John Doe di Lycoris (/viewuser.php?uid=92433)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** John Doe ***
Capitolo 2: *** Freckles ***
Capitolo 3: *** Take a sad song and make it better ***
Capitolo 1 *** John Doe ***
John Doe
Titolo: John Doe
Fandom: Supernatural
Pairing: Destiel
Rating: PG (Potrebbe variare nel corso della fic)
Chapter: 1/?
Beta: Nessuno
Genere: AU (Sviluppo alternativo), Introspettivo, Romantico
Warning: AU, Slash, Nuovo Personaggio
Summary: [SEGUITO DIRETTO DI “UOMO LIBERO AMERAI SEMPRE IL MARE” SVILUPPO ALTERNATIVO Post 7x01]
John Doe era il suo nome, il nome
che si dà ai cadaveri sfigurati rinvenuti nei fossi, ai corpi
gonfi restituiti dal mare. John Doe era il nome scritto ai piedi del
suo letto in clinica, il foglio bianco –bianco come le lenzuola,
come i muri, come i camici delle infermiere- su cui campeggiava una
scritta: Amnesia retrograda totale
Note:
Prima di leggere questa fic è necessario aver letto “Uomo
libero amerai sempre il mare”. E’ la continuazione di quel
mio delirio precedente l’uscita della 7x17. Io vi ho avvisati
<3
John Doe
John Doe era un uomo quasi completamente ordinario.
Della sua vita amava le piccole cose: il profumo del caffè
appena macinato, il letto caldo la mattina che sembra gridarti
“ehi, non abbandonarmi!”, il sole di primavera sulla pelle.
Viveva ogni cosa nella sua vita con l’entusiasmo dei bambini,
come una novità assoluta. Il che non si discostava troppo dalla
realtà.
John Doe era il suo nome, il nome che si dà ai cadaveri
sfigurati rinvenuti nei fossi, ai corpi gonfi restituiti dal mare. John
Doe era il nome scritto ai piedi del suo letto in clinica, il foglio
bianco –bianco come le lenzuola, come i muri, come i camici delle
infermiere- su cui campeggiava una scritta: Amnesia retrograda totale.
Anche John Doe era venuto dal mare, risputato su una spiaggia del Rhode
Island con solo la pelle chiara come indumento, ritrovato da una
bambina che di prima mattina cercava conchiglie, e che subito era corsa
dal nonno dicendo che c’era il fratello di Ariel la sirenetta
immerso fino ai fianchi nell’acqua, e doveva per forza essere suo
fratello perché non parlava e aveva gli stessi occhi color
dell’oceano.
Duemila milioni di mani lo avevano frugato, cercando segni, cicatrici,
puntandogli luci che bruciavano dritte nelle pupille, domande domande
domande.
Il tempo infinito in una clinica sterile, misurato in unità di piccoli progressi. La sua prima parola era stata “grazie”.
Poi la strada era stata tutta in discesa, nel giro di qualche mese
aveva recuperato le facoltà di un normale uomo adulto. Normale
per quanto possa essere normale un trentenne trovato mezzo assiderato,
senza ricordi né esperienza su una spiaggia deserta.
Il nonno della bambina che lo aveva salvato lo aveva ospitato in casa sua.
«Puoi usare i vestiti di mio figlio, a lui non servono più.»
La bambina, che si chiamava Alice –o, come sottolineava sempre
lei, Alice Abelson- aveva raccontato che la sua mamma e il suo
papà erano scomparsi un mese prima che John arrivasse lì.
«Sono andati in cielo, Johnny, lo sai? Il pastore Dewy dice
sempre che ora ci sono gli angeli che insegnano a cantare a
papà, lui non cantava tanto bene. La mamma invece aveva la voce
più bella del mondo. Tu sai cantare Johnny?»
“Johnny” aveva scoperto accompagnando Alice e il nonno
nella chiesetta del paese che sì, decisamente sapeva cantare.
Cantava come se non avesse mai fatto altro in vita sua.
Alice gli aveva insegnato le parole di una canzone semplice, lui ci
aveva messo la voce e un po’ d’improvvisazione. La bambina
uscendo dal portone lo guardava estasiata e parlava a mitraglietta.
