Deep Below the World

di BlueCandle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I ***
Capitolo 2: *** Chapter II ***
Capitolo 3: *** Chapter III ***
Capitolo 4: *** Chapter IV ***
Capitolo 5: *** Chapter V ***
Capitolo 6: *** Chapter VI ***



Capitolo 1
*** Chapter I ***


"Deep below the world Persephone
sings of love forgotten
calling out across the river... Persephone

Deep below the world Persephone
waits upon her rescue
mother nature's only daughter... Persephone

She saw the dawn with the light in her hair
twisted and torn she was taken from there
now she's down... down... down...

Oh my dear Persephone
your heart sings a melody
Hope you're safe and sound... underground".


Kula Shaker, "Persephone"


***

Corro.
Corro, come se non avessi mai fatto altro.
Sono veloce, più veloce di quanto potessi credere. La terra scivola sotto di me, sotto i miei passi rapidi, l'erba morbida che mi sfiora i piedi nudi.
Rido, e allargo le braccia. Ora sto volando, libera come un falco, libera per la prima volta.
Il sole mi accarezza, sento il suo tepore su di me, sembra sorridere al suono delle mie risate.
Il cielo, la terra, l'erba, l'aria. Ora respiro.
Rallento, il mio cuore batte forsennato, forse è felice come me.
Mi fermo, guardo indietro. Schermo gli occhi dalla luce... forse è troppo potente.
Eccole laggiù... agitano le braccia, le ninfe, vogliono che torni indietro... ma non è ciò che voglio io. Il sapore del mondo è troppo buono.
Alzo la mano, le saluto. Ma poi mi giro, ricomincio a camminare.
Tutto è selvaggio, ora: la terra, l'erba, i fiori.
Forse anche io.
Con i capelli scompigliati dall'aria, il peplo chiaro raccolto sulle cosce, il respiro veloce. La selvaggia Persefone.
Ah, la mamma si arrabbierà, si arrabbierà tantissimo.
Com'è possibile che la sua diletta figlia, la dolce, timida Persefone, sia in realtà una ragazza selvaggia, una veloce gazzella? Incredibile.
Mi fermo, strofino i piedi sull'erba, mi solletica i piedi.
Il cielo è terso, nemmeno una nuvola ad oscurarne l'azzurro. L'aria è così profumata... sono circondata dai fiori.
La terra è coperta di punti colorati, sembra che il verde sia sparito.
Il vento si diverte a inclinare i loro piccoli capi rossi, bianchi, gialli. Sono bellissimi.
Mi chino a raccoglierne uno, sfioro i petali delicati... ma... aspetta.
Qualcosa, in lontananza, mi blocca, cattura la mia attenzione. Mi rialzo, affilo lo sguardo; inizio ad avvicinarmi.
Appena lo raggiungo, mi fermo.
E' un fiore, sì.
Ma è il fiore più bello che io abbia mai visto, il più bello di tutti.
Mi inginocchio, voglio guardarlo da vicino. E' blu.
Blu come niente che io conosca. Un blu profondo, caldo come una vita, freddo come una gemma preziosa. Sette petali, una stella a sette punte, striate d'argento, di bianco, di nero.
Avvicino il volto, cautamente lo annuso... e mi ritrovo a respirarne il profumo come fosse aria.
Oh, è buono, altroché. Non è dolce, questo no. Ma è anche meglio.
E' quasi... inebriante: sa di neve, di vento, di una notte d'inverno...
Allungo la mano. Voglio coglierlo, deve essere mio. Mi sembra di esserne assuefatta. Sfioro i petali delicati, velluto blu sotto il mio tocco.
All'improvviso vengo sollevata, braccia forti si stringono attorno a me. Urlo, scalcio, mi dibatto, ma a nulla vale.
Un velo nero mi avvolge, il profumo del fiore ora mi circonda completamente. Mi stordisce, tanto è buono. I miei occhi si chiudono.
Sono sempre più stanca... sempre più stanca... appena prima di perdere i sensi, un sussurro, lieve come un respiro, che mi scivola dentro, un dolce veleno.
Persefone.
E precipito nel buio.

