SENZA SANGUE

di iusip
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Ultimo capitolo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Aveva appena dieci anni, ma già conosceva il significato della parola morte.

Morte, era quella contro cui doveva combattere ogni giorno.

Morte, era la punizione che doveva infliggere ai suoi nemici.

Morte, era ciò che lo circondava.

Gli avevano detto che l’Inferno è quel posto dove Dio manda i suoi soldati dopo che sono morti, ma lui, che affrontava vivo un Inferno al giorno, aveva capito subito che Dio non esisteva.

Alvaro, che voleva diventare un prete ma era stato costretto ad arruolarsi nell’esercito, lo ammoniva sempre, dicendogli che non doveva dire così, che Dio lo ascoltava sempre, che lui era ancora in tempo per andare in Paradiso, e che se continuava ad essere blasfemo ci sarebbe finito per davvero, all’Inferno.

Ma lui rispondeva sempre che niente sarebbe stato peggio di quella giungla disseminata di cadaveri e di brandelli di carne, e Alvaro taceva, e lui capiva di avere ragione.

La notte, mentre scivolava in un sonno irrequieto interrotto dai gemiti dei feriti e dal ronzio insistente delle zanzare, si chiedeva sempre il motivo di quella guerra.

Quando rischi la tua vita ogni giorno, vuoi almeno sapere per cosa stai combattendo, vuoi sapere se quel qualcosa giustifica in qualche modo gli schizzi di sangue che ti finiscono sulla faccia quando uccidi un uomo inginocchiato ai tuoi piedi, che piange e ti supplica di risparmiarlo, di farlo per sua moglie e per i suoi figli che lo aspettano da qualche parte, chissà dove.

Ma quando chiedeva ai grandi perché stessero combattendo, loro lo guardavano, con una saccenza che celava l’imbarazzo del non sapere, e gli rispondevano che non erano cose per lui, che doveva attenersi agli ordini senza fare troppe domande, che lui era solo un bambino e che certe cose non poteva ancora capirle.

Lo prendevano per stupido, senza sapere che lui stupido non era.

E soprattutto, lo prendevano per un semplice bambino, senza capire che lui non era un semplice bambino.

Se lo fosse stato, non avrebbe dovuto imbracciare un fucile più alto di lui e guardare la morte negli occhi ogni fottuto giorno della sua vita.

Se lo fosse stato, avrebbe avuto una mamma che lo avrebbe abbracciato, che gli avrebbe raccontato storie prima di andare a letto, che avrebbe sacrificato perfino la propria vita per lui, così come facevano le mamme del villaggio che loro cercavano di espugnare senza successo da qualche mese a quella parte.

Gli ripetevano che la guerra stava per finire, che il villaggio era ormai in mano loro, che rimanevano soltanto degli sparuti gruppi di guerriglieri che ancora lo difendevano e che andavano eliminati.

I suoi superiori lo incaricavano spesso di controllare il villaggio.

Nessuno avrebbe mai sospettato di un bambino, così poteva passeggiare indisturbato per le strade del villaggio, per scoprire dove si erano rifugiati i guerriglieri e per individuare le falle e i punti deboli del loro piccolo esercito di guerriglia.

Ed era in quelle occasioni che vedeva bambini come lui passeggiare mano nella mano con le loro mamme, baciarle e abbracciarle incuranti della guerra in corso, e con la sua innocenza di bambino intaccata ormai da troppi combattimenti, si chiedeva perché a lui non fosse stata concessa quella felicità che riusciva a percepire solo di riflesso.

Inizialmente, quelli dell’esercito, per fomentare la sua ira e spingerlo a uccidere senza pietà, gli avevano detto che erano stati i guerriglieri del villaggio a uccidere i suoi genitori e a privarlo dell’amore di una mamma.

Ma solo due mesi prima aveva scoperto la verità sulla morte dei suoi genitori.

Era una sera piovosa di una giornata particolarmente negativa per loro.

Durante uno scontro a fuoco con i guerriglieri del villaggio, almeno una decina dei loro uomini erano stati feriti in maniera grave.

Sei non erano sopravvissuti alla notte, e uno di questi era Alejandro, un ragazzo di 18 anni che lui considerava un fratello maggiore.

Lo aveva assistito per tutta la notte, ascoltando i suoi gemiti e i suoi deliri, cercando di nascondere le lacrime che gli rigavano il viso sporco, perché ai combattenti come lui non era lecito affezionarsi a nessuno e soprattutto non era lecito piangere.

Piangere era segno di debolezza, e chi è debole è destinato a soccombere.

Questo era quello che gli ripetevano ogni giorno da cinque anni.

Poco prima di esalare l’ultimo respiro, Alejandro gli aveva fatto cenno di avvicinarsi.

Aveva accostato l’orecchio alle sue labbra livide, cercando di contenere i brividi e di ignorare il tanfo di morte che aleggiava nella stanza.

Ed era stato allora che Alejandro gli aveva rivelato la verità.

I suoi genitori erano morti in un incidente aereo, di cui lui era l’unico sopravvissuto. I guerriglieri del villaggio non c’entravano niente.

L’aereo si era schiantato in quella giungla sperduta del Sud America, dove già era in corso la guerra civile tra l’esercito sudamericano e i ribelli del villaggio di Pueblo.

Il capo dell’esercito, Shin Kaibara, aveva setacciato l’aereo alla ricerca di armi o viveri, ma ci aveva trovato lui, un bambino di appena cinque anni.

Così aveva deciso di tenerlo con sé, di allevarlo come un soldato e di istruirlo all’arte di tutti i combattenti: quella della guerra e della morte.

A poco a poco si era affezionato a quegli uomini burberi e poco avvezzi all’amore, ed era arrivato alla conclusione che combattere dalla loro parte contro i ribelli del villaggio era una sorta di dovere per lui, un modo per ringraziare quegli uomini che lo avevano salvato dalla fame e dagli animali.

Le ultime parole che Alejandro gli aveva sussurrato prima di morire, però, avevano incrinato questa sua convinzione.

Quelle parole lo perseguitavano durante il giorno, mentre sentiva le urla di soldati agonizzanti, e durante la notte, quando, verso l’alba, si aggiornava la lista dei feriti ma soprattutto quella di coloro che non erano sopravvissuti alla notte.

E così soldati, che prima di tutto erano uomini, con i loro desideri, le loro paure nascoste, i loro amori, le loro aspirazioni, erano ridotti a nomi su un foglietto a quadretti, nomi scritti non con l’inchiostro nero della penna, ma con quello rosso del sangue versato.

Ryo, non ne vale la pena, credimi. Lascia stare, finchè sei in tempo. Quando avranno sterminato anche l’ultima donna e l’ultimo bambino di quel villaggio, non gli resterà altro da fare che guardarsi le mani insanguinate e chiedersi il perché. E non lo troveranno, ne sono sicuro. Vattene, Ryo. Vattene.

Poi, Alejandro aveva chiuso gli occhi, mentre un rivoletto di sangue colava dall’angolo della sua bocca screpolata, e non li aveva riaperti mai più.

Quella notte si era arrampicato sul ramo di un grosso albero e aveva pianto come un moccioso, vergognandosi della sua debolezza, perché i deboli, come gli diceva sempre suo padre Shin, erano destinati a soccombere.

E si era domandato il senso del discorso di Alejandro, si era chiesto fino a che punto le sue parole fossero dettate dalla consapevolezza di stare per morire e di non poter più realizzare le sue aspirazioni.

Il dubbio, strisciante come una serpe, si era diffuso lungo le sue vene di bambino cresciuto troppo in fretta, suscitandogli un senso di colpa che lo dilaniava.

Solo il giorno prima, Shin gli aveva detto che rimaneva un’ultima “missione” da compiere, prima che il villaggio fosse finalmente sottomesso.

E voleva che anche lui vi partecipasse.

Tu sei il migliore con il fucile, figlio mio. La tua mira è imbattibile e ci servirà tutta la tua abilità, per questa missione., gli aveva detto.

Era la prima volta che Shin lo portava con sé, in genere, il suo compito era soprattutto quello di sorvegliare il villaggio, di montare il turno di guardia di notte oppure di provvedere al cibo.

Gli era capitato di sparare poche volte, e quasi sempre per difesa personale.

