La zona rossa

di Brin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** vivere a Rosya ***
Capitolo 3: *** dibattuta ***
Capitolo 4: *** guardare la morte in faccia ***
Capitolo 5: *** un nome che non c'è ***
Capitolo 6: *** Artika ***
Capitolo 7: *** rinascita ***
Capitolo 8: *** rapimento ***
Capitolo 9: *** inseguimento ***
Capitolo 10: *** confidenze ***
Capitolo 11: *** la città dei reietti ***
Capitolo 12: *** il gatto e il topo ***
Capitolo 13: *** il cerchio si stringe ***
Capitolo 14: *** nel buio del camino ***
Capitolo 15: *** fuga ***
Capitolo 16: *** un posto nel mondo ***
Capitolo 17: *** verso la libertà ***
Capitolo 18: *** i tre nomi del tradimento ***
Capitolo 19: *** rabbia ***
Capitolo 20: *** la zona rossa ***
Capitolo 21: *** una persona importante ***
Capitolo 22: *** verità ***
Capitolo 23: *** l'identità dietro la maschera ***
Capitolo 24: *** condanna a morte ***
Capitolo 25: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** prologo ***


lzr
Alla fine l'ho fatto. Ho ripescato questa storia dal cilindro delle mie storie.
Mi son detta che se non l'avessi fatto, probabilmente La zona rossa non avrebbe mai visto la luce su EFP perché il tempo è quello che è e la revisione di questa storia sarebbe andata a data da destinarsi.
Così ho preso il coraggio a due mani (che fatica, non vi dico l'ansia!!), ho mandato a farsi benedire le mie fregole da perfezionista e ho deciso di sottoporvi questa storia così com'è stata concepita e scritta qualcosa come cinque anni fa. Perciò prendete una buona dose di coraggio, mettetevi comode e buona lettura!

Ps: un grazie enorme alla mia insostituibile Roberta, l'autrice del meraviglioso banner di questa storia. Non saprei davvero come fare senza di te, amor!





 


1.
PROLOGO



*



I fiocchi di neve scendevano leggeri e silenziosi, una nevicata fitta che possedeva la grazia crudele tipica della natura più selvaggia. Non c’erano luci che potessero vincere la cortina di nubi che sovrastava Halifax; neppure la luna, ridotta a un pallido alone, riusciva a disperdere il candore spettrale che teneva prigioniero il cielo.
Ecco cos’era diventata la città: un panorama irreale senza forme né colori, che sfumava verso i contorni onirici e indefiniti di un incubo. Un paesaggio sempre uguale, muto. Sommerso.
Erano bastate poche ore e una nevicata corposa per ricoprire ogni cosa, nascondendo le strade, le case e gli alberi sotto una cortina di neve che era destinata a crescere.
Halifax era diventata improvvisamente una città immobile, estranea allo scorrere del tempo, e lui… Lui era come un parassita; l’unico a camminare in quell’ambiente inospitale, come un fantasma appartenente a tempi passati.
Non c’era altro rumore che non fosse il crepitio ovattato della neve che si infrangeva sotto i suoi piedi: non un movimento, né calore, né vita. Sembrava essere rimasto l’unico sopravvissuto in quella città monocromatica e spettrale, l’ultima persona a percorrere quelle strade deserte.
Arrancava con difficoltà, ormai giunto al limite delle proprie forze.
Ogni passo gli risultava più faticoso del precedente e, nonostante cercasse disperatamente di non fermarsi, la neve sembrava volerlo imprigionare con le sue mani invisibili. Respirare poi era un’agonia: l’aria gelida gli mozzava il fiato, lo costringeva a boccheggiare per cercare ossigeno nel tentativo di trovare un compromesso con il dolore.
Tremava convulsamente, gli arti intirizziti dal freddo lancinante. Probabilmente aveva più di qualche taglio sulle labbra: il bruciore, ormai divenuto una compagnia costante, lo stava facendo impazzire. Non sarebbe riuscito a reggersi in piedi ancora a lungo, lo sapeva bene, ma il bisogno disperato di continuare a camminare lo costringeva a ignorare la fatica. Si sentiva terribilmente debole, ma non gli importava.
Non poteva fermarsi, non doveva. Non ora che si trovava davanti all’enorme porta che delimitava l’uscita dalla città.
La stanchezza lo pugnalò alla schiena, infida e traditrice; le ginocchia cedettero, ma nella sua mente quel grido non cessava.
Esci.
Respirò a fondo e il gelo gli trafisse i polmoni come se fosse un coltello. Faceva dannatamente male. Si impose di compiere un ultimo sforzo, sentì i muscoli protestare, ma la disperazione rendeva la sua volontà più forte di qualsiasi dolore.
Esci!
Riuscì a oltrepassare la porta e finalmente si concesse di cedere alla stanchezza, stremato. Si accasciò al suolo come se fosse un corpo senza vita, e rimase con lo sguardo basso per minuti interminabili. Sconvolto.
Non ricordava nulla.
La sua mente era costretta nel caos, un brodo informe in cui pensieri sconnessi si susseguivano senza dargli tregua; un groviglio privo di ordine che sfuggiva al suo controllo. Per quanto cercasse di raccapezzarsi su cosa fosse accaduto mentre il corpo sfuggiva al suo controllo, la memoria gli restituiva nient’altro che frammenti in ombra; immagini sfuocate senza forma.
L’unica cosa che sapeva con certezza era che la sua testa era rimasta avvolta nel buio più totale per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, prima di essere investita da una luce accecante e tremenda. Quando si era reso conto dello scenario agghiacciante che lo circondava aveva gridato ancora e ancora, piegato da un orrore che non avrebbe mai voluto vedere. Un orrore che era la sua croce e che era ancora lì, alle sue spalle.
Sapeva qual’era la scena che sarebbe apparsa ai suoi occhi se si fosse voltato: per uscire da Halifax era stato costretto a passargli accanto. Aveva fissato quegli occhi sbarrati e vuoti, quelle bocche contorte, spalancate in smorfie del dolore più indicibile. Loro da una parte e lui dall’altra, di fronte alle porte dell’abisso. Separati dal confine della morte.
Tremò e diede di stomaco, ma si costrinse a guardarli. Voleva imprimersi per sempre quella desolazione nella memoria per non dimenticare. Per lottare contro un destino che non riconosceva. Per opporsi al motivo per cui era nato.
Quando guardò ciò che rimaneva della città, lottò contro l’impulso di distogliere lo sguardo. Doveva imprimersi nella mente quella visione e alimentare il suo odio.
Cadaveri.
Centinaia di corpi contorti riversi a terra, coperti da un leggero strato di neve; le mani chiuse a pugno, le membra tese dagli spasmi. Gli occhi pieni dell’orrore che li aveva condotti alla morte, le bocche ormai silenziose spalancate in grida disumane.
Questa era la sua vita. La sua natura.
Avrebbe voluto fuggire dal suo destino, ma non era possibile.
Lo sapeva bene: questo incubo non avrebbe mai avuto fine.


*


Erano passate diverse settimane dall’inizio della primavera, e Rosya sembrava rinascere assieme alla bella stagione. Era la città più grande e popolata, la capitale del regno di Silindril. La più bella, secondo la maggior parte delle persone.
Rappresentava il vanto degli elfi, la razza che l’aveva costruita dalle fondamenta. Quando arrivarono i maghi assieme agli uomini, poi, Rosya subì una commistione di stili che la rese del tutto particolare. Durante l’inverno la sua bellezza sembrava dormire, ma con l’avvento della primavera il sole la faceva brillare come un gioiello. Si diceva che nelle giornate più limpide il suo splendore arrivasse lontano, oltre l’immensa distesa d’acqua che separava il regno dalla terra dove abitavano i demoni, e facesse rodere d’invidia quelle creature oscure che potevano vantare solamente buio e rovina.
Quel giorno, in particolare, le conferiva un lustro e una maestosità d’eccezione: raramente Rosya era stata testimone di mattine così calde e soleggiate. Camminare per le strade che si perdevano negli angoli più pittoreschi, con il tepore del mezzogiorno a baciare il viso, era un’attività che poteva risultare piuttosto piacevole e i commercianti ne approfittavano per invogliare i passanti con promesse di deliziose focacce appena sfornate.
Purtroppo per loro, però, gli affari avrebbero dovuto attendere: nell’aria c’era un fermento impaziente, la gente scalpitava davanti al dipartimento di polizia e mormorava preoccupata per quel caso che aveva destato molto scalpore.
Del resto, nessuno avrebbe potuto biasimarla.
L’intenso vociare proveniente dal cortile era un sottofondo che non spezzava la tensione nella stanza. Un uomo in uniforme era appoggiato contro il muro, con le braccia incrociate al petto e un cipiglio serio che stonava sul suo volto maturo e di bell’aspetto. Portava i capelli corti, com’era in uso tra le forze dell’ordine, e i suoi occhi nocciola studiavano con attenzione la persona che gli stava davanti. Quando parlò, la sua voce rivelò un’inflessione profonda e severa.
«È stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
La domanda parve cadere nel vuoto. Nessuna risposta, soltanto silenzio. Il suo interlocutore, un giovane uomo di circa vent’anni, guardò annoiato il poliziotto e si accomodò con i piedi sopra al tavolo. Aveva gli occhi grigi, di una tonalità così scura da renderli decisamente particolari. Quando l’agente sospirò stizzito, l’interrogato si aggiustò una ciocca di capelli neri che gli cadeva indisponente davanti un occhio, e abbozzò un leggero sorrisetto.
Sembrava non avere intenzione di collaborare.
Il poliziotto gli si parò di fronte con fare intimidatorio, deciso a farlo parlare, ma il giovane non rimase affatto impressionato. Gli rivolse uno sguardo strafottente, come se negasse la sua autorità, come se sfidasse il suo ruolo di agente.
«Se anche fossi stato io non lo verrei certo a dire a lei, quindi in entrambi i casi la risposta è no» gli rispose con indifferenza. Per il poliziotto fu troppo: con una manata gettò i piedi dell’imputato a terra, e si protese verso di lui con aria minacciosa. Lo avrebbe costretto a collaborare, che lo volesse o meno.
«Si rende conto della gravità della situazione? È l’unico superstite della strage di Halifax, città alla quale per altro non apparteneva. È accusato di omicidio di massa, signor Warknife!»
«La ringrazio dell’informazione, ma lo avevo intuito» rispose con un ghigno ironico.
Il poliziotto fu costretto a distogliere lo sguardo nel tentativo di mantenere il sangue freddo.
Se voleva conservare la propria autorità e avere una possibilità di strappargli una confessione, l’ultima cosa che doveva fare era mostrarsi agitato. Doveva assumere un atteggiamento severo, duro, per nulla permissivo. E soprattutto controllato.
Gettò un’occhiata spazientita verso il lungo specchio unidirezionale incastrato nella parete. Sapeva che i suoi colleghi potevano vedere e sentire ogni cosa, ma in quel momento non potevano aiutarlo a mantenere la calma. Tutto dipendeva dalle sue capacità, e l’impressione che l’uomo seduto di fronte a lui si divertisse a giocare con la sua pazienza non aiutava di certo.
Sospirò, pronto ad affrontare di nuovo un confronto con il presunto assassino.
«Glielo chiederò un’altra volta: è stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
«Perché mi fa questa domanda se sa già che qualunque cosa io dica finirò comunque ad Artika? »
«Non risponda alla mia domanda con un’altra domanda! »
Si rese conto di aver alzato la voce soltanto dopo essersi lasciato scappare quelle parole. Warknife lo osservò per un attimo prima di rispondere.
«Lei vuole una risposta, giusto? Un sí o un no? »
«La pregherei di rispondere alla mia domanda fornendomi una risposta, signor Warknife.»
«La mia risposta l’ho già data, agente Silver» concluse pacato, osservando la targhetta che brillava sul petto del poliziotto.
«Vorrei che fosse più chiaro.»
Il giovane uomo guardò Silver di sottecchi prima di alzarsi, ma i due nerboruti agenti di guardia gli furono subito addosso. Lo costrinsero a sedersi, sfruttando la tacita minaccia di una punizione corporale che pochi stolti avrebbero scelto.
«L’accoglienza è piuttosto calorosa» commentò con sarcasmo, ma la battuta scivolò addosso a Silver senza alcun effetto.
«Per piacere, mi risponda con un sí o con un no: è stato lei a... »
«Prima di gettare il mio no nella spazzatura assieme a tutte le scartoffie che ci sono nel suo ufficio, mi faccia un favore: la smetta di chiedermi se sono stato io ad aver sterminato quella città, visto che sa già che non cambierà nulla.»
Quella risposta lasciò Silver decisamente confuso: non se l’aspettava. Non riusciva a capire che cosa volesse ottenere. Gli sembrava alquanto strano che rinunciasse con così tanta facilità a difendere la propria innocenza, ammesso che ce l’avesse. Di questo passo Artika sarebbe stata una tappa sicura per quel giovane, e non c’era una sola persona al mondo che non sapesse che una volta entrati era impossibile uscirvi.
Rimase interdetto, incapace di formulare una risposta, e Warknife ne approfittò per alzarsi. I due agenti della sicurezza gli furono addosso nell’istante successivo, afferrandogli saldamente le braccia per impedirgli una possibile fuga. Lo sbatterono addosso al tavolo, incollandogli la faccia alla superficie fredda. Ma dall’espressione del ragazzo, Silver intuì che tentare di fuggire non era il suo piano. Sembrava stanco.
«È finito l’interrogatorio, agente Silver? La scorta mi sta aspettando fuori e credo che siano piuttosto impazienti di buttarmi a marcire in una cella ad Artika.»
«Se non vuole collaborare e raccontarci che cosa è successo esattamente, dubito che potrà evitare di alloggiare in una suite del carcere di massima sicurezza, signor Warknife.»
«E se le dicessi che non ricordo nulla di ciò che è accaduto, lei mi crederebbe? »
«No.»
«Ecco, appunto. Quindi perché sta sprecando del tempo se la mia sorte non può cambiare?»
«È la procedura.»
«Ottima motivazione, agente Silver. Davvero ottima» sentenziò con sarcasmo prima di riuscire a vincere la resistenza dei due agenti della sicurezza e alzarsi. Silver portò rapidamente una mano alla fondina, estraendo la pistola e puntandogliela contro. Aveva fatto male i suoi calcoli. Aveva abbassato la guardia, e se il prigioniero fosse riuscito a fuggire sarebbe stata soltanto colpa sua.
«Fermo lì.»
Warknife osservò la pistola con indifferenza, per nulla intimorito. Non alzò neppure le mani.
«Si rilassi, agente Silver. Non ho intenzione di fare nulla» mormorò, gettando un’occhiata fugace allo specchio unidirezionale. I due agenti della sicurezza gli furono di nuovo addosso, costringendolo a sedersi. Silver abbassò la pistola, ma notò qualcosa nello sguardo di Warknife. Un guizzo che non riuscì a decifrare.
«Comunque…» cominciò l’interrogato continuando a guardare lo specchio unidirezionale «... riferite pure ai vostri strizzacervelli che se mi devono analizzare possono farlo benissimo anche senza nascondersi dietro a uno specchio. Essere spiato mi infastidisce.»
Silver rimase spiazzato, e la prima cosa che si chiese fu come facesse a sapere di essere l’oggetto di una perizia psicologica. Guardò lo specchio, ben sapendo che non sarebbe riuscito a vedere dall’altra parte. Come aveva fatto? Quando riportò l’attenzione su Warknife, quest’ultimo non ci mise molto a cogliere la domanda negli occhi del poliziotto. Sulle sue labbra si disegnò un sorriso sottile. Sornione.
«So che cos’è uno specchio unidirezionale agente Silver, e so anche che può rivelarsi estremamente utile per osservare un soggetto senza influenzarne il comportamento. In un caso come il mio, il parere di qualche strizzacervelli è necessario, non è d’accordo?»
«Ma come... Lei mi ha forse...» Silver divenne ancora più stupito. Warknife sogghignò con una luce maligna nei suoi occhi, per la prima volta da quando era entrato nella stanza.
«Non sia banale agente Silver, ce l’ha scritto in faccia. Come potrei leggerle nel pensiero? Sono soltanto un insignificante essere umano, non un demone» terminò facendogli notare l’assenza di canini pronunciati, tipici della morfologia demoniaca.
Il poliziotto lo guardò negli occhi con cipiglio serio, sostenendo il suo sguardo che sembrava deriderlo. Sospirò, scuotendo leggermente il capo, avvilito.
«Come vuole, Warknife.»


*


Quando i due agenti lo trascinarono fuori dalla stanza, il prigioniero non oppose alcuna resistenza.
Prima di attraversare l’uscio guardò Silver negli occhi, sorridendo ambiguamente.
«Ci vediamo, agente.»
Parole che suonarono come l’atto finale di una lunga commedia, o almeno questa era l’impressione che avevano suscitato nel poliziotto. Lo vide prendere un profondo respiro prima di uscire per andare incontro al suo destino, e in quel momento Silver seppe che l’immagine di quel ragazzo, con i polsi e le caviglie incatenati, lo avrebbe accompagnato per molto tempo. Gli era capitato tante volte di trovarsi davanti a persone strafottenti, che sfidavano la sua autorità apertamente. Ma nessuno era Warknife.
Nessuno aveva mai dimostrato la calma che lui aveva mantenuto durante l’interrogatorio. In molti si disperavano, o aggredivano con le parole. Aveva visto persone passare in pochi istanti da uno stato di euforica esaltazione alla più cupa disperazione, ma l’atteggiamento calmo e rassegnato di Warknife era una vera rarità.
Aveva accettato senza turbamento un destino che l’avrebbe condotto a vivere i suoi ultimi giorni di vita in una cella, prima dell’esecuzione capitale: anche questo faceva parte dell’alone di mistero che sembrava circondarlo da quando era stato ritrovato a gironzolare attorno alle mura di Halifax come un’anima intrappolata nel mondo dei vivi, l’unica presenza in una città fantasma i cui abitanti erano tutti misteriosamente morti.
Silver ricordava chiaramente ciò che gli era stato riferito dopo un lungo passaparola. Si mormorava di quest’uomo che vagava, confuso. Ogni altra creatura nell’intera città era stata ritrovata priva di vita, e la cosa più insolita era lo stato in cui erano stati rinvenuti i cadaveri: non c’era neppure una singola chiazza di sangue. Tutti i corpi erano perfettamente intatti.
Sembrava che il tempo si fosse fermato, e con esso anche la veglia dei suoi abitanti. Benché si cercasse una spiegazione razionale, però, nessuno riuscì mai a dire che cosa fosse realmente accaduto quel giorno.
Sbuffando e maledicendo i propri pensieri, Silver afferrò la cartella che si trovava sopra il tavolo e uscì dalla stanza. Percorse il corridoio finché raggiunse la porta accanto. La camera dello specchio: così chiamavano la stanza adibita alle osservazioni degli interrogatori. Non era molto grande, e delle lampadine incassate sul soffitto illuminavano l’interno.
Tre persone stavano discutendo dell’interrogatorio a cui avevano assistito: due ragazze e un uomo anziano. Reggevano delle cartelle contenenti fogli e una penna per scrivere annotazioni. Quando si accorsero della presenza del poliziotto, si zittirono.
Silver sorrise, imbarazzato per aver interrotto quello scambio di opinioni. L’uomo gli si avvicinò: era il professor Santos, uno dei più famosi ed esperti psicologi criminali di tutta la regione. Grazie alla sua età aveva molta pratica alle spalle, ma nonostante tutto sembrava non voler lasciare il lavoro che amava. La calvizie avanzava inarrestabile e tutto ciò che aveva in testa erano pochi capelli grigi, ma i suoi occhi rivelavano una vitalità e una lucidità mentale che scarseggiavano in gran parte dei suoi coetanei. La sua vasta esperienza lo rendeva indispensabile alla polizia, per non parlare della sua bravura: spesso veniva chiamato per fornire un prospetto psicologico degli indiziati nei casi più complessi. Come se non bastasse era titolare di una cattedra d’insegnamento alla scuola per Psicologi di Rosya, ed era decisamente probabile che le due ragazze fossero sue allieve: erano piuttosto giovani, e a giudicare dall’aspetto dovevano avere all’incirca diciassette anni. Una -la più alta e slanciata- aveva i capelli neri, portati raccolti in una coda lunga che lasciava scoperte le orecchie. La loro foggia era tipica della razza elfica. La targhetta assicurata sul suo camice portava il suo nome.
Amaya Lyrem.
L’altra aveva i capelli castani, tenuti raccolti in una crocchia fermata con una matita mangiucchiata. Era umana, al contrario dell’amica.
Sari Kalabis, questo il nome sulla sua targhetta.
Capitava spesso che degli studenti frequentassero il dipartimento di polizia per svolgere attività di tirocinio, perciò Silver non si stupì più di tanto nel trovare lì le due ragazze. A giudicare dal soggetto con cui svolgevano il loro praticantato, dovevano essere anche piuttosto in gamba.
«Victor, amico mio» Santos salutò il poliziotto con una poderosa stretta di mano. Silver gli porse i fascicoli, guardando con curiosità lo psicologo.
«Allora, cosa ne pensi?» gli chiese mentre l’uomo apriva e dava una rapida occhiata al materiale nelle sue mani. Santos rimase in silenzio per alcuni istanti, leggendo in velocità il contenuto dei fascicoli.
«Il ragazzo è sicuramente molto lucido. Ha coscienza di tutto ciò che dice e dell’effetto che ogni sua parola ha sui soggetti che lo ascoltano, e il giocare con quell’effetto lo diverte molto. È furbo, e dubito che possa aver avuto veramente un raptus come lui stesso indirettamente sostiene. Non posso dirti di più se prima non lo sottopongo a test più specifici» concluse lo psicologo porgendo i fascicoli a Silver, che scosse impercettibilmente il capo.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani.
«Temo non sia possibile: ad Artika non concederanno più di tre giorni, a uno come lui.»


*


La folla era rimasta in attesa all’esterno dell’edificio, e la ferocia delle sue grida aumentava con il passare delle ore. Gli agenti della sicurezza riuscivano a stento a mantenere l’ordine, e i cittadini minacciavano da un momento all’altro di oltrepassare le transenne. Erano impazienti, arrabbiati, e chiedevano giustizia.
Per Silver scene come questa non erano nuove: la popolazione era sempre stata particolarmente sensibile verso i crimini efferati. Soltanto le due studentesse sembravano a disagio, in mezzo a quel frastuono. Quando erano usciti dal dipartimento le aveva avvisate, cercando di prepararle a quello che avrebbero visto nel cortile, ma evidentemente non era stato sufficiente.
All’improvviso la folla cominciò ad agitarsi ancora di più, cercando di sfondare le transenne per riversarsi verso l’entrata dello stabile: Warknife stava uscendo.
Era letteralmente circondato da argenti armati, mentre altri due poliziotti lo aspettavano di fronte al blindato che avrebbe dovuto condurlo ad Artika. Aveva i piedi incatenati, in modo che non potesse compiere grandi passi, mentre una camicia di forza gli immobilizzava le braccia e le mani. Tutt’attorno, la folla fischiava e gridava pesanti insulti, che scivolarono addosso al prigioniero come fossero acqua. Warknife si limitò ad accennare un sorriso vagamente strafottente, abbassando il capo e osservando di sottecchi tutta quella gente chiassosa e sputasentenze. Quando i poliziotti lo spinsero avanti costringendolo ad avanzare, con la coda dell’occhio riuscì a scorgere una figura familiare.
Si voltò, salutando Silver con un cenno della testa. Un saluto che il poliziotto non ricambiò.
Lo sguardo di Warknife si posò sulle giovani ragazze accanto a Silver, indugiando sui caldi occhi nocciola di una delle due. La sua statura e soprattutto la forma delle sue orecchie gli suggerivano che fosse un’umana. Il suo sguardo spaesato lo fece sorridere: sembrava che per lei fosse impensabile tutta quella ostilità, nonostante la folla gridasse con insistenza la sua colpevolezza per quel crimine orrendo definendolo un assassino.
La ragazza distolse lo sguardo, a disagio. Quel modo di guardare; quella luce negli occhi di quell’assassino, così penetranti, così impudenti, così comunicativi...
Aveva colto ciò che quello sguardo voleva comunicarle.
Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non è come sembra.
E la forza con cui quel messaggio era penetrato in lei la turbò.
Era una frase disillusa, di chi è stato segnato da troppe cose.
Ma in lui non sembrava esserci lo sguardo dell’assassino.
Non in quel momento.




*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Come forse avrete immaginato, questa storia è totalmente diversa da ciò che ho scritto fin'ora (non che abbia scritto molto, per carità!), e non solo per quanto riguarda lo stile, sicuramente molto più acerbo rispetto a quello attuale. Questo capitolo e il prossimo sono introduttivi, vi avviso, la vera storia inizierà dal terzo capitolo. Ma spero che il gioco saprà valere la candela ;)

Vi ricordo che potete trovarmi su facebook con il mio contatto e nel mio gruppo: mi fa sempre piacere poter scambiare due chiacchiere con voi!

Ci rivedremo giovedì prossimo con il secondo capitolo de La zona rossa, dal titolo Vivere a Rosya. Un saluto,

Brin

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Capitolo 2
*** vivere a Rosya ***


2



2.
VIVERE A ROSYA



*


Suo padre la stava guardando seduto dall’altra parte del tavolo, con gli occhi che gli brillavano d’amore. Non aveva il coraggio di interrompere il racconto appassionato di Sari riguardo agli studi che lei stava conducendo, e la ascoltava parlare con un sorriso orgoglioso che le scaldava il cuore.
La guardava come se fosse il suo tesoro più prezioso, con quegli occhi scuri e profondi che esprimevano tutto l’affetto unico, speciale e indissolubile che lega un genitore alla sua unica figlia.
Lo stesso sentimento che anche la madre di Sari gli leggeva in volto.
Quel giorno Adrian era tornato a casa con una notizia che aveva messo tutta la famiglia di buon umore: aveva ricevuto una promozione. L’impegno e la dedizione che aveva sempre profuso nel lavoro avevano dato i loro frutti. Sarebbe stato trasferito ad Artika l’indomani, per raccogliere l’eredità del suo predecessore alla guida del reparto di psicologia e psichiatria del carcere. Un motivo più che sufficiente per festeggiare.
Avevano organizzato una festa piuttosto intima: solo loro tre, da soli. Non avevano bisogno d’altro per stare bene. Erano felici. Sari poi era così orgogliosa di suo padre da commuoversi. Quando aveva saputo della sua promozione era corsa a setacciare tutti i negozi assieme alla madre, alla ricerca di un regalo importante, lo stesso che stringeva tra le mani in quel momento. Era chiuso in un pacchettino luccicante, piccolo ma grazioso.
«Un pensiero per te» sorrise mentre glielo porgeva, emozionata. Lui scartò il regalo, rigirandoselo tra le mani mentre lo guardava con meraviglia: era un orologio da taschino in argento, piccolo ed elegante. Le sorrise e l’abbracciò, porgendole un bacio amorevole sulla fronte.
«Grazie bambina mia.»
«Papà, non ho più cinque anni» lo ammonì, guardandolo contrariata. L’uomo si mise a ridere.
«Hai ragione, Sari. Sono un caso irrecuperabile.»
La madre della ragazza -Emma il suo nome- guardò i due scherzare, e sorrise. Per quanto il marito si sforzasse di trattare Sari come un’adulta, ai suoi occhi sarebbe sempre rimasta la figlia fragile da tenere nel nido, al sicuro dai pericoli del mondo.
«Che cosa ti ha regalato, Adrian?»
«È un orologio, tesoro» rispose sollevando il regalo.
Guardandolo sorridere felice in compagnia della sua famiglia, Sari fu colta dalla malinconia. Dal giorno successivo l’avrebbe rivisto soltanto durante le feste e in qualche raro fine settimana. Avrebbe vissuto per la maggior parte dell’anno negli alloggi allestiti appositamente per il personale del carcere, senza di loro. Senza di lei.
Doveva ancora partire e già sentiva la sua mancanza come se le avessero strappato un pezzo di cuore.
Suo padre. Il suo modello. Il suo idolo.
Sorrise.
Un sorriso triste, di una ragazzina dodicenne costretta a separarsi dal padre tanto amato.
«Buona fortuna.»
Le immagini del sogno sfumarono, e Sari mugugnò ancora intontita dal sonno. L’orologio sul suo comodino segnava le sette della mattina: un’autentica tragedia, per lei che aveva l’assoluta necessità di alzarsi con tutta calma e prepararsi senza fretta. Schizzò giù dal letto e si precipitò in bagno, con le immagini del sogno che facevano da sfondo al martellante pensiero di essere in ritardo.
Si lavò il viso velocemente con l’acqua gelida: un contatto atroce con la pelle accaldata, che cancellò ogni traccia di sonno ancora superstite. Se si sbrigava, avrebbe potuto recuperare il ritardo e arrivare a lavoro in perfetto orario. Poteva farcela.
Corse verso la camera, così presa dalla fretta da non accorgersi dello stipite della porta, perfettamente in linea con la spalla. Quando andò a sbatterci addosso, ormai, era troppo tardi.
Represse a stento un’imprecazione. Cercò la finestra nel buio, improvvisamente più prudente.
Il dolore sordo alla spalla aveva ridimensionato la sua fretta, e il pensiero di arrivare in orario era passato improvvisamente in secondo piano. Sollevò la tapparella, e la luce inondò la camera ferendo gli occhi di Sari. L’aria fresca e pungente del mattino le solleticò piacevolmente il viso, e si concesse di indugiare sul panorama per una manciata di minuti. Giusto il tempo necessario perché la spalla smettesse di pulsare.
C’era vegetazione ovunque. Boschi rigogliosi circondavano il colle su cui si stagliava Rosya, rendendo assai piacevole il contrasto di colori tra la vegetazione e la città.
Non poteva dare torto a chi diceva che la capitale fosse la città più bella di tutta Silindril. Sarebbe bastato vederla da lontano per affermarlo; chiunque sarebbe stato d’accordo.
Ma nonostante il suo splendore, Rosya possedeva anche un lato grigio che la maggior parte delle persone si ostinava a non voler vedere. I poveri erano più numerosi dei ricchi e relegati nelle zone più esterne della città; gli umani dovevano sopportare in silenzio i soprusi dei maghi che, forti della loro ormai accertata mutazione, li trattavano con arroganza.
Nelle sue strade proliferava la criminalità e la violenza, e molti soggetti socialmente pericolosi erano nati e cresciuti proprio nella capitale.
Sari gettò una rapida occhiata al calendario: era il 10 ottobre, e ormai al compleanno di sua madre mancava una settimana. Entro sette giorni avrebbe rivisto suo padre, di ritorno da Artika per stare con la famiglia. Al solo pensiero il cuore di Sari si gonfiò di felicità.
Non lo vedeva da molto tempo. Le mancava tutto di lui, ma più di ogni altra cosa sentiva la mancanza delle lunghe chiacchierate che facevano sempre dopo cena. Lo sentiva spesso per telefono, ma non era abbastanza per compensare il vuoto che la sua lontananza aveva creato.
Ripensò al sogno con un sorriso malinconico. Il ricordo della partenza di suo padre, Adrian Kalabis, era ancora vivo nella sua memoria. Erano passati sette anni da quel giorno, ma lei lo ricordava nei minimi dettagli.
Ricordava quanto fosse leggero l’orologio da taschino che gli aveva regalato come dono d’addio, e le sembrava di rivederlo luccicare ogni volta che chiudeva gli occhi. Se glielo avessero domandato, sarebbe stata in grado di elencare tutti i piatti che sua madre aveva cucinato quella sera.
Le capitava spesso di domandarsi che cosa facesse suo padre. Probabilmente in quel momento era seduto a una scrivania in un ufficio scarnamente arredato a compilare scartoffie, o forse stava interrogando qualche carcerato. L’idea che dovesse osservare il comportamento dei detenuti le era sempre apparsa bizzarra, dal momento che il suo giudizio non avrebbe mai potuto cambiare la condanna. Ogni sentenza di reclusione era definitiva, e non venivano ammesse commutazioni di pena. C’era un solo modo per far terminare la prigionia, ed era uguale per tutti.
La morte.
Su questo la Corporazione era stata ben chiara.
Aveva immaginato molte volte come dovesse essere Artika. Tutti sapevano che si trovava a nord, nel continente di ghiaccio. Solamente poche persone conoscevano l’esatta posizione e tutte avevano a che fare con il carcere, come chi vi lavorava all’interno o chi riforniva periodicamente la prigione di viveri, medicine e vestiario.
Per ragioni di sicurezza la sua ubicazione era da sempre stata taciuta al resto della popolazione, dal momento che molti dei suoi ospiti erano ritenuti tra i più pericolosi criminali del regno.
I bene informati sostenevano che i demoni fossero quelli più numerosi. L’odio che correva tra loro e i maghi aveva giocato la sua parte e aveva contribuito a diffondere una sorta di caccia alle streghe: ogni creatura oscura scoperta nel regno doveva tassativamente venire arrestata e sparire. La stessa sorte toccava a ogni attività legata ai demoni, ritenuta clandestina.
E poi c’era la guerra.
Continuava da troppi anni, senza vincitori né vinti, e la tensione che aveva creato sarebbe potuta cessare solamente con lo sterminio di una delle due fazioni.
Ogni pretesto era buono per incarcerare un demone e condannarlo a morte, soprattutto quello della guerra. Durante le loro battaglie i maghi avevano trovato un alleato prezioso negli elfi: avevano concordato un governo comune, nel quale erano stati coinvolti anche gli esseri umani.
Era la Corporazione a governare attualmente: un consiglio composto dai più anziani e saggi esponenti della società, appartenenti alle famiglie più influenti e di antico lignaggio della regione.
Era sorta come collaborazione per promuovere una convivenza pacifica tra le razze, e ogni membro godeva di una posizione paritaria rispetto agli altri. Questo in teoria.
Sebbene nessuno dovesse prevalere in quanto a potere e influenza, in realtà le cose erano ben diverse.
La discriminazione nei confronti degli esponenti umani aleggiava nella Corporazione come un fantasma, nonostante l’etichetta imponesse un atteggiamento rispettoso, e tra tutti i membri una persona spiccava per prestigio e autorevolezza.
Amos.
Uno dei maghi più anziani, la cui ascesa verso il comando della Corporazione era stata troppo rapida.
Vera anima del consiglio, deteneva l’ultima parola in merito a ogni questione, gestiva la conduzione del carcere, ed era stato lui ad assegnare la promozione a suo padre. Lui
l’aveva mandato a lavorare a tempo indeterminato ad Artika, costringendolo a viverci.
Persino la legge che stabiliva l’impossibilità di recarsi in visita al carcere era un’altra delle assurde decisioni di Amos. E la cosa peggiore era che quegli inutili pensieri le sarebbero costati il posto di lavoro, se avesse indugiato ancora un po’ sulle insensate decisioni della Corporazione.
Indossò la prima maglia pulita che riuscì a trovare, assieme a un paio di jeans stazzonati. Afferrò la borsa e fece per uscire, quando colse con la coda dell’occhio il suo riflesso allo specchio. Sbuffò. Era sempre la solita.
Forse sarebbe il caso che ti pettinassi, Sari.
Rovistò con impazienza dentro al cassetto, ma la spazzola non c’era. Si guardò attorno in preda all’agitazione, cercando di ricordare dove l’avesse ficcata. Esultò quando la trovò nascosta sotto una pila di vestiti usati riposti sulla sedia.
Sciolse i nodi con un paio di colpi secchi, ignorando il dolore. Doveva sbrigarsi, o sarebbe arrivata in ritardo provocando il malcontento dei suoi superiori. Decisamente non era il caso.
Quando uscì di casa, per poco non inciampò sulle scale. Fu solo la sua prontezza di riflessi a salvarla, assieme al prezioso aiuto del corrimano, e in quel momento Sari divenne improvvisamente consapevole di una cosa: la giornata non stava cominciando bene.


*


Sari entrò nell’ufficio del responsabile del dipartimento di polizia con il respiro affannato. Aveva cercato di arrivare prima che poteva, senza risparmiarsi una corsa disperata dal parcheggio.
«Allora… Cosa abbiamo all’ordine del giorno?»
L’agente Silver sollevò appena lo sguardo dai documenti che stava esaminando, e sorrise divertito.
«Nulla, se prima non ti riprendi un po’.»
«Sto bene Victor.»
Il poliziotto la guardò, scettico. I capelli erano un disastro, scompigliati dal vento, e la maglia indossata al contrario suggeriva che Sari si fosse svegliata in ritardo. Ma il viso paonazzo era senz’altro la parte migliore del quadro: ebbe quasi paura di vederla svenire da un momento all’altro.
Le indicò la sedia di fronte a lui.
«Siediti.»
La ragazza guardò Silver senza troppa convinzione. Quando intuì che non le avrebbe assegnato nessun caso se non si fosse seduta, decise di accontentarlo. Era così sicura di ricevere una ramanzina per l’ennesimo ritardo, che quando Silver le allungò un fascicolo Sari rimase stupita.
«Dobbiamo interrogarlo.»
Sui documenti spiccava una fotografia. Era immortalato un uomo dall’aspetto piuttosto inquietante, con una benda nera a coprirgli l’occhio sinistro. L’altro era di una strana tonalità di grigio, tendente all’azzurro. Il suo viso era coperto dalla barba, probabilmente vecchia di tre o quattro giorni. Silver guardò Sari in attesa di un giudizio qualsiasi, ma il viso della psicologa risultava imperscrutabile.
«È un caso un po’ delicato. Non sono molto speranzoso al riguardo.»
«Di cos’è accusato?» Sari restituì il fascicolo, e quando Silver si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita dell’ufficio, la ragazza lo seguì. Raggiunsero la stanza dello specchio, e lo vide.
L’uomo della foto era seduto al tavolo, nella stanza accanto. Teneva le mani intrecciate, con i polsi incatenati. Dietro di lui, due agenti controllavano che non tentasse la fuga.
«È accusato di uno dei più gravi crimini denunciati dal codice penale del regno. Guarda la cartella. Pagina uno» concluse Silver lasciandole la documentazione sul caso prima di uscire.
Sari non indugiò oltre. La foto che aveva visto era assicurata a un foglio, e nascondeva il nome del prigioniero. La sollevò, e ciò che lesse le fece capire subito perché quell’uomo si trovasse lì.
Volker Kramer, accusato di attentato alla Corporazione.”
Non poteva dare torto a Silver: aveva ragione quando diceva che quello era un caso senza speranze.
Il reato di cui veniva accusato era punibile con la carcerazione a vita, e gli sconti di pena non erano contemplati dalla legge. Tutto dipendeva dall’esito dell’interrogatorio, ma Sari sapeva che quell’uomo era l’ennesima persona ad avere il destino segnato. La facilità con cui si rischiava la carcerazione a vita all’inizio era sembrata a molti una cosa assurda, ma con il tempo l’abitudine aveva rimpiazzato l’indignazione con l’indifferenza. Era diventata una cosa ordinaria.
Anche quell’uomo sembrava non farci caso. Data la sua tranquillità, Sari ebbe l’impressione che non si rendesse neppure conto della gravità della situazione in cui si trovava. Si guardava attorno con curiosità, nonostante l’arredamento della stanza fosse tutt’altro che interessante.
Era piuttosto essenziale, a dire il vero. Non un soprammobile, non un quadro, nulla che donasse una nota di colore a quelle mura grigie e impersonali.
Forse quel Kramer era davvero curioso, oppure –l’opzione che Sari ritenne più probabile- era semplicemente un modo per occupare il tempo, in attesa dell’interrogatorio.
Quando l’agente Silver lo raggiunse, pochi minuti più tardi, la prima cosa che fece fu sbattere un fascicolo sul tavolo.
«Allora, signor Kramer... Suppongo sia a conoscenza di ciò di cui è accusato.»
Volker scrollò le spalle, gettando un’occhiata al plico di fogli che aveva davanti.
«Sí, diciamo che qualche idea ce l’ho.»
«Lei era in possesso di oggetti dalla sospettata natura demoniaca. È in contatto con demoni?»
Kramer guardò il poliziotto, sbalordito, e si lasciò scappare una risata sommessa.
«Io? Con i demoni? Si sbaglia, agente. Non sa quanto si sta sbagliando...»
«Però sono oggetti che hanno a che fare con la magia nera, giusto? Ed è risaputo che i demoni ricavano la magia nera dall’utilizzo dell’energia demoniaca...» obiettò scettico Silver.
«Quelli sono gingilli d’importazione piuttosto costosi» spiegò Kramer con un gesto impaziente della mano.
«Mercato nero?»
L’interrogato rise sommessamente, guardando le proprie mani.
«E i draghi? »
Volker si fece improvvisamente serio. «I... draghi? »
Silver alzò gli occhi al cielo, sbuffando esasperato.
«Non faccia finta di non sapere di cosa sto parlando, signor Kramer. Nel suo appartamento, chiamiamolo così, abbiamo trovato dei cuccioli di drago nero. Lo sa che l’allevamento di queste bestie è proibito dalla legge?! »
Kramer distolse lo sguardo, improvvisamente colpevole. Quello era il punto cruciale dell’interrogatorio, il nocciolo della questione. E lui si sentiva con le spalle al muro.
«Sí, è vero. Allevo draghi neri e li rivendo.»
«Allora lo confessa? »
«Confessare cosa? »
«Che ha partecipato all’operazione terroristica che ha colpito la sede della Corporazione la settimana scorsa.»
Volker guardò Silver, improvvisamente confuso.
«Di che cosa sta parlando, agente? Io non ho mai fatto né detto nulla contro la Corporazione!» esclamò come se fosse scandalizzato dal fatto che gli venisse mossa una tale accusa. Silver si appoggiò con entrambe le mani al tavolo, guardando Kramer dritto negli occhi.
«Eppure il rapporto dice così: la Corporazione è stata attaccata da un gruppo di draghi neri guidati da attentatori a cui lei aveva venduto gli animali» constatò indicandogli il fascicolo.
Volker lo prese tra le mani, gettando rapidamente lo sguardo tra le righe accanto alla sua fotografia. Quando li alzò, fissò sconvolto il poliziotto.
L’istante successivo era in piedi, e la sua espressione non era più placida.
«Non accetto di venir punito per qualcosa che non ho commesso!» urlò con rabbia, sbattendo le mani sul tavolo. I due agenti di scorta gli furono immediatamente addosso, afferrandolo per le braccia e allontanandolo dal tavolo. Volker tentò di opporre resistenza, continuando a urlare.
«Non ho nulla contro la Corporazione, agente! Mi creda!»
Silver non rispose, limitandosi a guardarlo. A guardare la disperazione che leggeva nei suoi occhi, mescolata al desiderio di continuare a lottare per la propria libertà. E la rabbia, perché era consapevole che non ci sarebbe riuscito: sapeva già dove sarebbe finito.
I due agenti riuscirono a portarlo con fatica fuori dalla stanza. Le sue grida erano forti, anche dal corridoio.
E facevano male.
«Agente, non voglio andare là! Sono innocente, mi creda! Non voglio andare ad Artika! AGENTE!!»
All’improvviso ci fu un tonfo sordo, e poi quello che seguì fu un silenzio lungo e pesante.
Silver intuì subito che cosa fosse successo, senza aver bisogno di vederlo con i propri occhi: i due agenti della scorta avevano agito come da protocollo in casi come quello. Un manganello e un colpo ben assestato dietro al collo erano bastati per neutralizzare il signor Kramer, per il quale non ci sarebbe stata la clemenza invocata.
Silver chiuse gli occhi, immobile con le mani ancora appoggiate sul tavolo.
Era stufo di vedere gente disperarsi per non finire ad Artika. Non ne poteva più di sentire ogni giorno quelle urla. Era così, tutte le volte. La gente cambiava, ma la disperazione nelle loro suppliche rimaneva sempre la stessa. E lui non ce la faceva più.
Pesava sulla sua anima come un macigno.



*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Capitolo noioso ma necessario a definire meglio l'ambiente in cui si svolge la storia e a introdurre delle dinamiche essenziali. Fanciulle, portate pazienza, questo è l'ultimo capitolo lento che dovrete sorbirvi: dal prossimo entreremo nel vivo della storia e vi prometto che non ci sarà più modo di annoiarsi, parola di autrice.

Detto questo, ringrazio davvero tanto quanti hanno letto il prologo: sarà che devo prendere confidenza con i numeri che girano in questa sezione, ma siete stati uno splendido esordio. Vi ricordo che, per chi volesse, può trovarmi sul mio contatto facebook e (per spoiler e chiacchiere varie) nel gruppo facebook dedicato alle mie storie.
A giovedì prossimo,

Brin

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Capitolo 3
*** dibattuta ***


3




CAPITOLO 2

DIBATTUTA



*



Il suono del campanello fece sussultare Sari, che guardò Amaya emozionata. L’elfa intuì subito che cosa volessero comunicarle gli occhi dell’amica, senza bisogno che lei glielo dicesse. Sapeva bene che per Sari quello era un giorno importante, che aveva aspettato da molto tempo.
Aveva sempre avuto una specie di venerazione per il padre, Amaya lo sapeva bene. Aveva passato assieme a Sari l’infanzia, l’adolescenza e gli anni successivi lavorando fianco a fianco con lei, e aveva imparato a conoscere il profondo legame che univa il padre e la figlia. Vederla così emozionata la fece sorridere.
Emma Kalabis, la madre di Sari, si affacciò dalla cucina con un grembiule legato in vita e le mani unte di grasso. Indicò la porta con un cenno della testa.
«Sari, vai tu ad aprire per favore? Io ho la carne sul fuoco.»
La ragazza annuì correndo verso la porta, e lui era lì, davanti all’entrata: suo padre era tornato, e le stava sorridendo con dolcezza. Gli gettò le braccia al collo, felice come non era mai stata. Era bello respirare quell’odore familiare, circondata da quelle braccia conosciute che da molto tempo non l’avevano stretta. Non avrebbe potuto esserci regalo più bello.
«Bentornato papà.»
«Grazie Sari» Adrian la baciò in fronte e l’allontanò da sé. La squadrò da testa a piedi, fiero e allo stesso tempo sorpreso. «Come sei cambiata! Sei diventata splendida!»
Sari sospirò fingendosi annoiata da quei complimenti, ma non riuscì a reprimere un sorriso felice. Amaya raggiunse l’uscita con il cappotto in mano, pronta a togliere il disturbo, ma Adrian la fermò all’istante per salutarla.
In quel momento, non più concentrata su suo padre, Sari si accorse di lui.
Un ragazzo giovane -che all’apparenza doveva avere circa la sua età- se ne stava in disparte, con le mani sprofondate in un lungo e caldo cappotto nero. I suoi occhi azzurri, di un colore così freddo da ricordare quello del ghiaccio, la stavano guardando con un misto di interesse e curiosità che mise Sari un po’ a disagio. Aveva i capelli neri, perfettamente pettinati in modo da non permettere neppure a una ciocca di cadere sul viso. Era piuttosto carino, ma l’ostinazione con cui la fissava faceva passare quel giudizio in secondo piano. Non sembrava intenzionato a desistere, e la cosa urtava Sari.
Si accigliò, infastidita.
«E tu chi sei?»
Adrian intervenne all’istante.
«Sari, perdonami per non averti presentato il mio assistente: si chiama Shem Gaynor, ed è uno dei miei indispensabili collaboratori ad Artika» le spiegò con un sorriso che Sari non ricambiò. Non riusciva a capire che cosa ci facesse lì quel ragazzo. Il motivo per cui suo padre l’aveva portato alla festa di compleanno della moglie per lei rimaneva un mistero: Shem non era di famiglia. Non era nulla di più di un semplice estraneo. La sua risposta fu lapidaria.
«Ah.»
Adrian sorrise. Aveva intuito quello che stava pensando Sari. Conosceva bene quell’atteggiamento difensivo, e sapeva che non avrebbe mai gettato le armi, almeno non prima di un lungo assedio.
«Ho voluto invitare Shem qui da noi per qualche giorno. Sai, lui non ha mai visto la capitale e potrebbe essere un’occasione per fargliela conoscere, no? Magari potresti accompagnarlo tu.»
Sari rimase senza parole. Guardò suo padre come se fosse un fantasma. La parte del suo cervello che ancora riusciva a elaborare qualche pensiero nonostante la sorpresa, cercò qualche segnale sul viso di Adrian che suggerisse che stesse scherzando. Quando si accorse che suo padre era serio, dovette capitolare.
«Vedremo papà. Sai, per me questi non sono giorni di ferie.»
La risposta cadde nel nulla. Adrian si limitò ad annuire e Shem, ancora in disparte, fece semplicemente finta di niente. Fu Amaya a interrompere quel silenzio quasi imbarazzante.
«Signor Kalabis, io devo andare. È stato un piacere rivederla.»
«Rimani a mangiare, Amaya! Ormai sei di casa qui, e poi dal momento che c’è Shem non vedo perché tu non possa stare insieme a noi, no?»
Amaya guardò Sari, cercando il suo consenso. Aveva il timore di essere di troppo, ma lo sguardo supplichevole dell’amica la convinse. Dalla cucina provenne un rumore di pentole rovesciate, e Adrian cercò di spiare verso la fonte del rumore, preoccupato.
«Tutto bene Emma?»
«Sí, mi sono solo cadute delle pentole. Comunque non c’è problema se Amaya rimane.»
Sari guardò l’amica trionfante. Non poteva non accettare, e l’idea di avere un’alleata la sollevava. Forse sopportare la presenza di uno sconosciuto sarebbe stato più semplice, con Amaya al suo fianco.


*


«Allora Shem, tu di che cosa ti occupi?» domandò Emma intingendo il cucchiaio nella minestra. Il ragazzo, dall’altra parte del tavolo, sollevò lo sguardo dal pane che stava spezzando.
«Aiuto suo marito nella conduzione del reparto di psicologia e psichiatria del carcere.»
Sorrideva cordialmente mentre parlava. Quando non conversava con qualcuno o non doveva prestare attenzione al cibo, però, non faceva altro che guardare Sari con insistenza, e questo dava parecchio fastidio alla psicologa. Cercava di sembrare naturale, ma ogni volta che sorprendeva Shem a osservarla avrebbe voluto gridargli di smetterla.
«Quanti reparti ci sono ad Artika?» sua madre domandò di nuovo.
«Due. Per farla breve, in uno vengono rinchiusi i criminali con disturbi psichiatrici, e nell’altro quelli sani. Non penso sia difficile intuire in quale dei due io e Adrian lavoriamo…»
La signora Kalabis annuì con un sorriso, tornando a dedicarsi alla minestra. Shem riempì il cucchiaio, e quando sollevò lo sguardo cercò subito Sari. La ragazza diede un colpetto alla caviglia di Amaya e quando l’elfa la guardò, Sari le lanciò uno sguardo esasperato. Non ne poteva più. Ancora poco e sarebbe esplosa.
«E così, Adrian ti è molto affezionato...» Emma ruppe il silenzio. Sari guardò con terrore sua madre sorridere a Shem e lui ricambiare con cortesia.
«Questo deve chiederlo a suo marito, non a me.»
A Sari andò di traverso la minestra. La situazione stava prendendo una piega strana.
Era naturale che sua madre parlasse con lui, si disse, ma per quante volte lo ripetesse non riusciva a non sentirsi infastidita. Aveva un modo di fare che la metteva a disagio, oltre al fatto che si era intromesso in una questione privata. E dopo suo padre, anche sua madre lo stava prendendo in simpatia.
Forse proprio l’insistenza che aveva nel continuare a guardarla l’aveva salvata dal cadere nella sua rete. Poteva incantare i suoi genitori quanto voleva, ma con lei non funzionava. Nonostante i suoi movimenti eleganti e il magnetismo che sembrava emanare, Sari aveva fiutato in lui qualcosa di poco convincente, che la rendeva inquieta. Qualcosa che si ripresentò più volte nel corso della cena.
Sua madre non aveva fatto altro che rivolgergli domande per sapere di più su di lui, ma puntualmente Shem evitava di dare informazioni precise. E lo faceva con una abilità che forse soltanto lei aveva colto.
Aveva detto di non avere una famiglia: classica scusa, sentita più e più volte.
Aveva detto di essere arrivato ad Artika da due mesi: strano che il rapporto del ragazzo con suo padre fosse diventato così forte in così poco tempo.
Era più che legittimo che tra colleghi si formassero dei legami affettivi lavorando ogni giorno fianco a fianco, ma il loro sembrava essere davvero forte. Due mesi erano troppo pochi, non di certo sufficienti per instaurare rapporti tali da giustificare quello che aveva fatto suo padre. Portare una persona conosciuta da così poco tempo a una cena di famiglia era eccessivo.
Lui non era suo figlio.
Stava iniziando ad alterarsi, lo sentiva. Sentiva la rabbia iniziare a scorrerle nelle vene, e la sensazione non le piacque affatto. Detestava l’idea di rovinare una serata come quella a causa del suo stato d’animo, ma non riusciva a evitarlo. Era gelosa.
Sgattaiolò fuori per prendere una boccata d’aria fresca, approfittando dell’attesa del dolce. Sperava di riuscire a calmarsi. Sapeva che il modo in cui si stava comportando era da bambina, e una parte di se stessa provava vergogna per questo. L’aria pungente della sera le solleticò piacevolmente il viso, e l’inquietudine che le assediava il cuor sembrò calmarsi. Sentì dei passi familiari alle sue spalle, e Sari riconobbe subito la persona dietro di lei senza neppure aver bisogno di voltarsi.
«Sari, tesoro...»
«Dimmi.»
Suo padre sospirò. Voleva dirle qualcosa d’importante, ne era sicura.
«Non voglio che questa serata sia fonte di dolore per te.»
«Non è così» Sari rispose velocemente, forse troppo. Era stata poco convincente, e per riuscire a mentire a quell’uomo doveva fare molto meglio di così. Adrian non rispose. Sfilò un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni, offrendolo alla figlia.
«Ne vuoi una?»
«Lo sai che non fumo.»
Adrian sorrise. Trattenne la sigaretta delicatamente tra le labbra, e l’accese dopo aver riposto il pacchetto.
«Sei sempre stata saggia. Io invece non riesco a smettere, anche se so che dovrei.»
Sari non rispose. L’uomo accolse il silenzio della figlia, e capì che era il momento giusto per chiarire le cose.
«Si tratta di Shem, vero?»
«Perché l’hai portato qui?»
Adrian aspirò una boccata di fumo. Sorrise.
«Sari, non c’è motivo di essere gelosa. Gli sono molto affezionato, ma mia figlia sei tu. Volevo fartelo conoscere, tutto qui.»
«Perché?»
«Beh, ecco... Lui è un ottimo ragazzo. Gentile, premuroso, con la testa sulle spalle. Non come quella gente con cui te ne andavi in giro un po’ di tempo fa.»
«Ormai è acqua passata, e lo sai!» Sari sbottò seccata, alzando gli occhi al cielo.
«Lui sembra molto interessato a te, ma forse non te ne sei neppure resa conto.»
Sari rimase a fissare Adrian, interdetta. Ora era tutto più chiaro. Suo padre voleva trovarle un ragazzo, e la sua scelta era ricaduta sul suo pupillo. La sola idea le fece venire i brividi lungo la schiena.
«Io non ho nessuna intenzione di prendere anche solo in considerazione l’idea di mettermi con uno sconosciuto, papà! In particolar modo con uno che sembra un…» si interruppe all’improvviso non appena si rese conto di essere a un passo dal dare del maniaco a Shem. L’ultima cosa che desiderava era ferire i sentimenti di suo padre. Si limitò a respirare profondamente, nel tentativo di calmarsi. Quando sentì la porta aprirsi e vide Adrian sorridere, capì subito chi fosse uscito. Si voltò e incrociò lo sguardo di Shem, che se ne stava sull’uscio a guardarli.
Pregò con tutta se stessa che non avesse colto neppure uno stralcio di quella conversazione, altrimenti sarebbe stata costretta ad affrontare una situazione piuttosto imbarazzante.
«Scusate se vi interrompo, ma c’è il dolce» annunciò il ragazzo indicando la casa. Non diede alcun segno di aver sentito di cosa stavano discutendo.
«Grazie Shem, arriviamo subito» annuì Adrian, invitando il collega a precederli. Sari lo guardò rientrare, in attesa. Aveva una vaga idea di ciò che voleva dirle suo padre. Incrociò le braccia al petto, pronta a riprendere la battaglia, ma lo sguardo sincero che ricevette demolì all’istante tutta la sua determinazione.
«Visto? È gentile. Vorrei che lo tenessi in considerazione, Sari. Almeno cerca di conoscerlo prima di giudicarlo, d’accordo?»
Sari sospirò, sconfitta. «Va bene.»
Quando ritornarono a tavola, tentò di sopportare gli sguardi insistenti di Shem nella speranza di far contento suo padre. Ma per quanto si impegnasse, quelle continue attenzioni la stavano facendo impazzire: cominciava a sentirsi soffocata dalla sfrontatezza del ragazzo.
Una forchettata, gli occhi sul piatto, la posata alla bocca, ed ecco che lo sguardo di Shem ritornava a immancabilmente su di lei. Per quanto tentasse di mantenere la calma e fare finta di nulla, Sari sentiva di essere molto vicina al limite.
All’improvviso, qualcosa in lei si spezzò. Non pensò neppure a quello che stava facendo.
Dopo l’ennesimo sguardo indesiderato, Sari si alzò sbattendo sul tavolo il tovagliolo che le copriva le gambe. Le parole erano già sulla lingua, pronte a uscire e a spargere il loro veleno, ma all’improvviso crollarono come un castello di carte aggredito dal vento: Shem le stava sorridendo.
Un sorriso dolce ma allo stesso tempo mellifluo, che la disarmò. Sari boccheggiò in cerca di qualcosa da dire, all’improvviso consapevole della pessima figura che aveva fatto. L’unica cosa che riuscì a dire furono delle scuse farfugliate sommessamente. Chiuse gli occhi concedendosi un breve istante per riprendersi, e decise che in quel momento la fuga era la soluzione migliore.
«Scusate... Devo andare in bagno.»
Fuggì su per le scale sentendosi avvampare per la vergogna, e ogni passo che la allontanava dalla sala da pranzo la faceva sentire sempre più in salvo. Si chiuse la porta alle spalle rumorosamente, senza preoccuparsi di farsi sentire, e nascose la testa tra le mani.
Non capiva cosa le stesse succedendo. Aveva perso il controllo come una ragazzina, e l’idea la faceva imbestialire. Era da tanto tempo che non le accadeva una cosa simile.
Ormai aveva ventiquattro anni, viveva da sola vicino alla capitale, aveva visto più cose di un demone, e aveva perso il controllo in maniera vergognosa. Tutto per colpa di quel ragazzo.
Shem la innervosiva. Inizialmente l’aveva preso in antipatia per una sorta di competizione dettata dalla gelosia, ma poi erano cominciati gli sguardi. Era insistente, sfacciato, e la faceva sentire a disagio. E la cosa che più la indisponeva, era che per Sari tutto questo era nuovo.
In passato aveva avuto un paio di appuntamenti che erano sempre terminati in una bolla di sapone, e nulla di più. Nessuno le aveva mai rivolto delle attenzioni così evidenti e sfrontate, e non sapeva come comportarsi. Senza contare che, doveva ammetterlo, Shem non era neppure brutto.
In circostanze diverse probabilmente avrebbe desiderato sapere di più sul suo passato, su chi fosse e su cosa facesse, ma Sari si ostinava a tenere le distanze. Non gli avrebbe permesso di sedurre anche lei. Non sarebbe caduta nella sua rete come aveva fatto suo padre e come stava facendo sua madre.
Quando bussarono alla porta, pregò che non fosse Adrian: l’ultima cosa che desiderava era dargli spiegazioni sul suo comportamento.
«Chi è?»
«Sari, posso entrare?»
Era Amaya. Tirò un sospiro di sollievo.
«Entra.»
Quando l’elfa fece capolino nel bagno, Sari notò subito il suo sguardo serio e risoluto. Capì all’istante che intendeva parlarle di qualche questione importante, probabilmente riguardante la sua performance nella sala da pranzo.
«Adesso devo andare via, per cui lascia che ti dica una cosa.»
Sari annuì cominciando a pensare a come ribattere di fronte a una richiesta di spiegazioni, ma le parole di Amaya furono del tutto inattese.
«Ho notato come ti guarda quel tizio. Non mi piace per niente.»
Sari rimase a guardare l’amica, stupita. Ridacchiò. L’idea di non essere la sola ad aver giudicato bizzarro il comportamento di Shem la sollevò.
«Lo so.»
«Stai attenta, ok?»
Sari smise di ridere. In quanto elfa, Amaya aveva un sesto senso che aveva fallito raramente: le permetteva di leggere dentro il cuore delle persone. Era caratteristica propria della sua razza riuscire a percepire la disposizione d’animo delle persone. Anni addietro, Amaya aveva tentato di spiegarle come faceva, ma ricordava solamente un discorso fatto di energie positive e negative, di capacità di cogliere i colori dell’anima, come li aveva chiamati l’elfa. Ma di una cosa Sari era sicura: se quella abilità suggeriva all’amica che in Shem ci fosse qualcosa di strano, allora con molta probabilità non si sbagliava.
Si chiese se sarebbe riuscita a rimanere fredda, indifferente. Finché si fosse limitato a guardarla non sussistevano preoccupazioni: il problema si sarebbe presentato nel caso in cui Shem avesse tentato di spingersi oltre. Pregò con tutta se stessa che non lo facesse.
Aveva la sensazione di averlo sottovalutato: fin’ora si era preoccupata delle sue insistenti attenzioni senza pensare a un eventuale contatto fisico. Era convinta che assumendo un atteggiamento distaccato lo avrebbe fatto desistere, ma non aveva mai considerato l’ipotesi che il ragazzo avrebbe potuto decidere di smettere di giocare e tentare un approccio più diretto. Questa possibilità la rese inquieta. Shem era bello, non poteva negarlo, e aveva l’impressione che lui fosse pienamente consapevole di questa sua qualità. Era sicura che lui sapesse quanto particolari fossero i suoi occhi, e che conoscesse bene l’effetto che facevano quando una ragazza li guardava. Shem era il tipo che sapeva come sfruttare le carte in suo possesso: era questa l’idea che si era fatta di lui, e la mise nel panico.
«Sari?»
L’umana guardò Amaya, che stava aspettando una risposta. Non si rese neppure conto di essersi persa nei propri pensieri lasciando a metà il discorso. Annuì, sforzandosi di sembrare convincente.
«Contaci.»
Accompagnò l’elfa fuori di casa, e il freddo la investì facendola rabbrividire. Tentò di abbracciarsi per scaldarsi, ma con scarsi risultati. La strada era deserta, e soltanto la luce dei lampioni illuminava la via. Quando guardò Amaya, capì che era ancora preoccupata.
«Non fidarti di lui, hai capito? Stai attenta, ricordatelo.»
Sari annuì, sorridendo.
«Stai tranquilla. Notte Amaya.»
L’elfa le indirizzò un cenno della mano in segno di saluto. Sari la guardò scendere lungo il vialetto e raggiungere la macchina nera parcheggiata sul marciapiede. Il motore si accese rombando, e Sari fece per rientrare soltanto quando l’auto cominciò ad allontanarsi. Ma non entrò.
Sull’uscio c’era Shem. Le si avvicinò con un sorriso luminoso e innocuo.
Sari rimase immobile, rigida come un pezzo di legno.
«La tua amica è carina.»
Il suo tono di voce era cordiale. Gentile.
Nella mente di Sari le parole di suo padre e di Amaya si avvicendavano senza sosta, e non sapeva a chi dare ascolto.
«Sí, è carina» approvò con fare poco naturale. Era nervosa, e non riusciva a nasconderlo.
Sentì improvvisamente lo sguardo di Shem su di lei, e ciò contribuì a renderla ancora più tesa. Il ragazzo indugiò prima di parlare. Sembrava che temesse ciò che le sue parole avrebbero potuto provocare.
«Per me sei più carina tu» mormorò allungando una mano verso il volto di Sari e alzandolo per cercare i suoi occhi. Il cuore di Sari cominciò a battere furiosamente, minacciando di uscire dal petto da un momento all’altro. La mente le gridava disperatamente di allontanarsi, ma le gambe sembravano paralizzate.
«Ti prego di scusarmi se ti ho spaventato con il mio atteggiamento. Vedi… non riesco a non guardarti. Sei così bella…» le sorrise accarezzandole la guancia. Sari non riuscì a pensare.
Ormai il cervello era totalmente scollegato dal resto del corpo, che faceva quello che voleva. E in quel momento, aveva deciso di rimanere immobile. Di farsi sfiorare da quel ragazzo e di farsi guardare da quegli occhi così chiari.
«Se adesso ti baciassi faresti una scenata come quella di prima?»
Sari non riuscì a rispondere. Se anche fosse riuscita a parlare, non avrebbe saputo cosa dire. Forse suo padre aveva ragione. Lo conosceva decisamente più di lei, che non aveva elementi per giudicarlo. Eppure non riusciva a non pensare a quello che aveva detto Amaya.
Shem dovette giudicare il suo silenzio come un segnale d’incoraggiamento.
«Mi picchieresti?»
In Sari la parte che urlava di fidarsi prevalse sull’altra.
Sorrise, e questa volta il ragazzo lo interpretò come un cenno d’assenso.
Posò entrambe le mani sul suo viso, e si chinò verso le sue labbra. Le sfiorò timidamente, come a voler chiedere l’ultimo permesso prima del bacio vero e proprio. E Sari non lo respinse.
Shem non ebbe bisogno d’altro: la baciò lentamente, con dolcezza. Fu un bacio al sapore di vino, delicato, a cui ne seguì un secondo. Un terzo. Un quarto.
Sari fu costretta a ritornare con i piedi per terra quando sentì la voce di sua madre chiamare il suo nome. E in quel momento si rese conto di cos’era successo.
Non l’aveva rifiutato. Aveva ceduto.
Aveva ricambiato il bacio.
Shem la stava guardando con un sorriso dolce che fece sentire Sari in colpa. L’aveva giudicato male, era stata prevenuta nei suoi confronti. Forse avrebbe potuto dargli una possibilità per conoscerlo davvero, e vedere in lui ciò che vi aveva visto Adrian.
«Ecco dov’eri!» la testa di Emma fece capolino dalla porta.
«Scusa, non ti avevo sentito» mentì.
«Potresti andare in camera tua a prendere la macchina fotografica, per favore? Tuo padre vorrebbe fare delle foto da tenere come ricordo.»
«Certo.»
Quando la signora Kalabis rientrò, Sari afferrò la mano di Shem. Stretta attorno alla sua, era grande e calda. Una sensazione piacevole.
«Ti va di accompagnarmi?»
Shem annuì, sempre sorridente. Quando salirono le scale e arrivarono al primo piano, Sari lo fermò.
«Aspettami qui, per favore. Mia madre usa quella che una volta era la mia stanza come se fosse un ripostiglio, ed è decisamente in disordine.»
Stava sorridendo mentre gli parlava, se ne accorse con terrore. Era la prima volta che sorrideva con tanta facilità a persone che conosceva da poche ore. Scosse il capo, stupita da se stessa mentre imboccava il corridoio.
Shem la guardò sparire dentro una stanza e improvvisamente il sorriso sul suo volto sparì. Non c’era motivo di sorridere quando lei non era in giro, soprattutto dal momento che cominciava a sentire le guance doloranti. Cominciava a essere stanco di tutta quella sceneggiata.
Non poteva fare a meno di chiedersi quando tutto questo sarebbe finito, anche se conosceva già la risposta: tutto dipendeva da quanto tempo avrebbe impiegato per trovare ciò che stava cercando.
E dopo rimaneva un’incognita.
Si guardò attorno: le case degli esseri umani erano decisamente noiose, tutte uguali.
Improvvisamente una porta aperta attirò la sua attenzione: lasciava intravedere un letto matrimoniale. Doveva essere la camera da letto di Kalabis e di sua moglie.
Lanciò un’occhiata furtiva alla stanza in cui era scomparsa la ragazza. La via era libera.
Entrò nella camera da letto dei due coniugi, dirigendosi verso un grande comò pieno di fotografie.
Ispezionò rapidamente il mobile: non c’erano altro che foto della famiglia e l’orologio da taschino che Adrian portava sempre con sé.
Decisamente non era quello che lui stava cercando.
Si voltò verso il letto, dov’erano appoggiate le valige.
Non poteva essere là dentro: se l’uomo l’avesse avuto con sé, sarebbe riuscito a trovarlo già da molto tempo. Si apprestò ad aprire i cassetti, ma una voce lo fece sussultare.
«Che cosa stai facendo?»
Si voltò. Il viso di Sari era serio, e il suo sguardo era un misto di confusione e diffidenza. Tra le mani stringeva la macchina fotografica.
Shem sorrise, cercando di apparire naturale.
«Mi era sembrato di vedere un’ombra attraversare la finestra. In questi tempi non si è mai troppo al sicuro. Sai, con i demoni...» le spiegò con naturalezza, ma si accorse che non doveva essere riuscito a convincerla del tutto. L’idea di essersi giocato la fiducia della ragazza non lo preoccupò più di tanto. In fin dei conti era soltanto una copertura.
«So che cosa stanno facendo i demoni» lo guardò con sospetto.
Il ragazzo le sorrise. Il suo solito sorriso angelico, quello che Sari stava iniziando a non sopportare più.
Questo qui è tutto tranne che angelico.
Se pensava di aver trovato i soliti polli da spennare, si sbagliava di grosso. Se voleva ripulire la casa sarebbe dovuto passare prima sul suo cadavere.
«Andiamo giù» mormorò invitandolo a uscire dalla stanza, seguendolo non appena Shem uscì.


