La zona rossa di Brin (/viewuser.php?uid=543)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** vivere a Rosya ***
Capitolo 3: *** dibattuta ***
Capitolo 4: *** guardare la morte in faccia ***
Capitolo 5: *** un nome che non c'è ***
Capitolo 6: *** Artika ***
Capitolo 7: *** rinascita ***
Capitolo 8: *** rapimento ***
Capitolo 9: *** inseguimento ***
Capitolo 10: *** confidenze ***
Capitolo 11: *** la città dei reietti ***
Capitolo 12: *** il gatto e il topo ***
Capitolo 13: *** il cerchio si stringe ***
Capitolo 14: *** nel buio del camino ***
Capitolo 15: *** fuga ***
Capitolo 16: *** un posto nel mondo ***
Capitolo 17: *** verso la libertà ***
Capitolo 18: *** i tre nomi del tradimento ***
Capitolo 19: *** rabbia ***
Capitolo 20: *** la zona rossa ***
Capitolo 21: *** una persona importante ***
Capitolo 22: *** verità ***
Capitolo 23: *** l'identità dietro la maschera ***
Capitolo 24: *** condanna a morte ***
Capitolo 25: *** epilogo ***
Capitolo 1 *** prologo ***
lzr
Alla fine l'ho
fatto. Ho ripescato questa storia dal cilindro delle mie storie.
Mi son detta che
se non l'avessi fatto, probabilmente La
zona rossa non avrebbe mai visto la luce su EFP perché il
tempo è quello che è e la revisione di questa storia sarebbe andata
a data da destinarsi.
Così ho preso il
coraggio a due mani (che fatica, non vi dico l'ansia!!), ho mandato a
farsi benedire le mie fregole da perfezionista e ho deciso di
sottoporvi questa storia così com'è stata concepita e scritta
qualcosa come cinque anni fa. Perciò prendete una buona dose di
coraggio, mettetevi comode e buona lettura!
Ps: un grazie enorme alla mia insostituibile Roberta, l'autrice del
meraviglioso banner di questa storia. Non saprei davvero come fare
senza di te, amor!
1.
PROLOGO
*
I
fiocchi di neve scendevano leggeri
e silenziosi, una nevicata fitta che possedeva la grazia crudele
tipica della natura più selvaggia. Non c’erano luci che potessero
vincere la cortina di nubi che sovrastava Halifax; neppure la luna,
ridotta a un pallido alone, riusciva a disperdere il candore
spettrale che teneva prigioniero il cielo.
Ecco
cos’era diventata la città: un panorama irreale senza forme né
colori, che sfumava verso i contorni onirici e indefiniti di un
incubo. Un paesaggio sempre uguale, muto. Sommerso.
Erano
bastate poche ore e una nevicata corposa per ricoprire ogni cosa,
nascondendo le strade, le case e gli alberi sotto una cortina di neve
che era destinata a crescere.
Halifax
era diventata improvvisamente una città immobile, estranea allo
scorrere del tempo, e lui… Lui era come un parassita; l’unico a
camminare in quell’ambiente inospitale, come un fantasma
appartenente a tempi passati.
Non
c’era altro rumore che non fosse il crepitio ovattato della neve
che si infrangeva sotto i suoi piedi: non un movimento, né calore,
né vita. Sembrava essere rimasto l’unico sopravvissuto in quella
città monocromatica e spettrale, l’ultima persona a percorrere
quelle strade deserte.
Arrancava
con difficoltà, ormai giunto al limite delle proprie forze.
Ogni
passo gli risultava più faticoso del precedente e, nonostante
cercasse disperatamente di non fermarsi, la neve sembrava volerlo
imprigionare con le sue mani invisibili. Respirare poi era un’agonia:
l’aria gelida gli mozzava il fiato, lo costringeva a boccheggiare
per cercare ossigeno nel tentativo di trovare un compromesso con il
dolore.
Tremava
convulsamente, gli arti intirizziti dal freddo lancinante.
Probabilmente aveva più di qualche taglio sulle labbra: il bruciore,
ormai divenuto una compagnia costante, lo stava facendo impazzire.
Non sarebbe riuscito a reggersi in piedi ancora a lungo, lo sapeva
bene, ma il bisogno disperato di continuare a camminare lo
costringeva a ignorare la fatica. Si sentiva terribilmente debole, ma
non gli importava.
Non
poteva fermarsi, non doveva.
Non ora che si trovava davanti all’enorme porta che delimitava
l’uscita dalla città.
La
stanchezza lo pugnalò alla schiena, infida e traditrice; le
ginocchia cedettero, ma nella sua mente quel grido non cessava.
Esci.
Respirò
a fondo e il gelo gli trafisse i polmoni come se fosse un coltello.
Faceva dannatamente male. Si impose di compiere un ultimo sforzo,
sentì i muscoli protestare, ma la disperazione rendeva la sua
volontà più forte di qualsiasi dolore.
Esci!
Riuscì
a oltrepassare la porta e finalmente si concesse di cedere alla
stanchezza, stremato. Si accasciò al suolo come se fosse un corpo
senza vita, e rimase con lo sguardo basso per minuti interminabili.
Sconvolto.
Non
ricordava nulla.
La
sua mente era costretta nel caos, un brodo informe in cui pensieri
sconnessi si susseguivano senza dargli tregua; un groviglio privo di
ordine che sfuggiva al suo controllo. Per quanto cercasse di
raccapezzarsi su cosa fosse accaduto mentre il corpo sfuggiva al suo
controllo, la memoria gli restituiva nient’altro che frammenti in
ombra; immagini sfuocate senza forma.
L’unica
cosa che sapeva con certezza era che la sua testa era rimasta avvolta
nel buio più totale per un tempo che non avrebbe saputo
quantificare, prima di essere investita da una luce accecante e
tremenda. Quando si era reso conto dello scenario agghiacciante che
lo circondava aveva gridato ancora e ancora, piegato da un orrore che
non avrebbe mai voluto vedere. Un orrore che era la sua croce e che
era ancora lì, alle sue spalle.
Sapeva
qual’era la scena che sarebbe apparsa ai suoi occhi se si fosse
voltato: per uscire da Halifax era stato costretto a passargli
accanto. Aveva fissato quegli occhi sbarrati e vuoti, quelle bocche
contorte, spalancate in smorfie del dolore più indicibile. Loro da
una parte e lui dall’altra, di fronte alle porte dell’abisso.
Separati dal confine della morte.
Tremò
e diede di stomaco, ma si costrinse a guardarli. Voleva imprimersi
per sempre quella desolazione nella memoria per non dimenticare. Per
lottare contro un destino che non riconosceva. Per opporsi al motivo
per cui era nato.
Quando
guardò ciò che rimaneva della città, lottò contro l’impulso di
distogliere lo sguardo. Doveva imprimersi nella mente quella visione
e alimentare il suo odio.
Cadaveri.
Centinaia
di corpi contorti riversi a terra, coperti da un leggero strato di
neve; le mani chiuse a pugno, le membra tese dagli spasmi. Gli occhi
pieni dell’orrore che li aveva condotti alla morte, le bocche ormai
silenziose spalancate in grida disumane.
Questa
era la sua vita. La sua natura.
Avrebbe
voluto fuggire dal suo destino, ma non era possibile.
Lo
sapeva bene: questo incubo non avrebbe mai avuto fine.
*
Erano passate diverse settimane dall’inizio della
primavera, e Rosya sembrava rinascere assieme alla bella stagione.
Era la città più grande e popolata, la capitale del regno di
Silindril. La più bella, secondo la maggior parte delle persone.
Rappresentava il vanto degli elfi, la razza che l’aveva
costruita dalle fondamenta. Quando arrivarono i maghi assieme agli
uomini, poi, Rosya subì una commistione di stili che la rese del
tutto particolare. Durante l’inverno la sua bellezza sembrava
dormire, ma con l’avvento della primavera il sole la faceva
brillare come un gioiello. Si diceva che nelle giornate più limpide
il suo splendore arrivasse lontano, oltre l’immensa distesa d’acqua
che separava il regno dalla terra dove abitavano i demoni, e facesse
rodere d’invidia quelle creature oscure che potevano vantare
solamente buio e rovina.
Quel giorno, in particolare, le conferiva un lustro e
una maestosità d’eccezione: raramente Rosya era stata testimone di
mattine così calde e soleggiate. Camminare per le strade che si
perdevano negli angoli più pittoreschi, con il tepore del
mezzogiorno a baciare il viso, era un’attività che poteva
risultare piuttosto piacevole e i commercianti ne approfittavano per
invogliare i passanti con promesse di deliziose focacce appena
sfornate.
Purtroppo per loro, però, gli affari avrebbero dovuto
attendere: nell’aria c’era un fermento impaziente, la gente
scalpitava davanti al dipartimento di polizia e mormorava preoccupata
per quel caso che aveva destato molto scalpore.
Del resto, nessuno avrebbe potuto biasimarla.
L’intenso vociare proveniente dal cortile era un
sottofondo che non spezzava la tensione nella stanza. Un uomo in
uniforme era appoggiato contro il muro, con le braccia incrociate al
petto e un cipiglio serio che stonava sul suo volto maturo e di
bell’aspetto. Portava i capelli corti, com’era in uso tra le
forze dell’ordine, e i suoi occhi nocciola studiavano con
attenzione la persona che gli stava davanti. Quando parlò, la sua
voce rivelò un’inflessione profonda e severa.
«È stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
La domanda parve cadere nel vuoto. Nessuna risposta,
soltanto silenzio. Il suo interlocutore, un giovane uomo di circa
vent’anni, guardò annoiato il poliziotto e si accomodò con i
piedi sopra al tavolo. Aveva gli occhi grigi, di una tonalità così
scura da renderli decisamente particolari. Quando l’agente sospirò
stizzito, l’interrogato si aggiustò una ciocca di capelli neri che
gli cadeva indisponente davanti un occhio, e abbozzò un leggero
sorrisetto.
Sembrava non avere intenzione di collaborare.
Il poliziotto gli si parò di fronte con fare
intimidatorio, deciso a farlo parlare, ma il giovane non rimase
affatto impressionato. Gli rivolse uno sguardo strafottente, come se
negasse la sua autorità, come se sfidasse il suo ruolo di agente.
«Se anche fossi stato io non lo verrei certo a dire a
lei, quindi in entrambi i casi la risposta è no» gli rispose con
indifferenza. Per il poliziotto fu troppo: con una manata gettò i
piedi dell’imputato a terra, e si protese verso di lui con aria
minacciosa. Lo avrebbe costretto a collaborare, che lo volesse o
meno.
«Si rende conto della gravità della situazione? È
l’unico superstite della strage di Halifax, città alla quale per
altro non apparteneva. È
accusato di omicidio di massa, signor Warknife!»
«La ringrazio dell’informazione, ma lo avevo intuito»
rispose con un ghigno ironico.
Il poliziotto fu costretto a distogliere lo sguardo nel
tentativo di mantenere il sangue freddo.
Se voleva conservare la propria autorità e avere una
possibilità di strappargli una confessione, l’ultima cosa che
doveva fare era mostrarsi agitato. Doveva assumere un atteggiamento
severo, duro, per nulla permissivo. E soprattutto controllato.
Gettò un’occhiata spazientita verso il lungo specchio
unidirezionale incastrato nella parete. Sapeva che i suoi colleghi
potevano vedere e sentire ogni cosa, ma in quel momento non potevano
aiutarlo a mantenere la calma. Tutto dipendeva dalle sue capacità, e
l’impressione che l’uomo seduto di fronte a lui si divertisse a
giocare con la sua pazienza non aiutava di certo.
Sospirò, pronto ad affrontare di nuovo un confronto con
il presunto assassino.
«Glielo chiederò un’altra volta: è stato lei a
uccidere gli abitanti di Halifax?»
«Perché mi fa questa domanda se sa già che qualunque
cosa io dica finirò comunque ad Artika? »
«Non risponda alla mia domanda con un’altra domanda!
»
Si rese conto di aver alzato la voce soltanto dopo
essersi lasciato scappare quelle parole. Warknife lo osservò per un
attimo prima di rispondere.
«Lei vuole una risposta, giusto? Un sí o un no? »
«La pregherei di rispondere alla mia domanda fornendomi
una risposta, signor Warknife.»
«La mia risposta l’ho già data, agente Silver»
concluse pacato, osservando la targhetta che brillava sul petto del
poliziotto.
«Vorrei che fosse più chiaro.»
Il giovane uomo guardò Silver di sottecchi prima di
alzarsi, ma i due nerboruti agenti di guardia gli furono subito
addosso. Lo costrinsero a sedersi, sfruttando la tacita minaccia di
una punizione corporale che pochi stolti avrebbero scelto.
«L’accoglienza è piuttosto calorosa» commentò con
sarcasmo, ma la battuta scivolò addosso a Silver senza alcun
effetto.
«Per piacere, mi risponda con un sí o con un no: è
stato lei a... »
«Prima di gettare il mio no nella spazzatura assieme a
tutte le scartoffie che ci sono nel suo ufficio, mi faccia un favore:
la smetta di chiedermi se sono stato io ad aver sterminato quella
città, visto che sa già che non cambierà nulla.»
Quella risposta lasciò Silver decisamente confuso: non
se l’aspettava. Non riusciva a capire che cosa volesse ottenere.
Gli sembrava alquanto strano che rinunciasse con così tanta facilità
a difendere la propria innocenza, ammesso che ce l’avesse. Di
questo passo Artika sarebbe stata una tappa sicura per quel giovane,
e non c’era una sola persona al mondo che non sapesse che una volta
entrati era impossibile uscirvi.
Rimase interdetto, incapace di formulare una risposta, e
Warknife ne approfittò per alzarsi. I due agenti della sicurezza gli
furono addosso nell’istante successivo, afferrandogli saldamente le
braccia per impedirgli una possibile fuga. Lo sbatterono addosso al
tavolo, incollandogli la faccia alla superficie fredda. Ma
dall’espressione del ragazzo, Silver intuì che tentare di fuggire
non era il suo piano. Sembrava stanco.
«È finito l’interrogatorio, agente Silver? La scorta
mi sta aspettando fuori e credo che siano piuttosto impazienti di
buttarmi a marcire in una cella ad Artika.»
«Se non vuole collaborare e raccontarci che cosa è
successo esattamente, dubito che potrà evitare di alloggiare in una
suite del carcere di massima sicurezza, signor Warknife.»
«E se le dicessi che non ricordo nulla di ciò che è
accaduto, lei mi crederebbe? »
«No.»
«Ecco, appunto. Quindi perché sta sprecando del tempo
se la mia sorte non può cambiare?»
«È la procedura.»
«Ottima motivazione, agente Silver. Davvero ottima»
sentenziò con sarcasmo prima di riuscire a vincere la resistenza dei
due agenti della sicurezza e alzarsi. Silver portò rapidamente una
mano alla fondina, estraendo la pistola e puntandogliela contro.
Aveva fatto male i suoi calcoli. Aveva abbassato la guardia, e se il
prigioniero fosse riuscito a fuggire sarebbe stata soltanto colpa
sua.
«Fermo lì.»
Warknife osservò la pistola con indifferenza, per nulla
intimorito. Non alzò neppure le mani.
«Si rilassi, agente Silver. Non ho intenzione di fare
nulla» mormorò, gettando un’occhiata fugace allo specchio
unidirezionale. I due agenti della sicurezza gli furono di nuovo
addosso, costringendolo a sedersi. Silver abbassò la pistola, ma
notò qualcosa nello sguardo di Warknife. Un guizzo che non riuscì a
decifrare.
«Comunque…» cominciò l’interrogato continuando a
guardare lo specchio unidirezionale «...
riferite pure ai vostri strizzacervelli che se mi devono analizzare
possono farlo benissimo anche senza nascondersi dietro a uno
specchio. Essere spiato mi infastidisce.»
Silver rimase spiazzato, e la prima cosa che si chiese
fu come facesse a sapere di essere l’oggetto di una perizia
psicologica. Guardò lo specchio, ben sapendo che non sarebbe
riuscito a vedere dall’altra parte. Come aveva fatto? Quando
riportò l’attenzione su Warknife, quest’ultimo non ci mise molto
a cogliere la domanda negli occhi del poliziotto. Sulle sue labbra si
disegnò un sorriso sottile. Sornione.
«So che cos’è uno specchio unidirezionale agente
Silver, e so anche che può rivelarsi estremamente utile per
osservare un soggetto senza influenzarne il comportamento. In un caso
come il mio, il parere di qualche strizzacervelli è necessario, non
è d’accordo?»
«Ma come... Lei mi ha forse...» Silver divenne ancora
più stupito. Warknife sogghignò con una luce maligna nei suoi
occhi, per la prima volta da quando era entrato nella stanza.
«Non sia banale agente Silver, ce l’ha scritto in
faccia. Come potrei leggerle nel pensiero? Sono soltanto un
insignificante essere umano, non un demone» terminò facendogli
notare l’assenza di canini pronunciati, tipici della morfologia
demoniaca.
Il poliziotto lo guardò negli occhi con cipiglio serio,
sostenendo il suo sguardo che sembrava deriderlo. Sospirò, scuotendo
leggermente il capo, avvilito.
«Come vuole, Warknife.»
*
Quando i due agenti lo trascinarono fuori dalla stanza,
il prigioniero non oppose alcuna resistenza.
Prima di attraversare l’uscio guardò Silver negli
occhi, sorridendo ambiguamente.
«Ci vediamo, agente.»
Parole che suonarono come l’atto finale di una lunga
commedia, o almeno questa era l’impressione che avevano suscitato
nel poliziotto. Lo vide prendere un profondo respiro prima di uscire
per andare incontro al suo destino, e in quel momento Silver seppe
che l’immagine di quel ragazzo, con i polsi e le caviglie
incatenati, lo avrebbe accompagnato per molto tempo. Gli era capitato
tante volte di trovarsi davanti a persone strafottenti, che sfidavano
la sua autorità apertamente. Ma nessuno era Warknife.
Nessuno aveva mai dimostrato la calma che lui aveva
mantenuto durante l’interrogatorio. In molti si disperavano, o
aggredivano con le parole. Aveva visto persone passare in pochi
istanti da uno stato di euforica esaltazione alla più cupa
disperazione, ma l’atteggiamento calmo e rassegnato di Warknife era
una vera rarità.
Aveva accettato senza turbamento un destino che
l’avrebbe condotto a vivere i suoi ultimi giorni di vita in una
cella, prima dell’esecuzione capitale: anche questo faceva parte
dell’alone di mistero che sembrava circondarlo da quando era stato
ritrovato a gironzolare attorno alle mura di Halifax come un’anima
intrappolata nel mondo dei vivi, l’unica presenza in una città
fantasma i cui abitanti erano tutti misteriosamente morti.
Silver ricordava chiaramente ciò che gli era stato
riferito dopo un lungo passaparola. Si mormorava di quest’uomo che
vagava, confuso. Ogni altra creatura nell’intera città era stata
ritrovata priva di vita, e la cosa più insolita era lo stato in cui
erano stati rinvenuti i cadaveri: non c’era neppure una singola
chiazza di sangue. Tutti i corpi erano perfettamente intatti.
Sembrava che il tempo si fosse fermato, e con esso anche
la veglia dei suoi abitanti. Benché si cercasse una spiegazione
razionale, però, nessuno riuscì mai a dire che cosa fosse realmente
accaduto quel giorno.
Sbuffando e maledicendo i propri pensieri, Silver
afferrò la cartella che si trovava sopra il tavolo e uscì dalla
stanza. Percorse il corridoio finché raggiunse la porta accanto. La
camera dello specchio: così chiamavano la stanza adibita alle
osservazioni degli interrogatori. Non era molto grande, e delle
lampadine incassate sul soffitto illuminavano l’interno.
Tre persone stavano discutendo dell’interrogatorio a
cui avevano assistito: due ragazze e un uomo anziano. Reggevano delle
cartelle contenenti fogli e una penna per scrivere annotazioni.
Quando si accorsero della presenza del poliziotto, si zittirono.
Silver sorrise, imbarazzato per aver interrotto quello
scambio di opinioni. L’uomo gli si avvicinò: era il professor
Santos, uno dei più famosi ed esperti psicologi criminali di tutta
la regione. Grazie alla sua età aveva molta pratica alle spalle, ma
nonostante tutto sembrava non voler lasciare il lavoro che amava. La
calvizie avanzava inarrestabile e tutto ciò che aveva in testa erano
pochi capelli grigi, ma i suoi occhi rivelavano una vitalità e una
lucidità mentale che scarseggiavano in gran parte dei suoi coetanei.
La sua vasta esperienza lo rendeva indispensabile alla polizia, per
non parlare della sua bravura: spesso veniva chiamato per fornire un
prospetto psicologico degli indiziati nei casi più complessi. Come
se non bastasse era titolare di una cattedra d’insegnamento alla
scuola per Psicologi di Rosya, ed era decisamente probabile che le
due ragazze fossero sue allieve: erano piuttosto giovani, e a
giudicare dall’aspetto dovevano avere all’incirca diciassette
anni. Una -la più alta e slanciata- aveva i capelli neri, portati
raccolti in una coda lunga che lasciava scoperte le orecchie. La loro
foggia era tipica della razza elfica. La targhetta assicurata sul suo
camice portava il suo nome.
Amaya Lyrem.
L’altra aveva i capelli castani, tenuti raccolti in
una crocchia fermata con una matita mangiucchiata. Era umana, al
contrario dell’amica.
Sari Kalabis, questo il nome
sulla sua targhetta.
Capitava spesso che degli studenti frequentassero il
dipartimento di polizia per svolgere attività di tirocinio, perciò
Silver non si stupì più di tanto nel trovare lì le due ragazze. A
giudicare dal soggetto con cui svolgevano il loro praticantato,
dovevano essere anche piuttosto in gamba.
«Victor, amico mio» Santos salutò il poliziotto con
una poderosa stretta di mano. Silver gli porse i fascicoli, guardando
con curiosità lo psicologo.
«Allora, cosa ne pensi?» gli chiese mentre l’uomo
apriva e dava una rapida occhiata al materiale nelle sue mani. Santos
rimase in silenzio per alcuni istanti, leggendo in velocità il
contenuto dei fascicoli.
«Il ragazzo è sicuramente molto lucido. Ha coscienza
di tutto ciò che dice e dell’effetto che ogni sua parola ha sui
soggetti che lo ascoltano, e il giocare con quell’effetto lo
diverte molto. È furbo, e dubito che possa aver avuto veramente un
raptus come lui stesso indirettamente sostiene. Non posso dirti di
più se prima non lo sottopongo a test più specifici» concluse lo
psicologo porgendo i fascicoli a Silver, che scosse
impercettibilmente il capo.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani.
«Temo non sia possibile: ad Artika non concederanno più
di tre giorni, a uno come lui.»
*
La folla era rimasta in attesa all’esterno
dell’edificio, e la ferocia delle sue grida aumentava con il
passare delle ore. Gli agenti della sicurezza riuscivano a stento a
mantenere l’ordine, e i cittadini minacciavano da un momento
all’altro di oltrepassare le transenne. Erano impazienti,
arrabbiati, e chiedevano giustizia.
Per Silver scene come questa non erano nuove: la
popolazione era sempre stata particolarmente sensibile verso i
crimini efferati. Soltanto le due studentesse sembravano a disagio,
in mezzo a quel frastuono. Quando erano usciti dal dipartimento le
aveva avvisate, cercando di prepararle a quello che avrebbero visto
nel cortile, ma evidentemente non era stato sufficiente.
All’improvviso la folla cominciò ad agitarsi ancora
di più, cercando di sfondare le transenne per riversarsi verso
l’entrata dello stabile: Warknife stava uscendo.
Era letteralmente circondato da argenti armati, mentre
altri due poliziotti lo aspettavano di fronte al blindato che avrebbe
dovuto condurlo ad Artika. Aveva i piedi incatenati, in modo che non
potesse compiere grandi passi, mentre una camicia di forza gli
immobilizzava le braccia e le mani. Tutt’attorno, la folla
fischiava e gridava pesanti insulti, che scivolarono addosso al
prigioniero come fossero acqua. Warknife si limitò ad accennare un
sorriso vagamente strafottente, abbassando il capo e osservando di
sottecchi tutta quella gente chiassosa e sputasentenze. Quando i
poliziotti lo spinsero avanti costringendolo ad avanzare, con la coda
dell’occhio riuscì a scorgere una figura familiare.
Si voltò, salutando Silver con un cenno della testa. Un
saluto che il poliziotto non ricambiò.
Lo sguardo di Warknife si posò sulle giovani ragazze
accanto a Silver, indugiando sui caldi occhi nocciola di una delle
due. La sua statura e soprattutto la forma delle sue orecchie gli
suggerivano che fosse un’umana. Il suo sguardo spaesato lo fece
sorridere: sembrava che per lei fosse impensabile tutta quella
ostilità, nonostante la folla gridasse con insistenza la sua
colpevolezza per quel
crimine orrendo definendolo un assassino.
La ragazza distolse lo sguardo, a disagio. Quel modo di
guardare; quella luce negli occhi di quell’assassino, così
penetranti, così impudenti, così comunicativi...
Aveva colto ciò che quello sguardo voleva comunicarle.
Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non è
come sembra.
E la forza con cui quel messaggio era penetrato in lei
la turbò.
Era una frase disillusa, di chi è stato segnato da
troppe cose.
Ma in lui non sembrava esserci lo sguardo
dell’assassino.
Non in quel momento.
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Come forse avrete immaginato, questa storia è
totalmente diversa da ciò che ho scritto fin'ora (non che abbia
scritto molto, per carità!), e non solo per quanto riguarda lo
stile, sicuramente molto più acerbo rispetto a quello attuale.
Questo capitolo e il prossimo sono introduttivi, vi avviso, la vera
storia inizierà dal terzo capitolo. Ma spero che il gioco saprà
valere la candela ;)
Vi ricordo che potete trovarmi su facebook con il
mio contatto e nel mio gruppo: mi fa sempre piacere poter scambiare
due chiacchiere con voi!
Ci rivedremo giovedì prossimo con il secondo
capitolo de La zona rossa, dal titolo Vivere a
Rosya. Un
saluto,
Brin
|
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Capitolo 2 *** vivere a Rosya ***
2
2.
VIVERE
A ROSYA
*
Suo padre la stava guardando seduto dall’altra
parte del tavolo, con gli occhi che gli brillavano d’amore. Non
aveva il coraggio di interrompere il racconto appassionato di Sari
riguardo agli studi che lei stava conducendo, e la ascoltava parlare
con un sorriso orgoglioso che le scaldava il cuore.
La guardava come se fosse il suo tesoro più
prezioso, con quegli occhi scuri e profondi che esprimevano tutto
l’affetto unico, speciale e indissolubile che lega un genitore alla
sua unica figlia.
Lo stesso sentimento che anche la madre di Sari gli
leggeva in volto.
Quel giorno Adrian era tornato a casa con una notizia
che aveva messo tutta la famiglia di buon umore: aveva ricevuto una
promozione. L’impegno e la dedizione che aveva sempre profuso nel
lavoro avevano dato i loro frutti. Sarebbe stato trasferito ad Artika
l’indomani, per raccogliere l’eredità del suo predecessore alla
guida del reparto di psicologia e psichiatria del carcere. Un motivo
più che sufficiente per festeggiare.
Avevano organizzato una festa piuttosto intima: solo
loro tre, da soli. Non avevano bisogno d’altro per stare bene.
Erano felici. Sari poi era così orgogliosa di suo padre da
commuoversi. Quando aveva saputo della sua promozione era corsa a
setacciare tutti i negozi assieme alla madre, alla ricerca di un
regalo importante, lo stesso che stringeva tra le mani in quel
momento. Era chiuso in un pacchettino luccicante, piccolo ma
grazioso.
«Un pensiero per te» sorrise mentre glielo porgeva,
emozionata. Lui scartò il regalo, rigirandoselo tra le mani mentre
lo guardava con meraviglia: era un orologio da taschino in argento,
piccolo ed elegante. Le sorrise e l’abbracciò, porgendole un bacio
amorevole sulla fronte.
«Grazie bambina mia.»
«Papà, non ho più cinque anni» lo ammonì,
guardandolo contrariata. L’uomo si mise a ridere.
«Hai ragione, Sari. Sono un caso irrecuperabile.»
La madre della ragazza -Emma il suo nome- guardò i
due scherzare, e sorrise. Per quanto il marito si sforzasse di
trattare Sari come un’adulta, ai suoi occhi sarebbe sempre rimasta
la figlia fragile da tenere nel nido, al sicuro dai pericoli del
mondo.
«Che cosa ti ha regalato, Adrian?»
«È un orologio, tesoro» rispose sollevando il
regalo.
Guardandolo sorridere felice in compagnia della sua
famiglia, Sari fu colta dalla malinconia. Dal giorno successivo
l’avrebbe rivisto soltanto durante le feste e in qualche raro fine
settimana. Avrebbe vissuto per la maggior parte dell’anno negli
alloggi allestiti appositamente per il personale del carcere, senza
di loro. Senza di lei.
Doveva ancora partire e già sentiva la sua mancanza
come se le avessero strappato un pezzo di cuore.
Suo padre. Il suo modello. Il suo idolo.
Sorrise.
Un sorriso triste, di una ragazzina dodicenne
costretta a separarsi dal padre tanto amato.
«Buona fortuna.»
Le immagini del sogno sfumarono, e Sari mugugnò ancora
intontita dal sonno. L’orologio sul suo comodino segnava le sette
della mattina: un’autentica tragedia, per lei che aveva l’assoluta
necessità di alzarsi con tutta calma e prepararsi senza fretta.
Schizzò giù dal letto e si precipitò in bagno, con le immagini del
sogno che facevano da sfondo al martellante pensiero di essere in
ritardo.
Si lavò il viso velocemente con l’acqua gelida: un
contatto atroce con la pelle accaldata, che cancellò ogni traccia di
sonno ancora superstite. Se si sbrigava, avrebbe potuto recuperare il
ritardo e arrivare a lavoro in perfetto orario. Poteva farcela.
Corse verso la camera, così presa dalla fretta da non
accorgersi dello stipite della porta, perfettamente in linea con la
spalla. Quando andò a sbatterci addosso, ormai, era troppo tardi.
Represse a stento un’imprecazione. Cercò la finestra
nel buio, improvvisamente più prudente.
Il dolore sordo alla spalla aveva ridimensionato la sua
fretta, e il pensiero di arrivare in orario era passato
improvvisamente in secondo piano. Sollevò la tapparella, e la luce
inondò la camera ferendo gli occhi di Sari. L’aria fresca e
pungente del mattino le solleticò piacevolmente il viso, e si
concesse di indugiare sul panorama per una manciata di minuti. Giusto
il tempo necessario perché la spalla smettesse di pulsare.
C’era vegetazione ovunque. Boschi rigogliosi
circondavano il colle su cui si stagliava Rosya, rendendo assai
piacevole il contrasto di colori tra la vegetazione e la città.
Non poteva dare torto a chi diceva che la capitale fosse
la città più bella di tutta Silindril. Sarebbe bastato vederla da
lontano per affermarlo; chiunque sarebbe stato d’accordo.
Ma nonostante il suo splendore, Rosya possedeva anche un
lato grigio che la maggior parte delle persone si ostinava a non
voler vedere. I poveri erano più numerosi dei ricchi e relegati
nelle zone più esterne della città; gli umani dovevano sopportare
in silenzio i soprusi dei maghi che, forti della loro ormai accertata
mutazione, li trattavano con arroganza.
Nelle sue strade proliferava la criminalità e la
violenza, e molti soggetti socialmente pericolosi erano nati e
cresciuti proprio nella capitale.
Sari gettò una rapida occhiata al calendario: era il 10
ottobre, e ormai al compleanno di sua madre mancava una settimana.
Entro sette giorni avrebbe rivisto suo padre, di ritorno da Artika
per stare con la famiglia. Al solo pensiero il cuore di Sari si
gonfiò di felicità.
Non lo vedeva da molto tempo. Le mancava tutto di lui,
ma più di ogni altra cosa sentiva la mancanza delle lunghe
chiacchierate che facevano sempre dopo cena. Lo sentiva spesso per
telefono, ma non era abbastanza per compensare il vuoto che la sua
lontananza aveva creato.
Ripensò al sogno con un sorriso malinconico. Il ricordo
della partenza di suo padre, Adrian Kalabis, era ancora vivo nella
sua memoria. Erano passati sette anni da quel giorno, ma lei lo
ricordava nei minimi dettagli.
Ricordava quanto fosse leggero l’orologio da taschino
che gli aveva regalato come dono d’addio, e le sembrava di
rivederlo luccicare ogni volta che chiudeva gli occhi. Se glielo
avessero domandato, sarebbe stata in grado di elencare tutti i piatti
che sua madre aveva cucinato quella sera.
Le capitava spesso di domandarsi che cosa facesse suo
padre. Probabilmente in quel momento era seduto a una scrivania in un
ufficio scarnamente arredato a compilare scartoffie, o forse stava
interrogando qualche carcerato. L’idea che dovesse osservare il
comportamento dei detenuti le era sempre apparsa bizzarra, dal
momento che il suo giudizio non avrebbe mai potuto cambiare la
condanna. Ogni sentenza di reclusione era definitiva, e non venivano
ammesse commutazioni di pena. C’era un solo modo per far terminare
la prigionia, ed era uguale per tutti.
La morte.
Su questo la Corporazione era stata ben chiara.
Aveva immaginato molte volte come dovesse essere Artika.
Tutti sapevano che si trovava a nord, nel continente di ghiaccio.
Solamente poche persone conoscevano l’esatta posizione e tutte
avevano a che fare con il carcere, come chi vi lavorava all’interno
o chi riforniva periodicamente la prigione di viveri, medicine e
vestiario.
Per ragioni di sicurezza la sua ubicazione era da sempre
stata taciuta al resto della popolazione, dal momento che molti dei
suoi ospiti erano ritenuti tra i più pericolosi criminali del regno.
I bene informati sostenevano che i demoni fossero quelli
più numerosi. L’odio che correva tra loro e i maghi aveva giocato
la sua parte e aveva contribuito a diffondere una sorta di caccia
alle streghe: ogni creatura oscura scoperta nel regno doveva
tassativamente venire arrestata e sparire. La stessa sorte toccava a
ogni attività legata ai demoni, ritenuta clandestina.
E poi c’era la guerra.
Continuava da troppi anni, senza vincitori né vinti, e
la tensione che aveva creato sarebbe potuta cessare solamente con lo
sterminio di una delle due fazioni.
Ogni pretesto era buono per incarcerare un demone e
condannarlo a morte, soprattutto quello della guerra. Durante le loro
battaglie i maghi avevano trovato un alleato prezioso negli elfi:
avevano concordato un governo comune, nel quale erano stati coinvolti
anche gli esseri umani.
Era la Corporazione a governare attualmente: un
consiglio composto dai più anziani e saggi esponenti della società,
appartenenti alle famiglie più influenti e di antico lignaggio della
regione.
Era sorta come collaborazione per promuovere una
convivenza pacifica tra le razze, e ogni membro godeva di una
posizione paritaria rispetto agli altri. Questo in teoria.
Sebbene nessuno dovesse prevalere in quanto a potere e
influenza, in realtà le cose erano ben diverse.
La discriminazione nei confronti degli esponenti umani
aleggiava nella Corporazione come un fantasma, nonostante l’etichetta
imponesse un atteggiamento rispettoso, e tra tutti i membri una
persona spiccava per prestigio e autorevolezza.
Amos.
Uno dei maghi più anziani, la cui ascesa verso il
comando della Corporazione era stata troppo rapida.
Vera anima del consiglio, deteneva l’ultima parola in
merito a ogni questione, gestiva la conduzione del carcere, ed era
stato lui ad assegnare la promozione a suo padre. Lui
l’aveva mandato a lavorare a tempo indeterminato ad
Artika, costringendolo a viverci.
Persino la legge che stabiliva l’impossibilità di
recarsi in visita al carcere era un’altra delle assurde decisioni
di Amos. E la cosa peggiore era che quegli inutili pensieri le
sarebbero costati il posto di lavoro, se avesse indugiato ancora un
po’ sulle insensate decisioni della Corporazione.
Indossò la prima maglia pulita che riuscì a trovare,
assieme a un paio di jeans stazzonati. Afferrò la borsa e fece per
uscire, quando colse con la coda dell’occhio il suo riflesso allo
specchio. Sbuffò. Era sempre la solita.
Forse sarebbe il caso che ti pettinassi, Sari.
Rovistò con impazienza dentro al cassetto, ma la
spazzola non c’era. Si guardò attorno in preda all’agitazione,
cercando di ricordare dove l’avesse ficcata. Esultò quando la
trovò nascosta sotto una pila di vestiti usati riposti sulla sedia.
Sciolse i nodi con un paio di colpi secchi, ignorando il
dolore. Doveva sbrigarsi, o sarebbe arrivata in ritardo provocando il
malcontento dei suoi superiori. Decisamente non era il caso.
Quando uscì di casa, per poco non inciampò sulle
scale. Fu solo la sua prontezza di riflessi a salvarla, assieme al
prezioso aiuto del corrimano, e in quel momento Sari divenne
improvvisamente consapevole di una cosa: la giornata non stava
cominciando bene.
*
Sari entrò nell’ufficio del responsabile del
dipartimento di polizia con il respiro affannato. Aveva cercato di
arrivare prima che poteva, senza risparmiarsi una corsa disperata dal
parcheggio.
«Allora… Cosa abbiamo all’ordine del giorno?»
L’agente Silver sollevò appena lo sguardo dai
documenti che stava esaminando, e sorrise divertito.
«Nulla, se prima non ti riprendi un po’.»
«Sto bene Victor.»
Il poliziotto la guardò, scettico. I capelli erano un
disastro, scompigliati dal vento, e la maglia indossata al contrario
suggeriva che Sari si fosse svegliata in ritardo. Ma il viso paonazzo
era senz’altro la parte migliore del quadro: ebbe quasi paura di
vederla svenire da un momento all’altro.
Le indicò la sedia di fronte a lui.
«Siediti.»
La ragazza guardò Silver senza troppa convinzione.
Quando intuì che non le avrebbe assegnato nessun caso se non si
fosse seduta, decise di accontentarlo. Era così sicura di ricevere
una ramanzina per l’ennesimo ritardo, che quando Silver le allungò
un fascicolo Sari rimase stupita.
«Dobbiamo interrogarlo.»
Sui documenti spiccava una fotografia. Era immortalato
un uomo dall’aspetto piuttosto inquietante, con una benda nera a
coprirgli l’occhio sinistro. L’altro era di una strana tonalità
di grigio, tendente all’azzurro. Il suo viso era coperto dalla
barba, probabilmente vecchia di tre o quattro giorni. Silver guardò
Sari in attesa di un giudizio qualsiasi, ma il viso della psicologa
risultava imperscrutabile.
«È un caso un po’ delicato. Non sono molto
speranzoso al riguardo.»
«Di cos’è accusato?» Sari restituì il fascicolo, e
quando Silver si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita
dell’ufficio, la ragazza lo seguì. Raggiunsero la stanza dello
specchio, e lo vide.
L’uomo della foto era seduto al tavolo, nella stanza
accanto. Teneva le mani intrecciate, con i polsi incatenati. Dietro
di lui, due agenti controllavano che non tentasse la fuga.
«È accusato di uno dei più gravi crimini denunciati
dal codice penale del regno. Guarda la cartella. Pagina uno»
concluse Silver lasciandole la documentazione sul caso prima di
uscire.
Sari non indugiò oltre. La foto che aveva visto era
assicurata a un foglio, e nascondeva il nome del prigioniero. La
sollevò, e ciò che lesse le fece capire subito perché quell’uomo
si trovasse lì.
“Volker Kramer, accusato di attentato alla
Corporazione.”
Non poteva dare torto a Silver: aveva ragione quando
diceva che quello era un caso senza speranze.
Il reato di cui veniva accusato era punibile con la
carcerazione a vita, e gli sconti di pena non erano contemplati dalla
legge. Tutto dipendeva dall’esito dell’interrogatorio, ma Sari
sapeva che quell’uomo era l’ennesima persona ad avere il destino
segnato. La facilità con cui si rischiava la carcerazione a vita
all’inizio era sembrata a molti una cosa assurda, ma con il tempo
l’abitudine aveva rimpiazzato l’indignazione con l’indifferenza.
Era diventata una cosa ordinaria.
Anche quell’uomo sembrava non farci caso. Data la sua
tranquillità, Sari ebbe l’impressione che non si rendesse neppure
conto della gravità della situazione in cui si trovava. Si guardava
attorno con curiosità, nonostante l’arredamento della stanza fosse
tutt’altro che interessante.
Era piuttosto essenziale, a dire il vero. Non un
soprammobile, non un quadro, nulla che donasse una nota di colore a
quelle mura grigie e impersonali.
Forse quel Kramer era davvero curioso, oppure –l’opzione
che Sari ritenne più probabile- era semplicemente un modo per
occupare il tempo, in attesa dell’interrogatorio.
Quando l’agente Silver lo raggiunse, pochi minuti più
tardi, la prima cosa che fece fu sbattere un fascicolo sul tavolo.
«Allora, signor Kramer... Suppongo sia a conoscenza di
ciò di cui è accusato.»
Volker scrollò le spalle, gettando un’occhiata al
plico di fogli che aveva davanti.
«Sí, diciamo che qualche idea ce l’ho.»
«Lei era in possesso di oggetti dalla sospettata natura
demoniaca. È in contatto con demoni?»
Kramer guardò il poliziotto, sbalordito, e si lasciò
scappare una risata sommessa.
«Io? Con i demoni? Si sbaglia, agente. Non sa quanto si
sta sbagliando...»
«Però sono oggetti che hanno a che fare con la magia
nera, giusto? Ed è risaputo che i demoni ricavano la magia nera
dall’utilizzo dell’energia demoniaca...» obiettò scettico
Silver.
«Quelli sono gingilli d’importazione piuttosto
costosi» spiegò Kramer con un gesto impaziente della mano.
«Mercato nero?»
L’interrogato rise sommessamente, guardando le proprie
mani.
«E i draghi? »
Volker si fece improvvisamente serio. «I... draghi? »
Silver alzò gli occhi al cielo, sbuffando esasperato.
«Non faccia finta di non sapere di cosa sto parlando,
signor Kramer. Nel suo appartamento, chiamiamolo così, abbiamo
trovato dei cuccioli di drago nero. Lo sa che l’allevamento di
queste bestie è proibito dalla legge?! »
Kramer distolse lo sguardo, improvvisamente colpevole.
Quello era il punto cruciale dell’interrogatorio, il nocciolo della
questione. E lui si sentiva con le spalle al muro.
«Sí, è vero. Allevo draghi neri e li rivendo.»
«Allora lo confessa? »
«Confessare cosa? »
«Che ha partecipato all’operazione terroristica che
ha colpito la sede della Corporazione la settimana scorsa.»
Volker guardò Silver, improvvisamente confuso.
«Di che cosa sta parlando, agente? Io non ho mai fatto
né detto nulla contro la Corporazione!» esclamò come se fosse
scandalizzato dal fatto che gli venisse mossa una tale accusa. Silver
si appoggiò con entrambe le mani al tavolo, guardando Kramer dritto
negli occhi.
«Eppure il rapporto dice così: la Corporazione è
stata attaccata da un gruppo di draghi neri guidati da attentatori a
cui lei aveva venduto
gli animali» constatò indicandogli il fascicolo.
Volker lo prese tra le mani, gettando rapidamente lo
sguardo tra le righe accanto alla sua fotografia. Quando li alzò,
fissò sconvolto il poliziotto.
L’istante successivo era in piedi, e la sua
espressione non era più placida.
«Non accetto di venir punito per qualcosa che non ho
commesso!» urlò con rabbia, sbattendo le mani sul tavolo. I due
agenti di scorta gli furono immediatamente addosso, afferrandolo per
le braccia e allontanandolo dal tavolo. Volker tentò di opporre
resistenza, continuando a urlare.
«Non ho nulla contro la Corporazione, agente! Mi
creda!»
Silver non rispose, limitandosi a guardarlo. A guardare
la disperazione che leggeva nei suoi occhi, mescolata al desiderio di
continuare a lottare per la propria libertà. E la rabbia, perché
era consapevole che non ci sarebbe riuscito: sapeva già dove sarebbe
finito.
I due agenti riuscirono a portarlo con fatica fuori
dalla stanza. Le sue grida erano forti, anche dal corridoio.
E facevano male.
«Agente, non voglio andare là! Sono innocente, mi
creda! Non voglio andare ad Artika! AGENTE!!»
All’improvviso ci fu un tonfo sordo, e poi quello che
seguì fu un silenzio lungo e pesante.
Silver intuì subito che cosa fosse successo, senza aver
bisogno di vederlo con i propri occhi: i due agenti della scorta
avevano agito come da protocollo in casi come quello. Un manganello e
un colpo ben assestato dietro al collo erano bastati per
neutralizzare il signor Kramer, per il quale non ci sarebbe stata la
clemenza invocata.
Silver chiuse gli occhi, immobile con le mani ancora
appoggiate sul tavolo.
Era stufo di vedere gente disperarsi per non finire ad
Artika. Non ne poteva più di sentire ogni giorno quelle urla. Era
così, tutte le volte. La gente cambiava, ma la disperazione nelle
loro suppliche rimaneva sempre la stessa. E lui non ce la faceva più.
Pesava sulla sua anima
come un macigno.
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Capitolo
noioso ma necessario a definire meglio l'ambiente in cui si svolge la
storia e a introdurre delle dinamiche essenziali. Fanciulle, portate
pazienza, questo è l'ultimo capitolo lento che dovrete sorbirvi: dal
prossimo entreremo nel vivo della storia e vi prometto che non ci
sarà più modo di annoiarsi, parola di autrice.
Detto
questo, ringrazio davvero tanto quanti hanno letto il prologo: sarà
che devo prendere confidenza con i numeri che girano in questa
sezione, ma siete stati uno splendido esordio. Vi ricordo che, per
chi volesse, può trovarmi sul mio contatto facebook e (per spoiler e
chiacchiere varie) nel gruppo facebook dedicato alle mie storie.
A
giovedì prossimo,
Brin
|
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Capitolo 3 *** dibattuta ***
3
CAPITOLO
2
DIBATTUTA
*
Il suono del campanello fece sussultare Sari, che guardò
Amaya emozionata. L’elfa intuì subito che cosa volessero
comunicarle gli occhi dell’amica, senza bisogno che lei glielo
dicesse. Sapeva bene che per Sari quello era un giorno importante,
che aveva aspettato da molto tempo.
Aveva sempre avuto una specie di venerazione per il
padre, Amaya lo sapeva bene. Aveva passato assieme a Sari l’infanzia,
l’adolescenza e gli anni successivi lavorando fianco a fianco con
lei, e aveva imparato a conoscere il profondo legame che univa il
padre e la figlia. Vederla così emozionata la fece sorridere.
Emma Kalabis, la madre di Sari, si affacciò dalla
cucina con un grembiule legato in vita e le mani unte di grasso.
Indicò la porta con un cenno della testa.
«Sari, vai tu ad aprire per favore? Io ho la carne sul
fuoco.»
La ragazza annuì correndo verso la porta, e lui era lì,
davanti all’entrata: suo padre era tornato, e le stava sorridendo
con dolcezza. Gli gettò le braccia al collo, felice come non era mai
stata. Era bello respirare quell’odore familiare, circondata da
quelle braccia conosciute che da molto tempo non l’avevano stretta.
Non avrebbe potuto esserci regalo più bello.
«Bentornato papà.»
«Grazie Sari» Adrian la baciò in fronte e l’allontanò
da sé. La squadrò da testa a piedi, fiero e allo stesso tempo
sorpreso. «Come sei cambiata! Sei diventata splendida!»
Sari sospirò fingendosi annoiata da quei complimenti,
ma non riuscì a reprimere un sorriso felice. Amaya raggiunse
l’uscita con il cappotto in mano, pronta a togliere il disturbo, ma
Adrian la fermò all’istante per salutarla.
In quel momento, non più concentrata su suo padre, Sari
si accorse di lui.
Un ragazzo giovane -che all’apparenza doveva avere
circa la sua età- se ne stava in disparte, con le mani sprofondate
in un lungo e caldo cappotto nero. I suoi occhi azzurri, di un colore
così freddo da ricordare quello del ghiaccio, la stavano guardando
con un misto di interesse e curiosità che mise Sari un po’ a
disagio. Aveva i capelli neri, perfettamente pettinati in modo da non
permettere neppure a una ciocca di cadere sul viso. Era piuttosto
carino, ma l’ostinazione con cui la fissava faceva passare quel
giudizio in secondo piano. Non sembrava intenzionato a desistere, e
la cosa urtava Sari.
Si accigliò, infastidita.
«E tu chi sei?»
Adrian intervenne all’istante.
«Sari, perdonami per non averti presentato il mio
assistente: si chiama Shem Gaynor, ed è uno dei miei indispensabili
collaboratori ad Artika» le spiegò con un sorriso che Sari non
ricambiò. Non riusciva a capire che cosa ci facesse lì quel
ragazzo. Il motivo per cui suo padre l’aveva portato alla festa di
compleanno della moglie per lei rimaneva un mistero: Shem non era di
famiglia. Non era nulla di più di un semplice estraneo. La sua
risposta fu lapidaria.
«Ah.»
Adrian sorrise. Aveva intuito quello che stava pensando
Sari. Conosceva bene quell’atteggiamento difensivo, e sapeva che
non avrebbe mai gettato le armi, almeno non prima di un lungo
assedio.
«Ho voluto invitare Shem qui da noi per qualche giorno.
Sai, lui non ha mai visto la capitale e potrebbe essere un’occasione
per fargliela conoscere, no? Magari potresti accompagnarlo tu.»
Sari rimase senza parole. Guardò suo padre come se
fosse un fantasma. La parte del suo cervello che ancora riusciva a
elaborare qualche pensiero nonostante la sorpresa, cercò qualche
segnale sul viso di Adrian che suggerisse che stesse scherzando.
Quando si accorse che suo padre era serio, dovette capitolare.
«Vedremo papà. Sai, per me questi non sono giorni di
ferie.»
La risposta cadde nel nulla. Adrian si limitò ad
annuire e Shem, ancora in disparte, fece semplicemente finta di
niente. Fu Amaya a interrompere quel silenzio quasi imbarazzante.
«Signor Kalabis, io devo andare. È stato un piacere
rivederla.»
«Rimani a mangiare, Amaya! Ormai sei di casa qui, e poi
dal momento che c’è Shem non vedo perché tu non possa stare
insieme a noi, no?»
Amaya guardò Sari, cercando il suo consenso. Aveva il
timore di essere di troppo, ma lo sguardo supplichevole dell’amica
la convinse. Dalla cucina provenne un rumore di pentole rovesciate, e
Adrian cercò di spiare verso la fonte del rumore, preoccupato.
«Tutto bene Emma?»
«Sí, mi sono solo cadute delle pentole. Comunque non
c’è problema se Amaya rimane.»
Sari guardò l’amica trionfante. Non poteva non
accettare, e l’idea di avere un’alleata la sollevava. Forse
sopportare la presenza di uno sconosciuto sarebbe stato più
semplice, con Amaya al suo fianco.
*
«Allora Shem, tu di che cosa ti occupi?» domandò Emma
intingendo il cucchiaio nella minestra. Il ragazzo, dall’altra
parte del tavolo, sollevò lo sguardo dal pane che stava spezzando.
«Aiuto suo marito nella conduzione del reparto di
psicologia e psichiatria del carcere.»
Sorrideva cordialmente mentre parlava. Quando non
conversava con qualcuno o non doveva prestare attenzione al cibo,
però, non faceva altro che guardare Sari con insistenza, e questo
dava parecchio fastidio alla psicologa. Cercava di sembrare naturale,
ma ogni volta che sorprendeva Shem a osservarla avrebbe voluto
gridargli di smetterla.
«Quanti reparti ci sono ad Artika?» sua madre domandò
di nuovo.
«Due. Per farla breve, in uno vengono rinchiusi i
criminali con disturbi psichiatrici, e nell’altro quelli sani. Non
penso sia difficile intuire in quale dei due io e Adrian lavoriamo…»
La signora Kalabis annuì con un sorriso, tornando a
dedicarsi alla minestra. Shem riempì il cucchiaio, e quando sollevò
lo sguardo cercò subito Sari. La ragazza diede un colpetto alla
caviglia di Amaya e quando l’elfa la guardò, Sari le lanciò uno
sguardo esasperato. Non ne poteva più. Ancora poco e sarebbe
esplosa.
«E così, Adrian ti è molto affezionato...» Emma
ruppe il silenzio. Sari guardò con terrore sua madre sorridere a
Shem e lui ricambiare con cortesia.
«Questo deve chiederlo a suo marito, non a me.»
A Sari andò di traverso la minestra. La situazione
stava prendendo una piega strana.
Era naturale che sua madre parlasse con lui, si disse,
ma per quante volte lo ripetesse non riusciva a non sentirsi
infastidita. Aveva un modo di fare che la metteva a disagio, oltre al
fatto che si era intromesso in una questione privata. E dopo suo
padre, anche sua madre lo stava prendendo in simpatia.
Forse proprio l’insistenza che aveva nel continuare a
guardarla l’aveva salvata dal cadere nella sua rete. Poteva
incantare i suoi genitori quanto voleva, ma con lei non funzionava.
Nonostante i suoi movimenti eleganti e il magnetismo che sembrava
emanare, Sari aveva fiutato in lui qualcosa di poco convincente, che
la rendeva inquieta. Qualcosa che si ripresentò più volte nel corso
della cena.
Sua madre non aveva fatto altro che rivolgergli domande
per sapere di più su di lui, ma puntualmente Shem evitava di dare
informazioni precise. E lo faceva con una abilità che forse soltanto
lei aveva colto.
Aveva detto di non avere una famiglia: classica scusa,
sentita più e più volte.
Aveva detto di essere arrivato ad Artika da due mesi:
strano che il rapporto del ragazzo con suo padre fosse diventato così
forte in così poco tempo.
Era più che legittimo che tra colleghi si formassero
dei legami affettivi lavorando ogni giorno fianco a fianco, ma il
loro sembrava essere davvero forte. Due mesi erano troppo pochi, non
di certo sufficienti per instaurare rapporti tali da giustificare
quello che aveva fatto suo padre. Portare una persona conosciuta da
così poco tempo a una cena di famiglia era eccessivo.
Lui non era suo figlio.
Stava iniziando ad alterarsi, lo sentiva. Sentiva la
rabbia iniziare a scorrerle nelle vene, e la sensazione non le
piacque affatto. Detestava l’idea di rovinare una serata come
quella a causa del suo stato d’animo, ma non riusciva a evitarlo.
Era gelosa.
Sgattaiolò fuori per prendere una boccata d’aria
fresca, approfittando dell’attesa del dolce. Sperava di riuscire a
calmarsi. Sapeva che il modo in cui si stava comportando era da
bambina, e una parte di se stessa provava vergogna per questo. L’aria
pungente della sera le solleticò piacevolmente il viso, e
l’inquietudine che le assediava il cuor sembrò calmarsi. Sentì
dei passi familiari alle sue spalle, e Sari riconobbe subito la
persona dietro di lei senza neppure aver bisogno di voltarsi.
«Sari, tesoro...»
«Dimmi.»
Suo padre sospirò. Voleva dirle qualcosa d’importante,
ne era sicura.
«Non voglio che questa serata sia fonte di dolore per
te.»
«Non è così» Sari rispose velocemente, forse troppo.
Era stata poco convincente, e per riuscire a mentire a quell’uomo
doveva fare molto meglio di così. Adrian non rispose. Sfilò un
pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni, offrendolo alla
figlia.
«Ne vuoi una?»
«Lo sai che non fumo.»
Adrian sorrise. Trattenne la sigaretta delicatamente tra
le labbra, e l’accese dopo aver riposto il pacchetto.
«Sei sempre stata saggia. Io invece non riesco a
smettere, anche se so che dovrei.»
Sari non rispose. L’uomo accolse il silenzio della
figlia, e capì che era il momento giusto per chiarire le cose.
«Si tratta di Shem, vero?»
«Perché l’hai portato qui?»
Adrian aspirò una boccata di fumo. Sorrise.
«Sari, non c’è motivo di essere gelosa. Gli sono
molto affezionato, ma mia figlia sei tu. Volevo fartelo conoscere,
tutto qui.»
«Perché?»
«Beh, ecco... Lui è un ottimo ragazzo. Gentile,
premuroso, con la testa sulle spalle. Non come quella gente con cui
te ne andavi in giro un po’ di tempo fa.»
«Ormai è acqua passata, e lo sai!» Sari sbottò
seccata, alzando gli occhi al cielo.
«Lui sembra molto interessato a te, ma forse non te ne
sei neppure resa conto.»
Sari rimase a fissare Adrian, interdetta. Ora era tutto
più chiaro. Suo padre voleva trovarle un ragazzo, e la sua scelta
era ricaduta sul suo pupillo. La sola idea le fece venire i brividi
lungo la schiena.
«Io non ho nessuna intenzione di prendere anche solo in
considerazione l’idea di mettermi con uno sconosciuto, papà! In
particolar modo con uno che sembra un…» si interruppe
all’improvviso non appena si rese conto di essere a un passo dal
dare del maniaco a Shem. L’ultima cosa che desiderava era ferire i
sentimenti di suo padre. Si limitò a respirare profondamente, nel
tentativo di calmarsi. Quando sentì la porta aprirsi e vide Adrian
sorridere, capì subito chi fosse uscito. Si voltò e incrociò lo
sguardo di Shem, che se ne stava sull’uscio a guardarli.
Pregò con tutta se stessa che non avesse colto neppure
uno stralcio di quella conversazione, altrimenti sarebbe stata
costretta ad affrontare una situazione piuttosto imbarazzante.
«Scusate se vi interrompo, ma c’è il dolce»
annunciò il ragazzo indicando la casa. Non diede alcun segno di aver
sentito di cosa stavano discutendo.
«Grazie Shem, arriviamo subito» annuì Adrian,
invitando il collega a precederli. Sari lo guardò rientrare, in
attesa. Aveva una vaga idea di ciò che voleva dirle suo padre.
Incrociò le braccia al petto, pronta a riprendere la battaglia, ma
lo sguardo sincero che
ricevette demolì all’istante tutta la sua determinazione.
«Visto? È gentile. Vorrei che lo tenessi in
considerazione, Sari. Almeno cerca di conoscerlo prima di giudicarlo,
d’accordo?»
Sari sospirò, sconfitta. «Va bene.»
Quando ritornarono a tavola, tentò di sopportare gli
sguardi insistenti di Shem nella speranza di far contento suo padre.
Ma per quanto si impegnasse, quelle continue attenzioni la stavano
facendo impazzire: cominciava a sentirsi soffocata dalla sfrontatezza
del ragazzo.
Una forchettata, gli occhi sul piatto, la posata alla
bocca, ed ecco che lo sguardo di Shem ritornava a immancabilmente su
di lei. Per quanto tentasse di mantenere la calma e fare finta di
nulla, Sari sentiva di essere molto vicina al limite.
All’improvviso, qualcosa in lei si spezzò. Non pensò
neppure a quello che stava facendo.
Dopo l’ennesimo sguardo indesiderato, Sari si alzò
sbattendo sul tavolo il tovagliolo che le copriva le gambe. Le parole
erano già sulla lingua, pronte a uscire e a spargere il loro veleno,
ma all’improvviso crollarono come un castello di carte aggredito
dal vento: Shem le stava sorridendo.
Un sorriso dolce ma allo stesso tempo mellifluo, che la
disarmò. Sari boccheggiò in cerca di qualcosa da dire,
all’improvviso consapevole della pessima figura che aveva fatto.
L’unica cosa che riuscì a dire furono delle scuse farfugliate
sommessamente. Chiuse gli occhi concedendosi un breve istante per
riprendersi, e decise che in quel momento la fuga era la soluzione
migliore.
«Scusate... Devo andare in bagno.»
Fuggì su per le scale sentendosi avvampare per la
vergogna, e ogni passo che la allontanava dalla sala da pranzo la
faceva sentire sempre più in salvo. Si chiuse la porta alle spalle
rumorosamente, senza preoccuparsi di farsi sentire, e nascose la
testa tra le mani.
Non capiva cosa le stesse succedendo. Aveva perso il
controllo come una ragazzina, e l’idea la faceva imbestialire. Era
da tanto tempo che non le accadeva una cosa simile.
Ormai aveva ventiquattro anni, viveva da sola vicino
alla capitale, aveva visto più cose di un demone, e aveva perso il
controllo in maniera vergognosa. Tutto per colpa di quel ragazzo.
Shem la innervosiva. Inizialmente l’aveva preso in
antipatia per una sorta di competizione dettata dalla gelosia, ma poi
erano cominciati gli sguardi. Era insistente, sfacciato, e la faceva
sentire a disagio. E la cosa che più la indisponeva, era che per
Sari tutto questo era nuovo.
In passato aveva avuto un paio di appuntamenti che erano
sempre terminati in una bolla di sapone, e nulla di più. Nessuno le
aveva mai rivolto delle attenzioni così evidenti e sfrontate, e non
sapeva come comportarsi. Senza contare che, doveva ammetterlo, Shem
non era neppure brutto.
In circostanze diverse probabilmente avrebbe desiderato
sapere di più sul suo passato, su chi fosse e su cosa facesse, ma
Sari si ostinava a tenere le distanze. Non gli avrebbe permesso di
sedurre anche lei. Non sarebbe caduta nella sua rete come aveva fatto
suo padre e come stava facendo sua madre.
Quando bussarono alla porta, pregò che non fosse
Adrian: l’ultima cosa che desiderava era dargli spiegazioni sul suo
comportamento.
«Chi è?»
«Sari, posso entrare?»
Era Amaya. Tirò un sospiro di sollievo.
«Entra.»
Quando l’elfa fece capolino nel bagno, Sari notò
subito il suo sguardo serio e risoluto. Capì all’istante che
intendeva parlarle di qualche questione importante, probabilmente
riguardante la sua performance nella sala da pranzo.
«Adesso devo andare via, per cui lascia che ti dica una
cosa.»
Sari annuì cominciando a pensare a come ribattere di
fronte a una richiesta di spiegazioni, ma le parole di Amaya furono
del tutto inattese.
«Ho notato come ti guarda quel tizio. Non mi piace per
niente.»
Sari rimase a guardare l’amica, stupita. Ridacchiò.
L’idea di non essere la sola ad aver giudicato bizzarro il
comportamento di Shem la sollevò.
«Lo so.»
«Stai attenta, ok?»
Sari smise di ridere. In quanto elfa, Amaya aveva un
sesto senso che aveva fallito raramente: le permetteva di leggere
dentro il cuore delle persone. Era caratteristica propria della sua
razza riuscire a percepire la disposizione d’animo delle persone.
Anni addietro, Amaya aveva tentato di spiegarle come faceva, ma
ricordava solamente un discorso fatto di energie positive e negative,
di capacità di cogliere i colori dell’anima,
come li aveva chiamati l’elfa. Ma di una cosa Sari era sicura: se
quella abilità suggeriva all’amica che in Shem ci fosse qualcosa
di strano, allora con molta probabilità non si sbagliava.
Si chiese se sarebbe riuscita a rimanere fredda,
indifferente. Finché si fosse limitato a guardarla non sussistevano
preoccupazioni: il problema si sarebbe presentato nel caso in cui
Shem avesse tentato di spingersi oltre. Pregò con tutta se stessa
che non lo facesse.
Aveva la sensazione di averlo sottovalutato: fin’ora
si era preoccupata delle sue insistenti attenzioni senza pensare a un
eventuale contatto fisico. Era convinta che assumendo un
atteggiamento distaccato lo avrebbe fatto desistere, ma non aveva mai
considerato l’ipotesi che il ragazzo avrebbe potuto decidere di
smettere di giocare e tentare un approccio più diretto. Questa
possibilità la rese inquieta. Shem era bello, non poteva negarlo, e
aveva l’impressione che lui fosse pienamente consapevole di questa
sua qualità. Era sicura che lui sapesse quanto particolari fossero i
suoi occhi, e che conoscesse bene l’effetto che facevano quando una
ragazza li guardava. Shem era il tipo che sapeva come sfruttare le
carte in suo possesso: era questa l’idea che si era fatta di lui, e
la mise nel panico.
