Nur. —

Yusuf, che si era alzato in piedi insieme a tutti gli altri, le sorrise.

— Un’ottima prova, Eleni. — disse. — Onora me avervi assistito, come le tue parole. —

Lei alzò gli occhi, arrossendo.

Teşekkürler (grazie), Maestro. —

Un’ ovazione si levò dalla folla.

 

 

 

Melike raggiunse trafelata l’ingresso del Covo principale. Aveva cominciato a sentire il fracasso che proveniva dal cortile degli allenamenti già alcuni incroci prima e proprio in quel momento un’ovazione parve scuotere l’intero edificio.

Şeytan! — pensò, mentre si lanciava di corsa sulla passerella slacciandosi le polsiere. — E’ tardi!—

Si sganciò anche il cinturone con la spada e mollò le armi sul tavolo vicino al camino senza neanche fermarsi.

Quando arrivò alla porta che dava sul cortile le grida si erano trasformate in un mormorio. Melike afferrò la manica del primo Assassino che le capitò a tiro: — Haydar, hai visto Irem? — chiese.

— Vieni. — rispose quello prendendola per un braccio e aprendole la strada in mezzo alla folla fino a raggiungere la tettoia. — Sta qua sopra, all’altezza del ciliegio. Un’ottima posizione, credo che sia lì dall’alba. — Haydar sorrise, facendole spazio tra i presenti per permetterle di salire più agevolmente.

Melike si issò sulle tavole inclinate e si avviò verso la sua amica, domandandosi se la tettoia non stesse rischiando il crollo, visto il numero di persone che vi era assiepato.

Irem stava seduta a gambe incrociate, e il carboncino che aveva in mano tracciava segni rapidi e sicuri sul foglio, sostenuto da una tavoletta di legno, che aveva in grembo. Era così concentrata che non si accorse dell’arrivo di Melike, la quale si accucciò alle sue spalle occhieggiandone il lavoro.

Irem aveva diciassette anni e disegnava fin da bambina, ma tutto il suo talento si era rivelato appieno soltanto l’anno prima, quando un incidente le aveva impedito di allenarsi per un paio di mesi. Questo non era riuscito comunque a tenerla lontana dal cortile, in cui si era recata ogni santo giorno, armata di carta e carboncino, per ritrarre i compagni al lavoro. In breve tempo, la parete della camerata accanto al suo letto era stata ricoperta dai suoi schizzi e Melike, che provava nei suoi confronti l’affetto di una sorella maggiore, le aveva regalato un grande quaderno di carta pregiata. Irem lo aveva trasformato in una specie di meraviglioso manuale, in cui aveva illustrato tutte le posizioni di guardia con le varie armi, le parate, le schivate, tracciandone anche particolari dell’impostazione delle dita sull’impugnatura e dei piedi sul pavimento.

— Stai diventando sempre più brava. Il naso del Maestro è perfetto! —

Irem sobbalzò e si voltò a guardarla: esibiva un gran sorriso e i suoi occhi grigi brillavano di soddisfazione.

— Sei riuscita a scambiare il turno di guardia. Sono contenta. — disse mentre Melike faceva stringere i confratelli per ricavare un minimo spazio per sedersi.

Evet, ma sono comunque arrivata tardi. Cosa mi sono persa? —

La ragazza afferrò un fascio di fogli che teneva accanto a sé, sollevando il pugnale che vi aveva posato sopra per impedire che la brezza facesse volare via tutto quanto, ne scelse uno e lo porse all’amica, che dopo averlo guardato sgranò tanto d’occhi.

— Eleni…  si è tagliata la treccia? —

— E’ stata una scena epica! Quella sürtük (sgualdrina) di Nur ha avuto quello che si meritava. Che

soddisfazione! —

Melike sogghignò. — Spero che la batosta la rimetterà in riga. —

— Eh, dopo una simile umiliazione pubblica sarà costretta a rientrare nei ranghi! —

Sulla terra battuta era iniziato un altro incontro, ma non era abbastanza entusiasmante da risvegliare la mano di Irem, che aveva appoggiato il carboncino sul foglio.

— La tua biografia del Maestro Ishak? Ormai dovresti essere alla fine. —

Melike amava scrivere quanto Irem amava disegnare. Codificava i messaggi per la Confraternita, ma coltivava da tempo l’ambizioso progetto di mettere sulla carta la vita del Mentore, sognando di vedere assegnato alla sua opera un posto d’onore nella biblioteca del Covo.

— Sì, devo solo trovare il momento adatto per parlare con chi era con lui a Salonicco quando morì. Tutti sappiamo cosa è accaduto, ma vorrei approfondire. Vorrei conoscere quali erano i loro pensieri e i loro sentimenti e temo che possa essere una richiesta irrispettosa, un’invasione della loro intimità. —

Il progetto era ambizioso proprio per questo: nella mente di Melike non c’era una fredda cronaca, ma un racconto di emozioni, basato in gran parte sui suoi ricordi.

Irem ridacchiò. — Tutta questa tua preoccupazione mi sembra una scusa. Sarà un bellissimo omaggio, sempre che tu ti decida a finirlo. —

— E’ che so che mi mancherà… —

Dal pubblico si alzò un OOOOH, e le due amiche riportarono l’attenzione sull’arena.

Pareva che l’incontro che non sembrava così interessante si fosse invece concluso al primo sangue. Lo sconfitto, affidato alle cure delle sapienti mani di Sami, stava strillando come un’aquila, puntando il dito verso il vincitore e rivolgendogli insulti degni della peggior bettola…

 

— La mano, non mi sento più la mano! —

— Vuoi darti una calmata, Yakup? È solo un graffio! —  continuava a ripetergli Sami mentre scrutava con occhio clinico il taglio sul braccio, che la lama dell’avversario aveva denudato completamente dalla stoffa della manica.

— Ha avvelenato la spada! Quel porco ha avvelenato la spada! —

Il medico sbuffò. — Non dire sciocchezze. — 

Ma Ràhel si era già mossa, andando a pescare il vincitore tra la folla che si era creata attorno a lui. Estrasse la spada dal fodero di quello e gli afferrò la mano, dove fece scivolare la lama, e per lo stupore nessuno la fermò.

— Che cosa hai fatto! —  gridò l’Apprendista sottraendosi alla presa della donna, sbilanciandosi e cadendo all’indietro. Guardava con terrore il sangue allargarsi sul suo palmo come una macchia d’inchiostro.

— Dicci cos’è, e potremo guarirti, —  disse Ràhel passando la spada ad un Assassino che incaricò poi di pulirla.

L’Apprendista scosse la testa. — So solo che dopo qualche ora l’effetto svanisce! — confessò; l’umiliazione gli aveva riempito gli occhi di lacrime. — È stato uno scherzo, uno stupido scherzo… — 

— Sono contenta che tu l’abbia capito. —  Ràhel lo sollevò di peso afferrandolo per il cappuccio e poi, con la rudezza di un uomo, lo accompagnò di fronte al Maestro.

— Lo ha detto lui stesso, è stato solo uno scherzo! —  proruppe Yusuf. — Vuoi farne una tragedia? — 

Ràhel lo fulminò con un’occhiataccia e alle sue spalle, dalle fila del pubblico, si sollevò un’ovazione contrariata.

Il Maestro gonfiò il petto. — Questo giudice ti riconosce un paio di punti per l’originalità, ragazzo, — disse, — ma è quello qui accanto che assegna le punizioni. — 

Amir alzò gli occhi al cielo.

 

Cominciava ad annuvolarsi quando, al centro del cortile, comparve la figura slanciata del primo protagonista del prossimo scontro. Il suo avversario tardava ad arrivare.

Dopo averlo riconosciuto con un sorriso, Yusuf si voltò e vide che Amir, al suo fianco, aveva negli occhi una strana luce.

— Quand’è arrivato qui non era nessuno, — cominciò il siriano a bassa voce. — Aveva perso tutto, amici, casa, famiglia. L’Ordine l’ha adottato come un randagio e gli ha restituito la vita; da allora lotta come un leone. Resterai molto colpito, — gli assicurò. 

Yusuf incrociò le braccia ridacchiando. — Maestro Amir, non ti è concesso avere preferenze tra i tuoi Apprendisti, — lo riprese scherzosamente.

— Infatti non ne ho, — precisò l’altro scoccandogli una delle sue occhiate ombrose. — So semplicemente cosa ha passato e quanto merita le lodi che riuscirà a strapparti dopo quest’incontro. —

— Sei sempre il solito modesto. — 

Amir sorrise e tornò a guardare il cortile.

Vural era stato promosso al rango di Assassino nell’inverno di quell’anno. Sotto la guida di Amir, che Yusuf aveva messo alla testa del Covo nord nel Distretto Imperiale, aveva svolto un ruolo molto attivo soprattutto in città. Era nato in un anfratto povero di Sulukule, il quartiere Rom, da padre turco e madre zingara. Fratelli non ricordava di averne mai avuti, e neanche il dramma che aveva rovinato la sua famiglia costringendolo ad allontanarsi da quella zona. Poi, come aveva detto Amir, l’Ordine l’aveva pescato in mezzo ai rifiuti e forgiato del suo metallo migliore.

Sempre più nasi, tra le panche attorno al cortile e sui tetti, puntavano verso il cielo ora plumbeo e gonfio come una spugna. L’umidità, densa e calda, entrava fin nelle ossa. Yusuf si allungò fuori dal tetto di foglie del ciliegio e disse con amarezza: — Il tuo pupillo dovrà attendere domani per dare spettacolo. —

— Bhé, Vural e Dogan sono gli ultimi della loro categoria, —  rispose Serdar sfogliando le carte. — Se concludessimo oggi il ciclo degli scontri personali, il terriccio bagnato ci offrirebbe la scusa per fare un po’ di intervallo fino a quelli regolari. —

Il Maestro annuì.

Amir si era irrigidito. Una ruga profonda gli solcava la fronte e Yusuf sapeva che era il suo modo di manifestare stupore. Ma non ci fu tempo di fare domande.

Lo sfidante di Vural entrò nel cortile accompagnato dall’incitamento della folla.

— Dogan è un Assassino altrettanto capace, — gli confessò Amir come si confessa una colpa, spezzando quel silenzio innaturale calato sulla tribuna dei giudici, e Yusuf annuì colpito. Il siriano gli descrisse entrambi i contendenti come i migliori stalloni di una scuderia, destinati ai ranghi alti nonostante la giovane età; ma c’era qualcos’altro, qualcosa che solo Amir sapeva o solo sospettava, qualcosa che lo stava turbando nel profondo perché la sua voce si era fatta sempre più rauca, mentre parlava con lo sguardo fisso sul campo, fino ad esaurirsi. Yusuf lo vide tornare col naso nelle carte come per cercare conferme concrete a ciò che poteva essere solo un’allucinazione, ai suoi occhi. Le spalle basse e rigide, il collo teso, le mani nervose tra i fogli; ogni fibra del suo corpo sembrava gridare: "tutto questo non dovrebbe succedere."

— Hai ragione, è meglio rimandare, — disse infatti Amir, e ora la sua voce sembrava addirittura bollire.

— Aspetta. — Yusuf lo fermò prima che potesse uscire dall’ombra del ciliegio. Lo sguardo puntato sui due contendenti già uno di fronte all'altro e con le armi in mano. — La faccenda ha incuriosito il Maestro, che autorizza questo scontro. —

 

Come predetto, lo scontro si protrasse fin sotto le prime gocce.

La pari ed elevatissima abilità dei contendenti, che si affrontavano come gemelli, aveva portato alla luce un duello entusiasmante che teneva vivo l’interesse. Nessuno cedeva o indietreggiava significantemente di fronte all’avversario; tutti i colpi venivano parati o schivati e tutte le guardie venivano rotte o ricostruite, in abili giochi di polso. La precisione, tipica degli insegnamenti di Amir, faceva da maestra tanto ché Yusuf arrivò a chiedersi se i passi di quella danza non fossero stati precedentemente stabiliti…

Il Gran Maestro lo sbirciò e vide che Amir era concentratissimo sullo scontro, nello sforzo quasi esagerato di cercare gli errori più contorti e annotarseli, per poi indicare la strada della perfezione ad entrambi i suoi adepti. Quella stessa minuzia lo aveva torturato spesso durante il suo primo periodo nella Confraternita, pensò Yusuf ricordandosi nelle vesti dell’apprendistato. Amir lo aveva forzato ai più rigidi turni guardia e ai più faticosi allenamenti, il primo dei quali, lo ricordava ancora, si era trasformato in una clamorosa nonché umiliante cerimonia di benvenuto. Quella volta Yusuf non era stato capace di materializzare uno soltanto degli insegnamenti di suo padre, che gli avevano martellato la testa durante lo scontro, e piuttosto Amir, di fronte a lui, era sembrato incarnarli perfettamente. Assistere al torneo gli aveva ricordato l’eccitazione assieme alla paura di quel momento, e nelle facce dei giovani che facevano la fila per invadere il campo e dare mostra di sé aveva rivisto un chiaro richiamo alla sua adolescenza. Per non cedere alla commozione aveva cercato di essere critico e distaccato, come Amir, ma aveva fallito miseramente.

Il terriccio arido del cortile era diventato una vasca di fango e gli Assassini sui tetti cominciavano a rinunciare al prestigio dei loro posti pur di trovare riparo sotto la tettoia, dove la visibilità sull’incontro diminuiva; ma ormai importava ben poco: l’entusiasmo tra le panche si era sciolto con l’ingrossarsi della pioggia e non era destinato a durare.

— Serdar, chiudi l'incontro. —

Yusuf trasalì.

Amir aveva parlato senza tradire emozioni. Le sopracciglia crucciate, le braccia conserte e lo sguardo ancora fisso sui contendenti; gli era bastata la coda dell’occhio per accorgersi del cambio d'animo del pubblico, che mutamente chiedeva il rinvio dello scontro, e di come, ormai, la pioggia si fosse imposta irrevocabilmente.

Serdar lanciò uno sguardo vago al Gran Maestro, che diede il suo assenso, quindi eseguì l’ordine portandosi due dita alla bocca e comunicando, con un lungo fischio, la fine dell’incontro. 

Un’ultima stoccata incrociata e poi i due Assassini si separarono facendo scivolare le lame l’una sull’altra. La pioggia aveva annerito le loro uniformi, che dalla cintola in giù erano tempestate di fango. All’unisono si voltarono verso il ciliegio, ma anche di fronte allo sguardo sorpreso dei suoi apprendisti Amir ostentava il silenzio.

— Pensi che ci sia un vincitore? — gli chiese Yusuf.

— Non sono io l’arbitro. —

— Hanno combattuto con valore, — cominciò Serdar con quel bonario sorriso che faceva di lui un affabile mediatore. — Entrambi, mettendomi molto in difficoltà, — confessò.

 

Vural rinfoderò la sua spada con un sorriso. Il sudore si mescolava alla pioggia sulla sua fronte alta e i capelli umidi cadevano come linee, spesse e disordinate, attorno al bel viso adulto. — Non se l'aspettavano, eh, Dogan? — disse con una risata indicando la giuria al completo che, riunita sotto al ciliegio, confabulava animosamente già da qualche minuto senza aver chiamato un vincitore.

Dogan respirava con affanno, la spada ancora nella mano. Le lunghe ciglia degli occhi azzurri intrappolavano alcune gocce di pioggia, mentre altre gli rigavano le guance raggiungendo il mento o insinuandosi tra le labbra schiuse. Fissava Vural intensamente, due volte sorpreso del suo atteggiamento naturale e rilassato anche dopo quello che gli aveva visto fare pochi giorni prima… e che era il motivo, solo ed unico, per cui Dogan lo aveva designato suo avversario al torneo. La rabbia che si era ingrossata alla base dello stomaco, preservandosi durante il duello, cominciò a risalire il petto dall’interno come un abile ragno.

Un lampo.

Vural si ritrovò il piatto della sua spada premuto sulla gola senza potersi riscattare e Dogan, a cavalcioni sopra di lui e con le ginocchia che affondavano nel fango, aveva uno sguardo folle.

— Confessa! — gridò. — Confessa o ti ammazzo! — 

Quella reazione inspiegabile aveva lasciato interdetta l’intera platea, che era ammutolita con terrore e sorpresa assieme. Un paio di Assassini abbandonarono la tettoia per invadere il campo degli allenamenti, gridando di calmarsi, ripetendo più volte che lo scontro era finito, ma nessuno di loro osò avvicinarsi troppo ai due ragazzi nel fango.

— Confessa, traditore, confessa! —

Vural era diventato paonazzo sotto la pressione della spada che gli toglieva il fiato. Dogan sapeva che in quel modo non gli avrebbe stillato una sola parola, ma non gli importava. Gli aveva dato tutto il tempo dell’incontro per arrendersi alle minacce indirette che la sua spada aveva vibrato, senza ottenere alcun risultato. Ora non era sicuro che sarebbe riuscito a fermarsi.

Serdar attraversò il cortile di corsa e afferrò il ragazzo alle spalle, strappandolo di peso dall’avversario. Una volta libero Vural si trascinò coi gomiti nel fango, tossendo, ma prima che potesse rialzarsi Dogan riuscì a sottrarsi impetuoso alle braccia dell’arbitro per tornare nuovamente su di lui con un ruggito. Stavolta gettò via la spada e percosse Vural a pugni; di nuovo Serdar cercò di allontanarlo, ma in cambio ricevette una gomitata sulla mandibola che lo fece cadere all'indietro mugugnando di dolore.

— I denti non tornano al loro posto, vi avverto, — precisò Sami, cinico e impassibile, dopo aver assistito alla scena.

Yusuf lo fulminò con un’occhiataccia, poi insieme ad Amir abbandonò il ciliegio che li riparava dalla pioggia.

 

 

Fatte scorrere tutte le assi sul lucernario, tappandolo per salvare i prestigiosi tappeti e cuscini dalla pioggia, Ràhel si lasciò aiutare da Serdar a scendere fino a terra. — Grazie, questo era l’ultimo, — disse strizzandosi i capelli che avevano assorbito acqua come una spugna durante tutta la manovra.

— Un piacere, leydim, — rispose lui massaggiandosi la mandibola ancora dolorante e si congedò, imboccando la passerella seguito dai suoi Assassini.

Ora il salone centrale era deserto e silenzioso, fatta eccezione per Sami che puliva i suoi attrezzi demoniaci sul tavolo e lo scoppiettare del camino acceso, di fronte al quale erano stati messi ad asciugare innumerevoli cappucci.

La prima parte del Torneo si era appena conclusa ma Ràhel sentiva ancora l’agitazione che le aveva messo addosso, senza sapere come liberarsene. I lucernari erano stati chiusi, Sami l’aveva ringraziata dicendole di non aver bisogno d’aiuto e le uniformi cocevano a foco lento davanti al camino. Aveva controllato che ognuno riprendesse le sue mansioni e poi si era ritrovata con le mani in mano.

— Ràhel! —

Salvezza!

Si voltò porgendo istintivamente le mani, quasi avesse bisogno di tenerle lontane l’una dall’altra, e Yusuf gliele afferrò con un sorriso.

— Amir? — le chiese tornando serio.

La donna lasciò cadere le spalle. — Nelle camerate, con Dogan, — fu la sua risposta infastidita.

Lui fece per voltarsi, ma a tradimento e con grande sorpresa di lei, la tirò a sé in un profondo bacio appassionato. Quando si staccò fu solo per dirle con sguardo e voce languida che era bellissima e che qualcosa di più era stato solo rimandato. Poi scomparve.

Sami aveva finito di pulire i suoi attrezzi e chiuse il borsone da medico, rompendo il silenzio con lo scampanellio metallico delle cinghie.

Ràhel sentiva le guance scottarle e rimase voltata, ma questo non impedì al dottore, mentre lasciava il salone, di farsi una sommessa risata.

 

Dalle ragazzate ai litigi, i ricordi custoditi in quel luogo lo travolsero senza riserve. Le camerate avevano tutt’ora il fascino di un palco dietro al palco, che tra i momenti di sfrontata spensieratezza giovanile insegnava il rispetto della collettività e del prossimo. Yusuf entrò negli alloggi degli Apprendisti e non fu sorpreso di trovarvi solo Amir, che gli dava le spalle, e il giovane Dogan avvolto in una coperta, seduti sui letti l’uno di fronte all’altro nella penombra della grande stanza. L’eco dei sussurri del Maestro che parlava al suo adepto si perdeva nel silenzio maestoso delle capriate, mentre la pioggia picchiettava sul tetto come un sottofondo.

— Hai dimostrato un grande coraggio nel denunciare il tuo compagno, ma ai miei occhi è stato oscurato dalla debolezza nel dominare le tue emozioni, — stava dicendo Amir, e quando Yusuf gli sedette accanto credé di aver interrotto la spiritualità di quel momento; fu quasi per rialzarsi e scappare di corsa, ma il siriano gli destinò un’occhiata carica della sua approvazione e lui poté rimanere lì ad ascoltare.

— Il torneo fine a se stesso è una competizione, una gara, un gioco, — continuò Amir. — Il nostro voleva essere anche un mezzo per comunicare e tu hai colto appieno questo significato, dando voce alla tua spada, ma ti sei imposto nel modo sbagliato. —

Dogan teneva lo sguardo basso e le parole del suo Maestro sembravano scivolargli addosso come la pioggia di poco prima, quando come un leone aveva azzannato e soffocato la sua preda nel fango. Non disse una parola, ostinandosi nel silenzio di chi attende tutt’altro che lodi o rimproveri.

— Vural ha confessato. —

Le parole di Yusuf gli fecero scattare la testa come una molla e il giovane Assassino prese a fissarlo con la bocca aperta.

— E cosa? — domandò Amir aggrottando le sopracciglia.

Ma Dogan fu più svelto.

— Di aver infranto il terzo Principio, Maestro. —

Amir guardava ora lui ora Yusuf, come se faticasse ad afferrare il senso di quelle parole che in realtà non potevano essere più chiare. — Ha compromesso la Confraternita? Come? Perché? — chiese.

— Si è fatto corrompere, — disse Dogan con voce tremante. — Durante il pedinamento del mercante di schiavi al porto di Neorion. Ero l’unico testimone e ho tentato di farlo ragionare, di dirgli che stava sbagliando, che non aveva bisogno di niente del genere, ma lui… —

Amir si alzò all’improvviso e uscì dalla camerata con il passo, deciso e pesante, di chi ha sentito abbastanza.

Yusuf lo aveva seguito con lo sguardo finché aveva potuto, ma tornando a Dogan vide che il ragazzo si era lasciato cadere disteso sulla branda tirandosi la coperta fin sopra la testa. Il Maestro si alzò e nel gesto di posargli una mano delicata su quella che attraverso la stoffa pensò si trattasse della sua spalla, non poté fare a meno di cogliere nelle membra del giovane i tremori e i sussulti del pianto. Quindi abbassò il lume e poi, prima di uscire e come aveva immaginato mille volte fare a sua madre con lui, aspettò che Dogan avesse preso il sonno.

 

 — Il mattino seguente il suo esempio fu esposto al pubblico del torneo, Vural fu degradato platealmente e poi mandato ad ingrossare le file di Novizi nel Covo di Costantino, sotto la responsabilità di Serdar. Era abbastanza giovane per aspirare di riottenere il rango perduto prima del suo trentesimo compleanno e perciò la Confraternita non ebbe alcun rimorso per quella decisione. Amir, — si corresse Ràhel, — non ebbe alcun rimorso. —

— Una soluzione piuttosto drastica, — constatò Ezio. — Ma posso capire. In questi casi un Maestro ha ben poche alternative. —

Ràhel rimase in silenzio, a lungo. — Amir non volle ascoltare ragioni. Aveva separato due gemelli e lo aveva fatto per il bene della Confraternita. Assieme a tante voci, mise a tacere anche il suo cuore, che avrebbe continuato a dissanguarsi per molte notti come se Vural fosse stato sangue del suo sangue. —

 — Amir non aveva una compagna? —

— Diverse, a dire il vero, ma… —

— Ma non l’abito da cerimonia, ho capito. — concluse Ezio con una risatina sommessa. — Devo ammettere che mi sorprende. Uno come lui, così legato alle tradizioni, alle regole… —

Ràhel sorrise. — Paradossale, penserai, che uno come Yusuf mi sia rimasto accanto fin dal primo momento e che Amir, invece, avesse tutta quella scelta... — C'era dolcezza, nella sua voce, e tanti ricordi. — Ma Amir sapeva e accettava questa cosa. Di conseguenza, anche le colombe che venivano a posarsi nella sua gabbia senza sbarre erano libere di uscire quando volevano. —

— Penso di capire bene di che tipo di libertà stiamo parlando… — mormorò Ezio con un sorriso sornione.

— Come? — chiese Ràhel, sporgendosi verso di lui.

— Nulla, — disse l'altro sentendo scaldarsi la pelle sotto la barba.

— Ti prego, continua il tuo racconto. —

 

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Capitolo 43
*** Capitolo 42: Kucuk kiyamet ***


— Il Giorno del Giudizio Minore. — disse Ràhel con un brivido. — Così lo chiamano in molti, e venne il quattordici di settembre del 1509, secondo il tuo calendario. —

Nei suoi occhi Ezio vide l’orrore e la paura.

— Mancavano un paio d’ore alla mezzanotte quando la terra tremò. — continuò Ràhel. — Ero in biblioteca e all’improvviso sentii un rumore sordo, che crebbe d’intensità fino a diventare un boato assordante. Lo sgabello su cui ero seduta si spostò sul pavimento, facendomi finire per terra, gli scaffali si abbatterono al suolo e i libri volarono dappertutto. Le lampade oscillarono e l’unico braciere rimasto acceso si rovesciò. Frammenti di intonaco piovvero dal soffitto e in un attimo, una nube densa di polvere invase la stanza. Non so per quanto durò e quando finì mi sorpresi di essere ancora viva.  Il boato si spense e nel silenzio che seguì, in mezzo agli scricchiolii sinistri delle strutture danneggiate, mi accorsi che il mio braccio sinistro era bloccato da una pesante libreria. Yusuf si trovava nello studiolo e dovette sfondare la porta per poterne uscire, perchè i cardini si erano deformati. Era coperto di polvere e il sangue gli colava da un taglio sullo zigomo. Sollevò la libreria di quel poco che mi permise di liberarmi e mi aiutò a rimettermi in piedi. Il braccio mi faceva malissimo e non riuscivo a muoverlo. Yusuf, temendo che fosse rotto, si slegò la fascia dalla fronte e con quella me lo bloccò contro il petto. Poi, scavalcando i libri che solo per un miracolo le braci sparse sul pavimento non avevano incendiato, ci avventurammo sotto l’arco che conduce al salone principale. Le volte avevano retto, malgrado alcune colonne apparissero lesionate, niente si trovava più al suo posto e la passerella era andata in pezzi. Molte tramezze erano crollate e le camerate non erano raggiungibili a causa delle macerie che bloccavano il corridoio. Al di là si sentivano le voci degli Apprendisti che chiedevano aiuto. Qualcuno si era già messo al lavoro per liberarli e Sami stava trascinando fuori dal disastro dell’infermeria la sua preziosa borsa degli strumenti quando un altro suono inquietante, simile a quello di un’enorme cascata, ci fece bloccare tutti in attesa del peggio, ma questa volta la terra non tremò.

 Istanbul era in ginocchio. —

 

Istanbul,

30 Jumâda Al-Awwal 915

(15 Settembre 1509)

 











nche le notti più lunghe finiscono e fu così anche per quella, ma Sami non se ne accorse. Non si accorse che il chiarore livido di un’alba nuvolosa si era sostituito alla luce delle torce. Lo sfinimento gli annebbiava a tratti la vista e sentiva che le sue mani cominciavano a perdere la precisione necessaria. Ancora un altro paio di punti a questo orribile taglio e poi…

— Continuo io, Sami. — disse la voce di Hilal e tra la gratitudine e il rammarico di accettare una temporanea resa, lui le passò l’ago e per la prima volta da ore si guardò intorno. Il cortile degli allenamenti era affollato all’inverosimile e nel fumo che si levava dai bracieri improvvisati i suoi assistenti e apprendisti si muovevano come tante ombre indaffarate. Ovunque quelle ombre si fermassero, i lamenti si trasformavano in grida: le scorte d’oppio erano ormai esaurite. Uomini e donne dalle cui uniformi la polvere aveva cancellato colori e ranghi si affaccendavano per sgombrare i rottami delle tettoie crollate e bambini stretti in un cantuccio riducevano in strisce delle lenzuola, che poi buttavano a bollire in un gran calderone. Sui visi di tutti si potevano riconoscere la paura, il dolore  e lo sgomento, ma anni di addestramento e disciplina si imponevano su quelle emozioni e ognuno assolveva i compiti che gli erano stati affidati con efficienza. Sami conosceva bene quello stato d’animo, il distacco necessario a far il proprio lavoro al meglio. Lui stesso quella notte aveva dovuto fare scelte difficili, mettendo da parte i feriti più lievi e quelli più gravi per concentrarsi su quelli che avevano le maggiori possibilità di sopravvivere. 

Sami sospirò, riportando gli occhi sulle dita agili e sicure di Hilal che stavano concludendo il suo lavoro e le vide bloccarsi quando la terra tremò di nuovo, come aveva continuato per tutta la notte, a tratti, seppur con minore intensità. Tutti si ritrovarono immobili e impotenti, gli sguardi ai muri scrostati e le parole che morivano in gola, i respiri trattenuti. Anche i feriti tacevano, l’aria riempita da una vibrazione bassa che risuonava fin nelle viscere, scricchiolio di travi e rotolare di calcinacci. Quando la scossa si placò le attività ricominciarono quasi in punta di piedi e si riprese a parlare, ma sottovoce, come se non farsi notare potesse allontanare il pericolo.

Hilal tagliò il filo dell’ultimo punto e osservò il suo lavoro con aria critica.

— Quasi non si vede la differenza tra i miei e i tuoi. — commentò Sami, ma lo sguardo della donna si soffermò nel suo solo per un attimo, scavalcandolo poi per fissarsi su qualcos’altro. Sami si voltò: Yusuf veniva verso di lui, seguito da una pallida Ràhel. La ragazza aveva l’avambraccio sinistro bloccato contro il petto da una fasciatura improvvisata.

— Come sta andando? — domandò il Maestro.

— Facciamo il possibile, ma stiamo esaurendo le scorte. Notizie dagli altri covi? —

— Tutti i colombi sono fuggiti e ho dovuto inviare delle staffette. Stanno cominciando a rientrare, ma hanno avuto enormi difficoltà a raggiungere il Corno d’Oro e nessuna è riuscita ad attraversarlo. Le banchine sono andate in pezzi e le barche hanno strappato gli ormeggi. La Kulesi ha resistito, nessun morto al covo di Galata, per ora, ma il quartiere è nel caos, il mare si è portato via molte case ai piedi della collina. Al momento siamo isolati. — Si passò una mano sul viso cercando di pulirsi dalla polvere e tutto ciò che ottenne fu che il taglio sullo zigomo riprese a sanguinare. Yusuf accettò la pezza che Sami gli porse. — Non è niente,— sbuffò, — ma puoi dare un’occhiata al braccio di Ràhel? Credo sia rotto. — Spinse avanti la ragazza che accennò una debole protesta prima di sedersi accanto al medico. Sami sciolse la fasciatura e tagliò la manica. L’avambraccio era livido e gonfio, ma tastandolo, il medico capì che la frattura coinvolgeva solo una delle due ossa e, fortunatamente, era composta.

— Hai fatto un buon lavoro, Maestro. — disse riconoscendo sotto la polvere i colori della fascia che Yusuf portava sulla fronte, la stessa che stringeva la sua gamba la notte in cui si erano conosciuti. Yusuf gli rivolse un mezzo sorriso, mal celando un brivido, come se il ricordo si quella notte avesse attraversato anche la sua mente. Sembrava passata un’intera vita. Sami steccò l’arto di Ràhel e riutilizzò la fascia per appenderglielo al collo. — Mi dispiace, non ho niente per il dolore. — disse. — Trovati un cantuccio e riposati. — Lei annuì. — Grazie. — disse. Si alzò con una smorfia e mosse qualche passo quando la sua attenzione fu attirata fa un frullo d’ali: un colombo si era posato su una trave che sporgeva storta da un muro e arruffava le penne sollevando una nuvoletta di polvere.

— Prendilo tu. — disse Ràhel rivolta a Yusuf. — Magari è uno dei nostri e io non ce la faccio con una mano sola. —

Il Maestro si avvicinò con cautela e la bestiola si lasciò afferrare. Portava un malridotto rotolo di pergamena legato alla zampetta.

 

1 Jumâda Ath-Thânî 915

Iskender Sakin, covo di Costantino nord

Rapporto informazioni in nostro possesso

Costantino Nord: muri pericolanti, pavimento e soppalco crollati, 3 morti accertati, 8 dispersi tra i quali il maestro Serdar, la sua compagna e i suoi due bambini, 7 feriti di cui 4 gravi, 2 illesi.

Imperiale Nord: crollato, 5 morti accertati, 6 feriti di cui 2 gravi, 9 dispersi, tra i quali il Maestro Amir, non rientrato da Galata.

Bayezid Nord: crollato, 3 morti accertati tra cui il Maestro Yanos, 5 feriti di cui 3 gravi, 17 dispersi.

Si attendono ordini.

 

Sami vide un’ombra addensarsi sul viso del Maestro, che alzò gli occhi dalla pergamena, puntandoli sull’altro lato del cortile, dove Amir stava dando una mano a far cadere i rimasugli pericolanti di una tettoia. Come se avesse percepito quello sguardo su di sé, il siriano si voltò, la stessa ombra a indurirgli i lineamenti affilati.

— Undici morti e trentaquattro dispersi, senza contare i feriti. — mormorò dopo aver letto la pergamena che Yusuf gli aveva passato con un gesto stanco. — Yanos… spero che Serdar e i suoi siano vivi. E non abbiamo ancora notizie dagli altri covi. —

— Alla luce di questo rapporto, temo il momento in cui le avremo. — disse Yusuf con un’espressione ancora più cupa. — Ma dobbiamo rispondere subito. —

Il medico lo guardò allontanarsi col colombo sottobraccio, seguito da Amir. Ràhel si accodò trascinando i piedi.

 

 

— Buona parte delle mura a mare erano crollate, e non poterono fermare l’onda gigantesca che si abbattè sulla città, riversandosi nelle strade basse fino a lambire i piedi della collina di Galata. Anche la Porta Aurea e le mura di terra non avevano retto, così come quelle che circondavano il Palazzo Imperiale, in cui si era aperta una breccia fino alla porta del Giardino. Hagia Sophia rimase quasi incolume: solo il minareto fatto costruire da Bayezid nell’angolo nord-est crollò, insieme agli intonaci con cui erano stati coperti i mosaici bizantini. In compenso, più di cento moschee e più di mille abitazioni furono distrutte. Migliaia di persone morirono sotto le macerie, compresi alcuni membri della Famiglia Reale. Il Sultano si rifugiò in una tenda che fece montare nel giardino del palazzo e poi fuggì ad Adrianopoli. Le scosse si susseguirono per quarantacinque giorni. I Covi nei vari distretti della città che non furono distrutti subirono danni gravissimi. Amir era scampato al crollo del Covo di Imperiale Nord perchè al momento del terremoto era sulla via del ritorno da un incontro con Yusuf e si trovava ai piedi della Torre di Galata. Serdar e la sua famiglia erano precipitati in cantina a causa del crollo del pavimento del covo di Costantino Nord e vi rimasero intrappolati per un intero giorno. Quella notte perdemmo cinque Maestri dei Covi su sette e quasi un terzo delle nostre forze effettive. Fu un colpo durissimo, dal quale non ci siamo ancora ripresi.—

Ràhel fece una pausa e fissò Ezio negli occhi.