*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Con questo capitolo inizia la storia vera e propria.
Ciò che avete letto finora è un antipasto naturalmente, ma vi posso assicurare che da ora sarà un crescendo. Mi risparmio commenti sul contenuto del capitolo, preferisco sentire le vostre congetture :P
Vi ricordo che potete trovarmi su facebook e sul gruppo facebook dedicato alle mie storie. Detto questo, l'appuntamento è per giovedì prossimo con il quarto capitolo, dal titolo Guardare la morte in faccia.
Un saluto

Brin


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Capitolo 4
*** guardare la morte in faccia ***


4





4.

GUARDARE LA MORTE IN FACCIA



*



Erano passati sei mesi dall’ultimo giorno in cui Sari aveva rivisto suo padre.
Da quando aveva conosciuto Shem.
Lui non si era più fatto sentire da quella sera, e all’inizio la cosa l’aveva indispettita. Ma ciò che l’aveva fatta più arrabbiare, era che quel ragazzo era riuscito a farla cedere nonostante gli sforzi fatti per mantenere le distanze. Lei, che aveva cercato di essere fredda e disinteressata, gli aveva creduto. Gli aveva dato il beneficio del dubbio.
Aveva pensato che fosse veramente interessato a lei, quando invece per Shem non era stata altro che un divertimento provvisorio. Nulla di più che un trastullo per rendere la serata più interessante, e l’aveva dimostrato piuttosto bene nei mesi che erano seguiti.
L’irritazione per ciò che era successo, però, era durata poco: in breve tempo, Sari aveva relegato il ricordo di Shem in un angolo della mente. Con il passare dei mesi aveva cominciato a pensare sempre di meno a quello che era accaduto, e senza accorgersene il rancore verso di lui era diventato ogni giorno più debole. Era passata dal risentimento all’indifferenza.
Ormai non provava nulla, neppure quando suo padre nominava Shem per telefono. L’immagine del ragazzo era diventata sempre più confusa nella mente di Sari, che non aveva alcun interesse nel trattenerla. Anche l’episodio della camera da letto aveva subito la stessa sorte, assieme alla strana sensazione che aveva provato nel sorprenderlo a frugare tra le cose dei suoi genitori.
Tutto ciò che riguardava Shem valeva meno di zero.
In quel momento, mentre camminava lungo il corridoio del dipartimento di polizia, pensando a lui non sentiva assolutamente nulla. Intravide Amaya parlare con un giovane agente che Sari non conosceva: l’elfa stava mordicchiando il bordo di un bicchiere da caffè mentre lo guardava, probabilmente nel tentativo di camuffare una smorfia annoiata che non sfuggì all’occhio vigile dell’umana.
Quanto a lui, invece, Sari si sentì mossa a pietà: lo sguardo del poliziotto sembrava voler gridare a tutti –e in particolare ad Amaya- quanto fosse interessato all’elfa, ma probabilmente aveva già capito di non avere troppe speranze. Le ricordò un cucciolo punito che scodinzola dietro al padrone per elemosinare una carezza.
Si avvicinò ai due tossicchiando, quasi con scrupolo: le sembrò un peccato interromperli, ma non poteva fare altrimenti. Amaya, invece, si illuminò non appena la vide.
«Ciao Sari.»
«Ciao. Questo è per te» annunciò porgendole una cartellina.
L’amica le rivolse un’occhiata interrogativa.
«È il fascicolo riguardante il tuo caso di oggi. Mi hanno chiesto di dartelo.»
Amaya annuì, cominciando a sfogliare il fascicolo.
«Grazie.»
«Di nulla. Dopo pranziamo insieme?» domandò con tono per nulla disinteressato, che insospettì l’elfa.
Quando la guardò, Sari indicò con lo sguardo il poliziotto, che cominciò a sentirsi a disagio.
Il giovane fuggì via farfugliando parole di commiato neppure troppo chiare, e Amaya scoppiò a ridere.
«Ci vediamo dopo, brutta pettegola.»
«Perfetto» Sari fece per allontanarsi, ma si fermò non appena vide Silver. Era fermo di fronte a lei, e la stava guardando con un’espressione stravolta che la fece preoccupare. Sembrava che avesse appena visto un fantasma.
Lanciò un’occhiata ad Amaya, e intuì che anche lei era rimasta turbata dall’atteggiamento del poliziotto.
«Victor, che succede?»
«Sari…»
Lei rimase in attesa. Sembrava che Silver avesse qualcosa d’importante da dire, ma che non sapesse come esprimerlo. Quando trovò le parole che stava cercando, il suo sguardo era così sofferente che Sari si spaventò.
«Sapevi che tuo padre è tornato a casa ieri pomeriggio?»
Fu come ricevere uno schiaffo. Perché le stava parlando di suo padre? E, soprattutto, perché lei non sapeva che era tornato?
Cominciò a preoccuparsi, e guardare il volto sconvolto di Silver mentre le parlava di Adrian rischiò di farle perdere il controllo. La voce le uscì a fatica.
«No.»
Le gambe tremavano e le mani non volevano saperne di stare ferme. Sentiva lo stomaco contorcersi per l’ansia. Aprì la bocca per parlare, ma non uscì alcun suono. Avrebbe voluto sapere, chiedere, ma il suo corpo lottava contro di lei.
Chiuse gli occhi per un istante, cercando di calmarsi. Si trattava di una sciocchezza, sicuramente. Doveva essere una sciocchezza. Quando riuscì a parlare, sembrava incerta.
«Perché me lo chiedi?»
Silver le posò una mano sul braccio. Si guardò attorno. C’era troppa gente nel corridoio.
«È meglio se vieni nella stanza dello specchio. Anche tu, Amaya.»
Lo seguirono in silenzio. Quando si chiusero la porta alle spalle, la tensione era così palpabile da poter essere tagliata con un coltello. Di fronte al silenzio delle due ragazze, Silver sospirò. Era maledettamente difficile trovare le parole. Si massaggiò il collo, in difficoltà.
Indicò a Sari una sedia.
«Forse è meglio se ti siedi.»
Il cuore di Sari smise di battere per un breve istante che sembrò durare anni. Aveva paura.
Era decisamente terrorizzata.
Non si sedette.
«Che cosa c’è Victor? Mi stai spaventando.»
Silver guardò il pavimento, in difficoltà.
«Ci è arrivata una chiamata. Tuo padre è...»
«È… ?» lo incoraggiò Amaya, parlando al posto di Sari.
Silver guardò l’umana.
E qualcosa in Sari si spezzò.
«È morto. Tuo padre è stato ucciso.»
Le sembrò una cosa assurda, talmente inconcepibile da risultare falsa.
Era senza ombra di dubbio uno scherzo di pessimo gusto: da un momento all’altro Silver sarebbe scoppiato a ridere e le avrebbe detto che aveva un’espressione davvero esilarante. Le avrebbe appoggiato una mano sulla spalla e le avrebbe detto di tornare a lavorare, con le lacrime agli occhi a causa delle risate eccessive.
Ma non successe nulla del genere. Non accadde proprio nulla.
Sul viso di Silver non c’era la minima traccia di ilarità: era serio e addolorato, un’espressione che decisamente non si addiceva a una persona che stava scherzando.
E finalmente, una parte di Sari realizzò con dolore che Silver stava dicendo la verità.
«Mi dispiace.»
Non sentì le parole del poliziotto, né la mano di Amaya che cercava la sua. Fu consapevole solamente dell’enorme baratro che si era aperto dentro il suo cuore, minacciando di divorarle l’anima da un momento all’altro. Voleva gridare, urlare a pieni polmoni fino a consumare la voce per liberarsi di quel dolore insopportabile che la stava lacerando, ma dalla sua bocca non uscì altro che un debole soffio.
«N- non è... come...» fu tutto ciò che riuscì a balbettare: il nodo che le chiudeva la gola le impediva di parlare, e lo stomaco era così pesante da farle sentire il bisogno di vomitare. Sembrava contenere un’incudine. Silver la guardò con pietà. Sospirò, in evidente difficoltà.
«So che dopo questa notizia non sei nelle condizioni migliori per parlarne, ma ho bisogno di farti un paio di domande. La dinamica dell’omicidio non è ancora chiara.»
Per Sari fu una doccia fredda. La notizia della morte di suo padre l’aveva scioccata al punto che la sua mente non aveva neppure preso in considerazione le circostanze in cui era avvenuta. Era come se fosse venuta a conoscenza dell’omicidio per la prima volta.
I suoi occhi si riempirono d’orrore. Si coprì la bocca, prossima al pianto, e pronunciare quella parola le costò uno sforzo di volontà enorme.
«Ucciso?»
Silver annuì e Sari rimase paralizzata all’istante. Se suo padre era tornato, probabilmente era stato ucciso a casa. Un dubbio atroce le mozzò il respiro, ed ebbe quasi paura di dar voce ai suoi pensieri.
Respirò a fondo, e si fece coraggio.
«E mia madre?»
«In questo momento si trova all’ospedale in stato di shock. È stata lei a trovare il... tuo padre e ne è rimasta profondamente sconvolta.»
Sari abbassò lo sguardo, incapace di sostenere oltre quello compassionevole di Silver. Immaginò la madre in un freddo letto d’ospedale mentre riviveva in continuazione l’orribile scoperta dell’uomo che amava, ucciso. Un’esperienza che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.
La sola idea le mozzò il respiro. Per quanto i suoi polmoni cercassero di catturare aria, l’affanno non cessava: soltanto allora Sari si rese conto di non respirare a sufficienza, e il panico si impadronì di lei. Qualcuno le parlava nel tentativo di catturare la sua attenzione, ma la mente della ragazza era altrove.
Suo padre era morto. No, di più: era stato ucciso. Soltanto questo contava. Lui, che sembrava onnipotente e intoccabile, non c’era più. Gliel’avevano portato via. Strappato, letteralmente.
Dovette sforzarsi di reprimere un conato, mentre la disperazione serpeggiò in lei. E finalmente si rese conto della portata di ciò che era successo.
«È morto» mormorò con voce spezzata.
«Lo so Sari, ma devi cercare di calmarti» rispose una voce maschile, Silver probabilmente.
«È morto!»
Lo ripeté all’infinito, e ogni volta era per Sari una pugnalata al cuore. Lo disse una, due, tre volte, e poi vennero le lacrime. Un pianto disperato e silenzioso, che sembrò non finire mai. Si lasciò andare come una bambina tra le braccia di Silver e Amaya, aggrappata a loro come se fossero l’unico appiglio che la salvava da un precipizio. E quando dopo molti minuti si calmò, si sentì esausta e stordita da un mal di testa feroce.
Ma quel pensiero non la lasciava. Qualcuno le aveva portato via suo padre.
Il solo pensiero le fece ribollire il sangue di rabbia.
«Sapete chi è stato?»
Silver scosse il capo. Erano in alto mare.
«Forse sarebbe meglio che vedessi il luogo del delitto.»


*


Quella scena le mozzò il fiato.
L’entrata era delimitata da nastri gialli, che la polizia usava per impedire l’accesso alle persone non autorizzate. La porta aperta rendeva visibile il disordine che regnava nella camera: libri, vestiti e ogni oggetto che potesse essere riposto nei cassetti erano sparsi sul pavimento.
I numerosi schizzi di sangue che imbrattavano le pareti suggerivano che l’omicida avesse sfogato un accanimento rabbioso, probabilmente patologico, sulla vittima. L’odore era così pungente che Sari dovette fuggire all’esterno della casa per impedirsi di vomitare.
Silver la seguì, ma non parlò. Se Amaya non fosse stata trattenuta in dipartimento, sicuramente avrebbe trovato le parole giuste; quelle che lui faticava a trovare.
Era preoccupato per lei, e contemporaneamente stava tentando di fare il suo lavoro. Doveva chiederle informazioni su suo padre, ma farlo in quel momento gli sembrava piuttosto indelicato: il poliziotto e l’amico erano due ruoli che in quella circostanza non andavano d’accordo.
Si limitò a stare in silenzio accanto a lei, rivolgendole di tanto in tanto occhiate preoccupate.
«Avete delle piste?» fu Sari a interrompere il silenzio.
«Non ancora, per quelle avremo bisogno del tuo aiuto. Ritengo però che ciò che hai visto non fosse il teatro di un semplice furto, dal momento che non hanno portato via oggetti di valore.»
Sari non guardò Silver. Aveva la sensazione che se l’avesse fatto, lui si sarebbe accorto che stava cercando di non piangere.
«È molto importante che tu mi dica se tuo padre si era inimicato qualcuno, o se nascondeva qualcosa.»
«Non che io sappia.»
Ed era vero. Suo padre era sempre stato un uomo buono e onesto, e l’idea che qualcuno potesse volere la sua morte era semplicemente assurda. Non aveva mai urtato nessuno, Sari ne era sicura. Aveva conosciuto diversi colleghi di Adrian, e tutti avevano sempre parlato bene di lui. Godeva di molta stima nell’ambiente di lavoro, e la cosa che più colpiva di lui era la capacità di concedere la propria fiducia a persone che non conosceva bene. Come quella volta che aveva portato a casa...
Shem!
Fu come essere colpita da un fulmine. Come aveva fatto a non pensarci? L’aveva visto frugare nella camera dei suoi genitori, la stessa in cui suo padre era stato ucciso. Probabilmente era tornato per finire il lavoro. Sari venne travolta dalla rabbia.
«Shem Gaynor!»
«Chi?»
«Shem Gaynor, un collega di mio padre.»
«Lavorava con lui ad Artika?»
«Nel settore di psicologia e psichiatria» annuì Sari.
«E perché sospetti di lui?»
«Durante l’ultima visita di mio padre l’ho sorpreso nella camera dei miei genitori. Mi sembrava che stesse cercando qualcosa, ma lui si è giustificato dicendo che aveva visto un’ombra alla finestra, o qualcosa del genere.»
Silver non disse nulla. L’espressione sul suo viso era pensierosa.
«Sono sicura che lui c’entri qualcosa, Victor. Amaya aveva capito subito che in lui c’era qualcosa che non andava e mi aveva avvertita, ma io non l’ho...» s’interruppe, disgustata pensando a quello che aveva fatto. Aveva baciato l’assassino di suo padre. Si era lasciata abbindolare da lui, aveva fatto il suo gioco e, peggio ancora, si era fidata. Come tutta la sua famiglia.
Come aveva potuto essere così meschino? Come aveva potuto prendersi gioco dei suoi sentimenti e della fiducia dei suoi genitori? Aveva tradito l’affetto sincero che suo padre provava per lui. L’aveva calpestato nel modo più crudele.
Pregò con tutto il cuore di sbagliarsi, che Shem fosse innocente.
«Tu non l’hai…?» Silver la invitò a proseguire, facendola arrossire.
Sari abbassò lo sguardo, in imbarazzo.
«Non l’ho ascoltata. Io ho... ho avuto un momento di debolezza. Ci siamo baciati. Credevo che fosse sinceramente interessato a me» si affrettò a precisare non appena vide Silver guardarla, sorpreso.
«Ho sbagliato, è vero, ma non sapevo che lui fosse...»
«Sari, non ti sto accusando di nulla. Calmati» la interruppe facendole cenno di tacere con la mano. Sari annuì. Il senso di colpa cominciava a essere fastidioso. Silver le diede un buffetto leggero sulla schiena, tentando d’incoraggiarla.
«Torno al dipartimento. Devo fare una ricerca su questo Shem Gaynor.»


*


Quando Sari aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu sua madre, distesa sul letto dell’ospedale. Dormiva ancora. Evidentemente lo shock l’aveva privata quasi completamente delle forze. Sari l’aveva vegliata tutta la notte, ma era crollata alle prime luci dell’alba, esausta.
Il volto giovanile di sua madre sembrava invecchiato di colpo, o almeno questa era l’impressione che Sari aveva in quel momento, mentre la studiava nella penombra offerta dalla persiana calata. Il dolore e la rabbia per ciò che era accaduto si risvegliarono nella ragazza al pensiero di quello che aveva passato la madre. Se soltanto avesse potuto risparmiarle la vista dello scempio sul corpo di Adrian…
Si voltò verso la porta quando sentì qualcuno entrare, e vedere Amaya sulla soglia le diede un improvviso sollievo.
«Come sta tua madre?»
Sari condusse l’amica fuori dalla camera.
«Sta cominciando a riprendersi un po’ alla volta, anche se sembra ancora piuttosto confusa. Dice che quando papà era tornato a casa, le era apparso molto agitato. Mormorava di qualcosa da nascondere, ma non so quanto di tutto questo sia causato dal trauma che ha vissuto» spiegò scettica.
«Dovresti riposare anche tu, comunque. Ultimamente dormi poco e sei sempre distratta. In queste condizioni non riusciresti neppure a lavorare» cambiò discorso Amaya. Era evidente: era preoccupata per lei.
Sari sbuffò, scuotendo il capo.
«Non posso lasciare mia madre da sola.»
«È circondata da medici che la seguono costantemente, e tra pochi giorni la dimetteranno. Ora hai bisogno di pensare a te stessa.»
Sari non rispose, combattuta sul da farsi. Non voleva lasciare sua madre lì, da sola, ma Amaya aveva ragione. Nonostante si sforzasse di resistere, aveva bisogno di riposo. Si appoggiò con la schiena al muro, sospirando.
«Mi prenderò una settimana di ferie dal lavoro e mi riposerò, d’accordo?»
L’elfa annuì soddisfatta. «Prima di andarmene, c’è una cosa che devo consegnarti.»
Frugò nella tasca del cappotto, e porse a Sari un oggetto familiare. Era d’argento, piccolo ed elegante, con dei motivi decorativi sul coperchio. Era l’orologio da tasca che aveva regalato a suo padre sette anni prima.
Adrian non se ne separava mai, gliel’aveva confidato lui stesso. Era il suo tesoro più prezioso. Eppure, per qualche motivo, Amaya ne era entrata in possesso.
Doveva esserci una ragione più che valida, una spiegazione che Sari aveva davvero necessità di sentire.
«Perché ce l’hai tu?»




*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Vedo che siete un po' timidi, miei splendidi lettori. Ma forse è un po' per la storia che è appena all'inizio, forse è un po' per lo stile acerbo che spiazza (e giustamente, aggiungo, soprattutto per chi già mi conosce con “Obsession- quando la passione diventa veleno”). Qualunque sia il motivo, lo ritengo comunque più che giusto, tanto più che forse questo genere di storia vi lascia un po' perplessi.
Non vi nascondo che sono tentatissima di rallentare tutto e riscrivere ogni capitolo prima di pubblicarlo, ma visto che ultimamente non sono molto fortunata con le riscritture (ne sanno qualcosa i lettori di Obsession, che stanno aspettando secoli per i nuovi capitoli), ci penso due volte prima di farlo.

Ad ogni modo, siccome mi piace viziarvi e riempirvi la pancia di golosità, questo giovedì vi do un doppio aggiornamento, sperando di farvi cosa gradita. Perciò andate pure al capitolo successivo, e buona lettura! :)

Brin

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Capitolo 5
*** un nome che non c'è ***


5
 

ATTENZIONE!
Oggi ho deciso di fare doppio aggiornamento, per cui prima di leggere questo capitolo assicuratevi di aver letto prima il capitolo 4, pubblicato anch'esso poco fa.

Buona lettura,

Brin




5.

UN NOME CHE NON C'È




*


Le dita di Silver si muovevano veloci sulla parete dell’ologramma verde, aprendo sezioni dell’archivio anagrafico. In circostanze normali l’accesso era consentito solamente alle alte sfere della Corporazione, ma nei casi speciali venivano rilasciati permessi speciali. E quello era un caso decisamente eccezionale.
Sull’ologramma prese forma la scritta “inserire nome e cognome”. Silver tracciò col polpastrello una scia che si compattò immediatamente, rendendo ben visibile il nome. Shem Gaynor.
La schermata verde dell’ologramma scomparve, e una nube nera sulla quale troneggiava una scritta verde la rimpiazzò.
Nessun articolo dell’archivio corrisponde alla voce digitata. Controllare di aver inserito correttamente nome e cognome.
Silver rimase basito. Probabilmente aveva scritto male il nome e non se n’era neppure accorto. Quando ripeté l’operazione, il risultato non cambiò: la stessa scritta, di nuovo.
Controllare di aver inserito correttamente nome e cognome.
E Silver era letteralmente spiazzato.
Era assurdo. Gaynor formalmente non esisteva. Non c’erano dati che ne rivelassero l’esistenza.
Non nell’archivio della polizia, non in quello di Artika, non in quello del regno.
Sospirò abbattuto.
Quando aveva controllato nel dipartimento e non aveva trovato nulla, aveva pensato che si trattasse di una persona incensurata. Così si era messo in contatto con il carcere di Artika, sicuro che l’avrebbe trovato nello schedario, ma ancora una volta aveva fatto un buco nell’acqua: Shem non risultava tra i dipendenti della prigione.
La faccenda cominciava a puzzare, ma non aveva ancora perso le speranze di trovare notizie che potessero condurlo a Gaynor.
Gli rimaneva da giocare la carta vincente: l’archivio della Corporazione, l’anagrafe del regno.
Come da legge, tutti i cittadini alla nascita dovevano essere registrati all’anagrafe, e Shem non poteva fare eccezione. Ne era così sicuro che si sarebbe gettato nel fuoco, ma anche questa volta le sue aspettative erano state deluse.
Si incamminò verso l’uscita, sconsolato. Si fermò sull’uscio, guardando per l’ultima volta il piedistallo che conteneva la fotocellula che riproduceva l’ologramma.
Tutte le informazioni dell’archivio erano contenute dentro quel piedistallo, custodite gelosamente dai membri della Corporazione all’interno di microchip collegati alla fotocellula attraverso sottilissimi cavi, che trasmettevano le informazioni affinché le codificasse in immagini.
Uscì dalla stanza sbuffando, rinunciando a cercare ancora notizie di un nome che, era sicuro, aveva digitato correttamente. Ormai il dubbio si era insinuato in lui, e la sua voce era così forte che Silver non riusciva a non dargli ascolto. Se Shem non risultava nell’archivio, c’era un solo motivo.
Non era né un umano né un elfo. Non era un abitante del regno.
Anzi, più precisamente veniva dal grosso e oscuro continente al di là del mare. Veniva dal continente demoniaco.
L’idea di dover comunicare a Sari ciò che aveva scoperto sul conto di Shem lo rendeva inquieto, e di una cosa era certo: la psicologa non sarebbe stata affatto contenta.


*


L’espressione sul viso di Amaya era seria, un elemento più che sufficiente per suscitare in Sari una strana sensazione di disagio. Intuì subito che ciò che stava per raccontarle aveva a che fare con la morte di suo padre.
«È stato mio padre a darmi quest’orologio. Quando il signor Kalabis è tornato, è andato nella sua fucina e gli ha chiesto un favore in nome della loro amicizia. Ha detto che non avrebbe voluto coinvolgerlo, ma non aveva altra scelta perché era l’unica persona di cui si potesse fidare. Gli ha dato una cosa, anche se non so cosa sia dal momento che mio padre non ha voluto dirmelo. Voleva che nascondesse questo oggetto sul fondo dell’orologio. In realtà neppure mio padre ne sa molto a riguardo, perché Adrian si è rifiutato di dargli delle spiegazioni. Diceva che era meglio non compromettere ulteriormente la sua sicurezza, nonostante lo avesse già costretto ad esporsi. Lui non ha chiesto più nulla e ha fatto ciò che doveva fare, ma non è riuscito a ridargli l’orologio perché... beh, lo sai anche tu» terminò porgendo a Sari l’orologio, che se lo rigirò tra le mani.
Era per questo che suo padre era stato ucciso? Per ciò che era nascosto all’interno, qualcosa che probabilmente Shem cercava? Non poteva affermarlo con certezza, ma sentiva che tutte le cose scoperte fin’ora coincidevano. Provava la netta sensazione di aver compiuto un passo in più verso la verità.
Prese la giacca e si diresse verso l’uscita, decisa ad andare da Silver per raccontargli quello che aveva scoperto. Amaya la seguì, ma quando videro il poliziotto materializzarsi sulle scale con una strana espressione in volto, si fermarono.
Silver si accorse della loro presenza solamente quando ci furono un paio di metri a dividerli. Qualcosa lo turbava, l’espressione pensierosa sul suo viso lo diceva chiaramente.
«Che ci fai in ospedale?» domandò Amaya, perplessa.
«Gaynor non è umano.»
Sari guardò Silver con occhi sgranati. Non era sicura di aver capito bene.
«Cosa?»
«Gaynor, il nostro indiziato numero uno, deve essere un demone.»
«Ma no, non è possibile...» ora Sari cominciava a essere confusa. Shem non aveva i tratti somatici di un demone, ne era sicura. Quando l’aveva baciato non aveva notato nulla di insolito, e l’unica cosa che avrebbe potuto mettere a tacere la sua capacità di osservazione era il vino. Ma in quell’occasione si era appena bagnata le labbra durante il brindisi, e nulla più.
L’affermazione di Silver era assurda. Scosse il capo, sicura di ciò che aveva notato quella sera.
«I demoni hanno i canini più lunghi rispetto al resto dei denti, e lui li aveva normali.»
«Ma è l’unica spiegazione possibile, Sari» cercò di farla ragionare il poliziotto.
«No Victor, non può essere! Ti dico che non ha i canini!»
«Come fai a esserne così sicura?» la domanda di Amaya la colse in contropiede. Distolse lo sguardo, in imbarazzo. Sapeva quale sarebbe stata la reazione dell’elfa se le avesse rivelato di aver baciato Shem, ma non poteva evitare di rispondere.
«L’ho baciato.»
Vide Amaya accigliarsi, confusa. Quando l’elfa realizzò cos’aveva appena sentito, la sua espressione divenne prima stupita e infine irritata.
«L’hai baciato?! Ti avevo detto di non fidarti di lui!»
Sari rimase in silenzio, senza riuscire a trovare le parole per ribattere. Sapeva perfettamente che Amaya aveva ragione, e dopo tutto che cosa avrebbe potuto dirle? Era stata ingenua, aveva dato fiducia alla persona sbagliata, ma in fin dei conti non avrebbe mai potuto immaginare che cosa sarebbe successo in seguito. E Amaya la stava accusando. Quando si rese conto che stava alzando la voce, stizzita, era già troppo tardi.
«Scusami se ho pensato che forse potevo dargli fiducia!»
«E infatti guarda che cosa è successo!»
Il volto di Sari si rabbuiò improvvisamente, e Amaya capì subito di aver toccato il tasto sbagliato. Tra di loro cadde un silenzio pesante.
«Ora calmatevi, e soprattutto evitate di alzare la voce. Vi ricordo che siamo in un ospedale» Silver le ammonì, e in quel momento Sari si rese conto che tutte le persone nel corridoio li stavano guardando. Provò l’irrefrenabile desiderio di scomparire all’istante.
«Scusami» mormorò Amaya a bassa voce. Sembrava sinceramente dispiaciuta.
«No, hai ragione. Mi sono lasciata abbindolare nonostante tu mi avessi avvertito, e non ho voluto ascoltarti» ammise Sari.
«Però la mia era solo una sensazione, non era infallibile. Avresti anche potuto aver ragione.»
Sari fece spallucce, sorridendo mesta. Purtroppo i fatti le avevano dato torto: si era lasciata ingannare, aveva concesso fiducia all’assassino di suo padre. Le parole di Amaya non sarebbero bastate per confortarla. Si sforzò di mantenere il sorriso, ma qualcosa le diceva che doveva apparire piuttosto forzato.
«Ma non l’ho avuta. Piuttosto Victor, ti abbiamo interrotto. Stavi dicendo?»
«Quel Gaynor è un demone, non c’è altra spiegazione. Non risulta in nessun archivio del continente.»
«Come sarebbe a dire che non risulta? Hai provato a guardare nell’archivio anagrafico della Corporazione?» suggerì Amaya. Victor annuì.
«L’ho già fatto e non ho trovato assolutamente niente. Neppure un piccolo cenno. Se voi due non l’aveste conosciuto, potrei affermare che Shem Gaynor non è mai nato, morto né tanto meno vissuto.»
A quella notizia, Sari si sentì persa. Non seppe cosa pensare. Era sicura che Shem non fosse un demone, e non era mai stata così certa di una cosa prima di allora. Eppure, quel ragazzo era introvabile. Si sentì improvvisamente schiacciata dal senso di impotenza che provò a quel pensiero, e l’idea di aver le mani legate la irritò terribilmente. Non potevano fare nulla senza una pista da seguire, il che significava che Shem l’avrebbe fatta franca.
Strinse i pugni, frustrata da quella situazione assurda, e si rese conto di avere ancora in mano l’orologio di suo padre. Tutti quei pensieri le avevano fatto dimenticare momentaneamente la conversazione avuta poco prima con Amaya, e in quel momento l’idea di essere in possesso di qualcosa che potesse farle capire perché suo padre era stato ucciso le risollevò il morale.
Sentì la determinazione riaffiorare e ridarle speranza. Era una sensazione che non le dispiaceva affatto.
Mostrò l’orologio a Silver, lasciandolo dondolare dolcemente.
«Forse so perché mio padre è stato ucciso.»
Il poliziotto si accigliò, senza capire che cosa Sari intendesse dire. «Che cosa dovrebbe significare questo?»
«Che chiunque abbia ucciso mio padre cercava qualcosa che è custodito dentro questo orologio.»


*


Erano riuniti nel cimitero. Una piccola folla, tutti vestiti di nero. I loro volti erano addolorati, seriamente dispiaciuti per la tragedia inaspettata che aveva colpito la famiglia Kalabis.
Nessuno aveva il coraggio di fiatare, e Sari ne era profondamente riconoscente. Se ne stava lì, a guardare mentre la bara veniva calata nella fossa. A dare l’ultimo, difficile saluto a suo padre.
È finita. Rassegnati.
Lasciarlo andare era la cosa più difficile. Accettare la sua scomparsa voleva dire piegarsi di fronte alla gravità dell’ingiustizia subita. Come avrebbe potuto trovare pace, senza sapere perché suo padre era stato ucciso?
È finita, rassegnati. Davvero.
Non era possibile. Non riusciva ancora a credere che non lo avrebbe più rivisto. L’unica cosa che riusciva a fare era guardare la bara venire ricoperta di terra. Una manciata dopo l’altra. Inesorabilmente.
Quando cominciò a piovere, metà della gente se n’era già andata via. In pochi erano rimasti con Sari, e ancora non sapevano che dire. Nessuno sembrava trovare il coraggio per farle notare che era zuppa d’acqua, né che ormai la fossa era stata richiusa. Nessuno voleva prendere l’iniziativa e farle notare che anche i becchini se n’erano andati. Erano lì, alle sue spalle, ma c’era un abisso di dolore a separarli.
Fu Amaya a scuoterla dal suo torpore, dopo che anche le ultime persone che rimanevano se ne erano tornate a casa. Sari si accorse della sua presenza solamente nel momento in cui sentì la mano dell’elfa posarsi delicata sulla sua spalla. Lei e Silver erano le uniche persone rimaste.
Strinse quella mano come se fosse il suo unico appiglio in quel mare di disperazione, e l’elfa capì subito. La abbracciò per attimi interminabili, accolse la testa di Sari sulla sua spalla e, cullata da quelle braccia rassicuranti, Sari si sentì libera di lasciarsi andare in un pianto liberatorio e intenso.
Pianse. Si disperò, aggrappandosi al cappotto di Amaya, e l’elfa la strinse più forte a ogni singhiozzo che squassava il suo corpo bagnato e intirizzito dal freddo.
Poi sentì altre due braccia cullarla, due mani accarezzarle la testa, e la voce di Silver rassicurarla che avrebbe sempre potuto contare su di lui. E pianse ancora e ancora.
Quando lasciò il cimitero era sfinita. Crollò sul sedile posteriore della macchina, addormentata. Un sonno leggero e agitato, al labile confine con la veglia. Lo stesso in cui sogno e pensiero si mescolano; quello dove rivide sua madre dirle che non se la sentiva di andare a salutare Adrian per l’ultima volta. Quello dove vide lui.
Lui, che non era venuto al funerale e che le aveva procurato un altro dolore.


*


Il giorno dopo la funzione, Sari si svegliò con un gran mal di testa. Ricordava vagamente di aver passato la serata sul divano di casa a guardare la televisione, dopo essersi riscaldata sotto il getto d’acqua bollente della doccia. Aveva finito per addormentarsi senza neppure rendersene conto. L’aver passato tutta la notte sul divano le aveva procurato dei fastidiosi dolori alla schiena, che uniti al mal di testa la facevano sentire uno straccio. L’idea di cosa avrebbe dovuto fare da lì a poche ore, poi, la faceva sentire anche peggio.
Ogni volta che lo vedeva, tornava a casa con un mal di testa feroce e i nervi a fior di pelle; i presupposti c’erano tutti, soprattutto dopo quanto le era accaduto, ma non poteva lasciar correre. Non lo aveva detto neppure a sua madre: sapeva che se l’avesse fatto, lei avrebbe disapprovato le intenzioni di Sari e le avrebbe consigliato di lasciar perdere. Ma questo, Sari non poteva farlo.
Era troppo arrabbiata con lui per desistere, e troppo determinata a sbattergli in faccia tutto il suo sdegno. Quando partì alla volta di Rosya il mal di testa era ancora lì con lei, martellante e fastidioso, ma non sarebbe bastato per farla desistere.
Arrivò in città mezz’ora dopo. Parcheggiò la macchina nei pressi delle mura e oltrepassò le cinta difensive, percorrendo la strada in salita senza mai fermarsi.
Salì in fretta le scale di marmo che portavano al palazzo della Corporazione, il quale dominava la città con la sua forma slanciata e imponente.
Giunta a metà scalinata aveva già il respiro pesante, e quando varcò il portone con i polmoni a corto d’aria, respirò profondamente studiando la situazione: l’atrio era libero, a eccezione della segretaria al bancone d’accoglienza, china su un libro. Sembrava piuttosto assorta nella lettura. Non avrebbe notato la sua presenza.
Detestava l‘idea di entrare nella Corporazione di soppiatto come una ladra, ma era sicura che se si fosse rivolta a qualcuno, l’avrebbero sbattuta fuori senza troppi complimenti.
Sgattaiolò verso l’ala ovest, attenta a non farsi sorprendere dalla segretaria. Stava quasi per esultare, sicura di essere riuscita a non farsi notare, quando una voce maschile alle sue spalle la costrinse a desistere dal suo intento.
«Si fermi ed esibisca l’autorizzazione!»
Due guardie stavano correndo verso di lei, impugnando delle lunghe lance d’avorio. Quando si frapposero tra lei e il corridoio, Sari notò le loro orecchie a punta, caratteristica della razza elfica. Le bastò uno sguardo per capire che non l’avrebbero lasciata passare tanto facilmente.
«Ho bisogno di vedere Amos.»
«Il signore è impegnato in questo momento. Se vuole vederlo deve fissare un incontro con la ragazza al bancone» concluse una delle due guardie, indicandole la segretaria.
Sari sbuffò, ma decise di non fare rimostranze. Non in quel momento, almeno. Si avvicinò al bancone, ma la ragazza sembrò non accorgersi della sua presenza. Le guardie, alle spalle di Sari, erano immobili; impettite nelle loro uniformi bianche. E la guardavano.
Sari, ormai con le spalle al muro, tossicchiò. La segretaria alzò lo sguardo su di lei sussultando, e nascose malamente il libro sulle ginocchia. Le rivolse un sorriso imbarazzato mentre si sfilava gli occhiali da lettura.
«In che cosa posso esserle utile?»
Sembrava cordiale e disponibile. Una donna di bella presenza, di classe. Impeccabile, con i capelli raccolti in una crocchia severa e una camicia che lasciava intravedere la curva del seno. Un buon biglietto da visita: anche questo voleva dire Corporazione.
«Ho bisogno di vedere Amos» rispose, impaziente. La segretaria aprì un cassetto e ne estrasse un’agenda. La sfogliò, e Sari constatò con preoccupazione che la ragazza stava saltando di mese in mese.
«La prima data utile è tra quattro mesi» annunciò la donna picchiettando con la punta della penna sulla pagina immacolata dell’agenda.
«Che cosa?! Ma io ho bisogno di vederlo adesso, è urgente!» esclamò Sari, indignata. L’idea che si dovessero aspettare mesi per poter ottenere un breve incontro con i membri della Corporazione era semplicemente ripugnante.
«Mi spiace, ma Amos ha molti impegni.»
«Si, certo» borbottò Sari, irritata. Era il coronamento di una settimana orribile: una piccola facezia in confronto a quello che le era capitato, ma che faceva pericolosamente aumentare il suo mal di testa. E aveva i nervi a fior di pelle. Era un connubio che l’avrebbe portata ad aggredire qualcuno, lo sentiva. Stava per cedere e dare il proprio nominativo, quando una voce conosciuta la chiamò per nome: alle spalle di Sari c’erano due uomini che lei conosceva piuttosto bene, entrambi vestiti con abiti di fattura pregiata.
Uno era giovane, e a una prima occhiata dimostrava una trentina d’anni. I capelli neri erano ben pettinati, e gli incorniciavano il viso curato. Gli occhiali tondi gli conferivano un aspetto intellettuale che gli si adattava decisamente bene. La tunica azzurra che indossava, ornata con motivi argentati, era un classico abbigliamento da mago.
Jasper, l’assistente personale di Amos.
Ma la voce che aveva sentito non era la sua, ne era sicura. Era stato l’altro uomo a chiamarla, lo stesso che ora le sorrideva gentile. Era di razza elfica e aveva lineamenti eleganti e movenze raffinate, regali. Era quasi interamente senza capelli, e una barba bianca, vecchia di alcuni giorni, gli spazzolava il volto segnato dalle rughe.
Era vecchio, esattamente come Amos, e proprio come lui rappresentava una delle più alte cariche all’interno della Corporazione. Per Sari non poteva esserci incontro più fortuito di quello.
«Derfel, Jasper!»
«Vieni, Sari» l’elfo la invitò a raggiungerlo, e lei non se lo fece ripetere. Le guardie sembrarono annaspare.
«Ma signore... La procedura...»
«Lei sta con me» spiegò cordialmente Derfel, e Sari sapeva bene che nessuno dei presenti avrebbe potuto ribattere. Si allontanò in silenzio seguendo il suo salvatore, ma dentro di sé esultava: avrebbe potuto incontrare Amos grazie a un inaspettato colpo di fortuna. Quel pensiero la fece fremere d’impazienza.
Ed era solamente merito dell’elfo che camminava accanto a lei.
«Grazie mille Derfel, ti devo un favore.»
Lui sorrise. Da quando lo conosceva, aveva sempre avuto un atteggiamento quasi paterno nei confronti di Sari.
«Figurati, per così poco… Piuttosto, immagino che tu sia venuta qui per vedere Amos, giusto?»
Sari annuì. «Devo parlare con lui di una cosa che mi sta molto a cuore. È urgente.»
«Allora ti lascio in compagnia di Jasper: ti porterà lui da Amos. Mi dispiace non poterti accompagnare personalmente, ma devo tornare ai miei impegni.»
«Non c’è problema.»
Derfel le sorrise, e per un istante Sari ebbe la sensazione che volesse comunicarle tutte le scuse del mondo. Lui era sempre stato così: attento, rispettoso, altruista. Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per essere d’aiuto, ed era una qualità apprezzata da molti nella Corporazione.
La guardò con una luce dispiaciuta e prudente negli occhi, come se avesse il timore di dire la cosa sbagliata. E Sari intuì subito che cosa stava per dirle.
«Le mie condoglianze per tuo padre. Spero di vederti presto.»
Le appoggiò una mano sul braccio. Un gesto affettuoso che faceva ogni volta che la salutava, ma che in quel momento le sembrò particolarmente sentito. Sari ebbe la sensazione che volesse trasmetterle molto di più, che volesse superare i limiti delle parole e comunicarle una vicinanza che non sarebbe riuscito a esprimere in altro modo.
Sorrise, cercando di ricacciare il nodo di emozioni che minacciava di soffocarla.
«Grazie. Ciao Derfel» Sari abbozzò un sorriso non troppo convinto, nonostante apprezzasse davvero le parole dell’elfo. Seguì Jasper lungo il corridoio senza dire neppure una parola, troppo impegnata a pensare a cosa avrebbe detto ad Amos. Cominciava a essere nervosa.
Oltrepassarono un ampio portone in ferro battuto, uguale a tutti gli altri nel corridoio. Sari non si stupì nel notare che la stanza in cui si trovava era lussuosa. Aveva dimensioni enormi, e la luce che penetrava attraverso le grandi vetrate valorizzava il mobilio prezioso, di manifattura elfica.
Ma non perse tempo a rimirare gli arazzi antichi che adornavano i muri, né i candelabri sontuosi che pendevano dal soffitto: tutta l’attenzione di Sari era rivolta verso le due persone che si trovavano oltre il lungo tavolo rettangolare, al centro della sala.
Il generale Rider, un uomo dai lineamenti duri e spigolosi e dallo sguardo arrogante, sembrava vagamente scocciato. Probabilmente non si aspettava quell’intrusione, ipotizzò.
E poi c’era lui, Amos: un uomo anziano, con i capelli bianchi che gli ricadevano fluidi oltre le spalle, e la costituzione minuta del suo corpo che dava l’impressione di poterlo spezzare come se fosse fatto di cristallo. Ma la sua espressione, in quel momento così fredda e distaccata, suggeriva uno spirito difficile da turbare.
«Jasper, portala via.»
«Ma signore, la ragazza vuole parlarle con urgenza…»
«Non vedi che sto parlando con il generale Raider?» Amos indicò l’uomo di fronte a sé, che rivolse a Jasper un irritante sorriso mellifluo.
«Sí signore, ma…»
«A mio avviso è senz’altro più importante quello di cui mi sto occupando in questo momento. Dov’eravamo rimasti, Hektor?» sentenziò, tornando a rivolgersi a Raider.
Zitta. Per l’amor del cielo, sta’ zitta.
Nonostante continuasse a ripeterselo, per Sari mantenere il controllo in quel momento era quanto di più difficile potesse fare. Uscì dalla stanza senza nemmeno una parola di saluto, ingoiando indignazione per l’assoluta freddezza con cui era stata trattata.
Jasper le corse dietro, avendo cura di richiudere la porta della sala con il minimo rumore possibile. Quando raggiunse Sari, la trovò a guardare fuori dalla finestra, appoggiata con una spalla contro il muro.
«L’hai beccato in un momento un po’ delicato.»
La psicologa lo guardò, scettica. «A me sembra che lui abbia troppi momenti delicati.»
Jasper sospirò, in evidente difficoltà. Sari ebbe l’impressione che volesse difendere Amos a tutti i costi, ma che non trovasse le parole per farlo.
«Vedi, è successa una cosa che non doveva accadere ad Artika e…» si interruppe all’improvviso bianco come un cencio, terrorizzato. Aveva lo sguardo colpevole di un bambino colto dalla madre con le mani nella cioccolata.
«Ad Artika?» Sari divenne improvvisamente interessata.
Il mago sorrise nel tentativo di nascondere il proprio nervosismo, ma il suo sorriso sapeva di costruito. «Sí, una sciocchezza, un piccolo disguido che lo ha messo di malumore. Ora devo tornare a lavorare, ho un sacco di impegni.»
«Non preoccuparti, vai pure» Sari gli sorrise, evitando di far mostra dei propri sospetti.
Jasper si era tradito, era chiaro.
Aveva rivelato qualcosa d’importante che non avrebbe dovuto farsi scappare, a giudicare dalla reazione che aveva avuto. Era successo qualcosa ad Artika, qualcosa che potenzialmente aveva a che fare con l’omicidio di suo padre. Nell’istante successivo Sari bocciò quell’ipotesi: se la Corporazione sapeva qualcosa riguardo alla morte di Adrian, l’avrebbe comunicato di certo alla polizia. Ma nonostante tutto Silver non aveva ricevuto notizie. L’unica cosa sicura era che Jasper nascondeva qualcosa.
Attese finché non lo vide sparire oltre l’angolo. Finché non fu libera di agire.
Decise di azzardare. Ripercorse i propri passi, tornando di fronte alla sala dove Amos e il generale Rider stavano parlando. Appoggiò l’orecchio alla porta, concentrandosi per intercettare quante più parole possibili.
«Avevi dato l’ordine di apporre i sensori anti-demone nei corridoi?»
Era la voce di Amos.
«Certo signore, ed erano stati collaudati prima di lasciare il luogo di fabbricazione.»
Il generale Rider. Sari si fece ancora più attenta.
«Dunque dovremmo arrivare alla conclusione che l’infiltrato non era un demone?»
«Ma, se posso permettermi signore, il ritrovamento del cadavere di quel ragazzo che avevamo mandato due mesi fa a Fixos ha qualcosa a che fare con l’assassinio di Adrian?»
Il cuore di Sari ebbe un sussulto. Stavano parlando della morte di suo padre.
Quando Jasper aveva parlato di qualcosa che non sarebbe dovuto accadere ad Artika, si riferiva a questo. Amos sapeva qualcosa, e aveva taciuto tutto.
La sola idea le fece ribollire il sangue nelle vene, e l’unica cosa che riusciva a chiedersi era perché il mago non aveva raccontato alla polizia quello che sapeva.
«È quello che intendo scoprire, Rider» fu l’ultimo commento di Amos, e poi più nulla. Nessuna voce, solo passi che diventavano sempre più vicini.
Sari riuscì ad allontanarsi dalla porta proprio pochi istanti prima che Rider uscisse.
Aveva uno sguardo altero, sicuro di sé, magnetico. Molte donne impazzivano per lui. Lo descrivevano come una bellezza tentatrice e rude, ma per quanto riguardava Sari, il generale Rider era prima di tutto un uomo inquietante. L’aveva incrociato un paio di volte, sicuramente non abbastanza per conoscere una persona, ma sufficienti per trarre una prima impressione. E quella di Sari non era stata affatto positiva.
Lui la guardò sprezzante, uno sguardo che non le piacque per niente. Si aspettava che le dicesse qualcosa, un commento irritante sull’irruzione di poco prima, ma contro ogni aspettativa di Sari il generale la ignorò, allontanandosi con passo sicuro.
«Che cosa ci fai ancora qui?» la voce di Amos la colse di sorpresa. Era uscito e Sari non se n’era neppure accorta. La guardava con un’espressione fredda e distaccata, le mani nascoste dietro la schiena.
«Perché non sei venuto al funerale?» gli domandò con tono accusatorio. Il mago inarcò le sopracciglia: sembrava sinceramente sorpreso.
«Oh già, il funerale. Non avevo tempo, Sari.»
Per lei fu troppo. Si sentiva arrabbiata, indignata, ferita. La testa le stava per scoppiare, il dolore era così forte da stordirla, ma il suo primo pensiero era per lui. Per Amos, che ancora una volta aveva dimostrato di non avere il minimo rispetto, né per lei né per Adrian.
Tremò, fremendo di rabbia.
«Non avevi tempo?! Papà è morto, dannazione! Non hai mai avuto tempo per nessuno, né per lui né per me, ma almeno potevi sforzarti di venire al suo funerale!»
Stava gridando. Se ne rese conto solamente nel momento in cui vide delle persone affacciarsi nel corridoio. Non riuscì a distinguere se fossero guardie o maghi. In quel momento l’unica persona capace di catturare tutta la sua attenzione era davanti a lei, e la stava guardando come se le sue parole gli fossero scivolate addosso. Amos era imperturbabile.
«Quando hai in mano le redini di un intero continente e sei sull’orlo di una guerra decisiva per la tua specie, è difficile trovare il tempo per andare a un funerale.»
L’effetto di quella frase fu travolgente: gli occhi divennero rapidamente lucidi, il respiro si fece affannoso, mentre le mani strette a pugno tremavano convulsamente.
E quando le lacrime scesero, per Sari non fu più possibile trattenere oltre la rabbia.
«MA LUI ERA TUO FIGLIO, DANNAZIONE!!»




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Capitolo 6
*** Artika ***


6 artika



6.

ARTIKA



*


Sari chiuse la porta dello studio con violenza. Aveva bisogno di stare da sola, e il suo ufficio era l’unico posto in tutto il dipartimento di polizia in cui avrebbe potuto trovare la tranquillità che cercava. Si lasciò sprofondare sulla poltrona della scrivania, concedendosi qualche istante per pensare. Era dannatamente nervosa.
Aveva la sensazione che entro la fine della giornata avrebbe ucciso qualcuno, ne era sicura. L’incontro con Amos era stato un disastro: non era riuscita a sopportare la freddezza con cui suo nonno l’aveva trattata, e i suoi nervi avevano ceduto.
Le risultava difficile credere che Amos non provasse la minima tristezza per la morte del figlio, ma il suo atteggiamento dimostrava l’esatto contrario. E come riuscisse a essere così indifferente, per Sari era un vero mistero.
Quando aveva lasciato la Corporazione era sfinita, ma si era ugualmente recata a lavoro nella speranza di ottenere una settimana di ferie. Il suo capo aveva storto il naso.
Ti concedo tre giorni, non uno di più” le aveva detto, ma per Sari erano troppo pochi: gliene sarebbero serviti di più se voleva indagare sulla morte di suo padre.
Non poteva permettere che fosse la Corporazione a occuparsi del caso. Non poteva lasciare che Amos, la persona che sapeva qualcosa riguardo la morte di suo padre, omettesse dettagli importanti ai fini delle indagini.
Conosceva abbastanza bene suo nonno per prevedere che avrebbe acquisito il controllo di tutto, il caso sarebbe stato insabbiato in breve tempo, e Adrian non avrebbe mai avuto giustizia. E questo non poteva permetterlo.
Uscì dal suo studio, diretta verso la sala congressi: l’unica che avesse un riproduttore di ologrammi abilitato a dare accesso a informazioni che potevano essere utili.
Quando entrò, lo vide subito. Si trovava di fronte a file di sedie rosse, sopra un piccolo piedistallo. Era un corpo cilindrico piuttosto alto, sottile e nero. Sari si guardò attorno. Soltanto quando fu sicura di essere l’unica persona nella sala, raggiunse il piedistallo.
Appoggiò la mano sulla sommità del cilindro: la fotocellula incastonatavi reagì immediatamente, riproducendo la schermata ologrammata di partenza su cui lampeggiava il cursore. Sari lo guardò, pensando a cosa digitare. Amos aveva citato una certa Fixos – probabilmente una città- che lei non aveva mai sentito nominare in vita sua. Quel nome era saltato fuori mentre il vecchio mago stava parlando di quello che era successo ad Artika.
Solo allora Sari pensò che ci doveva essere qualcosa di molto strano in tutta quella faccenda.
Perché Amos si dava tanto da fare per scoprire qualcosa sulla morte di Adrian coinvolgendo addirittura il C.S.M, l’organo militare d’assalto del regno di cui Rider era il generale, quando era più semplice e meno oneroso in termini di tempo e denaro affidare tutto alla polizia?
Dubitava che fosse dovuto all’amore paterno, dal momento che Amos non aveva mai dimostrato il benché minimo interesse verso tutto ciò che riguardava la vita del figlio.
Strisciò il dito sull’apposito spazio nell’ologramma, lasciando una scia verdastra che si compattò in una parola netta e chiara. Fixos.
Attese pochi istanti: la schermata sparì, rimpiazzata da una nuova. Riportava delle foto in bianco e nero, probabilmente non troppo recenti. Alcune erano vedute aeree di una piccola città e altre di un edificio che, Sari non ne era sicura, a una prima occhiata sembrava essere stata teatro di un grosso incendio. Tutto il terreno attorno allo stabile era arido, spoglio, morto.
Spostò lo sguardo verso le notizie riportate accanto all’immagine.
Il 16 maggio 2058 venne localizzato un laboratorio demoniaco all’interno della città di Fixos. Fonti ben informate dicono che fosse adibito alla conduzione di esperimenti di genetica nera, ma qualcosa andò storto e un grosso incendio divampò al suo interno. Le fiamme divennero ben presto impossibili da controllare e invasero la città. Nessuno sopravvisse.”
Genetica nera. Una fusione tra magia nera -la magia dei demoni- e la genetica umana. Da ciò che sapeva, veniva ritenuta ottima per manipolare organismi viventi e renderli potenziali armi da usare in battaglia. Era una pratica che otteneva parecchi consensi tra i demoni, mentre veniva aborrita dai maghi.
Sari rilesse l’articolo una seconda volta, soffermandosi di più sulla data.
2058. Erano passati dodici anni da allora, eppure aveva sentito dire da Amos che due mesi fa un uomo era stato mandato dalla Corporazione a Fixos. Per fare cosa, dal momento che secondo l’articolo ogni cosa era stata distrutta dall’incendio? Che cosa volevano i maghi di ciò che si trovava a Fixos?
Qualunque cosa fosse, doveva essere preziosa se era stata la causa della morte di chi era stato mandato lì. Che avesse qualcosa a che fare con l’orologio di suo padre? Se era così, probabilmente le due morti erano collegate, e l’assassino poteva addirittura essere lo stesso.
Sari ebbe l’impulso di dirlo subito ad Amos, ma l’istante successivo qualcosa la fermò. Quasi sicuramente il mago l’avrebbe liquidata senza neppure ascoltarla.
Sarebbe stato solamente tempo sprecato.
Però, ancora una volta, il suo pensiero tornò a Shem. Era sempre più sicura che lui fosse coinvolto in tutta quella faccenda, e più cercava di scavare a fondo, più ciò che scopriva risultava confuso. Aveva trovato soltanto pochi indizi, e non riusciva ancora a collegarli tra loro: l’unica cosa che poteva fare era indagare ancora più in profondità, e questa volta cominciando dall’inizio.
Premette il palmo della mano sulla sommità del cilindro, e l’ologramma svanì come fumo. Quando uscì dalla stanza aveva in mente un piano ben preciso, ma per metterlo in atto doveva riuscire a ottenere l’appoggio di una persona autorevole.
Si fermò di fronte a una porta, mentre la mente già pensava a come comunicare ciò che aveva intenzione di fare. Guardò la targhetta affissa sul legno. “Ufficio di Victor Silver”.
Non l’avrebbe presa molto bene, ma avrebbe potuto convincerlo se l’avesse affrontato con determinazione.
Bussò con il cuore in gola, e quando entrò lo vide chino sulla scrivania, indaffarato con scartoffie burocratiche. Andare direttamente al nocciolo della questione era la soluzione migliore, si disse.
Coraggio e una discreta dose di faccia tosta erano tutto quello che le occorreva in quel momento, e lei ne aveva a sufficienza.
«Voglio che tu mi faccia introdurre clandestinamente ad Artika.»
Silver sollevò lo sguardo su di lei. Era sorpreso, e sembrava essere sul punto di scoppiare a ridere.
«Che cosa?»
«Victor, io devo entrare in quel carcere. Devo trovare Shem, e so che questa è l’unica pista che posso seguire per arrivare a lui» gli spiegò appoggiando le mani sulla scrivania. Cercò di essere più seria possibile. Era essenziale che capisse che non stava scherzando, che quello non era un capriccio.
Silver scosse negativamente la testa.
«Non è una buona idea, Sari. Al di là del fatto che non saprei come farti introdurre là dentro...»
«Documenti falsi?»
Il poliziotto si coprì il volto con una mano.
«Non posso procurarti documenti falsi, Sari! Sono un agente di polizia!»
Non fu abbastanza per far vacillare la convinzione di Sari; se ne rese conto non appena la guardò negli occhi.
«Se non vuoi infrangere la legge, allora fammi avere un permesso speciale dalla Corporazione per entrare nel carcere, magari per esaminare meglio qualche carcerato.»
Silver la guardò, scettico. «E come posso farmi dare un permesso dal consiglio se non ci sono casi di cui necessita un chiarimento?»
«Non c’è bisogno di ottenere un vero permesso, posso falsificare la firma di Amos senza troppi problemi.»
«E questo non si chiama infrangere la legge?»
Sari guardò Silver senza rispondere alla sua domanda. Era davvero contrario a ciò che lei aveva intenzione di fare. Non aveva senso continuare a cercare di convincerlo, se le sue reazioni erano così intense. Si alzò, dirigendosi verso la porta.
«Se non mi vuoi dare una mano non importa. Farò da sola.»
«Aspetta» Silver sospirò. Era tormentato, soprattutto in quel momento. Guardava a terra, indeciso sul da farsi, combattuto tra il dovere che il suo ruolo imponeva e il bisogno di aiutare l’amica.
«Farò in modo di procurarti un permesso falso entro domani mattina. Intanto prepara i bagagli: dovrai imbarcarti sulla nave che parte da Naima per Artika.»
Sari sorrise felice, prima di uscire. «Grazie.»
Silver abbozzò un tenue sorriso cercando di apparire sereno, ma in realtà era preoccupato. Non per il permesso falso, né per le ripercussioni che questa sua decisione avrebbe potuto avere sulla sua carriera. Continuava a chiedersi dove tutta questa faccenda avrebbe condotto Sari, e il fatto di non riuscire a darsi una risposta lo rendeva decisamente inquieto.


