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Io sono fermamente convinta che la prima cosa
che impariamo a dire è: “Non è stata colpa mia!”. E infatti è colpa di
Vittoria.
L’indicazione era: voglio un Sasuke felice (si
può fare!), voglio un Sasuke padre (ARGH!), voglio un Sasuke che viene a sapere
di dover diventare padre (condoglianze Sasuke), meglio ancora (sì) voglio che
Sakura esiti a dirglielo e lui le faccia capire che già sa tutto (si è
svegliato!!).
La cosa terribile è che a un certo punto tutte
queste cose le volevo anche io.
E questo è quanto.
Esplosioni
A
Vittoria,
che
conosce l’arte del fangirlismo sfrenato,
e
quella dei sorrisi,
e
quella che sa rendere carine delle serate qualsiasi.
Fino a pochi giorni prima, Sasuke era stato
convinto di aver completato egregiamente la parte iniziale della missione.
Tutto era andato secondo i suoi calcoli: Sakura aveva sostituito il caffè
mattutino con una tisana allo zenzero, tentava di berla distesa sul divano
invece di sedere con lui al tavolo in soggiorno; era sempre attivissima ma ogni
tanto si faceva pensierosa senza nemmeno rendersene conto, si posava
distrattamente una mano sul ventre, inceneriva buona parte dei suoi kimoni
perché mentre stirava aveva ben altro davanti agli occhi, bruciava molto spesso
la colazione che puntualmente non mangiava – oppure ci provava, e poi scappava
via. Era un concentrato di instabilità – più del solito, cioè; si asciugava le
lacrime fissando esterrefatta le dita umide: piangeva come se non ci fosse un
domani e rideva come se la vita (quella bella, quella con lui) fosse destinata
a durare in eterno.
Chiaramente, non aveva il ciclo da qualcosa come
due mesi. Con altrettanta chiarezza, Sasuke sapeva che era incinta. E non era
nulla di troppo strano, ci stavano provando da un po’, lo desideravano
entrambi. Di fatti la prima parte della missione doveva concludersi con Sakura
che gli dava l’assalto facendogli piantare la schiena contro il mobile malefico
di turno, aggrappandosi al suo collo come incapace di tenersi in piedi.
Sasukeavrebbe capito che un po’ era
vero, che al solo pensiero di far crescere qualcosa di loro dentro di sé a
Sakura tremavano davvero le gambe, ma non era un problema: lui avrebbe
sospirato, le sue gambe se le sarebbe tenute strette in vita e tra le braccia,
le avrebbe premuto la fronte contro la linea dolce del collo, se fosse stato
nella giusta disposizione mentale le avrebbe mormorato un grazie sulla pelle – che non era solo grazie per avermi dato di nuovo una famiglia, era più un grazie per tutta la vita che ti porti dentro
e che mi butti addosso.
Il problema era che Sakura non gli aveva detto
proprio niente, si ostinava a tenere la notizia per sé. E lui non riusciva a
immaginare per quale motivo avesse le braccia vuote e un muro di silenzio a
dividerlo da lei.
«Sakura-chan, se non lo vuoi lo mangio io!»
Tuttavia Sasuke non riusciva a immaginare
nemmeno perché avesse un presunto migliore amico tanto chiassoso e irruento,
perciò tentava di non preoccuparsi per tutte le cose che continuavano a
sfuggirgli.
Osservò con attenzione Sakura che porgeva il
resto della sua colazione a Naruto, senza nemmeno fargli notare che a suo
parere nello stomaco di lui doveva esserci la fossa delle Marianne.
Naruto afferrò perplesso la metà di un cornetto
tutto spiluccato, lo masticò lentamente. «Non mi dici niente, Sakura-chan?»
Sakura si alzò di scatto, con la mano posata sul
ventre. «Scusate», corse verso il corridoio senza nemmeno degnarli di un’altra
occhiata.
Ino la seguì in un battito di ciglia, e Sasuke
non seppe se esserne sollevato o alzarsi lo stesso anche lui. Non voleva farle
capire che lui sapeva tutto in quel modo, ma non voleva nemmeno essere lasciato
dietro.
«Secondo te mangio in maniera tanto disgustosa?»
chiese Naruto, stoicamente pronto a prendersi la colpa di tutto l’accaduto.
«Anche se tu non sei proprio la persona giusta a cui chiederlo», gli fece
notare dopo un po’, con una luce particolare negli occhi.
Sasuke sospirò. Avevano dodici anni quando
facevano a gara per stabilire chi fosse capace di mangiare più riso.
Ora ne avevano ventiquattro. E al posto del riso
avrebbero trangugiato cornetti.
Poi avrebbero seguito Sakura nel bagno, con una
nausea pazzesca. E invece di trovarci un’amica bionda pronta ad asciugare a
entrambi il sudore dalla fronte ci avrebbero trovato qualcuno disposto a
ricordargli quanto fossero imbecilli. Più o meno.
Ma Sasuke decise di non pensarci troppo mentre
spalmava la marmellata dentro il terzo cornetto della giornata, con Naruto che
lo guardava compiaciuto: lui era già al quarto.
***
Sasuke non avrebbe saputo dire il momento
preciso in cui era successo, ma a un certo punto si era reso conto che Sakura
passava troppo tempo a guardare le sue lacrime invece che a ridere. Gli
raccontava che era stanca per il lavoro, che stavano perdendo un sacco di
pazienti ultimamente e che Tsunade quando voleva sapeva essere molto stressante. Tutto vero, Sasuke
sapeva che lei non gli avrebbe mentito, gliel’aveva promesso. Però, allo stesso
tempo, Sasuke sapeva anche che il peso di quello che lei stava tentando di
nascondergli era per qualche motivo diventato insostenibile.
Era deciso a parlarle quella sera stessa, senza
troppi preamboli. Lei in ogni caso lo avrebbe abbracciato, poi avrebbe dovuto
spiegargli come mai si fosse premurata di costruire tutto quel mistero dietro a
una cosa tanto naturale, che desideravano entrambi. Gli avrebbe sorriso,
spiegandogli che non c’era niente di strano o sbagliato, che le erano solo
mancate le parole per qualche giorno. Sasuke si ripeté che le cose sarebbero
andate così, senza complicazioni. Però si ripeteva anche che lui non aveva
scelto una moglie incapace di dirgli la verità per debolezza. Al massimo, se si
comportava così, Sakura lo faceva per premura.
E allora Sasuke tremava un po’, piegava le dita
irrigidite e le bloccava prima di conficcarsi le unghie nei palmi delle mani.
Lasciava che gli ultimi raggi del sole gli ferissero gli occhi, e più il sole
si spegneva, diventava morto, più gli risultava difficile starsene calmo con le
gambe a penzoloni sull’engawa.
Stava quasi per rientrare in casa a prendersela
con qualche cuscino quando sentì dei passi nel vialetto, accompagnati da un
paio di imprecazioni, un pugno contro un albero e un volo di uccelli dalle
grandi ali azzurre. Sakura doveva essere abbastanza nervosa.
Ci mise un po’ a notarlo e qualche momento in
più per reagire alla serietà della sua espressione. Gli si avvicinò con
prudenza, abbandonando a terra la borsa. «Qualcosa non va, Sasuke-kun?»
Lui la osservò con sguardo fermo: Sakura aveva
le occhiaie un po’ troppo marcate, le labbra screpolate, il petto era sempre
uguale, respirava regolarmente, le braccia erano esili eppure gonfie di una
forza che non era nei muscoli, ma nello spirito, e le permetteva di distruggere
intere colline senza arretrare, e di accarezzarlo senza aver più paura della
sua reazione; il ventre…
Sasuke infilò la mano sotto la sua maglietta.
Scoprì di avere timore di premere troppo dopo averle sfiorato il fianco. Lei lo
lasciò fare, però aveva reagito al suo tocco, si era un po’ irrigidita. Sasuke
trovò che la pelle era sempre uguale, liscia, con una sola cicatrice a
sinistra. All’apparenza era sempre finissima e delicata, tanto che sotto le
dita poteva sentire il ritmo con cui il cuore pompava in basso tutto quel
sangue, quello che stava nutrendo un esserino minuscolo, non più di un ammasso
di roba che forse a vederla lo avrebbe anche impressionato un po’.
«Sasuke-kun…» la sentì
esitare, «da quanto tempo lo sai?»
«Dalla prima volta che hai messo lo zenzero
nella colazione» rispose. E gliel’avrebbe anche portata a letto, quella
maledetta colazione, perché sapeva che le avrebbe fatto bene mangiare un po’
distesa. Lo avrebbe fatto, con tanto di sguardo scocciato, col sonno negli
occhi e i capelli spettinati, ma lei non gli stava permettendo di fare niente
del genere.
Sakura sollevò il braccio, gli posò una mano in
viso delicatamente. Lo accarezzava ed era forte come sempre quando lo faceva,
però la mano tremava più del solito, di un’emozione terribile. Continuò a
sfiorargli i capelli sulla nuca, si fece più vicina ponendosi tra le sue gambe
e poi attirò il viso di lui sul proprio ventre nudo.
Sasuke chiuse gli occhi per un istante, tentando
di godersi la pace sconosciuta che gli avrebbe trasmesso il pensiero che per la
prima volta fossero in tre e tanto vicini. Non ci riuscì benissimo, ed ebbe
appena il tempo di sollevare il viso che Sakura quasi gli crollò tra le
braccia. «Non potevo dirtelo», mormorò, scorata. «Non sapevo come dirtelo perché Tsunade-sama dice
che la gravidanza è ancora a rischio e pur con la sua supervisione ci vorrà
ancora un po’ per essere certi che… per avere la certezza che andrà avanti».
Sasuke annuì velocemente. Si era aspettato
qualcosa del genere, dopotutto. Aveva anche tentato di prepararsi alla notizia,
ma capì che tutti i preparativi non avevano funzionato proprio a dovere.
Altrimenti non avrebbe sentito quel vuoto nello stomaco come se fosse stato lui
ad avere la fossa delle Marianne scavata nella pancia, e se fosse stato davvero
pronto non avrebbe nemmeno sentito quella stretta micidiale nel petto appena il
cuore aveva cominciato a battere impazzito, né avrebbe avuto la gola secca, le
labbra serrate. Forse era vero che per certe cose non c’erano parole adatte,
anche se una volta tanto lui aveva sperato di poterle avere per tutti loro –
per se stesso, per Sakura, per l’esserino minuscolo (per Itachi, per Itachi).
Non disse niente mentre Sakura tentava di
sistemarsi meglio sopra di lui, forse lei gli avrebbe pure suggerito cosa dire.
«Lo so che può sembrarti egoista o sbagliato il fatto che io abbia esitato per
qualche giorno…» spiegò, col poco fiato che aveva in
gola. «Ma tu riusciresti mai a intrappolarmi in un’illusione se sapessi che
ritornare alla realtà per me sarebbe un inferno?»
Sasuke aggrottò appena le sopracciglia,
pensieroso. «No», rispose, dopo un po’, «ma qui non stiamo parlando di
un’illusione che potrei creare per conto mio».
Sakura sussultò, colpevole. «Hai ragione,
Sasuke-kun. Questa… questo, l’abbiamo
fatto insieme». Si piegò un po’ verso di lui, aveva le ciglia umide e le
strofinò sul suo viso. «Volevo dirtelo. Ma ogni volta… non è che mi mancassero
le parole. Solo… quelle che mi venivano in mente non erano mai adatte. Forse
perché riuscivo a pensare solo che non volevo toglierti di nuovo qualcosa di tanto
bello, senza pensare che ora sei più forte, e che anche se durerà per poco
tempo anche tu devi sapere come ci si sente a pensare a…
a lui».
«Lo so».
Sasuke si accorse di saperlo. Sapeva come ci si
sente a pensare a lui, nonostante i
dubbi, pensare solo a lui – a Itachi,
minuscolo, un ammasso di roba terrificante. Sapeva cosa significava avere lo
sguardo fisso su un ventre tanto conosciuto, chiudere gli occhi, sperare che
sarebbe andato tutto bene.
C’era una piccola parte di lui, però, che gli
ricordava una cosa consolante e serena: che tutto ciò di terrificante che aveva
a che fare con Sakura, alla fine, non era niente di pericoloso, o se lo era,
allora era anche bellissimo, bellissimo e pericoloso. Come la prima volta che
l’aveva ringraziata, o le aveva chiesto scusa, e come la volta in cui era stato
costretto a farle capire che l’amava, o come quella in cui per avere la
certezza di essere stato piuttosto chiaro ci aveva pure fatto l’amore; come
quando aveva tentato di metterle l’anello al dito in un’illusione, tanto per
fare una prova, e lei se n’era accorta e poi l’aveva aiutato a sopportare quel
brutto quarto d’ora di imbarazzo con tutte quelle risate di cui sapeva ridere
solo da quando lui era di nuovo in giro.
