Silence.

di selenasbff
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro. ***
Capitolo 2: *** un nuovo odioso giorno. ***
Capitolo 3: *** il portachiavi. ***
Capitolo 4: *** his eyes. ***
Capitolo 5: *** his hand fits in mine. ***



Capitolo 1
*** intro. ***


Non mi hanno mai considerato.
Non mi hanno mai sorriso, mai amato.
Non sanno dove vivo, con chi vivo e come vivo.
Non sanno il mio nome, ma usano uno stupido nomignolo.
Non sanno quanto piango.
Quanto soffro. Quanto il mio mondo faccia schifo.
Non ho una villa come la loro.
Non ho mille computer e cellulari superelettronici.
Non ho vestiti costosissimi. Ho solo passioni. Quando ballo e canto tutto scompare.
Proprio come quando c‘è lui.
Lui non è qui. Non è lì. È nel mio cuore.
Non sanno niente di me. Ma continuano ad ignorarmi e a prendermi il giro.
Non so il motivo. Forse perché non conoscono la mia vera storia. Forse solo perché faccio schifo come persona.
Non lo so.
Eppure tutto un giorno è cambiato. Non come nei film. Gli insulti? Quelli ci sono sempre.
Eppure..niente ora è come prima. Molto è diverso. È cominciato tutto da quello che, per me, era uno stupido, triste, noioso e normale giorno.
Ciao a tutti, sono Silence.

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Capitolo 2
*** un nuovo odioso giorno. ***


Ore 6. 30 – casa mia.

Mi alzai per colpa della mia sveglia che suonò mezz’ora prima del previsto, come sempre. L’unica cosa che mi aiutò ad alzarmi era il sole che splendeva dalla mia finestra e i due uccellini che, come ogni mattina, si fermarono davanti la mia finestra.
Inizialmente rimasi ad osserva i loro movimenti, successivamente scesi sotto cercando di non svegliare nessuno.. ogni passo era lento e privo di qualsiasi rumore. Aprii la porta della cucina, presi quei pochi cereali che mi toccavano per colazione e, come ogni giorno, li diedi a quei poveri uccellini. Li guardai mangiare. Combattevano per quel cibo, i loro becchi si toccavano e imboccavano quei pochi cereali come se fossero il loro unico cibo. Mi piaceva troppo fissarli, mi dava serenità, cosa che nella mia vita era quasi assente.
Allungai lentamente le mani per afferrare la sveglia e vidi che erano ancora le sette meno venti, mancava troppo per scuola. Quella fottutissima sveglia mi aveva svegliato troppo presto e non sapevo cosa fare. All’improvviso lo sentii.
Quella voce. Quella musica.
Non sapevo di chi fosse. Non sapevo come questo ragazzo si chiamasse. A me piaceva chiamarlo ‘principe azzurro’, perché quando lui cantava, era come se rapisse il mio cuore e se lo portasse con se, proprio come fa un principe con la sua principessa. Sapevo solo che quella voce era meravigliosa. Il dolce suono della sua voce rimbombava nella mia testa. E’ come se essa fosse stata fatta apposta per le mie orecchie. Sembravano un tutt’uno. Mi alzai di fretta e camminando, chiusi gli occhi, per assaporare di più quella voce così soave.
«Ahi!»
Inciampai in una scarpa e caddi per terra, facendo cadere così anche la lampada e tutta la roba sul mio mobile. A quanto pare tutto il silenzio che avevo fatto non era servito a niente! Sentii dei passi veloci provenire dalla’altra stanza.
«Che è successo?»
Alzai gli occhi e vidi mia madre guardarmi con occhi spaventati e irritati allo stesso tempo.
«Ma- mamma.. non è come sembra, scusa!»
«Che è successo?»
Sentii di nuovo urlare , questa volta da Isabelle, che entrò correndo nella mia camera con il suo piccolo sorriso dolce e i suoi ricci e lunghi capelli biondi, che riuscivano sempre ad ipnotizzarmi. Svolazzavano da una parte all’altra a causa del vento che entrava nella stanza e riuscivano a riflettere la luce del sole.
«Niente tesoro, vai a dormire!» le risposi per tranquillizzarla. «Scusa mamma, la mia sveglia è suonata prima.» continuai.
«Che non si ripeta più, ora vatti a cambiare, tanto ormai è quasi ora di andare a scuola!»
Mi alzai e incominciai a prepararmi.
Entrai in bagno e alzai la testa. Ecco quello specchio. Ecco il mostro che ogni giorno rifletteva il mio orribile volto e i miei capelli super spettinati che facevano da cornice a quel naso grosso, a quegli occhi sempre rossi per le lacrime e a quel graffio lungo la tempia. Era rosso, pieno di sangue e di dolore. Presi un pettine e iniziai con forza a pettinarmi i capelli, ogni movimento che facevo era sempre più intenso, le mie braccia incominciarono anche a diventare rosso per la forza che riuscii a far uscire da dentro di me. Con rabbia, strinsi fra le dite il pettine e lo buttai giù nel lavandino, mi coprii gli occhi, mi accasciai all’angolo della stanza e, guardando il mio corpo pieno di graffi e ferite, iniziai a piangere.