*


Sari ficcò le mani nella tasca interna del giaccone termico che indossava, dove erano nascosti i documenti falsi: il foglio con il permesso e il passy per entrare nella nave.
Nessuno poteva imbarcarsi se non aveva la tessera che lo riconosceva come lavorante ad Artika, qualunque mansione svolgesse. Tutto per il solito, assurdo desiderio di segretezza e circoscrizione delle attività del carcere.
La nave sfilava tra i ghiacci, sicura e imponente, e Sari non poteva fare a meno di guardare con angoscia l’orizzonte, dove si profilava la sagoma di Artika.
Era una struttura tozza, bassa e larga, dalla forma rettangolare che la rendeva anonima. Delle piccole feritoie fungevano da finestre, mentre il piccolo e insignificante stabile al suo fianco era il dormitorio di chi lavorava nella prigione di massima sicurezza.
Non era un caso che proprio il continente di ghiaccio, quello più a nord di tutti, fosse stato scelto per ospitare l’edificio: chiunque avesse tentato la fuga sarebbe morto, stroncato dalle condizioni climatiche estremamente rigide. E anche nell’improbabile caso in cui un evaso fosse riuscito a sopravvivere, l’oceano che separava il continente dal regno di Silindril avrebbe finito l’opera che il gelo non aveva portato a termine.
Diversi camion uscirono dalla stiva quando la nave attraccò. I passeggeri scesero a terra, e si disposero ordinatamente in file per salire a bordo dei veicoli. Quando fu il turno di Sari, la ragazza scoprì con piacere che all’interno del mezzo c’era un gradevole tepore.
Dentro la vettura erano in dieci tra uomini e donne, chiusi nel loro silenzio con i nasi arrossati e screpolati dal freddo. Nessuno sembrava aver voglia di parlare. Se ne stavano abbarbicati nei loro giacconi, le bocche sprofondate nelle sciarpe, lo sguardo basso. Sembrava che il freddo li avesse spenti. O forse era la vicinanza di Artika, a soffocare le persone.
Sari non pensò più. Cancellò ogni cosa dalla mente, chiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal movimento del camion, schiava di un torpore piacevole. Cadde addormentata, sfinita dalla tensione accumulata in quei giorni, in un sonno leggero e senza sogni. Furono delle voci provenienti dall’esterno a svegliarla. Quando aprì gli occhi, scoprì che erano fermi. Non sapeva da quanto tempo, né aveva idea di quanti chilometri avessero percorso fino ad allora.
«Siamo arrivati?» domandò soffocando uno sbadiglio.
«Stanno facendo scendere le persone» annuì una donna seduta accanto a Sari, che cercò di scorgere qualcosa dal finestrino. L’unica cosa che riuscì a vedere fu un imponente cancello nero. Si rimise a sedere sbuffando, impaziente di entrare ad Artika.
L’occasione di scoprire qualcosa su Shem era vicina. Forse sarebbe addirittura riuscita a incontrarlo, ammesso che si trovasse ancora lì. La sola idea la fece tremare. Come avrebbe reagito quando si sarebbe trovata davanti la persona che sospettava essere l’assassino di suo padre?
I suoi pensieri vennero interrotti quando le porte del camion vennero aperte.
Un folata gelida penetrò all’interno dell’abitacolo, spiacevolmente fastidiosa, e Sari cominciò a rabbrividie. Un uomo –una guardia del carcere, a giudicare dalla divisa- salì a bordo e fece loro cenno di consegnargli i passy. Nella mano destra spiccava un copri indice in acciaio, decorato con complicati motivi intarsiati sulla superficie: un’arma piccola ma insidiosa, capace di tramortire in pochi istanti creature di notevole massa corporea.
Controllò i documenti di ogni passeggero, e quando fu il suo turno, Sari glielo porse senza lasciar trasparire la minima agitazione. Continuava a ripetersi che sarebbe andato tutto bene, che non l’avrebbero scoperta. Doveva rimanere calma, senza dare nell’occhio.
Sbirciò con naturalezza l’uomo: a giudicare dal suo volto inespressivo non doveva nutrire il minimo sospetto. Quando le restituì il documento, la mano di Sari ebbe un tremito: la psicologa impallidì, capace solamente di rimanere a guardare mentre il suo corpo la tradiva, rivelando l’agitazione che era riuscita a controllare con fatica fino a quel momento.
Ma la guardia non sembrava essere affatto sospettosa. Ai suoi occhi quel tremito non nascondeva nessun significato, era una cosa del tutto normale.
«Ti abituerai presto al freddo» borbottò, continuando a controllare i documenti.
Sari si accoccolò sul sedile con un timido sorriso imbarazzato, lo sguardo basso e il cuore che le martellava nel petto. Provava l’irrefrenabile desiderio di diventare invisibile. Era terribilmente consapevole di quanto fosse stata vicina all’essere scoperta, e nonostante tutto l’idea di esserne uscita indenne non riusciva a ridurre l’ansia che provava.
Si permise un sospiro leggero solo quando il camion riprese a viaggiare tra la neve, oltrepassando i cancelli del carcere. Era fatta: era ad Artika.
Lasciarono i passeggeri vicino all’ingresso dell’edificio e Sari arrancò con difficoltà fino al portone. La neve le impediva i movimenti, catturando le caviglie in una morsa gelata.
Quando raggiunse l’entrata, le si presentò di fronte un lungo corridoio, grigio e freddo. Le luci artificiali erano così fioche da darle i brividi.
Continuò a camminare oltrepassando lo sportello della segreteria, o almeno così recitava la targhetta sul muro. Ora veniva la parte più difficile: trovare Shem.
Sapeva che lavorava nel reparto di psichiatria, ma non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Si fermò, guardandosi attorno indecisa. Non aveva molte alternative. Decise di tentare.
«Mi scusi…» si avvicinò allo sportello della segreteria. Dall’altra parte, un uomo obeso stava archiviando dei file nel database di un ologramma, ma sembrava essere troppo assorbito dal suo lavoro per accorgersi di lei.
«Mi scusi!»
Fu sufficiente per costringerlo ad alzare il naso aquilino dall’ologramma. La studiò con sospetto attraverso le lenti rettangolari degli occhiali, uno sguardo che riuscì a metterla a disagio.
«Non ti ho mai vista qui prima d’ora.»
Sari si sforzò di fingere un sorriso. «No, infatti. Sono qui per una perizia psichiatrica su un carcerato su ordine della Corporazione. Mi potrebbe indicare dov’è il reparto di psicologia e psichiatria?»
L’uomo si alzò, e qualcosa nel suo sguardo non le piacque affatto. Sembrava che avesse fiutato qualcosa.
«Se ti ha mandata la Corporazione allora dovresti sapere che il reparto di psichiatria e psicologia non esiste.»
Il sorriso di Sari crollò come sabbia al vento. Il corpo reagì prima della mente, e nell’istante successivo Sari realizzò di star correndo a perdifiato lungo il corridoio.
Poteva sentire quell’ometto grassottello inseguirla alle sue spalle, e la sua voce intimarle di fermarsi.
Il terrore le aveva messo le ali ai piedi, e quando trovò il coraggio di voltarsi indietro lo vide a una decina di metri da lei, che tentava di raggiungerla con il grosso corpo che ballonzolava a ogni passo.
Sari tentò di aumentare la velocità. Doveva trovare il modo di seminarlo, di nascondersi da qualche parte, di far perdere le proprie tracce.
Stava correndo alla cieca, disperata, quando all’improvviso vide delle scale che portavano a un piano interrato, alla sua destra. Agguantò il corrimano e corresse la direzione all’ultimo minuto, lanciandosi giù per gli scalini.
Continuò a correre, avvolta da un grigiore metallico inquietante.
Oltrepassò una moltitudine di porte dello stesso colore del muro, uguali, impersonali. Il corridoio sembrava non voler finire, e la voce dell’uomo continuava a gridarle di fermarsi. Quando lo vide scendere le scale, il panico si impadronì di Sari. Forse fu per quello che quando voltò l’angolo e la scorse, non ci pensò su neppure un istante ad aprirla: era una porta rossa -una tonalità estremamente accesa- sulla quale spiccava un grande glifo formato da tre semicerchi intersecati da un cerchio completo, che lei riconobbe come un simbolo magico. Una porta molto strana, in mezzo a tutto quel grigiore, e quando la aprì rimase per un istante titubante: davanti a lei c’era il buio più totale.
I passi del suo inseguitore, sempre più vicini, furono ciò che la convinse: entrò nell’oscurità, chiudendosi la porta alle spalle.


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Capitolo 7
*** rinascita ***


7 rinascita
ATTENZIONE!
Anche oggi ho deciso di fare doppio aggiornamento, per portare velocemente la storia nel vivo. Per cui prima di leggere questo capitolo assicuratevi di aver letto il capitolo 6, pubblicato anch'esso poco fa.
Buona lettura,

Brin





6.

RINASCITA



*



Rimase con la schiena incollata alla porta per un tempo che non sarebbe mai riuscita a quantificare.
Sola, con il rumore terrificante del proprio respiro.
Quando sentì i passi dell’uomo diventare sempre più vicini, Sari venne colta dal panico. L’avrebbe scoperta, ne era sicura. Chiuse gli occhi, cercando di calmare quel cuore che sembrava volesse uscirle dal petto. Rimase in ascolto.
Era dietro di lei, esattamente oltre la porta. Lo immaginava mentre si guardava attorno, indeciso se entrare o no. Pregò con tutta se stessa che non lo facesse.
Poi, all’improvviso, lo sentì allontanarsi: solo allora si accorse di aver trattenuto il respiro. In quell’istante tutta la tensione accumulata la travolse, e le gambe per un attimo sembrarono non riuscire a reggerla. Non poteva permettersi di perdere tempo, non ora che sapevano che qualcuno era penetrato all’interno di Artika.
Si concesse solo pochi secondi per riprendersi, ma quando impugnò la maniglia per uscire, qualcosa in lei le impedì di abbassarla. Fece scivolare la mano verso il muro, alla ricerca di qualcosa di ben preciso. Un interruttore. Quando lo trovò, non indugiò neppure un istante, colta dalla curiosità di sapere cosa c’era in quella stanza.
E fu una frazione di secondo.
«SPEGNI SUBITO QUELLA LUCE!»
Sari non se lo fece ripetere due volte, colta dal panico. Non era sola. C’era qualcuno lì dentro, a cui evidentemente la luce dava non poco fastidio. Da quello che era riuscita a intravedere –in fondo alla stanza completamente bianca- quella persona se ne stava seduta a terra dentro una gabbia e, a giudicare dalla voce, era di sesso maschile. Il fatto che se ne stesse al buio era decisamente singolare, ma in quel momento non c’era spazio per le domande. Nella mente di Sari c’era una sola parola, che in quel momento le sembrava particolarmente allettante.
Scappa.
Rimase immobile, in attesa, cercando di percepire ogni minimo rumore per essere pronta alla fuga. Lo sentì ridere sommessamente, ma non avvertì nient’altro. Era fermo.
Il panico cominciò ad abbandonarla, e Sari ritrovò la lucidità. E con essa, molte domande. Chi era la persona che era in quella stanza? Perché si trovava lì, al buio? La cosa era decisamente intrigante, e desiderò saperne di più.
«Chi sei?»
«Avvicinati, non aver paura» lo sentì mormorare. La psicologa mosse solamente un paio di passi. La situazione in cui si trovava era decisamente assurda: era nel carcere di massima sicurezza, nascosta in una stanza buia in compagnia di uno sconosciuto che, per quanto ne sapeva, poteva essere chiunque. E desiderava che lei gli si avvicinasse.
La cosa cominciava a renderla abbastanza nervosa.
«Chi sei?» gli domandò di nuovo, cominciando a spazientirsi.
«Avvicinati.»
Sari non riuscì a impedirsi di sbuffare, frustrata dal modo di fare di quella persona. Non poteva vederlo in faccia, perché la luce gli feriva gli occhi, e sentiva il bisogno di scoprire chi fosse. Di sapere perché si trovasse ad Artika.
Lì, al buio in quella situazione assurda, avere delle risposte l’avrebbe –probabilmente- rassicurata.
Forse se l’avesse accontentato sarebbe riuscita a ottenere ciò che voleva, si disse.
Decise di tentare. Raggiunse il fondo della stanza, lentamente: il buio la faceva sentire tremendamente insicura. Una sensazione che non le piaceva affatto, e che non contribuiva di certo a calmarla. Quando sentì un rumore metallico, simile a delle catene, si fermò all’istante.
Era incatenato, e la spiegazione poteva essere solamente una: era un carcerato. Non si sarebbe mai aspettata di incontrarne uno lì, in quella stanza, al buio. Le sue aspettative erano state tradite, e la faccenda stava assumendo toni foschi che la stavano facendo diventare maledettamente interessante.
«Cammina e vieni qua» lo sentì mormorare, scandendo le parole. Era impaziente, se n’era accorta dal tono che aveva appena usato, e la cosa la insospettiva. Non riusciva a capire che intenzioni avesse, ma di certo il fatto che fosse un carcerato non deponeva a suo favore.
Avrebbe potuto voltarsi e scappare fuori da quella stanza. Lui era incatenato, non sarebbe riuscito a impedirle la fuga, eppure non lo fece. Era intimorita e insospettita dalla situazione in cui si era involontariamente cacciata, ma la curiosità era più forte di ogni altra cosa.
Riprese a camminare, lentamente.
«Fermati» le ordinò, e lei non se lo fece ripetere.
Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un gesto che faceva spesso quand’era nervosa, ma quando abbassò la mano sentì qualcosa sfiorarla. Allungò il braccio lentamente, con indecisione, finché non avvertì una superficie liscia a contatto con la pelle. Spostò la mano mantenendo il contatto con quel materiale, e capì che qualunque cosa fosse, sembrava continuare in ogni direzione. Era una cella senza sbarre, trasparente: un alloggio singolare, che stuzzicava ulteriormente la curiosità di Sari e contribuiva a far diventare ancor più nebulosa l’intera faccenda. Perché proprio una cella del genere? Che cos’aveva fatto quell’uomo per essere lì?
«Liberami.»
Suonò come un ordine, così assurdo che lasciò la psicologa di stucco.
«Che cosa?! No!» sbottò sconcertata. Si sarebbe aspettata qualunque reazione da parte del carcerato. Rabbia, disperazione e supplica furono le prime che le vennero in mente. Si sentiva così pronta ad affrontarle, che quando ricevette solo silenzio rimase spiazzata.
Attese una sua parola, ma l’unica cosa che riusciva a sentire erano i loro respiri. Cominciava a sentirsi a disagio, e fu sul punto di voltarsi e uscire da quella stanza quando la voce dell’uomo disse una cosa che la sorprese.
Una cosa che mai si sarebbe aspettata di sentire in quella circostanza.
«Tu non lavori qui.»
Sari fu incapace di rispondere, confusa da quell’affermazione. Non era possibile che se ne fosse accorto: erano immersi nel buio più totale, e quand’era entrata aveva acceso la luce per una frazione di secondo; un tempo sicuramente troppo scarso per riuscire a riconoscere una persona. Oltre tutto, se era vero che la luce gli dava fastidio, non era possibile che fosse riuscito a vederla in viso per quel breve istante. Ma per quanto continuasse a ripeterselo, l’evidenza rimaneva innegabile: nonostante la logica, quel carcerato era riuscito a indovinare. Come ci fosse riuscito, rimaneva un completo mistero.
«Come lo sai?»
«Hai qualcosa di familiare...» sembrava che riflettesse a voce alta, e il fatto che stesse ignorando le domande che gli venivano poste, stava facendo perdere rapidamente la pazienza a Sari. Il desiderio di capire stava diventando più forte di minuto in minuto, ma ottenere risposte sembrava ormai impossibile. Stava per rinunciare, pronta a occuparsi del motivo per cui si era infiltrata ad Artika e gettarsi alle spalle quell’uomo misterioso, quando capì.
All’improvviso tutto le fu chiaro. Come lui fosse in grado di vedere al buio poteva avere un’unica spiegazione, così semplice che si stupì di come non le fosse venuta in mente prima.
«Tu sei un demone?»
«Liberami.»
Sari iniziò a spazientirsi sul serio: stava perdendo tempo prezioso senza concludere nulla.
«Vuoi rispondere a una mia domanda per una volta?! Come fai a vedermi? Sei un demone?»
«Mi dispiace, ma queste sono due domande. Tu avevi detto una» stava ridendo di lei, e la cosa la fece imbestialire ancora di più.
L’assassino di suo padre era in libertà, e lei stava perdendo tempo con una creatura che non aveva nulla a che fare con Shem. Stava indugiando su una questione che non l’avrebbe portata da nessuna parte.
«Basta, me ne vado» decretò, sospirando spazientita.
«Aspetta!» lo sentì gridare, una reazione insolita, inaspettata. Per un istante, nella sua voce, Sari aveva sentito qualcosa, un’urgenza che la sorprese. Era come se da quell’imperativo dipendesse la vita di quella creatura.
Non ci fu tempo per dire nulla. Successe tutto in pochi istanti: un rumore provenne dalle spalle della ragazza, simile a quello di una maniglia che viene abbassata, e poi all’improvviso ci fu luce. Artificiale, intensa.
Sari si voltò verso l’entrata, colta dal panico. Nella sua mente non c’era più spazio per la creatura con cui aveva parlato fino a pochi istanti prima. L’unica cosa che riusciva a pensare era che l’avevano scoperta.
Nonostante tutto, però, l’uomo che era entrato non sembrava avere cattive intenzioni. Indossava una tuta da inserviente, e reggeva un vassoio con del cibo dall’aspetto non molto invitante.
La notò subito, e le rivolse un sorriso cordiale.
«Dovrei lasciare più spesso la porta aperta, se al ritorno trovo una ragazza graziosa come te. Sei nuova? Ti hanno mandata qui per sostituire Kalabis?»
«No, sono qua per svolgere altre mansioni. Sto ancora imparando» cercò di sorridere, sforzandosi di apparire naturale e a proprio agio, anche se il cuore stava per scoppiarle. Pregò con tutta se stessa che quell’uomo bevesse quella bugia costruita al momento, altrimenti si sarebbe trovata in guai ben più seri. Ma l’inserviente non sembrava sospettare nulla: continuava a sorriderle, gentile.
«Certo, Kalabis era il capo: manderanno una persona anziana, con molta esperienza alle spalle per sostituirlo» annuì, e per Sari fu come ritornare a respirare dopo una lunga apnea.
Non aveva idea di come avrebbe fatto a togliersi dai guai se fosse stata scoperta. L’idea di rischiare la copertura l’aveva fatta sentire con le spalle al muro, senza vie di uscita. In trappola. Ma anche questa volta la fortuna era stata dalla sua parte.
Preferì non chiedersi per quanto tempo ancora lo sarebbe stata.
All’improvviso l’uomo nella gabbia lanciò un lamento sordo, continuo, e Sari rimase sorpresa quando riuscì a guardarlo: solamente in quel momento, con la luce, lo vedeva davvero per ciò che era. E sembrava essere del tutto umano.
Se ne stava seduto a terra, con il capo chino e gli occhi chiusi. Sul suo viso era dipinta un’espressione sofferente, parzialmente nascosta dai capelli: una zazzera nera e spettinata, che gli arrivava alle spalle. Delle catene gli trattenevano i polsi, assicurate al muro, e l’abito logoro suggeriva che quell’uomo fosse incarcerato da molto tempo.
«Spegni la luce» sibilò, ma l’inserviente lo ignorò: si avvicinò alla gabbia, e sfilò dalla tasca del camice un mazzo di chiavi. Ne infilò una nella serratura di una piccola porta che dava accesso alla cella, ed entrò. Appoggiò il vassoio a terra, a poca distanza dal carcerato.
«Tieni, mangia.»
«SPEGNI LA LUCE!»
Fu un urlo che fece sussultare Sari. Era sofferente: tutto di lui lo gridava, dalla postura china del suo capo, all’urgenza nella sua voce. Ma la sua richiesta venne di nuovo ignorata.
L’inserviente uscì dalla cella richiudendo a chiave la porta. Quando si voltò verso la psicologa, il suo viso era illuminato da un’espressione sorpresa.
«Ah, ho capito! Ti hanno mandato qui per prendere il posto di Shem, vero?»
«Lo conosce?» Sari non poteva essere più stupita. Aveva pensato spesso a come avrebbe potuto trovare delle tracce, e ogni volta aveva ipotizzato le traversie più improbabili e difficili. Nelle sue previsioni il tempo che avrebbe impiegato per avvicinarsi a Shem sembrava infinito, ma nonostante tutto la ruota della fortuna stava girando insperatamente in suo favore: era ad Artika da meno di mezz’ora, e aveva già davanti a sé una persona che aveva incontrato e conosciuto Shem.
Era così emozionata che le risultò difficile impedirsi di esultare.
«Non lo conoscevo proprio bene. Eravamo colleghi, ma non avevamo mai legato. Era un ragazzino che se ne stava sempre sulle sue e ti guardava come se fosse superiore a te. Personalmente mi inquietava» l’uomo uscì dalla cella e la richiuse a chiave. Indicò il corridoio invitando Sari a precederlo, sfoggiando un sorriso cordiale. «Ti faccio da cicerone.»
«Grazie» la ragazza accolse l’invito senza farselo ripetere. Nella sua mente c’era solamente Shem. Null’altro importava, tranne quel piccolo ometto che lo aveva conosciuto. Tutto ciò che l’aveva distratta fino a pochi minuti prima era improvvisamente lontano anni luce. L’uomo incatenato, la sua identità, il perché si trovasse in quella cella: tutto aveva perso significato nell’istante in cui aveva sentito il nome di Shem, pronunciato da quell’inserviente.
Ma quando fu di fronte alla porta, con la mano sulla maniglia, lo sentì: un grido terribile e raggelante, un urlo che la fece tremare di paura. Vide il carcerato contorcersi a terra, preda di chissà quali spasmi mentre continuava a gridare; la bocca spalancata e il viso sfigurato dal dolore che lo stava divorando.
E lei non era capace di muovere neppure un muscolo, impietrita di fronte all’intensità di quella scena inaspettata.
Quando riuscì a riacquistare lucidità il primo impulso fu di irrompere all’interno della cella per prestare soccorso al carcerato che continuava a dimenarsi, ma aveva bisogno delle chiavi. Guardò l’inserviente, e lesse nel suo volto qualcosa che la stupì: aveva paura.
Nei suoi occhi c’era terrore puro.
Fissava quell’uomo che continuava ad agitarsi e a gridare, e non riusciva a ritornare in sé.
Il perché quell’inserviente avesse avuto una reazione così intensa, era un vero mistero.
«Lo aiuti, non vede che sta male?!» Sari tentò di farlo ragionare. Era necessario che ritornasse in possesso del suo sangue freddo. Farsi assalire dalla paura in quel modo non avrebbe giovato a nessuno.
«Potrebbe essere pericoloso… E se lui…»
«Mi dia le chiavi. Ci andrò io.»
Lui la guardò incerto, ma alla fine cedette. Frugò tra il mazzo, finché non trovò la chiave che cercava e gliela mostrò.
«È questa. Stai attenta.»
Sari annuì. L’istante successivo stava correndo verso la cella con il mazzo di chiavi stretto tra le mani. Aprì la porta e si precipitò al fianco del carcerato, senza curarsi di chiudersi la cella alle spalle. Lo guardò contorcersi, preoccupata.
«Dove ti fa male?» domandò appoggiandogli una mano sulla spalla con delicatezza. Si ritrovò a guardarlo negli occhi grigi, e in quel momento capì subito che c’era qualcosa che non andava.
E successe tutto troppo in fretta.
Il carcerato riuscì a strappare le catene dal muro, e Sari si ritrovò a fargli da scudo senza aver avuto neppure il tempo di opporsi.
Il cuore le batteva furiosamente nel petto mentre cercava di rendersi conto di cosa fosse successo e lì, impotente tra le mani del suo aggressore, annientata dalla paura, non aveva avuto neppure il tempo di accorgersi delle garze sporche e consunte che gli fasciavano i palmi.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare erano quelle mani che le artigliavano la gola e il braccio, e la consapevolezza di essere in trappola la travolse e per un istante la lasciò stordita.
«Andiamo» le sussurrò all’orecchio, e quando il suo alito caldo le sfiorò il collo si sentì morire. Cercò di opporsi, di fare resistenza, ma era tutto inutile. Lui la trascinò fuori con facilità, sfoggiando una forza che il suo corpo magro non dimostrava.
«F-fermati…» balbettò l’inserviente, neppure troppo convinto. Era terrorizzato. Congelato dalla paura.
Sari ebbe la netta sensazione che la situazione sarebbe peggiorata se non si fosse ripreso in fretta, nonostante sembrasse impossibile che le cose potessero precipitare ulteriormente.
E nel vederlo inerme e sconfitto, venne colta dalla disperazione.
«Aiutami! È disarmato, non vedi? Non può fare niente!»
L’ometto scosse la testa. Sembrava sull’orlo del pianto.
«Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a dire prima di correre verso la porta, e prima che potesse rendersene conto Sari si ritrovò caricata sulla spalla del suo sequestratore, come un sacco di patate.
Il carcerato divorò i metri che lo separavano dall’inserviente, e in pochi istanti gli fu letteralmente addosso: non gli diede neppure il tempo di accorgersi che lui era lì, alle sue spalle.
Gli appoggiò con malagrazia la mano libera sulla testa.
Poi fu terrore.
Orrore.
Morte.
Il grido dell’uomo fu così raccapricciante da far accapponare la pelle. Sari lo vide accasciarsi a terra, la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Vuoti. Freddi. Spenti.
Non si muoveva più!
Quella consapevolezza la gettò nel panico.
«Che cosa gli hai fatto?!» urlò dimenandosi e scalciando, con il grido di quell’uomo ancora nelle orecchie e la consapevolezza agghiacciante di essere rimasta completamente sola.
Lui la rimise a terra, spingendola con violenza contro il muro. L’impatto fu così improvviso e doloroso che lasciò Sari senza fiato.
Quando si rese conto che il fuggiasco la stava guardando, notò anche come il suo sguardo fosse impaziente e, soprattutto, folle. Sembrava pazzo, ma al contempo anche lucido.
Un binomio che la inquietò e la terrorizzò.
«Ora tu mi aiuterai a fuggire da qui» mormorò lui con un ghigno appena accennato, guardandola dritta negli occhi. Stava aspettando una sua reazione. Probabilmente era sicuro che si sarebbe mostrata terrorizzata, come un cerbiatto tremante tra le grinfie di un predatore.
Lo guardò con odio, sollevando il capo con fierezza.
Non mi piegherò. Non lascerò che tu mi annienti con la paura.
Lo pensò davvero, e quella convinzione la fece sentire incredibilmente spavalda. Lo avrebbe potuto affrontare, ne era sicura, ma quando lo vide alzare la mano non riuscì a impedirsi di chiudere gli occhi: fu una reazione istintiva. E sentì qualcosa sul suo viso, qualcosa che le sfiorava la guancia facendole il solletico.
La stava toccando.
Quel pensiero annientò in un istante tutto il suo coraggio, e la paura divenne di nuovo sovrana. Rimase immobile, desiderando solamente che tutto – qualunque cosa dovesse accadere- finisse presto.
Poi si sentì toccare i capelli, e quando lo vide annusarli seppe che non avrebbe più potuto sopportare oltre quel contatto.
Cercò di spingerlo lontano, di liberarsi della sua vicinanza soffocante e terrificante, ma riuscì appena ad allontanarlo di pochi di centimetri. Si fece prendere dallo sconforto, cominciando a sentire il bisogno di piangere: si sentiva maledettamente in trappola. Come se non bastasse, il suo sguardo contrariato non prometteva nulla di buono.
La spinse contro il muro una seconda volta, con più forza. Con più rabbia.
Sari si lasciò sfuggire un gemito di dolore.
«Devo ripetermi?» le domandò divertito, afferrandole il mento e costringendola a guardarlo dritto negli occhi; a vomitargli addosso tutte le emozioni che provava con un solo sguardo. Sari lo accontentò volentieri, guardandolo con odio. «No.»
Non abbassò lo sguardo: lo mantenne fisso su quegli occhi che la guardavano come se fossero folli, che provavano una gioia perversa nel vederla tremare e tentare di opporsi a lui nonostante la paura.
Quegli occhi grigi, così particolari e insoliti…
Penetranti, impudenti, comunicativi.
Occhi familiari. Occhi che aveva già visto prima di allora. Occhi che la guardavano, e nascondevano un messaggio che soltanto a lei era stato dato di leggere.
Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non è come sembra.
Una parola.
Un cognome.
E, la cosa più sconcertante, era che doveva essere morto.
La consapevolezza di ciò che aveva davanti la lasciò stordita. Confusa. Sconvolta.
«Non è possibile... Warknife…»
Il carcerato si limitò a sogghignare, enigmatico.
«Grazie per aver accettato di collaborare, dottoressa.»



*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Questo capitolo è innegabilmente uno dei miei preferiti. Lo è stato da subito, e spero che possa essere così anche per voi.
Come forse molte di voi avranno immaginato, le comparse non sono messe lì tanto per fare, e Warknife non è certo un'eccezione, ANZI. Ma posso già dirvi che Artika in sette anni ha lavorato parecchio su di lui, e i segni si vedranno. Oh, se si vedranno! :P
Detto questo, vi lascio un po' di domande che hanno un loro motivo d'essere: come ha fatto Warknife a uccidere l'inserviente? Perché è stato rinchiuso in una zona protetta dalla magia? Perché la sua cella non è di semplici sbarre?
Spero che questo capitolo sia riuscito a stuzzicarvi un po'. Se avete voglia, sapete che le vostre impressioni sono sempre ben accette :)
A giovedì prossimo (questa volta con un solo capitolo),

Brin

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Capitolo 8
*** rapimento ***


7



7.

RAPIMENTO



*



Quando l’allarme squarciò il silenzio, rimbombando lugubre tra i corridoi del carcere, il caos che ne derivò fu immediato: le guardie correvano ovunque senza una direzione, ignorando il perché fosse stata attivata quella sirena assordante. Sapevano solamente che dovevano correre, con i sensi all’erta e la mente pronta a obbedire a ogni ordine. E quando una voce gracchiò dagli altoparlanti, esigendo che l’evaso fosse fermato, si divisero subito in squadre come perfetti soldati: in pochi minuti coprirono quasi tutta l’area dell’edificio, le armi in pugno e pronte a far fuoco.
Corsero veloci, preparati a stanare la preda e catturarla senza pietà, disposti a sacrificare anche l’ostaggio se fosse stato necessario, quando l’altoparlante squillò di nuovo.
«Si sta dirigendo verso il generatore!»
C’era apprensione nella voce di chi aveva appena dato l’allarme, lo capirono subito. Come intuirono il pericolo, che diventava sempre più concreto di minuto in minuto: il carcerato si stava dirigendo in una zona senza vie di fuga.
Verso il cuore del carcere.
Verso la sua fonte di energia.
Non potevano permetterglielo: dovevano fermare la sua fuga quanto prima, o le conseguenze sarebbero potute essere disastrose.
Tutte le squadre si diressero verso la stessa zona, ma non furono abbastanza veloci: quando sentirono un rumore di spari provenire dal generatore, capirono di essere arrivati tardi.
Qualcuno gridò, poi di nuovo spari.
E poi fu improvvisa.
Assordante.
Terrorizzante.
L’esplosione ferì i timpani; le orecchie sembravano non voler smettere di fischiare, ma loro non potevano fermarsi. Raggiunsero la sala del generatore senza troppe speranze di riprendere il prigioniero, e ciò che videro era esattamente ciò che si aspettavano di trovare: corpi riversi a terra, agonizzanti nel loro stesso sangue; fiamme e lamiere contorte su se stesse; e lì dove una volta c’era il muro, un enorme squarcio dal quale entravano vento freddo e fiocchi di neve.
E sul manto candido che circondava il carcere, due paia di orme. Riuscirono anche a vederle: due sagome che si allontanavano, sfidando il gelo e il vento che ululava come se volesse rendere noto a tutti che quella sarebbe stata la loro fine.
Perché di una cosa tutti erano sicuri: anche se si scappava da Artika, non si poteva essere altrettanto fortunati con il freddo.
Ci avrebbe pensato la neve ad arrestare la folle corsa dell’evaso.


*


«Fermati» Sari arrancò esausta, con le caviglie sprofondate nella neve. Camminare stava diventando sempre più difficile, e ogni passo le costava un’enorme forza di volontà. Era sfinita, infreddolita e impaurita, e il pensiero di essere da sola con un assassino di massa non l’aiutava.
Da quando erano fuggiti non erano passate che un paio d’ore, e il pensiero di tentare una fuga aveva fatto capolino nella sua testa solo una volta, ricacciato subito dalla conclusione che sarebbe probabilmente morta molto presto, per mano del suo sequestratore o stroncata dal freddo.
Al diavolo la neve, pensò concedendosi un breve istante di riposo. Quando lui la strattonò tirandola per il polso, il suo corpo non fu abbastanza pronto a rispondere e Sari si ritrovò carponi nella neve.
Soffocò a stento un’imprecazione, sentendo i pantaloni bagnarsi e le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi.
Non fare la bambina. Non è il momento, pensò.
Liberò il polso dalla stretta del fuggiasco con un gesto improvviso, e quando lui si voltò a guardarla, lei non abbassò lo sguardo. Si rimise in piedi senza esitare, a testa alta; lo guardò a lungo, con astio.
«Ma brava… Dopo questo sfoggio di coraggio ti senti più forte?» la canzonò con un sogghigno che minacciò di far perdere la testa a Sari.
La ragazza strinse i pugni, imponendosi di tacere: aveva i nervi a fior di pelle, ma doveva resistere. Si era già spinta oltre nel momento in cui gli si era opposta liberando il polso dalla sua stretta, e non poteva permettersi di irritare Warknife più di quello che già aveva fatto.
Lo guardò in silenzio, sicura che non sarebbe riuscita a trattenere parole inopportune se gli avesse risposto.
«Forza, cammina.»
E Sari non se lo fece ripetere. Anche se ogni passo le costava una fatica enorme, anche se il suo corpo gridava per la stanchezza e il freddo che lo intorpidiva, lei non si era mai sentita così risoluta.
Avanzò nella neve, decisa a superare Warknife e a dimostrargli che le sue parole sprezzanti non sarebbero riuscite ad abbatterla, ma il suo corpo la tradì dopo pochi passi: sentì le gambe cedere all’improvviso, così velocemente da non avere neppure il tempo di sorreggersi con le mani.
Si ritrovò distesa sul fianco, sprofondata nella neve mentre malediceva quei piedi che non l’avevano sostenuta. Mentre imprecava contro quella situazione assurda, contro il suo rapitore, ma soprattutto contro se stessa: aveva fatto di testa sua, e a causa della sua ostinazione si era cacciata in un guaio dal quale non sarebbe riuscita a uscire.
Sentì Warknife sbuffare, e lo immaginò mentre la guardava scocciato.
«Muoviti, non ho intenzione di stare qui fino a notte fonda.»
«Perché, secondo te io sí?» lo rimbeccò Sari rialzandosi lentamente, e soltanto allora notò che il suo rapitore non sembrava affatto irritato: la guardava con le braccia conserte e un’espressione ansiosa che non prometteva nulla di buono.
Quando le fu abbastanza vicino, le afferrò il polso e glielo torse, riducendo Sari di nuovo in ginocchio.
La ragazza gemette di dolore, costretta a piegarsi su se stessa per cercare un po’ di sollievo. «Mi fai male, lasciami!»
«Allora cammina» una luce eccitata illuminò lo sguardo di Warknife. Il suo tono di voce parlava chiaro: godeva nel vederla in ginocchio, sottomessa, col capo chino. Sconfitta.
E quel pensiero era come vento per il fuoco che bruciava dentro la psicologa, per quella rabbia che solo la paura di ciò che lui avrebbe potuto farle sembrava riuscire a bloccare.
Lo guardò con disprezzo, cosa che sembrò irritare ulteriormente l’evaso. La presa sul polso di Sari si fece più salda, la torsione sempre più innaturale, e il dolore divenne insopportabile.
«LASCIAMI!» gridò, arrabbiata.
Impotente.
Spaventata.
Era nelle mani di quell’assassino, mai come in quel momento ne era stata consapevole: la forza con cui le stava torcendo il polso era solo un assaggio di quello che avrebbe potuto farle nel caso in cui lei non avesse obbedito.
Non aveva possibilità per contrastarlo, e si sentiva messa con le spalle al muro, in trappola.
Stava per supplicarlo, quando sentì la pressione sul polso venir meno. Il sollievo fu immediato.
Quando alzò lo sguardo, Warknife si voltò verso di lei, guardandola irritato.
«Cammina o ti ammazzo.»
Nella sua voce non c’era più l’eccitazione perversa di poco prima, ma non era il momento di rischiare. Sari si rialzò barcollando, esausta, ma cercò di lottare contro il suo stesso corpo. Raggiunse il suo rapitore, con i polmoni in fiamme per l’aria gelida e i muscoli ormai senza forze, intorpiditi dal freddo.
Capì che non sarebbe riuscita a proseguire oltre quando lo guardò negli occhi, e le venne naturale domandarsi com’era possibile che lui, vestito solo con la casacca del carcere, non subisse gli effetti del freddo. Come potesse avere ancora tutta quella forza, quando lei riusciva a mala pena a reggersi in piedi.
Non riuscì a chiederglielo: sentì le forze abbandonarla improvvisamente, e anche parlare le risultò impossibile. Le gambe le cedettero di nuovo, le palpebre divennero macigni e gli occhi le si chiusero senza che lei potesse impedirlo.
Avrebbe voluto rialzarsi, avrebbe desiderato continuare a camminare, ma la stanchezza l’aveva prosciugata di ogni energia. Le uniche cose di cui fu consapevole prima di perdere conoscenza furono le braccia che la strapparono dalla neve, e il piacevole tepore che avvertì nel momento in cui qualcosa di solido e caldo aderì al suo petto.


*


Dal suo studio, Amos non poteva fare a meno di osservare con l’attenzione di un falco quello che stava accadendo nel cortile: il piccolo palco in pietra, utilizzato spesso nelle conferenze con gli organi d’informazione del regno, era circondato di persone. Giornalisti, nello specifico.
Una schiera di seccatori impiccioni e rumorosi, venuti lì apposta per lui. Per conoscere cos’era accaduto nei dettagli.
Quando l’avevano informato della fuga del prigioniero da Artika, Amos si era illuso di riuscire a tenere segreta la cosa, ma evidentemente qualcuno si era lasciato andare a delle confidenze fatte alle orecchie sbagliate. E ora erano tutti lì, affamati di novità, ad assediare il palazzo.
Quando sentì bussare alla porta, non faticò a immaginare di cosa si trattasse.
«Signore, i giornalisti stanno diventando impazienti.»
Era Jasper naturalmente, e qualcosa nella sua voce sembrava implorare Amos.
Poteva immaginarlo dietro la porta mentre lo aspettava saltellando sui talloni, incapace di stare fermo. Indaffarato e diligente come una formica operaia, mentre cercava di svolgere al meglio il suo lavoro e avere cura di tutto ciò che riguardava il mago anziano.
Avrebbe fatto aspettare volentieri Jasper e i giornalisti, ma aveva la netta impressione che se l’avesse fatto, l’avrebbero tormentato per il resto della giornata.
Quando uscì in corridoio, sorpassando il suo assistente, non lo degnò di uno sguardo. Si diresse verso il cortile, accompagnato da Jasper che camminava un passo indietro a lui, con il solito atteggiamento di riverenza che la gerarchia imponeva.
Raggiunse l’esterno, e poco distante dal porticato cominciò a intravedere la folla. Si fermò, approfittando della sicurezza offerta dalla distanza che lo separava dai giornalisti, sicuro di non venire visto né sentito da nessuno che non fosse Jasper.
«Se dovesse esserci necessità, sai quando intervenire» gli disse prima di dirigersi verso il palco. All’inizio sembrarono non accorgersi di lui: continuarono a ciarlare tra loro, creando un mormorio diffuso che risultava quasi fastidioso. Poi qualcuno esclamò il suo nome, e la folla aprì lentamente un varco per permettergli di passare.
Nell’istante in cui Amos mise piede sul palco, il chiacchiericcio scemò rapidamente e il mago divenne il centro dell’attenzione per tutte quelle persone che pendevano dalle sue labbra.
Una situazione a cui Amos era ormai abituato da molto tempo, ma che in quell’occasione non faceva altro che far aumentare il principio di mal di testa che gli attanagliava le tempie.
«Signor Kalabis, ci può spiegare esattamente che cos’è accaduto?»
A parlare era stata una donna: non più nel fiore degli anni, ma di bell’aspetto, era vestita con un tailleur elegante che probabilmente utilizzava per le occasioni migliori. In mano reggeva un oggetto di forma ovale, luminoso, proteso quanto più possibile verso il mago. Un registratore di suoni, compagno inseparabile di chiunque lavorasse come giornalista.
Amos squadrò la donna, impassibile come sempre. Con quello sguardo che sapeva incutere soggezione e che lui amava così tanto ostentare. La guardò come se fosse senza valore, come se non fosse degna di attirare la sua attenzione. Non si sarebbe soffermato un istante di più a impegnare il suo prezioso tempo con chi non stava al proprio posto.
Con chi lo interrompeva.
Con chi parlava al suo posto.
«Nulla che non sia già stato reso noto, signorina» liquidò la faccenda con un cenno della mano.
Un brusìo si levò tra la folla di giornalisti, ma Amos non vi diede importanza. Se desideravano commentare il suo modo di fare, la cosa non lo turbava minimamente: preferiva essere etichettato come persona sgarbata, piuttosto che perdere tempo in chiacchiere inutili.
«Se il prigioniero è riuscito a evadere e a fuggire con un ostaggio dobbiamo dedurre che il carcere non è una struttura sicura come era stato assicurato?» era stato un elfo a parlare, questa volta, e la postura di Amos si fece improvvisamente rigida. Stava per ribattere che sarebbero stati presi seri provvedimenti a riguardo, che i cittadini non dovevano fare altro che stare tranquilli perché la Corporazione li avrebbe protetti, ma non gli fu possibile.
«Si dice che questo prigioniero sia pericoloso: è vero?» domandò un’altra giornalista. Amos tossì, irritato.
«Una domanda alla volta, per favore.»
«Che crimine aveva commesso l’uomo che è fuggito?»
«É un pluriomicida» spiegò, dicendo in fondo una mezza verità.
«E come mai non è stato condannato a morte, signor Kalabis?»
«Semplicemente perché la sentenza doveva ancora essere eseguita. Se c’è una cosa che si fa ad Artika è rispettare qualsiasi decisione presa dalla Corporazione» rispose Amos, ancora una volta con quello sguardo impassibile, indecifrabile. Sembrava che non ci fosse nulla che potesse toccare il mago al punto da fargli assumere una qualunque espressione che non fosse l’indifferenza, nessuna domanda abbastanza imbarazzante o fuori luogo, nessun argomento che potesse metterlo a disagio.
Nulla, almeno fino a quel momento.
«Si dice che il carcerato fosse rinchiuso in una zona particolare del carcere, chiamata zona rossa: ci può dire se esiste realmente e, se è vero, che cos’è?» domandò un altro giornalista, con il registratore in mano, pronto a catturare qualunque dichiarazione interessante venisse fatta dal mago.
Non fu abbastanza accorto per notare l’espressione di Amos. Più di mille notizie inaspettate, quello sguardo spento che si rabbuiava all’improvviso sarebbe stata l’esclusiva perfetta.
Ma il mago era abile, e sapeva dissimulare molto bene ciò che sentiva: gli bastò un battito di ciglia per indossare di nuovo quella maschera imperturbabile che si addiceva così bene al suo viso vecchio e stanco.
«Non ho mai sentito nominare nulla del genere, mi dispiace.»
Fu facile ingannarli: nessuno si accorse del cambiamento nel suo sguardo, e questo era esattamente quello che il mago desiderava. C’erano cose di cui era meglio non parlare.
Cose che non dovevano essere conosciute.
Cose che stavano sfuggendo al suo controllo.
E questo Amos non poteva davvero permetterselo.
Quando vide Jasper salire sul palco, provò un enorme sollievo: era finita, almeno per quel giorno.
«Per oggi la conferenza stampa è terminata. Il signor Kalabis rilascerà al più presto una dichiarazione durante la prossima conferenza e spiegherà in maniera più approfondita quanto è accaduto» il giovane mago congedò la folla con un sorriso tenue e cortese. Era il momento perfetto per dileguarsi, ora che l’attenzione della folla, intenta a protestare contro quella cacciata inattesa, era tutta rivolta verso Jasper: Amos ne approfittò per scendere dal palco, velocemente.
Era perso nei propri pensieri; così preso dall’urgenza di sottrarsi agli sguardi avidi dei giornalisti, da non accorgersi della strana donna in ultima fila. Il suo aspetto era piuttosto comune: capelli neri, occhi azzurri e una frangia che le spezzava il viso lungo e magro. Ciò che la rendeva insolita, a una più attenta osservazione, era il comportamento: aveva continuato a fissare in silenzio Amos per tutta la durata dell’incontro, immobile tra i giornalisti che si sbracciavano per fare una domanda.
Aveva seguito a braccia conserte ogni movimento del mago, spiando ogni più piccola contrazione dei suoi muscoli, memorizzando tutte le informazioni che riusciva a ottenere dalle sue analisi.
Aveva compiuto il proprio lavoro come le era stato ordinato, e ora che l’intervista era terminata, non aveva più motivo di trattenersi oltre.
Si allontanò dalla folla, dirigendosi verso la boscaglia che costeggiava il cortile. Un passo dopo l’altro, cercando di apparire naturale, di non farsi notare, con in mente una scusa già pronta da sciolinare nell’eventualità che qualcuno la potesse notare mentre prendeva quell’insolita direzione.
Solo quando fu abbastanza lontana dal cortile e sufficientemente protetta dalla vegetazione, si permise di agire.
Si morse un dito, incidendo la pelle del polpastrello con i canini acuminati che caratterizzavano la sua razza, e il sapore ferroso del proprio sangue le bagnò le labbra.
Quindi fu la volta del cerchio: lo disegnò tracciando delle rune demoniache sul tronco più largo che riuscì a trovare. L’istante dopo, lì dove c’era l’albero su cui aveva tracciato la formula magica per manipolare lo spazio, si aprì il portale: un vortice bianco, sfavillante, oltre il quale poteva intravedere i contorni del luogo che doveva raggiungere.
Non indugiò. Con un passo entrò nel passaggio, e il portale si richiuse alle sue spalle, risucchiandola in un luogo lontano. Poi fu silenzio.
Non un rumore, non un movimento nel bosco.
Non erano rimaste neppure le rune di sangue a suggerire che fino a pochi istanti prima in quella piccola boscaglia vi fosse stato un demone.
Niente.
Come se nulla fosse accaduto.


*


Quando l’agente Silver sentì la porta del proprio ufficio sbattere rumorosamente, capì subito che chiunque fosse appena entrato non era di buon umore. Non gli sarebbe servito neppure alzare lo sguardo dai documenti su cui stava lavorando, per sapere di chi si trattasse.
E, soprattutto, aveva già un paio di ipotesi riguardanti il motivo di tutto quel trambusto. Un motivo che preoccupava anche lui, a dirla tutta.
Quando si decise a rimandare l’esame dei documenti a qualche altro momento e a concentrarsi sul problema che gli era piombato letteralmente in ufficio, sorprese Amaya a trafficare con il piccolo lettore di ologrammi che giaceva abbandonato in un angolo della stanza: stava cercando di inserire un piccolo chip, ma l’operazione sembrava più complicata del previsto.
L’elfa si lasciò sfuggire un’imprecazione che fece sorridere Silver.
«Quando ti deciderai a cambiare quest’affare?»
«Quando avremo soldi da spendere, suppongo.»
Amaya sbuffò. Stava quasi per rinunciare e darsi per vinta, quando finalmente il chip scivolò all’interno della feritoia: in quell’istante comparve la familiare schermata verde.
Al suo interno, era riprodotto un testo. Un articolo di giornale, a giudicare dall’impaginatura.
«Spiegami che cosa significa» la voce di Amaya era tagliente, e Silver capì subito che i propri sospetti erano fondati.
Un pericoloso pluriomicida è evaso ieri dal carcere di massima sicurezza di Artika e ha con sé un ostaggio, la dottoressa Sari Kalabis.”
«Che cosa significa, Victor? Che ci faceva lì Sari? Come ci è arrivata?» domandò Amaya con tono incalzante, rabbioso. Lo stava accusando, Silver lo intuì, ma non poteva biasimarla: se Sari era riuscita a penetrare ad Artika, era ovvio che qualche persona influente l’aveva aiutata ad arrivare così lontano.
E, ipotizzando il ragionamento di Amaya, lui era la persona più vicina alla loro amica. Quella che non sarebbe mai riuscita a negarle un aiuto.
Ed era colpa sua se ora lei era prigioniera di un assassino.
Si lasciò sfuggire un sospiro, amareggiato. Colpevole.
«Mi ha chiesto di farla infiltrare nel carcere per riuscire a rintracciare quel tale, quel Gaynor.»
«E tu l’hai aiutata a entrare procurandole dei documenti falsi» Amaya si coprì gli occhi con la mano, lasciandosi cadere sulla sedia di fronte a Silver. Lui non disse nulla. Non ne ebbe il coraggio.
Abbassò lo sguardo sui documenti che giacevano sulla scrivania, senza realmente guardarli. Sarebbe stata questione di pochi minuti prima che l’elfa perdesse la calma, ne era sicuro. Si sarebbe lasciata andare alla rabbia e gli avrebbe dato addosso, accusandolo di non aver fatto il suo lavoro.
Di non aver saputo proteggere Sari rifiutando la sua richiesta.
Di essere irresponsabile.
Ma per quanto aspettasse, Amaya rimaneva in silenzio con il viso coperto dalle mani, e Silver cominciò a pensare che forse la predica non sarebbe mai arrivata.
Quando finalmente l’elfa si decise a guardare il poliziotto, Silver si scoprì molto più turbato di quanto fosse stato in precedenza: qualcosa nello sguardo di Amaya gli suggeriva che c’era qualcosa che la affliggeva, qualcosa di cui lui era ancora allo scuro e che riguardava Sari.
Qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Sari si è ficcata in un guaio più grosso di quello che sembra.»
Silver la guardò senza capire di che cosa parlasse. «Che cosa vuoi dire?»
«Vieni con me» Amaya si alzò, spense il lettore di ologrammi, e uscì dall’ufficio assieme a Silver. Il poliziotto intuì subito dove erano diretti non appena svoltarono l’angolo e la vide: la sala convegni.
Era vuota, come ogni volta che Silver vi era entrato per questioni private. Amaya azionò il lettore di ologrammi, che decodificò subito le informazioni contenute nella memoria in immagini: ne riprodusse una dal contenuto ben nitido e definito.
Due sagome che fuggivano dalla facciata di un edificio.
Fumo che si levava alto.
«È quello che le telecamere del perimetro esterno del carcere hanno registrato. Queste immagini hanno iniziato a fare il giro del regno già due ore dopo l’accaduto» spiegò Amaya, ma Silver studiava l’immagine senza capire dove volesse arrivare l’elfa.
Doveva esserci qualcosa di strano in quella fotografia, qualcosa che spiegasse perché era stato trascinato nella sala convegni, ma per quanto si sforzasse di cercare, non trovava nulla che gli sembrasse rilevante.
Sospirò, sconfitto.
«So che la situazione è critica, ma non vedo come possa essere ancora più grave di quello che già non è.»
Amaya premette alcuni pulsanti in rilievo sulla superficie del piedistallo, e l’immagine divenne più grande.
«Se noi ingrandiamo l’immagine del 2000% e la rendiamo più nitida, forse capirai meglio cosa voglio dire…»
Silver si concentrò sul volto ora ben visibile del sequestratore. Gli sembrava un volto noto, ma non riusciva a dargli un’identità. Non riusciva a ricordare dove l’aveva visto.
Sulle prime ipotizzò di averlo incontrato molto tempo prima, nel corso di qualche interrogatorio, ma scartò rapidamente questa opzione: ad Artika la pena di morte era inevitabile. Chiunque vi venisse incarcerato, sapeva già che sarebbe morto lì dentro, in poco tempo.
Non poteva essere un vecchio caso. Sarebbe già dovuto essere morto, quella era la conclusione.
Eppure...
Scavò nella memoria, determinato a ricordare, quando all’improvviso l’immagine di un volto gli ritornò vivida alla memoria. Era un’ipotesi assurda, senza senso. Sapeva già che non poteva essere lui, che non era razionalmente possibile che fosse ancora vivo.
Corse verso l’archivio senza neppure accorgersi che Amaya lo aveva seguito all’istante, chiamando il suo nome.
L’archivio era una sala enorme, piena di vecchie cartelle gettate alla rinfusa negli scaffali, lasciate a impolverarsi e ingiallirsi. A essere dimenticate da tutti.
Silver raggiunse subito la sezione che gli interessava: sullo scaffale un’etichetta recitava “W”. Non perse tempo, leggendo velocemente i nomi uno a uno, finché non vide la cartella che cercava.
Il caso Warknife.
La trovò, la guardò, ma non la prese.
Lì, fermo a guardare quella cartella con quel nome applicato sulla linguetta, si diede dello stupido.
Non era possibile che fosse lui. Non avrebbe trovato nulla.
«Silver…»
Era Amaya.
E non diede retta a quella voce che insisteva nel dirgli che stava sprecando tempo. Prese la cartella, e senza aprirla tornò nella sala convegni. Quando entrò assieme ad Amaya, la foto di Sari e dell’evaso era ancora lì, ingrandita come l’avevano lasciata.
Aprì la cartella. Verbali, schede, test di personalità. E poi la vide: la foto.
La sfilò dalla cartella, e la confrontò con l’immagine dell’ologramma. E ciò che vide era semplicemente assurdo.
All’apparenza potevano sembrare due persone completamente diverse: l’una aveva il volto meno segnato, mentre l’altra era decisamente più sciupata; il primo era più in carne, e il secondo sembrava aver patito la fame.
In realtà, se le fotografie venivano confrontate con attenzione, non potevano esserci dubbi: i lineamenti corrispondevano, i tratti somatici erano uguali. Sembravano due persone diverse, ma in realtà erano lo stesso uomo. Il rapitore di Sari.
«Com’è possibile che sia Warknife?! Ne avevano annunciato la morte alcuni mesi dopo la carcerazione, me lo ricordo bene! Come può essere ancora vivo?!» esclamò incredulo, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel viso maschile riprodotto dall’ologramma.
«Evidentemente non l’hanno giustiziato come avevamo creduto...» suggerì Amaya a metà tra la delusione e la rassegnazione, sfilando il fascicolo del fuggiasco dalle mani del poliziotto.
«Ti ricordo che abbiamo a che fare con un assassino di massa. Sai bene che è capace di uccidere molte persone nello stesso luogo e nello stesso momento...» mormorò preoccupata facendo scorrere gli occhi sui documenti. «”L’autopsia effettuata sui cadaveri degli abitanti di Halifax ha reso possibile ricondurre la morte alla bruciatura delle cellule neuronali”. E se potesse accadere di nuovo?!»
Quando guardò Silver negli occhi, Amaya vi trovò determinazione. Era angosciato per Sari, per Warknife in libertà, per il pericolo che rappresentava, eppure sentì che il poliziotto aveva preso una decisione.
Capì che c’era un’unica cosa possibile da fare, e capì che Silver aveva la sua stessa consapevolezza. Lo vide sorriderle, rassicurante, nel momento in cui ripose nel fascicolo la foto dell’evaso.
«Semplicemente, dobbiamo fare in modo che non riesca a farle del male. Dobbiamo catturarlo.»



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Capitolo 9
*** inseguimento ***


8 lzr


8.

INSEGUIMENTO



*



«Signor Kalabis, queste voci stanno diventando pericolose» constatò Jasper, preoccupato.
Amos, seduto alla sua scrivania, era infinitamente stanco, oppresso dalla vecchiaia e dalle responsabilità che il suo ruolo implicava. Ma non poteva permettersi di mostrare le proprie debolezze. Mai, neppure un istante.
«Lo so, ed è per questo che è essenziale riprendere quell’uomo al più presto: la zona rossa deve rimanere un segreto. È di vitale importanza che non ci siano testimoni oculari in giro per il regno.»
Jasper abbozzò un sorriso leggero, lo stesso con cui accoglieva ogni sentenza di Amos senza fare domande. Perché quello era il suo ruolo: un assistente solerte, leale e discreto, e come tale sapeva bene che c’erano cose di cui avrebbe inevitabilmente sentito accennare, ma che non gli era consentito conoscere.
E Amos non chiedeva di meglio.
Nessuno doveva venire a conoscenza di cosa fosse la zona rossa, se non in casi necessari, e ciò che era successo durante l’incontro con i giornalisti ne spiegava perfettamente il motivo. Aveva messo tutto se stesso in quel progetto. Non poteva permettersi di sbagliare a un passo dalla realizzazione del proprio obiettivo. Era arrivato a sacrificare persino suo figlio: non poteva autorizzare una fuga di notizie che mettesse in pericolo il proprio operato.
«E come farà a catturarlo?»
Amos fece per rispondere, quando sentì dei passi lungo il corridoio diventare sempre più vicini. Quando vide il generale Rider sull’uscio porgergli i suoi rispetti , con il capo chino e la mano sul petto, gli fece un cenno con la mano. «Vieni pure Hektor, ti stavo aspettando.»
«Voleva vedermi, signor Kalabis?»
«Generale, immagino che avrai sentito di quell’uomo che è fuggito da Artika prendendo in ostaggio mia... nipote…» l’ultima parola fu quasi un sussurro. Amos era arrabbiato, Rider riuscì a intuirlo nonostante l’espressione del vecchio mago fosse fredda come al solito. Lo poteva ipotizzare dall’inflessione rabbiosa della voce nel momento in cui aveva parlato di Sari; ma se fosse arrabbiato con lei o per la piega che la situazione stava prendendo, quello rimaneva un mistero.
«Sí, ho sentito qualcosa a riguardo.»
«Bene» Amos si alzò lentamente, lisciandosi la tunica sgualcita «Prendi una squadra dei tuoi migliori uomini e setaccia tutta Silindril, villaggio per villaggio; posiziona anche dei posti di blocco di fronte all’entrata e all’uscita di ogni città se vuoi, basta che li trovi.»
Aveva pronunciato ogni parola come se fosse un verso sacro, come se non ci fossero altre alternative. Come se fosse questione di vita o di morte.
Aveva pronunciato ogni parola con l’indifferenza nello sguardo, ma dal tono di voce che Amos aveva usato, Rider intuì che non gli era concesso ritornare a mani vuote. Non aveva parlato di punizioni in caso di fallimento, né aveva accennato a minacce, ma ciò che il generale riusciva a leggere tra le righe di quell’ordine perentorio era ben peggio. Se fosse tornato senza la ragazza e l’evaso avrebbe dovuto imbattersi in qualcosa di peggiore rispetto a qualunque punizione, una cosa che temeva davvero.
La rabbia di Amos.
Si grattò un sopracciglio, sentendosi improvvisamente a disagio al pensiero di ciò che rischiava.
«E con il ricercato come dobbiamo comportarci, signore?»
Per alcuni istanti Amos non rispose. Congiunse le mani dietro alla schiena, gesto che chi lavorava al suo fianco ormai conosceva bene: significava che il mago stava riflettendo.
Come doveva comportarsi? Non lo voleva morto. No, era troppo importante per lui.
Importante almeno quanto era pericoloso.
«Me lo devi riportare vivo. Non m’importa se ferito o mutilato, basta che sia vivo.»
«Come desidera, signor Kalabis» Rider accennò un inchino leggero, pronto a lasciare la stanza. Ma quando guardò Amos con più attenzione, ebbe la sensazione che ci fosse qualche pensiero che incupiva ulteriormente il vecchio mago.
«Un’ultima cosa, generale…»
«Sí, signore?»
«L’evaso è pericoloso, tienilo bene a mente.»