Però aveva un’ottima mira, una dote naturale che Shin non aveva mancato di notare durante il duro periodo di allenamento a cui l’aveva sottoposto.





Adesso Ryo Saeba è steso su una branda consunta, e pensa che parteciperà alla missione con Shin.

Lo deve fare per suo padre, che ha fiducia in lui.

Ma è arrivato alla conclusione che Alejandro aveva ragione.

Così ha deciso anche che quella sarà l’ultima volta che partecipa ad una battaglia di qualsiasi genere.

Sa che suo padre la prenderà male e che sarà deluso, ma sente che quella non è la sua strada.

Forse potrà diventare qualcuno nella vita, realizzare non solo i suoi sogni, ma anche quelli di tutti coloro che sono morti prematuramente prima di lui.

Come Alejandro che voleva diventare un pilota di aerei, Rafael che voleva sposarsi con la sua Tita, Pedro che voleva aprire un ristorante messicano a New York e Josè che voleva comprare una casa a Malibù.

Lui può fare questo e molto, molto di più.

Stringe nel palmo il foglietto accartocciato su cui è scritto il nome dell’ultimo uomo che sarà costretto ad uccidere.

Chiede silenziosamente perdono ad un Dio a cui non crede.

Cerca di dormire, perché domani sarà una giornata dura per tutti.

Shin gli ha detto che quell’uomo è un osso duro.

Cullato dal cicaleccio dei grilli, scivola gradualmente in un sonno privo di sogni.

Le dita della sua mano si distendono.

Il foglietto stropicciato cade per terra, volteggiando brevemente.

Si posa sul pavimento freddo e sporco di terra.

Un solo nome vi è scritto, tracciato con lettere sottili e precise.

Shinichi Makimura.





Salve, spero che questa nuova ff vi piaccia! Sarà molto breve, al massimo altri 3-4 capitoli, e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, perchè se non vi piace la cancello e mi dedico alle altre ff che ho in sospeso. Vi ringrazio in anticipo e buona lettura.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Shinichi Makimura aveva paura.

La paura era un sentimento che conosceva poco, fin dal momento in cui era diventato un soldato e aveva giurato sulla tomba di sua moglie che avrebbe sacrificato la sua stessa vita, pur di vendicarsi di quei cani che l’avevano uccisa.

E la paura, in una perenne lotta per la sopravvivenza, era il peggiore nemico che un uomo potesse avere.

La paura ti porta a non ragionare, a commettere errori che possono esserti letali.

E lui era uno che non aveva più nulla da perdere, e quindi la morte, che tutti temono fin dalla nascita, non lo spaventava più di tanto.

Fino al momento in cui non aveva trovato quei due bambini, che erano diventati più importanti della sua stessa vita.

I loro genitori erano stati uccisi dagli stessi bastardi che avevano decapitato sua moglie, i soldati dell’esercito sudamericano, capitanati da Shin Kaibara.

Quando aveva visto quei due bambini, che scuotevano inutilmente i corpi privi di vita dei loro genitori, aveva fatto una cosa che non faceva da troppo tempo, ormai.

Aveva pianto.

Quanto può essere ingrata la vita con due anime innocenti?, si era chiesto.

Loro avevano pagato lo scotto di errori che non avevano commesso, erano stati coinvolti in un vortice di rabbia, sangue, dolore e disperazione da cui ogni bambino dovrebbe essere immune.

Lui e sua moglie avevano sempre desiderato figli, ma la sua adorata Amy non poteva averne.

Il medico diceva che era troppo delicata di costituzione, e se fosse rimasta incinta avrebbe firmato la sua condanna a morte, oltre che quella del bambino, ovviamente.

Cercavano entrambi di consolarsi a vicenda, dicendosi che in tempi di guerra, come quello che stavano vivendo, mettere al mondo un bambino sarebbe stato soltanto un atto di egoismo puro e semplice.

Ma quando la guerra fosse finita, gli ripeteva sempre Amy con un sorriso, avrebbero adottato un bambino e l’avrebbero cresciuto come se fosse stata lei stessa a partorirlo.

Ma sua moglie non era vissuta abbastanza per realizzare il suo bisogno di maternità, e quando aveva sentito il pianto soffocato del maggiore dei due bambini che aveva trovato per caso in una casa in periferia, gli era sembrato un segno inviatogli da sua moglie.

Una forza più forte del suo stesso raziocinio lo aveva spinto ad inginocchiarsi accanto ai due bambini e ad abbracciarli, mentre le sue stesse lacrime bagnavano la salopette della bambina.

Loro l’avevano guardato, stupiti, e non avrebbe mai dimenticato il momento in cui la bambina gli aveva accarezzato i capelli con la manina e gli aveva detto “Non piangere, signore.”

In quel momento, aveva deciso che quelli sarebbero diventati i suoi figli.

Li aveva chiamati come il padre e la madre di Amy, in un estremo omaggio all’unica donna che aveva mai amato.

Kaori e Hideyuki.

Li aveva portati a casa sua, dove ancora aleggiava nell’aria, o almeno così gli sembrava, il profumo di sua moglie.

Kaori aveva solo 5 anni, all’epoca, Hideyuki ne aveva 9.

Adesso erano passati 4 anni da quel giorno, e i suoi due bambini erano diventati la sua unica ragione di vita.

Shinichi Makimura aveva paura.

Ma non per sé, perché sapeva che prima o poi avrebbe dovuto pagare il conto per tutti gli errori che aveva fatto, e sapeva che l’avrebbe pagato con la sua stessa vita.

Aveva paura per Kaori e Hideyuki.

Il giorno prima, gli era giunta voce che Garcìa e Manuel erano stati uccisi in un’imboscata dell’esercito governativo.

Erano i suoi ultimi alleati, nella loro strenua resistenza contro quelli dell’esercito.

Adesso era rimasto l’unico a crederci ancora, l’unico che sarebbe stato disposto a difendere il villaggio a costo della sua vita.

Aveva parlato diverse volte, con Hideyuki e Kaori, della possibilità che fosse ucciso, e aveva spiegato loro le ragioni che lo spingevano a combattere.

Passava interi pomeriggi a sfogliare vecchi album di foto ingiallite, che ritraevano lui e Amy quando la guerra non aveva ancora distrutto la loro felicità.

Aveva parlato di lei ore e ore, aveva raccontato a quei due bambini aneddoti e storie del suo matrimonio con lei.

Hideyuki aveva capito subito cosa l’avesse spinto ad imbracciare un fucile e intraprendere un’impresa che sembrava persa fin dall’inizio.

Kaori, invece, rimaneva sempre in silenzio, quando lui parlava della necessità di continuare la guerriglia e della probabilità di morire in combattimento.

Solo una volta l’aveva sentita parlare, e quello che la bambina aveva detto lo aveva fatto sentire tremendamente a disagio.

Farti uccidere non riporterà Amy in vita. Servirà soltanto a renderci orfani per la seconda volta.

Poi la bambina era uscita in cortile a giocare con le galline, mentre lui era rimasto a fare i conti con le sue responsabilità nei confronti di quei bambini.

Aveva cercato sempre di non pensarci, e di non parlare delle strategie di guerra quando Kaori era nei paraggi.

Ma adesso era ricercato dall’esercito, e Kaori e Hideyuki rischiavano tanto quanto lui.

Però non sarebbe fuggito.

Avrebbe nascosto i bambini e avrebbe affrontato quei bastardi a testa alta.

E con un paio di armi in mano.

Corse a svegliarli, erano solo le 6 di mattina ma non c’era tempo da perdere.

Hideyuki fu il primo ad aprire gli occhi.

Gli bastarono solo due parole, per farsi comprendere da quello che, se ne rese conto solo allora, non era più un bambino.

“È ora.”

Dalle finestre parzialmente coperte da due tende color pastello, proveniva il suono ridondante delle campane.

Lui e suo figlio rimasero immobili nella penombra, mentre Kaori ancora dormiva e un sottile pulviscolo li circondava, a contare con il cuore in gola i rintocchi.

Quattro, significavano che la messa stava per cominciare.

Otto, che l’esercito aveva invaso il villaggio.