 

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Capitolo 2
*** Chapter II ***


***

 

Apro gli occhi. Batto più volte le palpebre.
Questa... non è camera mia.
Un istante dopo, ricordo.
Il sole, il cielo, il prato. Il fiore, e...
Scatto seduta, mi guardo intorno.
Dove sono?

Sono seduta su un letto enorme, un lago di seta color nero perla. Sulle pareti, delle fiaccole brillano pigre, fanno muovere le ombre nella stanza.
Di una cosa, mi rendo conto, in un attimo. Ogni cosa, qui dentro, è scura. Il letto, le pareti, i mobili. Neri.

Scendo dal letto; piano, perché non voglio fare rumore.
La porta! Mi dirigo svelta ad aprirla; un movimento alla mia sinistra mi fa sobbalzare.
C'è qualcuno, ne intravedo la sagoma scura che si staglia contro la luce tenue e soffusa delle torce.
Mi avvicino lentamente... poi il cuore riprende a battere.
E' uno specchio.

Mi guardo, ma un'esclamazione soffocata sfugge dalle mie labbra. Sono io, ma non sono io.

Il peplo bianco non c'è più.

Al suo posto, un abito blu notte, quasi nero, lungo, bellissimo.

La pelle delle mie spalle, del mio collo sottile, chiara, lattea.

Perle nere mi adornano i capelli, un diadema di pura oscurità.
Sembro una regina.

Torno a voltarmi verso la porta, provo a socchiuderla. Inaspettatamente, è aperta.

Il cuore batte forte, ma non ho paura.

Ecco, sono fuori. Senza fare rumore, chiudo la porta dietro di me.

Mi trovo in un ampio corridoio. Quella da cui sono uscita non è la sola porta. Sono tante, tantissime, una di fianco all'altra. Ma sono tutte chiuse.

Mi sposto ancora, devo cercare un'uscita.

Il marmo nero del pavimento è talmente lucido da riflettere ogni cosa. Uno specchio di tenebra, sulla cui superficie ci sono anche io.
D'un tratto mi irrigidisco, mi premo contro la parete. Sento delle voci, schiamazzi, e musica.
Non so cosa fare. Scivolo in avanti, mi appiattisco dietro una colonna. Non voglio essere scoperta, ma la curiosità è forte, anche troppo.
Quindi mi sporgo un poco. Voglio vedere.
E' una sala enorme. Bellissima. Il soffitto è altissimo, due colonnate agli estremi della stanza.
Ovunque, spiriti e demoni, maschi e femmine, danzano, si muovono, le loro ombre che sfarfallano sul lucido marmo nero come fiammelle guizzanti. Guarda! C'è anche Dioniso, ora l'ho visto. So chi è, me l'hanno mostrato le ninfe; ma non l'ho mai incontrato.
E' seduto, sta ridendo con qualcuno di fianco a lui, ma non vedo chi. Le colonne coprono la sua figura alla mia vista.
Mi sporgo un po' di più, quanto basta per scorgere chi si trova sullo scranno, di fianco al dio del vino.

Ne intravedo la figura, anche se le colonne me ne impediscono la vista ancora una volta.
E' un uomo, di questo sono sicura.
D'un tratto, ecco che il misterioso individuo si muove, cambia posizione sul trono nero su cui è seduto.
Sbatto le palpebre più volte, ma non distolgo lo sguardo.

E'... bello. Indubbiamente.

Ha l'aspetto di un giovane, magro, con i capelli scuri, lucidi come le ali di un magnifico corvo. Una muscolatura asciutta, nervosa, agile.

Ma nonostante l'aspetto, posso sentirlo anche da qui.

Emana una potenza implacabile, assoluta.

Mia madre non vi si avvicina nemmeno lontanamente. E forse, nemmeno Zeus.

Lo guardo ancora.
I miei occhi sono attratti dalla sua figura come calamite, ma non ci faccio troppo caso. Perché voglio guardare ancora.
E così faccio.