*


Il salone era buio. L’unica fonte di luce erano le sparute candele che circondavano le colonne, troppo poche per rischiarare quell’oscurità così pesante, ma sufficienti per creare un’atmosfera languida e seducente, di perdizione, ideale per quei baccanali di sangue e corruzione che erano così comuni alla corte dei Maior.
Cominciavano al tramonto, e nel cuore della notte i demoni erano così eccitati dall’odore del sangue da non capire più nulla: era quello l’apice dei loro banchetti, il momento in cui neppure un ordine del loro Signore avrebbe potuto tenerli a freno. Era la Gloria: l’espressione più selvaggia e intensa della loro natura, che terminava irrimediabilmente con lo scempio dei poveri sventurati che erano stati catturati per il banchetto.
E i demoni minori, quelli dalle sembianze bestiali, non aspettavano altro che potersi lasciare andare nell’estasi di quello stato primitivo.
Erano creature diverse dai loro cugini di forma umana, i Maior; meno evolute e più istintive. Non conoscevano sfumature né vie di mezzo: sapevano solo uccidere e divorare.
Erano fondamentalmente stupidi, e avevano un fastidioso problema: non sapevano controllarsi né pianificare un’azione. Non erano capaci di aspettare, anche se questo voleva dire perdere un profitto più grande. Avevano bisogno di avere ciò che desideravano, subito. Non riuscivano a concepire il contrario.
Erano bestie di puro istinto che non erano state neppure sfiorate dal raziocinio, e nonostante questo aspetto richiedesse uno sforzo non indifferente per tenerli a bada, potevano rivelarsi piuttosto utili in diverse situazioni.
Era per questo che Sarmon gli permetteva di accedere nella dimora dei Maior, e gli offriva carne fresca con cui giocare e riempirsi la pancia: in cambio di nottate passate a bearsi della paura delle loro vittime, erano obbligati a giurargli fedeltà e a obbedire a ogni suo ordine.
In caso di negligenza era sottinteso che non sarebbero vissuti abbastanza a lungo per partecipare a un altro baccanale, ma era risaputo anche che i demoni minori obbedivano al loro Signore proprio per i festini che offriva loro. La vita veniva dopo.
Solitamente, però, in quelle occasioni Sarmon si annoiava sempre, e anche quella sera non era da meno. Se ne stava accomodato sul trono, quasi disteso, con una gamba a penzoloni oltre il bracciolo e un’espressione annoiata sul viso spigoloso.
Guardava un gruppo di demoni, circa una ventina a occhio e croce: sopra le loro teste era sospesa una gabbia, e all’interno il giovane elfo che avevano catturato pochi giorni prima se ne stava raggomitolato, tremante e terrorizzato. I demoni saltavano verso di lui, salendo l’uno sopra l’altro, sbraitando versi osceni e spalancando le loro bocche fetide non appena riuscivano ad avvicinarsi al povero sventurato. Sentivano l’odore del sangue, e questo li rendeva ancora più smaniosi.
Ed era sempre la stessa scena, ogni volta con un finale che non cambiava mai.
Era così convinto che anche quella sera avrebbe dovuto assistere al solito scempio, che quando la vide ferma all’ingresso del salone pensò per un istante di essersela immaginata.
Ma quando si mosse, capì che quella figura era davvero lì, e si stava avvicinando.
Era una donna che conosceva bene: aveva occhi azzurri, capelli neri, una frangia corposa e due canini nascosti dalle labbra socchiuse. Un aspetto ingannatore, apparentemente umano, ma in realtà la sua essenza apparteneva a ben altra razza: era una demone, esattamente come lui.
Sarmon si alzò in piedi, rivelandosi in tutta la sua imponenza: era alto, magnetico nei movimenti, e la veste nera che indossava era così leggera che sembrava aver vita propria.
Guardò la demone negli occhi, cercando di stabilire un contatto particolare con lei, leggendo nel suo sguardo quello che era così voglioso di sapere.
«Nova…?»
Un nome detto piano, nessuna domanda formulata apertamente, ma in quelle due sillabe c’erano così tanti quesiti, che potevano essere riassunti solo in un ordine.
Dimmi tutto.
La demone guardò il suo signore negli occhi, nello stesso modo in cui lui l’aveva guardata, e in quello sguardo si intuivano molte cose. Troppe, per poter essere dette lì, con una ventina di demoni alle spalle intenti a gridare e ad ammazzarsi l’un l’altro pur di affondare le zanne nella carne della loro preda.
E Sarmon non ci pensò neppure un istante.
«FUORI TUTTI!» tuonò, e nessuno osò più fiatare. Rimase solo l’eco della propria voce a far rumore, ma divenne sempre più debole. Quando scomparve, ci fu un silenzio di tomba: aveva venti paia di occhi puntati addosso, sgranati, inespressivi, vuoti. Occhi di mostri dalle fattezze bestiali, che erano semplicemente stati interrotti quasi all’apice della loro frenesia e non avevano letteralmente recepito l’ordine.
Fu abbastanza per far perdere il controllo al loro signore.
Si avventò sul demone più vicino, dalla forma umanoide ma con la pelle completamente trasparente e i piedi palmati. Con una mano gli afferrò il mento, infilandogli le dita all’interno della bocca per avere una presa più salda, mentre con l’altra gli strinse la gola, impedendogli di respirare.
Il demone lo guardò con quegli occhi enormi e neri, che ricordavano così tanto i pesci abissali, e Sarmon poté sentire l’odore della paura provenire da quella creatura che stringeva tra le mani.
Poi le zone della pelle a contatto con le mani del Maior mutarono aspetto: prima divennero rossastre, poi nere. Si aprirono tagli, comparvero pustole, e la necrosi si espanse diventando sempre più maleodorante.
Il grido raggelante del demone sembrava non dover finire mai, ma Sarmon non si scompose minimamente. E non si accontentò neppure di vedere il demone spegnersi tra le sue mani, tentando di dibattersi in preda a spasmi troppo dolorosi per poter essere immaginati.
Continuò nella sua opera di corrosione, fin quando non rimase altro che cenere.
«Fuori tutti.» Fu un sibilo, ma fu sufficiente: dopo che i demoni se ne furono andati, nel salone erano rimasti solo lui e Nova. E l’elfo.
«Di lui che ne facciamo?» chiese la demone, indicando il prigioniero.
Quando Sarmon guardò dentro la gabbia, vederlo ancora più spaventato lo eccitò alla follia. Avrebbe desiderato da morire approfittare del momento e torturarlo, farlo impazzire dal terrore fino a indurlo a pregarlo di ucciderlo. E anche allora, non gli avrebbe donato sollievo: questo era Sarmon.
Questa era la sua natura.
«Lasciamo che ascolti. Non vivrà più di un giorno.»
Vederlo piangere, disperarsi e invocare clemenza fu uno spettacolo sublime, ma c’era qualcosa di più urgente. Qualcosa che richiedeva l’attenzione del Maior. Subito.
«Che novità mi porti, Nova?»
«Sembra che la figlia di Kalabis sia stata rapita da uno dei prigionieri di Artika, che è fuggito usandola come ostaggio.»
Per Sarmon non fu affatto una buona notizia: era un imprevisto fastidioso, che sconvolgeva i piani che aveva messo a punto da molto tempo.
Cominciò a camminare avanti e indietro, mentre pensava a un modo per arginare il problema. Ed era dannatamente nervoso.
Pensò rapidamente a tante soluzioni possibili, ma gli sembrarono tutte così inadeguate che finì per scartarle rapidamente l’una dopo l’altra. Finché non ne rimase una soltanto.
«Jariel!»
Fu l’eco della sua voce a rispondergli, di nuovo, e mascherò ogni altro rumore nel salone. Quando scomparve, li sentì: dei passi da prima lontani, e poi sempre più vicini.
E poi lo vide: un altro demone dalle sembianze umane, esattamente come lui e Nova. Aveva i capelli corti e neri: un taglio assolutamente normale, piuttosto comune. Ciò che lo rendeva particolare erano gli occhi, per due motivi. L’iride: l’aggettivo più appropriato era impressionante, perché era completamente senza pigmento. Bianco. Non distinguibile dal bulbo oculare.
Poi c’era la pupilla: aveva una forma insolita, verticale. Ricordava molto quella dei serpenti.
«Jariel, c’è stato un cambio di programma…» cominciò Sarmon, guardando di sottecchi Nova. Non si meravigliò di sorprenderla a tremare: sapeva bene che la presenza di Jariel la metteva a disagio, ma quello era un dettaglio del tutto insignificante. «Sembra che la figlia di Kalabis sia stata presa in ostaggio da un prigioniero di Artika.»
«Mi metto subito sulle sue tracce, mio Signore» assicurò Jariel, non osando guardare Sarmon negli occhi. Una cosa che era solito fare, come forma di rispetto.
«Signore, se posso suggerire penso che se la ragazza si trovava ad Artika, doveva per forza avere un collegamento con il padre. Forse è lei ad avere quei rapporti» era Nova, questa volta. Sembrava inquieta, nervosa, come se ci fosse qualcosa in Jariel che la disturbasse: non voleva guardarlo.
Sarmon le sorrise, improvvisamente mellifluo.
«Nova, Nova... E tu pensi davvero che un padre premuroso come Kalabis avrebbe coinvolto la figlia in una faccenda che le sarebbe potuta costare la vita? No, io non credo. Che fosse connessa con lui non lo metto in dubbio, ma dubito che sappia che cosa possedeva il suo caro paparino.»
Nova non osò ribattere. Jariel non fiatò.
«Vediamo di convincerla a consegnarci spontaneamente quei rapporti, che ne dici Jariel?»
«Certo mio Signore.»
Sarmon sorrise di nuovo, sempre mellifluo, come se il suo atteggiamento nascondesse un doppio senso sottile ma pericoloso. «Jariel, gradirei che finissi il lavoro che il nostro caro Shem non ha portato a termine.»
«Lo farò mio Signore» il demone annuì, ma non osò ancora guardare il suo sire negli occhi.
«È tutto, puoi andare.»
Jariel accennò un inchino, ma prima di allontanarsi guardò Nova per l’ultima volta. E lei gli rispose con uno sguardo carico di disprezzo e ostilità che rischiò di fargli perdere il controllo: la demone notò subito come lo sguardo di lui si fosse incupito all’istante, come se provasse l’intenso, seducente desiderio di sopraffarla, di ridurla in ginocchio e di godere nel vederla sconfitta. Strisciante.
Ma Nova sapeva che non l’avrebbe mai potuto fare di fronte a Sarmon, ed era altrettanto consapevole dello sforzo immenso che Jariel stava facendo per controllarsi e costringersi a lasciare il salone.
E gioiva di tutto questo.
Quando rimasero da soli, lei e Sarmon, si sentì come una bambina a cui era stato strappato il giocattolo dalle mani.
«Voglio che tu faccia un lavoretto per me. Segui Jariel. Devi tenerlo d’occhio, senza che lui se ne accorga.»
Nova si accigliò, confusa. «Ma, se posso chiedere... Perché lo ha mandato a recuperare una cosa così importante se non si fida di lui?»
Sarmon sorrise, ambiguo.
«Perchè, mia cara Nova, uno come lui può rivelarsi estremamente utile.»


*


La prima cosa che Sari sentì quando riprese coscienza, ancora prima di aprire gli occhi, fu un rumore insolito che non avrebbe dovuto esserci, simile al rollio di una nave. Forse stava sognando.
Qualcuno la stava cullando, e quel movimento era così rilassante da farle passare la voglia di aprire gli occhi. In più c’era quel tepore, così piacevole da farle desiderare di dormire ancora.
Tutto il contrario del freddo, della neve.
La neve!
Fu sufficiente a mandarla nel panico. Si sollevò, improvvisamente sveglia, convinta di trovarsi chissà dove in mezzo al ghiaccio, assiderata e prossima alla morte, ma ciò che vide la lasciò basita: si trovava in un locale piuttosto grande, pieno di casse assicurate alle pareti con delle cinghie. E il rollio non se l’era affatto immaginato: era in una nave, all’interno di una stiva.
E, appoggiato con la schiena contro una cassa, Warknife la stava fissando.
«Che hai da guardare?!» sbottò Sari, a disagio. L’istante successivo desiderò potersi rimangiare quella domanda, immaginando chissà quale ritorsione da parte dell’evaso, ma lui non si scompose minimamente.
Sembrava annoiato a morte.
«Guardo te perché non c’è nient’altro da fare» rispose continuando a osservarla con insistenza e a Sari, per un istante, quel modo di fare ricordò Shem.
«Potresti smettere di fissarmi, per favore?» borbottò, cercando di non guardare Warknife in faccia. Sapeva che se l’avesse fatto, non sarebbe riuscita a impedirsi di esplodere in una scenata isterica.
«Perché?»
La sua domanda la spiazzò. Non era possibile che quell’uomo ignorasse i fondamenti delle relazioni umane. Non era un comportamento naturale fissare le persone, soprattutto con insistenza. Non
coscientemente, almeno.
«È imbarazzante!» esclamò sbigottita, ma non fu sufficiente per far desistere Warknife.
Ci rinuncio, pensò mentre si stiracchiò. E solo allora, guardando meglio la stiva, le venne in mente che non sapeva da quanto tempo fossero lì dentro, né tanto meno dove fossero diretti.
Non sapeva nulla, in effetti.
«Mi spieghi come siamo finiti qua dentro?»
«Devo riuscire a levarmi queste maledette catene…» mormorò Warknife, ignorandola completamente: un comportamento che l’evaso aveva già tenuto in passato, e che faceva imbestialire Sari. Aveva l’impressione che ci fosse qualcosa in lui, il riflesso di qualche difesa che gli impediva di concentrarsi a lungo su chi gli stava davanti. Come se avesse bisogno di fuggire, chiudendosi in se stesso e nei propri problemi, grandi o piccoli che fossero, in una forma di egocentrismo piuttosto infantile.
Ma Sari non poteva impedirsi di trovare la cosa irritante: dover passare tutto il tempo a contatto con una persona così sfuggente la prosciugava di molte energie.
«Allora?!» si piazzò di fronte, con le mani ben salde sui fianchi, decisa a strappargli una risposta.
Voleva sapere tutto: come avevano fatto a penetrare in una stiva, come erano riusciti ad arrivare al porto nonostante la neve e il freddo… Perché non era morta assiderata…
«Che vuoi?» le domandò, continuando a studiare le catene. Senza degnarla di uno sguardo.
Sari cercò di controllarsi, di rimanere calma. Uno sforzo piuttosto impegnativo. Riuscire a capire com’erano andate le cose sarebbe stato estremamente difficile, lo sapeva già.
«Come siamo finiti qua dentro?»
Si accorse subito che la sua voce era tesa, scocciata. E non l’aveva notato solo lei, a giudicare dall’espressione di Warknife. Quella domanda, posta con quel tono, aveva acceso il lato più imprevedibile e inquietante dell’evaso.
La stava guardando. Puntando, più precisamente; come un animale selvatico con la propria preda. E sorrideva perverso, allucinato, mentre per la testa gli passavano chissà quali pensieri.
Sari venne colta dal terrore all’idea di essere da sola e totalmente indifesa, in balìa di un assassino di massa così instabile.
Warknife balzò in piedi all’improvviso, così velocemente che per un momento Sari pensò che volesse attaccarla. Credette che il cuore le sarebbe scoppiato per la paura.
«A piedi?» suggerì l’evaso, cominciando a girarle attorno. Squadrandola da ogni angolazione.
Sari tremò quando lo sentì vicino. Le era alle spalle, e le stava sfiorando i capelli, di nuovo. Un tocco leggero, un contatto appena accennato, ma che fu sufficiente per farla rabbrividire.
Gettò un’occhiata alla botola sopra la sua testa. Era l’unica entrata, e di conseguenza anche la sola uscita. Ed era troppo alta, almeno per una fuga improvvisa.
«Come mai non sono morta?» cercò di temporeggiare, rimanendo immobile. In realtà, in quel momento sapere com’era riuscita a sopravvivere nonostante il freddo era l’ultima delle sue preoccupazioni.
Ma andava bene qualunque cosa, pur di distrarre Warknife dai suoi pensieri.
«Ti ho portata fino alla nave» le rispose distratto, sfiorandole lentamente il collo con il dorso della mano. E Sari dovette reprimere un gemito d’orrore.
Era terrorizzata, impietrita dalla paura, e non sapeva cosa fare. Se avesse tentato di sottrarsi al suo tocco, probabilmente lui l’avrebbe interpretato come una provocazione, con conseguenze che non voleva neppure immaginare.
Guardò di nuovo la botola. Forse qualche marinaio l’avrebbe potuta sentire, se avesse gridato con tutta la voce che aveva. E allora l’avrebbero trovata. E salvata.
Forse.
«E il freddo?»
«Ti sei scaldata con il calore del mio corpo. La mia temperatura rimane costante, sempre» l’uomo avvicinò il viso al collo di Sari, sempre di più, finché lei lo sentì così vicino da sentirsi bruciare.
Nessun contatto; solo una vicinanza oppressiva.
Quando sentì il suo respiro sul collo, si sentì morire. La stava annusando. La sua pelle. Lei.
Chiuse gli occhi, e in quegli interminabili istanti si ripeté che nulla di quello che stava accadendo era reale. Artika, il rapimento, lui: erano tutti frutto della sua immaginazione.
Doveva essere così.
Ma quando sentì qualcosa di morbido e bagnato, capì all’istante che per lei quello era decisamente troppo: la stava gustando.
Al colmo della disperazione, non riuscì più a trattenersi.
«AIU…» il grido le morì in gola, e il terrore le trafisse il cuore: la mano di Warknife le coprì prepotentemente la bocca, impedendole di parlare, mentre con l’altra le circondò la vita.
Non poteva allontanarsi da lui. Non poteva chiamare aiuto.
Era perduta.
Lo sentì fremere contro la sua schiena, in attesa.
«Se arriva qualcuno, vi ammazzo. Tutti» le sussurrò, rabbioso. E Sari non aveva dubbi: l’avrebbe fatto davvero.
Rimasero in silenzio, pronti a cogliere il più piccolo rumore, ma gli unici che sentirono furono il rollio della nave e le voci lontane provenienti dal ponte di coperta. Non c’era nessuno che si stesse avvicinando.
Nessuno aveva sentito il grido di Sari: fu un pensiero che la sollevò, ma allo stesso tempo la gettò nello sconforto. Cominciò a temere di non riuscire più a tornare a casa. Non tutta intera, per lo meno.
E ora che il suo stupido tentativo di chiamare aiuto era fallito, doveva fare i conti con la reazione di Warknife. Che, ne era sicura, non sarebbe stata piacevole.
Si aspettò qualcosa di forte, che le togliesse il respiro. Qualcosa di doloroso, che la costringesse a supplicarlo di risparmiarle la vita. Fu per questo motivo che quando Warknife la lasciò andare, Sari rimase stupita.
Lo guardò camminare avanti e indietro, ciondolante, con le mani sulla testa e il passo pesante. Ogni momento che passava sembrava renderlo sempre più agitato, e quando la guardava, nei suoi occhi c’era rabbia e un miscuglio di altre emozioni che Sari in quel momento non avrebbe potuto decifrare.
E non riusciva a fare altro che seguire con lo sguardo ogni suo movimento, impaurita dal pensiero di ciò che avrebbe potuto farle.
«Perché li hai chiamati?! Maledetta…» le sibilò velenoso. In un primo momento le fu impossibile rispondere, del tutto colta alla sprovvista. Quando si rese conto del vero significato di quella domanda, però, non riuscì davvero a trattenersi.
«Vorresti farmi credere che ora la vittima saresti tu, solo perché ho tentato di chiamare aiuto?! Sei pazzo, Warknife!» sbottò sputandogli addosso tutta la rabbia, l’impotenza e la tensione che aveva accumulato da quando lui l’aveva presa in ostaggio. L’istante successivo si ritrovò con la schiena contro una cassa, con un intenso dolore alla schiena e, soprattutto, con il peso del fuggiasco che la schiacciava, impedendole di muoversi.
«Come mi hai chiamato?»
Per qualche insolito motivo, Sari non provò paura. Solo rabbia.
Avrebbe desiderato spingerlo lontano, con forza, magari facendogli male. Proprio come lui ne aveva fatto a lei. Ma per quanto tentasse di liberarsi dal suo peso, l’evaso non si spostava di un millimetro.
E Sari era sempre più rabbiosa.
«Warknife.»
L’evaso si allontanò all’improvviso, e la guardò con un’espressione meravigliata. Non appena fu libera dal suo peso, Sari ne approfittò per rialzarsi, allontanandosi il più possibile da lui.
«No no no no... Non Warknife, dottoressa... Non Warknife...»
«Cosa vorresti dire?» gli domandò, senza capire dove volesse arrivare.
«Warknife è un nome falso, dottoressa.»
Sari lo guardò come se avesse perso il senno.
«Falso?! Che ragioni avresti per girare con un nome falso?!»
«Già... Perché giro con un nome falso? È una buona domanda, peccato che io non possa risponderti.»
Sari dovette fare uno sforzo non indifferente per costringersi a non inveire contro di lui, contro quell’atteggiamento snervante che sembrava divertirlo così tanto. Warknife rispondeva sempre in modo approssimativo e ambiguo, e quella era una cosa che la faceva imbestialire. Letteralmente.
«Dì, ti stai prendendo gioco di me?! Dimmi qual è il tuo vero nome!»
«È una richiesta o un ordine?»Warknife le si avvicinò, improvvisamente serio.
La guardò negli occhi, e lei sostenne il suo sguardo con rabbia e determinazione, senza mai cedere alla paura. Non tentennò neppure quando le posò una mano sulla testa.
Ma quando sentì quella mano tremare, e quando vide il viso dell’evaso sfigurato dall’ira, per un attimo ne rimase turbata: non per la paura di essere uccisa, ma per l’intensità di ciò che lesse nei suoi occhi.
Rabbia. Odio.
Così profondi da essere sconvolgenti.
«Tutti uguali…» mormorò Warknife con disprezzo, dandole improvvisamente le spalle. E Sari non riuscì a impedirsi di domandarsi il perché di quell’affermazione.
Tutti chi?
Lì, di schiena, Warknife sembrava non avere neppure il coraggio di affrontarla. La persona che fino a poco prima era capace di incuterle un terrore folle, in quel momento le sembrò così fragile e indifesa da stringerle il cuore.
Sentì la rabbia sbollire all’improvviso.
«Qual è il tuo vero nome, allora?» gli domandò di nuovo, questa volta con gentilezza. Warknife non si voltò.
«Perché dovrei dirtelo? Pensi che ti ucciderò, dimmi se sbaglio...»
Sari non rispose. Ammetterlo la faceva sentire a disagio, come se dovesse confessare la propria debolezza più grande, ma non poteva neppure negarlo.
Era ovvio che pensava che l’avrebbe uccisa, così tanto che il suo silenzio per Warknife fu una risposta più che sufficiente.
Quando si voltò a guardarla, nel suo sguardo non c’era più traccia dell’odio che si poteva intravedere pochi istanti prima. Sogghignava, sadico. Folle.
Ma Sari si proibì di provare paura.
«A cosa ti servirà sapere il mio vero nome, se tu morirai?»
«Perché fino ad allora voglio vivere conoscendo chi ho davanti» affermò la dottoressa con una spavalderia che non credeva di possedere.
Probabilmente Warknife si aspettava una reazione diversa da parte sua. Forse pensava che si sarebbe messa a piangere nel tentativo di muoverlo a compassione e convincerlo a liberarla, o più semplicemente era convinto di vederla tremare di paura, di nuovo.
Forse fu per quel motivo che non rispose a tono, sospirando mentre si sedeva in un angolo. «Fai come ti pare.»
Per qualche strana ragione, Warknife sembrava essersi calmato, e Sari preferì non replicare.
Nell’istante in cui si sedette, sentì il peso della tensione assalirla all’improvviso: era terribilmente stanca, e l’idea di chiudere gli occhi e riposare era allettante.
Ma per quanto lo desiderasse, il pensiero di dormire mentre quell’uomo era sveglio la faceva sentire inquieta. E poi c’erano tante cose che voleva sapere. Domande che le ronzavano in mente , a cui non riusciva a non pensare.
Molte riguardavano lo stesso Warknife. La cosa che aveva notato fin da subito, per esempio, era che l’evaso era molto diverso da come se lo ricordava: quando l’aveva incontrato sette anni prima, sembrava un’altra persona. La prigionia l’aveva decisamente cambiato.
Ma, soprattutto, il pensiero più ricorrente riguardava la condanna a morte che lui aveva ricevuto. Era una questione decisamente curiosa: nel regno era prevista la pena di morte, e chiunque finisse ad Artika presto o tardi veniva giustiziato. Perché, allora, era ancora in vita dopo sette anni?
E poi le bende che gli fasciavano le mani… Quella strana cella buia, isolata dal resto del carcere… Avrebbe voluto chiedergli ogni cosa, poter comprendere il perché, ma aveva timore di farlo. Era certa che si sarebbe agitato di nuovo, se gli avesse chiesto di raccontargli come stavano le cose. Ed era fuori discussione, ora che sembrava tranquillo.
Eppure, quel silenzio rotto solo dal rollio della nave la faceva sentire a disagio. Warknife non parlava, non la guardava, sembrava che non respirasse neppure. Era totalmente immobile.
«Che cosa intendi fare quando la nave attraccherà a Naima?» gli domandò, guardandolo di sottecchi per saggiare la sua reazione.
«Fuggirò il più lontano possibile» mormorò quasi sovrappensiero. In quel momento, avvolto nella penombra e con un debole raggio di luce che gli sfiorava gli stivali consunti, le sembrò stanco: della vita in generale, o forse solamente della propria.
«Se ti stai chiedendo che cosa ne sarà di te, non lo so ancora: dipende dal mio umore...» aggiunse, sorridendo ambiguamente. E per un attimo, Sari si domandò se l’evaso non stesse giocando con lei come il gatto con il topo.
«Perché non mi uccidi? Adesso non ti servo più, dal momento che sei scappato.»
«Perché chi lo sa... Non so prevedere cosa potrà accadere, mio piccolo e insignificante diversivo» sogghignò, e Sari ebbe la netta sensazione che in quel momento si stesse realmente divertendo a tormentarla, facendole credere che il rapimento sarebbe potuto finire in qualunque momento e nel peggiore dei modi.
«Non mi hai ancora detto qual è il tuo vero nome» cambiò discorso. Warknife la guardò con un’espressione malinconica.
Triste.
Un’espressione che non gli si addiceva, e che Sari non avrebbe mai pensato di vedere sul suo viso.
«Mi chiamo Namar.»

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Capitolo 10
*** confidenze ***


9



9.

CONFIDENZE



*



Era una stanza piccola, illuminata da pochi deboli raggi lunari. Il suo regno.
In quel luogo mistico il suo potere era ancora più forte, e la sua vista poteva arrivare lontano, in luoghi impensabili per qualunque altro Maior.
Jariel lo sapeva bene: lui era l’unico che potesse aiutarlo, nonostante l’idea lo disgustasse. Aveva capacità chiaroveggenti, le più rare e le più utili tra tutte le abilità che un demone potesse sviluppare in millenni di evoluzione.
Quando penetrò le pareti d’ombra del santuario, Jariel lo vide subito: una figura ammantata, con il cappuccio che gli oscurava il viso e rendeva impossibile distinguerne le fattezze.
Se ne stava sdraiato su un triclinio, e l’unica cosa che Jariel riuscì a intravedere furono le mani ossute, scheletriche, dalle unghie lunghissime.
«Che cosa ci fai qui?» domandò il veggente con voce stridula, spiacevole da sentire. Jariel frugò nelle tasche dei pantaloni. Quando si avvicinò al demone, gli allungò una fotografia piccola, dai bordi consumati.
«La figlia di Kalabis è stata presa in ostaggio da un assassino in fuga. Devi dirmi dove si trova.»
Il veggente studiò la foto in silenzio, con attenzione, sfiorando l’immagine di Sari. Chiuse gli occhi, respirò profondamente isolandosi da tutto ciò che lo circondava, entrando in uno stato di trance.
Lontano, oltre la terra arida dei demoni. Oltre l’oceano che li separava dai maghi. Poi a nord.
Una cittadina piccola.
Sul mare.
«Naima.»
Ed era tutto ciò che serviva a Jariel: sfilò la foto dalle mani del veggente, infilandola di nuovo nella tasca dei pantaloni, e si allontanò. Ma prima che potesse oltrepassare il muro d’ombra, la voce stridula del demone alle sue spalle lo fermò, disgustosamente interessata.
«Ma tu che cosa stai cercando?»
Jariel si voltò a guardarlo con indifferenza.
«Voi veggenti non vi stancate mai di ficcare il naso in questioni che non vi riguardano? Non capisco perché Sarmon si ostini a tenersi vicino delle creature così viscide...»
Il demone sembrò osservarlo da sotto il cappuccio per un lungo istante, probabilmente con un’espressione risentita e seccata. Espressione che scivolò addosso a Jariel.
Poi sghignazzò malevolo. Subdolo.
«E io non capisco come mai si ostini a far uscire da quella topaia un rifiuto come te.»
L’istante successivo era letteralmente accasciato sul triclinio, sotto il peso di un dolore troppo intenso per essere sopportato. Era come se qualcuno gli stesse trapanando il cervello. E non smetteva di dimenarsi, reggendosi la testa.
Il cappuccio si abbassò nella foga dei movimenti, rivelando un volto scavato, raggrinzito, e due occhi neri sbarrati che guardavano il soffitto colmi d’orrore.
E urlava, con tutta la sua voce.
Ma poi, qualunque cosa fosse, terminò all’improvviso: non ci fu più dolore. Quella fitta terribile era passata, lasciando solo un lieve senso di pesantezza.
Il veggente ridacchiò, respirando affannosamente. «Hai paura di Sarmon, per questo non mi hai ucciso. Non mi impressioni con i tuoi trucchetti.»
Jariel lo guardò con aria di sufficienza.
«Vogliamo provare?»
Il veggente non rispose. Si limitò a fissare Jariel, che sogghignò.
«Ti saluto, e grazie dell’informazione.»


*


Nei corridoi del carcere di Artika, il silenzio era molto fragile: era impossibile camminare senza fare rumore, e questo Amaya e Silver lo capirono all’istante.
La guardia che li stava accompagnando sembrava non considerare il rimbombo un problema, e loro fecero altrettanto. Si fermarono davanti a una porta in ferro, oltre la quale si trovavano le celle di prigionia: la guardia l’aprì, lasciando che Amaya e Silver proseguissero.
Il poliziotto fu il primo a oltrepassare la porta, sfilando di fronte ai carcerati che lo guardavano incuriositi. Probabilmente era raro per loro vedere qualche volto nuovo, in visita.
Silver si fermò di fronte a una cella. All’interno, un uomo con una benda nera sull’occhio sinistro se ne strava sdraiato sulla branda. Un uomo che Silver aveva già visto, circa sei mesi prima.
Volker Kramer.
Sapeva della presenza di Silver, era inevitabile dal momento che il poliziotto non era stato certo silenzioso, eppure non lo degnò di uno sguardo.
Silver guardò Amaya, scettico. Sospirò.
«Signor Kramer…»
«Sí?» Volker rispose annoiato, senza disturbarsi a guardare il poliziotto in faccia. Nel frattempo, la guardia del carcere stava frugando tra le chiavi del mazzo che aveva in mano.
«La Corporazione ha emesso l’ordine di riportarti al dipartimento di polizia di Rosya per ulteriori indagini sul tuo caso» spiegò Silver. Il prigioniero si mise a sedere all’improvviso, guardandolo confuso.
«Mi stai prendendo in giro?»
«Non sarei venuto fin qua da Rosya solo per divertirmi alle tue spalle, te lo assicuro.»
Quando la guardia entrò all’interno della cella, Volker teneva le mani dietro la schiena, docile, pronto per essere ammanettato. Ma a giudicare dal suo sguardo, non era ancora completamente convinto del motivo per cui Silver si trovava in carcere.
Si lasciò condurre fuori, e quando si accorse di Amaya le sorrise malizioso.
«Ciao…»
L’elfa lo squadrò dall’alto in basso con le braccia conserte al seno, fredda. A giudicare da una prima occhiata, Volker sembrava incarnare alla perfezione il prototipo di uomo che più detestava: un comunissimo esemplare di maschio medio, troppo attratto dal sesso femminile per rinunciare a correre dietro a ogni gonna su cui metteva gli occhi.
E non c’era nulla di più repellente e fastidioso di un uomo così, per Amaya.
«A meno che non sia strettamente indispensabile, ti sarei grata se evitassi di rivolgermi la parola.»
«Siamo di buon umore, vedo…» la stuzzicò Volker ridacchiando.
Amaya sospirò irritata. Aveva intuito dall’inizio quale fosse la tattica di Kramer, e l’unica soluzione era non prestargli attenzione.
«Andiamo alla macchina» bofonchiò non appena la guardia ebbe richiuso la cella. Silver la seguì, trascinando il prigioniero per il braccio.
«La ragazza è sempre così di buon umore?»
«Kramer…» Amaya sibilò. Era il classico segnale: l’elfa aveva raggiunto il limite, e proseguire poteva essere pericoloso. Peccato che non fosse l’unica ad aver esaurito la pazienza.
«Ora basta! Piantatela o vi lascio qui!» sbottò Silver. Con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere Volker sussultare, e la cosa gli procurò un bizzarro piacere.
Il carcerato rimase in silenzio durante tutto il tragitto per raggiungere la macchina. Anche una volta salito a bordo sembrava restio ad aprir bocca, Amaya lo notò con una certa punta di soddisfazione.
Lo avevano sistemato nel retro, e le portiere erano controllate da un sistema di sicurezza che permetteva di aprirle solamente dall’esterno. I posti anteriori erano invece protetti e resi inaccessibili a chi sedeva dietro da una grata su cui circolava la corrente elettrica.
Una macchina a prova di carcerato, dentro la quale Kramer non avrebbe potuto giocare nessun tipo di scherzo.
«Volker, ora che siamo soli ascoltami» non appena mise in moto, Silver lo guardò dallo specchietto retrovisore.
«C’è anche la ragazza…»
Amaya, seduta accanto al poliziotto, alzò gli occhi al cielo. Non lo avrebbe sopportato a lungo, ne era sicura. «Elfa. E comunque sta’ zitto e ascolta ciò che ha da dirti Silver.»
«Se me lo dici con quel tono autoritario, non posso far altro che obbedire» mormorò Volker, malizioso.
Amaya fu sul punto di scoppiare, ma Silver fu più veloce di lei.
«Sta’ zitto e ascolta, prima che perda la pazienza! Lo sai che la condanna per attentato è la pena capitale, vero?»
«Sí, ma vi ho già detto che non sono stato io» Volker guardò fuori dal finestrino, improvvisamente serio.
« Lo sai che basterebbe anche solo l’accusa di traffico di magia nera per condannare qualcuno a morte, vero?»
Kramer annuì nuovamente.
«E non neghi l’allevamento di draghi, giusto? »
«No.»
Silver gli gettò un’altra occhiata attraverso lo specchietto, sapendo che a quello non poteva dire di no.
Sorrise, con la vittoria già in pugno.
«Aiutaci e noi aiuteremo te a sparire dal regno.»


*


Naima. Una città di mare come tante, a Silindril. Eppure c’era una cosa che in pochi sapevano, qualcosa che doveva rimanere a conoscenza del minor numero di persone possibile: dal porto partiva regolarmente una nave mercantile uguale a tutte le altre a prima vista, ma che in realtà nascondeva uno speciale scafo rinforzato. Era una rompighiaccio.
E ciò che doveva rimanere segreto era la sua destinazione: andava a nord, oltre il mare. Verso il continente di ghiaccio. Andava ad Artika, con il suo carico di viveri e medicine.
Quella sera la nave era appena rientrata in porto dopo l’ennesimo viaggio di ritorno dal carcere.
Per la padrona della locanda, quella sarebbe stata una buona serata: tutti i marinai appena sbarcati erano lì, nel suo locale, a bere la sua birra. E questo voleva dire soldi.
Era molto indaffarata, e non riusciva a trovare un momento per fermarsi a riposare: continuava ad andare dal bancone ai tavoli per servire i clienti, ma questo non le pesava affatto.
Era una signora di mezza età, in carne, florida e burrosa, madre di cinque figli uno più pestifero dell’altro. E la locanda era la loro unica fonte di sostentamento.
Per questa ragione si gettava nel lavoro con tutta l’anima, come una piccola formica operosa. Forse fu per questo che non si accorse dei due forestieri appena entrati.
Si fermò solo quando notò che tutti i suoi clienti si erano zittiti e stavano guardando verso la porta: un losco figuro si era fermato sull’uscio e, accanto a lui, c’era una ragazza umana.
La prima cosa che la locandiera vide –e non senza una certa inquietudine- furono le catene che stringevano i polsi dell’uomo. Doveva essere un fuggiasco, o qualcosa di simile: non c’era altro modo per spiegare quella ferraglia.
La seconda cosa che le saltò all’occhio fu lo stato pietoso in cui versava la casacca che l’uomo indossava, probabilmente fatta di un materiale poco pregiato e scadente.
E poi c’era quell’aspetto inquietante, quel modo di guardare che la metteva a disagio. La cera malconcia dell’uomo suggeriva che non dovesse aver passato dei bei momenti negli ultimi tempi.
Ma se lui sembrava essere uscito da uno di quei filmacci horror che piacevano molto alle nuove generazioni di esseri umani sbandati e lasciati a se stessi, non si poteva dire lo stesso della ragazza in sua compagnia, probabilmente di buona famiglia.
Quando vide l’uomo dirigersi verso il bancone, la locandiera gli si fece incontro cercando di apparire disinvolta e di sorridere con naturalezza. Solo più tardi si accorse che la ragazza era rimasta sulla soglia.
«Buonasera.»
«Una camera.»
«Per due?»
«Quello che avete» mormorò Namar prima di lanciare un’occhiata minacciosa a Sari. Una cosa fu improvvisamente chiara alla proprietaria della taverna: l’umana era riluttante a entrare, eppure era bastato un solo sguardo di quell’uomo per farla cedere. C’era qualcosa in lui che la intimoriva, qualcosa che bastava per ottenere obbedienza.
Quando la ragazza lo raggiunse, l’uomo guardò di nuovo la locandiera. Sembrava scocciato. «Allora?»
«Al secondo piano» gli fornì immediatamente le chiavi della stanza.
Namar gliele strappò letteralmente di mano, e si diresse verso le scale trascinando Sari per un braccio.
Nessuno parlava più: tutti fissavano i nuovi venuti, come inebetiti, e in quel silenzio si levava solo il borbottio della psicologa, che si lamentava della presa sul suo braccio.
La locandiera era basita, e non sapeva cosa pensare. L’unica cosa sicura, era che non voleva grane nella sua locanda: un’ottima ragione per far finta di non aver visto nulla, a meno che non fossero le grane stesse a venir da lei.


*


La porta si aprì all’improvviso, con un botto rumoroso. Namar spinse Sari dentro la stanza, e la ragazza incespicò finendo inevitabilmente a terra.
«Senti un po’! Vedi di darti una calmata!» esplose Sari, rialzandosi in piedi. Nella caduta, le mani avevano grattato contro la moquette da due soldi che rivestiva il pavimento, e le pulsavano dolorosamente.
«Sta’ zitta» Namar mormorò distrattamente, diretto verso il bagno.
Sari fremette rabbiosa, e non era assolutamente intenzionata ad assecondare i desideri dell’evaso. Lo seguì, decisa a farsi finalmente valere.
«Non ci penso nemmeno, adesso ascolti quello che ho da dirti!»
«Come no…» rispose sarcastico Namar, intento a specchiarsi. Stava studiando minuziosamente il proprio riflesso, con un’attenzione certosina. Sfiorò l’ombreggiatura più scura che coloriva la pelle appena sotto gli occhi, poi fu la volta dei capelli ingarbugliati.
L’interesse con cui stava svolgendo quelle operazioni, faceva presagire che ottenere la sua attenzione non sarebbe stato semplice.
E Sari era stanca, così tanto che a stento riusciva a tenere gli occhi aperti. Da quando era morto suo padre, non riusciva quasi mai a dormire. Come se non bastasse, la tensione dovuta al rapimento non faceva altro che aggravare ulteriormente il suo precario equilibrio psico-fisico.
L’ultima cosa di cui aveva voglia –e che sarebbe riuscita a sopportare- era l’ennesimo, logorante esaurimento nervoso dovuto al tentativo di ottenere un briciolo d’attenzione da parte di Namar.
«Al diavolo» borbottò, arrancando verso il letto. Si lasciò cadere sul materasso, e un sorriso deliziato le curvò le labbra. Quella era la cosa che in assoluto le era mancata di più, da quando era partita per Artika: un bel letto comodo e spazioso, un cuscino non eccessivamente morbido né troppo duro, e lenzuola pulite che profumavano ancora di bucato.
Le sembrò di essere a casa; bastava che tenesse gli occhi chiusi per immaginarsi sul suo letto. Nel suo appartamento, ai piedi di Rosya.
Ma poi la realtà si presentò in tutta la sua crudeltà. Lo fece nel modo più seccante possibile, nel bel mezzo del riposo tanto desiderato.
Quando aprì gli occhi, vide Namar seduto di fianco a lei, intento a guardarla con insistenza. E la cosa la innervosì.
«Che vuoi? »
«Scendi.»
«Cosa?» Sari riuscì a stento a non ridere.
«Muoviti e scendi, voglio dormire.»
Era un ordine, il tono perentorio che Namar aveva usato lo rendeva evidente. E Sari non riuscì a trattenersi.
Si mise a sedere, decisa a lottare per i propri diritti.
«Su questo letto ci stiamo comodamente entrambi. Sono stanca almeno quanto te e, detto questo, sul pavimento non ci dormo. Ficcatelo bene in testa.»
«Come vuoi, dottoressa» Namar la afferrò per un braccio e la spinse lontano, verso il muro. Nel vano tentativo di non cadere a terra, Sari urtò contro il comodino e la lampada che si trovava in cima cadde a terra, finendo in pezzi.
«Non vuoi che ti uccida, vero?» quando l’evaso le si inginocchiò di fronte, un odore acre la assalì e Sari fu costretta a trattenere il fiato.
Era normale che in prigione non coccolassero i detenuti con lunghi bagni caldi e profumati, si disse, ma non riuscì a non pensare che quell’uomo puzzava di vecchio, chiuso e sporco.
E che ogni minuto che trascorreva assieme a lui metteva a dura prova il proprio autocontrollo, ormai diventato molto precario. Ne era una prova il comportamento che aveva tenuto da quando avevano messo piede nella camera: non si era tirata indietro quando si era trattato di farsi valere, adottando un atteggiamento ostinato e volitivo, consapevole dei rischi in cui sarebbe potuta incorrere.
Aveva la netta sensazione che presto o tardi si sarebbe ribellata apertamente, tentando qualche azione avventata dai risultati che preferiva non immaginare.
Guardò Namar con astio, sforzandosi di tacere. Lui ghignò, ben consapevole degli sforzi che Sari stava facendo per trattenersi.
«Brava, dottoressa. Il segreto è collaborare.»
Zitta!
Sari si morse il labbro. La tentazione di inveire contro di lui era estremamente forte, ma se gli avesse risposto, se ne sarebbe sicuramente pentita per il resto dei propri giorni.
Quando Namar si rialzò, lei si concesse di respirare a pieni polmoni. Lo trovò piacevolmente rilassante.
«Potresti almeno lavarti, già che siamo qui... » mormorò tra sé e sé, sovrapensiero. L’idea che Namar potesse sentirla non la sfiorò minimamente, ma rimase sorpresa quando lo vide annusarsi le braccia con una smorfia disgustata.
«Effettivamente... » concordò l’evaso. Serrò la porta d’ingresso, portando con sé la chiave. Poi si chiuse in bagno facendo scattare la serratura, e l’istante successivo il rumore di un getto d’acqua suggerì che Namar fosse sotto la doccia.
Il cuore di Sari cominciò a battere all’impazzata.
Era il momento perfetto per fuggire.
Balzò in piedi, improvvisamente speranzosa, correndo verso la finestra. Quando la spalancò, la delusione fu cocente: non c’erano alberi, né c’erano appigli. Non c’era nulla.
Non poteva saltare, né poteva calarsi. Era troppo alto, e se si fosse buttata di sotto si sarebbe certamente rotta più di un osso. O peggio.
«Dannazione!» sbottò, lasciandosi cadere sul letto. Si sentì persa, in trappola.
Aveva voglia di gridare, di piangere, di mettere a soqquadro la camera e distruggere tutto ciò che le capitava sotto mano per costringere la locandiera a salire. Magari li avrebbe costretti a rimanere lì, e nel frattempo sarebbe arrivato l’esercito, e allora quell’incubo sarebbe finito.
Era sicura che il C.S.M. si fosse già messo sulle loro tracce, e probabilmente gli uomini di Rider non erano neppure troppo lontani.
Aveva voglia di gridare e sfogarsi, ma non ne aveva la forza. Era troppo stanca.
Rimase sdraiata, con gli occhi chiusi ad ascoltare il proprio respiro: un ritmo leggero che la gettò quasi subito in un sonno agitato e per nulla riposante.
Quando Namar uscì dal bagno, con un asciugamano sui fianchi e gli stivali del carcere ai piedi, lo sentì appena: il rumore delle catene raggiunse a stento la sua coscienza sopita, e Sari si svegliò solamente quando un timido raggio di sole le ferì gli occhi.
La prima cosa che notò quando si guardò attorno, ancora assonnata, fu l’evaso: era seduto davanti a lei, per terra, con la schiena contro il bordo del letto e la testa a ciondoloni. Indossava la casacca del carcere.
In un primo momento credette che fosse sveglio, ma quando sentì il suo respiro lento e regolare, capì che era addormentato.
E, cosa che la lasciò sorpresa, stava dormendo sul pavimento.
Non l’aveva buttata giù dal letto.
Sari si sedette lentamente, attenta a non svegliarlo, e indugiò a studiare l’espressione indifesa che Namar aveva in quel momento. Vederlo così rilassato, come se fosse una persona qualsiasi con una vita ordinaria, le faceva uno strano effetto.
Gli sfiorò una guancia, con leggerezza. Un contatto quasi impercettibile, ma per l’evaso fu sufficiente.
Si svegliò di soprassalto facendola sussultare, e prima di capire che cosa stesse succedendo –quale fosse la fonte di quel contatto- le catturò il polso in una stretta forte, e si allontanò all’improvviso.
Sari lo guardò stupita. Ciò che lesse negli occhi dell’evaso fu ancora più sorprendente, e la travolse nella sua intensità: era terrorizzato.
Un’espressione di cui la psicologa non riuscì a capacitarsi, ma che la turbò. Come se lui avesse paura di essere toccato. Come un cane bastonato di fronte a una scopa. Preferì non pensarci troppo, non in quel momento.
Non appena la riconobbe, Namar le lasciò il polso sbuffando.
«Ti avverto, non mi devi toccare» ringhiò, evitando di guardarla in faccia.
«Figurati se ti tocco…» Sari si strinse nelle spalle, ribattendo con acidità.
L’evaso non rispose. Scivolò in avanti con il bacino, fino ad appoggiare la testa sul materasso. Guardò il soffitto, improvvisamente meditabondo.
«Cosa ci facevi ad Artika?»
Per un istante Sari credette di aver capito male. L’idea che Namar fosse dell’umore adatto per delle confidenze era quanto meno assurda.
Lo guardò con occhi sgranati. «Come?»
«Cosa ci facevi ad Artika?»
«Non vedo perché dovrei venire a raccontare i fatti miei a un allucinato come te... » rispose acida. Namar non sembrò minimamente toccato dalle parole della ragazza.
«Però stavi cercando qualcosa. O qualcuno. Qual è l’opzione corretta, dottoressa? » la guardò con un sorrisetto ambiguo. L’improvviso interesse dell’evaso per quella faccenda era sospetto, e oltre modo inquietante. Inoltre, era evidente che sapeva dove andare a parare, e probabilmente conosceva già la risposta alle proprie domande. Ma nonostante questo, voleva strapparle una confessione.
«Qualcuno.»
«Ma certo, Shem Gaynor... È stato poco con noi, ma deve essersi divertito parecchio» rispose, sornione. E fu abbastanza per riempire Sari di speranza.
Balzò giù dal letto, con il cuore in gola.
«Che mi sai dire di lui? »
Era così elettrizzata dall’idea di poter finalmente riuscire a scoprire qualcosa riguardo a Shem, da dimenticare che Namar non era certo il tipo di persona da cui potesse ricavare informazioni di valore: l’evaso non la stava più ascoltando, di nuovo perso nei propri pensieri. Chiuso in un mondo che apparteneva solo a se stesso.
Non la guardava neppure. E Sari si sentiva sempre più frustrata.
Fu sul punto di tornare a riposare, quando li vide: sui palmi di Namar c’erano due tagli, profondi e infetti. E solo ora si accorse di quanto fossero gonfie le sue mani, per la prima volta senza bende.
Doveva essere piuttosto doloroso, ipotizzò Sari.
Quando la voce di Namar la sorprese, sussultò: l’evaso la stava guardando con un sorrisetto sfuggente.
«Scoperto qualcosa d’interessante?»
«Come ti sei procurato quei tagli?»
«Non ho tendenze autodistruttive.»
Sari non riuscì a credere a ciò che aveva appena sentito. Guardò Namar, confusa.
«Vuoi dire… Mi stai dicendo che qualcuno ti ha fatto questi tagli?»
Non ottenne alcuna risposta da parte dell’evaso, che si limitò a guardarla. E Sari non sapeva davvero che cosa pensare.
Erano tagli netti, profondi e precisi, operati con forza. E non c’erano possibilità che Namar avesse potuto procurarseli accidentalmente, dal momento che aveva passato gli ultimi sette anni rinchiuso in una cella.
L’unica spiegazione a cui riusciva a pensare era che fosse stato qualcun altro a ferirlo, durante la prigionia. Con quale scopo, tuttavia, non riusciva a immaginarlo.
Era l’ennesimo tassello enigmatico che riguardava Namar, uno dei tanti pezzi di un puzzle che sembrava diventare sempre più complicato.
«Che cos’ha combinato Gaynor?»
«Ecco, lui... Ha ucciso mio padre» rispose distrattamente Sari, con la mente ancora occupata dalle domande riguardanti Namar. E quando si rese conto di avergli appena raccontato una cosa piuttosto intima, ormai era troppo tardi. A quel punto l’unica cosa sensata che poteva fare era approfittare della propria leggerezza, e cercare di estorcergli informazioni riguardo a Shem.
Fece per parlare, ma all’improvviso sentì qualcosa di strano. Qualcosa che non c’era, fino a pochi minuti prima.
Un intenso vociare proveniva dal piano terra. Voci concitate. Sembrava che ci fosse qualcuno che stesse discutendo, o quanto meno parlando animatamente.
Anche Namar doveva averlo sentito, perché divenne improvvisamente nervoso. Balzò in piedi, correndo verso la porta d’ingresso. La aprì, quel tanto che bastava per sbirciare nel corridoio senza esporsi eccessivamente, e rimase a guardare. Ricordava un cane da guardia in attesa di percepire il più piccolo rumore.
«Che sta succedendo?» Sari gli si avvicinò, ma per tutta risposta Namar le afferrò un braccio e la costrinse a uscire in corridoio, assieme a lui.
Si affacciarono con cautela dalle scale, e in quel momento la stretta dell’evaso si fece così forte che Sari dovette soffocare un gemito di dolore. Non l’aveva mai visto così sconvolto.
Quando gettò l’occhio al piano terra, per un istante temette di essere preda di qualche allucinazione.
All’ingresso della locanda c’era una squadra numerosa; quindici uomini, a occhio e croce. Erano vestiti di nero, in tenuta esclusivamente militare, e in pugno tenevano lunghe armi elettriche.
Poi lo vide.
Quell’uomo che aveva già avuto modo di trovare in compagnia di Amos.
Il generale Rider, se non errava.
Non aveva mai avuto modo di parlarci, né ci teneva a farlo: le sembrava un uomo alquanto altezzoso, arrogante, rigido e calcolatore, nonostante fosse dotato di un fascino non indifferente. E, cosa che contribuiva a creare in Sari una certa diffidenza, l’aveva visto fare comunella con Amos in più di un’occasione.
Lo vide dirigersi verso il bancone, dietro al quale la locandiera stava letteralmente abbracciando un piatto con mani tremanti.
Era spaventata.
«Hai visto qualcuno di strano da queste parti, ultimamente?» domandò Rider.


*

Namar non smise mai di seguire i movimenti di Rider, neppure per un istante. E Sari non aveva bisogno di guardare l’evaso, per sapere che in quel momento era maledettamente spaventato. La mano che stringeva il braccio della ragazza parlava da sola: tremava.
«Chi sono? »
«Il C.S.M.... Il Corpo Speciale dei Maghi. Sono militari» gli sussurrò Sari, indicando lo stemma argentato che brillava sui loro petti. Poi puntò Rider. «E quello che è al bancone dovrebbe essere il generale Rider.»
«Dannazione! »
Sari guardò Namar di sottecchi. Era davvero preoccupato.
«Non mi farò catturare un’altra volta... » sussurrò, tornando in camera senza smettere di trattenerla per il braccio.
Spalancò la finestra, e la ragazza lo guardò sbigottita.
«Che intendi fare?!»
Namar studiò il cornicione. E Sari si pentì di aver fatto quella domanda.
«Andarmene da qui.»

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Capitolo 11
*** la città dei reietti ***


10



10.


LA CITTÀ DEI REIETTI



*


Erano diretti verso una piccola cittadina dimenticata dagli dei che si affacciava sulla costa a ovest del continente. Guardava direttamente sul Grande Mare, l’unica barriera naturale che separava i maghi dai demoni.
Amaya si era chiesta più volte come dovesse essere Shaula, madre di tutto ciò che era proibito nel regno dei maghi. Giungevano voci secondo cui quelle fossero terre morte, battute da un vento così gelido da somigliare al respiro della Morte. Secondo i più, perfino la natura risentiva del potere distruttivo dell’energia demoniaca propria della magia nera, e si diceva che le acque vicino alle coste avessero assunto molti secoli or sono un colore cupo e scuro, che si diffondeva lentamente come un cancro. Si diceva che neppure un singolo raggio di sole riuscisse a penetrare quelle acque così nere da sembrare maledette, ma Amaya aveva la vaga impressione che fossero tutte fantasie frutto di gente semplicemente spaventata.
Ogni cosa sembrava avvolta nel caos e distorta dalla paura, eppure la Corporazione esercitava un controllo quasi maniacale sulla situazione: era necessario che la popolazione non si facesse prendere dal terrore verso il nemico, che pensasse che la situazione era completamente sotto controllo. Questo è quello che desiderava Amos.
Lui controllava minuziosamente tutto ciò che accadeva nel regno, lo sapeva bene, ma non immaginava certo che uno sputo di terra come quello in cui si trovavano fosse il luogo in cui avvenivano tutti i traffici illeciti sfuggiti all’occhio vigile del mago.
Silas, la città dei reietti.
Ora che vi metteva piede per la prima volta, Amaya si rese conto che era esattamente come Volker l’aveva descritta durante il viaggio: cupa, tetra, perennemente battuta dalla pioggia e coperta da coltri di nubi che nascondevano il sole. Gli edifici dalla forma massiccia si stagliavano minacciosi a poca distanza dalla scogliera che dava sul mare, dalla quale giungeva il rumore di onde infrante.
Amaya sentì un brivido correrle lungo la schiena, e si strinse le braccia al petto. I vestiti stavano cominciando a inzupparsi, e i capelli erano ormai appiccicati al viso.
«Ora dove dobbiamo andare?»
Volker, accanto a lei, le rivolse un sorriso gioviale, che l’elfa non restituì.
«A cercare qualcuno che possa aiutarci. Sai che se sorridessi ogni tanto saresti più bella?»
Amaya per tutta risposta sbuffò, alzando gli occhi al cielo. La disinvoltura nel tono della voce dell’umano e la confidenza che si stava prendendo la irritavano.
Trattieniti, ti serve vivo. Fallo per Sari.
«Sta’ zitto e pensa a dove dobbiamo andare» borbottò, cercando di resistere all’impulso di girare sui tacchi e sbrigarsela da sola.
Volker per tutta risposta abbozzò un sorriso leggero e cordiale che stonava con i lineamenti duri e decisi del viso. Aveva già inquadrato il carattere rigido dell’elfa, ma metterla in difficoltà lo divertiva.
«Seguimi, e ricorda che quando arriveremo a destinazione non dovrai mai allontanarti da me.»
Amaya non replicò. In quella frase non c’era malizia, né ironia. Era la prima volta che lo sentiva parlare con una tale serietà, come se l’argomento fosse davvero importante. Le diede una strana sensazione, quasi di disagio.
La faccenda non prometteva bene.