Uno…

“Hideyuki, ti ricordi quella volta che…

Due…

…quella volta che eravamo in riva al lago…

Tre…

…e Kaori voleva assolutamente prendere la bambolina che le era caduta nell’acqua…

Quattro…

…e tu l’hai scostata dicendo “Faccio io, mocciosetta, tu non sei capace…”

Cinque…

…e lei ti ha fatto la linguaccia, e quando ti sei sporto per afferrare la bambola ti ha spinto nell’acqua…

Sei…

…e poi avete riso insieme, tu tutto bagnato e lei radiosa sotto il sole di fine aprile…

Sette…

…ti ricordi quel giorno, come eravamo felici…”

Otto…

Si guardarono negli occhi, da uomo a uomo.

Hideyuki si chinò, mise un braccio sotto il letto e ne estrasse un fucile.

Poi scese al piano inferiore, mentre suo padre svegliava Kaori.

Shinichi le accarezzò i capelli dolcemente.

Era la sua principessa, le voleva tanto bene.

La bambina aprì gli occhi lentamente, rivolgendogli il primo, per quel giorno, dei suoi bellissimi sorrisi riservati solo a lui.

Il primo e forse anche l’ultimo, si ritrovò a pensare.

“Tesoro, adesso papà e Hideyuki dovranno fare qualcosa di molto brutto. Mi dispiace, tesoro, ma devo farlo. Devo, capisci?”

La sua voce era rotta dal pianto.

Kaori non capiva, ma annuì lo stesso.

Suo padre la abbracciò, la prese in braccio e la portò in cantina.

Spostò una pesante botte di vino, scoprendo così una botola nel duro pavimento di pietra.

La aprì, poi si inginocchiò davanti a lei e le disse di scendere la scaletta che portava nella stretta botola e di non uscirne per nessuna ragione al mondo.

Sarebbe venuto lui a riprenderla.

Lei lo fece, obbedendo in silenzio.

Scese le scale, poi suo padre le lanciò un asciugamano.

“Mettilo per terra e poi stenditi sopra, tesoro. Non preoccuparti, papà arriverà subito e ti tirerà fuori di qui, e poi prepareremo la torta di mele che ti piace tanto. Ok, tesoro?”

Adesso le lacrime rigavano il suo volto, e lui non se ne vergognò.

Kaori sistemò l’asciugamano sulla terra dura e secca, poi si stese, supina, con le gambe magre perfettamente allineate, il viso rivolto verso quello di suo padre.

Lo vide piangere, e capì cosa lui volesse sentirsi dire.

“Non preoccuparti, papà. Ti perdono.”

Shinichi Makimura cominciò a singhiozzare, poi chiuse la botola, mentre le lacrime gli impedivano di parlare.

Vide il volto di sua figlia assottigliarsi sempre di più, poi scomparire del tutto.

Rimise la botte al suo posto, poi salì al piano superiore, pregando che sua figlia lo avesse perdonato davvero.

Kaori rimase stesa nella botola, immobile, gli occhi spalancati nel buio, fissando la luce e la polvere che penetravano attraverso le fessure del pavimento.

Sentiva l’odore della terra, così forte che le sembrava di sentirne il sapore anche in bocca.

Improvvisamente il silenzio fu squarciato da urla e imprecazioni.

“Makimura…esci immediatamente con le mani in alto! Se ti arrenderai, potremmo anche decidere di risparmiarti!”

“Andatevene a fanculo, brutti bastardi!”

La voce di suo padre era carica di rabbia e di dolore.

Poi Kaori sentì delle raffiche di colpi, ma non riuscì a capire se provenissero dall’esterno oppure dall’interno della casa.

Chiuse gli occhi, cominciando a sussurrare le parole di una filastrocca che suo padre le cantava sempre prima di andare a dormire.

Duérmete, mi niña,

que se hace de noche,

y van los angelitos

a pasear en coche.


Un’altra raffica di colpi rispose alla prima.

Le urla e le imprecazioni si fecero sempre più forti.

Kaori si mise le mani sulle orecchie, rannicchiandosi sul fianco e avvicinando le ginocchia al petto, come faceva sempre appena prima di addormentarsi.

Avrebbe ripetuto la filastrocca ancora una volta, e poi finalmente suo padre sarebbe venuto a prenderla e avrebbero fatto insieme la torta di mele che le piaceva tanto.

Duérmete, mi niña,

que se hace de noche,

y van los angelitos

a pasear en coche.




Vi ringrazio per i commenti, e spero che questo capitolo vi faccia emozionare come mi sono emozionata io nello scriverlo. Un bacio, alla prossima.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


“Makimura! Vieni fuori con le mani in alto, ti ho detto! Altrimenti per te e per i tuoi bambini sarà la fine!”

“Vai a farti sfottere, Kaibara!”

Shinichi si asciugò le lacrime sulla manica della maglietta di cotone che indossava.

Adesso non era più il momento di piangere, era il momento di combattere, e di morire, se fosse stato necessario.

Lanciò un fucile a Hideyuki e gli ordinò di nascondersi nel fienile.

“Ma papà, io voglio combattere al tuo fianco. Non voglio nascondermi come un coniglio.”

Dall’esterno una raffica di colpi si abbatté contro la casa, mandando in frantumi una delle finestre.

“Vai, ti ho detto! Non accetto discussioni.”

Spronato dal tono perentorio e disperato della voce del padre, Hideyuki si diresse verso la porta posteriore, da cui si poteva accedere direttamente al fienile.

Si rintanò in un cantuccio, pensando a suo padre e a sua sorella, e cominciò a piangere.

Era contento di essere solo, almeno così nessuno avrebbe potuto prenderlo in giro per la sua debolezza.

Il padre gli aveva detto di aspettare che tutto fosse finito e, comunque fossero andate le cose, di uscire dal fienile solo quando i nemici se ne fossero andati.

Poi doveva correre a riprendere Kaori dalla botola nella cantina, e insieme dovevano fuggire dal quel villaggio maledetto.

“Ultimo avvertimento, Makimura. Esci, o saremo costretti a venire a prenderti. E per te sarà la fine.”

In risposta, Shinichi cominciò a sparare attraverso la finestra rotta, abbassandosi poi quando i nemici rispondevano al fuoco, per evitare di essere ferito o ucciso da uno dei proiettili vaganti.

Avrebbe difeso quella casa a costo della vita, quei porci non avrebbero mai profanato quel luogo in cui aveva vissuto felice con Amy, prima, e con i suoi bambini, poi.

Ricaricò rapidamente il fucile e, approfittando di un momento di distrazione tra i nemici, cominciò nuovamente a sparare.

Un uomo lanciò un grido di dolore imprecando, evidentemente era riuscito a ferirne uno.

Da quello che era riuscito a vedere, gli uomini erano in tre.

C’era Kaibara, il suo braccio destro Martinez e il bastardo che aveva decapitato sua moglie, un americano di nome Eddie Brown.

Per un attimo gli era sembrato di vedere un bambino di nemmeno 10 anni, ma evidentemente si era sbagliato.

Pensò a sua figlia, che in quel momento si trovava qualche metro sotto i suoi piedi.

Lei avrebbe meritato una vita migliore, un padre migliore…

Di nuovo quel senso di oppressione, che gli impediva quasi di respirare, che gli creava un nodo doloroso in gola.

Per un attimo dimenticò la sparatoria, dimenticò la vendetta, davanti ai suoi occhi aveva solo il viso di sua figlia che gli sorrideva e gli diceva “ti voglio bene, papà.”

Poi, però, un proiettile sibilò vicino al suo orecchio, e la cruda realtà gli ripiombò addosso con tutto il suo insopportabile peso.

Scaricò un’altra cartuccia contro il capo dell’esercito e i suoi leccapiedi, sempre attento a non esporsi abbastanza.

Quelli erano soldati, sapevano il fatto loro.

Ma anche lui era un soldato, ed era un soldato animato dalla vendetta.

Improvvisamente, sentì la fredda canna di un fucile premergli contro la nuca.

“Non muoverti, Makimura.”

Era la voce di un bambino.

Ruotò lentamente il busto, ritrovandosi a fissare gli occhi neri come la morte di un bambino di nemmeno 10 anni.

Il bambino che aveva avuto l’impressione di vedere poco prima.

Era stato davvero silenzioso, non si era minimamente accorto della sua presenza, se non quando gli aveva premuto il fucile contro il collo.

“Getta il fucile, o ti sparo.”

“Calma, ragazzo. Calma.”

Ryo Saeba caricò il fucile.

“Gettalo, ti ho detto.”