«Ceniamo?» le chiese, facendola rialzare.
Sakura annuì, un po’ più sollevata. Le aveva
fatto bene parlarne, ce l’aveva scritto in faccia.
E quell’improvviso benessere si piantò
solidamente sulle sue labbra quando aprì il frigo e lo trovò pieno di
stranezze. «Sasuke-kun», rise, incapace di trattenersi. «Che ce ne facciamo di
tutta questa roba?»
Sasuke arrivò in cucina chiedendosi come potesse
non essere chiara la ragione di quella riserva. «Secondo te io posso mai uscire
di notte per soddisfare tutte le voglie che ti verranno?»
«E ci volevano tre marche diverse di salsa di
soia?»
Sasuke le si avvicinò, guardingo, anche un po’
pensieroso. «Di più?»
Sakura si dichiarò offesa, lo riprese esclamando
un paio di volte il suo nome con un’enfasi tutta da lei. Gli diede anche un
pizzicotto sul fianco. Lui le bloccò la mano prima che gli lasciasse un livido
senza nemmeno accorgersene. L’interno del suo polso era liscio, la pelle
finissima. Si sentiva il sangue che scorreva veloce. Sasuke la sentiva sotto le
dita, quella vita, eppure sembrava che stesse esplodendo ovunque. Bellissima.
***
«Sakura-chan, è commovente il modo in cui ogni
giorno decidi di condividere con me la tua colazione», Naruto addentò il resto
del cornetto di Sakura con espressione soddisfatta, gli occhi fissi sul
barattolo di marmellata al centro del tavolo.
«In realtà» cominciò Sakura, un po’ incerta «in
realtà c’è qualcosa di più commovente».
«Hai ragione», commentò lui soddisfatto, gli
occhi brillanti di compiacimento «questa marmellata di more è…»
«Sono incinta».
Naruto la guardò stravolto, con le labbra
sporche di marmellata. In viso aveva un caos meraviglioso che somigliava alla
risata di un bambino. «Ho vinto la scommessa con Tsunade-baa-chan! Lo sapevo
io!»
«Dobe».
«Fatta al vostro matrimonio. Era sbronza, ma comunque. Lo dicevo che nel giro di due
anni sarebbe nato Itachi… lei diceva che vi sareste goduti un po’ la vita,
diceva che lei lo avrebbe fatto nel caso».
«Naruto…» lo interruppe Sakura, a voce bassa.
Con la coda dell’occhio vide il barattolo di marmellata rovesciato, poi sentì
una stretta fortissima attorno alle spalle: Naruto le si era praticamente
rovesciato addosso.
«Avevi ragione Sakura-chan» brontolò nei suoi
capelli, prima di allontanarsi un po’ imbarazzato. «Questo è più commovente. E
Sasuke tu…» Naruto fu sul punto di buttarsi anche
addosso a lui. Allungò le braccia nella sua direzione, anche se Sasuke
sventolava la mano per farsi aria e tenerlo lontano. Naruto dovette prenderla
sul personale, al punto da non calibrare lo slancio seguente. In qualche modo,
la sedia di Sasuke finì riversa sul pavimento, con loro due spiaccicati a terra
poco distanti, a provare le gioie del parquet di casa Uchiha
dopo aver fatto scricchiolare le nocche delle mani. Un pugno, ci voleva solo un pugno. Sembrò che quel pugno fosse
destinato a durare due o tre eternità.
Naruto si rialzò lentamente, dopo un momento di
riflessione. Lo sguardo rimase fisso su Sasuke fino a quando entrambi
riuscirono a reggere il panico di condividere qualcosa di tanto delicato.
Sakura in quell’istante capì che Naruto sapeva
tutto. I pugni dicevano tutto. Era
sempre sorprendente il modo in cui quei due riuscivano a parlarsi sfiorandosi
un po’ le dita, con una forza fuori dal comune ma senza farsi troppo male, non
più.
«Guardate che andrà bene» si riprese Naruto. «Sicuramente.
Non c’è motivo di preoccuparsi. Tra qualche mese Itachi ci spaccherà i timpani,
e Sasuke sarà costretto a imprecare in un’altra lingua per non dare il cattivo
esempio. E poi Itachi dirà Naruto come
prima parola, e lo riempiremo di regali a Natale. Imparerà a camminare in
questa stanza, e tu Sakura gli racconterai un sacco di storie assurde davanti
al caminetto con lui che fisserà le fiamme e probabilmente già a due anni
invece di interessarsi alle tue storie penserà a come imparare il katon. E… uh,
quando sarà un po’ più grande dovrò condividere questa marmellata paradisiaca
con lui, ma sono disposto a farlo. A patto che io sia il suo padrino. E poi gli
insegnerò il rasengan...»
«Figurati» sibilò Sasuke, minaccioso, eppure
aveva un sollievo nuovo negli occhi. Sakura lo conosceva bene: era come una
specie di libertà, quella che gli donava Naruto, la libertà di sperare senza
lasciarsi soffocare dalla paura.
Naruto gli porse la mano per farlo rialzare. Poi
parve pensarci su, corse verso la porta. «Torno subito. Devo fare una scommessa
con Tsunade-baa-chan».
«Dobe».
«Naruto, datti una calmata ora» Sakura tentò di
acciuffarlo prima che fosse troppo lontano. Anche se a onor del vero era quasi
rassicurante sapere che Tsunade avrebbe scommesso contro Naruto: lei perdeva
sempre, e lui era sempre quello ottimista.
«Scommetto che Itachi risveglia lo sharingan un anno prima del teme».
Sakura ne sorrise, bloccò sul nascere le
imprecazioni di Sasuke ponendogli due dita sulle labbra.
Lo sapevano tutti e tre cosa significava quella
scommessa: Itachi vivrà. E sarà in
salute. E avrà occhi capaci di vedere tutto. Come Sasuke. E passerà un sacco di
tempo a farvi sentire bene solo guardandovi. Come Sakura.
E
questa tecnicamente è la prima parte. Nel prossimo capitolo c’è una raccolta di
momenti, uno per ogni mese di gravidanza.
Pace mia,
gravidanze e bambini mi fanno tremare al solo pensiero. Inorridisco, proprio. Per
me sarebbe stato più facile scrivere una Sasu/Zetsu. Ma pare che Sasuke avesse un incontrollabile
desiderio di riprodursi. E ogni suo desiderio è ordine!
Fluff a secchiate, io lo dico in anteprima
perché non è detto che qui vivete tutte con una dose di insulina a portata di
mano.
La mia scusa è che certe cose le scrivo per
tenermi in allenamento in vista del giorno in cui Kishi
mi farà sciogliere al punto che qualcuno per pietà dovrà a raccogliermi col
cucchiaino – ssssì.
In realtà è sempre colpa di Sasuke che è bello
in ogni momento ma ancora di più quando si permette di guardare al futuro col
passato negli occhi, ecco.
Grazie a tutti quelli che si sono presi la briga
di dare un’occhiata e buona lettura!
J
Esplosioni
Secondo
mese.
Sasuke aveva fissato di sottecchi la sua mano
per almeno cinquantasette secondi contati – aveva tenuto il conto con molta
attenzione. Poi si era deciso ad avvicinarsi un po’ in più.
Aveva afferrato una sedia e l’aveva accostata al
lettino su cui lei era distesa, col ventre scoperto e la mano di Tsunade che
vagava liberamente sulla sua pelle. Ogni tanto loro due si dicevano qualcosa
che lui non capiva, Sakura tendeva la propria mano e imitava la sua maestra per
capire bene come si conducevano quegli esami.
A lui non restava altro da fare se non sbuffare.
«Ora farà un po’ male, Sakura». Tsunade
concentrò il chakra sul palmo della mano e lo tenne
sollevato fin quando la sua allieva non annuì, pronta.
Sasuke la osservò con attenzione: si stava
mordendo le labbra, aveva stretto il pugno e chiuso gli occhi. Faceva male sul
serio. Allora lui distese appena il braccio sul lettino accanto al viso di
Sakura, le sfiorò la spalla con le dita.
Lei non impiegò molto a sentire la sua presenza:
si voltò nella sua direzione, poggiando la guancia sul suo avambraccio. Alla
fine fu lei a stringergli la mano, così forte da togliere il fiato.
Ma non gli importava: erano entrati lì dentro
con un peso sul petto e dita sanissime.
Ne sarebbero usciti con ferite nuove sulle dita
e occhi luminosissimi.
«Procede tutto bene».
***
Terzo
mese.
Era l’alba. Sakura si era alzata presto perché
era stata di nuovo colta dalla nausea. Non accadeva più tanto spesso, ma lei
ormai aveva preso l’abitudine di andare a distendersi sul divano dopo essersi
allontanata dal letto. Non voleva disturbarlo, soprattutto quando Sasuke aveva
missioni impegnative per il giorno dopo.
Eppure lui non ci metteva molto ad alzarsi, la
raggiungeva in soggiorno. Le dedicava un’occhiata veloce, spesso non diceva
nemmeno una parola. Si limitava a sedersi sul tappeto davanti al divano,
poggiava un rotolo sul tavolino di cristallo che aveva di fronte e prendeva a
leggerlo.
Da tre giorni però Sasuke si era intestardito a
fissare il suo ventre con occhi rossi ed espressione corrucciata. Attivava lo
sharingan e lo studiava. Quando era particolarmente preso le sollevava anche la
maglietta, per non avere ostacoli di sorta.
«Allora, oggi vedi qualcosa?» Sakura sapeva che
la sua nuova mania era dovuta al fatto che lui moriva dalla voglia di conoscere il sesso del bambino.
Sasuke aggrottò un po’ le sopracciglia,
facendosi addirittura più vicino. «Ma è enorme».
«Sasuke-kun?»
Lui si ridestò dal suo personalissimo studio:
aveva le labbra piegate un po’ all’insù, lo sguardo presissimo e un’espressione
quasi luciferina. «Gli hai fatto un bel regalo. Ha una fronte gigante, Sakura».
Quarto
mese.
Sasuke diceva che almeno la fronte stava
acquistando proporzioni umane. Lei gli aveva spiegato un sacco di volte che era
normale che il bambino gli sembrasse
tutto sproporzionato, che ci voleva un po’ di tempo per far allungare il resto
del corpo, ma per tutto quel mese lui si era dichiarato più preoccupato dalla
sua fronte che dal suo sesso.
«Ora la sua fronte è rimasta la mia unica
preoccupazione», spiegò Sasuke, distendendosi accanto a lei nel loro letto. Non
fece in tempo a sistemarsi che si ritrovò con un cuscino spalmato in faccia.
Era un
maschio.
«Sasuke-kun?» lo richiamò lei, con voce
bassissima. «Ora puoi dirlo come si chiama, no?»
Non ne avevano mai parlato, ma era talmente ovvio…
Lui non aveva mai pronunciato il suo nome, mai,
nemmeno quando Naruto lo ripeteva in continuazione e tentava di costringerlo a
fare altrettanto.
«Prima tu, Sakura».
E lei lo fece, senza deluderlo. Togliendogli il
cuscino di dosso per guardarlo negli occhi. «Itachi».
Quinto
mese.
Sasuke aveva sentito da qualche parte che c’era
un periodo della gravidanza in cui la donna si ritrovava particolarmente felice
– felice di una felicità strana, comunque. Senza motivo apparente.
Perciò decise di non preoccuparsi troppo quando
qualcosa di relativamente pesante gli impedì di salire le scale. Per salutarlo
a fine giornata Sakura gli si era buttata addosso senza dargli nemmeno la
tregua di un respiro dentro casa. Gli teneva le gambe strette attorno alla vita
e le dita piantate con forza nella schiena.
«Sakura…»
Sasuke si ricordò che aveva programmato
un’accoglienza simile circa cinque mesi prima, con lei che non riusciva a
contenere l’emozione e che tremava quasi a dirgli che avrebbero avuto un
bambino.
Ora lei non aveva nessuna notizia da dargli, in
compenso aveva un po’ di pancia in più. Sasuke non ancora si era abituato a
sentire addosso quella curva più marcata.
«Sono felice» disse lei, guardandolo in viso.
Ed era vero. Sembrava che stesse una meraviglia.
Era una meraviglia.
«Come mai?»