*


Avevano continuato a camminare in silenzio tra la gente, l’uno di fianco all’altra. Amaya ne aveva approfittato per lanciare qualche furtiva occhiata a Volker di soppiatto, studiandolo con attenzione.
A giudicare dall’aspetto era legittimo pensare che fosse una persona poco raccomandabile e, in effetti, non ispirava certo fiducia di primo acchito.
La benda che gli copriva l’occhio sinistro sembrava addirittura essere un avvertimento, o almeno ad Amaya dava quest’impressione, ma il sesto senso della ragazza le diceva chiaramente che non era poi così terribile come poteva apparire.
Ben più problematico era il suo atteggiamento, così sfrontato da rasentare a tratti la malizia. L’idea di dover stare in compagnia di un buffone come lui non la allettava particolarmente, ma si rendeva perfettamente conto che non avrebbe potuto continuare a ignorare a lungo l’umano.
Ma nulla imponeva una conversazione intima: bastavano anche poche parole, tanto per rompere il ghiaccio. Decise di fare uno sforzo.
«Quella da dove arriva?» domandò, indicando la benda. Volker accarezzò il tessuto nero che gli copriva l’occhio, con un inaspettato sorriso amaro. Amaya quasi si pentì di aver posto la domanda.
«Mi ricorda cosa devo fare.»
L’elfa ritornò in silenzio, guardando la strada di fronte a sé. Aveva la sensazione di aver toccato un argomento delicato di cui l’uomo non amava parlare. Decise di non insistere.
«Siamo arrivati.»
Quando Amaya sollevò lo sguardo, si accorse di essere all’entrata di quello che appariva come un locale pubblico. All’esterno, un nutrito numero di persone occupava l’entrata, ciarlando a voce alta. Alcuni avevano un aspetto poco raccomandabile, altri avevano volti contratti in ghigni per nulla rassicuranti, ma Amaya capì subito che non erano lì per caso.
C’era chi cercava qualcosa che non poteva essere reperito da nessun altra parte, qualcosa che era proibito nella maniera più assoluta nel regno, e c’era chi era lì per concludere qualche affare interessante. Amaya divenne consapevole di avere mille occhi puntati addosso che la studiavano, ridevano di lei, così palesemente fuori posto tra quella manica di criminali.
Si sentì a disagio.
Volker la afferrò per un polso trascinandola dentro al locale, e l’elfa provò un fastidioso moto di gratitudine verso di lui.
Quando varcò la soglia d’entrata venne sorpresa da una musica particolare, ammaliante, ma diffusa a volume così alto da ferire il suo udito sensibile. Con una smorfia si tappò le orecchie, cercando di proteggersi da quel suono troppo forte per una della propria razza.
C’erano persone che ballavano ovunque, in pista o all’interno di gabbie assicurate al soffitto. Intrugli dai colori bizzarri e luminescenti vagavano su vassoi trasportati da uomini bellissimi, androgini, e Amaya si guardò attorno stordita.
«Che posto è questo?»
«Il posto in cui troveremo quello che stiamo cercando. Mi raccomando, stammi vicino.»
Amaya non se lo fece ripetere due volte, improvvisamente dimentica della propria insofferenza verso l’uomo. Si sentiva come un pesce fuor d’acqua, e aveva l’impressione che se si fosse persa sarebbe stata agguantata da qualche trafficante di oggetti demoniaci. Si stava già cacciando in guai non indifferenti e non ne voleva altri.
Seguì Volker tra la folla, ignorando gli sguardi insistenti che le scivolavano addosso. Si diressero verso un bancone, dietro il quale un donnone ben piazzato trafficava con le bottiglie di alcolici. Quando Amaya si avvicinò abbastanza da poterne vedere i movimenti, si accorse che gli intrugli che aveva visto passare erano preparati da lei.
Si muoveva veloce, precisa, sicura. Non si accorse dei due e alzò lo sguardo solo quando Volker tossicchiò.
«Non ti hanno ancora ammazzato?» domandò con noncuranza, ritornando al proprio lavoro. L’uomo sghignazzò, scuotendo appena il capo.
«Anche a me fa piacere rivederti Kaja.»
«Non ti avevano arrestato? Come diavolo hai fatto a fuggire?»
«È una lunga storia» Volker si strinse nelle spalle, strizzando l’occhio ad Amaya. «Piuttosto, sai dov’è Zorlan?»
Kaja guardò Volker, seria in volto.
«Vieni con me.»
Li condusse per corridoi accessibili solo al personale. Erano vecchi e umidi, Amaya lo capì dall’odore di muffa che impregnava le pareti.
Si chiese dove stessero andando e chi fosse questo Zorlan. Probabilmente era un pezzo grosso, a giudicare dallo sguardo della donna. Si fermarono davanti a una porta di legno, alla fine del corridoio. La musica era diventata null’altro che un rumore lontano.
Kaja bussò due volte, ma nessuno rispose.
«Capo, è tornato Volker.»
«Fallo entrare.»
Quando Amaya entrò al seguito dell’evaso, si ritrovò in una stanza in cui l’unica fonte di luce erano delle candele posate qua e là.
Nonostante la penombra, riuscì chiaramente a distinguere un numero impressionante di volumi corposi e oggetti dalle forme più disparate, riposti con cura maniacale nei ripiani di un mobile.
Un uomo era seduto dietro a un tavolo. Amaya ne colse immediatamente i lineamenti delicati e armoniosi, di una bellezza squisitamente elegante. I capelli neri, perfettamente pettinati, risaltavano sulla carnagione pallida del volto.
A giudicare dall’aspetto, doveva essere vicino alla mezza età.
«Molte voci ti davano per spacciato, Volker» esordì l’uomo alzandosi in piedi, rivelando una lunga tunica di raso nero decorata con motivi argentati. Quando si accorse di Amaya, un sorrisetto lascivo gli curvò le labbra.
«E lei?»
«Lei è con me, Zorlan. Sono qua perché mi serve un favore.»
L’uomo annuì, invitando Volker a proseguire con un cenno della mano.
«Ho assoluto bisogno di avere un drago al più presto, un esemplare veloce che sappia coprire in breve tempo una distanza abbastanza lunga.»
Zorlan studiò Volker, prima di guardare Amaya sospettoso.
«Che dovete fare con un drago? »
«Penso che tu abbia sentito la notizia della fuga di quell’assassino da Artika.»
Zorlan annuì grave, e Volker indicò Amaya con un cenno del capo.
«Ha preso in ostaggio una sua amica, e se aiuterò la polizia a riprenderlo mi faranno fuggire dal regno. »
Contro ogni aspettativa di Amaya, Zorlan scoppiò in una risata roca.
«E tu vorresti un drago per cercare dall’alto questo fuggiasco? Non essere sciocco Volker: ti hanno promesso la libertà, ma dove potresti andare? Non puoi stare nel regno dei maghi e non puoi cercare asilo tra i demoni. Lo sai bene questo, sai che non puoi andare da chi ti ha fatto quello» terminò indicando la benda sull’occhio sinistro del fuggiasco.
Amaya all’improvviso capì. Pensò a quello che gli aveva ingenuamente chiesto riguardo al suo occhio sinistro, e cominciò a pensare a lui sotto una luce diversa. Per la prima volta, provò pietà per quell’uomo. Quando lo guardò, si accorse dell’espressione irata sul viso di Volker.
«Ho detto che voglio questo drago. Quello che farò poi non è affar tuo.»
Un sorriso calcolatore curvò le labbra di Zorlan.
«Non ti conviene parlare così a chi ti ha aiutato per così tanto tempo. Ricordati che mi sei debitore, Volker. »
«Ti sarei debitore se avessi ottenuto dei risultati, ma non sono arrivato da nessuna parte. Ora per favore, ho bisogno di questo drago.»
Zorlan rimase in silenzio per un momento che ad Amaya parve interminabile, e l’elfa ebbe quasi l’impressione che volesse prendersi gioco di loro.
«Cosa ti fa pensare che io abbia un drago, Volker?»
«Non prendermi in giro, abbiamo fatto affari in passato e so…» il fuggiasco fu interrotto bruscamente da Zorlan. «E se tutto questo fosse solo un trucco per incastrarmi? Se stessi aiutando la polizia a catturarci? Credi che sia così sciocco da ammettere di possedere un drago?»
Amaya sorrise in silenzio di fronte l’astuzia di Zorlan, e attese di sentire la risposta di Volker.
«Credi che farei mai una cosa del genere? Io, a te? Andiamo, lo sai che di me ti puoi fidare. Aiutami a non tornare ad Artika.»
Zorlan rimase ancora una volta in silenzio per qualche istante. Volker lo guardò con aria speranzosa, e quando lo sentì sospirare capì all’istante di aver vinto.
«Forse me ne pentirò, ma va bene. Ti darò questo drago.»

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Capitolo 12
*** il gatto e il topo ***


11
ATTENZIONE!
Visto che il capitolo precedente era corto, oggi ho pensato di fare doppio aggiornamento: capitolo 10 (il precedente) e 11 tutti per voi a distanza di qualche ora l'uno dall'altro. Spero che nonostante l'orribile stile con cui è scritta, ormai così distante da quello che ho attualmente, La zona rossa vi stia piacendo.
E, ovviamente, quello che succederà in questo capitolo accadrà per un motivo particolare che naturalmente verrà svelato più avanti ;)
Buona lettura


Brin








11.

IL GATTO E IL TOPO




*




Mentre camminava per i marciapiedi del viale principale di Naima, l’agente Victor Silver continuava a guardare la strada con aria preoccupata.
Se qualche impiccione gli avesse chiesto che cosa lo impensieriva, probabilmente il poliziotto non l’avrebbe neppure sentito.
Sapeva che lasciare Amaya con Kramer non era la scelta migliore, ma non avevano tempo da perdere: era necessario che Volker trovasse un drago, il più presto possibile. Se erano abbastanza fortunati, li avrebbe visti solcare i cieli attorno a Naima molto presto.
Dopo tutto, Volker stesso aveva ammesso di avere degli ottimi contatti in materia di traffici illeciti, draghi inclusi.
Ma l’agente Silver era consapevole che il detenuto non era esattamente affidabile.
Sapere Amaya da sola con lui non lo rendeva tranquillo, certo, ma la sua preoccupazione maggiore rimaneva Sari. Quelle due ragazze erano un po’ come delle figlie: le conosceva da molti anni, le aveva viste maturare, e le aveva guidate all’interno del dipartimento con pazienza e premura.
E Sari era in compagnia di un assassino di massa.
La cosa che più impensieriva Silver e lo rendeva ansioso, era che Warknife sembrava sparito nel nulla: non c’era traccia di lui, né in tutta l’Aurika -il continente di ghiaccio- né a Naima.
Nonostante le sue preoccupazioni, però, c’era una cosa che gli dava speranza. Era certo di trovarsi nel posto giusto, e il numero di militari presenti in città ne era la prova lampante.
Giunto di fronte all’entrata dell’unica locanda della cittadina, decise di tentare la fortuna. Probabilmente i due avevano affittato una camera per la notte, con l’intenzione di riposarsi, anche se aveva la sgradita sensazione di essere arrivato tardi.
Il locale era vuoto. Non c’erano clienti, a eccezione di un avventore solitario seduto al bancone e della proprietaria, intenta ad affogare il dispiacere per una fuga dei clienti in una bottiglia di grappa. Silver si diresse senza indugi verso la donna.
«Mi scusi…»
La locandiera lo guardò. Era ancora sobria.
«Che c’è, il C.S.M. non ne ha avuto abbastanza di spaventare questa povera donna e i clienti della sua locanda?! » sbottò riempiendo il bicchiere che aveva in mano.
Silver le si sedette di fianco.
«Sono l’agente Silver, del dipartimento di polizia di Rosya. Non sono venuto per conto del C.S.M.» le spiegò, cortese. La donna gli lanciò un’occhiata critica e veloce.
«E allora si può sapere perché è venuto qui? Vuole sapere anche lei del nostro ospite della settimana?»
Il poliziotto sorrise pazientemente, grattandosi un sopracciglio.
«Precisamente. Volevo sapere se quest’uomo è passato da queste parti» frugò all’interno di una valigetta, e piazzò sul bancone un volantino con la foto segnaletica di Warknife all’epoca del suo arresto. Sotto la foto, una grande scritta rossa recitava “RICERCATO” a lettere cubitali.
Il ragazzo, l’unico cliente nella locanda, gettò una rapida occhiata alla foto. «È lui il tizio che sta creando tutto questo scompiglio?»
La sua voce profonda creava un insolito contrasto con i lineamenti regolari e piacevoli del viso. L’assenza di orecchie a punta suggeriva che appartenesse alla razza umana.
«Sí. Se hai indizi a riguardo, ti prego di darmeli» rispose Silver allungandogli il volantino, ma la padrona della taverna glielo strappò letteralmente di mano, paonazza in volto.
«È lui, quel maledetto!» esplose, strabuzzando gli occhi. «L’avevo notato, non doveva essere uno a posto. Mi ha fatto scappare tutti i clienti, sa? E il C.S.M! Quel Rider, maledetto! Spaventarmi così tutta la clientela! Ma lo avevano quasi preso, quell’assassino. E la ragazza... » esclamò concitata, senza fermarsi. Silver fu costretto a interromperla nel bel mezzo del suo sfogo.
«La ragazza stava bene? »
«Oh, sí. Sembrava solo molto spaventata, ma era tutta intera.»
Silver tirò un sospiro di sollievo. «L’hanno preso? »
La donna fece un cenno negativo con il capo.
«È riuscito a fuggire dal tetto, quel bastardo. Chissà che lo prendano e lo buttino ad Artika, così farà la fine che si merita.»
Silver distolse lo sguardo dalla donna, tacendo il fatto che era proprio da Artika che Warknife veniva. E che non l’avevano affatto giustiziato, contrariamente a quello che tutti si aspettavano dalla legge istituita dalla Corporazione. Sorprese il ragazzo a fissare il muro oltre il bancone, assorto in chissà quali pensieri.
«Lo prenderemo, non c’è da preoccuparsi. Ormai ha le ore contate» Silver tentò di rassicurarlo, sicuro che la situazione lo intimorisse. Quando il giovane lo guardò, al poliziotto sembrò che per un istante un guizzo nei suoi occhi gli deturpasse il volto in un’espressione seccata: una reazione che non si aspettava di certo. Silver lo osservò frastornato, e quando lui gli sorrise riconoscente, si domandò se non si fosse immaginato ogni cosa.
Sospirò.
«Beh, vi ringrazio per le informazioni. Arrivederci» salutò, prima di uscire dalla locanda.
Il C.S.M. non aveva perso tempo: stava già organizzando dei posti di blocco in punti strategici, alle porte della città. Warknife aveva le ore contate.
Tuttavia sentiva che qualcosa non quadrava, qualche particolare gli sfuggiva e lui non riusciva ad afferrarlo. Aveva la netta sensazione di essere in un quadro fatto di forme, linee e colori dall’armonia perfetta, a eccezion fatta per pochi, piccoli elementi che stonavano con l’intera opera. Ma sebbene avvertisse la presenza di quei piccoli tasselli e il caos generato da essi, non riusciva ancora a scorgerli.
Si fermò in mezzo alla strada a capo chino, cercando di reprimere il senso di frustrazione che minacciava di assalirlo.
Non farti battere da lui, Victor. Non devi cedere.
Quando estrasse dalla valigetta un pacco di volantini con la foto segnaletica di Warknife, decise che avrebbe ignorato tutti quei punti interrogativi che gli frullavano in mente. Il perché Warknife era ancora vivo non aveva importanza: l’unica cosa che contava al momento era liberare Sari, e ricacciare quel mostro nell’inferno da cui era venuto.
Quando appese il primo volantino, ebbe l’impressione che il volto stampatovi sopra ridesse di lui, beffardo.


*


La città non era più un luogo sicuro. Doveva andare via da lì il più presto possibile.
Non gli avrebbe permesso di catturarlo di nuovo e di giocare con lui come avevano fatto in passato. No, li avrebbe uccisi prima che potessero mettere le loro sporche mani su di lui. Uno dopo l’altro, anche a costo di sacrificare le vite di tutti gli abitanti della città.
Nascosto in un vicolo, Namar controllò se la strada principale fosse libera. Le circostanze sembravano favorevoli per agire: non c’era nessuno nelle vicinanze.
Gettò l’occhio sull’insegna del negozio dall’altra parte della carreggiata.
Un fabbro.
Attraversò di corsa la strada, trascinando Sari per un polso. Quando entrarono, non trovarono nessuno al bancone.
«Perché siamo qui?»
Il fuggiasco lasciò andare Sari, ma non le rispose. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli. Qualcosa di appuntito, qualcosa di pericoloso. Poi le vide, sopra il bancone: un paio di grosse forbici, vecchie, ricoperte da uno strato di ruggine.
Facevano proprio al caso suo.
«Ho un appuntamento nel retrobottega» dichiarò con un sorriso folle, oltrepassando il bancone con le forbici in mano. Imboccò la porta, probabilmente l’accesso alla fucina.
Sari non perse tempo, intuendo all’istante quali fossero le intenzioni di Namar. E non le piacquero affatto. Gli corse dietro, nel tentativo di riuscire a fermarlo prima che potesse utilizzare quelle forbici.
Quando entrarono nel retrobottega, il fabbro –un elfo dalla corporatura insolitamente robusta, probabilmente il padrone del negozio- era intento a forgiare una spada. Era coperto di sudore, a causa del caldo e della fatica.
E non appena si accorse di loro, abbandonò la spada rovente, che cadde a terra spargendo scintille ovunque. Rimase fermo, con gli occhi fissi sul fuggiasco, le ginocchia piegate e pronte allo scatto. Pronte alla fuga.
Lo guardò avvicinarsi con quel sogghigno tipico di un folle. Solo quando gli fu abbastanza vicino da poterlo aggirare, tentò uno scarto veloce di lato, ma Namar fu più veloce di lui: allungò la gamba, e l’elfo non riuscì a evitare lo sgambetto. Cadde per terra con un tonfo sordo, reprimendo a stento un lieve lamento.
Namar si chinò su di lui puntandogli le forbici alla gola, e in quel momento Sari gli si lanciò addosso, afferrandogli il polso nella speranza di impedirgli di fare del male al fabbro.
«Fermati, ti prego.»
«Non oggi, dottoressa» ringhiò Namar, spingendo Sari lontano. «Torniamo a noi due, orecchie a punta. Mi serve la tua collaborazione e, che sia spontanea o meno, ti assicuro che me la darai» il sogghigno dell’evaso non prometteva nulla di buono.
L’elfo tremò, ma sostenne lo sguardo folle di Namar con l’orgoglio caratteristico della propria razza.
Un orgoglio tale che non gli permetteva di chinare la testa. Mai, in qualunque situazione si trovasse.
«Non credo proprio.»
A quelle parole, Namar si spazientì. Aumentò la pressione della lama sulla gola del fabbro, e una goccia di sangue fece capolino. Fu un attimo: gli occhi chiari dell’elfo persero per un istante la loro fierezza. E si fece largo la paura.
Namar capì di averlo in pugno.
«Allora?» sibilò. L’elfo deglutì, annuendo col capo.
«Che vuoi che faccia?»
«Le vedi queste?» domandò sollevando a mezz’aria i polsi incatenati, producendo un rumore metallico.
Al cenno d’assenso dell’elfo, Namar sorrise mellifluamente. Sinistramente.
«Toglile.»


*


Nessuno aveva più detto nulla da quando le catene erano cadute dai polsi di Namar. Il clangore prodotto nel momento in cui toccarono terra suonò alle orecchie di Sari come un lugubre canto di rinascita, e da quel momento il fuggiasco non aveva fatto altro che ridere sommessamente accarezzandosi i polsi segnati dalle piaghe.
Sarì sospirò, rassegnata. Era appollaiata sopra una sedia di legno e guardava ora Namar, ora l’elfo seduto in un angolo della fucina.
Rimanere in silenzio non la stava affatto rilassando, perché le consentiva di riflettere. Di ripensare alla reazione che aveva avuto l’evaso quando l’aveva toccato, e a come lei si era comportata.
Aveva reagito da essere umano invece che da psicologa.
Non era rimasta obiettiva, e si era lasciata trascinare da ciò che lo sfogo emotivo di Namar le aveva provocato. Non si era chiesta perché. Che cosa ci potesse essere dietro quel terrore sproporzionato che gli aveva letto negli occhi, lo stesso che aveva visto molte volte nelle persone che avevano subito maltrattamenti.
E quando Namar le aveva detto di non toccarlo, gli aveva risposto come se fosse stato un capriccio. Con acidità, fomentata dal nervosismo e dalla pressione che la stressavano da quando tutta quella storia era cominciata.
E poi c’erano quei tagli, profondi e infetti, che non facevano altro che dare nuova forza ai suoi timori. Ma la cosa che più la turbava, più delle ferite di Namar e del suo rifiuto di essere toccato, era che cominciava a vedere l’evaso sotto una luce diversa. Oltre l’assassino, sotto il carcerato e il rapitore, si nascondeva una persona.
Ed era riuscita a intravederla in mezzo al marcio che si portava dietro. E la cosa l’aveva scossa.
Cominciò a essere stanca di rimanere seduta: faceva caldo lì dentro, e le sembrava quasi che l’aria cominciasse a diventare rarefatta. Sentiva il sudore farsi appiccicoso e la pelle incendiarsi. Aveva bisogno di uscire, di catturare a pieni polmoni l’aria della notte.
Guardò Namar, vagamente scocciata.
«E ora si può sapere che hai intenzione di fare?»
«Cosa pensi che farò, dottoressa?» la schernì con un sorrisetto decisamente irritante «Sarebbe una mossa alquanto stupida creare tutto questo scompiglio e poi lasciare che mi prendano così facilmente, non credi?»
Sari scosse il capo, sospirando.
Non gli darò la soddisfazione di rispondere alle sue provocazioni.
«Andremo via da qua appena si saranno calmate le acque.»
«Non credi che perquisiranno ogni abitazione?» domandò Sari con un sorriso quasi amaro «Busseranno anche a questa porta, lo sai. Quando ciò accadrà che farai?»
Namar assunse un’espressione cupa. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto, imbrigliato in pensieri insondabili. Era preoccupato.
Per un istante a Sari sembrò di cogliere nei suoi occhi un guizzo strano, quella luce folle e allucinata che ormai aveva visto più di una volta.
«Non ci troveranno, te lo assicuro.»
Sari non volle indagare oltre e si accontentò di quella risposta. Non sapeva se fidarsi o meno di lui, non riusciva a capire se le facesse paura o pietà, se sperava che lo prendessero o che riuscisse a fuggire.
Una parte di lei gridava disperatamente per ottenere la salvezza, ma l’altra –la parte altruista, quella che l’aveva portata a diventare psicologa- le diceva chiaramente che non poteva ignorare ciò che aveva intravisto per un breve istante, in quella camera.
Così decise di non rispondere, e nella fucina fu di nuovo silenzio, lungo e snervante. Aspettavano come topi in trappola, con il cuore che galoppava e i sensi all’erta per captare ogni rumore. Era solo questione di tempo, Sari lo sapeva bene.
Rider non era mai stato un tipo che si arrendeva così facilmente, ed era certa che li avrebbe cercati fino alla morte. Era un soldato ligio al dovere, o almeno questo era quello che si diceva di lui, e il suo compito in quel frangente era trovarli. Riportare lei da Amos, e Namar ad Artika.
Non si sarebbe fermato. Nessuno del C.S.M. lo avrebbe fatto finché non avessero portato a termine la missione.
Mancava poco, molto poco. Erano vicini, erano sulle loro tracce e le fiutavano con avidità, mentre loro si nascondevano in quel buco, al buio.
Sari scoprì con sorpresa che le mani le tremavano. Cercò di nasconderle per non farsi scoprire da Namar, ma il fuggiasco aveva ben altri pensieri per la mente: si aggirava per la stanza come un’anima in pena, camminando avanti e indietro senza sosta con evidente nervosismo.
L’elfo, seduto nell’angolo, ne seguiva le movenze con ostinazione. Sembrava studiarlo con una certa insistenza, cosa che suscitò facilmente l’irritazione di Namar. Il fuggiasco afferrò una delle spade riposte sul tavolo e la puntò contro la sua gola con la velocità letale propria di uno scorpione.
«Detesto essere fissato. È la seconda volta che ti punto contro una lama, alla terza la tua testa salta dal collo» mormorò con un sogghigno. L’elfo non rispose, limitandosi a guardare il suo sequestratore con odio.
Sari balzò in piedi per intervenire, ma Namar la bloccò.
«Guai a te se t’intrometti.»
Stava per ribattere, quando all’improvviso lo sentì: un leggero scricchiolio, il rumore della porta che si apriva, e infine dei passi nella bottega. Il sangue le si gelò nelle vene.
Li avevano trovati.
Guardò Namar preoccupata, come se lui potesse risolvere la situazione in qualche modo, ma il fuggiasco non muoveva un muscolo. Sembrava un segugio che fiutava l’aria in cerca della preda, immobile e attento.
I passi cessarono, quindi rincominciarono. L’elfo, ancora minacciato dalla lama che Namar gli puntava alla gola, fremeva.
«Ti prenderanno» gli sussurrò, e la mano che impugnava la spada tremò. Per un istante Sari temette che il fuggiasco avrebbe violato le carni del fabbro, ma Namar riuscì a mantenere il sangue freddo.
«C’è nessuno?» dalla bottega provenne una voce maschile, calda e profonda. Sari sentì che le gambe stavano cominciando a diventare molli.
«Vai di là e dì che il negozio è chiuso» Namar levò la spada dalla gola dell’elfo, che si risollevò lentamente in piedi, poco convinto. Sostenne lo sguardo duro e perentorio del suo sequestratore con orgoglio.
«Te lo puoi scordare, non ti aiuterò a scappare.»
Le membra di Namar furono prese da un fremito. Quando levò l’arma in aria, pronto a calarla sull’elfo, i passi si fecero più vicini. Chiunque fosse, li avrebbe trovati in una manciata di secondi. Pochi, miseri istanti si frapponevano tra la fuga di Namar e la sua fine.
«Namar!» Sari gridò nel tentativo di far capire all’evaso cosa stesse per accadere, ma fu troppo tardi: una sagoma apparve sulla soglia del retrobottega, un ragazzo dai lineamenti dolci e regolari, in netto contrasto con la voce profonda e adulta. Era piuttosto alto, e i capelli castani ricadevano in riccioli all’altezza delle orecchie. Guardava frastornato Namar e il fabbro, non capendo cosa stesse succedendo.
«Tu, sdraiati a terra e tieni le mani in vista!» l’evaso gli puntò la spada contro, e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Namar sospirò pesantemente, abbassando l’arma. A Sari ricordò un leone vecchio e ferito.
Sentiva che la parte di lei che lo disprezzava, quella che aveva sempre pensato che quei lunghi anni di prigionia l’avessero ammattito cancellando quel po’ di umano che era in lui, diventava sempre più fragile. Per la prima volta vedeva la disperazione di quella creatura e il feroce desiderio di fuggire da una vita di chissà quali orrori.
Sentì distintamente qualcosa agitarsi dentro di lei e serrarsi all’altezza della gola.
«Se mi lasci andare non dirò a nessuno che sei qua, lo prometto» biascicò il ragazzo, spaventato.
«Non me ne faccio nulla delle tue promesse!» ruggì Namar, improvvisamente infervorato «Chi sei? Fai parte del Corpo dei Maghi?»
«Di che cosa?»
Il ragazzo sollevò appena il capo, intimorito. Non aveva il coraggio di guardare Namar in faccia.
«È inutile che fai finta di non sapere, con me non attacca! Sei sotto copertura?» il tono del fuggiasco si fece più incalzante e il suo sguardo più cattivo. Il ragazzo abbassò la testa senza rispondere. Tremava dalla paura.
«RISPONDI!»
«NON SO DI CHE PARLI!» esclamò il giovane. Guardò per la prima volta il suo accusatore negli occhi e il suo sguardo implorante impietosì Sari. Quando la ragazza vide Namar avventarsi contro di lui, balzò in piedi strillando e con uno scatto fulmineo gli afferrò il braccio con cui brandiva la spada.
«Ora basta! Se facesse parte del C.S.M. sarebbe entrato armato assieme alla sua squadra, quindi piuttosto che sfogare il tuo nervosismo sul primo che ti capita sottomano pensa a come andar via da qui!»
Namar la studiò silenziosamente. Sembrava convinta di ciò che stava dicendo, o almeno questo era quanto gli suggeriva la sua espressione severa. Sollevò il mento, abbozzando un sorrisetto sornione.
«Ora che il nostro amico fa parte della comitiva, non posso lasciarlo andare senza avere la certezza che non faccia parte del C.S.M. Ragion per cui, ho paura che sarà costretto a venire con noi» terminò con una delle sue caratteristiche smorfie che per Sari sapevano molto da pazzo allucinato.




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Capitolo 13
*** il cerchio si stringe ***


12



12.

IL CERCHIO SI STRINGE


*




Victor Silver sapeva bene quello che faceva: immaginava che quei volantini avrebbero creato molto trambusto tra gli abitanti del villaggio, ma non poteva fare altrimenti. Il crepuscolo era calato già da diverse ore, ma nonostante il buio e il freddo le stradine della città erano popolate di gente.
Il brusio sembrava non dover mai finire, e l’inquietudine serpeggiava infida tra gli abitanti del posto, che si scambiavano occhiate perplesse e commentavano con preoccupazione la foto del ricercato.
«Questo qui è un criminale.»
«Dicono che arrivi da Artika.»
«Il carcere di sicurezza? Com’è possibile?»
«Lascio la città stasera stessa!»
Silver aveva sentito di tutto e dentro di sé non poteva fare altro che essere d’accordo con quello che coglieva dai discorsi degli abitanti di Naima. Anche lui era perplesso e non si capacitava di come fosse stato possibile che un pericoloso assassino di massa riuscisse a evadere da un carcere di massima sicurezza.
E soprattutto, di come potesse essere ancora vivo.
Non riusciva a non rimuginare su questo dettaglio importante, malgrado fosse preoccupato per Sari.
Stentava a credere che non fosse stato giustiziato. L’ineluttabilità della pena era una certezza garantita dalla legge, che tuttavia aveva risparmiato Warknife. Nonostante si arrovellasse su come fosse potuto accadere, il vero motivo continuava a sfuggirgli.
Sentì quel familiare senso di frustrazione fare nuovamente capolino, insistente e fastidioso. Aveva mandato lui stesso Warknife in carcere sette anni prima e la pena capitale non poteva essere stata rimandata così a lungo: doveva esserci una spiegazione, ma Silver aveva la strana sensazione che se fosse riuscito a scoprirla, quel senso di impotenza non l’avrebbe più abbandonato.
Quando svoltò l’angolo, vide tre uomini in uniformi nere. Impugnavano lunghe armi dalla forma affusolata, apparentemente una sorta di bastoni. Armi elettriche. Sul petto, brillava una targhetta dorata.
C.S.M.
Silver si fermò, gelato. Avrebbe dovuto immaginare che l’esercito sarebbe stato ancora in città, e se quei tre soldati erano da quelle parti voleva dire che Rider non era lontano.
Pregò di non incontrarlo. Non gli piaceva per niente: era troppo ambizioso, troppo calcolatore in ogni più piccola cosa. Trattare con il generale era molto snervante per una persona semplice e umile come Silver.
«Agente Silver?»
Non è possibile!
Quando si voltò verso la fonte da cui proveniva la voce, si ritrovò a guardare negli occhi proprio il generale Rider. Si sforzò di sorridere.
«Generale.»
«Avevo il timore che non foste voi, ma a quanto vedo non ho sbagliato persona» un leggero sorriso di circostanza gli increspò le labbra. Era controllato fino nel più piccolo muscolo; Silver se ne accorse subito.
«Buon per voi generale. Ora scusate, ma ho parecchie cose da fare.»
Tentò di porre fine al discorso per svignarsela, ma Rider a quanto sembrava non aveva la benché minima intenzione di lasciare che ciò accadesse.
«La tua presenza mi fa supporre che tu stia cercando di catturare l’evaso.»
Silver sostenne lo sguardo del militare. Sorrideva arrogante, con aria di superiorità. Il poliziotto cercò di trattenersi dal cominciare un diverbio inutile. Doveva mantenere la calma, o avrebbe fatto il suo gioco.
«E se fosse?»
«C’è già il C.S.M. che si occupa del caso, e penso che siamo entrambi d’accordo sul fatto che l’esercito sia più competente di un semplice poliziotto da ufficio in questa circostanza» concluse con un sorrisetto mellifluo.
Non raccogliere la sua provocazione. Non abbassarti al suo livello.
Probabilmente Rider accolse il silenzio di Silver come un consenso per continuare a infierire. Opportunità che non si fece scappare. L’espressione sul suo volto divenne ancora più irritante.
«Sto facendo piazzare uomini davanti a ogni porta d’accesso alla città, per controllare chiunque attraversi il posto di blocco, e i miei soldati hanno già cominciato a perquisire ogni edificio. Come vedi puoi tornartene a Rosya. Al fuggitivo ci penso io» l’espressione sul suo volto era palesemente trionfante. Si allontanò a testa alta senza neppure salutare, tronfio e sicuro persino nel portamento.
Mentre lo guardò confondersi tra la folla, Silver si accorse di provare un sollievo curioso. Scosse il capo, sospirando.
«Pallone gonfiato.»
La conversazione con il generale l’aveva irritato, ma dovette ammettere con se stesso che senza volerlo gli aveva dato delle informazioni utili. Ora sapeva come si stava muovendo l’esercito; nonostante non provasse simpatia per Rider, dovette ammettere che stavano facendo un lavoro eccellente. Presto avrebbero catturato Warknife, e senza di lui Sari sarebbe tornata libera.


*


Da quando quel ragazzo, Abidos, era piombato nella fucina, Namar era diventato ancora più nervoso. Andava avanti e indietro per il negozio, controllava la situazione all’esterno, sempre attento a cogliere anche il più piccolo rumore sospetto. Sembrava prossimo a un collasso nervoso.
L’elfo invece era seduto esattamente nello stesso angolo che aveva occupato in precedenza, le mani serrate in una presa decisa, le nocche quasi bianche. Era spazientito.
Quando Sari si voltò verso Abidos, fu sorpresa. Era calmo, il suo volto non era affatto turbato né spaventato. Sedeva a terra, la schiena contro il muro, lo sguardo imbambolato a fissare il pavimento. Sereno.
Si domandò come potesse essere calmo in una circostanza come quella, e si ritrovò a invidiarlo. Quando guardò Namar, poi, sentì l’angoscia montarle dentro. Quella situazione era snervante, quell’attesa la logorava, e lui non migliorava certamente le cose. Sbuffò, esausta.
«Non risolvi nulla continuando così.»
Lui non le badò minimamente, continuando a camminare per la stanza con il respiro che cominciava a farsi pesante.
Sari perse ogni speranza di farlo calmare. Decise di desistere da quell’inutile perdita di tempo, capace solamente di farla innervosire.
Ripiombò nel proprio silenzio, seguendo il filo dei pensieri. Da quando quella rocambolesca avventura era iniziata, non aveva più pensato ai motivi che l’avevano condotta ad Artika. Non ne aveva avuto il tempo, ed erano irrimediabilmente passati in secondo piano. Era così presa dai sentimenti ambivalenti che le suscitava Namar, da aver quasi scordato quel momento confidenziale, quel secondo in cui aveva compiuto un passo avanti verso la verità.
Verso l’identità dell’assassino di suo padre.
Quando Namar aveva accennato a Gaynor.
Un piccolo tassello che, nonostante tutto, non era abbastanza. Sperava in qualcosa, qualunque cosa. Sapeva che Shem era lì fuori, libero e alla continua ricerca di ciò per cui aveva ucciso suo padre.
All’improvviso, il cuore le mancò di un battito: l’orologio. Come aveva potuto dimenticarsi di quel dettaglio? Adrian aveva trovato la morte per proteggere quello che era nascosto all’interno di quel piccolo oggetto in argento, che ora era nelle mani di Sari. Era sicura, non poteva esserci altra spiegazione. Quel piccolo orologio nascondeva un segreto, qualcosa di importante in cui quasi sicuramente era implicata anche la Corporazione. Qualcosa di pericoloso, se aveva portato suo padre alla morte.
Sapeva che Shem non si sarebbe fermato, ne era sicura. Si era sporcato le mani nel modo più ignobile per ottenere ciò che voleva, e non avrebbe desistito. Probabilmente in quel momento era già sulle sue tracce, e presto o tardi l’avrebbe trovata. Era solo questione di tempo.
Quella consapevolezza la fece sentire inquieta, e fu costretta ad ammettere una cosa: non era libera di agire, finché rimaneva con Namar. Non poteva indagare su Shem, il che voleva dire farsi trovare impreparata. Un lusso che non poteva concedersi.
Doveva essere pronta ad affrontare l’assassino di suo padre, o non ne sarebbe uscita indenne.
Poteva sentire chiaramente l’orologio premere sulla coscia, attraverso il tessuto dei pantaloni. Shem non l’avrebbe fatta franca, non avrebbe avuto ciò che voleva.
Lo giuro, papà.
«Non ti preoccupare, ce la faremo a scappare. Ho un piano.»
Sari si voltò verso Abidos con il cuore in gola: non l’aveva sentito alzarsi, né sedersi accanto a lei e quando le aveva sussurrato nell’orecchio, aveva creduto di esser prossima a morire d’infarto.
Respirò profondamente per calmarsi, e si sforzò di sorridere. Solo allora, guardandolo così da vicino, si accorse che quel ragazzo aveva gli occhi nocciola.
«Se ci aiutiamo a vicenda, abbiamo buone probabilità di riuscire a scappare. La cosa importante è cercare di farlo restare calmo, o la sua reazione potrebbe essere devastante» Abidos guardò Namar di sottecchi, ma l’evaso non si accorse ciò che stava accadendo. Sari annuì, ma dentro sentì un dubbio farsi strada lentamente.
Era giusto così? Doveva abbandonare Namar al suo destino? Si sentì spregevole, ma non poteva rifiutare. Dopo che si era infiltrata ad Artika creando tutto questo putiferio, non avrebbe più potuto muoversi liberamente. Se si fosse fatta trovare assieme a Namar al momento della cattura, sarebbe stata sotto controllo costante, tanto più se Amos voleva mantenere il riserbo su quello che la Corporazione stava macchinando.
Non poteva permetterselo, o non avrebbe mai fatto luce sulla morte di suo padre. Annuì di nuovo, con maggior decisione.
Che Namar possa perdonarmi per ciò che sto per dire.
Si protese verso Abidos, la voce ridotta a un filo.
«Andiamocene da qua.»
Abidos accolse la sua risposta con un sorriso silenzioso. Si alzò, lo sguardo ora rivolto su Namar.
«Conosco un passaggio sotterraneo che ci permetterà di uscire dalla città senza essere scoperti. Dobbiamo muoverci ora, però.»
Il fuggiasco non lo guardò. Non rispose; le labbra serrate in una smorfia. Sembrava stare sull’attenti, pronto a cogliere qualsiasi rumore proveniente dall’esterno.
Fu allora che Sari lo sentì: un vociare insistente, caotico, cresciuto in sordina fino a raggiungere toni inquietanti. Le strade erano invase dai cittadini sopraffatti dall’agitazione e dalla paura.
«Cosa ci ricavi?» il tono di Namar era accusatorio, ma il fuggiasco non guardò Abidos, neppure in quel frangente.
«Sono la tua unica possibilità di salvezza. Non puoi fuggire dalla città senza essere scoperto, lo sai.»
Solo allora Namar si girò a guardare il ragazzo. Gli occhi tradivano diffidenza, ma Sari capì chiaramente che il fuggiasco aveva la piena consapevolezza che quello che Abidos aveva detto era vero.
Il C.S.M. doveva aver allertato la popolazione, per questo la gente si era riversata nelle strade. Con tutto quel caos forse sarebbero riusciti a confondersi con la gente, ma era troppo azzardato.
Namar non avrebbe mai corso il rischio di farsi catturare, se avesse potuto intraprendere una strada più sicura: Sari ne era convinta.
Per un attimo le sembrò che Namar la guardasse, che volesse cercare in lei un consiglio su come agire, ma fu uno sguardo fugace. Non si fidava. C’era qualcosa in quella situazione che non lo convinceva.
Sari guardò di sottecchi Abidos, ne studiò il profilo regolare, ma nel suo sguardo non vide nulla di anomalo.
Qualunque cosa inquietasse Namar, era certa che non lo avrebbe mai indotto a compiere un gesto violento nei loro confronti. La situazione stava precipitando pericolosamente, facendo di lei e Abidos dei pesi fastidiosi di cui l’evaso avrebbe potuto facilmente liberarsi.
In condizioni normali non si sarebbe fatto remore a ucciderli, Sari ne era consapevole, ma in quel momento Abidos rappresentava l’unica speranza che Namar aveva per uscire da quel pasticcio.
Non avrebbe mai potuto rinunciarvi, se voleva difendere la sua precaria libertà.
Il vociare all’esterno si fece all’improvviso più forte e vicino, e Sari capì che dovevano prendere una decisione in fretta. Stranamente si ritrovò a sperare che non li trovassero; si stava abituando a pensare che quella non era più solo la fuga di Namar, ma anche la sua, e si chiese se davvero l’idea di abbandonarlo una volta lontani da Naima fosse la soluzione migliore.
Si costrinse a pensare a suo padre, al suo viso che non avrebbe più potuto rivedere, e al volto del suo assassino, sparito nel nulla. Era quella la sua personale missione: scoprire se i suoi sospetti erano fondati, se Shem aveva davvero ucciso suo padre e, soprattutto, se l’orologio c’entrava davvero qualcosa in ciò che era accaduto. Namar se la sarebbe cavata, in un modo o nell’altro.
Quando lo guardò, le sembrò di vederlo tremare appena. Il vociare divenne sempre più vicino, fin quasi a raggiungere la porta d’ingresso della bottega. Namar rivolse ad Abidos uno sguardo tagliente, minaccioso.
«Al primo scherzetto ti ammazzo.»
«Dobbiamo muoverci ora» Abidos si limitò a rispondere con un tenue sorriso, prima di rivolgersi al fabbro «c’è un’uscita secondaria?»
Il fabbro sorrise e, quando guardò Namar, assunse un’espressione soddisfatta.
«L’unica uscita è quella della bottega. A quanto sembra per poter fuggire dovrai mascherarti per bene.»
Senza neppure rendersene conto, l’elfo si ritrovò con le spalle al muro e un dolore sordo che si diffondeva sulla schiena. La gola era stretta nella mano di Namar, che digrignò i denti assumendo un’espressione che deturpò il suo volto già segnato dalla prigionia.
Fu un attimo, veloce come un battito di ciglia.
Sari si precipitò a dividere i due.
Abidos, alle sue spalle, la seguì.
La carnagione dell’elfo cominciava a diventare blu.
Tutti i rumori provenienti dall’esterno scomparvero, e l’unica cosa esistente fu solo un silenzio innaturale.
Poi, all’improvviso, lo sentirono.
Un rumore, tre colpi alla porta d’ingresso.
Una voce maschile.
Un ordine.
«Per ordine della Corporazione, aprite la porta!»
Sari si sentì morire, ma ciò che vide in Namar non sarebbe mai riuscita a descriverlo: era devastante.
Non avevano più via di scampo.
Li avevano trovati.

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Capitolo 14
*** nel buio del camino ***


13


13.

NEL BUIO DEL CAMINO


*




Namar si voltò verso la porta che dava sulla bottega; gli occhi sgranati in un’espressione stravolta. Il fabbro, ancora intrappolato nella sua presa, sorrise impercettibilmente.
«Sembra che la tua fuga sia finita qua.»
Namar fremette, la mano con cui stringeva la gola dell’elfo tremò appena. Per un istante Sari temette che volesse ucciderlo. Avrebbe voluto fermarlo, ma quando provò a muoversi non vi riuscì. Le gambe erano paralizzate per la tensione.
«Va’ a dirgli che non c’è nessuno» ordinò Namar all’elfo, che rimase muto a guardarlo con astio.
Non intendeva collaborare.
Silenzio.
Bussarono di nuovo, e Sari fu scossa da un tremito fastidioso. Alternò lo sguardo da Namar all’elfo, e in quel momento ebbe una vaga idea di come dovesse sentirsi il fuggiasco.
In trappola, disperato. E solo.
Namar perlustrò il perimetro della stanza, in cerca di qualcosa. Stava cercando di pensare, di elaborare un piano. Con un cenno del capo indicò il camino a Sari e Abidos, che lo guardarono senza capire.
Namar sbuffò, impaziente e nervoso.
«Arrampicatevi dentro la canna fumaria, e non uscite finché non ve lo dico io.»
Le sue parole lasciarono perplessi Sari e Abidos, che rimasero imbambolati a guardarlo facendogli perdere la pazienza. Sbuffò, lasciando andare l’elfo per spingere la psicologa all’interno del camino con malagrazia, ma Sari incespicò, cadendo in ginocchio sulla fuliggine che le imbrattò i pantaloni e le mani.
Represse a stento un’imprecazione.
«Aprite, questo è un ordine!» la voce del soldato, fuori dall’edificio, giunse perentoria alle orecchie di Namar, che fulminò Abidos e Sari con lo sguardo.
«Muovetevi o vi ammazzo» sibilò. E solo allora, raccolte tutte le forze di cui disponeva, Sari cominciò la scalata alla bell’e meglio. Pregò perché il cielo gliela mandasse buona. Ciò che la preoccupava era se sarebbe riuscita a resistere il tempo necessario senza scivolare e mandare a monte quello che Namar aveva in mente. Un fruscio sotto di lei le suggerì che anche Abidos doveva aver iniziato la scalata. Continuò ad aggrapparsi alle sporgenze che sentiva spuntare dalla superficie della canna fumaria, non senza fatica. La pietra era scivolosa, ricoperta di polvere che ricadeva lungo il condotto al suo passaggio.
Abidos, sotto di lei, la seguiva agile.
Sari si fermò solo quando il camino divenne abbastanza stretto da rendere impossibile il passaggio. Non vedeva nulla, se non un debole raggio di luce filtrare dalla cappa. Cercò di guardare il cielo, per quello che la fessura consentiva. Ed era completamente nero, a eccezione fatta per la presenza di qualche stella.
Dalla fucina sentì provenire dei rumori sommessi, mormorii che non riuscì a cogliere, e infine un tonfo. Pesante, sordo.
Un corpo che si accasciava inerme sul pavimento.
Sentì il cuore balzarle in gola e lì, in quel condotto buio e stretto, si sentì impotente. Guardò di sotto, cercando lo sguardo di Abidos per capire se anche lui avesse sentito.
Poi, udì dei passi che si allontanavano, diretti verso la porta della bottega.
E infine una voce.
Quando la riconobbe, il cuore le mancò di un battito.
«Chi è?»
Era il fabbro.
E Namar era il corpo a terra.
La fuga era terminata con la cattura.


*


Namar guardò Sari sparire nel camino, seguita da Abidos. Solo quando non li vide più si voltò verso l’elfo, che si stava dirigendo verso la bottega nel tentativo di fuggire.
Si gettò all’inseguimento e, quando lo raggiunse, lo costrinse di nuovo contro il muro, rudemente. Il fabbro trattenne una smorfia di dolore.
Si avventò su di lui, afferrandolo per il bavero e tirandolo verso di sé.
«Te lo chiedo per l’ultima volta con le buone: vai a dire che non c’è nessuno qui» sussurrò a pochi centimetri dal viso dell’elfo, che sorrise mellifluamente.
«Sono poco incline a coprire criminali come te.»
Per tutta risposta, il sorriso folle che illuminò il viso scavato dell’evaso gli raggelò il sangue nelle vene. Sembrava capace di tutto.
«Allora passerò alle maniere forti.»
L’elfo non ebbe neppure il tempo per capire a cosa si riferisse.
Namar gli posò le mani sul capo, e quando chiuse gli occhi avvertì un forte giramento di testa. Sentì le gambe farsi molli e insensibili, così come tutto il resto del suo corpo.
Poi, per una brevissima frazione di secondo, il nulla.
Quando riprese coscienza del proprio corpo, la prima cosa che avvertì fu un forte dolore alla schiena. Avrebbe dovuto usare metodi persuasivi più delicati, la prossima volta.
Nel momento in cui aprì gli occhi, vide un corpo riverso a terra, come svenuto.
Capelli neri, spettinati e mal tenuti; un volto scavato e pallido, quasi malato. Bende sporche attorno alle mani, e vestiti logori per coprire quel corpo secco.
Stava guardando se stesso.
Sogghignò. Gli faceva sempre una strana sensazione prendere il possesso di un corpo altrui e, sebbene l’avesse già fatto altre volte, era sempre un’esperienza che non gli sarebbe mai piaciuta.
Di nuovo, bussarono alla porta.
Si guardò attorno. Passò velocemente in rassegna l’angolo più remoto della stanza per individuare un nascondiglio abbastanza sicuro per il suo corpo, che in quel momento non era altro che un involucro vuoto: lo individuò in una cassapanca massiccia, riempita di stracci asciutti. Poi trascinò il corpo per le caviglie fino al mobile, che liberò dall'ingombro dei panni, e lo caricò all'interno.
Rimettere gli stracci al loro posto fino a nascondere il contenuto della cassapanca, poi, fu l'atto finale.
Quando bussarono di nuovo, Namar abbozzò un sorrisetto sprezzante.
«Arrivo, arrivo.»


*


Il generale Rider si trovò di fronte a un uomo alto, dalla corporatura slanciata e longilinea tipica degli elfi. Le orecchie a punta erano un’ulteriore prova della razza a cui apparteneva il fabbro, che squadrò il gruppo di soldati con stupore.
«Che cosa posso fare per voi?»
«Come mai non hai aperto subito?» domandò Rider con tono insinuante.
L’elfo sembrò non capire la domanda. Si accigliò, allungando il collo verso il generale.
«Che cosa ha detto?»
I soldati, alle spalle di Rider, ridacchiarono sommessamente.
«Come mai non hai aperto subito?» il generale chiese di nuovo, spazientito.
L’elfo si strinse nelle spalle.
«Il mio udito comincia a perdere colpi, sa com’è… Stando tutto il giorno a battere ferraglia, prima o poi va a finire che lo si perde.»
Rider ascoltò la spiegazione inarcando appena le sopracciglia, scettico. Non aveva mai sentito di elfi con l’udito scarso, neppure tra quelli che forgiavano armi. E non aveva né tempo né voglia di ascoltare le spiegazioni assurde di quell’elfo di provincia.
Lo spinse da parte rudemente, entrando nella bottega impettito e arrogante. I soldati lo seguirono, e senza perdere tempo si dispersero per l’edificio: c’era chi si diresse verso la fucina, chi perquisì il negozio.
Rider osservò con occhio critico le operazioni, le braccia conserte al petto e un sorrisetto tronfio sulle labbra.
«Che state facendo?»
Il generale inarcò le sopracciglia, guardando il fabbro. Sospirò, irritato.
«Ordinaria amministrazione. Stiamo cercando una persona che potrebbe nascondersi da qualche parte qui in città.»
«Capisco.»
Rider guardò l’elfo con la coda dell’occhio. L’espressione sul suo volto era rilassata, tipica di chi non ha nulla da temere. Probabilmente l’evaso non si nascondeva lì. O forse sì.
Aveva la vaga impressione che quella sarebbe stata la missione più fastidiosa a cui avrebbe preso parte. Non aveva la più pallida idea di che cosa Amos stesse macchinando con la Corporazione, ma non poteva fare altro se non obbedire a ogni suo minimo capriccio.
Gli serviva, così come non poteva fare a meno della mocciosa presa in ostaggio.
Il fuggiasco gli interessava ben poco, e per quello che lo riguardava poteva anche morire, ma Amos lo voleva vivo e così gliel’avrebbe portato.
Non poteva permettersi di sgarrare con il mago, non in quel frangente.
«Generale, nella bottega non c’è nessuno.»
Rider guardò gelido il soldato che gli si parò di fronte. Cominciava a non poterne più.
Quando udì dei passi provenire dalla fucina, si voltò verso il corridoio, dove fece la sua comparsa un soldato giovane, poco più che un ragazzino.
Si fermò a pochi passi dal generale, sull’attenti.
«Nella fucina non c’è nessuno, generale.»
Rider serrò i pugni, mentre una smorfia irosa gli storse le labbra. Ogni volta che perquisivano un edificio e non trovavano tracce, l’impressione di essere il protagonista di uno scherzo irritante si faceva sempre più fastidiosa, e non la tollerava.
«Maledetto, dove sei?» sibilò, le guance rosse per la rabbia.
Il fabbro, alle sue spalle, si grattò debolmente il naso. Nessuno lo vide. Fu un movimento veloce, fulmineo.
Sogghignò, nascosto dalla mano.
Quando Rider rivolse la sua attenzione su di lui, l’elfo assunse un’espressione del tutto naturale.
Sorrise cordialmente all’uomo, in silenzio.
«Scusi per il disturbo» la voce del generale fremeva «Andiamocene, qua abbiamo finito.»
I suoi uomini obbedirono, uscendo velocemente dall’edificio con ordine e precisione marziale. Anche Rider si diresse verso l’uscita, ma prima di varcarla si fermò.
Voltò appena la testa, giusto quel tanto che gli permetteva di cogliere la figura dell’elfo con la coda dell’occhio.
«Se vedete movimenti sospetti, non esitate a chiamare il C.S.M.»
L’elfo annuì, e solo dopo aver ottenuto quella risposta il generale uscì, richiudendosi la porta alle spalle.


*


Sari non riusciva a capire.
Era stremata, i muscoli delle braccia le tremavano, e aveva il terrore di produrre anche il più flebile rumore. Ma nonostante tutto, aveva mantenuto le orecchie ben tese.
Aveva sentito ogni cosa, e non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che l’elfo non li avesse consegnati a Rider. Doveva ragionare, e velocemente anche.
Non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto Namar, e nonostante l’elfo li avesse in qualche modo protetti, non poteva contare su di lui.
La contraddizione tra ciò che si era prefissata di fare e il desiderio di aiutare il fuggiasco la colpì di nuovo, ma quello non era né il momento né il luogo per lasciarsi andare a elucubrazioni mentali di quel tipo.
Doveva pensare a come muoversi.
Namar le aveva detto che non doveva uscire fino a quando non gliel’avrebbe detto lui, ma molto probabilmente in quel momento era ben lontano dal poter fare una cosa del genere. Doveva agire, doveva capire cos’era accaduto e regolarsi di conseguenza.
L’unica cosa possibile da fare, in quella posizione nella canna fumaria, era discendere dal camino.
Guardò sotto di sé e individuò nel buio la sagoma di Abidos. Cercò di attirare la sua attenzione sussurrando il suo nome, e solo dopo un paio di tentativi avvertì un fruscio: un movimento nel buio.
Abidos la stava guardando.
«Scendi» gli sussurrò a bassa voce, ma il ragazzo non sembrò convinto. Rimase lì, fermo, immobile. Sari scosse la testa, sbuffando. Perché nessuno faceva mai ciò che lei chiedeva?
In quel momento avvertì distintamente dei rumori provenire dalla fucina. Rumori di natura diversa mischiati assieme, in sequenza. Passi, fruscii, poi il silenzio per alcuni brevi istanti.
Poi, un nuovo tonfo.
Cominciava a non capirci davvero più niente. Provava timore, eppure era maledettamente curiosa di sapere che cosa stesse accadendo lì sotto.
Al diavolo, ora basta.
Cercò un appiglio con la mano, con movimenti lenti e controllati. Ricordava di averne trovato uno più in basso quando stava salendo, doveva solo individuare il punto esatto. Andò a tastoni finché non avvertì una sporgenza nel muro.
Quindi fu la volta del piede, che scivolò contro la parete per cercare una roccia protuberante a cui potersi appoggiare.
Chiuse gli occhi, pregando di non scivolare.
Una scia di polvere cadde verso il basso sfiorando il viso di Abidos, che sollevò lo sguardo verso Sari.
«Che stai facendo? Non è ancora il momento, stai ferma e aspetta!» sussurrò, cercando di farla desistere dall’intento di calarsi a terra.
Sari fece per rispondergli, ma mise il piede in fallo. Da lì, cadere fu un attimo.
Scivolarono giù, le mani che strisciavano contro il muro nella ricerca disperata di un appiglio che non trovarono. Caddero a terra di schianto, in un polverone nero e soffocante. I loro polmoni furono invasi dalla fuliggine, e Sari tossì finché non li sentì liberi.
Non riuscì a rendersi immediatamente conto della situazione. La prima cosa di cui si accorse fu qualcosa di morbido sotto di lei. Quando riuscì a capire che cosa fosse, scivolò giù dal corpo di Abidos.
«Tutto bene?» domandò con aria colpevole e preoccupata. Il ragazzo mugolò di dolore, e si mise a sedere lentamente. Solo allora, Sari distolse l’attenzione da lui: c’era qualcos’altro che aveva attirato il suo interesse. La prima cosa che vide furono due stivali consunti, poi un vestito logoro, una zazzera nera, e infine due occhi grigi.
Namar troneggiava su di lei, le braccia conserte al petto e un’espressione di sufficienza stampata in faccia.
«Che stai combinando?»
Sari sostenne il suo sguardo, e sbuffò.
«Sono scivolata» biascicò controvoglia quella che infondo era una mezza verità.
Namar sgranò gli occhi, un’espressione che non mancava mai di far vedere agli altri. Chinò il capo di lato.
Sembrava che volesse prendersi gioco di lei, a giudicare da come la guardava.
«Ma dai?»
«Tu piuttosto: mi vuoi dire che è successo? Ho sentito un tonfo, e poi la voce dell’…»
Si interruppe a metà. L’elfo. Lo cercò con lo sguardo, e lo trovò sdraiato in mezzo alla stanza, apparentemente immobile. Come se fosse morto.
Guardò Namar senza capire cosa fosse successo, accigliata. Aveva timore a domandare, e ancor di più a sapere che cos’era accaduto al fabbro. Il sorrisetto ambiguo del ricercato non le sembrò per nulla rassicurante.
«Dormirà per un po’. Piuttosto, la prossima volta ti sarei grado se non tentassi di ammazzare la mia guida» aggiunse, inginocchiandosi di fronte ad Abidos.
Il ragazzo lo guardò negli occhi e non oppose resistenza quando Namar gli afferrò il mento, alzandolo per esaminare il suo viso con occhio critico.
«A quanto sembra sei vivo. Che ne dici di rimanerci fino a quando non saremo fuori da questo sputo di terra?» mormorò, con un sogghigno che non suggeriva nulla di buono. Abidos lo guardò senza battere ciglio. Guardò Sari, poi di nuovo il fuggiasco.
«Dobbiamo fuggire ora, è un’occasione perfetta dal momento che hanno già perquisito la fucina.»
Sari annuì.
Namar lo guardò con insistenza, senza lasciare la presa dal suo mento.
«Niente scherzi ragazzo. Ti tengo d’occhio.»
Abidos non rispose. Si limitò a sostenere lo sguardo di Namar e riuscì ad alzarsi solo quando il fuggiasco si sollevò in piedi.
Sari rimase in silenzio, guardando Namar e seguendone i movimenti con diffidenza. Aveva evitato di rispondere alla domanda, o almeno non aveva dato la spiegazione che lei si aspettava. Aveva glissato apposta, per evitare di dover affrontare un argomento che doveva rimanere segreto. Perché? Che cosa nascondeva?
Chi sei veramente?
Il fuggiasco guardò prima lei, poi Abidos. Nessuno osava pronunciare una singola sillaba.
Sorrise divertito. Allargò le braccia con fare teatrale.
Sul viso, un sorriso esaltato.
«È ora di muoversi.»


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Capitolo 15
*** fuga ***


15
Qualcosa inizia a muoversi. Ricordate che nulla è come sembra ;)
Buona lettura.

Brin







14.
FUGA

*



L’aria umida si appiccicava sulla pelle, e l’odore del mare impregnava le narici con prepotenza.
Fuggirono nella notte come ladri, silenziosi e attenti a ogni rumore. Erano ombre nel buio, sagome che rifuggivano la luce delle torce.
Percorsero le stradine secondarie: una via di fuga perfetta, dal momento che erano poco battute e scarsamente controllate. Abidos, alla testa del gruppo, apriva la strada. Seguiva Sari, e per ultimo Namar, protetto dal cappuccio di un mantello che aveva trovato nella fucina del fabbro. Si appostarono a ogni angolo per controllare la strada, attenti a non rimanere troppo a lungo in zone scoperte. Una cacofonia di voci sembrava provenire da ogni punto, e più di una volta temettero di venire scoperti. Namar sembrò sul punto di avere una crisi di nervi: non faceva altro che guardarsi attorno con insistenza, sussultando al minimo alito di vento. Sari, davanti a lui, aveva il cuore che galoppava.
Non aveva il coraggio di chiedere ad Abidos come intendesse condurli lontano da Naima. Aveva paura che, se avesse aperto bocca anche solo per sussurrare, qualcuno l’avrebbe sentita. Un timore irrazionale, che però l’attanagliava.
Superarono l’ennesimo angolo, seguiti dalle loro ombre disegnate dalle lanterne assicurate ai muri degli edifici. Sari cominciò a pensare che avrebbero continuato a vagabondare tutta la notte per la città, quando Abidos improvvisamente rallentò. Si guardò attorno, assorto.
«Siamo quasi arrivati.»
«Ma davvero? Sono piuttosto curioso di sapere dove ci stai portando, dal momento che io non vedo nulla a parte queste quattro case» esclamò Namar, allargando le braccia spazientito. Sari lo guardò di sottecchi. Aveva gli occhi spalancati, i denti scoperti in una strana smorfia animalesca, e il petto che si alzava e si abbassava convulsamente. Sembrava un cane rabbioso.
Abidos si limitò a sorridergli, comprensivo.
«L’unico modo per andarcene è percorrere la città lungo vie sotterranee, come le fogne per esempio.»
Namar lo guardò senza dir nulla. Si sistemò il cappuccio sul capo, senza distogliere lo sguardo. Era diffidente.
«Allora continua a camminare, e in fretta.»
Quando si rimisero in marcia, Sari si sentì afferrare per un braccio: era Namar, il viso a pochi centimetri dal suo orecchio. Una smorfia cattiva gli alterava la linea delle labbra.
«Credi che non mi sia accorto dell’adorabile giochetto che state inscenando tu e il tuo amico?»
Il sangue le si gelò improvvisamente nelle vene, ma cercò di dominare il panico che quella frase le aveva scatenato.
Non poteva farle del male, almeno finché gli era più utile da viva che da morta. Ma nonostante tutto, non riuscì a sentirsi confortata: aveva perso ogni speranza di fuggire. Namar non l’avrebbe più persa di vista, neppure per un istante. E la cosa più sconcertante, la cosa che si rifiutò di accettare, era che una parte di lei si sentiva quasi sollevata di non dover tentare la fuga.
Non riuscì a ribattere, turbata da quelle emozioni contrastanti. Il fuggiasco sogghignò soddisfatto.
«Beccati. Fatemi qualche scherzo di cattivo gusto e vi torturerò così lentamente che mi pregherete di uccidervi, è chiaro dottoressa?»
La sua voce era bassa e carezzevole, come se le stesse sussurrando parole d’amore, ma ebbe l’effetto di farla rabbrividire. Annuì, ingoiando pensieri amari su quei desideri ambivalenti che non avrebbe mai potuto accettare.
«Ora andiamo» la spinse avanti, e per poco Sari non incespicò.
Guardò avanti, ma in testa aveva solamente quanto Namar le aveva appena detto. Percepiva i suoi passi alle proprie spalle, il fruscio del mantello che indossava, e quell’assurdo senso di colpa che provava al pensiero di abbandonarlo al suo destino la faceva sentire stupida.
In un istante si era ricordata di cos’era Namar. Non avrebbe dovuto farsi prendere dalla pietà, e ne aveva avuto la prova. Non era un suo amico, e neppure un compagno di viaggio. Era il suo rapitore.
L’aveva sequestrata e l’aveva minacciata: due cose essenziali che non doveva dimenticare.
Venne strappata a forza da questi pensieri, quando sentì qualcosa di duro cozzare contro il suo naso. La schiena di Abidos. Si era fermato e lei non se n’era neppure accorta.
«Che diavolo succede?» sussurrò, trattenendo a stento un’imprecazione. Il ragazzo si voltò, guardando prima lei e poi Namar. Sembrava preoccupato.
«Arriva qualcuno.»
In quel momento Sari li sentì: dei passi leggeri, provenienti dalla fine della strada. Qualcosa si agitava nell’ombra con movimenti lenti, sinuosi. Per un istante pari a un battito di ciglia qualcosa brillò. Due occhi di fiera.
Sari scosse il capo, sperando di aver immaginato ogni cosa.
«Andiamo avanti» sussurrò Namar, quel tanto che bastava per farsi sentire dai due ostaggi.
«Chiunque sia, non guardatelo in faccia e non fermatevi per nessun motivo.»
Sari annuì poco convinta. Intuì subito che quei fugaci bagliori non erano frutto della sua fantasia: l’espressione preoccupata di Namar lo provava. E forse anche lui aveva capito che cosa si nascondeva nel buio.
Demoni!
Il suo istinto le gridava di non andare in quella direzione, di voltarsi e di allontanarsi da quella figura che la inquietava, ma nonostante tutto riprese a camminare con il capo chino.
Mantenne lo sguardo fisso sulle caviglie di Abidos anche quando quella creatura uscì dall’ombra, cogliendo a stento le sue fattezze di donna. Non vide la frangia che le copriva la fronte; non vide gli occhi azzurri che scrutavano il gruppetto, beffardi. Non si accorse del lungo, pesante sguardo carico d’intesa che Abidos le rivolse. Non seppe neppure che Namar, alle sue spalle, non aveva mai distolto lo sguardo da quella figura demoniaca.
La donna non aprì bocca. Oltrepassò il gruppo, allontanandosi in silenzio così com’era giunta.
Solo quando svoltò l’angolo e sparì dalla strada, Sari si sentì sollevata. Chiuse gli occhi, e si accorse che per quella manciata di secondi interminabili aveva respirato a stento, trattenendo il fiato a causa dell’ansia. Non ebbe neppure il coraggio di sollevare lo sguardo.
«L’avete vista, vero?» domandò la psicologa.
«Sì» mormorò Abidos continuando a camminare.
«Quegli occhi, nell’ombra…»
Questa volta il ragazzo non rispose. Era chiaro a tutti e tre cosa volesse dire ciò, e Sari credeva di sapere il perché un demone si trovasse in una cittadina di mare come Naima, in terra nemica.
Erano sulle sue tracce, e cercavano ciò per cui suo padre era morto. Erano arrivati.