Cautamente, capendo che la sua vita era finita, Shinichi posò il fucile sul pavimento.

Il ragazzo lo allontanò con un calcio.

Fuori, gli uomini dell’esercito continuavano a sparare.

“L’ho preso, Shin”, gridò Ryo, per farsi sentire al di sopra del rumore assordante delle detonazioni.

Immediatamente Kaibara e i suoi uomini smisero di sparare, sfondarono la porta ed entrarono nella casa.

Quando vide Makumura inginocchiato per terra, con le mani incrociate dietro la nuca e il fucile di Ryo puntato in testa, Shin sorrise.

“Bravo, ragazzo. Sono orgoglioso di te, lo sapevo che eri il migliore.”

Si avvicinò al guerrigliero, sferrandogli un calcio in pieno viso.

“Ci hai fatto perdere molto tempo, lo sai, Makimura?”

Shinichi sollevò la testa.

Del sangue colava dal suo labbro che già cominciava a gonfiarsi.

Sorrise, e il suo volto si contrasse grottescamente.

“Non ho paura di te, Kaibara. Potrai uccidermi, ma non sottomettermi, ricordatelo.”

Questa volta il calcio di Shin lo colpì nello stomaco, facendogli sputare saliva rossa.

“Lasciate in pace mio padre, bastardi.”

Shinichi sollevò immediatamente la testa, per la prima volta davvero terrorizzato.

Suo figlio era sulla porta posteriore, stringendo spasmodicamente un fucile tra le mani.

“Hide…vattene via! Immediatamente!”

Hideyuki caricò il fucile, puntandolo verso Shin Kaibara.

Urlando, di rabbia, di dolore, di disperazione, Shinichi vide suo figlio morire.

Una raffica di colpi, sparati da Shin, sollevarono Hideyuki da terra e lo scaraventarono contro la porta.

Il corpo si accasciò lentamente, striando la porta di legno con il sangue, accartocciandosi come uno spaventapasseri bruciato.

“No! No! No!”

Shinichi cominciò a dimenarsi, animato da una forza sovrumana.

Si avventò contro Kaibara, gettandolo per terra ed estraendo un pugnale dallo stivale.

“Sei morto, Kaibara.”

Ryo sollevò il fucile.

Sapeva cosa doveva fare.

Prese la mira, mentre la sua mente continuava a mostrargli l’immagine di un bambino della sua età che si accasciava senza vita davanti agli occhi di suo padre.

“Questa è la guerra, figliolo”, gli aveva detto una volta suo padre.

La guerra non distingue tra uomini, donne, vecchi e bambini.

Tutti sono uguali, agli occhi della terribile Signora.

Era la prima volta che gli tremavano le mani mentre impugnava un’arma.

Chiuse gli occhi, ormai vedeva chiaramente la testa di Shinichi Makimura anche ad occhi chiusi.

“È l’ultima volta che lo faccio”, si disse.

L’ultima volta…

Caricò il fucile.

L’ultima volta…

Sparò.

Il corpo dell’uomo si contrasse involontariamente, mentre il suo cervello andava in frantumi.

Kaibara se lo scrollò di dosso, la sua uniforme era sporca del sangue dell’ultimo dei guerriglieri di Pueblo.

Tuttavia l’uomo aveva notato l’esitazione negli occhi di Ryo, e ne era preoccupato.

Cosa gli era successo?

Aveva sparato altre volte, e i suoi occhi e le sue mani erano sempre state ferme.

Forse era necessario che lui lo rassicurasse, che si complimentasse con lui.

Si avvicinò al bambino – all’uomo – e gli posò una mano sulla spalla.

“Sei davvero un ottimo combattente, Ryo. Adesso perlustra la casa da cima a fondo. Dovrebbe esserci una bambina, da qualche parte. Potremmo venderla a qualche mercante, che ne dici, figliolo?”

Il ragazzo non rispose, allontanandosi da quell’uomo, la cui presenza gli era diventata ormai insopportabile.

Controllò tutte le stanze del piano terra, poi scese nella cantina.

Alla fioca luce che proveniva da una finestrella impolverata, si rese subito contro che c’era qualcosa di strano, in quella stanza.

Il pavimento era ricoperto di polvere, ma accanto ad una botte di vino, vi era striscia pulita, come se la botte fosse stata spostata di recente.

Afferrò la pesante botte con entrambe le mani, trascinandola verso sinistra.

Come aveva pensato, vi era una botola nascosta.

Si inginocchiò sul pavimento, poi afferrò l’apertura della botola e la tirò verso di sé.

La botola si aprì, rivelandogli uno spazio angusto al di sotto del pavimento.

Odorava di terra, ma anche di qualcos’altro.

Una sorta di profumo.

Poi la vide.

Era sdraiata sulla schiena e lo fissava.

Indossava una salopette e una magliettina gialla, e le sue gambe magre erano perfettamente allineate, quasi con geometrico rigore.

Aveva corti capelli rossi, tanto che all’inizio l’aveva scambiata per un maschio.

Ma la cosa che più lo colpì furono i suoi occhi.

Erano enormi, quasi sproporzionati per un viso piccolo come il suo, di un castano limpido e con calde sfumature più scure.

Erano bellissimi.

Si fissarono per un lungo istante.

Lei non disse una parola.

Lui non disse una parola.

Si rialzò, spolverandosi i pantaloni militari troppo larghi per lui, poi abbassò nuovamente il coperchio della botola e rimise la botte di vino al suo posto.

Salì le scale e ritornò in cucina.

I corpi dell’uomo e del bambino erano ancora lì, immobili nella perpetua rigidità della morte.

“Allora, ragazzo? Trovato niente?”

Ryo scosse la testa.

“Evidentemente la figlia gli era d’intralcio nella sua inutile e ridicola battaglia e così l’ha mandata via. Bene, adesso possiamo andarcene.”

Abbandonarono la casa, senza parlare.

Solo l’americano rimase indietro.

Salirono sulla jeep, aspettando l’uomo, che dopo un attimo li raggiunse.

“Cosa stavi facendo?”, gli chiese Ryo.

L’uomo sghignazzò con la sua bocca oscena.

Gli mancavano due denti.

“Adesso vedrai, ragazzo. Sei pronto per i fuochi d’artificio?”

La casa di Makimura stava cominciando ad ardere lentamente.

“Perché l’hai fatto?”

“Che serva da monito per tutti coloro che hanno intenzione di ribellarsi a noi. Pueblo è nostro, ormai, e questo è ciò che succederà ai disobbedienti.”

Ryo osservò le fiamme lambire dolcemente la casa.

Una strana sensazione lo opprimeva.

Non parlò a nessuno di quello che aveva trovato nella botola, nemmeno a Shin.

Ma gli occhi di quella bambina senza nome e senza voce lo tormentarono per molti, molti anni.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


La donna camminava per strada, ondeggiando leggermente sugli alti tacchi dei suoi stivali neri.

Aveva piovuto da poco, così il suo viso era rivolto all’asfalto, nel tentativo di evitare le pozzanghere di acqua sporca che si erano formate nelle crepe del cemento.

La sua andatura era rilassata, calma, come quella di una persona che cammina per il semplice gusto di muovere le gambe, senza avere una meta precisa.

Parecchie teste maschili si voltarono nella sua direzione, mentre si faceva strada tra la folla del sabato sera nel centro di Shinjuku.

Il suo corpo sinuoso e quasi felino, fasciato in un tubino nero che le arrivava un palmo sopra il ginocchio, la rendeva sicuramente appetibile agli sguardi degli uomini.

Ma non si trattava solo di questo.

La donna emanava un fascino strano, magnetico, quasi gelido, che solo le persone carismatiche posseggono.

Camminava apparentemente senza meta, ma sempre evidentemente sicura di sé.

L’insegna luminosa di un night dall’altro lato della strada attrasse la sua attenzione.

Aspettò che il semaforo dei pedoni diventasse verde, poi si confuse nella fiumana di gente che attraversava la strada sulle strisce pedonali.

Raggiunse il night a larghe falcate, come se avesse improvvisamente fretta, come se si fosse ricordata in quel preciso istante di una faccenda molto importante che non poteva essere rinviata.

Entrò nel locale, e il proprietario, che stava guardando una partita di calcio, le indicò distrattamente le scale che l’avrebbero portata al piano inferiore, dal quale provenivano musica psichedelica, risate sconce e fischi volgari.