«Sari?»
L’umana guardò Amaya, che stava aspettando una
risposta. Non si rese neppure conto di essersi persa nei propri
pensieri lasciando a metà il discorso. Annuì, sforzandosi di
sembrare convincente.
«Contaci.»
Accompagnò l’elfa fuori di casa, e il freddo la
investì facendola rabbrividire. Tentò di abbracciarsi per
scaldarsi, ma con scarsi risultati. La strada era deserta, e soltanto
la luce dei lampioni illuminava la via. Quando guardò Amaya, capì
che era ancora preoccupata.
«Non fidarti di lui, hai capito? Stai attenta,
ricordatelo.»
Sari annuì, sorridendo.
«Stai tranquilla. Notte Amaya.»
L’elfa le indirizzò un cenno della mano in segno di
saluto. Sari la guardò scendere lungo il vialetto e raggiungere la
macchina nera parcheggiata sul marciapiede. Il motore si accese
rombando, e Sari fece per rientrare soltanto quando l’auto cominciò
ad allontanarsi. Ma non entrò.
Sull’uscio c’era Shem. Le si avvicinò con un
sorriso luminoso e innocuo.
Sari rimase immobile, rigida come un pezzo di legno.
«La tua amica è carina.»
Il suo tono di voce era cordiale. Gentile.
Nella mente di Sari le parole di suo padre e di Amaya si
avvicendavano senza sosta, e non sapeva a chi dare ascolto.
«Sí, è carina» approvò con fare poco naturale. Era
nervosa, e non riusciva a nasconderlo.
Sentì improvvisamente lo sguardo di Shem su di lei, e
ciò contribuì a renderla ancora più tesa. Il ragazzo indugiò
prima di parlare. Sembrava che temesse ciò che le sue parole
avrebbero potuto provocare.
«Per me sei più carina tu» mormorò allungando una
mano verso il volto di Sari e alzandolo per cercare i suoi occhi. Il
cuore di Sari cominciò a battere furiosamente, minacciando di uscire
dal petto da un momento all’altro. La mente le gridava
disperatamente di allontanarsi, ma le gambe sembravano paralizzate.
«Ti prego di scusarmi se ti ho spaventato con il mio
atteggiamento. Vedi… non riesco a non guardarti. Sei così bella…»
le sorrise accarezzandole la guancia. Sari non riuscì a pensare.
Ormai il cervello era totalmente scollegato dal resto
del corpo, che faceva quello che voleva. E in quel momento, aveva
deciso di rimanere immobile. Di farsi sfiorare da quel ragazzo e di
farsi guardare da quegli occhi così chiari.
«Se adesso ti baciassi faresti una scenata come quella
di prima?»
Sari non riuscì a rispondere. Se anche fosse riuscita a
parlare, non avrebbe saputo cosa dire. Forse suo padre aveva ragione.
Lo conosceva decisamente più di lei, che non aveva elementi per
giudicarlo. Eppure non riusciva a non pensare a quello che aveva
detto Amaya.
Shem dovette giudicare il suo silenzio come un segnale
d’incoraggiamento.
«Mi picchieresti?»
In Sari la parte che urlava di fidarsi prevalse
sull’altra.
Sorrise, e questa volta il ragazzo lo interpretò come
un cenno d’assenso.
Posò entrambe le mani sul suo viso, e si chinò verso
le sue labbra. Le sfiorò timidamente, come a voler chiedere l’ultimo
permesso prima del bacio vero e proprio. E Sari non lo respinse.
Shem non ebbe bisogno d’altro: la baciò lentamente,
con dolcezza. Fu un bacio al sapore di vino, delicato, a cui ne seguì
un secondo. Un terzo. Un quarto.
Sari fu costretta a ritornare con i piedi per terra
quando sentì la voce di sua madre chiamare il suo nome. E in quel
momento si rese conto di cos’era successo.
Non l’aveva rifiutato. Aveva ceduto.
Aveva ricambiato il bacio.
Shem la stava guardando con un sorriso dolce che fece
sentire Sari in colpa. L’aveva giudicato male, era stata prevenuta
nei suoi confronti. Forse avrebbe potuto dargli una possibilità per
conoscerlo davvero, e vedere in lui ciò che vi aveva visto Adrian.
«Ecco dov’eri!» la testa di Emma fece capolino dalla
porta.
«Scusa, non ti avevo sentito» mentì.
«Potresti andare in camera tua a prendere la macchina
fotografica, per favore? Tuo padre vorrebbe fare delle foto da tenere
come ricordo.»
«Certo.»
Quando la signora Kalabis rientrò, Sari afferrò la
mano di Shem. Stretta attorno alla sua, era grande e calda. Una
sensazione piacevole.
«Ti va di accompagnarmi?»
Shem annuì, sempre sorridente. Quando salirono le scale
e arrivarono al primo piano, Sari lo fermò.
«Aspettami qui, per favore. Mia madre usa quella che
una volta era la mia stanza come se fosse un ripostiglio, ed è
decisamente in disordine.»
Stava sorridendo mentre gli parlava, se ne accorse con
terrore. Era la prima volta che sorrideva con tanta facilità a
persone che conosceva da poche ore. Scosse il capo, stupita da se
stessa mentre imboccava il corridoio.
Shem la guardò sparire dentro una stanza e
improvvisamente il sorriso sul suo volto sparì. Non c’era motivo
di sorridere quando lei non era in giro, soprattutto dal momento che
cominciava a sentire le guance doloranti. Cominciava a essere stanco
di tutta quella sceneggiata.
Non poteva fare a meno di chiedersi quando tutto questo
sarebbe finito, anche se conosceva già la risposta: tutto dipendeva
da quanto tempo avrebbe impiegato per trovare ciò che stava
cercando.
E dopo rimaneva un’incognita.
Si guardò attorno: le case degli esseri umani erano
decisamente noiose, tutte uguali.
Improvvisamente una porta aperta attirò la sua
attenzione: lasciava intravedere un letto matrimoniale. Doveva essere
la camera da letto di Kalabis e di sua moglie.
Lanciò un’occhiata furtiva alla stanza in cui era
scomparsa la ragazza. La via era libera.
Entrò nella camera da letto dei due coniugi,
dirigendosi verso un grande comò pieno di fotografie.
Ispezionò rapidamente il mobile: non c’erano altro
che foto della famiglia e l’orologio da taschino che Adrian portava
sempre con sé.
Decisamente non era quello che lui stava cercando.
Si voltò verso il letto, dov’erano appoggiate le
valige.
Non poteva essere là dentro: se l’uomo l’avesse
avuto con sé, sarebbe riuscito a trovarlo già da molto tempo. Si
apprestò ad aprire i cassetti, ma una voce lo fece sussultare.
«Che cosa stai facendo?»
Si voltò. Il viso di Sari era serio, e il suo sguardo
era un misto di confusione e diffidenza. Tra le mani stringeva la
macchina fotografica.
Shem sorrise, cercando di apparire naturale.
«Mi era sembrato di vedere un’ombra attraversare la
finestra. In questi tempi non si è mai troppo al sicuro. Sai, con i
demoni...» le spiegò con naturalezza, ma si accorse che non doveva
essere riuscito a convincerla del tutto. L’idea di essersi giocato
la fiducia della ragazza non lo preoccupò più di tanto. In fin dei
conti era soltanto una copertura.
«So che cosa
stanno facendo i demoni» lo guardò con sospetto.
Il ragazzo le sorrise. Il suo solito sorriso angelico,
quello che Sari stava iniziando a non sopportare più.
Questo qui è tutto tranne che angelico.
Se pensava di aver trovato i soliti polli da spennare,
si sbagliava di grosso. Se voleva ripulire la casa sarebbe dovuto
passare prima sul suo cadavere.
«Andiamo giù» mormorò invitandolo a uscire dalla
stanza, seguendolo non appena Shem uscì.
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Con questo capitolo inizia la storia vera e propria.
Ciò che avete letto finora è un antipasto
naturalmente, ma vi posso assicurare che da ora sarà un crescendo.
Mi risparmio commenti sul contenuto del capitolo, preferisco sentire
le vostre congetture :P
Vi ricordo che potete trovarmi su facebook e sul gruppo
facebook dedicato alle mie storie. Detto questo, l'appuntamento è
per giovedì prossimo con il quarto capitolo, dal titolo Guardare
la morte in faccia.
Un saluto
Brin
|
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Capitolo 4 *** guardare la morte in faccia ***
4
4.
GUARDARE
LA MORTE IN FACCIA
*
Erano passati sei mesi dall’ultimo giorno in cui Sari
aveva rivisto suo padre.
Da quando aveva conosciuto Shem.
Lui non si era più fatto sentire da quella sera, e
all’inizio la cosa l’aveva indispettita. Ma ciò che l’aveva
fatta più arrabbiare, era che quel ragazzo era riuscito a farla
cedere nonostante gli sforzi fatti per mantenere le distanze. Lei,
che aveva cercato di essere fredda e disinteressata, gli aveva
creduto. Gli aveva dato il beneficio del dubbio.
Aveva pensato che fosse veramente interessato a lei,
quando invece per Shem non era stata altro che un divertimento
provvisorio. Nulla di più che un trastullo per rendere la serata più
interessante, e l’aveva dimostrato piuttosto bene nei mesi che
erano seguiti.
L’irritazione per ciò che era successo, però, era
durata poco: in breve tempo, Sari aveva relegato il ricordo di Shem
in un angolo della mente. Con il passare dei mesi aveva cominciato a
pensare sempre di meno a quello che era accaduto, e senza
accorgersene il rancore verso di lui era diventato ogni giorno più
debole. Era passata dal risentimento all’indifferenza.
Ormai non provava nulla, neppure quando suo padre
nominava Shem per telefono. L’immagine del ragazzo era diventata
sempre più confusa nella mente di Sari, che non aveva alcun
interesse nel trattenerla. Anche l’episodio della camera da letto
aveva subito la stessa sorte, assieme alla strana sensazione che
aveva provato nel sorprenderlo a frugare tra le cose dei suoi
genitori.
Tutto ciò che riguardava Shem valeva meno di zero.
In quel momento, mentre camminava lungo il corridoio del
dipartimento di polizia, pensando a lui non sentiva assolutamente
nulla. Intravide Amaya parlare con un giovane agente che Sari non
conosceva: l’elfa stava mordicchiando il bordo di un bicchiere da
caffè mentre lo guardava, probabilmente nel tentativo di camuffare
una smorfia annoiata che non sfuggì all’occhio vigile dell’umana.
Quanto a lui, invece, Sari si sentì mossa a pietà: lo
sguardo del poliziotto sembrava voler gridare a tutti –e in
particolare ad Amaya- quanto fosse interessato all’elfa, ma
probabilmente aveva già capito di non avere troppe speranze. Le
ricordò un cucciolo punito che scodinzola dietro al padrone per
elemosinare una carezza.
Si avvicinò ai due tossicchiando, quasi
con scrupolo: le sembrò un peccato interromperli, ma non poteva fare
altrimenti. Amaya, invece, si illuminò non appena la vide.
«Ciao Sari.»
«Ciao. Questo è per te» annunciò porgendole una
cartellina.
L’amica le rivolse un’occhiata interrogativa.
«È il fascicolo riguardante il tuo caso di oggi. Mi
hanno chiesto di dartelo.»
Amaya annuì, cominciando a sfogliare il fascicolo.
«Grazie.»
«Di nulla. Dopo pranziamo insieme?» domandò con tono
per nulla disinteressato, che insospettì l’elfa.
Quando la guardò, Sari indicò con lo sguardo il
poliziotto, che cominciò a sentirsi a disagio.
Il giovane fuggì via farfugliando parole di commiato
neppure troppo chiare, e Amaya scoppiò a ridere.
«Ci vediamo dopo, brutta pettegola.»
«Perfetto» Sari fece per allontanarsi, ma si fermò
non appena vide Silver. Era fermo di fronte a lei, e la stava
guardando con un’espressione stravolta che la fece preoccupare.
Sembrava che avesse appena visto un fantasma.
Lanciò un’occhiata ad Amaya, e intuì che anche lei
era rimasta turbata dall’atteggiamento del poliziotto.
«Victor, che succede?»
«Sari…»
Lei rimase in attesa. Sembrava che Silver avesse
qualcosa d’importante da dire, ma che non sapesse come esprimerlo.
Quando trovò le parole che stava cercando, il suo sguardo era così
sofferente che Sari si spaventò.
«Sapevi che tuo padre è tornato a casa ieri
pomeriggio?»
Fu come ricevere uno schiaffo. Perché le stava parlando
di suo padre? E, soprattutto, perché lei
non sapeva che era tornato?
Cominciò a preoccuparsi, e guardare il volto sconvolto
di Silver mentre le parlava di Adrian rischiò di farle perdere il
controllo. La voce le uscì a fatica.
«No.»
Le gambe tremavano e le mani non volevano saperne di
stare ferme. Sentiva lo stomaco contorcersi per l’ansia. Aprì la
bocca per parlare, ma non uscì alcun suono. Avrebbe voluto sapere,
chiedere, ma il suo corpo lottava contro di lei.
Chiuse gli occhi per un istante, cercando di calmarsi.
Si trattava di una sciocchezza, sicuramente. Doveva essere una
sciocchezza. Quando riuscì a parlare, sembrava incerta.
«Perché me lo chiedi?»
Silver le posò una mano sul braccio. Si guardò
attorno. C’era troppa gente nel corridoio.
«È meglio se vieni nella stanza dello specchio. Anche
tu, Amaya.»
Lo seguirono in silenzio. Quando si chiusero la porta
alle spalle, la tensione era così palpabile da poter essere tagliata
con un coltello. Di fronte al silenzio delle due ragazze, Silver
sospirò. Era maledettamente difficile trovare le parole. Si
massaggiò il collo, in difficoltà.
Indicò a Sari una sedia.
«Forse è meglio se ti siedi.»
Il cuore di Sari smise di battere per un breve istante
che sembrò durare anni. Aveva paura.
Era decisamente terrorizzata.
Non si sedette.
«Che cosa c’è Victor? Mi stai spaventando.»
Silver guardò il pavimento, in difficoltà.
«Ci è arrivata una chiamata. Tuo padre è...»
«È… ?» lo incoraggiò Amaya, parlando al posto di
Sari.
Silver guardò l’umana.
E qualcosa in Sari si spezzò.
«È morto. Tuo padre è stato ucciso.»
Le sembrò una cosa assurda, talmente inconcepibile da
risultare falsa.
Era senza ombra di dubbio uno scherzo di pessimo gusto:
da un momento all’altro Silver sarebbe scoppiato a ridere e le
avrebbe detto che aveva un’espressione davvero esilarante. Le
avrebbe appoggiato una mano sulla spalla e le avrebbe detto di
tornare a lavorare, con le lacrime agli occhi a causa delle risate
eccessive.
Ma non successe nulla del genere. Non accadde proprio
nulla.
Sul viso di Silver non c’era la minima traccia di
ilarità: era serio e addolorato, un’espressione che decisamente
non si addiceva a una persona che stava scherzando.
E finalmente, una parte di Sari realizzò con dolore che
Silver stava dicendo la verità.
«Mi dispiace.»
Non sentì le parole del poliziotto, né la mano di
Amaya che cercava la sua. Fu consapevole solamente dell’enorme
baratro che si era aperto dentro il suo cuore, minacciando di
divorarle l’anima da un momento all’altro. Voleva gridare, urlare
a pieni polmoni fino a consumare la voce per liberarsi di quel dolore
insopportabile che la stava lacerando, ma dalla sua bocca non uscì
altro che un debole soffio.
«N- non è... come...» fu tutto ciò che riuscì a
balbettare: il nodo che le chiudeva la gola le impediva di parlare, e
lo stomaco era così pesante da farle sentire il bisogno di vomitare.
Sembrava contenere un’incudine. Silver la guardò con pietà.
Sospirò, in evidente difficoltà.
«So che dopo questa notizia non sei nelle condizioni
migliori per parlarne, ma ho bisogno di farti un paio di domande. La
dinamica dell’omicidio non è ancora chiara.»
Per Sari fu una doccia fredda. La notizia della morte di
suo padre l’aveva scioccata al punto che la sua mente non aveva
neppure preso in considerazione le circostanze in cui era avvenuta.
Era come se fosse venuta a conoscenza dell’omicidio per la prima
volta.
I suoi occhi si riempirono d’orrore. Si coprì la
bocca, prossima al pianto, e pronunciare quella parola le costò uno
sforzo di volontà enorme.
«Ucciso?»
Silver annuì e Sari rimase paralizzata all’istante.
Se suo padre era tornato, probabilmente era stato ucciso a casa. Un
dubbio atroce le mozzò il respiro, ed ebbe quasi paura di dar voce
ai suoi pensieri.
Respirò a fondo, e si fece coraggio.
«E mia madre?»
«In questo momento si trova all’ospedale in stato di
shock. È stata lei a trovare il... tuo padre e ne è rimasta
profondamente sconvolta.»
Sari abbassò lo sguardo, incapace di sostenere oltre
quello compassionevole di Silver. Immaginò la madre in un freddo
letto d’ospedale mentre riviveva in continuazione l’orribile
scoperta dell’uomo che amava, ucciso. Un’esperienza che l’avrebbe
accompagnata per tutta la vita.
La sola idea le mozzò il respiro. Per quanto i suoi
polmoni cercassero di catturare aria, l’affanno non cessava:
soltanto allora Sari si rese conto di non respirare a sufficienza, e
il panico si impadronì di lei. Qualcuno le parlava nel tentativo di
catturare la sua attenzione, ma la mente della ragazza era altrove.
Suo padre era morto. No, di più: era stato ucciso.
Soltanto questo contava. Lui, che sembrava onnipotente e intoccabile,
non c’era più. Gliel’avevano portato via. Strappato,
letteralmente.
Dovette sforzarsi di reprimere un conato, mentre la
disperazione serpeggiò in lei. E finalmente si rese conto della
portata di ciò che era successo.
«È morto» mormorò con voce spezzata.
«Lo so Sari, ma devi cercare di calmarti» rispose una
voce maschile, Silver probabilmente.
«È morto!»
Lo ripeté all’infinito, e ogni volta era per Sari una
pugnalata al cuore. Lo disse una, due, tre volte, e poi vennero le
lacrime. Un pianto disperato e silenzioso, che sembrò non finire
mai. Si lasciò andare come una bambina tra le braccia di Silver e
Amaya, aggrappata a loro come se fossero l’unico appiglio che la
salvava da un precipizio. E quando dopo molti minuti si calmò, si
sentì esausta e stordita da un mal di testa feroce.
Ma quel pensiero non la lasciava. Qualcuno le aveva
portato via suo padre.
Il solo pensiero le fece ribollire il sangue di rabbia.
«Sapete chi è stato?»
Silver scosse il capo. Erano in alto mare.
«Forse sarebbe meglio che vedessi il luogo del
delitto.»
*
Quella scena le mozzò il fiato.
L’entrata era delimitata da nastri gialli, che la
polizia usava per impedire l’accesso alle persone non autorizzate.
La porta aperta rendeva visibile il disordine che regnava nella
camera: libri, vestiti e ogni oggetto che potesse essere riposto nei
cassetti erano sparsi sul pavimento.
I numerosi
schizzi di sangue che imbrattavano le pareti suggerivano che
l’omicida avesse sfogato un accanimento rabbioso, probabilmente
patologico, sulla vittima. L’odore era così pungente che Sari
dovette fuggire all’esterno della casa per impedirsi di vomitare.
Silver la seguì, ma non parlò. Se Amaya non fosse
stata trattenuta in dipartimento, sicuramente avrebbe trovato le
parole giuste; quelle che lui faticava a trovare.
Era preoccupato per lei, e contemporaneamente stava
tentando di fare il suo lavoro. Doveva chiederle informazioni su suo
padre, ma farlo in quel momento gli sembrava piuttosto indelicato: il
poliziotto e l’amico erano due ruoli che in quella circostanza non
andavano d’accordo.
Si limitò a stare in silenzio accanto a lei,
rivolgendole di tanto in tanto occhiate preoccupate.
«Avete delle piste?» fu Sari a interrompere il
silenzio.
«Non ancora, per quelle avremo bisogno del tuo aiuto.
Ritengo però che ciò che hai visto non fosse il teatro di un
semplice furto, dal momento che non hanno portato via oggetti di
valore.»
Sari non guardò Silver. Aveva la sensazione che se
l’avesse fatto, lui si sarebbe accorto che stava cercando di non
piangere.
«È molto importante che tu mi dica se tuo padre si era
inimicato qualcuno, o se nascondeva qualcosa.»
«Non che io sappia.»
Ed era vero. Suo padre era sempre stato un uomo buono e
onesto, e l’idea che qualcuno potesse volere la sua morte era
semplicemente assurda. Non aveva mai urtato nessuno, Sari ne era
sicura. Aveva conosciuto diversi colleghi di Adrian, e tutti avevano
sempre parlato bene di lui. Godeva di molta stima nell’ambiente di
lavoro, e la cosa che più colpiva di lui era la capacità di
concedere la propria fiducia a persone che non conosceva bene. Come
quella volta che aveva portato a casa...
Shem!
Fu come essere colpita da un fulmine. Come aveva fatto a
non pensarci? L’aveva visto frugare nella camera dei suoi genitori,
la stessa in cui suo padre era stato ucciso. Probabilmente era
tornato per finire il lavoro. Sari venne travolta dalla rabbia.
«Shem Gaynor!»
«Chi?»
«Shem Gaynor, un collega di mio padre.»
«Lavorava con lui ad Artika?»
«Nel settore di psicologia e psichiatria» annuì Sari.
«E perché sospetti di lui?»
«Durante l’ultima visita di mio padre l’ho sorpreso
nella camera dei miei genitori. Mi sembrava che stesse cercando
qualcosa, ma lui si è giustificato dicendo che aveva visto un’ombra
alla finestra, o qualcosa del genere.»
Silver non disse nulla. L’espressione sul suo viso era
pensierosa.
«Sono sicura che lui c’entri qualcosa, Victor. Amaya
aveva capito subito che in lui c’era qualcosa che non andava e mi
aveva avvertita, ma io non l’ho...» s’interruppe, disgustata
pensando a quello che aveva fatto. Aveva baciato l’assassino di suo
padre. Si era lasciata abbindolare da lui, aveva fatto il suo gioco
e, peggio ancora, si era fidata. Come tutta la sua famiglia.
Come aveva potuto essere così meschino? Come aveva
potuto prendersi gioco dei suoi sentimenti e della fiducia dei suoi
genitori? Aveva tradito l’affetto sincero che suo padre provava per
lui. L’aveva calpestato nel modo più crudele.
Pregò con tutto il cuore di sbagliarsi, che Shem fosse
innocente.
«Tu non l’hai…?» Silver la invitò a proseguire,
facendola arrossire.
Sari abbassò lo sguardo, in imbarazzo.
«Non l’ho ascoltata. Io ho... ho avuto un momento di
debolezza. Ci siamo baciati. Credevo che fosse sinceramente
interessato a me» si affrettò a precisare non appena vide Silver
guardarla, sorpreso.
«Ho sbagliato, è vero, ma non sapevo che lui fosse...»
«Sari, non ti sto accusando di nulla. Calmati» la
interruppe facendole cenno di tacere con la mano. Sari annuì. Il
senso di colpa cominciava a essere fastidioso. Silver le diede un
buffetto leggero sulla schiena, tentando d’incoraggiarla.
«Torno al dipartimento. Devo fare una ricerca su questo
Shem Gaynor.»
*
Quando Sari aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu
sua madre, distesa sul letto dell’ospedale. Dormiva ancora.
Evidentemente lo shock l’aveva privata quasi completamente delle
forze. Sari l’aveva vegliata tutta la notte, ma era crollata alle
prime luci dell’alba, esausta.
Il volto giovanile di sua madre sembrava invecchiato di
colpo, o almeno questa era l’impressione che Sari aveva in quel
momento, mentre la studiava nella penombra offerta dalla persiana
calata. Il dolore e la rabbia per ciò che era accaduto si
risvegliarono nella ragazza al pensiero di quello che aveva passato
la madre. Se soltanto avesse potuto risparmiarle la vista dello
scempio sul corpo di Adrian…
Si voltò verso la porta quando sentì qualcuno entrare,
e vedere Amaya sulla soglia le diede un improvviso sollievo.
«Come sta tua madre?»
Sari condusse l’amica fuori dalla camera.
«Sta cominciando a riprendersi un po’ alla volta,
anche se sembra ancora piuttosto confusa. Dice che quando papà era
tornato a casa, le era apparso molto agitato. Mormorava di qualcosa
da nascondere, ma non so quanto di tutto questo sia causato dal
trauma che ha vissuto» spiegò scettica.
«Dovresti riposare anche tu, comunque. Ultimamente
dormi poco e sei sempre distratta. In queste condizioni non
riusciresti neppure a lavorare» cambiò discorso Amaya. Era
evidente: era preoccupata per lei.
Sari sbuffò, scuotendo il capo.
«Non posso lasciare mia madre da sola.»
«È circondata da medici che la seguono costantemente,
e tra pochi giorni la dimetteranno. Ora hai bisogno di pensare a te
stessa.»
Sari non rispose, combattuta sul da farsi. Non voleva
lasciare sua madre lì, da sola, ma Amaya aveva ragione. Nonostante
si sforzasse di resistere, aveva bisogno di riposo. Si appoggiò con
la schiena al muro, sospirando.
«Mi prenderò una settimana di ferie dal lavoro e mi
riposerò, d’accordo?»
L’elfa annuì soddisfatta. «Prima di andarmene, c’è
una cosa che devo consegnarti.»
Frugò nella tasca del cappotto, e porse a Sari un
oggetto familiare. Era d’argento, piccolo ed elegante, con dei
motivi decorativi sul coperchio. Era l’orologio da tasca che aveva
regalato a suo padre sette anni prima.
Adrian non se ne separava mai, gliel’aveva confidato
lui stesso. Era il suo tesoro più prezioso. Eppure, per qualche
motivo, Amaya ne era entrata in possesso.
Doveva esserci una ragione più che valida, una
spiegazione che Sari aveva davvero necessità di sentire.
«Perché ce l’hai tu?»
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Vedo
che siete un po' timidi, miei splendidi lettori. Ma forse è un po'
per la storia che è appena all'inizio, forse è un po' per lo stile
acerbo che spiazza (e giustamente, aggiungo, soprattutto per chi già
mi conosce con “Obsession- quando la passione diventa veleno”).
Qualunque sia il motivo, lo ritengo comunque più che giusto, tanto
più che forse questo genere di storia vi lascia un po' perplessi.
Non
vi nascondo che sono tentatissima di rallentare tutto e riscrivere
ogni capitolo prima di pubblicarlo, ma visto che ultimamente non sono
molto fortunata con le riscritture (ne sanno qualcosa i lettori di
Obsession, che stanno aspettando secoli per i nuovi capitoli), ci
penso due volte prima di farlo.
Ad
ogni modo, siccome mi piace viziarvi e riempirvi la pancia di
golosità, questo giovedì vi do un doppio aggiornamento, sperando di
farvi cosa gradita. Perciò andate pure al capitolo successivo, e
buona lettura! :)
Brin
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Capitolo 5 *** un nome che non c'è ***
5
ATTENZIONE! Oggi
ho deciso di fare doppio aggiornamento, per cui prima di leggere
questo capitolo assicuratevi di aver letto prima il capitolo 4,
pubblicato anch'esso poco fa.
Buona
lettura,
Brin
5.
UN
NOME CHE NON C'È
*
Le dita di Silver si muovevano veloci sulla parete
dell’ologramma verde, aprendo sezioni dell’archivio anagrafico.
In circostanze normali l’accesso era consentito solamente alle alte
sfere della Corporazione, ma nei casi speciali venivano rilasciati
permessi speciali. E quello era un caso decisamente eccezionale.
Sull’ologramma prese forma la scritta “inserire
nome e cognome”. Silver tracciò col
polpastrello una scia che si compattò immediatamente, rendendo ben
visibile il nome. Shem Gaynor.
La schermata verde dell’ologramma scomparve, e una
nube nera sulla quale troneggiava una scritta verde la rimpiazzò.
Nessun articolo
dell’archivio corrisponde alla voce digitata. Controllare di aver
inserito correttamente nome e cognome.
Silver rimase basito. Probabilmente aveva scritto male
il nome e non se n’era neppure accorto. Quando ripeté
l’operazione, il risultato non cambiò: la stessa scritta, di
nuovo.
Controllare di aver inserito correttamente nome e
cognome.
E Silver era letteralmente spiazzato.
Era assurdo. Gaynor formalmente non esisteva. Non
c’erano dati che ne rivelassero l’esistenza.
Non nell’archivio della polizia, non in quello di
Artika, non in quello del regno.
Sospirò abbattuto.
Quando aveva controllato nel dipartimento e non aveva
trovato nulla, aveva pensato che si trattasse di una persona
incensurata. Così si era messo in contatto con il carcere di Artika,
sicuro che l’avrebbe trovato nello schedario, ma ancora una volta
aveva fatto un buco nell’acqua: Shem non risultava tra i dipendenti
della prigione.
La faccenda cominciava a puzzare, ma non aveva ancora
perso le speranze di trovare notizie che potessero condurlo a Gaynor.
Gli rimaneva da giocare la carta vincente: l’archivio
della Corporazione, l’anagrafe del regno.
Come da legge, tutti i cittadini alla nascita dovevano
essere registrati all’anagrafe, e Shem non poteva fare eccezione.
Ne era così sicuro che si sarebbe gettato nel fuoco, ma anche questa
volta le sue aspettative erano state deluse.
Si incamminò verso l’uscita, sconsolato. Si fermò
sull’uscio, guardando per l’ultima volta il piedistallo che
conteneva la fotocellula che riproduceva l’ologramma.
Tutte le informazioni dell’archivio erano contenute
dentro quel piedistallo, custodite gelosamente dai membri della
Corporazione all’interno di microchip collegati alla fotocellula
attraverso sottilissimi cavi, che trasmettevano le informazioni
affinché le codificasse in immagini.
Uscì dalla stanza sbuffando, rinunciando a cercare
ancora notizie di un nome che, era sicuro, aveva digitato
correttamente. Ormai il dubbio si era insinuato in lui, e la sua voce
era così forte che Silver non riusciva a non dargli ascolto. Se Shem
non risultava nell’archivio, c’era un solo motivo.
Non era né un umano né un elfo. Non era un abitante
del regno.
Anzi, più precisamente veniva dal grosso e oscuro
continente al di là del mare. Veniva dal continente demoniaco.
L’idea di dover comunicare a Sari ciò che aveva
scoperto sul conto di Shem lo rendeva inquieto, e di una cosa era
certo: la psicologa non sarebbe stata affatto contenta.
*
L’espressione sul viso di Amaya era seria, un elemento
più che sufficiente per suscitare in Sari una strana sensazione di
disagio. Intuì subito che ciò che stava per raccontarle aveva a che
fare con la morte di suo padre.
«È stato mio padre a darmi quest’orologio. Quando il
signor Kalabis è tornato, è andato nella sua fucina e gli ha
chiesto un favore in nome della loro amicizia. Ha detto che non
avrebbe voluto coinvolgerlo, ma non aveva altra scelta perché era
l’unica persona di cui si potesse fidare. Gli ha dato una cosa,
anche se non so cosa sia dal momento che mio padre non ha voluto
dirmelo. Voleva che nascondesse questo oggetto sul fondo
dell’orologio. In realtà neppure mio padre ne sa molto a riguardo,
perché Adrian si è rifiutato di dargli delle spiegazioni. Diceva
che era meglio non compromettere ulteriormente la sua sicurezza,
nonostante lo avesse già costretto ad esporsi.
Lui non ha chiesto più nulla e ha fatto ciò
che doveva fare, ma non è riuscito a ridargli l’orologio perché...
beh, lo sai anche tu» terminò porgendo a Sari l’orologio, che se
lo rigirò tra le mani.
Era per questo che suo padre era stato ucciso? Per ciò
che era nascosto all’interno, qualcosa che probabilmente Shem
cercava? Non poteva affermarlo con certezza, ma sentiva che tutte le
cose scoperte fin’ora coincidevano. Provava la netta sensazione di
aver compiuto un passo in più verso la verità.
Prese la giacca e si diresse verso l’uscita, decisa ad
andare da Silver per raccontargli quello che aveva scoperto. Amaya la
seguì, ma quando videro il poliziotto materializzarsi sulle scale
con una strana espressione in volto, si fermarono.
Silver si accorse della loro presenza solamente quando
ci furono un paio di metri a dividerli. Qualcosa lo turbava,
l’espressione pensierosa sul suo viso lo diceva chiaramente.
«Che ci fai in ospedale?» domandò Amaya, perplessa.
«Gaynor non è umano.»
Sari guardò Silver con occhi sgranati. Non era sicura
di aver capito bene.
«Cosa?»
«Gaynor, il nostro indiziato numero uno, deve essere un
demone.»
«Ma no, non è possibile...» ora Sari cominciava a
essere confusa. Shem non aveva i tratti somatici di un demone, ne era
sicura. Quando l’aveva baciato non aveva notato nulla di insolito,
e l’unica cosa che avrebbe potuto mettere a tacere la sua capacità
di osservazione era il vino. Ma in quell’occasione si era appena
bagnata le labbra durante il brindisi, e nulla più.
L’affermazione di Silver era assurda. Scosse il capo,
sicura di ciò che aveva notato quella sera.
«I demoni hanno i canini più lunghi rispetto al resto
dei denti, e lui li aveva normali.»
«Ma è l’unica spiegazione possibile, Sari» cercò
di farla ragionare il poliziotto.
«No Victor, non può essere! Ti dico che non ha i
canini!»
«Come fai a esserne così sicura?» la domanda di Amaya
la colse in contropiede. Distolse lo sguardo, in imbarazzo. Sapeva
quale sarebbe stata la reazione dell’elfa se le avesse rivelato di
aver baciato Shem, ma non poteva evitare di rispondere.
«L’ho baciato.»
Vide Amaya accigliarsi, confusa. Quando l’elfa
realizzò cos’aveva appena sentito, la sua espressione divenne
prima stupita e infine irritata.
«L’hai baciato?! Ti avevo detto di non fidarti di
lui!»
Sari rimase in silenzio, senza riuscire a trovare le
parole per ribattere. Sapeva perfettamente che Amaya aveva ragione, e
dopo tutto che cosa avrebbe potuto dirle? Era stata ingenua, aveva
dato fiducia alla persona sbagliata, ma in fin dei conti non avrebbe
mai potuto immaginare che cosa sarebbe successo in seguito. E Amaya
la stava accusando. Quando si rese conto che stava alzando la voce,
stizzita, era già troppo tardi.
«Scusami se ho pensato che forse potevo dargli
fiducia!»
«E infatti guarda che cosa è successo!»
Il volto di Sari si rabbuiò improvvisamente, e Amaya
capì subito di aver toccato il tasto sbagliato. Tra di loro cadde un
silenzio pesante.
«Ora calmatevi, e soprattutto evitate di alzare la
voce. Vi ricordo che siamo in un ospedale» Silver le ammonì, e in
quel momento Sari si rese conto che tutte le persone nel corridoio li
stavano guardando. Provò l’irrefrenabile desiderio di scomparire
all’istante.
«Scusami» mormorò Amaya a bassa voce. Sembrava
sinceramente dispiaciuta.
«No, hai ragione. Mi sono lasciata abbindolare
nonostante tu mi avessi avvertito, e non ho voluto ascoltarti»
ammise Sari.
«Però la mia era solo una sensazione, non era
infallibile. Avresti anche potuto aver ragione.»
Sari fece spallucce, sorridendo mesta. Purtroppo i fatti
le avevano dato torto: si era lasciata ingannare, aveva concesso
fiducia all’assassino di suo padre. Le parole di Amaya non
sarebbero bastate per confortarla. Si sforzò di mantenere il
sorriso, ma qualcosa le diceva che doveva apparire piuttosto forzato.
«Ma non l’ho avuta. Piuttosto Victor, ti abbiamo
interrotto. Stavi dicendo?»
«Quel Gaynor è un demone, non c’è altra
spiegazione. Non risulta in nessun archivio del continente.»
«Come sarebbe a dire che non risulta? Hai provato a
guardare nell’archivio anagrafico della Corporazione?» suggerì
Amaya. Victor annuì.
«L’ho già fatto e non ho trovato assolutamente
niente. Neppure un piccolo cenno. Se voi due non l’aveste
conosciuto, potrei affermare che Shem Gaynor non è mai nato, morto
né tanto meno vissuto.»
A quella notizia, Sari si sentì persa. Non seppe cosa
pensare. Era sicura che Shem non fosse un demone, e non era mai stata
così certa di una cosa prima di allora. Eppure, quel ragazzo era
introvabile. Si sentì improvvisamente schiacciata dal senso di
impotenza che provò a quel pensiero, e l’idea di aver le mani
legate la irritò terribilmente. Non potevano fare nulla senza una
pista da seguire, il che significava che Shem l’avrebbe fatta
franca.
Strinse i pugni, frustrata da quella situazione assurda,
e si rese conto di avere ancora in mano l’orologio di suo padre.
Tutti quei pensieri le avevano fatto dimenticare momentaneamente la
conversazione avuta poco prima con Amaya, e in quel momento l’idea
di essere in possesso di qualcosa che potesse farle capire perché
suo padre era stato ucciso le risollevò il morale.
Sentì la determinazione riaffiorare e ridarle speranza.
Era una sensazione che non le dispiaceva affatto.
Mostrò l’orologio a Silver, lasciandolo dondolare
dolcemente.
«Forse so perché mio padre è stato ucciso.»
Il poliziotto si accigliò, senza capire che cosa Sari
intendesse dire. «Che cosa dovrebbe significare questo?»
«Che chiunque abbia ucciso mio padre cercava qualcosa
che è custodito dentro questo orologio.»
*
Erano riuniti nel cimitero. Una piccola folla, tutti
vestiti di nero. I loro volti erano addolorati, seriamente
dispiaciuti per la tragedia inaspettata che aveva colpito la famiglia
Kalabis.
Nessuno aveva il coraggio di fiatare, e Sari ne era
profondamente riconoscente. Se ne stava lì, a guardare mentre la
bara veniva calata nella fossa. A dare l’ultimo, difficile saluto a
suo padre.
È finita. Rassegnati.
Lasciarlo andare era la cosa più difficile. Accettare
la sua scomparsa voleva dire piegarsi di fronte alla gravità
dell’ingiustizia subita. Come avrebbe potuto trovare pace, senza
sapere perché suo padre era stato ucciso?
È finita, rassegnati. Davvero.
Non era possibile. Non riusciva ancora a credere che non
lo avrebbe più rivisto. L’unica cosa che riusciva a fare era
guardare la bara venire ricoperta di terra. Una manciata dopo
l’altra. Inesorabilmente.
Quando cominciò a piovere, metà della gente se n’era
già andata via. In pochi erano rimasti con Sari, e ancora non
sapevano che dire. Nessuno sembrava trovare il coraggio per farle
notare che era zuppa d’acqua, né che ormai la fossa era stata
richiusa. Nessuno voleva prendere l’iniziativa e farle notare che
anche i becchini se n’erano andati. Erano lì, alle sue spalle, ma
c’era un abisso di dolore a separarli.
Fu Amaya a scuoterla dal suo torpore, dopo che anche le
ultime persone che rimanevano se ne erano tornate a casa. Sari si
accorse della sua presenza solamente nel momento in cui sentì la
mano dell’elfa posarsi delicata sulla sua spalla. Lei e Silver
erano le uniche persone rimaste.
Strinse quella mano come se fosse il suo unico appiglio
in quel mare di disperazione, e l’elfa capì subito. La abbracciò
per attimi interminabili, accolse la testa di Sari sulla sua spalla
e, cullata da quelle braccia rassicuranti, Sari si sentì libera di
lasciarsi andare in un pianto liberatorio e intenso.
Pianse. Si disperò, aggrappandosi al cappotto di Amaya,
e l’elfa la strinse più forte a ogni singhiozzo che squassava il
suo corpo bagnato e intirizzito dal freddo.
Poi sentì altre due braccia cullarla, due mani
accarezzarle la testa, e la voce di Silver rassicurarla che avrebbe
sempre potuto contare su di lui. E pianse ancora e ancora.
Quando lasciò il cimitero era sfinita. Crollò sul
sedile posteriore della macchina, addormentata. Un sonno leggero e
agitato, al labile confine con la veglia. Lo stesso in cui sogno e
pensiero si mescolano; quello dove rivide sua madre dirle che non se
la sentiva di andare a salutare Adrian per l’ultima volta. Quello
dove vide lui.
Lui, che non era venuto al funerale e che le aveva
procurato un altro dolore.
*
Il giorno dopo la funzione, Sari si svegliò con un gran
mal di testa. Ricordava vagamente di aver passato la serata sul
divano di casa a guardare la televisione, dopo essersi riscaldata
sotto il getto d’acqua bollente della doccia. Aveva finito per
addormentarsi senza neppure rendersene conto. L’aver passato tutta
la notte sul divano le aveva procurato dei fastidiosi dolori alla
schiena, che uniti al mal di testa la facevano sentire uno straccio.
L’idea di cosa avrebbe dovuto fare da lì a poche ore, poi, la
faceva sentire anche peggio.
Ogni volta che lo vedeva, tornava a casa con un mal di
testa feroce e i nervi a fior di pelle; i presupposti c’erano
tutti, soprattutto dopo quanto le era accaduto, ma non poteva lasciar
correre. Non lo aveva detto neppure a sua madre: sapeva che se
l’avesse fatto, lei avrebbe disapprovato le intenzioni di Sari e le
avrebbe consigliato di lasciar perdere. Ma questo, Sari non poteva
farlo.
Era troppo arrabbiata con lui per desistere, e troppo
determinata a sbattergli in faccia tutto il suo sdegno. Quando partì
alla volta di Rosya il mal di testa era ancora lì con lei,
martellante e fastidioso, ma non sarebbe bastato per farla desistere.
Arrivò in città mezz’ora dopo. Parcheggiò la
macchina nei pressi delle mura e oltrepassò le cinta difensive,
percorrendo la strada in salita senza mai fermarsi.
Salì in fretta le scale di marmo che portavano al
palazzo della Corporazione, il quale dominava la città con la sua
forma slanciata e imponente.
Giunta a metà scalinata aveva già il respiro pesante,
e quando varcò il portone con i polmoni a corto d’aria, respirò
profondamente studiando la situazione: l’atrio era libero, a
eccezione della segretaria al bancone d’accoglienza, china su un
libro. Sembrava piuttosto assorta nella lettura. Non avrebbe notato
la sua presenza.
Detestava l‘idea di entrare nella Corporazione di
soppiatto come una ladra, ma era sicura che se si fosse rivolta a
qualcuno, l’avrebbero sbattuta fuori senza troppi complimenti.
Sgattaiolò verso l’ala ovest, attenta a non farsi
sorprendere dalla segretaria. Stava quasi per esultare, sicura di
essere riuscita a non farsi notare, quando una voce maschile alle sue
spalle la costrinse a desistere dal suo intento.
«Si fermi ed esibisca l’autorizzazione!»
Due guardie stavano correndo verso di lei, impugnando
delle lunghe lance d’avorio. Quando si frapposero tra lei e il
corridoio, Sari notò le loro orecchie a punta, caratteristica della
razza elfica. Le bastò uno sguardo per capire che non l’avrebbero
lasciata passare tanto facilmente.
«Ho bisogno di vedere Amos.»
«Il signore è impegnato in questo momento. Se vuole
vederlo deve fissare un incontro con la ragazza al bancone» concluse
una delle due guardie, indicandole la segretaria.
Sari sbuffò, ma decise di non fare rimostranze. Non in
quel momento, almeno. Si avvicinò al bancone, ma la ragazza sembrò
non accorgersi della sua presenza. Le guardie, alle spalle di Sari,
erano immobili; impettite nelle loro uniformi bianche. E la
guardavano.
Sari, ormai con le spalle al muro, tossicchiò. La
segretaria alzò lo sguardo su di lei sussultando, e nascose
malamente il libro sulle ginocchia. Le rivolse un sorriso imbarazzato
mentre si sfilava gli occhiali da lettura.
«In che cosa posso esserle utile?»
Sembrava cordiale e disponibile. Una donna di bella
presenza, di classe. Impeccabile, con i capelli raccolti in una
crocchia severa e una camicia che lasciava intravedere la curva del
seno. Un buon biglietto da visita: anche questo voleva dire
Corporazione.
«Ho bisogno di vedere Amos» rispose, impaziente. La
segretaria aprì un cassetto e ne estrasse un’agenda. La sfogliò,
e Sari constatò con preoccupazione che la ragazza stava saltando di
mese in mese.
«La prima data utile è tra quattro mesi» annunciò la
donna picchiettando con la punta della penna sulla pagina immacolata
dell’agenda.
«Che cosa?! Ma io ho bisogno di vederlo adesso, è
urgente!» esclamò Sari, indignata. L’idea che si dovessero
aspettare mesi per poter ottenere un breve incontro con i membri
della Corporazione era semplicemente ripugnante.
«Mi spiace, ma Amos ha molti impegni.»
«Si, certo» borbottò Sari, irritata. Era il
coronamento di una settimana orribile: una piccola facezia in
confronto a quello che le era capitato, ma che faceva pericolosamente
aumentare il suo mal di testa. E aveva i nervi a fior di pelle. Era
un connubio che l’avrebbe portata ad aggredire qualcuno, lo
sentiva. Stava per cedere e dare il proprio nominativo, quando una
voce conosciuta la chiamò per nome: alle spalle di Sari c’erano
due uomini che lei conosceva piuttosto bene, entrambi vestiti con
abiti di fattura pregiata.
Uno era giovane, e a una prima occhiata dimostrava una
trentina d’anni. I capelli neri erano ben pettinati, e gli
incorniciavano il viso curato. Gli occhiali tondi gli conferivano un
aspetto intellettuale che gli si adattava decisamente bene. La tunica
azzurra che indossava, ornata con motivi argentati, era un classico
abbigliamento da mago.
Jasper, l’assistente personale di Amos.
Ma la voce che aveva sentito non era la sua, ne era
sicura. Era stato l’altro uomo a chiamarla, lo stesso che ora le
sorrideva gentile. Era di razza elfica e aveva lineamenti eleganti e
movenze raffinate, regali. Era quasi interamente senza capelli, e una
barba bianca, vecchia di alcuni giorni, gli spazzolava il volto
segnato dalle rughe.
Era vecchio, esattamente come Amos, e proprio come lui
rappresentava una delle più alte cariche all’interno della
Corporazione. Per Sari non poteva esserci incontro più fortuito di
quello.
«Derfel, Jasper!»
«Vieni, Sari» l’elfo la invitò a raggiungerlo, e
lei non se lo fece ripetere. Le guardie sembrarono annaspare.
«Ma signore... La procedura...»
«Lei sta con me» spiegò cordialmente Derfel, e Sari
sapeva bene che nessuno dei presenti avrebbe potuto ribattere. Si
allontanò in silenzio seguendo il suo salvatore, ma dentro di sé
esultava: avrebbe potuto incontrare Amos grazie a un inaspettato
colpo di fortuna. Quel pensiero la fece fremere d’impazienza.
Ed era solamente merito dell’elfo che camminava
accanto a lei.
«Grazie mille Derfel, ti devo un favore.»
Lui sorrise. Da quando lo conosceva, aveva sempre avuto
un atteggiamento quasi paterno nei confronti di Sari.
«Figurati, per così poco… Piuttosto, immagino che tu
sia venuta qui per vedere Amos, giusto?»
Sari annuì. «Devo parlare con lui di una cosa che mi
sta molto a cuore. È urgente.»
«Allora ti lascio in compagnia di Jasper: ti porterà
lui da Amos. Mi dispiace non poterti accompagnare personalmente, ma
devo tornare ai miei impegni.»
«Non c’è problema.»
Derfel le sorrise, e per un istante Sari ebbe la
sensazione che volesse comunicarle tutte le scuse del mondo. Lui era
sempre stato così: attento, rispettoso, altruista. Avrebbe fatto
tutto ciò che era in suo potere per essere d’aiuto, ed era una
qualità apprezzata da molti nella Corporazione.
La guardò con una luce dispiaciuta e prudente negli
occhi, come se avesse il timore di dire la cosa sbagliata. E Sari
intuì subito che cosa stava per dirle.
«Le mie condoglianze per tuo padre. Spero di vederti
presto.»
Le appoggiò una mano sul braccio. Un gesto affettuoso
che faceva ogni volta che la salutava, ma che in quel momento le
sembrò particolarmente sentito. Sari ebbe la sensazione che volesse
trasmetterle molto di più, che volesse superare i limiti delle
parole e comunicarle una vicinanza che non sarebbe riuscito a
esprimere in altro modo.
Sorrise, cercando di ricacciare il nodo di emozioni che
minacciava di soffocarla.
«Grazie. Ciao Derfel» Sari abbozzò un sorriso non
troppo convinto, nonostante apprezzasse davvero le parole dell’elfo.
Seguì Jasper lungo il corridoio senza dire neppure una parola,
troppo impegnata a pensare a cosa avrebbe detto ad Amos. Cominciava a
essere nervosa.
Oltrepassarono un ampio portone in ferro battuto, uguale
a tutti gli altri nel corridoio. Sari non si stupì nel notare che la
stanza in cui si trovava era lussuosa. Aveva dimensioni enormi, e la
luce che penetrava attraverso le grandi vetrate valorizzava il
mobilio prezioso, di manifattura elfica.
Ma non perse tempo a rimirare gli arazzi antichi che
adornavano i muri, né i candelabri sontuosi che pendevano dal
soffitto: tutta l’attenzione di Sari era rivolta verso le due
persone che si trovavano oltre il lungo tavolo rettangolare, al
centro della sala.
Il generale Rider, un uomo dai lineamenti duri e
spigolosi e dallo sguardo arrogante, sembrava vagamente scocciato.
Probabilmente non si aspettava quell’intrusione, ipotizzò.
E poi c’era lui, Amos: un uomo anziano, con i capelli
bianchi che gli ricadevano fluidi oltre le spalle, e la costituzione
minuta del suo corpo che dava l’impressione di poterlo spezzare
come se fosse fatto di cristallo. Ma la sua espressione, in quel
momento così fredda e distaccata, suggeriva uno spirito difficile da
turbare.
«Jasper, portala via.»
«Ma signore, la ragazza vuole parlarle con urgenza…»
«Non vedi che sto parlando con il generale Raider?»
Amos indicò l’uomo di fronte a sé, che rivolse a Jasper un
irritante sorriso mellifluo.
«Sí signore, ma…»
«A mio avviso è senz’altro più importante quello di
cui mi sto occupando in questo momento. Dov’eravamo rimasti,
Hektor?» sentenziò, tornando a rivolgersi a Raider.
Zitta. Per l’amor del cielo, sta’ zitta.
Nonostante continuasse a ripeterselo, per Sari mantenere
il controllo in quel momento era quanto di più difficile potesse
fare. Uscì dalla stanza senza nemmeno una parola di saluto,
ingoiando indignazione per l’assoluta freddezza con cui era stata
trattata.
Jasper le corse dietro, avendo cura di richiudere la
porta della sala con il minimo rumore possibile. Quando raggiunse
Sari, la trovò a guardare fuori dalla finestra, appoggiata con una
spalla contro il muro.
«L’hai beccato in un momento un po’ delicato.»
La psicologa lo guardò, scettica. «A me sembra che lui
abbia troppi momenti delicati.»
Jasper sospirò, in evidente difficoltà. Sari ebbe
l’impressione che volesse difendere Amos a tutti i costi, ma che
non trovasse le parole per farlo.
«Vedi, è successa una cosa che non doveva accadere ad
Artika e…» si interruppe all’improvviso bianco come un cencio,
terrorizzato. Aveva lo sguardo colpevole di un bambino colto dalla
madre con le mani nella cioccolata.
«Ad Artika?» Sari divenne improvvisamente interessata.
Il mago sorrise nel tentativo di nascondere il proprio
nervosismo, ma il suo sorriso sapeva di costruito. «Sí, una
sciocchezza, un piccolo disguido che lo ha messo di malumore. Ora
devo tornare a lavorare, ho un sacco di impegni.»
«Non preoccuparti, vai pure» Sari gli sorrise,
evitando di far mostra dei propri sospetti.
Jasper si era tradito, era chiaro.
Aveva rivelato qualcosa d’importante che non avrebbe
dovuto farsi scappare, a giudicare dalla reazione che aveva avuto.
Era successo qualcosa ad Artika, qualcosa che potenzialmente aveva a
che fare con l’omicidio di suo padre. Nell’istante successivo
Sari bocciò quell’ipotesi: se la Corporazione sapeva qualcosa
riguardo alla morte di Adrian, l’avrebbe comunicato di certo alla
polizia. Ma nonostante tutto Silver non aveva ricevuto notizie.
L’unica cosa sicura era che Jasper nascondeva qualcosa.
Attese finché non lo vide sparire oltre l’angolo.
Finché non fu libera di agire.
Decise di azzardare. Ripercorse i propri passi, tornando
di fronte alla sala dove Amos e il generale Rider stavano parlando.
Appoggiò l’orecchio alla porta, concentrandosi per intercettare
quante più parole possibili.
«Avevi dato l’ordine di apporre i sensori anti-demone
nei corridoi?»
Era la voce di Amos.
«Certo signore, ed erano stati collaudati prima di
lasciare il luogo di fabbricazione.»
Il generale Rider. Sari si fece ancora più attenta.
«Dunque dovremmo arrivare alla conclusione che
l’infiltrato non era un demone?»
«Ma, se posso permettermi signore, il ritrovamento del
cadavere di quel ragazzo che avevamo mandato due mesi fa a Fixos ha
qualcosa a che fare con l’assassinio di Adrian?»
Il cuore di Sari ebbe un sussulto. Stavano parlando
della morte di suo padre.
Quando Jasper aveva parlato di qualcosa che non sarebbe
dovuto accadere ad Artika, si riferiva a questo. Amos sapeva
qualcosa, e aveva taciuto tutto.
La sola idea le fece ribollire il sangue nelle vene, e
l’unica cosa che riusciva a chiedersi era perché il mago non aveva
raccontato alla polizia quello che sapeva.
«È quello che intendo scoprire, Rider» fu l’ultimo
commento di Amos, e poi più nulla. Nessuna voce, solo passi che
diventavano sempre più vicini.
Sari riuscì ad allontanarsi dalla porta proprio pochi
istanti prima che Rider uscisse.
Aveva uno sguardo altero, sicuro di sé, magnetico.
Molte donne impazzivano per lui. Lo descrivevano come una bellezza
tentatrice e rude, ma per quanto riguardava Sari, il generale Rider
era prima di tutto un uomo inquietante. L’aveva incrociato un paio
di volte, sicuramente non abbastanza per conoscere una persona, ma
sufficienti per trarre una prima impressione. E quella di Sari non
era stata affatto positiva.
Lui la guardò sprezzante, uno sguardo che non le
piacque per niente. Si aspettava che le dicesse qualcosa, un commento
irritante sull’irruzione di poco prima, ma contro ogni aspettativa
di Sari il generale la ignorò, allontanandosi con passo sicuro.
«Che cosa ci fai ancora qui?» la voce di Amos la colse
di sorpresa. Era uscito e Sari non se n’era neppure accorta. La
guardava con un’espressione fredda e distaccata, le mani nascoste
dietro la schiena.
«Perché non sei venuto al funerale?» gli domandò con
tono accusatorio. Il mago inarcò le sopracciglia: sembrava
sinceramente sorpreso.
«Oh già, il funerale. Non avevo tempo, Sari.»
Per lei fu troppo. Si sentiva arrabbiata, indignata,
ferita. La testa le stava per scoppiare, il dolore era così forte da
stordirla, ma il suo primo pensiero era per lui. Per Amos, che ancora
una volta aveva dimostrato di non avere il minimo rispetto, né per
lei né per Adrian.
Tremò, fremendo di rabbia.
«Non avevi tempo?! Papà è morto, dannazione! Non hai
mai avuto tempo per nessuno, né per lui né per me, ma almeno potevi
sforzarti di venire al suo funerale!»
Stava gridando. Se ne rese conto solamente nel momento
in cui vide delle persone affacciarsi nel corridoio. Non riuscì a
distinguere se fossero guardie o maghi. In quel momento l’unica
persona capace di catturare tutta la sua attenzione era davanti a
lei, e la stava guardando come se le sue parole gli fossero scivolate
addosso. Amos era imperturbabile.
«Quando hai in mano le redini di un intero continente e
sei sull’orlo di una guerra decisiva per la tua specie, è
difficile trovare il tempo per andare a un funerale.»
L’effetto di quella frase fu travolgente: gli occhi
divennero rapidamente lucidi, il respiro si fece affannoso, mentre le
mani strette a pugno tremavano convulsamente.
E quando le lacrime scesero, per Sari non fu più
possibile trattenere oltre la rabbia.
«MA LUI ERA TUO FIGLIO, DANNAZIONE!!»
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Capitolo 6 *** Artika ***
6 artika
6.
ARTIKA
*
Sari
chiuse la porta dello studio con violenza. Aveva bisogno di stare da
sola, e il suo ufficio era l’unico posto in tutto il dipartimento
di polizia in cui avrebbe potuto trovare la tranquillità che
cercava. Si lasciò sprofondare sulla poltrona della scrivania,
concedendosi qualche istante per pensare. Era dannatamente nervosa.
Aveva
la sensazione che entro la fine della giornata avrebbe ucciso
qualcuno, ne era sicura. L’incontro con Amos era stato un disastro:
non era riuscita a sopportare la freddezza con cui suo nonno l’aveva
trattata, e i suoi nervi avevano ceduto.
Le
risultava difficile credere che Amos non provasse la minima tristezza
per la morte del figlio, ma il suo atteggiamento dimostrava l’esatto
contrario. E come riuscisse a essere così indifferente, per Sari era
un vero mistero.
Quando
aveva lasciato la Corporazione era sfinita, ma si era ugualmente
recata a lavoro nella speranza di ottenere una settimana di ferie. Il
suo capo aveva storto il naso.
“Ti
concedo tre giorni, non uno di più” le aveva detto, ma per
Sari erano troppo pochi: gliene sarebbero serviti di più se voleva
indagare sulla morte di suo padre.
Non
poteva permettere che fosse la Corporazione a occuparsi del caso. Non
poteva lasciare che Amos, la persona che sapeva qualcosa riguardo la
morte di suo padre, omettesse dettagli importanti ai fini delle
indagini.
Conosceva
abbastanza bene suo nonno per prevedere che avrebbe acquisito il
controllo di tutto, il caso sarebbe stato insabbiato in breve tempo,
e Adrian non avrebbe mai avuto giustizia. E questo non poteva
permetterlo.
Uscì
dal suo studio, diretta verso la sala congressi: l’unica che avesse
un riproduttore di ologrammi abilitato a dare accesso a informazioni
che potevano essere utili.
Quando
entrò, lo vide subito. Si trovava di fronte a file di sedie rosse,
sopra un piccolo piedistallo. Era un corpo cilindrico piuttosto alto,
sottile e nero. Sari si guardò attorno. Soltanto quando fu sicura di
essere l’unica persona nella sala, raggiunse il piedistallo.
Appoggiò
la mano sulla sommità del cilindro: la fotocellula incastonatavi
reagì immediatamente, riproducendo la schermata ologrammata di
partenza su cui lampeggiava il cursore. Sari lo guardò, pensando a
cosa digitare. Amos aveva citato una certa Fixos – probabilmente
una città- che lei non aveva mai sentito nominare in vita sua. Quel
nome era saltato fuori mentre il vecchio mago stava parlando di
quello che era successo ad Artika.
Solo
allora Sari pensò che ci doveva essere qualcosa di molto strano in
tutta quella faccenda.
Perché
Amos si dava tanto da fare per scoprire qualcosa sulla morte di
Adrian coinvolgendo addirittura il C.S.M, l’organo militare
d’assalto del regno di cui Rider era il generale, quando era più
semplice e meno oneroso in termini di tempo e denaro affidare tutto
alla polizia?
Dubitava
che fosse dovuto all’amore paterno, dal momento che Amos non aveva
mai dimostrato il benché minimo interesse verso tutto ciò che
riguardava la vita del figlio.
Strisciò
il dito sull’apposito spazio nell’ologramma, lasciando una scia
verdastra che si compattò in una parola netta e chiara. Fixos.
Attese
pochi istanti: la schermata sparì, rimpiazzata da una nuova.
Riportava delle foto in bianco e nero, probabilmente non troppo
recenti. Alcune erano vedute aeree di una piccola città e altre di
un edificio che, Sari non ne era sicura, a una prima occhiata
sembrava essere stata teatro di un grosso incendio. Tutto il terreno
attorno allo stabile era arido, spoglio, morto.
Spostò
lo sguardo verso le notizie riportate accanto all’immagine.
“Il
16 maggio 2058 venne localizzato un laboratorio demoniaco all’interno
della città di Fixos. Fonti ben informate dicono che fosse adibito
alla conduzione di esperimenti di genetica nera, ma qualcosa andò
storto e un grosso incendio divampò al suo interno. Le fiamme
divennero ben presto impossibili da controllare e invasero la città.
Nessuno sopravvisse.”
Genetica
nera. Una fusione tra magia nera -la magia dei demoni- e la genetica
umana. Da ciò che sapeva, veniva ritenuta ottima per manipolare
organismi viventi e renderli potenziali armi da usare in battaglia.
Era una pratica che otteneva parecchi consensi tra i demoni, mentre
veniva aborrita dai maghi.
Sari
rilesse l’articolo una seconda volta, soffermandosi di più sulla
data.
2058.
Erano passati dodici anni da allora, eppure aveva sentito dire da
Amos che due mesi fa un uomo era stato mandato dalla Corporazione a
Fixos. Per fare cosa, dal momento che secondo l’articolo ogni cosa
era stata distrutta dall’incendio? Che cosa volevano i maghi di ciò
che si trovava a Fixos?
Qualunque
cosa fosse, doveva essere preziosa se era stata la causa della morte
di chi era stato mandato lì. Che avesse qualcosa a che fare con
l’orologio di suo padre? Se era così, probabilmente le due morti
erano collegate, e l’assassino poteva addirittura essere lo stesso.
Sari
ebbe l’impulso di dirlo subito ad Amos, ma l’istante successivo
qualcosa la fermò. Quasi sicuramente il mago l’avrebbe liquidata
senza neppure ascoltarla.
Sarebbe
stato solamente tempo sprecato.
Però,
ancora una volta, il suo pensiero tornò a Shem. Era sempre più
sicura che lui fosse coinvolto in tutta quella faccenda, e più
cercava di scavare a fondo, più ciò che scopriva risultava confuso.
Aveva trovato soltanto pochi indizi, e non riusciva ancora a
collegarli tra loro: l’unica cosa che poteva fare era indagare
ancora più in profondità, e questa volta cominciando dall’inizio.
Premette
il palmo della mano sulla sommità del cilindro, e l’ologramma
svanì come fumo. Quando uscì dalla stanza aveva in mente un piano
ben preciso, ma per metterlo in atto doveva riuscire a ottenere
l’appoggio di una persona autorevole.
Si
fermò di fronte a una porta, mentre la mente già pensava a come
comunicare ciò che aveva intenzione di fare. Guardò la targhetta
affissa sul legno. “Ufficio di Victor Silver”.
Non
l’avrebbe presa molto bene, ma avrebbe potuto convincerlo se
l’avesse affrontato con determinazione.