Poi una mano fresca gli si posò sull’avambraccio e John
incontrò gli occhi acquosi e zuppi di lacrime di una vecchietta.
Lui la guardò sorpreso.
Lei gli disse «Il tuo è il canto del Paradiso.»
Una fitta gli trapassò il cervello come fuoco ardente e John si portò le mani alle tempie.
Occhi verdi e lentiggini. Capelli rossi e una voce gentile. Una zazzera bionda e un sorriso derisorio. Sangue e luce bianca.
Fece un sorriso tirato alla vecchina, Alice salutò sventolando
una mano e guardò in alto verso l’uomo che la teneva per
mano e la stava praticamente trascinando via.
Un passo, un altro.
«Johnny, piangi?»
Si fermò in mezzo alla strada, toccò le guance e ritrasse spaventato le dita bagnate.
Alice dal basso dei suoi cinque anni lo tirò per il polso fino a
portarlo alla sua altezza e gli passò le mani sul viso fino a
lasciarci solo il sale, poi soffiò sulle dita come una fatina
che sparge polvere magica.
La prima volta che John aveva pianto lei era lì con lui.
Non sapeva cosa fosse il pianto, in clinica non gli avevano spiegato da dove venisse o cosa servisse.
Non sapeva nemmeno cosa fossero gli incubi, i sedativi li tenevano lontani.
La prima notte in casa degli Abelson si era svegliato urlando, con il
viso impiastricciato ed umido e gli aveva spiegato che gli incubi
andavano via con le lacrime, perché le goccioline intrappolavano
le cose brutte che cadendo andavano via. «Me l’ha detto
papà.-
John sognava fasci di luce bianca. Un dolore fortissimo tra le costole.
Volti accusatori e sofferenti di cui non ricordava il nome.
C’era un altro sogno, un bel sogno, che era capace di scacciare il dolore dal suo cuore.
Era l’unico ricordo che i medici avevano cavato dalla sua mente distrutta.
Il suo sogno aveva gli occhi verdi e le lentiggini, un odore caldo di
sole e labbra morbide che gli accendevano un calore piacevole nel cuore
e sugli zigomi. Sa che nell’altra sua vita qualcuno lo amava.
Con un sorriso leggero come una piuma prende di nuovo la bambina per
mano e si avviano alla volta del piccolo cottage sulla spiaggia.
La testa martella ancora.
Alice corre sul ghiaino del vialetto di casa.
Inciampa, i sassolini che scavano nella carne fragile delle ginocchia.
John accorre, la preoccupazione che sale –lui non si è mai
fatto male, non sa come comportarsi, cosa fare- e le lacrime riempiono
gli occhi scuri della bambina.
Le si accuccia accanto, poggia una mano sulle gambe che sanguinano, il pietrisco conficcato tra la carne e la pelle.
E poi non c’è più niente. Come se nulla fosse
successo. Le ginocchia sono ricoperte di pelle chiara e perfetta,
senza neppure un segno.
Il pianto si ferma istantaneamente e Alice trattiene bruscamente il respiro.
«Johnny, ma sei un mago?»
John però è caduto a terra senza un suono, le fitte alla testa come coltellate inferte da un arma invisibile.
La coscienza sfugge come fumo tra le sue dita.
Sogna di nuovo gli occhi verdi e le lentiggini.
NdA: Oddio, cosa sto facendo.
Aggiungiamo questa fic a quelle che forse non dovevano vedere la luce e
rimanere al calduccio e al sicuro insieme alle altre. Però, oh,
Sera va per i fatti suoi? Posso farlo anch’io v.v
Spieghiamoci: qualcuno nelle
recensioni della fic precedente mi aveva chiesto un seguito. E io in
preda all’amore per queste persone meravigliose e
all’overdose di autostima avevo scritto questo.
Quella di Cas senza memoria era
all’epoca solo una mia teoria, l’ho scritta sotto Natale e
c’era appena stato l’annuncio che “Cas sarebbe
tornato ma diverso da com’era prima”.
Il mio cervellino sotto effetto di
uno dei miei febbroni nucleari leggendari aveva partorito l’idea
e come è andata lo sapete, il risultato è la mia prima
fic pubblicata qui.
