Hidden - Il pezzo mancante

di Bloody_Rose3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Prologo - Freddo ***
Capitolo 3: *** Capitolo I - Per Freedom ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


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Hidden - Introduzione



Scavando tra le macerie che la Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato al posto dei bei palazzi, una schiera di uomini trovò i resti di un antico manoscritto all'apparenza insignificante. Le parole non avevano senso, ma col passare degli anni, i tasselli del puzzle vennero messi al loro posto, ed il messaggio si fece sempre più chiaro.
Quel che doveva essere un 
libro malridotto era suddiviso in centinaia - se non migliaia - di fascicoli e pergamene, i quali sono nascosti separatamente in diversi posti impensabili, di modo che chiunque ne trovi uno, non possa capirne il criptico significato.
Il 
giorno in cui verrà ritrovato il pezzo mancante, il più importante, allora il proprietario li riunirà e ne farà la storia del mondo.
Era evidente sin dall'inizio che quel tesoro non era da sottovalutare: altrimenti perché si trovava in una cassaforte?

 


Ciao!
Premetto che Hidden è ispirato ad Angelology di Danielle Trussoni, purtroppo nella sezione delle Fanfiction sui Libri questo volume non è presente, per cui penso che vada bene lo stesso se pubblico la mia FF qui (?)
Chi di voi ha letto questo splendido libro allora forse riconoscerà uno o due punti che potrebbero coincidere.


Sto ancora lavorando sul Prologo, ho le idee chiare su cosa scrivere, ma non so COME. Ѐ un brutto periodo per chi ama scrivere... sì, è frustrante. Detto questo, vi lascio in pace e spero di avervi incuriosito =)
 
Elis

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Capitolo 2
*** Prologo - Freddo ***


Prologo - Freddo
 

 

Il mio viso è continuamente schiaffeggiato da gocce di pioggia e colpi di vento, il tutto accompagnato da lampi e tuoni. I temporali più violenti sono sempre avvenuti tra luglio e agosto, ma questo novembre si prospetta più freddo del solito. È da giorni che piove e, a differenza delle perturbazioni estive che il più delle volte regalano un arcobaleno, questo maltempo dona soltanto un cielo grigio. E oggi ho anche sforato il mio orario lavorativo. Sono le ventitré passate e riesco soltanto a maledirmi per non aver guardato le previsioni del meteo. Bagnata fradicia, senza ombrello, e ansante per la lunga corsa. In verità sto anche mandando al diavolo il mio capo, il signor Janowitz. Ed ecco la sua limousine nera che mi sfreccia proprio accanto; accantono l'idea di picchiettare sul finestrino per chiedergli un passaggio, ma pare che stanotte nessun taxi sia disponibile. Come se mi avesse letto nel pensiero, quando lo raggiungo al semaforo successivo, il vetro nero si abbassa, rivelando un'atmosfera del tutto differente al suo interno. Il mio capo mi ordina di entrare. Non me lo chiede con cortesia, perché sa che potrei rifiutare. La portiera si apre e mi ritrovo accanto a lui, seduta su un morbido sedile in pelle, a ringraziarlo per il grande favore. Tutto è rivestito di un bianco immacolato, con qualche accenno di beige e bordeaux. Su un lato, il mini-bar sfoggia una varietà di bevande e superalcolici. Ed è tutto così caldo...

«Mi dispiace» esordisce, pur mantenendo la sua solita e fredda espressione. Mi chiedo se sappia provare emozioni. «Ha iniziato a piovere quando ormai era già uscita...»

«Già» sbotto, sfilandomi la giacca bagnata quando comincio ad avvertire un certo calore, e realizzando di essere inzuppata fino al midollo, ed i miei abiti aderiscono al mio corpo rivelando le forme, le quali mi affretto subito a coprire col giubbotto, soprattutto perché il signor Janowitz mi guarda come fa una tigre affamata con una preda ferita. Dovrebbe avere solamente due o tre anni più di me, eppure è così bello, misterioso e... non vorrei citare una parola volgare. Comunque mi sembra troppo giovane per essere così ricco, e la cosa più strana è che non ama stare sotto i riflettori. Penso che Nathane Gad Janowitz non sia il suo vero nome, ma finché mi paga, per me tutto va bene. Sto per chiedergli dell'aumento, pur sapendo che non è la situazione più consona, quando lui propone una cosa migliore «Da domani sarà il nuovo redattore capo, signorina Webb.» Sospira.