Bussò
con il cuore in gola, e quando entrò lo vide chino sulla scrivania,
indaffarato con scartoffie burocratiche. Andare direttamente al
nocciolo della questione era la soluzione migliore, si disse.
Coraggio
e una discreta dose di faccia tosta erano tutto quello che le
occorreva in quel momento, e lei ne aveva a sufficienza.
«Voglio
che tu mi faccia introdurre clandestinamente ad Artika.»
Silver
sollevò lo sguardo su di lei. Era sorpreso, e sembrava essere sul
punto di scoppiare a ridere.
«Che
cosa?»
«Victor,
io devo entrare in quel carcere. Devo trovare Shem, e so che questa è
l’unica pista che posso seguire per arrivare a lui» gli spiegò
appoggiando le mani sulla scrivania. Cercò di essere più seria
possibile. Era essenziale che capisse che non stava scherzando, che
quello non era un capriccio.
Silver
scosse negativamente la testa.
«Non
è una buona idea, Sari. Al di là
del fatto che non saprei come farti introdurre là dentro...»
«Documenti
falsi?»
Il
poliziotto si coprì il volto con una mano.
«Non
posso procurarti documenti falsi, Sari! Sono un agente di polizia!»
Non
fu abbastanza per far vacillare la convinzione di Sari; se ne rese
conto non appena la guardò negli occhi.
«Se
non vuoi infrangere la legge, allora fammi avere un permesso speciale
dalla Corporazione per entrare nel carcere, magari per esaminare
meglio qualche carcerato.»
Silver
la guardò, scettico. «E come posso farmi dare un permesso dal
consiglio se non ci sono casi di cui necessita un chiarimento?»
«Non
c’è bisogno di ottenere un vero permesso, posso falsificare la
firma di Amos senza troppi problemi.»
«E
questo non si chiama infrangere la legge?»
Sari
guardò Silver senza rispondere alla sua domanda. Era davvero
contrario a ciò che lei aveva intenzione di fare. Non aveva senso
continuare a cercare di convincerlo, se le sue reazioni erano così
intense. Si alzò, dirigendosi verso la porta.
«Se
non mi vuoi dare una mano non importa. Farò da sola.»
«Aspetta»
Silver sospirò. Era tormentato, soprattutto in quel momento.
Guardava a terra, indeciso sul da farsi, combattuto tra il dovere che
il suo ruolo imponeva e il bisogno di aiutare l’amica.
«Farò
in modo di procurarti un permesso falso entro domani mattina. Intanto
prepara i bagagli: dovrai imbarcarti sulla nave che parte da Naima
per Artika.»
Sari
sorrise felice, prima di uscire. «Grazie.»
Silver
abbozzò un tenue sorriso cercando di apparire sereno, ma in realtà
era preoccupato. Non per il permesso falso, né per le ripercussioni
che questa sua decisione avrebbe potuto avere sulla sua carriera.
Continuava a chiedersi dove tutta questa faccenda avrebbe condotto
Sari, e il fatto di non riuscire a darsi una risposta lo rendeva
decisamente inquieto.
*
Sari
ficcò le mani nella tasca interna del giaccone termico che
indossava, dove erano nascosti i documenti falsi: il foglio con il
permesso e il passy per entrare nella nave.
Nessuno
poteva imbarcarsi se non aveva la tessera che lo riconosceva come
lavorante ad Artika, qualunque mansione svolgesse. Tutto per il
solito, assurdo desiderio di segretezza e circoscrizione delle
attività del carcere.
La
nave sfilava tra i ghiacci, sicura e imponente, e Sari non poteva
fare a meno di guardare con angoscia l’orizzonte, dove si profilava
la sagoma di Artika.
Era
una struttura tozza, bassa e larga, dalla forma rettangolare che la
rendeva anonima. Delle piccole feritoie fungevano da finestre, mentre
il piccolo e insignificante stabile al suo fianco era il dormitorio
di chi lavorava nella prigione di massima sicurezza.
Non
era un caso che proprio il continente di ghiaccio, quello più a nord
di tutti, fosse stato scelto per ospitare l’edificio: chiunque
avesse tentato la fuga sarebbe morto, stroncato dalle condizioni
climatiche estremamente rigide. E anche nell’improbabile caso in
cui un evaso fosse riuscito a sopravvivere, l’oceano che separava
il continente dal regno di Silindril avrebbe finito l’opera che il
gelo non aveva portato a termine.
Diversi
camion uscirono dalla stiva quando la nave attraccò. I passeggeri
scesero a terra, e si disposero ordinatamente in file per salire a
bordo dei veicoli. Quando fu il turno di Sari, la ragazza scoprì con
piacere che all’interno del mezzo c’era un gradevole tepore.
Dentro
la vettura erano in dieci tra uomini e donne, chiusi nel loro
silenzio con i nasi arrossati e screpolati dal freddo. Nessuno
sembrava aver voglia di parlare. Se ne stavano abbarbicati nei loro
giacconi, le bocche sprofondate nelle sciarpe, lo sguardo basso.
Sembrava che il freddo li avesse spenti. O forse era la vicinanza di
Artika, a soffocare le persone.
Sari
non pensò più. Cancellò ogni cosa dalla mente, chiudendo gli occhi
e lasciandosi cullare dal movimento del camion, schiava di un torpore
piacevole. Cadde addormentata, sfinita dalla tensione accumulata in
quei giorni, in un sonno leggero e senza sogni. Furono delle voci
provenienti dall’esterno a svegliarla. Quando aprì gli occhi,
scoprì che erano fermi. Non sapeva da quanto tempo, né aveva idea
di quanti chilometri avessero percorso fino ad allora.
«Siamo
arrivati?» domandò soffocando uno sbadiglio.
«Stanno
facendo scendere le persone» annuì una donna seduta accanto a Sari,
che cercò di scorgere qualcosa dal finestrino. L’unica cosa che
riuscì a vedere fu un imponente cancello nero. Si rimise a sedere
sbuffando, impaziente di entrare ad Artika.
L’occasione
di scoprire qualcosa su Shem era vicina. Forse sarebbe addirittura
riuscita a incontrarlo, ammesso che si trovasse ancora lì. La sola
idea la fece tremare. Come avrebbe reagito quando si sarebbe trovata
davanti la persona che sospettava essere l’assassino di suo padre?
I
suoi pensieri vennero interrotti quando le porte del camion vennero
aperte.
Un
folata gelida penetrò all’interno dell’abitacolo, spiacevolmente
fastidiosa, e Sari cominciò a rabbrividie. Un uomo –una guardia
del carcere, a giudicare dalla divisa- salì a bordo e fece loro
cenno di consegnargli i passy. Nella mano destra spiccava un copri
indice in acciaio, decorato con complicati motivi intarsiati sulla
superficie: un’arma piccola ma insidiosa, capace di tramortire in
pochi istanti creature di notevole massa corporea.
Controllò
i documenti di ogni passeggero, e quando fu il suo turno, Sari glielo
porse senza lasciar trasparire la minima agitazione. Continuava a
ripetersi che sarebbe andato tutto bene, che non l’avrebbero
scoperta. Doveva rimanere calma, senza dare nell’occhio.
Sbirciò
con naturalezza l’uomo: a giudicare dal suo volto inespressivo non
doveva nutrire il minimo sospetto. Quando le restituì il documento,
la mano di Sari ebbe un tremito: la psicologa impallidì, capace
solamente di rimanere a guardare mentre il suo corpo la tradiva,
rivelando l’agitazione che era riuscita a controllare con fatica
fino a quel momento.
Ma
la guardia non sembrava essere affatto sospettosa. Ai suoi occhi quel
tremito non nascondeva nessun significato, era una cosa del tutto
normale.
«Ti
abituerai presto al freddo» borbottò, continuando a controllare i
documenti.
Sari
si accoccolò sul sedile con un timido sorriso imbarazzato, lo
sguardo basso e il cuore che le martellava nel petto. Provava
l’irrefrenabile desiderio di diventare invisibile. Era
terribilmente consapevole di quanto fosse stata vicina all’essere
scoperta, e nonostante tutto l’idea di esserne uscita indenne non
riusciva a ridurre l’ansia che provava.
Si
permise un sospiro leggero solo quando il camion riprese a viaggiare
tra la neve, oltrepassando i cancelli del carcere. Era fatta: era ad
Artika.
Lasciarono
i passeggeri vicino all’ingresso dell’edificio e Sari arrancò
con difficoltà fino al portone. La neve le impediva i movimenti,
catturando le caviglie in una morsa gelata.
Quando
raggiunse l’entrata, le si presentò di fronte un lungo corridoio,
grigio e freddo. Le luci artificiali erano così fioche da darle i
brividi.
Continuò
a camminare oltrepassando lo sportello della segreteria, o almeno
così recitava la targhetta sul muro. Ora veniva la parte più
difficile: trovare Shem.
Sapeva
che lavorava nel reparto di psichiatria, ma non aveva la più pallida
idea di dove si trovasse.
Si
fermò, guardandosi attorno indecisa. Non aveva molte alternative.
Decise di tentare.
«Mi
scusi…» si avvicinò allo sportello della segreteria. Dall’altra
parte, un uomo obeso stava archiviando dei file nel database di un
ologramma, ma sembrava essere troppo assorbito dal suo lavoro per
accorgersi di lei.
«Mi
scusi!»
Fu
sufficiente per costringerlo ad alzare il naso aquilino
dall’ologramma. La studiò con sospetto attraverso le lenti
rettangolari degli occhiali, uno sguardo che riuscì a metterla a
disagio.
«Non
ti ho mai vista qui prima d’ora.»
Sari
si sforzò di fingere un sorriso. «No, infatti. Sono qui per una
perizia psichiatrica su un carcerato su ordine della Corporazione. Mi
potrebbe indicare dov’è il reparto di psicologia e psichiatria?»
L’uomo
si alzò, e qualcosa nel suo sguardo non le piacque affatto. Sembrava
che avesse fiutato qualcosa.
«Se
ti ha mandata la Corporazione allora dovresti sapere che il reparto
di psichiatria e psicologia non esiste.»
Il
sorriso di Sari crollò come sabbia al vento. Il corpo reagì prima
della mente, e nell’istante successivo Sari realizzò di star
correndo a perdifiato lungo il corridoio.
Poteva
sentire quell’ometto grassottello inseguirla alle sue spalle, e la
sua voce intimarle di fermarsi.
Il
terrore le aveva messo le ali ai piedi, e quando trovò il coraggio
di voltarsi indietro lo vide a una decina di metri da lei, che
tentava di raggiungerla con il grosso corpo che ballonzolava a ogni
passo.
Sari
tentò di aumentare la velocità. Doveva trovare il modo di
seminarlo, di nascondersi da qualche parte, di far perdere le proprie
tracce.
Stava
correndo alla cieca, disperata, quando all’improvviso vide delle
scale che portavano a un piano interrato, alla sua destra. Agguantò
il corrimano e corresse la direzione all’ultimo minuto, lanciandosi
giù per gli scalini.
Continuò
a correre, avvolta da un grigiore metallico inquietante.
Oltrepassò
una moltitudine di porte dello stesso colore del muro, uguali,
impersonali. Il corridoio sembrava non voler finire, e la voce
dell’uomo continuava a gridarle di fermarsi. Quando lo vide
scendere le scale, il panico si impadronì di Sari. Forse fu per
quello che quando voltò l’angolo e la scorse, non ci pensò su
neppure un istante ad aprirla: era una porta rossa -una tonalità
estremamente accesa- sulla quale spiccava un grande glifo formato da
tre semicerchi intersecati da un cerchio completo, che lei riconobbe
come un simbolo magico. Una porta molto strana, in mezzo a tutto quel
grigiore, e quando la aprì rimase per un istante titubante: davanti
a lei c’era il buio più totale.
I
passi del suo inseguitore, sempre più vicini, furono ciò che la
convinse: entrò nell’oscurità, chiudendosi la porta alle spalle.
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Capitolo 7 *** rinascita ***
7 rinascita
ATTENZIONE!
Anche
oggi ho deciso di fare doppio aggiornamento, per portare velocemente
la storia nel vivo. Per cui prima di leggere questo capitolo
assicuratevi di aver letto il capitolo 6, pubblicato anch'esso poco
fa.
Buona
lettura,
Brin
6.
RINASCITA
*
Rimase con la schiena incollata alla porta per un tempo
che non sarebbe mai riuscita a quantificare.
Sola, con il rumore terrificante del proprio respiro.
Quando sentì i passi dell’uomo diventare sempre più
vicini, Sari venne colta dal panico. L’avrebbe scoperta, ne era
sicura. Chiuse gli occhi, cercando di calmare quel cuore che sembrava
volesse uscirle dal petto. Rimase in ascolto.
Era dietro di lei, esattamente oltre la porta. Lo
immaginava mentre si guardava attorno, indeciso se entrare o no.
Pregò con tutta se stessa che non lo facesse.
Poi, all’improvviso, lo sentì allontanarsi: solo
allora si accorse di aver trattenuto il respiro. In quell’istante
tutta la tensione accumulata la travolse, e le gambe per un attimo
sembrarono non riuscire a reggerla. Non poteva permettersi di perdere
tempo, non ora che sapevano che qualcuno era penetrato all’interno
di Artika.
Si concesse solo pochi secondi per riprendersi, ma
quando impugnò la maniglia per uscire, qualcosa in lei le impedì di
abbassarla. Fece scivolare la mano verso il muro, alla ricerca di
qualcosa di ben preciso. Un interruttore. Quando lo trovò, non
indugiò neppure un istante, colta dalla curiosità di sapere cosa
c’era in quella stanza.
E fu una frazione di secondo.
«SPEGNI SUBITO QUELLA LUCE!»
Sari non se lo fece ripetere due volte, colta dal
panico. Non era sola. C’era qualcuno lì dentro, a cui
evidentemente la luce dava non poco fastidio. Da quello che era
riuscita a intravedere –in fondo alla stanza completamente bianca-
quella persona se ne stava seduta a terra dentro una gabbia e, a
giudicare dalla voce, era di sesso maschile. Il fatto che se ne
stesse al buio era decisamente singolare, ma in quel momento non
c’era spazio per le domande. Nella mente di Sari c’era una sola
parola, che in quel momento le sembrava particolarmente allettante.
Scappa.
Rimase immobile, in attesa, cercando di percepire ogni
minimo rumore per essere pronta alla fuga. Lo sentì ridere
sommessamente, ma non avvertì nient’altro. Era fermo.
Il panico cominciò ad abbandonarla, e Sari ritrovò la
lucidità. E con essa, molte domande. Chi era la persona che era in
quella stanza? Perché si trovava lì, al buio? La cosa era
decisamente intrigante, e desiderò saperne di più.
«Chi sei?»
«Avvicinati, non aver paura» lo sentì mormorare. La
psicologa mosse solamente un paio di passi. La situazione in cui si
trovava era decisamente assurda: era nel carcere di massima
sicurezza, nascosta in una stanza buia in compagnia di uno
sconosciuto che, per quanto ne sapeva, poteva essere chiunque. E
desiderava che lei gli si avvicinasse.
La cosa cominciava a renderla abbastanza nervosa.
«Chi sei?» gli domandò di nuovo, cominciando a
spazientirsi.
«Avvicinati.»
Sari non riuscì a impedirsi di sbuffare, frustrata dal
modo di fare di quella persona. Non poteva vederlo in faccia, perché
la luce gli feriva gli occhi, e sentiva il bisogno di scoprire chi
fosse. Di sapere perché si trovasse ad Artika.
Lì, al buio in quella situazione assurda, avere delle
risposte l’avrebbe –probabilmente- rassicurata.
Forse se l’avesse accontentato sarebbe riuscita a
ottenere ciò che voleva, si disse.
Decise di tentare. Raggiunse il fondo della stanza,
lentamente: il buio la faceva sentire tremendamente insicura. Una
sensazione che non le piaceva affatto, e che non contribuiva di certo
a calmarla. Quando sentì un rumore metallico, simile a delle catene,
si fermò all’istante.
Era incatenato, e la spiegazione poteva
essere solamente una: era un carcerato. Non si sarebbe mai aspettata
di incontrarne uno lì, in quella stanza, al buio. Le sue aspettative
erano state tradite, e la faccenda stava assumendo toni foschi che la
stavano facendo diventare maledettamente interessante.
«Cammina e vieni qua» lo sentì mormorare,
scandendo le parole. Era impaziente, se n’era accorta dal tono che
aveva appena usato, e la cosa la insospettiva. Non riusciva a capire
che intenzioni avesse, ma di certo il fatto che fosse un carcerato
non deponeva a suo favore.
Avrebbe potuto voltarsi e scappare fuori da quella
stanza. Lui era incatenato, non sarebbe riuscito a impedirle la fuga,
eppure non lo fece. Era intimorita e insospettita dalla situazione in
cui si era involontariamente cacciata, ma la curiosità era più
forte di ogni altra cosa.
Riprese a camminare, lentamente.
«Fermati» le ordinò, e lei non se lo fece ripetere.
Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio,
un gesto che faceva spesso quand’era nervosa, ma quando abbassò la
mano sentì qualcosa sfiorarla. Allungò il braccio lentamente, con
indecisione, finché non avvertì una superficie liscia a contatto
con la pelle. Spostò la mano mantenendo il contatto con quel
materiale, e capì che qualunque cosa fosse, sembrava continuare in
ogni direzione. Era una cella senza sbarre, trasparente: un alloggio
singolare, che stuzzicava ulteriormente la curiosità di Sari e
contribuiva a far diventare ancor più nebulosa l’intera faccenda.
Perché proprio una cella del genere? Che cos’aveva fatto
quell’uomo per essere lì?
«Liberami.»
Suonò come un ordine, così assurdo che lasciò la
psicologa di stucco.
«Che cosa?! No!» sbottò sconcertata. Si sarebbe
aspettata qualunque reazione da parte del carcerato. Rabbia,
disperazione e supplica furono le prime che le vennero in mente. Si
sentiva così pronta ad affrontarle, che quando ricevette solo
silenzio rimase spiazzata.
Attese una sua parola, ma l’unica cosa che riusciva a
sentire erano i loro respiri. Cominciava a sentirsi a disagio, e fu
sul punto di voltarsi e uscire da quella stanza quando la voce
dell’uomo disse una cosa che la sorprese.
Una cosa che mai si sarebbe aspettata di sentire in
quella circostanza.
«Tu non lavori qui.»
Sari fu incapace di rispondere, confusa da
quell’affermazione. Non era possibile che se ne fosse accorto:
erano immersi nel buio più totale, e quand’era entrata aveva
acceso la luce per una frazione di secondo; un tempo sicuramente
troppo scarso per riuscire a riconoscere una persona. Oltre tutto, se
era vero che la luce gli dava fastidio, non era possibile che fosse
riuscito a vederla in viso per quel breve istante. Ma per quanto
continuasse a ripeterselo, l’evidenza rimaneva innegabile:
nonostante la logica, quel carcerato era riuscito a indovinare. Come
ci fosse riuscito, rimaneva un completo mistero.
«Come lo sai?»
«Hai qualcosa di familiare...» sembrava che
riflettesse a voce alta, e il fatto che stesse ignorando le domande
che gli venivano poste, stava facendo perdere rapidamente la pazienza
a Sari. Il desiderio di capire stava diventando più forte di minuto
in minuto, ma ottenere risposte sembrava ormai impossibile. Stava per
rinunciare, pronta a occuparsi del motivo per cui si era infiltrata
ad Artika e gettarsi alle spalle quell’uomo misterioso, quando
capì.
All’improvviso tutto le fu chiaro. Come lui fosse in
grado di vedere al buio poteva avere un’unica spiegazione, così
semplice che si stupì di come non le fosse venuta in mente prima.
«Tu sei un demone?»
«Liberami.»
Sari iniziò a spazientirsi sul serio: stava perdendo
tempo prezioso senza concludere nulla.
«Vuoi rispondere a una mia domanda per una volta?! Come
fai a vedermi? Sei un demone?»
«Mi dispiace, ma queste sono due domande. Tu avevi
detto una» stava ridendo di lei, e la cosa la fece imbestialire
ancora di più.
L’assassino di suo padre era in libertà, e lei stava
perdendo tempo con una creatura che non aveva nulla a che fare con
Shem. Stava indugiando su una questione che non l’avrebbe portata
da nessuna parte.
«Basta, me ne vado» decretò, sospirando spazientita.
«Aspetta!» lo sentì gridare, una reazione insolita,
inaspettata. Per un istante, nella sua voce, Sari aveva sentito
qualcosa, un’urgenza che la sorprese. Era come se da
quell’imperativo dipendesse la vita di quella creatura.
Non ci fu tempo per dire nulla. Successe tutto in pochi
istanti: un rumore provenne dalle spalle della ragazza, simile a
quello di una maniglia che viene abbassata, e poi all’improvviso ci
fu luce. Artificiale, intensa.
Sari si voltò verso l’entrata, colta dal panico.
Nella sua mente non c’era più spazio per la creatura con cui aveva
parlato fino a pochi istanti prima. L’unica cosa che riusciva a
pensare era che l’avevano scoperta.
Nonostante tutto, però, l’uomo che era entrato non
sembrava avere cattive intenzioni. Indossava una tuta da inserviente,
e reggeva un vassoio con del cibo dall’aspetto non molto invitante.
La notò subito, e le rivolse un sorriso cordiale.
«Dovrei lasciare più spesso la porta aperta, se al
ritorno trovo una ragazza graziosa come te. Sei nuova? Ti hanno
mandata qui per sostituire Kalabis?»
«No, sono qua per svolgere altre mansioni. Sto ancora
imparando» cercò di sorridere, sforzandosi di apparire naturale e a
proprio agio, anche se il cuore stava per scoppiarle. Pregò con
tutta se stessa che quell’uomo bevesse quella bugia costruita al
momento, altrimenti si sarebbe trovata in guai ben più seri. Ma
l’inserviente non sembrava sospettare nulla: continuava a
sorriderle, gentile.
«Certo, Kalabis era il capo: manderanno una persona
anziana, con molta esperienza alle spalle per sostituirlo» annuì, e
per Sari fu come ritornare a respirare dopo una lunga apnea.
Non aveva idea di come avrebbe fatto a togliersi dai
guai se fosse stata scoperta. L’idea di rischiare la copertura
l’aveva fatta sentire con le spalle al muro, senza vie di uscita.
In trappola. Ma anche questa volta la fortuna era stata dalla sua
parte.
Preferì non chiedersi per quanto tempo ancora lo
sarebbe stata.
All’improvviso l’uomo nella gabbia lanciò un
lamento sordo, continuo, e Sari rimase sorpresa quando riuscì a
guardarlo: solamente in quel momento, con la luce, lo vedeva davvero
per ciò che era. E sembrava essere del tutto umano.
Se ne stava seduto a terra, con il capo chino e gli
occhi chiusi. Sul suo viso era dipinta un’espressione sofferente,
parzialmente nascosta dai capelli: una zazzera nera e spettinata, che
gli arrivava alle spalle. Delle catene gli trattenevano i polsi,
assicurate al muro, e l’abito logoro suggeriva che quell’uomo
fosse incarcerato da molto tempo.
«Spegni la luce» sibilò, ma l’inserviente lo
ignorò: si avvicinò alla gabbia, e sfilò dalla tasca del camice un
mazzo di chiavi. Ne infilò una nella serratura di una piccola porta
che dava accesso alla cella, ed entrò. Appoggiò il vassoio a terra,
a poca distanza dal carcerato.
«Tieni, mangia.»
«SPEGNI LA LUCE!»
Fu un urlo che fece sussultare Sari. Era sofferente:
tutto di lui lo gridava, dalla postura china del suo capo,
all’urgenza nella sua voce. Ma la sua richiesta venne di nuovo
ignorata.
L’inserviente uscì dalla cella richiudendo a chiave
la porta. Quando si voltò verso la psicologa, il suo viso era
illuminato da un’espressione sorpresa.
«Ah, ho capito! Ti hanno mandato qui per prendere il
posto di Shem, vero?»
«Lo conosce?» Sari non poteva essere più stupita.
Aveva pensato spesso a come avrebbe potuto trovare delle tracce, e
ogni volta aveva ipotizzato le traversie più improbabili e
difficili. Nelle sue previsioni il tempo che avrebbe impiegato per
avvicinarsi a Shem sembrava infinito, ma nonostante tutto la ruota
della fortuna stava girando insperatamente in suo favore: era ad
Artika da meno di mezz’ora, e aveva già davanti a sé una persona
che aveva incontrato e conosciuto Shem.
Era così emozionata che le risultò difficile impedirsi
di esultare.
«Non lo conoscevo proprio bene. Eravamo colleghi, ma
non avevamo mai legato. Era un ragazzino che se ne stava sempre sulle
sue e ti guardava come se fosse superiore a te. Personalmente mi
inquietava» l’uomo uscì dalla cella e la richiuse a chiave.
Indicò il corridoio invitando Sari a precederlo, sfoggiando un
sorriso cordiale. «Ti faccio da cicerone.»
«Grazie» la ragazza accolse l’invito senza farselo
ripetere. Nella sua mente c’era solamente Shem. Null’altro
importava, tranne quel piccolo ometto che lo aveva conosciuto. Tutto
ciò che l’aveva distratta fino a pochi minuti prima era
improvvisamente lontano anni luce. L’uomo incatenato, la sua
identità, il perché si trovasse in quella cella: tutto aveva perso
significato nell’istante in cui aveva sentito il nome di Shem,
pronunciato da quell’inserviente.
Ma quando fu di fronte alla porta, con la mano sulla
maniglia, lo sentì: un grido terribile e raggelante, un urlo che la
fece tremare di paura. Vide il carcerato contorcersi a terra, preda
di chissà quali spasmi mentre continuava a gridare; la bocca
spalancata e il viso sfigurato dal dolore che lo stava divorando.
E lei non era capace di muovere neppure un muscolo,
impietrita di fronte all’intensità di quella scena inaspettata.
Quando riuscì a riacquistare lucidità il primo impulso
fu di irrompere all’interno della cella per prestare soccorso al
carcerato che continuava a dimenarsi, ma aveva bisogno delle chiavi.
Guardò l’inserviente, e lesse nel suo volto qualcosa che la stupì:
aveva paura.
Nei suoi occhi c’era terrore puro.
Fissava quell’uomo che continuava ad agitarsi e a
gridare, e non riusciva a ritornare in sé.
Il perché quell’inserviente avesse avuto una reazione
così intensa, era un vero mistero.
«Lo aiuti, non vede che sta male?!» Sari tentò di
farlo ragionare. Era necessario che ritornasse in possesso del suo
sangue freddo. Farsi assalire dalla paura in quel modo non avrebbe
giovato a nessuno.
«Potrebbe essere pericoloso… E se lui…»
«Mi dia le chiavi. Ci andrò io.»
Lui la guardò incerto, ma alla fine cedette. Frugò tra
il mazzo, finché non trovò la chiave che cercava e gliela mostrò.
«È questa. Stai attenta.»
Sari annuì. L’istante successivo stava correndo verso
la cella con il mazzo di chiavi stretto tra le mani. Aprì la porta e
si precipitò al fianco del carcerato, senza curarsi di chiudersi la
cella alle spalle. Lo guardò contorcersi, preoccupata.
«Dove ti fa male?» domandò appoggiandogli una mano
sulla spalla con delicatezza. Si ritrovò a guardarlo negli occhi
grigi, e in quel momento capì subito che c’era qualcosa che non
andava.
E successe tutto troppo in fretta.
Il carcerato riuscì a strappare le catene dal muro, e
Sari si ritrovò a fargli da scudo senza aver avuto neppure il tempo
di opporsi.
Il cuore le batteva furiosamente nel petto mentre
cercava di rendersi conto di cosa fosse successo e lì, impotente tra
le mani del suo aggressore, annientata dalla paura, non aveva avuto
neppure il tempo di accorgersi delle garze sporche e consunte che gli
fasciavano i palmi.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare erano quelle mani
che le artigliavano la gola e il braccio, e la consapevolezza di
essere in trappola la travolse e per un istante la lasciò stordita.
«Andiamo» le sussurrò all’orecchio, e quando il suo
alito caldo le sfiorò il collo si sentì morire. Cercò di opporsi,
di fare resistenza, ma era tutto inutile. Lui la trascinò fuori con
facilità, sfoggiando una forza che il suo corpo magro non
dimostrava.
«F-fermati…» balbettò l’inserviente, neppure
troppo convinto. Era terrorizzato. Congelato dalla paura.
Sari ebbe la netta sensazione che la situazione sarebbe
peggiorata se non si fosse ripreso in fretta, nonostante sembrasse
impossibile che le cose potessero precipitare ulteriormente.
E nel vederlo inerme e sconfitto, venne colta dalla
disperazione.
«Aiutami! È disarmato, non vedi? Non può fare
niente!»
L’ometto scosse la testa. Sembrava sull’orlo del
pianto.
«Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a dire prima
di correre verso la porta, e prima che potesse rendersene conto Sari
si ritrovò caricata sulla spalla del suo sequestratore, come un
sacco di patate.
Il carcerato divorò i metri che lo separavano
dall’inserviente, e in pochi istanti gli fu letteralmente addosso:
non gli diede neppure il tempo di accorgersi che lui era lì, alle
sue spalle.
Gli appoggiò con malagrazia la mano libera sulla testa.
Poi fu terrore.
Orrore.
Morte.
Il grido dell’uomo fu così raccapricciante da far
accapponare la pelle. Sari lo vide accasciarsi a terra, la bocca
spalancata e gli occhi sgranati. Vuoti. Freddi. Spenti.
Non si muoveva più!
Quella consapevolezza la gettò nel panico.
«Che cosa gli hai fatto?!» urlò dimenandosi e
scalciando, con il grido di quell’uomo ancora nelle orecchie e la
consapevolezza agghiacciante di essere rimasta completamente sola.
Lui la rimise a terra, spingendola con violenza contro
il muro. L’impatto fu così improvviso e doloroso che lasciò Sari
senza fiato.
Quando si rese conto che il fuggiasco la stava
guardando, notò anche come il suo sguardo fosse impaziente e,
soprattutto, folle. Sembrava pazzo, ma al contempo anche lucido.
Un binomio che la inquietò e la terrorizzò.
«Ora tu mi aiuterai a fuggire da qui» mormorò lui con
un ghigno appena accennato, guardandola dritta negli occhi. Stava
aspettando una sua reazione. Probabilmente era sicuro che si sarebbe
mostrata terrorizzata, come un cerbiatto tremante tra le grinfie di
un predatore.
Lo guardò con odio, sollevando il capo con fierezza.
Non mi piegherò. Non lascerò che tu mi annienti con
la paura.
Lo pensò davvero, e quella convinzione la fece sentire
incredibilmente spavalda. Lo avrebbe potuto affrontare, ne era
sicura, ma quando lo vide alzare la mano non riuscì a impedirsi di
chiudere gli occhi: fu una reazione istintiva. E sentì qualcosa sul
suo viso, qualcosa che le sfiorava la guancia facendole il solletico.
La stava toccando.
Quel pensiero annientò in un istante tutto il suo
coraggio, e la paura divenne di nuovo sovrana. Rimase immobile,
desiderando solamente che tutto – qualunque cosa dovesse accadere-
finisse presto.
Poi si sentì toccare i capelli, e quando lo vide
annusarli seppe che non avrebbe più potuto sopportare oltre quel
contatto.
Cercò di spingerlo lontano, di liberarsi della sua
vicinanza soffocante e terrificante, ma riuscì appena ad
allontanarlo di pochi di centimetri. Si fece prendere dallo
sconforto, cominciando a sentire il bisogno di piangere: si sentiva
maledettamente in trappola. Come se non bastasse, il suo sguardo
contrariato non prometteva nulla di buono.
La spinse contro il muro una seconda volta, con più
forza. Con più rabbia.
Sari si lasciò sfuggire un gemito di dolore.
«Devo ripetermi?» le domandò divertito, afferrandole
il mento e costringendola a guardarlo dritto negli occhi; a
vomitargli addosso tutte le emozioni che provava con un solo sguardo.
Sari lo accontentò volentieri, guardandolo con odio. «No.»
Non abbassò lo sguardo: lo mantenne fisso su quegli
occhi che la guardavano come se fossero folli, che provavano una
gioia perversa nel vederla tremare e tentare di opporsi a lui
nonostante la paura.
Quegli occhi grigi, così particolari e insoliti…
Penetranti, impudenti, comunicativi.
Occhi familiari. Occhi che aveva già visto prima di
allora. Occhi che la guardavano, e nascondevano un messaggio che
soltanto a lei era stato dato di leggere.
“Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non
è come sembra.”
Una parola.
Un cognome.
E, la cosa più sconcertante, era che doveva essere
morto.
La consapevolezza di ciò che aveva davanti la lasciò
stordita. Confusa. Sconvolta.
«Non è possibile... Warknife…»
Il carcerato si limitò a sogghignare, enigmatico.
«Grazie per aver accettato di collaborare, dottoressa.»
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Questo
capitolo è innegabilmente uno dei miei preferiti. Lo è stato da
subito, e spero che possa essere così anche per voi.
Come
forse molte di voi avranno immaginato, le comparse non sono messe lì
tanto per fare, e Warknife non è certo un'eccezione, ANZI. Ma posso
già dirvi che Artika in sette anni ha lavorato parecchio su di lui,
e i segni si vedranno. Oh, se si vedranno! :P
Detto
questo, vi lascio un po' di domande che hanno un loro motivo
d'essere: come ha fatto Warknife a uccidere l'inserviente? Perché è
stato rinchiuso in una zona protetta dalla magia? Perché la sua
cella non è di semplici sbarre?
Spero
che questo capitolo sia riuscito a stuzzicarvi un po'. Se avete
voglia, sapete che le vostre impressioni sono sempre ben accette :)
A
giovedì prossimo (questa volta con un solo capitolo),
Brin
|
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Capitolo 8 *** rapimento ***
7
7.
RAPIMENTO
*
Quando l’allarme squarciò il silenzio, rimbombando
lugubre tra i corridoi del carcere, il caos che ne derivò fu
immediato: le guardie correvano ovunque senza una direzione,
ignorando il perché fosse stata attivata quella sirena assordante.
Sapevano solamente che dovevano correre, con i sensi all’erta e la
mente pronta a obbedire a ogni ordine. E quando una voce gracchiò
dagli altoparlanti, esigendo che l’evaso fosse fermato, si divisero
subito in squadre come perfetti soldati: in pochi minuti coprirono
quasi tutta l’area dell’edificio, le armi in pugno e pronte a far
fuoco.
Corsero veloci, preparati a stanare la preda e
catturarla senza pietà, disposti a sacrificare anche l’ostaggio se
fosse stato necessario, quando l’altoparlante squillò di nuovo.
«Si sta dirigendo verso il generatore!»
C’era apprensione nella voce di chi aveva appena dato
l’allarme, lo capirono subito. Come intuirono il pericolo, che
diventava sempre più concreto di minuto in minuto: il carcerato si
stava dirigendo in una zona senza vie di fuga.
Verso il cuore del carcere.
Verso la sua fonte di energia.
Non potevano permetterglielo: dovevano fermare la sua
fuga quanto prima, o le conseguenze sarebbero potute essere
disastrose.
Tutte le squadre si diressero verso la stessa zona, ma
non furono abbastanza veloci: quando sentirono un rumore di spari
provenire dal generatore, capirono di essere arrivati tardi.
Qualcuno gridò, poi di nuovo spari.
E poi fu improvvisa.
Assordante.
Terrorizzante.
L’esplosione ferì i timpani; le orecchie sembravano
non voler smettere di fischiare, ma loro non potevano fermarsi.
Raggiunsero la sala del generatore senza troppe speranze di
riprendere il prigioniero, e ciò che videro era esattamente ciò che
si aspettavano di trovare: corpi riversi a terra, agonizzanti nel
loro stesso sangue; fiamme e lamiere contorte su se stesse; e lì
dove una volta c’era il muro, un enorme squarcio dal quale
entravano vento freddo e fiocchi di neve.
E sul manto candido che circondava il carcere, due paia
di orme. Riuscirono anche a vederle: due sagome che si allontanavano,
sfidando il gelo e il vento che ululava come se volesse rendere noto
a tutti che quella sarebbe stata la loro fine.
Perché di una cosa tutti erano sicuri: anche se si
scappava da Artika, non si poteva essere altrettanto fortunati con il
freddo.
Ci avrebbe pensato la neve ad arrestare la folle corsa
dell’evaso.
*
«Fermati» Sari arrancò esausta, con le caviglie
sprofondate nella neve. Camminare stava diventando sempre più
difficile, e ogni passo le costava un’enorme forza di volontà. Era
sfinita, infreddolita e impaurita, e il pensiero di essere da sola
con un assassino di massa non l’aiutava.
Da quando erano fuggiti non erano passate che un paio
d’ore, e il pensiero di tentare una fuga aveva fatto capolino nella
sua testa solo una volta, ricacciato subito dalla conclusione che
sarebbe probabilmente morta molto presto, per mano del suo
sequestratore o stroncata dal freddo.
Al diavolo la neve, pensò
concedendosi un breve istante di riposo. Quando lui la strattonò
tirandola per il polso, il suo corpo non fu abbastanza pronto a
rispondere e Sari si ritrovò carponi nella neve.
Soffocò a stento un’imprecazione, sentendo i
pantaloni bagnarsi e le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi.
Non fare la bambina. Non è il momento,
pensò.
Liberò il polso dalla stretta del fuggiasco con un
gesto improvviso, e quando lui si voltò a guardarla, lei non abbassò
lo sguardo. Si rimise in piedi senza esitare, a testa alta; lo guardò
a lungo, con astio.
«Ma brava… Dopo questo sfoggio di coraggio ti senti
più forte?» la canzonò con un sogghigno che minacciò di far
perdere la testa a Sari.
La ragazza strinse i pugni, imponendosi di tacere: aveva
i nervi a fior di pelle, ma doveva resistere. Si era già spinta
oltre nel momento in cui gli si era opposta liberando il polso dalla
sua stretta, e non poteva permettersi di irritare Warknife più di
quello che già aveva fatto.
Lo guardò in silenzio, sicura che non sarebbe riuscita
a trattenere parole inopportune se gli avesse risposto.
«Forza, cammina.»
E Sari non se lo fece ripetere. Anche se ogni passo le
costava una fatica enorme, anche se il suo corpo gridava per la
stanchezza e il freddo che lo intorpidiva, lei non si era mai sentita
così risoluta.
Avanzò nella neve, decisa a superare Warknife e a
dimostrargli che le sue parole sprezzanti non sarebbero riuscite ad
abbatterla, ma il suo corpo la tradì dopo pochi passi: sentì le
gambe cedere all’improvviso, così velocemente da non avere neppure
il tempo di sorreggersi con le mani.
Si ritrovò distesa sul fianco, sprofondata nella neve
mentre malediceva quei piedi che non l’avevano sostenuta. Mentre
imprecava contro quella situazione assurda, contro il suo rapitore,
ma soprattutto contro se stessa: aveva fatto di testa sua, e a causa
della sua ostinazione si era cacciata in un guaio dal quale non
sarebbe riuscita a uscire.
Sentì Warknife sbuffare, e lo immaginò mentre la
guardava scocciato.
«Muoviti, non ho intenzione di stare qui fino a notte
fonda.»
«Perché, secondo te io sí?» lo rimbeccò Sari
rialzandosi lentamente, e soltanto allora notò che il suo rapitore
non sembrava affatto irritato: la guardava con le braccia conserte e
un’espressione ansiosa che non prometteva nulla di buono.
Quando le fu abbastanza vicino, le afferrò il polso e
glielo torse, riducendo Sari di nuovo in ginocchio.
La ragazza gemette di dolore, costretta a piegarsi su se
stessa per cercare un po’ di sollievo. «Mi fai male, lasciami!»
«Allora cammina» una luce eccitata illuminò lo
sguardo di Warknife. Il suo tono di voce parlava chiaro: godeva nel
vederla in ginocchio, sottomessa, col capo chino. Sconfitta.
E quel pensiero era come vento per il fuoco che bruciava
dentro la psicologa, per quella rabbia che solo la paura di ciò che
lui avrebbe potuto farle sembrava riuscire a bloccare.
Lo guardò con disprezzo, cosa che sembrò irritare
ulteriormente l’evaso. La presa sul polso di Sari si fece più
salda, la torsione sempre più innaturale, e il dolore divenne
insopportabile.
«LASCIAMI!» gridò, arrabbiata.
Impotente.
Spaventata.
Era nelle mani di quell’assassino, mai come in quel
momento ne era stata consapevole: la forza con cui le stava torcendo
il polso era solo un assaggio di quello che avrebbe potuto farle nel
caso in cui lei non avesse obbedito.
Non aveva possibilità per contrastarlo, e si sentiva
messa con le spalle al muro, in trappola.
Stava per supplicarlo, quando sentì la pressione sul
polso venir meno. Il sollievo fu immediato.
Quando alzò lo sguardo, Warknife si voltò verso di
lei, guardandola irritato.
«Cammina o ti ammazzo.»
Nella sua voce non c’era più l’eccitazione perversa
di poco prima, ma non era il momento di rischiare. Sari si rialzò
barcollando, esausta, ma cercò di lottare contro il suo stesso
corpo. Raggiunse il suo rapitore, con i polmoni in fiamme per l’aria
gelida e i muscoli ormai senza forze, intorpiditi dal freddo.
Capì che non sarebbe riuscita a proseguire oltre quando
lo guardò negli occhi, e le venne naturale domandarsi com’era
possibile che lui, vestito solo con la casacca del carcere, non
subisse gli effetti del freddo. Come potesse avere ancora tutta
quella forza, quando lei riusciva a mala pena a reggersi in piedi.
Non riuscì a chiederglielo: sentì le forze
abbandonarla improvvisamente, e anche parlare le risultò
impossibile. Le gambe le cedettero di nuovo, le palpebre divennero
macigni e gli occhi le si chiusero senza che lei potesse impedirlo.
Avrebbe voluto rialzarsi, avrebbe desiderato continuare
a camminare, ma la stanchezza l’aveva prosciugata di ogni energia.
Le uniche cose di cui fu consapevole prima di perdere conoscenza
furono le braccia che la strapparono dalla neve, e il piacevole
tepore che avvertì nel momento in cui qualcosa di solido e caldo
aderì al suo petto.
*
Dal suo studio, Amos non poteva fare a meno di osservare
con l’attenzione di un falco quello che stava accadendo nel
cortile: il piccolo palco in pietra, utilizzato spesso nelle
conferenze con gli organi d’informazione del regno, era circondato
di persone. Giornalisti, nello specifico.
Una schiera di seccatori impiccioni e rumorosi, venuti
lì apposta per lui. Per conoscere cos’era accaduto nei dettagli.
Quando l’avevano informato della fuga del prigioniero
da Artika, Amos si era illuso di riuscire a tenere segreta la cosa,
ma evidentemente qualcuno si era lasciato andare a delle confidenze
fatte alle orecchie sbagliate. E ora erano tutti lì, affamati di
novità, ad assediare il palazzo.
Quando sentì bussare alla porta, non faticò a
immaginare di cosa si trattasse.
«Signore, i giornalisti stanno diventando impazienti.»
Era Jasper naturalmente, e qualcosa nella sua voce
sembrava implorare Amos.
Poteva immaginarlo dietro la porta mentre lo aspettava
saltellando sui talloni, incapace di stare fermo. Indaffarato e
diligente come una formica operaia, mentre cercava di svolgere al
meglio il suo lavoro e avere cura di tutto ciò che riguardava il
mago anziano.
Avrebbe fatto aspettare volentieri Jasper e i
giornalisti, ma aveva la netta impressione che se l’avesse fatto,
l’avrebbero tormentato per il resto della giornata.
Quando uscì in corridoio, sorpassando il suo
assistente, non lo degnò di uno sguardo. Si diresse verso il
cortile, accompagnato da Jasper che camminava un passo indietro a
lui, con il solito atteggiamento di riverenza che la gerarchia
imponeva.
Raggiunse l’esterno, e poco distante dal porticato
cominciò a intravedere la folla. Si fermò, approfittando della
sicurezza offerta dalla distanza che lo separava dai giornalisti,
sicuro di non venire visto né sentito da nessuno che non fosse
Jasper.
«Se dovesse esserci necessità, sai quando intervenire»
gli disse prima di dirigersi verso il palco. All’inizio sembrarono
non accorgersi di lui: continuarono a ciarlare tra loro, creando un
mormorio diffuso che risultava quasi fastidioso. Poi qualcuno esclamò
il suo nome, e la folla aprì lentamente un varco per permettergli di
passare.
Nell’istante in cui Amos mise piede sul palco, il
chiacchiericcio scemò rapidamente e il mago divenne il centro
dell’attenzione per tutte quelle persone che pendevano dalle sue
labbra.
Una situazione a cui Amos era ormai abituato da molto
tempo, ma che in quell’occasione non faceva altro che far aumentare
il principio di mal di testa che gli attanagliava le tempie.
«Signor Kalabis, ci può spiegare esattamente che cos’è
accaduto?»
A parlare era stata una donna: non più nel fiore degli
anni, ma di bell’aspetto, era vestita con un tailleur elegante che
probabilmente utilizzava per le occasioni migliori. In mano reggeva
un oggetto di forma ovale, luminoso, proteso quanto più possibile
verso il mago. Un registratore di suoni, compagno inseparabile di
chiunque lavorasse come giornalista.
Amos squadrò la donna, impassibile come sempre. Con
quello sguardo che sapeva incutere soggezione e che lui amava così
tanto ostentare. La guardò come se fosse senza valore, come se non
fosse degna di attirare la sua attenzione. Non si sarebbe soffermato
un istante di più a impegnare il suo prezioso tempo con chi non
stava al proprio posto.
Con chi lo interrompeva.
Con chi parlava al suo posto.
«Nulla che non sia già stato reso noto, signorina»
liquidò la faccenda con un cenno della mano.
Un brusìo si levò tra la folla di giornalisti, ma Amos
non vi diede importanza. Se desideravano commentare il suo modo di
fare, la cosa non lo turbava minimamente: preferiva essere
etichettato come persona sgarbata, piuttosto che perdere tempo in
chiacchiere inutili.
«Se il prigioniero è riuscito a evadere e a fuggire
con un ostaggio dobbiamo dedurre che il carcere non è una struttura
sicura come era stato assicurato?» era stato un elfo a parlare,
questa volta, e la postura di Amos si fece improvvisamente rigida.
Stava per ribattere che sarebbero stati presi seri provvedimenti a
riguardo, che i cittadini non dovevano fare altro che stare
tranquilli perché la Corporazione li avrebbe protetti, ma non gli fu
possibile.
«Si dice che questo prigioniero sia pericoloso: è
vero?» domandò un’altra giornalista. Amos tossì, irritato.
«Una domanda alla volta, per favore.»
«Che crimine aveva commesso l’uomo che è fuggito?»
«É un pluriomicida» spiegò, dicendo in fondo una
mezza verità.
«E come mai non è stato condannato a morte, signor
Kalabis?»
«Semplicemente perché la sentenza doveva ancora essere
eseguita. Se c’è una cosa che si fa ad Artika è rispettare
qualsiasi decisione presa dalla Corporazione» rispose Amos, ancora
una volta con quello sguardo impassibile, indecifrabile. Sembrava che
non ci fosse nulla che potesse toccare il mago al punto da fargli
assumere una qualunque espressione che non fosse l’indifferenza,
nessuna domanda abbastanza imbarazzante o fuori luogo, nessun
argomento che potesse metterlo a disagio.
Nulla, almeno fino a quel momento.
«Si dice che il carcerato fosse rinchiuso in una zona
particolare del carcere, chiamata zona rossa: ci può dire se esiste
realmente e, se è vero, che cos’è?» domandò un altro
giornalista, con il registratore in mano, pronto a catturare
qualunque dichiarazione interessante venisse fatta dal mago.
Non fu abbastanza accorto per notare l’espressione di
Amos. Più di mille notizie inaspettate, quello sguardo spento che si
rabbuiava all’improvviso sarebbe stata l’esclusiva perfetta.
Ma il mago era abile, e sapeva dissimulare molto bene
ciò che sentiva: gli bastò un battito di ciglia per indossare di
nuovo quella maschera imperturbabile che si addiceva così bene al
suo viso vecchio e stanco.
«Non ho mai sentito nominare nulla del genere, mi
dispiace.»
Fu facile ingannarli: nessuno si accorse del cambiamento
nel suo sguardo, e questo era esattamente quello che il mago
desiderava. C’erano cose di cui era meglio non parlare.
Cose che non dovevano essere conosciute.
Cose che stavano sfuggendo al suo controllo.
E questo Amos non poteva davvero permetterselo.
Quando vide Jasper salire sul palco, provò un enorme
sollievo: era finita, almeno per quel giorno.
«Per oggi la conferenza stampa è terminata. Il signor
Kalabis rilascerà al più presto una dichiarazione durante la
prossima conferenza e spiegherà in maniera più approfondita quanto
è accaduto» il giovane mago congedò la folla con un sorriso tenue
e cortese. Era il momento perfetto per dileguarsi, ora che
l’attenzione della folla, intenta a protestare contro quella
cacciata inattesa, era tutta rivolta verso Jasper: Amos ne approfittò
per scendere dal palco, velocemente.
Era perso nei propri pensieri; così preso dall’urgenza
di sottrarsi agli sguardi avidi dei giornalisti, da non accorgersi
della strana donna in ultima fila. Il suo aspetto era piuttosto
comune: capelli neri, occhi azzurri e una frangia che le spezzava il
viso lungo e magro. Ciò che la rendeva insolita, a una più attenta
osservazione, era il comportamento: aveva continuato a fissare in
silenzio Amos per tutta la durata dell’incontro, immobile tra i
giornalisti che si sbracciavano per fare una domanda.
Aveva seguito a braccia conserte ogni movimento del
mago, spiando ogni più piccola contrazione dei suoi muscoli,
memorizzando tutte le informazioni che riusciva a ottenere dalle sue
analisi.
Aveva compiuto il proprio lavoro come le era stato
ordinato, e ora che l’intervista era terminata, non aveva più
motivo di trattenersi oltre.
Si allontanò dalla folla, dirigendosi verso la
boscaglia che costeggiava il cortile. Un passo dopo l’altro,
cercando di apparire naturale, di non farsi notare, con in mente una
scusa già pronta da sciolinare nell’eventualità che qualcuno la
potesse notare mentre prendeva quell’insolita direzione.
Solo quando fu abbastanza lontana dal cortile e
sufficientemente protetta dalla vegetazione, si permise di agire.
Si morse un dito, incidendo la pelle del polpastrello
con i canini acuminati che caratterizzavano la sua razza, e il sapore
ferroso del proprio sangue le bagnò le labbra.
Quindi fu la volta del cerchio: lo disegnò tracciando
delle rune demoniache sul tronco più largo che riuscì a trovare.
L’istante dopo, lì dove c’era l’albero su cui aveva tracciato
la formula magica per manipolare lo spazio, si aprì il portale: un
vortice bianco, sfavillante, oltre il quale poteva intravedere i
contorni del luogo che doveva raggiungere.
Non indugiò. Con un passo entrò nel passaggio, e il
portale si richiuse alle sue spalle, risucchiandola in un luogo
lontano. Poi fu silenzio.
Non un rumore, non un movimento nel bosco.
Non erano rimaste neppure le rune di sangue a suggerire
che fino a pochi istanti prima in quella piccola boscaglia vi fosse
stato un demone.
Niente.
Come se nulla fosse accaduto.
*
Quando l’agente Silver sentì la porta del proprio
ufficio sbattere rumorosamente, capì subito che chiunque fosse
appena entrato non era di buon umore. Non gli sarebbe servito neppure
alzare lo sguardo dai documenti su cui stava lavorando, per sapere di
chi si trattasse.
E, soprattutto, aveva già un paio di ipotesi
riguardanti il motivo di tutto quel trambusto. Un motivo che
preoccupava anche lui, a dirla tutta.
Quando si decise a rimandare l’esame dei documenti a
qualche altro momento e a concentrarsi sul problema che gli era
piombato letteralmente in ufficio, sorprese Amaya a trafficare con il
piccolo lettore di ologrammi che giaceva abbandonato in un angolo
della stanza: stava cercando di inserire un piccolo chip, ma
l’operazione sembrava più complicata del previsto.
L’elfa si lasciò sfuggire un’imprecazione che fece
sorridere Silver.
«Quando ti deciderai a cambiare quest’affare?»
«Quando avremo soldi da spendere, suppongo.»
Amaya sbuffò. Stava quasi per rinunciare e darsi per
vinta, quando finalmente il chip scivolò all’interno della
feritoia: in quell’istante comparve la familiare schermata verde.
Al suo interno, era riprodotto un testo. Un articolo di
giornale, a giudicare dall’impaginatura.
«Spiegami che cosa significa» la voce di Amaya era
tagliente, e Silver capì subito che i propri sospetti erano fondati.
“Un pericoloso pluriomicida è evaso ieri dal
carcere di massima sicurezza di Artika e ha con sé un ostaggio, la
dottoressa Sari Kalabis.”
«Che cosa significa, Victor? Che ci faceva lì Sari?
Come ci è arrivata?» domandò Amaya con tono incalzante, rabbioso.
Lo stava accusando, Silver lo intuì, ma non poteva biasimarla: se
Sari era riuscita a penetrare ad Artika, era ovvio che qualche
persona influente l’aveva aiutata ad arrivare così lontano.
E, ipotizzando il ragionamento di Amaya, lui era la
persona più vicina alla loro amica. Quella che non sarebbe mai
riuscita a negarle un aiuto.
Ed era colpa sua se ora lei era prigioniera di un
assassino.
Si lasciò sfuggire un sospiro, amareggiato. Colpevole.
«Mi ha chiesto di farla infiltrare nel carcere per
riuscire a rintracciare quel tale, quel Gaynor.»
«E tu l’hai aiutata a entrare procurandole dei
documenti falsi» Amaya si coprì gli occhi con la mano, lasciandosi
cadere sulla sedia di fronte a Silver. Lui non disse nulla. Non ne
ebbe il coraggio.
Abbassò lo sguardo sui documenti che giacevano sulla
scrivania, senza realmente guardarli. Sarebbe stata questione di
pochi minuti prima che l’elfa perdesse la calma, ne era sicuro. Si
sarebbe lasciata andare alla rabbia e gli avrebbe dato addosso,
accusandolo di non aver fatto il suo lavoro.
Di non aver saputo proteggere Sari rifiutando la sua
richiesta.
Di essere irresponsabile.
Ma per quanto aspettasse, Amaya rimaneva in silenzio con
il viso coperto dalle mani, e Silver cominciò a pensare che forse la
predica non sarebbe mai arrivata.
Quando finalmente l’elfa si decise a guardare il
poliziotto, Silver si scoprì molto più turbato di quanto fosse
stato in precedenza: qualcosa nello sguardo di Amaya gli suggeriva
che c’era qualcosa che la affliggeva, qualcosa di cui lui era
ancora allo scuro e che riguardava Sari.
Qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Sari si è ficcata in un guaio più grosso di quello
che sembra.»
Silver la guardò senza capire di che cosa parlasse.
«Che cosa vuoi dire?»
«Vieni con me» Amaya si alzò, spense il lettore di
ologrammi, e uscì dall’ufficio assieme a Silver. Il poliziotto
intuì subito dove erano diretti non appena svoltarono l’angolo e
la vide: la sala convegni.
Era vuota, come ogni volta che Silver vi era entrato per
questioni private. Amaya azionò il lettore di ologrammi, che
decodificò subito le informazioni contenute nella memoria in
immagini: ne riprodusse una dal contenuto ben nitido e definito.
Due sagome che fuggivano dalla facciata di un edificio.
Fumo che si levava alto.
«È quello che le telecamere del perimetro esterno del
carcere hanno registrato. Queste immagini hanno iniziato a fare il
giro del regno già due ore dopo l’accaduto» spiegò Amaya, ma
Silver studiava l’immagine senza capire dove volesse arrivare
l’elfa.
Doveva esserci qualcosa di strano in quella fotografia,
qualcosa che spiegasse perché era stato trascinato nella sala
convegni, ma per quanto si sforzasse di cercare, non trovava nulla
che gli sembrasse rilevante.
Sospirò, sconfitto.
«So che la situazione è critica, ma non vedo come
possa essere ancora più grave di quello che già non è.»
Amaya premette alcuni pulsanti in rilievo sulla
superficie del piedistallo, e l’immagine divenne più grande.
«Se noi ingrandiamo l’immagine del 2000% e la
rendiamo più nitida, forse capirai meglio cosa voglio dire…»
Silver si concentrò sul volto ora ben visibile del
sequestratore. Gli sembrava un volto noto, ma non riusciva a dargli
un’identità. Non riusciva a ricordare dove l’aveva visto.
Sulle prime ipotizzò di averlo incontrato molto tempo
prima, nel corso di qualche interrogatorio, ma scartò rapidamente
questa opzione: ad Artika la pena di morte era inevitabile. Chiunque
vi venisse incarcerato, sapeva già che sarebbe morto lì dentro, in
poco tempo.
Non poteva essere un vecchio caso. Sarebbe già dovuto
essere morto, quella era la conclusione.
Eppure...
Scavò nella memoria, determinato a ricordare, quando
all’improvviso l’immagine di un volto gli ritornò vivida alla
memoria. Era un’ipotesi assurda, senza senso. Sapeva già che non
poteva essere lui, che non era razionalmente possibile che fosse
ancora vivo.
Corse verso l’archivio senza neppure accorgersi che
Amaya lo aveva seguito all’istante, chiamando il suo nome.
L’archivio era una sala enorme, piena di vecchie
cartelle gettate alla rinfusa negli scaffali, lasciate a impolverarsi
e ingiallirsi. A essere dimenticate da tutti.
Silver raggiunse subito la sezione che gli interessava:
sullo scaffale un’etichetta recitava “W”. Non perse tempo,
leggendo velocemente i nomi uno a uno, finché non vide la cartella
che cercava.
Il caso Warknife.
La trovò, la guardò, ma non la prese.
Lì, fermo a guardare quella cartella con quel nome
applicato sulla linguetta, si diede dello stupido.
Non era possibile che fosse lui. Non avrebbe trovato
nulla.
«Silver…»
Era Amaya.
E non diede retta a quella voce che insisteva nel dirgli
che stava sprecando tempo. Prese la cartella, e senza aprirla tornò
nella sala convegni. Quando entrò assieme ad Amaya, la foto di Sari
e dell’evaso era ancora lì, ingrandita come l’avevano lasciata.
Aprì la cartella. Verbali, schede, test di personalità.
E poi la vide: la foto.
La sfilò dalla cartella, e la confrontò con l’immagine
dell’ologramma. E ciò che vide era semplicemente assurdo.
All’apparenza potevano sembrare due persone
completamente diverse: l’una aveva il volto meno segnato, mentre
l’altra era decisamente più sciupata; il primo era più in carne,
e il secondo sembrava aver patito la fame.
In realtà, se le fotografie venivano confrontate con
attenzione, non potevano esserci dubbi: i lineamenti corrispondevano,
i tratti somatici erano uguali. Sembravano due persone diverse, ma in
realtà erano lo stesso uomo. Il rapitore di Sari.
«Com’è possibile che sia Warknife?! Ne avevano
annunciato la morte alcuni mesi dopo la carcerazione, me lo ricordo
bene! Come può essere ancora vivo?!» esclamò incredulo, senza
riuscire a distogliere lo sguardo da quel viso maschile riprodotto
dall’ologramma.
«Evidentemente non l’hanno giustiziato come avevamo
creduto...» suggerì Amaya a metà tra la delusione e la
rassegnazione, sfilando il fascicolo del fuggiasco dalle mani del
poliziotto.
«Ti ricordo che abbiamo a che fare con un assassino di
massa. Sai bene che è capace di uccidere molte persone nello stesso
luogo e nello stesso momento...» mormorò preoccupata facendo
scorrere gli occhi sui documenti. «”L’autopsia
effettuata sui cadaveri degli abitanti di Halifax ha reso possibile
ricondurre la morte alla bruciatura delle cellule neuronali”.
E se potesse accadere di nuovo?!»
Quando guardò Silver negli occhi, Amaya vi trovò
determinazione. Era angosciato per Sari, per Warknife in libertà,
per il pericolo che rappresentava, eppure sentì che il poliziotto
aveva preso una decisione.
Capì che c’era un’unica cosa possibile da fare, e
capì che Silver aveva la sua stessa consapevolezza. Lo vide
sorriderle, rassicurante, nel momento in cui ripose nel fascicolo la
foto dell’evaso.
«Semplicemente, dobbiamo fare in modo che non riesca a
farle del male. Dobbiamo catturarlo.»
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Capitolo 9 *** inseguimento ***
8 lzr
8.
INSEGUIMENTO
*
«Signor Kalabis, queste voci stanno diventando
pericolose» constatò Jasper, preoccupato.
Amos, seduto alla sua scrivania, era infinitamente
stanco, oppresso dalla vecchiaia e dalle responsabilità che il suo
ruolo implicava. Ma non poteva permettersi di mostrare le proprie
debolezze. Mai, neppure un istante.
«Lo so, ed è per questo che è essenziale
riprendere quell’uomo al più presto: la zona rossa deve rimanere
un segreto. È di vitale importanza che non ci siano testimoni
oculari in giro per il regno.»
Jasper abbozzò un sorriso leggero, lo stesso con cui
accoglieva ogni sentenza di Amos senza fare domande. Perché quello
era il suo ruolo: un assistente solerte, leale e discreto, e come
tale sapeva bene che c’erano cose di cui avrebbe inevitabilmente
sentito accennare, ma che non gli era consentito conoscere.
E Amos non chiedeva di meglio.
Nessuno doveva venire a conoscenza di cosa fosse la zona
rossa, se non in casi necessari, e ciò che era successo durante
l’incontro con i giornalisti ne spiegava perfettamente il motivo.
Aveva messo tutto se stesso in quel progetto. Non poteva permettersi
di sbagliare a un passo dalla realizzazione del proprio obiettivo.
Era arrivato a sacrificare persino suo figlio: non poteva autorizzare
una fuga di notizie che mettesse in pericolo il proprio operato.
«E come farà a catturarlo?»
Amos fece per rispondere, quando sentì dei passi lungo
il corridoio diventare sempre più vicini. Quando vide il generale
Rider sull’uscio porgergli i suoi rispetti , con il capo chino e la
mano sul petto, gli fece un cenno con la mano. «Vieni pure Hektor,
ti stavo aspettando.»
«Voleva vedermi, signor Kalabis?»
«Generale, immagino che avrai sentito di quell’uomo
che è fuggito da Artika prendendo in ostaggio mia... nipote…»
l’ultima parola fu quasi un sussurro. Amos era arrabbiato, Rider
riuscì a intuirlo nonostante l’espressione del vecchio mago fosse
fredda come al solito. Lo poteva ipotizzare dall’inflessione
rabbiosa della voce nel momento in cui aveva parlato di Sari; ma se
fosse arrabbiato con lei o per la piega che la situazione stava
prendendo, quello rimaneva un mistero.
«Sí, ho sentito qualcosa a riguardo.»
«Bene» Amos si alzò lentamente, lisciandosi la tunica
sgualcita «Prendi una squadra dei tuoi migliori uomini e setaccia
tutta Silindril, villaggio per villaggio; posiziona anche dei posti
di blocco di fronte all’entrata e all’uscita di ogni città se
vuoi, basta che li trovi.»
Aveva pronunciato ogni parola come se fosse un verso
sacro, come se non ci fossero altre alternative. Come se fosse
questione di vita o di morte.
Aveva pronunciato ogni parola con l’indifferenza nello
sguardo, ma dal tono di voce che Amos aveva usato, Rider intuì che
non gli era concesso ritornare a mani vuote. Non aveva parlato di
punizioni in caso di fallimento, né aveva accennato a minacce, ma
ciò che il generale riusciva a leggere tra le righe di quell’ordine
perentorio era ben peggio. Se fosse tornato senza la ragazza e
l’evaso avrebbe dovuto imbattersi in qualcosa di peggiore rispetto
a qualunque punizione, una cosa che temeva davvero.