— So cosa stai pensando. — disse. — I segni di una tale distruzione sono appena visibili in città dopo neanche tre anni. —

Ezio annuì.

— Bayezid ricostruì velocemente, impiegando ottantamila lavoratori, quasi a voler confutare le voci dei molti che vollero vedere un legame misterioso tra l’instabilità del trono e la furia delle forze naturali. —

 

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Capitolo 44
*** Capitolo 43: Ricostruzioni ***


Istanbul,

27 Rajab 915

(10 Novembre 1509)

 














osì va bene, padre? —

La confusione del cantiere attorno a lui era tanta che suo figlio dovette chiamarlo ben due volte prima che Serdar si voltasse. Il ragazzo lo guardava dall'alto di una scaletta a pioli poggiata contro la libreria, della quale aveva appena finito di rimontare l'ultima mensola. Prima che potesse complimentarsi con suo figlio dell'ottimo lavoro, un ansimare in fondo alla biblioteca attirò la sua attenzione. Erano i gemiti del piccolo Ghassan, che stava lottando con tutte le sue forze per sollevare un grosso secchio traboccante di macerie.

— Perfetto, Maher. Ora aiuta tuo fratello con quel secchio… è quasi più grande di lui. —

— Ce la faccio, padre! Ce la faccio! — protestò lui, la faccia paonazza, braccia tese e gambe magre che gli tremavano per lo sforzo. Come vide il fratello grande avvicinarsi capì di dover fare qualcosa alla svelta se voleva salvare il suo orgoglio, tanto per non essere ricordato come un debole, e diede l'ennesimo strattone alla corda del secchio mettendoci tutta la forza che aveva. Quello si rovesciò e i pezzi di intonaco e mattoni tornarono in una nube di polvere sparpagliati sul pavimento, da dove erano stati raccolti solo poche ore prima.

Il frastuono aveva attirato l'attenzione di Ràhel, che si affacciò oltre la porta ammaccata dello studiolo di Ishak. Scavalcò la muraglia di pile di libri che intralciavano il passaggio e fece svolazzare i suoi ricci fin sotto al naso di Serdar.

— Non sapevo li avessi portati con te. —

— Sono stati loro ad insistere. — rispose Serdar, guardando come suo figlio Maher aiutava il piccolo Ghassam a rimettere le macerie nel secchio. — L'alternativa era rimanere a studiare geografia con Hadim. —

Sulla faccia di Ghassam si disegnò una smorfia al solo sentir pronunciare quel nome e Ràhel pensò che non doveva esserci niente di peggio se quei bambini avevano preferito venire lì a spazzare, battere chiodi e raccattare detriti allo stare seduti su una sedia con il naso nei libri.

Dalla notte del terremoto il Covo di Galata offriva un tetto a mezzo centinaio di Assassini in più, quelli che come Serdar si erano visti crollare il pavimento del proprio Covo sotto ai piedi. Proprio il Maestro di Costantino ci aveva rimesso una frattura scomposta che solo uno dei miracoli di Sami sarebbe riuscito a raddrizzare e per la quale portava ancora una fasciatura attorno al collo. Ma il più dei profughi veniva da Imperiale Nord: raso completamente al suolo; il Maestro Amir vivo per miracolo assieme ad una dozzina dei suoi, e adesso anche loro si trovavano a Galata. Tutta quella nuova forza lavoro Yusuf l'aveva subito diluita nella propria per rimettere in piedi la passerella, le volte del salone centrale e il camino nella sala delle armi, le zone più colpite dal terremoto. Stanze come la biblioteca o gli alloggi privati degli Assassini avevano riportato solo qualche crepa. Il cantiere andava avanti da un mese, da quando non c'erano state più scosse, e il grosso era stato fatto, ogni ala del Covo tornata accessibile: si andava dal cortile per gli allenamenti alle camerate degli Apprendisti senza intoppi, ma ogni volta che si finiva di struccare un muro o montare un'impalcatura, quella precedente cominciava a scricchiolare e allora si tornava lì con chiodi, cordame, martelli, si faceva altra polvere, altro rumore, e si doveva pulire, ancora, ancora, ancora.

— La passerella è a posto! — annunciò Kasim comparendo in quel momento sull'ingresso della biblioteca e per poco non inciampò sul secchio che Maher spostò con un tempismo perfetto dalla sua traiettoria. Il Maestro Yusuf entrò dopo di lui e sembrò essere l'unico ad accorgersi dei due bambini, che salutò con uno strano sorriso. Quello grande era la copia in scala del Maestro di Costantino mentre gli occhi di Serdar lo fissavano da mezzo metro più in basso. Yusuf si fermò, indugiando sulla soglia come incantato, chiedendosi se stesse vedendo doppio o fosse uno scherzo della sua mente. Poi, allargando il sorriso, scompigliò i capelli al più piccolo e diede una pacca sulla spalla al maggiore. — Vi siete fatti davvero grossi. Mica vi avevo riconosciuti! —

— Questa è una bellissima notizia! — gioì Serdar andando incontro a Kasim come se avesse voluto abbracciarlo, ma si trattenne quando notò com'era ridotta la sua camicia e piuttosto indietreggiò, investito da una folata di sudore e calcinacci.

— E non finisce qui. — disse Kasim. — La sala delle armi è tornata a nuova vita, come una fenice. — disse grattandosi il mento coperto da un filo di barba scura, e come lui ce n'erano molti di Assassini che per via dei turni di lavoro massacranti avevano finito per trascurare la cura personale. Primo fra tutti, inutile dirlo, era quel cespuglio infinito che ricopriva metà della faccia di Yusuf e che Ràhel non poteva fare a meno di fissare con cruccio tutte le volte che si trovavano nella stessa stanza.

— Quindi abbiamo finito. — disse la ragazza.

— No. — intervenne Yusuf con tono grave, lasciando i marmocchi di Serdar per avvicinarsi agli adulti (tra i quali adesso era compreso anche Kasim, e Yusuf stentava ancora a crederlo). — Il nostro lavoro qui non è finito affatto. Le condizioni fuori dalle mura del Covo sono anche peggiori. Il quartiere è nel caos, gli ospedali strabordano e nonostante la terra sembri essersi riaddormentata, qualcosa cede, si spezza e crolla in continuazione. Vorrei portare fuori i ragazzi ad aiutare la gente comune. —

Ci fu un lungo silenzio durante il quale i quattro Assassini si scambiarono sguardi penetranti, alla ricerca della minima disapprovazione. Ovviamente non ce n'era.

— Trovo che sia un'ottima idea. — disse Serdar alzando le spalle. — Anzi, chissà perché non ci abbiamo pensato prima! —

— Lo dici solo perché a te non tocca lavorare! — lo schernì Yusuf sfiorandogli il braccio fasciato.

Ci fu una chiassosa risata generale a cui Serdar partecipò con un basso borbottio, lasciandosi cadere su una sedia, mentre anche i suoi marmocchi mettevano in mostra la dentatura bucherellata.

Amir aveva seguito le vicende dalla penombra dello studiolo, nel quale erano accese solo un paio di candele, e quando chiamò Yusuf con tono sufficientemente contrastante alle risate del gruppo, quelle si interruppero all'istante. Un attimo dopo il Maestro entrò nello studiolo asciugandosi la fronte sulla camicia, dove si aggiunsero altre macchie di sporco. Trovò il siriano intento a riarrotolare alcune mappe della città che poi impilava ordinatamente come non erano mai state su una mensola dietro la porta.

— Quello che vuoi fare è molto bello, ma dobbiamo riprendere i turni di guardia e gli addestramenti: non possiamo correre rischi. — disse mentre controllava lo stato di una nuova cartina.

Yusuf sembrava non capire. — Rischi? —

Amir gli lanciò giusto un'occhiata. — Il terremoto ci ha quasi dimezzati, Yusuf. Siamo vulnerabili, adesso. — rispose.

L'altro scoppiò in una risata a metà tra l'isterismo e la comica. — Fratello, non capisco di che stai parlando. —

Il siriano si bloccò stringendo l'ultima mappa tra le mani, fissando un punto indistinto tra la Cappadocia e la penisola Araba, poi finì di arrotolare anche quella. — Lascia stare, come non detto. —

Yusuf sospirò. — Amir, se tu ogni tanto mi dicessi che cavolo ti passa per la testa te ne sarei grato. È da quando hai portato quel brutto muso ombroso qui a Galata che ti comporti in modo strano. — un attimo di pausa, riflettendo sulle sue parole. — PIU' strano. — si corresse.

— Te l'ho detto, sono preoccupato. —

— Per cosa?! — alzò le braccia al cielo.

— Per i Templari! —

Aveva urlato. Amir gli aveva urlato in faccia e più di uno degli Assassini nella biblioteca si era voltato verso lo studiolo.

Yusuf fece in tempo solo ad incrociare lo sguardo preoccupato di Ràhel prima che Amir chiudesse la porta, isolandoli dal resto.

— Sono anni che non affrontiamo una vera minaccia, Yusuf, ed è una cosa troppo strana. La pace non è eterna. — disse il siriano a bassa voce, come se non si fidasse di un'asse di legno e quattro mura delle più spesse del Covo.

— Che c'è, ti stai annoiando? — sbottò il turco. — Non ti negherò che in passato l'azione è mancata anche al sottoscritto: incursioni notturne, pedinamenti, pestaggi… — un sorriso sghembo prese forma sulle sue labbra. — Eheh, quante gliene abbiamo date a quel mercante di schiavi… — ma fu giusto un attimo, e tornò a darsi un contegno: — Se questo dannato terremoto non è abbastanza per te, allora perché domani non vieni a darmi una mano a rimettere in piedi la città?! Te ne stai chiuso qui dentro da giorni, fratello. Serdar con un braccio fasciato e Ràhel che se n'è appena liberata si sono resi più utili di te che l'hai scampata con quel graffio! —

Amir sentì la replica bloccarglisi in gola e sfiorò il taglio sulla guancia con due dita, non potendo negare niente: negli ultimi giorni aveva fatto ben poco e lo si era visto altrettanto fuori dallo studiolo, dove si era nascosto come un cristiano cercherebbe rifugio in una chiesa…

Quando si era risvegliato all'ombra della grande torre, qualcuno che lo strattonava per le vesti dandogli anche qualche colpetto in faccia, era di rientro da un incontro durato fino a tarda notte che aveva avuto con Yusuf proprio nel Covo Centrale. La prima fila di palazzine che circondavano la piazza era caduta come la prima fila di tessere di un domino. Le macerie erano arrivate fino ai piedi della Torre e Amir si trovava sdraiato lì, bianco come un cristiano tanto era ricoperto di polvere e vivo per miracolo.

Il passante che lo aveva soccorso se n'era già andato, camminando sui detriti come il Messia Cristiano aveva camminato sull'acqua. Gridava. Gridavano tutti. Amir si era messo a sedere piano e poi in piedi. Nulla di rotto. Sangue caldo che colava dal viso lungo il collo. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quanto tempo era stato lì svenuto, o anche solo che ora fosse, poiché una nube di polvere oscurava il cielo congelando tempo e spazio in un infinito crepuscolo. Una seconda scossa lo aveva riportato a terra e si era spostato a gattoni nelle macerie, puntando verso lo spiazzo verdeggiante del cimitero dove si erano radunati già altri feriti… Quando qualche ora dopo le scosse avevano iniziato ad essere più deboli fino a cessare del tutto per grandi intervalli di tempo, durante uno di quei benedetti silenzi Amir aveva scalato velocemente la Torre.

Il nome del suo Dio si era liberato dalle sue labbra più di una volta mentre negli occhi neri si rifletteva l'immagine di una città ridotta ad una carcassa sventrata da una bestia…

Aveva assecondato l'istinto che gli diceva di correre al suo Covo di Imperiale, attraversando il Corno d'Oro su una zattera di zingari che facevano spola tra le due terre come Caronte nel mare di anime per raccogliere cadaveri, spogliarli dei loro averi e rigettarli in acqua. Era riuscito a non farsi riservare lo stesso trattamento solo con una piccola dimostrazione della sua abilità con la sciabola di suo padre che niente, neanche un terremoto, gli avrebbe mai strappato dal fianco. Raggiunto il distretto di Imperiale e poi il suo Covo, aveva trovato ad attenderlo un cumulo di pietre e una scia di cadaveri. Nalan gli era corsa incontro con gli occhi pieni di lacrime assieme a pochi altri che Amir aveva abbracciato uno ad uno come figli o fratelli quali erano, poi era crollato esausto tra le braccia della donna, sentendo improvvisamente sulle spalle e tutto insieme il peso di quelle ore. Gli Assassini lo avevano sdraiato nell'infermeria di fortuna accampata in una stalla. A quel punto le scosse erano ricominciate...

Aveva deciso di trasferire i pochi sopravvissuti a Galata, un'oasi in mezzo alla tempesta, e aveva ordinato a Nalan di precederlo mentre lui allungava il tragitto deviando per Santa Sofia. Avrebbe voluto piangere e pregare per i morti, ma una folla di fedeli e sfollati si era stabilita numerosa nella Basilica convertita in Moschea, innalzando una tendopoli che ne occludeva l'ingresso come un tampone. In templi più piccoli e popolari non sarebbe stato diverso, così Amir aveva ripreso la strada verso il Covo di Galata, riunendosi ai suoi con la mente affollata di pensieri.

Quindi la verità era che aveva pianto molto, nello studiolo di Ishak, per i suoi Apprendisti rimasti uccisi sotto le macerie, ed era sempre nello studiolo che la paura di un imminente attacco Templare lo assaliva. La notte era tormentato dagli incubi; in uno in particolare e ricorrente vedeva Davud pugnalare più volte il Maestro Ishak al costato mentre la cupola del Divano crollava sopra le loro teste. Tutt'attorno una schiera di uomini politici misti a Giannizzeri: indossavano turbanti o maschere nere e assistevano impassibili alla scena. Avevano croci Templari sul petto.

Per la prima volta da che aveva memoria, Amir non riuscì a trovare le parole.

Yusuf lo fissava aspettandosi qualcosa, da lui, ma il siriano taceva, sperando che l'inconfondibile luccichio nei suoi occhi nerissimi bastasse a trasmettergli meglio di tante belle parole da Maestro Assassino quello che provava.

Ràhel bussò, rivelando che la porta era rimasta solo socchiusa perché una pila di libri ne aveva sempre impedito la chiusura completa e Amir vi faceva caso solo adesso. Quando la ragazza parlò non era cambiato nulla dal momento in cui Yusuf aveva pronunciato l'ultima parola, "graffio", che sembrava ancora riecheggiare nell'aria satura di carta e polvere dello studiolo.

— Visite. — disse Ràhel attraverso la porta, un'ombra sulla parete, e poi si allontanò di nuovo.

 

— Volevo solo accertarmi che foste ancora tutti interi. —

Erano nel salone centrale, illuminato da poche candele e un braciere, seduti al tavolo di fortuna che era stato messo vicino al camino spento e pieno di calcinacci. Amir su un lato corto con Sami. Ràhel e Serdar vicini al Gran Maestro che sedeva spalla contro spalla con Piri "Reis".

— Sai, Yusuf, con la quantità di roba esplosiva che adesso producete qui… mi sono chiesto se non foste stati voi a combinare questo casino, magari perché un Apprendista aveva lasciato una candela accesa vicino ai barili di polvere indiana! —

Risero tutti.

— La Torre di Galata è proprio un bello spettacolo, adesso che attorno non ha niente di più alto di una spanna. — esultò Piri, sarcastico. Un attimo dopo l'ombra della tragedia tornò sul suo viso segnato. — Non ve lo dico neanche com'è ridotto il Gran Bazar… Le grida di quella notte, porco Mondo… una cosa che non senti neanche se dai fuoco ad una nave con tutto l'equipaggio chiuso nella stiva. — L'uomo trangugiò in un sorso tutto il bicchiere di raki che aveva preteso ancora prima di salutare, appena Yusuf lo aveva intravisto nel salone dalla biblioteca. Poi rimase a fissare il bicchiere vuoto senza aggiungere nulla per qualche minuto.

Yusuf si schiarì la gola, rompendo il silenzio. — A questo proposito, domani farò togliere a tutti l'uniforme e daremo una mano nei cantieri della città. — disse, aspettandosi dal Capitano uno sguardo di ammirazione che però non venne.

Piri tracciava cerchi sul tavolo facendo stare il bicchiere in equilibrio sullo spigolo. — Non credo sia una buona idea, Yusuf. — disse alzando lo sguardo da lì per puntarlo dall'altro lato del tavolo, dove sedeva Amir. Yusuf vide il siriano sistemarsi più comodo e immaginò che tra i due ci fosse una sorta d'intesa, ma poi Piri "Reis" prese a squadrare gli Assassini uno ad uno e il turco si rimangiò quel sospetto.

— Due terzi di questa città credono che ci sia un nesso tra lo scompiglio in casa del Sultano e questa Apocalisse. La gente ha paura, è facilmente impressionabile, avventata. C'è chi ha perso tutto nel terremoto e perciò non teme più nulla, neanche la morte. Lo stesso Selim punta i coltelli alla gola dei suoi figli. — e mimò il gesto di tagliarsi la propria.

— Quindi cosa stai suggerendo? — chiese Amir.

— Di farvi i fatti i vostri. — la risposta del Capitano, che abbassava lo sguardo per nasconderlo sotto le folte ciglia nere. — Leccarsi bene tutte le ferite e restare in campana. —

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 45
*** Capitolo 44: La minaccia ***


Istanbul,

8 Cha`bân 915

(21 Novembre 1509)

 














ioveva, ininterrottamente, da tre giorni.

Per la prima volta da quando erano iniziati i lavori per la ricostruzione della città, dopo la fine delle scosse, argani, carrucole, martelli erano fermi, e per le strade di Istanbul non vi era altro suono che quello della pioggia battente, che si accumulava dentro i pozzi e nelle crepe delle strade, sgorgando fuori da entrambi come se stesse risalendo dalla terra. I tratti sterrati ridotti a piscine di fango, il Bosforo nero come la pece e l'acqua ben sopra il livello delle banchine. La gente che solo per miracolo aveva ancora un solido tetto sotto cui ripararsi offriva ospitalità ai vicini e ai vicini dei vicini. Le grandi tendopoli che il Sultano aveva fatto erigere attorno alle mura della città si erano estese a dismisura sia all'esterno che all'interno, ma il peso dell'acqua che vi si accumulava sopra ne faceva crollare continuamente e gli sfollati cercavano rifugio negli edifici pubblici ancora in piedi. Sotto gli archi del vecchio acquedotto, la comunità gitana si era mischiata a quella cristiana e quella cristiana a quella ebraica. Il rivolo d'acqua che tagliava in due il quartiere di Costantino si era scavato con prepotenza un letto molto più ampio, trascinando a mare banchine e imbarcazioni, e ora minacciava di fare irruzione nelle case vicine che con grosse assi inchiodate a porte e finestre credevano di potersi salvare. Qualcuno pregava, qualcuno riusciva addirittura a dormire sotto la pioggia; qualcuno giocava a dadi, o a dama o a scacchi, e forse perché il tavolo da gioco era tutto ciò che gli restava.

Amir si calò da un tetto con agilità e trovò riparo sotto una trave di legno che spuntava da un muro. Si guardò attorno controllando se qualcuno dei suoi Assassini fosse arrivato lì prima di lui ma non era così. Avrebbe atteso ancora un po' ma poi, siccome gli ordini erano già stati assegnati, sarebbe potuto entrare da solo.

Già, ma entrare dove?

Alzò lo sguardo da terra e si accorse di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.

Non era più tornato al Covo di Imperiale di cui era Maestro da quando aveva portato i suoi Assassini a Galata. Tenere impegnati mente e corpo di quei ragazzi era stata la sua priorità, ma concentrare le loro forze nella ricostruzione del Covo principale li aveva esposti, ed era per scoprire quanto in profondità gli sciacalli avevano affondato le loro zanne che si trovavano lì.

— Maestro. —

Non ebbe bisogno neppure di voltarsi, il suono della sua voce era sufficiente, ma lo aveva colto di sorpresa e per un secondo fu tentato di lasciarle credere che fosse così.

— Stavo per entrare. — disse. — Resta di guardia. —

— Voglio venire con te. —

Amir trasalì, come tutte le volte in cui solo lei osava mettere in discussione i suoi ordini. Lanciò occhiate a destra e sinistra alla ricerca dei suoi fratelli, ma nessun nuovo cappuccio bianco si era ancora aggiunto ai loro.

— Quello che vuoi è avventato. Qualcuno deve restare di guardia. — il gelo, nella sua voce. Sperò che fosse sufficiente.

— C'è Varsos. — Lei guardò a sud.

Amir scavalcò con gli occhi le rovine del Covo e vide che in cima ai resti di una bottega di stoffe (che si riconosceva solo per via della pittura che imbrattava le macerie) era appena comparso il suo uomo più fedele.

— Va bene, allora. Andiamo. —

Alle sue spalle, la donna mimò una serie di ordini verso di lui e Varsos rispose con un cenno della testa.

Si addentrarono fin nel cuore delle macerie fianco a fianco.

— I registri non ci sono. — disse lei, china ad esaminare le copertine dei volumi sparpagliati a terra nella zona dove un tempo sorgeva la piccola biblioteca del Covo; i pesanti lembi della mantella per ripararsi dalla pioggia, piena d'acqua, a riposare sulla terra.

— Ma non capisco, hanno lasciato testi ben più preziosi. — aggiunse lei prendendo un copia di un antico testo Veda sul culto dei popoli Arii. Copertina ricamata in bronzo e capolettera dorata.

Amir annuì, come avendo ricevuto una conferma.

Se si era trattato veramente di sciacalli, era inspiegabile che quel libro si trovasse ancora lì. Qualunque straccione non se lo sarebbe lasciato scappare. Uno dei suoi Apprendisti lo aveva preso in prestito dalla biblioteca del Covo centrale, ben più fornita del micragnoso scaffale che avevano lì e che bastava a stento a tenere verticale qualche registro. Quelli, al contrario, erano rilegati tanto per garantirne la resistenza al tempo e alla polvere, ma mancavano… mancavano tutti, dal primo all'ultimo.

D'un tratto smise di piovere e nel silenzio che si era creato Amir colse un rumore inconfondibile di passi venire da una zona in ombra del piccolo cortile degli allenamenti, dove un tempo sorgeva la tettoria. Di quella, giusto una coppia di travi con un tetto che mancava di tegole erano ancora in piedi.

— Nalan, resta ferma. Sud-ovest, all'ombra del cipresso. — disse Amir, fingendosi interessato ai resti anneriti di un tappeto intrappolato tra due pareti crollate l'una sull'altra.

Lei fece come richiesto, puntando in quella direzione solo le pupille degli occhi, mentre le sue mani sollevavano altri libri per poi portarli al sicuro sotto la mantella. Quando la donna si irrigidì, e ancor prima di aprire bocca, Amir capì cosa stava succedendo.

Il siriano scagliò di colpo un pugnale da lancio, che si conficcò nel legno di una trave portando con sé un lembo di un mantello, il cui proprietario si diede precipitosamente alla fuga.

Dall'alto del tetto, Varsos notò subito l'agitazione tra le macerie del Covo e si spostò con la rapidità di un ragno sulla traiettoria del bersaglio, in attesa di ordini.

Dopo un attimo di esitazione Amir alzò il braccio, inviando quegli ordini, e Varsos si gettò sull'uomo in un fruscio di vesti.

 

Yusuf uscì dalla biblioteca trotterellando come un bimbetto, diretto verso la sala delle armi dove aveva appuntamento con Serdar per fare l'appello alle armi che Nazim aveva recapitato quella mattina. Ben poche erano sopravvissute al terremoto e una delle faccende delle quali si era occupato Serdar, data la sua menomazione temporanea, era stata stilare un inventario dei danni per il Fabbro.

Yusuf non si aspettava di vedere Amir e i suoi già di ritorno, perciò sentire rumore di passi e cinghie metalliche venire dall'ingresso del Covo lo mise in allarme. Si piantò in mezzo al salone e staccò leggermente le braccia dai fianchi, tendendosi come una corda di barbat. Ma anche quando il gruppo di Assassini emerse sulla passerella, non si rilassò affatto. Anzi.

In testa al gruppo Dogan e Varsos scortavano a lame sguainate un uomo con le mani legate dietro la schiena. Indossava una casacca color prugna, ma che un tempo doveva essere stata di un rosso sgargiante; calzari alti fino al ginocchio, una mantella povera e dai lembi sbrindellati (un angolo in particolare) con un cappuccio largo calato sulle spalle. La grossa cinta di cuoio che gli stringeva i fianchi avrebbe potuto ospitare una grossa spada, e infatti eccola, di vecchio acciaio ma ben tenuta, nelle mani dell'assassina Nalan che procedeva alle sue spalle. Accanto alla donna c'era Amir, con il volto nero come un cielo prima della tempesta e già i lampi negli occhi.

Quando il convoglio fu di fronte a lui, Yusuf non emise un fiato, aspettando che fosse il suo compagno a dargli qualche spiegazione, ma con sorpresa di tutti il primo a parlare fu il prigioniero, come risvegliandosi da una catalessi. Gridò così forte da rivoltare nei loro letti gli Apprendisti, che scesero e corsero scalzi e svestiti fin nel salone. Serdar comparve sotto l'arco che portava alla sala delle armi, mentre i suoi due figli si affacciavano dall'infermeria a metà della passerella insieme a Sami, che fece di tutto per tenerli dietro di sé. In poco tempo il salone centrale era pieno di facce sconcertate.

Yusuf fissava il prigioniero senza espressione, la bocca ancora sigillata. Quello si dimenava e gridava digrignando i denti come un animale, mentre per lo sforzo vene violacee gli comparivano sul collo. Sulla quarantina, leggermente stempiato. Un viso tondo, un grande naso adunco, barba sfatta, una cicatrice lungo la mandibola, forse una freccia evitata di striscio… occhi iniettati di sangue, fuori dalle orbite, traboccanti di odio come le sue parole.

— Ci riprenderemo la nostra città! Ci riprenderemo il nostro Impero! Bisanzio ci appartiene! Vi uccideremo! Vi uccideremo tutti, maledetti Assassini! Vi faremo a pezzi e getteremo le vostre ossa ai pesci del Bosforo! Non avete diritto di stare qui! Voi e nessun altro! Ci riprenderemo tutto e tutto ciò che resterà di voi sarà polvere! E come polvere vi soffieremo via dai tetti della NOSTRA città! Bisanzio rinascerà e voi, luridi scarafaggi, voi e tutti gli infedeli marciret…!!! —

Yusuf gli affondò un pugno nello stomaco e quello si chiuse su se stesso come un riccio. Poi Dogan e Varsos lo trascinarono via.

Amir li seguì con lo sguardo. — L'abbiamo trovato che annusava l'aria attorno alle mura di Imperiale Nord. Non immaginavo una reazione del genere: ha fatto il viaggio in silenzio come una tomba… —

Yusuf rabbrividì, guardandosi attorno: nel Covo c'era di nuovo silenzio, ma ora che la novità aveva preso il largo gli occhi di tutti erano puntati su di lui. — Probabilmente doveva solo sfogarsi un po' e quando torneremo da lui per interrogarlo sarà più docile di una gatta. Facciamo passare un po' di tempo. — disse incamminandosi verso lo studiolo, e Amir lo seguì senza aggiungere nulla. Fece segno a Serdar di far sgombrare il salone e a Ràhel di raggiungerli appena poteva. L'occhiata che ricevette in cambio diceva "posso ora" e la ragazza si unì a loro sulla rotta per la biblioteca.

 

— Ci sono delle piccole catacombe, nel Covo, alle quali si accede da una botola sotto la passerella. Sono rare le volte in cui ne facciamo questo uso, ma teniamo lì i nostri ostaggi. —

— O gli Apprendisti indisciplinati. — commentò Ezio con un sorrisetto sghembo.

Ràhel sorrise a sua volta. — Ecco, quello non è mai successo. La sola minaccia bastava a spaventare anche i più intrepidi evasori delle regole, e come lo diceva Amir non lo diceva nessuno. —

— Non stento a crederlo. —

In un battito di ciglia, Ràhel tornò di nuovo seria. — Passarono due settimane prima che riuscissimo a cavargli una parola di bocca senza fare uso della tortura fisica. Il giorno in cui parlò fu il giorno in cui Sami tentò di somministrargli un intruglio che gli facemmo credere si trattasse di chissà ché e invece era del tutto innocuo. L'idea era stata di Yusuf. —

— Basata su qualche esperienza personale? —

Ràhel gli lanciò un'occhiata basita. — Sì. Te ne ho parlato qui? —

Lui scosse la testa, ridacchiando sommessamente.

— Ad ogni modo, quell'episodio inaugurò la nostra guerra con i bizantini. All'inizio si muovevano nell'ombra, vestivano mantelle e non portavano segni di riconoscimento, a parte il color prugna di alcune casacche, rendendoci quasi impossibile individuarli tra le masse. Quando ristabilimmo i contatti con la Gilda dei Ladri, scoprimmo che stavano reclutando tra minoranze etniche e indigenti, ricevendo armi dalla Cappadocia, e che si preparavano perciò ad una specie di rivolta. Si spostavano per le strade a gruppi sempre più numerosi e col tempo, senza che potessimo far nulla per impedirlo, si impadronirono di interi quartieri. La Famiglia Reale, dilaniata dalle lotte intestine, per arginare la situazione fece quanto poteva fare un vecchio sordo contro una zanzara nel buio. Sì, il Sultano sguinzagliò i suoi Giannizzeri per la città, e questo ci fece guadagnare un po' di tempo, riprendere fiato, ma la guerriglia nelle piazze si faceva sempre più accesa: da una parte loro, Bizantini e i Templari uniti, nascosti tra le fila del popolo in rivolta, e dall'altra noi e il Sultanato, più divisi che mai... —

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Capitolo 46
*** Capitolo 45: Il prezzo del passato ***


— Con l'arrivo dell'inverno, la gente preferì fronteggiare il freddo piuttosto che una minaccia invisibile e i Bizantini, improvvisamente spogliati della mantella del popolo come un albero in autunno,  si ritirarono nelle loro tane. Cominciammo a riconquistare terreno: riprese ogni attività di addestramento e Yusuf ebbe modo di organizzare una nuova ondata di reclutamento; costruimmo nuovi Covi riconquistando la maggior parte di quelli vecchi e nel frattempo sfoltivamo le file Templari, ma ben presto la paura di essere accerchiati li fece esplodere e in una notte accadde più di quello che era accaduto in un anno. —

 

 

Istambul,

Cha`bân 916

(Dicembre 1510)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a neve cadeva placida sul Corno d’Oro.

Il porto di Galata era silenzioso, una notte calma dove persino il vento non si permetteva un solo sussurro, e tra le strade nessuna creatura osava sfidare quel freddo, reso ancor più insopportabile dall’aria secca ed immobile.

Un drappello di guardie si stava scaldando attorno ad un focolare nei pressi della grande torre. Il vecchio Giannizzero si preoccupava di tenere vive le povere fiamme, mentre il miliziano e l’èlite battevano i piedi a terra con le mani sotto le ascelle, ridacchiando sottovoce a proposito dei baffi congelati del loro compagno agile.

— Questo freddo è arrivato troppo presto, dannazione, —  borbottò cupo il Giannizzero, aprendo i palmi guantati sul focolare.

— Già, ma se in quel fuoco non ci mettete altra legna, effendi, sarà lui a spegnersi troppo presto, — ironizzò l’agile.

— E allora perché non ti scaldi un po’ correndo a prenderne dell’altra, salak! — fu la risposta.

Quello scattò all’istante, scomparendo senza un suono nel fitto della notte.

— Beato Izgü: almeno lui non affonda nella neve, — commentò l’èlite irrigidendo la presa sulla lancia che il gelo aveva attaccato alla sua mano. — Io con quest’armatura cammino due piedi più in basso di lui! —

— Certo, ma spera che quel menomato torni prima di congelarsi, — disse il miliziano.

Il Giannizzero si limitava a sentire i loro discorsi, che era ben diverso dall’ascoltarli. Le orecchie nascoste sotto la maschera decorata erano tese su quello che lo circondava. D’un tratto colse un debole scricchiolio della neve venire dal cimitero, e pensò che si trattasse del suo uomo che si riuniva al comando, ma dalla nebbia emersero due figure incappucciate di bianco che, di corsa, sparirono nuovamente nella foschia.

— Assassini! Maledetti bastardi, ci accerchiano! —  ruggì l’èlite portando avanti la lancia e preparandosi a combattere.

— No, guarda, stanno fuggendo! Effendi, inseguiamoli! —  sopraggiunse il miliziano sfoderando la spada d’ordinanza ottomana.

— No, stolti! —  sbottò il Giannizzero. — Bayezid non desidera che s’infastidiscano i suoi misteriosi ma preziosi alleati, a meno che essi non ingaggino per primi. Voltatevi da un’altra parte e trovate un modo per riscaldarvi che non sia spargere sangue. Razza di dementi…—  dicendo così, tornò a fissare in silenzio le misere fiammelle scoppiettanti.

Il miliziano sbuffò. — D’accordo, ma perché Izgü ci sta mettendo tanto? —

 

L’Assassino gettò altra legna al fuoco nel grande camino del salottino comune, e le fiamme si gonfiarono sopra ogni misura esplodendo in un mare di scintille.

— Per Ahura Mazdā! — imprecò la voce di Sami, dall'alto del pianerottolo che gli Assassini avevano adibito a zona per la fabbricazione delle bombe, e sobbalzando sulla sedia. — Stiamo cercando di concentrarci, qui! Chiunque tu sia, puoi fare più piano?! —

— Ti conviene tenere la bocca chiusa, dottore: sai meglio di me che la datura rovina i denti, e il sorriso annerito non è di gusto alle signore, —  sghignazzò Kasim senza voltarsi, fissando le lingue di fuoco che si arrampicavano sui tocchi freschi.

Sami alzò gli occhi al cielo, trattenendo a forza l'impulso di lanciargli dritto dritto su quella sua bella testa folta la bomba ad innesco che aveva tra le mani. Mordendosi le labbra, tornò seduto composto al tavolo da lavoro, circondato dagli appunti che Piri aveva ceduto alla Confraternita. Da forse più di un'ora, ormai, era alle prese con un involucro a innesco lento che non ne voleva sapere di aprirsi; tanto meno esplodere. Fortunatamente aveva fatto cilecca durante un’esercitazione, ma pur di non buttar nulla Yusuf aveva convocato un'assemblea straordinaria nel cortile degli allenamenti chiedendo se c'era qualcuno disposto ad occuparsi degli ordigni difettosi.

— Ho cucito la pelle di tutti voi almeno dieci volte. Con le istruzioni del viaggiatore, Maestro, posso occuparmene io, — aveva esordito il medico. La mano meticolosa di chi dava ago e filo a carni e tendini non era poi tanto diversa da quella di chi di filo faceva stoppini da innesco.