Poi questo capitolo è finito
il giorno prima che uscisse la 7x17, l’ho guardata e oltre al mio
urletto isterico all’inquadratura dal basso del Signor Collins
che suonava più o meno come: “Francè, corri,
è lui, riconosco il culo!” *ahem* c’è stato
anche quello “Oh dèi di Asgard, sono un profeta”. Mi
sembrava ridicolo pubblicare questa fic allora, ma che ci posso fare,
l’amo tanto <3 Quindi grazie a te che te la sei sorbita
coraggiosamente.
Come al solito, mi farebbe davvero
tanto piacere ricevere consigli, critiche eccetera eccetera. Non mi
sono mai cimentata in una long, non ho idea dei tempi che
impiegherò a scrivere un altro capitolo. Voi abbiate fede, o
venite a punzecchiarmi di tanto in tanto ricordandomi che “ehi,
cervellino, ha delle responsabilità se cerchi di portare avanti
una multi capitolo!”
Vi amo ogni giorno di più,
ognuno di voi che ha letto qualcosa di mio ha un posticino speciale nel
mio cuore. Non potrò mai ricambiare l’affetto che mi date,
un bacio e may the Odds be ever in your favor.
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Capitolo 2 *** Freckles ***
Freckles
Freckles
Quando si svegliò e vide il bianco, John pensò di essere tornato indietro nel tempo.
Un sogno, è stato tutto un sogno.
Alice. Le cose che aveva imparato. La vita che aveva vissuto.
Si aspettava di trovare la lingua contratta e incapace di proferire parola.
Abbassò gli occhi verso i piedi del letto, vedendo spuntare tra
le coltri arricciate –ancora incubi?- una testolina bionda e
arruffata.
Alle labbra gli salì spontaneo un sorriso di sollievo, il cuore
che sembrava allargarsi e riscaldarsi, come se il sole si fosse alzato
ad accendergli il petto con il suo calore.
C’era Alice ai piedi del letto, acciambellata come un gatto
pigro. La maglietta verde –quella con il trifoglio che il
papà le aveva portato dall’Irlanda- era spiegazzata,
le mollette con le stelline dorate erano scivolate e penzolavano dalle
punte dei capelli.
Alla sua sinistra, su una poltroncina che tutto sembrava meno che
comoda, era accasciato il nonno, gli occhi chiusi e l’espressione
seria anche nel sonno.
Si schiarì la voce e l’aria grattò sulla gola secca come cartavetra.
«Buongiorno.»
La bambina aprì prima un occhio e poi l’altro, le iridi
scure rese liquide dal sonno. Il nonno grugnì e si
raddrizzò stirando la schiena.
«Ragazzo, facci di nuovo un tiro del genere e giuro sul mio fucile che ti strozzo con le mie mani.»
«Nonno!»
«Alice ha ragione, signore, non esageri. Giurare sul fucile è una cosa seria!»
I tre scoppiarono in una risata liberatoria.
«Bene, ora che sei tornato dal regno dei sogni vediamo di firmare qualche scartoffia e riportare le chiappe a casa.»
In macchina John si sedette sul sedile posteriore insieme alla bambina,
che lo guardava di sottecchi con un velo di preoccupazione e di colpa,
come se
si aspettasse di vederlo di nuovo cadere in terra da un momento
all’altro. Si fece lasciare per la strada prima di arrivare a
casa, deciso ad andare alla
spiaggia sassosa dove l’avevano trovato privo di sensi.
Doveva essere –provava ad immaginare- come quando da adulti si
tornava nella casa in cui si aveva passato l’infanzia. Un misto
di nostalgia e tristezza, ma anche la consapevolezza di essere
cresciuti, di essere andati avanti, di aver costruito una vita degna di
essere vissuta.
John era orgoglioso di sé. Era cosciente che non molte persone
sarebbero riuscite a fare in una vita quello che lui aveva fatto pochi
mesi. Sapeva di altri che avevano scelto la via più breve, la
fine di ogni dubbio in una pallottola, sembrava semplice.
Lui stesso si era posto il problema, quando ancora faticava a tenere in
mano le posate . Una vita senza ricordi è davvero degna di
essere vissuta? Una pianta può forse sperare di crescere con le
radici bruciate?
