Francesca
Erano circa le sei di sera, ma, per il mese di dicembre, era già buio.
Erika si strofinò le braccia scoperte per fare calore. Era, invece, non
soffriva per niente di freddo: era uno splendido pastore maremmano originale a
pelo lungo, che sbandava e faceva correre Erika dovunque.
Stanca, lasciò il guinzaglio e lasciò che il cane corresse dove voleva,
consapevole del fatto che sarebbe comunque ritornata da lei. Si accasciò su una
panchina che si trovava lì per lì, ma si sollevò subito: era umida. Passò le mani
sul sedere, provando ad asciugarsi, ma fu subito interrotta da un forte sparo.
-Era! Era!- urlò la ragazza, e corse qua e là cercando il proprio cane,
anche se sarebbe stato molto difficile trovarla.
Cominciò a correre per il parco, a guardare dovunque.
Sentì dei passi, ma comunque non si tranquillizzò, anzi, si sentì ancor
di più preoccupata.
Sapeva che non era Era, ma qualcuno, qualcuno che pensava avesse sparato
al suo cane, o almeno ci aveva provato, e che si stava avvicinando a lei.
Rimase ferma, con la mano appoggiata sullo scivolo. Rimaneva voltata a
fissare la giostra. Sentiva i passi che si facevano sempre più forti e non
aveva il coraggio di girarsi per vedere chi era. D’un tratto, sentì dentro di
lei un brivido che le percorse la colonna vertebrale e chiuse gli occhi, strizzandoli.
Un tocco alla spalla. Scattò con il capo, facendo un profondo sospiro.
Voltò prima il capo, e poi si girò con tutto il corpo, sbattendo violentemente
alla parete della giostra. Non ebbe nemmeno il tempo di spalancare gli occhi e
di sorprendersi, che subito la figura muscolosa le colpì il fianco sinistro con
un bastone di metallo.
Erika fece un profondo respiro. Ormai era abituata a non urlare, a non
lamentarsi, e, soprattutto, a piangere.
Ma in quel momento uscì da ogni suo schema. Si piegò sul fianco e iniziò
a tenerselo con le mani, e scoppiò in un pianto. Dopodiché si piegò ancor di
più e ingurgitò.
Si voltò a guardare il suo aggressore, che impugnava ancora il bastone,
poco curvo dopo il colpo che aveva inflitto, e fissava la ragazza soddisfatto.
Rimaneva immobile, con le gambe semiaperte, coperte da un pantalone da
ginnastica mimetico e un paia di scarponcini grigi. Guardò soddisfatto il viso
della ragazza in lacrime, con il labbro e le punte dei capelli completamente
sporchi di sangue, e un po’ di vomito.
Subito la ragazza venne raggiunta da Era, che, con un salto, aggredì
l’uomo, mordendolo al braccio. I suoi canini portarono con sé gran parte della
sua maglia e metà della pelle che c’era sul suo braccio. Continuò ad urlare
mentre il coraggioso pastore si avventava contro di lui.
Continuò a mordergli il braccio creando uno spettacolo horror davanti
alla sua padrona, che intanto, socchiudendo a poco a poco i suoi occhi per non
guardare, provò ad avanzare. Le fu quasi impossibile; infatti, si accasciò a
terra e premette fortissimo sul fianco.
Intanto, il cane, sfoderò i suoi artigli, colpendo la membrana sclerotica
dell’occhio. Scoppiò un’esplosione fra il sangue sul corpo dell’aggressore, e
le percorrevano il suo viso facendo bruciare ancora di più il suo occhio.
Erika, intanto provò ad urlare qualcosa. Si udiva solo la parola “aiuto”.
Gli raggiunse un altro uomo, che, afferrato il bastone di metallo, colpì
Era, che rotolò sul terreno e andò a finire dritta per dritta in una
pozzanghera fangosa, perdendo i sensi. Erika capì che ormai non c’era più
niente da fare, tolse le mani dal fianco e si accasciò sul terreno, scoppiando
di nuovo in lacrime.
Il secondo uomo si caricò addosso l’aggressore, trascinandolo a fatica su
una grossa jeep. Dopodiché ritornò da Erika.
Si sentì di nuovo raggiunta dal panico più totale, e, ormai debole e
priva di forse, non poté fare altro che coprirsi il viso con la mano, sporca di
terra e del vomito che aveva pestato.
-Ti prego, non uccidermi…- sussurrava appena, cercando di identificare il
ragazzo.