E' seduto sul trono nero, la posa morbida, rilassata, il volto leggermente inclinato verso Dioniso, alla sua sinistra. Si tiene la guancia con la mano, un sorriso seminascosto che si intravede appena tra le dita affusolate.
D'un tratto lo vedo parlare, il ghigno ben visibile. Non so cos'abbia detto, ma Dioniso scoppia a ridere.
Io trasalisco, le sue risate rimbombano come un eco fortissimo, mi vibrano nelle ossa.
Mi sporgo per guardare ancora.
Ma c'è qualcosa che non va. Tutti si sono fermati, immobili. Niente più musica, niente risate.
Una sensazione di gelo freddo mi avvolge. Sbircio di nuovo verso il trono.
Ma ciò che incontro, stavolta mi lascia senza fiato.

Sono i suoi occhi, dritti su di me. Mi ha visto.

Trattengo il respiro, torno indietro di corsa. Non so dove andare, allora corro, e corro.
Torno nel corridoio di prima, lo percorro tutto, il fiato che comincia a mancarmi, le gambe a dolermi.
Una porta... eccola! Mi ci infilo dentro e la chiudo dietro di me.
Poco a poco riesco a riprendere fiato, la fronte contro il legno scuro della porta, gli occhi chiusi.
Sento i colpi del mio cuore persino dietro le palpebre abbassate.
Deglutisco, mi volto a guardare.
E' la stanza di prima. I miei sandali sono ancora lì, di fianco al letto.
So di non aver aperto la porta della stanza in cui ero prima. Eppure sono qui.

Improvvisamente, due colpi secchi contro la porta mi fanno trasalire.

C'è qualcuno.

 
 

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Capitolo 3
*** Chapter III ***


***

 

"Mia signora?"

Non rispondo. Trattengo il fiato, anche.

"Mia signora, il mio Signore vorrebbe invitarla a banchettare con lui. Accettereste l'invito?"

La voce è gentile, educata.

Tentenno. Non so cosa fare. Non sembra intenzionata a ferirmi.

"Mia signora?"

Poco a poco, la voce mi esce fuori.

"...sì... sì” sussurro.

Il mio bisbiglio viene udito, perché chiunque sia dietro la porta si decide a parlare ancora.

"Allora, mia signora, permettetemi di scortarvi”.

Poi pare attendere. Ripiomba il silenzio.

Respiro piano.

Qualcosa, qualcosa... è cambiato.

Vado ad infilarmi i sandali, ma poi mi fermo. Li ripongo un'altra volta. Non devo avere paura.

Resto a piedi nudi, il peplo scuro che mi sfiora dolcemente la pelle ad ogni movimento. Apro la porta con deliberata lentezza.

Un demone attende, appoggiato contro l'altra parete. Ha l'aspetto di un ragazzo, i capelli biondi, il fisico asciutto.
Ma so perfettamente che non è quello che sembra,

Appena mi vede, si raddrizza; si stacca dal muro, sorride.

Intravedo i denti appuntiti, da squalo, nascosti dalle labbra rosse come il sangue.

E' difficile non rabbrividire, ma tengo la testa alta. Non permetto al più invisibile dei fremiti di mostrarsi fuori di me. Devo essere forte, spietata.

L'essere si inchina leggermente, poi inizia a muoversi.
Io lo seguo.

Mi conduce nella sala da cui prima sono fuggita, di cui ora abbiamo appena varcato le soglie.

La sala con lui.

Rallento, ma non mi fermo.

Eccolo. E' lì, davanti a me.

Dioniso è ancora accanto a lui. Mi guarda socchiudendo gli occhi, pare perplesso.

D'un tratto li spalanca, si volta di scatto verso il suo ospite; è attonito, so che mi ha riconosciuto.

"Ma cosa…"

Il demone dai capelli dorati si è fermato a pochi passi dal suo signore.

Si inchina, reverente, il braccio destro piegato all'altezza della vita.

Lui fa un impercettibile cenno col capo, e l'essere scivola di lato, ritorna dagli altri demoni.

Resto in silenzio.

Alzo lo sguardo di quel poco che basta per riuscire a scorgere il suo volto.

Smetto di respirare.

Mi sta guardando.
Gli occhi brillanti, di un blu profondo, cupo come nulla che io abbia mai visto. Bellissimo.

Mi incatenano lì dove sono. Non riesco a muovermi.

Sento come un fuoco, un fuoco nel petto. Mi schiaccia i polmoni, mi consuma da dentro.

"Respira, Persefone”.

La sua voce è bassa, pacata, calma. Un balsamo.