La rabbia di Amos.
Si grattò un sopracciglio, sentendosi improvvisamente a
disagio al pensiero di ciò che rischiava.
«E con il ricercato come dobbiamo comportarci,
signore?»
Per alcuni istanti Amos non rispose. Congiunse le mani
dietro alla schiena, gesto che chi lavorava al suo fianco ormai
conosceva bene: significava che il mago stava riflettendo.
Come doveva comportarsi? Non lo voleva morto. No, era
troppo importante per lui.
Importante almeno quanto era pericoloso.
«Me lo devi riportare vivo. Non m’importa se ferito o
mutilato, basta che sia vivo.»
«Come desidera, signor Kalabis» Rider accennò un
inchino leggero, pronto a lasciare la stanza. Ma quando guardò Amos
con più attenzione, ebbe la sensazione che ci fosse qualche pensiero
che incupiva ulteriormente il vecchio mago.
«Un’ultima cosa, generale…»
«Sí, signore?»
«L’evaso è pericoloso, tienilo bene a mente.»
*
Il salone era buio. L’unica fonte di luce erano le
sparute candele che circondavano le colonne, troppo poche per
rischiarare quell’oscurità così pesante, ma sufficienti per
creare un’atmosfera languida e seducente, di perdizione, ideale per
quei baccanali di sangue e corruzione che erano così comuni alla
corte dei Maior.
Cominciavano al tramonto, e nel cuore della notte i
demoni erano così eccitati dall’odore del sangue da non capire più
nulla: era quello l’apice dei loro banchetti, il momento in cui
neppure un ordine del loro Signore avrebbe potuto tenerli a freno.
Era la Gloria: l’espressione più selvaggia e intensa della loro
natura, che terminava irrimediabilmente con lo scempio dei poveri
sventurati che erano stati catturati per il banchetto.
E i demoni minori, quelli dalle sembianze bestiali, non
aspettavano altro che potersi lasciare andare nell’estasi di quello
stato primitivo.
Erano creature diverse dai loro cugini di forma umana, i
Maior; meno evolute e più istintive. Non conoscevano sfumature né
vie di mezzo: sapevano solo uccidere e divorare.
Erano fondamentalmente stupidi, e avevano un fastidioso
problema: non sapevano controllarsi né pianificare un’azione. Non
erano capaci di aspettare, anche se questo voleva dire perdere un
profitto più grande. Avevano bisogno di avere ciò che desideravano,
subito. Non riuscivano a concepire il contrario.
Erano bestie di puro istinto che non erano state neppure
sfiorate dal raziocinio, e nonostante questo aspetto richiedesse uno
sforzo non indifferente per tenerli a bada, potevano rivelarsi
piuttosto utili in diverse situazioni.
Era per questo che Sarmon gli permetteva di accedere
nella dimora dei Maior, e gli offriva carne fresca con cui giocare e
riempirsi la pancia: in cambio di nottate passate a bearsi della
paura delle loro vittime, erano obbligati a giurargli fedeltà e a
obbedire a ogni suo ordine.
In caso di negligenza era sottinteso che non sarebbero
vissuti abbastanza a lungo per partecipare a un altro baccanale, ma
era risaputo anche che i demoni minori obbedivano al loro Signore
proprio per i festini che offriva loro. La vita veniva dopo.
Solitamente, però, in quelle occasioni Sarmon si
annoiava sempre, e anche quella sera non era da meno. Se ne stava
accomodato sul trono, quasi disteso, con una gamba a penzoloni oltre
il bracciolo e un’espressione annoiata sul viso spigoloso.
Guardava un gruppo di demoni, circa una ventina a occhio
e croce: sopra le loro teste era sospesa una gabbia, e all’interno
il giovane elfo che avevano catturato pochi giorni prima se ne stava
raggomitolato, tremante e terrorizzato. I demoni saltavano verso di
lui, salendo l’uno sopra l’altro, sbraitando versi osceni e
spalancando le loro bocche fetide non appena riuscivano ad
avvicinarsi al povero sventurato. Sentivano l’odore del sangue, e
questo li rendeva ancora più smaniosi.
Ed era sempre la stessa scena, ogni volta con un finale
che non cambiava mai.
Era così convinto che anche quella sera avrebbe dovuto
assistere al solito scempio, che quando la vide ferma all’ingresso
del salone pensò per un istante di essersela immaginata.
Ma quando si mosse, capì che quella figura era davvero
lì, e si stava avvicinando.
Era una donna che conosceva bene: aveva occhi azzurri,
capelli neri, una frangia corposa e due canini nascosti dalle labbra
socchiuse. Un aspetto ingannatore, apparentemente umano, ma in realtà
la sua essenza apparteneva a ben altra razza: era una demone,
esattamente come lui.
Sarmon si alzò in piedi, rivelandosi in tutta la sua
imponenza: era alto, magnetico nei movimenti, e la veste nera che
indossava era così leggera che sembrava aver vita propria.
Guardò la demone negli occhi, cercando di stabilire un
contatto particolare con lei, leggendo nel suo sguardo quello che era
così voglioso di sapere.
«Nova…?»
Un nome detto piano, nessuna domanda
formulata apertamente, ma in quelle due sillabe c’erano così tanti
quesiti, che potevano essere riassunti solo in un ordine.
Dimmi tutto.
La demone guardò il suo signore negli occhi, nello
stesso modo in cui lui l’aveva guardata, e in quello sguardo si
intuivano molte cose. Troppe, per poter essere dette lì, con una
ventina di demoni alle spalle intenti a gridare e ad ammazzarsi l’un
l’altro pur di affondare le zanne nella carne della loro preda.
E Sarmon non ci pensò neppure un istante.
«FUORI TUTTI!» tuonò, e nessuno osò più fiatare.
Rimase solo l’eco della propria voce a far rumore, ma divenne
sempre più debole. Quando scomparve, ci fu un silenzio di tomba:
aveva venti paia di occhi puntati addosso, sgranati, inespressivi,
vuoti. Occhi di mostri dalle fattezze bestiali, che erano
semplicemente stati interrotti quasi all’apice della loro frenesia
e non avevano letteralmente recepito l’ordine.
Fu abbastanza per far perdere il controllo al loro
signore.
Si avventò sul demone più vicino, dalla forma umanoide
ma con la pelle completamente trasparente e i piedi palmati. Con una
mano gli afferrò il mento, infilandogli le dita all’interno della
bocca per avere una presa più salda, mentre con l’altra gli
strinse la gola, impedendogli di respirare.
Il demone lo guardò con quegli occhi enormi e neri, che
ricordavano così tanto i pesci abissali, e Sarmon poté sentire
l’odore della paura provenire da quella creatura che stringeva tra
le mani.
Poi le zone della pelle a contatto con le mani del Maior
mutarono aspetto: prima divennero rossastre, poi nere. Si aprirono
tagli, comparvero pustole, e la necrosi si espanse diventando sempre
più maleodorante.
Il grido raggelante del demone sembrava non dover finire
mai, ma Sarmon non si scompose minimamente. E non si accontentò
neppure di vedere il demone spegnersi tra le sue mani, tentando di
dibattersi in preda a spasmi troppo dolorosi per poter essere
immaginati.
Continuò nella sua opera di corrosione, fin quando non
rimase altro che cenere.
«Fuori
tutti.» Fu un sibilo,
ma fu sufficiente: dopo che i demoni se ne furono andati, nel salone
erano rimasti solo lui e Nova. E l’elfo.
«Di lui che ne facciamo?» chiese la demone, indicando
il prigioniero.
Quando Sarmon guardò dentro la gabbia, vederlo ancora
più spaventato lo eccitò alla follia. Avrebbe desiderato da morire
approfittare del momento e torturarlo, farlo impazzire dal terrore
fino a indurlo a pregarlo di ucciderlo. E anche allora, non gli
avrebbe donato sollievo: questo era Sarmon.
Questa era la sua natura.
«Lasciamo che ascolti. Non vivrà più di un giorno.»
Vederlo piangere, disperarsi e invocare clemenza fu uno
spettacolo sublime, ma c’era qualcosa di più urgente. Qualcosa che
richiedeva l’attenzione del Maior. Subito.
«Che novità mi porti, Nova?»
«Sembra che la figlia di Kalabis sia stata rapita da
uno dei prigionieri di Artika, che è fuggito usandola come
ostaggio.»
Per Sarmon non fu affatto una buona notizia: era un
imprevisto fastidioso, che sconvolgeva i piani che aveva messo a
punto da molto tempo.
Cominciò a camminare avanti e indietro, mentre pensava
a un modo per arginare il problema. Ed era dannatamente nervoso.
Pensò rapidamente a tante soluzioni possibili, ma gli
sembrarono tutte così inadeguate che finì per scartarle rapidamente
l’una dopo l’altra. Finché non ne rimase una soltanto.
«Jariel!»
Fu l’eco della sua voce a rispondergli, di nuovo, e
mascherò ogni altro rumore nel salone. Quando scomparve, li sentì:
dei passi da prima lontani, e poi sempre più vicini.
E poi lo vide: un altro demone dalle sembianze umane,
esattamente come lui e Nova. Aveva i capelli corti e neri: un taglio
assolutamente normale, piuttosto comune. Ciò che lo rendeva
particolare erano gli occhi, per due motivi. L’iride: l’aggettivo
più appropriato era impressionante,
perché era completamente senza pigmento. Bianco. Non distinguibile
dal bulbo oculare.
Poi c’era la pupilla: aveva una forma insolita,
verticale. Ricordava molto quella dei serpenti.
«Jariel, c’è stato un cambio di programma…»
cominciò Sarmon, guardando di sottecchi Nova. Non si meravigliò di
sorprenderla a tremare: sapeva bene che la presenza di Jariel la
metteva a disagio, ma quello era un dettaglio del tutto
insignificante. «Sembra che la figlia di Kalabis sia stata presa in
ostaggio da un prigioniero di Artika.»
«Mi metto subito sulle sue tracce, mio Signore»
assicurò Jariel, non osando guardare Sarmon negli occhi. Una cosa
che era solito fare, come forma di rispetto.
«Signore, se posso suggerire penso che se la ragazza si
trovava ad Artika, doveva per forza avere un collegamento con il
padre. Forse è lei ad avere
quei rapporti» era Nova, questa volta. Sembrava inquieta, nervosa,
come se ci fosse qualcosa in Jariel che la disturbasse: non voleva
guardarlo.
Sarmon le sorrise, improvvisamente mellifluo.
«Nova, Nova... E tu pensi davvero che un padre
premuroso come Kalabis avrebbe coinvolto la figlia in una faccenda
che le sarebbe potuta costare la vita? No, io non credo. Che fosse
connessa con lui non lo metto in dubbio, ma dubito che sappia che
cosa possedeva il suo caro paparino.»
Nova non osò ribattere. Jariel non fiatò.
«Vediamo di convincerla a consegnarci spontaneamente
quei rapporti, che ne dici Jariel?»
«Certo mio Signore.»
Sarmon sorrise di nuovo, sempre mellifluo, come se il
suo atteggiamento nascondesse un doppio senso sottile ma pericoloso.
«Jariel, gradirei che finissi il lavoro che il nostro caro Shem non
ha portato a termine.»
«Lo farò mio Signore» il demone annuì, ma non osò
ancora guardare il suo sire negli occhi.
«È tutto, puoi andare.»
Jariel accennò un inchino, ma prima di allontanarsi
guardò Nova per l’ultima volta. E lei gli rispose con uno sguardo
carico di disprezzo e ostilità che rischiò di fargli perdere il
controllo: la demone notò subito come lo sguardo di lui si fosse
incupito all’istante, come se provasse l’intenso, seducente
desiderio di sopraffarla, di ridurla in ginocchio e di godere nel
vederla sconfitta. Strisciante.
Ma Nova sapeva che non l’avrebbe mai potuto fare di
fronte a Sarmon, ed era altrettanto consapevole dello sforzo immenso
che Jariel stava facendo per controllarsi e costringersi a lasciare
il salone.
E gioiva di tutto questo.
Quando rimasero da soli, lei e Sarmon, si sentì come
una bambina a cui era stato strappato il giocattolo dalle mani.
«Voglio che tu faccia un lavoretto per me. Segui
Jariel. Devi tenerlo d’occhio, senza che lui se ne accorga.»
Nova si accigliò, confusa. «Ma, se posso chiedere...
Perché lo ha mandato a recuperare una cosa così importante se non
si fida di lui?»
Sarmon sorrise, ambiguo.
«Perchè, mia cara Nova, uno come lui può rivelarsi
estremamente utile.»
*
La prima cosa che Sari sentì quando riprese coscienza,
ancora prima di aprire gli occhi, fu un rumore insolito che non
avrebbe dovuto esserci, simile al rollio di una nave. Forse stava
sognando.
Qualcuno la stava cullando, e quel movimento era così
rilassante da farle passare la voglia di aprire gli occhi. In più
c’era quel tepore, così piacevole da farle desiderare di dormire
ancora.
Tutto il contrario del freddo, della neve.
La neve!
Fu sufficiente a mandarla nel panico. Si sollevò,
improvvisamente sveglia, convinta di trovarsi chissà dove in mezzo
al ghiaccio, assiderata e prossima alla morte, ma ciò che vide la
lasciò basita: si trovava in un locale piuttosto grande, pieno di
casse assicurate alle pareti con delle cinghie. E il rollio non se
l’era affatto immaginato: era in una nave, all’interno di una
stiva.
E, appoggiato con la schiena contro una cassa, Warknife
la stava fissando.
«Che hai da guardare?!» sbottò Sari, a disagio.
L’istante successivo desiderò potersi rimangiare quella domanda,
immaginando chissà quale ritorsione da parte dell’evaso, ma lui
non si scompose minimamente.
Sembrava annoiato a morte.
«Guardo te perché non c’è nient’altro da fare»
rispose continuando a osservarla con insistenza e a Sari, per un
istante, quel modo di fare ricordò Shem.
«Potresti smettere di fissarmi, per favore?» borbottò,
cercando di non guardare Warknife in faccia. Sapeva che se l’avesse
fatto, non sarebbe riuscita a impedirsi di esplodere in una scenata
isterica.
«Perché?»
La sua domanda la spiazzò. Non era possibile che
quell’uomo ignorasse i fondamenti delle relazioni umane. Non era un
comportamento naturale fissare le persone, soprattutto con
insistenza. Non
coscientemente, almeno.
«È imbarazzante!» esclamò sbigottita, ma non fu
sufficiente per far desistere Warknife.
Ci rinuncio, pensò mentre si
stiracchiò. E solo allora, guardando meglio la stiva, le venne in
mente che non sapeva da quanto tempo fossero lì dentro, né tanto
meno dove fossero diretti.
Non sapeva nulla, in effetti.
«Mi spieghi come siamo finiti qua dentro?»
«Devo riuscire a levarmi queste maledette catene…»
mormorò Warknife, ignorandola completamente: un comportamento che
l’evaso aveva già tenuto in passato, e che faceva imbestialire
Sari. Aveva l’impressione che ci fosse qualcosa in lui, il riflesso
di qualche difesa che gli impediva di concentrarsi a lungo su chi gli
stava davanti. Come se avesse bisogno di fuggire, chiudendosi in se
stesso e nei propri problemi, grandi o piccoli che fossero, in una
forma di egocentrismo piuttosto infantile.
Ma Sari non poteva impedirsi di trovare la cosa
irritante: dover passare tutto il tempo a contatto con una persona
così sfuggente la prosciugava di molte energie.
«Allora?!» si piazzò di fronte, con le mani ben salde
sui fianchi, decisa a strappargli una risposta.
Voleva sapere tutto: come avevano fatto a penetrare in
una stiva, come erano riusciti ad arrivare al porto nonostante la
neve e il freddo… Perché non era morta assiderata…
«Che vuoi?» le domandò, continuando a studiare le
catene. Senza degnarla di uno sguardo.
Sari cercò di controllarsi, di rimanere calma. Uno
sforzo piuttosto impegnativo. Riuscire a capire com’erano andate le
cose sarebbe stato estremamente difficile, lo sapeva già.
«Come siamo finiti qua dentro?»
Si accorse subito che la sua voce era tesa, scocciata. E
non l’aveva notato solo lei, a giudicare dall’espressione di
Warknife. Quella domanda, posta con quel tono, aveva acceso il lato
più imprevedibile e inquietante dell’evaso.
La stava guardando. Puntando, più precisamente; come un
animale selvatico con la propria preda. E sorrideva perverso,
allucinato, mentre per la testa gli passavano chissà quali pensieri.
Sari venne colta dal terrore all’idea di essere da
sola e totalmente indifesa, in balìa di un assassino di massa così
instabile.
Warknife balzò in piedi all’improvviso, così
velocemente che per un momento Sari pensò che volesse attaccarla.
Credette che il cuore le sarebbe scoppiato per la paura.
«A piedi?» suggerì l’evaso, cominciando a girarle
attorno. Squadrandola da ogni angolazione.
Sari tremò quando lo sentì vicino. Le era alle spalle,
e le stava sfiorando i capelli, di nuovo. Un tocco leggero, un
contatto appena accennato, ma che fu sufficiente per farla
rabbrividire.
Gettò un’occhiata alla botola sopra la sua testa. Era
l’unica entrata, e di conseguenza anche la sola uscita. Ed era
troppo alta, almeno per una fuga improvvisa.
«Come mai non sono morta?» cercò di temporeggiare,
rimanendo immobile. In realtà, in quel momento sapere com’era
riuscita a sopravvivere nonostante il freddo era l’ultima delle sue
preoccupazioni.
Ma andava bene qualunque cosa, pur di distrarre Warknife
dai suoi pensieri.
«Ti ho portata fino alla nave» le rispose distratto,
sfiorandole lentamente il collo con il dorso della mano. E Sari
dovette reprimere un gemito d’orrore.
Era terrorizzata, impietrita dalla paura, e non sapeva
cosa fare. Se avesse tentato di sottrarsi al suo tocco, probabilmente
lui l’avrebbe interpretato come una provocazione, con conseguenze
che non voleva neppure immaginare.
Guardò di nuovo la botola. Forse qualche marinaio
l’avrebbe potuta sentire, se avesse gridato con tutta la voce che
aveva. E allora l’avrebbero trovata. E salvata.
Forse.
«E il freddo?»
«Ti sei scaldata con il calore del mio corpo. La mia
temperatura rimane costante, sempre» l’uomo avvicinò il viso al
collo di Sari, sempre di più, finché lei lo sentì così vicino da
sentirsi bruciare.
Nessun contatto; solo una vicinanza oppressiva.
Quando sentì il suo respiro sul collo, si sentì
morire. La stava annusando.
La sua pelle. Lei.
Chiuse gli occhi, e in quegli interminabili istanti si
ripeté che nulla di quello che stava accadendo era reale. Artika, il
rapimento, lui: erano tutti frutto della sua immaginazione.
Doveva essere così.
Ma quando sentì qualcosa di morbido e bagnato, capì
all’istante che per lei quello era decisamente troppo: la stava
gustando.
Al colmo della disperazione, non riuscì più a
trattenersi.
«AIU…» il grido le morì in gola, e il terrore le
trafisse il cuore: la mano di Warknife le coprì prepotentemente la
bocca, impedendole di parlare, mentre con l’altra le circondò la
vita.
Non poteva allontanarsi da lui. Non poteva chiamare
aiuto.
Era perduta.
Lo sentì fremere contro la sua schiena, in attesa.
«Se arriva qualcuno, vi ammazzo. Tutti» le sussurrò,
rabbioso. E Sari non aveva dubbi: l’avrebbe fatto davvero.
Rimasero in silenzio, pronti a cogliere il più piccolo
rumore, ma gli unici che sentirono furono il rollio della nave e le
voci lontane provenienti dal ponte di coperta. Non c’era nessuno
che si stesse avvicinando.
Nessuno aveva sentito il grido di Sari: fu un pensiero
che la sollevò, ma allo stesso tempo la gettò nello sconforto.
Cominciò a temere di non riuscire più a tornare a casa. Non tutta
intera, per lo meno.
E ora che il suo stupido tentativo di chiamare aiuto era
fallito, doveva fare i conti con la reazione di Warknife. Che, ne era
sicura, non sarebbe stata piacevole.
Si aspettò qualcosa di forte, che le togliesse il
respiro. Qualcosa di doloroso, che la costringesse a supplicarlo di
risparmiarle la vita. Fu per questo motivo che quando Warknife la
lasciò andare, Sari rimase stupita.
Lo guardò camminare avanti e indietro, ciondolante, con
le mani sulla testa e il passo pesante. Ogni momento che passava
sembrava renderlo sempre più agitato, e quando la guardava, nei suoi
occhi c’era rabbia e un miscuglio di altre emozioni che Sari in
quel momento non avrebbe potuto decifrare.
E non riusciva a fare altro che seguire con lo sguardo
ogni suo movimento, impaurita dal pensiero di ciò che avrebbe potuto
farle.
«Perché li hai chiamati?! Maledetta…» le sibilò
velenoso. In un primo momento le fu impossibile rispondere, del tutto
colta alla sprovvista. Quando si rese conto del vero significato di
quella domanda, però, non riuscì davvero a trattenersi.
«Vorresti farmi credere che ora la vittima saresti tu,
solo perché ho tentato di chiamare aiuto?! Sei pazzo, Warknife!»
sbottò sputandogli addosso tutta la rabbia, l’impotenza e la
tensione che aveva accumulato da quando lui l’aveva presa in
ostaggio. L’istante successivo si ritrovò con la schiena contro
una cassa, con un intenso dolore alla schiena e, soprattutto, con il
peso del fuggiasco che la schiacciava, impedendole di muoversi.
«Come mi hai chiamato?»
Per qualche insolito motivo, Sari non provò paura. Solo
rabbia.
Avrebbe desiderato spingerlo lontano, con forza, magari
facendogli male. Proprio come lui ne aveva fatto a lei. Ma per quanto
tentasse di liberarsi dal suo peso, l’evaso non si spostava di un
millimetro.
E Sari era sempre più rabbiosa.
«Warknife.»
L’evaso si allontanò all’improvviso, e la guardò
con un’espressione meravigliata. Non appena fu libera dal suo peso,
Sari ne approfittò per rialzarsi, allontanandosi il più possibile
da lui.
«No no no no... Non Warknife, dottoressa... Non
Warknife...»
«Cosa vorresti dire?» gli domandò, senza capire dove
volesse arrivare.
«Warknife è un nome falso, dottoressa.»
Sari lo guardò come se avesse perso il senno.
«Falso?! Che ragioni avresti per girare con un nome
falso?!»
«Già... Perché giro con un nome falso? È una buona
domanda, peccato che io non possa risponderti.»
Sari dovette fare uno sforzo non indifferente per
costringersi a non inveire contro di lui, contro quell’atteggiamento
snervante che sembrava divertirlo così tanto. Warknife rispondeva
sempre in modo approssimativo e ambiguo, e quella era una cosa che la
faceva imbestialire. Letteralmente.
«Dì, ti stai prendendo gioco di me?! Dimmi qual è il
tuo vero nome!»
«È una richiesta o un ordine?»Warknife le si
avvicinò, improvvisamente serio.
La guardò negli occhi, e lei sostenne il suo sguardo
con rabbia e determinazione, senza mai cedere alla paura. Non
tentennò neppure quando le posò una mano sulla testa.
Ma quando sentì quella mano tremare, e quando vide il
viso dell’evaso sfigurato dall’ira, per un attimo ne rimase
turbata: non per la paura di essere uccisa, ma per l’intensità di
ciò che lesse nei suoi occhi.
Rabbia. Odio.
Così profondi da essere sconvolgenti.
«Tutti uguali…» mormorò Warknife con disprezzo,
dandole improvvisamente le spalle. E Sari non riuscì a impedirsi di
domandarsi il perché di quell’affermazione.
Tutti chi?
Lì, di schiena, Warknife sembrava non avere neppure il
coraggio di affrontarla. La persona che fino a poco prima era capace
di incuterle un terrore folle, in quel momento le sembrò così
fragile e indifesa da stringerle il cuore.
Sentì la rabbia sbollire all’improvviso.
«Qual è il tuo vero nome, allora?» gli domandò di
nuovo, questa volta con gentilezza. Warknife non si voltò.
«Perché dovrei dirtelo? Pensi che ti ucciderò, dimmi
se sbaglio...»
Sari non rispose. Ammetterlo la faceva sentire a
disagio, come se dovesse confessare la propria debolezza più grande,
ma non poteva neppure negarlo.
Era ovvio che pensava che l’avrebbe uccisa, così
tanto che il suo silenzio per Warknife fu una risposta più che
sufficiente.
Quando si voltò a guardarla, nel suo sguardo non c’era
più traccia dell’odio che si poteva intravedere pochi istanti
prima. Sogghignava, sadico. Folle.
Ma Sari si proibì di provare paura.
«A cosa ti servirà sapere il mio vero nome, se tu
morirai?»
«Perché fino ad allora voglio vivere conoscendo chi ho
davanti» affermò la dottoressa con una spavalderia che non credeva
di possedere.
Probabilmente Warknife si aspettava una reazione diversa
da parte sua. Forse pensava che si sarebbe messa a piangere nel
tentativo di muoverlo a compassione e convincerlo a liberarla, o più
semplicemente era convinto di vederla tremare di paura, di nuovo.
Forse fu per quel motivo che non rispose a tono,
sospirando mentre si sedeva in un angolo. «Fai come ti pare.»
Per qualche strana ragione, Warknife sembrava essersi
calmato, e Sari preferì non replicare.
Nell’istante in cui si sedette, sentì il peso della
tensione assalirla all’improvviso: era terribilmente stanca, e
l’idea di chiudere gli occhi e riposare era allettante.
Ma per quanto lo desiderasse, il pensiero di dormire
mentre quell’uomo era sveglio la faceva sentire inquieta. E poi
c’erano tante cose che voleva sapere. Domande che le ronzavano in
mente , a cui non riusciva a non pensare.
Molte riguardavano lo stesso Warknife. La cosa che aveva
notato fin da subito, per esempio, era che l’evaso era molto
diverso da come se lo ricordava: quando l’aveva incontrato sette
anni prima, sembrava un’altra persona. La prigionia l’aveva
decisamente cambiato.
Ma, soprattutto, il pensiero più ricorrente riguardava
la condanna a morte che lui aveva ricevuto. Era una questione
decisamente curiosa: nel regno era prevista la pena di morte, e
chiunque finisse ad Artika presto o tardi veniva giustiziato. Perché,
allora, era ancora in vita dopo sette anni?
E poi le bende che gli fasciavano le mani… Quella
strana cella buia, isolata dal resto del carcere… Avrebbe voluto
chiedergli ogni cosa, poter comprendere il perché, ma aveva timore
di farlo. Era certa che si sarebbe agitato di nuovo, se gli avesse
chiesto di raccontargli come stavano le cose. Ed era fuori
discussione, ora che sembrava tranquillo.
Eppure, quel silenzio rotto solo dal rollio della nave
la faceva sentire a disagio. Warknife non parlava, non la guardava,
sembrava che non respirasse neppure. Era totalmente immobile.
«Che cosa intendi fare quando la nave attraccherà a
Naima?» gli domandò, guardandolo di sottecchi per saggiare la sua
reazione.
«Fuggirò il più lontano possibile» mormorò quasi
sovrappensiero. In quel momento, avvolto nella penombra e con un
debole raggio di luce che gli sfiorava gli stivali consunti, le
sembrò stanco: della vita in generale, o forse solamente della
propria.
«Se ti stai chiedendo che cosa ne sarà di te, non lo
so ancora: dipende dal mio umore...» aggiunse, sorridendo
ambiguamente. E per un attimo, Sari si domandò se l’evaso non
stesse giocando con lei come il gatto con il topo.
«Perché non mi uccidi? Adesso non ti servo più, dal
momento che sei scappato.»
«Perché chi lo sa... Non so prevedere cosa potrà
accadere, mio piccolo e insignificante diversivo»
sogghignò, e Sari ebbe la netta sensazione che in quel momento si
stesse realmente divertendo a tormentarla, facendole credere che il
rapimento sarebbe potuto finire in qualunque momento e nel peggiore
dei modi.
«Non mi hai ancora detto qual è il tuo vero nome»
cambiò discorso. Warknife la guardò con un’espressione
malinconica.
Triste.
Un’espressione che non gli si addiceva, e che Sari non
avrebbe mai pensato di vedere sul suo viso.
«Mi chiamo Namar.»
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Capitolo 10 *** confidenze ***
9
9.
CONFIDENZE
*
Era una stanza piccola, illuminata da pochi deboli raggi
lunari. Il suo regno.
In quel luogo mistico il suo potere era ancora più
forte, e la sua vista poteva arrivare lontano, in luoghi impensabili
per qualunque altro Maior.
Jariel lo sapeva bene: lui era l’unico che potesse
aiutarlo, nonostante l’idea lo disgustasse. Aveva capacità
chiaroveggenti, le più rare e le più utili tra tutte le abilità
che un demone potesse sviluppare in millenni di evoluzione.
Quando penetrò le pareti d’ombra del santuario,
Jariel lo vide subito: una figura ammantata, con il cappuccio che gli
oscurava il viso e rendeva impossibile distinguerne le fattezze.
Se ne stava sdraiato su un triclinio, e l’unica cosa
che Jariel riuscì a intravedere furono le mani ossute, scheletriche,
dalle unghie lunghissime.
«Che cosa ci fai qui?» domandò il veggente con voce
stridula, spiacevole da sentire. Jariel frugò nelle tasche dei
pantaloni. Quando si avvicinò al demone, gli allungò una fotografia
piccola, dai bordi consumati.
«La figlia di Kalabis è stata presa in ostaggio da un
assassino in fuga. Devi dirmi dove si trova.»
Il veggente studiò la foto in silenzio, con attenzione,
sfiorando l’immagine di Sari. Chiuse gli occhi, respirò
profondamente isolandosi da tutto ciò che lo circondava, entrando in
uno stato di trance.
Lontano, oltre la terra arida dei demoni. Oltre l’oceano
che li separava dai maghi. Poi a nord.
Una cittadina piccola.
Sul mare.
«Naima.»
Ed era tutto ciò che serviva a Jariel: sfilò la foto
dalle mani del veggente, infilandola di nuovo nella tasca dei
pantaloni, e si allontanò. Ma prima che potesse oltrepassare il muro
d’ombra, la voce stridula del demone alle sue spalle lo fermò,
disgustosamente interessata.
«Ma tu che cosa stai cercando?»
Jariel si voltò a guardarlo con indifferenza.
«Voi veggenti non vi stancate mai di ficcare il naso in
questioni che non vi riguardano? Non capisco perché Sarmon si ostini
a tenersi vicino delle creature così viscide...»
Il demone sembrò osservarlo da sotto il cappuccio per
un lungo istante, probabilmente con un’espressione risentita e
seccata. Espressione che scivolò addosso a Jariel.
Poi sghignazzò malevolo. Subdolo.
«E io non capisco come mai si ostini a far uscire da
quella topaia un rifiuto come te.»
L’istante successivo era letteralmente accasciato sul
triclinio, sotto il peso di un dolore troppo intenso per essere
sopportato. Era come se qualcuno gli stesse trapanando il cervello. E
non smetteva di dimenarsi, reggendosi la testa.
Il cappuccio si abbassò nella foga dei movimenti,
rivelando un volto scavato, raggrinzito, e due occhi neri sbarrati
che guardavano il soffitto colmi d’orrore.
E urlava, con tutta la sua voce.
Ma poi, qualunque cosa fosse, terminò all’improvviso:
non ci fu più dolore. Quella fitta terribile era passata, lasciando
solo un lieve senso di pesantezza.
Il veggente ridacchiò, respirando affannosamente. «Hai
paura di Sarmon, per questo non mi hai ucciso. Non mi impressioni con
i tuoi trucchetti.»
Jariel lo guardò con aria di sufficienza.
«Vogliamo provare?»
Il veggente non rispose. Si limitò a fissare Jariel,
che sogghignò.
«Ti saluto, e grazie dell’informazione.»
*
Nei corridoi del carcere di Artika, il silenzio era
molto fragile: era impossibile camminare senza fare rumore, e questo
Amaya e Silver lo capirono all’istante.
La guardia che li stava accompagnando sembrava non
considerare il rimbombo un problema, e loro fecero altrettanto. Si
fermarono davanti a una porta in ferro, oltre la quale si trovavano
le celle di prigionia: la guardia l’aprì, lasciando che Amaya e
Silver proseguissero.
Il poliziotto fu il primo a oltrepassare la porta,
sfilando di fronte ai carcerati che lo guardavano incuriositi.
Probabilmente era raro per loro vedere qualche volto nuovo, in
visita.
Silver si fermò di fronte a una cella. All’interno,
un uomo con una benda nera sull’occhio sinistro se ne strava
sdraiato sulla branda. Un uomo che Silver aveva già visto, circa sei
mesi prima.
Volker Kramer.
Sapeva della presenza di Silver, era inevitabile dal
momento che il poliziotto non era stato certo silenzioso, eppure non
lo degnò di uno sguardo.
Silver guardò Amaya, scettico. Sospirò.
«Signor Kramer…»
«Sí?» Volker rispose annoiato, senza disturbarsi a
guardare il poliziotto in faccia. Nel frattempo, la guardia del
carcere stava frugando tra le chiavi del mazzo che aveva in mano.
«La Corporazione ha emesso l’ordine di riportarti al
dipartimento di polizia di Rosya per ulteriori indagini sul tuo caso»
spiegò Silver. Il prigioniero si mise a sedere all’improvviso,
guardandolo confuso.
«Mi stai prendendo in giro?»
«Non sarei venuto fin qua da Rosya solo per divertirmi
alle tue spalle, te lo assicuro.»
Quando la guardia entrò all’interno della cella,
Volker teneva le mani dietro la schiena, docile, pronto per essere
ammanettato. Ma a giudicare dal suo sguardo, non era ancora
completamente convinto del motivo per cui Silver si trovava in
carcere.
Si lasciò condurre fuori, e quando si accorse di Amaya
le sorrise malizioso.
«Ciao…»
L’elfa lo squadrò dall’alto in basso con le braccia
conserte al seno, fredda. A giudicare da una prima occhiata, Volker
sembrava incarnare alla perfezione il prototipo di uomo che più
detestava: un comunissimo esemplare di maschio medio, troppo attratto
dal sesso femminile per rinunciare a correre dietro a ogni gonna su
cui metteva gli occhi.
E non c’era nulla di più repellente e fastidioso di
un uomo così, per Amaya.
«A meno che non sia strettamente indispensabile, ti
sarei grata se evitassi di rivolgermi la parola.»
«Siamo di buon umore, vedo…» la stuzzicò Volker
ridacchiando.
Amaya sospirò irritata. Aveva intuito dall’inizio
quale fosse la tattica di Kramer, e l’unica soluzione era non
prestargli attenzione.
«Andiamo alla macchina» bofonchiò non appena la
guardia ebbe richiuso la cella. Silver la seguì, trascinando il
prigioniero per il braccio.
«La ragazza è sempre così di buon umore?»
«Kramer…» Amaya sibilò. Era il classico segnale:
l’elfa aveva raggiunto il limite, e proseguire poteva essere
pericoloso. Peccato che non fosse l’unica ad aver esaurito la
pazienza.
«Ora basta! Piantatela o vi lascio qui!» sbottò
Silver. Con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere Volker
sussultare, e la cosa gli procurò un bizzarro piacere.
Il carcerato rimase in silenzio durante tutto il
tragitto per raggiungere la macchina. Anche una volta salito a bordo
sembrava restio ad aprir bocca, Amaya lo notò con una certa punta di
soddisfazione.
Lo avevano sistemato nel retro, e le portiere erano
controllate da un sistema di sicurezza che permetteva di aprirle
solamente dall’esterno. I posti anteriori erano invece protetti e
resi inaccessibili a chi sedeva dietro da una grata su cui circolava
la corrente elettrica.
Una macchina a prova di carcerato, dentro la quale
Kramer non avrebbe potuto giocare nessun tipo di scherzo.
«Volker, ora che siamo soli ascoltami» non appena mise
in moto, Silver lo guardò dallo specchietto retrovisore.
«C’è anche la ragazza…»
Amaya, seduta accanto al poliziotto, alzò gli occhi al
cielo. Non lo avrebbe sopportato a lungo, ne era sicura. «Elfa. E
comunque sta’ zitto e ascolta ciò che ha da dirti Silver.»
«Se me lo dici con quel tono autoritario, non posso far
altro che obbedire» mormorò Volker, malizioso.
Amaya fu sul punto di scoppiare, ma Silver fu più
veloce di lei.
«Sta’ zitto e ascolta, prima che perda la pazienza!
Lo sai che la condanna per attentato è la pena capitale, vero?»
«Sí, ma vi ho già detto che non sono stato io»
Volker guardò fuori dal finestrino, improvvisamente serio.
« Lo sai che basterebbe anche solo l’accusa di
traffico di magia nera per condannare qualcuno a morte, vero?»
Kramer annuì nuovamente.
«E non neghi l’allevamento di draghi, giusto? »
«No.»
Silver gli gettò un’altra occhiata attraverso lo
specchietto, sapendo che a quello non poteva dire di no.
Sorrise, con la vittoria già in pugno.
«Aiutaci e noi aiuteremo te a sparire dal regno.»
*
Naima. Una città di mare come tante, a Silindril.
Eppure c’era una cosa che in pochi sapevano, qualcosa che doveva
rimanere a conoscenza del minor numero di persone possibile: dal
porto partiva regolarmente una nave mercantile uguale a tutte le
altre a prima vista, ma che in realtà nascondeva uno speciale scafo
rinforzato. Era una rompighiaccio.
E ciò che doveva rimanere segreto era la sua
destinazione: andava a nord, oltre il mare. Verso il continente di
ghiaccio. Andava ad Artika, con il suo carico di viveri e medicine.
Quella sera la nave era appena rientrata in porto dopo
l’ennesimo viaggio di ritorno dal carcere.
Per la padrona della locanda, quella sarebbe stata una
buona serata: tutti i marinai appena sbarcati erano lì, nel suo
locale, a bere la sua birra. E questo voleva dire soldi.
Era molto indaffarata, e non riusciva a trovare un
momento per fermarsi a riposare: continuava ad andare dal bancone ai
tavoli per servire i clienti, ma questo non le pesava affatto.
Era una signora di mezza età, in carne, florida e
burrosa, madre di cinque figli uno più pestifero dell’altro. E la
locanda era la loro unica fonte di sostentamento.
Per questa ragione si gettava nel lavoro con tutta
l’anima, come una piccola formica operosa. Forse fu per questo che
non si accorse dei due forestieri appena entrati.
Si fermò solo quando notò che tutti i suoi clienti si
erano zittiti e stavano guardando verso la porta: un losco figuro si
era fermato sull’uscio e, accanto a lui, c’era una ragazza umana.
La prima cosa che la locandiera vide –e non senza una
certa inquietudine- furono le catene che stringevano i polsi
dell’uomo. Doveva essere un fuggiasco, o qualcosa di simile: non
c’era altro modo per spiegare quella ferraglia.
La seconda cosa che le saltò all’occhio fu lo stato
pietoso in cui versava la casacca che l’uomo indossava,
probabilmente fatta di un materiale poco pregiato e scadente.
E poi c’era quell’aspetto inquietante, quel modo di
guardare che la metteva a disagio. La cera malconcia dell’uomo
suggeriva che non dovesse aver passato dei bei momenti negli ultimi
tempi.
Ma se lui sembrava essere uscito da uno di quei filmacci
horror che piacevano molto alle nuove generazioni di esseri umani
sbandati e lasciati a se stessi, non si poteva dire lo stesso della
ragazza in sua compagnia, probabilmente di buona famiglia.
Quando vide l’uomo dirigersi verso il bancone, la
locandiera gli si fece incontro cercando di apparire disinvolta e di
sorridere con naturalezza. Solo più tardi si accorse che la ragazza
era rimasta sulla soglia.
«Buonasera.»
«Una camera.»
«Per due?»
«Quello che avete» mormorò Namar prima di lanciare
un’occhiata minacciosa a Sari. Una cosa fu improvvisamente chiara
alla proprietaria della taverna: l’umana era riluttante a entrare,
eppure era bastato un solo sguardo di quell’uomo per farla cedere.
C’era qualcosa in lui che la intimoriva, qualcosa che bastava per
ottenere obbedienza.
Quando la ragazza lo raggiunse, l’uomo guardò di
nuovo la locandiera. Sembrava scocciato. «Allora?»
«Al secondo piano» gli fornì immediatamente le chiavi
della stanza.
Namar gliele strappò letteralmente di mano, e si
diresse verso le scale trascinando Sari per un braccio.
Nessuno parlava più: tutti fissavano i nuovi venuti,
come inebetiti, e in quel silenzio si levava solo il borbottio della
psicologa, che si lamentava della presa sul suo braccio.
La locandiera era basita, e non sapeva cosa pensare.
L’unica cosa sicura, era che non voleva grane nella sua locanda:
un’ottima ragione per far finta di non aver visto nulla, a meno che
non fossero le grane stesse a venir da lei.
*
La porta si aprì all’improvviso, con un botto
rumoroso. Namar spinse Sari dentro la stanza, e la ragazza incespicò
finendo inevitabilmente a terra.
«Senti un po’! Vedi di darti una calmata!» esplose
Sari, rialzandosi in piedi. Nella caduta, le mani avevano grattato
contro la moquette da due soldi che rivestiva il pavimento, e le
pulsavano dolorosamente.
«Sta’ zitta» Namar mormorò distrattamente, diretto
verso il bagno.
Sari fremette rabbiosa, e non era assolutamente
intenzionata ad assecondare i desideri dell’evaso. Lo seguì,
decisa a farsi finalmente valere.
«Non ci penso nemmeno, adesso ascolti quello che ho da
dirti!»
«Come no…» rispose sarcastico Namar, intento a
specchiarsi. Stava studiando minuziosamente il proprio riflesso, con
un’attenzione certosina. Sfiorò l’ombreggiatura più scura che
coloriva la pelle appena sotto gli occhi, poi fu la volta dei capelli
ingarbugliati.
L’interesse con cui stava svolgendo quelle operazioni,
faceva presagire che ottenere la sua attenzione non sarebbe stato
semplice.
E Sari era stanca, così tanto che a stento riusciva a
tenere gli occhi aperti. Da quando era morto suo padre, non riusciva
quasi mai a dormire. Come se non bastasse, la tensione dovuta al
rapimento non faceva altro che aggravare ulteriormente il suo
precario equilibrio psico-fisico.
L’ultima cosa di cui aveva voglia –e che sarebbe
riuscita a sopportare- era l’ennesimo, logorante esaurimento
nervoso dovuto al tentativo di ottenere un briciolo d’attenzione da
parte di Namar.
«Al diavolo» borbottò, arrancando verso il letto. Si
lasciò cadere sul materasso, e un sorriso deliziato le curvò le
labbra. Quella era la cosa che in assoluto le era mancata di più, da
quando era partita per Artika: un bel letto comodo e spazioso, un
cuscino non eccessivamente morbido né troppo duro, e lenzuola pulite
che profumavano ancora di bucato.
Le sembrò di essere a casa; bastava che tenesse gli
occhi chiusi per immaginarsi sul suo letto. Nel suo appartamento, ai
piedi di Rosya.
Ma poi la realtà si presentò in tutta la sua crudeltà.
Lo fece nel modo più seccante possibile, nel bel mezzo del riposo
tanto desiderato.
Quando aprì gli occhi, vide Namar seduto di fianco a
lei, intento a guardarla con insistenza. E la cosa la innervosì.
«Che vuoi? »
«Scendi.»
«Cosa?» Sari riuscì a stento a non ridere.
«Muoviti e scendi, voglio dormire.»
Era un ordine, il tono perentorio che Namar aveva usato
lo rendeva evidente. E Sari non riuscì a trattenersi.
Si mise a sedere, decisa a lottare per i propri diritti.
«Su questo letto ci stiamo comodamente entrambi. Sono
stanca almeno quanto te e, detto questo, sul pavimento non ci dormo.
Ficcatelo bene in testa.»
«Come vuoi, dottoressa» Namar la afferrò per un
braccio e la spinse lontano, verso il muro. Nel vano tentativo di non
cadere a terra, Sari urtò contro il comodino e la lampada che si
trovava in cima cadde a terra, finendo in pezzi.
«Non vuoi che ti uccida, vero?» quando l’evaso le si
inginocchiò di fronte, un odore acre la assalì e Sari fu costretta
a trattenere il fiato.
Era normale che in prigione non coccolassero i detenuti
con lunghi bagni caldi e profumati, si disse, ma non riuscì a non
pensare che quell’uomo puzzava di vecchio, chiuso e sporco.
E che ogni minuto che trascorreva assieme a lui metteva
a dura prova il proprio autocontrollo, ormai diventato molto
precario. Ne era una prova il comportamento che aveva tenuto da
quando avevano messo piede nella camera: non si era tirata indietro
quando si era trattato di farsi valere, adottando un atteggiamento
ostinato e volitivo, consapevole dei rischi in cui sarebbe potuta
incorrere.
Aveva la netta sensazione che presto o tardi si sarebbe
ribellata apertamente, tentando qualche azione avventata dai
risultati che preferiva non immaginare.
Guardò Namar con astio, sforzandosi di tacere. Lui
ghignò, ben consapevole degli sforzi che Sari stava facendo per
trattenersi.
«Brava, dottoressa. Il segreto è collaborare.»
Zitta!
Sari si morse il labbro. La tentazione di inveire contro
di lui era estremamente forte, ma se gli avesse risposto, se ne
sarebbe sicuramente pentita per il resto dei propri giorni.
Quando Namar si rialzò, lei si concesse di respirare a
pieni polmoni. Lo trovò piacevolmente rilassante.
«Potresti almeno lavarti, già che siamo qui... »
mormorò tra sé e sé, sovrapensiero. L’idea che Namar potesse
sentirla non la sfiorò minimamente, ma rimase sorpresa quando lo
vide annusarsi le braccia con una smorfia disgustata.
«Effettivamente... » concordò l’evaso. Serrò la
porta d’ingresso, portando con sé la chiave. Poi si chiuse in
bagno facendo scattare la serratura, e l’istante successivo il
rumore di un getto d’acqua suggerì che Namar fosse sotto la
doccia.
Il cuore di Sari cominciò a battere all’impazzata.
Era il momento perfetto per fuggire.
Balzò in piedi, improvvisamente speranzosa, correndo
verso la finestra. Quando la spalancò, la delusione fu cocente: non
c’erano alberi, né c’erano appigli. Non c’era nulla.
Non poteva saltare, né poteva calarsi. Era troppo alto,
e se si fosse buttata di sotto si sarebbe certamente rotta più di un
osso. O peggio.
«Dannazione!» sbottò, lasciandosi cadere sul letto.
Si sentì persa, in trappola.
Aveva voglia di gridare, di piangere, di mettere a
soqquadro la camera e distruggere tutto ciò che le capitava sotto
mano per costringere la locandiera a salire. Magari li avrebbe
costretti a rimanere lì, e nel frattempo sarebbe arrivato
l’esercito, e allora quell’incubo sarebbe finito.
Era sicura che il C.S.M. si fosse già messo sulle loro
tracce, e probabilmente gli uomini di Rider non erano neppure troppo
lontani.
Aveva voglia di gridare e sfogarsi, ma non ne aveva la
forza. Era troppo stanca.
Rimase sdraiata, con gli occhi chiusi ad ascoltare il
proprio respiro: un ritmo leggero che la gettò quasi subito in un
sonno agitato e per nulla riposante.
Quando Namar uscì dal bagno, con un asciugamano sui
fianchi e gli stivali del carcere ai piedi, lo sentì appena: il
rumore delle catene raggiunse a stento la sua coscienza sopita, e
Sari si svegliò solamente quando un timido raggio di sole le ferì
gli occhi.
La prima cosa che notò quando si guardò attorno,
ancora assonnata, fu l’evaso: era seduto davanti a lei, per terra,
con la schiena contro il bordo del letto e la testa a ciondoloni.
Indossava la casacca del carcere.
In un primo momento credette che fosse sveglio, ma
quando sentì il suo respiro lento e regolare, capì che era
addormentato.
E, cosa che la lasciò sorpresa, stava dormendo sul
pavimento.
Non l’aveva buttata giù dal letto.
Sari si sedette lentamente, attenta a non svegliarlo, e
indugiò a studiare l’espressione indifesa che Namar aveva in quel
momento. Vederlo così rilassato, come se fosse una persona qualsiasi
con una vita ordinaria, le faceva uno strano effetto.
Gli sfiorò una guancia, con leggerezza. Un contatto
quasi impercettibile, ma per l’evaso fu sufficiente.
Si svegliò di soprassalto facendola sussultare, e prima
di capire che cosa stesse succedendo –quale fosse la fonte di quel
contatto- le catturò il polso in una stretta forte, e si allontanò
all’improvviso.
Sari lo guardò stupita. Ciò che lesse negli occhi
dell’evaso fu ancora più sorprendente, e la travolse nella sua
intensità: era terrorizzato.
Un’espressione di cui la psicologa non riuscì a
capacitarsi, ma che la turbò. Come se lui avesse paura di essere
toccato. Come un cane bastonato di fronte a una scopa. Preferì non
pensarci troppo, non in quel momento.
Non appena la riconobbe, Namar le lasciò il polso
sbuffando.
«Ti avverto, non mi devi toccare» ringhiò, evitando
di guardarla in faccia.
«Figurati se ti tocco…» Sari si strinse nelle
spalle, ribattendo con acidità.
L’evaso non rispose. Scivolò in avanti con il bacino,
fino ad appoggiare la testa sul materasso. Guardò il soffitto,
improvvisamente meditabondo.
«Cosa ci facevi ad Artika?»
Per un istante Sari credette di aver capito male. L’idea
che Namar fosse dell’umore adatto per delle confidenze era quanto
meno assurda.
Lo guardò con occhi sgranati. «Come?»
«Cosa ci facevi ad Artika?»
«Non vedo perché dovrei venire a raccontare i fatti
miei a un allucinato come te... » rispose acida. Namar non sembrò
minimamente toccato dalle parole della ragazza.
«Però stavi cercando qualcosa. O qualcuno. Qual è
l’opzione corretta, dottoressa? » la guardò con un sorrisetto
ambiguo. L’improvviso interesse dell’evaso per quella faccenda
era sospetto, e oltre modo inquietante. Inoltre, era evidente che
sapeva dove andare a parare, e probabilmente conosceva già la
risposta alle proprie domande. Ma nonostante questo, voleva
strapparle una confessione.
«Qualcuno.»
«Ma certo, Shem Gaynor... È stato poco con noi, ma
deve essersi divertito parecchio» rispose, sornione. E fu abbastanza
per riempire Sari di speranza.
Balzò giù dal letto, con il cuore in gola.
«Che mi sai dire di lui? »
Era così elettrizzata dall’idea di poter finalmente
riuscire a scoprire qualcosa riguardo a Shem, da dimenticare che
Namar non era certo il tipo di persona da cui potesse ricavare
informazioni di valore: l’evaso non la stava più ascoltando, di
nuovo perso nei propri pensieri. Chiuso in un mondo che apparteneva
solo a se stesso.
Non la guardava neppure. E Sari si sentiva sempre più
frustrata.
Fu sul punto di tornare a riposare, quando li vide: sui
palmi di Namar c’erano due tagli, profondi e infetti. E solo ora si
accorse di quanto fossero gonfie le sue mani, per la prima volta
senza bende.
Doveva essere piuttosto doloroso, ipotizzò Sari.
Quando la voce di Namar la sorprese, sussultò: l’evaso
la stava guardando con un sorrisetto sfuggente.
«Scoperto qualcosa d’interessante?»
«Come ti sei procurato quei tagli?»
«Non ho tendenze autodistruttive.»
Sari non riuscì a credere a ciò che aveva appena
sentito. Guardò Namar, confusa.
«Vuoi dire… Mi stai dicendo che qualcuno ti ha fatto
questi tagli?»
Non ottenne alcuna risposta da parte dell’evaso, che
si limitò a guardarla. E Sari non sapeva davvero che cosa pensare.
Erano tagli netti, profondi e precisi, operati con
forza. E non c’erano possibilità che Namar avesse potuto
procurarseli accidentalmente, dal momento che aveva passato gli
ultimi sette anni rinchiuso in una cella.
L’unica spiegazione a cui riusciva a pensare era che
fosse stato qualcun altro a ferirlo, durante la prigionia. Con quale
scopo, tuttavia, non riusciva a immaginarlo.
Era l’ennesimo tassello enigmatico che riguardava
Namar, uno dei tanti pezzi di un puzzle che sembrava diventare sempre
più complicato.
«Che cos’ha combinato Gaynor?»
«Ecco, lui... Ha ucciso mio padre» rispose
distrattamente Sari, con la mente ancora occupata dalle domande
riguardanti Namar. E quando si rese conto di avergli appena
raccontato una cosa piuttosto intima, ormai era troppo tardi. A quel
punto l’unica cosa sensata che poteva fare era approfittare della
propria leggerezza, e cercare di estorcergli informazioni riguardo a
Shem.
Fece per parlare, ma all’improvviso sentì qualcosa di
strano. Qualcosa che non c’era, fino a pochi minuti prima.
Un intenso vociare proveniva dal piano terra. Voci
concitate. Sembrava che ci fosse qualcuno che stesse discutendo, o
quanto meno parlando animatamente.
Anche Namar doveva averlo sentito, perché divenne
improvvisamente nervoso. Balzò in piedi, correndo verso la porta
d’ingresso. La aprì, quel tanto che bastava per sbirciare nel
corridoio senza esporsi eccessivamente, e rimase a guardare.
Ricordava un cane da guardia in attesa di percepire il più piccolo
rumore.
«Che sta succedendo?» Sari gli si avvicinò, ma per
tutta risposta Namar le afferrò un braccio e la costrinse a uscire
in corridoio, assieme a lui.
Si affacciarono con cautela dalle scale, e in quel
momento la stretta dell’evaso si fece così forte che Sari dovette
soffocare un gemito di dolore. Non l’aveva mai visto così
sconvolto.
Quando gettò l’occhio al piano terra, per un istante
temette di essere preda di qualche allucinazione.
All’ingresso della locanda c’era una squadra
numerosa; quindici uomini, a occhio e croce. Erano vestiti di nero,
in tenuta esclusivamente militare, e in pugno tenevano lunghe armi
elettriche.
Poi lo vide.
Quell’uomo che aveva già avuto modo di trovare in
compagnia di Amos.
Il generale Rider, se non errava.
Non aveva mai avuto modo di parlarci, né ci teneva a
farlo: le sembrava un uomo alquanto altezzoso, arrogante, rigido e
calcolatore, nonostante fosse dotato di un fascino non indifferente.
E, cosa che contribuiva a creare in Sari una certa diffidenza,
l’aveva visto fare comunella con Amos in più di un’occasione.
Lo vide dirigersi verso il bancone, dietro al quale la
locandiera stava letteralmente abbracciando un piatto con mani
tremanti.
Era spaventata.
«Hai visto qualcuno di strano da queste parti,
ultimamente?» domandò Rider.
*
Namar non smise mai di seguire i movimenti di Rider,
neppure per un istante. E Sari non aveva bisogno di guardare l’evaso,
per sapere che in quel momento era maledettamente spaventato. La mano
che stringeva il braccio della ragazza parlava da sola: tremava.
«Chi sono? »
«Il C.S.M.... Il Corpo Speciale dei Maghi. Sono
militari» gli sussurrò Sari, indicando lo stemma argentato che
brillava sui loro petti. Poi puntò Rider. «E quello che è al
bancone dovrebbe essere il generale Rider.»
«Dannazione! »
Sari guardò Namar di sottecchi. Era davvero
preoccupato.
«Non mi farò catturare un’altra volta... »
sussurrò, tornando in camera senza smettere di trattenerla per il
braccio.
Spalancò la finestra, e la ragazza lo guardò
sbigottita.
«Che intendi fare?!»
Namar studiò il cornicione. E Sari si pentì di aver
fatto quella domanda.
«Andarmene da qui.»
|
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Capitolo 11 *** la città dei reietti ***
10
10.
LA
CITTÀ
DEI REIETTI
*
Erano
diretti verso una piccola cittadina dimenticata dagli dei che si
affacciava sulla costa a ovest del continente. Guardava direttamente
sul Grande Mare, l’unica barriera naturale che separava i maghi dai
demoni.
Amaya
si era chiesta più volte come dovesse essere Shaula, madre di tutto
ciò che era proibito nel regno dei maghi. Giungevano voci secondo
cui quelle fossero terre morte, battute da un vento così gelido da
somigliare al respiro della Morte. Secondo i più, perfino la natura
risentiva del potere distruttivo dell’energia demoniaca propria
della magia nera, e si diceva che le acque vicino alle coste avessero
assunto molti secoli or sono un colore cupo e scuro, che si
diffondeva lentamente come un cancro. Si diceva che neppure un
singolo raggio di sole riuscisse a penetrare quelle acque così nere
da sembrare maledette, ma Amaya aveva la vaga impressione che fossero
tutte fantasie frutto di gente semplicemente spaventata.
Ogni
cosa sembrava avvolta nel caos e distorta dalla paura, eppure la
Corporazione esercitava un controllo quasi maniacale sulla
situazione: era necessario che la popolazione non si facesse prendere
dal terrore verso il nemico, che pensasse che la situazione era
completamente sotto controllo. Questo è quello che desiderava Amos.
Lui
controllava minuziosamente tutto ciò che accadeva nel regno, lo
sapeva bene, ma non immaginava certo che uno sputo di terra come
quello in cui si trovavano fosse il luogo in cui avvenivano tutti i
traffici illeciti sfuggiti all’occhio vigile del mago.
Silas,
la città dei reietti.
Ora
che vi metteva piede per la prima volta, Amaya si rese conto che era
esattamente come Volker l’aveva descritta durante il viaggio: cupa,
tetra, perennemente battuta dalla pioggia e coperta da coltri di nubi
che nascondevano il sole. Gli edifici dalla forma massiccia si
stagliavano minacciosi a poca distanza dalla scogliera che dava sul
mare, dalla quale giungeva il rumore di onde infrante.
Amaya
sentì un brivido correrle lungo la schiena, e si strinse le braccia
al petto. I vestiti stavano cominciando a inzupparsi, e i capelli
erano ormai appiccicati al viso.
«Ora
dove dobbiamo andare?»
Volker,
accanto a lei, le rivolse un sorriso gioviale, che l’elfa non
restituì.
«A
cercare qualcuno che possa aiutarci. Sai che se sorridessi ogni tanto
saresti più bella?»
Amaya
per tutta risposta sbuffò, alzando gli occhi al cielo. La
disinvoltura nel tono della voce dell’umano e la confidenza che si
stava prendendo la irritavano.
Trattieniti,
ti serve vivo. Fallo per Sari.
«Sta’
zitto e pensa a dove dobbiamo andare» borbottò, cercando di
resistere all’impulso di girare sui tacchi e sbrigarsela da sola.
Volker
per tutta risposta abbozzò un sorriso leggero e cordiale che stonava
con i lineamenti duri e decisi del viso. Aveva già inquadrato il
carattere rigido dell’elfa, ma metterla in difficoltà lo
divertiva.
«Seguimi,
e ricorda che quando arriveremo a destinazione non dovrai mai
allontanarti da me.»
Amaya
non replicò. In quella frase non c’era malizia, né ironia. Era la
prima volta che lo sentiva parlare con una tale serietà, come se
l’argomento fosse davvero importante. Le diede una strana
sensazione, quasi di disagio.
La
faccenda non prometteva bene.
*
Avevano
continuato a camminare in silenzio tra la gente, l’uno di fianco
all’altra. Amaya ne aveva approfittato per lanciare qualche furtiva
occhiata a Volker di soppiatto, studiandolo con attenzione.
A
giudicare dall’aspetto era legittimo pensare che fosse una persona
poco raccomandabile e, in effetti, non ispirava certo fiducia di
primo acchito.
La
benda che gli copriva l’occhio sinistro sembrava addirittura essere
un avvertimento, o almeno ad Amaya dava quest’impressione, ma il
sesto senso della ragazza le diceva chiaramente che non era poi così
terribile come poteva apparire.
Ben
più problematico era il suo atteggiamento, così sfrontato da
rasentare a tratti la malizia. L’idea di dover stare in compagnia
di un buffone come lui non la allettava particolarmente, ma si
rendeva perfettamente conto che non avrebbe potuto continuare a
ignorare a lungo l’umano.
Ma
nulla imponeva una conversazione intima: bastavano anche poche
parole, tanto per rompere il ghiaccio. Decise di fare uno sforzo.
«Quella
da dove arriva?» domandò, indicando la benda. Volker accarezzò il
tessuto nero che gli copriva l’occhio, con un inaspettato sorriso
amaro. Amaya quasi si pentì di aver posto la domanda.
«Mi
ricorda cosa devo fare.»
L’elfa
ritornò in silenzio, guardando la strada di fronte a sé. Aveva la
sensazione di aver toccato un argomento delicato di cui l’uomo non
amava parlare. Decise di non insistere.
«Siamo
arrivati.»
Quando
Amaya sollevò lo sguardo, si accorse di essere all’entrata di
quello che appariva come un locale pubblico. All’esterno, un
nutrito numero di persone occupava l’entrata, ciarlando a voce
alta. Alcuni avevano un aspetto poco raccomandabile, altri avevano
volti contratti in ghigni per nulla rassicuranti, ma Amaya capì
subito che non erano lì per caso.
C’era
chi cercava qualcosa che non poteva essere reperito da nessun altra
parte, qualcosa che era proibito nella maniera più assoluta nel
regno, e c’era chi era lì per concludere qualche affare
interessante. Amaya divenne consapevole di avere mille occhi puntati
addosso che la studiavano, ridevano di lei, così palesemente fuori
posto tra quella manica di criminali.
Si
sentì a disagio.
Volker
la afferrò per un polso trascinandola dentro al locale, e l’elfa
provò un fastidioso moto di gratitudine verso di lui.
Quando
varcò la soglia d’entrata venne sorpresa da una musica
particolare, ammaliante, ma diffusa a volume così alto da ferire il
suo udito sensibile. Con una smorfia si tappò le orecchie, cercando
di proteggersi da quel suono troppo forte per una della propria
razza.
C’erano
persone che ballavano ovunque, in pista o all’interno di gabbie
assicurate al soffitto. Intrugli dai colori bizzarri e luminescenti
vagavano su vassoi trasportati da uomini bellissimi, androgini, e
Amaya si guardò attorno stordita.
«Che
posto è questo?»
«Il
posto in cui troveremo quello che stiamo cercando. Mi raccomando,
stammi vicino.»
Amaya
non se lo fece ripetere due volte,
improvvisamente dimentica della propria
insofferenza verso l’uomo. Si sentiva come un pesce fuor d’acqua,
e aveva l’impressione che se si fosse persa sarebbe stata
agguantata da qualche trafficante di oggetti demoniaci. Si stava già
cacciando in guai non indifferenti e non ne voleva altri.
Seguì
Volker tra la folla, ignorando gli sguardi insistenti che le
scivolavano addosso. Si diressero verso un bancone, dietro il quale
un donnone ben piazzato trafficava con le bottiglie di alcolici.
Quando Amaya si avvicinò abbastanza da poterne vedere i movimenti,
si accorse che gli intrugli che aveva visto passare erano preparati
da lei.
Si
muoveva veloce, precisa, sicura. Non si accorse dei due e alzò lo
sguardo solo quando Volker tossicchiò.
«Non
ti hanno ancora ammazzato?» domandò con noncuranza, ritornando al
proprio lavoro. L’uomo sghignazzò, scuotendo appena il capo.
«Anche
a me fa piacere rivederti Kaja.»
«Non
ti avevano arrestato? Come diavolo hai fatto a fuggire?»
