Lei voleva solo essere ascoltata

di Stella cadente
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando era orfana ***
Capitolo 2: *** Nuova vita ***
Capitolo 3: *** Samara Morgan ***
Capitolo 4: *** 8 febbraio 1978 ***
Capitolo 5: *** Vincoli oscuri ***
Capitolo 6: *** Buio ***
Capitolo 7: *** La luce si spegne ***
Capitolo 8: *** Oblio ***
Capitolo 9: *** Immaginario ***
Capitolo 10: *** La rosa nera ***
Capitolo 11: *** Spettri ***
Capitolo 12: *** L'abisso – Parte I ***
Capitolo 13: *** La stanza ***
Capitolo 14: *** L'abisso – Parte II ***
Capitolo 15: *** Solitudine ***
Capitolo 16: *** La scatola magica ***
Capitolo 17: *** Eola County – Primo semestre ***
Capitolo 18: *** Eola County – Secondo semestre ***
Capitolo 19: *** Eola County – Terzo semestre ***
Capitolo 20: *** Eola County – Quarto semestre ***
Capitolo 21: *** Il rilascio ***
Capitolo 22: *** Shelter Mountain ***
Capitolo 23: *** Primo giorno: il Risveglio ***
Capitolo 24: *** Secondo giorno: l'Angoscia ***
Capitolo 25: *** Terzo giorno: il Vuoto ***
Capitolo 26: *** Quarto giorno: l'Acqua ***
Capitolo 27: *** Quinto giorno: il Dolore ***
Capitolo 28: *** Sesto giorno: l'Innocenza ***
Capitolo 29: *** Settimo giorno: la Fine ***
Capitolo 30: *** Epilogo – Ossa ***



Capitolo 1
*** Quando era orfana ***










Preludio








Capitolo 1
Quando era orfana
 
 
King County Orphanage, Dicembre 1977
 
In quell’orfanotrofio degli Stati Uniti, in una piccola stanzetta, giocava una bambina pallida. Era una bambina dal corpo esile, parzialmente ricoperto da lunghi capelli corvini che le ricadevano sulla schiena magra. Una  bambina che si sentiva messa da parte, oppressa, imprigionata tra quelle pareti spoglie, scrostate e di un color bianco sporco, quasi grigio. 
La piccola e infantile figuretta sul parquet scuro era intenta a pettinare una bambola, mentre all’esterno, sotto una perpetua coltre di nuvole, altri bambini in cerca di genitori adottivi giocavano e scherzavano tra di loro.
Gli occhi scurissimi della bambina corsero fuori dalla finestra, verso la sua balia. Ne osservò la figura bassa e minuta, i capelli castani a caschetto che incorniciavano il suo viso leggermente spigoloso. Stava parlando con una coppia nel giardino ombroso, costellato in gran parte da alberi dai tronchi scuri e cupi.
Il suo sguardo tornò sulla bambola dai sottili capelli biondo grano, che ogni volta si divertiva a pettinare. Era così assorta che non si accorse neanche che qualcuno era entrato nella stanzetta  vuota, tra cui poteva sentir echeggiare tutte le sue ansie e le sue paure.
La bambina aveva paura del buio. E dell’acqua. Soprattutto dell’acqua. Non la tollerava, non l’aveva mai tollerata e pensava che mai l’avrebbe tollerata in futuro. Ogni cosa che fosse stata fredda o bagnata la innervosiva, facendola rabbrividire dalla testa ai piedi.
– Samara – si sentì chiamare. Era  Evie, la donna che da qualche tempo si occupava di lei.
Al suono della sua voce si voltò improvvisamente. La donna si fermò sulla soglia della porta, immobile, e la fissò, con uno strano sorriso che le increspava lievemente le labbra. I suoi occhi avevano una luce che non sapeva come decifrare.
– Sì? – domandò, interrogativa, ricambiando con sguardo perplesso, senza sapere cosa pensare. Perché la guardava in quel modo?
– Samara, sono arrivati, sono arrivati i tuoi genitori – le disse con una stucchevole dolcezza nella voce.
Sulla faccia color avorio di Samara si disegnò un sorriso: la risposta a tutti i suoi dubbi era finalmente arrivata, e si trattava nientemeno di ciò che sperava da sempre, da quando era entrata in quell’orfanotrofio.
Erano arrivati i suoi genitori. Era talmente assurdo e impossibile che non riusciva a crederci.
– Davvero? – chiese ancora, incredula, incapace di realizzare che qualcuno la volesse con sé. – Dove sono? – chiese, impaziente di vederli.
Voleva vedere finalmente chi la avrebbe portata via da lì. Lei voleva andare via. Lo voleva con tutta se stessa, lo aveva sempre voluto.
E ora poteva.
Stentava a crederci.
D’un tratto avvertì la paura aggredirla con una fitta lancinante allo stomaco. Si morse l’interno di una guancia; i suoi nuovi genitori l’avrebbero apprezzata, o avrebbero scelto di abbandonarla?
Questo era il pensiero che più temeva, la sua paura più grande.
Prima che potesse chiederlo, Evie la prese per mano e la portò velocemente fuori in giardino, trascinandola con furia dietro di sé.
La mente di Samara fantasticava su come poteva essere la voce della sua mamma e del suo papà, la loro faccia, il loro sorriso. Non si accorgeva neanche dei bellissimi colori ghiacciati di quel freddo inverno, che la circondavano come piccoli testimoni della sua felicità; era troppo impegnata a correre più veloce possibile dietro a Evie.
La bambina provò a farsi un’idea, benché vaga, della sua nuova mamma. Forse aveva i capelli lunghi e lisci, come i suoi, e avrebbe potuto provare ad immaginare che fossero davvero madre e figlia. Oppure aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, un angelo, un angelo venuto per salvarla.
Sorrise appena. Fremeva dall’emozione, non le sembrava neanche vero.
 Notò che Evie si era messa a perlustrare con gli occhi tutto il giardino, forse fin troppo attentamente.
– Non li vedo – fece piano, con tono pensieroso. 
Samara sentì una fitta al cuore. Non poteva essere, non potevano essersene andati, non potevano averla abbandonata lì come facevano tutti gli altri.
Iniziò a tremare, mentre con un filo di voce chiedeva ad Evie:
– Ma... loro sono qui, vero? Sono venuti a prendermi – l’ultima frase sembrava più un’affermazione che una domanda, come se stesse cercando di auto convincersi. Continuò a tremare, mentre Evie scrutava il giardino, ignara di ciò che stava provando.
Samara poteva sentire il cuore batterle all’impazzata, come se volesse esploderle in petto.
D’un tratto, sul volto della donna nacque di nuovo quel sorriso, il sorriso che le aveva rivolto prima. Un sorriso scialbo, ma pervaso da uno strano barlume di felicità e sollievo. Lo stesso sorriso di cui lei non riusciva a spiegare il motivo.
– Samara, eccoli là. Sono loro, li ho visti – fece improvvisamente, con voce sicura.
E da quell’unica frase il mondo, per lei, cambiò completamente.
Appesa a quelle parole, c’era la sua stessa vita.

 
****


Evie si avvicinò con sicurezza ad una coppia che aspettava in giardino, seduta su una panchina, un po’ in disparte rispetto agli altri. Intorno, altre coppie parlavano con i loro prossimi figli adottivi. Sembravano sereni, felici. Samara notava la loro gioia come se fossero stati al rallentatore, lontani, distanti dal mondo in cui lei si muoveva, e si chiedeva se un giorno avrebbe potuto essere anche lei felice come quei perfetti sconosciuti.
Sono loro?
– Siete voi i coniugi Morgan? – chiese la balia alla coppia, tenendo ancora la mano fredda della bambina.
– Sì, siamo noi – rispose l’uomo, con una voce profonda e roca. Si alzò in maniera un po’ brusca, seguito dalla moglie, che invece aveva modi tranquilli e delicati.
– Bene, allora vi lascio la vostra bambina – fece Evie sbrigativa.
E si allontanò frettolosamente, lasciando Samara da sola davanti a quella coppia completamente estranea.
La piccola si soffermò a guardarli con sospetto. Stava raccolta su se stessa, cercando di scaldare il proprio corpo raccogliendosi nelle sue esili braccia, quasi avesse voluto nascondersi. 
Ma non appena vide con precisione i loro volti che la guardavano sorridenti, capì che avrebbe trovato la famiglia che da tanto aspettava. In qualche modo quella coppia era fuori dal comune, diversa da tutte quelle che passavano e che finivano sempre per adottare un altro bambino o bambina.
Ogni volta lei sperava che qualcuno la guardasse con quegli occhi sorridenti con cui venivano guardati gli altri, e fino a quel momento si era limitata ad obbedire alle balie dell’orfanotrofio; ma ora cominciava a chiedersi quale fosse la sua vera mamma, quale fosse la donna che l’aveva portata in grembo prima che nascesse.
Nessuno gliene aveva mai parlato. Almeno non direttamente.
Non sapeva niente di lei, come si chiamasse, di che colore avesse i capelli o come fosse la sua faccia. Non aveva mai capito cosa volesse dire avere una mamma, una figura adulta nella sua vita che ci fosse sempre.
Non sapeva che cosa fosse l’affetto, non era mai stata oggetto di amore materno. Le donne che si occupavano degli altri bambini si mostravano forzatamente amorevoli nei suoi confronti, come se avessero una specie di maschera, come se fossero state obbligate a mostrarsi gentili.
Come se la temessero.
La sentiva, la loro freddezza, la loro paura; sentiva che si chiedevano perché non fosse come gli altri che giocavano in cortile,  perché invece stesse sempre nel solito angolo a guardare, in silenzio.
Sapeva che la pensavano così. Dopo poco tempo che stavano con lei, sparivano improvvisamente, senza che nessuno le dicesse come e soprattutto perché.
All’inizio erano molto gentili nei suoi confronti, sempre sorridenti; dopo poco tempo, però, cominciavano a diventare sempre più tese, distanti, nervose a volte.
Fino a quando la cosa non degenerava, e non la amavano più.
Dicevano che era colpa sua, che era stata lei a fare loro questo, che era un male per le persone che le stavano intorno.
Lei in realtà non voleva far del male a nessuno; non sapeva quale fosse la causa di quegli orribili eventi, cosa fosse a farla sentire sempre così in colpa, così sbagliata, così un problema per gli altri. Ma forse ora sarebbe stato diverso.
Osservò meglio i due coniugi che la guardavano senza sembrare, in qualche modo, turbati, chiedendosi se stessero guardando davvero lei.
Sorridevano.
Sì, era lei che avevano visto; qualcuno si era accorto che c’era, che esisteva.
Era così strano essere guardata così, con quello che sembrava interesse. Era uno sguardo che non le era mai stato rivolto.
L’uomo aveva un aspetto austero e un po’ burbero, con delle folte sopracciglia nere e dei capelli bruni; la donna invece aveva dei lineamenti gentili, con due occhi scuri ed espressivi e un viso incorniciato da dei capelli corti fino alle spalle, di un nero intenso.
– Ciao – disse,  con una voce calda e rassicurante. – Come ti chiami?
Samara era come paralizzata, devastata alla vista di quella persona tanto dolce con lei.
Quella che aveva davanti non era come le altre donne con cui aveva avuto a che fare. Lei non la avrebbe mai lasciata sola, non la avrebbe mai incolpata di terribili eventi che accadevano senza un preciso motivo, non la avrebbe mai trattata male.
Sarebbe sempre stata dolce, anche nei momenti di rabbia.
Era come se già lo sapesse.
Mamma...
– Samara – le rispose timidamente. Abbassò lo sguardo, sentendosi a disagio. Non amava parlare con gli sconosciuti, non ci era abituata.
Sentì la donna sussurrare:
– È lei, Richard. È lei la bambina.
– Samara Morgan. Che dici, Anna, suona bene? – chiese piano l’uomo, con sguardo interrogativo ma felice allo stesso tempo.
Samara cercò di immaginarlo come un papà; le sembrò di vederlo già giocare con lei, scherzare con lei e comportarsi proprio come il papà che aveva sempre desiderato.
La donna sorrise all’uomo, mostrando dei denti bianchissimi e sottili, incredibilmente belli; sembrava il sorriso di un angelo.
– Sì Richard, suona benissimo. Sarà la nostra piccola Samara.
Quella frase strappò un sorriso alla bambina, sebbene appena accennato. Con una scarica di allegria che le percorreva la pelle, realizzò ciò che stava accadendo; i suoi genitori erano finalmente venuti a prenderla.
Forse, quel giorno sarebbe stato un nuovo inizio.
E lei sentiva, in qualche modo, che si sarebbe prospettato felice e sereno.

 
 



Salve, fandom di The Ring :)
Eccomi qui, con la mia prima storia sul popolarissimo film horror della "videocassetta che fa morire entro sette giorni" :D
Amo quel film, davvero.
Odio gli horror, ma quello mi è piaciuto sul serio.
 Ho cercato di immaginare Samara come la povera bambina innocente che non è accettata da nessuno e non come il mostro del film.
Ce l'ho messa tutta per rispecchiare i suoi sentimenti, e spero mi sia riuscito bene.
Per saperlo, però, ho bisogno di qualche recensione,
quindi fatemi sapere ;)
Sono solo una povera bambina che ha bisogno di tanto affetto :((
*si sente Samara*
Ora non posso dire altro che...
al prossimo capitolo!

Stella cadente

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Capitolo 2
*** Nuova vita ***


Capitolo 2
Nuova vita


 

Samara restò come impietrita ad osservare i Morgan, che la fissavano. Si sentiva stranamente a disagio, e non osava lasciar uscire dalle sue labbra nemmeno una parola.
Iniziò a torturarsi una pellicina, nervosa. C’era qualcosa che le impediva di abbracciarli, di stringerli e dire loro: “Finalmente siete qui. Siete qui per me”. E lei non sopportava il fatto di rimanere inchiodata lì, a guardarli in un modo che non osava immaginare.
Per un attimo ebbe paura di spaventarli, di sembrare anche a loro una ragazzina problematica proprio come credeva Evie.
Come credono tutti.
Non possono vedere.
Nessuno vuole vedere.
– Allora, visto che abbiamo già completato tutte le carte necessarie, possiamo anche andare – disse Anna, allegra.
– Andare dove? – chiese la bambina. Si domandò in quale quartiere abitassero i Morgan, come sarebbe stata la sua nuova casa, il nuovo ambiente in cui si sarebbe trasferita. Scoprì dentro di sé un’ansia del tutto nuova, un’ansia che però era quasi piacevole, che le formicolava nello stomaco per poi risalirle lungo la schiena sottoforma di brividi.
Richard alzò il braccio per dare un’occhiata all’orologio di ottone, poi alzò le sopracciglia con aria eloquente:
– Sarà meglio di sì. Manca poco meno di un’ora alla partenza del traghetto che ci serve per tornare a casa – concluse.
– Perché, dove abitate? – chiese Samara, curiosa.
– A Moesko Island, Samara – le rispose Anna con pazienza. Qualcosa nei suoi occhi sembrava voler dire che la conosceva, che sapeva come era fatta. Sembrava che fosse a conoscenza del fatto che Samara fosse una bambina fragile e sensibile, da trattare con dolcezza.
Lei si guardò intorno, come a voler scorgere qualche cosa in lontananza che potesse ricondurre a “Moesko Island”. Non sapeva quale isola fosse, quello era un nome totalmente sconosciuto alle sue orecchie.
– E dov’è? – chiese infatti dopo pochi secondi di silenzio, guardando Anna con un barlume interrogativo negli occhi.
– A poche ore da qui – disse Anna continuando a guardarla.
– Vedrai, ti piacerà – aggiunse Richard con un sorriso. La coppia sembrava sprizzare felicità da tutti i pori a tal punto che quella felicità sembrava creare luce intorno a loro; Samara non poté fare a meno di pensare che si trovava finalmente con le persone giuste.
– Che bello, quando partiamo? – domandò, mentre la curiosità la divorava. Sentiva, in una maniera o nell’altra, che proprio come aveva detto Richard si sarebbe trovata bene, che la sua nuova casa le sarebbe piaciuta.
– Anche adesso, se vuoi – rispose Anna, volgendo poi la testa verso Richard.
– Sì, anche adesso – le fece eco lui.
Sul volto di Samara nacque un lieve e dolce sorriso; poi la bambina si precipitò di nuovo dentro l’orfanotrofio per prendere con sé tutto ciò che le apparteneva.
E mentre correva, sentiva un nuovo sapore. Il sapore di libertà, il sapore della fiamma che andava crescendo dentro di lei, la fiamma della felicità.  Era come se si chiudesse una porta e se ne aprisse una nuova. Forse i suoi presupposti sarebbero andati in fumo, ma a lei non importava.
Tanto valeva provarci.
 