Immediatamente respiro, l'aria che entra prepotente nei polmoni, l'ossigeno di nuovo nel mio sangue.

Lui continua a guardarmi, mi sta studiando.

Un brivido mi scorre lungo la schiena.

 
 

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Capitolo 4
*** Chapter IV ***


***

D'un tratto muove il braccio, un leggero movimento del polso.

Ecco.

Ora alle mie spalle c'è una sedia. Un trono, in realtà. Uguale al suo, appena più piccolo.

“Siediti".

Non so se sia un ordine, oppure un'offerta.

La voce di lui è così calma. Quasi fredda, distante.

Mi siedo, lentamente, ma non smetto di guardarlo.

"Cosa vuol dire tutto ciò, Ade?"

La voce adirata di Dioniso interrompe bruscamente i miei pensieri.

Si è alzato, e ora sta fronteggiando il suo ospite.

Ade, realizzo.  Quell'Ade?

Il dio degli inferi si volta verso Dioniso, lentamente. Il suo sguardo non mi lascia se non alla fine; mi osserva, pare non mi voglia abbandonare.

"Tu cosa credi, Dioniso?"

La sua voce taglia l'aria, un vento freddo, affilato come una lama di ghiaccio.

E' ancora calmo, ma persino io posso percepire la minaccia che si cela dietro la maschera che sorride, pacata.

Dioniso arretra leggermente.

Sa cosa rischia; ma si fa ancora più scuro in volto, riprova a parlare.

"Sai che si infurierà. Sei ben consapevole di ciò che comporterà il tuo gesto, eppure lei è qui”.

Ha alzato un braccio, mi punta il dito contro.

E' il dio del vino, ma non è un dio debole.

Sento la pesantezza della sua forza che preme su di me, come se mi schiacciasse.

Mi ritraggo sul trono, tiro su le gambe e le circondo con le braccia. Mi fa paura, ho un nodo d'angoscia in gola.

Alla faccia dell'essere spietata.

Ade si alza di colpo.

Adesso. Adesso posso sentire la sua ira.

Come una tempesta, un uragano di ghiaccio e fuoco, inestinguibile, potente, inevitabilmente inarrestabile.
La sua voce rimbomba nella sala. La voce di un dio.

"Non oltraggiare la mia autorità, qui sotto! Non mi interessa di ciò che farà mio fratello, perché provare a negarmi ciò che lui non riesce a negare a sé stesso è stata la peggiore decisione che mai potesse scegliere di prendere!"

Tace.

Echi della sua voce profonda infestano come fantasmi l'ampio salone, vagano tra le colonne nere.

Ade si risiede. Dioniso è immobile. Così anche io.

Rivolgo lo sguardo verso di lui. Quanto sembra inerme, minuscolo, impotente, ora, il dio del vino!

Il dio della morte schiocca le dita affusolate, chiama il suo servo.

“Thanatos".

Il demone di prima, quello che era fuori dalla mia porta, si avvicina di nuovo.

Lo osservo, mentre si muove, sinuoso come un rettile. Aggraziato, letale.

Come Ade, è completamente vestito di nero; ma so che è un guerriero.

Indossa una sorta di armatura di pelle, porta una falce di luna, al fianco, che riluce argentea, in un modo che la fa sembrare viva, persino senziente.

Si inginocchia, abbassa la testa, piega il braccio o porta la mano all'altezza della spalla opposta.

"Mio Signore”.

"Accompagna Dioniso al traghetto. Non avrà bisogno di pedaggio”.

Thanatos si rialza.

Per un attimo soltanto, mi guarda.Vedo come un lampo attraversargli gli occhi rossi, un sorrisetto di sciabole nascoste dietro le labbra.

Ma è solo un attimo, meno di un secondo.

Il demone si avvicina a Dioniso, lo invita a seguirlo.

Il dio del vino sa di non avere scelta; non può rischiare di irritare ulteriormente Ade.

Sospira, fa un lieve cenno con la testa.

"Come vuoi, allora”.

Il tono che usa non è di sfida, tutt'altro. E' rassegnato.

Dioniso si volta, fa qualche passo, svanisce dietro Thanatos. Batto le palpebre.

Mi risistemo sulla sedia, le gambe scivolano giù.

Siamo solo io e lui, ora.