Ore 8. 30 – Stratford, scuola.

Arrivai a scuola, con il fiatone, dovevo arrivare ogni giorno a piedi, a differenza di tutte quelle ragazzine che arrivavano accompagnate dalla loro macchina perfetta del loro papà perfetto. Mi faceva male guardarle, io non ero come loro. Ero una stupida ragazza che tutti odiavano, che nessuno conosceva e che nessuno voleva attorno. Cercai di dimenticare l’episodio straziante di qualche ora prima e camminando a passo svelto, entrai dalla porta a testa bassa, facendo finta di non sentire tutti quegli insulti provenire dal resto della scuola, evitando quindi tutti quegli sguardi puntati su di me, come se fossi un mostro o peggio.. un alieno. Mi odiavano. Inventavano strane storie su di me, sul perché ero sempre piena di graffi, sul perché non parlavo mai con nessuno. Andai al mio armadietto, lo apri con forza e presi i libri di scienze, la prima ora era sempre la più orribile.
Mi sedetti sul banco, ero così magra che ci entravo subito, senza alcuno sforzo. Presi il libro e lo posai sul banco.
«Hai visto che strana ragazza?»
Sentivo dal fondo della classe. Guardai in basso e iniziai a vedere le mie lacrime cadere sui miei soliti jeans strappati. La mia vita era uno schifo, proprio come lo ero io.

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Capitolo 3
*** il portachiavi. ***


Ore 13.00

A scuola era andata malissimo, come sempre d'altronde. I soliti insulti, le solite risate e i soliti fottutissimi sguardi, in più l’interrogazione di fisica era andata uno schifo.
Figuriamoci se mi andava di andare a mensa e subirmi quegli sguardi anche a pranzo. Cosa c’era di così sbagliato a mangiare una salutare mela anziché schifoso cibo spazzatura?

Finsi un mal di pancia e mi feci venire a prendere.

Ore 13.30

Mi sedetti al tavolo, con lo sguardo spento, massaggiandomi la pancia e continuando a far finta che mi facesse male.
«Mi spieghi cos’è successo? So che non hai mal di pancia.»
«Niente, mamma, non ne voglio parlare.»
«No, tu adesso ne parli con me. Fortuna che tuo padre è a lavoro e non sa niente di tutto questo.» Non risposi, abbassi lo sguardo, presi la forchetta e iniziai a spostare delicatamente la pasta nel mio patto.
«Ho detto di spigarmi cos’è successo.» incominciò a dire alzando la voce.
Non risposi nemmeno questa volta, anzi, spostai la sedia e provai ad alzarmi.
«Ho detto di spiegarmelo!» lei mi prese da una spalla e mi buttò sulla sedia con tutta la forza del suo corpo.
«Cosa c’è mamma? Adesso non ho più nemmeno il diritto di avere un fottutissimo segreto? Adesso basta! Io me ne vado!» mi alzai di fretta e buttai la forchetta per terra e camminando veloce presi la mia borsa. «Vado a prendere Isabelle a scuola, non chiamarmi.» dissi sbattendo la porta. Ero così arrabbiata che con tutta la forza delle mie mani ruppi il portachiavi che mio nonno mia aveva regalato prima di morire.
«Ma porca puttana!» mi misi ad urlare. «Tutto a me!» continuai. Presi il portachiavi e lo scaraventai per terra. Sbuffai e, sentendo sempre meno le forze, mi sedetti sul muretto di casa mia. Il portachiavi arrivò qualche metro distante da me.
Vicino ad esso c’erano dei piedi, delle scarpe. Incuriosita, alzai gli occhi. Occhi castani, capelli biondi perfettamente pettinati, il suo ciuffo biondo che rifletteva quel poco di luce che il sole riusciva ad emanere gli cadeva sugli occhi, che casualmente guardava verso di me. Aveva un’aria misteriosa. Non mi guardava né male, né bene. Semplicemente mi osservava con aria cupa e pensierosa. Continuò a fissarmi per qualche secondo, mentre i miei occhi sembravano tremare per la sua infinita bellezza. Poi, senza dire nulla, si abbassò, prese il mio portachiavi, si girò e, infilandoselo nelle tasche dei suoi stretti jeans strappati, se ne andò via.