«Ma... Sara?»

«Sara è un'incapace, lei è molto più adatta. So quanto ci tiene a questo lavoro. Non crede mica che io non sappia nulla delle vostre conversazioni?» per un attimo penso a quanto sia grandioso essere caporedattore a venticinque anni, in seguito capto la parola “conversazioni”, ed immediatamente mi sento avvampare. Mi chiedo come abbia fatto a scoprirlo. Non ho mai detto nulla riguardo al signor Janowitz, ma ho dovuto ascoltare tutte le fantasticherie di Sara su di lui. Su come sia bello, intelligente e parsimonioso – io dire taccagno – e poi ha detto un migliaio di volte: perfetto. Per Sara è un elogio fondamentale. «Non c'è bisogno di coprire la sua amica. Sono lusingato ma... al momento non cerco alcuna compagna di vita. La prego di riferirle questo messaggio».

«Sì, signor Janowitz» rispondo, fissando le mie dita che minacciano di dilaniarmi le ginocchia. Sto morendo di vergogna, Sara!

«Lei dove abita?» finisco di mordicchiarmi le labbra e mi ricompongo.

«Vicino a San Donato, Ponte Lambro, via degli Umiliati» rispondo, e so che si starà chiedendo che razza di indirizzo è, o se addirittura esista davvero, talmente è lontano dalla sede dell'Urban. Invece mi rivolge un mezzo sorriso comprensivo, e dice: «Ci sono stato, un paio di volte. È molto distante...» Perché mai un tipo mondano come lui dovrebbe andare un paio di volte in periferia? E Ponte Lambro non è neanche particolarmente interessante come zona. «Già. Per cui mi va anche bene scendere qui» ribatto, e penso che quel “è molto distante”, voglia dire “è troppo distante per me”, il che equivale ad un “scenda!”. Alla mia destra la M bianca su sfondo rosso segnala la metropolitana al di sotto, e proprio accanto vi sono le scale che portano ai binari. «Non starà mica dicendo sul serio?!» esclama d'un tratto, e poi grida all'autista la via e di aumentare la velocità. Preferisco non rispondere, e per tutto il tragitto non faccio che guardare oltre il finestrino, avvertendo gli occhi del signor Janowitz su di me. Preferirei dormire sotto la pioggia piuttosto che stare da sola con lui! Vorrei tanto poter fare cambio con Sara...

Superiamo l'ospedale Monzino, cogliendo delle occhiate curiose da parte dei passanti ancora in giro. Mi volto verso il mio capo, che non storce il naso come mi aspettavo, ma rimane impassibile, come sempre. Sembra una statua ellenica, ricca di dettagli, sfarzo, luce... è così composto e indifferente. Stupidamente, mi ritrovo a fare paragoni tra i miei boccoli biondo cenere ed i suoi lunghi capelli di un biondo platino. In realtà sono di una tonalità simile alla mia, ma lui pare emanare un bagliore innaturale da ogni particella del suo corpo. Mi guarda all'improvviso, e mi sorride, divertito. Ho sempre avuto la sensazione che riesca a capire cosa pensi la gente, e mi sento nuda e inerme dinanzi a lui; senza rendermene conto, incrocio le braccia sul petto, come se sia davvero scoperta.

«Come mai una famiglia inglese come la sua è venuta proprio in questa zona di Milano?» domanda d'un tratto, quando ormai bastano pochi passi per giungere al mio portone. La limousine si ferma proprio accanto al condominio, ma il direttore mi trattiene proprio quando me ne sto per andare. «Mi scusi, se sono stato impertinente».

«No... si figuri. Mia madre è italiana, e mio padre ha da sempre amato l'Italia, per cui ha deciso di stabilirvisi. Quando... la sua azienda è andata in bancarotta, ecco...» non so come proseguire, quando penso alla mia bellissima villa di quand'ero più piccola.

«Capisco». Lo ringrazio silenziosamente per aver deciso di interrompermi. Credo che il mio disagio sia stato evidente sin dall'inizio. «Non l'avrei mai detto, se non fossero per il cognome ed i suoi dati. Dall'accento la si scambierebbe per una milanese, davvero». Vorrei chiedergli lo stesso, sulla sua provenienza, ma mi mordo la lingua prima che questa mi faccia fare figuracce. Apro la portiera e faccio appena in tempo per tirare fuori la gamba dalla vettura, e filarmela, prima che lui richiami nuovamente la mia attenzione: «Scarlett» rabbrividisco da capo a piedi nel sentire pronunciare il mio nome con quella freddezza.