Nessun altro.

“Persefone".

Alzo lo sguardo.

Lui è seduto sul trono, come prima.

Come prima, sento i suoi occhi bruciarmi sulla pelle, la voce di seta che si diffonde morbidamente nella sala.

“Persefone".

Ha allungato il braccio, la sua mano si protende gentilmente verso di me. Un invito.

Non riesco a muovermi.

Lui non sorride. Ma il suo tono è suadente, irresistibile.

"Vieni più vicina, Persefone”.

Vedo le sue labbra pronunciare il mio nome, una lettera alla volta.

Ne seguo i movimenti, fluidi come miele.

Il mio nome sembra quasi dolce, in bocca a lui.

E quando lo sento, un fiotto di lava sembra inondare il mio petto, mi annebbia la testa, tanto è caldo, tanto è insostenibilmente... seducente.

Non so come, d'un tratto sono in piedi.

Un passo dopo l'altro, mi avvicino.

Mi fermo davanti a lui, lo guardo.

E' ancora immobile, proteso verso di me, osserva i miei movimenti sconnessi.

Allungo piano una mano verso quella che lui mi tende.

Sfioro quella pelle di alabastro.

Una scossa intensa, elettrica, si propaga in me, percorre il mio corpo come un’onda.

No, non un’onda. Non è placida, la carezza gentile della marea che avanza e si ritira.

È un maremoto. Inarrestabile, la potenza del vento, un uragano, una tempesta di fuoco liquido. 

Lo sento ovunque, su tutta la pelle, su tutto il mio corpo, riempie interamente il mio cuore.

Rabbrividisco, ma non è paura.

Non è paura.

Ade mi prende la mano con delicatezza, mi tira piano verso di sé.

Io lo lascio fare.

Non voglio ribellarmi. Non voglio che lasci la mia mano.

E' così vicino, ora.

La mia mano è ancora stretta nella sua, un pulcino coperto dalle grandi, morbide ali del genitore.

Così vicino.

Non ho mai sentito con tanta forza la presenza di qualcuno.

Vicino.

Ancora una volta, sono bloccata.

Lui si alza, lentamente. E' davanti a me, in silenzio.

E' alto, non gli arrivo neanche al mento.

Il suo petto sfiora il mio, tanto siamo accostati. Alzo lo sguardo, cerco il suo viso.

Lui china la testa verso di me.

Mi perdo ancora una volta nell'oceano dei suoi occhi. Blu.

Così diverso dai miei, pozze d'ombra, neri come il marmo di questa sala.

Lo sento sospirare.

D'un tratto mi avvolge con le braccia, mi tira contro di sé.

"Sei così... giovane" mormora.

Il mio viso è premuto contro il suo petto, i polmoni si riempiono di quel profumo meraviglioso che – ora capisco – è il suo.
Vento, neve, inverno... il fiore era lui.

Vorrei alzare le braccia, abbracciarlo... vorrei...

Si discosta da me, delicatamente.

"Dolce fanciulla, sai chi sono?"

Mi guarda negli occhi, aspetta.

Io annuisco, piano.

Un lampo solca il blu dei suoi occhi, una cometa che ne taglia la notte con una lama d'argento.

"Chi sono, allora?"

“Ade”, mormoro.

Mi sfiora la guancia con le dita, la mano scivola sul viso, sul collo.

L'indice affusolato si ferma all'altezza del mio cuore.

Sfiora la pelle bianca lasciata scoperta dal peplo di tenebra.

“Sì”.

 

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Capitolo 5
*** Chapter V ***


***

La mano del Dio della Morte è morbida, leggera sulla mia pelle. 
D’un tratto si allontana da me, e solo allora mi ricordo di respirare.
“Vieni”.
Allunga il braccio verso di me, in offerta, e io poso la mia mano nella sua.
Non c’è quasi differenza nel colore della nostra pelle. Entrambi figli della luna, del suo riflesso sulla superficie nera del mare, la pelle di seta che sento sulla mano mentre Ade richiude piano il palmo e mi tira dolcemente a sé, portandomi nuovamente sotto la sua ala.