John era giunto alla conclusione che niente era impossibile da
riaggiustare. Aveva piantato saldamente le sue radici su quella
spiaggia e aveva costruito qualcosa di nuovo.
Aveva una famiglia. Strana, non c’erano dubbi, ma erano la sua
casa. Aveva trovato un lavoro, che gli impediva di pesare sulle spalle
del vecchio Abelson.
Tornava lì quando la nostalgia si affacciava alle porte del suo
cuore, quando il desiderio di ritrovare almeno un frammento della sua
memoria distrutta lo soffocava.
Perché era riuscito a guarire Alice? Non l’aveva sognato,
anche quella mattina le sue ginocchia non mostravano traccia della
brutta caduta del giorno prima. Non era certo come resuscitare qualcuno
–strano pensiero, era qualche millennio che resuscitare non era
proprio all’ordine del giorno, per quanto ne sapeva- ma non era normale.
Si fissò le mani come se nemmeno gli appartenessero. Cosa- no, chi era lui?
L’acqua era troppo fredda per potersi immergere, ma John tolse le
scarpe e abbandonò le caviglie sul bagnasciuga, a farsi lambire
dalla onde gelide.
Sulla sua pelle il mare era il collegamento con il suo passato.
Collegamento muto, perché certo quello sciabordio non gli
avrebbe dato risposte. Si sdraiò sul ghiaino duro, la sabbia
sottile che si infilava tra i capelli scuri.
Gli occhi verdi e le lentiggini gli si affacciarono alla mente, come un animaletto che fa capolino dalla sua tana.
John sorrise e allargò le braccia sulla spiaggia.
Avrebbe scoperto di chi era quel viso nebuloso. Era sicuro di questo.
Ma per ora la sua vita era perfetta così com’era.
Si alzò in piedi, legò le scarpe per i lacci e se le
appese al collo, camminando lentamente alla volta di quella che ormai
considerava casa sua.
Quando bussò alla porta scrostata –era davvero il caso di
procurarsi quella vernice azzurra- le preoccupazioni erano ormai
un’eco lontana.
Alla porta si presentò Alice, che accolse con un sorriso.
Prima di accorgersi del suo viso pallido e degli occhi lucidi.
Gli si fiondò addosso cingendogli la vita e affondando la faccia nella sua camicia.
«John, stavamo tornando a casa e in mezzo alla strada c’era
una donna, era tutta tagliata, c’era tanto sangue. John, ho
paura! Che succede Johnny?»
Lui le passò una mano tra i capelli, sussurrando frasi
rassicuranti e mormorando cantilene senza senso. Quando si fu calmata
la prese per mano e la
accompagnò lungo il corridoio.
Passando davanti alla cucina sentì la voce del nonno e altre due
voci sconosciute. Schiuse la porta e si affacciò cautamente,
fece un cenno rivolto ad
Alice e poi alla sua cameretta. L’uomo annuì, e prima che
i due –uomini, giovani, uno dei due aveva i capelli lunghi- si
girassero lui aveva accostato la porta.
Portò Alice in cameretta, ignorando il cuore che senza motivo
aveva iniziato a battere all’impazzata, come se avesse
corso per chilometri.
Lei, cercando di distrarsi gli chiese delle lentiggini.
«Secondo te Lentiggini è un lui o una lei?»
«Non lo so. Non me lo sono mai chiesto» rispose stupito. Era strano, in effetti, che non ci avesse mai pensato.
«La prima volta che ti ho visto lì, nell’acqua, ho
pensato che assomigliassi alla Sirenetta. Magari Lentiggini è il
principe Eric, che ti cerca sulla
spiaggia.»
John sorrise, muto come Ariel la Sirenetta, pensando che Alice riusciva
a toccare il suo cuore come nessun’altro. Era il potere magico
dei bambini, chi li definiva ingenui davvero non aveva capito nulla.
«Mamma diceva che le lentiggini sono i baci degli angeli. Lentiggini deve averne ricevuti davvero un sacco!»
Inspirò velocemente, sentendo il cuore che riprendeva a correre
e quel fastidioso dolore alla testa che si ripresentava, più
lieve del giorno prima.
Decisamente c’era qualcosa che non funzionava.