*


Si calarono nel tombino, attenti a dove mettevano i piedi.
Sari fu investita dall’odore putrido e pungente del canale fognario non appena cominciò a scendere, e credette di vomitare, in preda a un conato.
Erano circondati dal buio. Dovettero aspettare diversi minuti prima di riuscire ad abituarsi all’oscurità e di poter distinguere l’ambiente. Il rumore dell’acqua proveniva da sinistra, e quando riuscirono a intravedere i contorni del condotto, riuscirono anche a individuare i flutti del canale.
Dall’altra parte, il muro. Quando Sari vi appoggiò la mano sentì qualcosa di spiacevolmente molliccio a contatto con la pelle, qualcosa che impregnava l’aria assieme al fetore dell’acqua.
Arricciò il naso, pulendosi la mano sui pantaloni.
«Muffa.»
Faceva fatica a vedere dove metteva i piedi, e aveva l’impressione di poter scivolare da un momento all’altro. La muffa doveva aver aggredito anche il pavimento, ipotizzò. Continuò a camminare alle spalle di Abidos, cercando di mantenere l’equilibrio tenendo le braccia protese.
In mezzo a tutto quel buio e a quel silenzio rotto solo dai loro passi, rifletté a lungo. I pensieri si susseguivano senza sosta come un fiume in piena, e lei non sembrava capace di fermarli.
Suo padre, il suo assassino, la voglia di trovarlo. Poi il suo sequestro, l’impossibilità di fuggire da Namar, la donna nel vicolo, e quel vago senso di colpa che provava quando pensava alla decisione di fuggire da lui. Non riusciva a capire cosa voleva fare.
Quando Namar li aveva scoperti si era quasi sentita sollevata: una scorciatoia facile per annientare i sensi di colpa. Una strada che le aveva lasciato un vago disgusto per se stessa.
Poi vennero le domande. Se anche fosse riuscita a trovare Shem, che cosa avrebbe fatto dopo?
Fu ciò che provò a quel pensiero ad atterrirla più di ogni altra cosa. Vendetta, giustizia o verità? Lei non sapeva più cosa desiderava, e la realtà era che in quel momento le sembrava di essere lontana anni luce dall’assassino di suo padre. Tutti quei pensieri confusi erano come un’oscurità fitta e impenetrabile, ma all’improvviso si ricordò di una cosa, e fu come vedere la luce.
Namar.
Lui conosceva Shem.
Il cuore cominciò a battere più velocemente. Non aveva idea di come avesse fatto a dimenticarsi di un particolare così importante, e si diede della stupida.
«Namar?»
«Non ho voglia di fare conversazione. Cammina e stai zitta.»
Sari si costrinse a mantenere la calma e a insistere. Non poteva lasciarsi scappare quell’occasione.
«Tu hai conosciuto Shem Gaynor, vero?»
Non ottenne risposta. Fu sul punto di desistere dai suoi intenti quando Namar sospirò.
«Se ti accontento la pianti di parlare? Mi stai infastidendo.»
Sari si fece improvvisamente attenta, con un largo sorriso soddisfatto.
«Si può fare.»
«Lavorava ad Artika.»
«Sì, quello lo so.»
«Allora la cosa finisce qua, non so altro.»
«Come sarebbe a dire che non sai altro? L’hai conosciuto! Ci avrai parlato, no?» sbottò Sari incredula, frustrata dal non riuscire a ottenere nessuna informazione che potesse essere utile. Le sembrò di vedere Abidos raddrizzare la testa, un movimento leggero e prudente, come se stesse ascoltando di proposito la conversazione e volesse nasconderlo. Non ci prestò molta attenzione: l’urgenza delle possibili rivelazioni di Namar aveva la precedenza.
Ma il fuggiasco non diede prova della disponibilità in cui lei si ostinava a sperare, lo dimostrò ancora una volta quando sbuffò infastidito.
«Per tua informazione, ad Artika il personale non si trastulla in chiacchiere con i detenuti. L’ho conosciuto, ma non so nulla della sua vita.»
Una delusione profonda avvolse Sari. Per un istante aveva creduto che Namar potesse aiutarla, dandole delle informazioni che l’avrebbero condotta verso Shem, ma fu costretta a fare i conti con la realtà. Shem era letteralmente sparito nel nulla, e tutti i suoi sforzi per trovarlo si erano risolti in un buco nell’acqua. Si era introdotta ad Artika con l’unico risultato di essere presa in ostaggio.
Rimase in silenzio, delusa e amareggiata. Solo in quel momento, con la complicità di un vivace flusso di pensieri, si rese conto di ciò di cui era appena stata testimone: Abidos, quel ragazzo così garbato, aveva appena violato uno dei punti fondamentali dell’etichetta. Aveva origliato.
La sensazione prodotta da quell’idea era fastidiosa, irritante, ma si disse che in fin dei conti non c’era nulla di male. Era da maleducati, certo, ma non avrebbe danneggiato nessuno.
Fu un errore pensarlo.


*


Abidos camminò sicuro con un sorriso mordace stampato in viso, un ghigno ben nascosto a Sari. Sarebbe arrivato fino in fondo, e avrebbe raggiunto il suo obiettivo prima di venire intralciato dai tirapiedi dei Maghi.
Stava conducendo la ragazza dritta nella sua rete, doveva solo giocarsi bene le carte che aveva a sua disposizione senza seccatori tra i piedi.
Mancava davvero poco.
«Quanto manca Abidos?»
Era Sari. Il ghigno sul viso delicato del ragazzo si fece ancora più affilato.
«Poco. Molto poco.»


*


L’aria sembrava aprirsi al loro passaggio, e Amaya aveva la sensazione che mille mani le schiaffeggiassero il volto nello stesso momento.
Pregò più volte perché riuscissero ad arrivare incolumi a destinazione.
Non era l’elfo che stava guidando il drago a impensierirla. Al contrario, fino a quel momento si era dimostrato gentile e comprensivo, evitando spericolati avvitamenti in aria che l’avrebbero fatta morire di paura. Il vero problema era se stessa.
Il drago volava così velocemente che lei riusciva a mala pena a respirare; doveva compiere uno sforzo enorme ogni volta che i polmoni catturavano l’aria.
Volavano nel cielo buio della notte, e sopra le loro teste le stelle sembravano sfrecciare, impazzite.
Volker aveva insistito per aspettare che il sole fosse tramontato prima di levarsi in volo e dirigersi verso Naima, e Amaya si era trovata d’accordo con lui: se qualcuno li avesse visti volare sul dorso di un drago, avrebbero avuto rogne a non finire.
Drago significava magia nera, e magia nera significava demoni: un binomio che non era assolutamente tollerato. Amaya si impose di non pensarci, come cercò di non pensare all’altezza che li separava da terra.
Tenne gli occhi chiusi, stringendo ancor di più le braccia attorno alla vita di Volker, che si lasciò scappare un leggero sorrisetto.
I secondi passarono e divennero minuti. I minuti trascorsero e si tramutarono in ore. Non seppe dire da quanto erano in volo, né riuscì a capire dove fossero. Verso il basso, chiazze più o meno scure si susseguivano senza fine; boschi, fiumi e zone collinose si alternavano continuamente. Ogni tanto, qualche sparuta luce appariva nell’oscurità: una manciata di case, un piccolo villaggio isolato dalle città nel bel mezzo della pianura.
Furono quasi sul punto di credere che non sarebbero mai arrivati, quando lo videro: un mare di luce, una piccola area illuminata a giorno.
Fuochi accesi ovunque: per le strade, alle entrate della città, alle porte di ogni singola abitazione, addirittura nelle zone esterne alla città. Naima era a caccia.
«Accipicchia, certo che si stanno dando un gran da fare per acchiappare questo tizio» constatò Volker ridacchiando. Amaya però non trovava la cosa divertente.
«È un uomo pericoloso, Kramer.»
«Chiamami Volker.»
«Come preferisci» sbuffò, infastidita dalla malizia che gli percepiva nella voce. E lui ridacchiò di nuovo, divertito.
«E ora che si fa?»
«Dobbiamo avvertire Victor che siamo arrivati a destinazione con un drago.»
Amaya cacciò una mano in tasca ed estrasse un gingillo, che Volker aveva già visto: un prodotto della raffinata tecnologia elfica. Lo chiamavano Ragno. Era una sorta di guanto metallico a forma di aracnide, le cui zampe reggevano una pietra piccola e completamente nera. Quando lo indossò, delle venature dorate colorarono la pietra, finché non cancellarono quasi completamente il nero. Fu allora che il Ragno cominciò a brillare di una luce dorata.
«Victor, mi senti?»
Per un istante la luce si spense e nessuno dall’altra parte rispose, ma poi la pietra riprese a pulsare finché il bagliore dorato non divenne stabile.
«Ce l’avete fatta?» la voce di Silver era metallica, quasi artificiale.
«Siamo sopra Naima, ma non possiamo scendere con il drago, altrimenti ci scoprirebbero.»
«Mi basta che setacciate la zona dall’alto, non voglio che corriate ulteriori rischi.»
«Perfetto. Quando vedo qualcosa ti…»
«Guarda là» Volker la interruppe, indicandole un punto in mezzo alla boscaglia. Inizialmente non riuscì a capire che cosa volesse mostrarle, ma quando aguzzò meglio la vista capì subito.
Tre sagome si muovevano in mezzo alle fronde, lontano dal sentiero.
L’ipotesi che fosse il C.S.M. era piuttosto remota, dal momento che non avrebbero avuto motivi per camminare nel bosco fuori dal sentiero: era più probabile che potessero essere Sari e il suo rapitore.
C’era però una terza persona, presenza alla quale non sapeva dare spiegazioni.
«Amaya, è successo qualcosa?» la voce di Silver sembrava preoccupata.
«Forse li abbiamo trovati. Stanno scappando attraverso i boschi, ma sono in tre.»
«Quel tizio potrebbe aver preso qualcun altro in ostaggio» ipotizzò Volker.
«In che direzione sono diretti?» chiese Silver.
Amaya rifletté per alcuni istanti e guardò il cielo, cercando di orientarsi con le stelle.
«Sud.»
«A sud, eh? Se tu fossi braccata dall’esercito e volessi trovare rifugio da qualche parte, quale sarebbe il posto più adatto in quella direzione?»
L’elfa provò a pensare velocemente a tutte le cittadine in cui un ricercato potesse essere al sicuro. Una città in cui la Corporazione non avrebbe potuto estendere i suoi artigli.
Il posto che aveva questi requisiti era uno solo, unico in tutta Silindril.
Un piccolo regno indipendente, in cui erano le leggi dettate dal sovrano a regolare la vita della città.
«Assen.»
Era sicura che in quel momento Silver stava sorridendo soddisfatto.
«Incontriamoci lì. Andiamo a liberare Sari.»

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Capitolo 16
*** un posto nel mondo ***


15



15.

UN POSTO NEL MONDO

*



Rider cominciava a non sopportare più di stare seduto, e aveva bisogno di scendere dalla macchina per sgranchirsi le gambe. Ciò che più gli dava fastidio, però, era di essere tornato a mani vuote.
La sua vettura era in testa alla squadra, e non appena entrarono a Rosya, la città li salutò con gioia. Il generale ostentava come al solito tutto il suo orgoglio, una maschera che per l’occasione fungeva da freno per la rabbia.
Lo irritava terribilmente l’idea di dover comunicare ad Amos di aver fatto un misero buco nell’acqua. Non aveva idea del perché il capo dei maghi desiderasse così tanto quel criminale, ma l’ultima cosa che voleva era deluderlo. I suoi favoritismi gli erano indispensabili per poter proseguire la carriera e arrivare in alto.
Quel mago era la persona più influente all’interno della Corporazione, ed era ufficiosamente il capo effettivo del regno. Umani, elfi e maghi: tutti indistintamente dovevano rispondere prima di tutto a lui, e Rider era il suo pupillo. Amos sembrava averlo preso sotto la sua ala protettrice, lo aveva favorito più volte, e se ora era generale lo doveva a lui. Ma poteva ottenere ancora molto.
Se continuava a giocarsi bene le sue carte poteva diventare molto influente, sfruttando il potere che il mago esercitava all’interno della Corporazione. Sarebbe addirittura potuto succedergli, una volta che Amos fosse morto: era per questo che non poteva assolutamente deludere le sue aspettative. Doveva continuare a soddisfare ogni capriccio di quel maledetto vecchio, per quanto la cosa lo irritasse, cosa che questa volta non era riuscito a fare.
Voleva quel fuggiasco, e lui si ripresentava al suo cospetto a mani vuote.
Quando oltrepassò il portone della sede della Corporazione e smontò dalla macchina, la prima cosa che fece fu cercare Jasper. Lo trovò nel suo studio, chino su un pacco di scartoffie.
La burocrazia doveva essere mortalmente noiosa, questo Rider l’aveva sempre pensato, e a giudicare dall’espressione tediata del mago doveva essere senz’altro così.
Quando lo vide entrare senza neppure bussare alla porta, Jasper sussultò, sollevando il naso dai documenti sparpagliati sul tavolo.
«Generale, quando sei tornato?»
«Pochi minuti fa. Lui dov’è?»
Jasper si alzò in piedi, lisciandosi la tunica bianca che indossava.
«È nelle sue stanze. Ti annuncio, aspettami qui» Jasper fece per imboccare la porta spingendo gli occhiali più su sul naso, ma Rider gli impedì di passare opponendosi tra il mago e l’uscita.
Aveva un’espressione estremamente seria.
«Non ce n’è bisogno, faccio da solo.»
Girò i tacchi, uscendo con passi pesanti dalla stanza. Il mago lo seguì fuori, caracollando.
«Ti prego di fermarti generale, il signor Amos si infurierà se entrerai senza essere annunciato.»
«Tanto si arrabbierà comunque» borbottò Rider guardando di sottecchi Jasper, che non capì di cosa stesse parlando.
Il generale si diresse verso le stanze in cui Amos si rifugiava quando voleva rimanere da solo a sbrigare i propri affari, ignorando le opposizioni del suo assistente.
Quando bussò e aprì la porta, lo trovò in veste da camera, seduto davanti a un caminetto spento intento a leggere un libro, probabilmente di magia.
Il mago anziano portò subito gli occhi su Jasper, accigliato.
«Le chiedo scusa Signore, ho provato a fermare il generale.»
«Lasciaci soli Jasper.»
La voce di Amos sembrava tranquilla, nonostante l’espressione vagamente seccata sul volto segnato dagli anni. Il mago più giovane chinò rispettosamente il capo prima di ritirarsi in silenzio, richiudendo la porta.
Una volta rimasti soli, Amos si sollevò in piedi lentamente. Non parlava ancora. Si avvicinò a una finestra, guardando il giardino rigoglioso sottostante al palazzo. Ripose il libro sul tavolo, e solo allora si decise a prestare attenzione a Rider, che attendeva nervosamente di parlare e comunicare il proprio insuccesso.
Lo guardò curioso, e il Generale riuscì a leggere la speranza nei suoi occhi, cosa che gli fece temere ulteriormente la sua reazione.
«Allora Hektor, l’hai trovato?»
Rider abbassò lo sguardo a terra. Era il suo cane, ed era sottomesso ad Amos. Non poteva mentirgli né disobbedire ai suoi ordini.
«L’abbiamo cercato dovunque, abbiamo setacciato tutta la città. Ho ordinato di mettere dei posti di blocco a ogni porta di Naima per impedire a chiunque di entrare e uscire, ma…»
«Mi stai dicendo che non sei riuscito a trovarlo?»
Il tono di voce con cui Amos aveva posto la domanda raggelò il generale. Era così tranquilla che sembrava irreale. Improvvisamente ebbe paura di cosa avrebbe potuto fargli quel mago anziano, che riusciva a fatica ad alzarsi dalla sedia.
Sollevò lo sguardo. Il volto di Amos era stoico, come al solito. Pessima cosa.
La risposta di Rider fu quasi un sussurro.
«Sí.»
Il mago si voltò verso la finestra, posando le mani contro il muro e chinando il capo. Stava tremando di rabbia.
«Mi hai deluso generale, mi hai decisamente deluso.»
Rider incassò in silenzio, guardando di nuovo per terra. Erano i minuti più lunghi di tutta la sua vita.
«Non avresti dovuto neppure tornare. Avresti dovuto continuare a cercarlo, e saresti dovuto tornare solo dopo averlo catturato. Ma non l’hai fatto.»
Il generale rimase zitto, aspettando che Amos terminasse la propria strigliata.
«Tu credi che io non conosca l’ambizione che ti muove?» una risata roca provenne dalla gola del mago, che scosse il capo. «Anche io nutrivo gli stessi desideri che ti spingono a leccarmi i piedi. Tu vorresti prestigio e potere, te l’ho sempre letto negli occhi. E il mezzo più sicuro per ottenerli è sposare mia nipote» finalmente Amos si decise a voltarsi verso Rider con un’espressione sibillina. Sorrise appena, gelido.
«Se vuoi diventare marito di Sari e rafforzare la tua posizione nella Corporazione come mio successore, portami l’evaso. E non osare tornare senza di lui.»


*


Non poteva fidarsi. Doveva stare attento. Abbassare la guardia sarebbe stato un errore, e la situazione era troppo delicata per permetterselo.
Erano riusciti a entrare ad Assen facilmente. Non c’erano posti di blocco né pattuglie, come se gli artigli dei Maghi non fossero ancora arrivati.
Il fatto che non li vedesse, però, non voleva dire che loro non fossero lì, nascosti da qualche parte a osservare con i loro occhi infidi. Erano ovunque, avevano orecchie in ogni angolo più remoto, emissari corrotti e spie fedeli.
E lo stavano cercando.
Anche in quella via che stavano percorrendo probabilmente si celavano i maghi, ma lui non si sarebbe fatto prendere. Non dopo quello che gli avevano fatto.
Non si sarebbe più lasciato usare da loro. Non avrebbero messo di nuovo le loro mani sporche su di lui. Nessuno di loro.
Aveva vissuto per lunghi anni, troppi a dire il vero, ma non gli era mai stato dato modo di quantificarli. Poteva aver vissuto per più di un secolo, come poteva avere una ventina d’anni. Non poteva avvertire lo scorrere del tempo, dov’era vissuto fin’ora.
Durante tutti gli anni trascorsi in quella cella aveva riflettuto. Il motivo della sua nascita, il suo destino, la sua perenne prigionia… Era nato per vivere ai margini del mondo, confinato in una zona d’ombra che non poteva oltrepassare, perché ciò che c’era al di là non gli apparteneva.
Eppure l’aveva sentita chiaramente: una voce dentro di sé che lo spingeva a gridare che lui esisteva, che aveva diritto a un posto nel mondo. Non sapeva quale fosse, ma sapeva che c’era.
Nessuno gli avrebbe impedito di trovarlo, ora che stava per diventare libero.
A costo di compiere un massacro.
«Non ci voleva.»
Il commento preoccupato di Sari distolse Namar dai suoi pensieri, e quando il fuggiasco si guardò attorno capì di che cosa stava parlando.
Lo sapeva; erano arrivati fin lì. Su ogni muro erano affissi gli avvisi di cattura con la sua foto di che spiccava sul foglio. La parola “pericolo”, in un rosso particolarmente acceso, spiccava sulla carta.
Calciò un sasso con violenza, in un gesto di stizza.
«Cani rognosi!»
«Ehi, voi.»
Namar si tirò il cappuccio sul volto meglio che poté prima di voltarsi. Erano due guardie, con lo stemma della famiglia reale di Assen sulle uniformi. In mano, due lance rudimentali.
Il fuggiasco rimase in silenzio. Sari e Abidos si guardarono per un breve istante, ma fu la ragazza ad avanzare di un passo.
«Dite a noi?»
«Certo. Tu… » indicò Namar con un cenno della testa «…giù il cappuccio.»
Il fuggiasco guardò prima l’uno e poi l’altro, senza la minima intenzione di obbedire all’ordine impartito. Rimase fermo immobile, i sensi tesi e i muscoli pronti a scattare.
«Ho detto giù il cappuccio!» latrò la guardia, dirigendosi verso di lui con passo sicuro. Sari guardò la scena impietrita; Abidos rimase fermo al suo posto, serio.
La guardia fece per abbassare il cappuccio sulle spalle di Namar, ma quest’ultimo fu più veloce: gli afferrò il polso e glielo torse, facendo gemere la guardia di dolore. Il compagno scattò subito verso Namar impugnando la lancia, pronto a colpire, ma l’evaso lasciò la presa e all’ultimo momento si accucciò a terra per evitare il colpo. La gomitata che gli piazzò sul costato fu sufficiente a levare il fiato alla guardia e a dare il tempo a Namar di posare le mani bendate dalle garze sulla testa dell’uomo.
Il grido che la sentinella levò fu agghiacciante. Si accasciò come un sacco di patate, con le labbra contratte in una smorfia di indicibile dolore e gli occhi spalancati. Vuoti. Spenti.
Morto.
Sari lo guardò sgomenta, terrificata. Era successa la stessa cosa ad Artika, quando lui aveva ucciso quell’inserviente.
Namar aveva ucciso ancora.
Il mormorio della folla che si era radunata attorno a loro riportò Sari a ciò che stava accadendo. Li avevano accerchiati, e li stavano guardando con paura e ostilità.
L’altra guardia si risollevò in piedi massaggiandosi il polso ancora dolorante, e quando vide il cadavere del compagno a terra guardò prima Namar, poi Sari e infine Abidos con disprezzo.
«È un assassino!»
«L’ha ucciso lui!»
«È quello che stanno cercando!»
La folla gridava e indicava Namar, che si guardò attorno nel vano tentativo di trovare una via di fuga. Quando si trovò con le mani legate dietro la schiena e condotto dalla guardia attraverso la folla verso chissà quale luogo, capì.
Ancora una volta il suo destino lo conduceva verso una prigione, l’ennesima.
Per lui non poteva esistere la libertà.


*


Sari e Abidos vennero condotti a palazzo, scortati dalle guardie reali. L’edificio era imponente, una fortezza massiccia e apparentemente impenetrabile, situata nel cuore di Assen.
La folla che li seguiva mormorava sommessamente, ma alla ragazza non importava che cosa stessero dicendo: aveva ben altro per la testa. Guardò di sottecchi la guardia che camminava accanto a lei, indecisa. Voleva sapere.
Oltrepassò l’entrata del castello, torcendosi le mani.
«Che ne sarà dell’uomo che avete catturato?»
La smorfia che vide sul volto della guardia non prometteva nulla di buono.
«Secondo te cosa potremmo fare a uno che viene qua ad ammazzare uno dei nostri?»
Sari non rispose. Sapeva perfettamente che quel soldato aveva ogni diritto di parlare in quei termini. L’odio che leggeva nella sua voce era assolutamente legittimo, eppure qualcosa dentro di lei la spingeva a non voler accettare la pena che sarebbe toccata a Namar.
Lui l’aveva presa in ostaggio, aveva ucciso due uomini davanti ai suoi occhi, e se non si era ancora sbarazzato di lei era soltanto perché, evidentemente, gli serviva per coprirsi le spalle. Eppure, stando così vicina al fuggiasco cominciava a capire qualcosa di lui.
Sentiva chiaramente il disperato desiderio di libertà che lo spingeva a lottare con tutte le sue forze per non tornare ad Artika, per non ritrovarsi di nuovo in quattro mura buie, teatro di chissà quali cose.
Aveva pensato di fuggire da lui, era vero. Ma ora che lo sapeva di nuovo in una cella ad aspettare il proprio destino, Sari non riusciva a starsene tranquilla a guardare.
Vennero condotti attraverso una rete infinita di corridoi e stanze adornate da arazzi, raffiguranti antiche battaglie e allegorie, putti danzanti e cavalieri, amori e uccisioni. Dai soffitti pendevano candelabri immensi, seppur semplici nella loro maestosità, e Sari non riuscì a fare a meno di guardarsi attorno a bocca aperta, rapita. Non aveva mai visto tutto quel lusso prima d’ora, neppure all’interno della Corporazione.
La guardia li fece accomodare nella stanza del trono e, prima di ritirarsi, disse loro di attendere.
Quella stanza non era da meno di quelle che avevano già visto: era enorme, tappezzata di arazzi ancora più elaborati e sfarzosi, e tre troni di varie dimensioni posti ad altezze diverse dominavano la sala dal fondo.
Dei passi leggeri provennero dalle loro spalle, e quando Sari si voltò, ciò che vide fu una donna giovane, probabilmente della sua età. Li stava guardando con un leggero sorriso, e i capelli biondi le ricadevano in morbide onde sulla schiena. Le vesti che indossava dovevano essere di fattura pregiata, ipotizzò la psicologa.
«Permettetemi di presentarmi: sono Corinne, principessa di Assen» chinò appena il capo, come voleva l’etichetta. Abidos le prese delicatamente la mano e le baciò il dorso.
«Abidos, mia principessa.»
Sari rimase interdetta a guardare entrambi, improvvisamente colta dal panico. Non era mai stata al cospetto di qualche sangue blu e, quanto ad Amos, non si faceva troppi problemi ad apparire maleducata.
Abbozzò un inchino un po’ rigido, sperando che andasse bene, e Corinne sorrise accogliendo i suoi sforzi.
«Sari Kalabis, vengo da…»
«Lo so da dove vieni, e so anche chi sei. Gli avvisi di cattura sono arrivati qua prima di voi. Ora però sarei lieta di offrirvi del cibo e un letto confortevole, prima che ripartiate. Immagino che sarete stanchi.»
Sari annuì. Effettivamente l’idea di mangiare e dormire non le dispiaceva affatto: era stanca e affamata, e soprattutto aveva bisogno di un buon bagno per levarsi lo sporco e l’odore delle fogne da dosso. Avevano trascorso poco tempo in mezzo ai liquami, giusto il necessario per oltrepassare le porte di Naima senza correre il rischio di essere scoperti, ma era bastato per farla sentire sporca fin nelle ossa. Una sensazione di cui voleva liberarsi quanto prima.
«Allora seguitemi. Vi condurrò verso le vostre stanze» Corinne fece cenno di precederla fuori dalla stanza, ma Sari non si mosse.
«Perdonate la mia domanda, ma vorrei sapere una cosa prima di andare.»
La principessa annuì, lasciando che Sari proseguisse.
«Che ne sarà dell’uomo che avete catturato?»
Corinne prese un respiro profondo, cosa che fece temere a Sari il peggio.
«Se non fosse un ricercato, sarebbe sottoposto alle nostre leggi e sarebbe condannato a morte. Ma dal momento che la Corporazione lo sta cercando, devo consegnarlo a loro. Inimicarci Amos non converrebbe di certo al nostro regno.»
Sari si morse le labbra. Non sapeva quale delle due cose fosse meglio, se condannato a morte o se catturato di nuovo dalla Corporazione.
«Il C.S.M. sarà qua a breve, è già stato chiamato.»
Splendido, proprio quello che ci voleva per migliorare la situazione.
Sari non rispose. Si fece accompagnare fino alla camera in silenzio, lo sguardo rivolto a terra e la mente che correva a briglia sciolta. Namar era incarcerato. Il C.S.M. sarebbe arrivato a breve, per quello che ne sapeva lei. Questione di giorni, o forse addirittura di ore.
Improvvisamente dimenticò il bagno e il cibo. Persino il riposo.
La cosa da fare era soltanto una.
Quando Corinne la lasciò sola dopo averle mostrato i suoi alloggi, bussò alla porta di Abidos, che alloggiava nella stanza accanto alla sua. Quando il ragazzo le aprì, lei lo trascinò dentro la stanza chiudendosi la porta alle spalle, stando ben attenta a non fare rumore.
«Dobbiamo liberarlo.»
«Cosa?» Abidos la guardò confuso.
Sari sbuffò impaziente. Non avevano molto tempo, e ogni minuto sprecato poteva essere quello cruciale.
«Namar, Abidos. Namar! Lo verranno a prendere, tra poco saranno qua e se non faremmo qualcosa…»
La risata di Abidos la raggelò. Lo guardò senza capire, spiazzata.
«Come puoi volere salvare quello
Sari non riuscì a rispondere. Rimase in silenzio, le braccia lungo i fianchi e le mani serrate a pugno.
«È un rapitore, e prima ancora un assassino. Lo sai che se lo farai fuggire sarai la sua complice
Abidos aveva ragione, aveva maledettamente ragione. Ma qualcosa in tutta quella faccenda non quadrava: qualcosa di oscuro, appositamente nascosto perché non fosse trovato.
E, ne era sempre più sicura, Namar ne era il centro. Che fosse vittima o carnefice non era ancora chiaro, ma non poteva lasciare che lo prendessero. Non prima di aver fatto chiarezza.
E poi, il suo istinto –lo stesso che l’aveva portata a scegliere la professione di psicologa, quello che l’animava di curiosità, necessità di comprendere e aiutare- la spingeva irresistibilmente verso di lui, verso quel mondo interiore che nascondeva dietro il suo essere un assassino in fuga.
Guardò Abidos, con determinazione.
«Lo so, ma voglio liberarlo. Mi aiuti o no?»
Il ragazzo sospirò, coprendosi gli occhi.
«Sai cosa succede se ci scoprono?»
«Sí.»
«E sei pronta a correre questo rischio per lui?»
Sari tentennò. Era pronta davvero? Se li avessero scoperti era davvero decisa ad assumersi le sue responsabilità? Non avrebbe voluto coinvolgere Abidos, ma da sola non ce l’avrebbe mai fatta.
Annuì.
«Sí, lo sono. Lo voglio fuori da quella cella.»
«Non voglio grane, però. Ti avviso che se ci scoprono, dirò che mi hai costretto con la forza.»
«Mi sembra giusto» annuì la psicologa.
«Allora andiamo.»

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Capitolo 17
*** verso la libertà ***


16
Ragazzi, ci avviciniamo alla verità. Tra pochi capitoli scopriremo che fine ha fatto Shem, chi o cosa è Namar e soprattutto cos'è la Zona Rossa. Qualche risposta ci sarà già dal prossimo capitolo a dire il vero; a voi immaginare però quale sarà il primo nodo a sciogliersi.
Per qualunque cosa mi trovate su facebook oppure nel gruppo dedicato alle mie storie. Buona lettura,

Vale




16.

VERSO LA LIBERTÀ

*


Quando l’agente Silver, Amaya e Volker entrarono ad Assen, l’atmosfera che trovarono non era certo delle migliori. Gli avvisi di cattura erano ancora appesi dovunque, come se nessuno avesse avuto il coraggio di toglierli, e la gente cominciava a mormorare che portassero il malocchio. «Dev’essere successo qualcosa» ipotizzò Amaya. Silver la guardò, accigliato.
«Da cosa lo deduci?»
«Guardati attorno.»
Il poliziotto fece come suggerito dall’elfa, alla ricerca di qualche elemento anomalo. Cercò tracce materiali, sui muri, per terra; provò anche a fiutare l’aria alla ricerca di qualche odore in particolare, ma non rinvenne nulla. Volker lo guardò divertito.
«Intendevo dire il comportamento delle persone» Amaya sospirò, indicando una donna che era appena passata davanti a uno dei tanti avvisi di cattura, velocemente. Sembrava nervosa, e solo quando fu abbastanza lontana riprese a camminare normalmente.
«La maggior parte si comporta così, come se avesse paura di quegli avvisi.»
«Ma è assurdo» obiettò con calma Volker, scuotendo il capo.
«Non poi così tanto, se è davvero accaduto qualcosa» rispose Silver, quando all’improvviso qualcosa tra la folla catturò la sua attenzione.
Una figura in lontananza si stava avvicinando. Una donna. Sembrava avere delle fattezze familiari, ma Silver diede la colpa alla distanza. Eppure sperava, e il cuore cominciò a battere forte quando lei si avvicinò. Quando la riconobbe.
Sari.
«È lei!» gridò, ma non fece neppure in tempo a dirigersi nella sua direzione che Amaya era già schizzata tra la folla, correndo verso l’amica.
Anche Silver si precipitò, seguito da Volker. Ma più si avvicinava e più aveva la sensazione che qualcosa non andasse. Parlottava con un ragazzo decisamente diverso da Warknife, e il poliziotto riuscì chiaramente a leggere i segni della stanchezza sul suo viso. Era evidente che quei giorni trascorsi da ostaggio l’avevano sciupata più di quanto si fosse immaginato.
Eppure sembrava che qualcosa la preoccupasse, nonostante la libertà: lo vedeva dall’espressione contratta che aveva mentre parlava col ragazzo.
Quando si accorse di loro, non li salutò neppure. La sorpresa lasciò spazio a qualcosa di molto simile alla disperazione.
«Victor, Amaya!» Sari si catapultò addosso a loro, guardando entrambi con apprensione. A mala pena si accorse di Volker. «Dovete aiutarci a liberarlo!»
Silver non capì.
«Aiutare chi
«Namar!»
Amaya s’intromise, esprimendo lo stesso pensiero di Silver.
«Chi sarebbe questo Namar?»
«Warknife. Namar è il suo vero nome, almeno secondo quanto mi ha detto lui.»
«E vorresti che liberassimo Warknife?» domandò Silver sbalordito.
«Non abbiamo molto tempo! Per favore, aiutateci!»
Volker osservò la scena in silenzio, le braccia conserte al petto. Si chinò verso Amaya, e il suo fu un sussurro debole che solo l’elfa riuscì a sentire.
«Le hanno fatto il lavaggio del cervello, sicuramente.»
Amaya lo scacciò con un cenno della mano, lo stesso che si usa con una mosca fastidiosa. Aveva cose ben più importanti che dar retta a quel bell’imbusto.
«Ti rendi conto di cosa ci stai chiedendo? Sari, quel tipo è un omicida, ha ammazzato centinaia di persone e ti ha presa in ostaggio! Tu ci stai chiedendo di liberare un assassino!» stava gridando senza neppure rendersene conto. Sari la zittì immediatamente premendole una mano sulla bocca, e soltanto dopo essersi accertata di non aver attirato nessuna attenzione indesiderata si decise a rispondere.
«Lo so, ma c’è qualcosa che non mi convince in questa faccenda. Non so bene come spiegarvelo, ma vi chiedo di fidarvi di me.»
«L’ultima volta che mi sono fidato, sei finita in mano a un criminale che era creduto morto da anni» rispose scettico Silver.
«Appunto per questo! Non capisci che ad Artika sta accadendo qualcosa, Victor? Quell’uomo, Namar… Aveva dei tagli alle mani, profondi e infetti, e lo tenevano al buio come se fosse un animale…» Sari rabbrividì al solo pensiero. Per la prima volta, sentiva quel senso di frustrazione e impotenza uscire da lei come un fiume in piena. Sentiva che doveva fare qualcosa, e doveva farlo adesso. Guardò Silver, Amaya e infine Volker, i pugni stretti con forza tale da far sbiancare le nocche.
«Il C.S.M. arriverà tra poche ore, sarà solo questione di tempo. Questa è l’ultima possibilità che ha per fuggire, dopo di che solo il cielo saprà che cosa gli faranno ad Artika.»
Nessuno rispose, e Sari non seppe dire se gli mancasse il coraggio per farlo o se semplicemente non trovassero nulla con cui ribattere.
Per un breve istante la sua mano tremò.
«Lasciate che vi faccia una sola domanda, dopo di che sarete liberi di andarvene se non vorrete aiutarmi: vi piacerebbe morire come un povero animale, senza nessuna dignità? Perché è la fine che farà Namar, se non facciamo subito qualcosa.»
Nessuno rispose, né osò guardarla in faccia. Dopo alcuni istanti fu Amaya la prima a risollevare lo sguardo.
«Ti aiuterò, ma lo farò solo perché sei tu a chiedermelo, e perché non voglio che tu finisca di nuovo nei guai.»
Un sorriso illuminò lentamente il viso di Sari, che guardò Volker.
«Tu… ehm… non ti ho mai visto, ma se vuoi essere dei nostri comunque…»
«Lui ci ha aiutati a trovarti» spiegò Amaya. L’uomo fece un inchino profondo ed elegante, teatrale.
Sorrise, orgoglioso.
«Volker Kramer, al tuo servizio. Il che vuol dire che vengo con te.»
Sari sorrise, e dentro di sé gliene fu grata. Quando si voltò verso Silver, notò che il poliziotto era pensieroso. Sembrava diviso tra il suo dovere e ciò che desiderava fare.
«Hai già fatto molto per me, non ti costringo se non vuoi.»
«Non essere sciocca Sari, potrei tornarvi più utile di quanto pensi.»
La psicologa sollevò le sopracciglia, sorpresa. Non riusciva a capire che cosa intendesse dire.
Silver la guardò, sornione.
«Ho un’idea.»


*


La cella era buia, piccola e priva di finestre, e i prigionieri erano costretti a respirare costantemente la stessa aria rarefatta. I topi erano i veri padroni e lasciavano i loro escrementi nei giacigli di paglia, ma Namar non ne era assolutamente impressionato.
Quando l’avevano condotto verso la sua cella, aveva visto un paio di persone rinchiuse, ma ora che se ne stava seduto per terra non sentiva nessun rumore, tranne quello del proprio respiro.
Ogni tanto il silenzio veniva rotto dai passi di qualche guardia, che puntualmente veniva a insultare i prigionieri e a riempirli di bastonate prima di dare il cambio al collega.
Namar se ne stava seduto per terra appoggiato contro il muro, le dita che tamburellavano nervosamente sulla pietra del pavimento. La sua mente stava viaggiando velocemente nel tentativo di elaborare un piano di fuga, ma ogni congettura faceva irrimediabilmente acqua.
Le mura della cella erano perfettamente intatte, non c’erano finestre e non aveva nessun oggetto che gli consentisse di crearsi una via d’uscita da solo, e per di più non venivano mai lasciati soli.
Quando sentì dei passi pesanti avvicinarsi verso la sua cella, immaginò che fosse il cambio di guardia.
L’uomo che gli si presentò davanti era uno dei carcerieri, un ometto tarchiato, bassetto e dall’espressione piuttosto cattiva. Sorrideva sprezzante, atteggiamento che fece divertire Namar.
Trovava spassoso smontare pezzo per pezzo l’arroganza degli esseri umani, così forti solo quand’erano al sicuro al di là di una gabbia di ferro.
Non si disturbò neppure ad alzarsi in piedi, né parlò.
«Finalmente avrai quello che ti meriti» sghignazzò la guardia, armeggiando con un mazzo di chiavi.
Namar sorrise impercettibilmente.
«E chi mi ammazzerà? Tu?»
Cominciò a ridere di lui, e la guardia esitò per un istante a infilare la chiave nella toppa. Namar si alzò in piedi, lentamente, sinuoso come un felino in caccia.
«Lo so che lo vorresti, non c’è bisogno che lo nascondi» continuò, aprendo le braccia in un chiaro invito a fare ciò che voleva la guardia. Si avvicinò alle sbarre, e il carceriere afferrò un bastone riposto contro il muro, puntandolo contro di lui.
«STAI INDIETRO!»
Il prigioniero non fece resistenza. Arretrò, le braccia ancora aperte e un sorrisetto di sfida sulle labbra secche.
«Paura? Eppure sei tu quello fuori dalle sbarre, non io.»
Il sorriso sulle labbra di Namar si allargò a dismisura, e l’espressione sul suo viso divenne quasi grottesca.
«Sono venuti a prenderti. Avrai quello che ti meriti, animale!»
«Interessante. E chi si è scomodato per me, questa volta?»
Altri passi. Una seconda persona si stava avvicinando, probabilmente chi l’avrebbe preso in custodia da quel momento. Aveva una vaga idea di chi potesse essere, e la cosa non gli piaceva per niente anche se riusciva a nasconderlo piuttosto bene.
Ogni fibra del suo corpo si tese come una corda di violino, finché la persona che si stava avvicinando non fu visibile.
Un uomo di mezza età, del tutto diverso da quello che aveva perquisito l’armeria a Naima. Non solo nell’aspetto, ma anche nell’atteggiamento: non c’era arroganza nel suo sguardo, né aggressività.
Aveva un viso conosciuto, ma non ricordava dove l’avesse visto e, cosa strana, era da solo.
C’era qualcosa che non tornava.
«Il generale Rider mi ha mandato a prelevare il prigioniero. È molto urgente.»
«Capisco. Gli ordini sono ordini» annuì la guardia aprendo la cella.
I due uomini entrarono dentro, e Namar si lasciò legare i polsi senza opporre resistenza.
Venne condotto all’esterno della prigione e consegnato senza esitazioni al messo di Rider, che lo afferrò saldamente per un braccio e lo scortò lontano dal carcere.
«Chi sei veramente?» domandò Namar, senza neppure guardarlo in faccia. L’uomo non rispose. Gli fece cenno di rimanere in silenzio, continuando a camminare velocemente. Poi si guardò furtivamente attorno, avvicinandosi a un vicolo. Era una zona piuttosto appartata, lontano dalla strada principale. Solo quando fu sicuro di non aver attirato su di sé attenzioni non desiderate, parlò.
«Agente Victor Silver, e sono dalla tua parte. Per di qua.»
Svoltarono l’angolo, addentrandosi nel vicolo. Era deserto, eccezione fatta per un gatto nero che gli soffiò contro, arruffando il pelo. Namar rispose con un verso animalesco, e il felino fuggì via spaventato. Il poliziotto decise di non commentare l’accaduto, sicuro che gli sarebbero sfuggite parole sarcastiche che preferiva tenere per sé.
Proseguirono per oltre un centinaio di metri, finché giunsero di fronte a una piccola casupola abbandonata, antica e con il tetto sfondato. Un rifugio perfetto.
«Prima di entrare…» il poliziotto estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltello a serramanico, e liberò Namar dalle corde che gli imprigionavano i polsi. Quando bussò alla porta, ad aprire fu una giovane elfa dai capelli neri, che squadrò l’evaso con diffidenza.
Namar era sempre più confuso, anche se il suo volto non lo dava a vedere.
Afferrò Silver per una spalla, costringendolo a voltarsi.
«Mi vuoi dire che sta succedendo?» ringhiò spazientito.
In quel momento fece capolino dalla porta un viso che Namar non si aspettava di rivedere.
Umana, capelli castani. Una seccatura, ma anche un’utile palla al piede.
Sari.
La prima cosa di cui fu consapevole fu il caldo, sincero sorriso che lei gli rivolse. E ciò che accadde dopo non lo avrebbe mai più potuto dimenticare: Sari gli corse incontro, e gli gettò le braccia al collo.
«Sono contenta che tu sia qua» la sentì mormorare contro di lui, ma Namar rimase interdetto con le braccia a mezz’aria, incapace di reagire. Paralizzato.
Non si aspettava quella reazione, quella cosa. Non aveva mai ricevuto un abbraccio in vita sua, e ogni contatto con qualunque altra creatura aveva portato sempre e solo dolore. Ma quello era diverso, era caldo e piacevole.
Stava cominciando ad abituarsi, quando Sari sciolse l’abbraccio.
«Ti hanno fatto del male?»
Namar scosse il capo in un cenno negativo.
«Chi sono queste persone?» domandò sospettoso, indicando Silver e Amaya.
«Amici miei. Le presentazioni le facciamo all’interno, non è prudente farsi vedere qua fuori. E soprattutto abbiamo bisogno di un piano per scappare.»


*


Gli raccontarono lo stretto necessario, così che Namar potesse capire chi fossero quelle persone e, cosa più importante, riuscisse a vincere la diffidenza verso di loro.
Parlarono a lungo riguardo cosa dovessero fare, dove sarebbero potuti andare ora che neppure Assen offriva sicurezza.
Dopo la confusione iniziale, Namar diventò piuttosto irrequieto. Bocciava ogni proposta con stizza, camminava avanti e indietro, gettava frequenti occhiate alla strada deserta, e tutto questo stava facendo venire un gran mal di testa a Sari.
Cominciava a non poterne più, anche se s’imponeva di non perdere la pazienza: non doveva essere facile per lui, ora che anche l’ultima speranza di trovare un posto in cui nascondersi era svanita.
«E quindi cosa suggeriresti di fare?» sbuffò Amaya, rivolta a Namar.
Dal suo tono di voce, Sari intuì che anche lei doveva cominciare a essere stufa del comportamento del fuggiasco, ma sapeva anche che quel modo di parlargli avrebbe prodotto scarsi risultati.
Namar scrollò le spalle.
«Li uccido. Tutti.»
«Magnifico, così non fai altro che aggravare la tua posizione» scattò immediatamente Silver, torreggiando su Namar. A vederli così, l’uno di fronte all’altro, Sari temette che, se il poliziotto avesse voluto mettergli le mani addosso, l’avrebbe spezzato in tanti piccoli pezzi.
«Un uomo morto non può catturarmi. È la soluzione migliore.»
«Qui si parla di uccidere non un uomo, ma centinaia. Non ce la faresti mai.»
«Scommettiamo?» il ghigno di Namar fece tremare Sari. Poteva capire la sua decisione, ma Silver aveva ragione: lo avrebbero fermato comunque, e un posto per nascondersi non esisteva.
Eppure…
«Dev’esserci un’altra soluzione» Sari scosse il capo, sbuffando «Più perdiamo tempo a discutere e meno possibilità abbiamo di scappare prima dell’arrivo del C.S.M.»
«Francamente non vedo come il tuo amico possa uscire da una situazione come questa» commentò Volker, scettico. Quando Sari guardò Amaya, l’elfa non sembrava pensarla molto diversamente.
«Sono d’accordo con Kramer.»
«Anche io» fu Abidos a parlare, per la prima volta da quando avevano cominciato quella discussione. Sari lo guardò, incapace di replicare. Non avevano torto, non poteva negarlo, eppure non voleva arrendersi all’evidenza.
Namar scosse il capo, reprimendo a stento una risata roca e infrangendo il silenzio che era calato improvvisamente nella stanza.
«Quanto siete stupidi. Non capite che non me ne importa assolutamente nulla di quello che pensate?»
Nessuno parlò. Tutti erano stati freddati dalle parole dell’evaso, giunte completamente inaspettate.
«Se riusciranno a prendermi, lo faranno perché io sarò morto. Se vi aspettate che io mi lasci catturare, state sbagliando strada» aggiunse, prima di imboccare la porta e sbatterla così rumorosamente da far cadere dell’intonaco dalla parete.
Sari gli fu subito dietro, e se Namar se ne accorse, non lo diede a vedere.
«Dove stai andando?»
«A difendere la mia libertà.»
«Vuoi uccidere tutto il C.S.M?»
«Può darsi» l’idea fece sogghignare il fuggiasco.
«Non è l’esercito il problema.»
Spazientita, Sari lo afferrò per un braccio e lo costrinse a voltarsi per ascoltarla.
«So che non ti va di sentirtelo dire, però è vero. Anche se riuscissi a uccidere ogni squadra che ti vorrà catturare, ne arriveranno sempre altre. Non sarai mai libero, lo vuoi capire?»
La reazione di Namar fu assolutamente inaspettata. La spinse con tale forza che le fece perdere l’equilibrio, e Sari cadde a terra. Attutì la caduta con le mani, e sentì un lieve bruciore irradiarsi sui palmi. Benché una parte della sua mente registrò la sensazione di dolore dovuta alla caduta, ciò che attirava di più la sua attenzione era l’espressione rabbiosa di Namar. Rimase immobile a terra sostenendo il suo sguardo, impaurita.
«Che ne sai tu?! Che diavolo ne sai, tu?!»
Gli altri accorsero fuori dalla catapecchia, sentendo le grida del fuggiasco.
«ANCHE VOI, CHE PENSATE DI SAPERE?! NON SIETE VOI CHE VOGLIONO, NON-SIETE-VOI!» sbraitò agitando le braccia, l’espressione accesa d’ira. Solo allora Sari ritrovò il coraggio di muoversi, e si rimise velocemente in piedi. Gettò una breve occhiata alle sue spalle, dove tutti i suoi compagni erano pietrificati.
Tutti, tranne uno. Silver tremava, mordendosi il labbro inferiore per cercare di mantenere la calma. Quando fece un passo avanti, Sari intuì che non era più possibile per lui rimanere in silenzio.
«Non siamo noi che abbiamo ammazzato gli abitanti di un’intera città!»
Che grosso, immenso sbaglio. Sari chiuse gli occhi, gelata. Chissà che cosa gli avrebbe fatto Namar, per ciò che gli aveva appena detto. Non aveva il coraggio di guardare; si aspettava di sentire delle grida da un momento all’altro, eppure ciò che avvertì fu solo silenzio.
Quando riaprì gli occhi, il fuggiasco stava guardando Silver, spiazzato. Poi Namar cominciò a ridere, lentamente. Una risata rauca, proveniente dalla gola. Le spalle sussultarono, e il fuggiasco si coprì il volto con una mano.
«Quante cose non sapete… Siete così schifosamente convinti di essere nel giusto, sempre così tronfi, così arroganti… È per questo che vi odio» parlò con calma agghiacciante, come se stesse raccontando una favola. Di nuovo, la reazione del fuggiasco li aveva lasciati interdetti.
«Tutti voi. Uomini, maghi, elfi… Tutti uguali, tutti arroganti. Ipocrisia, servilismo e falsità dilagano tra di voi come piaghe. Non vi rendete neppure conto che la gente che condannate è migliore di voi, e nonostante tutto avete il coraggio di puntare il dito senza farvi prima un esame di coscienza. Non mi stupisce che ogni tanto una delle vostre vittime si ribelli contro di voi.»
Il sorrisetto con cui terminò la frase aveva un che di inquietante. Riprese a camminare senza aggiungere altro, diretto verso l’uscita del vicolo.
Anche se non riusciva a capire cosa nascondesse davvero la sfuriata di Namar, qualcosa in Sari le impedì di guardarlo andar via. Ora era libera di fare ciò che voleva. Poteva tranquillamente tornare a cercare la verità riguardo alla morte di suo padre, eppure, per svariati motivi, la creatura che si stava allontanando l’aveva legata a sé. Aveva conosciuto Shem, e ora come ora era l’unica persona che poteva ancora fornirle qualche informazione. Attorno a lui gravitava il mistero di Artika; lui che doveva essere stato giustiziato da diversi anni, ma che invece era vivo ed era pure riuscito a fuggire.
Lui che destava la sua curiosità, lui che sapeva delle cose che loro ignoravano.
Fu per tutti questi elementi messi assieme, o forse anche per una qualche sorta di istinto di protezione che corse verso di lui, per raggiungerlo.
Lo afferrò per un polso, mentre i palmi delle mani pulsavano ancora dal dolore per le escoriazioni.
«Io vengo con te.»
Il fuggiasco la guardò di sottecchi. Fu una frazione di secondo, eppure Sari riuscì a vederlo chiaramente: anche se impercettibilmente, Namar le aveva sorriso.


*


Ancora una volta, il coinvolgimento di Sari aveva indotto Silver e Amaya ad agire.
Non li aveva costretti, non l’avrebbe mai fatto: furono loro a prendere quella decisione.
Anche Volker e Abidos scelsero di seguirli, probabilmente più per un curioso senso di conformismo che altro.
Decisero per la fuga dalla città. Camminarono velocemente, percorrendo le strade minori e stando attenti a non incrociare nessuno sguardo. L’adrenalina galoppava nel sangue di Sari, e il cuore pompava impazzito. Tutto stava andando a meraviglia, e l’uscita dalla città non era molto lontana. Una volta fuori, bastava che rimanessero lontani dai sentieri principali e il gioco era fatto.
Sarebbero riusciti a evitare il C.S.M. e Namar l’avrebbe fatta franca anche stavolta.
Sbucarono sulla strada principale quando li videro arrivare nella loro direzione: un manipolo di uomini a bordo di macchine su cui troneggiava lo stemma dell’esercito, una ventina di vetture a occhio e croce. In testa, lui. Il generale Rider.
Namar si bloccò, e Sari con lui. Aveva il cuore in gola.
«Presto, nascondiamoci» sussurrò Silver, trascinando la psicologa verso la strada che avevano appena percorso. Solo allora Sari si rese conto che i suoi compagni erano già arretrati, ma Namar non li stava seguendo.
Sfuggì alla stretta di Silver, e corse verso l’evaso. Sembrava che la paura le avesse messo le ali ai piedi. Lo trascinò via con sé; in mente una sola parola: scappare.
«Si può sapere a cosa stai pensando? Non li hai visti?»
«Dobbiamo trovare un mezzo per fuggire, o non ce la faremo mai a piedi!» replicò Namar, ignorando la domanda.
Svoltarono l’angolo, distanziati dai loro compagni da alcuni metri. Il rombo dei motori imboccò la loro direzione, e il cuore di Sari mancò un battito: si erano accorti di loro e li stavano inseguendo. Erano rallentati dal manto stradale dissestato dalle buche, ma li avevano trovati.
«Vuoi rubare un mezzo?» domandò, ormai nel panico.
«Mi sembra ovvio!»
Si guardarono attorno, ma nelle vicinanze non c’era l’ombra di un veicolo. Quella piccola città sembrava essere rimasta fuori dal mondo, non toccata dall’evoluzione tecnologica che aveva fatto fiorire Silindril.
All’improvviso, un lampo di luce oltrepassò le loro teste e si conficcò nel terreno davanti a loro, lasciando il segno di una piccola bruciatura.
«Per ordine della Corporazione, fermatevi e non vi verrà fatto nulla di male!»
Non li ascoltarono. Continuarono a correre a perdifiato, l’adrenalina che pompava impazzita nelle vene. Sari sbirciò oltre le sue spalle, e credette che il cuore si sarebbe fermato in quell’istante.
«Ci stanno raggiungendo! Dividiamoci!»


*


Non se lo fecero ripetere. Silver, Amaya e Volker svoltarono a sinistra, imboccando un’altra stradina più stretta di quella che avevano appena lasciato, mentre Sari, Namar e Abidos proseguirono dritti.
Le macchine li seguirono, il rombo dei motori sempre più minaccioso, sempre più soffocante. Sari si voltò indietro: alle spalle avevano una decina di vetture, sicuramente un numero inferiore rispetto a quello che ricordava. I soldati si erano divisi.
Imprecò a denti stretti, sentendosi impotente. Rabbiosa. Dovevano inventarsi qualcosa, qualche espediente per riuscire a seminare il C.S.M. o per Namar non ci sarebbe stata nessuna possibilità di salvezza.
Svoltarono l’angolo, imboccando una via dove l’odore di sterco impregnava l’aria e la rendeva acre, fastidiosa. Poco più avanti, un fienile. Un recinto. E cavalli, una mandria non troppo numerosa ma sufficiente per rallentare la corsa dell’esercito.
Sari deviò la corsa verso la stalla col cuore in gola, ma Namar dovette aver avuto la sua stessa idea: lo vide schizzare verso l’entrata, e pochi istanti dopo i cavalli uscirono al galoppo, disperdendosi ovunque. In qualunque direzione.
Le macchine dell’esercito furono costrette a fermarsi, ma Sari sapeva bene che questo avrebbe fatto guadagnare loro nient’altro che pochi minuti di vantaggio. Dovevano assolutamente fuggire.
«NAMAR!»
Il fuggiasco uscì sul dorso di una giumenta pezzata, con le mani serrate sulla criniera e i piedi che stringevano spasmodicamente i fianchi dell’animale per non cadere.
Caricò Sari in groppa, non senza qualche fatica, e la psicologa si abbarbicò alla vita di Namar. Era terrorizzata dall’idea di cadere, e non avere nessun appiglio tranne il corpo del fuggiasco non aiutava di certo a tranquillizzarla.
«Spero tu abbia già cavalcato senza sella, prima d’ora!» gridò isterica. La risposta che ottenne non le piacque neanche un po’.
«Non direi! Non ho mai montato uno di questi cosi prima d’ora!» rispose Namar. Dal tono di voce sembrava particolarmente esagitato, come se tutto ciò lo divertisse moltissimo.
In circostanze diverse Sari avrebbe sicuramente ribattuto, arrabbiata, ma in quel momento non c’era spazio per altri pensieri che non riguardassero la fuga.
Quando sbirciò alle sue spalle per cercare Abidos, notò due cose: il ragazzo era in groppa a un altro cavallo, poco dietro di loro. E –cosa che la preoccupò- la mandria si era dispersa.
Erano rimasti pochi cavalli a separarli dal C.S.M., che aveva rincominciato a inseguirli.
«Più veloce, o ci raggiungono!» gridò a Namar, che assestò un deciso colpo di tacchi sui fianchi della giumenta. L’animale schizzò via veloce verso la fine della strada, e solo allora Sari si accorse di dov’erano. E si sentì morire.
La giumenta rallentò lentamente, passando dal galoppo al trotto e infine al passo, prima di fermarsi definitivamente. Davanti a loro, una scogliera alta molte centinaia di metri li divideva dal mare, e alle loro spalle le macchine si disposero a semicerchio impedendo ogni via di fuga.
«E ora?» domandò Abidos.
«E ora siete alla fine della fuga» ribatté secco un soldato scendendo dalla vettura, probabilmente un ufficiale a giudicare dagli stemmi sul suo petto. I commilitoni lo imitarono subito, impugnando le armi pronti a qualunque eventualità. Erano una quarantina di uomini circa, ma tra di loro non c’era il generale Rider.
Sari ipotizzò che dovesse far parte del gruppo che aveva inseguito Silver, Amaya e Volker, non trovava altra spiegazione. Ma con o senza il generale, la situazione non cambiava: erano in trappola, con il mare alle spalle e gli uomini del C.S.M. che gli impedivano ogni via di fuga.
L’unico modo per scappare era saltare oltre la scogliera, un’idea piuttosto spiacevole che non allettava neppure Namar. Una smorfia aggressiva gli contraeva il viso e gli lasciava scoperti i denti, facendolo assomigliare a un cane che sta per attaccare. Era nervoso, e pronto a qualunque cosa.
Strinse ancor di più la criniera della giumenta, che nitrì spaventata.
L’ufficiale sorrise sprezzante, gonfiato dall’inebriante profumo della paura dell’evaso.
«Abbi il coraggio di smontare da cavallo e di affrontarci, piuttosto che far paura a un povero animale.»
Namar sogghignò. Sari scese goffamente a terra, e Abidos fece lo stesso, ma l’evaso rimase in groppa al cavallo con ostinazione. Rimase con lo sguardo fisso sull’ufficiale, con un sorriso maligno.
«L’unico animale che vedo sei tu, tirapiedi dei maghi.»
Un’espressione irata comparve sul volto del soldato, che puntò contro Namar l’indice destro. Soltanto allora Sari fece caso a ciò che lo ricopriva, e ricordò perfettamente di averlo già visto da qualche parte. Un copri-indice intarsiato da motivi decorativi complicati, piuttosto simile a quello che indossava una delle guardie che avevano controllato i passy ad Artika.
«Scendi da cavallo e tieni le mani bene in vista!»
«Tenente!» la voce di Rider giunse all’improvviso, metallica e artificiale. Solo in quel momento Sari si accorse del Ragno indossato dall’ufficiale: riusciva a scorgere la pietra sul suo palmo, illuminata da una luce dorata. Il familiare segnale di comunicazione in corso.
«Generale Rider, l’evaso è in trappola. Siamo alla scogliera.»
«Ottimo lavoro, continuate a tenerlo sotto tiro. Vi raggiungo subito.»
L’istante successivo la pietra si spense, perse le proprie venature dorate, e diventò nera. Spenta.
E Sari si sentì come svuotata. Possibile che dovesse finire in quel modo?
«Allora, che aspetti?! Scendi da cavallo!» abbaiò il tenente, continuando a puntare l’indice armato contro Namar. L’imperiosità nella sua voce fece sorridere l’evaso, ma la sua espressione era tutt’altro che bonaria. Scese dalla giumenta con movimenti misurati, e per ottenere maggiore credibilità mantenne le braccia in alto, ben visibili. Una fugace occhiata gli consentì di cogliere Sari, a pochi centimetri di distanza da lui.
Fu tutto molto veloce.
Con uno scatto fulmineo serrò un braccio attorno alla gola della psicologa, mentre l’altra mano si posizionò sulla tempia della ragazza. In una frazione di secondo ebbe puntato addosso l’intero arsenale del C.S.M, ma questo non sembrò scoraggiare Namar.
Abidos, a pochi metri di distanza, rimase immobile a scrutare i membri dell’esercito con attenzione.
«Lascia andare la ragazza!» tuonò il tenente. Aveva uno sguardo duro, deciso. Cattivo.
Sari agonizzò, boccheggiando in cerca d’aria.
«Spiacente, ma sono propenso per il no» ghignò Namar. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle. Lo strapiombo era a poche decine di metri, ed era l’unica via di fuga possibile.
«Se non ti consegni con le buone, ti cattureremo con le cattive. Non sarà piacevole.»
«Tutti questi riguardi nei miei confronti mi lusingano, ma non ho perso abbastanza il senno per accettare l’offerta.»
«Quand’è così… Fuoco!»
Fu un brevissimo istante. L’ordine si perse nel vento, soffocato da decine di grida.
Urla di dolore, urla di sofferenza. Di morte.
Poi fu solo silenzio.
Sari non ebbe il coraggio di aprire gli occhi e guardare quello scenario raccapricciante, insopportabile. Namar continuava a stringerla contro di sé e lei non smetteva di tremare.
Aveva sperato di poter fuggire dal C.S.M., aveva desiderato la libertà per Namar, ma non a quel prezzo.
Quando sentirono il rumore di altri motori diventare più vicino, ormai era troppo tardi: fecero un ultimo, patetico tentativo di fuga, ma le macchine dell’esercito tagliarono loro la strada.
Erano in trappola, di nuovo.
Rider scese dalla vettura, e rimase pietrificato di fronte lo scenario atroce che si presentava a pochi metri da lui: una quarantina di corpi erano accasciati al suolo, immobili e ancora caldi. I loro volti erano una maschera orrenda, un quadro dipinto dalla morte stessa. Occhi sbarrati e spenti; bocche contratte in smorfie di dolore indicibile, di quelli che spaccano l’anima in due parti.
Erano i suoi uomini, ed erano tutti morti.
Passarono diversi minuti prima che Rider riuscisse a sollevare lo sguardo da quell’orrore apocalittico, sconvolto da un’ira accecante. Respirava velocemente, tremava, e sembrava che stesse per dare di stomaco.
«Tu… Sei un mostro… UN MOSTRO!»
Ma Namar non stava ascoltando una parola di quello che stava dicendo il generale Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva sentito chiaramente quell’energia fluire come un alito di morte, sapientemente controllata. L’avrebbe riconosciuta ovunque, e la fonte era una sola.
All’improvviso, tutto fu così chiaro da risultare accecante. Capì. Comprese l’entità del pericolo in cui Sari si trovava, e il modo in cui era arrivato fino a loro –fino a lui- sembrava quasi uno scherzo bizzarro del fato.
Eppure era tutto reale, tutto pericolosamente reale.
«Namar» la voce di Sari era ridotta a un mormorio sommesso.
Il fuggiasco cominciò ad arretrare, spostando lo sguardo da Rider ad Abidos. Non poteva attendere oltre. Doveva andarsene, ma lei doveva sapere.
Avvicinò le labbra all’orecchio di Sari, e la voce uscì flebile. Un sussurro.
«Guardati da Abidos, non è ciò che sembra. Tornerò a prenderti.»
La portata di informazioni che quella frase nascondeva lasciò Sari interdetta, ma fu costretta a riscuotersi quando sentì la gola improvvisamente libera e vide Rider puntare il dito armato –indossava lo stesso modello che il tenente portava sull’indice- contro Namar, pronto a fare fuoco.
Senza pensare si lanciò verso il generale, e rabbrividì quando vide la punta del copri-indice illuminarsi. Un fiotto di luce azzurra saettò oltre le spalle di Sari. Il suo cuore stava battendo con tale forza che la psicologa temette che le sarebbe uscito fuori dal petto da un momento all’altro.
L’istante successivo aveva le mani strette attorno al polso di Rider, nel disperato tentativo di impedirgli di fare nuovamente fuoco.
Era riuscita a neutralizzarlo, ma aveva paura di girarsi verso Namar e vedere.
Quando sentì un gemito strozzato, l’orrore si impadronì di lei.
Si voltò, anche se aveva una paura folle di ciò che avrebbe visto. E lo vide: Namar, sul ciglio della scogliera con un’espressione dolorante. Si reggeva l’addome, e la mano era sporca di sangue.
Rider l’aveva ferito.
Non riusciva a staccare gli occhi dal fuggiasco che lì, sull’orlo dell’abisso, sembrava più felice che mai. Lo vide sorriderle, un sorriso appena accennato, prima di guardare di sotto.
E Sari provò paura e rabbia. Paura per lui, e rabbia per quel destino assurdo.
Fu come un incubo. Lo vide dare la schiena alla scogliera. Sostenne lo sguardo della psicologa fino alla fine, senza smettere di sorridere. Chiuse gli occhi e allargò le braccia come fossero ali.
E come la fine di ogni cosa, si lasciò andare. Sari lo vide sparire oltre la scogliera, nel vuoto. Giù, fino a un violento tuffo nell’acqua che tuttavia non arrivò mai.
Trattenne il fiato per secondi interminabili, divorata dall’angoscia. L’unica cosa che vide fu un corvo salire verso il cielo. Verso la libertà.