Il mio sguardo torna sulla sala, e i troni non ci sono più. 
Fiori secchi e ghirlande di erbe profumate ornano una tavola imbandita. Il dio della morte mi ci conduce, lascia la mia mano solo quando mi sono seduta,  nell’aria il profumo delle portate, del vino e delle decorazioni.  
Ade aggira la tavola, si muove fino a raggiungere il posto proprio di fronte al mio.
Quindi si siede, e nel momento in cui la sua posa diventa rilassata, nell’ampio salone inizia di nuovo a risuonare la musica, i flauti e le arpe che intonano una melodia lieve, serena, ma a momenti malinconica. 

Posso sentire il mio cuore. Batte a tempo, perché sta cantando. Il suono di una canzone melodiosa. 
E improvvisamente sento la mancanza dell’erba sotto i piedi, il respiro del sole sulla pelle. Il colore del cielo, il sapore del mondo, così da poco sfiorato e subito a me sottratto. La compagnia del vento - mie ali... persino le ninfe. 
Mia madre.
Ma poi incrocio lo sguardo di Ade, il suo sorriso lieve. Quasi sussurrato, un segreto tra me e lui.

Dimentico.

Il profumo è forte, buono. 
Ho fame. Non mangio da prima che le ninfe avessero acconsentito ad accompagnarmi sulla terra. 

Non mangerò.


So di non doverlo fare. 
È una regola semplice, che ogni bambino conosce; che ogni essere, umano o divino, sa di dover rispettare. 
Il cibo dei morti è la condanna dei vivi. Una volta posate le labbra su un frutto dell’aldilà, della terra nascosta, parte di me non sarà… più.
Resto in silenzio, ascolto la musica, il dolce cullare dei flauti che accompagna il flusso dei miei pensieri.
Ade continua a guardarmi. Sa che so di non dover mangiare. 
Eppure la tavola è imbandita, e le portate sembrano sempre più invitanti, sempre più profumate. 
Non sono mortale. 

Non mangerò.

Ma non ho mai sperimentato una fame così atroce. 
I demoni ballano, si muovono aggraziati nella sala.
I loro corpi sembrano quasi eterei, accompagnano la musica con movenze tanto lievi e delicate che non sembrano nemmeno esseri infernali.
Sono piume, trasportate dal vento, dalla brezza tiepida e fresca che solletica il volto nei giorni caldi d’estate.

“Persefone”. 
Ade mi sorride, e mi perdo ancora una volta.
Ma poi batto le palpebre, e vedo che con gli occhi mi sta indicando qualcosa.

Volto lo sguardo, e Thanatos è accanto a me, il busto leggermente piegato in avanti, la testa lievemente china. 
Lo guardo, i suoi lineamenti di giovane cacciatore, gli occhi di rubino che sondano discretamente la mia attenzione. 
Non mi muovo, aspetto che parli.
“Mia signora,” dice, la voce bassa, quasi un sussurro. “…vogliate gradire”. 
Un vassoio argenteo, sulla punta delle dita. 
Nel vassoio, un frutto rosso, dal profumo inebriante. 
È abbastanza vicino perché lo possa prendere. 
Ma abbastanza lontano perché debba allungare il braccio, la mano, per prenderlo. 
Thanatos resta immobile. 

Una scelta. La mia.

Mi volto verso Ade.
È sempre lì. Mi osserva, tranquillo. Il sorriso continua ad aleggiare sulle sue labbra. 


So di non dover mangiare. 

Non mangerò.

Ma è senza distogliere lo sguardo dal volto del Dio della Morte, che compio la mia scelta.
Allungo il braccio, le mie dita sfiorano la superficie del frutto, ruvida, ma liscia allo stesso tempo. Chiudo la mano sulla sfera rossa, e me la porto in grembo. Ora la tengo con entrambe le mani, ne saggio la forma, la consistenza tra le dita.
Con la coda dell’occhio vedo Ade fare un lieve cenno. Thanatos si inchina di nuovo, e arretra, fino a sparire tra le ombre.
Ma non bado allo scambio.
La mia attenzione, ora, è altrove.

La piccola sfera rossa nelle mie mani è leggera, ma porta con sé il profumo di un’intera stagione.
È… inebriante.

Fresco, e dolce, ma ho come la sensazione che se dovessi assaggiarlo, il sapore sarebbe anche aspro, inaspettato, sulla lingua.