— Perfetto, allora prepariamoci a sgombrare il Covo, fratelli! — aveva detto Kasim, come suo solito, suscitando le risate degli altri Assassini.

Tünay, una veterana madre della Confraternita, li aveva messi subito a tacere così: — E io ho cucito i vostri pannoloni quando non eravate altro che lattanti piagnucolosi che cadevano dagli alberi come piccole scimmie tonte, razza di ingrati! Se siete ancora vivi e tutti interi è merito di quest’uomo. —

Tra i due era nato del tenero, inutile negarlo.

— Passami la tenaglia, cara. — disse Sami senza staccare gli occhi dall'innesco; da qualche anno si aiutava con delle lenti doppie appoggiate al naso sotto un ponticello di rame.

La donna sedeva di fronte al medico e gli allungò l'attrezzo con un po' d'incertezza.

— Lo stoppino del mio paziente è rientrato nell’involucro. Proverò ad estrarlo senza aprire. — spiegò lui.

Erano l'unica presenza viva in tutto il Covo, se non si contava il vagabondare di Ràhel con in braccio un gatto che aveva trovato durante il suo turno di guardia o lo studiolo dove il Maestro era chiuso ormai da ore a revisionare le ultime cartine di Piri, arrivate al Covo quella mattina, fresche fresche, in risposta ai rilievi topografici fatti dagli Assassini in missione nel Mediterraneo.

Un rombo di stivali sulla passerella di legno destò i tre Assassini dai loro compiti e sull’ingresso del salotto si affacciò Amir, ancora col cappuccio alzato e della neve sui vestiti.

— Sami, dov’è il Maestro? — domandò. Aveva le labbra violacee, il naso arrossato e gli occhi lucidi per via dell’improvviso sbalzo di temperatura. Il tono di voce tradiva una gran preoccupazione, oltre alla fretta, e dietro di lui c'erano l'Assassina Nalan e l’Apprendista Fitnat con un aspetto e un’espressione non da meno.

— Nello studiolo. È stato lì tutto il giorno. — rispose il dottore senza staccare gli occhi dal lavoro.

— Penso ci sia Ràhel, con lui. — aggiunse Kasim con una risatina sommessa. — Perciò meglio se ci vai da solo e lasci le signore a scaldarsi un po'. — disse languidamente, facendosi da parte per creare posto davanti al camino. Fitnat accolse l'invito con un sorriso, abbassandosi il cappuccio sulle spalle. Un taglio maschile di capelli scuri incorniciava un viso da bambola dalle labbra carnose. Ma tutta la roba che aveva addosso, tra equipaggiamento e strati d'abiti, non era sufficiente a camuffare il seno abbondante che attirava lo sguardo di Kasim come una falena alla fiamma. Intuendo i prossimi sviluppi, Nalan raggiunse il camino in sole due falcate di gambe, frapponendosi con fare materno tra la sedicenne e lo scapestrato Assassino, a cui scoccò un'occhiataccia.

Nel frattempo Amir era scattato di corsa sulla passerella e giunse nella biblioteca dopo aver seminato neve lungo tutta la strada. Spalancò la porta dello studiolo di Ishak senza neanche bussare. L'improvvisa corrente d'aria scaraventò in faccia al Maestro le cartine che aveva davanti, spegnendo anche buona parte delle candele messe a far luce.

— Perdonami. — disse il siriano, imbarazzato, sentendo ridere da qualche parte. Amir cercò Ràhel solo con la coda dell'occhio e la trovò seduta su una pila di libri in un angolo dello studiolo. Teneva tra le braccia un gatto grigio e paffuto che faceva grasse fusa.

Non senza un po' d'impaccio, Yusuf riuscì a riarrotolare o distendere le cartine, e quando finalmente poté guardare l'amico in faccia disse: — Una certa fretta è sinonimo di una certa urgenza. —

— Invero. — Amir avanzò con aria grave. Era stravolto, il viso segnato dalla stanchezza, e ancora batteva leggermente i denti. Con lui era entrato anche inverno.

— I Bizantini. — disse, sembrando attirare persino l'attenzione del gatto che smise improvvisamente di fare le fusa.

— So dove dobbiamo colpire. —

 

La barchetta che li stava traghettando sull’altra sponda del Corno d’Oro avanzava placidamente nell’acqua scura. Tutt’intorno la foschia aveva inghiottito gli orizzonti e in quella notte buia ci si orientava solo grazie ai minareti illuminati di Hagia Sophia, la cui cupola coperta di bianco emergeva dalla nebbia. Non c’era un soffio di vento e la vela latina ammainata aveva permesso alla neve di ghiacciare l’albero e accumularsi sul fondo dello scafo. Senza parlare dei banchi, che quando i tre Assassini vi si erano seduti, avevano rischiato di rimanervi attaccati.

L'immortale traghettatore fidato della Confraternita era al timone, e avvolto in spesse pellicce, manteneva il silenzio al pari di un muto.

— Hai lasciato qualcuno sul posto? — domandò Yusuf, l'unico di loro a non indossare il cappuccio.

— Varsos. — la risposta secca di Amir.

— Da solo? —

— Ho detto a Serdar di raggiungerci. —

— Tutto qui? — obbiettò Yusuf senza riuscire ad aggrottare le sopracciglia intorpidite dal freddo.

Il Maestro di Imperiale annuì. — Un paio di calzari di troppo fanno scricchiolare il pavimento. Ho pesato le nostre forze al granello. —  disse e si voltò a guardare il riflesso nell'acqua della lanterna che portava in grembo.

Yusuf si esibì in una smorfia, e neppure quella gli riuscì come si deve per via degli zigomi intorpiditi. — Allora forse non avrei dovuto finire quei baklava... — borbottò, ottenendo come risposta ad una delle sue immancabili battute di spirito per alleggerire la tensione solo un'occhiataccia dal siriano.

— Fa troppo freddo, —  mormorò Ràhel nascondendo le mani tra le cosce. — Mi auguro che Varsos non sia morto congelato. —

 

Attraccarono silenziosi come anime al distretto nord di Bayezid, che li accolse avvolto da una fitta nebbia. Amir balzò come un gatto sul molo e vi assicurò la barchetta, dopodiché allungò una mano a Ràhel che l'accettò senza allontanare quella libera dalla balestra sotto al mantello.

Yusuf si alzò in piedi sul banco e si guardò attorno: contò una pattuglia di guardie, un mendicante a chiedere loro la carità e un cane accucciato sulle scale che portavano in strada.

— La via è libera. —  lo rassicurò Amir dalla banchina.

— Da quanto ho capito ci giochiamo tutto in questa missione, Amir. Permettimi di essere un po' più ansioso del solito. — disse Yusuf portandosi con un balzo fuori dall'imbarcazione, ma qualcuno dei suoi muscoli lo tradì prima di toccare terra e aveva già un terzo della mantella in acqua quando il siriano lo afferrò saldamente per un braccio.

— Concesso. — disse Amir tirandolo su. — Ma sappi che sei in buona compagnia. —

 

Salam,  guasta sonno. —

Il gruppo, con Amir in testa che li guidava e Yusuf a chiudere la fila, si fermò per accogliere Serdar, che si unì a loro con i vestiti pieni di neve emergendo da un vicolo avvolto dalla nebbia.

Yusuf lo guardò, interdetto, ma poco dopo gli sfuggì un risolino. — Che razza di ingrato: ti è sempre piaciuto essere al centro dell'azione. Come minimo ti toccava un turno di guardia, altrimenti. — 

— Sì, al mio cuscino. — rispose Serdar con uno sbadiglio, e si rimisero in marcia.

Si spostarono a piedi durante tutta la traversata della città. Le strade erano desolate e dovevano sforzarsi di essere altrettanto silenziosi sulla neve che crepitava sotto il peso consistente delle armi che avevano addosso. Usare la via dei tetti avrebbe significato sfidare la sorte e il suo servo invernale: il ghiaccio.

Superato il distretto di Costantino continuarono verso sud-ovest e, quando videro delinearsi le mura della città, si fermarono. Qui un piazzale rialzato ospitava un piccolo martyrion incastrato tra gli edifici. Il tempietto aveva una pianta a croce centrale e terminava con una cupoletta coperta di neve. Varsos non c'era.

— Dannato di un greco. — borbottò Serdar, che non era mai riuscito a farselo piacere fin dai tempi di Salonicco.

— Non può aver lasciato volontariamente l'appostamento. —  mormorò Amir, perplesso. Si voltò a guardare Yusuf con gli occhi cerchiati dalla preoccupazione. — È successo qualcosa. —

Serdar, le sopracciglia aggrottate sotto il cappuccio, si guardava attorno come senza capire cosa stesse succedendo e perché. Fece per domandare qualcosa ma poi un fischio che sarebbe potuto passare per il verso di un rapace attirò la loro attenzione, e i tre Assassini guardarono in alto.

Ràhel, in cima al martyrion, faceva loro cenno di raggiungerla.

 

— Tre sul quel tetto, uno ad ogni angolo. Due più a sud, senza torce e fuori dalla portata dei bracieri. L'edificio ha solo tre lati esposti, il quarto appoggia contro le mura, perciò se supponiamo che ce ne sono almeno due a terra e due al primo piano, moltiplicati per tre danno... —

— Un sacco di maledetti bastardi. E senza neanche contare quelli all'interno. — commentò Serdar, interrompendo la ragazza. — È un suicidio, Amir! Che cavolo ti è saltato in testa?! —

— Non ce n'erano così tanti. — si difese il siriano.

— Avranno chiamato rinforzi da altri covi più piccoli. — ipotizzò Yusuf.

— E perché mai avrebbero dovuto?! Un torneo di dama?! No, maledizione! Qualcuno li ha informati! — Serdar era sempre più isterico e come per tappare una damigiana che sta straripando Amir gli poggiò una mano sulla spalla.

— Impossibile. Abbiamo organizzato la missione solo poche ore fa e ne abbiamo parlato solo tra di noi. — replicò Yusuf.

— Hanno beccato Varsos. —

I tre si voltarono a guardarla e Ràhel sostenne i loro sguardi con serietà.

— Non fa una piega. — mormorò Amir.

— Quindi è una vendetta. — disse Yusuf, ricordando il povero cane che il siriano e i suoi avevano pescato nelle macerie del Covo di Imperiale nell'autunno precedente. Cercò gli occhi di Amir, che però scosse la testa.

— No, stavolta è diverso. — disse. — Tutti quei soldati là di guardia significano una sola cosa: non vogliono che ce lo andiamo a riprendere. —

— Perciò finirà anche in modo diverso. — concluse Ràhel caricando la balestra.

 

L'edificio dove i Bizantini si erano asserragliati era una vecchia residenza nobiliare, si capiva dai decori sugli archi alle finestre e dal portico colonnato che precedeva l'ingresso girando ad elle verso il lato esposto a sud; aveva forma rettangolare e sviluppava in altezza di due piani. Una delle quattro facciate, come aveva fatto notare Ràhel, coincideva con la cinta muraria della città, ma quando gli Assassini si avvicinarono notarono che c'era lo stesso spazio sufficiente a far passare un uomo. Non c'era neanche una guardia a presidiare quel lato della palazzina e quando Amir arrivò in fondo al vicolo si affacciò in strada. Lì, invece, nel chiarore di due fiaccole si scaldavano davanti al braciere ben tre uomini armati. Il siriano studiò con attenzione i rigonfiamenti sotto le loro mantelle pesanti e capì che uno di loro portava una balestra leggera simile a quella di Ràhel, mentre gli altri due avevano spade comuni e forse qualche coltello nei gambali. Mentre percorreva il vicolo all'inverso per tornare verso il punto di raccolta con gli altri Assassini, si accorse di qualcosa che non aveva notato prima. Era acqua e sembrava scorrere dentro la pietra solida del muro di cinta. Amir vi poggiò una mano e continuò a camminare, sentendo la corrente  crescere d'intensità sotto ai polpastrelli man a mano che avanzava, finché, più o meno a metà del vicolo, il muro finì improvvisamente e la mano affondò nell'oscurità. Il rumore dell'acqua era fortissimo.

 

— No, non posso fare nulla. —

Finalmente Ràhel abbassò la balestra, dopo un tempo infinito trascorso a puntare il mirino sul tetto del palazzo dove i tre bizantini si spostavano in continuazione senza fornirle neanche l'ombra di un bersaglio pulito.

Yusuf, con un ginocchio a terra al suo fianco, sospirò. Si era alzato il cappuccio sulla testa come non faceva da anni e solo perché aveva incominciato ad abbassarglisi l'udito, tanto si erano congelate le orecchie. — Ci vorrebbe un'esca. — disse a un tratto. Scambiò un'occhiata con Serdar alle sue spalle, ma quello distolse lo sguardo quasi subito, tornando a studiare gli spostamenti delle guardie bizantine in strada.

— La Gilda dei Ladri è troppo… — disse Ràhel.

Il Maestro la interruppe. — Non se ne parla. L'avete sentito, Amir, no? Un paio di calzari in più… —

— Non ti fidi della discrezione di Latif? — gli chiese Ràhel, alzandosi in piedi per sistemare la balestra sotto la mantella. — O di Latif e basta? —

In sottofondo, il borbottio di Serdar che diceva: "E poi sei tu il Maestro… perciò decidi tu come si fa la missione…"

Ma Yusuf finse di non averlo sentito e roteò gli occhi al cielo. — Seriamente, Ràhel. Non voglio coinvolgere nessun altro in questa storia. — quando però tornò a guardarla, notò che l'Assassina fissava un punto tra i tetti vicini e seguì il suo sguardo.

— Parli del Diavolo… — disse Serdar, rompendo il silenzio pieno di sgomento.

Nel frattempo Amir si era riunito a loro scalando la palazzina sul lato opposto. Disse di aver trovato un accesso discreto al Covo ma quando anche lui si accorse che avevano compagnia, parve esserne l'unico entusiasta e non si trattenne dal ringraziare il suo Dio.

 

— Non mi sento più le dita dei piedi. — sbottò d'un tratto Serdar mentre procedevano con l'acqua gelida alle caviglie.

Yusuf, in testa al gruppo con una torcia, rispose senza voltarsi: — Non dirmi che avresti preferito fartele tagliare da tutti quei Bizantini là fuori ad aspettare solo noi. —

— Forse sì, Maestro. — bofonchiò l'altro.

Amir si fermò, bloccando anche chi era dopo di lui, e allungò una mano a stringere la spalla di Yusuf davanti a sé. — La torcia. — disse solo e il Maestro la fece annegare nell'acqua. L'oscurità piombò di colpo mentre una trentina di passi più avanti una nuova fonte di luce fendeva le tenebre, delineando la figura, piccola per la distanza che li separava, di un uomo armato e in uniforme. Questi sollevò la torcia che aveva con sé nella loro direzione e gridò: — Chi c'è?! — mentre la mano libera correva all'elsa della spada.

Ràhel aveva già liberato la balestra dalla mantella quando Amir le sfiorò appena un braccio, intimandole di attendere. In fondo al gruppo, Serdar fece un'imitazione perfetta di un ratto e l'uomo parve rilassarsi: abbassò la torcia e lasciò ricadere la mano libera lungo il fianco. Appena quello diede loro le spalle, Amir liberò il braccio della ragazza.

Solo un leggero vibrare di corda e il fruscio di una piuma.

Videro la torcia cadere in acqua, attesero qualche istante nel buio e nel silenzio più totale e poi raggiunsero il cadavere. Un quadrello pennato piantato nella nuca, gli occhi ancora aperti. Lo perquisirono, ma non trovarono nulla di interessante a parte un gingillo appeso al collo: una comune croce latina intagliata in un dischetto d'avorio.

Ràhel, partita in avanscoperta appena avevano fatto secco il bizantino, tornò in quell'istante dicendo che svoltato l'angolo (e indicò da qualche parte nell'oscurità) erano ufficialmente dentro il Covo Templare.

 

— Ce l'hai ancora un po' di vino? —

— No, mi spiace. —

— Non raccontare balle, dai! Passamelo o ti pesto a sangue. —

I suoi ragazzi erano in posizione dall'altra parte della strada, Latif li distingueva appena nascosto nel covone di fieno, e attendevano il suo segnale. Il Ladro aveva aspettato di vedere gli Assassini scomparire nel vicolo che li avrebbe condotti alla terme del palazzetto e poi aveva iniziato a contare per dar loro il tempo di riuscire ad insediarsi nel Covo bizantino, prima che là fuori scoppiasse l'Inferno.

E Latif aveva un'idea tutta sua dell'Inferno.

— Allora, questo vino?! —

— Non lo trovo, amico. —

— Non prendermi per il culo! —

— Ti dico che non ce l'ho più! È… scomparso! Credimi! —

— Credimi un paio di palle! Vieni qua e fatti strizzare, così vediamo da dove ti salta fuori! —

— Non t'avvicinare, stronzo! —

La rissa era incominciata e la conta di Latif andava avanti, mentre il ladro si godeva lo spettacolo dal torpore della paglia e ogni tanto prendeva un sorso.

 

Le piccole terme private del palazzo erano collegate alla rete acquifera della città attraverso uno stretto canale sufficiente a farli passare, ma gli Assassini avevano capito che si trattava di qualcosa non esattamente legale, insomma, perché vi si accedeva direttamente dalla strada. Forse più che di vere e proprie terme si trattava di un'uscita di servizio voluta dal proprietario della tenuta, che secondo le loro fonti era morto nel terremoto con tutti gli eredi. Doveva essere stato allora che i Bizantini vi si erano insediati, approfittando del caos di quei giorni dell'Apocalisse in cui niente era di nessuno e tutto era di tutti. La facciata esterna aveva conservato miracolosamente la sua integrità, ma l'interno era stato devastato e i Bizantini non si erano certo dati una gran pena per rimetterlo a posto. I saloni erano disseminati di detriti e invasi di impalcature. Calcinacci, mattoni, tegole e vetri rotti facevano capolino ovunque.

Amir e Serdar avevano raggiunto il pian terreno, passando attraverso una botola che collegava le "terme" alla cantinetta soppalcata. Lì avevano trovato ad attenderli solo due uomini intenti in una partita a scacchi, del quale ad ogni mossa schernivano i pezzi del gioco perché diversi da quelli "occidentali" con cui erano abituati.

— E questo sarebbe un Vescovo? A me pare più un mulattiere! —

Era stato così facile neutralizzarli che Amir non ci aveva neppure provato gusto. Avevano occultato i cadaveri dietro un muro di sacchi di iuta e solo in quel momento si erano accorti che la cantina era piena di materiale bellico. C'erano dozzine di barili di polvere da sparo e tante casse d' armi da favorire un esercito. Prima di lasciare la cantina, Serdar gliene aveva indicata una piena di esplosivi simili a quelli che stavano costruendo con l'aiuto di Piri.

 

Al pian terreno la situazione era ben diversa. C'erano in tutto quattro uomini, dei quali soltanto uno non sembrava armato fino ai denti, portando giusto una spada corta legata al fianco. Yusuf e Ràhel dovevano trovare il modo di salire al primo piano senza ingaggiare battaglia. I detriti sparsi sul terreno facevano di ogni passo una scommessa, ma i pezzi più grossi offrivano ottimi ripari e i due Assassini, favoriti dalla penombra, cominciarono a muoversi con cautela verso le scale.

Latif se la sta prendendo comoda, pensò Yusuf, ma proprio in quell'istante fece capolino nel salone una guardia giunta di corsa dal cortile.

— La Gilda dei Ladri ha ingaggiato coi nostri sul lato ovest! Ci servono rinforzi! —

— Ratti schifosi! —

— Se ne pentiranno amaramente! —

Due dei quattro uomini seguirono la guardia fuori dal palazzo.

Ràhel scattò, attraversando il salone in corsa, e si avventò come una lince sul più distante degli uomini rimasti a presidiarlo. L'altro avvertì lo spostamento d'aria e si voltò, le dita già strette attorno all'elsa della spada, ma fece solo in tempo a prendere fiato prima di ritrovarsi la lama di Yusuf nella gola. I due Assassini si scambiarono un'occhiata di ammirazione reciproca, dopodiché occultarono i cadaveri dietro i resti di una tenda nell'angolo più buio. Nel frattempo Amir e Serdar li avevano raggiunti, comparendo nel salone da una porticina accanto al camino diroccato, e salirono tutti assieme le scale di pietra che portavano al secondo piano. A metà della rampa Serdar fece due passi sul muro e saltò sul grande lampadario che pendeva sopra le loro teste con l'agilità di un gatto, e da lì zompò dentro una stanza del secondo piano attraverso un buco nella parete. Amir arrivò in cima alle scale e svoltò a destra; Ràhel e Yusuf tennero la sinistra per poi dividersi a loro volta sull'ingresso per la biblioteca, la cui porta era solo accostata. Voci dall'interno ma Yusuf non fece in tempo ad ascoltare perché la sagoma di una guardia armata si delineò improvvisamente nell'angolo del suo campo visivo, in fondo al corridoio. L'Assassino lanciò un pugnale, d'istinto e quasi alla cieca, e Amir arrivò in tempo ad abbracciare il cadavere per adagiarlo a terra senza chiasso.

Yusuf distingueva solo due voci, ma non era certo che nella biblioteca ci fossero altrettanti uomini armati. Pensò di lanciare una bomba fumogena e fare irruzione nella stanza favorito dalla cortina di fumo, ma l'esplosione avrebbe attirato l'attenzione delle guardie ancora fuori dal palazzo che in un batter d'occhio si sarebbero riversate lì come formiche, a meno che Latif non avesse fatto bene la sua parte… e quella notte Yusuf non era in vena di scommesse. Guardò Amir, inginocchiato al suo fianco, che spiava concentrato dallo spiraglio della porta. Una solitaria goccia di sudore gli scintillava sulla tempia.

Quando Amir era entrato nello studiolo di Ishak, qualche ora prima, e aveva detto di essere riuscito a rintracciare la mano che tendeva i fili della rivolta bizantina, la determinazione di sempre brillava nei suoi occhi proprio come adesso brillava quell'unica goccia di sudore… Dal momento in cui aveva autorizzato la missione, Yusuf non aveva dubitato neppure un attimo di lui, ma ora quella goccia, così insignificante, lo faceva riflettere sul rischio che avevano corso sfidando la sorte e le forze bizantine più alte di numero rispetto alle loro aspettative. Uno di loro era stato fatto prigioniero o forse ucciso. I più alti ranghi della Confraternita e il Maestro stesso erano impegnati in quella missione che si stava tessendo tra due foglie secche. Una folata di vento avrebbe potuto spazzarli via tutti.

Yusuf scacciò quei pensieri prima di attirare la disfatta che tanto lo angosciava e si concentrò sui due uomini  che parlavano nella biblioteca.

Il loro bersaglio di quella notte era un uomo senza nome e senza volto, un mercenario che aveva servito principi e Visir, tra cui gli stessi Davud e Mesih Pasha, e che ora guidava la rivolta bizantina contro la Sublime Porta con rabbia, muovendo contemporaneamente ai danni degli Assassini che per qualche ignoto motivo sembrava conoscere bene e odiare con tutto se stesso...

— Il problema non è il maltempo, ma i pirati. Quelle acque ne sono infestate. Abbiamo già perso due navi. Dobbiamo spostare gli uomini via terra. —

— E rallentarci ancora di più?! No, è inaccettabile. Gli Assassini sono deboli ORA. Ma già ORA lo sono meno di quanto lo erano pochi mesi fa. Non abbiamo tempo da perdere. —

— Sono in gioco vite umane. —

— Sacrificio accettabile. —

Yusuf indietreggiò, scostandosi bruscamente dalla porta come se scottasse, e appoggiò la schiena contro la parete opposta. Lì rimase a lungo immobile, pallido e muto come una statua, finché Amir non se ne accorse.

"Che c'è?" chiese il siriano muovendo solo le labbra.

Ma Yusuf non fece in tempo a rispondere.

 

Latif si scagliò sull'uomo-armadio che aveva davanti, arrampicandosi sulle sue braccia e gambe nerborute come sui rami di un albero, e una volta arrivato in cima sedette sulle large spalle. Sentendo la fredda lama premere sulla sua gola, l'uomo si irrigidì all'istante e mollò la spada corta che aveva nella mano destra. Attorno a loro, Latif vide che i suoi abili fratelli avevano costretto alla resa allo stesso modo o in modi simili i tre quarti delle forze avversarie, e non poté non compiacersene un po', sorridendo soddisfatto. Solo due damigelle bizantine erano ancora senza un cavaliere: un omino tozzo dall'elmo un po' stretto che tremava come una mosca ferita e un greco dalla faccia smilza come un chiodo. Quest'ultimo era il più vicino dei due all'ingresso dell'edificio e si buttò oltre la porta prima che qualcuno dei ladri di Latif potesse impedirglielo.

Yusuf mi ucciderà.

 

Ràhel estrasse la lama celata dalla nuca dell'unica guardia che aveva sorpreso a presidiare la camera dove scoprì che i Bizantini tenevano Varsos. L'Assassino era sdraiato sul pavimento col cappuccio calato, una zazzera riccia inconfondibile, privo di sensi e arrotolato in un lenzuolo macchiato di sangue. La ragazza si chinò su di lui e iniziò a scuoterlo, ripetendo il suo nome. Dietro di lei comparve Serdar.

— È morto. — disse.

— No. — obbiettò Ràhel, passando in rassegna la veste lacerata di Varsos in cerca dei segni del colpo mortale, ma quello che trovò furono solo costole incrinate, contusioni d'ogni genere e un braccio rotto.

Serdar s'inginocchiò accanto a lei e allungò una mano dietro al collo del ragazzo.

— È rotto. —

Fiare (bestie)… — Ràhel serrò i pugni, sollevandosi in un fruscio della mantella che scacciò all'indietro con un gesto nervoso per impugnare la balestra già carica. Poi uscì dalla stanza.

 

La guardia sbucò dalle scale come dal nulla e quando vide i due Assassini accucciati davanti alla porta della biblioteca si bloccò trattenendo il fiato per un lungo attimo e Amir e Yusuf non si accorsero in tempo di lui, che l'attimo successivo buttò fuori l'aria che aveva nei polmoni tutta in una volta.

— GLI ASSASSINI! SONO QUI! —

Serdar gli piovve addosso gettandosi dalla rampa delle scale e Ràhel si piazzò sul pianerottolo alle sue spalle, balestra spianata, pronta ad accogliere l'orda di guardie. Ormai il danno era fatto.

Amir e Yusuf si scambiarono giusto un'occhiata; poi si sollevarono il bavero sopra il naso e fecero irruzione nella biblioteca, gettando una bomba fumogena ciascuno. L'esplosione sincronizzata degli ordigni produsse un gran botto e la cortina di fumo si sollevò all'istante, inghiottendoli. Tra colpi di tosse e bestemmie, Yusuf contò rapido le figure evanescenti attorno a sé (cinque… no, sei uomini) e capì subito dalla stazza, alta e massiccia, chi di loro era il suo bersaglio. Fece per gettarglisi addosso, ma qualcosa gli colpì dolorosamente un fianco, costringendolo a cadere con un ginocchio sul tappeto. Qualcuna delle guardie presenti, lottando contro i colpi di tosse, agitava le armi, di qualsiasi tipo, verso qualunque cosa si muovesse. Yusuf aveva avuto la fortuna di ricevere solo il colpo dell'asta di una lancia e quando il suo aggressore fu a portata di braccio non esitò a colpire, affondando la lama celata.

 

Quell'attimo di distrazione in cui Latif aveva visto fuggire la guardia bizantina dentro il palazzo gli era stato fatale. L'uomo che aveva sotto di sé era riuscito ad assestargli una testata sul mento e Latif aveva visto le scintille mentre cadeva all'indietro da quasi due metri d'altezza. L'impatto col terreno gli aveva strappato un gemito sonoro che aveva attirato lo sguardo dei suoi fratelli, e qualcuno si era fatto scappare il controllo del proprio ostaggio. I Bizantini reagirono senza risparmiare neanche un colpo e in poco, pochissimo tempo la situazione fu completamente ribaltata.

Latif riuscì a mala pena a mettersi in piedi. La vista annebbiata e le orecchie piene di suoni. Qualcuno gli urlava di correre.

Un'esplosione.

Mentre si ritiravano, davanti a sé Latif vide solo un pugno dei suoi. Lottò per non cedere alla tentazione di voltarsi, ma poi, animato da una furia cieca, piantò i piedi a terra e tornò indietro, o quantomeno ci provò, perché uno dei Ladri se ne accorse e lo bloccò in tempo per un braccio. Ci vollero tre uomini per tenerlo fermo e quattro per riportarlo verso la Gilda, allontanandolo dal Covo dei Bizantini che altrimenti sarebbe stata la sua tomba. La tomba di tutti loro.

 

Il numero di guardie che accorsero sulle scale fu tale da suggerire a Ràhel che Latif e i suoi avevano lasciato la battaglia e con numerose perdite. Il più vecchio amico di Yusuf non avrebbe mai battuto in ritirata se non per un buon motivo, e quale motivo migliore del sangue dei propri fratelli colato a fiotti sulle fondamenta di quel palazzo? Per quanto ne sapevano gli Assassini, poteva esserci persino il cadavere del capo dei Ladri in persona, steso sulle gradinate all'ingresso; che adesso, completamente sguarnito, appariva perciò come un lusinghiero invito alla fuga…

Non appena Ràhel ebbe scagliato il primo colpo di balestra, Serdar la superò, gettandosi nella mischia con la lama corta in una mano e la lama celata sguainata al polso dell'altra per dare tempo alla ragazza di ricaricare. Insieme riuscirono a tamponare l'arrivo dei Bizantini dal piano terreno, ma poi le guardie sul tetto si calarono nell'edificio attraverso le finestre del terzo piano e gli Assassini capirono che ben presto si sarebbero ritrovati stretti tra due fuochi, impossibilitati a portare avanti il loro giochetto. Mentre lo scalpiccio di piedi sopra le loro teste si faceva sempre più forte, Ràhel caricò il penultimo quadrello che le restava e lo scoccò contro la parete delle scale, solo ritardando la salita dei Bizantini che ora si tenevano fuori dalla sua portata. Questo diede il tempo a Serdar di piantare una bomba a cavo sul pianerottolo e ai due di ripiegare verso la biblioteca, prima di sentire l'esplosione seguita da urla strazianti.

 

Amir si era aperto un varco nella nebbia della bomba fumogena, come da piano, e puntò verso i due uomini attorno al tavolo con le mappe. Yusuf però era rimasto indietro, trattenuto in combattimento dalle tre guardie che una volta smesso di tossire e lacrimare si erano gettate su di lui come se fosse il solo intruso lì dentro. Costretto ad accettare l'invito a quel ballo, Yusuf estrasse il lucente kijil di Teoman dal fodero: disarmò il primo, colpì mortalmente il secondo con un fendente lungo il torace e riuscì ad allontanare il terzo uomo da sé piantandogli una ginocchiata in mezzo al cavallo.

Amir estrasse la lama celata dal collo del secondo ufficiale bizantino in tempo per pararvi l'affondo di spada del leader della rivolta, che a differenza dell'altro avrebbe venduto cara la pelle. Il siriano indietreggiò di un passo, e riprendendo fiato osservò attentamente il suo avversario: un uomo sulla quarantina, stazza possente, muscoli allenati e molto più alto di lui, circa un metro e novanta; non indossava parti di armatura tranne per uno spallaccio e un cinturone a cui era appeso il fodero della spada, una lama non comune, sottile e dal taglio a mezzaluna. La pelle del viso era verdastra e rovinata, i capelli erano neri e corti e gli occhi, sottili e allungati, si nascondevano ben affossati sotto un paio sopracciglia folte. Una barba scura di qualche settimana gli ricopriva le guance scavate, ma senza riuscire a nascondere una profonda cicatrice biancastra che gli attraversava il volto passando per la palpebra destra.

A quel punto lo scontro riprese e la spada e la sciabola esplosero in una cascata di scintille, quando il capo della rivolta tentò per primo un affondo che il siriano parò quasi con facilità, ma il suo avversario rispose alla parata con altrettanta maestria, scivolando via senza far vibrare la lama, e ricaricando verso di lui con una traiettoria incredibilmente perfetta. Amir provò a mirare più in basso, costringendolo ad allungare le braccia, ma l'altro incastrò le loro lame e ruotò su se stesso riuscendo, nella risposta, a scoprirgli un fianco. Amir lottò per ricacciare indietro il disorientamento e ricostruì con foga la sua guardia, ma questo mandò al suo avversario un chiaro segnale di difficoltà. Il bizantino partì con mezzo secondo di vantaggio e come dal nulla il maestro spadaccino Amir ibn Saad perse la presa sulla sciabola, che finì ai piedi di Yusuf mentre questi affondava il Kijil nello stomaco dell'ultima guardia con cui aveva danzato. Il luccichio nell'angolo dell'occhio richiamò la sua attenzione e Yusuf si voltò. Da una parte Amir, disarmato e irriconoscibile per via del cappuccio e del bavero ancora sollevato, e dall'altra il suo passato assetato di sangue, l'uno di fronte all'altro. Quando capì cosa stava per succedere, era troppo tardi.

Dönek trafisse Amir, affondando la lama nelle vesti che Maestro Assassino e Maestro della Confraternita avevano così simili da rendere quasi impossibile una distinzione. Dönek, invecchiato sopra ogni dire e avvolto nella porpora bizantina, si chinò a mormorare qualcosa nell'orecchio dell'Assassino e Amir spalancò gli occhi, gonfi di lacrime di dolore che tratteneva appena. Il metallo si era incastrato tra le costole, e Amir poteva sentirlo, gelido, continuare a premere. Con una spinta, poi un’altra ancora, Dönek ruppe quell’ostacolo, scavando tra i suoi organi finché la punta e buona parte della lama non riemersero dall’altra parte. Poi, con uno strattone, richiamò brutalmente la sua spada e guardò il corpo del siriano accasciarsi sul tappeto in una pozza di sangue. Dönek rilassò i muscoli delle braccia e lasciò pendere la spada mollemente al suo fianco. Il sangue fresco scivolava lungo il filo della lama e si raccoglieva sulla punta, dalla quale poi gocciava sul tappeto. Sulla faccia un'espressione indecifrabile, gli occhi gialli che nel combattimento avevano brillato di esaltazione e furia folle erano ora spenti, vuoti e freddi come una stanza dove l'inverno fosse libero di circolare.

Li separavano pochi metri, ma Yusuf non riusciva a muovere un muscolo. Il silenzio della sua mente era sconvolgente, suoni e immagini attorno a lui non erano altro che aria vuota e macchie di colore sovrapposte. Non c'era senso in ciò che aveva visto. Non poteva essere vero. Non poteva essere reale. Cose del genere, nemici o figure ancestrali che riemergevano dal passato si vedevano solo negli incubi dai quale ci si risvegliava nel cuore della notte, grondanti di sudore e alle volte urlando. Guardò Amir: era ancora vivo, ma respirava a fatica e il sangue si allargava sulle sue vesti e attorno a lui come un lenzuolo. Poi guardò Dönek, che girò appena la testa verso di lui, e i loro occhi rimasero incatenati per un istante infinito.

Ma quale incubo? Yusuf era sveglio ed era tutto vero.

Un'esplosione scosse l'intero edificio e fu in quel momento che Ràhel e Serdar comparvero sulla soglia della biblioteca.