Singhiozzava e piangeva, sperando di fare almeno un po’di compassione. Ma
la figura la prese per i capelli e trascinò anche lei verso la jeep.
Iniziò ad urlare per il dolore, benché non potesse camminare, e con lui
che continuava a tirarla con forza. Arrivati alla jeep, con un calcio la spinse
in macchina, e chiuse in fretta la portiera. Appena entrò si trovò davanti
all’aggressore, con l’occhio e il braccio squartati, coperti da tonnellate di
ghiaccio.
Si voltò subito e guardò fuori dal finestrino, dove però intravide nel
buio Era, addormentata in una pozza di fango. Cominciò di nuovo a piangere, ma
questa volta silenziosamente. Si appoggiò violentemente allo schienale e,
singhiozzando, chiese:
-Che cosa mi volete fare?-
Il ragazzo che guidava la macchina non le rispose, ma si limitò a
voltarsi per dare un’occhiata alla ragazza.
Erika riconobbe un ragazzo giovane, di massimo venticinque anni. La sua
attenzione si era particolarmente rivolta ai suoi occhi: erano di verde
mediterraneo e risaltavano sulla sua pelle abbronzata e su suoi capelli scuri.
Poi si voltò a scrutare l’altro uomo, per metà coperto da tonnellate di
ghiaccio. Era rivolto a guardare fuori dal finestrino, e non si accorse per
niente che Erika lo stava guardando. A differenza dell’altro, il suo aggressore
era molto più robusto, ma allo stesso tempo forte e anche muscoloso. Dopo
quello che era successo, Erika si limitò a guardare la parte rimanente del suo
giubbotto, in pelle rossa, blu notte e bianca.
Ad un certo punto, il conducente accelerò e iniziò a correre. Il viaggio
durò circa un quarto d’ora, e giunsero ad un capanno immerso nel bosco della
montagna. Il ragazzo fece la stessa cosa che fece per caricare i due
passeggerei: sollevò prima il suo complice, e poi Erika, che, appena tentò
d’afferrarla, si scansò e si appoggiò alla portiera, per fare segno che sarebbe
scesa da sola.
Ma subito dopo che entrò nella capanna, l’omone l’afferrò per il braccio,
con la forza che gli rimaneva in corpo, e la trascinò su una sedia, dove la
legò con strati e strati di scotch. Erika cominciò ad urlare e a piangere.
Chiedeva aiuto, ma si accorse che in quel luogo sperduto nessuno sarebbe
accorso, neanche Era, che credeva fosse morta sul colpo.
Nel breve silenzio, caratterizzato solo dai suoi singhiozzi, si guardò
attorno. Lei era posizionata in fondo alla capanna, vicino a due letti, larghi
abbastanza ognuno per ospitare almeno due persone. Proprio avanti a lei c’era
un tavolo larghissimo pieno zeppo di barattoli aperti, di bustine con della
roba bianca e, buttate qua e là, qualche siringa. Appoggiata a terra c’era un
piccolo stereo, attaccato senza presa, e, inoltre, nella capanna non c’era
luce.
La sua attenzione poi si soffermò sul ragazzo che aveva guidato la
macchina e che gli aveva portati lì. Stava armeggiando con qualche pezzo di
carta, per come lo vedeva lei. Fece una specie di tubo.
“Si starà facendo una sigaretta” pensò la ragazza. Subito dopo, il
ragazzo, spinse indietro tutti gli oggetti, probabilmente per fare spazio, e
qualcosa cadde all’indietro, tipo due o tre siringhe, e una busta di plastica
trasparente, chiusa, contenente un’insolita polverina bianca.
Poi aprì una busta di questa polverina e ne posizionò un po’a file sul
tavolo. Dopodiché prese il tubo-sigaretta che si era costruito e iniziò ad
aspirare la polverina.
Erika fece un grosso sospiro. Ciò che stava vedendo la turbò moltissimo.
Un po’di lacrime percorsero il suo viso.
-Sono due drogati…- mormorò a bassissima voce, e, a quel punto, notando
che il ragazzo la fissava con un ghigno mentre continuava a sniffare, scoppiò
in un pianto.
-Preparati, che ora tocca a te.- affermò l’uomo ferito, che, nel
frattempo, si era seduto su uno dei due letti, e aveva messo una benda
sull’occhio.