Lei disse “Grazie”, e l’uomo si girò a guardarla. Quando lo fece, spalancò grottescamente la bocca.

Cosa ci faceva una dea del genere il un locale come quello?

Forse era straniera, e aveva scambiato il night club per un innocente pub.

“Signorina, mi scusi se mi permetto…ma non credo che questo sia un locale adatto ad una donna come lei.”

Lei si voltò a guardarlo, un piede già sullo scalino, la mano appoggiata al corrimano in ferro.

Rimase un attimo immobile, torturandosi il labbro inferiore con i denti, in un gesto carico di indecisione che strideva con la sua apparente sicurezza.

Sorrise all’uomo, un sorriso enigmatico e quasi inquietante, poi gli voltò le spalle e discese rapidamente i dodici scalini – li aveva perfino contati, lo faceva sempre, quando era particolarmente nervosa.

L’ambiente che l’accolse era saturo di fumo e di un penetrante odore di alcool.

C’era un palcoscenico, di fronte a lei, dove un paio di ballerine seminude si dimenavano a ritmo di musica abbarbicate ad un palo.

Indossavano un succinto perizoma, da cui spuntavano alcune banconote, e i loro capelli avevano colori sgargianti – parrucche sintetiche, senza dubbio.

Sotto il palco c’erano tavolini circolari, attorno ai quali uomini per lo più ubriachi ridevano sguaiatamente e allungavano le mani nel tentativo pietoso di toccare le gambe delle ballerine.

Le luci erano soffuse, e proiettavano lingue di fuoco sulle pareti e sui volti della gente.

Lungo la parete di destra c’era un lungo bancone lucido, dietro il quale un barman e due cameriere vestite da conigliette servivano abbondanti bicchieri di superalcolici ai clienti seduti sugli alti sgabelli.

La donna osservò i bicchieri scivolare sulla superficie liscia del bancone, poi si diresse verso l’unico sgabello libero, sedendosi e accavallando le lunghe gambe.

L’uomo alla sua sinistra non si girò nemmeno a guardarla, troppo concentrato a godersi lo spettacolo di lap dance.

Ma doveva essersi accorto della sua presenza, perché disse:

“Ehi, amico, quel posto è occupato.”

La donna fece per alzarsi.

“Mi scusi, pensavo fosse libero.”

Ryo Saeba, sorpreso, si voltò verso la fonte di quella voce un po’ roca ma decisamente femminile.

Aveva appena intravisto il suo viso, perché lei gli dava le spalle, ma immediatamente seppe che stava per lasciarsi sfuggire la donna più bella che avesse mai incontrato.

Le afferrò il polso, mentre lei aveva già preso la sua borsetta e si era alzata, cercando di guadagnare l’uscita.

“Mi dispiace essere stato scortese, signorina. Resti pure, il mio amico si arrangerà.”

Si ripromise mentalmente di ringraziare Mick per la sua provvidenziale uscita di scena, che gli aveva permesso di incontrare questa dea che adesso lo fissava incerta.

Le lasciò il polso solo quando lei prese di nuovo posto accanto a lui.

Non poteva vederla bene in faccia, perché le luci erano soffuse, ma il suo occhio da predatore l’aveva immediatamente valutata 100 punti pieni.

Il vestito lasciava intravedere l’attaccatura del suo seno, in un gioco vedo-non vedo che era per lui più eccitante di un topless.

Le sua braccia erano sottili, il suo polso, ornato da un semplice braccialetto di caucciù che stonava con la sofisticata eleganza della donna, era minuto.

Le gambe, che adesso lei teneva accavallate, erano coperte leggermente da un paio di calze velate.

I capelli ramati le arrivavano alle spalle, e sembravano talmente morbidi che ebbe la tentazione di allungare una mano e toccarli.

Avrebbe voluto che l’illuminazione fosse migliore, per poterla guardare negli occhi.

Ma si accontentò di osservare il suo profilo delicato e regolare.

La donna sembrò non accorgersi dell’esame dettagliato dell’uomo.

“Vuole qualcosa da bere?”

Lei si riscosse, voltandosi verso di lui e sorridendogli.

“Un Martini, grazie.”

“Ehi, Fred, un Martini per la signorina.”

“La ringrazio.”

“Dammi del tu, altrimenti mi fai sentire vecchio. Mi chiamo Ryo.”

Di nuovo, quel sorriso appena accennato.

“Ok…allora grazie, Ryo.”

L’uomo la osservò stringere le sue dita longilinee attorno al vetro, poi portare il bicchiere alle labbra e bere un sorso di liquore, gettando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.

La visione lo lasciò senza fiato, ed ebbe come l’impressione di averla già vista.

Ma era impossibile, non si sarebbe mai potuto dimenticare una bellezza del genere.

“E tu, donna misteriosa, ce l’hai un nome?”

Lei bevve un altro sorso, poggiò il bicchiere sul bancone e lo fissò, il volto nascosto in un cono d’ombra.

Dannazione, imprecò Ryo mentalmente, se solo potessi guardarla negli occhi…

“Mi chiamo Nina.”

“Non sei di qui, vero? Non ti ho mai vista nei paraggi…d’altronde un volto come il tuo sarebbe impossibile da dimenticare”, disse Ryo, galante, anche se l’unica cosa di lei che non riusciva a vedere era proprio il viso. Ma con un corpo del genere…tutto il resto passava in secondo piano.

Lei sembrò leggergli nel pensiero, perché gli sorrise ironicamente.

“E a te interessa solo il mio viso, vero?”

Ryo sembrò spiazzato dalla provocazione, diretta e concisa.

Di nuovo, quella sensazione di conoscerla, o meglio, che fosse lei a conoscerlo…

“Tu sei Ryo Saeba, meglio conosciuto come lo Stallone di Shinjuku, vero?”

L’uomo gonfiò il petto, orgoglioso.

“Vedo che la mia fama mi precede, e che sono conosciuto in tutto il Giappone. Ma tornando a te, cosa ti porta a Shinjuku, Nina?”

Lei lo fissò negli occhi, e anche se non poteva vederli Ryo se li sentiva addosso, profondi e perforanti.

La donna rispose alla sua domanda con un’altra domanda, ma quello che lei disse dopo fece dimenticare a Ryo tutto il resto.

“Posso chiederti una cosa che ti sembrerà un po’ strana?”

“Tutto quello che vuoi, donna misteriosa.”

“Vorresti fare l’amore con me?”

Lui non disse niente, non diede nemmeno segno di averla sentita.

Lei pensò che forse aveva solo immaginato di dire quelle parole, senza essere poi riuscita realmente a formulare la domanda. Così la ripetè, piano.

“Vorresti fare l’amore con me?”

Ryo si voltò a guardarla, questa volta sorridendo apertamente. Quello era decisamente il suo giorno fortunato.

Pagò per quello che aveva bevuto, lasciando i soldi sul bancone.

“Fred…dì a Mick di tornare a casa senza di me.”

Il ragazzo dall’altro lato del bancone afferrò i soldi, poi ammiccò in direzione di Ryo.

“Sarà fatto, amico.”

La donna si alzò, rovistò nella borsetta e ne estrasse un paio di occhiali da sole dalle lenti scure.

Li indossò, e a Ryo la cosa sembrò bizzarra, ma si disse che forse lei aveva un amante, o un marito, e non voleva farsi riconoscere.

Era assurdo, e lui lo sapeva benissimo, ma le stranezze di quella donna adesso non gli importavano.

Voleva solo portarla a casa sua – un motel sarebbe stato troppo squallido per una donna del suo calibro – e dimostrarle che la sua fama di grande amatore non era assolutamente immeritata.

Risalirono le scale lentamente, e lui le prese la mano. Lei non ritrasse la sua.

Il proprietario del locale, al piano superiore, stava sbraitando contro un giocatore che si era lasciato sfuggire un’occasione d’oro per segnare, e non si accorse nemmeno di loro.

Uscirono, nella fredda aria notturna, sempre tenendosi per mano- due estranei, ma mano nella mano.

Ryo lasciò scivolare il suo sguardo su di lei, e un’eccitazione strana si impadronì di lui.

Non si trattava della normale esaltazione all’idea di una nottata di puro sesso.

Era diverso, questa volta.

Era la stessa eccitazione che gli scorreva nelle vene prima di una battaglia.