Dönek non perse tempo e corse verso una parete coperta da tende, tuffandovisi contro. Le persiane della finestra nascosta dall'altra parte andarono in frantumi e Dönek, avvolto dalle tende che aveva portato con sé all'esterno dell'edificio, atterrò in strada in una pioggia di schegge e pezzi di legno. Le due esplosioni precedenti avevano già svegliato una gran fetta di vicinato, fatto abbaiare un numero anche maggiore di cani e avvertito una dozzina di pattuglie di Giannizzeri, alcuni dei quali si trovavano ora ai piedi del palazzo, e così, quando Dönek si liberò delle tende che lo avvolgevano mostrando i colori bizantini alla luce delle fiaccole dei Giannizzeri, quelli sguainarono i kijil e fecero per accerchiarlo, ma l'uomo riuscì ad aprirsi un varco, cavandosela giusto con una brutta botta, e corse via nella notte.

— Yusuf, no! — il grido di Ràhel, mentre Serdar si chinava sul corpo esanime di Amir e il loro Gran Maestro si lanciava all'inseguimento saltando dalla stessa finestra.

 

Dönek era veloce così come Yusuf lo ricordava: niente di quello che aveva addosso lo rallentava nella corsa o lo arrestava nei salti, sempre lunghissimi e calcolati con una precisione matematica per la sicurezza con cui atterrava sui tetti. Sembrava riuscire a non scivolare sul ghiaccio solo grazie ad ali invisibili e membranose di demone che portava sulla schiena e che la maledizione che gli era stata inflitta quand'era bambino gli aveva donato. Nonostante frapponesse diversi impedimenti tra loro, Yusuf trovava sempre una strada alternativa, ma non riusciva a guadagnare terreno. L’Assassino conosceva quella città come le sue tasche, ormai, ma Dönek, che aveva continuato a viverci pur nella condizione di reietto, poteva vantare nelle fughe un’esperienza ben maggiore. Tra un salto e l’altro riaffiorava un nuovo fantasma, il cui ricordo spingeva con forza il cuore contro il petto. Da ragazzi avevano guardato lo stesso cielo, respirato la stessa aria di guai; erano sfuggiti alle stesse guardie, avevano mangiato dallo stesso piatto come fratelli… eppure la competizione, la rivalità di quella corsa li avvicinava come non mai…

Ma l'incubo stava per finire. Quella volta Yusuf non gli avrebbe dato la possibilità di sottrarsi al destino, di scomparire e riemergere ancora dalle ombre del passato. Quella notte Dönek avrebbe cessato di esistere e con lui i dolori e i rimpianti che si trascinava dietro da una vita.

Fu con queste premesse che raggiunsero i resti dell'antico Ippodromo romano, nel cuore del distretto di Imperiale sud. La corsa attraverso la città aveva svuotato i polmoni e distrutto i muscoli di entrambi e perciò si fermarono quasi nello stesso momento a riprendere fiato, l'uno a pochi metri dall'altro come pochi attimi prima nella biblioteca del Covo bizantino. Yusuf si appoggiò con le mani alle ginocchia senza distogliere lo sguardo dalla schiena dell'altro e si accorse di tremare dalla stanchezza, di avere le orecchie tappate e vederci quasi doppio. Il cuore gli batteva all'impazzata nel petto e la gola sembrava in preda alle fiamme di un incendio. Poi d'un tratto Dönek si voltò, i loro sguardi s'incrociarono di nuovo, e scoppiò a ridere, una risata così acida da stappargli finalmente le orecchie. Yusuf si sollevò lentamente, sentendo ossa scricchiolare e muscoli supplicare pietà, e ricominciò a muoversi, prima zoppicando e poi correndo verso di lui. Dönek rimase ad attenderlo dov'era e quando Yusuf sguainò il kijil con una sicurezza invidiabile, continuando ad avanzare verso di lui ora coi passi decisi di un boia, il sorriso di Dönek si tramutò in una smorfia grottesca, mentre estraeva la spada ancora macchiata del sangue di Amir.

— Sono stufo di rincorrerti, maledetto bastardo! — gridò l'Assassino, sgolandosi. — Affrontami! —

Quando Yusuf l'ebbe raggiunto e lo scambio di colpi iniziò, capì di essere spacciato. Dönek lo superava in altezza di pochi centimetri, ma la sua massa muscolare era infinitamente più sviluppata, l'ombra che la luna proiettava sulla ghiaia dell'Ippodromo più ampia della sua quasi aspettasse di inghiottirla. Dopo neanche un minuto Yusuf perse il kijil, che schizzò sulla ghiaia facendo scintille, e ricevette un pugno che lo fece ruotare su se stesso facendogli perdere l'equilibrio, ma Dönek non gli concesse neppure il lusso di cadere e trovare sosta a terra, e afferrandolo per le vesti lo scagliò contro il duro travertino delle gradinate. Yusuf non fece in tempo a prepararsi e il colpo fu violentissimo: sentì il sangue colargli sul mento dal labbro spaccato e lungo il collo da un punto imprecisato della testa. Con la vista appannata, vide Dönek gettare via la sua spada. Aveva scoperto che sentire le ossa rompersi contro le sue nocche gli dava molta più soddisfazione, e quindi cominciò ad assestargli una serie di pugni allo stomaco, facendo lunghe pause tra un colpo e l'altro perché la stanchezza cominciava ad indebolirlo. Fu proprio durante una di quelle pause che Yusuf riuscì a frapporre una gamba tra loro e a calciare via il suo assalitore. Dönek si risolse in una capriola all'indietro sul terriccio, inciampando nella sua stessa mantella di cui si sbarazzò all'istante, e quando si fu rimesso di nuovo in piedi, dopo giusto un attimo di esitazione, si gettò verso le gradinate in cerca della fuga.

— Non di nuovo! — Yusuf gli si fiondò dietro e riuscì a raggiungerlo quasi sulla vetta; fece scattare la lama uncinata, che s'incagliò nelle vesti dell'altro aprendo un grosso squarcio, ma non appena se ne accorse, Dönek gli afferrò la mano, gli rivoltò dolorosamente il braccio e tra urla lancinanti lo attirò a sé. Poi, con gli occhi fuori dalle orbite per lo sforzo di tenere l'Assassino sospeso sopra le alte gradinate dell'Ippodromo, disse:

— I Templari mi hanno aiutato più di quanto abbia fatto tu, perciò non ho rimpianti per quello che ho fatto per loro! —

— Che cosa hai fatto, Dönek?! —

Un'ombra scurì il giallo dei occhi, solo un attimo di esitazione, ma poi i muscoli delle braccia cedettero.

— Addio, Yusuf! —

E lo lasciò cadere.

 

Si riallacciò la mantella sulle spalle e recuperò la sua spada, che però Dönek non rinfoderò subito. Si voltò a guardare il corpo di Yusuf in posa disfatta sul terriccio dell'Ippodromo. Era solo svenuto, il torace si alzava e si abbassava con regolarità dentro la lana pesante dell'uniforme degli Assassini e una nuvoletta di condensa appariva e scompariva sotto al suo naso. Mancavano ancora molte ore all'alba, ma quella sarebbe stata la notte più fredda di tutto l'inverno. Dönek inspirò l'aria gelida a pieni polmoni e poi andò verso di lui..

— Non sono stato io ad uccidervi, Yusuf. Nessuno di voi. Tua madre, tuo padre, i tuoi amici, e ora te. E' stata la tua Confraternita. — sollevò la lama, sospendendola sopra il cuore dell'altro. — Ti ha ucciso ciò che sei, ciò di cui fai parte, non io... — gli tremavano le mani mentre alzava ancora di più la spada, trattenendo a stento le lacrime che adesso gli annebbiavano la vista. — Non io... non io… — ripeteva tra i singhiozzi. — Perdonami, fratello… —

Il sibilo di un dardo da balestra gli fischiò nelle orecchie e quando il quadrello apparve come per magia nella sua spalla destra, Dönek lasciò cadere la spada con un grido e corse via senza guardare indietro. Quando si fu messo al riparo tra le rovine dell'Ippodromo, Dönek estrasse il quadrello dalla sua carne con un gesto secco e contemplò la sua coda rossa come il sangue giusto un istante prima di lanciarlo lontano nella notte. Dopodiché si alzò e imboccò il vomitorio più vicino, una piccola galleria scavata tra le gradinate e quasi quasi invisibile che gettava direttamente in strada.

Sul confine del distretto riconobbe un blocco bizantino, oltre il quale gli Assassini non avrebbero osato volare. Non aveva più fiato, forze, armi. Una vedetta del blocco lo vide e i bizantini cominciarono ad allarmarsi, ma Dönek  uscì dalle ombre dei palazzi con l'aquila a due teste ben in vista sul petto. Zoppicò fin in braccio ai suoi fratelli che lo trascinarono dentro un'abitazione e poi nel cuore della cantina, dove tre uomini parlavano attorno a un tavolo. Fu fatto sedere, mentre la vista gli si appannava sempre più e le forze non gli bastavano neppure per sedere dritto. Una voce gli chiedeva cos'era successo. Qualcuno lo stava medicando. La spalla bruciava. La cicatrice, quella che aveva in faccia, bruciava. Bruciava da vent'anni. Chiuse gli occhi e il suo incubo ricorrente si fece largo nella sua mente.

 

C'è un ragazzo, inginocchiato sul pavimento della locanda. Perde sangue dalla faccia e ci tiene le mani premute per bloccare l'emorragia. Ha smesso di gridare già da un po' ma la gola e gli occhi, che lacrimano sale, gli bruciano ancora. Quattro uomini avvolti in lunghe mantelle lo superano senza degnarlo di uno sguardo e si avvicinano all'uomo immerso tra cuscini sgargianti; gli manca un piede e al suo fianco un moro sta ripulendo con una pezza la lama di un pugnale.

Gli uomini hanno fatto un lungo viaggio, dicono, stanno cercando i cappucci bianchi. L'uomo senza un piede risponde di non averne mai visti, congeda malamente i nuovi arrivati e poi, indicando il ragazzo chino a terra, dice al suo moro di finire il lavoro. Il giovane alza la testa e grida, quasi senza più voce, ingoiando lacrime e sangue: sa dove trovare la casa di un cappuccio bianco, li condurrà da lui al solo prezzo della sua vita. Due uomini afferrano il ragazzo per le braccia e l'uomo senza un piede cerca di riprenderselo, ma rotola giù dal suo trono di cuscini come un tronco; da terra, ordina al suo moro di fermarli, ma uno degli uomini estrae un lungo spadone con una croce sull'elsa e taglia di netto la testa allo scagnozzo.

L'uomo senza un piede è ammutolito e con lui tutta la locanda. Il ragazzo sfigurato si volta a lanciargli un'occhiata indecifrabile: odio, arroganza, vendetta; ma poi sviene. Uno dei quattro uomini lo prende in braccio prima che tocchi terra mentre gli altri aprono la porta. L'uomo senza un piede, in silenzio, li guarda andare via.

 

— Orhan! —

Dönek spalancò gli occhi. Raramente si sentiva chiamare in quel modo: era il suo vero nome e anche l'unico con cui era conosciuto tra i suoi confratelli, che adesso lo circondavano. Al suo fianco il medico che viveva in quella casa stava ripulendo gli attrezzi con cui lo aveva ricucito. Una larga fasciatura pulita gli attraversava il torace correndo dalla spalla ferita al fianco opposto. Il viso era imperlato di sudore e i capelli corti si erano attaccati alla fronte. Muscoli di braccia e addominali tesi allo spasimo.

— Il dottore vi ha ricucito un taglietto, ma non avete una bella cera, signore. — disse un bizantino. — Che vi è successo? Dobbiamo informare il Maestr…? —

— No! — Dönek si alzò. — Gli parlerò di persona. Dove si trova? — cominciò a rivestirsi.

— A-a-a palazzo, signore, ma i Giannizzeri non vi lasceranno passare. Possiamo organizzare un incontro e… —

— Troverò il modo. — si allacciò addosso delle armi, ma più leggere, e riempì una scarsella di monete che prese da un forziere. — Che il Padre della Comprensione vi protegga. — disse sulla soglia, stringendo una spalla ad uno di loro. Poi sparì nella notte e lasciò la città.

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Capitolo 47
*** Capitolo 46: Sole d'inverno ***


 

 











l sole stava sorgendo nel cielo limpidissimo, scansando le colline come coperte e specchiandosi sulle acque fredde del Corno d’Oro. In lontananza erano ben visibili, grazie all’aria secca e tersa tipica dell’inverno, le navi che attraversavano il Bosforo.

Ad ogni ora del giorno, tutti i giorni di tutti i Calendari del Mondo, Istanbul era la testimone chiassosa di quei silenziosi velieri che andavano e tornavano dal Kara Deniz con a bordo spezie, pietre, minerali e ricchezze d’ogni sorta.

Lentamente anche la città riprese vita: aprirono bancarelle e botteghe, la gente sbocciò in strada come i fiori nei campi, dai minareti si diffusero le litanie religiose e il vociare crebbe fino a diventare un miscuglio di suoni indecifrabili. La gente di Costantinopoli combatteva il freddo con pelli spesse, drappi di lana, pellicce abbondanti e stivali e guanti e corpetti imbottiti; ma la fresca insalata di colori e tessuti ostentava il suo sapore intenso e particolare senza riserve; il Crocevia del Mondo era caldo e vivo anche nel gelido inverno.

— Serdar lo ha portato a Costantino sud. — aveva detto Ràhel.

Yusuf aveva percorso quel tragitto correndo centinaia di volte, ma era stato costretto a procedere lentamente, tormentato dalle fitte alle costole rotte che gli rendevano faticoso il respiro e dal dolore alle altre ferite che Dönek, potesse crepare mille volte e bruciare all’inferno fra infiniti tormenti, gli aveva inferto. Il suo corpo esausto gli ordinava di fermarsi, ma la volontà lo spingeva ad andare avanti a tutti i costi. La volontà. L’ansia. Il senso di colpa. Avrebbe voluto poter volare invece di trascinarsi come un relitto per le strade ormai affollate, dove la neve caduta nella notte era ormai ridotta a una poltiglia scivolosa.

Ràhel aveva camminato al suo fianco in silenzio, il cappuccio calato sulle spalle e la treccia disfatta, la stessa stanchezza e preoccupazione sul bel viso altero. Yusuf aveva notato la sua tentazione di farglisi accanto per sostenerlo le volte che si era fermato a riprendere fiato, tremando nei vestiti bagnati e l’aveva ringraziata in cuor suo per averle resistito. Quella concessione al suo orgoglio già abbastanza ferito gli aveva fatto raddrizzare le spalle e procedere più rapido, almeno per un po’. Ad ogni passo aveva rivisto quella dannata lama trapassare Amir e il dolore era riecheggiato in tutto il suo corpo, come se fosse stato lui stesso ad essere colpito. Ad ogni passo si era sforzato di allontanare la speranza che gli si arrampicava nella mente e di prepararsi al peggio, ma ogni volta che era riuscito a spingerla fuori, quella si era riaffacciata prepotente e instancabile e così non era stato pronto quando il viso grave di Sami lo aveva accolto sulla porta del covo.

La stanza gli parve gelida nonostante le alte fiamme del focolare, l’odore del sangue forte e nauseante. Ovunque bende e tamponi inzuppati, strumenti chirurgici abbandonati, la confusione che testimoniava l’urgenza di intervenire in fretta e il silenzio. Il corpo di Amir stava abbandonato sul tavolaccio, pallido e immobile, la ferita aperta che digrignava i denti dal suo fianco. Lo sguardo di Yusuf se ne allontanò quasi con orrore, spostandosi sul viso severo e lo rivide giovane e arrogante, mentre lo scrutava su un tetto del distretto Imperiale, il giorno del loro primo incontro.

— Mi dispiace, Yusuf. — La voce di Sami alle sue spalle. — Ahura Mazdā sa se ci ho provato.—

Il Maestro non rispose e con le gambe molli fece un passo verso il tavolaccio, incespicando e appoggiandosi ad esso nel tentativo di reggersi in piedi. Strinse il braccio di Amir, percependo sotto le dita i segni che le pieghe della stoffa della manica, sotto la polsiera, gli avevano lasciato sulla pelle. Sentiva come una nebbia avvolgere ogni suo pensiero, una rimbombante penombra assediargli i sensi, le forze che lo abbandonavano e non poté impedirsi di scivolare a terra come un sacco vuoto. Si accorse a stento di Ràhel, in ginocchio accanto a lui, che lo circondava col suo abbraccio, ne riconobbe solo il calore, che non gli diede alcun conforto. Si sentiva confuso e incredulo, stretto tra la smania di urlare e il desiderio di restare in silenzio per il resto della sua vita, schiacciato tra la disperazione e l’impotenza, artigliato dall’odio, furioso e oppresso dall’urgenza di dormire, dimenticare e non svegliarsi mai più.

Resistette. Se non l’avesse fatto Amir non gliel’avrebbe perdonato. Si rialzò con fatica, allontanando le braccia della sua donna e del medico che gli offrivano aiuto.

— Sami. — disse con voce rauca, ma da cui traspariva un’autorità insospettabile solo qualche attimo prima. — Ricuci quella ferita. — Senza una parola il medico mise mano ai suoi strumenti.

— Ràhel. — Gli occhi della donna lo fissarono grandi e lucidi. — Mandami qui Serdar. — Lei si dileguò oltre la porta. Yusuf la sentì riaprirsi pochi minuti dopo, udì un suono di passi e il lamento inarticolato di una donna. Si voltò e vide Nalan sfuggire alle braccia di Serdar, precipitarsi attraverso la stanza e poi bloccarsi, come impietrita, accanto al corpo di Amir. La sua mano tremava quando la posò sulla ferita che Sami aveva appena finito di ricucire. Ne percorse i punti ad uno ad uno con dita esitanti e poi si ritrasse, fuggendo da quella pelle ormai fredda che significava una cosa soltanto. Sembrava che il respiro le mancasse. Chiuse gli occhi scuotendo la testa, come a voler negare ciò che aveva davanti e poi si chinò su di lui, appoggiandogli le mani sul petto e avvicinando il viso al suo, come a voler cercare un segno che smentisse la realtà. Non trovandolo, finalmente pianse. Singhiozzava mormorando parole sconnesse, la fronte appoggiata a quella di Amir, le dita che ora artigliavano i suoi capelli corti, ora gli accarezzavano le guance. Serdar scambiò con Yusuf uno sguardo denso di disperazione, mentre Sami se ne stava in disparte, a testa bassa. Rimasero immobili, ad ascoltare quel pianto che scavava nelle loro anime, sottraendo loro le forze già esigue. Serdar si mosse verso Nalan, ma Yusuf lo fermò con un gesto e fu lui ad afferrarle le spalle per allontanarla delicatamente, ma con fermezza, dal corpo di Amir e la tenne stretta tra le braccia, in silenzio, aspettando che si calmasse.

— Spero che chi ha fatto questo sia morto soffrendo, Maestro. — sussurrò lei alla fine, alzando gli occhi nei suoi e trovandovi le lacrime che non era riuscito a trattenere. Yusuf tacque, il sapore amaro della rabbia che gli risaliva in gola.

— Non è così? — domandò Nalan.

— Non è così. — rispose Yusuf. Lei gli sbatté i pugni sul petto, strappandogli un gemito di dolore e poi gli afferrò la cinghia dello spallaccio, strattonandola, lo sguardo come un pugnale.

— Stai dicendo che quel bastardo è riuscito a scappare? — sbottò Serdar.

— Sì. Mi aveva messo alle strette e se non fosse arrivata Ràhel non ne sarei uscito vivo. Ma lei aveva più un solo quadrello… —

Şeytan…

— Dove eravate quando è fuggito? — chiese la donna senza staccare le dita dalla cinghia.

— Nalan… —

Lei diede un altro strattone, provocandogli un’altra fitta alle costole. — Dove eravate? — chiese ancora, alzando la voce.

— All’ippodromo. —

— Formo una squadra. — Si asciugò le lacrime con l’orlo della sua fascia e uscì dalla stanza come una furia. Serdar allungò un braccio per trattenerla.

— Lasciala andare. — disse Yusuf. — La seguirei io stesso se ne avessi la forza. — Si massaggiò il costato con una smorfia sofferente.

— Vado io con lei. —

— No.— Il Maestro distolse lo sguardo, per andarlo a posare sul viso di Amir. — Tu mi servi qui. —

 

 Come prescriveva la sua religione fecero scorrere l’acqua sul suo corpo, per lavarlo dal sangue e dalla polvere, lo cosparsero di olii profumati e lo avvolsero in tre sudari di candido lino. Alcuni membri musulmani della Confraternita recitarono la Salatul Janazah per supplicare il perdono e invocare la misericordia divina. Solo dopo la preghiera Yusuf permise a Sami di medicare le sue ferite e di fasciargli il costato con una benda che quasi gli toglieva il respiro. Mandarono messaggi a tutti i covi e alla Gilda dei Ladri, annunciando la morte del secondo in comando della Confraternita Ottomana e comunicando una descrizione accurata di chi l’aveva ucciso, con l’ordine di passare la voce ad ogni spia ed infiltrato. Colombi viaggiatori forniti delle stesse informazioni furono inviati verso ogni sede conosciuta dell’Ordine, uno stormo che per qualche attimo parve oscurare il cielo sopra Galata. Poi aspettarono. Che il sole si facesse più forte e che Nalan tornasse dalla sua caccia infruttuosa.

Yusuf non si era dimenticato che quella notte aveva fatto un’altra vittima. Il corpo di Varsos era stato prelevato dalla dimora bizantina e trasportato al covo poco dopo che lui e Ràhel vi erano giunti. Dopo essere andato a rendergli il doveroso omaggio si arrampicò a fatica per la ripida scala che portava al soppalco e quando finalmente vi arrivò, trovò Ràhel e Serdar addormentati sui cuscini davanti al camino acceso. Sembravano essere crollati all’improvviso, ai due lati opposti di quel mucchio colorato, lei rannicchiata su un fianco, un braccio ripiegato sotto di sé, l’altro allungato sul tappeto, i ricci annodati a nasconderle il viso, lui sdraiato a pancia in giù, le mani infilate sotto il cuscino su cui appoggiava la testa. Rimase qualche minuto a guardarli, i superstiti di quella notte infernale, ripercorrendo con la mente le fasi della missione e valutandola nel complesso come un totale disastro. Erano partiti con l’intento di assestare un colpo fatale ed erano tornati con un risultato misero e pagato a caro prezzo. Un carico d’armi, per quanto ingente, non valeva la vita di Amir e di Varsos, né degli uomini che i Ladri aveva lasciato sul campo. Con un nuovo crampo di preoccupazione, si domandò se Latif ne fosse uscito indenne. Inseguire Donek fino all’ippodromo era stato un errore, alla luce dei fatti; aveva rischiato la pelle e quel demonio era comunque riuscito a fuggire. Avrebbe dovuto restare al fianco di Amir invece di cedere alla furia e correre dietro al suo passato. Ora suo fratello era morto e lui non aveva neppure potuto ascoltare le sue ultime parole. Con quell’ennesima stilettata nel cuore, Yusuf andò a sedersi tra Ràhel e Serdar e poi si sdraiò, faticando a trovare una posizione che desse un po’ di tregua al dolore al costato. Avvolse Ràhel con un braccio e le baciò la nuca, affondando il viso nei suoi capelli; lei non si svegliò. Il fuoco crepitava e il sole entrava dalle persiane chiuse disegnando lame dorate sul pavimento. Il covo taceva in quella mattina disperata che si trascinava a passi stanchi verso il mezzogiorno, gli allenamenti e gli incarichi erano stati sospesi in segno di lutto, mentre la Confraternita si prendeva il suo tempo per piangere e per domandarsi cosa avrebbe potuto riempire il vuoto che la morte di Amir aveva lasciato. Niente, pensò Yusuf, niente potrà mai riempirlo, non per me. Non aveva modo di sottrarsi al suo ruolo, ogni cosa accadesse nella Confraternita era sua responsabilità, ma forse poteva concedersi di dormire un paio d’ore. Sì, forse poteva…

 

Avevano attraversato il distretto di Costantino portando Amir a braccia, i cappucci abbassati, in un silenzio irreale. Sul Corno d’Oro non soffiava un alito di vento, e i barcaioli immergevano i remi in acqua con garbo rispettoso, senza sollevare spruzzi, senza produrre quasi alcun rumore. Sbarcati a Galata, Yusuf aveva fatto la sua parte a portare la salma di Amir, prendendo posto accanto a Serdar, Dogan e altri tre Maestri Assassini e inerpicandosi senza un lamento su per le strette vie lastricate fino alla Kulesi. Ràhel seguiva con Nalan e dietro di loro il gruppo di Assassini e Apprendisti che si erano dati il cambio nel trasporto lungo il tragitto.

Nonostante i turni di guardia ai covi fossero stai raddoppiati, la folla che attendeva al cimitero di Galata era imponente. Il tuo Dio ne sarà contento, fratello, pensò Yusuf , mentre la moltitudine si apriva in due ali per lasciar loro il passo e ognuno chinava il capo scoperto portando il pugno destro al cuore. Il sole del mezzogiorno invernale gettava i suoi raggi obliqui sui presenti, senza riuscire a scaldarli, strappando riflessi cristallini alla neve che ancora imbiancava le lapidi e una leggera brezza si era alzata afferrando gli orli delle vesti assassine. La fossa attendeva nella parte islamica del cimitero e alcuni apprendisti vi scesero dentro per poter deporre il corpo con delicatezza, su un fianco, la testa rivolta verso la Mecca. Yusuf piegò un ginocchio, sganciò dalla cintura la sciabola siriana che si era affibbiato al posto del suo kijil e la calò accanto all’amico, poi strinse nel pugno una manciata di terra. Fu come se la gente attorno a lui fosse scomparsa.

— E’ stata la mia più grande sconfitta… perdere te. — sussurrò. — Tu eri la mia moderazione e la mia saggezza, la voce della responsabilità e del rispetto delle regole. Sei stato una spina nel fianco, uno sprone, una forza. Ti ringrazio per le tue angherie, per gli interminabili turni di guardia, per avermi umiliato al nostro primo scontro in armi, per la tua assennatezza e prudenza, per il tuo sostegno, per il tuo affetto. — Stese il braccio e aprì le dita lentamente, lasciando scivolare la terra nella fossa. — Abbiamo perso molto tu ed io e avuto altrettanto. La pace sia con te, fratello. —

Quel discorso così intimo, per quanto mormorato, fu udito da tutti nel silenzio immobile del cimitero e avvolse ogni cuore nella commozione. Yusuf si rialzò e fece un passo indietro, asciugandosi le lacrime con un gesto determinato, lasciando al loro posto una traccia di terra.

 

— Un giorno Amir mi disse che uno dei più grandi paradossi del nostro Ordine era rappresentato dalla maggioranza dei suoi stessi Adepti. — Ràhel puntò lo sguardo verso la parte musulmana del cimitero, dove le lapidi bianche e disadorne erano tutte orientate nella stessa direzione, quella della Mecca. — Mi disse che lui era nato nella Confraternita e che io ci ero cresciuta fin da bambina. Che alcuni erano stati salvati da una vita di stenti, altri allontanati da una strada che portava dritto verso la prigione o il patibolo. Che a tutti era stata data la possibilità di decidere, ma quanti di noi avevano avuto davvero un’alternativa o un chiaro termine di paragone? Come voltare le spalle a chi ti aveva dato da mangiare o ti aveva salvato dalla morte o ti aveva fornito una ragione di vita che non fosse la pura sopravvivenza?—

Ezio ripensò a se stesso e alla sua storia, a quando aveva detto chiaramente a suo zio Mario di voler partire e alla fine, aveva finito col restare.

— Gli chiesi quale fosse la sua, di ragione di vita. Lui ci pensò un po’ su. —

— E cosa ti rispose? —

Ràhel riportò lo sguardo negli occhi di Ezio, inclinando il capo.

      — Immagina di essere tornato da un lungo viaggio. — disse poi. — Sei stanco, hai addosso la polvere di tutte le strade che hai percorso e la fuliggine di ogni fuoco di bivacco. —

Lui  fece una smorfia: non era difficile immaginarsi una cosa del genere.

— Ti immergi in una vasca di acqua calda e ti strofini per bene, poi, a malincuore, esci e ti asciughi e poi ti infili in un letto comodo, con le lenzuola pulite. —

Ezio si lasciò sfuggire un sorriso.

— Questa è esattamente la sensazione che mi da fare quello che sento giusto. E provarla è la mia ragione di vita. — continuò Ràhel. — Questo mi rispose. —

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 48
*** Capitolo 47: Un vento freddo ***


Istanbul,

Dhul-Qa`da 916

(Gennaio 1511)

 











o tirava delicatamente fino al punto di massima estensione; poi lo lasciava, e quello in un battito di ciglia tornava tutto compatto, molleggiando come un viticcio.

— Yusuf, basta. —

Era una magia. Ne afferrò un altro.

— Yusuf… mi fai sbagliare, smettila. —

Era enorme! Aveva spirali larghe come un tappo di bottiglia, ma quando lo tirò non fece granché. Sbuffando, ne prese un terzo.

— Yusuf! —

Ah, questo gli piaceva: era arricciato al punto giusto. Ne aveva fatti molleggiare pochi del genere, perché quelli così era gradevole arrotolarseli sul dito finché non si sfilacciavano. La cosa l’avrebbe fatta imbestialire, ma Yusuf non aspettava altro, quindi…

Ràhel posò di colpo la penna sulle pagine aperte. — Non hai nulla di meglio da fare? —  chiese, spazientita, girandosi completamente sulla sedia per guardarlo.

Lui aveva nascosto le mani dietro la schiena e ora fingeva di essere interessato ad un libro aperto a caso sulla scrivania. Dopo un lungo silenzio scosse la testa.

Ràhel si abbandonò sullo schienale con un sospiro. — Certo: quel poco che avresti da fare lo sto facendo io per te, —  borbottò.

Erano nello studiolo ricavato dalla biblioteca, dove poco prima Yusuf era entrato sbadigliando, con una tazza di caffè, in babbucce e mezzo svestito. Con un’occhiata assonnata l’aveva intravista dietro la scrivania, sommersa dai volumi e laboriosa come una formichina; anche lei addosso solo la vestaglia e i capelli tutti arruffati.

La tentazione era stata troppa: doveva mettere le mani su quei ricci.

Ràhel si tirò le ginocchia al petto, accucciandosi sulla grande sedia imbottita, e gli rubò un sorso di caffè. — Non riesci a dormire? —

Yusuf si stropicciò gli occhi. — Potrei farti la stessa domanda, sai? —

— Penso che darei la tua stessa risposta… —

L’assenza di Amir aveva pesato come un macigno nei cuori di tutti, lì nel Covo, e pesava tutt’ora a distanza di due mesi.

Yusuf si sedette al suo fianco su una pila di grossi libri che partiva da terra. — La prossima volta mettiamoci d’accordo, così almeno ammazziamo il tempo… —  si allungò verso di lei per solleticarle la pelle del collo con la punta del naso.

Sapık! —  ridacchiò la ragazza.

— Ehi! Aspetta, ecco: ho trovato qualcosa di meglio da fare, —  le mormorò all’orecchio, stuzzicandola.

— Non avevo dubbi. —

Insinuandosi sotto la vestaglia, Yusuf le circondò la vita con le braccia e poi, a tradimento, la prese in braccio. Per la sorpresa e con un gridolino lei gli cinse i fianchi con le ginocchia, quindi Yusuf sprofondò al suo posto sulla poltrona, con una faccia tutta soddisfatta che Ràhel avrebbe voluto riempire di schiaffi. La manovra aveva fatto volare via qualche cartina e cadere dagli scaffali un paio di libri in equilibrio precario, dando l’impressione che in quello studiolo si stessero affrontando due pugili, ma prima che lo scontro avesse inizio, udirono bussare.

Yusuf sbuffò. E certo!

— Sei un uomo con delle responsabilità e non puoi farci niente, —  disse Ràhel sottovoce, beffandosi di lui.

Lui alzò un dito e fece per replicare, ma poi sentirono bussare di nuovo e la voce di Kasim attraverso la porta:

— Ràhel, una persona vuole vederti. —

I due si scambiarono un lungo sguardo.

Troppo lungo.

— Ràhel, ci sei? — chiese Kasim, afferrando la maniglia.

Bok! —  imprecò Yusuf.

La ragazza si alzò in piedi sopra di lui e saltando sulla scrivania si catapultò alla porta prima che l’Assassino l’aprisse. — Fermo, non entrare o farai crollare il mondo! C’è un tale casino qui dentro! — gridò.

— D’accordo, ma sbrigati. Parla la tua lingua e non so come diavolo dirgli di aspettare. —

Yusuf, paralizzato sulla sedia, la vestaglia aperta sul petto, le lanciò un'occhiata da sopra il caos della scrivania e Ràhel fu percorsa da un brivido.

Vali?

 

Il salone centrale era gremito di Assassini e un animato mormorio faceva da sottofondo al crepitio delle fiamme. Il camino era acceso e vi si scaldava la figura imponente di un uomo dai capelli scuri legati in una lunga coda di cavallo. Aveva ampie spalle e lunghe braccia conserte, che sciolse quando, sentendoli arrivare, si voltò. La barba e le sopracciglia erano folte, imbianchite dall’anzianità. Il cappuccio e gli stivali imbottiti di pelliccia; abiti, simboli e armi di terre lontane… Tutti gli occhi della Confraternita erano puntati su di lui, come fosse un raro animale esotico caduto in una corte occidentale. 

Ràhel, basita, s’inchinò con un ginocchio a terra portando il pugno chiuso al cuore; quasi gridando perché tutto il Covo sapesse chi era, salutò:

Mentor. —

Silenzio assoluto.

Il volto rettangolare del Gran Maestro della Valacchia Isvàn cel Mare, scavato di rughe, fu attraversato dall’emozione di chi come un padre, senza fare domande, legge tutta la vita di un figlio nei suoi occhi. — Ridica, fiica mea, —  rispose allargando le braccia e Ràhel si alzò, gettandovisi come se non avesse aspettato altro.

Quando lei si staccò, e prima che potesse aggiungere qualcosa o fare le presentazioni, Istvàn disse: — Io porta notizie molto urge e parla solo a Gran Maestro di Ordine Ottomano. — 

— Ishak è morto. — disse Yusuf.

A quel punto Istvàn si accorse di lui, e Yusuf fece un passo nella sua direzione. — Da dieci anni, —  precisò.

— Io sa. Tu suo successore? —  si stupì il vecchio. Il suo turco mancava della grammatica basilare, ma riusciva di facile comprensione anche malgrado le distorsioni fonetiche.

Ràhel indietreggiò. — Istvàn, lui è Yusuf Tazim. —

Il vecchio Mentore parve sorpreso e lo squadrò da capo a piedi. — Ah! Ecco nome che tue lettere, Ràhel, fatto spesso… Allora noi parla, Maestro. Mostra luogo. —

 

Tornarono nello studiolo, dove il caffè rimasto sulla scrivania era ormai freddo per essere offerto e la confusione regnava sovrana. Due posti c’erano; Ràhel, intermediaria tra le due culture, improvvisò il proprio sulla pila di libri.