Non mangerò.
 

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Capitolo 6
*** Chapter VI ***


***

I suonatori d’arpa iniziano a pizzicare con maggiore intensità i loro strumenti, dettando poco a poco un ritmo più scandito. Un battito d’ali scherzoso, quasi beffardo, mentre i demoni aumentano la velocità delle loro danze leggiadre.

Tengo ancora il frutto tra le mani, la sua ruvidità ormai familiare, quasi confortante al mio tocco leggero. 

Mi ricorda che non devo mangiare. Ma non fa che rinnovare la fame che ormai si annida dentro di me.


Non mangerò.


Continuo ad osservare le danze. 

Non riesco a distoglierne gli occhi, tranne quando mi rendo conto che Ade continua a guardarmi, lo sguardo attento celato dall’espressione tranquilla. Si porta la mano al viso, reclina il volto di lato sfiorandosi la guancia con le dita bianche. 

Ricambio la sguardo, e mi perdo ancora una volta.


Continuo ad accarezzare il pomo scarlatto con le dita, e ad un certo punto mi fermo sulla sua cima, sul piccolo bocciolo che sembra sfidare il mondo, i petali stellati che si ripiegano dolcemente in un piccolo fiore, rosso come la fame che mi dilania. Rosso come me.

Ne sfioro la forma con gli occhi, le punte con le dita. Ha la forma di un fiore, ma è resistente. Un bocciolo rivestito e protetto da quella stessa armatura cremisi che ho continuato a sentire fino ad ora. Cremisi come un sacrificio compiuto e non ancora rivelato, come il sangue di un guerriero che combatte la sua ultima battaglia. 

Come il sangue che mi scorre impetuoso nelle vene, che inonda il mio cuore.

 

Ho fame.

 

Lo sfioro di nuovo, piano, ne saggio i contorni, ne tasto i petali.

Ecco, l’ho visto di nuovo. Al centro della corolla, uno spazio vuoto; riesco a sentirne i bordi con le dita. 

Sembra un’apertura, un ingresso. Una porta segreta verso un mondo piccolo, nascosto in profondità, popolato soltanto dai segreti silenziosi di quell’oscurità cremisi e profumata che lo abita.

Oso. Sfioro i bordi di quel piccolo ingresso con la punta delle dita, ne lambisco le ombre purpuree.

E morbidamente, come una fanciulla che si sveglia languidamente dal sonno, gli occhi ancora socchiusi, gli arti ancora intorpiditi che si distendono, il fiore sembra scuotersi morbidamente: i petali si stirano e si allungano, per poi aprirsi senza un rumore; come un bocciolo che si apre al richiamo del tiepido calore primaverile l’intera sfera pare schiudersi davanti ai miei occhi meravigliati.


È bellissimo. 

Su una superficie bianca come il latte sembrano incastonate tante piccole gemme, tonde, rosse e all’apparenza preziose come rubini, splendenti quanto il riflesso delle fiamme cremisi che riflettono su di esse le movenze fluide della propria luce calda.

Ma nonostante il nuovo aspetto della sfera sia di uno splendore innegabile, non è ciò che vedo, che mi fa dilatare le pupille, affilare l’attenzione. 


È il profumo. 

Se prima mi era parso quasi di poter sentire un’intera stagione, ora riesco a sentirne la consistenza sulla lingua.

Sfioro una gemma con le dita. E come in risposta al mio tocco, gocce rosse iniziano ad uscirne, la freschezza purpurea sulla mia pelle chiara. 

Il piccolo rubino ha sanguinato per me. 

Il suo succo cremisi mi scivola tra le dita, ora rosse come se ne avessi immerso le punte nel sangue scarlatto di una creatura vivente, di un guerriero che ha rinunciato alla sua vita per me. 

Come da una teca di cristallo, mi sembra di accorgermi che i suonatori hanno ancora una volta accelerato il ritmo, i passi felini dei demoni diventati rapidi e sfuggenti come piume che, agitate dal vento, non sembrano neanche sfiorare la terra.


So che Ade mi sta osservando. 

So che non ha mai smesso di farlo. Ma adesso non riesco a guardarlo.

Non quando rosso cremisi è tutto ciò che vedo, il profumo dolce e inebriante tutto ciò che sento, la fame che mi assorda tutto ciò che ho.