Sakura si lasciò cadere a terra, gli strinse una
mano attorno al polso. Se lo trascinò al piano di sopra velocemente.
«Finalmente Ino mi ha accompagnato a comprare la prima tutina» spiegò,
raggiante. «Con il ventaglio dietro la schiena. E non è tutto», aggiunse,
aprendo la porta della camera che Sasuke aveva occupato da bambino. Era la
stessa che stavano allestendo per Itachi. «Ho trovato anche le tue vecchie
tutine».
Sasuke si accigliò, chiedendosi se fosse il caso
di placarla in qualche modo quando lei si mise praticamente a scalare l’armadio
tenendo di mira uno scatolone in alto. Si accostò a lei per aiutarla a prendere
quella roba terribile, ma non era certo di avere l’autocontrollo necessario a
non darle fuoco appena l’avesse avuta tra le mani.
Eppure non gli importava. Aveva scoperto una
cosa nuova sull’ammasso di roba terrificante che Sakura nascondeva nella
pancia.
Non
rendeva felice solo lei. La
illuminava di una felicità contagiosa.
Sesto
mese
Sakura era distesa sul divano, le faceva un po’
male la schiena. Sasuke era seduto a terra davanti a lei, sul solito tappeto.
Stava tentando di avere la meglio su uno stereo antiquato. L’aveva ripescato
nella vecchia stanza di Itachi insieme alla montagna polverosa di cd che aveva
sistemato sul tavolino basso davanti a lui.
Sakura gli aveva confidato che avrebbe fatto
bene al bambino ascoltare un po’ di musica. Erano tutte cose che aveva
studiato. La musica serviva a stimolare la sua intelligenza.
Sasuke all’inizio aveva sbuffato, senza nemmeno
crederci troppo. Quel giorno poi si era ritirato in soggiorno accanto a lei, e
aveva iniziato a imprecare contro lo stereo – come se fosse colpa dell’aggeggio
se lui non trovava la canzone che si era intestardito a cercare. Doveva esserci
affezionato, forse era incastrata nei suoi ricordi di bambino e come tutte le
cose che sapevano di Itachi anche quella canzone doveva toccarlo nel profondo.
Quando la trovò se ne stette un po’ a occhi
chiusi, con le spalle poggiate contro il divano e la testa abbandonata sul suo
grembo. «Le altre sono tutte una palla», spiegò, dal niente.
Sakura scoppiò a ridere, divertita. Non se ne
intendeva di musica classica, ma stentava a immaginare che Itachi avesse avuto
cattivo gusto. Dalle foto, dai ricordi di Sasuke, le era sembrato una persona
elegante, raffinata, forse di quelle un po’ inquietanti, capaci di parlare di
qualsiasi cosa.
«Questa è rilassante», commentò, dando qualche
colpetto sulla testa di Sasuke per invitarlo ad alzarsi da terra e distendersi
accanto a lei.
Gli fece un po’ di spazio, gli prese la mano e
se la poggiò sul ventre. «Lo sai Sasuke-kun» riprese, «come noi sentiamo quando
lui si muove, lui sente tutto quello che gli succede intorno. Perciò lo
accarezzo continuamente».
Quelle di Sasuke non sembravano sempre carezze,
i movimenti della sua mano erano accorti, misurati, ma non sempre lenti. A
volte sembrava che quella mano non stesse accarezzando, ma salutando – così per
dire piacere Itachi, sono molto lieto di
conoscerti.
«Cos’altro sente?» chiese Sasuke.
Lei ci pensò un attimo, raccogliendo tutte le
informazioni che aveva. «Ora sente soprattutto il battito del mio cuore. Per
lui deve essere quasi assordante, ma non al punto da dargli fastidio. Lo
rassicura. Poi sente le nostre voci, e la musica».
«E allora perché ti lamenti che non dorme mai?»
gli fece presente lui: evidentemente rabbrividiva al pensiero del casino che
doveva sentire suo figlio a tutte le ore del giorno.
Sakura ne sorrise. «Se si abitua adesso ad
ascoltare alcune cose, per lui la…scoperta del mondo può essere meno
traumatica. Quando sarà nato e sentirà le stesse voci, la stessa musica… queste cose gli sembreranno un po’ più familiari,
meno estranee e terrificanti».
Sasuke si disse che per quanto familiari forse
alcune cose restavano comunque terrificanti. Anche lui ogni tanto aveva paura
di Itachi.
Allora si chiese se non fosse pazzo e giusto
così: rassegnarsi a condividere la paure di un bambino e aspettare di placarle
contro la sua pelle, come Itachi avrebbe fatto con lui tutte le notti, di lì a
pochi mesi, dopo avergli spaccato i timpani e rovinato il sonno.
Settimo
mese
«Non è colpa mia se non riesco a dormire» sbuffò
Sakura, riempiendosi una tazza con una sostanza dal colore poco invitante.
«Ogni volta che tento di girarmi è come se dovessi fare il giro del mondo, mi
sembra di metterci ore».
«Non ti posso dare un colpo e risolviamo tutto?»
Sasuke guardò disgustato quella roba che lei stava trangugiando senza pensarci
troppo. Non riusciva nemmeno a immaginare gli ingredienti improbabili che ci
aveva messo dentro per calmarsi un po’.
Sakura lo guardò male e lui pensò di essere
stato frainteso: «guarda che non ti lascerei sul divano, ti porterei a letto»
promise, quasi ragionevole – per quanto potesse sembrarlo con gli occhi
impastati di sonno, cioè. «O forse farei prima a portare il letto giù» considerò,
fissando la pancia di Sakura a provando pietà per le sue povere braccia.
Probabilmente sarebbe perito nel tentativo di sollevarla.
Lo sguardo di Sakura si fece ancora più sottile,
aveva un che di minaccioso. «Sasuke-kun», cominciò, melliflua, «pensavo che
avessi superato il periodo in cui riuscivi a dirmi certe cose solo con la
certezza che dopo mi avresti tramortita».
Sasuke sobbalzò, ma ebbe lo spirito di non darlo
a vedere. «È così infatti» precisò a denti stretti. Non era stato carino da parte
di lei fargli notare che era spesso stato costretto a colpirla dopo
dichiarazioni particolarmente compromettenti, a partire dalla notte in cui dopo
il suo primo grazie l’urgenza di
scappare si era fatta sentire. «E poi ora non devo dirti proprio niente. Vorrei
solo tornarmene a letto».
«Ma se mi dici qualcosa di carino potrei
considerare l’idea di lasciarmi colpire» dichiarò Sakura – forse anche lei era
particolarmente disgustata dalla tisana che aveva versato nella tazza.
Sasuke fece l’ultimo sbadiglio, strofinandosi
gli occhi per assicurarsi di essere ben sveglio. Le pose due dita sulla noce
del collo, come se avesse voluto prendere la mira per un colpo ben misurato.
Lei lo guardò con occhi frementi di aspettativa
e trattenne il fiato quando Sasuke le sfiorò il viso con un tocco leggerissimo.
«Sakura, tu non dormi perché non sei davvero stanca».
Lei spalancò la bocca pronta a protestare: era davvero stanca e non si sarebbe lasciata
colpire senza ricevere una meritata dichiarazione compromettente. Sasuke sapeva
che lei gli avrebbe risposto esattamente così, perciò quando si mosse veloce
per sfuggirgli, Sasuke non la lasciò allontanare troppo, tappandole la bocca
prima che cominciasse con qualche rappresaglia.
Mentre la baciava, sperò solo che dopo averla
stancata a dovere Sakura sarebbe stata almeno capace di tenersi in piedi – non
era sicuro di riuscire davvero a portare il letto giù per le scale dopo aver
finito con lei.
Il potere del fluff è molto insidioso, Sasuke lo
sa. E infatti ogni volta che cerco di sopraffarlo con questo potere ce lo vedo
a minacciarmi con un chidori.
Ma mi sa che il piccolo Itachi alla fine ha
avuto la meglio!
Buona lettura e come al solito grazie a tutte
per la presenza e la gentilezza J
Esplosioni
Ottavo
mese.
L’acqua della vasca era bollente e lui la
odiava. Sakura l’aveva imparato da anni. Perciò trovò quanto meno curioso che lui non avesse minimamente
accennato una rappresaglia o una lamentela quando si era premurata di
trascinarselo nella vasca senza troppi complimenti. Invece di farle notare
quanto fosse insopportabile, Sasuke si era anche attardato ad affondare le dita
nella schiuma che le era rimasta incollata sulla pelle. Era pensieroso, un po’
intento e concentrato su qualche pensiero che conosceva solo lui. Più o meno.
«Ti prego», mugolò Sakura, «non dirmi che stai
di nuovo tentando di capire che tipo di chakra avrà
il bambino».
Sasuke la guardò un po’ colpevole, ma non ci
mise molto a recuperare un’esemplare faccia di bronzo. «È colpa del dobe» spiegò, togliendo la mano inquisitoria dal suo
ventre. «Non la smette di dire che gli insegnerà il rasengan perché Itachi sarà
naturalmente predisposto a manipolare il vento». Sasuke non si risparmiò
un’espressione disgustata, come se qualcuno avesse appena tentato di scambiare
un rospo gigante con suo figlio.
«Non si possono fare previsioni del genere»
replicò lei, ragionevole. «Itachi non è nemmeno nato. È ancora troppo piccolo
per queste cose».
«Ma se insieme pesate tre tonnellate».
Il cipiglio di Sasuke acquisì proporzioni epiche
quando gli arrivò uno schizzo d’acqua dritto in faccia. La guardò minaccioso,
esibendo con alterigia l’autocontrollo necessario a poggiare la schiena contro
la spalliera della vasca piuttosto che cedere all’istinto di affogarla.
Sakura si rilassò un po’, socchiudendo gli
occhi. Le piaceva fare il bagno con lui. All’inizio era stato un desiderio stupido,
quasi volatile come l’acqua bollente che saliva in spirali di fumo fuori dalla
vasca. Le piaceva l’idea che per qualche ora entrambi avessero lo stesso
profumo, anche se poi lei si riempiva la pelle di creme e lui la mattina dopo
si passava un po’ di dopobarba in viso.
Solo dopo un po’ aveva capito cosa le piaceva di
più delle sere passate insieme nella vasca: aveva capito che forse si distrugge
la solitudine solo imparando a fare insieme qualcosa che sin da piccoli ci si
abitua a fare per conto proprio. Era un po’ diverso dal dormire nello stesso
letto e scoprire di avere bisogno di coperte più leggere perché in due tra le
lenzuola si sta più caldi. Era altrettanto bello, però, bello di una bellezza
diversa. Nella vasca ci si stava abbastanza stretti, a Sakura era sembrato
anche strano all’inizio guardarlo negli occhi un po’ lucidi, coi capelli
gocciolanti, sapendosi nudi con le gambe intrecciate, le ginocchia a pelo
d’acqua e le caviglie strette intorno alla vita di lui. Negli occhi avevano il
disagio di chi è stato abbracciato dalla solitudine e non sa bene come
sciogliersi da quella stretta soffocante. Lui era stato solo per anni, lei si
era sentita sola per un periodo che le era sembrato infinito. C’era qualcosa di
esasperante nella solitudine e qualcosa di meraviglioso nella soluzione che
avevano trovato a quella stessa solitudine. Una sera Sakura gliene aveva
parlato ad alta voce: forse non si è più soli quando un giorno ci si rende
conto che qualsiasi cosa, la più insulsa, la più inutile, la più fastidiosa, la
più intima, la si può fare insieme a qualcun altro, magari per capriccio,
magari una volta o due. E non era questione di negarsi ogni momento libero o
privato. Quello che faceva bene era avere la possibilità di scegliere se essere
da soli o in compagnia. Non era importante stare sempre insieme o per troppo
tempo. L’importante era che per trascinarselo nella vasca le bastava lasciargli
scegliere i sali da bagno, o lasciargli regolare la luce, e promettergli che
avrebbero preparato la sua cena preferita – o in alternativa minacciarlo di non
fargli vedere un pomodoro nemmeno per sbaglio per un mese intero – anche se lui
sapeva che la cena era già pronta nel forno e lo aspettava dopo un quarto d’ora
o due passati a scottarsi la pelle in acqua troppo bollente, perché a Sakura
così piaceva.
E – Sakura ci aveva messo un po’ a capirlo – lui
aveva accettato di sopportare tutte le cose che le piacevano, anche se non per
questo era diventato meno petulante o impietoso. O sincero in quella maniera
brutale che a volte faceva male e altre volte faceva pensare che se esisteva
qualcosa di divino, allora quel qualcosa aveva la sincerità di Sasuke.