Ore 17.30

Era ora.
Dovevo andare in quel maledettissimo centro per le persone ‘con disturbi’. Quella voce irritante di tutte quelle persone mi dava fastidio. Ero già depressa per mio conto, non mi servivano altre persone a rendermi la vita orribile, più di quanto già non fosse. Non ci andavo dall’anno precedente, dopo aver avuto una leggera crisi di nervi, ma mia mamma mi aveva costretto a riprovarci.

Arrivai davanti al centro, lo fissai e facendo qualche passo in avanti mi fermai di fronte la porta.
‘Ci siamo’ pensai fra me e me. Girai gli occhi, sbruffai e, facendo un gesto di sconforto, aprii la porta. La stanza era orribile. Le pareti bianche con disegni giallo canarino, sedie messe a cerchio e un buffo tavolino di legno al centro. La finestra era chiusa, mentre la luce della lampadina illuminava quel poco di stanza necessario a farci stare una sola persona. La stanza era un buco, così come si suol dire. Alle pareti erano appesi quadri di persone altamente idiote, con vestiti alquanto antichi e buffi cappelli. ‘Eh si, la solita stanza di sempre’ pensai.
«Silence, ben ritornata!» disse John, il medico.
«Salve John, grazie mille.» dissi con voce fredda e molto ritratta. Lui allungò la mano e per farmi sedere, ma io feci un passo indietro e guardai i miei piedi. Lui capì il mio disagio e si sedette al suo posto.
Sempre guardando in basso, mi andai a sedere vicino la finestra. Allontanai il mio sguardo dalle mie scarpe e osservando di fronte a me vidi delle scarpe. Io conoscevo quelle scarpe. Le avevo già viste. Alzai lentamente lo sguardo, come se avessi quasi paura, e, sobbalzando dalla sedia, lo vidi. Era lui.. il ragazzo del portachiavi. Mi fissò per qualche secondo e poi girò lo sguardo. Era abbastanza strano. Non parlò per tutta la seduta, semplicemente guardava le altre persone, come se le volesse esaminare e poi, sempre delicatamente, si toccava quel suo ciuffo, alzandolo in alto.

Ore 19.00

La seduta era finita. Il caos in quella stanza era immenso, tanto che, pur volendo raggiungere quel ragazzo per farmi ridare il mio portachiavi, non ci riuscii: lui era sparito.
Esitando, uscii dalla porta e incominciai a cercare il cellulare nella mia borsa.
«E così.. anche tu qua.» sentii provenire dalle mie spalle.
Una figura nera appoggiato al muro. Era lui.
Un piede sulla colonna e l’altro che sosteneva il corpo, per terra.
«Così hai anche tu una voce.» risposi fredda, dopo tanto tempo un ragazzo mi degnava di uno sguardo.
«Questo deve essere tuo.» tolse la mano dalla tasca e mi sventolò il portachiavi in faccia, quasi come aria di superiorità.
«Dammelo!» dissi. Allungai la mano e cercai di prenderlo, ma lui, con un gesto delicato, lo strinse nelle sue mani e se lo riportò in tasca. «Non ancora.»
«Ma chi sei?» chiesi insospettita.
Mi accarezzò il mento sorridendo e, abbassando il piede, mi diss «Non è importante.» si girò dall’altra parte e se ne andò via.
Io rimasi lì a fissarlo andarsene via, senza dire nemmeno una sola parola.
Chi era? E cosa voleva da me e il mio portachiavi?