Una miscela esplosiva di adrenalina, energia, ebbrezza, e un pizzico di paura.

Paura? Quello era semplicemente assurdo.

Non stava andando a combattere, anzi.

Rafforzò la stretta sulla mano di Nina, tranquillizzandosi.

Era solo una donna, dopotutto.

Solo una donna.



PS: Dedico questo capitolo a Roby. Un piccolo omaggio, per la tua grande gentilezza. Spero ti piaccia!! Baci

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Capitolo 5
*** Ultimo capitolo ***


La palazzina di mattoni rossi era soltanto un’ombra confusa stagliata contro il manto scuro del cielo di notte.

Ryo si fermò davanti alla porta di casa sua, una mano che stringeva possessivamente quella della donna, l’altra che frugava senza fretta nella tasca destra dei suoi pantaloni, alla ricerca delle chiavi.

La situazione gli sembrava così strana, quasi irreale.

Non era la prima volta che portava una donna a casa sua, ma adesso avvertiva una sensazione insolita, che segretamente lo turbava, come se qualcosa di ineluttabile stesse per accadere, come se il suo destino stesse per compiersi.

Guardò di sottecchi la donna al suo fianco, che era rimasta silenziosa da quando avevano lasciato il locale.

Lei si stava mangiucchiando le unghie della mano libera, in un gesto nervoso e vagamente infantile. Il suo cuore si strinse in un’ondata di inaspettata tenerezza, che lo lasciò disorientato e senza fiato.

Cosa diavolo gli stava succedendo? Si stava comportando come un ragazzino al suo primo appuntamento.

Finalmente trovò il portachiavi, infilò la chiave nella toppa e con uno scatto metallico aprì la porta blindata, trascinando la ragazza all’interno.

Per un attimo la debole luce dei lampioni proveniente dalla strada illuminò l’uscio, proiettando le loro ombre deformate sul pavimento del soggiorno.

Quando Ryo si chiuse la porta alle spalle, la stanza sprofondò nelle tenebre.

L’uomo si mosse sicuro all’interno della piccola stanza, quasi potesse vederla chiaramente anche al buio, conducendo la donna su per le scale.

La sua camera da letto era la prima porta sulla sinistra, e ad ogni passo che faceva in quella direzione, Ryo rafforzava la stretta sulla mano piccola della donna.

Si accorse con stupore di avere i palmi delle mani umidi, e si chiese imbarazzato se lei lo avesse notato.

Ma la donna si guardava attorno, il suo sguardo nascosto dietro le lenti scure degli occhiali scivolava lento sull’armadio, sul comodino, fino a posarsi sul letto matrimoniale che campeggiava al centro della stanza.

Ryo le chiese “Hai paura?”, e la voce gli uscì strozzata dalla gola, e si vergognò perché per qualche assurda e oscura ragione era lui ad essere spaventato.

La donna disse “No”, poi si allontanò da lui, mettendosi di fronte alla finestra, dandogli le spalle.

Gettò la borsetta sul letto e lentamente si sfilò il tubino nero, lasciandolo cadere ai suoi piedi.

Quando si voltò indossava solo la biancheria intima e gli occhiali da sole, e Ryo deglutì, piano.

Lei scavalcò agilmente il vestito, avvicinandosi a lui, a lui che la guardava soltanto, incapace di muoversi – e i tacchi facevano quel rumore, tac tac tac, così curiosamente sincronizzato con il battito accelerato del suo cuore.

Si fermò ad un passo da lui, così vicina che Ryo poteva sentire il suo respiro lento e regolare.

Lui annullò la distanza che li separava, le prese il viso tra le mani e la baciò.

Le sue labbra erano dischiuse, e morbide, proprio come si era aspettato. Ma c’era qualcosa di strano, come una nota stonata che disturbasse l’armonia di quel bacio altrimenti perfetto.

Si staccò da lei, confuso, guardandola, e gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che gli occhi della donna erano ancora celati dagli occhiali da sole.

Li afferrò e glieli tolse delicatamente, aspettandosi quasi che lei si opponesse. Ma la donna rimase immobile, con il viso basso, così Ryo poggiò gli occhiali sul comodino e la trascinò sul letto.

Si stese sul materasso accanto a lei, puntellandosi su un gomito per poterla osservare, ma la donna ancora non lo guardava.

La pallida luce della luna, proveniente dalla finestra, gettava un’ombra perlacea sui loro corpi immobili.

Ryo le prese il volto tra le mani, inclinandolo di lato, esponendo il suo viso a quel delicato chiarore.

E allora lei finalmente lo guardò, e i loro sguardi si incontrarono, e improvvisamente il mondo scomparve e gli sembrò di essere tornato indietro di dieci anni, quando era rimasto inerme a fissare gli occhi grandi – troppo grandi per un viso così piccolo – di una bambina distesa in una botola, con la schiena premuta contro il duro e freddo pavimento di terra, una bambina che indossava una salopette e una magliettina giallo canarino.

E capì chi fosse la misteriosa donna seminuda che teneva tra le braccia, e capì cosa sarebbe successo quella notte.

In fondo l’aveva sempre saputo, dal momento stesso in cui lei si era seduta allo sgabello accanto al suo in quel night club.

Aveva semplicemente deciso di non vedere, di illudersi che il passato non l’avrebbe mai raggiunto, un passato che non era sepolto e che mai lo sarebbe stato.

Chiuse gli occhi, stupendosi di quanto si sentisse sorprendentemente tranquillo.

Un’esistenza intera – tutta la sua vita – scandita dalla lotta per la sopravvivenza, tesa a sgusciare dalla presa della Morte, più per istinto di perpetuazione della razza che per reale attaccamento alla vita.

E adesso la morte era vicina, così vicina, e lui non si sentiva assolutamente turbato.

Anzi, le si gettava tra le braccia, proprio come si era gettato tra le braccia di quella donna misteriosa che adesso lo fissava e doveva aver capito dalla sua espressione di consapevolezza che lui aveva compreso ogni cosa.

Gli occhiali da sole, l’audace e inaspettato invito, la borsetta che giaceva sul letto accanto al fianco della donna, a portata di mano - ora tutto acquistava un significato ben preciso; quei dettagli, all’apparenza insignificanti, erano tasselli di un puzzle di cui solo adesso intuiva il disegno.

Sempre ad occhi chiusi, si lasciò cadere supino sul letto, e visto che la donna non parlava, lo fece lui.

“Tu, donna misteriosa, sei la figlia minore di Shinichi Makimura”, disse, stupidamente.

Il silenzio si protrasse per alcuni minuti, tanto che Ryo aprì gli occhi per verificare che lei fosse ancora lì, e che quello non fosse solo uno scherzo giocatogli dalla mente magari obnubilata dall’alcool.

Ma lei era lì, eterea e tangibile insieme, allo stesso tempo nube perlacea e corposo chiaroscuro.

E lo stava guardando con degli occhi che gli parvero, per un folle momento, carichi di dolcezza.

Kaori non disse nulla. Attese. Allora Ryo continuò.

“Dieci anni fa hai visto tre uomini uccidere a sangue freddo tuo padre e tuo fratello. Io sono l’unico sopravvissuto.”

La donna continuò a rimanere in silenzio, fissandolo con quegli occhi brillanti e ferini.

“Mi hai cercato per tutto questo tempo, studiando le mie abitudini. Sapevi che non avrei mai rifiutato l’invito di una donna bella come te.”

Parlava tranquillo, come se stesse raccontando un sogno che aveva fatto la notte precedente, non era nervoso.

“Adesso mi hai trovato”, concluse, sempre con quella attonita tranquillità che ancora lo stupiva. Vide la donna rabbrividire.

Era ancora seminuda, e la stanza era gelida, ma qualcosa nel modo in cui lei strinse gli occhi gli fece capire che non era il freddo, a farla tremare.

Ma lo stesso si alzò e frugò nell’armadio alla ricerca di una coperta, che le sistemò sulle spalle nude e pallide.

Lei sembrò sconcertata da quel gesto, ma mai quanto lo era lui stesso.

Sapeva che quella donna era venuta lì per ucciderlo, sapeva che nascondeva una pistola nella sua borsetta, sapeva che l’alba del giorno seguente avrebbe illuminato il suo corpo gelato ed esangue, abbandonato sul copriletto, le membra scomposte come quelle di un inutile fantoccio.