«Sì?»

«Conosco chi vive qui. Stia attenta... mi serve viva». Come se io non sappia nulla della gente che risiede qui! Prima di chiudere il portone, osservo l'auto allontanarsi silenziosamente, e sospiro di sollievo per essere finalmente a casa. Non so come mi comporterò domani, ma scommetto che il mio capo agirà come al solito, mentre io muoio di imbarazzo, soprattutto per la faccenda di Sara... Sara! Non siamo veramente amiche, ma è l'unica collega con cui vado realmente d'accordo e... non so come reagirà. Non voglio neanche pensarci.
    Solo quando torno a casa, mi accorgo di aver dimenticato la borsa nella limousine del signor Janowitz.


 


 

Rieccomi!
E' comunque una specie di introduzione. Se il precedente capitolo parlava del tema principale della storia, questo invece presenta i due protagonisti. Non ho messo molte informazioni perché preferirei farvi conoscere Nathane e Scarlett adagio U.U
Coomunque, non mi soffermo troppo, perché in verità non so proprio che altro dire ._.
Be', fatemi sapere i vostri pareri su questi due, e se c'è qualcosa che non capite o che non vi piace, non abbiate paura di dirlo. Non mangio,
giuro!

 

 

Elis

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Capitolo 3
*** Capitolo I - Per Freedom ***


Capitolo I - Per Freedom
 

«Dovresti riposare un po'» propongo, la voce sopraffatta dal rumore della tastiera. Le dita di Sara pigiano con estrema rapidità i tasti, gli occhi verdi puntati sullo schermo: ogni tanto fa una pausa per strizzarli, ma è solo questione di un paio di secondi, dopodiché riprende a scrivere, senza nemmeno degnarsi di rispondermi.

«Ho quasi finito» ribatte con freddezza. È da una settimana che mi ignora, e se tenta di rispondermi in modo adeguato, be'... le riesce male. Sospiro stancamente e mi abbandono sullo schienale, trangugiando il mio Chicken Burger e la lattina di Coca-Cola. Volgo la testa verso l'ufficio del direttore e mi chiedo se si sia mai accorto della mia borsa sul sedile. Eppure mi è impossibile pormi una domanda del genere, perché è ovvio che l'ha vista, solo che non si decide ancora a darmela. Forse sta aspettando che sia io a farmi avanti. Fortunatamente, gli oggetti indispensabili si trovavano nelle rispettive tasche del giubbotto. Un po' bagnati, ma salvi. Do una breve occhiata all'orologio: la pausa pranzo sta per finire, e l'insalata di Sara è ancora intatta, accanto al computer.

«Ho finito. Potrei benissimamente tornarmene a casa, se potessi» sbuffa. Ora comincia a mangiare, ma non credo che un'insalata sia il massimo per tenerla in forze. Lei e la sua mania della dieta. Noto che le ossa sporgono sotto la pelle più del solito, quasi come se quest'ultima fosse un'inutile e semitrasparente pellicola rosea. «Ed io potrei benissimamente ficcarti in bocca un quintale di pasta, giuro!» replico, stizzita. Come può una donna ridursi in questo modo? Non riesco proprio a guardarla...

«Eh?!» credo di aver attirato la sua attenzione, finalmente.

«Sei magrissima, Sara».

«Non è vero» sbotta, infilzando una lattuga con la forchetta, poi la esamina con una smorfia, e la fa ricadere nel piatto. Cerco di intuire cosa l'abbia spinta a rifiutare qualsiasi tipo di cibo e a truccarsi molto più di prima, ma non penso che le riviste, le modelle e la società l'abbiano indotta fino a questo punto. Perché Sara non si fa condizionare da queste cose... Sto per chiederle “qualcuno ti ha respinta?” ma mi trattengo giusto in tempo. E guarda caso ha iniziato ad avere questa ossessione subito dopo aver perso il posto di caporedattore, anche se già da prima mangiava poco, ma non quanto adesso. Non so se il signor Janowitz c'entri qualcosa, ma visto che esercita una certa influenza su di lei sin dall'alba dei tempi, non posso dire che la teoria sia priva di fondamenta. Deglutisco rumorosamente nel vedere delle modelle pelle e ossa sulla rivista che sta leggendo Sara. «Secondo te... sono le modelle che si adeguano agli abiti stretti o è il contrario?» domanda, seguendo col dito le curve inesistenti di una bionda. Scrollo le spalle, disgustata.