 

Poco dopo si trovava sul parapetto di un battello che scivolava metallico sull’acqua, coperta da un maglione nero che non ricordava di avere, mentre il vento di mare le scuoteva i lunghi capelli. Se ne stava in silenzio, circondandosi il corpo con le braccia. Aveva freddo, ma le piaceva la sensazione del vento che le lambiva il collo pallido e scompigliava disordinatamente i capelli.
Osservava le nubi che non lasciavano intravvedere neanche uno spiraglio di cielo blu, pensierosa. Cercava di farsi un’idea riguardo a Moesko Island, alla casa dei Morgan di cui non sapeva ancora niente, ma con frustrazione si accorse che nella sua mente c’era il vuoto totale.
Ad interrompere i suoi pensieri fu un rumore alle sue spalle, un rumore deciso di scarpe con il tacco non troppo alto, ma allo stesso tempo dolce, rassicurante, quasi familiare.
– Ti piace il mare?
Era Anna.
La sua voce fonda e vellutata la fece voltare di scatto, come se fosse un richiamo.
Distolse il suo sguardo dalle onde scure, e lo fissò negli occhi della donna. Avrebbe voluto dire che le piaceva guardare le onde, ma allo stesso tempo la vista dell’acqua la inquietava un po’, anche se non sapeva di preciso per quale motivo.
Invece restò in silenzio per una frazione di secondo, poi rispose:
– Sì, mi piace, è... bello.
Quelle parole suonavano false anche alle sue orecchie, ma per qualche oscura ragione non si sentiva di dire ad Anna della sua sorta di fobia verso l’acqua.
L’acqua...
Era come se preferisse nascondersi dietro ad una maschera, come se qualcosa le impedisse di aprirsi verso le due persone che probabilmente erano le uniche a cui importava di lei.
Le sembrava di volere loro già bene, ma non era facile parlare un po’ di se stessa.
Non lo era affatto.
Fortunatamente Anna sembrò capire e le fece una lunga carezza affettuosa sui capelli, come se già ricambiasse l’affetto che la piccola provava nei suoi confronti.
Restarono l’una accanto all’altra, affacciate al parapetto a guardare quel mare cupo e furioso.
– Moesko Island è quell’isola laggiù? – disse Samara, rompendo il silenzio che si era venuto a creare. Indicò un faro bianco, vagamente minaccioso.
– Esattamente – le rispose Anna, annuendo, mentre i capelli neri che le incorniciavano il viso erano come manipolati dal dispettoso vento di salsedine.
Samara scrutò l’orizzonte; ora poteva scorgere una piccola spiaggia di ciottoli grigi, sulla quale le onde si infrangevano per poi ritirarsi, come impaurite da qualcosa di invisibile.
Osservò l’isola immersa nella nebbia farsi sempre più vicina, riuscendo ogni volta a vedere un particolare che le era sfuggito.
– Wow – sussurrò in modo impercettibile, mentre il suo fiato formava nuvolette di condensa per il freddo.
Doveva ancora rendersene davvero conto, ma era arrivata. Era arrivata, e da lì a poco sarebbe sbarcata a Moesko Island, avrebbe camminato sui suoi ciottoli, sul suo terreno, avrebbe fatto piroette sfidando la densità della nebbia, avrebbe osservato la scogliera e, sebbene con un po’ di timore, anche il mare dalle profondità blu scuro.
Sarebbe stata a casa.

 

****

 
 
– Eccoci arrivati – disse Richard trascinando faticosamente le valigie.
Samara non stava nella pelle. Non riusciva a credere a ciò che le stava accadendo, e dovette sforzarsi di reprimere mille domande da fare ai suoi genitori. Avrebbe voluto chiedere loro come si trovassero, dove abitassero e cosa facessero nel tempo libero, ma come era già successo sul traghetto con Anna si sentiva pervasa da una strana vergogna.
Mentre ripensava a quello che si erano dette, osservò meglio l’ambiente circostante.
– La nostra casa non è lontana da qui, possiamo arrivarci anche a piedi – la informò Richard.
– Va bene, nessun problema – lo rassicurò lei, abbozzando un sorriso.
La coppia si avviò seguita dalla bambina, che si affrettava a tenere il passo cercando di non rimanere indietro; dopo circa un quarto d’ora Richard si fermò.
Samara lo imitò, ma non riusciva a vedere niente; per quanto cercasse di aguzzare la vista quella nebbia sembrava impenetrabile, una distesa grigia e densa che li avvolgeva come una pesante ala color fumo. Strinse gli occhi fino a farli diventare due fessure e tentò di vedere abbastanza per avere quantomeno un’idea generale di dove si trovasse.
Intorno regnava la calma, ma ammirò comunque la grande casa dal tetto color cremisi che le si presentava davanti; era circondata da prati verdi in cui, all’interno dei recinti, pascolavano cavalli di ogni genere e colore, mentre da una stalla si sentivano provenire di tanto in tanto nitriti e scalpitii impazienti di zoccoli.
Cercò di godersi il panorama naturale, semplice, accantonando la paura di poter allontanare da lei i suoi nuovi genitori per le stesse ragioni con cui aveva allontanato le persone all’orfanotrofio, e per l’oscuro potere che si portava dentro.
Aveva paura, paura che potesse emergere da un momento all’altro, nonostante cercasse continuamente di arginarlo. Non voleva che i Morgan stessero male per colpa sua, non voleva che facessero la stessa fine delle donne all’orfanotrofio.
Non voleva perdere la sua famiglia, le persone che credeva già di amare.
– Qualcosa non va? – le chiese Anna, accorgendosi evidentemente che fosse pensierosa.
Samara notò l’espressione sincera, preoccupata, apprensiva dei suoi occhi.
Esitò un po’ prima di rispondere:
– No – con la voce ridotta quasi ad un sussurro. – Sto bene.
Anna le sembrava una brava persona e non voleva preoccuparla;  forse lei pensava che non le piacesse l’ambiente o non si trovasse bene con loro, ma così non era.
Lei non sapeva di quello che da sempre si portava dietro, di quello contro il quale doveva ogni volta combattere, di quello che la tormentava senza darle tregua.
Ma in qualche modo con lei si sentiva al sicuro, protetta da tutto ciò che avrebbe potuto farla stare male.
Anche da quello.
A questo pensiero sorrise, fermandosi a contemplare la grande casa dei Morgan.
Sentì Anna cingerle le spalle con un braccio e poi accompagnarla all’interno della casa.
Le sembrò accogliente sin da subito: dalla porta si entrava in una sala spaziosa. Nel corridoio, dalle pareti intonacate di giallo pastello, c’era uno specchio che le ricordava tanto un oggetto proveniente da un’altra epoca.  Nell’aria si respirava il calore di una casa; la bambina era esaltata per tutte quelle novità.
Riportò lo sguardo sullo specchio; all’interno di quell’ovale trasparente, vedeva il suo riflesso e quello di Anna.
Provò ad immaginare quante volte la donna si fosse specchiata in quella superficie splendente, che portava una bella cornice argentata, e le sembrò di vederla. A guardare bene, poteva sembrare che fossero davvero madre e figlia: entrambe di alta statura, capelli scuri, carnagione diafana.
Si guardarono, e quando i loro occhi si incontrarono sul volto di ognuna prese forma un sorriso.
Un sorriso sincero, felice, sereno, seppur lieve ed appena accennato.
Evidentemente anche per lei quello era un giorno importante, che avrebbe ricordato per sempre.
Cercò di afferrare ogni dettaglio di  quella che da ora in poi sarebbe stata casa sua: dalla sala ampia e luminosa alle lievi e appena percettibili crepe nelle pareti, percepiva un ambiente caldo e accogliente. Probabilmente si sarebbe abituata presto.
Pensandoci, era strano che Anna e Richard non avessero mai avuto bambini; sembrava che sapessero esattamente come comportarsi con lei. Erano così gentili, premurosi, tutto ciò che potrebbero essere due bravi genitori, e le loro voci affettuose sembravano riempire le pareti di quella grande casa.
Mentre era immersa in questi pensieri, Anna la prese per mano e la condusse con sé.
– Dove andiamo? – disse perplessa. Si chiese dove la stesse portando, che cosa ancora ci fosse da scoprire all’interno di quella casa.
Probabilmente c’erano tante cose che avrebbe dovuto vedere, ma le piaceva rimanere in quella sala, lasciando che i raggi del sole – che ora avevano fatto capolino dalle nuvole, fondendosi con la nebbia in una luce delicata –  le scaldassero le guance con un calore lieve, tiepido, confortevole.
– E’ una sorpresa, lo vedrai tra poco – ribatté lei, con uno dei suoi sorrisi dolci.
La fece salire al piano di sopra e attraversarono un lungo corridoio. Samara si perse a guardare delle foto che erano appese al muro: quasi tutte ritraevano Anna e Richard.
– Samara – si sentì chiamare.
Anna aprì una porta di legno scuro, e la fece entrare in una stanza abbastanza grande, che dava sul giardino.
Le pareti erano dipinte di giallo pastello, lo stesso colore della coperta che stava sul letto appoggiato alla parete sinistra della stanza; in un angolo, un armadio grande di legno dipinto di bianco.
Su alcune mensole vicino al letto erano appoggiate con gusto bambole e peluches, mentre su un piccolo comodino si trovava una lampada ad abat-jour di un dolce color crema.
– Questa sarà la tua stanza. Spero ti piaccia – disse Anna facendole una carezza sul viso, prima di lasciarla a sistemare il contenuto della sua valigia.
Quando se ne andò, Samara ammirò quella che da ora in poi sarebbe stata la sua camera.
Emanava una luce fresca, accogliente, rassicurante, e dalla ampia finestra che era abbastanza vicina al letto si vedeva il giardino con un  imponente  albero dal tronco grande, dai rami fitti e numerosi. Appoggiò le mani contro il vetro appannato, poi aprì la finestra, inspirando a pieni polmoni l’aria ghiacciata di fine dicembre.
Si affacciò, facendo provenire una luce che illuminava leggermente tutta la stanza, e guardò incantata i cavalli che correvano nei recinti, che brucavano l’erba sereni, tranquilli, liberi.
I Morgan dovevano amare molto quegli animali e probabilmente erano ottimi allevatori. Tutto in quel ranch era perfetto, come mai aveva immaginato: c’ erano i cavalli, una bella casa, due persone disponibili e gentili.
Forse  avrebbe ricevuto l’amore che le era stato negato per tutto quel tempo.  
Forse, Anna e Richard Morgan le avrebbero dato quell’amore, e per lei sarebbe cominciata una nuova vita.

 


Buongiorno, popolo theringoso 

  Ecco che finalmente ho avuto il tempo di aggiornare :3
Che ne pensate?
Spero che le recensioni non tardino ad arrivare, perché ci tengo davvero tanto all'opinione altrui, solo ...
Secondo voi i capitoli  sono troppo corti? E' che per ora non siamo ancora arrivati al clou della storia, quindi sono un po' noiosi..
Ma mi auguro che vi piacciano lo stesso, o almeno, ci spero <3
bacioni,
Stella cadente

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Capitolo 3
*** Samara Morgan ***


Capitolo 3
Samara Morgan


 

 

Dopo un po’ sentì bussare alla porta della sua stanza.
Era Richard, che non aveva tolto dal viso quell’espressione sorridente che aveva assunto prima.
Con lui non era rilassata come con Anna, ma l’uomo sembrava una bravissima persona, e lei cercava di sembrare meno tesa possibile.
Abbandonò le borse sul pavimento e puntò la sua attenzione su di lui, sui suoi occhi piccoli e scuri, ma luccicanti di gioia.
– Ciao Samara. Ti piace qui? – le chiese.
Lo immaginò come un buon padre; quell’aspetto austero stonava un po’ con il modo di fare, ma la bambina apprezzò la sua cortesia. Sentiva che, anche se non subito, avrebbero legato molto.
– Sì, è... veramente bello. Mi piacciono i cavalli – rispose accennando un sorriso.
Appena li aveva visti, aveva cercato di immaginare come sarebbe stato salire su uno di quegli animali così maestosi e grandi; forse lassù non si sarebbe sentita così piccola come si sentiva di solito. Cavalcare le avrebbe dato una sensazione di libertà, le avrebbe dato la possibilità di assaporare l’aria frizzante, seppur intrisa da una grigia coltre di nebbia, di quell’isola.
Ne era certa. E non vedeva l’ora di farlo.
– Davvero? – fece lui.
Si voltò a guardarlo perplessa, cercando di cogliere una qualche sfumatura nella sua voce, poi rispose timidamente:
– Sì.
 Ci fu qualche secondo di silenzio, ma ad un tratto Richard lo interruppe, dicendo:
– Se vuoi ti faccio salire su uno dei miei cavalli.
Si chiese se lo avesse detto davvero, mentre un bagliore percorreva i suoi grandi occhi scuri. Era come se il cuore fosse così colmo di felicità da scoppiare.
Lasciò che le scappasse un sorriso.
– Grazie Richard, grazie mille – disse felice, trattenendosi dal saltare di gioia.
– Chiamami papà – le rispose lui, con un sorriso.
Appena lo sentì pronunciare quelle parole, capì che forse si sarebbe abituata dopo un po’ di tempo a chiamarlo così.
Apprezzava la sua gentilezza nei suoi confronti, ma doveva ancora prendere in considerazione l’idea di identificare come “papà” uno – almeno per il momento – sconosciuto a tutti gli effetti.
– Certo... papà – disse comunque. Voleva dimostrare che non era diffidente, voleva tuffarsi con fiducia tra le sue braccia, ed essere finalmente sua figlia.
Voleva fare di tutto, pur di andare incontro alla sua famiglia.
 