 

Tutto sfuma in quel colore avvolgente, la vista si annebbia nella luce cremisi, io non sono più... niente.

Vedo la mia stessa mano avvicinarsi al mio volto, le lacrime di sangue che tracciano scie scarlatte tra le dita, sulle mani, sulla pelle bianca dei miei polsi. 

 

Rosso. 

 

Rido, l'eco della mia voce divertita che mi riecheggia nella testa. Mi sento una regina, regina di quel rosso scarlatto che mi circonda e mi riempie, che mi pervade come fosse il mio stesso sangue, il mio stesso essere. 

Oh.

Tra le dita ora tengo tre perle, rosse e lucenti. Piano, con delicatezza, però, o ancora le gocce scarlatte giocheranno a rincorrersi, beffardi, sulla mia pelle bianca.

La musica ora è tornata, più forte che mai. 

E se per un attimo aveva dimenticato la fame, adesso non riesco a pensare ad altro.


Le tre piccole sfere rubino scivolano nel mio palmo, brillano, il loro succo profumato che continua a lasciare scie rosse sulla mia pelle.


                                                             
Le avvicino al volto

                                                                                                                          le arpe  

                                                                                                                                  un vortice di suono                

                                                             Ne inalo il profumo

                                                                     inebriante

                                                                                                                        i demoni ballano

                                                                                                                        tutti attorno a me

                                                                  sfioro il rosso

                                                                   con le labbra 

                                                                                                                     i tamburi

                                                                                                                     il mio cuore


 socchiudo

la bocca


e

 

 

 

Sono perduta.

Nel momento in cui deglutisco, mi rendo conto di quel che ho fatto. 

Alzo attonita lo sguardo, i miei occhi terrorizzati che cercano una via di fuga, qualsiasi cosa che riesca a provarmi che non ho appena fatto ciò che temo di aver fatto. 

Ma le mie mani sono rosse, tinte dal quel succo afrodisiaco, macchiate come quelle di un assassino, di un criminale. 

E quando incrocio lo sguardo di Ade, rimasto silente, le dita di ragno immobili su quella guancia di marmo, la sciocca speranza si spegne come una candela esposta al più gelido vento d’inverno. 

 

So che non avrei dovuto farlo. 

È una regola semplice, che ogni bambino conosce; che ogni essere, umano o divino, sa di dover rispettare. 

Il cibo dei morti è la condanna dei vivi. Una volta posate le labbra su un frutto dell’aldilà, della terra nascosta, parte di me non sarà… più.

Parte di me, realizzo con orrore, non è... già più.

 

Spingo violentemente la sedia all’indietro, e mi alzo di colpo; le gambe, le braccia, ogni cosa non fa che tremare.

Il respiro mi si mozza, mi afferro il volto con le mani e stringo le palpebre, aspettando il dolore...

che non arriva.

 

Riprendo a respirare, anche se con cautela. Tengo gli occhi chiusi, ma scosto le mani dal viso, allungo rigidamente le braccia lungo i fianchi.

Aspetto che da un momento all’altro un dolore sordo mi assalga, mi trafigga come molteplici lame affilate...

Ma sono dita morbide quelle che mi stringono gentilmente le spalle, un tocco delicato ma abbastanza deciso da tenermi ferma.

“Persefone”.

 

Apro gli occhi. 

Ade è di fronte a me. Mi guarda, gli occhi che sembrano riflessi dell’oscurità stessa, delle profondità più buie dell’oceano.

Riprendo a respirare.

Mi carezza piano la guancia, le dita fredde, il tocco leggero.

Deglutisco, ma non distolgo lo sguardo, né lo abbasso. 

 

Non ho paura. 

Voglio solo sapere. 

 

Lentamente, vedo le labbra sottili del dio della morte curvarsi in un velato sorriso, gentile, appena accennato. 

Ma sono i suoi occhi.

Fiamme nere, calde di un calore impossibile da sostenere. Bruciano con l’intensità di mille soli, eppure sono più neri della notte.

“Persefone”.

Non distolgo lo sguardo. Non muovo nemmeno un muscolo.

E allora, Ade parla ancora.

“…mia regina”.

 

 

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