«È
una lunga storia» Volker si strinse nelle spalle, strizzando
l’occhio ad Amaya. «Piuttosto, sai dov’è Zorlan?»
Kaja
guardò Volker, seria in volto.
«Vieni
con me.»
Li
condusse per corridoi accessibili solo al personale. Erano vecchi e
umidi, Amaya lo capì dall’odore di muffa che impregnava le pareti.
Si
chiese dove stessero andando e chi fosse questo Zorlan. Probabilmente
era un pezzo grosso, a giudicare dallo sguardo della donna. Si
fermarono davanti a una porta di legno, alla fine del corridoio. La
musica era diventata null’altro che un rumore lontano.
Kaja
bussò due volte, ma nessuno rispose.
«Capo,
è tornato Volker.»
«Fallo
entrare.»
Quando
Amaya entrò al seguito dell’evaso, si ritrovò in una stanza in
cui l’unica fonte di luce erano delle candele posate qua e là.
Nonostante
la penombra, riuscì chiaramente a distinguere un numero
impressionante di volumi corposi e oggetti dalle forme più
disparate, riposti con cura maniacale nei ripiani di un mobile.
Un
uomo era seduto dietro a un tavolo. Amaya ne colse immediatamente i
lineamenti delicati e armoniosi, di una bellezza squisitamente
elegante. I capelli neri, perfettamente pettinati, risaltavano sulla
carnagione pallida del volto.
A
giudicare dall’aspetto, doveva essere vicino alla mezza età.
«Molte
voci ti davano per spacciato, Volker» esordì l’uomo alzandosi in
piedi, rivelando una lunga tunica di raso nero decorata con motivi
argentati. Quando si accorse di Amaya, un sorrisetto lascivo gli
curvò le labbra.
«E
lei?»
«Lei
è con me, Zorlan. Sono qua perché mi serve un favore.»
L’uomo
annuì, invitando Volker a proseguire con un cenno della mano.
«Ho
assoluto bisogno di avere un drago al più presto, un esemplare
veloce che sappia coprire in breve tempo una distanza abbastanza
lunga.»
Zorlan
studiò Volker, prima di guardare Amaya sospettoso.
«Che
dovete fare con un drago? »
«Penso
che tu abbia sentito la notizia della fuga di quell’assassino da
Artika.»
Zorlan
annuì grave, e Volker indicò Amaya con un cenno del capo.
«Ha
preso in ostaggio una sua amica, e se aiuterò la polizia a
riprenderlo mi faranno fuggire dal regno. »
Contro
ogni aspettativa di Amaya, Zorlan scoppiò in una risata roca.
«E
tu vorresti un drago per cercare dall’alto questo fuggiasco? Non
essere sciocco Volker: ti hanno promesso la libertà, ma dove
potresti andare? Non puoi stare nel regno dei maghi e non puoi
cercare asilo tra i demoni. Lo sai bene questo, sai che non puoi
andare da chi ti ha fatto quello» terminò indicando la benda
sull’occhio sinistro del fuggiasco.
Amaya
all’improvviso capì. Pensò a quello che gli aveva ingenuamente
chiesto riguardo al suo occhio sinistro, e cominciò a pensare a lui
sotto una luce diversa. Per la prima volta, provò pietà per
quell’uomo. Quando lo guardò, si accorse dell’espressione irata
sul viso di Volker.
«Ho
detto che voglio questo drago. Quello che farò poi non è affar
tuo.»
Un
sorriso calcolatore curvò le labbra di Zorlan.
«Non
ti conviene parlare così a chi ti ha aiutato per così tanto tempo.
Ricordati che mi sei debitore, Volker. »
«Ti
sarei debitore se avessi ottenuto dei risultati, ma non sono arrivato
da nessuna parte. Ora per favore, ho bisogno di questo drago.»
Zorlan
rimase in silenzio per un momento che ad Amaya parve interminabile, e
l’elfa ebbe quasi l’impressione che volesse prendersi gioco di
loro.
«Cosa
ti fa pensare che io abbia un drago, Volker?»
«Non
prendermi in giro, abbiamo fatto affari in passato e so…» il
fuggiasco fu interrotto bruscamente da Zorlan. «E se tutto questo
fosse solo un trucco per incastrarmi? Se stessi aiutando la polizia a
catturarci? Credi che sia così sciocco da ammettere di possedere un
drago?»
Amaya
sorrise in silenzio di fronte l’astuzia di Zorlan, e attese di
sentire la risposta di Volker.
«Credi
che farei mai una cosa del genere? Io, a te? Andiamo, lo sai che di
me ti puoi fidare. Aiutami a non tornare ad Artika.»
Zorlan
rimase ancora una volta in silenzio per qualche istante. Volker lo
guardò con aria speranzosa, e quando lo sentì sospirare capì
all’istante di aver vinto.
«Forse
me ne pentirò, ma va bene. Ti darò questo drago.»
|
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Capitolo 12 *** il gatto e il topo ***
11
ATTENZIONE!
Visto che il capitolo precedente era corto, oggi ho
pensato di fare doppio aggiornamento: capitolo 10 (il precedente) e
11 tutti per voi a distanza di qualche ora l'uno dall'altro. Spero
che nonostante l'orribile stile con cui è scritta, ormai così
distante da quello che ho attualmente, La zona rossa vi stia
piacendo.
E, ovviamente, quello che succederà in questo
capitolo accadrà per un motivo particolare che naturalmente verrà
svelato più avanti ;)
Buona lettura
Brin
11.
IL
GATTO E IL TOPO
*
Mentre camminava per i marciapiedi del viale principale
di Naima, l’agente Victor Silver continuava a guardare la strada
con aria preoccupata.
Se qualche impiccione gli avesse chiesto che cosa lo
impensieriva, probabilmente il poliziotto non l’avrebbe neppure
sentito.
Sapeva che lasciare Amaya con Kramer non era la scelta
migliore, ma non avevano tempo da perdere: era necessario che Volker
trovasse un drago, il più presto possibile. Se erano abbastanza
fortunati, li avrebbe visti solcare i cieli attorno a Naima molto
presto.
Dopo tutto, Volker stesso aveva ammesso di avere degli
ottimi contatti in materia di traffici illeciti, draghi inclusi.
Ma l’agente Silver era consapevole che il detenuto non
era esattamente affidabile.
Sapere Amaya da sola con lui non lo rendeva tranquillo,
certo, ma la sua preoccupazione maggiore rimaneva Sari. Quelle due
ragazze erano un po’ come delle figlie: le conosceva da molti anni,
le aveva viste maturare, e le aveva guidate all’interno del
dipartimento con pazienza e premura.
E Sari era in compagnia di un assassino di massa.
La cosa che più impensieriva Silver e lo rendeva
ansioso, era che Warknife sembrava sparito nel nulla: non c’era
traccia di lui, né in tutta l’Aurika -il continente di ghiaccio-
né a Naima.
Nonostante le sue preoccupazioni, però, c’era una
cosa che gli dava speranza. Era certo di trovarsi nel posto giusto, e
il numero di militari presenti in città ne era la prova lampante.
Giunto di fronte all’entrata dell’unica locanda
della cittadina, decise di tentare la fortuna. Probabilmente i due
avevano affittato una camera per la notte, con l’intenzione di
riposarsi, anche se aveva la sgradita sensazione di essere arrivato
tardi.
Il locale era vuoto. Non c’erano clienti, a eccezione
di un avventore solitario seduto al bancone e della proprietaria,
intenta ad affogare il dispiacere per una fuga dei clienti in una
bottiglia di grappa. Silver si diresse senza indugi verso la donna.
«Mi scusi…»
La locandiera lo guardò. Era ancora sobria.
«Che c’è, il C.S.M. non ne ha avuto abbastanza di
spaventare questa povera donna e i clienti della sua locanda?! »
sbottò riempiendo il bicchiere che aveva in mano.
Silver le si sedette di fianco.
«Sono l’agente Silver, del dipartimento di polizia di
Rosya. Non sono venuto per conto del C.S.M.» le spiegò, cortese. La
donna gli lanciò un’occhiata critica e veloce.
«E allora si può sapere perché è venuto qui? Vuole
sapere anche lei del nostro ospite della settimana?»
Il poliziotto sorrise pazientemente, grattandosi un
sopracciglio.
«Precisamente. Volevo sapere se quest’uomo è passato
da queste parti» frugò all’interno di una valigetta, e piazzò
sul bancone un volantino con la foto segnaletica di Warknife
all’epoca del suo arresto. Sotto la foto, una grande scritta rossa
recitava “RICERCATO”
a lettere cubitali.
Il ragazzo, l’unico cliente nella locanda, gettò una
rapida occhiata alla foto. «È lui il tizio che sta creando tutto
questo scompiglio?»
La sua voce profonda creava un insolito contrasto con i
lineamenti regolari e piacevoli del viso. L’assenza di orecchie a
punta suggeriva che appartenesse alla razza umana.
«Sí. Se hai indizi a riguardo, ti prego di darmeli»
rispose Silver allungandogli il volantino, ma la padrona della
taverna glielo strappò letteralmente di mano, paonazza in volto.
«È lui, quel maledetto!» esplose, strabuzzando gli
occhi. «L’avevo notato, non doveva essere uno a posto. Mi ha fatto
scappare tutti i clienti, sa? E il C.S.M! Quel Rider, maledetto!
Spaventarmi così tutta la clientela! Ma lo avevano quasi preso,
quell’assassino. E la ragazza... » esclamò concitata, senza
fermarsi. Silver fu costretto a interromperla nel bel mezzo del suo
sfogo.
«La ragazza stava bene? »
«Oh, sí. Sembrava solo molto spaventata, ma era tutta
intera.»
Silver tirò un sospiro di sollievo. «L’hanno preso?
»
La donna fece un cenno negativo con il capo.
«È riuscito a fuggire dal tetto, quel bastardo. Chissà
che lo prendano e lo buttino ad Artika, così farà la fine che si
merita.»
Silver distolse lo sguardo dalla donna, tacendo il fatto
che era proprio da Artika che Warknife veniva. E che non l’avevano
affatto giustiziato, contrariamente a quello che tutti si aspettavano
dalla legge istituita dalla Corporazione. Sorprese il ragazzo a
fissare il muro oltre il bancone, assorto in chissà quali pensieri.
«Lo prenderemo, non c’è da preoccuparsi. Ormai ha le
ore contate» Silver tentò di rassicurarlo, sicuro che la situazione
lo intimorisse. Quando il giovane lo guardò, al poliziotto sembrò
che per un istante un guizzo nei suoi occhi gli deturpasse il volto
in un’espressione seccata: una reazione che non si
aspettava di certo. Silver lo osservò
frastornato, e quando lui gli sorrise riconoscente, si domandò se
non si fosse immaginato ogni cosa.
Sospirò.
«Beh, vi ringrazio per le informazioni. Arrivederci»
salutò, prima di uscire dalla locanda.
Il C.S.M. non aveva perso tempo: stava già organizzando
dei posti di blocco in punti strategici, alle porte della città.
Warknife aveva le ore contate.
Tuttavia sentiva che qualcosa non quadrava, qualche
particolare gli sfuggiva e lui non riusciva ad afferrarlo. Aveva la
netta sensazione di essere in un quadro fatto di forme, linee e
colori dall’armonia perfetta, a eccezion fatta per pochi, piccoli
elementi che stonavano con l’intera opera. Ma sebbene avvertisse la
presenza di quei piccoli tasselli e il caos generato da essi, non
riusciva ancora a scorgerli.
Si fermò in mezzo alla strada a capo chino, cercando di
reprimere il senso di frustrazione che minacciava di assalirlo.
Non farti battere da lui, Victor. Non devi cedere.
Quando estrasse dalla valigetta un pacco di volantini
con la foto segnaletica di Warknife, decise che avrebbe ignorato
tutti quei punti interrogativi che gli frullavano in mente. Il perché
Warknife era ancora vivo non aveva importanza: l’unica cosa che
contava al momento era liberare Sari, e ricacciare quel mostro
nell’inferno da cui era venuto.
Quando appese il primo volantino, ebbe l’impressione
che il volto stampatovi sopra ridesse di lui, beffardo.
*
La città non era più un luogo sicuro. Doveva andare
via da lì il più presto possibile.
Non gli avrebbe permesso di catturarlo di nuovo e di
giocare con lui come avevano fatto in passato. No, li avrebbe uccisi
prima che potessero mettere le loro sporche mani su di lui. Uno dopo
l’altro, anche a costo di sacrificare le vite di tutti gli abitanti
della città.
Nascosto in un vicolo, Namar controllò se la strada
principale fosse libera. Le circostanze sembravano favorevoli per
agire: non c’era nessuno nelle vicinanze.
Gettò l’occhio sull’insegna del negozio dall’altra
parte della carreggiata.
Un fabbro.
Attraversò di corsa la strada, trascinando Sari per un
polso. Quando entrarono, non trovarono nessuno al bancone.
«Perché siamo qui?»
Il fuggiasco lasciò andare Sari, ma non le rispose. Si
guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli.
Qualcosa di appuntito, qualcosa di pericoloso. Poi le vide, sopra il
bancone: un paio di grosse forbici, vecchie, ricoperte da uno strato
di ruggine.
Facevano proprio al caso suo.
«Ho un appuntamento nel retrobottega» dichiarò con un
sorriso folle, oltrepassando il bancone con le forbici in mano.
Imboccò la porta, probabilmente l’accesso alla fucina.
Sari non perse tempo, intuendo all’istante quali
fossero le intenzioni di Namar. E non le piacquero affatto. Gli corse
dietro, nel tentativo di riuscire a fermarlo prima che potesse
utilizzare quelle forbici.
Quando entrarono nel retrobottega, il fabbro –un elfo
dalla corporatura insolitamente robusta, probabilmente il padrone del
negozio- era intento a forgiare una spada. Era coperto di sudore, a
causa del caldo e della fatica.
E non appena si accorse di loro, abbandonò la spada
rovente, che cadde a terra spargendo scintille ovunque. Rimase fermo,
con gli occhi fissi sul fuggiasco, le ginocchia piegate e pronte allo
scatto. Pronte alla fuga.
Lo guardò avvicinarsi con quel sogghigno tipico di un
folle. Solo quando gli fu abbastanza vicino da poterlo aggirare,
tentò uno scarto veloce di lato, ma Namar fu più veloce di lui:
allungò la gamba, e l’elfo non riuscì a evitare lo sgambetto.
Cadde per terra con un tonfo sordo, reprimendo a stento un lieve
lamento.
Namar si chinò su di lui puntandogli le forbici alla
gola, e in quel momento Sari gli si lanciò addosso, afferrandogli il
polso nella speranza di impedirgli di fare del male al fabbro.
«Fermati, ti prego.»
«Non oggi, dottoressa» ringhiò Namar, spingendo Sari
lontano. «Torniamo a noi due, orecchie a punta. Mi serve la tua
collaborazione e, che sia spontanea o meno, ti assicuro che me la
darai» il sogghigno dell’evaso non prometteva nulla di buono.
L’elfo tremò, ma sostenne lo sguardo folle di Namar
con l’orgoglio caratteristico della propria razza.
Un orgoglio tale che non gli permetteva di chinare la
testa. Mai, in qualunque situazione si trovasse.
«Non credo proprio.»
A quelle parole, Namar si spazientì. Aumentò la
pressione della lama sulla gola del fabbro, e una goccia di sangue
fece capolino. Fu un attimo: gli occhi chiari dell’elfo persero per
un istante la loro fierezza. E si fece largo la paura.
Namar capì di averlo in pugno.
«Allora?» sibilò. L’elfo deglutì, annuendo col
capo.
«Che vuoi che faccia?»
«Le vedi queste?» domandò sollevando a mezz’aria i
polsi incatenati, producendo un rumore metallico.
Al cenno d’assenso dell’elfo, Namar sorrise
mellifluamente. Sinistramente.
«Toglile.»
*
Nessuno aveva più detto nulla da quando le catene erano
cadute dai polsi di Namar. Il clangore prodotto nel momento in cui
toccarono terra suonò alle orecchie di Sari come un lugubre canto di
rinascita, e da quel momento il fuggiasco non aveva fatto altro che
ridere sommessamente accarezzandosi i polsi segnati dalle piaghe.
Sarì sospirò, rassegnata. Era appollaiata sopra una
sedia di legno e guardava ora Namar, ora l’elfo seduto in un angolo
della fucina.
Rimanere in silenzio non la stava affatto rilassando,
perché le consentiva di riflettere. Di ripensare alla reazione che
aveva avuto l’evaso quando l’aveva toccato, e a come lei si era
comportata.
Aveva reagito da essere umano invece che da psicologa.
Non era rimasta obiettiva, e si era lasciata trascinare
da ciò che lo sfogo emotivo di Namar le aveva provocato. Non si era
chiesta perché. Che
cosa ci potesse essere dietro quel terrore sproporzionato che gli
aveva letto negli occhi, lo stesso che aveva visto molte volte nelle
persone che avevano subito maltrattamenti.
E quando Namar le aveva detto di non toccarlo, gli aveva
risposto come se fosse stato un capriccio. Con acidità, fomentata
dal nervosismo e dalla pressione che la stressavano da quando tutta
quella storia era cominciata.
E poi c’erano quei tagli, profondi e infetti, che non
facevano altro che dare nuova forza ai suoi timori. Ma la cosa che
più la turbava, più delle ferite di Namar e del suo rifiuto di
essere toccato, era che cominciava a vedere l’evaso sotto una luce
diversa. Oltre l’assassino, sotto il carcerato e il rapitore, si
nascondeva una persona.
Ed era riuscita a intravederla in mezzo al marcio che si
portava dietro. E la cosa l’aveva scossa.
Cominciò a essere stanca di rimanere seduta: faceva
caldo lì dentro, e le sembrava quasi che l’aria cominciasse a
diventare rarefatta. Sentiva il sudore farsi appiccicoso e la pelle
incendiarsi. Aveva bisogno di uscire, di catturare a pieni polmoni
l’aria della notte.
Guardò Namar, vagamente scocciata.
«E ora si può sapere che hai intenzione di fare?»
«Cosa pensi che farò, dottoressa?» la schernì con un
sorrisetto decisamente irritante «Sarebbe una mossa alquanto stupida
creare tutto questo scompiglio e poi lasciare che mi prendano così
facilmente, non credi?»
Sari scosse il capo, sospirando.
Non gli darò la soddisfazione di rispondere alle sue
provocazioni.
«Andremo via da qua appena si saranno calmate le
acque.»
«Non credi che perquisiranno ogni abitazione?» domandò
Sari con un sorriso quasi amaro «Busseranno anche a questa porta, lo
sai. Quando ciò accadrà che farai?»
Namar assunse un’espressione cupa. Rimase con lo
sguardo perso nel vuoto, imbrigliato in pensieri insondabili. Era
preoccupato.
Per un istante a Sari sembrò di cogliere nei suoi occhi
un guizzo strano, quella luce folle e allucinata che ormai aveva
visto più di una volta.
«Non ci troveranno, te lo assicuro.»
Sari non volle indagare oltre e si accontentò di quella
risposta. Non sapeva se fidarsi o meno di lui, non riusciva a capire
se le facesse paura o pietà, se sperava che lo prendessero o che
riuscisse a fuggire.
Una parte di lei gridava disperatamente per ottenere la
salvezza, ma l’altra –la parte altruista, quella che l’aveva
portata a diventare psicologa- le diceva chiaramente che non poteva
ignorare ciò che aveva intravisto per un breve istante, in quella
camera.
Così decise di non rispondere, e nella fucina fu di
nuovo silenzio, lungo e snervante. Aspettavano come topi in trappola,
con il cuore che galoppava e i sensi all’erta per captare ogni
rumore. Era solo questione di tempo, Sari lo sapeva bene.
Rider non era mai stato un tipo che si arrendeva così
facilmente, ed era certa che li avrebbe cercati fino alla morte. Era
un soldato ligio al dovere, o almeno questo era quello che si diceva
di lui, e il suo compito in quel frangente era trovarli. Riportare
lei da Amos, e Namar ad Artika.
Non si sarebbe fermato. Nessuno del C.S.M. lo avrebbe
fatto finché non avessero portato a termine la missione.
Mancava poco, molto poco. Erano vicini, erano sulle loro
tracce e le fiutavano con avidità, mentre loro si nascondevano in
quel buco, al buio.
Sari scoprì con sorpresa che le mani le tremavano.
Cercò di nasconderle per non farsi scoprire da Namar, ma il
fuggiasco aveva ben altri pensieri per la mente: si aggirava per la
stanza come un’anima in pena, camminando avanti e indietro senza
sosta con evidente nervosismo.
L’elfo, seduto nell’angolo, ne seguiva le movenze
con ostinazione. Sembrava studiarlo con una certa insistenza, cosa
che suscitò facilmente l’irritazione di Namar. Il fuggiasco
afferrò una delle spade riposte sul tavolo e la puntò contro la sua
gola con la velocità letale propria di uno scorpione.
«Detesto essere fissato. È la seconda volta che ti
punto contro una lama, alla terza la tua testa salta dal collo»
mormorò con un sogghigno. L’elfo non rispose, limitandosi a
guardare il suo sequestratore con odio.
Sari balzò in piedi per intervenire, ma Namar la
bloccò.
«Guai a te se t’intrometti.»
Stava per ribattere, quando all’improvviso lo sentì:
un leggero scricchiolio, il rumore della porta che si apriva, e
infine dei passi nella bottega. Il sangue le si gelò nelle vene.
Li avevano trovati.
Guardò Namar preoccupata, come se lui potesse risolvere
la situazione in qualche modo, ma il fuggiasco non muoveva un
muscolo. Sembrava un segugio che fiutava l’aria in cerca della
preda, immobile e attento.
I passi cessarono, quindi rincominciarono. L’elfo,
ancora minacciato dalla lama che Namar gli puntava alla gola,
fremeva.
«Ti prenderanno» gli sussurrò, e la mano che
impugnava la spada tremò. Per un istante Sari temette che il
fuggiasco avrebbe violato le carni del fabbro, ma Namar riuscì a
mantenere il sangue freddo.
«C’è nessuno?» dalla bottega provenne una voce
maschile, calda e profonda. Sari sentì che le gambe stavano
cominciando a diventare molli.
«Vai di là e dì che il negozio è chiuso» Namar levò
la spada dalla gola dell’elfo, che si risollevò lentamente in
piedi, poco convinto. Sostenne lo sguardo duro e perentorio del suo
sequestratore con orgoglio.
«Te lo puoi scordare, non ti aiuterò a scappare.»
Le membra di Namar furono prese da un fremito. Quando
levò l’arma in aria, pronto a calarla sull’elfo, i passi si
fecero più vicini. Chiunque fosse, li avrebbe trovati in una
manciata di secondi. Pochi, miseri istanti si frapponevano tra la
fuga di Namar e la sua fine.
«Namar!» Sari gridò nel tentativo di far capire
all’evaso cosa stesse per accadere, ma fu troppo tardi: una sagoma
apparve sulla soglia del retrobottega, un ragazzo dai lineamenti
dolci e regolari, in netto contrasto con la voce profonda e adulta.
Era piuttosto alto, e i capelli castani ricadevano in riccioli
all’altezza delle orecchie. Guardava frastornato Namar e il fabbro,
non capendo cosa stesse succedendo.
«Tu, sdraiati a terra e tieni le mani in vista!»
l’evaso gli puntò la spada contro, e il ragazzo non se lo fece
ripetere due volte. Namar sospirò pesantemente, abbassando l’arma.
A Sari ricordò un leone vecchio e ferito.
Sentiva che la parte di lei che lo disprezzava, quella
che aveva sempre pensato che quei lunghi anni di prigionia l’avessero
ammattito cancellando quel po’ di umano che era in lui, diventava
sempre più fragile. Per la prima volta vedeva la disperazione di
quella creatura e il feroce desiderio di fuggire da una vita di
chissà quali orrori.
Sentì distintamente qualcosa agitarsi dentro di lei e
serrarsi all’altezza della gola.
«Se mi lasci andare non dirò a nessuno che sei qua, lo
prometto» biascicò il ragazzo, spaventato.
«Non me ne faccio nulla delle tue promesse!» ruggì
Namar, improvvisamente infervorato «Chi sei? Fai parte del Corpo dei
Maghi?»
«Di che cosa?»
Il ragazzo sollevò appena il capo, intimorito. Non
aveva il coraggio di guardare Namar in faccia.
«È inutile che fai finta di non sapere, con me non
attacca! Sei sotto copertura?» il tono del fuggiasco si fece più
incalzante e il suo sguardo più cattivo. Il ragazzo abbassò la
testa senza rispondere. Tremava dalla paura.
«RISPONDI!»
«NON SO DI CHE PARLI!» esclamò il giovane. Guardò
per la prima volta il suo accusatore negli occhi e il suo sguardo
implorante impietosì Sari. Quando la ragazza vide Namar avventarsi
contro di lui, balzò in piedi strillando e con uno scatto fulmineo
gli afferrò il braccio con cui brandiva la spada.
«Ora basta! Se facesse parte del C.S.M. sarebbe entrato
armato assieme alla sua squadra, quindi piuttosto che sfogare il tuo
nervosismo sul primo che ti capita sottomano pensa a come andar via
da qui!»
Namar la studiò silenziosamente. Sembrava convinta di
ciò che stava dicendo, o almeno questo era quanto gli suggeriva la
sua espressione severa. Sollevò il mento, abbozzando un sorrisetto
sornione.
«Ora che il nostro amico fa parte della comitiva, non
posso lasciarlo andare senza avere la certezza che non faccia parte
del C.S.M. Ragion per cui, ho paura che sarà costretto a venire con
noi» terminò con una delle sue caratteristiche smorfie che per Sari
sapevano molto da pazzo allucinato.
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Capitolo 13 *** il cerchio si stringe ***
12
12.
IL
CERCHIO SI STRINGE
*
Victor
Silver sapeva bene quello che faceva: immaginava che quei volantini
avrebbero creato molto trambusto tra gli abitanti del villaggio, ma
non poteva fare altrimenti. Il crepuscolo era calato già da diverse
ore, ma nonostante il buio e il freddo le stradine della città erano
popolate di gente.
Il
brusio sembrava non dover mai finire, e l’inquietudine serpeggiava
infida tra gli abitanti del posto, che si scambiavano occhiate
perplesse e commentavano con preoccupazione la foto del ricercato.
«Questo qui è un criminale.»
«Dicono che arrivi da Artika.»
«Il carcere di sicurezza? Com’è possibile?»
«Lascio la città stasera stessa!»
Silver aveva sentito di tutto e dentro di sé non poteva
fare altro che essere d’accordo con quello che coglieva dai
discorsi degli abitanti di Naima. Anche lui era perplesso e non si
capacitava di come fosse stato possibile che un pericoloso assassino
di massa riuscisse a evadere da un carcere di massima sicurezza.
E soprattutto, di come potesse essere ancora vivo.
Non riusciva a non rimuginare su questo dettaglio
importante, malgrado fosse preoccupato per Sari.
Stentava a credere che non fosse stato giustiziato.
L’ineluttabilità della pena era una certezza garantita dalla
legge, che tuttavia aveva risparmiato Warknife. Nonostante si
arrovellasse su come fosse potuto accadere, il vero motivo continuava
a sfuggirgli.
Sentì quel familiare senso di frustrazione fare
nuovamente capolino, insistente e fastidioso. Aveva mandato lui
stesso Warknife in carcere sette anni prima e la pena capitale non
poteva essere stata rimandata così a lungo: doveva esserci una
spiegazione, ma Silver aveva la strana sensazione che se fosse
riuscito a scoprirla, quel senso di impotenza non l’avrebbe più
abbandonato.
Quando svoltò l’angolo, vide tre uomini in uniformi
nere. Impugnavano lunghe armi dalla forma affusolata, apparentemente
una sorta di bastoni. Armi elettriche. Sul petto, brillava una
targhetta dorata.
C.S.M.
Silver si fermò, gelato. Avrebbe dovuto immaginare che
l’esercito sarebbe stato ancora in città, e se quei tre soldati
erano da quelle parti voleva dire che Rider non era lontano.
Pregò di non incontrarlo. Non gli piaceva per niente:
era troppo ambizioso, troppo calcolatore in ogni più piccola cosa.
Trattare con il generale era molto snervante per una persona semplice
e umile come Silver.
«Agente Silver?»
Non è possibile!
Quando si voltò verso la fonte da cui proveniva la
voce, si ritrovò a guardare negli occhi proprio il generale Rider.
Si sforzò di sorridere.
«Generale.»
«Avevo il timore che non foste voi, ma a quanto vedo
non ho sbagliato persona» un leggero sorriso di circostanza gli
increspò le labbra. Era controllato fino nel più piccolo muscolo;
Silver se ne accorse subito.
«Buon per voi generale. Ora scusate, ma ho parecchie
cose da fare.»
Tentò di porre fine al discorso per svignarsela, ma
Rider a quanto sembrava non aveva la benché minima intenzione di
lasciare che ciò accadesse.
«La tua presenza mi fa supporre che tu stia cercando di
catturare l’evaso.»
Silver sostenne lo sguardo del militare. Sorrideva
arrogante, con aria di superiorità. Il poliziotto cercò di
trattenersi dal cominciare un diverbio inutile. Doveva mantenere la
calma, o avrebbe fatto il suo gioco.
«E se fosse?»
«C’è già il C.S.M. che si occupa del caso, e penso
che siamo entrambi d’accordo sul fatto che l’esercito sia più
competente di un semplice poliziotto da ufficio in questa
circostanza» concluse con un sorrisetto mellifluo.
Non raccogliere la sua provocazione. Non abbassarti
al suo livello.
Probabilmente Rider accolse il silenzio di Silver come
un consenso per continuare a infierire. Opportunità che non si fece
scappare. L’espressione sul suo volto divenne ancora più
irritante.
«Sto facendo piazzare uomini davanti a ogni porta
d’accesso alla città, per controllare chiunque attraversi il posto
di blocco, e i miei soldati hanno già cominciato a perquisire ogni
edificio. Come vedi puoi tornartene a Rosya. Al fuggitivo ci penso
io» l’espressione sul suo volto era palesemente trionfante. Si
allontanò a testa alta senza neppure salutare, tronfio e sicuro
persino nel portamento.
Mentre lo guardò confondersi tra la folla, Silver si
accorse di provare un sollievo curioso. Scosse il capo, sospirando.
«Pallone gonfiato.»
La conversazione con il generale l’aveva irritato, ma
dovette ammettere con se stesso che senza volerlo gli aveva dato
delle informazioni utili. Ora sapeva come si stava muovendo
l’esercito; nonostante non provasse simpatia per Rider, dovette
ammettere che stavano facendo un lavoro eccellente. Presto avrebbero
catturato Warknife, e senza di lui Sari sarebbe tornata libera.
*
Da quando quel ragazzo, Abidos, era piombato nella
fucina, Namar era diventato ancora più nervoso. Andava avanti e
indietro per il negozio, controllava la situazione all’esterno,
sempre attento a cogliere anche il più piccolo rumore sospetto.
Sembrava prossimo a un collasso nervoso.
L’elfo invece era seduto esattamente nello stesso
angolo che aveva occupato in precedenza, le mani serrate in una presa
decisa, le nocche quasi bianche. Era spazientito.
Quando Sari si voltò verso Abidos, fu sorpresa. Era
calmo, il suo volto non era affatto turbato né spaventato. Sedeva a
terra, la schiena contro il muro, lo sguardo imbambolato a fissare il
pavimento. Sereno.
Si domandò come potesse essere calmo in una circostanza
come quella, e si ritrovò a invidiarlo. Quando guardò Namar, poi,
sentì l’angoscia montarle dentro. Quella situazione era snervante,
quell’attesa la logorava, e lui non migliorava certamente le cose.
Sbuffò, esausta.
«Non risolvi nulla continuando così.»
Lui non le badò minimamente, continuando a camminare
per la stanza con il respiro che cominciava a farsi pesante.
Sari perse ogni speranza di farlo calmare. Decise di
desistere da quell’inutile perdita di tempo, capace solamente di
farla innervosire.
Ripiombò nel proprio silenzio, seguendo il filo dei
pensieri. Da quando quella rocambolesca avventura era iniziata, non
aveva più pensato ai motivi che l’avevano condotta ad Artika. Non
ne aveva avuto il tempo, ed erano irrimediabilmente passati in
secondo piano. Era così presa dai sentimenti ambivalenti che le
suscitava Namar, da aver quasi scordato quel momento confidenziale,
quel secondo in cui aveva compiuto un passo avanti verso la verità.
Verso l’identità dell’assassino di suo padre.
Quando Namar aveva accennato a Gaynor.
Un piccolo tassello che, nonostante tutto, non era
abbastanza. Sperava in qualcosa, qualunque cosa. Sapeva che Shem era
lì fuori, libero e alla continua ricerca di ciò per cui aveva
ucciso suo padre.
All’improvviso, il cuore le mancò di un battito:
l’orologio. Come aveva potuto dimenticarsi di quel dettaglio?
Adrian aveva trovato la morte per proteggere quello che era nascosto
all’interno di quel piccolo oggetto in argento, che ora era nelle
mani di Sari. Era sicura, non poteva esserci altra spiegazione. Quel
piccolo orologio nascondeva un segreto, qualcosa di importante in cui
quasi sicuramente era implicata anche la Corporazione. Qualcosa di
pericoloso, se aveva portato suo padre alla morte.
Sapeva che Shem non si sarebbe fermato, ne era sicura.
Si era sporcato le mani nel modo più ignobile per ottenere ciò che
voleva, e non avrebbe desistito. Probabilmente in quel momento era
già sulle sue tracce, e presto o tardi l’avrebbe trovata. Era solo
questione di tempo.
Quella consapevolezza la fece sentire inquieta, e fu
costretta ad ammettere una cosa: non era libera di agire, finché
rimaneva con Namar. Non poteva indagare su Shem, il che voleva dire
farsi trovare impreparata. Un lusso che non poteva concedersi.
Doveva essere pronta ad affrontare l’assassino di suo
padre, o non ne sarebbe uscita indenne.
Poteva sentire chiaramente l’orologio premere sulla
coscia, attraverso il tessuto dei pantaloni. Shem non l’avrebbe
fatta franca, non avrebbe avuto ciò che voleva.
Lo giuro, papà.
«Non ti preoccupare, ce la faremo a scappare. Ho un
piano.»
Sari si voltò verso Abidos con il cuore in gola: non
l’aveva sentito alzarsi, né sedersi accanto a lei e quando le
aveva sussurrato nell’orecchio, aveva creduto di esser prossima a
morire d’infarto.
Respirò profondamente per calmarsi, e si sforzò di
sorridere. Solo allora, guardandolo così da vicino, si accorse che
quel ragazzo aveva gli occhi nocciola.
«Se ci aiutiamo a vicenda, abbiamo buone probabilità
di riuscire a scappare. La cosa importante è cercare di farlo
restare calmo, o la sua reazione potrebbe essere devastante» Abidos
guardò Namar di sottecchi, ma l’evaso non si accorse ciò che
stava accadendo. Sari annuì, ma dentro sentì un dubbio farsi strada
lentamente.
Era giusto così? Doveva abbandonare Namar al suo
destino? Si sentì spregevole, ma non poteva rifiutare. Dopo che si
era infiltrata ad Artika creando tutto questo putiferio, non avrebbe
più potuto muoversi liberamente. Se si fosse fatta trovare assieme a
Namar al momento della cattura, sarebbe stata sotto controllo
costante, tanto più se Amos voleva mantenere il riserbo su quello
che la Corporazione stava macchinando.
Non poteva permetterselo, o non avrebbe mai fatto luce
sulla morte di suo padre. Annuì di nuovo, con maggior decisione.
Che Namar possa perdonarmi per ciò che sto per dire.
Si protese verso Abidos, la voce ridotta a un filo.
«Andiamocene da qua.»
Abidos accolse la sua risposta con un sorriso
silenzioso. Si alzò, lo sguardo ora rivolto su Namar.
«Conosco un passaggio sotterraneo che ci permetterà di
uscire dalla città senza essere scoperti. Dobbiamo muoverci ora,
però.»
Il fuggiasco non lo guardò. Non rispose; le labbra
serrate in una smorfia. Sembrava stare sull’attenti, pronto a
cogliere qualsiasi rumore proveniente dall’esterno.
Fu allora che Sari lo sentì: un vociare insistente,
caotico, cresciuto in sordina fino a raggiungere toni inquietanti. Le
strade erano invase dai cittadini sopraffatti dall’agitazione e
dalla paura.
«Cosa ci ricavi?» il tono di Namar era accusatorio, ma
il fuggiasco non guardò Abidos, neppure in quel frangente.
«Sono la tua unica possibilità di salvezza. Non puoi
fuggire dalla città senza essere scoperto, lo sai.»
Solo allora Namar si girò a guardare il ragazzo. Gli
occhi tradivano diffidenza, ma Sari capì chiaramente che il
fuggiasco aveva la piena consapevolezza che quello che Abidos aveva
detto era vero.
Il C.S.M. doveva aver allertato la popolazione, per
questo la gente si era riversata nelle strade. Con tutto quel caos
forse sarebbero riusciti a confondersi con la gente, ma era troppo
azzardato.
Namar non avrebbe mai corso il rischio di farsi
catturare, se avesse potuto intraprendere una strada più sicura:
Sari ne era convinta.
Per un attimo le sembrò che Namar la guardasse, che
volesse cercare in lei un consiglio su come agire, ma fu uno sguardo
fugace. Non si fidava. C’era qualcosa in quella situazione che non
lo convinceva.
Sari guardò di sottecchi Abidos, ne studiò il profilo
regolare, ma nel suo sguardo non vide nulla di anomalo.
Qualunque cosa inquietasse Namar, era certa che non lo
avrebbe mai indotto a compiere un gesto violento nei loro confronti.
La situazione stava precipitando pericolosamente, facendo di lei e
Abidos dei pesi fastidiosi di cui l’evaso avrebbe potuto facilmente
liberarsi.
In condizioni normali non si sarebbe fatto remore a
ucciderli, Sari ne era consapevole, ma in quel momento Abidos
rappresentava l’unica speranza che Namar aveva per uscire da quel
pasticcio.
Non avrebbe mai potuto rinunciarvi, se voleva difendere
la sua precaria libertà.
Il vociare all’esterno si fece all’improvviso più
forte e vicino, e Sari capì che dovevano prendere una decisione in
fretta. Stranamente si ritrovò a sperare che non li trovassero; si
stava abituando a pensare che quella non era più solo la fuga di
Namar, ma anche la sua, e si chiese se davvero l’idea di
abbandonarlo una volta lontani da Naima fosse la soluzione migliore.
Si costrinse a pensare a suo padre, al suo viso che non
avrebbe più potuto rivedere, e al volto del suo assassino, sparito
nel nulla. Era quella la sua personale missione: scoprire se i suoi
sospetti erano fondati, se Shem aveva davvero ucciso suo padre e,
soprattutto, se l’orologio c’entrava davvero qualcosa in ciò che
era accaduto. Namar se la sarebbe cavata, in un modo o nell’altro.
Quando lo guardò, le sembrò di vederlo tremare appena.
Il vociare divenne sempre più vicino, fin quasi a raggiungere la
porta d’ingresso della bottega. Namar rivolse ad Abidos uno sguardo
tagliente, minaccioso.
«Al primo scherzetto ti ammazzo.»
«Dobbiamo muoverci ora» Abidos si limitò a rispondere
con un tenue sorriso, prima di rivolgersi al fabbro «c’è
un’uscita secondaria?»
Il fabbro sorrise e, quando guardò Namar, assunse
un’espressione soddisfatta.
«L’unica uscita è quella della bottega. A quanto
sembra per poter fuggire dovrai mascherarti per bene.»
Senza neppure rendersene conto, l’elfo si ritrovò con
le spalle al muro e un dolore sordo che si diffondeva sulla schiena.
La gola era stretta nella mano di Namar, che digrignò i denti
assumendo un’espressione che deturpò il suo volto già segnato
dalla prigionia.
Fu un attimo, veloce come un battito di ciglia.
Sari si precipitò a dividere i due.
Abidos, alle sue spalle, la seguì.
La carnagione dell’elfo cominciava a diventare blu.
Tutti i rumori provenienti dall’esterno scomparvero, e
l’unica cosa esistente fu solo un silenzio innaturale.
Poi, all’improvviso, lo sentirono.
Un rumore, tre colpi alla porta d’ingresso.
Una voce maschile.
Un ordine.
«Per ordine della Corporazione, aprite la porta!»
Sari si sentì morire, ma ciò che vide in Namar non
sarebbe mai riuscita a descriverlo: era devastante.
Non avevano più via di scampo.
Li avevano trovati.
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Capitolo 14 *** nel buio del camino ***
13
13.
NEL
BUIO DEL CAMINO
*
Namar si voltò verso la porta che dava sulla bottega;
gli occhi sgranati in un’espressione stravolta. Il fabbro, ancora
intrappolato nella sua presa, sorrise impercettibilmente.
«Sembra che la tua fuga sia finita qua.»
Namar fremette, la mano con cui stringeva la gola
dell’elfo tremò appena. Per un istante Sari temette che volesse
ucciderlo. Avrebbe voluto fermarlo, ma quando provò a muoversi non
vi riuscì. Le gambe erano paralizzate per la tensione.
«Va’ a dirgli che non c’è nessuno» ordinò Namar
all’elfo, che rimase muto a guardarlo con astio.
Non intendeva collaborare.
Silenzio.
Bussarono di nuovo, e Sari fu scossa da un tremito
fastidioso. Alternò lo sguardo da Namar all’elfo, e in quel
momento ebbe una vaga idea di come dovesse sentirsi il fuggiasco.
In trappola, disperato. E solo.
Namar perlustrò il perimetro della stanza, in cerca di
qualcosa. Stava cercando di pensare, di elaborare un piano. Con un
cenno del capo indicò il camino a Sari e Abidos, che lo guardarono
senza capire.
Namar sbuffò, impaziente e nervoso.
«Arrampicatevi dentro la canna fumaria, e non uscite
finché non ve lo dico io.»
Le sue parole lasciarono perplessi Sari e Abidos, che
rimasero imbambolati a guardarlo facendogli perdere la pazienza.
Sbuffò, lasciando andare l’elfo per spingere la psicologa
all’interno del camino con malagrazia, ma Sari incespicò, cadendo
in ginocchio sulla fuliggine che le imbrattò i pantaloni e le mani.
Represse a stento un’imprecazione.
«Aprite, questo è un ordine!» la voce del soldato,
fuori dall’edificio, giunse perentoria alle orecchie di Namar, che
fulminò Abidos e Sari con lo sguardo.
«Muovetevi o vi ammazzo» sibilò. E solo allora,
raccolte tutte le forze di cui disponeva, Sari cominciò la scalata
alla bell’e meglio. Pregò perché il cielo gliela mandasse buona.
Ciò che la preoccupava era se sarebbe riuscita a resistere il tempo
necessario senza scivolare e mandare a monte quello che Namar aveva
in mente. Un fruscio sotto di lei le suggerì che anche Abidos doveva
aver iniziato la scalata. Continuò ad aggrapparsi alle sporgenze che
sentiva spuntare dalla superficie della canna fumaria, non senza
fatica. La pietra era scivolosa, ricoperta di polvere che ricadeva
lungo il condotto al suo passaggio.
Abidos, sotto di lei, la seguiva agile.
Sari si fermò solo quando il camino divenne abbastanza
stretto da rendere impossibile il passaggio. Non vedeva nulla, se non
un debole raggio di luce filtrare dalla cappa. Cercò di guardare il
cielo, per quello che la fessura consentiva. Ed era completamente
nero, a eccezione fatta per la presenza di qualche stella.
Dalla fucina sentì provenire dei rumori sommessi,
mormorii che non riuscì a cogliere, e infine un tonfo. Pesante,
sordo.
Un corpo che si accasciava inerme sul pavimento.
Sentì il cuore balzarle in gola e lì, in quel condotto
buio e stretto, si sentì impotente. Guardò di sotto, cercando lo
sguardo di Abidos per capire se anche lui avesse sentito.
Poi, udì dei passi che si allontanavano, diretti verso
la porta della bottega.
E infine una voce.
Quando la riconobbe, il cuore le mancò di un battito.
«Chi è?»
Era il fabbro.
E Namar era il corpo a terra.
La fuga era terminata con la cattura.
*
Namar guardò Sari sparire nel camino, seguita da
Abidos. Solo quando non li vide più si voltò verso l’elfo, che si
stava dirigendo verso la bottega nel tentativo di fuggire.
Si gettò all’inseguimento e, quando lo raggiunse, lo
costrinse di nuovo contro il muro, rudemente. Il fabbro trattenne una
smorfia di dolore.
Si avventò su di lui, afferrandolo per il bavero e
tirandolo verso di sé.
«Te lo chiedo per l’ultima volta con le buone: vai a
dire che non c’è nessuno qui» sussurrò a pochi centimetri dal
viso dell’elfo, che sorrise mellifluamente.
«Sono poco incline a coprire criminali come te.»
Per tutta risposta, il sorriso folle che illuminò il
viso scavato dell’evaso gli raggelò il sangue nelle vene. Sembrava
capace di tutto.
«Allora passerò alle maniere forti.»
L’elfo non ebbe neppure il tempo per capire a cosa si
riferisse.
Namar gli posò le mani sul capo, e quando chiuse gli
occhi avvertì un forte giramento di testa. Sentì le gambe farsi
molli e insensibili, così come tutto il resto del suo corpo.
Poi, per una brevissima frazione di secondo, il nulla.
Quando riprese coscienza del proprio corpo, la prima
cosa che avvertì fu un forte dolore alla schiena. Avrebbe dovuto
usare metodi persuasivi più delicati, la prossima volta.
Nel momento in cui aprì gli occhi, vide un corpo
riverso a terra, come svenuto.
Capelli neri, spettinati e mal tenuti; un volto scavato
e pallido, quasi malato. Bende sporche attorno alle mani, e vestiti
logori per coprire quel corpo secco.
Stava guardando se stesso.
Sogghignò. Gli faceva sempre una strana sensazione
prendere il possesso di un corpo altrui e, sebbene l’avesse già
fatto altre volte, era sempre un’esperienza che non gli sarebbe mai
piaciuta.
Di nuovo, bussarono alla porta.
Si guardò attorno. Passò velocemente in rassegna
l’angolo più remoto della stanza per individuare un nascondiglio
abbastanza sicuro per il suo corpo, che in quel momento non era altro
che un involucro vuoto: lo individuò in una cassapanca massiccia,
riempita di stracci asciutti. Poi trascinò il corpo per le caviglie
fino al mobile, che liberò dall'ingombro dei panni, e lo caricò
all'interno.
Rimettere gli stracci al loro posto fino a nascondere il
contenuto della cassapanca, poi, fu l'atto finale.
Quando bussarono di nuovo, Namar abbozzò un sorrisetto
sprezzante.
«Arrivo, arrivo.»
*
Il generale Rider si trovò di fronte a un uomo alto,
dalla corporatura slanciata e longilinea tipica degli elfi. Le
orecchie a punta erano un’ulteriore prova della razza a cui
apparteneva il fabbro, che squadrò il gruppo di soldati con stupore.
«Che cosa posso fare per voi?»
«Come mai non hai aperto subito?» domandò Rider con
tono insinuante.
L’elfo sembrò non capire la domanda. Si accigliò,
allungando il collo verso il generale.
«Che cosa ha detto?»
I soldati, alle spalle di Rider, ridacchiarono
sommessamente.
«Come mai non hai aperto subito?» il generale chiese
di nuovo, spazientito.
L’elfo si strinse nelle spalle.
«Il mio udito comincia a perdere colpi, sa com’è…
Stando tutto il giorno a battere ferraglia, prima o poi va a finire
che lo si perde.»
Rider ascoltò la spiegazione inarcando appena le
sopracciglia, scettico. Non aveva mai sentito di elfi con l’udito
scarso, neppure tra quelli che forgiavano armi. E non aveva né tempo
né voglia di ascoltare le spiegazioni assurde di quell’elfo di
provincia.
Lo spinse da parte rudemente, entrando nella bottega
impettito e arrogante. I soldati lo seguirono, e senza perdere tempo
si dispersero per l’edificio: c’era chi si diresse verso la
fucina, chi perquisì il negozio.
Rider osservò con occhio critico le operazioni, le
braccia conserte al petto e un sorrisetto tronfio sulle labbra.
«Che state facendo?»
Il generale inarcò le sopracciglia, guardando il
fabbro. Sospirò, irritato.
«Ordinaria amministrazione. Stiamo cercando una persona
che potrebbe nascondersi da qualche parte qui in città.»
«Capisco.»
Rider guardò l’elfo con la coda dell’occhio.
L’espressione sul suo volto era rilassata, tipica di chi non ha
nulla da temere. Probabilmente l’evaso non si nascondeva lì. O
forse sì.
Aveva la vaga impressione che quella sarebbe stata la
missione più fastidiosa a cui avrebbe preso parte. Non aveva la più
pallida idea di che cosa Amos stesse macchinando con la Corporazione,
ma non poteva fare altro se non obbedire a ogni suo minimo capriccio.
Gli serviva, così come non poteva fare a meno della
mocciosa presa in ostaggio.
Il fuggiasco gli interessava ben poco, e per quello che
lo riguardava poteva anche morire, ma Amos lo voleva vivo e così
gliel’avrebbe portato.
Non poteva permettersi di sgarrare con il mago, non in
quel frangente.
«Generale, nella bottega non c’è nessuno.»
Rider guardò gelido il soldato che gli si parò di
fronte. Cominciava a non poterne più.
Quando udì dei passi provenire dalla fucina, si voltò
verso il corridoio, dove fece la sua comparsa un soldato giovane,
poco più che un ragazzino.
Si fermò a pochi passi dal generale, sull’attenti.
«Nella fucina non c’è nessuno, generale.»
Rider serrò i pugni, mentre una smorfia irosa gli
storse le labbra. Ogni volta che perquisivano un edificio e non
trovavano tracce, l’impressione di essere il protagonista di uno
scherzo irritante si faceva sempre più fastidiosa, e non la
tollerava.
«Maledetto, dove sei?» sibilò, le guance rosse per la
rabbia.
Il fabbro, alle sue spalle, si grattò debolmente il
naso. Nessuno lo vide. Fu un movimento veloce, fulmineo.
Sogghignò, nascosto dalla mano.
Quando Rider rivolse la sua attenzione su di lui, l’elfo
assunse un’espressione del tutto naturale.
Sorrise cordialmente all’uomo, in silenzio.
«Scusi per il disturbo» la voce del generale fremeva
«Andiamocene, qua abbiamo finito.»
I suoi uomini obbedirono, uscendo velocemente
dall’edificio con ordine e precisione marziale. Anche Rider si
diresse verso l’uscita, ma prima di varcarla si fermò.
Voltò appena la testa, giusto quel tanto che gli
permetteva di cogliere la figura dell’elfo con la coda dell’occhio.
«Se vedete movimenti sospetti, non esitate a chiamare
il C.S.M.»
L’elfo annuì, e solo dopo aver ottenuto quella
risposta il generale uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
*
Sari non riusciva a capire.
Era stremata, i muscoli delle braccia le tremavano, e
aveva il terrore di produrre anche il più flebile rumore. Ma
nonostante tutto, aveva mantenuto le orecchie ben tese.
Aveva sentito ogni cosa, e non riusciva a spiegarsi come
fosse possibile che l’elfo non li avesse consegnati a Rider. Doveva
ragionare, e velocemente anche.
Non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto
Namar, e nonostante l’elfo li avesse in qualche modo protetti, non
poteva contare su di lui.
La contraddizione tra ciò che si era prefissata di fare
e il desiderio di aiutare il fuggiasco la colpì di nuovo, ma quello
non era né il momento né il luogo per lasciarsi andare a
elucubrazioni mentali di quel tipo.
Doveva pensare a come muoversi.
Namar le aveva detto che non doveva uscire fino a quando
non gliel’avrebbe detto lui, ma molto probabilmente in quel momento
era ben lontano dal poter fare una cosa del genere. Doveva agire,
doveva capire cos’era accaduto e regolarsi di conseguenza.
L’unica cosa possibile da fare, in quella posizione
nella canna fumaria, era discendere dal camino.
Guardò sotto di sé e individuò nel buio la sagoma di
Abidos. Cercò di attirare la sua attenzione sussurrando il suo nome,
e solo dopo un paio di tentativi avvertì un fruscio: un movimento
nel buio.
Abidos la stava guardando.
«Scendi» gli sussurrò a bassa voce, ma il ragazzo non
sembrò convinto. Rimase lì, fermo, immobile. Sari scosse la testa,
sbuffando. Perché nessuno faceva mai ciò che lei chiedeva?
In quel momento avvertì distintamente dei rumori
provenire dalla fucina. Rumori di natura diversa mischiati assieme,
in sequenza. Passi, fruscii, poi il silenzio per alcuni brevi
istanti.
Poi, un nuovo tonfo.
Cominciava a non capirci davvero più niente. Provava
timore, eppure era maledettamente curiosa di sapere che cosa stesse
accadendo lì sotto.
Al diavolo, ora basta.
Cercò un appiglio con la mano, con movimenti lenti e
controllati. Ricordava di averne trovato uno più in basso quando
stava salendo, doveva solo individuare il punto esatto. Andò a
tastoni finché non avvertì una sporgenza nel muro.
Quindi fu la volta del piede, che scivolò contro la
parete per cercare una roccia protuberante a cui potersi appoggiare.
Chiuse gli occhi, pregando di non scivolare.
Una scia di polvere cadde verso il basso sfiorando il
viso di Abidos, che sollevò lo sguardo verso Sari.
«Che stai facendo? Non è ancora il momento, stai ferma
e aspetta!» sussurrò, cercando di farla desistere dall’intento di
calarsi a terra.
Sari fece per rispondergli, ma mise il piede in fallo.
Da lì, cadere fu un attimo.
Scivolarono giù, le mani che strisciavano contro il
muro nella ricerca disperata di un appiglio che non trovarono.
Caddero a terra di schianto, in un polverone nero e soffocante. I
loro polmoni furono invasi dalla fuliggine, e Sari tossì finché non
li sentì liberi.
Non riuscì a rendersi immediatamente conto della
situazione. La prima cosa di cui si accorse fu qualcosa di morbido
sotto di lei. Quando riuscì a capire che cosa fosse, scivolò giù
dal corpo di Abidos.
«Tutto bene?» domandò con aria colpevole e
preoccupata. Il ragazzo mugolò di dolore, e si mise a sedere
lentamente. Solo allora, Sari distolse l’attenzione da lui: c’era
qualcos’altro che aveva attirato il suo interesse. La prima cosa
che vide furono due stivali consunti, poi un vestito logoro, una
zazzera nera, e infine due occhi grigi.
Namar troneggiava su di lei, le braccia conserte al
petto e un’espressione di sufficienza stampata in faccia.
«Che stai combinando?»
Sari sostenne il suo sguardo, e sbuffò.
«Sono scivolata» biascicò controvoglia quella che
infondo era una mezza verità.
Namar sgranò gli occhi, un’espressione che non
mancava mai di far vedere agli altri. Chinò il capo di lato.
Sembrava che volesse prendersi gioco di lei, a giudicare
da come la guardava.
«Ma dai?»
«Tu piuttosto: mi vuoi dire che è successo? Ho sentito
un tonfo, e poi la voce dell’…»
Si interruppe a metà. L’elfo. Lo cercò con lo
sguardo, e lo trovò sdraiato in mezzo alla stanza, apparentemente
immobile. Come se fosse morto.
Guardò Namar senza capire cosa fosse successo,
accigliata. Aveva timore a domandare, e ancor di più a sapere che
cos’era accaduto al fabbro. Il sorrisetto ambiguo del ricercato non
le sembrò per nulla rassicurante.
«Dormirà per un po’. Piuttosto, la prossima volta ti
sarei grado se non tentassi di ammazzare la mia guida» aggiunse,
inginocchiandosi di fronte ad Abidos.
Il ragazzo lo guardò negli occhi e non oppose
resistenza quando Namar gli afferrò il mento, alzandolo per
esaminare il suo viso con occhio critico.
«A quanto sembra sei vivo. Che ne dici di rimanerci
fino a quando non saremo fuori da questo sputo di terra?» mormorò,
con un sogghigno che non suggeriva nulla di buono. Abidos lo guardò
senza battere ciglio. Guardò Sari, poi di nuovo il fuggiasco.
«Dobbiamo fuggire ora, è un’occasione perfetta dal
momento che hanno già perquisito la fucina.»
Sari annuì.
Namar lo guardò con insistenza, senza lasciare la presa
dal suo mento.
«Niente scherzi ragazzo. Ti tengo d’occhio.»
Abidos non rispose. Si limitò a sostenere lo sguardo di
Namar e riuscì ad alzarsi solo quando il fuggiasco si sollevò in
piedi.
Sari rimase in silenzio, guardando Namar e seguendone i
movimenti con diffidenza. Aveva evitato di rispondere alla domanda, o
almeno non aveva dato la spiegazione che lei si aspettava. Aveva
glissato apposta, per evitare di dover affrontare un argomento che
doveva rimanere segreto. Perché? Che cosa nascondeva?
Chi sei veramente?
Il fuggiasco guardò prima lei, poi Abidos. Nessuno
osava pronunciare una singola sillaba.
Sorrise divertito. Allargò le braccia con fare
teatrale.
Sul viso, un sorriso esaltato.
«È ora di muoversi.»
|
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Capitolo 15 *** fuga ***
15
Qualcosa
inizia a muoversi. Ricordate che nulla è come sembra ;)
Buona
lettura.
Brin
14.
FUGA
*
L’aria
umida si appiccicava sulla pelle, e l’odore del mare impregnava le
narici con prepotenza.
Fuggirono
nella notte come ladri, silenziosi e attenti a ogni rumore. Erano
ombre nel buio, sagome che rifuggivano la luce delle torce.
Percorsero
le stradine secondarie: una via di fuga perfetta, dal momento che
erano poco battute e scarsamente controllate. Abidos, alla testa del
gruppo, apriva la strada. Seguiva Sari, e per ultimo Namar, protetto
dal cappuccio di un mantello che aveva trovato nella fucina del
fabbro. Si appostarono a ogni angolo per controllare la strada,
attenti a non rimanere troppo a lungo in zone scoperte. Una cacofonia
di voci sembrava provenire da ogni punto, e più di una volta
temettero di venire scoperti. Namar sembrò sul punto di avere una
crisi di nervi: non faceva altro che guardarsi attorno con
insistenza, sussultando al minimo alito di vento. Sari, davanti a
lui, aveva il cuore che galoppava.
Non
aveva il coraggio di chiedere ad Abidos come intendesse condurli
lontano da Naima. Aveva paura che, se avesse aperto bocca anche solo
per sussurrare, qualcuno l’avrebbe sentita. Un timore irrazionale,
che però l’attanagliava.
Superarono
l’ennesimo angolo, seguiti dalle loro ombre disegnate dalle
lanterne assicurate ai muri degli edifici. Sari cominciò a pensare
che avrebbero continuato a vagabondare tutta la notte per la città,
quando Abidos improvvisamente rallentò. Si guardò attorno, assorto.
«Siamo
quasi arrivati.»
«Ma
davvero? Sono piuttosto curioso di sapere dove ci stai portando, dal
momento che io non vedo nulla a parte queste quattro case» esclamò
Namar, allargando le braccia spazientito. Sari lo guardò di
sottecchi. Aveva gli occhi spalancati, i denti scoperti in una strana
smorfia animalesca, e il petto che si alzava e si abbassava
convulsamente. Sembrava un cane rabbioso.
Abidos
si limitò a sorridergli, comprensivo.
«L’unico
modo per andarcene è percorrere la città lungo vie sotterranee,
come le fogne per esempio.»
Namar
lo guardò senza dir nulla. Si sistemò il cappuccio sul capo, senza
distogliere lo sguardo. Era diffidente.
«Allora
continua a camminare, e in fretta.»
Quando
si rimisero in marcia, Sari si sentì afferrare per un braccio: era
Namar, il viso a pochi centimetri dal suo orecchio. Una smorfia
cattiva gli alterava la linea delle labbra.
«Credi
che non mi sia accorto dell’adorabile giochetto che state
inscenando tu e il tuo amico?»
Il
sangue le si gelò improvvisamente nelle vene, ma cercò di dominare
il panico che quella frase le aveva scatenato.
Non
poteva farle del male, almeno finché gli era più utile da viva che
da morta. Ma nonostante tutto, non riuscì a sentirsi confortata:
aveva perso ogni speranza di fuggire. Namar non l’avrebbe più
persa di vista, neppure per un istante. E la cosa più sconcertante,
la cosa che si rifiutò di accettare, era che una parte di lei si
sentiva quasi sollevata
di non dover tentare la fuga.
Non
riuscì a ribattere, turbata da quelle emozioni contrastanti. Il
fuggiasco sogghignò soddisfatto.
«Beccati.
Fatemi qualche scherzo di cattivo gusto e vi torturerò così
lentamente che mi pregherete di uccidervi, è chiaro dottoressa?»
La
sua voce era bassa e carezzevole, come se le stesse sussurrando
parole d’amore, ma ebbe l’effetto di farla rabbrividire. Annuì,
ingoiando pensieri amari su quei desideri ambivalenti che non avrebbe
mai potuto accettare.
«Ora
andiamo» la spinse avanti, e per poco Sari non incespicò.
Guardò
avanti, ma in testa aveva solamente quanto Namar le aveva appena
detto. Percepiva i suoi passi alle proprie spalle, il fruscio del
mantello che indossava, e quell’assurdo senso di colpa che provava
al pensiero di abbandonarlo al suo destino la faceva sentire stupida.
In
un istante si era ricordata di cos’era
Namar. Non avrebbe dovuto farsi prendere dalla pietà, e ne aveva
avuto la prova. Non era un suo amico, e neppure un compagno di
viaggio. Era il suo rapitore.
L’aveva
sequestrata e l’aveva minacciata: due cose essenziali che non
doveva dimenticare.
Venne
strappata a forza da questi pensieri, quando sentì qualcosa di duro
cozzare contro il suo naso. La schiena di Abidos. Si era fermato e
lei non se n’era neppure accorta.
«Che
diavolo succede?» sussurrò, trattenendo a stento un’imprecazione.
Il ragazzo si voltò, guardando prima lei e poi Namar. Sembrava
preoccupato.
«Arriva
qualcuno.»
In
quel momento Sari li sentì: dei passi leggeri, provenienti dalla
fine della strada. Qualcosa si agitava nell’ombra con movimenti
lenti, sinuosi. Per un istante pari a un battito di ciglia qualcosa
brillò. Due occhi di fiera.
Sari
scosse il capo, sperando di aver immaginato ogni cosa.
«Andiamo
avanti» sussurrò Namar, quel tanto che bastava per farsi sentire
dai due ostaggi.
«Chiunque
sia, non guardatelo in faccia e non fermatevi per nessun motivo.»
Sari
annuì poco convinta. Intuì subito che quei fugaci bagliori non
erano frutto della sua fantasia: l’espressione preoccupata di Namar
lo provava. E forse anche lui aveva capito che cosa si nascondeva nel
buio.
Demoni!
Il
suo istinto le gridava di non andare in quella direzione, di voltarsi
e di allontanarsi da quella figura che la inquietava, ma nonostante
tutto riprese a camminare con il capo chino.
Mantenne
lo sguardo fisso sulle caviglie di Abidos anche quando quella
creatura uscì dall’ombra, cogliendo a stento le sue fattezze di
donna. Non vide la frangia che le copriva la fronte; non vide gli
occhi azzurri che scrutavano il gruppetto, beffardi. Non si accorse
del lungo, pesante sguardo carico d’intesa che Abidos le rivolse.
Non seppe neppure che Namar, alle sue spalle, non aveva mai distolto
lo sguardo da quella figura demoniaca.
La
donna non aprì bocca. Oltrepassò il gruppo, allontanandosi in
silenzio così com’era giunta.