«Johnny, mi canti qualcosa?»
Senza neanche sapere come le parole gli salirono alle labbra e una melodia gli riempì il cuore.
Hey, Jude, don’t make it bad.
Take a sad song and make it better. Remember to let her into your
heart, then you can start to make it better.
Gli occhi gli pizzicavano, la testa gli girava ma la voce continuava imperterrita ad uscirgli dalle labbra.
Almeno finché la porta non si spalancò con un rumore infernale strappando un urlo ad Alice.
NdA: avete
presente quelle immagini in cui un personaggio mortalmente imbarazzato
scivola lentamente fuori dall’inquadratura in modo assolutamente
rigido?
Ecco, quella sono io.
Questa fic mi sta sfuggendo di mano. Tutti alle scialuppe!
Ok,
ora vi prometto di smettere di fare la deficiente, ma dopo una cosa
così avevo bisogno di sfogarmi. Potrebbero farci un profumo:
Angst, le nouveau parfum de Lycoris.
Allora,
spiegazioni e scuse. Tutta questa fic è praticamente
–e me ne rendo conto ora- la sintesi del mio grande fetish per le
lentiggini. Ora potete ridere.
Poi, potete odiarmi perché ho trasformato la Destiel nella Sirenetta Disney.
E perché mi sono convertita al cliffhanger.
Parliamo dei personaggi? Di Alice, che ormai è come se fosse figlia mia per quanto le voglio bene?
Del nonno, che è venuto fuori come il Bobby del nostro Cas?
…del fatto che ho fatto passare Cas a mezzo metro da Dean senza che si potessero vedere? *nasconde la faccia*
Di –oddio perdonami perché mi faccio piangere da sola- Hey Jude?
Se volete parlarmi, santo cielo, parlate! çwç
BTW,
questo capitolo l’ho scritto in un giorno, che vi sembrerà
una cavolata, ma per me è un record imbattuto. Basta dire che
Uomo libero è stata fatta macerare per più di tre mesi,
le parole cambiate 500 volte-cosa che a volte penso sarebbe meglio
continuare a fare. Quindi anche questo capitolo è dedicato alla
mia brokenheart, che per motivi vari non può betare ma rimane la
seconda mamma di questa e di tutte le mie fic. E che sarebbe bene se
rispondesse al telefono.
Con ciò vi auguro buonanotte, una montagna di baci
Lycoris
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Capitolo 3 *** Take a sad song and make it better ***
Take a sad song and make it better
Take a sad song and make it better
Alice gridò stridula quando la porta, aprendosi violentemente, andò a sbattere contro la parete.
Cigolando questa tornò indietro sui cardini, come a rimproverare
a chi fosse in ascolto la violenza ingiustificata a cui era stata
sottoposta.
Nessuno in quella stanza avrebbe fatto caso ad una porta che cigola.
La bambina era immobile con una mano ancora tra quelle
dell’adulto che le stava accanto, gli occhi spalancati e colmi di
paura.
A John, lo sguardo rivolto verso la porta, si erano impigliate in gola
le parole della canzone, il sangue era lentamente defluito dal viso,
bianco come il gesso.
Alla porta stavano due uomini.
Uno stava alle spalle dell’altro. Era alto, i capelli gli
scendevano fino alle spalle. Gli occhi grandi da bambino erano
sorpresi, la sua mano bloccata sulla spalla dell’altro, come a
volerlo trattenere.
Il secondo aveva un braccio teso in avanti, ad accompagnare il
movimento che aveva spalancato la porta. Indossava una giacca di pelle
sdrucita, le gambe fasciate dai jeans erano tese come a spiccare una
corsa congelata nel tempo. Una striscia di sangue attraversava la
maglietta tinta di color ruggine. Aveva gli occhi verdi e il naso
spruzzato di lentiggini.
Per un attimo sembrò che ogni particella presente in quella
stanza fosse in attesa di qualcosa. L’atmosfera vibrava d’
elettricità.
Poi quel qualcosa di manifestò nell’uomo che scattò
attraverso la stanza e afferrò John per il bavero della giacca,
scuotendolo come un giocattolo di pezza.
I suoi occhi erano accesi di una luce febbrile, le sue labbra si muovevano nel pronunciare parole che John non comprendeva.