-Che cosa devo fare?- domandò Erika, fra lacrime e singhiozzi. Cominciava
già a pensare che sicuramente l’avrebbero imbottita di tutta quella roba, e che
sarebbe morta per collasso.
Anche a questa domanda non ebbe risposta, ma, piuttosto, l’omone si alzò
e, preso un taglierino, strappò lo scotch che la legava alla sedia. Tutto ciò
la distrasse dal ragazzo, che, nel frattempo, sempre con il suo ghigno
fastidioso, stava preparando una specie di siringa.
Fece un cenno all’aggressore, che, intanto, teneva Erika forte per i
polsi, e aveva la testa girata dall’altra parte, a controllare se l’amico
avesse finito.
A quel cenno, buttò con violenza Erika sul letto, che strillava e tirava
calci. Si contorceva sul letto come una larva, mentre l’uomo prova a farla
stare ferma tenendola per le braccia. Il ragazzo arrivò tenendo una siringa,
troppo lunga dal punto di vista di Erika, e si sedette sul suo addome,
all’altezza media del diaframma, in modo da non farla respirare, e quindi, da
non farla muovere.
Erika si bloccò per un po’, rimanendo senza fiato e respirando a fatica.
Vide la siringa avvicinarsi al suo braccio, e, agitatasi, iniziò a muoverlo. Il
ragazzo fece scorrere la siringa sulla sua pelle, provocandole un taglio lungo
e profondo, da dove cominciarono ad uscire flussi di sangue, che si
sparpagliavano sul suo braccio, o che si lasciavano andare sulla sua maglia,
bianca e grigia, e, da quel momento, anche rossa.
-Cazzo.- sussurrò il giovane con nervosismo. Spostò la sua gamba dal fianco
sinistro al braccio destro della
ragazza, per tenerglielo fermo.
La siringa penetrò con velocità nella vena sporgente della ragazza, il
quale, diede un urlo ancora più forte e iniziò a farsi venire delle crisi di
panico. Aveva tutto il sudore che le scendeva dalla fronte, che si mischiava
alle lacrime.
Fu questione di circa sei o sette secondi, che per Erika fu un’eternità. Tirò
fuori l’ago e si sollevò da Erika. I due percorsero la capanna e posarono l’ago
sul tavolo.
Intanto, la ragazza, tentò di alzarsi, per arrivare al suo braccio, ma,
istantaneamente aver sollevato il petto, il dolore al fianco ritornò a farsi
sentire, e, di botto, si lasciò andare sul cuscino. Non riusciva più neanche a
piangere, anzi, si meravigliava che ancora riuscisse a tenere gli occhi aperti.
Tutto quello che faceva è scrutare il soffitto e sospirare profondamente.
Aveva incontrato qualcosa di peggio delle molestie di suo zio, il
fratello della nuova donna che conviva con suo padre. I suoi avevano divorziato
e suo padre non ci aveva messo molto tempo a trovarne un’altra.
Si chiamava Adnana ed era rumena. Da quando lei stava intorno, Erika
aveva sentito che suo padre non la voleva, che non pensasse più a lei. Infatti
era stato così: i due si erano allontanati, cancellando il loro rapporto
familiare. Inoltre, con lei, Adnana si era portata suo fratello, di circa dieci
anni più piccolo. Si chiamava Pavel, e aveva circa 23 anni.
Pavel era un prepotente che pretendeva si facesse come diceva lui, ma non
esercitava la sua prepotenza né con sua sorella, né con il suo nuovo cognato,
bensì con sua nipote.
Il grosso ritornò e si sedette sull’altro letto. Aveva una canna, in
mano, e fissava l’amico in attesa che gli portasse qualcosa per accenderla.
L’agente Sorrentino percorse tutta la stanza, con una foto e alcuni
registri in mano. Dopodiché buttò la foto sulla scrivania del capitano.
-Chi è?- domandò il capitano, afferrando la fotografia.
-Erika Fasana. È andata a fare una passeggiata con il cane ed è tornato
solo il cane, sporco sia di sangue che di fango.- rispose la donna, e si
sedette sulla sedia, di fronte la scrivania della stanza, a gambe incrociate.
-Ah. Vabbé mandate una squadra e portatevi il cane della ragazza, ci
indicherà il luogo dell’accaduto.- ordinò l’uomo, fissando la fotografia di
Erika.
L’agente Sorrentino si alzò dalla sedia, si fece restituire la foto e
uscì dall’ufficio.
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