«Io lo vedo»
soffiò lui, come se ci fosse stato bisogno di ricordarglielo. Quegli occhi a
volte erano stati una maledizione, o un peso, ma sempre qualcosa di prezioso. E
lui forse li adorava anche un po’ in più da quando gli permettevano di dare
un’occhiata al figlio in anteprima.
«E ti sembra un nano di tre tonnellate?» indagò
lei, curiosa.
«Non lo so… bene».
Sasuke era di nuovo un po’ accigliato. Confuso. Aveva la faccia di chi si trova
davanti al mistero più grande di tutti i tempi. «A volte sembra minuscolo. A
volte gigante».
E la sola idea li atterriva entrambi allo stesso
modo. Perché forse era piccolo, lo sapevano, però era anche qualcosa di troppo
grande, grande e bello di una bellezza ingestibile.
Sasuke allungò la mano verso di lei,
posandogliela sul fianco senza muovere troppa acqua. La sollevò un po’, e a
Sakura parve di galleggiare su una nuvola, come poco prima quando sotto la
schiena invece dell’acqua c’erano i cuscini e davanti a lei c’era Sasuke e
avevano fatto l’amore con più accortezza del solito.
Ora c’era sempre Sasuke, ma aveva un cipiglio
che non accennava a ritirarsi, quasi ombroso. Fissava la pancia gigante che
emergeva dall’acqua. «Così sembra una boa».
Sakura abbozzò, tentando di prendere nel giusto
verso l’osservazione. «Ma se non ha nemmeno la forma di una boa».
«Non per la forma», precisò lui, con tono fermo.
«E per cosa?»
Sasuke esitò un attimo, sbuffò ritornandosene al
posto suo lentamente. «Per tutto il resto».
Per la funzione, forse, si immaginò Sakura.
Perché l’aveva sempre saputo che Itachi sarebbe riuscito a salvarlo. A salvare
suo padre. E forse a chiunque sarebbe sembrato un po’ strano, perché ci si
abitua all’idea che siano i padri a dover salvare i figli. Sempre.
Ma lei pian piano si era convinta che quando si
tenta di salvare qualcuno, quando si tenta con tutto il cuore, allora finisce
che si viene anche salvati. Salvare e lasciarsi salvare erano la stessa cosa.
Anche se a farlo era un nanetto minuscolo.
«Secondo Tsunade comunque non pesa più di tre
chili e mezzo».
Sasuke annuì, concorde. «Il resto delle tre
tonnellate infatti è tutto spalmato addosso a te».
Però le bastò minacciarlo di rovesciargli
addosso tre tonnellate di grasso per farlo ritrattare. Sasuke si sentì tanto
magnanimo da scendere a tre quintali.
Tuttavia la sua benevolenza ben presto divenne
cruccio delicatissimo, perché pochi istanti dopo i tre quintali di rotondità
gli arrivarono velocemente tra le braccia, senza risparmiare una costola per
premura.
Forse Itachi gli avrebbe insegnato anche ad
essere più magnanimo. Per il suo
stesso bene, se non altro.
Ciao
Itachi.
Sasuke aveva il polsino della maglietta
incenerito e una nocca o due della mano destra pulsavano doloranti – forse era
la volta buona che si era rotto qualche osso dando un pugno a Naruto. Non
ricordava nemmeno cosa si erano detti, con quel pugno. Sapeva solo che gli
aveva messo addosso una strana sensazione di calma, ma in quel momento non si
ricordava nemmeno come si faceva a respirare e a insultare Naruto
contemporaneamente. Pessimo segno. In
apnea poteva anche starci, ma se non riusciva a insultare il dobe voleva dire
che qualcosa dentro di lui stava cedendo.
C’era il futuro dietro quella porta e a lui
veniva quasi voglia di bussare, con permesso, per dare una sbirciatina e capire
se sarebbe stato all’altezza di quel posto. Ma fu un desiderio lievissimo,
nascosto in una parte di sé che non era mai stata troppo importante. Sasuke
sapeva che non era possibile lasciarsi frenare dalle ginocchia molli, dalla
paura di rovinare tutto, perché c’era qualcosa di più spaventoso e ingiusto: ed
era il solo pensiero di perdersi un altro secondo di vita di suo figlio.
La prima cosa che vide quando entrò nella stanza
furono gli occhi di Sakura. Forse lei aveva sollevato lo sguardo perché lo
aveva sentito indugiare per un istante fuori alla porta, forse lei faceva sul
serio quando si chiedeva distrattamente se non fosse nata per aspettarlo – e
ogni volta che lo faceva gli sembrava tremendamente forte, perché forse non
c’era niente di più coraggioso di una ragazza (di una donna, di una donna) capace di aspettare all’inferno fin
quando lui non avesse fatto il primo passo verso di lei.
Sasuke avanzò guardandola un altro po’: c’era
un’emozione strana, forse guardarsi negli occhi fu un po’ come tenersi per
mano, ma senza stringersi le dita – ché tanto erano ferite o magari occupate –
era come tenersi per mano ma senza farsi vedere, segretamente, infinitamente.
Quando smise di nascondersi nello sguardo di lei
a Sasuke mancò un po’ il fiato – forse Itachi aveva consumato tutta l’aria
nella stanza, e lui non avrebbe fatto in tempo a spiegargli che c’era qualcosa
più bello da respirare, e si chiamava felicità, e si nascondeva nei posti più
impensabili, come le braccia di una donna che da ragazzina insopportabile
sarebbe diventata mamma insopportabile.
«Sasuke-kun» sentì in lontananza «gli occhi…»
Sasuke non spostò lo sguardo da suo figlio, ma
si portò una mano sulle palpebre. Solo in quel momento si rese conto di aver
attivato lo sharingan senza nemmeno accorgersene. Non gli era mai capitato
prima di averlo fuori controllo, eppure quella volta il motivo gli era ben
chiaro.
Voleva
ricordare tutto. Per il resto della sua vita.
Itachi era un cosetto
che per giustizia aveva deciso di nascere prima di pesare sul serio tre
tonnellate, aveva la pelle raggrinzita, pochi capelli spettinati – Sasuke era
quasi certo di intuire una vertigine su quella testolina.
«Pesa tre chili e seicento, è alto cinquanta
centimetri, ha pianto come un disperato quando lo hanno lavato e io non sapevo
se ridere o piangere con lui, perché…dio, Sasuke-kun, è strano sapere che le
lacrime gli hanno fatto bene, che sono buon segno, che lui esplode di vita
perché sa piangere così forte…» A Sakura tremava un
po’ la voce. «Forse fa bene anche a me… piangere,
dico».
Sasuke annuì brevemente, per farle intuire che a
lui stava bene se lei aveva voglia di piangere. Non c’era niente di male.
«Ma se piango mi si appanna la vista e vorrei
tentare di ricordarlo anche io questo momento…»
continuò Sakura, petulante.
Lui quasi sorrise, piano, poggiando un ginocchio
sul letto per accovacciarsi vicino a lei e a Itachi.
Itachi aveva il viso piccolo abbandonato contro
il seno di sua madre, le dita strette in quello che sembrava un pugno o forse
una fragola, per quanto era piccolo. E poi aveva gli occhi chiusi. Sasuke lo
osservò mentre sonnecchiava, meravigliosamente calmo.
«Non si guarda intorno?» chiese, curioso,
indagandogli il viso.
Sakura lo osservò con espressione ammorbidita.
«Ha già gli occhi neri, Sasuke-kun».
E lui avrebbe fatto in modo che per suo figlio
quello fosse un dono di cui avere cura.
«Sta dormendo, credo», continuò Sakura.
A lui sembrava di aver passato una vita a
dormire per svegliarsi solo in quel momento. «Che figlio degenere» smozzicò,
adombrato, portando il viso vicino al suo.
Guardarlo da vicino non lo aiutò a capire meglio
il piccolo mistero che lo rendeva tanto interessante. Restò così per un po’ di
tempo, senza sapere bene cosa fare, sperando che Sakura non stesse progettando
di mollarglielo tra le braccia a tradimento.
Non lo fece. Gli passò lentamente una mano tra i
capelli e lo invitò a poggiare il viso sul suo petto, accanto a quello di
Itachi.
Sasuke era talmente vicino da sfiorargli la
pelle con le labbra: la guancia era già paffuta.
«Con questi occhi… mi
mostrerai questo momento tutte le volte che te lo chiederò, Sasuke-kun?»
A Sasuke sembrò di metterci un paio di ere per
annuire, e un altro paio per allungare le mani verso suo figlio. Sperò di non
farle cedere proprio nel momento di prenderlo in braccio – il dolore alle
nocche sembrava sparito, chissà dove, ma c’era qualcos’altro.
Toccare Itachi era sentire tutta la vita che
nascondeva sotto la pelle arrossata. Era sentirla sotto le dita, e sentirla
esplodere. Bellissima.
I pugni
di Itachi
Sasuke lo teneva tra le braccia come se fosse
stato un generatore di vita. Era seduto vicino al letto d’ospedale in cui riposava
Sakura.
«Sta dormendo?» Naruto li scrutava con aria
circospetta.
«Ma se ha gli occhi aperti».
«Intendevo Sakura» precisò, avvicinandosi.
Sasuke annuì, lanciando ancora uno sguardo al
letto: Sakura sembrava assopita, aveva un’aria serena ma stanca.
Naruto ne sorrise, luciferino. Svuotò lo tasche
sul tavolino basso lì di fianco e si placò soltanto quando riuscì a trovare
quello che cercava. Strinse tra due dita un foglietto chiaro. Infilò quel
quadratino minuscolo nel pugno di Itachi con fare quasi solenne e guardò Sasuke
con aria che la sapeva lunga. Riuscirono a fissarsi di sottecchi per un paio di
secondi, la sfida negli occhi e l’adrenalina nel sangue. Poi passarono a
fissare Itachi senza degnarsi di assumere espressioni meno insistenti.
Il piccolo li scrutava senza vederli, girando il
viso di qui e di lì come mosso da una forza invisibile. Qualche istante dopo,
il foglietto che stringeva in una mano finì elettrizzato.
Sasuke ghignò, soddisfatto. Itachi avrebbe imparato il chidori. No,
meglio. Sasuke sentì di poter perire in tutto quel compiacimento. Nel giro di qualche anno suo figlio avrebbe
fulminato il dobe.
A dispetto delle sue aspettative, comunque,
Naruto ne stava sorridendo, allungando le braccia verso di lui.
«Non dovresti ritirarti in un angolino a
piangere per la tua stupidità?» indagò Sasuke, quasi curioso.
Lui non smise di fissarlo col sorriso che
arrivava a splendere persino negli occhi. «Dai, passamelo».
Sasuke guardò Itachi, stretto tra le sue
braccia. Guardò Naruto, che fremeva per l’attesa. Pensò che quello sarebbe
stato ancora più intimo e terribile e meraviglioso di tutti i pugni che si
erano scambiati. Non gli stava concedendo un pensiero o magari due, ma il mondo
intero.
E – Sasuke arricciò il naso, incapace di dire
certe cose ad alta voce – Naruto sapeva tenerlo bene, il mondo tra le braccia.
Sollevò Itachi più in alto del suo viso,
scrutandolo con interesse, ma anche un po’ perso. «Meglio così» disse. «Sarà
più bello quando dovrà scontrarsi col rasengan di Minato».
Quel dobe, Sasuke sbuffò, glielo diceva così che aspettava un figlio anche lui.
Chiedo
scusa per il giorno di ritardo. Lo so che dovevo postare ieri, mi stufa
metterci più di una settimana, ma non ho avuto il tempo di sistemare il
capitolo per bene. Più che altro non mi fidavo delle mie capacità di rilettura
XD Sono stata impegnata tutta la settimana per l’apertura del nuovo forum Sasusaku (che per chi volesse è qui, l’abbiamo inaugurato ieri!)
e quindi ho dovuto rimandare a oggi la pubblicazione. Che poi non mi pare delle
migliori, ma non sono riuscita a far uscire tutto come volevo io.
Speriamo
in meglio per la prossima volta XD
Intanto
grazie a tutte le ragazze che leggono!
Un
bacio, Filomena
J
Esplosioni
Più
saggio del padre
«Sakura dorme, non puoi urlarmi contro, Sasuke-kun».
«L’ho capito che Sakura dorme» smozzicò lui a
denti stretti, in un tono che poco si conciliava col cinguettio di Ino Yamanaka. Eppure Sasuke trovava piacevole quasi in maniera
sinistra l’idea di tenerla lontana da suo figlio sfondandole un timpano.