«Non lo so... cosa ci guadagnerebbe la modella?»

«Ѐ più bella» risponde, gli angoli della bocca che ricadono in giù. Le poso una mano sulla spalla, al che lei sussulta, mentre io posso solo percepire il suo scheletro. «Non è vero» obietto, «comunque, penso... vestiti più piccoli equivale a meno stoffa, quindi meno spese.» Premetto che non ne so nulla di passerelle, e tanto meno quel che è dietro le quinte.

«Ma come ragioni, Scarlett?!» non capisco se l'abbia detto per contraddirmi, ma non ho tempo per pensarci, poiché ad un certo punto Sara riprende a scrivere – credo che stia fingendo, visto che ha appena terminato – e si acciglia. Guardo oltre la mia spalla, e vedo dei biondi capelli lunghi e lucenti che incorniciano un sorriso spavaldo. Come al solito, è elegante nel suo completo da ufficio. Questi abbigliamenti da uomo mi sono sempre sembrati abbastanza banali, tutti uguali, eccetto per le cravatte di ogni tipo. Ma lui fa degli abbinamenti azzardati che in realtà si dimostrano in armonia fra di loro. Lo saluto cordialmente, ma con il dovuto – anzi, eccessivo – distacco.

«La aspettavo nel mio ufficio, signorina Webb».

«Non ne sapevo nulla», dico, inarcando le sopracciglia. Lui mi imita, e non posso fare a meno di sentirmi presa in giro, come se fossimo al liceo anziché all'Urban.

«Ma davvero? Avevo mandato Gabriele a chiamarla».

«Be', a me non risulta» sto per aggiungere la questione della borsa, quando mi fa cenno di entrare con lui. Prima di richiudere la porta alle mie spalle, scorgo un'occhiata truce da parte di Sara. Se gli sguardi potessero uccidere...

Esito, prima di accomodarmi sulla poltrona, ma lui non dice nulla, per cui rimango in piedi, in mezzo alla stanza. Tutti questi libri che incombono su di me mi causano una sensazione claustrofobica. Soffocante, e fastidiosa. Comunque, penso che vada bene a entrambi se resto in piedi. Fisso la sua targhetta bronzea con inciso sopra il suo nome in nero, prima che lui richiami la mia attenzione: «Ha dimenticato la sua borsa».

«Lo so».

Avanzo di qualche passo, verso il braccio teso del signor Janowitz, il quale non smette di guardarmi negli occhi, e nemmeno io lo faccio. È così sin dall'inizio, anche se prima non era così evidente, ma è come se lui voglia sfidarmi. Mi rivolge un sorriso sghembo quando finalmente mi impossesso della mia borsa. Faccio per aprirla ed esaminarla, ma lui mi rassicura dicendo che non l'ha proprio toccata. Si sente ancora il suo irresistibile profumo, ma allo stesso tempo, troppo forte e ripugnante. Sarà perché sto covando un certo disprezzo nei suoi confronti, ma non posso dire che il suo profumo faccia schifo.

«Ora... posso andare?» chiedo, già indietreggiando di un passo, anche se non ho ancora posato completamente il mio piede destro. La punta della scarpa è in tensione, impaziente di fare molti altri passi. Scuote la testa con un risolino, la chioma che ondeggia e riflette la luce del sole, il quale dona maggior risalto al colore innaturale, anche se sospetto che il signor Janowitz abbia deciso di mantenerli così come mamma l'ha fatto. Non riesco proprio a figurarmelo mentre si fa una tinta...

Ficca i pugni in tasca e percorre il perimetro della scrivania in mogano, e continua così per altri due giri.

«Se le dessi un incarico estremamente importante e pericoloso, lei lo farebbe, signorina Webb? Per fama e ricchezza?» sobbalzo di fronte a quella proposta, ma nonostante ciò non abbasso la guardia. Socchiudo gli occhi, aspettandomi qualcosa che possa negare quel che ha appena detto, ma il mio capo non dice nulla. Devo rispondere, il che mi risulta difficile: «Dipende».

«Non le credo».

«Cosa?»