 
La grande stalla dei Morgan, da cui poteva sentire i nitriti dei cavalli, era poco distante dalla casa dal tetto rosso; Richard le fece strada verso di essa, conducendola all’interno.
Mentre lo seguiva, facendo attenzione a non perdersi, ammirò alcuni di quegli animali al pascolo, che di tanto in tanto trottavano nel grande recinto di legno al di fuori della stalla.
Il suo sguardo correva lungo ogni singolo dettaglio dell’ambiente circostante. Correva attento,vigile, come un esploratore  impaziente di conoscere tutto e subito, mentre ancora non riusciva a credere di dove fosse.
Era tutto così diverso rispetto a com’era all’orfanotrofio, pensò, mentre si era soffermata per qualche secondo ad osservare un cavallo nero.
Da quel momento, Samara avvertì come un legame tra lei e quegli animali così belli. Ce ne erano così tanti che faticò a trovare quello che le piacesse più degli altri, ma improvvisamente ne adocchiò uno grande e bianco, dal manto talmente lucido da assumere di tanto in tanto un bagliore argenteo.
I suoi occhi neri e dolci la guardavano intensamente. Senza che neanche se ne fosse accorta, si sorprese a fargli delle carezze.
È meraviglioso, pensò, mentre faceva correre la sua mano lungo il muso candido e allungato dell’animale, dalla punta screziata di un bellissimo grigio fumo.
– Vuoi montarlo? – chiese Richard, come in risposta ai suoi pensieri, giungendo da dietro fino a lei e il cavallo bianco. – Si chiama Wind – continuò.
– Che bel nome – disse, continuando ad accarezzarlo.
Era entusiasta.
Richard prese una coperta color mattone dai bordi dorati, e dopo averla poggiata sul dorso, strinse accuratamente la sella alla pancia del cavallo, mentre lei osservava attentamente ogni sua minima mossa. Wind era docile, buono. Sembrava perfettamente calmo, mentre Richard, intanto, sistemava le staffe in modo sicuro ed esperto.
– Okay Samara, puoi salire – le disse, evidentemente  felice del fatto che lei stesse cominciando a condividere la sua passione.
Samara guardò il cavallo che era davanti a lei, alto e maestoso.
Improvvisamente ebbe paura. Un’inspiegabile sensazione di timore e insicurezza le serpeggiò nel corpo, attorcigliandosi nel suo stomaco; deglutì e tornò a fissare il cavallo, con gli occhi leggermente sbarrati in un’espressione spaurita.
– Coraggio – sentì che diceva la voce di Richard. – Non aver paura. I cavalli sono animali buoni e non oseranno mai farti del male – la rassicurò, forse perché aveva percepito la sua incertezza.
Infilò goffamente i piedi nelle staffe e si issò con un po’ di fatica sulla sella, cercando di trovare una posizione comoda che rendesse sicura e piacevole la sua prima cavalcata.
– Visto? Ce l’hai fatta! – la incoraggiò ancora, con la sua voce profonda e rassicurante.
Samara sorrise nella sua direzione, come per fargli vedere che ora era più calma; aveva temuto che il cavallo la spingesse via o cominciasse a scalciare. Invece l’animale si limitò ad oscillare lievemente la testa a destra e a sinistra, nel tentativo di scacciare le mosche che gli svolazzavano intorno alla criniera.
Richard slegò Wind dalla sbarra a cui era tenuto con una corda e con calma lo portò fuori dalla stalla, conducendo la bambina in una tranquilla passeggiata.
– Domani, se vuoi, ti insegnerò a cavalcare come si deve – le disse, mentre attraversavano il bosco. Gli alberi tendevano verso l’alto i numerosi rami spogli, come scure e secche braccia dalle dita nodose.
– Certo, non vedo l’ora – rispose lei ammirando il panorama, seppur spoglio e grigio, immerso in una coltre di fitta nebbia. Faceva un po’ freddo, e i piccoli spifferi si insinuavano sotto al suo maglioncino bianco.
Samara non ci badò e si guardò intorno, ascoltando i passi del cavallo sul sentiero di sassi e foglie cadute che crepitavano sotto gli zoccoli.
Accarezzò Wind dolcemente, toccando la sua criniera bionda come il grano, mentre Richard lo conduceva per lei. Ora ne era certa: si sarebbe trovata bene dai Morgan.
Aveva trovato la famiglia adatta a lei in una vita adatta a lei.
– Guarda, Samara.
La voce di Richard interruppe i suoi pensieri, costringendola a distogliere lo sguardo dal mantello del cavallo.
Sentiva un mormorio, il mormorio sommesso dell’acqua, come se fossero in prossimità del mare. Alzò lo sguardo e rabbrividì leggermente.
L’acqua.
Non riusciva a distogliere la sua attenzione da ciò che le si presentava davanti: una scogliera immensa, scura, imponente. La schiuma arrivava a loro con qualche schizzo a causa del vento, che le scompigliava violentemente i  capelli.
Si scostò  a fatica le lunghissime ciocche nere dalla faccia, e rimase incantata ad ammirare quello scenario così cupo, ma affascinante allo stesso tempo. In lontananza vedeva un faro alto e scuro, che si addiceva perfettamente all’ambiente circostante.
Per qualche secondo ci fu così silenzio che Samara riuscì a sentire soltanto il suo respiro e l’infrangersi incessante delle onde sugli scogli alti e frastagliati. Sia lei che Richard ammirarono il panorama senza dire niente, come se fossero vicini ma allo stesso tempo molto lontani.
– Bello, vero? – interruppe il silenzio.
– Sì... – rispose sovrappensiero. Intanto, Wind si mostrava nervoso e di tanto in tanto batteva uno zoccolo per terra, come impaziente di andarsene.
Samara sentì una goccia caderle sulla guancia destra, seguita da un’altra; in pochi secondi, sentì che la sua pelle era baciata da decine di piccole e leggere gocce d’acqua.
– Piove – disse piano.
– Dovremmo tornare a casa, sta cominciando a piovere – la ricambiò Richard.
E così si allontanarono da quello scenario quasi irreale, che sembrava come uscito da un quadro; si guardò dietro per un po’, mentre vedeva che la pioggia cominciava a picchiettare forte anche sulle onde del mare, come piccoli e impercettibili sassi che increspavano l’acqua.
L’acqua.
Nonostante tutto, avrebbe voluto rimanere lì con Wind; non voleva tornare a casa, ma Richard aveva deciso così e non le andava di farlo arrabbiare.
I rami degli alberi erano scossi dal vento, mentre le foglie volteggiavano nell’aria come farfalle color rame sopra le loro teste; intanto la pioggia aumentava e stava diventando più pesante, invadente. Ormai il suo maglioncino era zuppo d’acqua e anche i capelli stavano appiccicati alla fronte, impedendole di vedere bene.
Ma lei si sentiva al sicuro, perché con lei c’era Richard.
Con lei c’era il suo papà.
Ora si fidava di lui.

 

****

 

Appena scorse la grande casa bianca dal comignolo rosso, sentì improvvisamente un piacevole calore, che rimpiazzò per un secondo il gelo che aveva provato fino a qualche secondo prima.
Zuppo d’acqua, Richard portò Wind nella stalla e, dopo averla fatta scendere, la coprì con un braccio guidandola di corsa verso la casa, nel tentativo di ripararla dalla pioggia incessante che ora ricadeva come grandine.
Suonò il campanello, e dopo il suono squillante sentì dei passi da dentro dirigersi con ansia verso la porta.
Anna.
– Finalmente siete tornati! – disse, con una faccia piuttosto preoccupata. Probabilmente era stata in pensiero per loro, lo si poteva leggere nei suoi occhi castani.
– Samara, stai bene? – le chiese. – Ma guardati... sei fradicia... – disse, passandole una mano tra i capelli. Poi guardò Richard, con aria lievemente accigliata.
– Da quanto tempo siete fuori casa? – chiese, con la voce che le tremava appena.
– Avevo visto che le piacevano i cavalli e ho pensato di portarla a fare una passeggiata, ma ha cominciato improvvisamente a piovere – disse lui, come se si stesse giustificando.
– Andate a farvi una doccia che è meglio... e asciugatevi bene. Io intanto preparo qualcosa di caldo, fuori sta venendo giù il diluvio – concluse Anna, minimizzando la situazione.
Sin da quando l’aveva vista per la prima volta, Anna le aveva dato l’idea che sarebbe stata una madre molto premurosa, e come aveva immaginato lo era. Quando scese le scale con un accappatoio bianco che Anna aveva preparato per lei, trovò infatti una minestra calda sulla tavola apparecchiata con cura, mentre lei le diceva affettuosa:
– Mangia, che così ti scaldi – facendole una carezza sui capelli bagnati e appiccicati ai lati del viso, che gocciolavano acqua ovunque.
– Grazie Anna – le disse, con sincera gratitudine, cominciando a mangiare la calda minestra.
– Non devi ringraziarmi, piccolina – rispose lei con la sua voce più dolce. – E puoi chiamarmi mamma, se vuoi – aggiunse, con un sorriso che le scaldò il cuore.
Samara restò a guardarla per qualche secondo, con un sorriso sulle labbra.
I Morgan erano la famiglia che aveva sempre desiderato, la famiglia che aveva aspettato per nove anni.
E lei era loro figlia.
Era Samara Morgan.

 
 
Buonasera, miei cari lettori :)

Ho visto che in questi primi due capitoli mi avete lasciato la bellezza
di dieci recensioni, che a me vanno benissimo,
e così mi sono decisa a mettere il terzo.
Come sempre, spero di non avervi deluso, mi auguro che non ci siano errori di battitura,
di contenuto o peggio ancora...di grammatica :/
C
i tengo molto a sapere quali sono i punti che vi sono piaciuti di più, come vi sembra il mio stile o quello che volete voi,
mi piace trovare opinioni ampie e ben articolate :)
Attendo con ansia le vostre preziose recensioni <3
Beh, che dire..
Alla prossima puntata di questa Fan Fiction The Ringosa <3


Stella cadente

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Capitolo 4
*** 8 febbraio 1978 ***


Capitolo 4
8 febbraio 1978
 
 
 
 
Samara aveva passato con i Morgan circa un paio di mesi, e ormai aveva acquistato nei loro confronti una certa familiarità.
Richard le aveva insegnato a cavalcare e facevano lunghe passeggiate insieme praticamente tutti i giorni. Andavano sulla scogliera, nel bosco, sulla spiaggia; man mano che passavano i giorni, la bambina amava sempre  più i cavalli. I Morgan le avevano inevitabilmente trasmesso quella loro passione; osservare gli animali correre liberi e prendersi cura di loro era una cosa che adorava.
Però Wind era in assoluto il suo preferito. Era felice che Richard avesse deciso di affidarglielo; prima della passeggiata passava circa un quarto d’ora a pettinarlo e si divertiva a fargli le treccine, rigirandosi tra le sue manine bianche la criniera bionda dell’animale.
Richard invece era solito cavalcare con John, un Appaloosa maculato che aveva nella sua scuderia da diversi anni.  John era possente e irrequieto, ma Richard sapeva esattamente come controllarlo.
Quando si esercitava nel campo con quel magnifico cavallo, Samara non poteva fare a meno di ammirare suo padre. Avrebbe tanto voluto, un giorno, diventare esperta come lui.
Ora le giornate sembravano leggermente meno buie, e la famiglia aveva l’occasione di trascorrere più tempo fuori.
Samara si chiedeva spesso se davvero si meritasse quell’affetto incondizionato. Ogni volta che parlava con loro, sentiva che i suoi occhi erano tornati a risplendere di quella luce che avevano perso da tempo – o che forse non avevano mai avuto.
Ora sarebbero cominciati i tempi felici.

 
****
 
 
 
8 febbraio 1978. Un giorno diverso dagli altri.
– Auguri! – la sorprese la voce di Anna, quando quella mattina scese in cucina.
Auguri.
Aveva vaghi ricordi collegati a quell’espressione. Nella sua mente annebbiata, in un primo momento, quelle parole non ebbero nessun significato. Poi realizzò: era il suo compleanno.
– Buongiorno, Samara – fece anche Richard, con un vassoio di cornetti dorati e fumanti. – E tanti auguri. Spero che i cornetti alla crema ti piacciano – le disse.
Samara non poté fare a meno di sollevare un sopracciglio con aria interrogativa, ma poi sorrise gioiosa afferrando un cornetto. Quando lo assaggiò sentì la consistenza morbida della crema che le si scioglieva in bocca, e si meravigliò che i Morgan avessero già capito le sue preferenze.
Anna e Richard la guardavano felici, mentre si sporcava golosa la bocca con la crema e la glassa.
– E non è finita qui – continuò Richard.
– Come? – chiese lei.  
– Ti abbiamo fatto un regalo, tesoro – disse Anna sorridendo dolcemente. – Va’ in sala e vedrai – concluse con tono amorevole. Aveva la voce calda e affettuosa,  carezzevole.
Lei la ricambiò con ammirazione; Anna era diventata l’esempio da seguire, il tipo di persona che un domani sarebbe voluta diventare.
Si alzò, ansiosa di sapere che tipo di regalo le avessero fatto, e corse in sala a capofitto, mentre la curiosità la divorava.
In quella spaziosa stanza, inondata appena da un’insolita e debole luce, si fermò di colpo.
Sul tappeto, davanti alla televisione, c’era un cavallo a dondolo, scolpito alla perfezione nel legno chiaro e liscio.
Samara si avvicinò lentamente, come annientata da quella vista, e lo toccò piano con i polpastrelli sentendone i dettagli, delineati con minuziosa precisione.
– Ti piace? – fece la voce di Richard dietro di lei. – L’ho fatto io, per questa occasione –  continuò, sorridendole.
La piccola era al colmo della contentezza. Per un momento si chiese come avesse fatto il suo papà a costruire una cosa simile senza che lei se ne fosse accorta, come avesse fatto ad intagliare nel legno una cosa tanto bella e delicata. Si vedeva che ci aveva messo impegno, che lo aveva costruito con cura.
Non sapeva che cosa dire.
– È... bellissimo – riuscì a sussurrare.
Abbracciò l’uomo, stringendosi al suo petto ampio e rassicurante. Sentì le lacrime pungerle gli occhi. Erano lacrime di gioia che volevano essere liberate; ma non voleva piangere, non voleva rovinare tutto.
– Ti voglio bene papà – sussurrò, cercando di non far sentire la sua voce incrinata.
– Anche io te ne voglio, Samara – disse lui, di rimando.
Quelle parole la fecero sorridere, e rimase piacevolmente stupita da ciò che aveva appena sentito: il suo papà era un tipo fermo, serio, che mai sarebbe stato autore di un’affermazione simile. Quelle parole erano state dette con tono rigido e sostenuto, ma le avevano inevitabilmente scaldato il cuore. Era stata l’unica volta che festeggiava il suo compleanno, ma era venuta benissimo, con i suoi genitori, dei cornetti alla crema e un cavallo a dondolo.
Si sentiva accettata, amata.  
Ogni tanto temeva ancora che si potesse svegliare nel suo solito letto dell’orfanotrofio, in quella stanzetta dalle pareti spoglie e bianche. Temeva che la felicità potesse restare per sempre soltanto un desiderio, un sogno.
Abbassò lo sguardo sul cavallo a dondolo, e aguzzò la vista: ai piedi del suo regalo, c’era qualcosa di più piccolo, di dolce e delicato, un oggetto rotondo che scatenò subito in lei una divorante curiosità.
Si chinò, e toccò il freddo metallo dipinto a mano con colori tenui; poi schiacciò un pulsante collocato ai piedi di quella che sembrava una piccola giostra in miniatura, all’interno della quale fluttuavano cavallini in metallo dalla sella dorata. Una musica fine e melodica si diffuse nella stanza.
Era un carillon, a forma di carosello.
Samara sorrise, osservando lo scorrere dei cavallini dipinti con cura, ammirando con stupore e gioia quell’oggetto meraviglioso, talmente catturata dalla melodia che non riuscì neanche a ringraziare.
– Abbiamo altre sorprese per te, non pensare che sia finita qui – le disse improvvisamente Anna, interrompendo l’armonia creatasi nell’aria.
– No? Davvero? Che altro c’è? – chiese, ansiosa di sapere che cos’altro mancasse per quella festa di compleanno così perfetta.
– Vieni in giardino con me – le disse Richard, facendole un cenno.
Samara lo guardò interrogativa, ma obbedì seguendolo all’esterno della casa. Sentiva l’ansia serpeggiarle nel corpo. Prese a tremare, non capiva se per il freddo o per la tensione.
Ma in ogni caso, non vedeva l’ora di scoprire che cosa avesse in serbo per lei il suo papà.


 
****
 

Qualche minuto dopo vide che in giardino, attaccata al  ramo più corposo del grande albero, c’era un’altalena.
Un’altalena che prima non aveva mai notato.
Prima non c’era.
– Non dirmi che... – disse a Richard, incredula.
– Anche questa è opera mia – la ricambiò lui, con la lieve traccia di un sorriso.
– Grazie! Davvero, grazie mille! Questo è il compleanno più bello della mia vita! – esultò lei. La sensazione di gioia e di beatitudine era tale che Samara cominciò a ridere, e si abbracciò stretta ai suoi genitori, felice come non si era mai sentita prima di allora.
– Chi ha voglia di fare una bella passeggiata a cavallo? – propose Richard.
– Io! – fece lei, contenta.
E Richard non esitò a tirare fuori dalla stalla Wind, John e Cloud Nine, il maestoso cavallo nero di Anna, per lanciarsi al galoppo nel bosco.
L’aria frizzante scuoteva i capelli  color carbone della bambina, facendoli ondeggiare vaporosi. Samara sorrise, mentre il vento le sferzava il viso con fredde carezze.
Quella era la vita che aveva sempre sognato.
Era una vita completa. Senza preoccupazioni.
L’oscurità ormai non entrava più nella sua vita, non più. Niente nella sua anima era nero, non accadevano più quegli eventi negativi di cui aveva un’eterna paura.
Era finalmente felice.
E a volte, la sua paura, quella più grande, era che la magica armonia che si era appena instaurata potesse spezzarsi, riportandola bruscamente alla realtà.