Solo
quando svoltò l’angolo e sparì dalla strada, Sari si sentì
sollevata. Chiuse gli occhi, e si accorse che per quella manciata di
secondi interminabili aveva respirato a stento, trattenendo il fiato
a causa dell’ansia. Non ebbe neppure il coraggio di sollevare lo
sguardo.
«L’avete
vista, vero?» domandò la psicologa.
«Sì»
mormorò Abidos continuando a camminare.
«Quegli
occhi, nell’ombra…»
Questa
volta il ragazzo non rispose. Era chiaro a tutti e tre cosa volesse
dire ciò, e Sari credeva di sapere il perché un demone si trovasse
in una cittadina di mare come Naima, in terra nemica.
Erano
sulle sue tracce, e cercavano ciò per cui suo padre era morto. Erano
arrivati.
*
Si
calarono nel tombino, attenti a dove mettevano i piedi.
Sari
fu investita dall’odore putrido e pungente del canale fognario non
appena cominciò a scendere, e credette di vomitare, in preda a un
conato.
Erano
circondati dal buio. Dovettero aspettare diversi minuti prima di
riuscire ad abituarsi all’oscurità e di poter distinguere
l’ambiente. Il rumore dell’acqua proveniva da sinistra, e quando
riuscirono a intravedere i contorni del condotto, riuscirono anche a
individuare i flutti del canale.
Dall’altra
parte, il muro. Quando Sari vi appoggiò la mano sentì qualcosa di
spiacevolmente molliccio a contatto con la pelle, qualcosa che
impregnava l’aria assieme al fetore dell’acqua.
Arricciò
il naso, pulendosi la mano sui pantaloni.
«Muffa.»
Faceva
fatica a vedere dove metteva i piedi, e aveva l’impressione di
poter scivolare da un momento all’altro. La muffa doveva aver
aggredito anche il pavimento, ipotizzò. Continuò a camminare alle
spalle di Abidos, cercando di mantenere l’equilibrio tenendo le
braccia protese.
In
mezzo a tutto quel buio e a quel silenzio rotto solo dai loro passi,
rifletté a lungo. I pensieri si susseguivano senza sosta come un
fiume in piena, e lei non sembrava capace di fermarli.
Suo
padre, il suo assassino, la voglia di trovarlo. Poi il suo sequestro,
l’impossibilità di fuggire da Namar, la donna nel vicolo, e quel
vago senso di colpa che provava quando pensava alla decisione di
fuggire da lui. Non riusciva a capire cosa voleva fare.
Quando
Namar li aveva scoperti si era quasi sentita sollevata: una
scorciatoia facile per annientare i sensi di colpa. Una strada che le
aveva lasciato un vago disgusto per se stessa.
Poi
vennero le domande. Se anche fosse riuscita a trovare Shem, che cosa
avrebbe fatto dopo?
Fu
ciò che provò a quel pensiero ad atterrirla più di ogni altra
cosa. Vendetta, giustizia o verità? Lei non sapeva più cosa
desiderava, e la realtà era che in quel momento le sembrava di
essere lontana anni luce dall’assassino di suo padre. Tutti quei
pensieri confusi erano come un’oscurità fitta e impenetrabile, ma
all’improvviso si ricordò di una cosa, e fu come vedere la luce.
Namar.
Lui
conosceva Shem.
Il
cuore cominciò a battere più velocemente. Non aveva idea di come
avesse fatto a dimenticarsi di un particolare così importante, e si
diede della stupida.
«Namar?»
«Non
ho voglia di fare conversazione. Cammina e stai zitta.»
Sari
si costrinse a mantenere la calma e a insistere. Non poteva lasciarsi
scappare quell’occasione.
«Tu
hai conosciuto Shem Gaynor, vero?»
Non
ottenne risposta. Fu sul punto di desistere dai suoi intenti quando
Namar sospirò.
«Se
ti accontento la pianti di parlare? Mi stai infastidendo.»
Sari
si fece improvvisamente attenta, con un largo sorriso soddisfatto.
«Si
può fare.»
«Lavorava
ad Artika.»
«Sì,
quello lo so.»
«Allora
la cosa finisce qua, non so altro.»
«Come
sarebbe a dire che non sai altro? L’hai conosciuto! Ci avrai
parlato, no?» sbottò Sari incredula, frustrata dal non riuscire a
ottenere nessuna informazione che potesse essere utile. Le sembrò di
vedere Abidos raddrizzare la testa, un movimento leggero e prudente,
come se stesse ascoltando di proposito la conversazione e volesse
nasconderlo. Non ci prestò molta attenzione: l’urgenza delle
possibili rivelazioni di Namar aveva la precedenza.
Ma
il fuggiasco non diede prova della disponibilità in cui lei si
ostinava a sperare, lo dimostrò ancora una volta quando sbuffò
infastidito.
«Per
tua informazione, ad Artika il personale non si trastulla in
chiacchiere con i detenuti. L’ho conosciuto, ma non so nulla della
sua vita.»
Una
delusione profonda avvolse Sari. Per un istante aveva creduto che
Namar potesse aiutarla, dandole delle informazioni che l’avrebbero
condotta verso Shem, ma fu costretta a fare i conti con la realtà.
Shem era letteralmente sparito nel nulla, e tutti i suoi sforzi per
trovarlo si erano risolti in un buco nell’acqua. Si era introdotta
ad Artika con l’unico risultato di essere presa in ostaggio.
Rimase
in silenzio, delusa e amareggiata. Solo in quel momento, con la
complicità di un vivace flusso di pensieri, si rese conto di ciò di
cui era appena stata testimone: Abidos, quel ragazzo così garbato,
aveva appena violato uno dei punti fondamentali dell’etichetta.
Aveva origliato.
La
sensazione prodotta da quell’idea era fastidiosa, irritante, ma si
disse che in fin dei conti non c’era nulla di male. Era da
maleducati, certo, ma non avrebbe danneggiato nessuno.
Fu
un errore pensarlo.
*
Abidos
camminò sicuro con un sorriso mordace stampato in viso, un ghigno
ben nascosto a Sari. Sarebbe arrivato fino in fondo, e avrebbe
raggiunto il suo obiettivo prima di venire intralciato dai tirapiedi
dei Maghi.
Stava
conducendo la ragazza dritta nella sua rete, doveva solo giocarsi
bene le carte che aveva a sua disposizione senza seccatori tra i
piedi.
Mancava
davvero poco.
«Quanto
manca Abidos?»
Era
Sari. Il ghigno sul viso delicato del ragazzo si fece ancora più
affilato.
«Poco.
Molto poco.»
*
L’aria sembrava aprirsi al loro passaggio, e Amaya
aveva la sensazione che mille mani le schiaffeggiassero il volto
nello stesso momento.
Pregò più volte perché riuscissero ad arrivare
incolumi a destinazione.
Non era l’elfo che stava guidando il drago a
impensierirla. Al contrario, fino a quel momento si era dimostrato
gentile e comprensivo, evitando spericolati avvitamenti in aria che
l’avrebbero fatta morire di paura. Il vero problema era se stessa.
Il drago volava così velocemente che lei riusciva a
mala pena a respirare; doveva compiere uno sforzo enorme ogni volta
che i polmoni catturavano l’aria.
Volavano nel cielo buio della notte, e sopra le loro
teste le stelle sembravano sfrecciare, impazzite.
Volker aveva insistito per aspettare che il sole fosse
tramontato prima di levarsi in volo e dirigersi verso Naima, e Amaya
si era trovata d’accordo con lui: se qualcuno li avesse visti
volare sul dorso di un drago, avrebbero avuto rogne a non finire.
Drago significava magia nera, e magia nera significava
demoni: un binomio che non era assolutamente tollerato. Amaya si
impose di non pensarci, come cercò di non pensare all’altezza che
li separava da terra.
Tenne gli occhi chiusi, stringendo ancor di più le
braccia attorno alla vita di Volker, che si lasciò scappare un
leggero sorrisetto.
I secondi passarono e divennero minuti. I minuti
trascorsero e si tramutarono in ore. Non seppe dire da quanto erano
in volo, né riuscì a capire dove fossero. Verso il basso, chiazze
più o meno scure si susseguivano senza fine; boschi, fiumi e zone
collinose si alternavano continuamente. Ogni tanto, qualche sparuta
luce appariva nell’oscurità: una manciata di case, un piccolo
villaggio isolato dalle città nel bel mezzo della pianura.
Furono quasi sul punto di credere che non sarebbero mai
arrivati, quando lo videro: un mare di luce, una piccola area
illuminata a giorno.
Fuochi accesi ovunque: per le strade, alle entrate della
città, alle porte di ogni singola abitazione, addirittura nelle zone
esterne alla città. Naima era a caccia.
«Accipicchia, certo che si stanno dando un gran da fare
per acchiappare questo tizio» constatò Volker ridacchiando. Amaya
però non trovava la cosa divertente.
«È un uomo pericoloso, Kramer.»
«Chiamami Volker.»
«Come preferisci» sbuffò, infastidita dalla malizia
che gli percepiva nella voce. E lui ridacchiò di nuovo, divertito.
«E ora che si fa?»
«Dobbiamo avvertire Victor che siamo arrivati a
destinazione con un drago.»
Amaya cacciò una mano in tasca ed estrasse un gingillo,
che Volker aveva già visto: un prodotto della raffinata tecnologia
elfica. Lo chiamavano Ragno. Era una sorta di guanto metallico a
forma di aracnide, le cui zampe reggevano una pietra piccola e
completamente nera. Quando lo indossò, delle venature dorate
colorarono la pietra, finché non cancellarono quasi completamente il
nero. Fu allora che il Ragno cominciò a brillare di una luce dorata.
«Victor,
mi senti?»
Per
un istante la luce si spense e nessuno dall’altra parte rispose, ma
poi la pietra riprese a pulsare finché il bagliore dorato non
divenne stabile.
«Ce
l’avete fatta?» la voce di Silver era metallica, quasi
artificiale.
«Siamo
sopra Naima, ma non possiamo scendere con il drago, altrimenti ci
scoprirebbero.»
«Mi
basta che setacciate la zona dall’alto, non voglio che corriate
ulteriori rischi.»
«Perfetto.
Quando vedo qualcosa ti…»
«Guarda
là» Volker la interruppe, indicandole un punto in mezzo alla
boscaglia. Inizialmente non riuscì a capire che cosa volesse
mostrarle, ma quando aguzzò meglio la vista capì subito.
Tre
sagome si muovevano in mezzo alle fronde, lontano dal sentiero.
L’ipotesi
che fosse il C.S.M. era piuttosto remota, dal momento che non
avrebbero avuto motivi per camminare nel bosco fuori dal sentiero:
era più probabile che potessero essere Sari e il suo rapitore.
C’era
però una terza persona, presenza alla quale non sapeva dare
spiegazioni.
«Amaya,
è successo qualcosa?» la voce di Silver sembrava preoccupata.
«Forse
li abbiamo trovati. Stanno scappando attraverso i boschi, ma sono in
tre.»
«Quel
tizio potrebbe aver preso qualcun altro in ostaggio» ipotizzò
Volker.
«In
che direzione sono diretti?» chiese Silver.
Amaya
rifletté per alcuni istanti e guardò il cielo, cercando di
orientarsi con le stelle.
«Sud.»
«A
sud, eh? Se tu fossi braccata dall’esercito e volessi trovare
rifugio da qualche parte, quale sarebbe il posto più adatto in
quella direzione?»
L’elfa
provò a pensare velocemente a tutte le cittadine in cui un ricercato
potesse essere al sicuro. Una città in cui la Corporazione non
avrebbe potuto estendere i suoi artigli.
Il
posto che aveva questi requisiti era uno solo, unico in tutta
Silindril.
Un
piccolo regno indipendente, in cui erano le leggi dettate dal sovrano
a regolare la vita della città.
«Assen.»
Era
sicura che in quel momento Silver stava sorridendo soddisfatto.
«Incontriamoci
lì. Andiamo a liberare Sari.»
|
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Capitolo 16 *** un posto nel mondo ***
15
15.
UN
POSTO NEL MONDO
*
Rider
cominciava a non sopportare più di stare seduto, e aveva bisogno di
scendere dalla macchina per sgranchirsi le gambe. Ciò che più gli
dava fastidio, però, era di essere tornato a mani vuote.
La
sua vettura era in testa alla squadra, e non appena entrarono a
Rosya, la città li salutò con gioia. Il generale ostentava come al
solito tutto il suo orgoglio, una maschera che per l’occasione
fungeva da freno per la rabbia.
Lo
irritava terribilmente l’idea di dover comunicare ad Amos di aver
fatto un misero buco nell’acqua. Non aveva idea del perché il capo
dei maghi desiderasse così tanto quel criminale, ma l’ultima cosa
che voleva era deluderlo. I suoi favoritismi gli erano indispensabili
per poter proseguire la carriera e arrivare in alto.
Quel
mago era la persona più influente all’interno della Corporazione,
ed era ufficiosamente il capo effettivo del regno. Umani, elfi e
maghi: tutti indistintamente dovevano rispondere prima di tutto a
lui, e Rider era il suo pupillo. Amos sembrava averlo preso sotto la
sua ala protettrice, lo aveva favorito più volte, e se ora era
generale lo doveva a lui. Ma poteva ottenere ancora molto.
Se
continuava a giocarsi bene le sue carte poteva diventare molto
influente, sfruttando il potere che il mago esercitava all’interno
della Corporazione. Sarebbe addirittura potuto succedergli, una volta
che Amos fosse morto: era per questo che non poteva assolutamente
deludere le sue aspettative. Doveva continuare a soddisfare ogni
capriccio di quel maledetto vecchio, per quanto la cosa lo irritasse,
cosa che questa volta non era riuscito a fare.
Voleva
quel fuggiasco, e lui si ripresentava al suo cospetto a mani vuote.
Quando
oltrepassò il portone della sede della Corporazione e smontò dalla
macchina, la prima cosa che fece fu cercare Jasper. Lo trovò nel suo
studio, chino su un pacco di scartoffie.
La
burocrazia doveva essere mortalmente noiosa, questo Rider l’aveva
sempre pensato, e a giudicare dall’espressione tediata del mago
doveva essere senz’altro così.
Quando
lo vide entrare senza neppure bussare alla porta, Jasper sussultò,
sollevando il naso dai documenti sparpagliati sul tavolo.
«Generale,
quando sei tornato?»
«Pochi
minuti fa. Lui dov’è?»
Jasper
si alzò in piedi, lisciandosi la tunica bianca che indossava.
«È
nelle sue stanze. Ti annuncio, aspettami qui» Jasper fece per
imboccare la porta spingendo gli occhiali più su sul naso, ma Rider
gli impedì di passare opponendosi tra il mago e l’uscita.
Aveva
un’espressione estremamente seria.
«Non
ce n’è bisogno, faccio da solo.»
Girò
i tacchi, uscendo con passi pesanti dalla stanza. Il mago lo seguì
fuori, caracollando.
«Ti
prego di fermarti generale, il signor Amos si infurierà se entrerai
senza essere annunciato.»
«Tanto
si arrabbierà comunque» borbottò Rider guardando di sottecchi
Jasper, che non capì di cosa stesse parlando.
Il
generale si diresse verso le stanze in cui Amos si rifugiava quando
voleva rimanere da solo a sbrigare i propri affari, ignorando le
opposizioni del suo assistente.
Quando
bussò e aprì la porta, lo trovò in veste da camera, seduto davanti
a un caminetto spento intento a leggere un libro, probabilmente di
magia.
Il
mago anziano portò subito gli occhi su Jasper, accigliato.
«Le
chiedo scusa Signore, ho provato a fermare il generale.»
«Lasciaci
soli Jasper.»
La
voce di Amos sembrava tranquilla, nonostante l’espressione
vagamente seccata sul volto segnato dagli anni. Il mago più giovane
chinò rispettosamente il capo prima di ritirarsi in silenzio,
richiudendo la porta.
Una
volta rimasti soli, Amos si sollevò in piedi lentamente. Non parlava
ancora. Si avvicinò a una finestra, guardando il giardino rigoglioso
sottostante al palazzo. Ripose il libro sul tavolo, e solo allora si
decise a prestare attenzione a Rider, che attendeva nervosamente di
parlare e comunicare il proprio insuccesso.
Lo
guardò curioso, e il Generale riuscì a leggere la speranza nei suoi
occhi, cosa che gli fece temere ulteriormente la sua reazione.
«Allora
Hektor, l’hai trovato?»
Rider
abbassò lo sguardo a terra. Era il suo cane, ed era sottomesso ad
Amos. Non poteva mentirgli né disobbedire ai suoi ordini.
«L’abbiamo
cercato dovunque, abbiamo setacciato tutta la città. Ho ordinato di
mettere dei posti di blocco a ogni porta di Naima per impedire a
chiunque di entrare e uscire, ma…»
«Mi
stai dicendo che non sei riuscito a trovarlo?»
Il
tono di voce con cui Amos aveva posto la domanda raggelò il
generale. Era così tranquilla che sembrava irreale. Improvvisamente
ebbe paura di cosa avrebbe potuto fargli quel mago anziano, che
riusciva a fatica ad alzarsi dalla sedia.
Sollevò
lo sguardo. Il volto di Amos era stoico, come al solito. Pessima
cosa.
La
risposta di Rider fu quasi un sussurro.
«Sí.»
Il
mago si voltò verso la finestra, posando le mani contro il muro e
chinando il capo. Stava tremando di rabbia.
«Mi
hai deluso generale, mi hai decisamente deluso.»
Rider
incassò in silenzio, guardando di nuovo per terra. Erano i minuti
più lunghi di tutta la sua vita.
«Non
avresti dovuto neppure tornare. Avresti dovuto continuare a cercarlo,
e saresti dovuto tornare solo dopo averlo catturato. Ma non l’hai
fatto.»
Il
generale rimase zitto, aspettando che Amos terminasse la propria
strigliata.
«Tu
credi che io non conosca l’ambizione che ti muove?» una risata
roca provenne dalla gola del mago, che scosse il capo. «Anche io
nutrivo gli stessi desideri che ti spingono a leccarmi i piedi. Tu
vorresti prestigio e potere, te l’ho sempre letto negli occhi. E il
mezzo più sicuro per ottenerli è sposare mia nipote» finalmente
Amos si decise a voltarsi verso Rider con un’espressione sibillina.
Sorrise appena, gelido.
«Se
vuoi diventare marito di Sari e rafforzare la tua posizione nella
Corporazione come mio successore, portami l’evaso. E non osare
tornare senza di lui.»
*
Non
poteva fidarsi. Doveva stare attento. Abbassare la guardia sarebbe
stato un errore, e la situazione era troppo delicata per
permetterselo.
Erano
riusciti a entrare ad Assen facilmente. Non c’erano posti di blocco
né pattuglie, come se gli artigli dei Maghi non fossero ancora
arrivati.
Il
fatto che non li vedesse, però, non voleva dire che loro non fossero
lì, nascosti da qualche parte a osservare con i loro occhi infidi.
Erano ovunque, avevano orecchie in ogni angolo più remoto,
emissari corrotti e spie fedeli.
E
lo stavano cercando.
Anche
in quella via che stavano percorrendo probabilmente si celavano i
maghi, ma lui non si sarebbe fatto prendere. Non dopo quello che gli
avevano fatto.
Non
si sarebbe più lasciato usare da loro. Non avrebbero messo di nuovo
le loro mani sporche su di lui. Nessuno di loro.
Aveva
vissuto per lunghi anni, troppi a dire il vero, ma non gli era mai
stato dato modo di quantificarli. Poteva aver vissuto per più di un
secolo, come poteva avere una ventina d’anni. Non poteva avvertire
lo scorrere del tempo, dov’era vissuto fin’ora.
Durante
tutti gli anni trascorsi in quella cella aveva riflettuto. Il motivo
della sua nascita, il suo destino, la sua perenne prigionia… Era
nato per vivere ai margini del mondo, confinato in una zona d’ombra
che non poteva oltrepassare, perché ciò che c’era al di là non
gli apparteneva.
Eppure
l’aveva sentita chiaramente: una voce dentro di sé che lo spingeva
a gridare che lui esisteva, che aveva diritto a un posto nel mondo.
Non sapeva quale fosse, ma sapeva che c’era.
Nessuno
gli avrebbe impedito di trovarlo, ora che stava per diventare libero.
A
costo di compiere un massacro.
«Non
ci voleva.»
Il
commento preoccupato di Sari distolse Namar dai suoi pensieri, e
quando il fuggiasco si guardò attorno capì di che cosa stava
parlando.
Lo
sapeva; erano arrivati fin lì. Su ogni muro erano affissi gli avvisi
di cattura con la sua foto di che spiccava sul foglio. La parola
“pericolo”, in un rosso particolarmente acceso, spiccava sulla
carta.
Calciò
un sasso con violenza, in un gesto di stizza.
«Cani
rognosi!»
«Ehi,
voi.»
Namar
si tirò il cappuccio sul volto meglio che poté prima di voltarsi.
Erano due guardie, con lo stemma della famiglia reale di Assen sulle
uniformi. In mano, due lance rudimentali.
Il
fuggiasco rimase in silenzio. Sari e Abidos si guardarono per un
breve istante, ma fu la ragazza ad avanzare di un passo.
«Dite
a noi?»
«Certo.
Tu… » indicò Namar con un cenno della testa «…giù il
cappuccio.»
Il
fuggiasco guardò prima l’uno e poi l’altro, senza la minima
intenzione di obbedire all’ordine impartito. Rimase fermo immobile,
i sensi tesi e i muscoli pronti a scattare.
«Ho
detto giù il cappuccio!» latrò la guardia, dirigendosi verso di
lui con passo sicuro. Sari guardò la scena impietrita; Abidos rimase
fermo al suo posto, serio.
La
guardia fece per abbassare il cappuccio sulle spalle di Namar, ma
quest’ultimo fu più veloce: gli afferrò il polso e glielo torse,
facendo gemere la guardia di dolore. Il compagno scattò subito verso
Namar impugnando la lancia, pronto a colpire, ma l’evaso lasciò la
presa e all’ultimo momento si accucciò a terra per evitare il
colpo. La gomitata che gli piazzò sul costato fu sufficiente a
levare il fiato alla guardia e a dare il tempo a Namar di posare le
mani bendate dalle garze sulla testa dell’uomo.
Il
grido che la sentinella levò fu agghiacciante. Si accasciò come un
sacco di patate, con le labbra contratte in una smorfia di indicibile
dolore e gli occhi spalancati. Vuoti. Spenti.
Morto.
Sari
lo guardò sgomenta, terrificata. Era successa la stessa cosa ad
Artika, quando lui aveva ucciso quell’inserviente.
Namar
aveva ucciso ancora.
Il
mormorio della folla che si era radunata attorno a loro riportò Sari
a ciò che stava accadendo. Li avevano accerchiati, e li stavano
guardando con paura e ostilità.
L’altra
guardia si risollevò in piedi massaggiandosi il polso ancora
dolorante, e quando vide il cadavere del compagno a terra guardò
prima Namar, poi Sari e infine Abidos con disprezzo.
«È
un assassino!»
«L’ha
ucciso lui!»
«È
quello che stanno cercando!»
La
folla gridava e indicava Namar, che si guardò attorno nel vano
tentativo di trovare una via di fuga. Quando si trovò con le mani
legate dietro la schiena e condotto dalla guardia attraverso la folla
verso chissà quale luogo, capì.
Ancora
una volta il suo destino lo conduceva verso una prigione, l’ennesima.
Per
lui non poteva esistere la libertà.
*
Sari
e Abidos vennero condotti a palazzo, scortati dalle guardie reali.
L’edificio era imponente, una fortezza massiccia e apparentemente
impenetrabile, situata nel cuore di Assen.
La
folla che li seguiva mormorava sommessamente, ma alla ragazza non
importava che cosa stessero dicendo: aveva ben altro per la testa.
Guardò di sottecchi la guardia che camminava accanto a lei,
indecisa. Voleva sapere.
Oltrepassò
l’entrata del castello, torcendosi le mani.
«Che
ne sarà dell’uomo che avete catturato?»
La
smorfia che vide sul volto della guardia non prometteva nulla di
buono.
«Secondo
te cosa potremmo fare a uno che viene qua ad ammazzare uno dei
nostri?»
Sari
non rispose. Sapeva perfettamente che quel soldato aveva ogni diritto
di parlare in quei termini. L’odio che leggeva nella sua voce era
assolutamente legittimo, eppure qualcosa dentro di lei la spingeva a
non voler accettare la pena che sarebbe toccata a Namar.
Lui
l’aveva presa in ostaggio, aveva ucciso due uomini davanti ai suoi
occhi, e se non si era ancora sbarazzato di lei era soltanto perché,
evidentemente, gli serviva per coprirsi le spalle. Eppure, stando
così vicina al fuggiasco cominciava a capire qualcosa di lui.
Sentiva
chiaramente il disperato desiderio di libertà che lo spingeva a
lottare con tutte le sue forze per non tornare ad Artika, per non
ritrovarsi di nuovo in quattro mura buie, teatro di chissà quali
cose.
Aveva
pensato di fuggire da lui, era vero. Ma ora che lo sapeva di nuovo in
una cella ad aspettare il proprio destino, Sari non riusciva a
starsene tranquilla a guardare.
Vennero
condotti attraverso una rete infinita di corridoi e stanze adornate
da arazzi, raffiguranti antiche battaglie e allegorie, putti danzanti
e cavalieri, amori e uccisioni. Dai soffitti pendevano candelabri
immensi, seppur semplici nella loro maestosità, e Sari non riuscì a
fare a meno di guardarsi attorno a bocca aperta, rapita. Non aveva
mai visto tutto quel lusso prima d’ora, neppure all’interno della
Corporazione.
La
guardia li fece accomodare nella stanza del trono e, prima di
ritirarsi, disse loro di attendere.
Quella
stanza non era da meno di quelle che avevano già visto: era enorme,
tappezzata di arazzi ancora più elaborati e sfarzosi, e tre troni di
varie dimensioni posti ad altezze diverse dominavano la sala dal
fondo.
Dei
passi leggeri provennero dalle loro spalle, e quando Sari si voltò,
ciò che vide fu una donna giovane, probabilmente della sua età. Li
stava guardando con un leggero sorriso, e i capelli biondi le
ricadevano in morbide onde sulla schiena. Le vesti che indossava
dovevano essere di fattura pregiata, ipotizzò la psicologa.
«Permettetemi
di presentarmi: sono Corinne, principessa di Assen» chinò appena il
capo, come voleva l’etichetta. Abidos le prese delicatamente la
mano e le baciò il dorso.
«Abidos,
mia principessa.»
Sari
rimase interdetta a guardare entrambi, improvvisamente colta dal
panico. Non era mai stata al cospetto di qualche sangue blu e, quanto
ad Amos, non si faceva troppi problemi ad apparire maleducata.
Abbozzò
un inchino un po’ rigido, sperando che andasse bene, e Corinne
sorrise accogliendo i suoi sforzi.
«Sari
Kalabis, vengo da…»
«Lo
so da dove vieni, e so anche chi sei. Gli avvisi di cattura sono
arrivati qua prima di voi. Ora però sarei lieta di offrirvi del cibo
e un letto confortevole, prima che ripartiate. Immagino che sarete
stanchi.»
Sari
annuì. Effettivamente l’idea di mangiare e dormire non le
dispiaceva affatto: era stanca e affamata, e soprattutto aveva
bisogno di un buon bagno per levarsi lo sporco e l’odore delle
fogne da dosso. Avevano trascorso poco tempo in mezzo ai liquami,
giusto il necessario per oltrepassare le porte di Naima senza correre
il rischio di essere scoperti, ma era bastato per farla sentire
sporca fin nelle ossa. Una sensazione di cui voleva liberarsi quanto
prima.
«Allora
seguitemi. Vi condurrò verso le vostre stanze» Corinne fece cenno
di precederla fuori dalla stanza, ma Sari non si mosse.
«Perdonate
la mia domanda, ma vorrei sapere una cosa prima di andare.»
La
principessa annuì, lasciando che Sari proseguisse.
«Che
ne sarà dell’uomo che avete catturato?»
Corinne
prese un respiro profondo, cosa che fece temere a Sari il peggio.
«Se
non fosse un ricercato, sarebbe sottoposto alle nostre leggi e
sarebbe condannato a morte. Ma dal momento che la Corporazione lo sta
cercando, devo consegnarlo a loro. Inimicarci Amos non converrebbe di
certo al nostro regno.»
Sari
si morse le labbra. Non sapeva quale delle due cose fosse meglio, se
condannato a morte o se catturato di nuovo dalla Corporazione.
«Il
C.S.M. sarà qua a breve, è già stato chiamato.»
Splendido,
proprio quello che ci voleva per migliorare la situazione.
Sari
non rispose. Si fece accompagnare fino alla camera in silenzio, lo
sguardo rivolto a terra e la mente che correva a briglia sciolta.
Namar era incarcerato. Il C.S.M. sarebbe arrivato a breve, per quello
che ne sapeva lei. Questione di giorni, o forse addirittura di ore.
Improvvisamente
dimenticò il bagno e il cibo. Persino il riposo.
La
cosa da fare era soltanto una.
Quando
Corinne la lasciò sola dopo averle mostrato i suoi alloggi, bussò
alla porta di Abidos, che alloggiava nella stanza accanto alla sua.
Quando il ragazzo le aprì, lei lo trascinò dentro la stanza
chiudendosi la porta alle spalle, stando ben attenta a non fare
rumore.
«Dobbiamo
liberarlo.»
«Cosa?»
Abidos la guardò confuso.
Sari
sbuffò impaziente. Non avevano molto tempo, e ogni minuto sprecato
poteva essere quello cruciale.
«Namar,
Abidos. Namar! Lo verranno a prendere, tra poco saranno qua e se non
faremmo qualcosa…»
La
risata di Abidos la raggelò. Lo guardò senza capire, spiazzata.
«Come
puoi volere salvare quello?»
Sari
non riuscì a rispondere. Rimase in silenzio, le braccia lungo i
fianchi e le mani serrate a pugno.
«È
un rapitore, e prima ancora un assassino. Lo sai che se lo farai
fuggire sarai la sua complice?»
Abidos
aveva ragione, aveva maledettamente ragione. Ma qualcosa in tutta
quella faccenda non quadrava: qualcosa di oscuro, appositamente
nascosto perché non fosse trovato.
E,
ne era sempre più sicura, Namar ne era il centro. Che fosse vittima
o carnefice non era ancora chiaro, ma non poteva lasciare che lo
prendessero. Non prima di aver fatto chiarezza.
E
poi, il suo istinto –lo stesso che l’aveva portata a scegliere la
professione di psicologa, quello che l’animava di curiosità,
necessità di comprendere e aiutare- la spingeva irresistibilmente
verso di lui, verso quel mondo interiore che nascondeva dietro il suo
essere un assassino in fuga.
Guardò
Abidos, con determinazione.
«Lo
so, ma voglio liberarlo. Mi aiuti o no?»
Il
ragazzo sospirò, coprendosi gli occhi.
«Sai
cosa succede se ci scoprono?»
«Sí.»
«E
sei pronta a correre questo rischio per lui?»
Sari
tentennò. Era pronta davvero? Se li avessero scoperti era davvero
decisa ad assumersi le sue responsabilità? Non avrebbe voluto
coinvolgere Abidos, ma da sola non ce l’avrebbe mai fatta.
Annuì.
«Sí,
lo sono. Lo voglio fuori da quella cella.»
«Non
voglio grane, però. Ti avviso che se ci scoprono, dirò che mi hai
costretto con la forza.»
«Mi
sembra giusto» annuì la psicologa.
«Allora
andiamo.»
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Capitolo 17 *** verso la libertà ***
16
Ragazzi, ci avviciniamo alla verità. Tra pochi
capitoli scopriremo che fine ha fatto Shem, chi o cosa è Namar e
soprattutto cos'è la Zona Rossa. Qualche risposta ci sarà già dal
prossimo capitolo a dire il vero; a voi immaginare però quale sarà
il primo nodo a sciogliersi.
Per qualunque cosa mi trovate su facebook oppure nel
gruppo dedicato alle mie storie. Buona lettura,
Vale
16.
VERSO
LA LIBERTÀ
*
Quando
l’agente Silver, Amaya e Volker entrarono ad Assen, l’atmosfera
che trovarono non era certo delle migliori. Gli avvisi di cattura
erano ancora appesi dovunque, come se nessuno avesse avuto il
coraggio di toglierli, e la gente cominciava a mormorare che
portassero il malocchio. «Dev’essere successo qualcosa» ipotizzò
Amaya. Silver la guardò, accigliato.
«Da
cosa lo deduci?»
«Guardati
attorno.»
Il
poliziotto fece come suggerito dall’elfa, alla ricerca di qualche
elemento anomalo. Cercò tracce materiali, sui muri, per terra; provò
anche a fiutare l’aria alla ricerca di qualche odore in
particolare, ma non rinvenne nulla. Volker lo guardò divertito.
«Intendevo
dire il comportamento delle persone» Amaya sospirò, indicando una
donna che era appena passata davanti a uno dei tanti avvisi di
cattura, velocemente. Sembrava nervosa, e solo quando fu abbastanza
lontana riprese a camminare normalmente.
«La
maggior parte si comporta così, come se avesse paura di quegli
avvisi.»
«Ma
è assurdo» obiettò con calma Volker, scuotendo il capo.
«Non
poi così tanto, se è davvero accaduto qualcosa» rispose Silver,
quando all’improvviso qualcosa tra la folla catturò la sua
attenzione.
Una
figura in lontananza si stava avvicinando. Una donna. Sembrava avere
delle fattezze familiari, ma Silver diede la colpa alla distanza.
Eppure sperava, e il cuore cominciò a battere forte quando lei si
avvicinò. Quando la riconobbe.
Sari.
«È
lei!» gridò, ma non fece neppure in tempo a dirigersi nella sua
direzione che Amaya era già schizzata tra la folla, correndo verso
l’amica.
Anche
Silver si precipitò, seguito da Volker. Ma più si avvicinava e più
aveva la sensazione che qualcosa non andasse. Parlottava con un
ragazzo decisamente diverso da Warknife, e il poliziotto riuscì
chiaramente a leggere i segni della stanchezza sul suo viso. Era
evidente che quei giorni trascorsi da ostaggio l’avevano sciupata
più di quanto si fosse immaginato.
Eppure
sembrava che qualcosa la preoccupasse, nonostante la libertà: lo
vedeva dall’espressione contratta che aveva mentre parlava col
ragazzo.
Quando
si accorse di loro, non li salutò neppure. La sorpresa lasciò
spazio a qualcosa di molto simile alla disperazione.
«Victor,
Amaya!» Sari si catapultò addosso a loro, guardando entrambi con
apprensione. A mala pena si accorse di Volker. «Dovete aiutarci a
liberarlo!»
Silver
non capì.
«Aiutare
chi?»
«Namar!»
Amaya
s’intromise, esprimendo lo stesso pensiero di Silver.
«Chi
sarebbe questo Namar?»
«Warknife.
Namar è il suo vero nome, almeno secondo quanto mi ha detto lui.»
«E
vorresti che liberassimo Warknife?» domandò Silver sbalordito.
«Non
abbiamo molto tempo! Per favore, aiutateci!»
Volker
osservò la scena in silenzio, le braccia conserte al petto. Si chinò
verso Amaya, e il suo fu un sussurro debole che solo l’elfa riuscì
a sentire.
«Le
hanno fatto il lavaggio del cervello, sicuramente.»
Amaya
lo scacciò con un cenno della mano, lo stesso che si usa con una
mosca fastidiosa. Aveva cose ben più importanti che dar retta a quel
bell’imbusto.
«Ti
rendi conto di cosa ci stai chiedendo? Sari, quel tipo è un omicida,
ha ammazzato centinaia di persone e ti ha presa in ostaggio! Tu ci
stai chiedendo di liberare un assassino!» stava gridando senza
neppure rendersene conto. Sari la zittì immediatamente premendole
una mano sulla bocca, e soltanto dopo essersi accertata di non aver
attirato nessuna attenzione indesiderata si decise a rispondere.
«Lo
so, ma c’è qualcosa che non mi convince in questa faccenda. Non so
bene come spiegarvelo, ma vi chiedo di fidarvi di me.»
«L’ultima
volta che mi sono fidato, sei finita in mano a un criminale che era
creduto morto da anni» rispose scettico Silver.
«Appunto
per questo! Non capisci che ad Artika sta accadendo qualcosa, Victor?
Quell’uomo, Namar… Aveva dei tagli alle mani, profondi e infetti,
e lo tenevano al buio come se fosse un animale…» Sari rabbrividì
al solo pensiero. Per la prima volta, sentiva quel senso di
frustrazione e impotenza uscire da lei come un fiume in piena.
Sentiva che doveva fare qualcosa, e doveva farlo adesso. Guardò
Silver, Amaya e infine Volker, i pugni stretti con forza tale da far
sbiancare le nocche.
«Il
C.S.M. arriverà tra poche ore, sarà solo questione di tempo. Questa
è l’ultima possibilità che ha per fuggire, dopo di che solo il
cielo saprà che cosa gli faranno ad Artika.»
Nessuno
rispose, e Sari non seppe dire se gli mancasse il coraggio per farlo
o se semplicemente non trovassero nulla con cui ribattere.
Per
un breve istante la sua mano tremò.
«Lasciate
che vi faccia una sola domanda, dopo di che sarete liberi di
andarvene se non vorrete aiutarmi: vi piacerebbe morire come un
povero animale, senza nessuna dignità? Perché è la fine che farà
Namar, se non facciamo subito qualcosa.»
Nessuno
rispose, né osò guardarla in faccia. Dopo alcuni istanti fu Amaya
la prima a risollevare lo sguardo.
«Ti
aiuterò, ma lo farò solo perché sei tu a chiedermelo, e perché
non voglio che tu finisca di nuovo nei guai.»
Un
sorriso illuminò lentamente il viso di Sari, che guardò Volker.
«Tu…
ehm… non ti ho mai visto, ma se vuoi essere dei nostri comunque…»
«Lui
ci ha aiutati a trovarti» spiegò Amaya. L’uomo fece un inchino
profondo ed elegante, teatrale.
Sorrise,
orgoglioso.
«Volker
Kramer, al tuo servizio. Il che vuol dire che vengo con te.»
Sari
sorrise, e dentro di sé gliene fu grata. Quando si voltò verso
Silver, notò che il poliziotto era pensieroso. Sembrava diviso tra
il suo dovere e ciò che desiderava fare.
«Hai
già fatto molto per me, non ti costringo se non vuoi.»
«Non
essere sciocca Sari, potrei tornarvi più utile di quanto pensi.»
La
psicologa sollevò le sopracciglia, sorpresa. Non riusciva a capire
che cosa intendesse dire.
Silver
la guardò, sornione.
«Ho
un’idea.»
*
La
cella era buia, piccola e priva di finestre, e i prigionieri erano
costretti a respirare costantemente la stessa aria rarefatta. I topi
erano i veri padroni e lasciavano i loro escrementi nei giacigli di
paglia, ma Namar non ne era assolutamente impressionato.
Quando
l’avevano condotto verso la sua cella, aveva visto un paio di
persone rinchiuse, ma ora che se ne stava seduto per terra non
sentiva nessun rumore, tranne quello del proprio respiro.
Ogni
tanto il silenzio veniva rotto dai passi di qualche guardia, che
puntualmente veniva a insultare i prigionieri e a riempirli di
bastonate prima di dare il cambio al collega.
Namar
se ne stava seduto per terra appoggiato contro il muro, le dita che
tamburellavano nervosamente sulla pietra del pavimento. La sua mente
stava viaggiando velocemente nel tentativo di elaborare un piano di
fuga, ma ogni congettura faceva irrimediabilmente acqua.
Le
mura della cella erano perfettamente intatte, non c’erano finestre
e non aveva nessun oggetto che gli consentisse di crearsi una via
d’uscita da solo, e per di più non venivano mai lasciati soli.
Quando
sentì dei passi pesanti avvicinarsi verso la sua cella, immaginò
che fosse il cambio di guardia.
L’uomo
che gli si presentò davanti era uno dei carcerieri, un ometto
tarchiato, bassetto e dall’espressione piuttosto cattiva. Sorrideva
sprezzante, atteggiamento che fece divertire Namar.
Trovava
spassoso smontare pezzo per pezzo l’arroganza degli esseri umani,
così forti solo quand’erano al sicuro al di là di una gabbia di
ferro.
Non
si disturbò neppure ad alzarsi in piedi, né parlò.
«Finalmente
avrai quello che ti meriti» sghignazzò la guardia, armeggiando con
un mazzo di chiavi.
Namar
sorrise impercettibilmente.
«E
chi mi ammazzerà? Tu?»
Cominciò
a ridere di lui, e la guardia esitò per un istante a infilare la
chiave nella toppa. Namar si alzò in piedi, lentamente, sinuoso come
un felino in caccia.
«Lo
so che lo vorresti, non c’è bisogno che lo nascondi» continuò,
aprendo le braccia in un chiaro invito a fare ciò che voleva la
guardia. Si avvicinò alle sbarre, e il carceriere afferrò un
bastone riposto contro il muro, puntandolo contro di lui.
«STAI
INDIETRO!»
Il
prigioniero non fece resistenza. Arretrò, le braccia ancora aperte e
un sorrisetto di sfida sulle labbra secche.
«Paura?
Eppure sei tu quello fuori dalle sbarre, non io.»
Il
sorriso sulle labbra di Namar si allargò a dismisura, e
l’espressione sul suo viso divenne quasi grottesca.
«Sono
venuti a prenderti. Avrai quello che ti meriti, animale!»
«Interessante.
E chi si è scomodato per me, questa volta?»
Altri
passi. Una seconda persona si stava avvicinando, probabilmente chi
l’avrebbe preso in custodia da quel momento. Aveva una vaga idea di
chi potesse essere, e la cosa non gli piaceva per niente anche se
riusciva a nasconderlo piuttosto bene.
Ogni
fibra del suo corpo si tese come una corda di violino, finché la
persona che si stava avvicinando non fu visibile.
Un
uomo di mezza età, del tutto diverso da quello che aveva perquisito
l’armeria a Naima. Non solo nell’aspetto, ma anche
nell’atteggiamento: non c’era arroganza nel suo sguardo, né
aggressività.
Aveva
un viso conosciuto, ma non ricordava dove l’avesse visto e, cosa
strana, era da solo.
C’era
qualcosa che non tornava.
«Il
generale Rider mi ha mandato a prelevare il prigioniero. È molto
urgente.»
«Capisco.
Gli ordini sono ordini» annuì la guardia aprendo la cella.
I
due uomini entrarono dentro, e Namar si lasciò legare i polsi senza
opporre resistenza.
Venne
condotto all’esterno della prigione e consegnato senza esitazioni
al messo di Rider, che lo afferrò saldamente per un braccio e lo
scortò lontano dal carcere.
«Chi
sei veramente?» domandò Namar, senza neppure guardarlo in faccia.
L’uomo non rispose. Gli fece cenno di rimanere in silenzio,
continuando a camminare velocemente. Poi si guardò furtivamente
attorno, avvicinandosi a un vicolo. Era una zona piuttosto appartata,
lontano dalla strada principale. Solo quando fu sicuro di non aver
attirato su di sé attenzioni non desiderate, parlò.
«Agente
Victor Silver, e sono dalla tua parte. Per di qua.»
Svoltarono
l’angolo, addentrandosi nel vicolo. Era deserto, eccezione fatta
per un gatto nero che gli soffiò contro, arruffando il pelo. Namar
rispose con un verso animalesco, e il felino fuggì via spaventato.
Il poliziotto decise di non commentare l’accaduto, sicuro che gli
sarebbero sfuggite parole sarcastiche che preferiva tenere per sé.
Proseguirono
per oltre un centinaio di metri, finché giunsero di fronte a una
piccola casupola abbandonata, antica e con il tetto sfondato. Un
rifugio perfetto.
«Prima
di entrare…» il poliziotto estrasse dalla tasca dei pantaloni un
coltello a serramanico, e liberò Namar dalle corde che gli
imprigionavano i polsi. Quando bussò alla porta, ad aprire fu una
giovane elfa dai capelli neri, che squadrò l’evaso con diffidenza.
Namar
era sempre più confuso, anche se il suo volto non lo dava a vedere.
Afferrò
Silver per una spalla, costringendolo a voltarsi.
«Mi
vuoi dire che sta succedendo?» ringhiò spazientito.
In
quel momento fece capolino dalla porta un viso che Namar non si
aspettava di rivedere.
Umana,
capelli castani. Una seccatura, ma anche un’utile palla al piede.
Sari.
La
prima cosa di cui fu consapevole fu il caldo, sincero sorriso che lei
gli rivolse. E ciò che accadde dopo non lo avrebbe mai più potuto
dimenticare: Sari gli corse incontro, e gli gettò le braccia al
collo.
«Sono
contenta che tu sia qua» la sentì mormorare contro di lui, ma Namar
rimase interdetto con le braccia a mezz’aria, incapace di reagire.
Paralizzato.
Non
si aspettava quella reazione, quella cosa.
Non aveva mai ricevuto un abbraccio in vita sua, e ogni contatto con
qualunque altra creatura aveva portato sempre e solo dolore. Ma
quello era diverso, era caldo e piacevole.
Stava
cominciando ad abituarsi, quando Sari sciolse l’abbraccio.
«Ti
hanno fatto del male?»
Namar
scosse il capo in un cenno negativo.
«Chi
sono queste persone?» domandò sospettoso, indicando Silver e Amaya.
«Amici
miei. Le presentazioni le facciamo all’interno, non è prudente
farsi vedere qua fuori. E soprattutto abbiamo bisogno di un piano per
scappare.»
*
Gli
raccontarono lo stretto necessario, così che Namar potesse capire
chi fossero quelle persone e, cosa più importante, riuscisse a
vincere la diffidenza verso di loro.
Parlarono
a lungo riguardo cosa dovessero fare, dove sarebbero potuti andare
ora che neppure Assen offriva sicurezza.
Dopo
la confusione iniziale, Namar diventò piuttosto irrequieto. Bocciava
ogni proposta con stizza, camminava avanti e indietro, gettava
frequenti occhiate alla strada deserta, e tutto questo stava facendo
venire un gran mal di testa a Sari.
Cominciava
a non poterne più, anche se s’imponeva di non perdere la pazienza:
non doveva essere facile per lui, ora che anche l’ultima speranza
di trovare un posto in cui nascondersi era svanita.
«E
quindi cosa suggeriresti di fare?» sbuffò Amaya, rivolta a Namar.
Dal
suo tono di voce, Sari intuì che anche lei doveva cominciare a
essere stufa del comportamento del fuggiasco, ma sapeva anche che
quel modo di parlargli avrebbe prodotto scarsi risultati.
Namar
scrollò le spalle.
«Li
uccido. Tutti.»
«Magnifico,
così non fai altro che aggravare la tua posizione» scattò
immediatamente Silver, torreggiando su Namar. A vederli così, l’uno
di fronte all’altro, Sari temette che, se il poliziotto avesse
voluto mettergli le mani addosso, l’avrebbe spezzato in tanti
piccoli pezzi.
«Un
uomo morto non può catturarmi. È la soluzione migliore.»
«Qui
si parla di uccidere non un uomo, ma centinaia. Non ce la faresti
mai.»
«Scommettiamo?»
il ghigno di Namar fece tremare Sari. Poteva capire la sua decisione,
ma Silver aveva ragione: lo avrebbero fermato comunque, e un posto
per nascondersi non esisteva.
Eppure…
«Dev’esserci
un’altra soluzione» Sari scosse il capo, sbuffando «Più perdiamo
tempo a discutere e meno possibilità abbiamo di scappare prima
dell’arrivo del C.S.M.»
«Francamente
non vedo come il tuo amico possa uscire da una situazione come
questa» commentò Volker, scettico. Quando Sari guardò Amaya,
l’elfa non sembrava pensarla molto diversamente.
«Sono
d’accordo con Kramer.»
«Anche
io» fu Abidos a parlare, per la prima volta da quando avevano
cominciato quella discussione. Sari lo guardò, incapace di
replicare. Non avevano torto, non poteva negarlo, eppure non voleva
arrendersi all’evidenza.
Namar
scosse il capo, reprimendo a stento una risata roca e infrangendo il
silenzio che era calato improvvisamente nella stanza.
«Quanto
siete stupidi. Non capite che non me ne importa assolutamente nulla
di quello che pensate?»
Nessuno
parlò. Tutti erano stati freddati dalle parole dell’evaso, giunte
completamente inaspettate.
«Se
riusciranno a prendermi, lo faranno perché io sarò morto. Se vi
aspettate che io mi lasci catturare, state sbagliando strada»
aggiunse, prima di imboccare la porta e sbatterla così rumorosamente
da far cadere dell’intonaco dalla parete.
Sari
gli fu subito dietro, e se Namar se ne accorse, non lo diede a
vedere.
«Dove
stai andando?»
«A
difendere la mia libertà.»
«Vuoi
uccidere tutto il C.S.M?»
«Può
darsi» l’idea fece sogghignare il fuggiasco.
«Non
è l’esercito il problema.»
Spazientita,
Sari lo afferrò per un braccio e lo costrinse a voltarsi per
ascoltarla.
«So
che non ti va di sentirtelo dire, però è vero. Anche se riuscissi a
uccidere ogni squadra che ti vorrà catturare, ne arriveranno sempre
altre. Non sarai mai libero, lo vuoi capire?»
La
reazione di Namar fu assolutamente inaspettata. La spinse con tale
forza che le fece perdere l’equilibrio, e Sari cadde a terra.
Attutì la caduta con le mani, e sentì un lieve bruciore irradiarsi
sui palmi. Benché una parte della sua mente registrò la sensazione
di dolore dovuta alla caduta, ciò che attirava di più la sua
attenzione era l’espressione rabbiosa di Namar. Rimase immobile a
terra sostenendo il suo sguardo, impaurita.
«Che
ne sai tu?! Che diavolo ne sai, tu?!»
Gli
altri accorsero fuori dalla catapecchia, sentendo le grida del
fuggiasco.
«ANCHE
VOI, CHE PENSATE DI SAPERE?! NON SIETE VOI CHE VOGLIONO,
NON-SIETE-VOI!»
sbraitò agitando le braccia, l’espressione accesa d’ira. Solo
allora Sari ritrovò il coraggio di muoversi, e si rimise velocemente
in piedi. Gettò una breve occhiata alle sue spalle, dove tutti i
suoi compagni erano pietrificati.
Tutti,
tranne uno. Silver tremava, mordendosi il labbro inferiore per
cercare di mantenere la calma. Quando fece un passo avanti, Sari
intuì che non era più possibile per lui rimanere in silenzio.
«Non
siamo noi che abbiamo ammazzato gli abitanti di un’intera città!»
Che
grosso, immenso sbaglio. Sari chiuse gli occhi, gelata. Chissà che
cosa gli avrebbe fatto Namar, per ciò che gli aveva appena detto.
Non aveva il coraggio di guardare; si aspettava di sentire delle
grida da un momento all’altro, eppure ciò che avvertì fu solo
silenzio.
Quando
riaprì gli occhi, il fuggiasco stava guardando Silver, spiazzato.
Poi Namar cominciò a ridere, lentamente. Una risata rauca,
proveniente dalla gola. Le spalle sussultarono, e il fuggiasco si
coprì il volto con una mano.
«Quante
cose non sapete… Siete così schifosamente convinti di essere nel
giusto, sempre così tronfi, così arroganti… È per questo che vi
odio» parlò con calma agghiacciante, come se stesse raccontando una
favola. Di nuovo, la reazione del fuggiasco li aveva lasciati
interdetti.
«Tutti
voi. Uomini, maghi, elfi… Tutti uguali, tutti arroganti. Ipocrisia,
servilismo e falsità dilagano tra di voi come piaghe. Non vi rendete
neppure conto che la gente che condannate è migliore di voi, e
nonostante tutto avete il coraggio di puntare il dito senza farvi
prima un esame di coscienza. Non mi stupisce che ogni tanto una delle
vostre vittime si ribelli contro di voi.»
Il
sorrisetto con cui terminò la frase aveva un che di inquietante.
Riprese a camminare senza aggiungere altro, diretto verso l’uscita
del vicolo.
Anche
se non riusciva a capire cosa nascondesse davvero la sfuriata di
Namar, qualcosa in Sari le impedì di guardarlo
andar via. Ora era libera di fare ciò che
voleva. Poteva tranquillamente tornare a cercare la verità riguardo
alla morte di suo padre, eppure, per svariati motivi, la creatura che
si stava allontanando l’aveva legata a sé. Aveva conosciuto Shem,
e ora come ora era l’unica persona che poteva ancora fornirle
qualche informazione. Attorno a lui gravitava il mistero di Artika;
lui che doveva essere stato giustiziato da diversi anni, ma che
invece era vivo ed era pure riuscito a fuggire.
Lui
che destava la sua curiosità, lui che sapeva delle cose che loro
ignoravano.
Fu
per tutti questi elementi messi assieme, o forse anche per una
qualche sorta di istinto di protezione che corse verso di lui, per
raggiungerlo.
Lo
afferrò per un polso, mentre i palmi delle mani pulsavano ancora dal
dolore per le escoriazioni.
«Io
vengo con te.»
Il
fuggiasco la guardò di sottecchi. Fu una frazione di secondo, eppure
Sari riuscì a vederlo chiaramente: anche se impercettibilmente,
Namar le aveva sorriso.
*
Ancora
una volta, il coinvolgimento di Sari aveva indotto Silver e Amaya ad
agire.
Non
li aveva costretti, non l’avrebbe mai fatto: furono loro a prendere
quella decisione.
Anche
Volker e Abidos scelsero di seguirli, probabilmente più per un
curioso senso di conformismo che altro.
Decisero
per la fuga dalla città. Camminarono velocemente, percorrendo le
strade minori e stando attenti a non incrociare nessuno sguardo.
L’adrenalina galoppava nel sangue di Sari, e il cuore pompava
impazzito. Tutto stava andando a meraviglia, e l’uscita dalla città
non era molto lontana. Una volta fuori, bastava che rimanessero
lontani dai sentieri principali e il gioco era fatto.
Sarebbero
riusciti a evitare il C.S.M. e Namar l’avrebbe fatta franca anche
stavolta.
Sbucarono
sulla strada principale quando li videro arrivare nella loro
direzione: un manipolo di uomini a bordo di macchine su cui
troneggiava lo stemma dell’esercito, una ventina di vetture a
occhio e croce. In testa, lui. Il generale Rider.
Namar
si bloccò, e Sari con lui. Aveva il cuore in gola.
«Presto,
nascondiamoci» sussurrò Silver, trascinando la psicologa verso la
strada che avevano appena percorso. Solo allora Sari si rese conto
che i suoi compagni erano già arretrati, ma Namar non li stava
seguendo.
Sfuggì
alla stretta di Silver, e corse verso l’evaso. Sembrava che la
paura le avesse messo le ali ai piedi. Lo trascinò via con sé; in
mente una sola parola: scappare.
«Si
può sapere a cosa stai pensando? Non li hai visti?»
«Dobbiamo
trovare un mezzo per fuggire, o non ce la faremo mai a piedi!»
replicò Namar, ignorando la domanda.
Svoltarono
l’angolo, distanziati dai loro compagni da alcuni metri. Il rombo
dei motori imboccò la loro direzione, e il
cuore di Sari mancò un battito: si erano accorti di loro e li
stavano inseguendo. Erano rallentati dal manto stradale dissestato
dalle buche, ma li avevano trovati.
«Vuoi
rubare un mezzo?» domandò, ormai nel panico.
«Mi
sembra ovvio!»
Si
guardarono attorno, ma nelle vicinanze non c’era l’ombra di un
veicolo. Quella piccola città sembrava essere rimasta fuori dal
mondo, non toccata dall’evoluzione tecnologica che aveva fatto
fiorire Silindril.
All’improvviso,
un lampo di luce oltrepassò le loro teste e si conficcò nel terreno
davanti a loro, lasciando il segno di una piccola bruciatura.
«Per
ordine della Corporazione, fermatevi e non vi verrà fatto nulla di
male!»
Non
li ascoltarono. Continuarono a correre a perdifiato, l’adrenalina
che pompava impazzita nelle vene. Sari sbirciò oltre le sue spalle,
e credette che il cuore si sarebbe fermato in quell’istante.
«Ci
stanno raggiungendo! Dividiamoci!»
*
Non
se lo fecero ripetere. Silver, Amaya e Volker svoltarono a sinistra,
imboccando un’altra stradina più stretta di quella che avevano
appena lasciato, mentre Sari, Namar e Abidos proseguirono dritti.
Le
macchine li seguirono, il rombo dei motori sempre più minaccioso,
sempre più soffocante. Sari si voltò indietro: alle spalle avevano
una decina di vetture, sicuramente un numero inferiore rispetto a
quello che ricordava. I soldati si erano divisi.
Imprecò
a denti stretti, sentendosi impotente. Rabbiosa. Dovevano inventarsi
qualcosa, qualche espediente per riuscire a seminare il C.S.M. o per
Namar non ci sarebbe stata nessuna possibilità di salvezza.
Svoltarono
l’angolo, imboccando una via dove l’odore di sterco impregnava
l’aria e la rendeva acre, fastidiosa. Poco più avanti, un fienile.
Un recinto. E cavalli, una mandria non troppo numerosa ma sufficiente
per rallentare la corsa dell’esercito.
Sari
deviò la corsa verso la stalla col cuore in gola, ma Namar dovette
aver avuto la sua stessa idea: lo vide schizzare verso l’entrata, e
pochi istanti dopo i cavalli uscirono al galoppo, disperdendosi
ovunque. In qualunque direzione.
Le
macchine dell’esercito furono costrette a fermarsi, ma Sari sapeva
bene che questo avrebbe fatto guadagnare loro nient’altro che pochi
minuti di vantaggio. Dovevano assolutamente fuggire.
«NAMAR!»
Il
fuggiasco uscì sul dorso di una giumenta pezzata, con le mani
serrate sulla criniera e i piedi che stringevano spasmodicamente i
fianchi dell’animale per non cadere.
Caricò
Sari in groppa, non senza qualche fatica, e la psicologa si abbarbicò
alla vita di Namar. Era terrorizzata dall’idea di cadere, e non
avere nessun appiglio tranne il corpo del fuggiasco non aiutava di
certo a tranquillizzarla.
«Spero
tu abbia già cavalcato senza sella, prima d’ora!» gridò
isterica. La risposta che ottenne non le piacque neanche un po’.
«Non
direi! Non ho mai montato uno di questi cosi prima d’ora!» rispose
Namar. Dal tono di voce sembrava particolarmente esagitato, come se
tutto ciò lo divertisse moltissimo.
In
circostanze diverse Sari avrebbe sicuramente ribattuto, arrabbiata,
ma in quel momento non c’era spazio per altri pensieri che non
riguardassero la fuga.
Quando
sbirciò alle sue spalle per cercare Abidos, notò due cose: il
ragazzo era in groppa a un altro cavallo, poco dietro di loro. E
–cosa che la preoccupò- la mandria si era dispersa.
Erano
rimasti pochi cavalli a separarli dal C.S.M., che aveva rincominciato
a inseguirli.
«Più
veloce, o ci raggiungono!» gridò a Namar, che assestò un deciso
colpo di tacchi sui fianchi della giumenta. L’animale schizzò via
veloce verso la fine della strada, e solo allora Sari si accorse di
dov’erano. E si sentì morire.
La
giumenta rallentò lentamente, passando dal galoppo al trotto e
infine al passo, prima di fermarsi definitivamente. Davanti a loro,
una scogliera alta molte centinaia di metri li divideva dal mare, e
alle loro spalle le macchine si disposero a semicerchio impedendo
ogni via di fuga.
«E
ora?» domandò Abidos.
«E
ora siete alla fine della fuga» ribatté secco un soldato scendendo
dalla vettura, probabilmente un ufficiale a giudicare dagli stemmi
sul suo petto. I commilitoni lo imitarono subito, impugnando le armi
pronti a qualunque eventualità. Erano una quarantina di uomini
circa, ma tra di loro non c’era il generale Rider.
Sari
ipotizzò che dovesse far parte del gruppo che aveva inseguito
Silver, Amaya e Volker, non trovava altra spiegazione. Ma con o senza
il generale, la situazione non cambiava: erano in trappola, con il
mare alle spalle e gli uomini del C.S.M. che gli impedivano ogni via
di fuga.
L’unico
modo per scappare era saltare oltre la scogliera, un’idea piuttosto
spiacevole che non allettava neppure Namar. Una smorfia aggressiva
gli contraeva il viso e gli lasciava scoperti i denti, facendolo
assomigliare a un cane che sta per attaccare. Era nervoso, e pronto a
qualunque cosa.
Strinse
ancor di più la criniera della giumenta, che nitrì spaventata.
L’ufficiale
sorrise sprezzante, gonfiato dall’inebriante profumo della paura
dell’evaso.
«Abbi
il coraggio di smontare da cavallo e di affrontarci, piuttosto che
far paura a un povero animale.»
Namar
sogghignò. Sari scese goffamente a terra, e Abidos fece lo stesso,
ma l’evaso rimase in groppa al cavallo con ostinazione. Rimase con
lo sguardo fisso sull’ufficiale, con un sorriso maligno.
«L’unico
animale che vedo sei tu, tirapiedi dei maghi.»
Un’espressione
irata comparve sul volto del soldato, che puntò contro Namar
l’indice destro. Soltanto allora Sari fece caso a ciò che lo
ricopriva, e ricordò perfettamente di averlo già visto da qualche
parte. Un copri-indice intarsiato da motivi decorativi complicati,
piuttosto simile a quello che indossava una delle guardie che avevano
controllato i passy ad Artika.
«Scendi
da cavallo e tieni le mani bene in vista!»
«Tenente!»
la voce di Rider giunse all’improvviso, metallica e artificiale.
Solo in quel momento Sari si accorse del Ragno indossato
dall’ufficiale: riusciva a scorgere la pietra sul suo palmo,
illuminata da una luce dorata. Il familiare segnale di comunicazione
in corso.
«Generale
Rider, l’evaso è in trappola. Siamo alla scogliera.»
«Ottimo
lavoro, continuate a tenerlo sotto tiro. Vi raggiungo subito.»
L’istante
successivo la pietra si spense, perse le proprie venature dorate, e
diventò nera. Spenta.
E
Sari si sentì come svuotata. Possibile che dovesse finire in quel
modo?
«Allora,
che aspetti?! Scendi da cavallo!» abbaiò il tenente, continuando a
puntare l’indice armato contro Namar. L’imperiosità nella sua
voce fece sorridere l’evaso, ma la sua espressione era tutt’altro
che bonaria. Scese dalla giumenta con movimenti misurati, e per
ottenere maggiore credibilità mantenne le braccia in alto, ben
visibili. Una fugace occhiata gli consentì di cogliere Sari, a pochi
centimetri di distanza da lui.
Fu
tutto molto veloce.
Con
uno scatto fulmineo serrò un braccio attorno alla gola della
psicologa, mentre l’altra mano si posizionò sulla tempia della
ragazza. In una frazione di secondo ebbe puntato addosso l’intero
arsenale del C.S.M, ma questo non sembrò scoraggiare Namar.
Abidos,
a pochi metri di distanza, rimase immobile a scrutare i membri
dell’esercito con attenzione.
«Lascia
andare la ragazza!» tuonò il tenente. Aveva uno sguardo duro,
deciso. Cattivo.
Sari
agonizzò, boccheggiando in cerca d’aria.
«Spiacente,
ma sono propenso per il no» ghignò Namar. Gettò una rapida
occhiata alle sue spalle. Lo strapiombo era a poche decine di metri,
ed era l’unica via di fuga possibile.
«Se
non ti consegni con le buone, ti cattureremo con le cattive. Non sarà
piacevole.»
«Tutti
questi riguardi nei miei confronti mi lusingano, ma non ho perso
abbastanza il senno per accettare l’offerta.»