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Capitolo 18
*** i tre nomi del tradimento ***


17



17.

I TRE NOMI DEL TRADIMENTO

*



Amaya e Silver erano stati fortunati, e ne erano del tutto consapevoli. Si erano sentiti spacciati quando si erano resi conto di essere inseguiti da metà squadra del C.S.M. Non avrebbero potuto trovare una spiegazione convincente per il loro coinvolgimento nella fuga di Namar, e soprattutto non sarebbero riusciti a spiegare la presenza di Volker lì, assieme a loro.
Per questo motivo erano rimasti sorpresi quando le macchine dell’esercito avevano fatto retromarcia e si erano allontanate, lasciandoli in mezzo alla strada principale. In mezzo alla folla.
Ne avevano approfittato immediatamente per fuggire da attenzioni indesiderate e sguardi curiosi. Si erano dileguati verso i vicoletti più interni e isolati, come clandestini in una terra ostile.
Solo quando furono sicuri di non essere seguiti da nessuno -militare o abitante locale sembrava fare una differenza minima in quel momento - Amaya si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Si fermò.
«A questo punto direi che è tutto tranquillo.»
«Sì, ma stanno inseguendo la tua amica» obiettò Volker. Silver controllò nelle vicinanze: non c’era nessuno. L’elfa aveva ragione. Tornò indietro, e quando raggiunse i due compagni si lasciò cadere a terra, scoraggiato.
«Ci mancava solo il C.S.M! Dannazione!»
Amaya non ebbe il coraggio di rispondere. Sentiva che il poliziotto si stava sfogando, esternando tutto lo stress accumulato in quei giorni frenetici passati a correre dietro a un assassino che ora stavano proteggendo.
In qualche modo riusciva a capire ciò che stava provando.
«Che succederà se li prendono?» domandò Volker. Silver alzò lo sguardo su di lui, il volto segnato dalla stanchezza. Scosse il capo.
«Non ne ho idea, dipende tutto da come si comporterà Sari. Se prenderà le difese di Warknife… voglio dire, di Namar, ho paura che la tratteranno come una complice. Spero che non faccia cose troppo avventate.»
Era preoccupato, glielo si leggeva in faccia, e Amaya non era da meno. In quel momento nessuno parlò più, ognuno chiuso nel proprio silenzio e perso nei propri pensieri.
Fu il verso di un animale che attirò l’attenzione di Volker: alzò il naso al cielo, e in quel momento vide un corvo planare sopra le loro teste, prima di scomparire qualche vicolo più in là.
«E ora che facciamo?» sospirò.
«Dobbiamo aspettare che il C.S.M. se ne vada. Non possiamo esporci con te in libertà» rispose Amaya. Volker annuì senza dire una parola.
In quell’istante, immersi nel silenzio, udirono distintamente dei passi avvicinarsi all’incrocio del vicoletto in cui si trovavano. Si guardarono l’un l’altro, preoccupati: non c’erano nascondigli, e non potevano sperare in una fuga abbastanza veloce. I passi diventavano sempre più vicini.
E finalmente lo videro: un uomo si trascinava reggendosi al muro, e con una mano si premeva l’addome. Il capo chinato non rendeva possibile vedere il suo volto, ma non avevano bisogno di quello per capire di chi si trattava: capelli neri, vestiti logori e sporchi, bende ingiallite attorno alle mani.
Namar si lasciò cadere a terra, stremato, e quando gli altri lo raggiunsero videro che la mano che copriva l’addome era imbrattata di sangue.
«È ferito» la voce di Silver tremò.
«Che cosa vi è successo?» Amaya era preoccupata. Volker tentò di scoprire l’addome del fuggiasco per esaminare la ferita, e Namar non ebbe neppure la forza di opporsi.
La fuga dalla scogliera l’aveva sfinito, ma non riusciva a levarsi dalla testa quello che era successo. Ignorò la domanda di Amaya, e cercò di rimettersi in piedi nonostante le proteste di Volker.
«Sei ferito, hai bisogno di cure e di non fare sforzi!»
«Se perdete tempo con me, la vostra amica muore.»
Fu lapidario. Un fulmine a ciel sereno. Tre paia di occhi lo guardarono colti alla sprovvista, e due di loro in particolare sembravano piuttosto preoccupati. Prima che Silver potesse rispondere, Amaya si fiondò sul fuggiasco, afferrandolo per il bavero del vestito.
«Che cosa le è successo?»
«La vostra amica dà la sua fiducia troppo facilmente, e c’è sempre chi se ne approfitta» rispose tranquillo, benché la ferita gli pulsasse terribilmente. Quando l’elfa lo scosse, un’espressione dolorante comparve sul suo volto scavato.
«Non farmi perdere tempo, o ti rispedisco a calci da dove sei venuto. Ora dimmi che cos’è successo a Sari. Subito» sibilò a denti stretti. Namar rimase impassibile.
«Potrebbe essere in compagnia del tizio che ha ucciso suo padre, e non ha il minimo sospetto a riguardo.»
Un silenzio fin troppo pesante scese tra di loro. Amaya mollò la presa dal bavero dell’evaso, e si allontanò senza dire nulla. Silver la guardò allontanarsi, e quando l’elfa non diede segno di volersi fermare le corse dietro.
Namar chiuse gli occhi e si lasciò cadere a terra di nuovo. Forse aveva ragione il tizio con un occhio solo, aveva bisogno di cure immediate e di riposo, ma non poteva permetterselo.
Volker tornò al suo fianco, ed esaminò di nuovo la ferita. Quando Namar riaprì gli occhi, lo vide scuotere il capo e capì che non doveva essere ridotto molto bene. Sentiva un vociare accorato, e in lontananza vide Silver e Amaya discutere animatamente. Probabilmente l’elfa aveva intenzione di raggiungere immediatamente l’amica, e il poliziotto stava tentando di farla ragionare.
«Perché mi stai aiutando?»
«Come, scusa?» Volker guardò Namar senza capire.
«Perché ti preoccupi per la mia ferita?» nella sua voce c’era una traccia di amarezza. Volker abbozzò un sorriso, alzandosi in piedi.
«Perché in fondo io e te siamo simili. Siamo entrambi condannati.»
Namar fece spallucce, continuando a non comprendere. Non era abituato a certi trattamenti, e non avrebbe mai capito fino in fondo. «Fai un po’ come ti pare.»
Volker non rispose, accettando quella risposta scorbutica con il sorriso ancora sulle labbra. Gli offrì la mano.
«Ce la fai ad alzarti? Dobbiamo portarti da un medico.»
Namar sogghignò, afferrando la mano. Alzarsi gli costò fatica e soprattutto dolore, una fitta nei pressi della ferita che gli mozzò il fiato. Quando riuscì a parlare, la sua voce risultò strozzata dalla sofferenza.
«E credi che mi curerebbero sapendo chi sono?»
Volker fece spallucce. «Conosco un medico che non bada a chi ha in cura. Si rivolgono a lui tutte quelle persone che per problemi legali non possono esporsi troppo, e lui è un tizio che tiene la bocca chiusa su queste cose. Purtroppo abita a Rosya, ma non ci sono molte alternative.»
Namar rimase in silenzio per alcuni istanti, valutando il da farsi. Effettivamente, ridotto così poteva fare ben poco. Aveva bisogno di cure che solo una persona competente poteva dargli, ma il pensiero di intraprendere un viaggio nelle sue condizioni lo impensieriva un po’.
«Quanto ci impiegheremo per arrivare a Rosya?»
«Circa una giornata a cavallo. Saremo fortunati se per strada riusciremo a rubare un’auto.»
Namar sospirò. Non aveva molte alternative.
«Andiamo.»


*


L’indomani Sari e Abidos partirono immediatamente per Rosya, diretti alla sede della Corporazione. L’idea di rivedere Amos non rendeva la psicologa particolarmente felice.
Ma il nonno non era la sua unica preoccupazione: non aveva dimenticato le parole di Namar. Era evidente che lui sapeva qualcosa su Abidos che lei ignorava, e sebbene da una parte temesse di sapere di cosa si trattasse, dall’altra era maledettamente curiosa.
Su una cosa però era certa: se Namar l’aveva voluta avvisare, era perché riteneva che fosse una cosa importante. Stava quasi per dimenticarlo, ossessionata dalla sorte del fuggiasco.
Aveva avuto l’impressione che non avesse mai raggiunto il mare, che fosse scomparso nel nulla prima di impattare con l’acqua.
Aveva visto un corvo allontanarsi dalla scogliera pochi istanti dopo la caduta di Namar, ma non poteva credere che quell’animale fosse lui. Per quanto fosse improbabile che un uccello del genere si aggirasse attorno al mare, non riusciva a credere che fosse proprio l’evaso che l’aveva catturata ad Artika. Era sicura che non esistessero creature capaci di mutare il proprio aspetto. Quel corvo non poteva essere Namar.
E allora, la domanda successiva era sempre, irrimediabilmente la stessa: cos’era successo all’evaso dopo essere saltato dalla scogliera? Era un rompicapo senza fine che la stava facendo impazzire, per non parlare della faccenda riguardante Abidos. Quando arrivò alla Corporazione, era già di cattivo umore.
Li fecero accomodare nelle stanze che avevano preparato appositamente per il loro arrivo, annunciato da Rider prima di lasciare Assen. Abidos fuggì nella sua stanza senza troppi complimenti, trascinandosi dalla stanchezza.
Sari ne approfittò per fare una lunga doccia calda e cambiarsi d’abito. Le sembrò di rinascere sotto il getto bollente e per alcuni istanti tutto quello che le era successo a partire dalla morte di suo padre le sembrò soltanto un sogno lontano e sbiadito.
Quando uscì dalla doccia, avvolta in vestiti morbidi e profumati, uscì in veranda. Ai suoi piedi si stendeva in tutta la sua imponenza il giardino del palazzo e, non troppo lontane, due sagome passeggiavano tranquille, ignorando di essere spiate.
Le riconobbe dopo un attento esame: la prima apparteneva a un uomo piuttosto giovane, di bell’aspetto. Indossava la divisa del C.S.M. e sottobraccio portava un elmo. La seconda era quella di un uomo anziano dai capelli bianchi e lunghi. Rider e Amos.
La rabbia e l’irritazione le rimontarono dentro in pochi istanti, e riuscì a stento a evitare di calciare il primo oggetto a portata di piede. Ancora una volta suo nonno dimostrava più interesse verso i suoi affari che non verso la sua famiglia.
«Tipico.»
La sua voce suonò più acida di quello che credeva. Si trascinò verso il letto e si lasciò cadere di peso, sprofondando nel materasso morbido. Chiuse gli occhi e respirò a fondo, cercando di lasciare ogni pensiero fuori dalla propria mente.
Ora l’unica cosa che voleva era addormentarsi per non tormentarsi con tutte quelle domande che le ronzavano incessantemente in testa e che la stavano facendo impazzire.
La sua mente riuscì a resistere per pochi istanti prima di capitolare, sconfitta: Sari stava pensando nuovamente ad Abidos e al suo misterioso segreto.
Era curiosa, maledettamente curiosa. Innanzi tutto non capiva che cosa ci fosse in lui di così sospetto da portare Namar a insinuare che Abidos fosse pericoloso.
Dopo la strage che il fuggiasco aveva fatto sulla scogliera, non era riuscita a chiedergli neanche un vago chiarimento su quella frase che le aveva sussurrato all’orecchio. In quel momento era rimasta troppo scioccata e spaventata per poter pensare a cosa avrebbe dovuto fare, ma ora anche il più piccolo indizio le avrebbe fatto comodo.
Scese dal letto, velocemente. Doveva sapere. Doveva parlare con Abidos, e doveva farlo con discrezione. Imboccò il corridoio, e ogni passo le sembrava pesantissimo. Quando si fermò di fronte alla camera del ragazzo, il cuore le pulsava furiosamente nel petto. Aprì la porta.
La mano le tremò per l’agitazione, e si chiese se stava facendo la cosa giusta. Forse avrebbe dovuto rimanere in camera sua senza andare in cerca di ulteriori pericoli, ma non era capace di aspettare che i guai le piombassero in testa e la cogliessero impreparata.
Quando si richiuse la porta alle spalle, sentì che il passo decisivo era stato compiuto: non poteva tirarsi indietro.
Abidos era sdraiato sul letto e i suoi respiri, profondi e regolari, suggerirono a Sari che fosse addormentato. Lo raggiunse in punta di piedi, stando bene attenta a non fare rumore. L’espressione sul volto del ragazzo era corrucciata: stava sognando qualcosa. Si voltò di fianco, e una ciocca di capelli gli cadde sul viso.
Lo guardò per minuti che sembrarono interminabili, cercando in quel viso addormentato delle risposte. Ma più indugiava, più le sembrava impossibile che Namar avesse ragione. Probabilmente si era sbagliato, e quel sospetto era frutto di una paranoia partorita dalla sua mente distorta e dalla sua incrollabile diffidenza. Le sembrò assurdo che quel ragazzo dai lineamenti dolci, quel ragazzo che voleva aiutarla a scappare dal suo rapitore, fosse pericoloso.
Scosse il capo sospirando, e gli scostò i capelli dal volto. Le dita sfiorarono la sua pelle, e in quel momento sentì un distinto formicolio propagarsi dai polpastrelli Fu così breve che quasi non se ne rese conto, finché non arrivò il buio.
E vide.
Corridoi. Una rete infinita, un alveare che si snocciolava da qualche parte. Pareti grigie, impersonali e fredde. E porte dello stesso colore, tutte uguali. Un corridoio lungo, lunghissimo, e alla fine una porta. Rossa. E davanti a quella porta, un corpo riverso a terra e sangue dovunque: per terra, sui muri, sui vestiti di quel povero disgraziato. Un uomo morto, che aprì gli occhi e la guardò senz’anima. Suo padre.
Sari ritrasse la mano, annientata. Fissava Abidos, e il terrore le inchiodava i piedi. La sua mente le gridava di allontanarsi, di fuggire da quel pericolo imminente, ma il suo corpo non rispondeva. Lo sentì ridere, una risata spaventosa e diabolica. Riuscì ad arretrare d’un passo, tremante.
Abidos si mise a sedere. La stava guardando, ma il modo in cui lo faceva non era quello che conosceva. Non era più gentile: nei suoi occhi c’era il nulla. Gelido. Quello non era più Abidos.
«Mi hai ingannata» la voce le tremava, e lui accennò un sorrisetto sottile.
«E dovrei scusarmi per questo? Allora ti prego: perdonami.»
Si stava divertendo, rideva della sua paura.
Sari strinse i pugni, sentendosi invadere dalla rabbia. Ciò che aveva visto nel sogno di quel ragazzo aveva a che fare con quello che i demoni volevano da lei, con Shem. L’assassino di suo padre.
«Sei uno di loro? Uno di quei demoni?» sibilò, cercando di mantenersi lucida e di non arrendersi alla rabbia. Lui la guardò sorpreso.
«Ma come, ti sei già dimenticata di me?»
«CHI DIAVOLO SEI?!»
Le lacrime le stavano rigando il viso. Si sentiva ingannata, derisa e spaventata. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle. Un paio di metri la separavano dalla porta. Se arretrava lentamente probabilmente sarebbe riuscita a scappare prima che lui la raggiungesse.
Si asciugò le lacrime con un gesto di stizza, senza più perderlo di vista.
«Dopo la tresca che abbiamo avuto, potrei sentirmi offeso dalle tue domande.»
Non stava più ridendo. Scese dal letto, e venne verso di lei come un felino si avvicina alla preda.
«Vediamo di rinfrescarti la memoria. »
Le sembrò di essere sul punto di impazzire quando credette di vedere la pelle di Abidos diventare più chiara. Stava per darsi della pazza, ma dovette reprimere un urlo: il volto del ragazzo iniziò a mutare lentamente, a cominciare dai lineamenti che divennero più affilati. Poi fu la volta degli occhi.
Quella calda tonalità nocciola che Sari stava cominciando a conoscere sfumò, rimpiazzata da un colore decisamente freddo, un azzurro così chiaro che le ricordò il ghiaccio. Le gambe cominciarono a tremarle, e Sari dovette reggersi a un tavolo per non lasciarsi cadere. Non fu capace di emettere neppure un gemito. Rimase a guardarlo con un angosciante senso d’impotenza mentre faceva scivolare le mani sui capelli, che divennero lisci e sottili. Neri.
Non più boccoli castani, ma capelli scuri che seguivano con disciplina la linea della testa.
L’orrore s’impadronì di Sari, che desiderò scomparire all’istante.
Si era sempre chiesta che cosa avrebbe fatto quando avesse avuto Shem davanti, ma non era pronta a vederselo comparire così.
«Non è possibile…»
La sua voce uscì strozzata, e le lacrime le bagnarono di nuovo le guance. Le ritornò alla mente suo padre morto davanti al laboratorio nel sogno di quell’essere abominevole, e in un lampo si ricordò della sua camera da letto, completamente imbrattata di sangue.
Voleva andarsene. Desiderava scomparire all’istante da quell’incubo assurdo. Voleva fuggire.
Namar!
«Pazienta un altro po’, non ho ancora risposto completamente alla tua domanda.»
Sari non lo stava neppure ascoltando. La sua mente correva veloce, alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da arma improvvisata. Ma nella camera non c’era assolutamente nulla.
Shem le girò attorno come se stesse per saltarle addosso, costringendola ad allontanarsi. Soltanto allora Sari capì di essere lontana dalla porta, l’unica via di fuga possibile. Si morse un labbro, dandosi della stupida.
Poi accadde di nuovo. I lineamenti di Shem diventarono più maturi, i capelli si allungarono e in pochi secondi raggiunsero la schiena. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì Sari sussultò: erano completamente bianchi, e l’unico schizzo in tutto quel candore innaturale era la pupilla verticale.
Rimase spiazzata: non aveva mai visto nulla del genere, e per un istante dimenticò che la persona che aveva di fronte era la stessa che aveva ucciso suo padre.
«Che cosa sei?»
L’uomo rise sommessamente, scuotendo il capo.
«Questo è il mio vero aspetto. Mi chiamo Jariel, e tu hai qualcosa che mi appartiene.»
Non ci pensò su neppure un secondo: Sari schizzò di lato, lanciandosi verso il tavolo. Afferrò una sedia, e la frappose tra sé e quell’uomo. Era terrorizzata, ma l’espressione sul suo volto doveva essere contorta dalla rabbia, perché Jariel scoppiò a ridere quando si avvicinò e lei tentò di tenerlo lontano con la sedia.
«NON TI AVVICINARE!»
«Ora basta giocare.»
Quell’essere afferrò un piede della sedia, e la scaraventò lontano. Sari cominciò ad arretrare, cercando di pensare a un modo per evitare il suo assalitore. C’era una finestra, ma erano a un’altezza considerevole e l’urto non l’avrebbe lasciata indenne. L’unica soluzione era la porta. Le sarebbe bastato così poco per scappare, eppure tra lei e la salvezza si frapponeva lui, che la stava spingendo con le spalle al muro.
«Dove sono i rapporti?»
«Non capisco di che cosa stai parlando» Sari rispose distrattamente. Stava disperatamente cercando di guadagnare tempo, ma Jariel sembrava piuttosto impaziente. Con una smorfia seccata la afferrò per le braccia e la spinse a terra rudemente, con violenza. La ragazza dovette trattenere un gemito sofferente.
«Non raccontarmi balle.»
E Sari la sentì: una fitta acuta, forte e insopportabile attanagliarle la testa. E caldo, molto caldo. Sentì le tempie bollenti. Tentò di guardare Jariel, terrorizzata, ma la vista era annebbiata e i contorni sfuocati. Tremava, e desiderava morire piuttosto che continuare a sentire quel dolore insopportabile.
Strinse convulsamente la testa nel vano tentativo di farlo cessare.
«Basta.»
La voce era flebile e lamentevole. Lo stava supplicando, ma Jariel rimase impassibile.
«Dove sono?»
«BASTA!»
Stava piangendo ora, e le sembrava che anche le lacrime fossero roventi. Sarebbe impazzita, a meno che il dolore non la uccidesse prima. Jariel le si avvicinò, e con un piede la costrinse a voltarsi supina. La guardò senza tradire alcuna emozione. Era gelido, per nulla toccato dalla sua sofferenza. Mantenne il piede sullo stomaco della ragazza, e il suo sguardo si fece penetrante. In quel momento, lei gridò. Come non aveva mai fatto in vita sua, come se la sua anima fosse sul punto di spaccarsi. Pregò di morire in quel momento, tutto pur di far smettere quell’atroce tortura. Afferrò involontariamente la caviglia di Jariel con entrambe le mani, e in quell’istante successe qualcosa. Ci furono scintille, e delle fiamme nere si accesero attorno alle sue mani.
Jariel gridò, e si allontanò all’improvviso. In quel momento, il dolore nella testa della psicologa cessò di punto in bianco, e Sari si sentì spossata e debole. L’uomo si ispezionò la caviglia: la stoffa del pantalone era bruciata, e la pelle era lacerata dalle piaghe.
La fissò con astio, tremando dalla rabbia.
«Maledetta.»
Era il momento. Se non l’avesse fatto, sarebbe sicuramente morta, proprio come suo padre prima di lei. Cercò di racimolare le forze che le rimanevano, chiedendo al proprio corpo un ultimo, piccolo sforzo.
«AIUTO!»
Gridò una, due, tre volte. Urlò all’infinito quella parola disperata, con la vaga consapevolezza che quella era la sua unica speranza. Pochi istanti dopo, tre guardie fecero irruzione all’interno della stanza, ma non fecero neppure in tempo ad aprire bocca che Jariel era già saltato dalla finestra. Quando si affacciarono, di lui non c’era più traccia.

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Capitolo 19
*** rabbia ***


18


18.

RABBIA

*


L’aggressione subita e la reale identità di Abidos avevano sconvolto Sari.
Quando la portarono da Amos, tremava ancora come una foglia. Le gambe la reggevano appena, e inciampò più di qualche volta. Le guardie che l’accompagnavano la guardarono con un misto di commiserazione e divertimento che l’avrebbe irritata, se solo non fosse stata così scioccata da non prestare attenzione a ciò che le accadeva attorno.
Percorsero un corridoio lungo, ed entrarono in una stanza. Quando la fecero accomodare, Sari cominciò a guardarsi attorno. Riconobbe subito la camera: pareti bianche, enormi vetrate e un tavolo rettangolare al centro. Di Amos però non c’era traccia.
«Lui sta arrivando?» domandò con voce tremante a una delle guardie, che abbozzò un sorriso.
«È stato chiamato, sarà qui a momenti. Non devi preoccuparti.»
Un nodo le strinse la gola a quelle parole. Sembrava che la guardia credesse che la presenza di Amos servisse a tranquillizzarla, a farla sentire sicura dopo ciò che le era accaduto, mentre in realtà poteva solamente farla innervosire ancora di più.
Chiuse gli occhi, cercando di trovare un po’ di controllo. Voleva allontanarsi subito finché ne aveva la possibilità, ma aveva un bisogno disperato di sapere. Jariel, quell’essere che aveva ucciso suo padre sotto mentite spoglie, aveva parlato di rapporti. L’aveva avvicinata perché credeva che li avesse lei. Aveva rischiato la vita per qualcosa di cui fino a pochi minuti prima ignorava l’esistenza. Quando sentì dei passi provenire dall’ingresso, il suo coraggio venne meno.
«Vedo che stai bene» la voce fredda di Amos ebbe lo stesso effetto di una pugnalata al cuore per Sari. Sapeva che ciò che avrebbe ottenuto da lui non sarebbe stata certo preoccupazione, ma vedere confermati i suoi sospetti faceva decisamente male.
Strinse i pugni, mantenendo la calma.
«Sono riuscita a fronteggiarlo.»
Tremava, ma si sforzò di sorridere nonostante fosse sull’orlo di una crisi di nervi.
«I tuoi poteri si sono risvegliati?»
Sari non riuscì ancora a guardare Amos in faccia. Le sembrò di cogliere una nota d’interesse nella voce del vecchio mago, ma preferì non controllare. Aveva paura di quello che ci avrebbe trovato. Tacque.
«Allora non sei una perdente come credevo.»
Fu una doccia gelida. Rimase impietrita, con il cuore che le galoppava nel petto e l’agitazione, che aveva tentato di reprimere, che minacciava di travolgerla da un momento all’altro.
Amos fece per uscire dalla stanza senza battere ciglio, ma Sari piombò in piedi di colpo, senza più riuscire a frenarsi.
«Che cosa sono i rapporti?» fu quasi un grido. Era arrabbiata come non lo era mai stata prima, e voleva sapere. Doveva sapere.
Amos si fermò a guardarla, stoico.
«Come fai a sapere dei rapporti?»
«Quel tizio con cui sono arrivata, Jariel, Shem o come diavolo si chiama… Cercava i rapporti.»
Per un istante le sembrò che quella maschera imperturbabile che Amos indossava costantemente venisse incrinata da un barlume di preoccupazione. Il vecchio mago ordinò alle guardie di chiudere le porte della sala con un cenno della mano.
«Ti ha detto qualcos’altro?» domandò afferrandola delicatamente per le spalle, ma Sari si divincolò con stizza.
«Dannazione, rispondi alla mia domanda per una volta! Quel tizio ha ucciso papà e io ho rischiato di fare la stessa fine per una cosa che non so neppure cosa sia!» gli gridò, gettandogli contro tutta la rabbia taciuta fino a quel momento. Amos però la guardava imperturbabile, lasciando che le parole della nipote gli scivolassero addosso come fossero acqua. Sari chinò la testa, singhiozzando. «Che cosa c’è in quei rapporti?»
«Non sono cose che ti riguardano.»
«C’ero io in quella stanza, con quello, ma non sono cose che mi riguardano?» la sua voce era ridotta a un sibilo rabbioso. Il suo sguardo furente lanciava tacite accuse ad Amos, che anche in quel frangente sembrava non provare assolutamente nulla. Era impassibile, con le mani nascoste dietro la schiena e un’espressione distaccata sul volto segnato dagli anni.
«Voglio la verità: quei rapporti li aveva papà?»
Amos sembrò esitare per un istante, poi annuì.
«Perché li aveva lui?» domandò. Fremeva dalla voglia di sapere, era l’occasione che stava aspettando dalla morte di suo padre, ma aveva paura di ciò che avrebbe sentito. Amos sospirò, messo alle strette.
«Quei rapporti sono estremamente importanti, ma non erano al sicuro. Ho ordinato a tuo padre di nasconderli prima che li trovasse qualcun altro.»
Sari si sentì improvvisamente svuotata di ogni cosa. Ogni emozione provata fino a quell’istante venne spazzata via da quelle parole, perfino la rabbia feroce che l’aveva animata fino a qualche istante prima. Vacillò, e dovette sedersi per non cadere.
«Mi stai dicendo che hai costretto papà a portarsi dietro quei rapporti nonostante sapessi che l’avrebbero ucciso pur di averli?» ansimò con gli occhi lucidi. Amos la guardò senza battere ciglio, gelido. «Spero che questa ridicola scenata finisca presto.»
Fu così veloce che non si rese neppure conto che il suo corpo si era mosso: Sari scattò in piedi, aggredendo Amos e costringendolo contro il muro. Le guardie fecero per intervenire, ma l’anziano mago li rimandò al loro posto con un cenno del capo.
La stretta di Sari sulle braccia esili del nonno era tremante per la furia.
«Quando mostrerai un po’ di rimorso per quello che hai fatto? Era tuo figlio, e l’hai mandato a morire.»
«La vita è fatta di scelte, Sari. Io ho fatto la mia perché credevo in quello che stavo facendo, ed ero pronto a pagare qualunque prezzo fosse stato necessario; tuo padre lo sapeva.»
«STA’ ZITTO!» le lacrime cominciarono a rigarle il viso, segnandolo con il loro carico di dolore. Si impose di riprendere il controllo, ma quando parlò, la voce era ridotta a un sibilo.
«Che cosa c’è in quei rapporti? Riguardano qualcosa nascosto ad Artika?»
«Non sono cose di tua competenza.»
«SONO VENUTI DA ME PER PRENDERLI, MALEDIZIONE!»
Mollò la presa all’improvviso, dirigendosi ad ampi passi verso la porta d’uscita, ma le guardie le sbarrarono la strada. Sari si voltò verso suo nonno, furente.
«Ordinagli di farmi passare.»
«Prima che tu vada vorrei darti la lieta novella: da oggi sei ufficialmente fidanzata con il generale Rider. Celebreremo il matrimonio al più presto, non appena sarà tutto pronto.»
Sari fu così sbigottita dalla notizia, che rimase a bocca aperta. Quando riuscì a parlare, il suo tono di voce esprimeva tutta l’indignazione che la ragazza provava.
«Te lo puoi scordare, non sposerò mai Rider!»
«Non hai voce in capitolo Sari, è una mia decisione e tu obbedirai senza fare storie.»
Non era possibile cercare di incrinare quel muro d’indifferenza, tanto meno sbraitando. Per quanto desiderasse sottrarsi al volere di Amos, Sari sapeva che non sarebbe mai stato possibile, e questo la faceva arrabbiare ancora di più. Non le restava altro che accettare le sue volontà, che lei lo volesse o meno.
Con un gemito stizzito spinse da parte le guardie e aprì la porta, producendo un rumore che rimbombò lungo tutto il corridoio. Corse verso le sue stanze, con il bisogno di allontanarsi al più presto dalla presenza soffocante del mago e una moltitudine di pensieri che si susseguivano senza sosta. Rivedeva suo padre morto nel sogno di Jariel, e Amos che la guardava senza battere ciglio mentre ammetteva la propria responsabilità. Ancora una volta il mago stava decidendo delle vite di altre persone senza curarsi dei loro sentimenti.
Quando arrivò in camera si fermò sull’uscio, con un intenso bisogno di distruggere qualcosa. Si guardò attorno, e vide una piccola parte di ciò che suo nonno aveva costruito. Il mobilio pregiato, fatto arrivare da chissà dove; i tendaggi, gli arazzi, gli oggetti preziosi… Tutto le ricordava lui, la sua autorità soffocante, e soprattutto le sue insensate pretese.
Lo fece quasi senza pensare. Afferrò il primo oggetto che le capitò in mano, e lo lanciò a terra. Non fece neppure caso a cosa fosse: quando lo vide cadde a terra, infrangendosi in molti pezzi, le sembrò che una parte della tempesta emotiva che la tormentava venisse esorcizzata. Fu un invito a continuare.
Rovesciò i mobili, strappò le tende, gettò a terra tutti i soprammobili su cui riusciva a mettere le mani, e stracciò le pagine dei libri di magia che erano stati riposti sopra una piccola libreria.
«Santo cielo, sei impazzita?»
Era Jasper, sulla soglia. La fissava basito, con le mani sui capelli. Sari non lo degnò neppure di un’occhiata, e continuò la sua opera di distruzione.
«Fermati, ti prego! Non hai idea dei danni che stai facendo!»
Sembrava seriamente allarmato. Le afferrò un polso tentando di calmarla, ma Sari si liberò bruscamente.
«Non me ne importa nulla dei danni! Nulla!» gli gridò in faccia prima di riprendere a strappare le pagine di un libro dalla copertina verde. Jasper si torceva le mani, disperato. Quando anche Rider si presentò sulla soglia, attirato dal baccano, l’umore di Sari sprofondò ancora di più.
«Fantastico, ci mancava soltanto il leccapiedi di mio nonno» mormorò tra sé, scuotendo il capo. Rider la guardò con le braccia conserte al petto e sul volto un irritante sorrisetto altezzoso.
«Quanto sei infantile.»
Sari stava per scagliare a terra una statuina di porcellana, ma si fermò con il braccio a mezz’aria. Lanciò uno sguardo furibondo al generale, che ebbe l’effetto di farlo divertire ancora di più.
«Stando con quell’avanzo di galera sei diventata incivile, senza dubbio un pessimo elemento.»
Per Sari fu troppo.
In quel momento, la presenza di quel borioso opportunista non faceva altro che alimentare il fuoco rabbioso che le bruciava dentro. Senza pensarci su scagliò la statuina verso l’uomo, mirando alla sua testa, ma i riflessi del generale erano pronti: si chinò, la statua volò oltre le sue spalle e si infranse sul pavimento.
«Non siamo ancora sposati e già vuoi uccidermi?»
«Vai al diavolo, Rider! Preferisco stare con un criminale, piuttosto che sposare te» parlò a denti stretti e con disprezzo, sibilando tutta la sua collera. Voleva andarsene. Aveva un disperato bisogno di stare da sola, lontano da tutti. Spinse il generale da parte, e uscì dalla camera quasi correndo. Sentì Jasper pregarla di tornare indietro, ma lo ignorò. Le dispiaceva per lui, ma non aveva la minima intenzione di sopportare Rider un istante di più.
Camminò al ritmo del suo cuore rabbioso, sempre più veloce finché cominciò a correre. Si diresse senza indugi verso il luogo più tranquillo di tutto il palazzo, l’unico che potesse offrirle la quiete di cui aveva bisogno.
Si fermò alla fine del corridoio. La porta era aperta, e dalla soglia riusciva già a distinguere i numerosi ripiani all’interno della biblioteca. Entrò adagio e si guardò attorno: in quel salone imponente non c’era nessun altro, oltre a lei.
Imboccò le file di scaffali, ma non guardò nessun libro. Camminò verso il fondo della biblioteca, e quando lo raggiunse posò la schiena contro il muro, lasciandosi cadere a terra. Seduta, si lasciò andare a un lungo pianto silenzioso, incapace di fermare le lacrime. Raccolse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia, e vi nascose la testa come una bambina. E pensò.
Lasciò che i pensieri l’aggredissero in un flusso di coscienza selvaggio e prepotente, che aveva come unico effetto quello di farla affondare ancora di più nella tristezza. Pensò a suo nonno, a suo padre, e a ciò che aveva scoperto riguardo alla sua morte. E, ora che conosceva quella mezza verità, non si sentiva affatto meglio.
Avrebbe desiderato ardentemente poter mettere le mani addosso ad Amos, anche solo per costringerlo ad assumere un’espressione diversa, nuova. Umana. Per cancellare quello sguardo indifferente che riservava a chiunque e in qualunque situazione, perfino di fronte al sacrificio del suo unico figlio. Ma non poteva farlo.
Non poteva sperare di vedere del rimorso in suo nonno, come non poteva sperare che lui le spiegasse che cosa contenessero quei fantomatici rapporti. Nonostante avesse un disperato bisogno di sapere –di capire per che cosa Adrian era morto- sapeva che non avrebbe mai potuto ottenere alcuna informazione da Amos.
Solo quando si asciugò le lacrime con il dorso della mano, la notò: era una porta alta e imponente, in ferro battuto lavorato. Uno strano glifo spiccava sul metallo, probabilmente il risultato di un incantesimo operato a protezione di qualche oggetto prezioso custodito con gelosia. Le ricordò il simbolo che aveva visto su quella porta rossa, ad Artika: aveva la stessa forma e la medesima grandezza, ma c’erano delle piccole virgole all’estremità di ogni semicerchio. Un elemento nuovo che lo rendeva differente, ma che non era sufficiente per cancellare dalla mente di Sari il ricordo del segno che aveva visto nel carcere. Pensare che potesse esserci un legame tra i due glifi fu un passo breve, quasi immediato.
Si alzò in piedi, animata da una speranza che non pensava di poter provare in quella situazione così sconfortante, dove le risposte che cercava con così tanta ostinazione sembravano essere sempre più inaccessibili. Quando cercò di aprire la porta, però, non ottenne alcun risultato. Riprovò di nuovo, spinse con tutte le sue forze, e alla fine fu costretta a desistere sotto il peso di una frustrazione opprimente che le lasciò nient’altro che rabbia e un logorante senso di impotenza.
Allora non sei una perdente come pensavo.
Le parole di Amos le ritornarono in mente con il loro carico di veleno. Le sembrò di rivivere quell’istante, di rivedere il suo atteggiamento impassibile, di risentire il tono di sufficienza con cui si era rivolto a lei.
L’insieme dei sentimenti negativi che la tormentavano -quel miscuglio intenso di collera e dolore- prese di nuovo il sopravvento, e accadde tutto in un istante: avvertì un’energia potente concentrarsi sulla mano nel momento in cui afferrò il pomello, una forza seducente che le prometteva di poter realizzare qualunque desiderio. Non c’era più nulla che le fosse proibito, nulla che non potesse avere, lo sentiva chiaramente dentro di lei.
Apriti, APRITI!
Le virgole del glifo si dissolsero e l’incantesimo che impediva l’accesso alla stanza si infranse all’istante. La serratura scattò con un rumore secco e inequivocabile: una piccola soddisfazione che Sari si concesse di assaporare con orgoglio. Controllò velocemente il corridoio, e quando fu sicura che non ci fosse nessuno nei paraggi, sgattaiolò oltre la soglia.


*


La stanza era piuttosto piccola e disordinata. C’erano numerosi scaffali, e sui ripiani giacevano fogli e cartelle ricoperti dalla polvere. Molti erano ingialliti, inequivocabilmente segnati dal passare del tempo, e i segni dell’umidità erano molteplici.
Sari guardò a bocca aperta quell’archivio ricco di chissà quali cose, affascinata. Curiosò tra le carte riposte sullo scaffale più vicino, ed estrasse un pacco di fogli sciolti: li guardò con interesse e comprese che per la maggior parte erano formule di magia e genetica. Probabilmente studi che Amos aveva condotto durante la sua ascesa. Li ripose con cura, e proseguì l’ispezione. C’erano interi volumi di chimica e biologia, che sembravano trattare argomenti difficili e impegnativi.
Era entrata lì dentro spinta dalla semplice curiosità, senza alcun intento in mente: forse fu per quel motivo che, quando lo vide, il cuore cominciò a batterle all’impazzata.
Lì, sopra un ripiano mezzo vuoto, un grosso fascicolo giaceva in mezzo alla polvere. Un dossier come gli altri, ma dal nome del tutto particolare.
I caratteri scritti a macchina recitavano: “Artika- La zona rossa”.
Allungò la mano verso il fascicolo, assaporando quel momento esaltante e terrorizzante allo stesso tempo. Amos aveva fatto di tutto per nasconderle la verità, e per uno sfacciato colpo di fortuna ne era probabilmente molto vicina.
Per una frazione di secondo l’indecisione le fermò la mano. Voleva veramente sapere che cosa c’era dietro a tutti i misteri della Corporazione? Desiderava davvero conoscere i motivi che avevano condotto suo padre verso la morte? Voleva sapere per che cosa avrebbe rischiato la sua stessa vita?
Afferrò il fascicolo, e in quel momento seppe che il suo io più profondo aveva già deciso per lei da un pezzo. Si sedette a terra con l’incartamento sulle ginocchia, e cominciò a leggere.

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Capitolo 20
*** la zona rossa ***


19
Per farmi perdonare del ritardo con cui ho pubblicato il capitolo della settimana scorsa (capitolo pubblicato soltanto ieri), ho deciso di anticipare l'aggiornamento di domani. Perciò assicuratevi di aver letto il capitolo 18, prima di leggere questo ;)
Detto ciò, questo è il capitolo delle risposte.
Buona lettura.



19.

LA ZONA ROSSA

*


PROGETTO M.

Giorno 1.
Poter intraprendere queste ricerche è elettrizzante. Abbiamo allestito il laboratorio segreto in attesa del carico proveniente dal laboratorio demoniaco, e siamo tutti molto eccitati all’idea di iniziare. La zona è stata resa segreta tramite un incantesimo di celamento operato da Amos questa mattina: l’ingresso del laboratorio è una porta rossa, che potrà essere vista soltanto da chi lavora al progetto. Sono state preparate le celle per le creature, e l’equipe che mi affianca è qualificata. La Corporazione si aspetta grandi risultati, e noi tutti faremo del nostro meglio per non deluderla.
Sari si accigliò nel notare la scrittura del padre, stupore che passò in secondo piano quando pensò al momento in cui aveva aperto quella porta rossa, ad Artika. Quando aveva visto Namar per la prima volta.
Aveva sentito parlare degli incantesimi di celamento, arte magica piuttosto complicata che richiedeva lunghi anni di studio e che aveva lo svantaggio di essere trasmessa a figli e nipoti. Di conseguenza le cose celate potevano essere viste anche dai consanguinei delle persone coinvolte nell’incanto. Le tornò in mente l’uomo che la inseguì ad Artika: probabilmente al posto della porta rossa non aveva visto altro che il corridoio.
Pensò al glifo, lo stesso che troneggiava all’ingresso della stanza in cui si trovava in quel momento. Le era parso evidente fin dall’inizio che quell’area della biblioteca era stata sottoposta a qualche incantesimo, e dopo aver letto della magia di celamento non le risultò difficile indovinare quale potesse essere.
Riprese a leggere.
Giorno 3.
Le potenzialità di queste creature sono stupefacenti. Si chiamano morfisti. Riescono a mutare aspetto, e la particolare conformazione dei loro occhi desta curiosità: sono completamente bianchi, e le pupille hanno forma verticale. Hanno una M sulla pianta del piede, probabilmente un segno incantato che supponiamo serva per riconoscerli nonostante l’aspetto assunto. La cosa più straordinaria però è la presenza di una ghiandola particolare nel loro cervello. La tipologia dei tessuti di cui è composta è diversa rispetto alle cellule umane che formano il resto dell’encefalo. Sembra essere di origine demoniaca, ed emana onde di energia con effetti devastanti. Oggi abbiamo perso un membro dell’equipe a causa di queste onde, e tramite un esame approfondito abbiamo constatato che i suoi neuroni risultano completamente bruciati.
Abbiamo allestito le gabbie usando un materiale speciale, trasparente e in grado di contenere l’energia generata da queste creature. Ai loro polsi abbiamo posto delle catene a cui è stato operato un incantesimo, in modo da bloccare momentaneamente la capacità di mutare forma. Con queste misure protettive dovremmo riuscire a condurre gli studi senza correre rischi.”
Cominciò a sudare freddo. Più comprendeva, e più le sembrava impossibile credere a quello che stava leggendo. Aveva trovato Namar dentro una gabbia trasparente, esattamente come quella descritta nel fascicolo, e per giunta incatenato.
E venne l’orrore quando comprese.
L’avevano usato come cavia da laboratorio.
E il responsabile era suo padre. Quello stesso padre gentile e premuroso che lei amava tanto. Quello stesso padre la cui memoria era tutto ciò che le rimaneva.
E ora era persa per sempre.
Poi, improvvisamente tutto divenne chiaro: lo sfogo che Namar aveva avuto quando non sembrava ci fossero speranze di fuga, la sua disperata determinazione nel voler fuggire, a qualunque costo. Era una vittima dei maghi. Un uomo nato e vissuto per anni come un oggetto.
Si morse il labbro, divisa tra la pietà per l’evaso e la rabbia e la delusione che provava verso suo padre.
Riportò lo sguardo tra le righe del foglio, quando improvvisamente qualcosa di ciò che aveva appena letto la colpì. L’aveva trovato incatenato, imprigionato sotto sembianze che non aveva abbandonato neppure quando ne aveva avuto l’occasione. Poteva mutare sembianze a suo piacimento, e non era l’unico: anche Jariel poteva farlo. Erano uguali, due creature nate a tavolino destinate ad adempiere a uno scopo ben preciso. Un destino crudele e terribile, fatto di guerra e massacri. Probabilmente i demoni li avevano creati con l’intenzione di ridurre i maghi in ginocchio in breve tempo: erano l’arma perfetta per muovere scacco, letale e facilmente impiegabile anche nelle zone più controllate del continente.
Ricordò come il giorno prima aveva visto morire tutti quei soldati sulla collina, vittime di una morte orribile, e provò a immaginare cosa sarebbe successo se un paio di quelle creature fossero penetrate all’interno della Corporazione. Sarebbe stata una carneficina, e in pochi istanti il regno dei maghi si sarebbe ritrovato senza nessuno a guidarlo, completamente in balìa del nemico. Sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale al pensiero di cosa avevano rischiato. Ma qualcos’altro si agitava in lei, un’emozione ben diversa dal sollievo per un pericolo scampato. Avevano usato delle creature come fossero degli oggetti senz’anima, sottoponendoli a chissà quali esperimenti. Anche i tagli infetti sulle mani di Namar dovevano essere il risultato dell’accurato lavoro di quegli scienziati.
Animali. Per i maghi, Namar e quelli della sua razza non erano altro che animali.
Giorno 10.
Abbiamo cominciato a condurre esperimenti su più fronti, nella speranza di scoprire il segreto di queste creature. Sono stati prelevati campioni di vari tessuti.”
Quali orrori doveva aver sopportato Namar? Quante volte aveva desiderato di fuggire o morire piuttosto che continuare a subire tutto questo? Ricordava bene la folla inferocita che lo accusava sette anni prima, mentre usciva dal dipartimento di polizia per essere condotto ad Artika. Vittime, che si accanivano contro uno di loro. E lei lo guardava avanzare tra la folla, senza sospettare l’orrore che Namar nascondeva.
Spero di riuscire a studiare la ghiandola nel loro cervello. Mi domando se un normale essere umano sia in grado di utilizzarla, se innestata nel suo encefalo.
Sari sbiancò, mentre un orrendo dubbio si insinuava in lei.
«Non possono essere arrivati a tanto. Non a questo.»
Eppure, qualcosa le diceva che si stava sbagliando. Tutte quelle persone arrestate e mandate ad Artika, quelle leggi così severe, la pena di morte… Tutto aveva l’aspetto di un disegno ordito apposta per procurare carne da macello. Cavie per esperimenti. Persone nate libere che pagavano le loro colpe con la più squallida e ingiusta delle pene.
Tutto questo, voluto da lui. Da Amos.
E poi c’era il suo modello, il padre buono e gentile che conosceva. L’esecutore di quegli abomini. Adrian.
Giorno 12.
È stata individuata una massa cellulare dietro le iridi dei morfisti: cattura l’intero spettro della luce, consentendo a queste creature di vedere al buio. Sono veramente eccitato dalla quantità di scoperte che stiamo facendo in questi giorni.
Sari divorò le righe sottostanti, con il cuore che batteva all’impazzata: una morsa gelida le stringeva il petto, e ogni parola che leggeva non faceva altro che rendere più grottesco l’orrore che trasudava da quelle pagine. Era un susseguirsi di esperimenti, riportati zelantemente. Anni e anni di studio, tutti documentati con delle immagini a completare il quadro.
Poi, alcune righe più sotto, la conferma ai suoi sospetti.
La Corporazione ha acconsentito a testare l’effetto di ghiandole morfistiche innestate in un cervello ospite, impegnandosi a rifornirci di materiale su cui fare ricerca. Abbiamo scelto cavie di razza umana dal momento che sono le più versatili per questo tipo di esprimenti: ci sono maggiori possibilità che le ghiandole che innesteremo nel loro encefalo non vengano rigettate. Il carcere da oggi diventa formalmente una dispensa di carne, come ha detto Amos. Siamo ottimisti.
Materiale umano. Dispensa di carne.
Ecco il perché di tutte quelle leggi assurde e restrittive: tutto era stato costruito per poter accusare il primo malcapitato e condannarlo, per avere nient’altro che delle cavie. Li aveva visti venire condotti ad Artika ogni giorno, molte volte gridare e pregare per non essere condannati a morte, ma a quel tempo non aveva minimamente sospettato che in realtà ci fosse di più. A quel pensiero, sentì un nodo formarsi alla bocca dello stomaco.
Riprese a leggere, ma nel voltare pagina la mano le tremò.
Abbiamo trapiantato una ghiandola da un morfista a un uomo. Il mutaforma ha riportato delle lesioni cerebrali dovute all’esportazione. L’uomo sembrerebbe per ora non rigettare la ghiandola, ma è ancora troppo presto per poterlo dire con sicurezza.”
E poi, molte righe più sotto:
Tutte le funzioni cognitive del morfista sono compromesse: l’area del linguaggio sembra essere quella che ha risentito maggiormente delle lesioni all’encefalo, anche se sembra riuscire a discriminare stimoli visivi e a mantenere nella memoria un cospicuo numero di informazioni. Quello che mi dà maggiori preoccupazioni è l‘umano, che non sembra riuscire a tollerare le onde emanate dalla ghiandola. È prossimo al collasso.
L’uomo è morto stamattina. Aveva i neuroni bruciati, come se avesse rivolto l’energia demoniaca della ghiandola contro se stesso. Voglio venire a capo del problema e scoprire che cos’ha causato il decesso del giovane.”
Seguivano decine e decine di esperimenti identici a quello che Sari aveva appena letto, e tutti finivano nello stesso modo: il morfista diventava poco più che un vegetale, e l’uomo destinato ad accogliere la ghiandola moriva sopraffatto dalle onde di quell’organo che il suo corpo non riconosceva.
Quel carcere era come una creatura che aveva un perverso bisogno di nutrirsi in continuazione dei suoi simili e lo nascondeva al mondo intero, che non aveva il minimo sospetto di cosa accadesse nelle viscere della prigione. Quel mostro aveva catturato innumerevoli vite, aveva giocato con loro, e le aveva inghiottite in silenzio senza che nessuno riuscisse mai a sapere la verità, facendole sparire per sempre. Loro erano lì, in quel fascicolo, e gridavano giustizia a voce alta.
Sari ascoltava i loro lamenti silenziosi, sentiva le loro grida attraverso le pagine che leggeva, e a ogni parola quel nodo che le chiudeva lo stomaco diventava sempre più opprimente.
Quando voltò l’ennesima pagina che testimoniava dodici anni di abominevoli esperimenti, si ritrovò a guardare l’immagine di Namar. Era una piccola foto sbiadita e consumata che lo ritraeva decisamente meno sfiorito, ma con lo sguardo rassegnato.
Quando era arrivato ad Artika, probabilmente era convinto che sarebbe marcito lì dentro fino alla morte. Non poteva biasimarlo per desiderare la libertà a tutti i costi, non dopo quanto aveva appena scoperto. Cominciò a leggere la sua scheda, che si presentava come un altro susseguirsi di osservazioni, esperimenti e risultati.
Il prigioniero è stato condotto ad Artika ieri. Mi sono sorpreso quando ho scoperto che è un morfista, dal momento che mi avevano assicurato che tutti gli esemplari provenienti da Shaula erano stati catturati. A causa dei disastrosi studi condotti sulle ghiandole degli altri esemplari, non sono rimasti molti morfisti sani su cui condurre esperimenti. Amos è concorde nell’adottare una linea differente con questo soggetto: verranno testate le conseguenze della mancanza di luce prolungata su queste creature, e nel frattempo cercheremo di ampliare le nostre conoscenze prelevando campioni di tessuti e di sangue.
Tutto stava acquistando un senso, e le sembrò terribile. Suo padre –il suo eroe- era immerso fino al collo in quella faccenda, aveva condotto lui stesso quegli esperimenti, aveva redatto lui quegli scritti. L’aveva sempre visto sotto una luce immacolata, ma all’improvviso dovette rendersi conto della verità: aveva perso la perfezione del suo ricordo, l’ultima cosa che le restava di lui. Mai come in quel momento avrebbe desiderato che il padre fosse vivo. Avrebbe voluto che le spiegasse, che le dicesse che soffriva per quello che aveva fatto e che più volte aveva avuto dubbi sul suo lavoro. Ma non era possibile.
All’improvviso, il terrore che Adrian potesse assomigliare ad Amos l’agghiacciò.
Aveva sempre dimostrato di essere un padre affettuoso e premuroso, ma Sari non aveva mai avuto occasione di vederlo in ambiti diversi. Aveva mentito a lei e a sua madre su ciò che faceva ad Artika, e le volte in cui tornava a casa appariva completamente sereno, come se il suo fosse un lavoro come un altro. In tutti quegli anni non gli aveva mai visto in viso un’espressione colpevole o preoccupata. Aveva sempre il sorriso sulle labbra. Dissimulava bene, proprio come il nonno.
E tutto questo non faceva altro che alimentare la rabbia di Sari.
Infine, non poteva dimenticarsi di Amos: il vero carnefice, che godeva ancora del potere che gli dava la sua posizione all’interno della Corporazione.
Se ne stava al sicuro, forte della sua posizione, impunito.
E se prima poteva avere dei dubbi, ora Sari non ne aveva nessuno: Amos era un demonio in un corpo da uomo anziano, un genio diabolico e inarrestabile che sapeva celare i pensieri più terribili dietro espressioni distaccate. Era il nemico vestito da amico.
La sua autorità incuteva timore, e la sua parola era sufficiente per decretare il destino di molte persone. Dietro a quel massacro c’era lui.
Lui, che aveva scelto di studiare i segreti dei demoni. Lui, che aveva imposto a terzi di macchiarsi le mani mentre se ne stava nelle sue stanze a guardare il mondo sotto i suoi piedi tremare a ogni respiro.
Lui, che le aveva rubato l’unica cosa che Sari era sicura di non potere mai perdere: i preziosi ricordi di suo padre.
Mentre riponeva il fascicolo dove l’aveva trovato, decise che Amos avrebbe pagato per ogni cosa. Presto o tardi tutti avrebbero saputo, e allora nessuno avrebbe più accettato di riporre la propria vita nelle mani di quel mago.
Era solo questione di tempo, ma avrebbe pagato per ogni cosa, e Namar sarebbe potuto tornare definitivamente libero.


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Capitolo 21
*** una persona importante ***


20



20.

UNA PERSONA IMPORTANTE



*


Sari rimase ferma davanti alla porta, con il pugno a mezz’aria pronta per bussare ma senza il coraggio per farlo.
Come avrebbe fatto a guardare in faccia sua madre e a sorriderle dopo aver saputo la verità su suo padre? Da quand’era partita per Artika non l’aveva più vista e Sari era stata così codarda da rivolgersi alla vicina di casa per sapere come stava sua madre.
Sapeva che era stata dimessa dall’ospedale pochi giorni dopo la sua partenza per il carcere, e la donna che abitava dall’altra parte della strada le aveva raccontato che Emma non stava affatto bene.
Dopo la morte del marito era caduta in uno stato depressivo, e la preoccupazione per la vita della figlia non faceva altro che peggiorare il suo umore.
E ora Sari era lì, davanti a quella porta che la separava dalla madre. E non sapeva come avrebbe
fatto a sorriderle.
«Forza Sari» si fece coraggio, respirando profondamente. Bussò, con il cuore in gola.
Quando sentì la serratura scattare, pensò che le sarebbe scoppiato nel petto.
Sorridi.
Sua madre era di fronte a lei, ed era solo lo spettro della donna felice e gioiosa che era stata in passato. Inizialmente sembrò non riconoscerla.
Sorridi.
«Ciao mamma.»
«Sari?» la donna la guardò come se avesse davanti un fantasma. L’istante successivo le gettò le braccia al collo, con le lacrime agli occhi. E fu sufficiente per far crollare Sari.
Pianse.
Per la paura che le aveva fatto compagnia nel profondo del suo cuore da quando era cominciata tutta quella storia. Per il sollievo di essere finalmente a casa, con sua madre.
Per quel segreto terribile che riguardava suo padre, un segreto che portava dentro e che non poteva assolutamente rivelarle.
E sua madre la abbracciò tremante, senza mai lasciarla andare.