Dov’era Naruto quando serviva?
«E non puoi nemmeno fulminarmi, perché in quel
caso urlerei io».
Sasuke si sentì prossimo a gemere di
frustrazione. Tentò di ricordarsi con precisione perché mai fosse assolutamente
sconveniente sacrificare il sonno di Sakura per una buona causa come privare la
sua amichetta di un arto a caso, magari proprio quello con cui teneva Itachi
stretto al petto – solo a lui sembrava pericolosamente in bilico?
Sasuke chiuse gli occhi, scorgendo dietro le
palpebre un sorriso spontaneo. Ci trovò Sakura, nel buio quieto dei suoi occhi,
sembrava che avesse il sole in bocca per quanto era felice mentre gli diceva
che il modo migliore per assicurarsi di essere sempre felici era svegliarsi con calma, con una carezza, magari
due, con una voce soffice che dice buongiorno
come a dire lo vedi che ti amo anche
oggi?. Bastava essere felici per cinque minuti la mattina, cinque minuti di
quiete tenuissima, di passione calma, e la giornata sarebbe filata via più
facilmente. Poi Sakura gli aveva promesso che per lui sarebbe stato sempre
così, ogni giorno. E Sasuke non era sicuro, ma il rischio che avesse ricambiato
la promessa era parecchio elevato.
Forse perché non gli era sembrato niente di
troppo impegnativo, ai tempi. Guardandola ora Sasuke si rese conto di essere
stato poco prudente. Come poteva pensare di placare Ino senza farla prima
urlare di dolore?
Spostò lo sguardo su di lei in cerca di un’idea
e solo in quel momento si accorse che qualcuno aveva agito prima di lui: Ino
era silenziosa, immobile, vicino a Shikamaru che
aveva nascosto un po’ il viso tra i suoi capelli. La bocca non era tappata, ma
un po’ aperta, come alla ricerca d’aria.
Sasuke trovò che suo figlio fosse in qualche
modo più saggio di lui: aveva risolto tutto da solo con quegli occhi grandi e
neri. Aveva risolto tutto da solo. Togliendole
il fiato.
Okaeri
«Sakura, sta dormendo».
Lei gli fece segno di tacere, senza degnarlo di
uno sguardo. «E io sto tentando di educarlo» ribatté, compunta, riportando
l’attenzione sul figlio che gli aveva tolto dalle braccia. «Come ti dicevo,
Itachi, quando rientri a casa devi dire tadaima».
«Giusto, e ricordagli di non inciampare nel
cordone ombelicale» precisò Sasuke, rannuvolato, cacciando le mani in tasca per
cercare le chiavi di casa. Si sentì tuttavia abbastanza magnanimo da non
rinfacciare a Sakura che se lei l’aveva preso in giro per la questione del chakra, lui avrebbe potuto farla sentire di una stupidità
immane ora che si era messa in testa di insegnare buone maniere a un cosetto di tre giorni.
Sakura ne sorrise lievemente, divertita, mentre
lo guardava armeggiare con la porta di casa. Si intrufolò dentro scostando la
copertina dal viso di Itachi mentre Sasuke si liberava dei sandali e proseguiva
per la cucina. «Devi toglierti i sandali all’ingresso, li posi qui, Itachi»,
continuò, sistematica, tentando di scalciare via i suoi senza molto successo.
«Se sono in casa io ti sento, magari ti raggiungo all’ingresso. Se non sono
troppo stressata ti sorrido, ti dico in ogni caso okaeri tesoro. Bentornato».
Sakura si lasciò scivolare contro il muro, su un
gradino. Non poteva muoversi troppo per evitare di svegliare Itachi, ma gli
stivali comunque non si toglievano. Gettò uno sguardo di traverso a Sasuke che
la scrutava accigliato con la spalla poggiata contro lo stipite della porta.
«Se invece c’è papà a casa» continuò a spiegare
lei, «non ti dirà okaeri…è probabile che non ti dirà proprio
niente, non è sempre educatissimo. E poi ha questo problema con…»
«Sakura».
A quell’ammonizione un po’ lieve e un po’
minacciosa, lei gli fece segno di avvicinarsi.
Sasuke azzardò qualche passo verso di loro con
attenzione, gli occhi puntati sul viso serenissimo di Itachi. Dovette
rinunciare a prenderlo in braccio quando si accorse che per qualche fortunata
congiunzione astrale il piccolo stava ancora dormendo.
Si attardò qualche istante a indagargli la linea
degli occhi, come se tra quelle ciglia ci fosse un tesoro. Poi si inginocchiò
davanti a loro e prese ad armeggiare con la cinghia degli stivali di Sakura con
dita leggere, quasi assente.
Lei ne sorrise, senza nemmeno rendersene conto.
«Ti dicevo, Itachi, il papà ha questo problema con le formalità, gli sono un
po’ estranee, anche quelle più carine. Ma non fa niente».
«Ma smettila».
«Non fa niente, Itachi, sai perché?» continuò
lei, finalmente a piedi nudi. «Nel giro di qualche minuto farà qualcosa di
tanto bello che tu ti chiederai che senso abbia avuto stare fuori casa se a
casa si sta così meravigliosamente bene».
«Sì però Itachi ricordati di tornare a stomaco
pieno perché qui ci si dimentica ogni volta dell’ora di cena».
«Non mi dimentico» precisò Sakura, punta nel bel
mezzo di un discorso che le sembrava molto toccante. «Mi attardo fin quando…»
«… fin quando non ci penso io, sì».
Sakura scoppiò a ridere. Non intendeva dire
quello. Voleva solo sentire quella che Naruto chiamava la parolina magica, vedere ricordi antichi sepolti negli occhi di
Sasuke e trovarli stranamente piacevoli – non perché erano tutti belli, ma
perché Sasuke se li ricordava tutti e lei non riusciva a immaginare niente di
più dolce.
«Insopportabile».
Ecco.
Sakura posò Itachi nella culla che Sasuke aveva
portato in cucina. Poi si avviò verso la credenza, senza alcuna ragione per
attardarsi oltre.
Lo
spazio nei suoi occhi
Sul divano si stava abbastanza comodi. A volte
le arrivava in faccia il calore delle fiamme che crepitavano nel caminetto;
altre volte davanti a lei c’erano solo le spalle di Sasuke. Si era seduto sul
tavolino basso lì di fronte e guardava assorto il piccolo Itachi che si faceva
allattare impaziente e un po’ agitato. Sasuke aveva un modo strano di fissarlo:
come se appena un istante prima avesse scalciato il mondo fuori dalla porta,
come se nei suoi occhi ci fosse spazio solo per lui.
Sakura ne sorrise lievemente, abbassando il viso
per indugiare sulla stessa meraviglia che rapiva tanto suo marito. Itachi aveva
una bocca piccola e lei ci aveva messo un po’ per abituarsi alla morbidezza
delle sue labbra sul petto. Le sembrava che le chiedessero ancora più vita di
quelle di Sasuke e lei non era sempre sicura di averla. Non le era ben chiaro
il modo in cui qualcuno era davvero in grado di vivere sul suo petto, beato,
come se non ci fosse niente di più bello al mondo.
Sakura sussultò, scostando il viso di Itachi.
Controllò che non le avesse fatto troppo male anche se aveva morso forte. Tirò
un respiro profondo prima di riavvicinarsi alla bocca di Itachi, e nello stesso
momento sentì una mano leggera sulla fronte che le scostava una ciocca di
capelli fuori posto. Sasuke si era mosso con una naturalezza che non
apparteneva a lui, ma solo ai momenti in cui c’erano entrambi. Poi riconsegnò
l’indice ai pugni di Itachi che quella sera si era scoperto incapace di
starsene fermo.
«Grazie», mormorò lei, pensierosa.
Si ricordò delle raccomandazioni di Ino. Dopo il
parto era stata proprio una piattola e più o meno tutta Konoha
ancora non si spiegava come fosse riuscita a non finire incenerita da un Sasuke
quanto meno esasperato. Ino gli aveva
ripetuto a macchinetta che quando nasce un bambino le cose si fanno complicate
– come se lei lo sapesse, poi. Quando
nasce un bambino sono tutti concentrati su di lui, dimenticandosi della mamma.
Perciò – e qui qualcuno come il piccolo AsumaSarutobi avrebbe potuto giurare che negli occhi di Ino
fosse spuntata una fiamma più inquietante dell’amaterasu
– Sasuke, non ti azzardare a dimenticarti
di lei e a farla diventare più isterica del solito, ché io poi non la sopporto.
Quello che Ino non sapeva era che Sasuke non si
dimenticava mai niente.
Sakura annuì tra sé, un po’ persa. Lui
gliel’aveva fatto capire a tredici anni e ogni tanto glielo faceva capire
ancora, dopo tutto quel tempo. Non si
dimenticava mai niente. E, Sakura ci pensò con un po’ di sollievo, non si
sarebbe dimenticato di lei.
«Puoi…» la domanda le
morì in gola per un altro attacco di Itachi che evidentemente aveva voglia di
mangiare latte e capelli. Sakura indicò l’elastico sul tavolino basso,
scuotendo un po’ la testa per liberare una ciocca dalla bocca del figlio.
Sasuke picchiettò la guancia di Itachi senza
sapere bene cosa fare e quando lo vide deciso a rinunciare al contorno di
capelli, si affrettò ad agire.
Sakura sollevò il viso a guardarlo mentre lui
finiva di raccoglierle tutti i capelli in una coda. Attese che tornasse al suo
posto con lo stesso sguardo di prima e le venne quasi da ridere al pensiero di
averne fatto un’analisi imprecisa.
Nei
suoi occhi c’era spazio anche per lei. C’era spazio per lei e Itachi.
Anzi,
forse in due si stava ancora più comodi.
Salvarsi
Sakura sapeva bene cosa aspettarsi in quei
giorni particolari. Non accadeva molto spesso, ma a volte non poteva fare a
meno di attardarsi in ospedale anche nel primo pomeriggio. Sasuke era capace di
trasformare quelle circostanze in tragedie che al primo lamento di Itachi
assumevano la portata di una vera e propria fine
del mondo. Di fatti ci teneva a precisare che se Itachi aveva tanto fiato
in corpo per urlare allora poteva anche cantarsi la ninna nanna da solo, perché
lui non aveva la minima intenzione di farlo. E che se nell’atto riusciva anche
a cullarsi per conto suo era tanto meglio, doveva pur imparare a camminare un
giorno o l’altro.
Sakura ogni tanto, a sentirlo, dimenticava anche
di scuotere la testa. C’erano dei momenti in cui Sasuke era più divertente che
esasperante. E in genere quei momenti culminavano con visioni particolari: per
esempio Sakura rientrando a casa lo trovava disteso sul divano con Itachi
piegato su di lui, con le gambe che non riuscivano a circondargli nemmeno metà
busto. Ed era vero, Sasuke quasi non ci pensava a cullarlo per farlo
addormentare. Però lo fissava, come se dopo tutti quegli anni avesse capito
quanto fosse riposante nascondersi nei suoi occhi – come se riuscisse a trovare
la stessa quiete negli occhi del figlio. Poi gli stringeva le mani attorno alle
braccia piccole e morbide, se le poggiava sul petto, lo aiutava a tenersi un po’
su. E lo sapevano entrambi che se l’avesse lasciato Itachi gli sarebbe crollato
sul petto – così si stanca e dorme per
sfinimento, ponderava Sasuke – ma forse il vero mistero di quel momento era
nascosto tra le dita minuscole che si posavano sul suo cuore. Era qualcosa di
inconfessato, forse quasi remoto. Era uno dei tanti modi di salvarsi.
Sakura ne sorrideva, compiaciuta. L’aveva
immaginato che Itachi sarebbe riuscito a salvare un altro angolo di cuore del
padre, perché era così, semplicemente, Sasuke ce l’aveva scritto in faccia che
ne aveva bisogno. Aveva bisogno di credere che essere padre ed essere figlio
fossero esperienze meravigliose. Lui non aveva avuto il tempo di realizzare
quel sogno, ma solo di rincorrerlo, fissando le spalle di un padre a tratti
lontano, o severo, o che faceva il padre ma non per lui. Ci aveva messo un po’
a capire che non era così, che a volte la vicinanza è fatta di sangue e
attenzioni silenziose, ma il rimpianto di non averlo saputo da piccolo
continuava a tormentarlo a distanza di anni.
Così Itachi lo salvava. Non gli regalava il suo
sogno di bambino, non glielo faceva sembrare migliore di quanto avesse sperato.