Sedendosi, Istvàn commentò: — Questo Covo molto colorato. Costantinopoli molto colorato. Piace. —

Yusuf sorrise. — Grazie. —

— Mia gente deve ancora scopre bellezza di colore. Sofferenza no fa bene a arte. Arte viene dove popolo sta pace. —

— Verissimo. —  assentì Yusuf.

— Mio viaggio porta me molto lontano e in tuo Covo, Yusuf Tazim, perché noi bisogna tuo aiuto. Aiuto di tuoi Assassini. —

— Ti ascolto. —

Istvàn si appoggiò allo schienale con l'aria di un savio che sta per raccontare una vecchia leggenda.

— Tu troppo giovane per ricorda, ma Impalatore Vlad Tepes ha figlio, — cominciò. — Questo figlio stato ostaggio corte di Bayezid ma fugge. Lui rifugia a Sibiu e quando Impero uccide Vlad Tepes… quando Ishak Pasha, — si corresse, — Mentore Assassini Costantinopoli uccide Vlad Tepes, suo padre, egli cova vendetta. Per metà secolo scompare, ma prende corona Voivoda due anni fa e diventa Re di Valacchia. Bayezid no cerca compromesso e uccide suo figlio Milos, che è ostaggio in sua corte. Fatto bene? Fatto Male? Non sa. Mihnea cel Rău, il malvagio, questo suo nome… Com’è parola? Perseguita popolo, uccide ricchi poveri no fa distinzione; ma cosa importa lui uccide, stermina dinastia Craiovesti che Ràhel è. Noi Assassini cerca ferma lui e rivolta di popolo toglie lui trono di Valacchia. Mihnea scappa in terra Ardeal, Transilvania, ma noi trova grazie a alleato, Basarab. Uno Assassino valoroso uccide, però Mihnea è come idra e ha altro figlio, Mircea, che cattura e fa giustizia Assassino di suo padre e poi, codardo, scappa. Trono no ha nome fino a inverno di anno scorso, quando arriva nipote di Impalatore, Vlad V. Lui, giovane solo venti anni, continua opera di suo predecessore, e no da pace a nostra gente che è stanca di morte su suoi campi e dentro suoi letti. Noi cerca uccidere lui due volte, ma… — s’interruppe, spostando la sua attenzione su Ràhel che lo fissava con una ruga profonda sulla fronte.

— Ma Vali è con lui. Mette su nostre tracce e a fine trova nostro nuovo Covo, che noi cambiato una volta quando lui tradisce. È massacro. — Una pausa, per dare tempo a quel fiume di parole di scavarsi il suo letto, e poi, come una supplica, il vecchio concluse così:

— Io vengo te, Yusuf Tazim, perché nostro Ordine in Valacchia è debole e Templari minaccia di controllo tutto. —

Yusuf, l'espressione indecifrabile, non aveva staccato per un istante gli occhi da quelli del suo ospite, e solo ora allontanava lo sguardo da lui come per cercare nelle proprie mani intrecciate sulla pancia (alla maniera di Ishak ) la risposta.

— So che qualche anno fa Bayezid ha inviato delle truppe capeggiate da Mihaloglu bey, — disse. — Questi è un uomo molto influente, nonché un abile condottiero. Vi ha già aiutati in passato e vi aiuterà anche adesso. —

Il vecchio mentore scoppiò in una fragorosa risata. — Tu crede che Impero aiuta? Tu o molto stupido o troppo giovane per fare Maestro di Ordine. —

Tu nu stii, Mentor! —  sbottò la ragazza, improvvisamente, soffiando e gonfiandosi come un gatto.

Taci gura, Ràhel, —  la rimproverò Istvàn. Poi tornò a rivolgersi a Yusuf, allungandosi sulla sedia con il ghiaccio negli occhi: — Impero no alza dito, sta e guarda mentre sue province macchia terra di loro stesso sangue; mentre loro bambini muore e loro donne violenta da loro parenti. Io vecchio che ha visto orrori di guerra civile e esperienza detto me come distingue uomo buono da uomo cattivo. Impero è uomo cattivo, che solo fa suoi interessi, sempre, per suoi cittadini, sue belle moschee, suo bello colore! —  ora quella parola sembrava disprezzarla. — Lascia me insegna una cosa, Yusuf Tazim. Assassini no fa ordini di nessuno e no aspetta che mondo muove prima di loro. Noi insegnato stare nascosti perché vede cosa altri fa e controlla che no è male per libertà di popolo. Se è male, uccide. Quando Ishak fa alleanza con Impero, lui sa che Sultano diventa padrone di Ordine ed è buono alleato, per ora. Ma uno giorno Templari arriva e mette artigli, come verme cova loro uova dove tu non sa. Ishak molto tempo fa viene in Valacchia e dice me che non c’è pace, mai, in alleanza, e sua esperienza detto lui. E infatti cosa ucciso lui? Uomo di Impero, Satrazzan o come dice voi, uno Templare stato a guida di politica in tua terra per quasi venti anni. —

— Sono stato io ad ucciderlo. —

Istvàn sembrò colpito e si lasciò cadere lentamente sullo schienale. — Contento per te... Ora decide: quanti Assassini può dare da portare in Valacchia? —

— Quando? —

— Tu no è stupido. Sa benissimo che parte domani. —

Yusuf cominciò a sfogliare il registro che aveva davanti e, mentre leggeva, annotò velocemente dei nomi su un pezzo di carta. Alla fine disse:

— Diciotto. —

— No fa… com’è parola? No fa tirchio. No basta, serve almeno venti. —

— Impossibile, altrimenti due Covi rimarrebbero sguarniti. Anche qui abbiamo i nostri problemi. — 

— Bizantini è come scimmie che urla e sbatte cose. Assassini di Salonicco può venire aiuta te dopo, ma io bisogno uomini domani. —

— Non c’è nessun Covo a Salonicco, mi dispiace deluderti. —

Istvàn s’incupì. — Se perde Valacchia allora tu è solo. —

Dopo un silenzio eterno Yusuf chiuse il registro con violenza. — Due Maestri, quattordici Assassini e due Reclute. Diciotto teste, non una di più. —

— Diciannove. —

Yusuf si voltò a guardarla sorpreso, ma Ràhel aveva occhi solo per il suo vecchio Maestro, che sfoggiò verso di lei uno strano sorriso.

Lăsa ne, Ràhel, — mormorò Istvàn.

E la ragazza uscì.

Rimasti soli, i due uomini si fissarono a lungo. Poi, ad un tratto e come se avesse passato tutto il tempo a cercare le parole giuste, l’anziano Mentore si allungò verso di lui e gli disse:

— Tu ora da me più uomini, scommette? — chiudendo anche un occhio.

Yusuf, interdetto, balbettò una risposta incomprensibile.

Istvàn ridacchiò. — Io è vecchio, ma no stupido. Quando tu detto me: Ishak è morto, io pensa che tu è suo figlio. Di lui ha preso modo che parla, sa? Modo che tiene mani, modo che guarda in occhi, — disse puntandoseli con due dita, — ma io so che lui più simile a me, uomo che muore senza moglie perché unici figli che ama è suoi Assassini. Tu fortunato, sceglie di stare due piedi in uno stivale, e riesce! —

— Si dice un piede in due stivali, —  osò correggerlo.

Istvàn aggrottò le folte sopracciglia e per un attimo sembrò pronto a balzare sopra la scrivania e riempirlo di botte. Alla fine, però, si fece una grassa risata.

— Mio turco sempre stato pessimo, ma migliora. Primi tempi io e Ishak parla a gesti. Stato divertente… —  gli occhi, due pozzi neri, si persero nei ricordi. — Ràhel è una donna forte e bella, — continuò, — ma che segue suo istinto. Visto sua faccia quando io raccontato che Vali detto a Vlad V dove sta nostro Covo? —

Yusuf cadde contro lo schienale e appoggiò il mento sul petto. — Avrei dovuto? —

— Lei provato paura, eppure detto noi viene in Valacchia. Detto: pronta uccide mio fratello. Vali tradito Ordine perché quando Ishak fatto alleanza con Impero Ottomano, lui visto uno Gran Maestro infrange regola di Assassini di stare in mezzo a scacchiera. Ishak preso posizione tra pedine bianche; Vali no interpreta gesto, sentito tradito lui primo e pensato: io allora va tra pedine nere. —

— Ma perché i Templari? —

— Guerre in mia terra ha insegnato che tra vendetta e potere, passo è molto breve. Quando genitori di Vali e Ràhel viene uccisi, loro entra mio Ordine. Vedo crescere molto diversi e quando vede sparire insieme, io pensa che uno ammazza l’altra. Poi riceve lettera di tuo Maestro, e io sa. Templari trova in Valacchia clima perfetto per coltivare loro seme di discordia. Dove governo è debole e popolo è povero, stupido e triste, c’è spiraglio per Tirannia. In poco tempo Mihnea tagliato più teste di suo padre. Despota esaltato da sua causa, fa vittime tra gente di lettere, distrugge cultura e arte. È primo gradino per potere assoluto. —

Ci fu una lunga pausa, un silenzio teso, drammatico; poi Istvàn si alzò con un po’ di fatica e rimase in piedi.

— Craiovesti è dinastia molto influente, còlta e protetta da Ordine. Sua rivale è famiglia Draculesti che sempre cerca sopprime Craiovesti. No è difficile capire perché. Nostra missione uccide ultimo Templare, Voiovoda Draculesti Vlad V, e mette su trono Basarab V che porta pace in Valacchia. Ora mostra me mio letto. Mia età non fa più questi lunghi viaggi. —

Yusuf lo accompagnò fuori dallo studiolo, dove la biblioteca li accolse muta come una tomba.

— Sei certo che con quell’uomo ci sarà la pace? O ricomincerà tutto daccapo? —  domandò Yusuf quando furono nel salone centrale, ora completamente deserto. Ràhel doveva aver stabilito i turni di guardia e mandato sotto le coperte chi di dovere.

Istvàn accarezzò il motivo di uno dei tappeti appesi alle travi. — Basarab è uomo buono, —  disse, — e finché lui governa, mia gente avrà sua arte. —

 

Più tardi Yusuf tornò nello studiolo e stilò le convocazioni da portare ai Maestri dei Covi di Imperiale e Costantino. Il comunicato recava la lista d’appello e avvertiva del periodo di assenza indefinito. Affidò l’incarico di consegnare il dispaccio a Kasim, che trovò di guardia sull’ingresso del Covo, e quando il ragazzo partì con la lettera, per un po’ Yusuf si mise di guardia al suo posto.

“Se perde Valacchia allora tu è solo.”

Istvàn era stato fin troppo schietto, ma d'altronde Yusuf non trovò nulla da contraddirgli.

Da Ishak aveva ereditato senz'altro il vizio di alzare il gomito con del buon raki e quello del reclutamento facile, ma il tentativo di fondare una Confraternita a Salonicco era morta con lui e perciò, nonostante gli Assassini di Istanbul avessero ormai un fermo controllo sulla città, Yusuf si sentiva le spalle scoperte.

"Bizantini è come scimmie che urla e sbatte cose."

Negli ultimi mesi, culminati con la morte di Amir, il Mediterraneo era stata teatro di innumerevoli tragedie, e dietro al malcontento che fomentava le rivolte si nascondevano i sicari di Andrea Paleologo. Questi seguaci esaltati avevano cominciato a fare trambusto già l’anno precedente, appiccando incendi e seminando discordia tra la gente. Pochi scarsi rimasugli dell’Impero Bizantino, simili a vecchie bucce marce, giravano a piede libero nelle strade aggressivi come bulletti. Questo non lo preoccupava più di tanto, finché era l’Impero ad occuparsene e la Sublime Porta non gli voltava le spalle. Ma Bayezid era lontano da molto tempo e…

“Ma uno giorno Templari arriva e mette artigli, come verme cova loro uova dove tu non sa.”

Istvàn si era divertito a stuzzicare le sue responsabilità.

Le sue responsabilità e il suo passato.

 

Kasim tornò, ghiacciato e tremante come un piccione viaggiatore che ha volato in una tormenta, e prima che riuscisse a chiederglielo il Maestro gli concesse il congedo con una pacca sulla spalla. Ma poco dopo cominciò lui stesso tramutarsi in un ghiacciolo; la pelliccia del mantello aveva cominciato a gelarsi e Yusuf non sentiva più la punta del naso: quindi rientrò e affidò la guardia ad un paio di Reclute, perché adesso che ci pensava, ben altro richiedeva la sua attenzione (gestire la trasferta per il futuro di una Confraternita, per esempio) e quelli non erano più i compiti per il suo rango.

Mancavano ancora un paio d’ore all’alba, ma quando entrò nella sua stanza Yusuf non si stupì di trovare Ràhel già sveglia.

La sua donna era alle prese con la balestra, che teneva appoggiata sulle gambe nude e incrociate. Seduta a terra, la vestaglia aperta intorno alla sua ombra sul tappeto, i quadrelli disposti a ventaglio sul disegno. Aveva tirato fuori dalla cesta e disteso su una panca la sua vecchia uniforme valacca, abbandonata per quella ottomana subito dopo la morte di Ishak nel rientro da Salonicco. L’aveva esposta in bella mostra, di fronte a sé, come la pelle di un animale leggendario, e lei era la sensuale sacerdotessa di una Dea spietata e affamata chiamata Morte.

Yusuf chiuse la porta con un brivido e andò a sedersi sul letto, aspettando che si accorgesse di lui, ma quando Ràhel parlò, mentre passava uno straccio tra i meccanismi dell’arma, fu per chiedere senza emozione:

— Chi sono i due Maestri? —

Un altro brivido.

— Yigit e Nalan. Ho controllato meglio: Serdar e i suoi sono rientrati stamattina da Algeri e potreb…—

Ràhel ridacchiò sommessamente. — Ah, adesso ce li hai i venti Assassini. —

Gliene darei anche cento… tranne uno.

Yusuf la osservò in silenzio senza perdersi un solo gesto di quell’affascinante rituale: la ragazza lucidò una ad una le punte di tutti i quadrelli, ma si bloccò di colpo con la pezzetta a mezz’aria. Tenne lo sguardo basso, sembrò riflettere, poi con uno strattone improvviso fece scattare il meccanismo della balestra, testandone la prontezza.

— No, —  disse solamente, alzandosi e uscendo dal suo cerchio di quadrelli.

— "No" cosa? —

— Neanche il Gran Maestro potrà fare nulla per impedirmi di partire. Ti legherò al letto, se necessario. —

— Hmm, la cosa non mi disp… —

— Piantala! —

Yusuf fece per replicare, ma quando la ragazza si lasciò scivolare la vestaglia di dosso per cominciare a indossare la vecchia uniforme, gli si mozzò il fiato. Profondamente in lotta con se stesso, si costrinse a voltarsi.

Ràhel infilò la spessa calzamaglia e vi mise dentro la camicia di lana. — È la mia famiglia, o meglio… ciò che ne resta, —  disse mentre scivolava dentro al farsetto. — Me ne sono allontanata una volta perché dovevo. —  Lo allacciò con forza e ben stretto. — Ma ora ha bisogno di me e sono pronta a tornare sui miei passi. —  Affondò i talloni negli stivali alti fino al ginocchio e si cinse i fianchi con la fascia.

Yusuf si appoggiò alle ginocchia coi gomiti. Afferrò un quadrello dal pavimento e se lo rigirò nella mano. — D’accordo: se è ammazzare tuo fratello, che vuoi, va’ pure. —  Saggiò la punta di metallo con l’indice. Una pallina di sangue sbocciò dal nulla e maledicendo quello strumento diabolico Yusuf si cacciò il dito in bocca con una smorfia.

Ràhel gli strappò il quadrello di mano e i suoi occhi verdi, grandi, pieni di rabbia e nascosti dietro una foresta di ricci selvaggi, lo pietrificarono.

— Dovesse capitarmi tra le mie stesse mani, giuro su quanto ho di più caro che non esiterei. Lui non si è fatto scrupoli quando ha… —  digrignò la ragazza, ma sentì le parole morirle in gola. — Vizuină, il Covo… —  boccheggiò con lo sguardo perso nel vuoto.

Vide i loro volti: gli uomini, le donne… ma anche i bambini, i protetti, gli orfani come lei che la Confraternita aveva preso sotto la sua ala nel momento del bisogno. Vide il grande atrio ottagonale nel furore della battaglia; sentì le grida, assisté alle atrocità che solo un uomo animato dalla vendetta avrebbe potuto compiere. Chissà quanti…

“È massacro.” Aveva detto Istvàn.

Una lacrima si dondolava tra le sue ciglia senza decidersi a cadere. Ràhel chiuse gli occhi e lentamente calmò il battito del suo cuore, che le tuonava in petto come un tamburo di guerra.

Yusuf la fissava basito. Aveva visto scorrere sul suo viso ciò che le era passato per la mente ed era evidente lo sforzo con cui si stava imponendo di riacquistare la calma e di ritornare fredda, distaccata, come un lago ghiacciato. Lui aspettò. Attese che il suo respiro rallentasse, che i suoi pugni si allentassero e che la ruga che le si era formata sulla fronte si distendesse. Gli occhi di Ràhel si aprirono e quando si posarono su di lui erano come una carezza, anche se di una mano gelata.

Yusuf accennò un sorriso.

— Non dovrò mica venirti a salvare per poterti rivedere? La mia assenza getterebbe la Confraternita nel caos! —

Quella mano gelata parve riscaldarsi un po’.

— Se è per questo, il caos regnerà sovrano già da domani… senza di me. —

— Sei crudele. —  Un broncio esagerato gli comparve sul viso. — E insubordinata. Irrispettosa, oserei dire. Ti sei presa troppe libertà con il tuo Maestro. —

Ràhel si avvicinò in un tintinnio di fibbie. — Solo perché il Maestro me l’ha concesso, —  sussurrò.

Lui afferrò la fascia che le cingeva la vita, fissando con aria critica la fibbia della cintura.

— Mi chiedevo, perché hai messo la tua vecchia uniforme? Quella nuova ti sta molto meglio. Valorizza di più le tue… caratteristiche. —

In risposta ricevette un’occhiataccia. — Come scusa? —

— Perché tanta fretta di vestirti, poi? Dato tuo Mentore stanza con uno letto comodo. Lui dorme profondo, e molto prima che parte; scommette?   disse, imitando la voce del vecchio Maestro valacco e attirando a sé la ragazza.

Ràhel si lasciò cadere sopra di lui e appoggiò la fronte contro il suo petto, nascondendogli la soddisfazione di averle strappato un sorriso.

 

Il salone centrale non era così affollato dai tempi dell'incontro tra Ishak e il Visir Ibrahim Pasha.

Yusuf attraversò la stanza quasi di corsa, dopo aver riconosciuto la sagoma massiccia di Istvàn, vicino al camino, parlare con i due Maestri. Nalan e Yigit lo videro per primi e s’inchinarono, poi anche il Mentore della Valacchia accennò un saluto.  

— Noi prende nave fino a Costantza e con cavalli arriva in Targoviste. Uno viaggio di tre settimane fino a Covo: no aspetta nostre notizie prima di primavera. —

— Se doveste essere intercettati? —  chiese Yusuf.

— Io manda indietro uno tuo Assassino con gambe di lepre e tu sa, — la risposta di Istvàn, indicando i due Maestri, — ma mare per Costantza è buono perché c’è tuo caro Impero che protegge. Quando entra in Targoviste, invece, situazione cambia, rischio aumenta: Templari preso città e aspetta solo noi ritorna. Ma io scrive, e tiene informato tuo Covo. Promesso. —

— Di questo si occuperà Ràhel, se vuoi che capisca qualcosa. —

— Oh, certo. Ma divide tue cose con mia Ràhel da affari di Confraternita, chiaro? —

Yigit finse un colpo di tosse e si aggiustò il cappuccio, dondolandosi sui talloni. — Maestro… Mentore… —  Anche Nalan si congedò, scambiando con il Gran Maestro di Galata una lunga occhiata. L'Assassina aveva qualcosa da dirgli, (o forse qualche altra manata da dargli) ma lo avrebbe fatto dopo.

— Prende. —

Yusuf vide il Mentore della Valacchia sfilarsi uno spesso anello d’oro dal dito.

— Questo è simbolo di dinastia Craiovesti, —  disse Istvàn, e glielo porse.

— Non posso accettare. —

— Io chiesto tuo parere? Prende. Non deve mettere per forza, solo… tiene. Se noi fallisce e Templari controlla Valacchia, mia gente deve sapere che qui c’è alleato, e amico. —

Yusuf strofinò col pollice il leone rampante, consumato dagli anni e da chi, come lui, aveva accarezzato la sua criniera. — Come potrò fartelo riavere? —  chiese.

Istvàn gli sorrise stringendogli una spalla. Poi gli diede una pacca paterna e due schiaffetti, che gli lasciarono un colorito allegro sulla guancia. Niente di più chiaro e nobile per scusarsi di tutti i pregiudizi rimasti in sospeso.

 

Ràhel distese un braccio sulle lenzuola, e le strinse, trovando solo il vuoto.

Fiu de căţea! —  Si alzò di colpo buttando a terra i cuscini e raccolse le varie parti della sua uniforme sparse sul tappeto. Si rivestì in fretta e poi, con la balestra in spalla, uscì di corsa dalla stanza. Trovò il salone centrale deserto fatta eccezione per un Apprendista, di cui le sfuggiva il nome, che la fissava ammutolito.

Perché? Si chiese. Perché Yusuf le aveva fatto questo?!

Si rivolse all’Assassino con un tono di voce che sorprese se stessa: — Sono partiti da molto? —

Quello scosse la testa e Ràhel volò sulla passerella.

 

 

 

Era una bella giornata di sole, ma il freddo pungente di quel gelido inverno stentava a mitigarsi, sfoggiando un vento prepotente che aveva scacciato dalla prima all’ultima nuvola. Uno stormo di gabbiani si riscaldava sulla scogliera e il porto era silenzioso. Yusuf, a gambe larghe sulla banchina, guardava le ultime merci che venivano caricate a bordo della nave. Alcuni mozzi stavano spargendo del sale sul ponte per evitare che si ghiacciasse durante la notte. Il capitano, un turco dai baffi folti, era un uomo di fiducia e lo salutò con un cenno del capo affacciato dalla balaustra di poppa. Dietro di lui riconobbe Istvàn e i due Maestri circondati dai rispettivi adepti.

Si chiese se non fosse stato un insensibile e un egoista nel fare il nome di Nalan per una missione tanto importante e già così presto: sentiva di averla strappata a quel lungo lutto che forse non sarebbe mai cessato con la sola urgenza di affidare Ràhel ad una delle migliori lame celate della Confraternita.

Dopo Amir.

Dare all'Assassina la possibilità di scambiare il suo posto con Serdar, poco prima che salisse sulla nave, non era servito a nulla. Anzi. Nalan lo aveva afferrato per la veste senza dargli il tempo di concludere la frase, gli aveva puntato l’indice contro e fissandolo dritto negli occhi lo aveva accusato di essere un pazzo se pensava di poter spedire in missione un Assassino appena tornato dall'altro capo del Mediterraneo, sia pure della stoffa di Serdar, per dipiù tenendolo lontano dalla famiglia un altro lungo e indeterminato periodo di tempo.

— So perché mi hai scelto, — aveva detto Nalan. — Perché se fosse vivo ci sarebbe Amir, al mio posto. Partecipare a questa missione è perciò un onore, Maestro. — Poi con uno strattone lo aveva liberato, e dopo avergli aggiustato un po' l'uniforme sgualcita, era andata dritta e fiera, come solo Amir avrebbe fatto, verso la passerella.

— Sei un idiota. — 

Ràhel era comparsa al suo fianco senza che se ne fosse accorto.

— Ben alzata! —  esultò Yusuf sorridendo a trentadue denti. — Un idiota molto affascinante, —  la corresse.

Lei prese un respiro profondo. — Per un attimo ho pensato che… —

— Cosa? Che ti avrei trattenuta ad Istanbul con l’inganno dopo averti sedotta? Tanri! Non farei mai una cosa del genere. —

— Semmai io ti ho sedotto, —  disse la ragazza andando verso la passerella.

— Ah, è così… bhé, vedremo chi resisterà di più! —

— Allora hai già perso! —  gridò lei, mentre la ciurma issava le vele che si gonfiarono con un boato. Con quel vento sarebbero filati via come schegge.

Sì, ho già perso.

 

 

 

 

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Capitolo 49
*** Capitolo 48: Lettere ***


Istanbul,

Safar 917

(Maggio 1511)

 

 

Ràhel, mio selvatico Karahindiba,

la vita è stata strana senza di te: solo dovere, quasi nessun piacere e una montagna di carte con cui combattere, fino ad oggi.

Oggi ho incontrato una persona molto particolare, dotata di grande carisma e notevole fascino che, sono certo, porterà una ventata di novità in questa mia ormai tediosa, complicata e solitaria vita. Non si tratta di un’avvenente signora, bensì di un Assassino, anche se è una verità comprovata che una cosa non escluda necessariamente l’altra… ma sto divagando. Ricordi quella lettera giunta da Roma che ci informava del viaggio in Terra Santa del Mentore Ezio Auditore? Informazioni giunte dalle nostre spie a Masyaf hanno documentato con dovizia di particolari le gesta di costui alla fortezza, pare che sia stato catturato dai Templari che se ne erano impadroniti e che sia riuscito a fuggire facendone strage senza l’aiuto di nessuno. Da settimane sorvegliavamo le banchine in attesa del suo arrivo…

 

Se ne stava appoggiato al tronco del ciliegio al centro del piazzale di attracco, con le braccia conserte e lo sguardo perso sull’imbocco del Corno d’Oro, dove la bella galea a tre alberi stava entrando in quel momento sottraendosi alle correnti del Bosforo.

L’inverno se n’era andato improvvisamente sui primi del mese, lasciando spazio per prosperare ad una primavera fresca e dai cieli limpidi. Con un sorriso che andava da una guancia all’altra, Yusuf pensò che era proprio un bel giorno per fare nuove conoscenze.

Ricordò la lettera che aveva ricevuto all’inizio di quell’anno. Era attraccata al Porto di Galata, puntualissima, su una nave che recava beni d’altro genere e poi, entrata nel Covo per mano di un informatore fidato, si era persa tre le centinaia di scartoffie che animavano la scrivania dello studiolo. Ràhel l’aveva pescata distrattamente una mattina e gliela aveva sventolata sotto al naso mentre russava tra i cuscini del salone centrale, strappandolo al sonno con uno starnuto.

— Cos’è? —

— Una lettera, Yusuf, e quando arrivano di solito si leggono. —

— Ma non mi dire… —

L’aveva aperta e spiegata per bene davanti agli occhi. Poi, perplesso, aveva chiesto: — Ràhel, sai se qualcuno dei nostri sa leggere l’italiano? —

— Sei tu il Maestro: certe cose dovresti saperle. —

— Ma è italiano! —

— Mi riferivo ai tuoi Assassini, Yusuf. —

— Amir lo sapeva scrivere. —

— Tu però un po’ lo parli. —

— Me l’ha insegnato lui, ma col ricatto! —

In giornata avevano fatto venire dal Covo di Costantino Sud un giovane di nome Dante, il cui cognome Yusuf si rifiutò anche solo di ricordare.

La lettera era di una certa Claudia Auditore, Assassina italiana della Confraternita di Roma, che li informava del soggiorno imminente, in città, del Gran Maestro del loro Ordine e fratello di lei: un tale Ezio… l’eco delle cui gesta in Europa si era spinta fino ad Istanbul, ponte tra questo e quel Continente, non senza suscitare la sostanziosa ammirazione dell’intera Confraternita ottomana.

Un Assassino ci faceva l’occhio con i cappucci, senza distinzione di etnie, perciò quando l’atteso ospite fece la sua comparsa sulla passerella, Yusuf lasciò l’ombra del ciliegio andandogli incontro. Dietro ad una donna riconobbe il principe Solimano, cui rivolse un piccolo chinar di testa; quindi posò fraternamente una mano sulla spalla dello straniero, che per la sorpresa si voltò nel gesto di richiamare la lama celata.

Lo sforzo di riallacciarsi ai precetti di Amir doveva essere evidente nella parlata del Maestro di Galata. Quando Yusuf lo salutò di rito e nella sua lingua nativa aggiungendovi lo sproloquio di un adulatore, Ezio si riaccomodò e lo guardò come un animale raro.

— Prego? — 

Ezio Auditore de là là là. Ho superato me stesso.

 

 

... Il Mentore italiano non ha fatto neanche in tempo a riposare le sue vecchie ossa che è stato subito coinvolto nell’animata vita della città. Un agguato di Bizantini ha interrotto la nostra passeggiata fino al Covo principale, permettendogli di dimostrare molto del suo talento, poi ha scoperto la lama uncinata, di cui non conosceva l’esistenza, e ha accettato graziosamente i miei consigli riguardo al suo uso e, per finire, il Covo di Galata e quello di Imperiale Nord sono stati attaccati contemporaneamente. L’ho lasciato a Galata a comandare la difesa, che è stata un successo, mentre io mi precipitavo al Distretto Imperiale, non riuscendo, purtroppo, ad arrivare in tempo. Siamo comunque riusciti a riprendere il Covo entro la fine della giornata.

Il Mentore è arrivato qui alla ricerca delle chiavi per aprire la Biblioteca del Maestro Altaïr a  Masyaf, sigillata da quasi tre secoli, una delle quali si trova già in possesso dei Templari, che l’hanno ritrovata sotto il Topkapi, ma la situazione è critica: al di là del Corno d’Oro, a parte la zona nord del Distretto Imperiale, la città è in mano ai Bizantini e questo di certo non favorisce la libertà di movimento. Ezio Auditore non poteva scegliere un momento peggiore per il suo viaggio di conoscenza, e nemmeno uno migliore. Da quel poco che ho potuto vedere fin qui, il suo aiuto potrà  far pendere la bilancia dei delicati equilibri cittadini a nostro vantaggio e sono certo che avrà il suo peso nella riconquista dei Covi perduti.

Mentre sto scrivendo, quest’uomo determinato, aperto, capace e autorevole si aggira per la biblioteca, osservando tutto, facendo domande.

Non so ancora in cosa, ma mi ricorda Ishak.

 

 

Istanbul,

Rabî Al-Awwal 917

(Giugno 1511)

Mio splendente Karahindiba,

la presenza templare in città ha trovato pane per i suoi denti. Il Mentore Auditore è un uomo di infinite risorse e di altrettante energie e sembra aver fatto della riconquista dei Covi un suo punto d’onore. Non parla molto di sé, ma da alcuni suoi accenni all’apparenza casuali ho potuto trarre le mie conclusioni. Intuisco in lui una gioventù scapestrata e un brusco risveglio da essa, qualche rimpianto, ma ben pochi rimorsi. Un uomo dall’intento preciso, diretto al limite della brutalità, capace di adattarsi e aperto alle innovazioni. Passa parecchio tempo nella bottega di Piri Reis, a filosofeggiare sui principi, a rievocare il passato e a farsi raccontare ogni segreto della polvere pirica, che poi sperimenta con gran diligenza. Dai miei informatori ho anche appreso che trascorre altrettanto tempo nel luogo che ospitava la vecchia stazione commerciale  dei Polo, dove oggi si trova una libreria. A detta di Latif la libraia è una donna di notevole fascino, al quale il nostro Ezio pare non essere per niente immune. È una veneziana di nome Sofia Sartor, nata qui a Istanbul, fuggita con la famiglia all’inizio della guerra e ritornata poi a gestire la libreria appartenuta al padre. Non credo che il Mentore abbia rivelato a bayan Sofia chi sia veramente, ha trovato però una delle chiavi della biblioteca di Altaïr proprio sotto la sua bottega. Davvero un curioso oggetto, non ho mai visto nulla di simile, un disco forato, con strani simboli incisi sopra. Mi ha dato una strana sensazione, che mi è difficile descriverti, come di meraviglia e pericolo, non so...

 

Mio splendente Karahindiba? — Nalan ridacchiò alle sue spalle e Ràhel si voltò di scatto: non l'aveva sentita avvicinarsi.

— Da quanto sei lì? — chiese.

— Sono appena arrivata, giusto il tempo per apprezzare la vena poetica del Maestro. —

— E’ da maleducati spiare la corrispondenza altrui. — Rahel ostentò un’aria indignata.

— Già ti va bene che non ci sia Serdar qui. — replicò Nalan compunta. — Lui è il Maestro dei pettegolezzi e fa parte dei suoi compiti tenere traccia di ogni particolare piccante che riguarda la Confraternita. —

Ràhel scoppiò a ridere. — Bè, forse qualcosa di piccante c’è, — disse. — di sicuro Serdar ne sarà già al corrente. —

 

Ho detto al Mentore che i suoi sforzi per ricostituire la Confraternita a Roma sono giunti anche al nostro orecchio e ho avuto l’ardire di chiedergli di sfoderare il suo fascino per aiutarci nel reclutamento di nuovi Apprendisti. Con mia grande sorpresa ha accettato di buon grado e i primi risultati cominciano a vedersi: una fanciulla timida come un passerotto e un ragazzo un po’ troppo arrogante hanno fatto la loro comparsa al Covo principale per iniziare l’addestramento...

 

 

 

Istanbul,

Rabî Al-Awwal 917

(Giugno 1511)

 

Ràhel,

voci inquietanti giungono dall’Anatolia che da più di due mesi è insanguinata da una rivolta contro l’Impero da parte di sostenitori dello Shah Ismail. Attraverso i rapporti dei nostri infiltrati sono venuto a conoscenza del fatto che l’uomo che uccise Amir si trova ora alla testa della ribellione, e si fregia del titolo di Şahkulu. Ha avuto l’ardire di attaccare il convoglio del principe Korkut in viaggio verso Manisa, di saccheggiare Alaşehir impadronendosi di una parte del tesoro reale e di uccidere il Governatore Karagoz Ahmet Pasha davanti alle mura di Kütahya. Queste imprese gli hanno guadagnato fama di invincibilità tra i suoi seguaci, è sfuggente come una serpe, astuto, ben protetto e la lama dell’Ordine non riesce a raggiungerlo. Un nuovo esercito sta per essere inviato contro di lui, con alla testa il Gran Visir Ali Pasha e lo stesso Şehzade Ahmet. La mia speranza al momento è che la forza militare dell’Impero possa riuscire dove noi abbiamo fallito, che la rivolta sia soffocata e il suo capo spiccato dal collo sulla pubblica piazza, se non massacrato in battaglia. Giunti a questo punto non mi importa di chi si incaricherà di uccidere quel dannato bastardo, purché qualcuno lo faccia! La sua morte non ci restituirà Amir, ma darà soddisfazione all’intera Confraternita e riuscirà forse ad attenuare il senso di fallimento che mi porto dietro da quella notte maledetta.

 

C’era voluto un tempo infinito per mettere giù quelle poche righe. Yusuf osservava le parole sulla carta senza riuscire a liberarsi della frustrazione che il rapporto dall’Anatolia aveva scatenato in lui. Trovava insopportabile dover ammettere che Dönek gli era sempre stato un passo avanti e continuava ad esserlo, come se quegli anni che separavano le loro nascite rappresentassero un divario insormontabile, qualcosa contro cui non poteva combattere e che avrebbe decretato la sua disfatta per sempre.