E sapeva anche di essere fisicamente più forte della donna, e che sarebbe bastato un semplice gesto per fermarla, un semplice gesto che gli avrebbe salvato la vita.

Ma lui sentiva di meritare quella punizione, per tutto il male che aveva inflitto in passato a persone infinitamente più innocenti di lui.

E aveva come l’impressione che lei avesse capito che questa volta non si sarebbe sottratto alla morte, che anzi le avrebbe spalancato le braccia senza pensarci due volte.

Un nemico, una malattia, la vecchiaia, la sua stessa stupidità – sarebbe morto, prima o poi, per una di queste ragioni, e allora perché togliere a quella giovane donna l’unica cosa che le fosse rimasta, la vendetta?

Si sedette sul letto accanto a lei, sorridendole come per incoraggiarla, ansioso di farle comprendere che tutto sarebbe andato bene.

Lei si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi cominciò inaspettatamente a parlare.

“Quando ero bambina, il mio nome era Kaori. Ma da allora nessuno mi chiama più con quel nome. Da quel giorno Kaori non esiste più, è solo un cadavere carbonizzato in una fattoria ormai inesistente. Adesso mi chiamano Maria, o Viola, o Nina, ed ho tanti nomi diversi, e in fondo non sono nessuno.”

“Dopo quel giorno ricordo un orfanotrofio, all’inizio, dove tutti si preoccupavano molto per me. Dicevano che fossi stata miracolata da Dio, mi chiamavano “la sopravvissuta”. Io ascoltavo e non capivo, e per anni non ho ricordato niente di quello che era successo prima dell’orfanotrofio. È come se fossi venuta al mondo direttamente in quel luogo, e nulla esistesse al di fuori di quelle quattro mura. Mi dissero che mio padre e mio fratello erano stati uccisi dall’esercito, ma per me erano parole insensate, perché nessun padre e nessun fratello erano presenti nei miei ricordi. Inizialmente le infermiere pensavano che semplicemente non volessi parlare di quello che mi era successo quella mattina, e non insistevano, persuase che ricordare quei momenti avrebbe significato per me riviverli una seconda volta. Fu soltanto dopo cinque anni che si resero conto che avevo subito un’amnesia.”

“Avevo dieci anni, e finalmente mi ero decisa a chiedere chi fossero quell’Hideyuki e quello Shinichi di cui tutti mi parlavano. Ricordo il viso sconvolto dell’infermiera, la sua improvvisa comprensione. Nel tentativo di restituirmi la memoria mi portarono a Pueblo, davanti a quella che per cinque anni era stata la mia casa e che adesso era meno di un cumulo di macerie. Mi raccontarono dell’agguato alla fattoria, di quei tre soldati dell’esercito federale che avevano ucciso a sangue freddo mio padre e mio fratello, e poi avevano appiccato il fuoco alla casa. Dissero che un contadino aveva sentito le mie urla, e si era gettato tra le fiamme. Mi aveva trovata in una botola, ancora distesa sul pavimento di terra. Quell’uomo mi ha salvato la vita, ma non sono nemmeno riuscita a ringraziarlo. Mi ha portata all’orfanotrofio del paese più vicino, affidandomi alle cure delle infermiere e delle suore. Ma il suo corpo era ricoperto di vesciche e scottature, ed è morto dopo due ore.”

La donna fece una pausa. Ryo pensò che era strano il modo in cui lei stava raccontando la sua vita. Il suo tono era pacato, misurato, quasi freddo ed indifferente. Sembrava che stesse parlando di un’altra persona. Aprì la bocca per dirle questi pensieri, ma poi si ricordò che quello era lo stesso tono che lui stesso usava le rare volte in cui aveva parlato a qualcuno del suo passato, così la richiuse e stette zitto.

“Quando rividi quella terra bruciata, quelle pietre accatastate senza ordine e annerite dal fumo, ricordai ogni cosa. Mio padre e mio fratello, le gite al fiume, le torte di mele. E con i ricordi felici tornarono anche quelli dolorosi, e io mi costrinsi a ricordarli dal primo all’ultimo momento, senza mai chiudere gli occhi, guardavo il nulla dove un tempo avevo vissuto felice e rivivevo ogni secondo di quel giorno che distrusse per sempre ogni felicità possibile.”

“L’infermiera mi chiese se avessi ricordato qualche cosa, ma io dissi di no. Quella stessa notte fuggii dall’orfanotrofio, quelle immagini ben impresse nella mente, e la vendetta bruciante nel cuore.”

Ryo pensò a Kaibara. Quel giorno, dopo l’agguato alla fattoria dei Makimura, era fuggito dall’accampamento nella giungla e non aveva mai più rivisto quello che per anni aveva considerato un padre. Ma Ryo sapeva che era stato Shin, il primo a pagare per aver osato destare la ferocia dei bambini. Era morto una fredda sera di ottobre, apparentemente avvelenato, ma qualcuno mormorava che una ragazza bellissima dai capelli rossi fosse stata la sua ultima compagnia. La Polizia non l’aveva mai trovata, qualcuno disse che si chiamava Viola e che era arrivata in città da pochi giorni, ma sembrava che si fosse dileguata nel nulla.

Kaori sembrò seguire il corso dei suoi pensieri, perché riprese a parlare.

“Shin Kaibara fu il primo. Era in Corea per affari, quando lo uccisi. Stava smerciando una partita di una droga sintetizzata da lui stesso, la Polvere degli Angeli. Non è stato facile restare da sola con lui, era sempre circondato da guardie del corpo armate fino ai denti. Mi sono finta una viziata ragazzina desiderosa di provare uno sballo nuovo, ma non ha funzionato come avrei voluto, perché gli scimmioni erano sempre nei paraggi. Ma Kaibara era un uomo volubile ed estremamente narciso: mi è bastato sussurrargli due paroline all’orecchio e ha subito allontanato le guardie del corpo. Mi ha portata in un albergo promettendomi il Paradiso, e io l’ho spedito dritto dritto all’Inferno. Quando scoprirono il corpo, il giorno dopo, avevo già lasciato il Paese.”

Ancora una volta si sorprese della freddezza con cui lei parlava. D’altronde, aveva soltanto fatto un dono all’umanità, uccidendo quel bastardo di Kaibara.

“Quanti anni avevi?”

“Sedici. Avevo vissuto gli ultimi sei anni pianificando la morte di un uomo.”

Adesso, si rese conto Ryo, i suoi occhi erano lucidi e la sua voce tremava leggermente, come se all’improvviso la vita fosse tornata ad animare quel guscio altrimenti vuoto. Ma fu soltanto un attimo, perché quando lei parlò di nuovo, non c’era traccia di debolezza nella sua voce.

“Poi toccò a William Spencer. Si faceva chiamare l’Americano, e ci misi due anni per mettermi sulle sue tracce. Un contadino di Pueblo mi aveva detto che era stato lui ad appiccare il fuoco alla casa, nonostante mio padre e mio fratello fossero già morti. Gli sparai alle spalle, perché è così che meritava di morire un vigliacco come lui.”

Ryo ricordava di aver sentito che il cadavere dell’Americano era stato ritrovato con un proiettile nella schiena, a faccia in giù nel letame. E allora aveva capito tutto, aveva collegato la morte di Shin a quella di Spencer e aveva capito che il prossimo sarebbe stato lui. Sentì il bisogno di dirle ciò che stava pensando.

“Dopo la morte dell’Americano, ho cominciato ad aspettarti. Sapevo che nulla avrebbe potuto fermarti e che saresti arrivata anche da me, prima o poi. Ma sapevo anche che non mi avresti mai sparato alle spalle, e che non avresti mai assoldato qualcuno per uccidermi. Saresti venuta tu, mi avresti guardato negli occhi come quel giorno di dieci anni fa e mi avresti parlato come stai facendo adesso.”

E poi mi avresti ucciso, pensò, ma non lo disse. Tutto quello che doveva esser detto era ormai stato detto, adesso rimaneva soltanto il silenzio, l’attimo infinitesimale che precede la fine e l’inizio di ogni cosa.

“L’avevi mai conosciuto, mio padre? Sapevi chi era, perché stavate per ucciderlo?”