 
 
 
 
Ciao a tutti!
Mi scuso per lo stratosferico ritardo, ma fra studi e altre tre storie non avevo molto tempo.
E poi sapete che sono meticolosa (no non lo sapevate, ma ora sì LOL) e ci metto trent'anni a scrivere i nuovi capitoli, perchè poi li riguardo e li riguardo..
Comunque chiedo scusa a tutti coloro che seguono questa storia e che si aspettavano invano un puntuale aggiornamento *si inchina umilmente*
Ad ogni modo, che ne pensate del quarto capitolo?
Lo so che forse vi ha delusi un pochino...
comunque, come ben sapete, ci tengo in maniera quesi morbosa alla vostra opinione, perciò, inutile dirvelo:
Recensite *occhi da cucciolo*
Detto questo, mi dileguo, anche perchè altrimenti il commento dell'autrice diventa più lungo del capitolo stesso!
baci a tutti, e un grazie particolare a Lawrence9, che mi invia messaggi a dir poco meravigliosi, senza contare le recensioni davvero soddisfacenti (spero che il capitolo ti piaccia <3).
Al prossimo capitolo ;)

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Capitolo 5
*** Vincoli oscuri ***



Prima parte








Capitolo 5
Vincoli oscuri



Moesko Island
Primavera 1978

 
 
 
 
 
Moesko Island era avvolta nell’abbraccio scuro della notte, e fuori regnava la calma. Si sentiva appena l’ululare leggero del vento di mare, e nient’altro.
Lei camminava lungo l’area della stanza.
Come tutte  le notti.
Sapeva che non era normale che lei non dormisse, ma voleva nasconderlo ai suoi genitori. Si sarebbero preoccupati, e lei non voleva farli preoccupare. Così non appena sentiva che uno dei due si alzava si raggomitolava nel letto, facendo attenzione a non fare rumore.
Era avvolta nel buio più totale, a guardarsi intorno e a vedere il mondo che si assopiva sotto ai suoi occhi lentamente, mentre lei non riusciva a farlo. Non riusciva a dormire, non riusciva a chiudere gli occhi e lasciarsi scivolare nei suoi sogni come facevano le persone umane.
Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà? 
Una lacrima solitaria le scivolò sulla guancia, mentre osservava le lenzuola sfatte del letto che sembravano chiamarla, invano. Aveva un gran mal di testa, e ciò che desiderava fare più di ogni altra cosa era dormire, riposarsi, trovare pace.
Ma non poteva.
Si irrigidì quando sentì dei passi nel corridoio, in quella fonda notte senza suoni. Si mosse appena dal suo angolino, reclinando leggermente la testa e facendo frusciare i lunghi capelli lisci.
Passi. Passi leggeri e delicati.
Si mosse silenziosamente verso la porta, e guardò attraverso la sottile fessura della porta socchiusa che lasciava intravvedere appena lo specchio ovale sulla parete.
Dentro quella superficie trasparente, c’era Anna.
La pelle pallida, che sembrava brillare nel buio della casa, creava un’atmosfera surreale, e si pettinava lentamente con una spazzola dall’aspetto antico e raffinato.
Samara restò turbata nel vederla così silenziosa e seria. La faccia che era riflessa nello specchio era cupa, quasi austera, e per un attimo quell’espressione sul viso di Anna la spaventò. La donna si voltò lentamente, volgendo lo sguardo verso la porta, e Samara trattenne il respiro. Sembrava guardarla senza però vederla davvero, e quegli occhi, fino a quel momento gentili, fecero inaspettatamente scuotere il corpo della bambina in un brivido.
Si ritirò di nuovo nel buio, lentamente, cercando di non far scricchiolare il pavimento in legno.
La sua immagine stava sparendo.

 
 
****
 
 
 
– Oggi c’è una gara di equitazione, perché non ci andiamo?
Anna si trovava sul ciglio della porta della camera, e la guardava. La mattina era arrivata con il caldo e il sole che illuminava tutta la casa.
Ma Samara continuava a vedere la sua immagine che spariva.
Si voltò verso Anna con un movimento veloce. La osservò attentamente; sul suo viso non c’era più traccia di quell’alone di oscurità che velava i suoi occhi e i suoi movimenti, quando l’aveva vista dalla porta durante la notte.
– Certo, mi piacerebbe moltissimo – assentì entusiasta.
Aveva sempre cavalcato e conosceva le sensazioni di quei momenti di assoluta libertà, ma improvvisamente si accorse che non aveva mai assistito ad una gara equestre. Un senso di irrefrenabile curiosità schizzò subito dentro di lei, mentre mille immagini e mille ipotesi le affollavano la mente.
– Mamma, che cosa succede ad una gara di equitazione?  – chiese.
– Oh, – fece lei con un sorriso materno – è una specie di esibizione dei cavalli che svolgono vari esercizi insieme ad un fantino... è divertente – aggiunse. Ora non era più la donna dal viso cupo di quella stessa notte; era di nuovo la sua mamma, premurosa e sempre pronta a dire una buona parola. Samara si chiese perché notasse così tanto quella differenza, ma cercò di mascherare la sua preoccupazione ricambiando il sorriso e la raggiunse, ansiosa di assistere alla gara.
– Dove si terrà? – chiese ancora, interessata.
– A Shelter Mountain. Ci saranno un sacco di persone che conosciamo io e tuo padre, e Tom Ramirez farà il numero con Cameron, il suo purosangue.
– Chi è Tom Ramirez?
– Un fantino bravissimo, amico di papà. Ti piacerà, vedrai  – tagliò corto Anna.
Sul volto di Samara nacque un sorriso appena accennato. Era felice di poter partecipare ad un evento simile, ma aveva notato che la sua mamma non era molto loquace, quel giorno.
– Che bello, non ne vedo l’ora! – esclamò entusiasta, cercando di allentare la tensione. Ogni ombra, adesso, era scivolata via dalla sua mente, anche se, lo sapeva, l’immagine di Anna che si pettinava nello specchio non l’avrebbe mai abbandonata.
Anna sorrise, e come in risposta al suo pensiero, per un istante Samara notò un velo di tristezza nel suo sorriso, tirato, quasi dato forzatamente. Come facevano le donne dell’orfanotrofio.
Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà? 
Per lei qualcosa cambiò. Perché la sua mamma aveva quell’atteggiamento? Perché si comportava come tutte le altre, che prima o poi la abbandonavano sempre?
In quel momento preferiva non trovare risposta a quell’interrogativo.
 
 
 
****
 
 
Shelter Mountain era un luogo in cui sopravviveva ancora per un po’ la fitta coltre di nubi che caratterizzava Moesko Island, e fra gli alberi dalle folte fronde verdi frinivano allegramente un gran numero di cicale. In uno spiazzo recintato vi era un campo di terra battuta, in cui alcuni fantini allenavano i loro cavalli. Samara osservava i movimenti leggiadri degli animali, la leggerezza con cui i loro zoccoli si sollevavano da terra per lanciarsi al trotto con i loro fantini, il modo in cui sembravano obbedire ad ogni ordine.
– Ciao Barbara! – salutò Anna da lontano, vedendo una signora castana e di bassa statura. Samara scrutò la sagoma ancora distante, ma il suo sguardo andò ben oltre la bassa signora e vagò lungo l’ampia area, per poi fermarsi al box dei cavalli. Osservò il fantino dar loro da mangiare, prepararli per la gara che si sarebbe tenuta tra breve e incoraggiarli, sussurrando vicino alle loro orecchie con premura e dolcezza, come solo un appassionato allevatore avrebbe potuto fare.
 Probabilmente era Tom.
L’uomo si avvicinò ad un cavallo alto e possente, dal mantello color cioccolato fondente e la criniera nera come la pece, e gli diede un’affettuosa pacca sul muso in segno di incoraggiamento.
“Cameron” pensò Samara, contemplando l’elegante animale scuro.
– Mamma, quello laggiù è Tom? – chiese in un sussurro, attirando l’attenzione di Anna e indicando la scuderia.
– Sì Samara, è lui – rispose velocemente lei.
– E’ tua figlia? – chiese Barbara indicandola, non appena udì la vocina flautata che si era diffusa nell’aria.
– Sì – annuì Anna con un lieve sorriso, che subito scomparve in pochi attimi.
Samara si avvicinò ancora di più a lei, come se temesse la vicinanza di quella signora. Barbara continuava a parlare, ma la bambina non si curava di ciò che stava dicendo; era troppo impegnata ad osservare attentamente ogni singolo movimento di Tom.
– La gara sta per cominciare, meglio se andiamo – disse ad un tratto Anna, come a voler porre un freno al più presto a quella conversazione. – Non vorrei di certo perdermi i posti migliori.
 
 
 
 
 
 
 
Samara si accomodò in tribuna in braccio ad Anna, attendendo con impazienza l’inizio della gara. Tutt’intorno vi era un fitto chiacchiericcio degli altri spettatori, che mano a mano prendevano posto sulle panche, mentre il frinire delle cicale sembrava aumentare e diminuire a tratti, come se qualcuno ne regolasse il volume.  C’era chi sedeva con calma, chi con fretta, chi con trepidazione, aspettando che la gara iniziasse. Il sole splendeva più che mai, e le nuvole sembravano diradarsi, lasciando posto al calore di quella giornata di maggio.
Samara si voltò ad osservare Anna. C’era disagio, nei suoi occhi, un disagio che non aveva mai manifestato prima, e la teneva in braccio con distacco, con freddezza, come non la aveva mai vista fare.
Che ti succede?
Cercò di concentrarsi sulla gara, trattenendosi dallo sfogare tutta la rabbia che racchiudeva nel suo corpo, cercando di porre tutta la sua attenzione sullo splendido cavallo di Tom che si muoveva con grazia, senza però riuscirci.
Come era possibile che in una notte fosse cambiato così tanto?
Fece del suo meglio per accantonare i suoi pensieri, accarezzando il mantello scuro del cavallo con lo sguardo. Lo fissò intensamente, come per scaricare sull’animale tutto il suo fastidio.
E improvvisamente, in una frazione di secondo che a lei sembrò durare per sempre, gli occhi neri e rotondi del purosangue incrociarono i suoi.
Samara sentì una fitta alla testa che la fece rabbrividire, e come un automa anche Anna si portò una mano alla fronte, gemendo.
Fu un attimo.
Un nitrito rabbioso squarciò l’aria, il cavallo sbalzò il fantino dal suo dorso in un gesto pieno di ira, e uno scompiglio generale si diffuse con velocità tra tutti gli spettatori. Alcune persone si alzarono in piedi, allarmate; altre iniziarono a parlare tra di loro, visibilmente preoccupate; altre ancora corsero fino alla recinzione, sgomente.
E Samara rimaneva immobile, in braccio alla sua mamma, mentre assisteva alla scena impassibile, come se tutto ciò non le provocasse alcun tipo di reazione. Se ne stava lì, senza dire niente, mentre intorno a lei regnava il caos.
Hai visto.
Tom era fermo, paralizzato, sdraiato nella terra. Provò a rialzarsi, ma il cavallo si diresse verso di lui con una corsa violenta, come animato da un odio profondo, improvviso, letale. Un odio che lo spinse a investirlo, a schiacciarlo sotto i suoi zoccoli solidi, che come pietre lo ferirono fino a che l’uomo non perse i sensi.
Ma non puoi dirlo.
A quel punto, la maggior parte delle donne svenne, accasciandosi miseramente sulle panchine, bianche come fossero morte.
E Samara era ferma. Era morta dentro, immobile.
Anna la prese per mano ed iniziò a correre, una corsa disperata, veloce, una corsa impaurita in cui le gambe si muovevano con foga.
– Corri Samara! – urlò alla figlia, trascinandola per il polso stretto e gracile.
La bambina poteva sentire il rumore degli zoccoli del cavallo galoppare dietro di loro. Aveva sfondato il recinto di legno, e ora si stava gettando su di lei.
Vide il grosso animale avvicinarsi paurosamente, e lasciando la mano di Anna, gettò un grido, aspettandosi il peggio. Era raggomitolata a terra con gli occhi chiusi, in un turbinio di polvere e sabbia, attendendo il dolore, attendendo che il colpo degli zoccoli si facesse sentire.
Ma non percepì niente. Forse era già morta?
Aprì lentamente gli occhi, e rimase immobile. Il cavallo la guardava ora con occhi pieni di umanità, occhi grandi, profondi come un pozzo scuro, che esprimevano timore e arrendevolezza. Mosse qualche passo all’indietro, mentre la bambina lo osservava atterrita. Guardandolo dal basso sembrava ancora più grande di quanto non fosse, e si sentì piccola davanti a quell’animale scuro, che torreggiava sopra la sua indifesa figura.
Perché non la colpiva? Perché Cameron non si era scagliato su di lei?
Il tempo si fermò. Non esisteva più niente, se non gli sguardi tra bambina e animale, collegati da un misterioso e oscuro vincolo.
– Samara, andiamo – disse bruscamente Anna, tirandola su per un braccio, interrompendo quella strana connessione. Si rimisero in cammino verso casa, immerse nel silenzio, un silenzio pesante, un silenzio che non era vero.
Samara si guardò indietro per un attimo.
Il cavallo era scomparso.

 
 



 
Ed eccomi finalmente qui, dopo due lunghi mesi, a postare il quinto capitolo di questa storia drammatica e un po' tetra ;)
Devo assolutamente scusarmi per il ritardo, ma sapete, il blocco dello scrittore colpisce all'improvviso, non avevo ispirazione ed era una cosa fastidiosa anche per me, ve l'assicuro.
Beh, comunque spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo :) spero davvero con tutta me stessa che vi piaccia e che abbia reso bene le scene che descrivevo; se devo essere sincera, di tutti i capitoli finora pubblicati, questo è quello che mi sembra più decente, e sono ansiosissima di sapere cosa ne pensate voi :D
Come avrete notato sicuramente, a questo punto la storia non è più tutta rose e fiori, purtroppo, e le vicende cominciano ad assumere un carattere più drammatico, cupo e leggermente inquietante, come ben sappiamo.
Insomma, siamo per così dire entrati nel clou della storia.. mi auguro davvero che vi sia piaciuto, perchè senza di voi so che probabilmente non porterei avanti questa FF, o almeno, non qui su efp. Quindi, prima di lasciarvi, vi ringrazio per il tempo che mi dedicate e le spelndide recensioni che mi lasciate. E ancora una volta, spero di non avervi deluso :)
Un abbraccio a tutti,
Stella cadente

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Capitolo 6
*** Buio ***


Capitolo 6
Buio
 
 
 

Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà?
Dopo la gara Anna le era sembrata sempre più come la donna dello specchio e sempre meno come la madre affettuosa che era stata fino al giorno prima. Avevano passato il resto della giornata lontane, perché aveva una forte emicrania ed era rimasta tutto il tempo chiusa nella sua stanza. Samara sentiva di non riuscire già più a tollerare la sua assenza.
Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà?
Mamma...
Un cavallo le sfrecciò accanto. Era un cavallo nero, un cavallo furibondo, gli occhi rotondi e umidi che straripavano rabbia.  Un cavallo che cadeva, andava giù nel mare, un cavallo che la guardava con odio, con una collera che non aveva mai visto. L’animale era come impazzito, si dibatteva, si dimenava, senza smettere di guardarla.
Hai visto.
C’era del sangue, dappertutto. Nel buio la macchia si allargava sempre di più, toccandole i piedi candidi con uno sgradevole calore e un odore acre che le colpì repentino il naso, insinuandosi fino al cervello. Il mare si era macchiato di sangue. Lei lo vedeva, lei lo sentiva.
Affogava in un mare nero e senza fine, senza via d’uscita, senza uno spiraglio di luce che venisse in qualche modo a confortarla. Nero, solo nero. Il freddo e il buio erano di nuovo da lei, ma non poteva farlo vedere a nessuno. Gridava aiuto, ma era un aiuto inascoltato, un aiuto che nessuno oramai le riservava più.
Si lasciò cadere nel posto buio e freddo.
E poi, il nulla.
Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà?

 
****
 
 
– Samara...
Nei suoi occhi c’era il buio più profondo. L’unica cosa che le dimostrava di essere ancora in vita era il suo stesso cuore, che palpitava come impazzito.
Mamma...
– Samara...
Aprì gli occhi, e lentamente mise a fuoco il viso di Anna che la guardava sconcertato, gli occhi colmi di preoccupazione misto ad un terrore incontrollato. Vide i capelli neri che le incorniciavano morbidi il viso, le labbra serrate in un’espressione di dolore.
Era mattina.
La notte era passata.
– Mamma... – sussurrò, con le poche forze che le erano rimaste in corpo. Sentì la sua voce somigliare più ad un flebile sussurro, mentre Anna le toccava le braccia.
– Samara, ma che cosa hai fatto... – sussurrò Anna stravolta, guardandola negli occhi.
Provò a svegliarsi da quello stato di torpore. Che cos’era successo?
– Che cosa, mamma?
Anna la guardò in modo strano, come se volesse scavarle nell’anima, e la bambina si sentì ribollire. Sentiva che il posto buio voleva riemergere, ma non voleva che lei lo vedesse. Non dopo quegli anni in cui era riuscito a tenerlo a bada.
Strega, mostro!
Sapeva che per lei non ci sarebbe mai stato nessuno, che quello che la perseguitava era qualcosa di troppo grande e nascosto per essere capito. Era qualcosa che doveva essere rimandato indietro.
Se non riesco a rimandarti indietro, che cosa succederà?
Cosa succederà?
Samara abbassò gli occhi per vedere e trasalì, mentre i suoi occhi scuri si allargavano in un’espressione sconvolta, piena di terrore. Quella paura ferrea, che intrappola in una morsa di angoscia, che stringe lo stomaco, quella paura dalla quale capisci che non puoi scappare.
Le sue braccia erano coperte di ustioni.
 