«Quand’è
così… Fuoco!»
Fu
un brevissimo istante. L’ordine si perse nel vento, soffocato da
decine di grida.
Urla
di dolore, urla di sofferenza. Di morte.
Poi
fu solo silenzio.
Sari
non ebbe il coraggio di aprire gli occhi e guardare quello scenario
raccapricciante, insopportabile. Namar continuava a stringerla contro
di sé e lei non smetteva di tremare.
Aveva
sperato di poter fuggire dal C.S.M., aveva desiderato la libertà per
Namar, ma non a quel
prezzo.
Quando
sentirono il rumore di altri motori diventare più vicino, ormai era
troppo tardi: fecero un ultimo, patetico tentativo di fuga, ma le
macchine dell’esercito tagliarono loro la strada.
Erano
in trappola, di nuovo.
Rider
scese dalla vettura, e rimase pietrificato di fronte lo scenario
atroce che si presentava a pochi metri da lui: una quarantina di
corpi erano accasciati al suolo, immobili e ancora caldi. I loro
volti erano una maschera orrenda, un quadro dipinto dalla morte
stessa. Occhi sbarrati e spenti; bocche contratte in smorfie di
dolore indicibile, di quelli che spaccano l’anima in due parti.
Erano
i suoi uomini, ed erano tutti morti.
Passarono
diversi minuti prima che Rider riuscisse a sollevare lo sguardo da
quell’orrore apocalittico, sconvolto da un’ira accecante.
Respirava velocemente, tremava, e sembrava che stesse per dare di
stomaco.
«Tu…
Sei un mostro… UN
MOSTRO!»
Ma
Namar non stava ascoltando una parola di quello che stava dicendo il
generale Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva
sentito chiaramente quell’energia fluire come un alito di morte,
sapientemente controllata. L’avrebbe riconosciuta ovunque, e la
fonte era una sola.
All’improvviso,
tutto fu così chiaro da risultare accecante. Capì. Comprese
l’entità del pericolo in cui Sari si trovava, e il modo in cui era
arrivato fino a loro –fino a lui- sembrava quasi uno scherzo
bizzarro del fato.
Eppure
era tutto reale, tutto pericolosamente reale.
«Namar»
la voce di Sari era ridotta a un mormorio sommesso.
Il
fuggiasco cominciò ad arretrare, spostando lo sguardo da Rider ad
Abidos. Non poteva attendere oltre. Doveva andarsene, ma lei doveva
sapere.
Avvicinò
le labbra all’orecchio di Sari, e la voce uscì flebile. Un
sussurro.
«Guardati
da Abidos, non è ciò che sembra. Tornerò a prenderti.»
La
portata di informazioni che quella frase nascondeva lasciò Sari
interdetta, ma fu costretta a riscuotersi quando sentì la gola
improvvisamente libera e vide Rider puntare il dito armato –indossava
lo stesso modello che il tenente portava sull’indice- contro Namar,
pronto a fare fuoco.
Senza
pensare si lanciò verso il generale, e rabbrividì quando vide la
punta del copri-indice illuminarsi. Un fiotto di luce azzurra saettò
oltre le spalle di Sari. Il suo cuore stava battendo con tale forza
che la psicologa temette che le sarebbe uscito fuori dal petto da un
momento all’altro.
L’istante
successivo aveva le mani strette attorno al polso di Rider, nel
disperato tentativo di impedirgli di fare nuovamente fuoco.
Era
riuscita a neutralizzarlo, ma aveva paura di girarsi verso Namar e
vedere.
Quando
sentì un gemito strozzato, l’orrore si impadronì di lei.
Si
voltò, anche se aveva una paura folle di ciò che avrebbe visto. E
lo vide: Namar, sul ciglio della scogliera con un’espressione
dolorante. Si reggeva l’addome, e la mano era sporca di sangue.
Rider
l’aveva ferito.
Non
riusciva a staccare gli occhi dal fuggiasco che lì, sull’orlo
dell’abisso, sembrava più felice che mai. Lo vide sorriderle, un
sorriso appena accennato, prima di guardare di sotto.
E
Sari provò paura e rabbia. Paura per lui, e rabbia per quel destino
assurdo.
Fu
come un incubo. Lo vide dare la schiena alla scogliera. Sostenne lo
sguardo della psicologa fino alla fine, senza smettere di sorridere.
Chiuse gli occhi e allargò le braccia come fossero ali.
E
come la fine di ogni cosa, si lasciò andare. Sari lo vide sparire
oltre la scogliera, nel vuoto. Giù, fino a un violento tuffo
nell’acqua che tuttavia non arrivò mai.
Trattenne
il fiato per secondi interminabili, divorata dall’angoscia. L’unica
cosa che vide fu un corvo salire verso il cielo. Verso la libertà.
|
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Capitolo 18 *** i tre nomi del tradimento ***
17
17.
I
TRE NOMI DEL TRADIMENTO
*
Amaya
e Silver erano stati fortunati, e ne erano del tutto consapevoli. Si
erano sentiti spacciati quando si erano resi conto di essere
inseguiti da metà squadra del C.S.M. Non avrebbero potuto trovare
una spiegazione convincente per il loro coinvolgimento nella fuga di
Namar, e soprattutto non sarebbero riusciti a spiegare la presenza di
Volker lì, assieme a loro.
Per
questo motivo erano rimasti sorpresi quando le macchine dell’esercito
avevano fatto retromarcia e si erano allontanate, lasciandoli in
mezzo alla strada principale. In mezzo alla folla.
Ne
avevano approfittato immediatamente per fuggire da attenzioni
indesiderate e sguardi curiosi. Si erano dileguati verso i vicoletti
più interni e isolati, come clandestini in una terra ostile.
Solo
quando furono sicuri di non essere seguiti da nessuno -militare o
abitante locale sembrava fare una differenza minima in quel momento -
Amaya si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Si fermò.
«A
questo punto direi che è tutto tranquillo.»
«Sì,
ma stanno inseguendo la tua amica» obiettò Volker. Silver controllò
nelle vicinanze: non c’era nessuno. L’elfa aveva ragione. Tornò
indietro, e quando raggiunse i due compagni si lasciò cadere a
terra, scoraggiato.
«Ci
mancava solo il C.S.M! Dannazione!»
Amaya
non ebbe il coraggio di rispondere. Sentiva che il poliziotto si
stava sfogando, esternando tutto lo stress accumulato in quei giorni
frenetici passati a correre dietro a un assassino che ora stavano
proteggendo.
In
qualche modo riusciva a capire ciò che stava provando.
«Che
succederà se li prendono?» domandò Volker. Silver alzò lo sguardo
su di lui, il volto segnato dalla stanchezza. Scosse il capo.
«Non
ne ho idea, dipende tutto da come si comporterà Sari. Se prenderà
le difese di Warknife… voglio dire, di Namar, ho paura che la
tratteranno come una complice. Spero che non faccia cose troppo
avventate.»
Era
preoccupato, glielo si leggeva in faccia, e Amaya non era da meno. In
quel momento nessuno parlò più, ognuno chiuso nel proprio silenzio
e perso nei propri pensieri.
Fu
il verso di un animale che attirò l’attenzione di Volker: alzò il
naso al cielo, e in quel momento vide un corvo planare sopra le loro
teste, prima di scomparire qualche vicolo più in là.
«E
ora che facciamo?» sospirò.
«Dobbiamo
aspettare che il C.S.M. se ne vada. Non possiamo esporci con te in
libertà» rispose Amaya. Volker annuì senza dire una parola.
In
quell’istante, immersi nel silenzio, udirono distintamente dei
passi avvicinarsi all’incrocio del vicoletto in cui si trovavano.
Si guardarono l’un l’altro, preoccupati: non c’erano
nascondigli, e non potevano sperare in una fuga abbastanza veloce. I
passi diventavano sempre più vicini.
E
finalmente lo videro: un uomo si trascinava reggendosi al muro, e con
una mano si premeva l’addome. Il capo chinato non rendeva possibile
vedere il suo volto, ma non avevano bisogno di quello per capire di
chi si trattava: capelli neri, vestiti logori e sporchi, bende
ingiallite attorno alle mani.
Namar
si lasciò cadere a terra, stremato, e quando gli altri lo
raggiunsero videro che la mano che copriva l’addome era imbrattata
di sangue.
«È
ferito» la voce di Silver tremò.
«Che
cosa vi è successo?» Amaya era preoccupata. Volker tentò di
scoprire l’addome del fuggiasco per esaminare la ferita, e Namar
non ebbe neppure la forza di opporsi.
La
fuga dalla scogliera l’aveva sfinito, ma non riusciva a levarsi
dalla testa quello che era successo. Ignorò la domanda di Amaya, e
cercò di rimettersi in piedi nonostante le proteste di Volker.
«Sei
ferito, hai bisogno di cure e di non fare sforzi!»
«Se
perdete tempo con me, la vostra amica muore.»
Fu
lapidario. Un fulmine a ciel sereno. Tre paia di occhi lo guardarono
colti alla sprovvista, e due di loro in particolare sembravano
piuttosto preoccupati. Prima che Silver potesse rispondere, Amaya si
fiondò sul fuggiasco, afferrandolo per il bavero del vestito.
«Che
cosa le è successo?»
«La
vostra amica dà la sua fiducia troppo facilmente, e c’è sempre
chi se ne approfitta» rispose tranquillo, benché la ferita gli
pulsasse terribilmente. Quando l’elfa lo scosse, un’espressione
dolorante comparve sul suo volto scavato.
«Non
farmi perdere tempo, o ti rispedisco a calci da dove sei venuto. Ora
dimmi che cos’è successo a Sari. Subito» sibilò a denti stretti.
Namar rimase impassibile.
«Potrebbe
essere in compagnia del tizio che ha ucciso suo padre, e non ha il
minimo sospetto a riguardo.»
Un
silenzio fin troppo pesante scese tra di loro. Amaya mollò la presa
dal bavero dell’evaso, e si allontanò senza dire nulla. Silver la
guardò allontanarsi, e quando l’elfa non diede segno di volersi
fermare le corse dietro.
Namar
chiuse gli occhi e si lasciò cadere a terra di nuovo. Forse aveva
ragione il tizio con un occhio solo, aveva bisogno di cure immediate
e di riposo, ma non poteva permetterselo.
Volker
tornò al suo fianco, ed esaminò di nuovo la ferita. Quando Namar
riaprì gli occhi, lo vide scuotere il capo e capì che non doveva
essere ridotto molto bene. Sentiva un vociare accorato, e in
lontananza vide Silver e Amaya discutere animatamente. Probabilmente
l’elfa aveva intenzione di raggiungere immediatamente l’amica, e
il poliziotto stava tentando di farla ragionare.
«Perché
mi stai aiutando?»
«Come,
scusa?» Volker guardò Namar senza capire.
«Perché
ti preoccupi per la mia ferita?» nella sua voce c’era una traccia
di amarezza. Volker abbozzò un sorriso, alzandosi in piedi.
«Perché
in fondo io e te siamo simili. Siamo entrambi condannati.»
Namar
fece spallucce, continuando a non comprendere. Non era abituato a
certi trattamenti, e non avrebbe mai capito fino in fondo. «Fai un
po’ come ti pare.»
Volker
non rispose, accettando quella risposta scorbutica con il sorriso
ancora sulle labbra. Gli offrì la mano.
«Ce
la fai ad alzarti? Dobbiamo portarti da un medico.»
Namar
sogghignò, afferrando la mano. Alzarsi gli costò fatica e
soprattutto dolore, una fitta nei pressi della ferita che gli mozzò
il fiato. Quando riuscì a parlare, la sua voce risultò strozzata
dalla sofferenza.
«E
credi che mi curerebbero sapendo chi sono?»
Volker
fece spallucce. «Conosco un medico che non bada a chi ha in cura. Si
rivolgono a lui tutte quelle persone che per problemi legali non
possono esporsi troppo, e lui è un tizio che tiene la bocca chiusa
su queste cose. Purtroppo abita a Rosya, ma non ci sono molte
alternative.»
Namar
rimase in silenzio per alcuni istanti, valutando il da farsi.
Effettivamente, ridotto così poteva fare ben poco. Aveva bisogno di
cure che solo una persona competente poteva dargli, ma il pensiero di
intraprendere un viaggio nelle sue condizioni lo impensieriva un po’.
«Quanto
ci impiegheremo per arrivare a Rosya?»
«Circa
una giornata a cavallo. Saremo fortunati se per strada riusciremo a
rubare un’auto.»
Namar
sospirò. Non aveva molte alternative.
«Andiamo.»
*
L’indomani
Sari e Abidos partirono immediatamente per Rosya, diretti alla sede
della Corporazione. L’idea di rivedere Amos non rendeva la
psicologa particolarmente felice.
Ma
il nonno non era la sua unica preoccupazione: non aveva dimenticato
le parole di Namar. Era evidente che lui sapeva qualcosa su Abidos
che lei ignorava, e sebbene da una parte temesse di sapere di cosa si
trattasse, dall’altra era maledettamente curiosa.
Su
una cosa però era certa: se Namar l’aveva voluta avvisare, era
perché riteneva che fosse una cosa importante. Stava quasi per
dimenticarlo, ossessionata dalla sorte del fuggiasco.
Aveva
avuto l’impressione che non avesse mai raggiunto il mare, che fosse
scomparso nel nulla prima di impattare con l’acqua.
Aveva
visto un corvo allontanarsi dalla scogliera pochi istanti dopo la
caduta di Namar, ma non poteva credere che quell’animale fosse lui.
Per quanto fosse improbabile che un uccello del genere si aggirasse
attorno al mare, non riusciva a credere che fosse proprio l’evaso
che l’aveva catturata ad Artika. Era sicura che non esistessero
creature capaci di mutare il proprio aspetto. Quel corvo non poteva
essere Namar.
E
allora, la domanda successiva era sempre, irrimediabilmente la
stessa: cos’era successo all’evaso dopo essere saltato dalla
scogliera? Era un rompicapo senza fine che la stava facendo
impazzire, per non parlare della faccenda riguardante Abidos. Quando
arrivò alla Corporazione, era già di cattivo umore.
Li
fecero accomodare nelle stanze che avevano preparato appositamente
per il loro arrivo, annunciato da Rider prima di lasciare Assen.
Abidos fuggì nella sua stanza senza troppi complimenti,
trascinandosi dalla stanchezza.
Sari
ne approfittò per fare una lunga doccia calda e cambiarsi d’abito.
Le sembrò di rinascere sotto il getto bollente e per alcuni istanti
tutto quello che le era successo a partire dalla morte di suo padre
le sembrò soltanto un sogno lontano e sbiadito.
Quando
uscì dalla doccia, avvolta in vestiti morbidi e profumati, uscì in
veranda. Ai suoi piedi si stendeva in tutta la sua imponenza il
giardino del palazzo e, non troppo lontane, due sagome passeggiavano
tranquille, ignorando di essere spiate.
Le
riconobbe dopo un attento esame: la prima apparteneva a un uomo
piuttosto giovane, di bell’aspetto. Indossava la divisa del C.S.M.
e sottobraccio portava un elmo. La seconda era quella di un uomo
anziano dai capelli bianchi e lunghi. Rider e Amos.
La
rabbia e l’irritazione le rimontarono dentro in pochi istanti, e
riuscì a stento a evitare di calciare il primo oggetto a portata di
piede. Ancora una volta suo nonno dimostrava più interesse verso i
suoi affari che non verso la sua famiglia.
«Tipico.»
La
sua voce suonò più acida di quello che credeva. Si trascinò verso
il letto e si lasciò cadere di peso, sprofondando nel materasso
morbido. Chiuse gli occhi e respirò a fondo, cercando di lasciare
ogni pensiero fuori dalla propria mente.
Ora
l’unica cosa che voleva era addormentarsi per non tormentarsi con
tutte quelle domande che le ronzavano incessantemente in testa e che
la stavano facendo impazzire.
La
sua mente riuscì a resistere per pochi istanti prima di capitolare,
sconfitta: Sari stava pensando nuovamente ad Abidos e al suo
misterioso segreto.
Era
curiosa, maledettamente curiosa. Innanzi tutto non capiva che cosa ci
fosse in lui di così sospetto da portare Namar a insinuare che
Abidos fosse pericoloso.
Dopo
la strage che il fuggiasco aveva fatto sulla scogliera, non era
riuscita a chiedergli neanche un vago chiarimento su quella frase che
le aveva sussurrato all’orecchio. In quel momento era rimasta
troppo scioccata e spaventata per poter pensare a cosa avrebbe dovuto
fare, ma ora anche il più piccolo indizio le avrebbe fatto comodo.
Scese
dal letto, velocemente. Doveva sapere. Doveva parlare con Abidos, e
doveva farlo con discrezione. Imboccò il corridoio, e ogni passo le
sembrava pesantissimo. Quando si fermò di fronte alla camera del
ragazzo, il cuore le pulsava furiosamente nel petto. Aprì la porta.
La
mano le tremò per l’agitazione, e si chiese se stava facendo la
cosa giusta. Forse avrebbe dovuto rimanere in camera sua senza andare
in cerca di ulteriori pericoli, ma non era capace di aspettare che i
guai le piombassero in testa e la cogliessero impreparata.
Quando
si richiuse la porta alle spalle, sentì che il passo decisivo era
stato compiuto: non poteva tirarsi indietro.
Abidos
era sdraiato sul letto e i suoi respiri, profondi e regolari,
suggerirono a Sari che fosse addormentato. Lo raggiunse in punta di
piedi, stando bene attenta a non fare rumore. L’espressione sul
volto del ragazzo era corrucciata: stava sognando qualcosa. Si voltò
di fianco, e una ciocca di capelli gli cadde sul viso.
Lo
guardò per minuti che sembrarono interminabili, cercando in quel
viso addormentato delle risposte. Ma più indugiava, più le sembrava
impossibile che Namar avesse ragione. Probabilmente si era sbagliato,
e quel sospetto era frutto di una paranoia partorita dalla sua mente
distorta e dalla sua incrollabile diffidenza. Le sembrò assurdo che
quel ragazzo dai lineamenti dolci, quel ragazzo che voleva aiutarla a
scappare dal suo rapitore, fosse pericoloso.
Scosse
il capo sospirando, e gli scostò i capelli dal volto. Le dita
sfiorarono la sua pelle, e in quel momento sentì un distinto
formicolio propagarsi dai polpastrelli Fu così breve che quasi non
se ne rese conto, finché non arrivò il buio.
E
vide.
Corridoi.
Una rete infinita, un alveare che si snocciolava da qualche parte.
Pareti grigie, impersonali e fredde. E porte dello stesso colore,
tutte uguali. Un corridoio lungo, lunghissimo, e alla fine una porta.
Rossa. E davanti a quella porta, un corpo riverso a terra e sangue
dovunque: per terra, sui muri, sui vestiti di quel povero
disgraziato. Un uomo morto, che aprì gli occhi e la guardò
senz’anima. Suo padre.
Sari
ritrasse la mano, annientata. Fissava Abidos, e il terrore le
inchiodava i piedi. La sua mente le gridava di allontanarsi, di
fuggire da quel pericolo imminente, ma il suo corpo non rispondeva.
Lo sentì ridere, una risata spaventosa e diabolica. Riuscì ad
arretrare d’un passo, tremante.
Abidos
si mise a sedere. La stava guardando, ma il modo in cui lo faceva non
era quello che conosceva. Non era più gentile: nei suoi occhi c’era
il nulla. Gelido. Quello non era più Abidos.
«Mi
hai ingannata» la voce le tremava, e lui accennò un sorrisetto
sottile.
«E
dovrei scusarmi per questo? Allora ti prego: perdonami.»
Si
stava divertendo, rideva della sua paura.
Sari
strinse i pugni, sentendosi invadere dalla rabbia. Ciò che aveva
visto nel sogno di quel ragazzo aveva a che fare con quello che i
demoni volevano da lei, con Shem. L’assassino di suo padre.
«Sei
uno di loro? Uno di quei demoni?» sibilò, cercando di mantenersi
lucida e di non arrendersi alla rabbia. Lui la guardò sorpreso.
«Ma
come, ti sei già dimenticata di me?»
«CHI
DIAVOLO SEI?!»
Le
lacrime le stavano rigando il viso. Si sentiva ingannata, derisa e
spaventata. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle. Un paio di
metri la separavano dalla porta. Se arretrava lentamente
probabilmente sarebbe riuscita a scappare prima che lui la
raggiungesse.
Si
asciugò le lacrime con un gesto di stizza, senza più perderlo di
vista.
«Dopo
la tresca che abbiamo avuto, potrei sentirmi offeso dalle tue
domande.»
Non
stava più ridendo. Scese dal letto, e venne verso di lei come un
felino si avvicina alla preda.
«Vediamo
di rinfrescarti la memoria. »
Le
sembrò di essere sul punto di impazzire quando credette di vedere la
pelle di Abidos diventare più chiara. Stava per darsi della pazza,
ma dovette reprimere un urlo: il volto del ragazzo iniziò a mutare
lentamente, a cominciare dai lineamenti che divennero più affilati.
Poi fu la volta degli occhi.
Quella
calda tonalità nocciola che Sari stava cominciando a conoscere
sfumò, rimpiazzata da un colore decisamente freddo, un azzurro così
chiaro che le ricordò il ghiaccio. Le gambe cominciarono a tremarle,
e Sari dovette reggersi a un tavolo per non lasciarsi cadere. Non fu
capace di emettere neppure un gemito. Rimase a guardarlo con un
angosciante senso d’impotenza mentre faceva scivolare le mani sui
capelli, che divennero lisci e sottili. Neri.
Non
più boccoli castani, ma capelli scuri che seguivano con disciplina
la linea della testa.
L’orrore
s’impadronì di Sari, che desiderò scomparire all’istante.
Si
era sempre chiesta che cosa avrebbe fatto quando avesse avuto Shem
davanti, ma non era pronta a vederselo comparire così.
«Non
è possibile…»
La
sua voce uscì strozzata, e le lacrime le bagnarono di nuovo le
guance. Le ritornò alla mente suo padre morto davanti al laboratorio
nel sogno di quell’essere abominevole, e in un lampo si ricordò
della sua camera da letto, completamente imbrattata di sangue.
Voleva
andarsene. Desiderava scomparire all’istante da quell’incubo
assurdo. Voleva fuggire.
Namar!
«Pazienta
un altro po’, non ho ancora risposto completamente alla tua
domanda.»
Sari
non lo stava neppure ascoltando. La sua mente correva veloce, alla
ricerca di qualcosa che potesse fungere da arma improvvisata. Ma
nella camera non c’era assolutamente nulla.
Shem
le girò attorno come se stesse per saltarle addosso, costringendola
ad allontanarsi. Soltanto allora Sari capì di essere lontana dalla
porta, l’unica via di fuga possibile. Si morse un labbro, dandosi
della stupida.
Poi
accadde di nuovo. I lineamenti di Shem diventarono più maturi, i
capelli si allungarono e in pochi secondi raggiunsero la schiena.
Chiuse gli occhi, e quando li riaprì Sari sussultò: erano
completamente bianchi, e l’unico schizzo in tutto quel candore
innaturale era la pupilla verticale.
Rimase
spiazzata: non aveva mai visto nulla del genere, e per un istante
dimenticò che la persona che aveva di fronte era la stessa che aveva
ucciso suo padre.
«Che
cosa sei?»
L’uomo
rise sommessamente, scuotendo il capo.
«Questo
è il mio vero aspetto. Mi chiamo Jariel, e tu hai qualcosa che mi
appartiene.»
Non
ci pensò su neppure un secondo: Sari schizzò di lato, lanciandosi
verso il tavolo. Afferrò una sedia, e la frappose tra sé e
quell’uomo. Era terrorizzata, ma l’espressione sul suo volto
doveva essere contorta dalla rabbia, perché Jariel scoppiò a ridere
quando si avvicinò e lei tentò di tenerlo lontano con la sedia.
«NON
TI AVVICINARE!»
«Ora
basta giocare.»
Quell’essere
afferrò un piede della sedia, e la scaraventò lontano. Sari
cominciò ad arretrare, cercando di pensare a un modo per evitare il
suo assalitore. C’era una finestra, ma erano a un’altezza
considerevole e l’urto non l’avrebbe lasciata indenne. L’unica
soluzione era la porta. Le sarebbe bastato così poco per scappare,
eppure tra lei e la salvezza si frapponeva lui, che la stava
spingendo con le spalle al muro.
«Dove
sono i rapporti?»
«Non
capisco di che cosa stai parlando» Sari rispose distrattamente.
Stava disperatamente cercando di guadagnare tempo, ma Jariel sembrava
piuttosto impaziente. Con una smorfia seccata la afferrò per le
braccia e la spinse a terra rudemente, con violenza. La ragazza
dovette trattenere un gemito sofferente.
«Non
raccontarmi balle.»
E
Sari la sentì: una fitta acuta, forte e insopportabile attanagliarle
la testa. E caldo, molto caldo. Sentì le tempie bollenti. Tentò di
guardare Jariel, terrorizzata, ma la vista era annebbiata e i
contorni sfuocati. Tremava, e desiderava morire piuttosto che
continuare a sentire quel dolore insopportabile.
Strinse
convulsamente la testa nel vano tentativo di farlo cessare.
«Basta.»
La
voce era flebile e lamentevole. Lo stava supplicando, ma Jariel
rimase impassibile.
«Dove
sono?»
«BASTA!»
Stava
piangendo ora, e le sembrava che anche le lacrime fossero roventi.
Sarebbe impazzita, a meno che il dolore non la uccidesse prima.
Jariel le si avvicinò, e con un piede la costrinse a voltarsi
supina. La guardò senza tradire alcuna emozione. Era gelido, per
nulla toccato dalla sua sofferenza. Mantenne il piede sullo stomaco
della ragazza, e il suo sguardo si fece penetrante. In quel momento,
lei gridò. Come non aveva mai fatto in vita sua, come se la sua
anima fosse sul punto di spaccarsi. Pregò di morire in quel momento,
tutto pur di far smettere quell’atroce tortura. Afferrò
involontariamente la caviglia di Jariel con entrambe le mani, e in
quell’istante successe qualcosa. Ci furono scintille, e delle
fiamme nere si accesero attorno alle sue mani.
Jariel
gridò, e si allontanò all’improvviso. In quel momento, il dolore
nella testa della psicologa cessò di punto in bianco, e Sari si
sentì spossata e debole. L’uomo si ispezionò la caviglia: la
stoffa del pantalone era bruciata, e la pelle era lacerata dalle
piaghe.
La
fissò con astio, tremando dalla rabbia.
«Maledetta.»
Era
il momento. Se non l’avesse fatto, sarebbe sicuramente morta,
proprio come suo padre prima di lei. Cercò di racimolare le forze
che le rimanevano, chiedendo al proprio corpo un ultimo, piccolo
sforzo.
«AIUTO!»
Gridò
una, due, tre volte. Urlò all’infinito quella parola disperata,
con la vaga consapevolezza che quella era la sua unica speranza.
Pochi istanti dopo, tre guardie fecero irruzione all’interno della
stanza, ma non fecero neppure in tempo ad aprire bocca che Jariel era
già saltato dalla finestra. Quando si affacciarono, di lui non c’era
più traccia.
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Capitolo 19 *** rabbia ***
18
18.
RABBIA
*
L’aggressione
subita e la reale identità di Abidos avevano sconvolto Sari.
Quando
la portarono da Amos, tremava ancora come una foglia.
Le gambe la reggevano appena, e inciampò più
di qualche volta. Le guardie che l’accompagnavano la guardarono con
un misto di commiserazione e divertimento che l’avrebbe irritata,
se solo non fosse stata così scioccata da non prestare attenzione a
ciò che le accadeva attorno.
Percorsero
un corridoio lungo, ed entrarono in una stanza. Quando la fecero
accomodare, Sari cominciò a guardarsi attorno. Riconobbe subito la
camera: pareti bianche, enormi vetrate e un tavolo rettangolare al
centro. Di Amos però non c’era traccia.
«Lui
sta arrivando?» domandò con voce tremante a una delle guardie, che
abbozzò un sorriso.
«È
stato chiamato, sarà qui a momenti. Non devi preoccuparti.»
Un
nodo le strinse la gola a quelle parole. Sembrava che la guardia
credesse che la presenza di Amos servisse a tranquillizzarla, a farla
sentire sicura dopo ciò che le era accaduto, mentre in realtà
poteva solamente farla innervosire ancora di più.
Chiuse
gli occhi, cercando di trovare un po’ di controllo. Voleva
allontanarsi subito finché ne aveva la possibilità, ma aveva un
bisogno disperato di sapere. Jariel, quell’essere che aveva ucciso
suo padre sotto mentite spoglie, aveva parlato di rapporti. L’aveva
avvicinata perché credeva che li avesse lei. Aveva rischiato la vita
per qualcosa di cui fino a pochi minuti prima ignorava l’esistenza.
Quando sentì dei passi provenire dall’ingresso, il suo coraggio
venne meno.
«Vedo
che stai bene» la voce fredda di Amos ebbe lo stesso effetto di una
pugnalata al cuore per Sari. Sapeva che ciò che avrebbe ottenuto da
lui non sarebbe stata certo preoccupazione, ma vedere confermati i
suoi sospetti faceva decisamente male.
Strinse
i pugni, mantenendo la calma.
«Sono
riuscita a fronteggiarlo.»
Tremava,
ma si sforzò di sorridere nonostante fosse sull’orlo di una crisi
di nervi.
«I
tuoi poteri si sono risvegliati?»
Sari
non riuscì ancora a guardare Amos in faccia. Le sembrò di cogliere
una nota d’interesse nella voce del vecchio mago, ma preferì non
controllare. Aveva paura di quello che ci avrebbe trovato. Tacque.
«Allora
non sei una perdente come credevo.»
Fu
una doccia gelida. Rimase impietrita, con il cuore che le galoppava
nel petto e l’agitazione, che aveva tentato di reprimere, che
minacciava di travolgerla da un momento all’altro.
Amos
fece per uscire dalla stanza senza battere ciglio, ma Sari piombò in
piedi di colpo, senza più riuscire a frenarsi.
«Che
cosa sono i rapporti?» fu quasi un grido. Era arrabbiata come non lo
era mai stata prima, e voleva sapere. Doveva
sapere.
Amos
si fermò a guardarla, stoico.
«Come
fai a sapere dei rapporti?»
«Quel
tizio con cui sono arrivata, Jariel, Shem o come diavolo si chiama…
Cercava i rapporti.»
Per
un istante le sembrò che quella maschera imperturbabile che Amos
indossava costantemente venisse incrinata da un barlume di
preoccupazione. Il vecchio mago ordinò alle guardie di chiudere le
porte della sala con un cenno della mano.
«Ti
ha detto qualcos’altro?» domandò afferrandola delicatamente per
le spalle, ma Sari si divincolò con stizza.
«Dannazione,
rispondi alla mia domanda per una volta! Quel tizio ha ucciso papà e
io ho rischiato di fare la stessa fine per una cosa che non so
neppure cosa sia!» gli gridò, gettandogli contro tutta la rabbia
taciuta fino a quel momento. Amos però la guardava imperturbabile,
lasciando che le parole della nipote gli scivolassero addosso come
fossero acqua. Sari chinò la testa, singhiozzando. «Che cosa c’è
in quei rapporti?»
«Non
sono cose che ti riguardano.»
«C’ero
io in quella stanza, con quello,
ma non sono cose che mi riguardano?» la sua voce era ridotta a un
sibilo rabbioso. Il suo sguardo furente lanciava tacite accuse ad
Amos, che anche in quel frangente sembrava non provare assolutamente
nulla. Era impassibile, con le mani nascoste dietro la schiena e
un’espressione distaccata sul volto segnato dagli anni.
«Voglio
la verità: quei rapporti li aveva papà?»
Amos
sembrò esitare per un istante, poi annuì.
«Perché
li aveva lui?» domandò. Fremeva dalla voglia di sapere, era
l’occasione che stava aspettando dalla morte di suo padre, ma aveva
paura di ciò che avrebbe sentito. Amos sospirò, messo alle strette.
«Quei
rapporti sono estremamente importanti, ma non erano al sicuro. Ho
ordinato a tuo padre di nasconderli prima che li trovasse qualcun
altro.»
Sari
si sentì improvvisamente svuotata di ogni cosa. Ogni emozione
provata fino a quell’istante venne spazzata via da quelle parole,
perfino la rabbia feroce che l’aveva animata fino a qualche istante
prima. Vacillò, e dovette sedersi per non cadere.
«Mi
stai dicendo che hai costretto papà a portarsi dietro quei rapporti
nonostante sapessi che l’avrebbero ucciso pur di averli?» ansimò
con gli occhi lucidi. Amos la guardò senza battere ciglio, gelido.
«Spero che questa ridicola scenata finisca presto.»
Fu
così veloce che non si rese neppure conto che il suo corpo si era
mosso: Sari scattò in piedi, aggredendo Amos e costringendolo contro
il muro. Le guardie fecero per intervenire, ma l’anziano mago li
rimandò al loro posto con un cenno del capo.
La
stretta di Sari sulle braccia esili del nonno era tremante per la
furia.
«Quando
mostrerai un po’ di rimorso per quello che hai fatto? Era tuo
figlio, e l’hai mandato a morire.»
«La
vita è fatta di scelte, Sari. Io ho fatto la mia perché credevo in
quello che stavo facendo, ed ero pronto a pagare qualunque prezzo
fosse stato necessario; tuo padre lo sapeva.»
«STA’
ZITTO!» le lacrime cominciarono a rigarle il viso, segnandolo con il
loro carico di dolore. Si impose di riprendere il controllo, ma
quando parlò, la voce era ridotta a un sibilo.
«Che
cosa c’è in quei rapporti? Riguardano qualcosa nascosto ad
Artika?»
«Non
sono cose di tua competenza.»
«SONO
VENUTI DA ME PER PRENDERLI, MALEDIZIONE!»
Mollò
la presa all’improvviso, dirigendosi ad ampi passi verso la porta
d’uscita, ma le guardie le sbarrarono la strada. Sari si voltò
verso suo nonno, furente.
«Ordinagli
di farmi passare.»
«Prima
che tu vada vorrei darti la lieta novella: da oggi sei ufficialmente
fidanzata con il generale Rider. Celebreremo il matrimonio al più
presto, non appena sarà tutto pronto.»
Sari
fu così sbigottita dalla notizia, che rimase a bocca aperta. Quando
riuscì a parlare, il suo tono di voce esprimeva tutta l’indignazione
che la ragazza provava.
«Te
lo puoi scordare, non sposerò mai Rider!»
«Non
hai voce in capitolo Sari, è una mia decisione e tu obbedirai senza
fare storie.»
Non
era possibile cercare di incrinare quel muro d’indifferenza, tanto
meno sbraitando. Per quanto desiderasse sottrarsi al volere di Amos,
Sari sapeva che non sarebbe mai stato possibile, e questo la faceva
arrabbiare ancora di più. Non le restava altro che accettare le sue
volontà, che lei lo volesse o meno.
Con
un gemito stizzito spinse da parte le guardie e aprì la porta,
producendo un rumore che rimbombò lungo tutto il corridoio. Corse
verso le sue stanze, con il bisogno di allontanarsi al più presto
dalla presenza soffocante del mago e una moltitudine di pensieri che
si susseguivano senza sosta. Rivedeva suo padre morto nel sogno di
Jariel, e Amos che la guardava senza battere ciglio mentre ammetteva
la propria responsabilità. Ancora
una volta il mago stava decidendo delle vite di altre persone senza
curarsi dei loro sentimenti.
Quando
arrivò in camera si fermò sull’uscio, con un intenso bisogno di
distruggere qualcosa. Si guardò attorno, e vide una piccola parte di
ciò che suo nonno aveva costruito. Il mobilio pregiato, fatto
arrivare da chissà dove; i tendaggi, gli arazzi, gli oggetti
preziosi… Tutto le ricordava lui, la sua autorità soffocante, e
soprattutto le sue insensate pretese.
Lo
fece quasi senza pensare. Afferrò il primo oggetto che le capitò in
mano, e lo lanciò a terra. Non fece neppure caso a cosa fosse:
quando lo vide cadde a terra, infrangendosi in molti pezzi, le sembrò
che una parte della tempesta emotiva che la tormentava venisse
esorcizzata. Fu un invito a continuare.
Rovesciò
i mobili, strappò le tende, gettò a terra tutti i soprammobili su
cui riusciva a mettere le mani, e stracciò le pagine dei libri di
magia che erano stati riposti sopra una piccola libreria.
«Santo
cielo, sei impazzita?»
Era
Jasper, sulla soglia. La fissava basito, con le mani sui capelli.
Sari non lo degnò neppure di un’occhiata, e continuò la sua opera
di distruzione.
«Fermati,
ti prego! Non hai idea dei danni che stai facendo!»
Sembrava
seriamente allarmato. Le afferrò un polso tentando di calmarla, ma
Sari si liberò bruscamente.
«Non
me ne importa nulla dei danni! Nulla!» gli gridò in faccia prima di
riprendere a strappare le pagine di un libro dalla copertina verde.
Jasper si torceva le mani, disperato. Quando anche Rider si presentò
sulla soglia, attirato dal baccano, l’umore di Sari sprofondò
ancora di più.
«Fantastico,
ci mancava soltanto il leccapiedi di mio nonno» mormorò tra sé,
scuotendo il capo. Rider la guardò con le braccia conserte al petto
e sul volto un irritante sorrisetto altezzoso.
«Quanto
sei infantile.»
Sari
stava per scagliare a terra una statuina di porcellana, ma si fermò
con il braccio a mezz’aria. Lanciò uno sguardo furibondo al
generale, che ebbe l’effetto di farlo divertire ancora di più.
«Stando
con quell’avanzo di galera sei diventata incivile, senza dubbio un
pessimo elemento.»
Per
Sari fu troppo.
In
quel momento, la presenza di quel borioso opportunista non faceva
altro che alimentare il fuoco rabbioso che le bruciava dentro. Senza
pensarci su scagliò la statuina verso l’uomo, mirando alla sua
testa, ma i riflessi del generale erano pronti: si chinò, la statua
volò oltre le sue spalle e si infranse sul pavimento.
«Non
siamo ancora sposati e già vuoi uccidermi?»
«Vai
al diavolo, Rider! Preferisco stare con un criminale, piuttosto che
sposare te» parlò a denti stretti e con disprezzo, sibilando tutta
la sua collera. Voleva andarsene. Aveva un disperato bisogno di stare
da sola, lontano da tutti. Spinse il generale da parte, e uscì dalla
camera quasi correndo. Sentì Jasper pregarla di tornare indietro, ma
lo ignorò. Le dispiaceva per lui, ma non aveva la minima intenzione
di sopportare Rider un istante di più.
Camminò
al ritmo del suo cuore rabbioso, sempre più veloce finché cominciò
a correre. Si diresse senza indugi verso il luogo più tranquillo di
tutto il palazzo, l’unico che potesse offrirle la quiete di cui
aveva bisogno.
Si
fermò alla fine del corridoio. La porta era aperta, e dalla soglia
riusciva già a distinguere i numerosi ripiani all’interno della
biblioteca. Entrò adagio e si guardò attorno: in quel salone
imponente non c’era nessun altro, oltre a lei.
Imboccò
le file di scaffali, ma non guardò nessun libro. Camminò verso il
fondo della biblioteca, e quando lo raggiunse posò la schiena contro
il muro, lasciandosi cadere a terra. Seduta, si lasciò andare a un
lungo pianto silenzioso, incapace di fermare le lacrime. Raccolse le
ginocchia al petto, circondandole con le braccia, e vi nascose la
testa come una bambina. E pensò.
Lasciò
che i pensieri l’aggredissero in un flusso di coscienza selvaggio e
prepotente, che aveva come unico effetto quello di farla affondare
ancora di più nella tristezza. Pensò a suo nonno, a suo padre, e a
ciò che aveva scoperto riguardo alla sua morte. E, ora che conosceva
quella mezza verità, non si sentiva affatto meglio.
Avrebbe
desiderato ardentemente poter mettere le mani addosso ad Amos, anche
solo per costringerlo ad assumere un’espressione diversa, nuova.
Umana. Per cancellare quello sguardo indifferente che riservava a
chiunque e in qualunque situazione, perfino di fronte al sacrificio
del suo unico figlio. Ma non poteva farlo.
Non
poteva sperare di vedere del rimorso in suo nonno, come non poteva
sperare che lui le spiegasse che cosa contenessero quei fantomatici
rapporti. Nonostante avesse un disperato bisogno di sapere –di
capire per che cosa Adrian era morto- sapeva che non avrebbe mai
potuto ottenere alcuna informazione da Amos.
Solo
quando si asciugò le lacrime con il dorso della mano, la notò: era
una porta alta e imponente, in ferro battuto lavorato. Uno strano
glifo spiccava sul metallo, probabilmente il risultato di un
incantesimo operato a protezione di qualche oggetto prezioso
custodito con gelosia. Le ricordò il simbolo che aveva visto su
quella porta rossa, ad Artika: aveva la stessa forma e la medesima
grandezza, ma c’erano delle piccole virgole all’estremità di
ogni semicerchio. Un elemento nuovo che lo rendeva differente, ma che
non era sufficiente per cancellare dalla mente di Sari il ricordo del
segno che aveva visto nel carcere. Pensare che potesse esserci un
legame tra i due glifi fu un passo breve, quasi immediato.
Si
alzò in piedi, animata da una speranza che non pensava di poter
provare in quella situazione così sconfortante, dove le risposte che
cercava con così tanta ostinazione sembravano essere sempre più
inaccessibili. Quando cercò di aprire la porta, però, non ottenne
alcun risultato. Riprovò di nuovo, spinse con tutte le sue forze, e
alla fine fu costretta a desistere sotto il peso di una frustrazione
opprimente che le lasciò nient’altro che rabbia e un logorante
senso di impotenza.
Allora
non sei una perdente come pensavo.
Le
parole di Amos le ritornarono in mente con il loro carico di veleno.
Le sembrò di rivivere quell’istante, di rivedere il suo
atteggiamento impassibile, di risentire il tono di sufficienza con
cui si era rivolto a lei.
L’insieme
dei sentimenti negativi che la tormentavano -quel miscuglio intenso
di collera e dolore- prese di nuovo il sopravvento, e accadde tutto
in un istante: avvertì un’energia potente concentrarsi sulla mano
nel momento in cui afferrò il pomello, una forza seducente che le
prometteva di poter realizzare qualunque desiderio. Non c’era più
nulla che le fosse proibito, nulla che non potesse avere, lo sentiva
chiaramente dentro di lei.
Apriti,
APRITI!
Le
virgole del glifo si dissolsero e l’incantesimo che impediva
l’accesso alla stanza si infranse all’istante. La serratura
scattò con un rumore secco e inequivocabile: una piccola
soddisfazione che Sari si concesse di assaporare con orgoglio.
Controllò velocemente il corridoio, e quando fu sicura che non ci
fosse nessuno nei paraggi, sgattaiolò oltre la soglia.
*
La
stanza era piuttosto piccola e disordinata. C’erano numerosi
scaffali, e sui ripiani giacevano fogli e cartelle ricoperti dalla
polvere. Molti erano ingialliti, inequivocabilmente segnati dal
passare del tempo, e i segni dell’umidità erano molteplici.
Sari
guardò a bocca aperta quell’archivio ricco di chissà quali cose,
affascinata. Curiosò tra le carte riposte sullo scaffale più
vicino, ed estrasse un pacco di fogli sciolti: li guardò con
interesse e comprese che per la maggior parte erano formule di magia
e genetica. Probabilmente studi che Amos aveva condotto durante la
sua ascesa. Li ripose con cura, e proseguì l’ispezione. C’erano
interi volumi di chimica e biologia, che sembravano trattare
argomenti difficili e impegnativi.
Era
entrata lì dentro spinta dalla semplice curiosità, senza alcun
intento in mente: forse fu per quel motivo che, quando lo vide, il
cuore cominciò a batterle all’impazzata.
Lì,
sopra un ripiano mezzo vuoto, un grosso fascicolo giaceva in mezzo
alla polvere. Un dossier come gli altri, ma dal nome del tutto
particolare.
I
caratteri scritti a macchina recitavano: “Artika-
La zona rossa”.
Allungò
la mano verso il fascicolo, assaporando quel momento esaltante e
terrorizzante allo stesso tempo. Amos aveva fatto di tutto per
nasconderle la verità, e per uno sfacciato colpo di fortuna ne era
probabilmente molto vicina.
Per
una frazione di secondo l’indecisione le fermò la mano. Voleva
veramente sapere che cosa c’era dietro a tutti i misteri della
Corporazione? Desiderava davvero conoscere i motivi che avevano
condotto suo padre verso la morte? Voleva sapere per che cosa avrebbe
rischiato la sua stessa vita?
Afferrò
il fascicolo, e in quel momento seppe che il suo io più profondo
aveva già deciso per lei da un pezzo. Si sedette a terra con
l’incartamento sulle ginocchia, e cominciò a leggere.
|
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Capitolo 20 *** la zona rossa ***
19
Per farmi perdonare del ritardo con cui ho pubblicato
il capitolo della settimana scorsa (capitolo pubblicato soltanto
ieri), ho deciso di anticipare l'aggiornamento di domani. Perciò
assicuratevi di aver letto il capitolo 18, prima di leggere questo ;)
Detto ciò, questo è il capitolo delle risposte.
Buona lettura.
19.
LA
ZONA ROSSA
*
“PROGETTO
M.
Giorno
1.
Poter
intraprendere queste ricerche è elettrizzante. Abbiamo allestito il
laboratorio segreto in attesa del carico proveniente dal laboratorio
demoniaco, e siamo tutti molto eccitati all’idea di iniziare. La
zona è stata resa segreta tramite un incantesimo di celamento
operato da Amos questa mattina: l’ingresso del laboratorio è una
porta rossa, che potrà essere vista soltanto da chi lavora al
progetto. Sono state preparate le celle per le creature, e l’equipe
che mi affianca è qualificata. La Corporazione si aspetta grandi
risultati, e noi tutti faremo del nostro meglio per non deluderla.”
Sari
si accigliò nel notare la scrittura del padre, stupore che passò in
secondo piano quando pensò al momento in cui aveva aperto quella
porta rossa, ad Artika. Quando aveva visto Namar per la prima volta.
Aveva
sentito parlare degli incantesimi di celamento, arte magica piuttosto
complicata che richiedeva lunghi anni di studio e che
aveva lo svantaggio di essere trasmessa a
figli e nipoti. Di conseguenza le cose celate potevano essere viste
anche dai consanguinei delle persone coinvolte nell’incanto. Le
tornò in mente l’uomo che la inseguì ad Artika: probabilmente al
posto della porta rossa non aveva visto altro che il corridoio.
Pensò
al glifo, lo stesso che troneggiava all’ingresso della stanza in
cui si trovava in quel momento. Le era parso evidente fin dall’inizio
che quell’area della biblioteca era stata sottoposta a qualche
incantesimo, e dopo aver letto della magia di celamento non le
risultò difficile indovinare quale potesse essere.
Riprese
a leggere.
“Giorno
3.
Le
potenzialità di queste creature sono stupefacenti. Si chiamano
morfisti. Riescono a mutare aspetto, e la particolare conformazione
dei loro occhi desta curiosità: sono completamente bianchi, e le
pupille hanno forma verticale. Hanno una M sulla pianta del piede,
probabilmente un segno incantato che supponiamo serva per
riconoscerli nonostante l’aspetto assunto. La cosa più
straordinaria però è la presenza di una ghiandola particolare nel
loro cervello. La tipologia dei tessuti di cui è composta è diversa
rispetto alle cellule umane che formano il resto dell’encefalo.
Sembra essere di origine demoniaca, ed emana onde di energia con
effetti devastanti. Oggi abbiamo perso un membro dell’equipe a
causa di queste onde, e tramite un esame approfondito abbiamo
constatato che i suoi neuroni risultano completamente bruciati.
Abbiamo
allestito le gabbie usando un materiale speciale, trasparente e in
grado di contenere l’energia generata da queste creature. Ai loro
polsi abbiamo posto delle catene a cui è stato operato un
incantesimo, in modo da bloccare momentaneamente la capacità di
mutare forma. Con queste misure protettive dovremmo riuscire a
condurre gli studi senza correre rischi.”
Cominciò
a sudare freddo. Più comprendeva, e più le sembrava impossibile
credere a quello che stava leggendo. Aveva trovato Namar dentro una
gabbia trasparente, esattamente come quella descritta nel fascicolo,
e per giunta incatenato.
E
venne l’orrore quando comprese.
L’avevano
usato come cavia da laboratorio.
E
il responsabile era suo padre.
Quello stesso padre gentile e premuroso che lei amava tanto. Quello
stesso padre la cui memoria era tutto ciò che le rimaneva.
E
ora era persa per sempre.
Poi,
improvvisamente tutto divenne chiaro: lo sfogo che Namar aveva avuto
quando non sembrava ci fossero speranze di fuga, la sua disperata
determinazione nel voler fuggire, a qualunque costo. Era una vittima
dei maghi. Un uomo nato e vissuto per anni come un oggetto.
Si
morse il labbro, divisa tra la pietà per l’evaso e la rabbia e la
delusione che provava verso suo padre.
Riportò
lo sguardo tra le righe del foglio, quando improvvisamente qualcosa
di ciò che aveva appena letto la colpì. L’aveva trovato
incatenato, imprigionato sotto sembianze che non aveva abbandonato
neppure quando ne aveva avuto l’occasione. Poteva mutare sembianze
a suo piacimento, e non era l’unico: anche Jariel poteva farlo.
Erano uguali, due creature nate a tavolino destinate ad adempiere a
uno scopo ben preciso. Un destino crudele e terribile, fatto di
guerra e massacri. Probabilmente i demoni li avevano creati con
l’intenzione di ridurre i maghi in ginocchio in breve tempo: erano
l’arma perfetta per muovere scacco, letale e facilmente impiegabile
anche nelle zone più controllate del continente.
Ricordò
come il giorno prima aveva visto morire tutti quei soldati sulla
collina, vittime di una morte orribile, e provò a immaginare cosa
sarebbe successo se un paio di quelle creature fossero penetrate
all’interno della Corporazione. Sarebbe stata una carneficina, e in
pochi istanti il regno dei maghi si sarebbe ritrovato senza nessuno a
guidarlo, completamente in balìa del nemico. Sentì un brivido
correrle lungo la spina dorsale al pensiero di cosa avevano
rischiato. Ma qualcos’altro si agitava in lei, un’emozione ben
diversa dal sollievo per un pericolo scampato. Avevano usato delle
creature come fossero degli oggetti senz’anima, sottoponendoli a
chissà quali esperimenti. Anche i tagli infetti sulle mani di Namar
dovevano essere il risultato dell’accurato lavoro di quegli
scienziati.
Animali.
Per i maghi, Namar e quelli della sua razza non erano altro che
animali.
“Giorno
10.
Abbiamo
cominciato a condurre esperimenti su più fronti, nella speranza di
scoprire il segreto di queste creature. Sono stati prelevati campioni
di vari tessuti.”
Quali
orrori doveva aver sopportato Namar? Quante volte aveva desiderato di
fuggire o morire piuttosto che continuare a subire tutto questo?
Ricordava bene la folla inferocita che lo accusava sette anni prima,
mentre usciva dal dipartimento di polizia per essere condotto ad
Artika. Vittime, che si accanivano contro uno di loro. E lei lo
guardava avanzare tra la folla, senza sospettare l’orrore che Namar
nascondeva.
“Spero
di riuscire a studiare la ghiandola nel loro cervello. Mi domando se
un normale essere umano sia in grado di utilizzarla, se innestata nel
suo encefalo.”
Sari
sbiancò, mentre un orrendo dubbio si insinuava in lei.
«Non
possono essere arrivati a tanto. Non a questo.»
Eppure,
qualcosa le diceva che si stava sbagliando. Tutte quelle persone
arrestate e mandate ad Artika, quelle leggi così severe, la pena di
morte… Tutto aveva l’aspetto di un disegno ordito apposta per
procurare carne da macello. Cavie per esperimenti. Persone nate
libere che pagavano le loro colpe con la più squallida e ingiusta
delle pene.
Tutto
questo, voluto da lui. Da Amos.
E
poi c’era il suo modello, il padre buono e gentile che conosceva.
L’esecutore di quegli abomini. Adrian.
“Giorno 12.
È
stata individuata una massa cellulare dietro le iridi dei morfisti:
cattura l’intero spettro della luce, consentendo a queste creature
di vedere al buio. Sono veramente eccitato dalla quantità di
scoperte che stiamo facendo in questi giorni.”
Sari
divorò le righe sottostanti, con il cuore che batteva all’impazzata:
una morsa gelida le stringeva il petto, e ogni parola che leggeva non
faceva altro che rendere più grottesco l’orrore che trasudava da
quelle pagine. Era un susseguirsi di esperimenti, riportati
zelantemente. Anni e anni di studio, tutti documentati con delle
immagini a completare il quadro.
Poi,
alcune righe più sotto, la conferma ai suoi sospetti.
“La
Corporazione ha acconsentito a testare l’effetto di ghiandole
morfistiche innestate in un cervello ospite, impegnandosi a
rifornirci di materiale su cui fare ricerca. Abbiamo scelto cavie di
razza umana dal momento che sono le più versatili per questo tipo di
esprimenti: ci sono maggiori possibilità che le ghiandole che
innesteremo nel loro encefalo non vengano rigettate. Il carcere da
oggi diventa formalmente una dispensa di carne, come ha detto Amos.
Siamo ottimisti.”
Materiale
umano. Dispensa di carne.
Ecco
il perché di tutte quelle leggi assurde e restrittive: tutto era
stato costruito per poter accusare il primo malcapitato e
condannarlo, per avere nient’altro che delle cavie.
Li aveva visti venire condotti ad Artika ogni giorno, molte volte
gridare e pregare per non essere condannati a morte, ma a quel tempo
non aveva minimamente sospettato che in realtà ci fosse di più. A
quel pensiero, sentì un nodo formarsi alla bocca dello stomaco.
Riprese
a leggere, ma nel voltare pagina la mano le tremò.
“Abbiamo trapiantato una ghiandola da un morfista a
un uomo. Il mutaforma ha riportato delle lesioni cerebrali dovute
all’esportazione. L’uomo sembrerebbe per ora non rigettare la
ghiandola, ma è ancora troppo presto per poterlo dire con
sicurezza.”
E
poi, molte righe più sotto:
“Tutte
le funzioni cognitive del morfista sono compromesse: l’area del
linguaggio sembra essere quella che ha risentito maggiormente delle
lesioni all’encefalo, anche se sembra riuscire a discriminare
stimoli visivi e a mantenere nella memoria un cospicuo numero di
informazioni. Quello che mi dà maggiori preoccupazioni è l‘umano,
che non sembra riuscire a tollerare le onde emanate dalla ghiandola.
È prossimo al collasso.”
“L’uomo
è morto stamattina. Aveva i neuroni bruciati, come se avesse rivolto
l’energia demoniaca della ghiandola contro se stesso. Voglio venire
a capo del problema e scoprire che cos’ha causato il decesso del
giovane.”
Seguivano
decine e decine di esperimenti identici a quello che Sari aveva
appena letto, e tutti finivano nello stesso modo: il morfista
diventava poco più che un vegetale, e l’uomo destinato ad
accogliere la ghiandola moriva sopraffatto dalle onde di quell’organo
che il suo corpo non riconosceva.
Quel
carcere era come una creatura che aveva un perverso bisogno di
nutrirsi in continuazione dei suoi simili e lo nascondeva al mondo
intero, che non aveva il minimo sospetto di cosa accadesse nelle
viscere della prigione. Quel mostro aveva catturato innumerevoli
vite, aveva giocato con loro, e le aveva inghiottite in silenzio
senza che nessuno riuscisse mai a sapere la verità, facendole
sparire per sempre. Loro erano lì, in quel fascicolo, e gridavano
giustizia a voce alta.
Sari
ascoltava i loro lamenti silenziosi, sentiva le loro grida attraverso
le pagine che leggeva, e a ogni parola quel nodo che le chiudeva lo
stomaco diventava sempre più opprimente.
Quando
voltò l’ennesima pagina che testimoniava dodici anni di
abominevoli esperimenti, si ritrovò a guardare l’immagine di
Namar. Era una piccola foto sbiadita e consumata che lo ritraeva
decisamente meno sfiorito, ma con lo sguardo rassegnato.
Quando
era arrivato ad Artika, probabilmente era convinto che sarebbe
marcito lì dentro fino alla morte. Non poteva biasimarlo per
desiderare la libertà a tutti i costi, non dopo quanto aveva appena
scoperto. Cominciò a leggere la sua scheda, che si presentava come
un altro susseguirsi di osservazioni, esperimenti e risultati.
“Il
prigioniero è stato condotto ad Artika ieri. Mi sono sorpreso quando
ho scoperto che è un morfista, dal momento che mi avevano assicurato
che tutti gli esemplari provenienti da Shaula erano stati catturati.
A causa dei disastrosi studi condotti sulle ghiandole degli altri
esemplari, non sono rimasti molti morfisti sani su cui condurre
esperimenti. Amos è concorde nell’adottare una linea differente
con questo soggetto: verranno testate le conseguenze della mancanza
di luce prolungata su queste creature, e nel frattempo cercheremo di
ampliare le nostre conoscenze prelevando campioni di tessuti e di
sangue.”
Tutto
stava acquistando un senso, e le sembrò terribile. Suo padre –il
suo eroe- era immerso fino al collo in quella faccenda, aveva
condotto lui stesso quegli esperimenti, aveva redatto lui quegli
scritti. L’aveva sempre visto sotto una luce immacolata, ma
all’improvviso dovette rendersi conto della verità: aveva perso la
perfezione del suo ricordo, l’ultima cosa che le restava di lui.
Mai come in quel momento avrebbe desiderato che il padre fosse vivo.
Avrebbe voluto che le spiegasse, che le dicesse che soffriva per
quello che aveva fatto e che più volte aveva avuto dubbi sul suo
lavoro. Ma non era possibile.
All’improvviso,
il terrore che Adrian potesse assomigliare ad Amos l’agghiacciò.
Aveva
sempre dimostrato di essere un padre affettuoso e premuroso, ma Sari
non aveva mai avuto occasione di vederlo in ambiti diversi. Aveva
mentito a lei e a sua madre su ciò che faceva ad Artika, e le volte
in cui tornava a casa appariva completamente sereno, come se il suo
fosse un lavoro come un altro. In tutti quegli anni non gli aveva mai
visto in viso un’espressione colpevole o preoccupata. Aveva sempre
il sorriso sulle labbra. Dissimulava bene, proprio come il nonno.
E
tutto questo non faceva altro che alimentare la rabbia di Sari.
Infine,
non poteva dimenticarsi di Amos: il vero carnefice, che godeva ancora
del potere che gli dava la sua posizione all’interno della
Corporazione.
Se
ne stava al sicuro, forte della sua posizione, impunito.
E
se prima poteva avere dei dubbi, ora Sari non ne aveva nessuno: Amos
era un demonio in un corpo da uomo anziano, un genio diabolico e
inarrestabile che sapeva celare i pensieri più terribili dietro
espressioni distaccate. Era il nemico vestito da amico.
La
sua autorità incuteva timore, e la sua parola era sufficiente per
decretare il destino di molte persone. Dietro a quel massacro c’era
lui.
Lui,
che aveva scelto di studiare i segreti dei demoni. Lui, che aveva
imposto a terzi di macchiarsi le mani mentre se ne stava nelle sue
stanze a guardare il mondo sotto i suoi piedi tremare a ogni respiro.
Lui,
che le aveva rubato l’unica cosa che Sari era sicura di non potere
mai perdere: i preziosi ricordi di suo padre.
Mentre
riponeva il fascicolo dove l’aveva trovato, decise che Amos avrebbe
pagato per ogni cosa. Presto o tardi tutti avrebbero saputo, e allora
nessuno avrebbe più accettato di riporre la propria vita nelle mani
di quel mago.
Era
solo questione di tempo, ma avrebbe pagato per ogni cosa, e Namar
sarebbe potuto tornare definitivamente libero.
|
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Capitolo 21 *** una persona importante ***
20
20.
UNA
PERSONA IMPORTANTE
*
Sari rimase ferma davanti alla porta, con il pugno a
mezz’aria pronta per bussare ma senza il coraggio per farlo.
Come avrebbe fatto a guardare in faccia sua madre e a
sorriderle dopo aver saputo la verità su suo padre? Da quand’era
partita per Artika non l’aveva più vista e Sari era stata così
codarda da rivolgersi alla vicina di casa per sapere come stava sua
madre.
Sapeva che era stata dimessa dall’ospedale pochi
giorni dopo la sua partenza per il carcere, e la donna che abitava
dall’altra parte della strada le aveva raccontato che Emma non
stava affatto bene.
Dopo la morte del marito era caduta in uno stato
depressivo, e la preoccupazione per la vita della figlia non faceva
altro che peggiorare il suo umore.
E ora Sari era lì, davanti a quella porta che la
separava dalla madre. E non sapeva come avrebbe
fatto a sorriderle.
«Forza Sari» si fece coraggio, respirando
profondamente. Bussò, con il cuore in gola.
Quando sentì la serratura scattare, pensò che le
sarebbe scoppiato nel petto.
Sorridi.
Sua madre era di
fronte a lei, ed era solo lo spettro della donna felice e gioiosa che
era stata in passato. Inizialmente sembrò non riconoscerla.
Sorridi.
«Ciao mamma.»
«Sari?» la donna la guardò come se avesse davanti un
fantasma. L’istante successivo le gettò le braccia al collo, con
le lacrime agli occhi. E fu sufficiente per far crollare Sari.
Pianse.
Per la paura che le aveva fatto compagnia nel
profondo del suo cuore da quando era cominciata tutta quella storia.
Per il sollievo di essere finalmente a casa, con sua madre.
Per quel segreto terribile che riguardava suo padre, un
segreto che portava dentro e che non poteva assolutamente rivelarle.
E sua madre la abbracciò tremante, senza mai lasciarla
andare.
*
Quando Sari lasciò la casa dei propri genitori, un paio
di ore dopo il suo arrivo, il morale non era propriamente dei
migliori. Aveva tranquillizzato sua madre, le aveva assicurato che
non c’era più nulla da temere.
In realtà le aveva detto una bugia bella e buona.
Del resto, che cosa avrebbe potuto dirle? Renderla
partecipe di quello che stava succedendo, significava dirle la verità
riguardo ad Adrian.
E Sari era certa di una cosa: sua madre non avrebbe
saputo tollerare un tale dispiacere.
Quando fece ritorno alla Corporazione, corse subito in
camera. Si coprì gli occhi con un braccio e sospirò, pensando a
Namar.
Lo rivide incatenato in quella cella, e immaginò che
cosa dovesse aver provato in tutti quegli anni. Per quanto si
sforzasse, però, sapeva bene che non lo avrebbe mai davvero capito.
Non aveva idea di cosa volesse dire nascere e vivere tra le mura di
un laboratorio, vedere il proprio destino segnato ed essere trattato
come carne da macello. Non poteva sapere cosa volesse dire assaporare
la libertà, vederla rubata e infine ritrovarsi insperatamente a
difenderla.
L’unica cosa che sapeva perfettamente era che non
avrebbe mai permesso ad Amos di mettere di nuovo le mani su Namar,
non dopo quanto aveva appena scoperto.
Si mise a sedere, improvvisamente nel panico. Namar
stava arrivando per salvarla. Stava venendo verso l’uomo che aveva
mobilitato l’esercito per catturarlo, dritto nella tana del lupo.
Doveva impedirglielo, a tutti i costi.
Si catapultò verso la porta, ma un pensiero la bloccò.
Non aveva idea di come poterlo contattare per dirgli che non doveva
assolutamente venire. Con un gemito frustrato si accasciò a terra,
con la schiena contro la porta. Doveva pensare.