«Mi ha sempre dato l'impressione di una che vuole fare carriera, in questo ambito. Mi aspettavo un: “Certo che sì!”».

«Immagino che abbia chiesto la stessa cosa a Sara, prima di consumarla e poi buttarla via» sibilo. Ho già precedentemente dichiarato che Sara non è mia amica, ma non sono nulla di diverso da un essere umano, e vederla in quello stato mi fa star male. Nonostante sia un po' frivola e civettuola, mi ci sono affezionata abbastanza da voler prendere le sue difese. La cosa più scioccante, è che il signor Janowitz non lo nega, e addirittura ci ride su. «Sì, forse “consumarla” è il termine più appropriato. Io l'ho conosciuta meglio di lei, signorina Webb. In tutti i sensi» assume un tono più seducente quando pronuncia le ultime quattro parole. Riesco solo a indietreggiare di qualche altro passo, mentre stringo al petto la mia borsa, e infine, quando raggiungo la porta, una morsa gelida mi blocca la mano sulla maniglia. «Non le ho concesso di andare».

«Non mi interessa!» ringhio, ma è troppo forte, incredibilmente forte. Un dolore lancinante si irradia dalle punte delle dita fino al braccio. Trattengo a stento un lamento, mentre lui ghigna. Avverto le sue labbra sfiorarmi l'orecchio. Ora è solo un bisbiglio quel che vi trapela. «Sa, mi piaceva la chioma rossa di Sara. Oh, era sensuale, ma lei era una piccola fiammella, si è spenta subito, e mi sono stufato. Non era neanche così prestante come speravo... e come caporedattore? Ancora peggio!» anche l'altro braccio mi viene bloccato. Sono intrappolata, e il mio cuore non ne vuole sapere di rallentare. Ho paura, proprio come quella notte... Sprazzi di ricordi dapprima sepolti e dimenticati vengono rievocati.

Dai piccola, collabora!

No! Mi era impossibile gridare, il mio terrore mi impedì perfino di muovermi. Quella voce gutturale mi rimbomba nelle orecchie, come se provenga dal signor Janowitz, e d'altronde adesso non c'è alcuna differenza tra loro due. Solo che il mio direttore lo sta facendo alla luce del giorno, lo conosco, e potrei benissimo denunciarlo, ma non voglio neanche arrivare fino a quel punto. Non voglio nemmeno essere qui. «Sara era remissiva. Se le dicevo di andarsene e un secondo dopo di inginocchiarsi e massaggiarmi i piedi, lei lo faceva. Come un cagnolino. Un insopportabile chihuahua. Lei lo farebbe, signorina Webb?»

«NO!».

«Per quale motivo? Qualsiasi donna pagherebbe per sfiorarmi soltanto».

«Si sbaglia, io la detesto!» a questo punto allenta la presa, e mi tremano così tanto le gambe, che potrei cadere in qualsiasi momento. Non ho la forza di andarmene, né di urlare. Mi sembra di ritrovarmi in quel vicolo buio, dove tutto è cambiato. Traggo una serie di respiri lunghi e profondi: ma non funzionano. E le carezze del direttore sui segni rossi che mi ha lasciato non fanno altro che impaurirmi.

«Lei trema» constata. Non rispondo. In realtà non riesco neanche a pensare, con tutte queste scene che mi sovraffollano la mente... Un uomo incappucciato. Corro sotto la pioggia, mentre la gente non fa alcuno sforzo per aiutarmi, tranne digitare numeri a casaccio. Ma quando la polizia arriva, è troppo tardi. Privata della mia dignità, stanca, umiliata... spezzata. Non è così che avrei voluto perdere la verginità.

Sento le mani del signor Janowitz che mi costringono a voltarmi, e incontro i suoi occhi grigi e azzurri come il mare in tempesta, con un bagliore zaffiro, pagliuzze verdi gli circondano le pupille dilatate. Le sue iridi racchiudono le gocce di pioggia sui fili d'erba, dove si riflettono le nuvole cupi e ammassate. Sono un sacco di cose, e per tutto il tempo in cui ci studiamo a vicenda, ho la netta sensazione che lui mi abbia conosciuta più di quanto abbia fatto io. Quando distoglie lo sguardo, mi sento letteralmente prosciugata, ma anche meglio. I miei peggiori ricordi sembrano racchiusi in una campana di vetro. Per quanto possano strepitare il dolore che provai allora, è come se fossi incapace di cogliere quelle sensazioni negative. Il mare negli occhi del signor Janowitz torna placido e semplicemente azzurro. Immediatamente, sul suo viso riappare il sorriso beffardo di sempre.