 
 
 
 
 
Anna non capiva. Non capiva che cosa stesse succedendo, com’era che il suo sogno di avere una famiglia perfetta le sembrasse ormai infranto.
Samara, una bambina di appena otto anni, si era procurata lesioni.
Trattenne a stento le lacrime; non aveva fatto nulla di sbagliato, verso di lei. Aveva sempre cercato di essere una buona madre, di darle tutto quello di cui aveva bisogno. Sin dal primo giorno aveva capito che era una bambina molto fragile – sembrava aver costantemente paura di qualcosa, anche se faticava a capire cosa – e lei si era comportata di conseguenza.
Che cosa ti è successo?
Restava lì impietrita, a guardare quelle piccole braccia così martoriate. E quando sollevò gli occhi capì che non era stata lei.
Non era stata Samara a volerlo e lei, come madre, non aveva fatto nulla di sbagliato. Eppure quei segni erano impossibili, anormali. Come aveva fatto a procurarseli?
Guardò sua figlia, e nei suoi occhi vide la paura, una paura enorme, mentre grosse lacrime le solcavano il viso.
Fu come se qualcosa le si fosse acceso nel cervello.
Doveva porre un rimedio, al più presto.
 
 
 
****
 
 
– Sì, deve essere aiutata... la mia bambina deve essere aiutata... – diceva Anna al telefono.
Samara fece capolino dallo stipite della porta, cercando di afferrare altri frammenti di conversazione. La sua mamma sembrava così preoccupata per ciò che era appena accaduto. Ammirò la sua figura avvolta dalla camicia da notte; camminava per tutta la stanza, apprensiva, ingenua.
Non sapeva che cosa sarebbe successo, da lì in poi.
Samara lo sapeva, in fondo. Sapeva che sarebbe tornato. Eppure fino a quel momento era come se non avesse voluto crederci, come se avesse voluto vivere nell’illusione che anche lei avrebbe potuto stare bene.
Si era illusa che i Morgan potessero scacciare anche lui.
Il Buio.
Ma il Buio tornava sempre. Era di nuovo lì, adesso.
 
 
 
****
 
 
 
– Allora, tu devi essere Samara.
Si trovava davanti ad una signora che avrà avuto circa l’età di Anna, dai lucenti capelli biondi.
– Ehm... – tentennò, incerta. – Sì.
Indugiò per un attimo, scrutando quel viso sconosciuto.
– Ma chi è lei? – chiese la bambina, spaesata. – Perché sono qui? Io devo tornare dalla mia mamma.
L’ansia aveva cominciato a serpeggiarle nello stomaco di fronte a quella donna. Le immagini avevano ripreso a scorrere.
Vorresti raccontarmi cosa è successo davvero?
Samara, tu ti senti coinvolta in tutto questo?
Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
Le immagini non si fermavano.
– Samara, la mamma non starà qui con te, ora.
La voce della donna era piatta, e sebbene avesse un timbro caldo e rassicurante, era diventata così gelida da farla rabbrividire.
Allora, tu devi essere Samara.
– Come faceva, lei, a sapere il mio nome?
– Sono il medico dell’isola. Conosco tutti qui. Tua madre ti ha portata da me perché vuole che io capisca che problema hai.
Samara non capiva. Medico? Problema?
Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
Nessuno doveva saperlo, altrimenti sarebbe stata la fine.
Lui l’avrebbe uccisa se qualcuno lo avesse saputo, ne era certa. E non poteva permetterlo.
– Ma io non ho nessun problema, signora – disse candidamente. Mentiva, quello era certo. Ma doveva preservare il Buio, doveva trattenerlo. Altrimenti si sarebbe impossessato anche di altri.
La donna la squadrò con attenzione, come a cercare di penetrare i suoi pensieri. Il cielo plumbeo e cupo di Moesko Island la faceva apparire quasi spettrale, con quei capelli talmente chiari da sembrare bianchi e gli occhi scuri come due pezzi di carbone.
– Vedi Samara, io sono qui per aiutarti. Non voglio farti del male.
Sì invece, pensò la bambina. Nessuno poteva capire che cosa sarebbe potuto accadere se avessero provato a chiamare il Buio. Perché era questo quello che il medico voleva fare: tirarlo fuori, tirare fuori il Buio.
Ma Samara sapeva che non ce l’avrebbe fatta già in partenza. Lui aveva messo i suoi artigli troppo in profondità perché avesse anche solo qualche possibilità di farcela.
Ormai era diventato parte di lei.
– Lo so. Mi fa piacere che lei mi voglia aiutare, – sussurrò –  ma non può farlo. Nessuno può farlo.
Il medico la guardò con curiosità.
– E perché? – chiese.
Samara fissò intensamente la donna negli occhi.
– Perché  lui mi ha presa, dottoressa.
– Lui chi?
Si guardò intorno, spaventata. Aveva paura di dirglielo, di rivelarle tutto.
Non poteva rimanere in silenzio, però.
Dovevano capire il Buio.
Dovevano capirlo tutti.
 
 
 
 
Ellie Grasnik rimase interdetta. Sembrava che quella bambina avesse paura, paura di qualcosa che, evidentemente, era sfuggito al suo occhio attento di medico.
Ma stava a lei parlare. Doveva rispondere alle domande che le venivano fatte, anche nel caso in cui le risposte fossero state prive di senso.
Così aspettò.
E aspettò.
E aspettò.
Passò qualche secondo in cui si guardarono in silenzio. Samara ostentava una sicurezza che le incuteva timore, come se in quello sguardo non ci fosse una bambina di otto anni, ma qualcos’altro di cui non sapeva spiegare la presenza.
Anna le era sembrata molto preoccupata, al telefono. Le aveva detto che la bambina aveva bruciature sulle braccia. La cosa la inquietava profondamente, ma in qualità sia di psichiatra che di psicologa aveva curato molti pazienti con istinti autolesionisti, e sperava di poter fare altrettanto con la tanto amata figlia di Anna Morgan.
Aspettò ancora.
– Samara – la chiamò. – Dovresti rispondermi, adesso.
Notava che la bambina rimaneva immersa nel mutismo più totale.
Si lasciò cadere sulla sedia, sospirando. Forse doveva procedere con più calma, forse non le avrebbe mai risposto. Almeno per ora.
Ma poi, la sentì.
Quella voce.
Quella voce che non avrebbe mai scordato.
Di tutti i pazienti che aveva avuto in cura, Ellie Grasnik possedeva ricordi più o meno vaghi.
Ma quella voce.
Era come se, nel momento in cui uscì dalla bocca piccola e rosea della bambina, le si fosse artigliata al cervello.
Una voce pura, infantile, dolce, ma che in quel momento suonò alle sue orecchie orribilmente sinistra.
– Il buio, dottoressa. Il buio.
 
 


 
Udite udite, sono tornata alla carica con questa storia!
Dopo più di un anno, una One Shot e la conclusione di altre due long che avevo in corso, mi sono finalmente degnata di riprenderla.
Adesso che è la mia unica long non ancora completata, posso dedicarmi solo a lei (se Dio vole, come si dice dalle mie parti).
Sono felice, ho tante idee :3
Dunque, come vedete adesso iniziamo ad entrare nel vivo della FanFiction. Gli eventi sono più cupi,
adesso l'atmosfera si fa più dark e ci stiamo calando nell'horror.
Inoltre, da ora in poi la storia sarà vista anche con gli occhi degli altri personaggi, per dare un'idea ancora più ampia delle vicende e dei vari, per così dire, "attori".
Il mio obiettivo con questa storia è di creare il pathos tra le righe, l'ansia, la tensione, come una storia horror che si rispetti,
e di caratterizzare i personaggi in modo non banale.
Ma ovviamente dovrete essere voi a giudicare ciò che scrivo, perciò non vedo l'ora di leggere i vostri commenti.
Spero vivamente di non aver lasciato gente per strada.
Alla prossima ^-^
Stella cadente

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Capitolo 7
*** La luce si spegne ***


Capitolo 7
La luce si spegne
 
 
 
Moesko Island, 31 maggio 1978
Sera

 
 
Samara guardava fuori dalla grande finestra di camera sua la luce nuvolosa di Moesko Island.
Ricordava ancora la prima seduta con la dottoressa Grasnik, quella dottoressa che la studiava, la scrutava, la analizzava.
Fece una smorfia: il pensiero che quella signora potesse rovistarle tra i pensieri la faceva rabbrividire ogni volta. Non andava volentieri da lei, eppure aveva un’altra seduta fra due ore.
Ricordava ancora la prima di quelle sedute che doveva frequentare regolarmente, tutti i giorni, perché aveva un problema grave.
Un problema grave.
O almeno così aveva capito da ciò che la Grasnik aveva detto.
 
 
 
Ciao papà sussurrò appena tornata a casa.
I suoi occhi scuri vagarono lungo il corridoio buio, alla ricerca della figura imponente di Richard.
Anna si era fatta ancora più cupa. Il silenzio la avvolgeva e la teneva lontana da lei come fosse stata sotto una campana di vetro.
Ciao Samara.
La voce di suo padre era fredda, distante; Samara rabbrividì nel sentirla.
Era come se lei stessa avesse spento quella luce che i Morgan emanavano continuamente.
Sentiva il buio spandersi, il suo corpo emanare energia negativa, una rabbia immotivata e innaturale prendere il sopravvento. Non riusciva più a respirare quel clima così cupo e non riusciva ad accettare che fosse stata lei a crearlo. Lei desiderava solo poter stare bene con i suoi genitori.
Ma non poteva.
Era un mostro.
 
 
 
La sua stanza era diventata ormai il suo rifugio. Anche se lei non aveva mai un rifugio e non lo aveva mai avuto.
Ormai era diventata completamente inerte, assente nella vita dei genitori. Preferiva la solitudine, perché aveva paura di far loro del male, e sapeva che non se lo sarebbe mai perdonato. Il Buio era imprevedibile, inafferrabile, ineliminabile.
Non riuscirà mai a tornare indietro.
Non poteva semplicemente ucciderlo, né tantomeno smaltirlo pian piano con sedute da una dottoressa specializzata in psichiatria infantile.
Samara si sdraiò a terra, piano, delicatamente, un piccolo corpicino pallido steso sul pavimento, i lunghi capelli corvini a formarle un’aura scura intorno alla testa.
Sentiva il freddo.
 
 
****
 
 
Anna era preoccupata.
Erano giorni che Samara si era chiusa in camera e che sembrava non voler interagire più con il mondo esterno. Da quando avevano assistito alla gara di equitazione e il cavallo di Ramirez l’aveva aggredita non sembrava più essere la stessa. Era convinta che quelle lesioni fossero dovute a quell’episodio, che c’entrassero qualcosa con l’incidente della gara... Ma forse non aveva fatto bene a portarla direttamente da un medico. Forse doveva solo parlarle.
Chissà che cosa le aveva detto quella dottoressa. Anna si fidava di lei – erano amiche di infanzia e sapeva che Ellie era una persona per bene – ma temeva che la bambina si fosse spaventata.
Samara ormai usciva  dalla sua stanza solo per mangiare e parlava raramente, e lei, nel vedere sua figlia ridotta in quel modo, si sentiva disintegrare.
Sorrise amaramente.
Quella non era esattamente sua figlia. Eppure le voleva bene come se lo fosse stata davvero, come se davvero avessero un legame di sangue. C’era una certa somiglianza tra di loro, che la faceva sentire un po’ più sua. Aveva i capelli neri e la pelle chiara come lei. Vederla era sempre una gioia, e bearsi di quel raro sorriso, delicato e sempre appena accennato lo era ancora di più.
Samara era una bambina seria. Accadeva di rado che sorridesse, ma quando lo faceva il suo viso candido si illuminava di una luce che Anna trovava bellissima.
Ora non la vedeva più, quella luce.
La luce non c’era più.
Una lacrima le solcò il viso.
Non si affrettò neanche ad asciugarla come faceva di solito, lasciò semplicemente che le scivolasse sulle guance pallide.
Samara si era spenta, era morta dentro.
E lei non ci poteva fare niente.
 
 
****
 
 
Il Buio era ricomparso. E da quando era ricomparso ogni cosa era cambiata.
Stava affiorando pian piano, come se volesse manifestarsi in maniera graduale per poi esplodere tutto insieme. Era stato solo venti giorni prima, eppure le sembrava che fosse passata una vita.
Ora era di nuovo chiusa e cupa, di nuovo al punto di partenza.
Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
 Odiava sentire i singhiozzi di Anna la notte, odiava dover andare tutti i giorni da quel medico.
– Samara, vedrai che si risolverà tutto – disse ancora quella donna. Voleva incoraggiarla a parlare, era evidente. Anche perché era da un po’ che se ne stava in silenzio.
In realtà non diceva mai niente, Samara. Per paura, per paura che il Buio venisse di nuovo da lei.
– No – si limitò a dire.
Cercò disperatamente di non piangere.
 
 
****
 
 
Il medico la guardò con sguardo comprensivo. Guardò quel viso dolce coperto in parte dai capelli corvini, sfigurato dal dolore, guardò quegli occhi scuri e profondi. Guardò quella bambina che era stata costretta da qualcosa a crescere troppo in fretta, quella bambina che era a disagio con se stessa.
Quella bambina che già a nove anni portava qualcosa dentro.
– Non posso sconfiggerlo.
La donna rimase basita dalla dolorosa rassegnazione che abitava quella frase.
Samara era molto strana. Se ne stava sempre in silenzio, rispondeva di rado alle sue domande, ma lei vedeva che c’era qualcosa, perché quegli occhi parlavano da soli. E dicevano tante cose, ma al tempo stesso rimanevano impenetrabili.
– Ci riuscirai. Riuscirai a sconfiggere il buio – la rassicurò.
E attese risposta, o comunque un segnale di vita che non arrivò, di nuovo.
 
 
****
 
 
Non ci sarebbe mai più stata via di fuga. Lei lo sapeva.
Le parole della dottoressa le rimbombavano nel cervello, confondendosi, ammassandosi le une sulle altre.
Ci riuscirai. Riuscirai a sconfiggere il buio.
Sapeva che lei non ce l’avrebbe fatta, che tutti gli altri non ce l’avrebbero fatta.
Doveva nascondersi, scivolare nelle sue tenebre.
La bambina varcò appena la soglia di casa, poi corse in camera sua.
 
 
 
 
Era lì.
Quella cosa era lì.
La stava divorando, distruggendo lentamente.
Samara...
La stava chiamando a sé, nella sua tenebra, nel suo nero fitto e insopportabile.
Quella voce. Quella voce le infestava la testa continuamente, non la voleva lasciare. Non l’aveva mai lasciata, da quando era nata.
Era da diverso tempo che Samara se ne stava raggomitolata in un angolo, nel più totale silenzio. Si trovava come in uno stato di trance, come fosse stata chiusa in una specie di bolla.
Non capiva cosa stesse facendo, come fosse il mondo intorno a lei. L’unica certezza era quella che doveva nascondersi.
Samara...
Quel richiamo sinistro, inquietante, che le affondava il cuore nel petto. La bambina si sentì come se stesse perdendo consistenza.
Sentì che qualcosa la bruciava dentro, come se il suo cuore si stesse annerendo; come se si stesse accartocciando, una palla informe di carta stagnola che si spacca in brandelli sempre più piccoli.
Un sussurro fuggì via dalle sue labbra.
Non sapeva cosa stesse dicendo, sapeva solo che stava sussurrando parole strane. Parole che avevano un suono solenne, vagamente inquietante. Era una lingua stranissima; non sapeva che cos’era, eppure la stava parlando con una disinvoltura che la spaventava.
Smettila.
Smettila, smettila, smettila!
Le parole si riversavano fuori dalla sua bocca sempre più velocemente. Sembravano una specie di mantra orribile e disperato.
Non devono capire il Buio.
L’ultima cosa che sentì fu che lacrime calde rotolavano sulle sue guance.
Poi divenne improvvisamente fredda.
 
 



 
Buon Samara a tutti :)
Eccomi con il settimo capitolo.
Come vedete la storia si sta evolvendo sempre più. Per Samara la situazione è cambiata, ha capito che rischia di far del male ai Morgan ma al contempo vuole disperatamente essere felice, anche se è molto difficile.
Si sente un mostro, è spaventata dalla situazione.
In questo capitolo ho voluto mettere in risalto questo aspetto, ecco.
La narrazione infatti, a fine capitolo, viene tagliata di netto, si interrompe bruscamente.
Ho fatto in questo modo per rappresentare il fatto che Samara ha una sorta di
"doppia personalità": il lato buono, più umano e lucido, e quello cattivo, più libero, che sfugge al suo controllo.
Come vedete non ho più abbandonato questa fic, la seguo con amore e dedizione :)
E..niente, spero che finora vi piaccia.
Vi ringrazio per l'attenzione e per le recensioni splendide che mi fate.
Davvero, siete importantissimi.
Un abbraccio,
Stella cadente

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Capitolo 8
*** Oblio ***


Capitolo 8
Oblio


 
Moesko Island, 31 Maggio 1978
Notte


 
 
Un’inquietante e lenta melodia risuonava nelle sue orecchie. Una dolce cantilena cantata dalla delicata voce di una bambina, che però risvegliava in lei un profondo disagio.
Era buio lì. Non vedeva assolutamente niente.
Le sembrava di essere come in una sconosciuta dimensione parallela. Non c’erano colori, non c’erano forme, non c’erano rumori se non quella lievissima canzone.
Non c’era niente.
Ma allora, da dove veniva quella voce?
D’improvviso sentì un freddo allucinante. Le sue gambe dolevano e le sue mani avevano perso la sensibilità.
Sentiva i battiti del suo cuore che si dimenava impazzito. Sembravano assordarla, le sue orecchie erano come imbottite d’ovatta.
Un orribile senso di panico si insinuò in lei.
Cercò di scappare ma non riusciva a vedere la luce.
Non c’era niente.
D’improvviso, le apparve una ragazza.
Una ragazza dai lunghi capelli scuri, che si guardava intorno impaurita.
Avrà avuto circa diciannove anni.
Emily?
Una voce piccola, appena percettibile, ma che sembrava aver solcato il silenzio.
La ragazza si voltò lentamente.
Poi urlò di terrore.
 