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Capitolo 4
*** his eyes. ***


«Vieni qua piccola!»
«Lasciami stare, lasciami stare! Mamma!» Le gambe correvano veloci. Il cuore le palpitava così forte da riuscire a sentire il suo battito, le lacrime le bagnavano il piccolo ed impaurito viso e i suoi occhi sprigionavano paura. La stanza era buia, non si vedeva niente.
Fu presa e stesa un letto, con la forza.
Sentiva pian piano le sue mani salire sul suo corpo, il tocco era così delicato da sembrare un massaggio. Lei urlava, tirava calci, cercava di andare via, ma le sue mani e le sue gambe erano legate. Sentiva il brutto odore di alcol e un lungo respiro sulla sua pelle che saliva sempre più su. Chiamava il suo nome, desiderava fosse lì. Lei voleva lui, ma con lei c’era solo un lurido porco.
Le mani di quel maniaco arrivarono alla piccola gonna che indossava e, leggermente, la abbassavano.
« Ci siamo.»

Mi sveglia di colpo.
«Dio.» dissi a me stessa. «Che incubo.» proseguii.
Non avevo mai fatto questo sogno. Mai vissuto quel momento. Non sapevo perché proprio a me tutto questo fosse venuto in mente. Cercai di cacciare via questo pensiero, e vedendo l’orario, tornai a dormire. Erano solo le nove ed era domenica, avevo tutto il tempo per dormire tranquillamente.
«Silence, puoi andare a fare la spesa?» sentii mia madre urlare nell’altra stanza. Non mi alzai, continuai a dormire, avevo troppo sonno.
«Svegliati dormigliona!» mia madre prese una bottiglia d’acqua e me la buttò in faccia. «Maaamma!» urlai. La vidi ridere, mi guardava con degli occhi dolcissimi e pieni di gioia. «Su, ho tane cose da fare, fammi questo favore!» mi disse.
«Ti odio mamma.»
«Ti amo anche io, si!» disse sorridendo. Sbuffai facendo svolazzare quel piccolo ciuffo uscito dalla coda, e tirando uno schiaffetto a mia mamma, la abbracciai e andai a cambiarmi.

Ore 09:45

Uscii da casa, faceva freddo, nonostante ci fosse un bel sole. Mi girai a guardarlo, era bellissimo. Mi dava serenità. Camminavo strofinandomi le braccia dal freddo, sentendo il rumore delle mie scarpe che toccavano terra. Alle dieci meno un quarto di mattina di domenica non c’era nessuno, che strana città quella in cui vivevo! Però era bello, tutto il silenzio che rilassava, il canto dolce degli uccelli e l’aria che passava attraverso i miei capelli e li faceva muovere come una piccola danza.
«Eccolo.» dissi vedendo quello strano ragazzo. Volevo raggiungerlo e prendere il mio portachiavi una buona volta. Così mi misi a correre velocemente, quando le mie scarpe inciamparono su un legnetto e caddi per terra.
«Stai bene?» sentii provenire da sopra di me.
Alzai gli occhi ed era lui.
«Lasciami stare!» dissi infastidita. Lui sorrise e, spostandosi il sui bel ciuffo, mi porse una mano per aiutarmi ad alzare.
Ignorai la sua mano, mi alzai e mi pulii con le mani tutta la polvere sui miei jeans.
«Vabbè come vuoi.» disse lui.
Io non volevo alzare lo sguardo, ero infuriata. Ero caduta e per lo più questo ragazzo mi stava infastidendo, senza nemmeno conscerlo.
All’improvviso sentii il suo tocco leggero sul mio mento. Le sue dita mi stavano lentamente alzando il viso, per porre il mio sguardo su di lui. «Ora va meglio.» disse. I suoi occhi sembravano penetrare nei miei. Il suo sguardo era meraviglioso, ci navigavo dentro, mi ci perdevo. E’ come se in quel momento niente fosse attorno a noi, c’eravamo solo io e lui.