Afferrò i polsi dell’altro tra le mani, cercando di liberarsi dalla sua stretta violenta.
L’uomo non parlava.
Urlava.
«Chi sei, cosa sei?!»
Il ragazzo alto intervenne, trattenendo l’altro stringendogli il petto e strattonandolo lontano da John.
Sembrava una bestia, puro istinto di distruggere, come se John fosse un pezzo di carne e lui una fiera digiuna da un mese.
«Basta.»
La figura del nonno si stagliava contro l’entrata della cameretta, come un albero secolare in una tempesta.
Teneva la bambina in braccio, il viso nascosto contro la sua spalla.
«Quest’uomo vive in casa mia. Non ti permetto di alzare un
dito contro di lui. Credi davvero che se fosse stato un pericolo non me
ne sarei accorto? John è mio ospite, qualunque cosa tu abbia
contro di lui potete parlarne come persone civili».
L’uomo con le lentiggini aveva il respiro affannoso.
«Abelson, quest’uomo è morto. Davanti ai miei occhi».
«Sei l’ultimo a poter condannare un morto che cammina tra i vivi, Dean Winchester».
Dean Winchester fissò nuovamente lo sguardo in quello di John, freddo come il fondo di una bottiglia.
«Sei morto. Chi sei?»
«Non lo so», rispose. E non era mai stato più sicuro
di una frase che fosse uscita dalla quella sua bocca che da una
manciata di mesi aveva imparato a parlare.
Misero a letto Alice e portarono John in cucina.
Il ragazzo con i capelli lunghi –il signor Abelson l’aveva
chiamato Sam- lo osservava guardingo, un’espressione preoccupata
e quasi addolorata stampata sul viso.
Tirò fuori dalla tasca una fiaschetta metallica, di quelle che
di solito contengono il whisky e versò un liquido incolore sul
suo polso scoperto. Era gelido.
Il vecchio prese quella che sembrava a tutti gli effetti un flacone di
detersivo –sull’etichetta c’era scritto
“borace”- e lo versò sull’altra sua mano.
Per ultimo si avvicinò l’uomo che lo aveva aggredito.
Con un coltello in mano.
Agguantò il suo braccio destro e con la rapidità di un
macellaio tracciò un taglio da ci iniziò quasi
immediatamente a sgorgare sangue.
E che pochi secondi dopo si richiuse.
John scattò in piedi, rovesciando la sedia sul pavimento e
indietreggiando verso la porta con il braccio stretto al petto.
Dean si avvicinò a passi lunghi e decisi e lo prese per le
spalle. Si era aspettato una stretta violenta, ma il suo tocco era
gentile.
Disse: «Guardami.»
E la sua voce era bassa e calda, e come la risacca che solleva i
ciottoli sul fondo così la sua memoria era come un’onda
trascinata
dalla marea. Qualcosa si smosse, si svegliò, qualcosa che
riconobbe la voce sconosciuta e lo spinse a guardare quell’uomo
che ha invaso i suoi spazi con tanta irruenza.
Reclinò il capo su una spalla e lo fissò.
Sorrise.
«Ciao, Lentiggini.»
NdA:
Parto podalico trigemellare per 700 parole. GAH.
Non capite quanto io invidi chi riesce a pianificarsi cosa scrivere e quando scriverlo.
Colpa di tante cose: mia, che ho
l’elasticità mentale di un Dalek, di corsi di giornalismo
in Irlanda sfiancanti, dell’inizio dell’ultimo anno di
liceo, della fatale combinazione di angst televisivo in tutte le serie
che seguo, e della fase di transizione nella storia che non sapevo
assolutamente come impostare. Aiuto.
Ringrazio come al solito tutti
coloro che seguono/preferiscono/ricordano e soprattutto recensiscono,
visto che proprio la recensione di xxrosy92 è riuscita a
smuovermi e a farmi riprendere in mano questa creaturina. Grazie ancora.
Aspetto con ansia critiche, consigli e dritte!
Ah, il titolo viene dalla mia
amatissima Hey Jude, che non si sa come riesco a ficcare in ogni
capitolo. Nah, in realtà si sa.
Un bacio,
Lycoris.
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