 
 
 
Anna si svegliò di soprassalto dopo l’ennesimo incubo.
Non sapeva perché ne facesse così tanti. Ultimamente non riusciva più a fare sonni tranquilli, e la cosa un po’ la spaventava. Inutile dire che quello che stava passando Samara influenzasse molto la situazione.
Al solo pensiero che potesse allontanarsi e che lei potesse restare sola, senza una figlia, le si inumidivano gli occhi; quella bambina era l’unica cosa in grado di farla sentire completa, eppure quando si trovava vicino a lei si sentiva così... così... male.
Si sentiva depressa, come se non sapesse più che cosa fosse la felicità. Ed era molto strano, dato che normalmente Samara la rendeva molto felice.
Ricordava ancora il momento di trepidazione prima di adottarla. Non si era mai sentita tanto emozionata in tutta la sua vita, o comunque non ricordava di esserlo stata molte volte – non così almeno. Eppure adesso era come se una parte di lei fosse morta.
Non aveva senso.
Pensò di aver sviluppato una sorta di empatia nei confronti della figlia. In fin dei conti, era una cosa che succedeva spesso, no?
Anche se Samara le era sempre sembrata totalmente fuori dal comune.
Anna sospirò furiosamente nel vedere che non riusciva in alcun modo a prendere sonno – quello che stava succedendo a sua figlia la turbava fin troppo perché riuscisse a farlo.
Quando l’aveva trovata nel suo letto, con gli occhi chiusi e il viso esanime, aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava.
Poi aveva visto quelle cose. Quelle bruciature orripilanti, quei lividi enormi, quei segni che occupavano le mani e le braccia della bambina.
Il ricordo, risalente solo ad un mese prima, le provocò un brivido lungo la schiena.
Non voleva credere che proprio Samara si fosse fatta quei segni; non sembrava neanche che fosse stata lei a marchiare il suo stesso corpo in una maniera così violenta. Era come se lo avesse fatto qualcun altro.
Anna aveva notato la paura, l’angoscia nei suoi grandi occhi scuri, e quella vista era stata come una pugnalata al cuore. Voleva fare qualcosa, lo voleva davvero, ma non aveva saputo che altro fare se non portarla dal medico dell’isola. Aveva pensato che magari la Grasnik avrebbe saputo come comportarsi, eppure Samara sembrava non migliorare, anzi si era chiusa ancor più in se stessa.
E lei si sentiva ogni minuto che passava sempre più un fallimento.
Anna premette il viso contro il cuscino e pianse.
 
 
 
 
Samara, tu ti senti coinvolta in tutto questo?
Perché, secondo te, i tuoi compagni hanno paura di avvicinarsi?
Gli artigli del Buio erano troppo affilati.
Perché hanno paura?
Ti senti coinvolta?
Perché hanno paura?
Il Buio era formato da tante cose.
Il Buio era la paura, la tristezza, le voci, il male.
Il male era con lei, ma rimaneva immobile, e lo lasciava fare.
Non poteva fare altrimenti.
 
 
 
 
 
– Anna...
La voce di Richard la riscosse da quella specie di tormentato dormiveglia.
La donna tirò in su col naso.
– Sì?
Richard la guardò con i suoi grandi occhi neri, scrutandola con quella solita aria preoccupata e comprensiva insieme.
– Tutto bene?
Anna annuì.
– Anna, vedo che sei preoccupata. So che Samara non sta bene ultimamente, ma non puoi continuare così – sbottò lui.
Non poteva dargli a bere proprio niente.
– Lo so, ma...
– È come se tu ti lasciassi influenzare dal dolore di Samara – la interruppe. – Ma non devi. Devi essere forte, almeno in sua presenza. Fallo per lei.
La donna si lasciò andare ad un pianto silenzioso.
– È troppo difficile, Richard. Non posso farlo, non ci riesco. Io... ho avuto un incubo. Un incubo orribile.
– Ancora?
– Sì – disse con tono grave.
– Forse è il caso che ci vada anche tu da quel medico, non credi Anna?
Lei scosse la testa.
– No, non è niente, è che... – sospirò.
Richard la fissò perplesso.
– Sto bene – minimizzò.
– Ne sei sicura?
– Penso di sì.
Per qualche secondo, Richard non seppe cosa dire.
– Che cosa c’era nell’incubo? – le chiese poi.
Anna abbassò lo sguardo.
– Non era un incubo vero e proprio – mormorò. – Ma stavo male, mi sentivo... minacciata.
Il marito annuì.
– Era tutto così reale – aggiunse sovrappensiero.
Richard rimase in silenzio.
– Vado a controllare se Samara dorme – disse solo.
E la lasciò nella camera in penombra.
 
 
 
Stava arrivando.
Qualcuno stava arrivando.
Sentiva dei passi nel corridoio.
Ti prego, non entrare, non entrare per favore.
Samara sentì la presenza di Richard farsi sempre più vicina.
Aveva paura. Aveva paura per suo padre.
Aveva paura, perché sapeva che il Buio non lo avrebbe risparmiato.
 
 
 
 
 
– Samara.
Richard aprì appena la porta, immergendosi nell’oscurità della notte.
– Samara, sei sveglia?
Nella stanza regnava la calma. Una calma fin troppo avvolgente. Assordante, quasi.
Richard avvertì, per una frazione di secondo, una fitta di terrore al cuore. Non riusciva neanche più a sentire il respiro della bambina.
– Samara... – la chiamò ancora.
In risposta ebbe solo un crepitio che alle sue orecchie suonò orribile. Era lento, cadenzato, uno scorticare sommesso che lo fece paralizzare dal terrore.
Richard si voltò di scatto, i muscoli improvvisamente in tensione.
E quello che vide fu agghiacciante.
Samara era raggomitolata malamente in un angolo, con la testa reclinata  verso il basso in un modo che non riuscì a capire e le ginocchia raccolte contro il petto. Le spalle erano incurvate, i capelli le coprivano gran parte del viso lasciando intravvedere appena gli occhi scuri. Le mani poggiate sul pavimento grattavano nervosamente il legno con le unghie e per terra si erano formati dei segni abbastanza profondi.
Nel buio quella posa sembrava inquietante, quasi innaturale.
Quella non era la sua bambina.
– Samara, stai bene? –  si limitò a chiedere sottovoce, un po’ preoccupato.
– Devi andare via, papà. Va’ via – disse ancora, atona, senza sollevare la testa. – Lui ti prenderà.
Cosa?
Richard si ritrovò a provare un brivido di terrore. Ebbe l’impulso di andarsene, ma si sforzò di restare lì dov’era.
– Vuoi parlare? – insistette. – Vuoi che ti porti da quel medico?
– No! – esplose la bambina. La sua vocina delicata era scoppiata d’un tratto in un urlo rabbioso. In un attimo se l’era ritrovata a pochi centimetri di distanza, con un’espressione minacciosa in volto.
L’uomo era confuso. Come aveva fatto a raggiungerlo così in fretta?
Era sicuro che fosse lontana di qualche metro da lui, quando l’aveva adocchiata nell’ombra.
E questo gli fece serpeggiare un orribile sensazione di bruciore nello stomaco.
Intanto Samara aveva catturato il suo braccio con la mano e lo stava stringendo, conficcandogli rabbiosamente le unghie nella pelle. Faceva male.
Si stupì di quanta forza avesse in quel corpicino gracile; gli sembrava di essere stretto da un laccio emostatico anziché dalla piccola mano di una bambina.
– Perché nessuno riesce a capirmi? – sbottò.
La sua voce fu la cosa più orribile che Richard avesse mai sentito. Sembrava sdoppiata, come se fossero state due persone a parlare tramite lo stesso corpo.
Non era reale, lui sapeva che non era reale; era come se la sentisse nella mente, quella voce, eppure sembrava così incredibilmente vera e arrabbiata.
Si sentì raggelare.
– Perché siete tutti così cattivi con me? – sbraitò ancora, furiosa.
Lui non riusciva a parlare, era come se qualcosa gli avesse bloccato la voce in gola.
– Perché vuoi rimandarmi indietro?
Rimandarla indietro?
La bambina si bloccò.
Alcune lacrime solcarono le sue guance rotonde.
La presa sul braccio di Richard si allentò di colpo.
I suoi occhi ripresero quella loro caratteristica espressione innocente e impaurita.
Poi scoppiò in un pianto disperato.
 
 
 
****
 
 
– Quindi il Buio ti prende la notte, giusto?
Annuì.
– E tu che cosa fai?
La dottoressa le stava di nuovo facendo delle domande.
Lei non capiva più niente. Ormai la paura era tutto ciò che le era rimasto.
Non si sentiva neanche più in grado di rispondere.
– Io lascio che mi prenda. Lui è troppo forte – mormorò, con quella voce carica di rassegnazione.
– In che senso?
Samara guardò il medico intensamente.
– Io sono il suo giocattolo e lui può giocare con me quando vuole.
– Per esempio?
– Ieri. Ieri notte. Papà lo ha visto. Lo ha sentito. E ora ha paura di me.
– Quando ti ha presa... tu come hai reagito? Che cosa hai fatto?
Il medico scrutò la bambina attentamente. Samara era un caso particolarmente interessante, non aveva mai avuto nessuno come lei. Era molto intelligente. E poi aveva la sensazione che il suo non fosse un semplice disagio mentale, ma una maniera diversa di vedere il mondo.
Samara scosse la testa nervosamente, poi alzò lo sguardo.
– Io... io non me lo ricordo. Non mi ricordo niente – disse, fredda.
– Che vuoi dire?
Non capiva come potesse non ricordarsi cosa aveva fatto.
Forse era sonnambula. Ma non poteva essere, non si sarebbe ricordata del suo male così chiaramente altrimenti.
– Che lui porta via tutto.
– Cioè?
– La mia memoria. Porta via la mia memoria.
La dottoressa rimase in silenzio.
– Il Buio si prende i miei ricordi, – proseguì – e poi non c’è più nulla.
– Nulla? Cioè non ti ricordi proprio niente?
Samara conficcò le unghie nella pelle scura della sedia, come se si sforzasse di non piangere ancora.
– Niente. È tutto nero – mormorò.
E il dolore che abitava quelle parole era talmente tangibile che il medico si sentì stringere il cuore.

 


 
Buon Samara a tutti :D

Ecccomi di nuovo qui, con il capitolo ottavo :)
Ora che sono un po' più calma, libera dagli impegni scolastici (anche se solo per ora),
ho finalmente il tempo di pubblicare.
Vediamo..come avrete ben capito la storia si fa sempre più cupa man mano che si va avanti.
Questo capitolo aveva appunto lo scopo di essere inquietante, ma non so se sono riuscita a renderlo tale :P
Va beh, comunque, come sempre, spero di non aver deluso nessuno, ringrazio le persone che mi seguono, quelle che recensiscono e quelle che leggono in silenzio.
Io mi sono molto affezionata a Samara, e spero che anche voi riusciate a seguirla fino alla fine insieme a me.
Spero che anche voi vi siate appassionati a lei, alla sua storia, come ho fatto anche io del resto (per questo mi è balenato in mente di scriverci una FF).
Detto questo, attendo con ansia le vostre opinioni. Sì, perché questo capitolo è un po' diverso dagli altri. Samara ha lasciato andare i freni per un momento e si è per così dire "rivelata", perciò direi che questo capitolo costituisce un passaggio molto importante della storia.
Insomma, ciò che ho scritto finora è angst puro, questo invece è sull'horror andante (o almeno dovrebbe esserlo).
Quindi, fatevi sentire, miei prodi!
*Basta Sara, basta*
Alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 9
*** Immaginario ***


Capitolo 9
Immaginario
 
 
Moesko Island, I° Giugno 1978
Mattina




– Le condizioni di Tom sono ancora instabili. Non credo che riprenderà a cavalcare presto.
Richard posò il giornale sbattendolo sul tavolo, guardando pensieroso la moglie.
– Già, – assentì Anna – è stato proprio un brutto incidente.
L’uomo la guardò incredulo: ancora credeva che fosse stato casuale?
– Anna – iniziò. Non sapeva come impostare il discorso. Sapeva che avrebbe rischiato di intaccare la sua fragile sensibilità e d’altra parte anche lui stentava a credere a ciò che era successo solo la notte precedente.
Non può essere possibile.
Aveva aspettato che Samara andasse dalla dottoressa Grasnik per affrontare il discorso, perché fino a che la bambina era in casa era come se quella notte non fosse mai terminata. Rivedeva tutto, come se fosse stato marchiato col fuoco nella sua testa. Eppure doveva in qualche modo liberarsi di quello che aveva visto; sentiva come un peso che lo schiacciava. Dal niente, cominciava a sentirsi oppresso, in pericolo.
Come se avesse dovuto condividere con qualcuno le immagini che gli si erano presentate davanti per sentirsi al sicuro.
Anna lo guardò con quei suoi occhioni ingenui.
– Sì?
– Barbara Stevens, la nostra vicina, si è ammalata. Di fuoco di Sant’Antonio – disse.
– Sì, è già da qualche giorno – fece lei, con un che di perplesso nella voce. – E allora?
– Il fuoco di Sant’Antonio non ha mai colpito questa zona.
La donna si massaggiò la testa con una smorfia di dolore a causa dell’ennesima emicrania; rimase in silenzio e lo guardò, come per incoraggiarlo a continuare.
Lui distolse lo sguardo.
– I cavalli inoltre non mangiano, mi guardano spaventati non appena mi avvicino. Già da qualche tempo.
Mentre parlava, gli sembrava che ogni tassello tornasse al suo posto.
Lei continuava a guardarlo.
– Richard... Dove vuoi arrivare? – gli chiese.
Lui si voltò. Si sentiva la paura negli occhi. Era sconvolto.
Guardò intensamente sua moglie.
– Anna, – disse – credo che la causa di questi eventi sia Samara.
 
 
 
 
 
– Samara, credo che tu debba concentrarti su questo. Qual è l’origine di questo dolore. Ti è successo qualcosa, in passato? Potresti forse risentire di stress post-traumatico?
La dottoressa la guardava di nuovo con quell’espressione fredda e professionale, come se trovarsi davanti tutti i giorni persone che piangono e stanno male la lasciasse completamente indifferente.
Lei guardava in basso.
Come sempre.
– Io... – balbettò – non lo so.
– Dovresti saperlo. Solo un dolore forte può far scaturire una cosa del genere.
– Non lo so. Non lo so, non lo so...
Samara, non puoi stare qui.
Non è questo il tuo posto.
Lei ti farà del male.
Vieni con me.
Io ti farò stare meglio.
Quella voce.
Doveva smettere, doveva stare zitta.
E lei era talmente presa ad ascoltarla che non si era accorta che aveva iniziato a dire convulsamente “non lo so”, sotto lo sguardo terrorizzato della dottoressa.
Si sentì afferrare per le spalle.
– Ehi – disse il medico – calmati. Sono qui.
La bambina annuì con la testa.
Ma sapeva che la voce non se ne sarebbe andata.
 