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Capitolo 5
*** his hand fits in mine. ***


«Dimmi cosa vuoi da me.» Dissi togliendogli la mano dal mio viso. Le mie guance erano diventate rosse, non potevo reggere il suo sguardo, non ne ero abituata.
Lui era perfetto, io non lo ero. Guardando i suoi occhi mille pensieri giravano nella mia testa e mi uccidevano dentro, sapevo che rideva di me. Lo sapevo.
«Beh..» fece un sorriso, abbassò la testa e poi guardò di lato. «vieni, ti accompagno io. Dove devi andare?» riprese a fissarmi.
Dovevo capire cosa voleva da me.
«Ti hanno mandato per farmi uno scherzo? Oppure sei venuto per prendermi in giro? Ah, ho capito, ti ha mandato lo psicologo, si!» dissi allontanandomi da lui.
«No.» mi prese la mano e mi tirò verso di lui. Il mio petto si ritrovò poggiato sul suo, riuscivo a sentire il suo battito del cuore, andava a mille. Una mano era sulla sua spalla, l’altra era incatenata alla sua. Io tremavo. Mai, e dico mai, mi era successa una cosa del genere. Mai un ragazzo nella mia vita mi aveva degnata di uno sguardo.
Tolsi la mano e mi allontanai dal suo petto. Non so nemmeno perché. Forse avevo troppa paura.
«Allora? Dove devi andare?» mi richiese.
«Devo.. devo andare a fare la spesa.» dissi sempre più imbarazzata.
«Bene, vieni..» mi riprese la mano e, camminando, incominciò a parlarmi. Per tutto il tempo. Non finiva mai di parlare. Parlava del sole, delle nuvole, ma mai di lui. Io stavo zitta, lo ascoltavo parlare. Amavo ciò che diceva e come la pensava, era così uguale a me.
«Allora? Cosa ne pensi? Perché stai zitta? Su parla!» disse girandosi, mentre mi guardava sorridendo.
«Penso che tu sia strano.» risposi.
«Bene, vedo che hai capito che tipo sono!» rise. Mio dio, era così perfetto.
I suoi occhi, il suo sorriso, i suoi denti, era tutto così meraviglioso. Non smettevo di guardarlo, ero come ipnotizzata, come se non avessi mai visto niente di simile. Navigavo dentro i suoi occhi e mi sentivo così bene a guardarlo sorridere. Era qualcosa di inspiegabile.
«Siamo arrivati!» mi sbloccai da quella ‘ipnotizzazione’ e risposi «Ah, si. Beh.. grazie. Ora vado, ciao.» lo salutai stringendo la mano. Lui sorrise, mi tirò a sé e mi diede un bacio sulla guancia. «Ciao.»
Si girò e se ne andò.
«Sono una stupida. Si, sono una stupida! Perché la stretta di mano? Silence ma che razza di mostro sei?» continuavo a ripetermi. Avevo fatto un’orribile figura, erò così stupida.
Mentre parlavo, abbassai lo sguardo e aprii la mano. C’era un biglietto.

- Questo è il mio numero e questa è la festa a cui voglio che tu vada, ci sarò pure io. A stasera. -

Mi aveva lasciato il suo numero e un indirizzo di un locale. Lui. Una festa. Io. Stava scherzando vero? Non riuscivo a rendermi conto di quello che stava succedendo. Era tutto così strano per me. Così.. nuovo.

Ore 22:00

Ecco, era arrivato il momento.
Non sapevo che festa fosse, come ci si dovesse vestire e come ci si comportasse, perciò indossai un jeans e una maglia.
Mia mamma e mio padre erano già a letto, così, senza dire niente, uscii di casa e mi recai a quel locale. «Eccomi.» sospirai. C’era così tanta gente. E tutti erano vestiti eleganti. Abbassai lo sguardo e guardai i miei jeans. «Dio, perché li ho messi?» continuavo a ripetermi.
Erano tutte bellissime ed io avevo a mala pena un filo di matita.
«Hey.» sentii un tocco sulle mie spalle. Mi girai ed era lui.
Mi toccò i capelli e spostò una ciocca. Mi guardò negli occhi e.. «Sei bellissima.»

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