Adesso la voce di lei era acuta ed incrinata, e Ryo ne fu quasi sollevato, quel gelido controllo di prima gli faceva paura. Ma non sapeva cosa dire, così disse semplicemente la verità.

“No. Ma quella era la guerra.”

Ricordava quel bigliettino, il nome scritto sopra, “Shinichi Makimura” diceva il bigliettino, e lui non si era mai chiesto chi fosse, pensava soltanto che quello sarebbe stato l’ultimo uomo che avrebbe ucciso, e poi la guerra, almeno per lui, sarebbe finita. Che stupido, si disse, la guerra non finisce mai, soltanto adesso, un attimo prima di morire, posso dire che la guerra sia davvero finita.

“Mio padre era un uomo splendido. Cosa vuol dire, che quella era la guerra?”

“Bisognava fare quello che ci veniva ordinato.”

“Anche uccidere dei bambini?”

“Tu non capisci.”

“Allora spiegamelo.”

“Lasciami in pace. Fai quello che devi fare, ma lasciami in pace.”

“Spiegami le vostre ragioni.”

“Lasciami in pace, ti prego.”

“Spiegami quale ragione ti ha portato ad uccidere un uomo che nemmeno conoscevi. E un bambino che aveva la tua stessa età.”

Ryo non rispose. Stranito, si portò una mano alla guancia, avvertendo una sensazione di fastidioso umidore. E infatti le dita erano umide, quando le ritrasse, umide di quelle che sembravano – si rese conto agghiacciato – lacrime.

Rimase a fissarsi le dita per svariati secondi. Aveva sempre pensato al pianto come a qualcosa di stupidamente patetico e fondamentalmente inutile, acqua e sale, muco, grottesche smorfie del viso.

Non ricordava di aver mai pianto, per questo la semplicità disarmante con cui quella lacrima era scivolata fino al suo mento lo aveva colto di sorpresa.

Guardò la donna di sottecchi, adesso imbarazzato, chiedendosi se lei si fosse accorta di qualcosa e gli occhi di Kaori resero immediatamente palese quello Ryo che aveva temuto.

“Che importa in fondo, tanto tra qualche istante morirò e questa lacrima non significherà più nulla.”

Ma adesso bruciava, come se una scia infuocata avesse solcato la sua guancia, perché si rese conto che non aveva pianto solo con gli occhi ma anche con l’anima, quel luogo oscuro che pensava di non aver mai posseduto, o quanto meno di non possedere più.

Si impose di smetterla di pensare, e di dare così tanta importanza ad un fenomeno fisiologico come quello del frignare.

Kaori si schiarì la voce.

“Posso chiederti un’ultima cosa?”, gli disse.

E così la fine è vicina, pensò Ryo. Non gli era sfuggito quell’aggettivo, lei non aveva detto “una cosa”, aveva detto “un’ultima cosa”.

“Certo.”

“Quel giorno mio padre mi aveva nascosta in una botola in cantina. Tu hai aperto la botola, io mi sono girata e per un attimo ci siamo guardati. Ti ricordi?”

Ryo la guardò negli occhi, di nuovo, attentamente, e allora finalmente gli parve di ritrovare nella bellezza stanca della donna che aveva di fronte, l’innocenza e le perfezione di quella bambina che lo fissava da un buco nel pavimento.

Le disse che si ricordava tutto, e che non aveva fatto altro, in tutti quegli anni, che aspettarla e ricordare ogni cosa.

Poi tacque, aspettando che lei si decidesse a fare quello per cui era venuta.




Kaori fissò l’uomo che aveva di fronte.

Lo aveva cercato invano per quasi sei anni, mentre la sua vita si logorava in quella ricerca snervante, e i giorni i mesi e gli anni le scivolavano tra le dita nell’attesa.

Adesso lui sedeva sul suo letto, sconfitto, inerme. Sapeva che non si sarebbe opposto, l’aveva capito nel momento stesso in cui si erano guardati negli occhi, appena qualche minuto prima.

Cercò a tentoni la borsetta, senza smettere di guardarlo. Lui aveva la testa bassa, in un atteggiamento che era di penitenza e di sconfitta insieme.

Il metallo tra le dita, freddo, pesante. Pesante quanto la responsabilità di porre fine ad una vita umana.

Era stato così facile per gli altri due, dopo aver premuto il grilletto era andata via senza nemmeno voltarsi.

Li aveva guardati negli occhi, prima di ucciderli, e nei non aveva scorto nessuna traccia di comprensione, o di consapevolezza, o di pentimento.

Ma quella lacrima. E quegli occhi vuoti, così simili ai suoi. E quelle parole – “ non ho fatto altro, in tutti questi anni, che aspettarti e ricordare ogni cosa.”

Lui era riuscito a destabilizzarla.

Incertezza: la mano le tremava, mentre toglieva la sicura alla Beretta.

Stanchezza: aveva vissuto per quello, per la vendetta, ma adesso si sentiva solo stremata, come se il suo corpo avesse trattenuto troppa rabbia, troppo a lungo, e poi la rabbia l’avesse abbandonata di colpo, lasciandola solo come istupidita e intimamente spossata.

Tra qualche secondo avrebbe ucciso quell’uomo non per sete di vendetta, si rese conto con sgomento – ma solo per routine, per un distorto senso del dovere.

Ma lei non doveva uccidere nessuno, perché nessuno le aveva imposto di farsi giustizia da sola. Non suo padre, non suo fratello.

La gabbia mentale – la vendetta – in cui aveva vissuto per tutti quegli anni, se l’era creata da sola.

E vi era rimasta imprigionata, avviluppata dalle spirali dell’odio, assorbita soltanto da quell’ira ormai vuota, tanto che aveva quasi dimenticato i volti di suo fratello e di suo padre, scordando quello che di buono lui le aveva insegnato.

“Lui non avrebbe voluto che io facessi questo”, pensò. “Mio padre non avrebbe voluto che io facessi questo.”

Continuò a pensare quella frase, come una nenia silenziosa, gli occhi sbarrati, spalancati nel buio, la mano che impugnava la pistola ancora sollevata a mezz’aria, contro il torace dell’uomo.

E poi, tutto esplose nella sua testa, e le sbarre della gabbia mentale si infransero. Si sentì libera – non doveva fare niente, il suo destino non era già scritto, l’odio non era più il suo ossigeno.

Non poteva cambiare il passato, ma adesso niente le avrebbe impedito di sperare nel futuro.

Kaori era felice, di una felicità semplice e commossa che non provava più da tanto, troppo tempo.

Sbirciò nuovamente in direzione di Ryo, ma adesso lo vedeva come un uomo, e non più come l’ultimo uomo.

E se avesse ricominciato proprio da lì, da quel viso di bambino proteso verso il suo?

E se avessero ricominciato entrambi da lì, da dove tutto era finito?

Sentiva, curiosamente, che quell’uomo sarebbe stato importante per lei – l’aveva percepito inconsciamente già quel giorno lontano di dieci anni prima.

Le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio, imparare a comprendere i suoi sguardi e i suoi silenzi.

Si rese conto di avere ancora la pistola puntata contro di lui, così si affrettò ad abbassare la mano, rimise la sicura e poggiò l’arma sul pavimento.

Ryo doveva essersi accorto di qualcosa, perché sollevò la testa e la guardò, rivolgendole con gli occhi una muta domanda.

Ma adesso non aveva voglia di parlare. Per quello, ci sarebbe stato tutto il tempo di questo mondo.

Si avvicinò a lui, lentamente. L’uomo la guardò sconcertato, ma non si mosse e non fece commenti, e Kaori gliene fu intimamente grata.

Si mise sul fianco, poi tirò su le ginocchia verso il petto in posizione fetale, le gambe perfettamente allineate – con rigore geometrico, aveva pensato Ryo allora, ed era la stessa cosa che pensò adesso.

L’uomo sorrise leggermente, forse intuendo i pensieri di Kaori, forse per il semplice gusto di sorridere.

La donna appoggiò la fronte contro la spalla di Ryo, rannicchiandosi nella coperta che lui le aveva dato.

Poi chiuse gli occhi e si addormentò.






Non c’è differenza: odio e amore sono le due facce della stessa medaglia.

Così come vendetta e perdono.

Cos’è in fondo il perdono, se non la più sottile forma di vendetta?

Il perdono è una vendetta appagante, paziente, e crudelmente dolce.

Ma senza sangue.


FINE

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