*

Quando Sari lasciò la casa dei propri genitori, un paio di ore dopo il suo arrivo, il morale non era propriamente dei migliori. Aveva tranquillizzato sua madre, le aveva assicurato che non c’era più nulla da temere.
In realtà le aveva detto una bugia bella e buona.
Del resto, che cosa avrebbe potuto dirle? Renderla partecipe di quello che stava succedendo, significava dirle la verità riguardo ad Adrian.
E Sari era certa di una cosa: sua madre non avrebbe saputo tollerare un tale dispiacere.
Quando fece ritorno alla Corporazione, corse subito in camera. Si coprì gli occhi con un braccio e sospirò, pensando a Namar.
Lo rivide incatenato in quella cella, e immaginò che cosa dovesse aver provato in tutti quegli anni. Per quanto si sforzasse, però, sapeva bene che non lo avrebbe mai davvero capito. Non aveva idea di cosa volesse dire nascere e vivere tra le mura di un laboratorio, vedere il proprio destino segnato ed essere trattato come carne da macello. Non poteva sapere cosa volesse dire assaporare la libertà, vederla rubata e infine ritrovarsi insperatamente a difenderla.
L’unica cosa che sapeva perfettamente era che non avrebbe mai permesso ad Amos di mettere di nuovo le mani su Namar, non dopo quanto aveva appena scoperto.
Si mise a sedere, improvvisamente nel panico. Namar stava arrivando per salvarla. Stava venendo verso l’uomo che aveva mobilitato l’esercito per catturarlo, dritto nella tana del lupo.
Doveva impedirglielo, a tutti i costi.
Si catapultò verso la porta, ma un pensiero la bloccò. Non aveva idea di come poterlo contattare per dirgli che non doveva assolutamente venire. Con un gemito frustrato si accasciò a terra, con la schiena contro la porta. Doveva pensare.
Namar le aveva sussurrato all’orecchio che sarebbe venuto da lei, prima di gettarsi dalla scogliera. Sapeva che lei era in pericolo. Probabilmente non doveva essere neppure troppo lontano, pensò, quando all’improvviso si ricordò del colpo infertogli da Rider.
Per un breve istante si sentì gelare le ossa, e un brivido serpeggiò lungo la schiena.
Era ferito.
Si alzò senza pensare e uscì di corsa dalla stanza. Si guardò attorno nel panico, come se potesse intravedere nei corridoi la figura familiare di Namar da un momento all’altro. Poco importava che non fosse possibile: il terrore si era impadronito di Sari e sembrava non volerla lasciare.
La ragazza corse fino alle scale che portavano al giardino, e le discese così velocemente che per poco non inciampò.
Il primo pensiero fu di guardare verso il cielo: forse Namar stava volteggiando da qualche parte tra le correnti d’aria, cavalcandole con leggerezza mentre sorvolava la città.
Ma era stato colpito dal raggio di Rider.
Se si fosse nascosto in qualche buco putrido e sporco, ferito e stanco, come avrebbe potuto aiutarlo?
«No, non può essere.»
Non potrei aiutarlo, pensò. Namar era da qualche parte, e aveva intenzione di venire a Rosya per lei: questo era quello che più importava, e che più spaventava Sari. Doveva proteggerlo, impedendogli di avvicinarsi così tanto ad Amos. All’improvviso le vennero in mente due nomi, a cui non aveva minimamente pensato in quel turbine di eventi e pensieri. Amaya e Silver.
Anche loro erano ad Assen quando il C.S.M. li aveva inseguiti, e nonostante si fossero separati durante la fuga, erano l’unico punto di riferimento per Namar. Le uniche persone a cui avrebbe potuto chiedere aiuto.
Se voleva avere una possibilità di sapere dov’era, doveva cercare di mettersi in contatto con loro. Si fiondò verso le scale salendo due scalini alla volta, e tornò nella sua stanza. Quando entrò, saltò gli oggetti che stavano ancora per terra e raggiunse i vestiti che indossava quand’era arrivata e che giacevano scomposti sopra lo schienale di una poltrona. Frugò dentro le tasche dei suoi pantaloni. La mano si chiuse su qualcosa di metallico e freddo. L’orologio che aveva regalato a suo padre. Lo tirò fuori e lo guardò: quel piccolo dono era la causa di tutto. Lo mise nella tasca della giacca che indossava, ripromettendosi di non fare mai più lo sbaglio di lasciare in giro un oggetto del genere. Era consapevole che non poteva assolutamente rimanere incustodito, e che doveva venire aperto al più presto per scoprire che cosa conteneva. Ma c’era una cosa ancora più importante da fare.
Sari cacciò la mano nell’altra tasca dei pantaloni, sicura che questa vola avrebbe trovato ciò che cercava: infilò la mano nel Ragno, e avvertì il contatto del palmo con la pietra nera, gelida e liscia, che nell’istante successivo si accese di venature dorate. Le pagliuzze si espansero, finché la pietra non fu di un unico colore d’oro, e cominciò a brillare.
«Amaya?»
Nessuno rispose. Sari si morse il labbro. Sentiva il cuore batterle furioso nel petto.
«Amaya, mi senti?»
L’istante successivo non successe nulla, di nuovo. Poi finalmente una voce rispose all’appello della psicologa.
«Sari?»
Era Amaya. Sari tirò un sospiro di sollievo, e si sentì immediatamente più tranquilla. Ce l’aveva fatta, era riuscita a mettersi in contatto con la sua amica. Il suo secondo pensiero fu che a giudicare dal tono di voce, l’elfa doveva essere piuttosto sorpresa di sentirla. Una cosa che le fece uno strano effetto e le diede una sensazione per nulla piacevole.
«Sari, stai bene?»
La voce di Amaya, filtrata attraverso il Ragno, sembrava decisamente preoccupata. Sari si accigliò, spiazzata. Avevano trovato Namar e lui gli aveva detto che lei era in pericolo, o erano soli e pensavano che lei e l’evaso fossero ancora braccati dal C.S.M.? Tra le due opzioni, Sari sperò nella prima.
«Certo. Piuttosto Amaya…»
«Lui non ti ha fatto nulla, vero?» la interruppe.
Il cuore di Sari mancò un battito. Namar li aveva avvisati. Era con loro. Sentì la tensione scendere di colpo. «Namar è con voi?»
«Era. Ma hai sentito quello che ti ho detto Sari? Quel tizio…»
«Lo so Amaya. Mi ha aggredita.»
Dall’altra parte ci fu un pesante silenzio. Sari sorrise, sapendo che quello era il tipico segno che precedeva l’esplosione. Attese la reazione di Amaya in silenzio, ma dentro di sé pensava alle parole dell’elfa.
Era. Il significato di quella parola non le piaceva molto.
«Che cosa?!» Amaya era spiazzata, Sari lo capì chiaramente. «Cos’è successo?»
«Nulla di grave, stai tranquilla. Voleva qualcosa, era convinto che ce l’avessi io. Penso si tratti dell’orologio.»
«Ma l’hanno preso?»
Sari sospirò. La conversazione le stava riportando alla mente preoccupazioni e ricordi spiacevoli. Si passò una mano tra i capelli, nervosa.
«No. È lì fuori, da qualche parte.»
Dall’altra parte ci fu di nuovo silenzio. Probabilmente l’elfa non si aspettava quella risposta, e Sari avrebbe desiderato dargliene una diversa.
«Ti stanno tenendo sotto scorta?»
Le venne quasi da ridere. L’idea che Amos potesse fare una cosa del genere rasentava la comicità.
«No. Comunque non c’è bisogno che ti preoccupi, sto bene.»
«Come fai a dire che non c’è bisogno di preoccuparmi? Sari, il tizio che ti ha aggredita è lì fuori, e potrebbe rifarlo.»
Sorrise. In effetti avrebbe potuto, ma stranamente lei aveva accettato il fatto che non poteva pretendere protezione da Amos. Forse se avesse saputo chi era realmente colui che l’aveva aggredita, si sarebbe deciso ad assegnarle una scorta, ma l’idea di far sapere ad Amos che un altro dei suoi preziosi morfisti era ancora in libertà le faceva venire la pelle d’oca. Preferiva rischiare il peggio, piuttosto che aiutare quel vecchio a raggiungere i suoi scopi.
«Prima hai detto che Namar era con voi. Dov’è ora?» tentò di evitare l’argomento Jariel, cercando di ottenere così anche informazioni sull’evaso.
«Lo abbiamo lasciato con Volker, ma non cambiare discorso.»
Quella era una risposta che Sari non si aspettava. Lo ricordava ferito; saperlo in giro era una delle ultime cose che si sarebbe aspettata.
«E dove sono?» domandò, ignorando volutamente l’ammonizione di Amaya, che sospirò accogliendo la decisione dell’amica di non continuare il discorso riguardante l’aggressione subita.
«Volker l’ha portato a Rosya da un medico di sua conoscenza. Non so se lo sai, ma era ferito.»
«Sí, questo lo sapevo» annuì Sari con sollievo.
Lo stavano aiutando.
«Però forse c’è una cosa che non sai.»
Il cuore di Sari le salì in gola, minacciando di non voler più scendere. Sentì riaffiorare quel presentimento spiacevole e familiare.
«Eravamo quasi entrati in città quando le condizioni di Namar si sono aggravate.»
La psicologa non seppe cosa rispondere, totalmente colta alla sprovvista. Cominciò ad aver paura di cosa quelle parole significassero. Non era sicura di volerne sapere di più, ma le sue labbra si mossero prima che lei potesse fermarle.
«Che cosa gli è successo?»
Si stupì di come il suo tono fosse così concitato.
«Ha perso conoscenza.»
Sari sbiancò. Se era svenuto probabilmente aveva perduto molto sangue, non le venivano in mente molti altri motivi. Si coprì la fronte con la mano, e venne aggredita dallo sconforto. Non sapeva cosa doveva fare, ed era terrorizzata. Aveva paura che le sue condizioni potessero aggravarsi ulteriormente, portando Namar tra la vita e la morte.
A quel pensiero, una morsa le attanagliò il cuore, e si stupì dell’intensità di ciò che provava. Aveva paura di perdere Namar, questo era innegabile, ma le sfuggiva il motivo. I suoi sentimenti erano confusi, senza una forma precisa, e fare ordine tra essi era un’impresa non da poco. Soprattutto in quel momento.
«Sari, ci sei?»
La voce di Amaya la riportò alla realtà.
«Sì, scusami. Dov’è questo medico?»
«Nel quartiere Est.»
Voleva vederlo. Desiderava sapere come stava, ne sentiva il bisogno. Non poteva rimanere un momento di più chiusa in quel palazzo, circondata da gente ipocrita, che faceva solitamente il proprio interesse senza guardare in faccia nessuno.
Fu una decisione che prese senza neppure pensare, ma nell’istante in cui parlò, Sari seppe che non avrebbe potuto prendere in considerazione nessun’altra opzione.
«Puoi portarmi da Namar?»

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Capitolo 22
*** verità ***


cap
Mancano tre capitoli alla fine senza contare questo, epilogo compreso. La zona rossa sta per arrivare alla fine, ma nei miei piani (che avevano progettato questa storia come una trilogia) mancherebbero altri due “libri”. Sarò sincera: non ho la più pallida idea di quando vedranno la luce, ho talmente tante cose da fare e da scrivere che non saprei proprio quantificarlo. Cercherò di capirlo, ma nel frattempo vi lascio al capitolo.
Un bacio e buona lettura.




21.

VERITÀ

*


Volker non riusciva a capire che cosa fosse successo. Durante il viaggio aveva controllato spesso la ferita di Namar e, grazie alla medicazione improvvisata, l’emorragia sembrava essersi fermata.
Erano stati fortunati oltre ogni previsione: erano riusciti a rubare un automobile che, nonostante fosse piuttosto vecchia e facesse un rumore assordante, era pur sempre più comoda e veloce di un cavallo. Ma non era bastato per evitare a Namar un viaggio troppo stancante per una persona nelle sue condizioni.
Aveva notato come l’evaso stesse sempre peggio. All’inizio Namar aveva accusato un mal di testa localizzato, che secondo il suo parere avrebbe potuto spaccargli il cranio a metà. Ma Volker non gli aveva dato molta importanza.
Poi il dolore aveva cominciato a espandersi, e tre ore dopo erano cominciati i sudori freddi.
Preoccupato, Volker aveva fatto il possibile per sbrigarsi a raggiungere Rosya, costringendo la vecchia auto a compiere un notevole sforzo. Aveva cominciato ad agitarsi quando aveva visto Namar tremare, e soltanto allora notò quanto il viso dell’evaso fosse pallido, stanco e sofferente.
Aveva perso conoscenza a pochi chilometri dalle porte di Rosya.
Erano entrati nella città passando per la zona Est, il quartiere più malfamato e meno controllato della capitale. Quando Volker era entrato in una di quelle case vecchie e ammuffite, che si distingueva dalle altre per l’unica eccezione di un’insegna di legno che recitava “casa del malato”, il dottore aveva guardato ciò che reggeva in braccio con espressione allarmata: un corpo molle la cui testa ciondolava all’indietro, il volto bianco come un lenzuolo. Namar sembrava morto.
Ora Volker se ne stava lì, a guardare il dottore che controllava la ferita e a pensare a cosa potesse essere successo. Era sicuro che il suo malessere non fosse dipeso dal sangue che aveva perso. Era riuscito a fermare l’emorragia, e per un po’ Namar sembrava addirittura stare abbastanza bene. Tutto era cominciato dopo.
Se avesse perso troppo sangue sarebbe svenuto subito, si disse. Doveva essere qualcos’altro.
«Come sta?» domandò al dottore.
«Non c’è emorragia. La ferita deve essere pulita e disinfettata spesso, ma guarirà.»
Volker guardò con aria scettica il medico, che armeggiava con diversi flaconi e delle bende.
«E lo svenimento che ha avuto?»
Il dottore fece spallucce. «Stanchezza. Con una nottata di sonno riprenderà le forze.»
Volker non disse nulla, ma dentro di sé era perplesso: quelli non erano sintomi di stanchezza. Qualcosa in Namar aveva ceduto, facendolo sprofondare con sé.
Guardò il dottore applicare la medicazione, e lo seguì con lo sguardo anche quando scomparve oltre una porta e riapparve alcuni istanti dopo, reggendo una coperta tra le braccia. Il medico gli fece cenno di avvicinarsi a Namar.
«Levagli le scarpe, starà più comodo.»
Volker fece come gli venne chiesto, e la prima scarpa scivolò con facilità dal piede di Namar. Ma quando sfilò la seconda, Volker rimase impietrito e lasciò cadere la scarpa, che cascò a terra con un tonfo: sulla pianta del piede era marchiata a fuoco una M.
Una M che lui conosceva. Una M che faceva parte del suo passato, che apparteneva a ricordi che lo perseguitavano. E all’improvviso capì ogni cosa.
Probabilmente aveva un’espressione attonita, perché il dottore si precipitò al suo fianco non appena si rese conto che Volker non si muoveva, fermo a fissare quello strano simbolo. Ma quando si rese conto di ciò che stava guardando- di quanto fosse insignificante, rispetto all’avere un paziente incosciente su letto-, il medico tornò al fianco di Namar.
«Forza giovanotto, è ora di muoversi.»
Volker lo guardò serio. Sentiva un peso di cui doveva liberarsi, ma sapeva anche che probabilmente non gli avrebbe creduto. Aprì la bocca per parlare, per spiegare che quello che stavano facendo era completamente inutile, ma non ne ebbe il tempo: la porta alle loro spalle si aprì all’improvviso, e Volker non si stupì affatto di trovarsi davanti Sari, in compagnia di Amaya e Silver.
La ragazza sembrava piuttosto preoccupata, e si lasciò sfuggire un leggero gemito quando vide Namar sdraiato sul letto, privo di conoscenza. Volker si fece da parte per lasciarla passare, imitato dal dottore.
«Come sta?» domandò Sari. Era preoccupata, e la voce tremante non contribuiva certo a nascondere la cosa. Il medico le si avvicinò sorridendole bonariamente.
«La ferita non sanguina più. Il tuo amico avrà soltanto bisogno di riposare per riacquistare le forze, dopo di che tornerà come nuovo.»
«Va bene, grazie» Sari abbozzò un sorriso sollevato, ma Volker non era affatto sereno. Continuava a guardare Namar senza riuscire a non pensare, e ad Amaya non sfuggì la preoccupazione che gli lesse nell’unico occhio che aveva.
Avrebbe voluto indurlo a confidarsi, ma quello non era il momento migliore. Colse l’occasione al volo una decina di minuti più tardi, quando uscirono dall’ambulatorio.
«C’è qualcosa che non va.»
«Già» mormorò Volker distrattamente, guardando altrove.
Sari e Silver, dietro ai due, ascoltarono in silenzio.
«Mi sto riferendo a te, Volker. È da quando siamo arrivati che hai la testa altrove.»
Quelle parole sembrarono riscuoterlo. Guardò Amaya senza capire che cosa intendesse, e quando ricevette soltanto uno sguardo accusatorio dall’elfa, si voltò verso Sari e Silver, che non seppero cosa dire in sua difesa.
Volker sospirò, grattandosi la nuca in difficoltà. Aveva spesso questa reazione, quand’era messo alle strette.
«Non mi credereste mai se vi raccontassi che cos’ho per la testa.»
Alle sue spalle, Sari rise sommessamente. Una risata distratta, amara. «Sí, pure io.»
«Ha qualcosa a che fare con Namar?» domandò Silver.
«Direi proprio di sí» Volker sospirò di nuovo, e Sari tese l’orecchio, improvvisamente attenta. L’uomo sospirò, grattandosi di nuovo la nuca. Cominciò a ridacchiare nervosamente, guardando per terra. Si sentiva a disagio.
«Mi prenderete per pazzo.»
Amaya alzò lo sguardo verso il cielo, sospirando: «Piantala di preoccuparti, ti assicuro che sei ben lontano da una diagnosi di schizofrenia.»
Volker fece per risponderle, ma Sari fu più veloce. Articolò le parole senza neppure rendersene conto.
«Se ha a che fare con la vita di Namar, ti prego di raccontarci tutto.»
L’uomo si voltò verso di lei e annuì. L’espressione sul suo viso era grave, e per un attimo Sari ebbe timore di ciò che le avrebbe detto Volker.
«Prima dovete sapere che cos’è veramente Namar.»
«Io lo so.»
Fu un’affermazione inaspettata. Amaya e Silver guardarono Sari confusi, senza riuscire a capire. Ma Volker… Volker era stupito, quasi sconvolto. E guardava la ragazza come se avesse davanti un fantasma.
«… lo sai?»
«Intendi il fatto che sia un morfista?»
Volker era sempre più spiazzato. Improvvisamente, nei loro sguardi ci fu qualcosa, una comprensione che aveva un sapore amaro e terribile.
«Come fai a sapere dei morfisti?»
«Ho trovato i rapporti degli esperimenti condotti ad Artika nella biblioteca della Corporazione.»
L’orrore si dipinse sul viso di Volker, che si coprì la bocca con la mano.
«Allora è vero, facevano esperimenti…»
Sari annuì, ma Silver si intromise tra i due.
«Fermi tutti. Credo ci siano un po’ di cose che dovreste spiegare anche a me e ad Amaya.»
«Sono d’accordo» annuì l’elfa. Sari guardò gli amici, cercando le parole adatte per affrontare ciò che doveva dire. Sentiva un enorme peso opprimerle lo stomaco all’idea di ciò che avrebbe dovuto raccontare.
«Avete ragione. Ho scoperto cose che non avrei mai creduto possibili, sul conto di mio padre e di Artika. Il carcere è una facciata che la Corporazione usa per coprire degli esperimenti su cavie umane.»
Amaya e Silver la guardarono sgomenti, e Sari ebbe un assaggio di come doveva esser stato il suo sguardo nel momento in cui aveva letto quei rapporti. Prima pieno d’orrore e in seguito colmo di rabbia. Continuò a raccontare, ben sapendo che la pena sarebbe soltanto potuta aumentare.
«I maghi avevano trovato delle creature create in un laboratorio demoniaco, capaci di assumere qualunque sembianza e in grado di uccidere molte persone diffondendo delle onde di energia demoniaca, prodotte nel cervello. Si chiamano morfisti. Quasi tutte queste creature sono decedute durante gli esperimenti, assieme agli esseri umani su cui i maghi avevano tentato di innestare le ghiandole.»
E com’era prevedibile, quel racconto diffuse l’orrore nello sguardo di Silver e Amaya. Volker guardava per terra, incapace di sopportare ciò che poteva leggere nei loro volti, ma il magone che sentiva dentro non voleva saperne di alleggerirsi.
Per quanto le costasse continuare a raccontare ciò che aveva letto, Sari non voleva fermarsi. Dovevano sapere. Almeno loro dovevano conoscere quello che avevano fatto i maghi e, soprattutto, dovevano concedere una seconda possibilità a Namar. Non sarebbe più stato il carnefice.
«Namar è un morfista, l’unico a essere sopravissuto agli esperimenti condotti dai maghi.»
«Ciò non toglie che Namar sia un assassino.»
Sari rimase basita dall’affermazione di Silver. Lo guardò senza riuscire a comprendere la portata di quanto il poliziotto aveva appena detto.
«Come?»
Silver sbuffò.
«Andiamo Sari, se questi morfisti possono uccidere più persone nello stesso luogo e nello stesso momento tramite queste onde, vuol dire che Namar ha davvero cancellato una città dalla faccia della terra!»
Il tono con cui la stava aggredendo le fece salire il sangue alla testa. Rispose senza neppure pensare.
«Hai provato a pensare a che effetti possano avere quelle onde sul controllo di un morfista? Ti sei soffermato a considerarlo, prima di giudicare?» alzò la voce, e a mala pena fece caso ad Amaya che, al suo fianco, cercava di riportarla alla calma.
Silver per tutta risposta ridacchiò, incredulo.
«Io? Dovresti essere tu a soffermarti su quello che stai dicendo, Sari. Stai difendendo uno che con o senza le onde ha ucciso in una manciata di secondi migliaia di persone! Stai difendendo un assassino!» anche Silver cominciò ad alzare la voce.
«Smettetela, o qualcuno vi sentirà» intervenne Volker, ma anche i suoi sforzi erano vani di fronte allo sdegno della psicologa.
«Credi che lo volesse?!»
«E tu credi di conoscerlo così bene da poter essere sicura che non lo volesse?!»
Un pugno ben assestato contro lo zigomo di Silver lo costrinse a desistere dal litigio. Il poliziotto si coprì la mandibola, e guardò Volker furente. Anche Sari rimase spiazzata dalla reazione del detenuto.
«La prossima volta ti lascio ad Artika» borbottò il poliziotto senza allontanare la mano dal viso. Volker per tutta risposa fece spallucce abbozzando un sorrisetto gioviale, godendosi l’applauso che Amaya gli rivolgeva.
«Era l’unico modo per farvi smettere. Ora avrei io qualcosa da raccontarvi, basta che non cominciate a litigare un’altra volta.»
Silver esitò qualche istante massaggiandosi la mascella e infine annuì. Sari, a sua volta, gli fece cenno di parlare.
«So cos’ha Namar, ma penso che prima vogliate sapere cosa c’entro in tutto questo.»
Nessuno rispose. Tutti e tre guardavano Volker in trepida attesa. L’uomo sorrise.
Un sorriso amaro.
Colpevole.
Stanco.
«Sono io che ho creato i morfisti.»

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Capitolo 23
*** l'identità dietro la maschera ***


23
Non ci sono scuse per questo ritardo, soprattutto considerando il fatto che i restanti capitoli di questa prima parte di trilogia sono belli che pronti. Metteteci i pensieri per gli ultimi esami prima della laurea, l'estate che svuota il sito e i pochi (e per fortuna che ci sono!) riscontri che questa storia sta avendo, e credo che abbiate un'idea del mix che mi ha portata a pubblicare soltanto adesso. Ma come mi ha giustamente fatto notare savy85, è passato tanto tempo dalla mia ultima pubblicazione. Davvero tanto. E non ve lo meritate.
Penultimo capitolo, poi ci sarà l'epilogo.
Buona lettura, se ancora vorrete leggere (ma se direte no grazie vi capisco!)






22.
L'IDENTITÀ DIETRO LA MASCHERA

*


La reazione a quella notizia non fu proprio quella che Volker si aspettava. Aveva immaginato un silenzio pesante, carico di incredulità, stupore e forse addirittura di disagio, ma non avrebbe mai immaginato che i suoi confidenti si sarebbero messi a ridere. Eppure in quel momento Amaya, Silver e Sari si guardavano ridendo.
Volker li osservava contrariato con le braccia conserte, come se fosse offeso.
«Mi fa piacere sapere che la cosa vi diverte.»
Fu come una doccia fredda: la sua espressione grave e il tono di voce severo soffocarono le risate all’improvviso. Sari e Silver si scambiarono sguardi colpevoli, dimenticando gli screzi avuti poco prima, e Amaya sollevò le mani in un gesto di resa.
«Scusa, continua.»
Volker rimase in silenzio per un istante, studiando i volti dei tre per cogliere un accenno di risata. Riprese a parlare soltanto quando vide che il momento d’ilarità sembrava essere davvero terminato.
E il racconto della genesi di ogni cosa cominciò.


*


Volker Kramer aveva un talento straordinario. All’università di Rosya brillava su tutti i suoi compagni e sembrava che tutto gli riuscisse con estrema facilità. Studiare gli risultava decisamente semplice, e riusciva a comprendere anche la materia più ostica senza troppi sforzi. Da piccolo non era certo un bambino prodigio, ma gli piaceva la conoscenza. Fu così che divenne un genetista.
La sua ossessione era comprendere l’origine della personalità. I suoi studi al riguardo erano piuttosto noti tra i suoi colleghi, mentre riscuotevano le antipatie dei pensatori che simpatizzavano per il filone ambientale. La ricerca di un gene che racchiudeva in sé la personalità futura di un piccolo feto lo impegnava molto, ma non ne sentiva il peso.
La sua vita sociale risentiva del tempo che il giovane passava chinato sul bancone da lavoro, circondato da provette e vetrini, ma le soddisfazioni che il lavoro gli dava lo ripagavano dei sacrifici che faceva ogni giorno.
Finché questa sua dedizione non venne notata dalle persone sbagliate.
Soltanto i muri di un vicoletto assistettero alla sua aggressione. Volker non fece neppure in tempo a voltarsi: quando sentì dei passi alle sue spalle, ormai era già tardi. Qualcuno lo colpì con violenza alla nuca, il cielo si capovolse, e infine ci fu il buio.
Quando rinvenne, non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto privo di sensi. L’unica cosa che sapeva era che la testa gli faceva male, e che era rinchiuso in una cella umida.
Davanti a lui c’era un corridoio di pietra, che finiva con delle scale che salivano chissà dove. Cominciava ad avere timore. Si alzò in piedi e scrutò il corridoio: non c’era nessuno, neppure un secondino.
Chiamò una, due, tre volte. Nessuno rispose. Stava cominciando ad arrabbiarsi. Voleva delle spiegazioni, e le voleva subito. Aspettò un’ora o forse anche di più, ma alla fine qualcuno arrivò. Sentì dei passi scendere gli scalini, finché non lo vide: un uomo alto, dai capelli lisci e neri, lunghi fino a metà busto. Il suo viso, illuminato dalla luce di una torcia, aveva lineamenti affilati. I suoi occhi sembravano non voler abbandonare la figura di Volker che, nella sua cella, già sentiva che quel tipo non gli ispirava fiducia. Quando guardò la figura che si trascinava dietro di lui, reggendo un vassoio in mano, quasi sobbalzò dal ribrezzo: il suo corpo aveva una forma umanoide, ma era leggermente ricurvo. La sua pelle era rugosa e grigiastra, e quando la creatura oltrepassò l’uomo, alla luce della torcia sembrò anche bagnata. Ma ciò che più impressionava Volker era il volto: la bocca mostruosa lo rendeva inquietante, deturpandone i lineamenti. Infiniti denti uscivano dalle gengive, acuminati come aghi, e le labbra non riuscivano a coprire quella fila di zanne gialle. Sembrava un’immagine onirica, una creatura nata dalla parte più oscura delle proprie paure. Eppure era reale.
La creatura fece scorrere il vassoio sotto le sbarre della cella, e Volker lo guardò con sospetto. L’uomo sembrò trovare la cosa divertente.
«Suppongo che sia la prima volta che vedi un Abixal.»
Volker lo guardò senza capire, e l’uomo indicò con un cenno del capo la creatura accanto a lui, che gorgogliava sputacchiando versi senza senso.
«Siete demoni?»
L’uomo annuì, porgendo la torcia all’Abixal. La creatura la afferrò, stando però ben attento a distogliere lo sguardo dalla fonte della luce.
«I loro occhi non riescono a sopportare fonti luminose troppo intense o vicine, dal momento che
vivono in zone buie e umide. Tuttavia hanno un quoziente intellettivo straordinario, cosa
decisamente rara per un Minor… Sai che cos’è un Minor, vero?»
«Al momento mi interesserebbe di più sapere il motivo per cui sono prigioniero, piuttosto che
sapere cos’è un Minor» sbottò Volker con lo sguardo ben piantato su quell’uomo, che sorrise. Un sorriso meschino, tipico di un demone.
«Ho una proposta da farti. Una proposta che non potrai rifiutare, s’intende.»


*


Non aveva afferrato il reale significato di quelle parole. Non immaginava neanche lontanamente fin dove si spingesse la minaccia velata che vi si nascondeva dietro. Quando quel demone –Sarmon il suo nome- gli espose la proposta, Volker rifiutò sdegnato. Avrebbe dovuto costruire un’arma di distruzione di massa. Un’arma letale. Infallibile. Perfetta.
Avrebbe dovuto sfruttare le sue conoscenze nel campo della genetica per generare creature artificiali. Vite nate per donare la morte.
L’idea lo riempiva d’orrore.
Il suo rifiuto non piacque affatto a Sarmon, che dimostrò la sua disapprovazione per quella risposta privando Volker di una parte del corpo. La notte in cui il demone scese nei sotterranei del laboratorio, impugnando un tizzone ardente, le grida del prigioniero rimbombarono nelle viscere della terra per istanti interminabili, spargendo il loro carico di atrocità. Da quel giorno a Volker rimase soltanto l’occhio destro, eppure la tortura subita non fu sufficiente a far desistere l’uomo dalla sua posizione.
Quando Sarmon gli ripropose di collaborare con i demoni, la risposta che ottenne fu nuovamente negativa. E per Volker si spalancarono le porte dell’inferno.
Tutto partì dalla testa: quando la mano gelida del demone si posò sulla fronte ,il suo corpo, tenero e fragile, venne scosso da atroci dolori e spasmi insopportabili. Scariche elettriche si insinuavano nelle fibre più nascoste dei muscoli. Volker cadde a terra contorcendosi su se stesso, gridando come credeva di non poter mai fare in vita sua, e per la prima volta da quand’era stato rapito era davvero terrorizzato.
Una paura folle. E un dolore indicibile.
Tutto terminò con una luce che si irradiava dal suo petto, e all’improvviso la sola cosa che sentì fu un grande indolenzimento: poco sotto la clavicola era comparso uno strano marchio, una specie di cerchio arcano con simboli magici. Guardò Sarmon tremante, e ciò che lesse nei suoi occhi non gli piacque per niente. Aveva lo sguardo del vincitore.
«È un sigillo.»
«Cosa mi hai fatto?» il sussurro di Volker era debole, ma pieno d’ira.
Sarmon sogghignò.
«Ora dentro di te si sta diffondendo un cancro. Sai cos’è l’energia demoniaca?»
«COSA MI HAI FATTO?!» il grido di Volker era disperato. Le mani gli tremavano, come probabilmente tutto il resto del corpo, ma la sola cosa che l’uomo sentiva chiaramente era che, se si fosse sentito un po’ più in forze, gli avrebbe spaccato la faccia.
«L’energia demoniaca è la linfa vitale che scorre in noi demoni. Ovviamente il nostro corpo è compatibile ed è tenuto in vita da questa linfa, ma il corpo umano è del tutto diverso da quello della mia razza. Un essere umano in cui venisse diffusa l’energia demoniaca non riuscirebbe a sopravvivere a lungo, perché essa lo divorerebbe lentamente, donandogli dolori atroci che diventerebbero insopportabili con lo scorrere del tempo. Ora non senti più niente, perché quel sigillo la sta reprimendo, impedendole di intaccare il tuo corpo. Ma non durerà in eterno.»
Volker non smise di tremare. Il suo corpo era scosso da sussulti di rabbia, la stessa che sconvolgeva il suo viso. Avevano trovato il modo di fregarlo. O collaborava, o perdeva la vita tra dolori atroci. E la scelta spettava a lui.
Sarmon guardò Volker compiaciuto, beandosi della rabbia violenta che gli rivolgeva contro.
«È un vero peccato che tu sia così ostinato. Se collaborassi potrei aiutarti, sai. Potrei toglierti quel cancro che ti sta divorando» sorrise, un’espressione che stonava decisamente con ciò che stava dicendo. «… perché lo sai che ti divorerà.»
Volker non rispose. Si limitò a sostenere lo sguardo di Sarmon affrontandolo con la rabbia che ormai gli scaldava il corpo, ma dentro era disperato. Si sentiva un condannato a morte. Per quanto detestasse l’idea di collaborare al loro progetto, quello era l’unico modo per aver salva la vita.
Ma non rispose.
«Tornerò più tardi. Pensaci.»
Quel bastardo rideva. La situazione in cui l’aveva messo lo divertiva, Volker lo poteva sentire chiaramente dal suo tono di voce e dall’espressione. Rideva di lui.
Lo guardò allontanarsi e risalire le scale, e soltanto allora si lasciò cadere in ginocchio, lasciando che il demone che portava dentro lo aggredisse con il suo carico di angoscia. E pianse di rabbia e impotenza. Al buio. Solo.


*


Volker capitolò, come Sarmon già sapeva. Furono mesi di ricerche frenetiche, in cui l’uomo dovette lavorare fianco a fianco con i demoni. Era l’unione della genetica e della magia demoniaca. Fu la nascita della genetica nera.
Non si fermò un solo istante. Lavorava giorno e notte, e nei pochi momenti in cui gli era consentito riposare crollava addormentato nella sua cella senza neppure avere il tempo di perdersi nei suoi pensieri. Forse fu questo che lo salvò dalla pazzia.
I ritmi di lavoro non gli pesavano affatto. Non perché gli piacesse ciò che stava facendo, ma per il semplice motivo che prima portava a termine il suo compito e prima gli avrebbero tolto l’energia demoniaca.
Volker non sapeva quanto quel sigillo avrebbe retto e, stando a quanto diceva Sarmon, poteva durare anni, come giorni. Un incentivo in più per mantenere attivo lo spirito di collaborazione del giovane.
Effettivamente gli anni passavano, e il sigillo non dava segni di cedimento. La cosa bizzarra era che fisicamente Volker non cambiava di una virgola: era esattamente uguale a quando l’avevano rapito.
Sarmon gli spiegò che era a causa dell’energia demoniaca. Era come una bomba a orologeria, disse. Minacciava di cominciare a mangiarlo da un momento all’altro, non appena il sigillo avesse ceduto di fronte ai suoi assalti. Eppure, la sua presenza contribuiva a mantenere statiche le cellule: non morivano, né si rigeneravano. Le teneva a bada, aspettando di cominciare a cibarsi della sua vita.
Quando avesse notato qualche cambiamento nel suo corpo, allora avrebbe significato che l’energia demoniaca aveva indebolito il sigillo, e stava cominciando a diffondersi nel corpo.
La notizia rese Volker ancora più smanioso di terminare in fretta il suo lavoro.
E finalmente, un giorno il primo morfista aprì gli occhi.


*


Furono di parola, in un certo senso. A Volker venne ridata la libertà, come avevano promesso, ma lui era ancora un morto che camminava.
Sul suo petto c’era ancora il sigillo a far la guardia alla sua vita, e dentro Volker l’energia demoniaca serpeggiava, ricordandogli in ogni istante che presto avrebbe preso il sopravvento.
Era solo, completamente. E doveva combattere in qualche modo ciò che minacciava di ucciderlo. Doveva trovare un modo per salvarsi, ma non sapeva come.
Poi, all’improvviso ebbe un’idea, che lo portò a frequentare ambienti poco raccomandabili. Punti d’incontro tra maghi, demoni, elfi e umani. Un paradiso per il mercato nero, un posto dove chi era interessato ad acquistare oggetti illegali e molto rari poteva fare ottimi affari.
L’idea era quella di accostarsi a questi ambienti nel tentativo di trovare qualcuno, o qualcosa, che potesse aiutarlo, e nel frattempo cominciò a condurre ricerche. Allevò draghi, le creature che per eccellenza erano figlie della magia nera, con la speranza che potessero svelargli i loro arcani misteri e potessero fornirgli un modo per neutralizzare l’energia demoniaca.
Quando imboccò questa strada non immaginò di certo che l’avrebbe condotto verso un’altra prigionia, come non avrebbe mai potuto pensare che proprio quella strada l’avrebbe portato di fronte a uno dei suoi figli.
E, ironia della sorte, lui, che aveva ricevuto una condanna a morte per poter dare vita ai morfisti, aveva l’occasione di salvare uno di loro.


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Capitolo 24
*** condanna a morte ***


23



23.

CONDANNA A MORTE

*

Il racconto li aveva sconvolti. Inizialmente la notizia che Volker fosse il creatore dei morfisti sembrava così irreale da aver suscitato l’ilarità di tutti, ma quando l’uomo finì la sua storia, sul gruppo scese un silenzio pesante. Gli sguardi di Silver e Amaya erano di pietà per quell’esistenza sacrificata, ma in Sari c’era tutt’altro.
Qualcosa che sapeva di speranza. E di preoccupazione.
«Quindi che cos’ha Namar?»
«Credo che stia cominciando a rigettare le cellule demoniache.»
Com’era prevedibile, ricevette solo sguardi confusi come risposta. Si passò una mano tra i capelli, grattandosi la nuca. «La ghiandola che produce le onde elettromagnetiche è fatta di cellule demoniache, mentre il resto del loro organismo è composto da cellule umane. Quest’ultime sono straordinariamente versatili e molto suscettibili alle mutazioni, come nel caso dei maghi. Credo che tutti voi sappiate che i maghi sono il frutto dell’evoluzione filogenetica degli esseri umani, non è vero? »
Quando ricevette dei cenni d’assenso come risposta, proseguì: «Le cellule che costituiscono la ghiandola sono impregnate di energia demoniaca, che è quella che le mantiene in vita. In laboratorio, molti morfisti morivano prima di aprire gli occhi perché l’organismo rigettava la ghiandola, mentre altri duravano un po’ di più. Ma il risultato era irrimediabilmente lo stesso» guardò Sari, e indugiò per un istante. «… Credo che stia succedendo la stessa cosa a Namar.»
La psicologa rimase stordita dalla portata di quelle informazioni, e non ebbe la forza per replicare.
Namar stava morendo.
Stava morendo.
Non sarebbe mai riuscito a lottare per la sua libertà. Non avrebbe mai potuto coltivare la speranza di vivere libero. Non gli era concessa neppure l’illusione di poter lottare contro chi lo voleva rinchiuso in una gabbia, perché sarebbe morto comunque. Non si sarebbe mai liberato dalle catene invisibili che lo legavano ai suoi aguzzini. Avevano vinto loro.
Barcollò verso l’ingresso dell’ambulatorio, trascinando i piedi. Si sentiva impotente, e quella sensazione non le piaceva per niente. Qualcuno la fermò afferrandola per un braccio, e quando si voltò vide Volker davanti a lei che scuoteva la testa in un cenno negativo.
«Ti consiglio di stare lontana da lui. Anzi, lo consiglio a tutti voi» aggiunse guardando Silver e Amaya. Il poliziotto si accigliò, allarmato.
«Che vuoi dire?»
«Dobbiamo portare Namar in un posto isolato il più presto possibile. Proprio perché il suo corpo sta rigettando la ghiandola, lui è estremamente pericoloso.»
Nessuno rispose. Su di loro serpeggiava il dubbio. Le parole di Volker non erano molto chiare, ma lasciavano intuire quale fosse la preoccupazione dell’uomo. E la cosa non era per niente piacevole.
«Non ha più il controllo sulla ghiandola. Se dovesse avere una crisi, potrebbe ripetere la strage di Halifax.»
Fu come ricevere una botta in testa.
Sari guardò Volker, e il suo sguardo chiese perché. Scosse il capo, non volendo accettare la situazione. Strappò il braccio dalla presa dell’uomo e raggiunse l’entrata dell’ambulatorio.
Non avrebbe abbandonato Namar, si disse. Nella sua vita la maggior parte della gente che conosceva era corrotta e ipocrita, falsa fino al midollo. Se per evitare il pericolo doveva lasciar morire in solitudine una delle poche persone oneste che conosceva, allora preferiva rischiare. Namar non sarebbe stato più solo.
Quando raggiunse il suo letto, sentì che non aveva scelta. Il suo cuore non le avrebbe mai permesso di scappare. Si sedette sulla sponda del letto di fianco a lui e, nel momento in cui il materasso cedette sotto il suo peso, l’evaso aprì gli occhi e la guardò.
Sari gli sorrise.
«Come ti senti?»
Namar non rispose. Tipico, pensò Sari mentre l’evaso si guardava attorno. Quando si rese conto che non conosceva quel posto, tentò di alzarsi. Era allarmato.
«Devo andare via.»
Sari lo costrinse a rimettersi sdraiato, sbuffando.
«Devi riprendere le forze. E la ferita deve rimarginarsi del tutto, prima che tu possa rimetterti in piedi.»
Namar fece una smorfia, imprecando sottovoce. Era contrariato. Vederlo così nutriva Sari di speranza, ma la ragazza sapeva che non poteva tenergli nascosto che cosa gli stava succedendo.
Aveva il diritto di saperlo, ma raccogliere il coraggio per dirgli che quella guerra aveva richiesto come prezzo la sua vita, era una delle cose più difficili che dovesse fare.
Fece per parlare, ma Namar la fissò all’improvviso, gli occhi sgranati. Si guardò attorno guardingo, prima di tornare su Sari.
«Lui dov’è?»
La ragazza rimase interdetta, senza capire. Poi, improvvisamente un’immagine le attraversò la mente.
«Abidos… anzi, Jariel è scappato.»
«Ha fatto qualcosa di strano?» la stava studiando con attenzione.
Sari capì: temeva che lei avesse scoperto l’esistenza dei morfisti. Probabilmente aveva paura della sua reazione. Abbozzò un sorriso, annuendo.
«So tutto, Namar.»
«Tutto?»
«Sí. So chi sei, so cosa sei. So tutto.»
L’evaso la guardò perplesso, poi controllò che nessuno stesse ascoltando quella conversazione. Afferrò Sari per il bavero della maglia, e la tirò verso di lui. La ragazza attutì la caduta con le mani, ritrovandosi con il viso accanto a quello di Namar. Sentì il cuore accelerare il battito cardiaco, ed ebbe l’impulso di ritrarsi. Probabilmente l’avrebbe pure fatto, se non avesse significato spezzarsi il collo.
«Tutto da dove inizia?» le sussurrò all’orecchio.
Sari farfugliò mugugni, distratta da quel contatto inaspettato. Cercò di prestare attenzione alla domanda che lui le aveva posto, per evitare situazioni ambigue che avrebbero fatto divertire Namar alla follia. Chiuse gli occhi, cercando di immaginarsi da sola in una stanza buia.
«Da Volker che ti ha creato, fino agli esperimenti che i maghi facevano su di te ad Artika. Ti basta o vuoi sapere altro?» gli rispose, e quando sentì la presa di Namar venire meno, saltò indietro come una molla. Namar la stava guardando con occhi sgranati.
«Cosa vuol dire che Volker mi ha creato?»
«Esattamente quello che ho detto. È stato lui a creare i morfisti» biascicò, sentendo caldo.
Stava arrossendo, e non andava bene. Era imbarazzata, e andava ancora peggio. Namar se ne sarebbe accorto e sarebbe stata la sua fine.
Ma, per sua fortuna, l’evaso era rimasto troppo sorpreso da quella notizia, per notare un tale particolare.
«Non avrei mai detto che fosse così intelligente da riuscire in una tale impresa» sghignazzò tra sé, e Sari tirò un respiro di sollievo. Ma poi sentì quel familiare nodo alla gola risalire verso l’alto, l’istante successivo. Doveva dirglielo. Doveva sapere.
«… Namar?»
«Mh?»
Non riuscì a parlare. Lo guardò come se fosse lei a dover morire. Fece un bel respiro e raccolse tutto il suo coraggio.
«Tu stai morendo.»
L’evaso non batté ciglio. Si limitò a rivolgerle uno sguardo indecifrabile, al punto che la ragazza pensò che forse non aveva capito.
«Namar, hai sentito quello che ti ho detto?»
«Certo.»
La calma che Namar dimostrò sconvolse Sari, che non riusciva a comprendere come potesse rimanere così sereno dopo una notizia del genere. Aveva immaginato che si sarebbe arrabbiato, che avrebbe gridato e che avrebbe cercato di fare il possibile per evitarlo. Invece non aveva neppure chiesto spiegazioni.
«Non ti tocca neanche un po’?»
Namar rise. Una risata rauca, proveniente dalla gola.
«Noi siamo carne da macello. Gli altri dispongono della nostra vita a loro piacimento, e il resto del mondo non sa neppure che esistiamo. E se lo sapesse, non ci accoglierebbe certo con benevolenza.»
Sari rimase freddata. Ascoltò in silenzio le sue parole, che suonavano molto come una critica verso di lei. Verso la sua ingenuità.
«Però non è giusto…» farfugliò, e Namar la guardò con commiserazione.
«Pensavo che avessi finalmente capito che la giustizia non esiste.»
Sari distolse lo sguardo, non sapendo come ribattere. Come poteva rispondere di fronte a tanto cinismo? Non poteva neppure biasimarlo: chiunque sarebbe diventato così disfattista se avesse passato anche solo la metà di ciò che Namar aveva vissuto. E nessuno l’avrebbe mai potuto criticare per questo.
«Io non ho un posto nel mondo, Sari. Ho provato molte volte a crearmelo, e ci proverò finché non sarà la mia ora. Ma se morirò prima di averlo trovato, allora non avrò perso niente.»
«Ma…»
«La mia non è stata una vita vera, Sari. Se dovessi scegliere tra continuare a vivere come una cavia da laboratorio e morire, sceglierei sicuramente la seconda.»
«Questo non è da te» sentenziò la psicologa alzandosi in piedi e guardando Namar con risentimento. L’evaso la guardò con curiosità, nascondendo le mani dietro la testa.
«Trovi? E come mai?»
«Perché sei sempre stato pronto a combattere per te stesso, e non accetto di vederti così rassegnato!» era sconvolta. Non riusciva a capire come quella notizia non lo toccasse minimamente.
«Non sono rassegnato, ma sereno. Non mi spaventa la morte, mentre a quanto sembra tu ne sei terrorizzata» la guardò con un sorrisetto enigmatico.
Si sollevò lentamente, e le fece cenno di tornare a sedersi sul letto.
Sari rifiutò, rimanendo immobile a braccia conserte.
Namar sbuffò, e il sorriso gli si cancellò dal viso come neve al sole.
«Siediti. Non farmi arrabbiare.»
Sari decise di obbedire, ricordando quanto aveva detto Volker riguardo al suo autocontrollo. Era meglio non provocarlo. Quando si sedette, Namar sembrò molto più rilassato.
«Sai qual è la differenza tra me e te? È che tu hai vissuto, mentre io sono soltanto esistito. Per me c’è stato solo tormento. Se dovrà arrivare la mia ora prima di quello che mi aspetto, così sia.»
Sari non seppe come rispondere. Guardò altrove e si domandò se sarebbe mai riuscita ad accettare la situazione, così come l’aveva accettata Namar.
«È la ghiandola che ti sta uccidendo» disse voltandosi verso di lui.
L’evaso lasciò che lei spiegasse come stavano le cose esattamente, lasciò che le raccontasse anche del rischio di ripetere la strage avvenuta sette anni prima. Namar ascoltò ogni cosa senza battere ciglio, e parlò solo quando Sari terminò di raccontare.
«Quindi mi porterete in qualche posto isolato. Per me va bene» concluse, annuendo.
Sari rimase in silenzio, lo sguardo fisso in mezzo al nulla. Si sentiva svuotata. Era come se lei fosse il passeggero di un treno arrivato al capolinea dopo un viaggio lungo e stancante, ma meraviglioso. Namar aveva accettato tutto fino in fondo e lei, che non ne era coinvolta in prima persona, non riusciva a non opporsi. Si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita, ma Namar la chiamò. Sari rimase in attesa di qualcosa senza avere il coraggio di voltarsi. Aveva la sensazione che se l’avesse guardato, lui avrebbe potuto leggere la fragilità della sua anima solo dallo sguardo.
«Hai detto che è a causa della ghiandola?»
Sari era così pensierosa da non notare lo strano tono con cui Namar le aveva posto la domanda. Si limitò ad annuire con un cenno del capo prima di uscire.
Trovò i suoi amici fuori, accanto alla porta dell’ambulatorio. A giudicare dalle loro espressioni dovevano aver sentito la conversazione che aveva avuto con Namar, ma Sari non disse nulla.
Notò una macchina parcheggiata lì davanti, un vecchio fuoristrada nero. La guardò senza capire.
«Ho parlato con il dottore. Gli ho spiegato la situazione. Quasi tutto, insomma… Ha detto che ci presta la macchina per portare Namar lontano da qua» spiegò Silver.
«Ma ha bisogno di riposare» obiettò Sari senza distogliere lo sguardo dal veicolo.
La sua voce uscì debole e poco convinta.
«È importante che venga portato al più presto in un luogo isolato, prima che possa avere una crisi che potrebbe fargli perdere il controllo. Non c’è da scherzare, Sari» Volker intervenne non appena la sentì protestare.
La ragazza annuì debolmente con il capo, ormai arresa di fronte a quella terribile evidenza.
«Già.»
L’uomo le diede un buffetto sulla spalla prima di entrare nell’ambulatorio assieme a Silver. Lei seguì ogni loro movimento come un cane da guardia, li vide avvicinarsi al letto di Namar e parlare con lui. Volker gesticolava, il morfista annuiva. E cercava di rimettersi in piedi, aiutato dai due uomini.
Amaya le posò una mano sul braccio e lo strinse in una morsa gentile. Sari le sorrise, riconoscente. Poi scorse un guizzo luccicante nell’altra mano, e le vide: due chiavi, probabilmente del fuoristrada. Namar si incamminò verso l’uscita dell’ambulatorio, appoggiato a Silver e Volker, e in quel
momento Sari sentì la determinazione darle nuova speranza.
Non ebbe neppure bisogno di riflettere.
«Guido io» si offrì sfilando le chiavi di mano ad Amaya, che le sorrise e annuì. Caricarono Namar sul sedile di fianco al posto del guidatore, e andarono a salutare e ringraziare il dottore che aveva curato l’evaso. Volker era in testa al gruppo, Sari in coda: nessuno le stava prestando attenzione. Nessuno sospettava quali fossero le sue intenzioni.
Rallentò il passo, e quando gli altri ebbero girato l’angolo, con uno scatto si voltò e volò fino alla macchina. Sbatté la portiera così forte che ebbe paura di averla rotta. L’adrenalina le faceva tremare le mani, e dovette tentare tre volte prima di riuscire a infilare la chiave nella toppa dell’accensione. E quando la girò, il motore si svegliò con un rombo.
Namar la guardò divertito fare retromarcia e partire. Si accomodò con le mani dietro la testa.
Sorrise, ironico.
«Il rapitore diventa rapito. Bel cambio di ruoli, dottoressa.»


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Capitolo 25
*** epilogo ***


25
ATTENZIONE!
Visto che questa storia è a un passo dalla fine, oggi ho fatto doppio aggiornamento. Quindi prima di leggere l'epilogo assicuratevi di aver letto anche il capitolo precedente.
Per quanto riguarda eventuali note di servizio, vi rimando alla fine dell'epilogo.





24.

EPILOGO

*


Jariel camminò lungo il corridoio, con Nova al suo fianco. La demone lo guardava sorridendo malevola, gioendo della brutta situazione in cui versava il morfista.
«Sarmon non è affatto contento di te.»
«L’hai già detto» mormorò a denti stretti Jariel, spazientito.
«Mi stavo chiedendo quanto pesassero la sfortuna e l’incapacità nel tuo fallimento. Eri così vicino a prendere i rapporti…» Nova scosse il capo, con l’intento di provocarlo.
Odiava con tutto il cuore i morfisti, creature degne soltanto di leccare le scarpe ai demoni. Erano scarti di laboratorio che davano soltanto problemi, e come se non bastasse erano anche terribilmente arroganti.
Li avrebbe massacrati e avrebbe bevuto volentieri il loro sangue, se soltanto Sarmon glielo avesse permesso. Ma per ora l’unica soddisfazione che poteva ricavare dallo stare a contatto con quelle creature miserabili, era prendersi gioco della loro inferiorità.
«Mi stavo chiedendo quanto dureresti, se io ora volessi ucciderti» Jariel allungò una mano per toccarle la fronte, con un sorriso gelido.
La demone la scacciò con un gesto veloce e potente, come se Jariel fosse un petardo impazzito.
«Prova a toccarmi di nuovo e ti massacro, miserabile» sputò veleno, ma il morfista non ne rimase troppo impressionato.
Sollevò appena le sopracciglia, fingendosi stupito.
«Divertente. Ora ho di meglio da fare che sprecare il mio tempo con te.»
Senza aggiungere altro la superò, dirigendosi con ampi passi alla fine del corridoio e oltrepassando il portone. Entrò nella sala dove Sarmon l’aveva già fatto convocare una volta e, come in precedenza, lo trovò seduto sul trono.
Quando lo vide entrare, Sarmon si alzò in piedi e gli si fece incontro. Non gli diede neppure il tempo di aprir bocca: la mano destra scattò all’improvviso, colpendo Jariel sul volto con il dorso.
Il morfista non ebbe il coraggio di guardare il suo signore in viso: mantenne lo sguardo basso, sottomesso. Sentiva su di sé lo sguardo glaciale di quel demone, ne avvertiva l’ira vibrante e pericolosa.
Sarmon era la creatura che gli aveva donato la vita, che le dava un senso. Come suo creatore poteva decidere di porre fine alla sua esistenza in ogni istante. E in quel momento Sarmon non doveva essere molto felice. Nova aveva maledettamente ragione.
Non osò parlare. Aveva timore persino a respirare.
«Jariel, cos’è successo?»
«La ragazza non aveva mai manifestato i suoi poteri e…»
«Questa cos’è, una scusa?» la voce di Sarmon era pericolosamente ironica.
«No, mio signore. Ce l’avevo in pugno, ma sono arrivate le guardie.»
«Ti ho dotato di una ghiandola per uccidere, Jariel. Perché non l’hai usata?»
Non rispose. Le cose si stavano mettendo male. Se non trovava il modo di calmare Sarmon, sarebbe stato ucciso sicuramente. Poi all’improvviso si ricordò di lui.
Namar.
Sollevò lentamente lo sguardo per scrutare il viso di Sarmon, ma quando si accorse che il demone lo stava guardando, tornò a fissare il pavimento.
«Ho scoperto una cosa interessante, nonostante tutto.»
Sarmon lo guardò, scettico. «Prega che sia davvero interessante.»
Jariel deglutì nervosamente.
«La ragazza era in compagnia di un morfista del vecchio laboratorio demoniaco.»
Silenzio. Aveva raggiunto lo scopo. Jariel sorrise impercettibilmente, ma già sapeva di aver vinto. Sollevò lentamente lo sguardo. E notò che la notizia aveva davvero colpito Sarmon.
«Vuoi dire che questo esemplare era in buone condizioni?»
Jariel annuì, anticipando le mosse del demone. Conosceva bene i suoi desideri, le sue aspirazioni e i suoi timori. E sapeva che cosa stava pensando.
«È straordinario che sia durato così a lungo.»
Sarmon rimase in silenzio, tornando a sedere. Lì, nascosto dalla penombra, per chiunque il suo volto non sarebbe stato visibile, ma per gli occhi di un morfista vedere al buio era uno scherzo. E Jariel vide bene il sorriso vittorioso di quel demone.
Un’espressione che non prometteva nulla di buono.
«Portamelo.»


*


Quando uscirono dall’ambulatorio, l’auto era sparita e di Sari non c’era traccia. Amaya si coprì gli occhi, scuotendo il capo. Era colpa sua.
«Non avrei dovuto darle le chiavi» mormorò, consapevole del fatto che Sari rischiava la vita ogni secondo che trascorreva accanto a Namar.
Guardò Silver, ma il poliziotto scosse il capo.
«No Amaya. Questa è stata una sua scelta, e l’ha presa conoscendo bene ciò che sta rischiando. Se vuoi andare a cercarla fai pure, ma questa volta io non verrò.»
Amaya guardò Silver allontanarsi, presa alla sprovvista. Non poteva dargli torto, in fin dei conti: Sari non era una bambina. Ma nonostante tutto, lei non riusciva a non essere preoccupata per le sorti dell’amica.
Sospirò, indecisa sul da farsi. Guardò Volker, sapendo che quello era un addio. La sua parte l’aveva fatta, e ora sarebbe andato per la sua strada a cercare la salvezza.
«Immagino che continuerai le tue ricerche…»
Volker annuì, sfiorando con la mano una ciocca di capelli dell’elfa.
«Penso di sí» mormorò distratto.
Sorrise bonariamente, interrompendo il contatto.
«È stato un piacere conoscerti, Amaya Lyrem.»
L’elfa rimase immobile al suo posto, composta come sempre. Ma, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, lo accettò. Accolse la sua gentilezza, che questa volta stranamente era pura, senza malizia né ironia.
Gli sorrise. Un sorriso vero, sincero.
«Anche per me, Volker Kramer.»
Lui sembrò indugiare, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e un sorriso bonaccione stampato sul viso. E quando si voltò, Amaya lo fermò afferrandolo per un braccio.
Il sorriso malizioso sul volto di Volker crollò non appena incrociò lo sguardo dell’elfa. Uno sguardo attento. Sospettoso.
«Cosa succede?» domandò spiazzato, mentre lei gli controllava i capelli.
Ma Amaya non rispose, e quel silenzio non piacque affatto a Volker.
Lasciò che l’elfa cercasse ciò che voleva trovare, mentre il cuore gli galoppava nel petto. Pensò subito al sigillo. Se aveva cominciato a perdere efficacia, non gli rimaneva molto tempo. Pregò con tutto se stesso che Amaya non trovasse nulla, nessun segno che potesse testimoniare un cambiamento del fisico.
Non aveva mai domandato a Sarmon che tipo di alterazioni potessero significare un indebolimento del sigillo. Lui aveva detto una qualsiasi.
Alla domanda di Amaya, il suo cuore quasi smise di battere per il terrore.
«Hai mai avuto capelli bianchi?»


*


Sari non aveva idea di dove andare. Aveva preso la macchina senza nemmeno pensare a una destinazione. Guidava alla cieca sulla strada deserta, scegliendo a caso la direzione da prendere a ogni incrocio. La situazione divertiva parecchio Namar, glielo leggeva in faccia.
Aveva un’espressione divertita, quasi saccente, sicuramente irritante. Era in quello stato da quando avevano lasciato Rosya, e ormai era passata più o meno un’ora. Lui non aveva più aperto bocca dopo quell’ultimo commento, e ogni tanto distoglieva lo sguardo dal paesaggio e si concentrava su di lei. Quando lo faceva, Sari era quasi sicura che quel sorrisetto si allargava ancora di più, o almeno era quello che la ragazza riusciva a cogliere con la coda dell’occhio.
Dopo l’ennesima volta, Sari sbuffò, lanciando a Namar un’occhiata scocciata.
«La vuoi piantare?»
«Qui dentro l’unica che sta facendo qualcosa sei tu.»
«Sto guidando. E tu stai ridendo» puntualizzò con una punta di acidità nella voce.
Namar sogghignò, tornando a guardare la strada.
Silenzio. Sari gettò un’occhiata rapida allo stereo. Era un modello molto vecchio. Lo indicò con un cenno della testa.
«Prova ad accenderlo.»
L’evaso la guardò di nuovo, ancora con quell’espressione irritante che la fece esplodere.
«Piantala, non ti sopporto più!»
Per tutta risposta Namar ridacchiò. Continuò a guardarla, questa volta con una punta di curiosità.
«Perché mi hai portato via?»
Sari fu grata di dover tenere lo sguardo sulla strada, perché non aveva nessuna voglia di guardare Namar in quel momento. La sua domanda era troppo personale; rispondergli la imbarazzava.
«Mi piace pensare che ci sia ancora qualcosa che si possa fare per te.»
«Quindi l’hai fatto per pietà» concluse Namar, ma qualcosa nella sua voce suggeriva a Sari che la stesse prendendo in giro.
L’evaso rimase in silenzio per alcuni istanti, poi guardò la ragazza. Si era fatto improvvisamente serio.
«Qualcosa ci sarebbe, in effetti. Avevo intenzione di occuparmene quando mi avreste lasciato da solo, ma ora che hai combinato tutto questo casino ho paura che dovrò costringerti a venire con me» terminò sogghignando, e Sari si limitò a sorridere.
C’era qualcosa da poter fare. Qualcosa che poteva salvare Namar.
Rallentò di fronte all’ennesimo incrocio, indecisa su che direzione prendere. Namar le indicò la via a destra, e Sari la imboccò subito.
«Di cosa si tratta?» domandò senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«Se il mio problema è la presenza della ghiandola, l’unica soluzione è rimuoverla.»
«Ma è rischioso, potresti rimanere menomato!»
«Credi che mi rivolgerò al primo macellaio che mi trovo davanti? Dottoressa, forse ti è sfuggito un dettaglio.»
Non riuscì a mantenere l’attenzione sulla strada. Doveva necessariamente guardarlo per leggere nei suoi occhi che cosa gli stava passando per la testa. Le sarebbe bastato anche un breve istante, una frazione di secondo. Ma quando si voltò verso di lui, le venne istintivo premere il freno: Namar era diverso. Ora che poteva mostrare il suo vero aspetto senza timori, le sembrò più inquietante che mai. Eppure aveva l’impressione di ammirare un tesoro segreto di cui soltanto lei era a conoscenza.
I capelli neri ricadevano indisciplinati davanti al viso, e Sari non si sarebbe mai abituata a quegli occhi completamente bianchi, sporcati solo dalla pupilla verticale. Quegli occhi demoniaci, che la guardavano con una luce folle che non prometteva nulla di buono.
«… andiamo a trovare il mio secondo padre, dottoressa. Andiamo dai demoni.»


FINE


NOTE DELL'AUTRICE

Non ricordo se l'ho detto qui oppure nel mio gruppo facebook, fatto sta che La zona rossa è la prima parte di una trilogia che si chiama Morfero (per motivi che ora dovrebbero essere ovvi :P). Sarò sincera, le altre due parti non sono state ancora scritte e non so se e quando lo saranno, motivo per cui ho pensato di inserire nel gruppo un documento contenente gli spoiler degli altri due libri, in modo tale da potermi scusare, per quanto possibile, qualora questa storia non dovesse mai vedere la sua vera conclusione. In questo documento non penso metterei la fine della saga, ma per chi lo volesse sapere basta che mi contatti privatamente chiedendo informazioni: svuoterò completamente il sacco :P
Se siete interessate a leggere il documento con gli spoiler basta che chiediate l'iscrizione a Questioni Scrittevoli, sarete subito accolte con biscotti e pasticcini.
Un saluto, e se siete arrivate fino a questo epilogo, beh... vi risarcirò i danni fisici e morali che questa schifezza databile col carbonio 14 vi ha procurato :P
A presto,

Brin

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