Sognava spesso di uccidere Dönek, nelle infinite varianti che la sua immaginazione osava mettere in scena e non si trattava quasi mai di uno scontro leale, come se anche in sogno riconoscesse la sua inadeguatezza, la sua inferiorità. Immancabilmente si svegliava in preda all’angoscia e si infuriava per non star invece provando soddisfazione. Altrettante volte vedeva se stesso trapassato dalla lama, morto sul tavolaccio di Sami e Amir alla testa degli Assassini Ottomani. Amir… quell’uomo non aveva mai smesso di pensare con la propria testa, dando prova di una solida indipendenza dall’Ordine e dai i suoi dogmi, pur rispettandoli, pur incarnandoli. Yusuf continuava a ripetersi che quel siriano piazzato dal cuore grande sarebbe stato uno squisito Gran Maestro, forse il migliore degli ultimi anni. Ishak stesso, nella stima che aveva sempre avuto per lui e prima per suo padre Saad, forse lo aveva immaginato come suo successore. Se Yusuf non avesse mai deciso di unirsi alla Confraternita degli Assassini lasciando al tempo di fare il suo corso, ci sarebbe stato Amir seduto a quel tavolo nello studiolo, ne era certo. Era sicuro anche del fatto che avrebbe guidato l’Ordine su strade meno oscure, nessun dubbio lo avrebbe piegato, nessun indugio lo avrebbe rallentato, e soprattutto sarebbe stato vivo.

Tutto, ancora una volta, riconduceva a Dönek. Quella presenza doveva essere cancellata, estirpata dalla sua vita e Yusuf, malgrado odiasse farlo, avrebbe atteso.

 

 

 

Kaymaklı, Anatolia Centrale,

Rabî Ath-Thânî 917

(Luglio 1511)

 

 

Maestro,

se la notizia del trionfo delle truppe di Ali Pasha è già giunta alle tue orecchie, ti prego di essere pronto a mettere in dubbio la verità come il tuo Credo suggerisce e ascoltare questo umile informatore.

 

Sahkulu è vivo.

 

Dopo aver inscenato la sua morte a Sivas, è fuggito a sud, verso Kaymakli. Ha trascorso solo pochi giorni nella grande città e in totale discrezione, per poi addentrarsi nell'arido entroterra della Cappadocia, dove un braccio armato dell'Ordine di Bisanzio controlla un piccolo villaggio. Ho scelto di fermarmi a Kaymakli per fare del trambusto della grande città la mia protezione, e se oggi sono in grado di scrivere la lettera che stai leggendo lo devo proprio a questo.

 

Sahkulu trascorre giorno e notte barricato in casa tra i suoi uomini, che invece circolano liberamente nel villaggio e anche fuori: una mattina ne ho seguiti due fino a un pozzo e dalle loro vane chiacchiere sono riuscito a cogliere indizi circa l'esistenza di un'altra grande città sotterranea in mano ai Bizantini, da qualche parte nel nord della regione. I magazzini di grano del villaggio sono inaccessibili, presidiati da molte guardie, e ogni notte una carovana lascia queste terre carica di armi. Un fabbro locale ha ricevuto l'ordine di forgiare una strana maschera ed è stato pagato in vecchie monete rovinate con un'aquila a due teste.

 

So che molti di questi dettagli ti parranno inutili, ma ho sentore che non lo siano. Ho seguito lo Sahkulu fin qui e di mia iniziativa, ma i miei occhi resteranno puntati su di lui finché tu vorrai, Maestro.

 

Salute e Pace,

Fadil

 

— Non avrai visto di nuovo il fantasma di Ishak, fratello. —

Yusuf si voltò di colpo, tradendo per la seconda volta una grande tensione che Serdar aveva già notato da lontano, dalla passerella del Covo. Yusuf lo guardò giusto un attimo, poi ebbe bisogno di rileggere qualche frase della lettera.

Quando fu al suo fianco, Serdar si esibì in un largo sorriso. — Dalla tua faccia, come minimo Ràhel si è trovata un amante in patria e spera che tu le perdoni la scapp…—

— È vivo. —

Quel sorriso morì improvvisamente, accartocciandosi. — Chi? —

L'altro era impassibile. — I ribelli sono stati sconfitti ed Ali Pasha è morto, ma lui è ancora vivo. Il bastardo è ancora vivo. —

Serdar fece spallucce, incredulo. — Impossibile. La notizia ufficiale è arrivata solo ieri: ribelli sconfitti e il loro capo ucciso. —

— Leggi. — Yusuf gli passò la lettera. — Poi raggiungetemi tutti e due nello studiolo. — disse avviandosi.

— Io e chi altri, scusa? — fece Serdar, scettico, ma poi si guardò le spalle, sperando con tutto se stesso di aver capito male o che quantomeno Yusuf avesse fatto il solito burlone…

 

 

 

Istanbul,

Rabî Ath-Thânî 917

(Luglio 1511)

 

 

Ràhel,

buone notizie, ma solo a metà: la rivolta in Anatolia è stata sedata, l'Impero ha trionfato, ma il loro capo è ancora vivo e siamo gli unici a conoscere questa verità.

Quasi contemporaneamente  ai dispacci di guerra ufficiali, abbiamo ricevuto un messaggio dall'Anatolia di un nostro informatore: diceva di aver pedinato Sahkulu dal campo di battaglia fin nel cuore della Cappadocia, dove si è rifugiato con la coda tra le gambe circondato di Bizantini. Il solito vigliacco.

Sono rimasto tutta la notte nello studiolo a parlare con Serdar. Sappiamo esattamente dove si trova è ed finalmente vulnerabile, ma allora perché non attaccare in forze? La risposta è così ovvia: gli uomini e le donne migliori li ho dati a te e Istvàn, e gli scontri coi Bizantini producono pericolose scintille che dobbiamo tenere sotto controllo con tutte le nostre forze. Sarei andato io stesso se Serdar non avesse affondato i denti, pur di farmi desistere…

 

— Amir non lo farebbe, — sbottò Serdar, battendo i pugni sul tavolo. — E sai perché, Yusuf?! Perché è un maledetto suicidio, ecco perché! E mi dispiace dirtelo, ma la tua vita non vale così poco, adesso. Non siamo più Apprendisti con la voglia di emergere, ma adulti, Maestri con delle responsabilità. Tu più di tutti. Ho ragione o no? —

— Hai ragione. —

— GRAZIE, AMIR, GRAZIE! — esultò Serdar alzando gli occhi al cielo. — Da solo non sarei mai riuscito a farglielo dire! —

— Dobbiamo fare qualcosa lo stesso, o non chiuderò più occhio. — sbottò Yusuf.

Rifletterono in silenzio per un minuto, poi Serdar, con l'ansia dipinta in faccia, prese parola: — Posso darti una coppia di Assassini-quasi-Maestri da mandare laggiù a guardare le spalle a quel poveraccio, ma sappi che così accorci la coperta, Yusuf, e questo inverno sarà freddo. Mooooolto freddo. — disse.

— Me la farò bastare, quella coperta. — borbottò il Maestro.

 

… e per questo, da quel giorno, se ne va in giro col sorriso stampato in faccia come se ci fosse nato. Dopo la morte di Amir, il ruolo di secondo in comando gli è ricaduto sulle spalle per via della sua sola anzianità e, te lo dissi, temevo che non avrebbe accettato. La cosa, al contrario, sembrava averlo riempito d'orgoglio, caricandolo come un ingranaggio. Oggi quasi mi commuove vederlo assolvere i suoi incarichi con tanto impegno. Il buffone del villaggio si è trasformato in un guerriero fiero e letale. Abile lo è sempre stato, ma non avevo mai visto all'opera il suo spirito di guida. La difesa dei Covi tiene tutte le mani dell'Ordine impegnate e mi ha offerto questo strano spettacolo.  

 

 

Istanbul,

Jumâda Al-Awwal 917

(Agosto 1511)

Mia cara Ràhel,

ho avuto modo di scoprire un altro dei talenti del Mentore Auditore: quello musicale! Ma lascia che ti spieghi. Dalle nostre informazioni sapevamo che i Bizantini organizzavano un attentato alla vita di Solimano e nessuna migliore occasione poteva esserci della Mostra Culturale organizzata dal Principe per ieri sera. Ezio non doveva essere della partita, ma si è prontamente inserito, dichiarando di voler indagare sulla Chiave ritrovata sotto il Palazzo. Come ti ho già detto, quell’uomo è diretto come uno dei tuoi quadrelli e a volte mi appare come la personificazione della seconda frase del principio fondamentale del nostro Credo: tutto è lecito.

Il piano in sé era semplice, sostituirci ai musici italiani assunti per allietare la Mostra e infiltrarci nel Palazzo. Non so quale sia il motivo, ma non ho potuto fare a meno di notare una certa bieca soddisfazione da parte  di Ezio nel dare una botta in testa a quei menestrelli allo scopo di rubar loro i vestiti... dovrò chiedergli lumi in proposito.

Stendo un velo pietoso su quanto fossimo tutti ridicoli con quegli abiti addosso e non mi permetto neanche di fare un paragone tra l’abilità di Ezio col liuto e quella di Serdar, che non ha pari in tutta la Confraternita, ma di certo non posso negare che il Mentore possieda una gran bella voce profonda e un dono naturale per l’improvvisazione. Ho avuto la netta impressione che inventasse le canzoni sul momento, ispirandosi alla sua esperienza. Di certo quell’uomo ha un sesto senso per identificare i sicari, ma i versi con cui me li indicava erano talmente esilaranti, che ho rischiato più di una volta di scoppiare a ridere dimenticandomi del tutto il motivo per cui mi trovavo lì! Abbiamo fatto sparire con discrezione un buon numero di bersagli prima di essere scoperti e la prontezza di Ezio nell’eliminare l’ultimo a un passo dal Principe, trasformando il suo strumento in un’arma letale, ha fatto sì che la situazione non si volgesse in un totale disastro.

Mentre ti scrivo, il nostro Menestrello è a colloquio con  Solimano. Forse gli starà chiedendo della Chiave e dei Bizantini, o forse lo starà deliziando con un concerto privato...

 

Yusuf posò la penna. Il lieve sorriso che aveva sulle labbra traspariva dalle parole vergate sulla carta, ma non riusciva ad allontanare dalla sua mente un giudizio un po’ severo nei confronti del Mentore italiano. Ezio Auditore era un lupo solitario, uno che aveva quasi sempre agito da solo, prendendo le sue decisioni senza interferenze e quando aveva avuto il supporto di una Confraternita, questa era stata ai suoi ordini. Per quanto fosse un uomo aperto e capace di ascoltare i consigli, di certo non sembrava pronto a piegare i suoi scopi alla situazione contingente, quanto piuttosto il contrario e malgrado la sua presenza in città avesse portato vantaggi innegabili agli Assassini, Yusuf non poteva fare a meno di sentirsi un po’ scavalcato e di domandarsi in quale misura la Confraternita Ottomana si sarebbe trovata a pagare quell’aiuto inaspettato.

 

 

 

Kaymaklı, Anatolia Centrale,

Jumâda Ath-Thânî 917

(Settembre 1511)

 

 

Orhan, questo il nome con cui Sahkulu è conosciuto tra i suoi uomini più fedeli, lascerà l'Anatolia nei prossimi giorni ma non so dove sarà diretto. Che la ribellione si stia solo spostando altrove? Non voglio fare congetture in questa lettera perché temo di non averne il tempo.

 

Lascio anch'io la città: sulla strada di ritorno dal villaggio ho avuto la sensazione di essere pedinato e gli uomini che hai mandato per proteggermi non si sono presentati alla mia porta. Temo di aver fatto il passo più lungo della gamba, Maestro, e per questo vorrei ritirarmi senza ulteriori rischi dall'Ordine che sono onorato di aver servito finché ho potuto.

 

Salute e Pace,

Fadil

 

Il messaggio finiva così e quando Yusuf alzò gli occhi dal rotolino di carta sbrindellata che aveva tra le mani, Kasim, dall'altra parte della scrivania, non tardò a chiedergli cosa dicesse.

Il Maestro fece un gesto con la mano come per allontanare un fetore e riarrotolò la lettera maneggiandola con attenzione.

— Un nostro informatore in Anatolia ha parlato chiaro: il capo della rivolta ha lasciato la regione diretto chissà dove e non abbiamo altre notizie di lui... — borbottò. — E forse non le avremo mai. — si corresse poi, ricordando che Kasim aveva detto di aver trovato il messaggio alla zampa di un piccione dal piumaggio incrostato di sangue secco. Perciò qualcosa gli diceva che la partenza dall'Anatolia si era svolta in gran fretta e che non avevano più occhi e orecchie, in quelle terre. L'immagine nella sua mente di Dönek che sventrava a morte Fadil, che non aveva mai conosciuto di persona ma sapeva avere moglie e figli ad Ankara, gli aveva seccato gli occhi.

Congedò Kasim, stupendosi di non averlo fatto a male parole come faceva negli ultimi tempi quasi con tutti, ma se ne pentì ugualmente quando si sentì attanagliare dal rimorso per aver lanciato in braccio al carnefice, in questo caso Dönek, altri tre uomini innocenti.

 

 

— C'era un tipo bello grosso con una maschera di metallo, all'Arsenale. — disse Serdar d'un tratto, comparendo sotto l'arco della biblioteca.

— Cosa? — fece Yusuf, distratto, distogliendo l'attenzione dalla piantina con la disposizione dei Covi ancora in mano ai Bizantini che stava studiando ormai da ore.

Serdar si staccò dalla colonna e venne verso di lui alla luce delle fiaccole. Si tolse i guanti che mise sotto l'ascella e aprì i palmi sopra il braciere. — Ero con il Mentore italiano all'Arsenale, due sere fa, perché mi hai chiesto di fargli da spalla mentre è qui, se tu sei occupato. — riprese. — Ti sto riferendo solo ciò che ho visto e potrei sbagliarmi, ma credo che sia lo stesso uomo. —

Yusuf aggrottò la fronte. — Di che uomo parli? —

Dönek.

Serdar lesse che l'altro aveva capito nel suo sguardo e andò dritto al punto.

— Amir sapeva che quel bastardo avrebbe continuato la sua opera finché fosse stato ancora in vita, o non avrebbe mai corso un tale rischio pur di portare a termine la missione e farlo fuori. Ora è di nuovo al fianco dei Bizantini e noi abbiamo tutto il diritto di spaccargli la faccia a quel figlio di un… —

Quando Serdar iniziò la sua lunga lista di insulti, Yusuf era già in salvo, immerso nei pensieri.

Prima gli Assassini e poi neppure l'Impero era riuscito a ucciderlo. Forse Dönek era destinato a seminare caos per sempre, o forse il Destino aveva in serbo qualcosa di davvero orribile, per lui, e stava solo prendendo tempo… Il Maestro e la Confraternita tutta pendevano vertiginosamente per quest'ultima, ma nel frattempo nessuno se ne sarebbe stato con le mani in mano.

Yusuf puntò di colpo la passerella. — Serdar, alla Gilda dei Ladri! —

— Che vuoi fare? — chiese quello, seguendolo.

— Scagliare addosso a quel bastardo tutte le pietre roventi, i mastini affamati e i Diavoli che conosco! — gridò, sicuro che lo avessero sentito tutti fino alle camerate degli Apprendisti, ed era giusto così.

 

 

Istanbul,

Ramadan 917

(fine di Dicembre 1511)

 

Ràhel,

lui era qui.

Nella prima lettera dall'Anatolia, l'Informatore faceva menzione di una strana maschera… Ebbene, penso che Sahkulu se la sia fatta forgiare affinché non lo riconoscessimo una volta che fosse tornato ad Istanbul. Grosso errore, il suo, presumere che sarebbe bastato il metallo a celare il suo fetore di anima nera e marcia. È stato Serdar a capirlo: solo lui che era con noi quella notte in cui Amir morì, al mio fianco nel momento in cui ho letto il messaggio di Fadil, e con Ezio la notte in cui Sahkulu si trovava all'Arsenale avrebbe potuto capirlo. Da quel momento ci siamo mossi più rapidamente possibile, ma a Latif è bastato sguinzagliare uno dei suoi ragazzi poche ore nella città per scoprire che Sahkulu aveva già preso il largo, di nuovo...

Per un attimo mi sono illuso di poter infine compiere io stesso la nostra vendetta, ma si è trattato di un'illusione, appunto, alla quale vorrei non aver mai creduto… Ora sono di nuovo distratto e insofferente come lo sono stato molti anni fa, e forse te ne ricordi bene, con la differenza che adesso una parte di me teme che il passato sarà sempre in agguato dietro la porta e che non conoscerò mai più la pace. Vorrei che tu fossi qui, perché è in momenti come questi che vorrei raccontarti tutta la verità…

 

Yusuf fissò a lungo l'ultima frase che aveva scritto. La verità di cui parlava non osava neppure raccontarla a se stesso, perché sarebbe stato come raccontarsi da solo una storia terribile o un incubo. Nessun uomo sano di mente lo avrebbe fatto, tantomeno se di mezzo c'era la donna che amava, e Yusuf non voleva che Ràhel insistesse di saperlo una volta tornata da lui, rischiando di rovinare un caldo abbraccio o un bacio appassionato dopo tanto tempo che erano stati lontani…

Accartocciò il foglio e ricominciò tutto da capo.

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Capitolo 50
*** Capitolo 49: Fine della battaglia ***


Târgovişte,

Dhul-Qa`da 917

(Gennaio 1512)

 

Yusuf,

Vlad è morto e Basarab è sul trono. Malgrado i dubbi espressi dal Mentor Istvàn, Mihaloglu bey ha fornito il suo appoggio e il voivoda e stato sconfitto presso  București. Il nostro ruolo in questi mesi si è svolto prevalentemente nell’ombra ed è stato quello di spianare la strada, eliminando le sue entrature e i suoi luogotenenti, in modo da isolarlo e renderlo vulnerabile. Un lavoro complesso ed estenuante, che mi ha lasciato a malapena il tempo di respirare, al punto che non sono mai riuscita a leggere una delle tue lettere tutta in una volta. Questo è il primo momento in cui riesco a fermarmi e rivolgermi a te come Ràhel che scrive a Yusuf e non come un’Assassina sul campo che compila un freddo rapporto per il suo Maestro.

Lo scopo è stato raggiunto, ma a un prezzo assai elevato. La nostra compagine non ha subito perdite, ma lo stesso non si può dire per i miei Fratelli valacchi, che hanno perduto il loro Mentor. Un ultimo, disperato colpo di coda, un agguato, e Istvàn non ha potuto vedere realizzarsi quello per cui si era spinto fino a Istanbul alla ricerca del nostro aiuto. L’Ordine resta debole in Valacchia. Al suo successore saranno necessari anni per ricostruire.

Quando ho lasciato la mia terra, quindici anni fa, ero solo un’Apprendista che inseguiva l’istinto e una debole speranza. La notte del nostro ultimo incontro, Vali ha distrutto quella speranza ed è scivolato via dalla propria pelle come un serpente in muta, lasciandomi tra le mani solo un involucro vuoto e a brandelli. Non ha avuto più senso inseguirlo, perché non avrei più potuto riportarlo indietro. La Confraternita in Valacchia è stata la mia famiglia, ma il voltafaccia di Vali, che era il mio vero sangue e il mio retaggio, ha spento in me ogni desiderio di ritorno. Sono cresciuta all’ombra di mio fratello e quell’ombra si è fatta cupa e infamante, ma Istanbul mi ha accolta benevolmente, facendomi diventare un’Assassina sotto la guida aperta e sapiente dei miei Maestri e una donna tra due braccia accoglienti e quasi altrettanto esperte.

L’ombra di Vali infesta ancora la mia vita, scivolando via ogni volta che mi avvicino e riducendo in macerie ogni cosa tocchi, ma tornare in Valacchia e perdere Istvàn, mi ha messa di fronte a due verità: non è rimasto niente per me nella mia terra, eccetto la vergogna e il deserto, ed è stata Istanbul a rendermi libera.

Piango l’uomo che è stato un padre per me, e un fratello che è come se fosse morto. Il dolore mi fa apparire eterni i giorni che mi separano dalla partenza e mi priva del tutto della soddisfazione di aver portato a termine quello per cui sono venuta. Qui non è più la mia casa, sono anni che lo so, oramai, o non sarei rimasta a Istanbul, ma è come se soltanto ora riuscissi davvero a rendermene conto. Ho una nuova casa adesso e quella casa sei tu.

 

Kara Deniz e Istanbul,

Dhul-hijja 917

(Febbraio 1512)

 

 

Era da poco passato mezzodì quando i minareti di Istanbul cominciarono a delinearsi sull’orizzonte nebbioso. Una pioggerella sottile, più simile a vapore, bagnava il ponte della nave e inzuppava le vele e il sartiame. Il vento freddo e teso imprimeva allo scafo una buona velocità e Ràhel, in piedi presso la battagliola di dritta, si stringeva nel mantello appesantito dalla pioggia, trattenendo il cappuccio con una mano. Alla vista di quel familiare profilo non poté trattenere un sorriso dall’affiorare sulle sue labbra, in mezzo a tutta la tristezza che si portava dietro in quel viaggio.

Qualche ora dopo, quando la nave imboccò il Corno d’Oro, Ràhel rimase senza fiato, e l’angoscia le torse lo stomaco: la torre che reggeva il capo meridionale della Grande Catena era in rovina e intorno gli scheletri anneriti di un numero imprecisato di navi spuntavano dal mare come dita adunche. I marinai si erano ammassati sul lato sinistro e fissavano quella distruzione con la bocca aperta e gli sguardi vacui; un silenzio carico d’ansia era sceso sul ponte e solo i comandi secchi del capitano, ripetuti ben due volte, riuscirono a spezzarlo.

Ràhel voltò lo sguardo verso la Torre di Galata, cercando invano sollievo in quella vista confortante. Le domande e la paura le affollavano la mente, e quel maledetto attracco era ancora troppo lontano.

 

La pioggerella era diventata un diluvio quando la nave si accostò al molo, ma lui se ne stava lì, noncurante, il cappuccio abbassato, appoggiato a una pila di casse con la postura indolente di chi ha tutto il tempo del mondo.

Nel riconoscere quella posa da gatto sornione, Ràhel fu sommersa da una tale ondata di sollievo che il cuore parve spiccare un balzo verso l’alto e le tavole del ponte sfuggirle da sotto i piedi. Afferrò la battagliola con entrambe le mani, mentre il vento le strappava via il cappuccio, facendole volteggiare il mantello attorno.

Gli ormeggi furono assicurati e la passerella calata, ma i mozzi non fecero neanche in tempo a legarla che Ràhel già correva, anzi, volava verso di lui lungo le assi rese scivolose dalla pioggia. In due balzi lo raggiunse e si buttò fra le sue braccia con tale impeto che le casse a cui era appoggiato ondeggiarono pericolosamente.

Yusuf profumava di pioggia, dell’incenso bruciato nel Covo, di fumo di legna e tabacco e di acciaio appena affilato. Riconoscere la saldezza del suo corpo contro di sé, insieme al familiare ingombro delle sue armi spazzò via ogni ansia, paura e domande dalla mente di Ràhel. Sentì un braccio infilarsi sotto il mantello quasi con cautela a circondarle la vita, e una mano gentile affondare fra i suoi capelli, impigliandosi nei ricci ormai zuppi di pioggia. Si abbandonò in quell’abbraccio bagnato che sapeva di casa, di lunghe veglie e di fiato corto, mentre gli schiamazzi del porto e lo stridio dei gabbiani le giungevano come da lontano, ovattati dal suono del respiro di Yusuf nel suo orecchio. Sollevò la testa e incontrò i suoi occhi, che in quel momento avevano assunto lo stesso colore del cielo nuvoloso e scintillavano allegri. C’era stanchezza sul suo volto, ma il sorriso era quello di sempre, così aperto e luminoso da fermarle il respiro.

— Che bello vederti. —  disse Yusuf, la voce un po’ arrochita dall’emozione, ma prima che Ràhel potesse rispondere, qualcuno alle sue spalle si schiarì la gola e lei si voltò con una vampa di calore sulle guance.

— Maestro…— disse Nalan trattenendo a stento un sogghigno e circondata dal resto della squadra che mal celava il divertimento sotto le espressioni serie e ossequiose.

— Credo che abbiamo dato spettacolo. —  sussurrò Yusuf, allontanando le mani dalla sua vita e dai suoi capelli con uno sforzo evidente e scostandosi da lei.

Salutò gli Assassini con il consueto calore, stringendo le braccia dei Maestri e distribuendo a tutto il gruppo il suo affabile benvenuto, mentre Ràhel si guardava intorno in preda all’imbarazzo. Anche gli scaricatori parevano ridacchiare.

Fu solo in quel momento che all’Assassina tornarono in mente la torre distrutta e le navi bruciate.

— Yusuf, —  disse. — cosa è successo all’imbocco del Corno d’Oro? —

Lui sospirò, porgendole la balestra avvolta nella tela cerata che era stata depositata sul molo e caricandosi in spalla le sue sacche.

— La partenza del Mentore Auditore alla volta della Cappadocia non è stata molto… discreta.—

Ràhel sgranò gli occhi e il resto della squadra lo fissò con sconcerto.

— La storia si è piuttosto complicata nelle ultime settimane. —  proseguì Yusuf. — Ma andiamo ora, quando saremo al Covo vi metterò al corrente di tutto. —

Il sorriso non aveva lasciato le sue labbra, ma a Ràhel non sfuggì la leggera tensione che trapelava dal suo corpo, anche se ben dissimulata, e la stessa cosa parvero notare gli altri Assassini.

Tutti si avviarono dietro al Maestro sotto la pioggia, con l’atteggiamento apparentemente rilassato e gli occhi vigili di un felino in caccia.

 

Ràhel fece una pausa, strofinandosi gli occhi stanchi. In ogni momento sembrava sul punto di crollare sotto l’assalto dei ricordi, ma andava avanti, sostenuta da una forza quasi misteriosa e la determinazione che compariva sul suo viso suscitava in Ezio sorpresa e ammirazione.

— Yusuf ci raccontò di aver visto entrare un carico d’armi all’Arsenale e che il sistema che escogitasti per entrare non visto ad indagare  fu quello di organizzare una sollevazione popolare davanti alle sue porte. —  proseguì.

— Non ne sono così orgoglioso, ma funzionò. —

— Ci disse anche che le indagini avevano svelato il coinvolgimento del Capitano dei Giannizzeri Tarik Barleti. Ma che fu un tragico errore. —

— Quando mi rivelò di aver cercato di sventare da solo la cospirazione Templare Bizantina contro l’Impero e la destinazione del carico era troppo tardi. L’avevo già colpito a morte. —

Ezio sospirò. — Gli indizi portavano a lui, e la sua morte fu volontà del Principe Solimano, ma avrei dovuto agire con minor fretta. A causa dell’assassinio di Tarik, i Giannizzeri decisero di tendere la  Grande Catena fino alla cattura del colpevole e questo fece sì che la mia partenza non fosse per niente rispettosa del Secondo Principio dell’Ordine. —

Si era trattato di un’orgia di esplosioni e di fuoco greco, quanto di più lontano dall’agire nell’ombra si potesse immaginare.

Le sue spalle si curvarono un poco: quella lunga notte lo stava mettendo di fronte a una triste consapevolezza.

— Sembra che tutta questa storia sia stata costellata di miei errori. —

 

Ràhel stava seduta con le gambe ripiegate sotto di sé al riparo di una tettoia del cortile degli allenamenti.

Scemata l’emozione del rientro, la stanchezza del viaggio si faceva sentire. Sognava un bagno caldo da quando era salita sulla nave a Costantza, ma l’urgenza di udire le novità l’aveva distratta e ora, nell’attesa che l’acqua si scaldasse e che i Novizi le riempissero la vasca, non voleva far altro che restarsene lì, a guardare il ciliegio che tendeva i rami spogli nella pioggia.

— Cosa fai qui? Vuoi gelarti fin nelle ossa? —  La voce di Yusuf, del quale non aveva avvertito i passi, la distolse dalla sua contemplazione.

— Sì. —  rispose socchiudendo gli occhi. — Così il bagno sarà ancora più piacevole. —

Lui le si sedette accanto senza aggiungere parola e il suo silenzio la sorprese. Si era aspettata almeno una battuta salace, e invece… Si voltò per fissarlo in viso e lo trovò stranamente serio, lo sguardo che pareva evitare il suo. Sedeva rigido, le braccia incrociate sul petto, la tensione evidente.

— Che c’è? —  chiese, turbata da quell’atteggiamento.

— Devo dirti una cosa. E spero mi perdonerai per non averne fatto parola nelle mie lettere. Non volevo darti altri pensieri. —

Lei si accigliò. — Di che si tratta? —

Yusuf alzò gli occhi nei suoi e Ràhel non seppe dire cosa stava vedendo nel suo sguardo. O forse non volle.

— Vali è morto. —

Il respiro di Ràhel si fermò.

Al suo arrivo in Valacchia nessuno era stato in grado di fornirle informazioni su suo fratello, sembrava essersi dissolto come la nebbia al sorgere del sole, un’ombra sfuggente e inafferrabile. La ragione e il cuore si erano affrontati aspramente dentro di lei, e ancora non c’era un vincitore. In quello stesso momento, mentre la verità, pesante come un macigno, si mostrava davanti a lei, era come paralizzata da due forze che la tiravano in direzioni opposte. Riuscì solo ad afferrare con mano debole la manica di Yusuf, e ad aprire la bocca senza riuscire ad emettere un suono.

— E’ ricomparso in città l’estate scorsa. —  La voce del Maestro era calma e appena venata di amarezza. — Ha ucciso due dei nostri, è riuscito a sfuggire a Ezio e Serdar che l’avevano intercettato e di nuovo ha fatto perdere le sue tracce. — 

Ràhel si costrinse ad inspirare.

— All’inizio del mese scorso, —  continuò Yusuf. — due apprendisti scomparvero dal Covo di Galata e Serdar, che si trova a capo di quel covo dalla sua difesa il giorno dell’arrivo di Ezio, si vide recapitare un messaggio da parte di Vali, in cui si intimava di consegnare la proprietà ai Templari in cambio della vita degli ostaggi. Serdar ne parlò con me e col Mentore. Non si poteva sottostare al ricatto, bisognava agire, e in fretta. Il quartiere fu rastrellato e gli ostaggi rintracciati e liberati, in silenzio e senza clamori, ma si trattava solo di un diversivo, una trappola, per sviare l’attenzione dal Covo Principale. Siamo stati attaccati duramente e abbiamo resistito finché gli assalitori non hanno perso coesione quando Vali è stato preso poco lontano da qui. Le sue ultime parole sono state contro gli Accordi, da cui si era sentito tradito.—

Il cuore strattonò Ràhel dalla sua parte e un’onda di dolore e rabbia impotente si abbatté su di lei, restituendole forza. La sua mano si strinse con più decisione sulla stoffa della manica, come se volesse strapparla.

Potevate… catturarlo, pensò, ma lui non si sarebbe mai fatto prendere vivo. E anche se fosse accaduto, avrei potuto vederlo, parlargli e decidere di piantargli un coltello nel cuore?

Qualcun altro aveva fatto quella scelta al posto suo, usurpando un suo diritto e sollevandola allo stesso tempo da una responsabilità quasi insopportabile.

Chi?

Lo sguardo di Yusuf si indurì, come se avesse letto i suoi pensieri.

— La mano che ha ucciso Vali è stata quella dell’Ordine, Ràhel. La responsabilità è condivisa e ricade su tutti noi, anche su di te. Non avresti potuto riservartela, così come non puoi attribuirla a qualcun altro. —

Ràhel si sentì smarrita, ma fu la ragione questa volta ad afferrarla, parlandole con la voce di Vali.

Mi ucciderete.

Le sue parole sussurrate in quella notte di tanti anni prima si specchiavano ora in quanto Yusuf le aveva detto, citandole una lezione che lui stesso aveva ben imparato in passato. La rabbia si attenuò, mentre si rendeva conto che l’intero Ordine aveva pianto suo fratello nel momento del suo tradimento, e continuava a farlo ora, nel momento della sua morte. Non poteva riservarsi neanche il dolore, che era reso solo più profondo per lei dal fatto che Vali fosse il suo sangue.

Abbassò gli occhi e la mano le ricadde in grembo.

L’uomo che amava era anche il suo Maestro, e da Maestro le aveva parlato, ma ora era l’uomo che le sollevava il mento con le dita e la fissava negli occhi senza alcun bisogno di parole.

In silenzio, Ràhel accettò entrambi.

 

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Capitolo 51
*** Capitolo 50: Tutta la verità ***


Istanbul,

Muharram 918

(Fine di Marzo 1512)

 

 











l colombo viaggiatore sorvolò l’alternarsi di rocce frastagliate e spiagge della costa di quella che era un tempo la Provincia Romana di Cappadocia. Incontrò tempo buono e ben pochi venti contrari, sfuggì alla picchiata di un falco pellegrino e in poco meno di una giornata attraversò il Corno d’Oro, raggiungendo il Distretto di Galata e la colombaia sul tetto del Covo degli Assassini Ottomani. Si lasciò docilmente afferrare da un Novizio di nome Milos, che slegò dalla sua zampetta un piccolo cilindro di legno, e finalmente poté tuffare il becco nel miglio e riposarsi dal lungo volo.

Milos si calò per la scala e attraversò il cortile degli allenamenti, lanciando un’occhiata veloce ai compagni che si esercitavano con le armi, senza risparmiare una critica silenziosa agli errori che notò. L’aria primaverile era fresca e il cielo, che mostrava solo poche nuvole stracciate dal vento, gli strappò un sorriso.

Percorse i corridoi con passo spedito fino alla porta dello studiolo, dove bussò e attese.

— Avanti. —

Milos si rassettò le vesti e raddrizzò il cinturone, aprì la porta e fece un passo all’interno, piegando immediatamente un ginocchio a terra.

— Salute e pace, Maestro. Un messaggio per l’Ordine. —

— Salute e pace a te, Milos. Alzati e dammi qua. —

Il Novizio si rimise prontamente in piedi e depose il cilindro nella mano tesa del Maestro che, senza rivolgergli ulteriori sguardi, lo aprì e srotolò il piccolo foglio di pergamena che vi era contenuto.

Non doveva trattarsi di buone notizie, perché Milos vide le sopracciglia del Maestro aggrottarsi e il suo volto indurirsi. Il Novizio rimase immobile e privo di espressione, come si richiedeva a chi non era ancora stato congedato, ma ebbe la netta sensazione che l’aria nello studiolo avrebbe potuto essere spaccata e usata per raffreddare l’inferno stesso.

Il Maestro si lasciò cadere su una sedia, incurante della pila di carte che scivolò a terra e solo in quel momento parve ricordarsi di lui.

— Grazie, Milos. Puoi andare. — disse senza alzare gli occhi dal piano del tavolo, dove le sue mani nervose lisciavano con insistenza il pezzetto di pergamena che continuava ad arrotolarsi.

— Hai altri ordini per me? —

Il palmo del Maestro si abbatté sul tavolo e altri fogli si sparsero sul pavimento.

— Ho detto che puoi andare! — Nel suo sguardo e nella sua voce c’era il pieno inverno.

Milos chinò il capo e girò sui tacchi, chiudendo la porta dietro di sé. Se non fosse stato troppo orgoglioso per farlo, avrebbe corso fino al cortile: la cosa che desiderava di più in quel momento, era il calore di un po’ di sole.

 

Il rumore della porta che si chiudeva alle spalle del Novizio risuonò nello studiolo con lo stesso cupo fragore della pietra che cala su una tomba.