Namar le aveva sussurrato all’orecchio che sarebbe
venuto da lei, prima di gettarsi dalla scogliera. Sapeva che lei era
in pericolo. Probabilmente non doveva essere neppure troppo lontano,
pensò, quando all’improvviso si ricordò del colpo infertogli da
Rider.
Per un breve istante si sentì gelare le ossa, e un
brivido serpeggiò lungo la schiena.
Era ferito.
Si alzò senza pensare e uscì di corsa dalla stanza. Si
guardò attorno nel panico, come se potesse intravedere nei corridoi
la figura familiare di Namar da un momento all’altro. Poco
importava che non fosse possibile: il terrore si era impadronito di
Sari e sembrava non volerla lasciare.
La ragazza corse fino alle scale che portavano al
giardino, e le discese così velocemente che per poco non inciampò.
Il primo pensiero fu di guardare verso il cielo: forse
Namar stava volteggiando da qualche parte tra le correnti d’aria,
cavalcandole con leggerezza mentre sorvolava la città.
Ma era stato colpito dal raggio di Rider.
Se si fosse nascosto in qualche buco putrido e sporco,
ferito e stanco, come avrebbe potuto aiutarlo?
«No, non può essere.»
Non potrei aiutarlo, pensò.
Namar era da qualche parte, e aveva intenzione di venire a Rosya per
lei: questo era quello che più importava, e che più spaventava
Sari. Doveva proteggerlo, impedendogli di avvicinarsi così tanto ad
Amos. All’improvviso le vennero in mente due nomi, a cui non aveva
minimamente pensato in quel turbine di eventi e pensieri. Amaya e
Silver.
Anche loro erano ad Assen quando il C.S.M. li aveva
inseguiti, e nonostante si fossero separati durante la fuga, erano
l’unico punto di riferimento per Namar. Le uniche persone a cui
avrebbe potuto chiedere aiuto.
Se voleva avere una possibilità di sapere dov’era,
doveva cercare di mettersi in contatto con loro. Si fiondò verso le
scale salendo due scalini alla volta, e tornò nella sua stanza.
Quando entrò, saltò gli oggetti che stavano ancora per terra e
raggiunse i vestiti che indossava quand’era arrivata e che
giacevano scomposti sopra lo schienale di una poltrona. Frugò dentro
le tasche dei suoi pantaloni. La mano si chiuse su qualcosa di
metallico e freddo. L’orologio che aveva regalato a suo padre. Lo
tirò fuori e lo guardò: quel piccolo dono era la causa di tutto. Lo
mise nella tasca della giacca che indossava, ripromettendosi di non
fare mai più lo sbaglio di lasciare in giro un oggetto del genere.
Era consapevole che non poteva assolutamente rimanere incustodito, e
che doveva venire aperto al più presto per scoprire che cosa
conteneva. Ma c’era una cosa ancora più importante da fare.
Sari cacciò la mano nell’altra tasca dei pantaloni,
sicura che questa vola avrebbe trovato ciò che cercava: infilò la
mano nel Ragno, e avvertì il contatto del palmo con la pietra nera,
gelida e liscia, che nell’istante successivo si accese di venature
dorate. Le pagliuzze si espansero, finché la pietra non fu di un
unico colore d’oro, e cominciò a brillare.
«Amaya?»
Nessuno rispose. Sari si morse il labbro. Sentiva il
cuore batterle furioso nel petto.
«Amaya, mi senti?»
L’istante successivo non successe nulla, di nuovo. Poi
finalmente una voce rispose all’appello della psicologa.
«Sari?»
Era Amaya. Sari tirò un sospiro di
sollievo, e si sentì immediatamente più tranquilla. Ce l’aveva
fatta, era riuscita a mettersi in contatto con la sua amica. Il suo
secondo pensiero fu che a giudicare dal tono di voce, l’elfa doveva
essere piuttosto sorpresa di sentirla. Una cosa che le fece uno
strano effetto e le diede una sensazione per nulla piacevole.
«Sari, stai bene?»
La voce di Amaya, filtrata attraverso il Ragno, sembrava
decisamente preoccupata. Sari si accigliò, spiazzata. Avevano
trovato Namar e lui gli aveva detto che lei era in pericolo, o erano
soli e pensavano che lei e l’evaso fossero ancora braccati dal
C.S.M.? Tra le due opzioni, Sari sperò nella prima.
«Certo. Piuttosto Amaya…»
«Lui non ti ha fatto nulla, vero?» la interruppe.
Il cuore di Sari mancò un battito. Namar li aveva
avvisati. Era con loro. Sentì la tensione scendere di colpo. «Namar
è con voi?»
«Era. Ma hai sentito quello che ti ho detto Sari? Quel
tizio…»
«Lo so Amaya. Mi ha aggredita.»
Dall’altra parte ci fu un pesante silenzio. Sari
sorrise, sapendo che quello era il tipico segno che precedeva
l’esplosione. Attese la reazione di Amaya in silenzio, ma dentro di
sé pensava alle parole dell’elfa.
Era. Il significato di quella
parola non le piaceva molto.
«Che cosa?!» Amaya era spiazzata, Sari lo capì
chiaramente. «Cos’è successo?»
«Nulla di grave, stai tranquilla. Voleva qualcosa, era
convinto che ce l’avessi io. Penso si tratti dell’orologio.»
«Ma l’hanno preso?»
Sari sospirò. La conversazione le stava riportando alla
mente preoccupazioni e ricordi spiacevoli. Si passò una mano tra i
capelli, nervosa.
«No. È lì fuori, da qualche parte.»
Dall’altra parte ci fu di nuovo silenzio.
Probabilmente l’elfa non si aspettava quella risposta, e Sari
avrebbe desiderato dargliene una diversa.
«Ti stanno tenendo sotto scorta?»
Le venne quasi da ridere. L’idea che Amos potesse fare
una cosa del genere rasentava la comicità.
«No. Comunque non c’è bisogno che ti preoccupi, sto
bene.»
«Come fai a dire che non c’è bisogno di
preoccuparmi? Sari, il tizio che ti ha aggredita è lì fuori, e
potrebbe rifarlo.»
Sorrise. In effetti avrebbe potuto, ma stranamente lei
aveva accettato il fatto che non poteva pretendere protezione da
Amos. Forse se avesse saputo chi era realmente colui che l’aveva
aggredita, si sarebbe deciso ad assegnarle una scorta, ma l’idea di
far sapere ad Amos che un altro dei suoi preziosi morfisti era ancora
in libertà le faceva venire la pelle d’oca. Preferiva rischiare il
peggio, piuttosto che aiutare quel vecchio a raggiungere i suoi
scopi.
«Prima hai detto che Namar era con voi. Dov’è ora?»
tentò di evitare l’argomento Jariel, cercando di ottenere così
anche informazioni sull’evaso.
«Lo abbiamo lasciato con Volker, ma non cambiare
discorso.»
Quella era una risposta che Sari non si aspettava. Lo
ricordava ferito; saperlo in giro era una delle ultime cose che si
sarebbe aspettata.
«E dove sono?» domandò, ignorando volutamente
l’ammonizione di Amaya, che sospirò accogliendo la decisione
dell’amica di non continuare il discorso riguardante l’aggressione
subita.
«Volker l’ha portato a Rosya da un medico di sua
conoscenza. Non so se lo sai, ma era ferito.»
«Sí, questo lo sapevo» annuì Sari con sollievo.
Lo stavano aiutando.
«Però forse c’è una cosa che non sai.»
Il cuore di Sari le salì in gola, minacciando di non
voler più scendere. Sentì riaffiorare quel presentimento spiacevole
e familiare.
«Eravamo quasi entrati in città quando le condizioni
di Namar si sono aggravate.»
La psicologa non seppe cosa rispondere, totalmente colta
alla sprovvista. Cominciò ad aver paura di cosa quelle parole
significassero. Non era sicura di volerne sapere di più, ma le sue
labbra si mossero prima che lei potesse fermarle.
«Che cosa gli è successo?»
Si stupì di come il suo tono fosse così concitato.
«Ha perso conoscenza.»
Sari sbiancò. Se era svenuto probabilmente aveva
perduto molto sangue, non le venivano in mente molti altri motivi. Si
coprì la fronte con la mano, e venne aggredita dallo sconforto. Non
sapeva cosa doveva fare, ed era terrorizzata. Aveva paura che le sue
condizioni potessero aggravarsi ulteriormente, portando Namar tra la
vita e la morte.
A quel pensiero, una morsa le attanagliò il cuore, e si
stupì dell’intensità di ciò che provava. Aveva paura di perdere
Namar, questo era innegabile, ma le sfuggiva il motivo. I suoi
sentimenti erano confusi, senza una forma precisa, e fare ordine tra
essi era un’impresa non da poco. Soprattutto in quel momento.
«Sari, ci sei?»
La voce di Amaya la riportò alla realtà.
«Sì, scusami. Dov’è questo medico?»
«Nel quartiere Est.»
Voleva vederlo. Desiderava sapere come stava, ne sentiva
il bisogno. Non poteva rimanere un momento di più chiusa in quel
palazzo, circondata da gente ipocrita, che faceva solitamente il
proprio interesse senza guardare in faccia nessuno.
Fu una decisione che prese senza neppure pensare, ma
nell’istante in cui parlò, Sari seppe che non avrebbe potuto
prendere in considerazione nessun’altra opzione.
«Puoi
portarmi da Namar?»
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Capitolo 22 *** verità ***
cap
Mancano tre capitoli alla fine senza
contare questo, epilogo compreso. La zona rossa sta per arrivare alla
fine, ma nei miei piani (che avevano progettato questa storia come
una trilogia) mancherebbero altri due “libri”. Sarò sincera: non
ho la più pallida idea di quando vedranno la luce, ho talmente tante
cose da fare e da scrivere che non saprei proprio quantificarlo.
Cercherò di capirlo, ma nel frattempo vi lascio al capitolo.
Un bacio e buona lettura.
21.
VERITÀ
*
Volker non riusciva a capire che cosa fosse successo.
Durante il viaggio aveva controllato spesso la ferita di Namar e,
grazie alla medicazione improvvisata, l’emorragia sembrava essersi
fermata.
Erano stati fortunati oltre ogni previsione: erano
riusciti a rubare un automobile che, nonostante fosse piuttosto
vecchia e facesse un rumore assordante, era pur sempre più comoda e
veloce di un cavallo. Ma non era bastato per evitare a Namar un
viaggio troppo stancante per una persona nelle sue condizioni.
Aveva notato come l’evaso stesse sempre peggio.
All’inizio Namar aveva accusato un mal di testa localizzato, che
secondo il suo parere avrebbe potuto spaccargli il cranio a metà. Ma
Volker non gli aveva dato molta importanza.
Poi il dolore aveva cominciato a espandersi, e tre ore
dopo erano cominciati i sudori freddi.
Preoccupato, Volker aveva
fatto il possibile per sbrigarsi a raggiungere Rosya, costringendo la
vecchia auto a compiere un notevole sforzo. Aveva cominciato ad
agitarsi quando aveva visto Namar tremare, e soltanto allora notò
quanto il viso dell’evaso fosse pallido, stanco e sofferente.
Aveva perso conoscenza a pochi chilometri dalle porte di
Rosya.
Erano entrati nella città passando per la zona Est, il
quartiere più malfamato e meno controllato della capitale. Quando
Volker era entrato in una di quelle case vecchie e ammuffite, che si
distingueva dalle altre per l’unica eccezione di un’insegna di
legno che recitava “casa del malato”,
il dottore aveva guardato ciò che reggeva in braccio con espressione
allarmata: un corpo molle la cui testa ciondolava all’indietro, il
volto bianco come un lenzuolo. Namar sembrava morto.
Ora Volker se ne stava lì, a guardare il dottore che
controllava la ferita e a pensare a cosa potesse essere successo.
Era sicuro che il suo malessere non fosse dipeso dal sangue che aveva
perso. Era riuscito a fermare l’emorragia, e per un po’ Namar
sembrava addirittura stare abbastanza bene. Tutto era cominciato
dopo.
Se avesse perso troppo sangue sarebbe svenuto subito, si
disse. Doveva essere qualcos’altro.
«Come sta?» domandò al
dottore.
«Non c’è emorragia. La ferita deve essere pulita e
disinfettata spesso, ma guarirà.»
Volker guardò con aria scettica il medico, che
armeggiava con diversi flaconi e delle bende.
«E lo svenimento
che ha avuto?»
Il dottore fece spallucce. «Stanchezza. Con una nottata
di sonno riprenderà le forze.»
Volker non disse nulla, ma dentro
di sé era perplesso: quelli non erano sintomi di stanchezza.
Qualcosa in Namar aveva ceduto, facendolo sprofondare con sé.
Guardò il dottore applicare la medicazione, e lo seguì
con lo sguardo anche quando scomparve oltre una porta e riapparve
alcuni istanti dopo, reggendo una coperta tra le braccia. Il medico
gli fece cenno di avvicinarsi a Namar.
«Levagli le scarpe, starà più comodo.»
Volker fece come gli venne chiesto, e la prima scarpa
scivolò con facilità dal piede di Namar. Ma quando sfilò la
seconda, Volker rimase impietrito e lasciò cadere la scarpa, che
cascò a terra con un tonfo: sulla pianta del piede era marchiata a
fuoco una M.
Una M che lui conosceva. Una M che faceva parte del suo
passato, che apparteneva a ricordi che lo perseguitavano. E
all’improvviso capì ogni cosa.
Probabilmente aveva un’espressione attonita, perché
il dottore si precipitò al suo fianco non appena si rese conto che
Volker non si muoveva, fermo a fissare quello strano simbolo. Ma
quando si rese conto di ciò che stava guardando- di quanto fosse
insignificante,
rispetto all’avere un paziente incosciente su letto-, il medico
tornò al fianco di Namar.
«Forza giovanotto, è ora di muoversi.»
Volker lo guardò serio. Sentiva un peso di cui doveva
liberarsi, ma sapeva anche che probabilmente non gli avrebbe creduto.
Aprì la bocca per parlare, per spiegare che quello che stavano
facendo era completamente inutile, ma non ne ebbe il tempo: la porta
alle loro spalle si aprì all’improvviso, e Volker non si stupì
affatto di trovarsi davanti Sari, in compagnia di Amaya e Silver.
La ragazza sembrava piuttosto preoccupata, e si lasciò
sfuggire un leggero gemito quando vide Namar sdraiato sul letto,
privo di conoscenza. Volker si fece da parte per lasciarla passare,
imitato dal dottore.
«Come sta?» domandò Sari. Era preoccupata, e la voce
tremante non contribuiva certo a nascondere la cosa. Il medico le si
avvicinò sorridendole bonariamente.
«La ferita non sanguina più. Il tuo amico avrà
soltanto bisogno di riposare per riacquistare le forze, dopo di che
tornerà come nuovo.»
«Va bene, grazie» Sari abbozzò un sorriso sollevato,
ma Volker non era affatto sereno. Continuava a guardare Namar senza
riuscire a non pensare, e ad Amaya non sfuggì la preoccupazione che
gli lesse nell’unico occhio che aveva.
Avrebbe voluto indurlo a confidarsi, ma quello non era
il momento migliore. Colse l’occasione al volo una decina di minuti
più tardi, quando uscirono dall’ambulatorio.
«C’è qualcosa che non va.»
«Già» mormorò Volker distrattamente, guardando
altrove.
Sari e Silver, dietro ai due, ascoltarono in silenzio.
«Mi sto riferendo a te, Volker. È da quando siamo
arrivati che hai la testa altrove.»
Quelle parole sembrarono
riscuoterlo. Guardò Amaya senza capire che cosa intendesse, e quando
ricevette soltanto uno sguardo accusatorio dall’elfa, si voltò
verso Sari e Silver, che non seppero cosa dire in sua difesa.
Volker sospirò, grattandosi la nuca in difficoltà.
Aveva spesso questa reazione, quand’era messo alle strette.
«Non mi credereste mai se vi raccontassi che cos’ho
per la testa.»
Alle sue spalle, Sari rise sommessamente. Una risata
distratta, amara. «Sí, pure io.»
«Ha qualcosa a che fare con
Namar?» domandò Silver.
«Direi proprio di sí» Volker sospirò di nuovo, e
Sari tese l’orecchio, improvvisamente attenta. L’uomo sospirò,
grattandosi di nuovo la nuca. Cominciò a ridacchiare nervosamente,
guardando per terra. Si sentiva a disagio.
«Mi prenderete per pazzo.»
Amaya alzò lo sguardo verso il cielo, sospirando:
«Piantala di preoccuparti, ti assicuro che sei ben lontano da una
diagnosi di schizofrenia.»
Volker fece per risponderle, ma Sari fu più veloce.
Articolò le parole senza neppure rendersene conto.
«Se ha a che fare con la vita di Namar, ti prego di
raccontarci tutto.»
L’uomo si voltò verso di lei e annuì. L’espressione
sul suo viso era grave, e per un attimo Sari ebbe timore di ciò che
le avrebbe detto Volker.
«Prima dovete sapere che cos’è veramente Namar.»
«Io lo so.»
Fu un’affermazione inaspettata. Amaya e Silver
guardarono Sari confusi, senza riuscire a capire. Ma Volker… Volker
era stupito, quasi sconvolto. E guardava la ragazza come se avesse
davanti un fantasma.
«… lo sai?»
«Intendi il fatto che sia un morfista?»
Volker era sempre più spiazzato. Improvvisamente, nei
loro sguardi ci fu qualcosa, una comprensione che aveva un sapore
amaro e terribile.
«Come fai a sapere dei morfisti?»
«Ho trovato i rapporti degli esperimenti condotti ad
Artika nella biblioteca della Corporazione.»
L’orrore si
dipinse sul viso di Volker, che si coprì la bocca con la mano.
«Allora è vero, facevano esperimenti…»
Sari annuì, ma Silver si intromise tra i due.
«Fermi tutti. Credo ci siano un po’ di cose che
dovreste spiegare anche a me e ad Amaya.»
«Sono d’accordo»
annuì l’elfa. Sari guardò gli amici, cercando le parole adatte
per affrontare ciò che doveva dire. Sentiva un enorme peso
opprimerle lo stomaco all’idea di ciò che avrebbe dovuto
raccontare.
«Avete ragione. Ho scoperto cose che non avrei mai
creduto possibili, sul conto di mio padre e di Artika. Il carcere è
una facciata che la Corporazione usa per coprire degli esperimenti su
cavie umane.»
Amaya e Silver la guardarono sgomenti, e Sari ebbe un
assaggio di come doveva esser stato il suo sguardo nel momento in cui
aveva letto quei rapporti. Prima pieno d’orrore e in seguito colmo
di rabbia. Continuò a raccontare, ben sapendo che la pena sarebbe
soltanto potuta aumentare.
«I maghi avevano trovato delle creature create in un
laboratorio demoniaco, capaci di assumere qualunque sembianza e in
grado di uccidere molte persone diffondendo delle onde di energia
demoniaca, prodotte nel cervello. Si chiamano morfisti. Quasi tutte
queste creature sono decedute durante gli esperimenti, assieme agli
esseri umani su cui i maghi avevano tentato di innestare le
ghiandole.»
E com’era prevedibile, quel racconto diffuse l’orrore
nello sguardo di Silver e Amaya. Volker guardava per terra, incapace
di sopportare ciò che poteva leggere nei loro volti, ma il magone
che sentiva dentro non voleva saperne di alleggerirsi.
Per quanto le costasse continuare a raccontare ciò che
aveva letto, Sari non voleva fermarsi. Dovevano sapere. Almeno loro
dovevano conoscere quello che avevano fatto i maghi e, soprattutto,
dovevano concedere una seconda possibilità a Namar. Non sarebbe più
stato il carnefice.
«Namar è un morfista, l’unico a essere sopravissuto
agli esperimenti condotti dai maghi.»
«Ciò non toglie che Namar
sia un assassino.»
Sari rimase basita dall’affermazione di Silver. Lo
guardò senza riuscire a comprendere la portata di quanto il
poliziotto aveva appena detto.
«Come?»
Silver sbuffò.
«Andiamo Sari, se questi morfisti possono uccidere più
persone nello stesso luogo e nello stesso momento tramite queste
onde, vuol dire che Namar ha davvero cancellato una città dalla
faccia della terra!»
Il tono con cui la stava aggredendo le fece salire il
sangue alla testa. Rispose senza neppure pensare.
«Hai provato a pensare a che effetti possano avere
quelle onde sul controllo di un morfista? Ti sei soffermato a
considerarlo, prima di giudicare?» alzò la voce, e a mala pena fece
caso ad Amaya che, al suo fianco, cercava di riportarla alla calma.
Silver per tutta risposta ridacchiò, incredulo.
«Io? Dovresti essere tu a soffermarti su quello che
stai dicendo, Sari. Stai difendendo uno che con o senza le onde ha
ucciso in una manciata di secondi migliaia di persone! Stai
difendendo un assassino!» anche Silver cominciò ad alzare la voce.
«Smettetela, o qualcuno vi sentirà» intervenne
Volker, ma anche i suoi sforzi erano vani di fronte allo sdegno della
psicologa.
«Credi che lo volesse?!»
«E tu credi di conoscerlo così bene da poter essere
sicura che non lo volesse?!»
Un pugno ben assestato contro lo
zigomo di Silver lo costrinse a desistere dal litigio. Il poliziotto
si coprì la mandibola, e guardò Volker furente. Anche Sari rimase
spiazzata dalla reazione del detenuto.
«La prossima volta ti lascio ad Artika» borbottò il
poliziotto senza allontanare la mano dal viso. Volker per tutta
risposa fece spallucce abbozzando un sorrisetto gioviale, godendosi
l’applauso che Amaya gli rivolgeva.
«Era l’unico modo per farvi smettere. Ora avrei io
qualcosa da raccontarvi, basta che non cominciate a litigare un’altra
volta.»
Silver esitò qualche istante massaggiandosi la mascella
e infine annuì. Sari, a sua volta, gli fece cenno di parlare.
«So cos’ha Namar, ma penso che prima vogliate sapere
cosa c’entro in tutto questo.»
Nessuno rispose. Tutti e tre
guardavano Volker in trepida attesa. L’uomo sorrise.
Un sorriso amaro.
Colpevole.
Stanco.
«Sono io che ho creato i
morfisti.»
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Capitolo 23 *** l'identità dietro la maschera ***
23
Non ci sono scuse
per questo ritardo, soprattutto considerando il fatto che i restanti
capitoli di questa prima parte di trilogia sono belli che pronti.
Metteteci i pensieri per gli ultimi esami prima della laurea,
l'estate che svuota il sito e i pochi (e per fortuna che ci sono!)
riscontri che questa storia sta avendo, e credo che abbiate un'idea
del mix che mi ha portata a pubblicare soltanto adesso. Ma come mi ha
giustamente fatto notare savy85, è passato tanto tempo dalla mia
ultima pubblicazione. Davvero tanto. E non ve lo meritate.
Penultimo
capitolo, poi ci sarà l'epilogo.
Buona lettura, se
ancora vorrete leggere (ma se direte no
grazie vi capisco!)
22.
L'IDENTITÀ
DIETRO LA MASCHERA
*
La reazione a quella notizia non fu proprio quella che
Volker si aspettava. Aveva immaginato un silenzio pesante, carico di
incredulità, stupore e forse addirittura di disagio, ma non avrebbe
mai immaginato che i suoi confidenti si sarebbero messi a ridere.
Eppure in quel momento Amaya, Silver e Sari si guardavano ridendo.
Volker li osservava contrariato con le braccia conserte,
come se fosse offeso.
«Mi fa piacere sapere che la cosa vi diverte.»
Fu come una doccia fredda: la sua espressione grave e il
tono di voce severo soffocarono le risate all’improvviso. Sari e
Silver si scambiarono sguardi colpevoli, dimenticando gli screzi
avuti poco prima, e Amaya sollevò le mani in un gesto di resa.
«Scusa, continua.»
Volker rimase in silenzio per un istante, studiando i
volti dei tre per cogliere un accenno di risata. Riprese a parlare
soltanto quando vide che il momento d’ilarità sembrava essere
davvero terminato.
E il racconto della genesi di ogni cosa cominciò.
*
Volker Kramer aveva un talento straordinario.
All’università di Rosya brillava su tutti i suoi compagni e
sembrava che tutto gli riuscisse con estrema facilità. Studiare gli
risultava decisamente semplice, e riusciva a comprendere anche la
materia più ostica senza troppi sforzi. Da piccolo non era certo un
bambino prodigio, ma gli piaceva la conoscenza. Fu così che divenne
un genetista.
La sua ossessione era comprendere l’origine della
personalità. I suoi studi al riguardo erano piuttosto noti tra i
suoi colleghi, mentre riscuotevano le antipatie dei pensatori che
simpatizzavano per il filone ambientale. La ricerca di un gene che
racchiudeva in sé la personalità futura di un piccolo feto lo
impegnava molto, ma non ne sentiva il peso.
La sua vita sociale risentiva del tempo che il
giovane passava chinato sul bancone da lavoro, circondato da provette
e vetrini, ma le soddisfazioni che il lavoro gli dava lo ripagavano
dei sacrifici che faceva ogni giorno.
Finché questa sua dedizione non venne notata dalle
persone sbagliate.
Soltanto i muri di un vicoletto assistettero alla sua
aggressione. Volker non fece neppure in tempo a voltarsi: quando
sentì dei passi alle sue spalle, ormai era già tardi. Qualcuno lo
colpì con violenza alla nuca, il cielo si capovolse, e infine ci fu
il buio.
Quando rinvenne, non aveva idea di quanto tempo fosse
rimasto privo di sensi. L’unica cosa che sapeva era che la testa
gli faceva male, e che era rinchiuso in una cella umida.
Davanti a lui c’era un corridoio di pietra, che
finiva con delle scale che salivano chissà dove. Cominciava ad avere
timore. Si alzò in piedi e scrutò il corridoio: non c’era
nessuno, neppure un secondino.
Chiamò una, due, tre volte. Nessuno rispose. Stava
cominciando ad arrabbiarsi. Voleva delle spiegazioni, e le voleva
subito. Aspettò un’ora o forse anche di più, ma alla fine
qualcuno arrivò. Sentì dei passi scendere gli scalini, finché non
lo vide: un uomo alto, dai capelli lisci e neri, lunghi fino a metà
busto. Il suo viso, illuminato dalla luce di una torcia, aveva
lineamenti affilati. I suoi occhi sembravano non voler abbandonare la
figura di Volker che, nella sua cella, già sentiva che quel tipo non
gli ispirava fiducia. Quando guardò la figura che si trascinava
dietro di lui, reggendo un vassoio in mano, quasi sobbalzò dal
ribrezzo: il suo corpo aveva una forma umanoide, ma era leggermente
ricurvo. La sua pelle era rugosa e grigiastra, e quando la creatura
oltrepassò l’uomo, alla luce della torcia sembrò anche bagnata.
Ma ciò che più impressionava Volker era il volto: la bocca
mostruosa lo rendeva inquietante, deturpandone i lineamenti. Infiniti
denti uscivano dalle gengive, acuminati come aghi, e le labbra non
riuscivano a coprire quella fila di zanne gialle. Sembrava
un’immagine onirica, una creatura nata dalla parte più oscura
delle proprie paure. Eppure era reale.
La creatura fece scorrere il vassoio sotto le sbarre
della cella, e Volker lo guardò con sospetto. L’uomo sembrò
trovare la cosa divertente.
«Suppongo che sia la prima volta che vedi un
Abixal.»
Volker lo guardò senza capire, e l’uomo indicò
con un cenno del capo la creatura accanto a lui, che gorgogliava
sputacchiando versi senza senso.
«Siete demoni?»
L’uomo annuì, porgendo la torcia all’Abixal. La
creatura la afferrò, stando però ben attento a distogliere lo
sguardo dalla fonte della luce.
«I loro occhi non riescono a sopportare fonti
luminose troppo intense o vicine, dal momento che
vivono in zone buie e umide. Tuttavia hanno un
quoziente intellettivo straordinario, cosa
decisamente rara per un Minor… Sai che cos’è un
Minor, vero?»
«Al momento mi interesserebbe di più sapere il
motivo per cui sono prigioniero, piuttosto che
sapere cos’è un Minor» sbottò Volker con lo
sguardo ben piantato su quell’uomo, che sorrise. Un sorriso
meschino, tipico di un demone.
«Ho una proposta da farti. Una proposta che non
potrai rifiutare, s’intende.»
*
Non aveva afferrato il reale significato di quelle
parole. Non immaginava neanche lontanamente fin dove si spingesse la
minaccia velata che vi si nascondeva dietro. Quando quel demone
–Sarmon il suo nome- gli espose la proposta, Volker rifiutò
sdegnato. Avrebbe dovuto costruire un’arma di distruzione di massa.
Un’arma letale. Infallibile. Perfetta.
Avrebbe dovuto sfruttare le sue conoscenze nel campo
della genetica per generare creature artificiali. Vite nate per
donare la morte.
L’idea lo riempiva d’orrore.
Il suo rifiuto non piacque affatto a Sarmon, che
dimostrò la sua disapprovazione per quella risposta privando Volker
di una parte del corpo. La notte in cui il demone scese nei
sotterranei del laboratorio, impugnando un tizzone ardente, le grida
del prigioniero rimbombarono nelle viscere della terra per istanti
interminabili, spargendo il loro carico di atrocità. Da quel giorno
a Volker rimase soltanto l’occhio destro, eppure la tortura subita
non fu sufficiente a far desistere l’uomo dalla sua posizione.
Quando Sarmon gli ripropose di collaborare con i
demoni, la risposta che ottenne fu nuovamente negativa. E per Volker
si spalancarono le porte dell’inferno.
Tutto partì dalla testa: quando la mano gelida del
demone si posò sulla fronte ,il suo corpo, tenero e fragile, venne
scosso da atroci dolori e spasmi insopportabili. Scariche elettriche
si insinuavano nelle fibre più nascoste dei muscoli. Volker cadde a
terra contorcendosi su se stesso, gridando come credeva di non poter
mai fare in vita sua, e per la prima volta da quand’era stato
rapito era davvero terrorizzato.
Una paura folle. E un dolore indicibile.
Tutto terminò con una luce che si irradiava dal suo
petto, e all’improvviso la sola cosa che sentì fu un grande
indolenzimento: poco sotto la clavicola era comparso uno strano
marchio, una specie di cerchio arcano con simboli magici. Guardò
Sarmon tremante, e ciò che lesse nei suoi occhi non gli piacque per
niente. Aveva lo sguardo del vincitore.
«È un sigillo.»
«Cosa mi hai fatto?» il sussurro di Volker era
debole, ma pieno d’ira.
Sarmon sogghignò.
«Ora dentro di te si sta diffondendo un cancro. Sai
cos’è l’energia demoniaca?»
«COSA MI HAI FATTO?!» il grido di Volker era
disperato. Le mani gli tremavano, come probabilmente tutto il resto
del corpo, ma la sola cosa che l’uomo sentiva chiaramente era che,
se si fosse sentito un po’ più in forze, gli avrebbe spaccato la
faccia.
«L’energia demoniaca è la linfa vitale che scorre
in noi demoni. Ovviamente il nostro corpo è compatibile ed è tenuto
in vita da questa linfa, ma il corpo umano è del tutto diverso da
quello della mia razza. Un essere umano in cui venisse diffusa
l’energia demoniaca non riuscirebbe a sopravvivere a lungo, perché
essa lo divorerebbe lentamente, donandogli dolori atroci che
diventerebbero insopportabili con lo scorrere del tempo. Ora non
senti più niente, perché quel sigillo la sta reprimendo,
impedendole di intaccare il tuo corpo. Ma non durerà in
eterno.»
Volker non smise di tremare. Il suo corpo era scosso da
sussulti di rabbia, la stessa che sconvolgeva il suo viso. Avevano
trovato il modo di fregarlo. O collaborava, o perdeva la vita tra
dolori atroci. E la scelta spettava a lui.
Sarmon guardò Volker compiaciuto, beandosi della
rabbia violenta che gli rivolgeva contro.
«È un vero peccato che
tu sia così ostinato. Se collaborassi potrei aiutarti, sai. Potrei
toglierti quel cancro che ti sta divorando» sorrise, un’espressione
che stonava decisamente con ciò che stava dicendo. «… perché lo
sai che ti divorerà.»
Volker non rispose. Si limitò a sostenere lo sguardo
di Sarmon affrontandolo con la rabbia che ormai gli scaldava il
corpo, ma dentro era disperato. Si sentiva un condannato a morte. Per
quanto detestasse l’idea di collaborare al loro progetto, quello
era l’unico modo per aver salva la vita.
Ma non rispose.
«Tornerò più tardi. Pensaci.»
Quel bastardo rideva. La situazione in cui l’aveva
messo lo divertiva, Volker lo poteva sentire chiaramente dal suo tono
di voce e dall’espressione. Rideva di lui.
Lo guardò allontanarsi e risalire le scale, e
soltanto allora si lasciò cadere in ginocchio, lasciando che il
demone che portava dentro lo aggredisse con il suo carico di
angoscia. E pianse di rabbia e impotenza. Al buio. Solo.
*
Volker capitolò, come Sarmon già sapeva. Furono
mesi di ricerche frenetiche, in cui l’uomo dovette lavorare fianco
a fianco con i demoni. Era l’unione della genetica e della magia
demoniaca. Fu la nascita della genetica nera.
Non si fermò un solo istante. Lavorava giorno e
notte, e nei pochi momenti in cui gli era consentito riposare
crollava addormentato nella sua cella senza neppure avere il tempo di
perdersi nei suoi pensieri. Forse fu questo che lo salvò dalla
pazzia.
I ritmi di lavoro non gli pesavano affatto. Non
perché gli piacesse ciò che stava facendo, ma per il semplice
motivo che prima portava a termine il suo compito e prima gli
avrebbero tolto l’energia demoniaca.
Volker non sapeva quanto quel sigillo avrebbe retto
e, stando a quanto diceva Sarmon, poteva durare anni, come giorni. Un
incentivo in più per mantenere attivo lo spirito di collaborazione
del giovane.
Effettivamente gli anni passavano, e il sigillo non
dava segni di cedimento. La cosa bizzarra era che fisicamente Volker
non cambiava di una virgola: era esattamente uguale a quando
l’avevano rapito.
Sarmon gli spiegò che era a causa dell’energia
demoniaca. Era come una bomba a orologeria, disse. Minacciava di
cominciare a mangiarlo da un momento all’altro, non appena il
sigillo avesse ceduto di fronte ai suoi assalti. Eppure, la sua
presenza contribuiva a mantenere statiche le cellule: non morivano,
né si rigeneravano. Le teneva a bada, aspettando di cominciare a
cibarsi della sua vita.
Quando avesse notato qualche cambiamento nel suo
corpo, allora avrebbe significato che l’energia demoniaca aveva
indebolito il sigillo, e stava cominciando a diffondersi nel corpo.
La notizia rese Volker ancora più smanioso di
terminare in fretta il suo lavoro.
E finalmente, un giorno il primo morfista aprì gli
occhi.
*
Furono di parola, in un certo senso. A Volker venne
ridata la libertà, come avevano promesso, ma lui era ancora un morto
che camminava.
Sul suo petto c’era ancora il sigillo a far la
guardia alla sua vita, e dentro Volker l’energia demoniaca
serpeggiava, ricordandogli in ogni istante che presto avrebbe preso
il sopravvento.
Era solo, completamente. E doveva combattere in
qualche modo ciò che minacciava di ucciderlo. Doveva trovare un modo
per salvarsi, ma non sapeva come.
Poi, all’improvviso ebbe un’idea, che lo portò a
frequentare ambienti poco raccomandabili. Punti d’incontro tra
maghi, demoni, elfi e umani. Un paradiso per il mercato nero, un
posto dove chi era interessato ad acquistare oggetti illegali e molto
rari poteva fare ottimi affari.
L’idea era quella di accostarsi a questi ambienti
nel tentativo di trovare qualcuno, o qualcosa, che potesse aiutarlo,
e nel frattempo cominciò a condurre ricerche. Allevò draghi, le
creature che per eccellenza erano figlie della magia nera, con la
speranza che potessero svelargli i loro arcani misteri e potessero
fornirgli un modo per neutralizzare l’energia demoniaca.
Quando imboccò questa strada non immaginò di certo
che l’avrebbe condotto verso un’altra prigionia, come non avrebbe
mai potuto pensare che proprio quella strada l’avrebbe portato di
fronte a uno dei suoi figli.
E, ironia della sorte, lui, che aveva ricevuto una
condanna a morte per poter dare vita ai morfisti, aveva l’occasione
di salvare uno di loro.
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Capitolo 24 *** condanna a morte ***
23
23.
CONDANNA
A MORTE
*
Il racconto li aveva sconvolti. Inizialmente la notizia
che Volker fosse il creatore dei morfisti sembrava così irreale da
aver suscitato l’ilarità di tutti, ma quando l’uomo finì la sua
storia, sul gruppo scese un silenzio pesante. Gli sguardi di Silver e
Amaya erano di pietà per quell’esistenza sacrificata, ma in Sari
c’era tutt’altro.
Qualcosa che sapeva di speranza. E di preoccupazione.
«Quindi che cos’ha Namar?»
«Credo che stia cominciando a rigettare le cellule
demoniache.»
Com’era prevedibile, ricevette solo sguardi confusi
come risposta. Si passò una mano tra i capelli, grattandosi la nuca.
«La ghiandola che produce le onde elettromagnetiche è fatta di
cellule demoniache, mentre il resto del loro organismo è composto da
cellule umane. Quest’ultime sono straordinariamente versatili e
molto suscettibili alle mutazioni, come nel caso dei maghi. Credo che
tutti voi sappiate che i maghi sono il frutto dell’evoluzione
filogenetica degli esseri umani, non è vero? »
Quando ricevette
dei cenni d’assenso come risposta, proseguì: «Le cellule che
costituiscono la ghiandola sono impregnate di energia demoniaca, che
è quella che le mantiene in vita. In laboratorio, molti morfisti
morivano prima di aprire gli occhi perché l’organismo rigettava la
ghiandola, mentre altri duravano un po’ di più. Ma il risultato
era irrimediabilmente lo stesso» guardò Sari, e indugiò per un
istante. «… Credo che stia succedendo la stessa cosa a Namar.»
La psicologa rimase stordita dalla portata di quelle
informazioni, e non ebbe la forza per replicare.
Namar stava morendo.
Stava morendo.
Non sarebbe mai riuscito a lottare per la sua libertà.
Non avrebbe mai potuto coltivare la speranza di vivere libero. Non
gli era concessa neppure l’illusione di poter lottare contro chi lo
voleva rinchiuso in una gabbia, perché sarebbe morto comunque. Non
si sarebbe mai liberato dalle catene invisibili che lo legavano ai
suoi aguzzini. Avevano vinto loro.
Barcollò verso l’ingresso dell’ambulatorio,
trascinando i piedi. Si sentiva impotente, e quella sensazione non le
piaceva per niente. Qualcuno la fermò afferrandola per un braccio, e
quando si voltò vide Volker davanti a lei che scuoteva la testa in
un cenno negativo.
«Ti consiglio di stare lontana da lui. Anzi, lo
consiglio a tutti voi» aggiunse guardando Silver e Amaya. Il
poliziotto si accigliò, allarmato.
«Che vuoi dire?»
«Dobbiamo portare Namar in un posto isolato il più
presto possibile. Proprio perché il suo corpo sta rigettando la
ghiandola, lui è estremamente pericoloso.»
Nessuno rispose. Su di loro serpeggiava il dubbio. Le
parole di Volker non erano molto chiare, ma lasciavano intuire quale
fosse la preoccupazione dell’uomo. E la cosa non era per niente
piacevole.
«Non ha più il controllo sulla ghiandola. Se dovesse
avere una crisi, potrebbe ripetere la strage di Halifax.»
Fu come ricevere una botta in testa.
Sari guardò Volker, e il suo sguardo chiese perché.
Scosse il capo, non volendo accettare la situazione. Strappò il
braccio dalla presa dell’uomo e raggiunse l’entrata
dell’ambulatorio.
Non avrebbe abbandonato Namar, si disse.
Nella sua vita la maggior parte della gente che conosceva era
corrotta e ipocrita, falsa fino al midollo. Se per evitare il
pericolo doveva lasciar morire in solitudine una delle poche persone
oneste che conosceva, allora preferiva rischiare. Namar non sarebbe
stato più solo.
Quando raggiunse il suo letto, sentì che non aveva
scelta. Il suo cuore non le avrebbe mai permesso di scappare. Si
sedette sulla sponda del letto di fianco a lui e, nel momento in cui
il materasso cedette sotto il suo peso, l’evaso aprì gli occhi e
la guardò.
Sari gli sorrise.
«Come ti senti?»
Namar non rispose. Tipico, pensò Sari mentre l’evaso
si guardava attorno. Quando si rese conto che non conosceva quel
posto, tentò di alzarsi. Era allarmato.
«Devo andare via.»
Sari lo costrinse a rimettersi sdraiato, sbuffando.
«Devi riprendere le forze. E la ferita deve
rimarginarsi del tutto, prima che tu possa rimetterti in piedi.»
Namar fece una smorfia, imprecando sottovoce. Era
contrariato. Vederlo così nutriva Sari di speranza, ma la ragazza
sapeva che non poteva tenergli nascosto che cosa gli stava
succedendo.
Aveva il diritto di saperlo, ma raccogliere il coraggio
per dirgli che quella guerra aveva richiesto come prezzo la sua vita,
era una delle cose più difficili che dovesse fare.
Fece per parlare, ma Namar la fissò all’improvviso,
gli occhi sgranati. Si guardò attorno guardingo, prima di tornare su
Sari.
«Lui dov’è?»
La ragazza rimase interdetta, senza capire. Poi,
improvvisamente un’immagine le attraversò la mente.
«Abidos… anzi, Jariel è scappato.»
«Ha fatto qualcosa di strano?» la stava studiando con
attenzione.
Sari capì: temeva che lei avesse scoperto l’esistenza
dei morfisti. Probabilmente aveva paura della sua reazione. Abbozzò
un sorriso, annuendo.
«So tutto, Namar.»
«Tutto?»
«Sí. So chi sei, so cosa sei. So tutto.»
L’evaso la guardò perplesso, poi controllò che
nessuno stesse ascoltando quella conversazione. Afferrò Sari per il
bavero della maglia, e la tirò verso di lui. La ragazza attutì la
caduta con le mani, ritrovandosi con il viso accanto a quello di
Namar. Sentì il cuore accelerare il battito cardiaco, ed ebbe
l’impulso di ritrarsi. Probabilmente l’avrebbe pure fatto, se non
avesse significato spezzarsi il collo.
«Tutto da dove inizia?»
le sussurrò all’orecchio.
Sari farfugliò mugugni, distratta da quel contatto
inaspettato. Cercò di prestare attenzione alla domanda che lui le
aveva posto, per evitare situazioni ambigue che avrebbero fatto
divertire Namar alla follia. Chiuse gli occhi, cercando di
immaginarsi da sola in una stanza buia.
«Da Volker che ti ha creato, fino agli esperimenti che
i maghi facevano su di te ad Artika. Ti basta o vuoi sapere altro?»
gli rispose, e quando sentì la presa di Namar venire meno, saltò
indietro come una molla. Namar la stava guardando con occhi sgranati.
«Cosa vuol dire che Volker mi ha creato?»
«Esattamente quello che ho detto. È stato lui a creare
i morfisti» biascicò, sentendo caldo.
Stava arrossendo, e non
andava bene. Era imbarazzata, e andava ancora peggio. Namar se ne
sarebbe accorto e sarebbe stata la sua fine.
Ma, per sua fortuna, l’evaso era rimasto troppo
sorpreso da quella notizia, per notare un tale particolare.
«Non avrei mai detto che fosse così intelligente da
riuscire in una tale impresa» sghignazzò tra sé, e Sari tirò un
respiro di sollievo. Ma poi sentì quel familiare nodo alla gola
risalire verso l’alto, l’istante successivo. Doveva dirglielo.
Doveva sapere.
«… Namar?»
«Mh?»
Non riuscì a parlare. Lo guardò come se
fosse lei a dover morire. Fece un bel respiro e raccolse tutto il suo
coraggio.
«Tu stai morendo.»
L’evaso non batté ciglio. Si limitò a rivolgerle uno
sguardo indecifrabile, al punto che la ragazza pensò che forse non
aveva capito.
«Namar, hai sentito quello che ti ho detto?»
«Certo.»
La calma che Namar dimostrò sconvolse Sari, che non
riusciva a comprendere come potesse rimanere così sereno dopo una
notizia del genere. Aveva immaginato che si sarebbe arrabbiato, che
avrebbe gridato e che avrebbe cercato di fare il possibile per
evitarlo. Invece non aveva neppure chiesto spiegazioni.
«Non ti tocca neanche un po’?»
Namar rise. Una risata rauca, proveniente dalla gola.
«Noi siamo carne da macello. Gli altri dispongono della
nostra vita a loro piacimento, e il resto del mondo non sa neppure
che esistiamo. E se lo sapesse, non ci accoglierebbe certo con
benevolenza.»
Sari rimase freddata. Ascoltò in silenzio le sue
parole, che suonavano molto come una critica verso di lei. Verso la
sua ingenuità.
«Però non è giusto…» farfugliò, e Namar la guardò
con commiserazione.
«Pensavo che avessi finalmente capito che la giustizia
non esiste.»
Sari distolse lo sguardo, non sapendo come ribattere.
Come poteva rispondere di fronte a tanto cinismo? Non poteva neppure
biasimarlo: chiunque sarebbe diventato così disfattista se avesse
passato anche solo la metà di ciò che Namar aveva vissuto. E
nessuno l’avrebbe mai potuto criticare per questo.
«Io non ho un posto nel mondo, Sari. Ho provato molte
volte a crearmelo, e ci proverò finché non sarà la mia ora. Ma se
morirò prima di averlo trovato, allora non avrò perso niente.»
«Ma…»
«La mia non è stata una vita vera, Sari. Se dovessi
scegliere tra continuare a vivere come una cavia da laboratorio e
morire, sceglierei sicuramente la seconda.»
«Questo non è da te» sentenziò la psicologa
alzandosi in piedi e guardando Namar con risentimento. L’evaso la
guardò con curiosità, nascondendo le mani dietro la testa.
«Trovi? E come mai?»
«Perché sei sempre stato pronto a combattere per te
stesso, e non accetto di vederti così rassegnato!» era sconvolta.
Non riusciva a capire come quella notizia non lo toccasse
minimamente.
«Non sono rassegnato, ma sereno. Non mi spaventa la
morte, mentre a quanto sembra tu ne sei terrorizzata» la guardò con
un sorrisetto enigmatico.
Si sollevò lentamente, e le fece cenno di tornare a
sedersi sul letto.
Sari rifiutò, rimanendo immobile a braccia conserte.
Namar sbuffò, e il sorriso gli si cancellò dal viso
come neve al sole.
«Siediti. Non farmi arrabbiare.»
Sari decise di obbedire, ricordando quanto aveva detto
Volker riguardo al suo autocontrollo. Era meglio non provocarlo.
Quando si sedette, Namar sembrò molto più rilassato.
«Sai qual è la differenza tra me e te? È che tu hai
vissuto, mentre io sono soltanto esistito. Per me c’è stato solo
tormento. Se dovrà arrivare la mia ora prima di quello che mi
aspetto, così sia.»
Sari non seppe come rispondere. Guardò altrove e si
domandò se sarebbe mai riuscita ad accettare la situazione, così
come l’aveva accettata Namar.
«È la ghiandola che ti sta uccidendo» disse
voltandosi verso di lui.
L’evaso lasciò che lei spiegasse come stavano le cose
esattamente, lasciò che le raccontasse anche del rischio di ripetere
la strage avvenuta sette anni prima. Namar ascoltò ogni cosa senza
battere ciglio, e parlò solo quando Sari terminò di raccontare.
«Quindi mi porterete in qualche posto isolato. Per me
va bene» concluse, annuendo.
Sari rimase in silenzio, lo sguardo
fisso in mezzo al nulla. Si sentiva svuotata. Era come se lei fosse
il passeggero di un treno arrivato al capolinea dopo un viaggio lungo
e stancante, ma meraviglioso. Namar aveva accettato tutto fino in
fondo e lei, che non ne era coinvolta in prima persona, non riusciva
a non opporsi. Si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita, ma
Namar la chiamò. Sari rimase in attesa di qualcosa senza avere il
coraggio di voltarsi. Aveva la sensazione che se l’avesse guardato,
lui avrebbe potuto leggere la fragilità della sua anima solo dallo
sguardo.
«Hai detto che è a causa della ghiandola?»
Sari era così pensierosa da non notare lo strano tono
con cui Namar le aveva posto la domanda. Si limitò ad annuire con un
cenno del capo prima di uscire.
Trovò i suoi amici fuori, accanto alla porta
dell’ambulatorio. A giudicare dalle loro espressioni dovevano aver
sentito la conversazione che aveva avuto con Namar, ma Sari non disse
nulla.
Notò una macchina parcheggiata lì davanti, un vecchio
fuoristrada nero. La guardò senza capire.
«Ho parlato con il dottore. Gli ho spiegato la
situazione. Quasi tutto, insomma… Ha detto che ci presta la
macchina per portare Namar lontano da qua» spiegò Silver.
«Ma ha bisogno di riposare» obiettò Sari senza
distogliere lo sguardo dal veicolo.
La sua voce uscì debole e poco convinta.
«È importante che venga portato al più presto in un
luogo isolato, prima che possa avere una crisi che potrebbe fargli
perdere il controllo. Non c’è da scherzare, Sari» Volker
intervenne non appena la sentì protestare.
La ragazza annuì debolmente con il capo, ormai arresa
di fronte a quella terribile evidenza.
«Già.»
L’uomo le
diede un buffetto sulla spalla prima di entrare nell’ambulatorio
assieme a Silver. Lei seguì ogni loro movimento come un cane da
guardia, li vide avvicinarsi al letto di Namar e parlare con lui.
Volker gesticolava, il morfista annuiva. E cercava di rimettersi in
piedi, aiutato dai due uomini.
Amaya le posò una mano sul braccio e lo strinse in una
morsa gentile. Sari le sorrise, riconoscente. Poi scorse un guizzo
luccicante nell’altra mano, e le vide: due chiavi, probabilmente
del fuoristrada. Namar si incamminò verso l’uscita
dell’ambulatorio, appoggiato a Silver e Volker, e in quel
momento Sari sentì la determinazione darle nuova
speranza.
Non ebbe neppure bisogno di riflettere.
«Guido io» si offrì sfilando le chiavi di mano ad
Amaya, che le sorrise e annuì. Caricarono Namar sul sedile di fianco
al posto del guidatore, e andarono a salutare e ringraziare il
dottore che aveva curato l’evaso. Volker era in testa al gruppo,
Sari in coda: nessuno le stava prestando attenzione. Nessuno
sospettava quali fossero le sue intenzioni.
Rallentò il passo, e quando gli altri ebbero girato
l’angolo, con uno scatto si voltò e volò fino alla macchina.
Sbatté la portiera così forte che ebbe paura di averla rotta.
L’adrenalina le faceva tremare le mani, e dovette tentare tre volte
prima di riuscire a infilare la chiave nella toppa dell’accensione.
E quando la girò, il motore si svegliò con un rombo.
Namar la guardò divertito fare retromarcia e partire.
Si accomodò con le mani dietro la testa.
Sorrise, ironico.
«Il rapitore diventa rapito. Bel cambio di ruoli,
dottoressa.»
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Capitolo 25 *** epilogo ***
25
ATTENZIONE!
Visto che questa storia è a un passo dalla
fine, oggi ho fatto doppio aggiornamento. Quindi prima di leggere
l'epilogo assicuratevi di aver letto anche il capitolo precedente.
Per quanto riguarda eventuali note di servizio,
vi rimando alla fine dell'epilogo.
24.
EPILOGO
*
Jariel camminò lungo il corridoio, con Nova al suo
fianco. La demone lo guardava sorridendo malevola, gioendo della
brutta situazione in cui versava il morfista.
«Sarmon non è affatto contento di te.»
«L’hai già detto» mormorò a denti stretti Jariel,
spazientito.
«Mi stavo chiedendo quanto pesassero la sfortuna e
l’incapacità nel tuo fallimento. Eri così vicino a prendere i
rapporti…» Nova scosse il capo, con l’intento di provocarlo.
Odiava con tutto il cuore i morfisti, creature degne
soltanto di leccare le scarpe ai demoni. Erano scarti di laboratorio
che davano soltanto problemi, e come se non bastasse erano anche
terribilmente arroganti.
Li avrebbe massacrati e avrebbe bevuto volentieri il
loro sangue, se soltanto Sarmon glielo avesse permesso. Ma per ora
l’unica soddisfazione che poteva ricavare dallo stare a contatto
con quelle creature miserabili, era prendersi gioco della loro
inferiorità.
«Mi stavo chiedendo quanto dureresti, se io ora volessi
ucciderti» Jariel allungò una mano per toccarle la fronte, con un
sorriso gelido.
La demone la scacciò con un gesto veloce e potente,
come se Jariel fosse un petardo impazzito.
«Prova a toccarmi di
nuovo e ti massacro, miserabile» sputò veleno, ma il morfista non
ne rimase troppo impressionato.
Sollevò appena le sopracciglia, fingendosi stupito.
«Divertente. Ora ho di meglio da fare che sprecare il
mio tempo con te.»
Senza aggiungere altro la superò, dirigendosi
con ampi passi alla fine del corridoio e oltrepassando il portone.
Entrò nella sala dove Sarmon l’aveva già fatto convocare una
volta e, come in precedenza, lo trovò seduto sul trono.
Quando lo vide entrare, Sarmon si alzò in piedi e gli
si fece incontro. Non gli diede neppure il tempo di aprir bocca: la
mano destra scattò all’improvviso, colpendo Jariel sul volto con
il dorso.
Il morfista non ebbe il coraggio di guardare il suo
signore in viso: mantenne lo sguardo basso, sottomesso. Sentiva su di
sé lo sguardo glaciale di quel demone, ne avvertiva l’ira vibrante
e pericolosa.
Sarmon era la creatura che gli aveva donato la vita, che
le dava un senso. Come suo creatore poteva decidere di porre fine
alla sua esistenza in ogni istante. E in quel momento Sarmon non
doveva essere molto felice. Nova aveva maledettamente ragione.
Non osò parlare. Aveva timore persino a respirare.
«Jariel, cos’è successo?»
«La ragazza non aveva mai manifestato i suoi poteri e…»
«Questa cos’è, una scusa?» la voce di Sarmon era
pericolosamente ironica.
«No, mio signore. Ce l’avevo in pugno, ma sono
arrivate le guardie.»
«Ti ho dotato di una ghiandola per uccidere, Jariel.
Perché non l’hai usata?»
Non rispose. Le cose si stavano mettendo male. Se non
trovava il modo di calmare Sarmon, sarebbe stato ucciso sicuramente.
Poi all’improvviso si ricordò di lui.
Namar.
Sollevò lentamente lo sguardo per scrutare il
viso di Sarmon, ma quando si accorse che il demone lo stava
guardando, tornò a fissare il pavimento.
«Ho scoperto una cosa interessante, nonostante tutto.»
Sarmon lo guardò, scettico. «Prega che sia davvero
interessante.»
Jariel deglutì nervosamente.
«La ragazza era in compagnia di un morfista del vecchio
laboratorio demoniaco.»
Silenzio. Aveva raggiunto lo scopo. Jariel sorrise
impercettibilmente, ma già sapeva di aver vinto. Sollevò lentamente
lo sguardo. E notò che la notizia aveva davvero colpito Sarmon.
«Vuoi dire che questo esemplare era in buone
condizioni?»
Jariel annuì, anticipando le mosse del demone.
Conosceva bene i suoi desideri, le sue aspirazioni e i suoi timori. E
sapeva che cosa stava pensando.
«È straordinario che sia durato così a lungo.»
Sarmon rimase in silenzio, tornando a sedere. Lì,
nascosto dalla penombra, per chiunque il suo volto non sarebbe stato
visibile, ma per gli occhi di un morfista vedere al buio era uno
scherzo. E Jariel vide bene il sorriso vittorioso di quel demone.
Un’espressione che non prometteva nulla di buono.
«Portamelo.»
*
Quando uscirono dall’ambulatorio, l’auto era sparita
e di Sari non c’era traccia. Amaya si coprì gli occhi, scuotendo
il capo. Era colpa sua.
«Non avrei dovuto darle le chiavi» mormorò,
consapevole del fatto che Sari rischiava la vita ogni secondo che
trascorreva accanto a Namar.
Guardò Silver, ma il poliziotto scosse il capo.
«No Amaya. Questa è stata una sua scelta, e l’ha
presa conoscendo bene ciò che sta rischiando. Se vuoi andare a
cercarla fai pure, ma questa volta io non verrò.»
Amaya guardò Silver allontanarsi, presa alla
sprovvista. Non poteva dargli torto, in fin dei conti: Sari non era
una bambina. Ma nonostante tutto, lei non riusciva a non essere
preoccupata per le sorti dell’amica.
Sospirò, indecisa sul da farsi. Guardò Volker, sapendo
che quello era un addio. La sua parte l’aveva fatta, e ora sarebbe
andato per la sua strada a cercare la salvezza.
«Immagino che continuerai le tue ricerche…»
Volker annuì, sfiorando con la mano una ciocca di
capelli dell’elfa.
«Penso di sí» mormorò distratto.
Sorrise bonariamente, interrompendo il contatto.
«È stato un piacere conoscerti, Amaya Lyrem.»
L’elfa rimase immobile al suo posto, composta come
sempre. Ma, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, lo
accettò. Accolse la sua gentilezza, che questa volta stranamente era
pura, senza malizia né ironia.
Gli sorrise. Un sorriso vero, sincero.
«Anche per me, Volker Kramer.»
Lui sembrò indugiare, con le mani affondate nelle
tasche dei pantaloni e un sorriso bonaccione stampato sul viso. E
quando si voltò, Amaya lo fermò afferrandolo per un braccio.
Il sorriso malizioso sul volto di Volker crollò non
appena incrociò lo sguardo dell’elfa. Uno sguardo attento.
Sospettoso.
«Cosa succede?» domandò spiazzato, mentre lei gli
controllava i capelli.
Ma Amaya non rispose, e quel silenzio non piacque
affatto a Volker.
Lasciò che l’elfa cercasse ciò che voleva trovare,
mentre il cuore gli galoppava nel petto. Pensò subito al sigillo. Se
aveva cominciato a perdere efficacia, non gli rimaneva molto tempo.
Pregò con tutto se stesso che Amaya non trovasse nulla, nessun segno
che potesse testimoniare un cambiamento del fisico.
Non aveva mai domandato a Sarmon che tipo di alterazioni
potessero significare un indebolimento del sigillo. Lui aveva detto
una qualsiasi.
Alla domanda di Amaya, il suo cuore quasi smise di
battere per il terrore.
«Hai mai avuto capelli bianchi?»
*
Sari non aveva idea di dove andare. Aveva preso la
macchina senza nemmeno pensare a una destinazione. Guidava alla cieca
sulla strada deserta, scegliendo a caso la direzione da prendere a
ogni incrocio. La situazione divertiva parecchio Namar, glielo
leggeva in faccia.
Aveva un’espressione divertita, quasi saccente,
sicuramente irritante. Era in quello stato da quando avevano lasciato
Rosya, e ormai era passata più o meno un’ora. Lui non aveva più
aperto bocca dopo quell’ultimo commento, e ogni tanto distoglieva
lo sguardo dal paesaggio e si concentrava su di lei. Quando lo
faceva, Sari era quasi sicura che quel sorrisetto si allargava ancora
di più, o almeno era quello che la ragazza riusciva a cogliere con
la coda dell’occhio.
Dopo l’ennesima volta, Sari sbuffò, lanciando a Namar
un’occhiata scocciata.
«La vuoi piantare?»
«Qui dentro l’unica che sta facendo qualcosa sei tu.»
«Sto guidando. E tu stai ridendo» puntualizzò con una
punta di acidità nella voce.
Namar sogghignò, tornando a guardare la strada.
Silenzio. Sari gettò un’occhiata rapida allo stereo.
Era un modello molto vecchio. Lo indicò con un cenno della testa.
«Prova ad accenderlo.»
L’evaso la guardò di nuovo, ancora con
quell’espressione irritante che la fece esplodere.
«Piantala,
non ti sopporto più!»
Per tutta risposta Namar ridacchiò. Continuò a
guardarla, questa volta con una punta di curiosità.
«Perché mi hai portato via?»
Sari fu grata di dover tenere lo sguardo sulla strada,
perché non aveva nessuna voglia di guardare Namar in quel momento.
La sua domanda era troppo personale; rispondergli la imbarazzava.
«Mi piace pensare che ci sia ancora qualcosa che si
possa fare per te.»
«Quindi l’hai fatto per pietà» concluse Namar, ma
qualcosa nella sua voce suggeriva a Sari che la stesse prendendo in
giro.
L’evaso rimase in silenzio per alcuni istanti, poi
guardò la ragazza. Si era fatto improvvisamente serio.
«Qualcosa ci sarebbe, in effetti. Avevo intenzione di
occuparmene quando mi avreste lasciato da solo, ma ora che hai
combinato tutto questo casino ho paura che dovrò costringerti a
venire con me» terminò sogghignando, e Sari si limitò a sorridere.
C’era qualcosa da poter fare. Qualcosa che poteva
salvare Namar.
Rallentò di fronte all’ennesimo incrocio, indecisa su
che direzione prendere. Namar le indicò la via a destra, e Sari la
imboccò subito.
«Di cosa si tratta?» domandò senza distogliere lo
sguardo dalla strada.
«Se il mio problema è la presenza della ghiandola,
l’unica soluzione è rimuoverla.»
«Ma è rischioso, potresti rimanere menomato!»
«Credi che mi rivolgerò al primo macellaio che mi
trovo davanti? Dottoressa, forse ti è sfuggito un dettaglio.»
Non riuscì a mantenere l’attenzione sulla strada.
Doveva necessariamente guardarlo per leggere nei suoi occhi che cosa
gli stava passando per la testa. Le sarebbe bastato anche un breve
istante, una frazione di secondo. Ma quando si voltò verso di lui,
le venne istintivo premere il freno: Namar era diverso. Ora che
poteva mostrare il suo vero aspetto senza timori, le sembrò più
inquietante che mai. Eppure aveva l’impressione di ammirare un
tesoro segreto di cui soltanto lei era a conoscenza.
I capelli neri ricadevano indisciplinati davanti al
viso, e Sari non si sarebbe mai abituata a quegli occhi completamente
bianchi, sporcati solo dalla pupilla verticale. Quegli occhi
demoniaci, che la guardavano con una luce folle che non prometteva
nulla di buono.
«… andiamo a trovare il mio secondo padre,
dottoressa. Andiamo dai demoni.»
FINE
NOTE DELL'AUTRICE
Non ricordo se l'ho detto qui oppure nel mio gruppo
facebook, fatto sta che La zona rossa è la prima parte di una
trilogia che si chiama Morfero
(per motivi che ora dovrebbero essere ovvi :P). Sarò sincera, le
altre due parti non sono state ancora scritte e non so se e quando lo
saranno, motivo per cui ho pensato di inserire nel gruppo un
documento contenente gli spoiler degli altri due libri, in modo tale
da potermi scusare, per quanto possibile, qualora questa storia non
dovesse mai vedere la sua vera conclusione. In questo documento non
penso metterei la fine della saga, ma per chi lo volesse sapere basta
che mi contatti privatamente chiedendo informazioni: svuoterò
completamente il sacco :P
Se siete interessate a
leggere il documento con gli spoiler basta che chiediate l'iscrizione
a Questioni Scrittevoli, sarete subito accolte con biscotti e
pasticcini.
Un saluto, e se siete
arrivate fino a questo epilogo, beh... vi risarcirò i danni fisici e
morali che questa schifezza databile col carbonio 14 vi ha procurato
:P
A presto,
Brin
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