Semplicemente, Itachi faceva in modo che la realtà e il sogno fossero la stessa
cosa.
Sakura li osservò dormire vicini. Evidentemente Sasuke
nel tentativo sfinire il figlio era rimasto distrutto lui per primo. Aveva sistemato
un cuscino dall’altra parte del letto, aveva posato un braccio vicino alla
testiera, e tra sé e quel piccolo rifugio ci aveva lasciato Itachi, che dormiva
soave.
Sakura si rammaricò di dover fare ancora qualche
passo perché sapeva che lui si sarebbe svegliato. E infatti non passarono molti
istanti prima che sentisse lo sguardo di Sasuke su di sé. Lo vide un po’
lucido, pieno di sonno. E calmo. C’era più salvezza di prima nel fondo dei suoi
occhi.
«Ti vedo bene, Sasuke-kun», sorrise, piegandosi
un po’ sul letto.
Sasuke assottigliò lo sguardo, rannuvolato. «Mi
ha fatto passare l’inferno».
Ed era una bella novità, sapere che ci si salva
anche nel bel mezzo dell’inferno.
Io non volevo arrivare in ritardo. Ma penso di
aver fatto indigestione del mio stesso fluff.
Boh? Qualcosa del genere, insomma. Io e Sasuke
lo dicevamo che il fluff è una cosa assolutamente insidiosa. XD
Buona lettura! J
Esplosioni
Promesse.
«Lo giuro», aveva detto Naruto, con voce
tremante, con tono solenne.
Davanti a tutto il villaggio aveva giurato che
si sarebbe preso per sempre cura di Itachi e che avrebbe condiviso ogni giorno
con lui la sua marmellata preferita.
Era stata una bella cerimonia e tutti in Naruto
già vedevano il padrino migliore del mondo. Forse perché nessuno sapeva fare
giuramenti come lui; non c’era bisogno che firmasse col sangue, ce l’aveva
scritto negli occhi e sulla pelle, nelle cicatrici più antiche: non sarebbe mai
tornato indietro. Era stato lui stesso a istituire quel tipo di celebrazioni a Konoha. Quando era diventato hokage
l’aveva fatto con un futuro nitidissimo negli occhi: il mondo degli shinobi doveva cambiare e non ci aveva messo molto a
decidere che i primi cambiamenti avrebbero dovuto riguardare i bambini. Nessuno
sarebbe diventato grande con un passato di solitudine come lui e Sasuke
nascosto in uno sguardo appena controllato, in fondo pieno di rabbia e
tristezza. Pian piano la solitudine sarebbe stata conosciuta solo nei racconti
degli shinobi più anziani. Nessuno avrebbe conosciuto
quel dolore sulla pelle – crescere, da quando Naruto era hokage,
non significava sempre sperimentare un particolare tipo di dolore sulla propria
pelle, ma solo empatizzare con quello degli altri.
Crescere significava essere protetti fino a quando proteggere a propria volta
non sarebbe stato un modo di vivere.
«Ma come fai a non essere stanco?» si lamentò
Sasuke, scrutando torvamente suo figlio. Aveva anche tentato di farlo reggere
da solo sul suo petto, come faceva sempre per privarlo delle ultime energie
prima di farlo addormentare. Tuttavia Itachi era vigile, e si era anche messo
in testa di giocare con la collanina che Naruto gli aveva messo al collo – il
pendente era un pezzo dello shogi, in oro, finissimo,
lucente. Un re, come aveva suggerito Shikamaru.
«Magari vuole un regalo anche da te, Sasuke-kun»
considerò Sakura, fastidiosamente allegra anche dopo una seratina
passata al centro del villaggio.
«Oltre alla festa?» indagò lui, scandalizzato,
dalla sua postazione sul divano.
«Della festa non ricorderà niente».
«Te
l’avevo detto», la rimproverò, sospirando.
«Avrà le foto».
«Allora come regalo gli faccio una mia foto».
Sakura ne sorrise, anche se un po’ accigliata,
pensierosa. Stava accarezzando lo stesso pensiero da un sacco di tempo. Si
avvicinò a loro due, inginocchiandosi dietro al bracciolo su cui Sasuke aveva
posato la testa. «Stavo pensando…» cominciò,
premurandosi di non notare l’orrore comparso sul viso di Sasuke alla sola
premessa «ci sono dei regali che non vanno ricordati, solo…
sentiti?»
«Me lo stai chiedendo?»
«Non lo so», ammise, chiudendo gli occhi per non
lasciarsi sopraffare dai ricordi, da vecchi crucci. «È da quando avevo tredici
anni che mi faccio sempre la stessa domanda. E ancora non trovo una risposta
diversa da quella che trovai la notte che… lo
sai».
«Vuol dire che è quella giusta per te», rispose
Sasuke, dopo un istante in cui si era lasciato rapire dal passato – o forse era
diventato abbastanza forte da lasciarsi solo abbracciare.
«E per te?»
Sakura sentì su di sé il suo sguardo rapido,
scurissimo, profondo. Lo vide annuire con calma.
«Gli regaliamo una promessa allora?»
«Però anche l’idea di qualche altra foto inutile…»
«Ho capito, gliela faccio io» lo interruppe
Sakura, divertita. Evidentemente Sasuke non era nella giusta disposizione
mentale per declamare promesse accorate – come al solito, insomma. Però era
nella giusta disposizione mentale per lasciarla fare – e a Sakura piacque
pensare che ormai anche questo avveniva con cadenza giornaliera. «Anche da
parte tua?»
«Basta che non ci metti un paio di ere perché ho
sonno».
Gli sfiorò la fronte con dita leggere, gli prese
una mano e gliela posò sul petto, mentre Itachi li guardava incuriosito.
Sakura lo guardò attenta, ancora un po’
dubbiosa. Da quando era piccola si era chiesta quale fosse il regalo più bello
da fare a una persona amata. Le erano venute in mente varie risposte. Per un
momento aveva pensato di promettere protezione, eterna, a costo della vita, poi
si era resa conto che forse non avrebbe fatto la differenza, che proteggere una
persona forse bastava a farla sopravvivere, ma doveva esserci dell’altro.
Così a Sasuke aveva urlato che avrebbe fatto di
tutto per donargli qualcos’altro – la
felicità, Sasuke-kun. Quando a Sasuke quella promessa non era bastata per
restare a Konoha con i suoi amici, Sakura si era
ritrovata a vederla riflessa in ogni lacrima versata su cuscini sempre troppo
umidi. Non riusciva nemmeno a sopportare il pensiero che lui fosse talmente
disperato da non ambire almeno un po’ alla felicità, all’istinto più intimo che
suggerisce sii felice e sarai vivo
davvero.
Quando Sasuke era tornato a casa avevano dovuto
imparare prima a vivere, poi a essere felici – a promettersi attimi di felicità
per il futuro.
Ma Itachi aveva tutta quella vita negli occhi e
nella bocca che usava più per ridere che per smozzicare sillabe storte… a guardare Itachi si vedeva tutta la vita che gli
esplodeva sotto pelle. Bellissima. Quindi forse era già pronto ad accogliere
quella promessa.
«Itachi, il tuo papà e la tua mamma vogliono
farti un regalo… impegnativo. Non esistono regali più
impegnativi delle promesse, perché valgono per tutta la vita. Noi ci
impegneremo a rinnovarla ogni giorno questa promessa…
e ci impegneremo anche a insegnarti a meritare questo regalo. D’accordo? Non lo
so se c’è qualcosa di meglio, anche questo potrebbe non bastare…»
«Sakura».
È tutto
abbastanza. È abbastanza per una vita intera.
«Ci impegneremo a renderti sempre felice, ogni
giorno. E quando soffrirai noi soffriremo insieme a te».
Sakura scattò in piedi e si allontanò un po’
senza guardarsi alle spalle. Se si fosse impegnata non le sarebbe calata
nemmeno una lacrima, pensava di poterci riuscire. Si concentrò al punto che a
stentò riuscì a distinguere le parole ovattate di Sasuke: «vedi di fartelo
bastare Itachi. Solo a un imbecille non basterebbe».
Sakura sussultò, voltandosi di nuovo verso di
loro: Sasuke aveva l’espressione seria di chi ha appena fatto una confidenza
molto intima. Itachi rideva, divertito dal modo in cui aveva imparato a
strofinare la fronte su quella del padre.
Verso di lui.
Itachi stava crescendo vivacissimo, sembrava
impaziente di andarsene in giro per il mondo tutto solo. A Sakura non
dispiaceva seguirlo passo passo nell’attesa di
vederlo in equilibrio sulle proprie gambe.
La prima volta che Itachi riuscì a camminare da
solo, Sakura pensò che forse avrebbe dovuto capirlo un po’ prima: bastava
posare le mani sotto le sue, senza toccarle, magari solo sfiorandole per dargli
sicurezza. Bastava stargli alle spalle. Bastava far accovacciare Sasuke
dall’altra parte del tappeto e Itachi pur di raggiungerlo velocissimo avrebbe
imparato persino a volare.
E – Sakura ne sorrise – il modo in cui Itachi si
fece cadere tra le braccia del padre sembrava la cosa più simile al volo di un
angelo.
Il
fuoco dentro.
«Dai Sakura-chan, vedi che non è interessato?»
sghignazzò Naruto, nascondendo le risate dietro il cuscino che si stava
strapazzando tra le braccia.
«Come fa papà ad avere il fuoco in bocca?»
Sakura lo fissò corrucciata mentre Itachi aveva
lo sguardo incollato sulle fiamme alte che ardevano nel camino di fianco a
loro. Forse non era stata un’ottima idea sedersi lì davanti a raccontargli una
storia. «Non vuoi sapere come va a finire con la farfalla?»
«Sicuramente bene» commentò Itachi, poco
interessato. Se non avesse avuto disegnata in viso l’aria da bambino
perennemente felice sarebbe sembrato anche un po’ frustrato per lo studio poco
fruttuoso delle fiamme. Ogni tanto soffiava e fissava contrariato gli spruzzi
di saliva che sputava al posto del fuoco.
«Io l’avevo detto!» ci tenne a precisare Naruto,
al massimo dell’ilarità. «L’avevo detto che a due anni sarebbe stato più
interessato al katon che alle tue storie assurde».
«Cos’è il katon?» domandò Itachi, con genuina
curiosità. «Serve a fare le scintille?»
«Esatto» replicò Naruto, tutto preso.
«E tu sai come si fa?»
«Naruto», lo riprese Sakura, quando lo vide sul
punto di proclamarsi il maestro di un bambino che si era messo in testa di
saltare qualche tappa.
Naruto si sgonfiò e Itachi non perse tempo ad
accusarlo di non avere il fuoco in bocca.
«Itachi, il fuoco non è in bocca» intervenne
Sasuke, in tono vago. Fino a quel momento aveva osservato la scenetta con
apparente disinteresse.
«E dov’è?»
Sakura ne approfittò per incastrare entrambi con
la risposta: «se vai a letto con papà lui te lo dice», propose.
La sera successiva davanti al camino Itachi e
Sakura erano da soli. Sasuke era appena tornato da una missione ed era filato
via a farsi una doccia. Itachi si era rifiutato di andare a letto: ogni sera
doveva giocare almeno dieci minuti col padre. Non faceva molto, si limitava ad
agitarsi e a guardare Sasuke mentre soffiava con le labbra come solo lui sapeva
fare. Riempiva il camino di scintille che avevano il potere di rapire
completamente il bambino.
«Ieri papà ha detto che il fuoco è dentro»
cominciò Itachi, dubbioso. «Cosa significa?»
Sakura ne sorrise: le spiegazioni toccavano
sempre a lei. «Significa che da qualche parte c’è anche dentro di te anche se
non si vede».
«Davvero?» Itachi scattò in piedi, colto da un
entusiasmo esplosivo. «E dov’è?»
Sakura gli sfiorò il petto, facendolo
accovacciare tra le sue gambe. «Qui».
«Non è vero» la accusò lui, deluso.
«Ma certo che è vero» tentò di convincerlo lei,
paziente. «Non ti sembra più caldo quando pensi a papà?»
Itachi si fece pensieroso ma restò guardingo.
«Forse sì», rispose, distratto da un altro pensiero, decisamente più
affascinante. «Papà pensa a me quando fa le scintille?»
Sakura sorrise – e Sasuke poco dopo le avrebbe
rinfacciato senza alcun ritegno che quello poteva essere classificato a buon
diritto tra i sorrisi più malevoli di sempre.
Ma lei non ci trovava niente di male nel
desiderio di sentirlo ammettere che sì,
pensava sempre a Itachi.