Yusuf strinse il pugno sul tavolo accartocciando la pergamena e le due righe d’inchiostro vergate con la grafia pulita del Mentore Auditore.

 

Shahkulu è morto.

Requiescat in pace.

 

Quel maledetto bastardo aveva ucciso Amir. Aveva trascinato per anni una scia di sangue nel cuore della Confraternita.

Ora era davvero finita.

Yusuf si costrinse ad aprire il pugno. Non era sua la mano che aveva posto fine a quello scempio, era stata la lama dell’Auditore a cauterizzare la ferita aperta che sanguinava da un tempo infinito e ora lui sentiva l’impulso di urlare, come se il cauterio gli stesse bruciando la pelle, e oltre, fino in fondo all’anima.

Nella sua vita aveva custodito un solo segreto: Dönek. Lo aveva custodito con caparbietà ed estrema efficienza, lasciando che lentamente gli corrodesse il cuore, gli provocasse rabbia, vergogna e dolore, rammarico e rimpianto. Aveva accettato un patto scellerato con l’ombra di un ragazzo che rappresentava il tempo dell’incosciente innocenza, quando tutto appare semplice e chiaro e ogni cosa è ben definita nei netti contrasti della giovane età. Tutta la sua vita di adulto era stata oscurata da quell’ombra che lo aveva sconfitto, poco più di un anno prima, lasciandolo a terra, vivo, ma con le ossa e il cuore in frantumi.

Maledetto. Lui e me. Maledetti entrambi.

Ora che la sua controparte fisica aveva finito di esistere nel mondo, l’ombra veniva strappata lentamente dalla sua anima, ma resisteva, tenacemente, aggrappandosi con artigli affilati, scavando solchi e ferite, portandosi via brandelli di carne.

Appoggiò la fronte al piano del tavolo con un gemito. Resistere a quel dolore era un’impresa impossibile e l’unica via rimasta era quella di accoglierlo; nella disordinata solitudine di quello che era stato lo studiolo di Ishak, Yusuf pianse.

 

Aveva  cercato Milos e lo aveva trovato ad allenarsi in cortile. Si era soffermato per un po’ ad osservare quel ragazzo diligente e ambizioso che ancora non si radeva tutti i giorni, valutandone il talento già parecchio evidente, e poi aveva attirato la sua attenzione con un cenno. Il Novizio aveva rinfoderato la spada e si era precipitato da lui, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica e chinando il capo in segno di rispetto.

— Maestro. —

— Stai facendo un buon lavoro, Milos. —

Sul volto del ragazzo si aprì un sorriso.

— Grazie, Maestro. Di certo ho ancora molta strada da fare. —

Ma sei già a buon punto.

— Ora ho un ordine per te. —

Yusuf si era pentito dello scatto d’ira che gli aveva rivolto, ma di sicuro non poteva scusarsi apertamente.

— Sì, Maestro. —

— Comunica alla Confraternita che lo Shahkulu è morto. Il Mentore ha posto fine alla sua vita in Cappadocia. —

Milos spalancò gli occhi per lo stupore.

— Maestro, è una notizia molto importante. Non vorresti essere tu a…—

— Stai discutendo i miei ordini? —

Il ragazzo sobbalzò.

— No, Maestro. È un onore. —

— Bene. Allora esegui. Hemèn! —

Yusuf si allontanò senza aggiungere altro.

Lasciò il Cortile e poi il Covo, avviandosi per le vie affollate nella luce ambrata del tardo pomeriggio fino al cimitero di Galata.

Amir, amico mio. Ti chiedo perdono per non averti messo a parte di questo segreto.

Camminò tra la gente, senza vedere nessuno, senza sentire una voce, con il sole che gli accarezzava la testa e l’inverno nel cuore. Si fermò solo quando arrivò al porto e la banchina sotto i suoi piedi finì. Davanti a lui solo il mare, le barche alla fonda e le urla dei gabbiani.

La mano destra scivolò nella tasca dei pantaloni, riconoscendo la forma familiare dei dadi consumati e scheggiati. Non aveva trascorso un giorno senza portarli con sé, e mille volte aveva pensato di disfarsene, senza mai trovare il coraggio per farlo. Li aveva conservati come un amuleto, o forse come un monito, qualcosa che gli ricordasse sempre da dove veniva e ciò che aveva deciso di nascondere. Tirò fuori la mano e l’aprì, restando a lungo a fissare quei due cubi il cui colore rosso era ormai sbiadito. Quelli sembravano ricambiare il suo sguardo, beffardi, come a rammentargli che non poteva cambiare ciò che era stato e che non c’era ritorno dalle sue scelte. Yusuf li fece rimbalzare un paio di volte sul palmo e poi li strinse così forte che le nocche impallidirono. Caricò il braccio come per lanciare un pugnale e dovette fare forza su se stesso per costringersi ad aprire le dita alla fine del movimento. I dadi disegnarono un arco rossastro, roteando nell’aria i loro pesi squilibrati e finirono in mare sollevando un piccolo spruzzo.

Solo le alghe e i pesci sarebbero stati testimoni di quell’ultimo lancio.

 

Rientrò a notte fonda, inseguito dal  vento freddo di quella primavera ancora incerta e si diresse verso la stanza di Ràhel, con il macigno sul cuore che sembrava rallentargli ogni passo.

Entrò senza neanche bussare.

Lei se ne stava seduta sul letto, con le gambe ripiegate sotto di sé e un libro aperto sulle ginocchia. Aveva sollevato la testa di scatto e ora gli rivolgeva un sorriso. La luce dell’unica candela disegnava ombre morbide sul suo viso e si rifletteva nei suoi occhi. Era bella da far male.

— Dov’eri finito? — chiese Ràhel soffocando uno sbadiglio. — Milos probabilmente si sta pavoneggiando anche nel sonno per la notizia che gli hai chiesto di comunicare. —

Yusuf strinse le labbra e chiuse gli occhi per un attimo. Quella battuta innocente gli si era piantata nel petto come un gancio da macellaio.

— Ero al cimitero, a… parlare con Amir. —

Ràhel lo fissò inclinando il viso di lato. L’espressione allegra era scivolata via.

— E ora ho bisogno di parlare anche con te. —

Lei gli tese la mano, invitandolo ad avvicinarsi e Yusuf la raggiunse, sedendosi accanto a lei.

— Mi ricordo bene la sera che sei arrivata. Pioveva a dirotto e io ho scherzato sui tuoi quadrelli. Mi sono chiesto per un sacco di tempo dove avessi trovato il coraggio di presentarti qui e raccontarci di tuo fratello, come fossi riuscita a farlo senza avere idea di chi ti trovassi davanti, di come avrebbe potuto reagire. Eri una ragazzina…—

Lei lo ascoltava in silenzio.

— …eri una ragazzina che aveva mille volte più coraggio di me. —

— Che vuoi dire? —

Yusuf la guardò negli occhi con un sorriso amaro e le sfiorò la guancia con le dita.

— Che in tutti questi anni non ho mai trovato il coraggio di dire la verità. A nessuno, nemmeno a Ishak, ad Amir, a Zhure e nemmeno a te. A nessuno. —

— Quale verità? —

Fu come un’inondazione. Tutto il dolore traboccò, travolse la rabbia, la vergogna e il rammarico e come l’acqua riprende il suo corso naturale rompendo gli argini che l’hanno costretta, l’anima di Yusuf parve finalmente raddrizzarsi e respirare di nuovo.

Mentre parlava, Ràhel gli aveva afferrato le braccia, come per resistere alla forza di quella piena e lui non aveva mai staccato lo sguardo dal suo, cercando di immaginare i suoi pensieri, tentando di intuire il suo giudizio.

La luce della candela tremolò e si spense. Yusuf aveva esaurito le parole e anche la voce. Attraverso il lucernario, la luna ricopriva tutto di una patina argentata. Le mani di Ràhel si posarono sulle sue spalle e poi si intrecciarono dietro il suo collo, il viso così vicino da sentire il profumo di spezie nel suo respiro.

— Siamo vivi, Yusuf. — disse. — Dönek è morto, Vali è morto. E Ishak, e Amir, e Zuhre…—

Le lacrime appese alle sue ciglia brillavano nella luce lunare.

— Ma noi siamo vivi. —

Gli posò un bacio sulle labbra e lui la strinse in un abbraccio che sapeva di dolore e di sollievo. Quanta vita c’era in quel suo corpo sottile e forte…

 

 

La luna si era spostata nel cielo e solo una sua piccola parte era ormai visibile dal lucernario.

Sdraiato su un fianco, un braccio ripiegato dietro la testa, Yusuf ascoltava il respiro di Ràhel addormentata lì accanto e ne accarezzava con gli occhi le forme vestite solo del chiarore lunare. Assaporava quel suo abbandono come aveva goduto del suo slancio appassionato. L’onda straripante di vita con cui l’aveva travolto lo aveva lasciato sconcertato e del tutto inerme. Non aveva potuto far altro che cedere a quel suo tentativo quasi disperato di dimostrargli che non giaceva sotto un paio di braccia di gelida terra e che c’era ancora sangue nelle sue vene.

Ora la stanchezza gli intorpidiva ogni muscolo, ma il sonno stentava ad arrivare. Il dolore ancora occupava un angolo della sua mente e da quel luogo buio sussurrava incessante. Yusuf sapeva che solo col tempo sarebbe riuscito a farlo tacere, ma non poteva negare di sentirsi più libero ora che aveva trovato finalmente la forza di strappare quel segreto dal suo cuore. Provava vergogna per aver negato così a lungo la verità alla donna che, senza riserve e senza alcuna pretesa, gli era rimasta accanto in quegli anni, condividendo le prove difficili, le sconfitte e i successi, l’oscurità della perdita e la dolcezza pericolosa dei momenti di pace. Sentiva di averle fatto un torto, ma di averlo fatto soprattutto a sé stesso. Quando ogni giorno può essere l’ultimo, quando a ogni respiro potrebbe non seguirne un altro, la pace dentro la mente è la sola priorità. Per lui, che aveva passato la vita a ridere in faccia alla morte, custodendone gelosamente un frammento tagliente dentro di sé, quella ragazza fiera era stata una dura lezione oltre che un dolce rifugio.

Ràhel si girò nel sonno, mormorando qualcosa in quella sua strana lingua così musicale e appoggiò la testa e una mano al suo torace. La cicatrice che aveva sulla spalla sembrava brillare alla debole luce della luna già scomparsa dal riquadro del lucernario. Yusuf la sfiorò con un dito, mentre i ricordi facevano crescere di tono il ronzio doloroso in fondo alla sua mente.

Aşkim…— sussurrò, quasi sorpreso del sapore agrodolce di quella parola sulla lingua.

Lei si accostò di più, insinuando, senza svegliarsi, una gamba fra le sue.

Te iubesc…— sospirò, la voce impastata di chi sta sognando.

La dolcezza quasi lacerante che lo sommerse lasciò Yusuf senza respiro. Non le aveva mai sentito pronunciare quelle parole, ma ne conosceva bene il significato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 52
*** Capitolo 51: Un canto nel silenzio ***


Il colombo viaggiatore che sorvolò le rocce e le spiagge di quella che un tempo era la Provincia Romana di Cappadocia incontrò tempo brutto e correnti contrarie. Evitò il quadrello di balestra partito da una nave solo grazie all’imperizia del tiratore, ma non la picchiata letale di un falco pellegrino, di gran lunga più abile, che segnò la sua fine.

Il messaggio che portava non raggiunse mai il Covo degli Assassini Ottomani.

 

Manuele Paleologo è morto e il Principe Ahmet è la testa dell’Ordine Templare a Costantinopoli.

Sa di Sofia.

Aspettatevi un attacco in forze.

 

 

Istanbul

8 Safar 918

(25 aprile 1512)

 

 

 

 

 

 

 

 

 











ofia accese dell’incenso e lo posò in un varco tra i libri dello scaffale più alto. — Non smetterò mai di amare questo profumo!— dichiarò la donna, inspirando profondamente.

Yusuf le tese una mano e la sorresse mentre scendeva dallo sgabello col quale era arrivata fin lassù. — Grani allo Storace nero. — disse. — Ottima scelta. —

— Se vendessi le vostre essenze ne sarei talmente gelosa da non darne via, finendo col fallire dopo pochi giorni! E temo di avere lo stesso problema coi miei amati libri. — borbottò lei lisciandosi la gonna e spazzando via un po’ di polvere dal suntuoso velluto verde. Poi, e studiandolo a lungo con gli occhi curiosi di un passerotto, la donna chiese: — Come hai detto di conoscere Ezio? —

— Siamo amici di vecchia data. — rispose l’Assassino rimanendo comunque sul vago, riguardo al proprio ruolo. — La sua è più vecchia. — ironizzò.

Le guance della donna si colorarono. — Dalle mie parti si dice che è proprio l’annata che fa il vino! — ridacchiò andando verso la scrivania, dalla quale prese una pila di volumi che si adoperò a sistemare alfabeticamente tra gli scaffali.

Yusuf la osservava in silenzio, pensando con affetto allo stagionato Mentore come a un compagno davvero insolito per l’intrepida libraia di quartiere. Era venuto da solo quella mattina, congedando Serdar che aveva messo a sorvegliare la bottega, e aveva bussato alla sua porta come un cliente qualunque. Appena lei gli aveva aperto, si era subito chiesto se fosse stata l’abbondante scollatura di lei ad attardare l’Auditore nella bottega, ma i modi gentili di Sofia sfociavano con naturalezza in una calorosa accoglienza e perciò Yusuf non trovò nulla da rimproverare al vecchio italiano.

Nel tempo che il turco spese a guardarla, poté leggerla come un libro: era una donna di grande cultura, tenera e sofisticata, che affogava audacemente nella propria passione per la letteratura, la geografia e la storia. Aveva fatto della libreria ereditata dal padre un piccolo angolo di Babele, dove culture e tradizioni diverse si incontravano, affiancandosi nell’eterna lotta all’usura del tempo e alla polvere, nemici comuni.

D'un tratto un oggetto rotondo imprigionato in tre travi di legno scuro e lucido attirò la sua attenzione. Yusuf si avvicinò al mappamondo e lo fece girare lentamente, sfiorandolo appena con le dita. Lo fermò sul grande Continente dell’Asia, e precisamente sul golfo più occidentale di quello che riconobbe subito come il Kara Deniz. Dopo essere rimasto a lungo ad ammirare quella zona del Mondo, sforzandosi di leggere i dorati caratteri occidentali che chiamavano il nome della sua grande casa e madre, Istanbul, sollevò con un gesto spontaneo la mano che aveva coperto la regione della Valacchia fino ad allora. Pensare a Ràhel gli fu così naturale…

— E’ bellissimo, n’è vero? — domandò Sofia all’improvviso.

Yusuf si voltò di colpo e la sorprese a fissarlo dal pianerottolo, con le mani giunte in grembo e il sorriso emozionato.

— Sì, meravigliosa fattura, leydim. E di straordinaria precisione. —

Sofia scese con una risata i gradini foderati di tappeti. — Non la mappa, che altro non è se una copia approssimativa e imperfetta, — disse affiancandoglisi, — ma il Mondo stesso, nella molteplicità delle sue razze e nella leggendarietà della sua genesi: l’uomo è ancora lungi dal celebrarlo con la devozione che merita e molte parti di esso gli sono ancora ignote — concluse, facendolo girare per mostrare a Yusuf le lontane e inesplorate Americhe.

— Parole di una filosofa. Sei anche questo? — le domandò lui con ammirazione.

— No, buon Dio, no! — esplose lei, sommandovi gli acuti di una risata limpida. — I filosofi cercano una spiegazione ma ignorano che la vita abbia già tutte le risposte. Siamo noi che non le comprendiamo, ed è questo alone di mistero a dare valore a tutto il resto. — 

Yusuf annuì a se stesso. — Il tuo nome significa saggezza, leydim, e sei la prima filozof che non sa di esserlo. —

— No, ti prego, basta! — Sofia gli sfiorò un braccio affettuosamente, ridendo. — La filosofia è come una donna capricciosa e passionale. Ho molti volumi che la celebrano, ma nessuno che sia riuscita a soddisfare e tutti molto impolverati. — Fece una pausa pesando il sorriso sul viso del suo ospite. — Il motivo della tua visita, Yusuf, mi è ancora ignoto. — disse pensosa arricciando le labbra.

— Ezio parla molto bene di te e del tuo… — si trattenne dall’abbassare troppo lo sguardo,

— …assortimento, leydim. —

Sofia si sfregò le mani, felice. — Come ti ho detto posseggo volumi di filosofia, classici e moderni; tutte le vostre raccolte di letteratura e saggistica, ma anche… — s’interruppe quando vide il suo ospite scuotere la testa col sorriso sulle labbra e una strana luce negli occhi.

Yusuf non era entrato per sfogliare vecchi libri, e Sofia lo capì.

— Un caffè? — chiese lei.

Şekerli.(con molto zucchero)

 

Sofia mise sul fuoco un pentolino che in poco tempo cominciò a bollire. Nel frattempo imbandì il tavolo e vi aggiunse un assortimento di biscotti glassati, che ricordarono a Yusuf i baklava con cui Imran lo viziava dopo i pasti.

— Se non sono i libri che t’interessano, cosa posso offrirti per ingannare il tempo? — gli chiese Sofia sedendo sulla poltrona, e soffiando per raffreddare la tazza che stringeva con entrambe le mani piantò gli occhietti da passerotto su di lui.

Sofia lo aveva detto con leggerezza, ma una parte di Yusuf ne fu appesantita inevitabilmente e per un lungo minuto il turco meditò in silenzio.

— Nulla più della tua compagnia, leydim. — disse. — E se hai delle incombenze da sbrigare, fa' come se non ci fossi. —

Si scambiarono un sorriso, dopodiché Sofia azzardò un sorso del suo caffè e inveì subito dopo nella propria lingua natia per essersi scottata la lingua. Yusuf trattenne a stento una risata.

A poco a poco capì cosa lo aveva spinto a bussare di persona alla sua porta. Scoprì il paradosso di se stesso che quella mattina lo aveva fatto sgattaiolare via molto, troppo presto dalle lenzuola calde che condivideva ormai notoriamente a tutti con Ràhel, e che lo aveva condotto da Sofia alla ricerca di una risposta, ma senza aver mai avuto bisogno di comporre la domanda.

Distrattamente si buttò in gola il caffè bollente tutto d’un sorso, pentendosene subito dopo, ma ricacciando indietro le lacrime si sforzò lo stesso di ingoiarlo.

Si sentiva felice.

Libero e felice.

Sofia aveva preso un piccolo volumetto quadrato dalla mensola del camino, se l’era poggiato in grembo e aveva cominciato a sfogliarlo. Beveva a piccoli sorsi, assorta nella lettura. Yusuf non volle disturbarla, così posò la tazza vuota sul tavolino e andò alla finestra che dava sulla piazzetta.

Osservò il trafficare cittadino dalle mura riposanti della bottega, il cui silenzio era rotto solo dallo scoppiettare del fuoco e la pace, la stessa pace dalla quale il suo passato lo aveva tenuto lontano così a lungo, lo pervase di calore al pari del caffè. Se ne sentì prima scottato, poi si disse che avrebbe potuto aprire le braccia e gettarvisi come in un Salto della Fede, abbandonandosi a correnti calde a avvolgenti. Ma si corresse, scuotendo la testa e lasciando cadere le spalle con un sospiro, perché Ràhel non era niente di tutto questo, per lui, niente di caldo e avvolgente.

Ràhel era la neve, che soffice e travolgente si era posata sulla sua pelle, cauterizzando le sue ferite, amalgamandosi a lui. Il cielo si era coperto e lei era stata la burrasca piena di vita che aveva invaso il deserto, insinuandosi tra ogni singolo granello di sabbia, accumulandosi fino ad abbondare con la sua presenza. Era sempre stata al suo fianco e lo sarebbe stata per sempre. Era questo che voleva.

Fu nel bel mezzo di quei pensieri che un uomo, fermo accanto alla bancarella di tappeti nella piazzetta, attirò la sua attenzione. L’aquila rampante a due teste guardava nella sua direzione, verso quella finestra. Yusuf si scostò dal vetro con un balzo improvviso e il gesto attirò l’attenzione di Sofia, che sobbalzò sulla poltrona, voltandosi.

— Tutto bene? — chiese.

Un solo uomo. Non sarà un problema.

Yusuf lanciò un’altra occhiata in strada. — Rimani comoda, leydim, devo… — s’interruppe.

Due archibugieri erano comparsi in alto sui tetti, proprio dove quella mattina aveva trovato Serdar a sorvegliare la Bottega. Da lì si aveva una visuale perfetta di tutto il quartiere.

Yusuf rifece rapidamente i conti: erano una dozzina, tredici con l’uomo accanto al banco di tappeti. Sparpagliati nella piazza, armati.

Troppi per uno scontro diretto.

E lui era da solo.

Dovevano fuggire.

— Sofia, devi alzarti. —

Lei ubbidì, ma non perché glielo avesse ordinato. — Cosa succede? — domandò provando ad affacciarsi. — Cosa hai visto? —

— No! — il turco la bloccò prima che potesse avvicinarsi alla finestra e anzi tirò le tende. — Dobbiamo andare via, non prendere nulla. — La fece voltare e la indirizzò sulle scale. In quel momento udirono bussare.

Si fissarono, ma nessuno si mosse.

Bussarono più forte.

— Forse è un cliente… — mormorò la donna, tutt'altro che convinta delle sue parole.

Bok! — digrignò il turco, mise Sofia dietro di sé e sguainò il kijil. — In veranda! Ora!—

Si precipitarono là, Yusuf era già pronto a sfondare la grata fiorita, ma un bizantino sorvegliava il perimetro esterno e l’Assassino se ne accorse troppo tardi. L’uomo li vide entrambi e gridò qualcosa nella sua lingua. Sentirono dei passi venire dal tetto: erano gli archibugieri che si spostavano per non lasciar loro via di fuga.

Hanno circondato l’edificio: non possiamo uscire o ci spareranno a vista. Siamo in trappola come topi.

Strinse più forte il kijil e allentò la presa sulla mano di Sofia.

Rimane una sola cosa da fare…

— Resta qui! — le gridò.

Ho una promessa da mantenere, concluse nella sua mente.

— Yusuf, che sta succedendo?! Yusuf! YUSUF! — urlò Sofia, terrorizzata, quando lo vide lanciarsi di nuovo in bottega.

Era meglio non aspettare lo scontro nella veranda, troppo ampia, dove i bizantini avrebbero potuto accerchiarlo e sopraffarlo. Nello spazio più ristretto del salotto, sulle scale e tra i mobili, invece, la maestria di un singolo uomo avrebbe compensato qualsiasi superiorità numerica.

Si trattava solo di resistere.

Resistere più a lungo possibile.

E pregare.

 

 

— DEVO PARLARE CON LATIF! — gridò il ragazzino facendo irruzione nel cortile interno della sede della Gilda dei Ladri. La sentinella che gli aveva aperto il portone lo afferrò per il colletto della casacca, quasi sollevandolo da terra. — Calmati, köpek yavrusu! Latif è occupato. Una trattativa importante, sai. Ha detto di non essere disturbato. —

Il ragazzino si dimenò, cercando di liberarsi e continuando a strillare.

— Devo parlargli! Assolutamente! SI TRATTA DEL SUO MIGLIORE AMICO!! —

La sentinella si accigliò, lasciandolo andare e quello attraversò il cortile di corsa, diretto verso la porta della sede che proprio in quel momento si aprì. Latif fece la sua comparsa con un’espressione torva sul viso, mentre alle sue spalle, alcune voci contrariate si lamentavano dell’interruzione.

— Cosa succede, Izer? Cosa ha combinato Yusuf? — chiese allontanandosi dalla porta per non farsi sentire dagli uomini che si trovavano all’interno.

— E’ entrato alla bottega di Sofia Sartor. — rispose il ragazzino senza fiato e Latif sorrise.

— Non penso che... — iniziò, ma l’altro lo interruppe: — Ho visto almeno dodici Bizantini avvicinarsi alla bottega! —

Latif trasalì. — Kahretsin... — mormorò tra i denti. — Hai visto altri Assassini presidiare i tetti?—

— No, nessuno. —

Bok! È solo quindi... — Con la preoccupazione che gli attraversava il viso si rivolse alla sentinella: — Spedisci due squadre alla bottega Sartor, di corsa! E che siano ben armate. — Poi rientrò nella sede a passo di marcia e Izer lo sentì dire: — Purtroppo è sorto un contrattempo di cui devo occuparmi personalmente. Mi vedo costretto a interrompere questa riunione. Potete uscire dalla porta sul retro. — La sua voce era gelida e non ammetteva repliche, ma non riuscì a impedire qualche rimostranza.

— Siete stati voi a chiedere questo incontro e il minimo che potete fare è accettare le mie condizioni. —

La porta posteriore si aprì cigolando e un rumore di passi unito ad un borbottio di imprecazioni accompagnò l’uscita di scena dei misteriosi visitatori.

— Grazie, Izer. — disse Latif ritornando nel cortile. Un attimo dopo volava fuori dal cancello che la sentinella aveva aperto per lui.

 

Serdar congedò la staffetta e sospirò. La nave di Piri Reis con a bordo il Mentore Auditore stava per attraccare alle banchine dell’Imperiale Nord.

Qualcosa era cambiato in città dal giorno precedente: i banditori offrivano una spropositata quantità di denaro a chi avesse fornito informazioni che portassero alla cattura dell’Auditore, e per quanto Serdar ne stimasse il carisma e le indubbie qualità, non poteva certo poter dire di apprezzare il suo tempismo. Di sicuro non si poteva mandare qualcuno a riceverlo al porto, una scorta discreta dai tetti sarebbe  dovuta bastare, e quella era già predisposta, malgrado dopo la missiva che annunciava la morte dello Shakulu, nessuna notizia fosse più giunta dalla Cappadocia.

L’ultima cosa che restava da fare era avvertire il Maestro alla bottega di Sofia Sartor. Serdar si concesse un mezzo sorriso, domandandosi di cosa quei due potessero star discorrendo, mentre fermava un Apprendista nel salone centrale con lo scopo di affidargli quel compito. Proprio in quel momento il suono di passi di corsa sulla passerella lo fece voltare di scatto.

— Serdar! — gridò Latif raggiungendolo e senza neanche riprendere fiato; la preoccupazione sul suo volto era evidente. — Bizantini, alla bottega Sartor, almeno una dozzina. —

— Cosa?!? — Il secondo in comando della Confraternita Ottomana impallidì visibilmente.

Yusuf aveva ordinato di tenere un occhio su Sofia da quando il Mentore era partito per la Cappadocia, e non era mai accaduto nulla che potesse far pensare all’esistenza di un pericolo reale. Adesso, in meno di una giornata, i banditori sbraitavano di taglie, la nave di Ezio era in arrivo e dodici Bizantini si aggiravano nei pressi della bottega: qualcosa non tornava, e di certo non si poteva indugiare.

— Ho inviato due squadre dei miei sul posto. — stava dicendo Latif.

— Bene. — rispose Serdar affacciandosi cortile degli allenamenti dove gli Assassini di guardia attendevano ordini. Nella sua mente andava formandosi il quadro peggiore e affiorava la sensazione di essere in estremo ritardo. L’ansia non poté far altro che crescere mentre prelevavano Dogan e un’altra squadra dal covo di Galata e si lanciavano a rotta di collo verso il Corno d’Oro.

Latif, malgrado fosse reduce da una corsa forsennata dalla sede dei Ladri al distretto di Galata, non sembrava sentire la stanchezza. La tensione induriva i suoi bei lineamenti, rispecchiando le parole che Serdar continuava a ripetersi nella mente: E’ tardi, è già tardi...

Quando raggiunsero la piazzetta che ospitava la bottega, la gente si assiepava davanti alla porta sfondata, senza avere il coraggio di entrare. Latif si fece largo rudemente in mezzo alla folla, raggiungendo i Ladri che aveva individuato accanto all’ingresso e Serdar lo seguì, ordinando ad alcuni Assassini di allontanare le persone e di mettersi a guardia della piazzetta. Mentre notava le tracce di sangue evidenti sulla soglia udì la voce del Ladro che interrogava i suoi: — Allora? —

— Quando siamo arrivati era già tutto finito. La gente era in preda al panico... —

Serdar sentì il proprio cuore sprofondare e incontrando lo sguardo di Latif riconobbe l’identico terrore che gli rimbombava nel cervello. Aveva già fatto un passo per varcare la soglia quando una presa salda sulla spalla glielo impedì. Si voltò con la furia negli occhi, facendo scattare la lama celata, domandandosi chi stesse osando fermarlo e si trovò davanti Ezio Auditore.

Con il viso del tutto simile a una maschera di pietra e senza dire una parola, il Mentore lo spinse da parte e fece il suo ingresso nella bottega.

 

La gente si muoveva a disagio sotto gli sguardi inflessibili degli Assassini che presidiavano la piazzetta. Ràhel vi giunse correndo, ma la tensione che si addensava tra gli edifici, spessa come melassa, la fece rallentare fino a fermarsi.

Era rientrata con una squadra da un giro di pattuglia poco dopo che Serdar aveva lasciato il Covo e la sentinella alla porta l’aveva informata della situazione. L’Assassina aveva percorso l’intero tragitto sforzandosi di scacciare i pensieri, uno più orribile dell’altro, che le si affollavano nella mente, con addosso la stessa sensazione che si prova negli incubi, quando si deve correre e le gambe sembrano rifiutare di muoversi.

Ordinando ai suoi piedi di spostarsi sul lastricato Ràhel raggiunse la porta spalancata della bottega e quando la varcò, la frescura all’interno le parve del tutto simile a una stretta di gelido terrore. Nulla si trovava più al suo posto: libri sparsi sul pavimento, oggetti infranti e mobili rovesciati testimoniavano una lotta cruenta e senza quartiere, e lo stesso facevano i cadaveri che giacevano scomposti, avvolti nelle loro insegne bizantine lacerate e intrise di sangue. Seguendo quel sentiero di devastazione proseguì attraverso le stanze fino a che vide un gruppo di Assassini  che le davano le spalle, immobili come statue, avvolti in un silenzio così assoluto e irreale da farle dubitare che fossero davvero lì. Si avvicinò, infilandosi tra loro, percependo la solidità dei loro corpi che si faceva da parte per lasciarla passare, mentre una voce profonda e impastata di dolore invadeva la penombra.

— Ti sei meritato il riposo, fratello. —

Quella voce aveva la tenerezza dell’esperienza di chi ha dato molti estremi saluti, senza smettere mai di comprenderne il significato profondo...

Requiescat in pace. —

... senza mai assuefarsi ad essi, senza ridurli solo a vuote parole.

— Fratelli, sorelle. L’intera città si solleva contro di noi, mentre l’omicida di Yusuf aspetta e vigila dall’Arsenale, ridendo. —

Ora quella voce vibrava di rabbia accorata.

— Combattete con me, e mostrategli che cosa significa provocare gli Assassini! —

 

 

Tutti si avviarono verso l’uscita della bottega seguendo un uomo massiccio che Ràhel, malgrado non l’avesse mai incontrato, non poté che riconoscere come Ezio Auditore.

Sentì mani che la sfioravano e parole sussurrate, gli sguardi che le furono rivolti erano pieni di dolore o del desiderio di vendetta acceso dalle parole del Mentore. E poi fu sola, nel silenzio e nella penombra saturi dell’odore del sangue. Si ritrovò in ginocchio accanto a Yusuf e gli scostò i capelli dalla fronte, percependo ancora un minimo calore sulla sua pelle.

Il cuore di Ràhel rallentò la sua corsa, e poi rallentò ancora, e ancora, fino a diventare un cupo fragore che le rimbombava nella mente, fino a riempire ogni spazio, ogni pensiero, ogni respiro. Una gelida, terribile calma si impadronì di lei e la avvolse una sorta di vuoto al cui centro ruggiva una voce furiosa che chiamava sangue. Essa si espanse, lasciando nient’altro che terra bruciata attorno a sé, riducendo solo a ceneri e macerie ogni altro sentimento. Sul suo viso niente, oltre alla fredda determinazione a uccidere, nei suoi occhi solo l’oscurità che porta al totale annientamento, il pensiero un cristallo affilato teso in un’unica direzione. Nella desolazione della sua anima un richiamo di disperata umanità cercava a fatica di farsi strada, ma lei lo schiacciò, lo soffocò, finché non fu costretto a tacere: non c’era spazio per la pietà, nemmeno per sé stessa, in quel suo ultimo giorno. Un unico respiro, l’ultimo per molti, per tutti quelli che avessero attraversato la sua strada. Era il dardo letale che attraversa l’aria, il sibilo che annuncia la fine, l’eco dei pianti che risuona nei cimiteri. Polvere, solo polvere, nient’altro sarebbe rimasto.

Caricò la balestra e uscì dalla bottega scavalcando con indifferenza i cadaveri. Per strada, gli sguardi che si posavano su di lei si affrettavano ad allontanarsi, mentre il silenzio di una tomba l’accompagnava e niente avrebbe potuto toccarla: la morte camminava al suo passo.

 

Quando Eleni raggiunse il tetto, Bayar era già in posizione. Un ginocchio a terra, la balestra carica, sembrava un predatore pronto a scattare. Incoccato a sua volta un dardo, la ragazza gli si accostò. Tre braccia più sotto, il Mentore, in piedi sulle tegole, era rivolto verso l’ingresso dell’Arsenale e i suoi occhi, due pezzi di brace nell’ombra del cappuccio, parevano poter attraversare tutto lo spazio che lo separava dal suo bersaglio, per incenerirlo dove si trovava.

Malgrado le voci che circolavano sui sensi eccezionalmente acuti di Ezio Auditore, nessuno pensava che fosse fornito di quella capacità. La strada per raggiungere l’obiettivo sarebbe stata lunga e sanguinosa.

— Questa non è una missione come le altre. — disse Bayar senza distogliere lo sguardo dalla figura massiccia del Mentore, la sua voce profonda e musicale era quasi un sussurro. — Sarà una battaglia. Niente che tu o io abbiamo mai visto. Sei pronta? —

— Lo sono. — rispose Eleni tentando di ingoiare la tensione che le seccava la bocca.

Un rumore di passi sulle tegole li fece voltare di scatto. Ràhel imbracciava la balestra e il suo viso era una maschera senza espressione. Eleni è Bayar si scambiarono un’occhiata ansiosa, domandandosi entrambi per un attimo se quella presenza sarebbe stata un vantaggio o un’ulteriore fonte di preoccupazione, senza riuscire a darsi risposta

Il tempo pareva scorrere con una lentezza esasperante, ma quando la mano del Mentore si alzò e la prima ronda cadde trafitta da una pioggia di dardi tutto accelerò di colpo. Ezio si lanciò dal tetto seguito da una nutrita squadra di Assassini sguainando un kijil che tutti riconobbero come quello del Maestro Tazim e travolse la prima linea di sentinelle. I balestrieri si calarono dai tetti, infilando rapidi la porta e guadagnando le postazioni elevate che avrebbero permesso di aprire la strada ai combattenti a terra. Con un occhio teso a individuare le minacce alla sua posizione e l’altro attento ai segnali del Mentore, Eleni correva sulle tegole instabili e saltava sulle passerelle sospese, con il fiato corto, ma senza sentire la fatica. L’aria si era riempita di urla e cozzare di metallo, imprecazioni e lamenti, chi era estraneo alla battaglia fuggiva in preda al terrore, qualcuno chiedeva pietà e una scia di sangue segnava il passaggio dello scontro. Non era facile mirare in mezzo a quella confusione e parecchie volte Eleni si trovò ad esitare per la paura di colpire un compagno. Ràhel stava due passi avanti a lei e i suoi gesti erano misurati e precisi come se si stesse esercitando nel cortile del Covo. Una mano misteriosa sembrava guidare i suoi quadrelli a segno, evitando i compagni di un soffio, colpendo i nemici un attimo prima che vibrassero un colpo mortale. Non esitò mai, non ebbe mai un cedimento, non sbagliò un tiro.