 
 
 
 
– Cosa? – fece Anna. Sembrava quasi infastidita da quell’affermazione. – Richard, non posso credere che tu stia dicendo una cosa simile. Non riesco neanche a capire come tu abbia fatto a pensare una cosa del genere. Mi stai dicendo che secondo te, la colpevole di tutti gli eventi negativi che si stanno verificando a Moesko Island è una bambina?
– Prima Tom che cade durante una gara rimanendo ferito, – iniziò ad elencare Richard – poi i cavalli che si spaventano da me, che sono il loro allevatore da anni ormai...
– Quello di Tom è stato un incidente – lo interruppe Anna. – Capita anche ai più bravi, ogni tanto, di cadere. E non so che cosa abbiano i cavalli, ma sicuramente sarà una malattia, o qualcosa del genere.
– E Barbara che si è ammalata? Lo abbiamo visto noi stessi: abitiamo a Moesko Island da vent’anni e non si è mai ammalato nessuno, qui, di fuoco di Sant’Antonio. Non è normale, capisci?
– No, non lo è. Ma solo perché non è normale, non vuol dire che sia impossibile.
Richard sospirò. La testardaggine di sua moglie era snervante.
Decise di dirglielo, senza troppe cerimonie.
– Anna, stai evitando il problema. È incredibile, sembra che tu non veda che cosa sta facendo quella ragazzina. Ammesso che sia una ragazzina e non... qualcos’altro.
Anna rimase basita. Non poteva crederci.
Quindi Richard le stava dicendo che secondo lui sua figlia non era neanche umana?
Non poteva pensare davvero quelle cose.
Sentì la rabbia farsi velocemente spazio nel suo petto, finché non ebbe l’impressione di scoppiare.
– Samara è una bambina! – esplose. – Solo una bambina! Gesù, Richard, si può sapere che ti è preso?
– I tuoi incubi. Come li spieghi? E tutti i problemi, tutti i... disturbi che ha...
– Basta così – fece lei, senza lasciarlo finire. – Non voglio sentire altro.
Le aveva dato un fastidio tremendo il modo in cui aveva pronunciato la parola “disturbi”. Sembrava che gli provocasse un cattivo gusto in bocca.
Fece come per andarsene, ma lui la fermò.
– Ti prego Anna, stammi a sentire – la supplicò. – Non sono pazzo, te lo giuro.
Lei si zittì.
– Non chiedermi perché, ma sono convinto che non sia normale. Samara non... qualunque cosa sia, non è normale.
Anna vide che era sconvolto. Non capiva perché, ma era sconvolto.
Qualunque cosa avesse visto, comunque, non poteva essere vera.
– Non la vedere in questo modo. Ha dei problemi non indifferenti, questo lo abbiamo notato entrambi, ma... è nostra figlia. Lei è solo una bambina come tante.  E poi dovevamo aspettarcelo, non ha mai vissuto con noi e non sappiamo niente di come la trattavano all’orfanotrofio.
Per un attimo Richard ebbe un moto di tenerezza. Anna si era affezionata moltissimo a Samara. Voleva una figlia più di ogni altra cosa al mondo, lui lo sapeva benissimo. E ora che ce l’aveva e che era felice, doveva sentirsi dire che la sua creatura tanto desiderata era una specie di demone.
Ed era così dolce, mentre la difendeva a spada tratta.
Così dolce, ma così terribilmente ingenua.
 
 
 
 
 
– Che cosa vuol dire “stress post-traumatico”? – chiese la bambina, reclinando appena la testa.
Sul volto della dottoressa aleggiò un sorriso lieve: in quella posa interrogativa, Samara era il ritratto della curiosità. Il suo dolce visino aveva assunto un improvviso bagliore, sembrava aver dimenticato per un istante ciò che la affliggeva.
– Vuol dire che tu hai subito un trauma ed è come se, in un certo senso, te lo portassi dietro.
– Un trauma, ha detto?
– Esattamente.
Samara stette qualche secondo in silenzio.
– Ma cos’è?
Il medico sorrise di fronte a quella tenera domanda, che poteva essere formulata solo dall’ingenuità di un bambino.
– Una situazione brutta in cui ti sei trovata e che non riesci a superare.
– Ah.
Silenzio.
– Dunque, ora che sai di che cosa sto parlando, ti rifaccio la domanda, d’accordo?
Samara annuì.
– Potresti soffrire di stress post-traumatico?
Lo sguardo della bambina si fece vacuo.
Potresti soffrire di stress post- traumatico?
Potrei soffrire di stress post-traumatico?
 
 
 
Richard sospirò.
– Senti – riprese – te lo dico chiaramente: pensi davvero che tutto quello che è successo finora a Moesko Island siano solo coincidenze?
Anna lo guardò perplessa.
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che da quando quella bambina è arrivata qui, le cose sono cambiate. Prima i cavalli che non rispondono ai comandi, poi Tom, e ora Barbara e quei tuoi incubi. Si sta avvicinando sempre più a noi, capisci?
Lo sguardo di Anna si fece duro.
– Onestamente, no, Richard. Quello che stai dicendo non ha senso, non sta né in cielo né in terra.
– Hai fatto caso a come si comportava quando è successo l’incidente con Tom? – chiese invece lui, ignorando ciò che la moglie aveva appena detto.
La sua espressione cambiò.
– Beh – tentennò – lei stava ferma, come se... ecco, fissava il cavallo, semplicemente. E ad un certo punto ho percepito... era come...
– Come...? Cosa? – chiese lui.
Anna non riusciva a rispondergli.
– Io... anche io, dopo la gara, ho pensato che il suo comportamento fosse strano – snocciolò tutto d’un fiato. – O che perlomeno, la situazione fosse strana.
– Cioè?
Anna esitò.
– Non lo so. Quando ci siamo alzate dagli spalti per andare via, il cavallo ha sfondato il recinto ed è corso verso di noi. Sembrava furibondo. Ma non appena si è trovato davanti a Samara era come... intimorito. Poi è scappato. Non ho mai visto un cavallo comportarsi così, prima d’ora.
Aveva capito.
– Non so che cosa abbia quella ragazzina, Anna, ma credo che non sia una cosa che possiamo gestire – disse Richard, serio.
Non si accorse però che quelle parole furono per la donna come una stilettata al cuore.
 
 
 
 
 
– Non so dirle dello stress post- traumatico, ma il Buio è con me da quando ero molto piccola.
La dottoressa la guardò con interesse.
– Davvero? E che cosa fa questo buio?
– Shh! – la bambina si portò l’indice alla bocca in un gesto nervoso. – Parli più piano! Lui può sentirci!
Il medico sospirò.
– Samara, lo sai che questa cosa non è reale, vero?
– No, si sbaglia, lui c’è!
– E’ solo nella tua testa. Non può farti del male.
– Invece sì, è così! E farà del male anche a lei se non la smette!
Sembrava nel panico più totale.
– Lei non sa niente, non può capire – sussurrò.
Eccola di nuovo. Quella ragazzina decisa, quella così sicura di sé da sembrare qualcun altro. Quella che la spaventava, e non poco.
Quella che avrebbe voluto mandare via all’istante.
– Samara... io sono qui per aiutarti, va bene? Ma tu devi venirmi incontro.
– Voglio la mamma. Lei capisce.
La bambina si era chiusa di botto, sembrava frustrata.
– La mamma verrà a prenderti tra poco. Possiamo cercare di concludere questo discorso?
Gli occhi scuri e profondi di Samara la guardavano innocenti.
– Lo prendo come un sì.
 
 
 
 
 
– Richard, non so come siamo arrivati a questa conclusione, ma ora devo andare a prendere Samara – fece Anna alzandosi di botto, come se, così facendo, avesse troncato quella discussione.
– D’accordo – si limitò a dire lui.
Aveva detto poco, ma la guardava come se avesse voluto dirle in realtà mille parole.
– Riflettici, Anna – gli sfuggì.
– Va bene, poi ne riparliamo. Ma per ora mi sembra tutto troppo assurdo – fece lei, allontanandosi.
In cuor suo, però, sapeva che non era vero.
 
 
 
****
 
 
Quando arrivò alla casa della dottoressa, sentì delle voci attraverso la porta.
Non voleva interrompere, così si fermò su una panchina.
Inspirò l’aria di giugno, lasciando che il vento di salsedine proveniente dal mare le scompigliasse i capelli neri e l’elegante camicetta color crema che indossava quel giorno. Sospirò; le parole che aveva detto Richard le giravano in testa come una giostra, insieme a tutti gli interrogativi che ora sembravano avere una risposta – una risposta che però non aveva senso.
Scosse la testa.
No, infatti. Non aveva senso.
Magari il comportamento di Samara, quel giorno, era dovuto ad una specie di stato di shock.
Ma quello del cavallo, aveva una spiegazione logica?
No.
No.
No.
Eppure si rifiutava di ammetterlo anche a se stessa.
– Anna?
Si alzò di scatto dalla panchina.
– Posso parlarti un attimo?
Ellie si era avvicinata, offrendole uno dei suoi sorrisi cordiali.
– Dimmi tutto – ricambiò.
– Non ti farà piacere quello che sto per dirti. Ma vedi, penso che Samara possa risentire di stress post-traumatico. Crede che ci sia qualcuno che vuole farle continuamente del male... Non so, era strana, aveva qualcosa quando l’avete vista la prima volta?
Anna rimase interdetta. L’impatto di quella notizia l’aveva devastata.
– Io... non lo so, sembrava solo felice. Nient’altro.
Ellie sembrava pensosa.
– Ma perché mi chiedi questo? È successo qualcosa?
– No, non preoccuparti. Era solo per tenerti aggiornata.
Anna si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo.
– Dov’è lei?
La dottoressa sorrise tristemente, come se provasse compassione. E forse era proprio così.
– E’ dentro. Te la chiamo.
– D’accordo.
 
 
 
 
 
– Ciao mamma!
Samara le correva incontro felice.
– Ehi, come stai? – le disse non appena se la ritrovò davanti.
– Bene.
Anna sorrise contenta. Non ricordava di averla mai vista così pimpante, negli ultimi tempi.
La bambina la abbracciò stretta e le prese una mano.
E fu allora che accadde.
Devi vedere.
Fu allora, quando la pelle bianca e liscia della bambina incontrò quella della madre.
Mamma...
La borsa le cadde con quello che le sembrò un tonfo sordo.
Poi la realtà sparì completamente.
 
 
Era tutto in bianco e nero. Un mondo totalmente diverso da quello che conosceva.
C’era un albero. Un grande albero dai rami grossi che andavano in tutte le direzioni.
Su uno di essi stava una bambina con le gambe penzoloni. Alcune persone la osservavano, ma erano lontane e indistinte.
Non facevano caso a lei.
Poi un altro albero.
Questo però era più piccolo. Era diverso, come se la scena fosse cambiata.
Stavolta non c’era nessuno.
C’era solo lui. L’albero.
Ed era bianco, con i rami sottili.
Dietro ce ne era uno uguale, come se si fosse duplicato.
Uno nero, però.
Il cielo che gli stava dietro era grigio e acquoso.
Poi, come per magia, svanì tutto quanto, in un liquido e indefinito spruzzo di colori scuri.
 
 
– Mamma? Che cosa c’è?
La vocina delicata di Samara la riportò alla realtà.
Anna aveva paura. Non sapeva spiegarsi il perché, ma aveva paura.
Quelle immagini l’avevano turbata nel profondo.
Non sapeva quanto tempo era rimasta immersa in quello stato di trance, intrappolata in quel mondo immaginario, ma le sembrava che si fosse estraniata dalla realtà per secoli.
Voglio dire che da quando quella bambina è arrivata qui, le cose sono cambiate.
Forse Richard aveva davvero ragione.
Forse lei...
Lei...
– Niente, tesoro. Sto bene – disse solo, reprimendo il suo istinto di scappare.
 


 
Salve, e buon Samara a tutti voi :)
Finalmente ho potuto aggiornare, era da un sacco di tempo che non lo facevo.
Più che altro, ho avuto problemi con il computer e ci ho messo un po' prima di ripararlo. Ma credo che da ora in avanti i miei aggiornamenti saranno regolari, anche perché con questa storia mi sono già avvantaggiata moltissimo.
Parlando del capitolo.
Che dire.
Adesso possiamo vedere che i poteri di Samara hanno effetto anche su Anna e la sconvolgono.
Ed è esattamente da qui che viene il bello.
Adesso anche la madre sta cominciando a vedere che c'è qualcosa di strano nella bambina, anche se finora lo ha ostinatamente negato. Ma ora le cose stanno cambiando piano piano e anche Anna deve fare i conti con la realtà. 
Mi auguro di star descrivendo tutto con il giusto ritmo, perciò se trovate qualcosa di sbagliato, vi prego, ditemelo. 
Fatemi sapere le vostre impressioni, sono molto importanti per me.
Grazie per seguirmi e alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 10
*** La rosa nera ***


Capitolo 10
La rosa nera
 
 
 
 
Sua madre era praticamente corsa via, non appena avevano messo piede in casa. Lei era rimasta lì in giardino, senza sapere cosa fare.
Non aveva idea di che cosa avesse fatto ad Anna; sembrava che la volesse evitare.
Eppure aveva solo cercato di fare in modo che la capisse. Aveva cercato di stabilire un contatto senza usare le parole, perché sapeva che Anna avrebbe capito, lo sentiva.
Ma lei era scappata via.
Samara sospirò tristemente.
Mi chiamano strega e fantasma. Non vogliono giocare con me.
Anche all’orfanotrofio era così. Dopo un po’ nessuno la voleva più, la evitavano tutti, senza che lei potesse far niente per impedirlo.
Si ricordava di quella balia che aveva, Emily. Si era suicidata, in seguito ad una grave forma di psicosi, e da quel momento nessuno si era più avvicinato a lei. Da quando era morta, quegli occhi scuri e profondi avevano messo terrore a chiunque, specialmente agli altri bambini. Già prima era considerata un po’ strana, non era una bambina ben inserita, ma dopo quell’episodio era stata evitata letteralmente.
Veniva lasciata sola, completamente abbandonata a se stessa. Anche le altre balie erano restie ad avvicinarsi; solo dopo mesi dal suicidio di Emily era arrivata Evie a prendersi cura di lei, e comunque non avevano mai avuto un certo contatto.
Samara aveva cercato di rimuovere completamente i ricordi dell’orfanotrofio, ma adesso le sembravano così vivi e veri da risultarle insopportabili.
 
 
 
Emily. Devi aiutarmi, ti prego Emily.
Lei scappava. Andava via. La lasciava sola.
Allontanati!
Emily... scusa.
Va’ via!
La bambina piangeva, con la testa china.
Mi dispiace. Mi dispiace se ti faccio del male.
Anche Emily piangeva. Piangeva forte, disperatamente, singhiozzando con quello che sembrava terrore allo stato puro.
Lasciami in piace, ti prego...
Samara sapeva che prendeva degli antidepressivi, negli ultimi tempi. Anche se non aveva capito che cosa fossero e a che cosa servissero esattamente.
Lo aveva sentito dire da qualcuno, aveva origliato senza essere vista, perché lei in realtà non veniva notata da nessuno. A nessuno importava come stava.
Lei era un mostro. Un freddo mostro senza cuore.
Mostro. La chiamavano tutti così.
Mostro. Che brutta parola.
Avrebbe voluto sparire. Avrebbe voluto... avrebbe voluto...
Avrebbe voluto ucciderli tutti.
Forse era un mostro per davvero, perché solo i mostri pensano queste cose.
Lei era un mostro, come dicevano tutti.
Ma non le importava.
 
 
Samara si sedette sull’altalena che le aveva costruito Richard e iniziò a dondolarsi piano.
Un sorriso triste aleggiò sul suo volto pallido.
Era stato solo qualche mese prima, ma a lei era sembrata passata un’eternità. Solo qualche mese prima che i Morgan avevano festeggiato il suo compleanno con gioia, solo qualche mese prima che era stata felice. La rivoleva, quella felicità.
Continuò a dondolarsi distrattamente, passandosi di tanto in tanto una mano tra i capelli scuri; era un gesto che Anna faceva abitualmente, ma che ora non le riservava più. Ora che era tornata ad essere il mostro di sempre, nessuno le dava più alcuna attenzione.
Samara strinse i pugni.
Era stanca. Era stanca di non essere notata.
Era stanca di tutto ciò.
Lei voleva essere notata.
E ce l’avrebbe fatta.
Sentì montare la rabbia in petto, una rabbia distruttiva e inesorabile.
Prima o poi l’avrebbero vista veramente, si sarebbero accorti di lei, fosse stato anche in modo negativo.
Dovevano accettarla, e basta.
Anche se l’avrebbero temuta.
Anche se era un mostro.
 
 
 
 
Richard la guardava dalla finestra che dava sul giardino, allarmato.
Tutto, in quella bambina, sembrava emanare energia negativa.
Se ne stava sull’altalena, a dondolarsi in un modo che l’uomo trovò profondamente inquietante. Lento, ma costante, con un ritmo ben scandito che non sembrava aver nulla a che fare con le spinte goffe e imprecise che poteva darsi un bambino.
Non era umana. Non aveva niente di umano. E doveva aver fatto qualcosa ad Anna.
Come aveva fatto a non vederlo prima? Era stata con loro per mesi.
Mesi, Cristo santo.
Sua moglie non aveva aperto bocca, non appena era entrata in casa.
Piangeva, e basta. Il viso esanime, le occhiaie di chi non ha dormito per notti intere, un’espressione scioccata. Il suo aspetto era ben diverso rispetto a prima, rispetto anche solo ad un quarto d’ora prima.
E Richard sapeva che era stata Samara, che era colpa sua. Non aveva dubbi.
Fissò lo sguardo su di lei.
Apparentemente, era solo una bambina. Ma lui sapeva che non era così.
Non sapeva che cosa fosse esattamente, ma di sicuro non era una comune bambina.
Una fitta alla testa, che lo costrinse a chiudere gli occhi, lo colpì improvvisamente.
E solo quando li riaprì si accorse che lo sguardo di Samara si era puntato su di lui.
Uno sguardo diverso da quello che aveva visto fino a quel momento. Uno sguardo penetrante, impossibile per una bambina.
Uno sguardo buio.
 