Bugie.
«Itachi, devi tossire meglio».
«Ma ho tossito meglio» si difese il bambino, orgoglioso.
«Sì, ma Sasuke ieri non ti ha creduto. È possibile
che a tre anni ancora non sai fingerti malato?» Naruto lo guardò con una luce
divertita negli occhi.
«Ieri quando ho fatto finta di avere tanta fame
tu mi hai dato più marmellata» obiettò Itachi, compiaciuto. Quando l’aveva
raccontato a suo padre lui gli aveva dato il permesso di chiamare Naruto dobe almeno una
volta. Itachi non si era fatto sfuggire l’occasione, naturalmente. Tuttavia il suo
momento di soddisfazione era durato poco perché Naruto aveva deciso di fargli
pensare di poter prendere in giro anche il padre. Così lo aveva fatto
esercitare a tossire a comando, fin quando Sasuke – preso dall’esasperazione –
non avrebbe accettato di portarlo in vacanza al mare dal Kazekage.
Naruto non fece in tempo a fargli segno di
cominciare coi colpi di tosse che un pugno gli si abbatté al centro del capo.
«La smetti di insegnargli a dire bugie?» si
lamentò Sasuke, rannuvolato. «Itachi, volevi fingere di stare male?»
Il bambino lo guardò con aria colpevole, occhi
fuggenti. Era palese il suo tentativo di mantenere un’aria angelica nonostante
il senso di colpa. «No, papà».
«Bene», approvò Sasuke, decidendo di non fargli
notare almeno per una volta che era un pessimo bugiardo. «Allora puoi chiamare
Naruto dobetutte le volte che vuoi».
Itachi si illuminò in viso, smettendo una volta
per tutta l’aria da angelo.
Il sorriso luciferino sulle sue labbra stava
decisamente meglio.
Secondo me non si capisce niente XD E se si
capisce ispira curiose prestazioni di sopracciglia e quant’altro suggerisca
perplessità. Insomma! Più tento di farla uscire decente la storia del pargolo,
più finisco impantanata.
Il prossimo è l’ultimo capitolo, almeno non
rischio più di affogare XD
Buona lettura J
Esplosioni
Il
cuore del mondo.
L’acqua si avventava sulla scogliera in maniera
tanto violenta da sembrare l’estensione degli artigli di un mostro. Assorbiva
gli ultimi raggi del sole, si tingeva di
riflessi aranciati e ricordi dalle sfumature più oscure.
Sasuke
deglutì a fatica osservando il mare di fronte a sé. Da qualche parte, lì in
basso, c’erano finite anche le sue lacrime e le ceneri di Itachi,
molto tempo prima. Come allora, il sole basso gli feriva gli occhi ed altre
ferite erano troppo intime e remote per capire chi gliele avesse inferte.
«Papà!»
Itachi – suo figlio – rotolava velocemente verso
di lui senza nemmeno pensare che poco lontano dai suoi piedi ci fosse il nulla.
Sasuke allungò un braccio per non farlo sporgere
oltre ed evitare che capisse quanto fossero in alto. Continuò a dargli le
spalle, e in un istante si ritrovò le braccia minuscole di Itachi
strette al collo. «Papà» ripeté il bambino, quasi grave. Aveva le mani sudate,
sulla pelle e nella voce il segno che non riusciva a nascondere bene la paura.
Fino a qualche giorno prima Itachi
era stato una vera lagna, persuaso da Naruto che
avevano tutti bisogno di una vacanza a Suna. Lo
sapevano tutti che a solo un giorno di distanza c’era quella scogliera e c’era
quel mare – profondo, infinito, eterno,
come l’amore di un fratello. Sasuke non voleva
tornarci e non voleva nemmeno spiegarsi. Sakura aveva raccontato cose assurde
al bambino; per esempio che in quel mare batteva il cuore del mondo. Itachi non aveva capito ma non era una novità. Facevano
sempre quel gioco: uno di loro gli diceva qualcosa di strano, lui si impegnava
a capire e quando chiedeva lumi loro si impegnavano a farlo sentire abbastanza
intelligente da ricevere una spiegazione completa.
Quella volta però aveva fatto tutto Sakura.
C’era qualcosa nel comportamento del bambino che faceva capire la misura in cui
aveva intuito cos’era successo in quel posto anni prima.
C’era
la morte, la carcassa di un amore che era sopravvissuto a tutto tranne al suo
personale senso di giustizia.
«Ha detto mamma» cominciò Itachi,
stringendo sempre più forte le mani intorno al collo del padre «ha detto che in
quest’acqua batte il cuore del mondo e quindi se il mare è agitato vuol dire
che il cuore batte forte».
Batte
il cuore del mondo – del tuo mondo, Sasuke.
Per
quanto tempo Itachi – niisan – era stato il suo mondo?
«Ti ha detto anche…»
cominciò Sasuke, senza sapere bene quali fossero le
parole adatte per un bambino.
«Mi ha raccontato che qui hai detto addio al tuo
nii-san».
«Sì», confermò lui, muovendosi un po’ quando
sentì le mani di Itachi sotto la maglietta. «Che
fai?»
«Anche tu sei agitato» rispose lui, poggiandogli
la mano sul petto. «Mamma mi ha insegnato a sentire dove batte il cuore»,
precisò, a uno sguardo accigliato del padre. «Perché non piangi?»
Sasuke si
voltò di nuovo verso il mare, chiuse gli occhi per un momento. «Ridi un po’».
Itachi non se
lo fece nemmeno ripetere, divertito dal fatto stesso che suo padre gli avesse
chiesto di ridere invece di darsi una calmata. «E rispondimi però!»
«Io non sono una lagna come te, certo che non
piango».
«Ma come fai?»
Sasuke si
alzò, dando un buffetto sulla fronte del figlio. «Tu continua a ridere», disse,
avviandosi verso il basso dove Sakura lo stava aspettando insieme a Naruto e alla sua famiglia.
Itachi fece
per seguirlo, poi tornò indietro all’improvviso – Sasuke
riusciva solo a immaginare il terrore che il figlio stava tentando di ignorare
pur di dire qualcosa sul limite della scogliera. «Ero un po’ agitato anche io.
Mi ha fatto piacere conoscerti…zio».
***
Ridi un
po’.
«Papà, ho capito cosa volevi dire!» Itachi esordiva sempre così. Se non capiva qualcosa, ci
ragionava un paio di giorni, se la faceva spiegare da Sakura, e poi arrivava da
lui come una furia.
Ho capito
cosa volevi dire!
«Cosa?»
L’abitudine per Itachi,
comunque, era sempre una vittoria deliziosa. «Che mi vuoi bene» sghignazzava,
soddisfatto. Anche se non c’entrava niente. Rispondeva sempre così e si beava
ogni volta perché Sasuke non si scomodava a negare.
Al massimo chiedeva: «e poi?»
Itachi si
guardò intorno, circospetto. Abbassò un po’ la voce, forse era anche un filo
insicuro. «Ha detto mamma che non è vero che tu non puoi piangere. Puoi piangere. Ma non piangi mai perché
altrimenti io sarei triste e a te piace sentirmi ridere invece di metterti a
piangere». Itachi gli lanciò uno sguardo obliquo,
indagatore. Voleva vedere se era stato in grado di capire e spiegare tutto per
bene.
Sasuke lo
fissò con attenzione, inginocchiandosi davanti a lui. Itachi
era una vera lagna, piangeva in continuazione per qualsiasi assurdità, anche se
ogni tanto gli veniva in mente di ostinarsi a fare il duro. Aveva la lacrima
facile, oppure nessun motivo per governarsi. «Pensi di poter fare lo stesso per
me?»
Il bambino valutò la situazione per qualche
istante, pensieroso. Probabilmente non aveva voglia di impegnarsi in qualcosa
di troppo impegnativo.
«Itachi».
«Ridi un po’!» gli rispose lui, tentando di
fargli il solletico.
Sasuke ne
sorrise, col viso nascosto tra i suoi capelli.
***
Eccezioni.
Itachi se ne
stava disteso sul tappeto come se non esistesse posto più comodo al mondo. Il camino
lo riscaldava e gli illuminava il disegno a cui stava lavorando. Non era
proprio soddisfacente, c’erano troppe linee storte. Itachi
osservò di nuovo il viso di sua madre, intenta a leggere sul divano. Aveva gli
zigomi più alti, gli occhi non somigliavano per niente ai cerchi che aveva disegnato
lui. Si accigliò per un istante, poi decise che dopotutto poteva andare così. Aggiunse
un ombrello, e finì di scrivere il suo nome in fretta e furia quando sentì la
porta di casa che si apriva. Non stentò a notare che quando il papà entrò in
soggiorno tutto fradicio per la pioggia la mamma gli dedicò solo un cenno e
tornò a leggere il librone che stringeva tra le braccia.
Itachi sospirò,
a notare che il cenno di suo padre era stato ancora più tirato e teso. Si affrettò
a seguirlo in bagno e a piazzargli il disegno tra le dita, sostituendolo all’asciugamano
che Sasuke aveva recuperato da un mobiletto vicino. Itachi cominciò a strofinargli i capelli con energia al
punto da fargli male, ma lo lasciò lamentare in silenzio – si sapeva che il
papà sopportava le cose fastidiose anche peggio di lui, se possibile, e si
lamentava con molta più fantasia.
«E questo cos’è?»
Itachi
arrossì un po’ quando si accorse che lui stava scrutando con attenzione il suo
disegno. C’erano la mamma, e il papà – con
le facce che avevano quando non litigavano - e poi c’era un ombrello, e dentro l’ombrello
il suo nome. Era suo compito tenerli vicini se tentavano di allontanarsi.
«Quando chiedi scusa?» indagò, e quando ricevette in risposta uno sguardo
scandalizzato aggiunse: «se non chiedi scusa non avrai il bacio del buongiorno
nemmeno domani», e così pensava di chiudere l’argomento. Non che gli importasse
molto, dopotutto, potevano sempre fare come quella mattina: la mamma era andata
a svegliarlo cinque minuti prima e gli aveva chiesto di passare a svegliare il
padre con un bacio rumoroso e schioccante. Però qualcosa gli diceva che invece
il papà voleva due baci la mattina.
«Io non devo chiedere scusa, Itachi».
«E perché io devo chiedere sempre scusa?»
«Perché tu combini casini uno dietro l’altro».
«E tu invece che hai fatto?»
Sasuke
sospirò, togliendogli il telo di mano e prendendo a tamponarsi i capelli per
conto suo. «Ai grandi non sempre basta chiedere scusa, Itachi».
«E quindi come si può fare pace da grande?»
«Parlando» rispose lui, arricciando il naso. «E
facendo qualche eccezione».
Itachi ci
mise un po’ ad assorbire la notizia, e prima che il padre lo piantasse nel
bagno per andare a fare razzia della cena in frigo, trovò anche il tempo di
urlare che la prossima volta che mi fai
arrabbiare allora devi fare un’eccezione anche per me.
***
Arte.
«Sei stanco papà?»
Sasuke scrutò
il viso luciferino del figlio: Itachi si sistemava la
sua nuova divisa da caccia addosso e fingeva di tenere in conto la sua
stanchezza. Era appena rientrato da una missione, e il divano era sicuramente
più allettante dell’engawa mentre a un passo da loro
pioveva al punto che sembrava che sarebbe venuto giù pure il cielo.
Ma se avesse detto a Itachi
che non era il caso di cominciare con le lezioni, un’altra volta, sicuramente lui avrebbe messo il broncio per tutta
la sera.
«Tra due minuti tanto sei stanco pure tu e
rientriamo» lo avvertì Sasuke, senza alcun
particolare trasporto.
«Scordatelo, io non mi stanco».
«Tutti si stancano Itachi,
soprattutto quando vogliono usare archi troppo grossi».
Il bambino lo guardò stizzito, tentando di
sollevare l’arma all’altezza del viso. Ci riuscì a stento e con uno sforzo che
non riuscì a dissimulare.
Sasuke lo
guardò un po’ divertito e un po’ perso nei ricordi. Aveva indossato la stessa
divisa, un milione di anni prima, ed era stato altrettanto petulante. Tentò di
riportare alla memoria le parole che gli aveva detto suo fratello alla prima
lezione, e trovò che molte l’avevano accompagnato fino a quel momento
particolare della sua vita senza che se ne fosse nemmeno reso conto.
«Itachi, il braccio
sinistro deve stare teso, così», cominciò, aiutandolo ad assumere la posizione
giusta. «Il braccio destro invece no, deve restare più morbido al livello del
polso. Prova a caricare la freccia».