Bayar, che copriva le spalle del gruppo, aveva sempre pensato che la lucidità e la freddezza fossero le caratteristiche più importanti di un balestriere, la distanza dallo scontro fisico permetteva di valutare con precisione le possibilità e le alternative, ma in quell’inferno tutte le prospettive cambiavano e prestare attenzione ai segnali mentre amici e nemici si affollavano sulla linea di tiro, avrebbe fatto sudare freddo anche il veterano più esperto. Non scorse mai incertezza sul volto di Ràhel, né qualsiasi altra emozione, capì che era tutt’uno col dardo e il bersaglio e non poté impedirsi di rabbrividire quando fu sfiorato dal pensiero che ogni nemico ucciso si portasse via con sé un po’ della sua vita.

Quando Ezio irruppe nel cortile scaraventando il Principe Ahmet in mezzo alla polvere, tutto si fermò. Le due fazioni assistevano al confronto, le armi strette in pugno, sanguinando sul lastricato e scambiandosi sguardi feroci. Ahmet perorò la causa della pace, della stabilità e della lotta all’ignoranza, che entrambi gli Ordini perseguivano con metodi opposti. Ezio ribattè che la libertà poteva essere confusa, ma era impagabile. Al centro della questione, però, rimasero le Chiavi di Masyaf, quelle che avrebbero aperto la Biblioteca di Altair, dando accesso a una conoscenza che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo.

— Porta i Sigilli alla Torre di Galata quando sei pronto. — concluse il Principe. — Fallo, e Sofia sarà risparmiata. —

Dopo che Ahmet si fu allontanato accompagnato dal suo seguito, il Principe Solimano si mostrò nel cortile, e tutti gli Assassini trattennero il fiato. Rimasero all’erta  durante il breve colloquio con l’Auditore, durante il quale il giovane giudicò le fantasie templari dello zio pericolose e indegne di un sovrano saggio e si rilassarono soltanto quando il Principe trattenne un Giannizzero dichiarando che il Mentore non era loro nemico.

Eleni e Bayar abbassarono le balestre. Lo scontro non si era concluso come avrebbero voluto, ma entrambi sapevano che il Mentore non si sarebbe risparmiato dall’infilare la lama tra le costole di quel bastardo di Ahmet se ne avesse avuto la possibilità. Invece aveva dovuto sottostare a un odioso ricatto, una schifosa ignominia che gettava discredito su entrambe le parti.

Bayar sputò sulle tegole del tetto su cui era appostato. Aveva la nausea, il cuore gli martellava ancora nel petto e il sudore gli inzuppava la casacca. Gettò uno sguardo intorno e poi si rivolse alla sua compagna, il cui viso mostrava le sue stesse emozioni.

— Dov’è Ràhel? — chiese.

— L’ho vista scendere sul tetto più in basso. —

Eleni si avvicinò all’orlo e guardò giù.

— BAYAR! — urlò saltando di sotto. L’Assassino la raggiunse di corsa.

Ràhel era sdraiata sulle tegole, con la balestra ancora stretta in mano ed Eleni la scuoteva, senza risultato.

— Ràhel! Ràhel! Rispondimi! —

— E’ stata colpita? — domandò Bayar in ansia.

— No, non ha ferite. Θεός! E’ fredda come il ghiaccio! —

Bayar si inginocchiò e posò le dita sul collo di Ràhel percependo un debole, lentissimo battito, poi estrasse il pugnale, accostandolo alle sue labbra: la lama si appannò appena.

— E’ viva, Eleni. Dobbiamo portarla al Covo più vicino. Fai un segnale agli altri, che ci aprano la strada. —

La ragazza si alzò, emise un fischio modulato e gesticolò in direzione degli altri edifici che circondavano il cortile, ricevendo cenni di risposta dagli Assassini ancora in posizione. Intanto Bayar si era caricato Ràhel in spalla e procedeva verso una scala traballante che conduceva a terra. Eleni si calò rapida lungo una grondaia. Quattro compagni li precedevano e altri quattro coprivano loro le spalle mentre si muovevano all’erta attraverso l’Arsenale disseminato di cadaveri e avvolto da un silenzio irreale. Nessun’anima viva osava mostrare il suo volto sotto il sole spietato. Fuori dalla cinta muraria la gente indietreggiava spaventata davanti alle lame sguainate, ai dardi incoccati e agli sguardi implacabili, i banditori tacevano e dalle botteghe non si levava una voce. Arrivarono a destinazione senza incappare in alcuna presenza ostile.

Leyla, Maestro del Covo di Bayezid Sud li accolse col volto pallido e tirato, i vestiti macchiati di sangue e il braccio sinistro al collo. L’ingresso era stato trasformato in un’infermeria e ovunque si sentivano lamenti e imprecazioni.

— Cosa è successo? — chiese il Sami pulendosi le mani dal sangue.

— Non lo sappiamo. Era con noi a coprire il Mentore dai tetti fino a quel maledetto cortile. —

rispose Bayar. — Non ha sbagliato un tiro, e poi l’abbiamo trovata così. Non è ferita, respira, il cuore batte, ma non risponde. —

Sami tastò la fronte gelida di Ràhel e si rivolse a due novizi dall’aria esausta.

— Prendete delle coperte! — ordinò. — Scaldate dell’acqua e riempite la tinozza che sta di sopra! Sembra che sia stata appena tirata fuori da un mucchio di neve. — Mentre quelli scattavano, afferrò una pezza, vi versò sopra una generosa dose d’aceto e la piazzò sotto il naso della ragazza; non ottenendo alcuna reazione, imprecò tra i denti.

— Bayar, portala su. —

...

 

Cosa sono queste voci? Fatele tacere! Sono stanca, chi è che grida? Voglio solo  dormire, non mi toccate! Sono solo stanca, stanca, stanca, sono così stanca…

...

 

Eleni si era addormentata sul pavimento quando un urlo da far gelare il sangue la fece saltare in piedi sguainando il pugnale. Sospirando per il sollievo di non trovarsi nel pieno di un attacco e col cuore che ancora correva all’impazzata, la ragazza si avvicinò al pagliericcio dove avevano disteso Ràhel. Forse era stata lei a gridare, forse si era svegliata.

— Ràhel. — sussurrò posandole una mano sulla guancia. Bruciava di febbre, tremava e dalle sue labbra usciva solo un mugolio basso e indistinto, che sembrava provenire da un luogo lontano. Era poco, quasi nulla, ma era qualcosa. Eleni si aggrappò a quel filo di speranza e iniziò a cantare a bassa voce una nenia di cui aveva dimenticato le parole, un ricordo di sua madre.

 

 

Dove sono? Che posto è questo? Cos’è questa nebbia? Chi è che canta? Si sta bene qui, è così tranquillo, si può riposare.

…il mio amore è andato via…

Sta dormendo, anch’io sto dormendo.

…il mio amore se n’è andato, e non tornerà più…

Quando mi sveglierò lo saluterò con un bacio.

…c’era sangue sul pavimento e lui era già quasi freddo. Era morto…

Quando si sveglierà mi sorriderà e mi prenderà in giro per quanto ho dormito.

…non si sveglierà…

…non lo bacerò…

…non mi sorriderà…

…non sarà più accanto a me …

Non voglio svegliarmi.

 

 

— C’è stato qualche cambiamento? — domandò Bayar.

— Ora sembra che stia dormendo, ma non riesco a svegliarla. — rispose Eleni. — Forse sogna. Ogni tanto grida, oppure si lamenta. Ma se la chiamo non mi risponde. A volte si agita e se canto si calma. —

— Anche tu dovresti riposarti. —

— Lo so. —

— Allora fallo. —

Si voltò per allontanarsi, ma lei gli afferrò la mano.

— Bayar. —

— Sì? —

— Non posso dormire. —

— Perché no? —

— Ho paura. —

— Di cosa? —

Eleni si morse il labbro inferiore.

— Ho paura che lei stia decidendo se vuole tornare. —

— Se non vuole, non sarai tu a trattenerla. —

— Lo so.

 

 

 

Cos’è questo sussurro?

…sei qui…

Oh, questa voce… sei tu?

…non dovresti essere qui…

Perché no? E’  qui che voglio stare, dove sei tu.

…non è il tuo posto…

Il mio posto è accanto a te.

…tu sei viva…

Non mi importa di essere viva. Non voglio esserlo. Voglio stare qui.

…sciocchezze, devi andartene…

Tu non mi vuoi qui?

…non è questo il punto…

E qual è allora? Non voglio tornare dove tu non ci sei.

…devi andare…

No.

…devi andare…

Perché?

…non puoi arrenderti…

Non mi sto arrendendo.

…sì, invece…

Faccio una scelta.

…è quella sbagliata…

Non lo credo.

…vivere è la scelta giusta…

Senza di te? Non ho più niente! Niente per cui valga la pena vivere!

…ti sbagli…

Cosa mi resta?

…torna indietro…

Cosa mi è rimasto? Dimmelo!

…torna indietro, Ràhel. Ti ho lasciato qualcosa…

 

 

La porta del Covo di Bayezid Sud si aprì e si richiuse e la voce di Leyla raggiunse il soppalco.

— Gli accordi tengono, grazie al Principe Solimano. —

Eleni aprì gli occhi e fu presa dal panico. Si era addormentata! Il cuscino odorava di sudore e di olio per le armi e qualcosa le sfiorava i capelli… si alzò a sedere di scatto e tutti i suoi muscoli protestarono. Gli occhi stanchi di Bayar sembravano chiederle scusa, e non c’era alcun cuscino, erano le sue gambe su cui aveva appoggiato la testa quando aveva ceduto al sonno.

— Non ho avuto il coraggio di svegliarti. — disse il giovane. — Ma io non ho dormito. E ho anche cantato per lei. — aggiunse con un sorriso imbarazzato.

— Hai cantato? —

— Sì. —

Ràhel appariva tranquilla, e il suo viso pallido era in pace.

— E’ successo qualcosa mentre dormivo? —

— Non si è più agitata. Forse canto meglio di te. —

 

 

 

La prima sensazione fu di calore.

La seconda voci lontane.

Sete.

Aria secca nei polmoni.

Dolore sordo, come avesse tutte le ossa rotte.

Una luce.

Linee, vaghe e confuse.

— Ràhel. —

La forma pallida e ovale davanti ai suoi occhi lentamente divenne un volto: occhi cerchiati, un debole sorriso.

Ràhel aprì la bocca, ma ne uscì solo un rantolo. La gola le bruciava come il fuoco. Cercò di sollevare la testa, ma non ci riuscì, aveva appena la forza per battere le palpebre. Un braccio la sostenne.

— Non sforzarti. —

Un liquido caldo e dolce in maniera nauseante le scottò la lingua, facendola tossire. Si sforzò di inghiottirlo senza soffocare solo per accorgersi un attimo dopo di volerne ancora.

— E…leni…— A stento riconobbe la propria voce.

Il viso della ragazza davanti a lei parve rianimarsi.

— Bayar! — disse. — Mi riconosce! —

C’erano lacrime nei suoi occhi?

— Chiama Leyla, e il Maestro Serdar. —

Gli occhi di Ràhel si spalancarono e un peso le schiacciò il petto impedendole di respirare. Il mondo si rovesciò, mentre tentava di incamerare l’aria che sembrava voler solo uscire da lei sotto forma di un grido disperato. Da qualche parte trovò l’energia per afferrare la veste di Eleni, sul cui viso era ora dipinto il panico.

— Calmati, stai tranquilla, sono qui, non aver paura…—

Una fitta le attraversò il ventre, come una coltellata, troncandole la voce. L’aria era finita. Era tutto finito. Yusuf era morto. Lottando per trattenere il cuore che pareva voler fuggire e accarezzando per un solo attimo l’idea di lasciarlo andare, Ràhel provò riempire il minuscolo spazio che quel peso infernale sembrava  concederle. Un piccolissimo respiro si fece strada in lei, seguito da un altro, affannato, faticoso e bruciante. Eleni la cullava in un abbraccio forte e gentile, continuando a sussurrare nella sua lingua sempre le stesse parole.

— Μείνετε εδώ… μείνετε εδώ… μείνετε εδώ…—

Resta qui.

Quelle parole si insinuarono nella sua mente e l’avvolsero, trascinandola come un naufrago verso la riva, decise, caparbie, senza cedimenti, finché il peso si sollevò dal suo petto, aprendo la diga delle lacrime e lasciandola più esausta di prima.

 

 

Eleni dormiva tra le braccia di Bayar, Serdar fissava il pavimento e gli occhi scuri di Leyla erano due pozzi profondi quando Ràhel chiese:

— Dovè? Posso vederlo? —

— No, Ràhel. Lo abbiamo seppellito. — La voce di Leyla era piena di tristezza.

— Quanto tempo…—

— Tre giorni. —

— Tre giorni…—

Dov’era stata tutto quel tempo? Qualcosa si agitava sotto la superficie della sua mente, come un ricordo che non riuscisse a emergere, e lei non riusciva ad afferrarlo.

— Il Mentore? E Sofia? —

— Stanno bene. —

— Le Chiavi? —

— Al sicuro. — Era stato Serdar a rispondere.

Ràhel lo osservò con occhi affilati come lame.

— Ora sei tu a guidare la Confraternita? —

Lui non distolse lo sguardo.

Evet. Il Mentore mi ha chiesto di impegnarmi e io ho accettato. Sarà solo un onore per me riprendere da dove Yusuf ha lasciato e non esiterei un attimo a scambiare la mia vita con la sua. Spero solo di essere all’altezza del compito. —

Il volto di Serdar era quello di chi non avrebbe voluto trovarsi in quella posizione, non a quel prezzo e Ràhel sentì la verità delle sue parole colpirla in profondità. Fu lei ad abbassare gli occhi.

Leyla voltò le spalle e si avviò per le scale, Bayar sollevò Eleni senza svegliarla e la seguì, mentre Serdar si inginocchiava accanto al pagliericcio.

— Mi dispiace, Ràhel. Ero lì quella mattina. Yusuf mi ha congedato e io ho ubbidito. Vorrei non averlo fatto. —

Lei scosse la testa e non disse nulla. Era inutile pensare a quante cose sarebbero potute andare diversamente, a come una minima azione avrebbe potuto cambiare tutto. Si trovò a riflettere che se Vali non avesse tradito avrebbe ancora avuto un fratello, ma non avrebbe mai trovato l’amore di Yusuf né conosciuto il dolore che provava in quel momento. Ma la causa di quel dolore si trovava da tutt’altra parte.

— Ahmet? — chiese con il gelo nella voce.

— Il Principe Selim... cioè, il Sultano, si è incaricato personalmente della sua esecuzione. — rispose Serdar con una smorfia. — Ammetto che mi sarei sostituito a lui molto volentieri. —

— E’ lo stesso per me. — sospirò Ràhel abbandonandosi tra i cuscini, la spossatezza che le appesantiva il corpo e le annebbiava la mente. Il dolore sarebbe stato ancora lì al suo risveglio, pronto ricordarle di essere ancora viva, malgrado tutto. Non si sarebbe arresa, sarebbe andata avanti, anche se non aveva idea di come fare.

— Riposati. — disse Serdar sistemandole le coperte, ma lei non lo sentì. Il richiamo dell’oblio era forte, ma una voce sconosciuta la chiamava da sentieri nebbiosi, lontana e indistinta, vicina e profonda. Non capiva da dove provenisse, né se sarebbe riuscita a raggiungerla, l’unica cosa di cui fosse certa era che doveva seguirla.

 

 

 

 

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Capitolo 53
*** Capitolo 52: Aurora ***


Istanbul,

Maggio 1512

 

 










e fiaccole si erano consumate e spente da un po’, ma la notte era quasi finita.

— Sei stato qui solo un anno, e in questo tempo, tutto è cambiato. — disse Ràhel.

— Sembra che dovunque io sia stato abbia portato scompiglio. —

La completa oscurità che aveva avvolto le ultime e più dolorose parti del racconto, cominciava a ritirare la sua protezione e un debole chiarore rendeva appena visibili i loro visi stanchi.

— Non credo tu abbia portato solo quello. —

Ezio sospirò: — Di certo ho portato morte. —

— Morte, sì. Ma questo non ti rende diverso da chiunque di noi. — La donna fece una pausa, quasi cercando le parole. — E’ come gli eventi si… piegano attorno a te che fa la differenza. Non è stato il tuo rango a farti ben volere dagli Assassini di qui. E’ stato l’uomo ad imporsi, non il Mentore. In pochissimo tempo sei riuscito a penetrare nel tessuto di questa città. Pur essendo uno straniero hai stretto alleanze con le fazioni e hai portato la gente comune dalla tua parte, mentre costruivi relazioni private con la stessa Sublime Porta. Dritto allo scopo. Anche se Yusuf non si è sempre trovato del tutto d’accordo coi tuoi metodi, di certo non ha mai potuto metterne in discussione l’efficacia. L’istinto che dal primo giorno lo ha spinto a fidarsi di te, non è mai stato deluso. —

Quelle parole furono per Ezio come una stilettata nel petto.

— Quella fiducia lo ha portato alla morte. Non credo che potrò mai perdonarmelo. —

Ràhel distolse lo sguardo, ma non abbassò la testa e i suoi occhi vagarono lontano.

— No, non la fiducia, Ezio, l’imprevisto. Se il tuo messaggio fosse arrivato a destinazione, le cose sarebbero potute andare diversamente. —

Ezio pensò che c’era molto più di questo e tacque. Il suo sguardo inseguì quello di Ràhel, sfiorando appena il tumulo e spingendosi oltre i muri del cimitero, nel territorio accidentato dei suoi rimorsi. Quando alla fine riuscì a superare il silenzio, le sue parole non poterono essere che amare.

— Dritto allo scopo, hai detto. — sussurrò. — Nella mia vita non ho mai avuto remore a servirmi delle persone per ottenere ciò che volevo o reputavo giusto, per me stesso o per l’Ordine. Sì, dritto allo scopo, ma sembra che tutta la mia esperienza non abbia diminuito la mia arroganza. Ho sottovalutato il nemico e sono stato vigliacco. —

Ràhel lo fissava con un’espressione interrogativa ed Ezio proseguì: — Ho coinvolto Sofia semplicemente perché mi era utile e l’ho tenuta all’oscuro soprattutto perchè fosse al sicuro, ma col tempo ho capito che esitavo a confessarle chi fossi per paura di allontanarla, per timore del suo giudizio. Se avessi parlato, se avessi affrontato il rischio di vederla disprezzarmi... Qualunque fosse stata la sua opinione su di me, lei avrebbe saputo di trovarsi di fronte a un pericolo reale e io avrei potuto metterla sotto l’aperta protezione della Confraternita. Alla fine, la verità non ha potuto fare altro che venire a galla, ma a un prezzo troppo alto. In troppi hanno pagato la mia esitazione e a causa di essa l’Ordine stesso ha dovuto sottostare a un ricatto che avrebbe potuto mettere a rischio secoli di sforzi e di sangue. Ho mandato un amico a morire, ho spinto la Confraternita sull’orlo di un precipizio, l’ho privata della sua guida e l’ho gettata allo sbaraglio in difesa di un mio interesse personale. Forse non merito il mio rango e di certo non il tuo perdono. —

Ora Ezio percepiva gli occhi di Ràhel su di sé, due lame affilate che lo costrinsero a voltarsi. Non si aspettava un’ammissione così aperta, si disse, o forse non aveva ancora visto le cose in questi termini.

— E’ vero, hai fatto errori imperdonabili, Mentore. —

Non lo chiamava più per nome, adesso. Si era avvicinata lentamente durante quella lunga notte e ora allargava di nuovo, in un attimo, lo spazio tra loro.

Era una tempesta, e venne senza vento, senza tuoni, né fulmini, senza clamore, ma Ezio vacillò: la verità ha sempre un peso diverso se a pronunciarla è qualcun altro.

— Yusuf è morto e mio figlio non avrà un padre a causa tua. —

Ràhel sussurrò quelle parole come se tutta la sua energia si fosse improvvisamente dissipata, ma la loro forza colpì Ezio come un maglio.

— Vorrei odiarti, non sai quanto, —  continuò lei, senza fiato, — ma dovrei odiare me stessa altrettanto. Avrei messo a ferro e fuoco l’intera città, bruciato tutto il maledetto Impero per salvare Yusuf. Ma non avrai il mio perdono. Non oggi. —

— Non lo sto cercando. —

— Lo so. —

Ezio la guardò alzarsi e voltargli le spalle e seguì i suoi passi incerti mentre si allontanava.

Già altre volte aveva sentito il peso che gravava sulle sue spalle diventare quasi insopportabile, ma mai come in quel momento. Quel peso pareva aumentare di giorno in giorno e quasi gli faceva rimpiangere il sapore aspro della vendetta che aveva guidato le sue azioni in gioventù.

Nella luce del cielo che si schiariva a oriente, Ezio si trovò a domandarsi se stesse correndo verso la sua ultima missione e se non fosse giunto il momento di farsi da parte prima di essere del tutto schiacciato.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 54
*** Epilogo ***


Fiesole

Maggio 1513

 

 

Mia cara Ràhel,

spero potrai perdonare l’estremo ritardo con cui ti invio questa mia. Gli eventi che si sono susseguiti fin dalla mia ultima visita a Costantinopoli, mi hanno tenuto lontano da qualsiasi cosa non fosse rimettere ordine in questa mia turbolenta vita. Mi auguro che questa missiva trovi  in buona salute te e anche tuo figlio, che è di sicuro già nato.

Sofia ed io ci siamo sposati, abbiamo acquistato dei vigneti fuori Firenze e conduciamo una vita tranquilla. Una settimana fa è venuta al mondo nostra figlia, Flavia, che sembra aver scelto da subito, come sua missione su questa terra, di ricordare a suo padre che le notti di veglia non sono ancora finite. Queste parole mi sorprendono nell’atto stesso di metterle sulla carta, perché descrivono qualcosa che non avrei mai immaginato potesse appartenermi.

 Ho deposto le armi, e nella biblioteca di Altaïr mi sono trovato faccia a faccia con una verità che mi ha lasciato più domande che risposte, risposte, tra l’altro, che non sono stato nemmeno in grado di  comprendere pienamente. Ma la vita mi sta chiedendo di andare comunque avanti e ho deciso di farlo.

Ho visto e perso molte cose durante la mia esistenza, ma Istanbul ha scavato un solco profondo nel mio cuore. Ancora la vedo distesa ai miei piedi, mentre la contemplavo dalla cima della Torre di Galata in compagnia di Yusuf, l’ultimo amico che ho perduto a causa delle scelte che hanno accomunato le nostre vite.

Spero con tutto me stesso che il tempo abbia almeno cominciato a curare le ferite del tuo cuore. Per parte mia, non potrò mai dimenticare le tue parole di quella lunga notte. È stato anche grazie a te  che le ferite del mio hanno cominciato a guarire.

Avere il coraggio di mostrare debolezza vuol dire continuare ad essere forti. Indugia nei piccoli momenti, Ràhel, ed esplora l’infinità negli spazi più ridotti. Impara, ama, rischia. Preserva, difendi, espandi te stessa, sogna. Un’energia si muove con forza attraverso di te, la vita la crea. Respirala, cresci con lei. C’è la vita dentro di te, alleati con la vita. Nutri  tuo figlio con la saggezza che viene dalle tue esperienze e non aver paura che il fatto di nascere all’interno della Confraternita significhi una strada già tracciata. Nessuna storia è già scritta e per nessuno di noi esiste un sentiero già battuto.

Nessun Destino può darci ordini, ma questo tu già lo sai.

 

Con tutto il mio affetto

 

Ezio Auditore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 











ul tetto del Covo di Galata, Ràhel scostò i lembi del fagotto che portava a tracolla e una piccola mano paffuta le afferrò il dito.

— Ezio non lo sa che sei una bambina. — disse sorridendo. — Dovremmo informarlo, non credi? —

Un gorgoglio soddisfatto le giunse in risposta.

Valerja era nata quattro mesi prima, sotto quello stesso tetto, durante una nevicata come non si vedeva da anni. La levatrice non era neanche riuscita ad uscire di casa e Ràhel aveva dovuto accontentarsi dell’assistenza di un paio di consorelle, di cui si era stupita non avessero tagliato il cordone ombelicale dopo aver arroventato la lama celata fra le braci del camino.

Al giungere delle prime doglie era stata come presa dal panico e la disperazione si era impadronita di lei. Aveva pianto senza ritegno tra le braccia di Nurye, la più anziana delle sue due compagne presenti, mentre Tanju, la più giovane, sembrava sul punto di scoppiare anche lei in lacrime. Aveva urlato che Yusuf non era lì con lei, che non avrebbe potuto presentargli suo figlio e che voleva morire. Come conforto aveva ricevuto due schiaffi che l’avevano lasciata inebetita.

— Se muori tu, muore anche tuo figlio. — aveva detto Nurye con lo stesso sguardo che avrebbe rivolto a un novizio immeritevole. — Vuoi che del tuo uomo non resti proprio nulla in questo mondo? —

Ràhel accarezzò la guancia rosea della bambina che già aveva gli occhi di suo padre e si domandò quali altre somiglianze avrebbe scoperto in lei quando sarebbe cresciuta. Avrebbe voluto soprattutto che avesse lo spirito di Yusuf, quella sua anima limpida e sagace, diretta e affabile, che aveva amato come e quanto ogni altra parte di lui.

La primavera faceva gonfiare le nuvole sul Corno d’Oro e l’aria umida e salmastra prometteva pioggia.

— Sarà meglio rientrare, Vali. — Quel nome aveva un sapore agrodolce sulle sue labbra, di ricordi sofferti e tenere memorie.

Ràhel lui Ciprian, Maestro Assassino del Covo di Galata, non poteva fare a meno di pensare a sua figlia come il conciliarsi di molte anime, che si erano scontrate nel sangue o abbracciate nella dolcezza di un momento. Se questo sarebbe stato la sua fortuna o la sua condanna, nessuno poteva dirlo, solo le sue scelte.

 

 

 

 

 

 

Nota delle autrici

 

È doverosa una precisazione. Di alcune parole di Ezio nella lettera, non posso attribuirmi la maternità, infatti sono una citazione. Le devo ad una persona di nome Aaron “Seeker” Silverstein, che ha avuto su di me un impatto e un’influenza notevoli, per quanto io non lo abbia mai conosciuto di persona, ma solo attraverso la rete. Le ho estrapolate da un messaggio che mi scrisse qualche anno fa, durante uno dei miei momenti più difficili, e le ho adattate al contesto perchè mi sembrava che calzassero a pennello. Il mio ha voluto essere un piccolo omaggio.

 

Alex

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Capitolo 55
*** Note finali ***


Note finali

 

Sapevo da tempo che quando sarei arrivata alla fine di questa avventura mi sarebbe mancata.

Dal primo messaggio, qui su efp, che ha siglato l’inizio di questa collaborazione, sono passati più di tre anni, era il 7 dicembre 2011 e ancora penso a quando la mia coautrice sosteneva che avremmo potuto cavarcela in pochi mesi!!

Scrivere questa storia mi ha dato una grande soddisfazione, un piacere e un entusiasmo che da tempo non provavo e mi ha fatto ricordare quando da ragazzina scrivevo con una mia amica, ci scambiavamo un malconcio quaderno nei giardinetti sotto casa e nel segreto delle rispettive camerette, componevamo un capitolo a testa. Oggi, dopo parecchi anni, non posso far altro che ammettere che il ruolo della scrittrice solitaria non mi si addice per niente. Per una come me, che ha la tendenza a disperdersi e lasciar sgonfiare le idee, la condivisione e il confronto con qualcuno che condivide la mia stessa passione, sono uno sprone importante, basilare. Attendere i nuovi contributi, inviare i propri, aspettare i commenti, correggere, aggiustare, ricomporre (quest’ultimo aspetto ci ha dato non poco filo da torcere, visto che abbiamo scritto in modo quasi del tutto anarchico, supportate solo da una scarna linea temporale in continua evoluzione, della quale peraltro non abbiamo mai seguito la cronologia) è stato esaltante e faticoso.

Un lavoro così lungo non può che lasciare un segno.

La rete è uno strano luogo, dispersivo, pieno di insidie e superficialità, ma anche democratico, colorato e vario, colmo di occasioni in cui confrontarsi con se stessi e con gli altri, in cui può succedere di costruire rapporti di valore. Alex e Finger non sono rimaste solo righe di chat sullo schermo di un pc, email scambiate e attese, lunghi sms, ma si sono abbracciate fisicamente, hanno condiviso trionfi e fallimenti,  si sono confessate momenti difficili sedute una di fronte all’altra su un bel divano comodo, corso per le strade di Lucca in mezzo alla folla… insomma, sono diventate amiche. E mi sento di dare a questa abusata parola il significato reale e all’antica che sa di poter tener testa ai chilometri e agli anni (molti) che ci separano. A Irene/Finger/cartacciabianca va il mio primo ringraziamento. Era sua la prima recensione su efp alla mia one-shot “Questo sono io” e da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.

Alcune precisazioni sono d’obbligo. Una parte molto importante e impegnativa nel comporre una storia come questa è stata senz’altro la ricerca. Ci siamo addentrate non senza fatica nella storia ottomana, nella struttura del sultanato, nella prima guerra turco-veneziana (quella che l’Occidente ha così platealmente perduto e di cui forse proprio per questo è così difficile trovare notizie dettagliate), nei meandri delle successioni in Valacchia e nella wiki di Assassin’s Creed. Ai puristi della cultura videoludica non saranno di certo sfuggiti alcuni strattoni da noi dati alla trama, come l’anno in cui Yusuf assurge al rango di Gran Maestro o la persona del suo successore. Noi vogliamo pensare a queste incongruenze come a necessarie licenze poetiche e speriamo che i suddetti puristi possano fare altrettanto. I due ostacoli più ardui da superare sono stati l’Alleanza di Ishak con il Sultanato, un vero paradosso di cui si sa dell’esistenza senza conoscerne alcun dettaglio e il collegamento tra Dönek e Shakulu. Speriamo di aver reso entrambi i fatti sufficientemente plausibili.

Infine, un grazie va a tutti i lettori, da quelli timidi e muti a quelli che hanno speso parole.

 

Alex

 

 

 

“There are no happy endings.
Endings are the saddest part,
So just give me a happy middle
And a very happy start.”

 

Non sono mai stata brava a fare bei discorsi e speravo di potermela cavare citando questi versi di Sheldon Alan Silverstein perché ultimamente non riesco neppure ad esprimermi decentemente, ma stavolta credo proprio di doverci almeno provare.

Non mi era mai successo di portare avanti così a lungo un progetto a quattro mani. Questa convivenza per nulla forzata mi ha cresciuta moltissimo, stilisticamente, certo, ma anche umanamente! Il sostegno reciproco nei momenti poco ispirati, le vittorie e le sconfitte in battaglia, il dolore per la morte di un personaggio e la gioia per la nascita di un altro, la bellezza di un tramonto, l'emozione di una parola messa al posto giusto… Condividere tutto questo con qualcuno è stato bellissimo. Senza contare l'emozione di trovarsi una di fronte all'altra, in carne e ossa, un'estate, così, quasi per gioco. Due pazze fanno un pazzo al quadrato, e diffidate di chi dice il contrario.

Credo di parlare per entrambe: avere finalmente una visione d'insieme di quello che abbiamo creato praticamente dal nulla ci rende non poco orgogliose. Dopotutto ci sono tre tipi di fan fiction: quelle inventate al 100%, quelle al 50% e quelle al 10%. Rispettare la storia del videogioco, la vera storia e la storia nella nostra testa è stato tre volte difficile. Avremmo potuto ricalcare gli eventi del gioco e capovolgerli dal punto di vista di Yusuf; oppure avremmo potuto ignorare bellamente luoghi e momenti cruciali del gioco o della storia reale per regalarvi un quadretto allegro. Avremmo potuto, ma non lo abbiamo fatto. Un po' per mancanza d'esperienza, diciamolo, perché non ho idea di come avremmo potuto scrivere più di 50 capitoli se non riempiendo la narrazione di personaggi complessi, alleanze e sotterfugi, ambienti ricchi ed eventi… particolari. Tutto questo grande sfoggio di modestia è per dire che se non ci fossimo fatte un esek così, probabilmente non ci saremmo divertite tanto. L'autolesionismo dev'essere nella nostra natura.

La fine di questa fan fiction e del meticoloso lavoro che c'è dietro di essa rappresenta un grosso cambiamento. Per quanto mi riguarda, la consapevolezza che da oggi la cartella de La neve e la sabbia resterà sigillata mi trasmette qualcosa di immensamente triste e perciò immensamente sublime: sul serio, mi viene voglia di piangere. In realtà, c'è da confessarlo, la vera e propria parola "fine" era già stata scritta da un po' e in queste ultime settimane (tranne per qualche capitolo demolito e ricostruito completamente… o demolito… o costruito e demolito di nuovo… o costruito e basta) il nostro lavoro è stato per la maggior parte lavoro di revisione. Eppure, è solamente adesso che la nave prende davvero il largo, e dalla banchina di Galata Amir, Ràhel, Serdar, Latif e ovviamente Yusuf insieme a tanti altri salutano verso di noi…

Sembrava facile.

Scrivere la biografia di un uomo che sapevamo già dove, come e perché sarebbe morto.

Sembrava facile perché sembrava anche il tributo più giusto che gli si potesse fare.

Sembrava, appunto.

In realtà la parte più bella è stata proprio questa: andare indietro nel tempo e accorgersi di aver fatto di quella di Yusuf una vita felice, nonostante la tragedia con cui si sarebbe conclusa. Ràhel non l'avevamo pensata così, all'inizio, anzi, non l'avevamo pensata affatto, come neanche Amir. Tutti i personaggi originali incastonati in questa storia sono emersi da soli come pietre preziose passate al setaccio, e anche Yusuf, il nostro Yusuf, è venuto su allo stesso modo. Spontaneo e sorridente, come ci piace ricordarlo.

Il mio unico rimpianto è di non essere riuscita a incanalare come avrei voluto l'ispirazione ballerina di questi ultimi tempi, per regalare alla fan fiction qualche dignitosa nuova illustrazione. La più recente risale a quasi due anni fa, pensate, mentre la maggior parte dei disegni pubblicati su DeviantArt hanno visto la luce in concomitanza ai primi mesi di vita della storia in un ormai lontano 2012.

Non me la sento di aggiungere altro. Tutto ciò che andava detto non l'ho elencato qui perché l'ha già detto Michela e non sarebbe costruttivo per nessuno sentirmi fare il pappagallo, ma credo che un grazie a chiunque ci abbia seguite fin qui, anche solo per curiosità, sia d'obbligo.

 

Grazie di cuore! :)

 

Finger

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