«Vede? Ora vorrà pagare pur di sfiorarmi ancora» scherza, ma qualcosa è celato dietro quella maschera. Non ho ancora dimenticato con quanta prepotenza mi ha impedito di uscire, né la faccenda di Sara. Ma c'è qualcosa che mi spinge a... compatirlo. So che se gli chiedessi che cosa mi ha appena fatto e perché aveva quegli occhi, lui mentirebbe.

«Allora, vuole aiutarmi sì o no?» Aiutarlo. Ha ancora a che fare con la storia di prima? Il mio aiuto, il mio tempo, in cambio di una vita agiata e priva di problemi.

«In cosa consiste?» credo proprio di aver lasciato trasparire il mio interesse. Il signor Janowitz sfoggia un sorriso smagliante, pur mantenendo quell'alone di freddezza che lo accompagna sempre, e corre dietro la scrivania. Fruga in un cassetto, finché non trova un fascicolo e mi si avvicina, senza permettermi di sfogliarlo. «Questa è opera mia, ho deciso di fare una replica dell'originale» spiega, «ma è palloso. Per cui ho pensato: perché non costringere qualcuno a farlo al posto mio? Qualcuno che ama tanto scrivere!»

«Co-costringere?» balbetto, già considerando l'idea di tirarmi indietro.

«Oh sì, lei lo farà. Per Freedom» assume ora un'aria minacciosa, mentre una sola domanda mi martella in testa: come fa a sapere di Freedom?! «So tutto di lei, di tutti quanti» i suoi occhi lampeggiano ed esibiscono quei magnifici colori di prima, ma solo per un brevissimo istante, e quel che è peggio, è che non mi infondono la sensazione di benessere di poco fa, ma qualcosa di gelido e indescrivibile, il quale mi dice che è meglio obbedire, per il bene di Freedom. Non so come abbia fatto a scoprirlo, ma scommetto che è a conoscenza di molte altre cose. Abbasso lo sguardo. «D'accordo» asserisco in tono remissivo.

«Bene!» esclama, tornando quello di prima, «le aspettano un sacco di stanze».

«Stanze?»

«Sì. Un'infinità di stanze sparse nel mondo. E tutte nascondono gli originali».

Mi sento svenire, ma lui pare non accorgersene. Ora capisco perché è “palloso”. Mi ficca in mano il fascicolo, blaterando parole a me indecifrabili. Non riesco a capire quel che dice, talmente sono occupata a immaginarmi ormai vecchia e decrepita, intenta a scrivere, scrivere e scrivere...

«Non mi sta ascoltando» realizza, fulminandomi con lo sguardo. Faccio spallucce, senza neanche provare a stare sulla difensiva. Lui sbuffa e mi ordina di mettermi subito al lavoro: in quanto al mio mestiere, pare che se ne occuperà Gabriele al mio posto, pubblicando articoli veritieri e altri falsi, ma capaci di rendermi una giornalista fuori dal comune. Così ha detto. Non mi va, non è quel che ho pianificato tutta la vita.

Torno nel mio ufficio, superando l'enorme stanza dove tanti giornalisti ambiziosi non smettono di perfezionare i loro articoli. Tra di loro scorgo la chioma rossa di Sara, che si dondola pericolosamente sulla sedia, decisa a non toccare più neanche l'insalata. Chiudo la porta alle mie spalle e sprofondo nella poltrona. E mentre il computer si carica, decido di leggere il contenuto di questo importante manoscritto. Ho quasi timore a farlo, ho come la sensazione che sia sbagliato, che non si debba fare. Ogni frase è preceduta da un numerino a sinistra. La prima mi lascia completamente spiazzata, e immagino che le successive siano ancora peggio. Non riesco a capire il senso delle parole...

Numero 1: nascondere la Storia.
 


Ed eccomi qui :D
Prometto che non dirò molto, tranne che concepire l'idea è stato un travaglio! Ultimamente sono priva di ispirazione, e quando questa arriva, non posso mettere le mani sulla tastiera! Be', ora spero che sia uscito un buon capitolo. Come al solito, non abbiate paura di dire la vostra ù_U A presto!

 

Elis

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