Lui eseguì compito e con attenzione, lasciandola
schioccare alla volta di un bersaglio che non sfiorò nemmeno di striscio. Guardò
il frutto del suo fallimento con occhi sbarrati.
«Devi fare pratica» constatò Sasuke,
per niente meravigliato e col desiderio che quel disastro non meravigliasse
troppo nemmeno suo figlio. «Prova così» aggiunse, sistemandogli meglio anche il
braccio destro, facendo emergere dalla memoria altre parole, più calme, più
belle, più strane. «Itachi, il movimento del braccio
destro è uguale anche per quelli che suonano e per quelli che dipingono, lo
sai? Significa che questa è un’arte, per gli shinobi».
«E quindi?»
«E quindi ci vuole tempo per impararla e poi…» soggiunse Sasuke,
ricordando un sorriso gentile, una raccomandazione che sarebbe valsa per una
vita intera; «come tutte le arti è usata per fare qualcosa di bello».
«Per esempio?»
«Proteggere le persone a cui vuoi bene».
Itachi ne
sorrise, il volto illuminato dalla voglia di riuscire. Intanto però riusciva
solo a lamentarsi quando Sasuke invece di fargli
tenere la posizione, si premurava di colpirlo sulla fronte, lieve. Persistente.
Finita. L’effetto è sempre strano, quando
succede. Sono felice, e anche malinconica – ma forse non c’è vera felicità
senza malinconia, boh? XD
Non è che questa storia mi abbia proprio
convinta, diciamo pure per niente. Ma mi ha fatto bene superare i miei limiti
come per esempio il rifiuto di scrivere di bambini e famiglie alle prime armi,
e la difficoltà a seguire dei prompt per trarne sliceof life. Quindi penso di
aver fatto un passo avanti – e i passi avanti quando mi trascino dietro Sasuke&Co sono sempre soddisfacenti XD
Grazie a tutte per esservi trascinate con me,
perché altrimenti io non sarei andata proprio da nessuna parte!
Alla prossima, Filomena J
Esplosioni
Ha
bisogno di una cosa.
Sasuke pensava di sapere cosa sarebbe successo
nel momento in cui avesse varcato la soglia di casa. La voce di Sakura gli
avrebbe trapanato i timpani, per esempio. Okaeri, bentornato, con l’evidente sottotitolo spero che sia abbastanza in forma da sopportare me e i miei capricci
del momento. O forse era Itachi che gli lasciava intendere qualcosa del
genere. In ogni caso, era certo che almeno uno di loro non aspettava altro che
abusare di lui.
«Okaeri».
Sasuke si passò una mano sull’orecchio con
leggerezza, quasi carezzevole e piena di compassione per se stesso.
«Sasuke-kun, entrando controlla se a Itachi
serve qualcosa».
Tutto nella norma.
«E poi potresti passare ad apparecchiare la
tavola? Io ho altro da fare».
E l’odore suggestivo che proveniva da poco
lontano suggeriva chiaramente che la cucina era sul punto di trasformarsi in un
inferno. Tutto, nelle mani di Sakura,
finiva per bruciare. Quando glielo faceva notare lei si innervosiva, o in
alternativa, se era di particolare buonumore, gli faceva notare che anche lui,
ogni tanto, tra le sue mani, bruciava.
Sasuke annuì distrattamente. La routine era
diventata in un certo senso confortante. Gli piaceva poter predire tutto quello
che succedeva nella sua famiglia. Perciò rimase agghiacciato quando la vista di
Itachi gli provocò una stretta allo stomaco.
Stava bene, in apparenza. Nemmeno si era accorto
che lui era tornato, altrimenti si sarebbe dato una mossa a saltargli tra le
braccia e a rovesciargli addosso una lista infinita di preghiere e capricci.
Semplicemente, giocava. E giocava da solo. E adesso era più facile capire
perché Itachi da un po’ si era messo in testa di imparare a fare le voci.
Tentava di far interagire due peluche – a uno mancava il braccio, ma anche
questo non era niente di sorprendente, soprattutto perché il braccio amputato era
in bocca all’altro.
Quello che fece tremare il mondo di Sasuke era
la velocità e il cipiglio con cui Itachi passava a impersonare prima un peluche
e poi un altro, sbuffando furiosamente per la fatica.
Sasuke lo fissò per qualche istante,
rannuvolato, prima di ritornare sulla strada per la cucina. Si rilassò contro
lo stipite della porta, eppure il mondo continuava a tremare. Sasuke non
riusciva a capire come fosse possibile che Sakura non se ne accorgesse. Doveva
dirglielo, in qualche modo.
«Gli hai detto che è quasi ora di cena? Ha
bisogno di qualcosa?»
Tutto
tremava. Perché Itachi era solo – aveva addosso una solitudine che né lui né
lei potevano colmare.
Sasuke annuì senza nemmeno accorgersene, mentre
le si avvicinava, a piedi nudi. Gli sembrava di camminare su acque agitate. «Ha
bisogno di una cosa, sì».
Dalla pentola il fumo usciva in spirali
sinistre. Sakura lo guardò abbattuta, arricciando il naso. Le dispiaceva essere
totalmente impedita in cucina, però dopo tanti anni aveva capito che era brava
e indispensabile per molte altre cose – per delle persone – e se n’era fatta
una ragione, pian piano.
«Di cosa ha bisogno?» indagò, attenta.
Sasuke prese fiato, poi le adagiò con calma una
mano sul ventre.
Il mondo smise di tremare quando Sakura spalancò
gli occhi – erano tanto grandi da abbracciarlo tutto, da calmare anche il caos.
E allora il mondo diventava pronto per
esplodere. Di nuovo. Di vita. Bellissima.
Il regalo
più grande.
«Proviamo a parlargliene ora?» propose Sakura,
davanti a una pentola diversa ma dal contenuto inquietante come quello della
pentola che l’aveva preceduta.
Sasuke annuì,
voltandosi verso Itachi quando si accorse che stava
entrando in cucina. «Vieni qui», lo chiamò, sollevandolo da terra appena lui
gli si avvicinò. Sasuke lo poggiò sul bancone, poco
distante dai fornelli, abbastanza da tenerlo al sicuro da quegli effluvi
malefici.
Sakura lo osservò per qualche istante,
indagatrice. Poi si rassegnò a dover cominciare, mentre Itachi
si premurava di tenersi le braccia del padre attorno ai fianchi anche se la
seduta era sicura. «Itachi, ti sei comportato bene
ultimamente?»
Il bambino la guardò con sospetto, davanti agli
occhi con ogni evidenza aveva tutte le malefatte dell’ultimo periodo. «Certo,
mamma».
Sakura ne sorrise, divertita – non si era
aspettata una risposta diversa, ma sentirla pronunciare con voce angelica era
sempre un po’ stupefacente. «Noi vogliamo farti un regalo, ma per averlo devi
promettere che ti comporterai sempre bene. Solo i migliori possono avere questo
regalo» spiegò, vaga ma perentoria.
«Cos’è?» indagò Itachi,
già felicissimo. «Papà, diglielo anche tu che ieri sono andato a letto presto
anche se lei era al lavoro».
Lo sguardo di Sasuke
si assottigliò, malevolo. «Mi hai fatto leggere una storia terribile, Itachi».
Il bambino lo scrutò offeso, negli occhi aveva
la promessa di una vendetta particolare. «Comunque»,
divagò, per assicurarsi di non farsi sfuggire niente. «Dov’è il mio regalo?»
«Arriverà» lo rassicurò Sakura, riportando per
un istante l’attenzione sulla pentola. I duelli in cucina erano sempre
inconsumabili.
«Ma cos’è?»
«Un otouto» sfiatò Sasuke, di colpo.
Itachi rimase
interdetto, con gli occhi spalancati, la bocca un po’ aperta. La meraviglia sul
suo viso era delicata ma consistente, quasi concreta. Ci mise qualche istante
per rielaborare la notizia. Il sorriso, subito dopo, gli venne naturale.
«Sperando che sia meno insopportabile di te»
smozzicò Sasuke, sollevato.
Itachi non si
scompose, così per un momento furono in tre a bocca aperta. In genere, quando Sasuke lo prendeva in giro così, lui si fingeva mortalmente
offeso e decideva di perdonarlo solo dopo averci guadagnato un regalo più o
meno impegnativo. Sasuke riusciva a guardare oltre
quella finzione, e non gli dispiaceva. Forse perché anche se non l’avrebbe
ammesso mai, quello che non gli dispiaceva era riempire di regali il suo unico
figlio.
Uno oggi
e uno per sempre.
Sasuke
dovette lottare non poco per tirare suo figlio fuori dalla vasca.
«Stavo raccontando una cosa a mamma, dovevo
finire!» sbraitò Itachi, scalciando tra le sue
braccia.
«Stavi parlando con la pancia di tua madre, per
essere precisi».
Sakura li osservava divertita in mezzo a tanta
schiuma, e Sasuke tirò fuori uno sguardo di
sufficienza quando tentò di piazzare un asciugamano sulla testa di suo figlio. Lo
avvolse velocemente nell’accappatoio e se lo trascinò nella stanza. «Non
muoverti», lo avvertì, uscendo di corsa.
Naturalmente, Itachi
si affrettò a scendere dal letto e a macchinare in giro per la stanza.
Sasuke,
spiandolo da fuori, annuì soddisfatto. Era sempre un piacere notare che tutte
le sue predizioni si avveravano nel giro di pochi secondi. Ce n’era una però
che gli stava creando qualche problema. Per esempio da qualche mese Itachi si era deciso a non offendersi più per nessun
insulto e a non chiedere più alcun regalo. Voglio
solo il migliore, dichiarava, solenne, quando a Sakura veniva in mente di
indagare.
Sasuke aveva
accolto quelle ammissioni con sospetto, poi con timore. Niente, nemmeno un fratello amato già prima di venire al mondo,
doveva costringere Itachi a crescere prima del tempo.
Sakura era della stessa idea, ma prendeva le
cose con più leggerezza. Ora era lì, vicino a lui, che sorrideva guardando di
nascosto suo figlio che si rigirava tra le mani un regalo inaspettato. Itachi era felice.
«È impaziente di potersi occupare di suo
fratello, mica stupido. Lo sa che questo regalo è per oggi e l’altro è per
sempre. Ed è comunque capace di goderseli entrambi» disse lei,
meravigliosamente rapita.
Risposte.
«È vero papà,
è il regalo migliore del mondo», sospirò Itachi,
emozionato. «Ma non è strano che il regalo migliore del mondo sia anche un po’
bruttino? Di faccia, dico».
Sasuke si
ritrovò a trattenere una risatina lieve, scrutando l’ultimo regalo che lui e
Sakura avevano fatto a Itachi. Il bambino si sporse
velocemente verso di lui, di nuovo, pregandolo di fargli stringere tra le
braccia il suo regalo – l’aveva detto
così tante volte che ormai anche le infermiere avevano capito quella storiella.
«Siediti lì», gli disse Sasuke,
prendendolo sul serio. Gli sistemò il regalo contro il petto, vicinissimo.
Gli mancò un po’ il fiato quando si accorse che
i suoi figli sembravano già una cosa sola mentre erano tanto stretti. E poi
qualcosa gli esplose dentro, quando osservò un’ombra rossa negli occhi di Itachi.
«Cosa c’è papà?»
Lo sharingan.
Anche lui
voleva ricordare tutto. Solo che non se ne rendeva nemmeno conto.
Il regalo di Itachi
scoppiò in lacrime quando avvertì un minimo movimento del fratello. Itachi lo scrutò colmo di disappunto. «Uffa, ma sei proprio
insopportabile» sbuffò, calcando l’ultima
parola.
Sasuke
sollevò un sopracciglio, dubbioso. Era già arrivato al punto di non sapere a
chi dei due figli dedicarsi prima, soprattutto quando Itachi
invece di mollare la presa si era intestardito a dare un buffetto sulla fronte
del suo regalo.
Sasuke glielo
tolse dalle mani velocemente, cercando di porre fine a quel pianto disperato.
«Secondo te l’ha capito che gli voglio bene?»
indagò sostenuto Itachi, nascondendo nel fondo dello
sguardo un po’ di apprensione.
Sasuke si
abbassò per andargli più vicino e guardarlo negli occhi. Era calmo. Anche se la
vita gli esplodeva sotto le dita. Bellissima. «Si dice le voglio bene, Itachi».
E lei aveva l’aveva capito, che il fratello gli
voleva un mondo di bene. Ci mise solo qualche mese a rispondere, quando
pronunciò la sua prima parola.