 
 
 
 
Richard era vicino alla finestra. La guardava dall’alto, torvo.
Lei lo sentiva, sentiva i suoi occhi pesarle addosso. Sentiva che la stava guardando, che la stava studiando come se fosse una specie di anomalia, uno scherzo della natura.
E la cosa non le piaceva.
Samara sapeva di non essere normale, ma la consapevolezza di essere guardata in quel modo la infastidiva. Richard aveva già capito tutto, quello era chiaro. Lei lo sentiva. Percepiva, nella mente, le riflessioni di suo padre, che sembravano trafiggerla sempre di più man mano che i giorni passavano.
Erano come lame, quei pensieri. La distruggevano, non facevano che alimentare l’odio che nutriva per se stessa.
Non è normale.
Chissà che cosa avrà fatto ad Anna.
Stava per fare del male a me. E probabilmente ne farà anche a lei. A mia moglie.
Non dovevamo adottarla.
Devo fermarla.
Devo fermarla in qualche modo.
Il mostro si dimenava nel suo corpo, combatteva per venire fuori. Ringhiava furioso, perché voleva uscire e lei non glielo permetteva.
Si portò le mani alle orecchie e scosse la testa.
Basta, basta!
I pensieri di Richard invadevano la sua mente, ferendola con ogni singola parola.
Quella bambina è un mostro.
Samara si bloccò.
Mostro.
Mostro.
Mostro.
Un sussurro fuggì via dalle sue labbra.
Silenzio.
E poi un rumore, assordante e secco. Come un legnoso sparo, un colpo violento e deciso.
Un cavallo uscì dalla stalla nitrendo furiosamente. Sembrava come impazzito e scalpitava, correndo disperato verso una meta sconosciuta, muovendosi con scatti imprecisi ed innaturali.
Sembrava che qualcosa lo stesse mangiando dall’interno.
Si voltò lentamente verso il cavallo.
Corri.
 
Samara si lasciò cadere dall’altalena e guardò in alto.
Richard non c’era più; probabilmente si era precipitato al piano di sotto, per poi uscire dalla casa. Sentiva i suoi pensieri correrle nel cervello, allarmati.
Sorrise, un sorriso che assomigliava di più ad un ghigno folle, sadico.
Ora ti accorgerai di me.
Ti accorgerai che non puoi fermarmi.
Era sbagliato quello che faceva; lei lo sapeva, ma non sapeva controllare la rabbia, quella rabbia distruttrice che spesso la invadeva.
Era solo una bambina, una bambina abitata da forze negative e potenti che non riusciva a gestire. Forze oscure che a lei, un’anima innocente, sembravano solo giochi.
Lo vide, vide tutto in quel momento.
 
 
L’animale nitrì più forte. Sembrava che stesse urlando, tormentato da atroci sofferenze. Si dimenò un po’, per alcuni, lunghissimi secondi in cui Richard sembrava essere nel panico più totale.
Poi iniziò a correre verso il mare, in un moto di follia.
Samara sapeva che l’animale si sarebbe diretto alla spiaggia per poi annegare tra i flutti.
– No! – vedeva anche Richard, che non riusciva a raccapezzarsi.
Le immagini nella sua mente erano molto chiare.
Il cavallo annaspava tra le onde in una danza di agonia, sotto gli occhi increduli e scossi dell’uomo. E lei contemplava dopo l’ultimo, terribile secondo di dolore, il corpo inerte dell’animale che galleggiava nell’acqua.
Morto.
– Oh mio Dio...
Vide Richard che si lasciava cadere in ginocchio sulla spiaggia.
 
 
Riprese a dondolarsi sull’altalena e aspettò che facesse ritorno. La sua vocina delicata aleggiava melodiosa nell’aria in un canto dolcemente inquietante.
Guardò il cielo e visualizzò anche il mare, una distesa blu in movimento. Lo sentiva vivo, sentiva il profumo di salsedine accarezzarle il tenero nasino all’insù.
Com’era bello il mondo. Com’era bello il cielo.
Sognava di poter volare.
Sognava di poter volare e sorrideva, anche se aveva appena ucciso a sangue freddo una bestia innocente. Ma anche lei era innocente.
Era dolce e innocente come una rosa, ma macchiata da qualcosa di indelebile.
Qualcosa di nero.
Un nero che nessuno avrebbe potuto mai lavare via.
Un nero che faceva parte di lei.
Ma a lei, a lei alla fine stava bene.
Com’è bello il mondo.
Vorrei volare...
 
 
****
 
 
 
– Anna! Anna!
Richard chiamava a gran voce la moglie. Ma nessuno rispondeva.
Era nel panico.
Andò in camera da letto, dove la figura della donna era accasciata malamente sul letto.
– Anna presto! Dobbiamo fare qualcosa!
– Che succede, Richard? – fece lei con un tono lamentoso. Sembrava distrutta.
– Un cavallo è annegato in mare.
Anna sembrò perplessa.
– E come mai?
– No, non capisci. È stato un suicidio.
L’espressione di lei, ora, era terrorizzata.
– Come sarebbe a dire un suicidio?
– Non lo so, sembrava impazzito, era come se fosse stato tormentato da...
Non voleva dirlo, non voleva dirlo a lei. Anche se conosceva la verità fin troppo bene.
– Da qualcosa – terminò, prima che sua moglie si preoccupasse ulteriormente.
– Dov’è Samara? – fece lei, come se la cosa non l’avesse turbata minimamente. L’aveva detto in tono freddo, quasi automatico, come se fosse stata...
Sembrava che quella bambina avesse anche il potere di soggiogare le persone.
Il solo sentire quel nome fece incupire l’uomo.
– È fuori, sull’altalena.
– E ti sei fatto vedere così allarmato anche da lei?
– Sì, non ci ho pensato – replicò, asciutto.
Anna si passò una mano sul viso.
– Oddio, Richard. Sarà sconvolta... mandala da me.
Era così... così attaccata a Samara. Come se la bambina fosse stata la sua linfa vitale.
– Ne sei sicura?
– Sì. Ti prego.
Era una supplica. I suoi occhi avevano una luce nuova, una luce che l’uomo non aveva mai visto.
Una luce che non gli piaceva affatto.
Richard le lanciò un’ultima occhiata carica di apprensione, poi uscì dalla stanza.
 
 
 
 
– Samara, la mamma vuole passare un po’ di tempo con te. Va’ a raggiungerla – disse, freddo, alla ragazzina che si dondolava in giardino con gli occhi che guizzavano sognanti tutt’intorno.
– Davvero? – la bambina sembrò illuminarsi mentre saltava giù dall’altalena.
– Sì. Ora vai.
E lei, senza pensarci due volte, corse verso la casa, felice. Sembrava che non avesse aspettato altro che quel momento, come se l’avesse previsto. Saltellava verso la porta, contenta di poter vedere finalmente quella che lei aveva già identificato come mamma.
Richard voltò lo sguardo verso l’orizzonte, una volta che la vide sparire.
Non sarebbe mai riuscito a rimuovere l’immagine di quel cavallo che correva furioso verso il mare, i suoi movimenti disperati.
Tutto stava andando male.
Tutto stava andando sempre peggio, da quando era arrivata lei.
Devo fare qualcosa.
E in fretta.
 

 
****
 
 
Samara voleva far stare meglio la sua mamma, lo voleva davvero.
Ma sapeva che non poteva farlo.
– Che cosa è successo a papà? – chiese.
– Ci sono problemi con i cavalli, tesoro.
Si sistemò meglio sul letto con sua madre.
– Che tipo di problemi?
Anna rimase interdetta. Credeva che sua figlia fosse in qualche modo scioccata da quanto aveva visto. Richard era così agitato, in fin dei conti... ma lei sembrava non esserne minimamente turbata.
– Sono malati. Ma adesso chiameremo qualcuno, vedrai che ne verremo a capo – disse.
La bambina stette in silenzio.
– Stai bene? – aggiunse, premurosa.
– Certo mamma – fece lei con un gran sorriso.
– Sicura?
– Sì.
– Bene. Posso stare tranquilla?
– Sì mamma, tranquillissima – la rassicurò la bambina. – Vuoi riposare adesso?
Anna le rivolse un sorriso di pura gratitudine.
– Sì, in effetti ne avrei bisogno – fece, con un sorriso appena accennato.
– Vado a giocare in giardino allora – disse lei, allegra.
E scappò via.
 
 
 
 
Continuava a guardarla con quello sguardo torvo e scrutatore.
E un angolo malsano di lei adorava quell’espressione di dubbio terrorizzato sul volto di suo padre.
Lui aveva capito. E aveva paura.
Chi non la temeva, in fin dei conti, una volta scoperto come era realmente? Succedeva anche con le balie all’orfanotrofio. Lo sapeva fin dall’inizio che sarebbe andata così.
Eppure si sentiva scoperta, nuda. Era una sensazione familiare, non la sopportava.
Però non aveva paura. Sentiva che Richard era pronto a tutto, ma non aveva paura di lui.
Samara aveva una paura sola: perdere sua madre. Del resto non le importava; Richard avrebbe potuto anche provare ad ucciderla, tanto non ce l’avrebbe fatta.
Hai paura?
Fai bene.
Ricambiò lo sguardo, come a trasmettergli i suoi pensieri a sua volta.
Io non ho paura.
Non mi porterai via la mamma.


 

 
Buon Samara a tutti voi!
Ecco il decimo capitolo. 
Come vedete Samara sta cambiando sempre di più col passare dei capitoli. La bambina prova una grande rabbia ora perché vede che sta allontanando tutti. E' frustrata,  e questa sua frustrazione si manifesta in maniera terribile.
In questo capitolo, per così dire, gettiamo anche uno sguardo indietro, nel senso che andiamo un po' a scavare anche nel passato di Samara, nei suoi ricordi legati all'orfanotrofio. Diciamo che, in un certo senso, andiamo a capire che questa non è la prima volta che si manifestano i suoi poteri.
Ad ogni modo, spero che vi sia piaciuto.
Grazie a tutti per aver letto,

Stella cadente

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Capitolo 11
*** Spettri ***


Seconda parte






Capitolo 11
Spettri
 
  
Moesko Island
Novembre 1978
 
 

 
Samara si trovava davanti allo specchio del corridoio e guardava il suo orribile riflesso.
Era da un po’ di tempo, in realtà, che era lì immobile. Richard era appena andato a portare Anna da un medico, il suo stesso medico. La stessa persona da cui era in cura da mesi ormai, ora doveva visitare anche sua madre.
Da quando quel cavallo era morto Anna aveva continuato a stare sempre più male, fino ad impazzire lentamente.
La bambina si guardò: dalla superficie riflettente, una figura magra, pallida e dai lunghi capelli scuri e scarmigliati la guardava vacua.
Sembrava un fantasma, una cosa senza consistenza.
Abbassò lo sguardo: non voleva vedersi.
Samara.
La bambina alzò la testa di scatto e non riuscì più a voltarsi. Era come se lo specchio la attirasse.
Aveva sentito una voce. Una voce che non poteva essere sua.
Guardò lo specchio.
Il suo riflesso era scomparso.
 
 
 
 
 
– Non è possibile – disse Anna, con la voce intrisa di panico.
– Che cosa, Anna?
Ellie Grasnik cercò di capire che cosa stesse succedendo. Non aveva mai visto Anna in quello stato.
– Non può essere lei... non può essere lei...
Da quando era arrivata nello studio, si era precipitata addosso al medico dicendo frasi senza senso.
– Anna, calmati, d’accordo? – fece la dottoressa, alzando la voce.
La donna la guardò con quei suoi grandi occhi nocciola. Si potevano vedere tante cose, in quegli occhi, ed Ellie ne rimase spiazzata: non sapeva come decifrare l’espressione di Anna.
Sapeva solo che il sentimento dominante, in quello sguardo, era la paura.
E lei non riusciva a capire di che cosa la sua amica avesse così paura.
– Anna...
Aveva lo sguardo perso, vacuo.
Era orribile vederla così.
– Lei ha bisogno di me – disse, con una voce che sembrava non appartenerle.
La osservò con più attenzione. Piangeva.
– Io non posso darle più niente – continuò.
– Parli di Samara?
Anna non rispose.
 
 
 
 
 
Samara era inchiodata al pavimento. Non riusciva a staccarsi da lì; provava a muovere qualche passo ma era impossibile. Sembrava averla catturata e trattenerla con tenacia.
Non poteva muoversi.
Era come trattenuta da funi invisibili.
Samara...
Qualcuno la stava chiamando di nuovo.
E lei sapeva di chi si trattasse.
Aveva voglia di urlare. Non potevano averla lasciata di nuovo sola. Non potevano non aver visto il Buio. Suo padre doveva salvarla. Avrebbe dovuto salvarla. E invece no. L’aveva lasciata lì, ad annegare nella sua paura e nel suo dolore.
L’aveva lasciata sola.
Lasciata sola.
Sola.
Sola.
Sola.
Il suo riflesso nello specchio le fece un cenno con la mano, sorridendo malefico.
 
 
 
 
 
– Non può essere lei...
– Anna, mi vuoi dire che succede?
– Lei è innocente, è innocente...
– Samara?
– Sì! È innocente!
Anna aveva urlato talmente forte che sembrava non aver più fiato. Ansimava furiosamente, come se la stesse attanagliando un terrore insopportabile.
– Non può essere lei...
– A fare cosa?
– A fare questo. A farmi questo. Richard dice che è così, ma io lo so che non è vero... non è vero... lo so che non è vero...
Linda guardò l’amica, sinceramente preoccupata.
Anna non sembrava neanche più in sé.
Sembrava che qualcosa l’avesse fatta andare fuori di senno.
– Ellie, io vedo delle cose.
La donna si sentì mancare.
– Che genere di cose?
– Vedo delle cose brutte. Ho delle visioni. Vedo cose orribili, immagini che scorrono...
Sembrava scossa. Tremava incontrollatamente.
Il medico non sapeva che fare. Aveva delle basi professionali e poteva, doveva basarsi su quelle, ma davanti alla sua amica in quello stato la sua professionalità lasciava inevitabilmente il posto ai sentimenti. Le faceva un certo effetto vedere Anna ridotta in quel modo; la donna luminosa e fiera che conosceva si era trasformata improvvisamente in un pallido spettro di dolore e paura, un fantasma.
Un fantasma che mai era emerso.
Un fantasma che mai aveva fatto parte di lei.
Chi era stato a portarlo? Chi l’aveva ridotta così?
Non era possibile che fosse la bambina. Eppure... Eppure c’era qualcosa che non tornava. Da quando i Morgan avevano adottato Samara, le cose sembravano essere andate sempre peggio. Prima l’improvvisa tristezza di Anna, e adesso... quello.
La tristezza della sua amica, ciò che normalmente sarebbe potuto essere ricondotto a depressione, sembrava essersi tramutato in qualcos’altro, qualcosa che non le apparteneva, qualcosa che non apparteneva alla natura di Anna.
Sembrava quasi sconfinare nella follia.
Per un attimo, nel vedere la faccia scioccata di Anna, pensò che Richard avesse ragione, che fosse stata la bambina.
Scosse la testa. Che idiozia.
 
 
 
 
 
Samara cercava disperatamente di fuggire.
Voleva fuggire, doveva fuggire. Ma lui era più veloce, e la raggiungeva sempre.
Samara...
Samara...
Vieni qui...
Le voci le affollavano la testa come tanti, piccoli, fastidiosi insetti.
Non c’era nessuno a proteggerla.
Samara si raggomitolò per terra e pianse, singhiozzando rumorosamente. Un’ombra attraversò il suo campo visivo. Era passata in fretta, attraversando il vetro della finestra.
Sembrava l’ombra di sua madre.
E la stava chiamando. Le stava dicendo di andare alla stalla, dove c’erano i cavalli.
Dove avrebbero potuto cavalcare insieme.
Samara sorrise. Doveva andare.
 
 
 
Ellie decise di mettere da parte lo shock e capire cos’avesse la sua amica utilizzando i suoi studi di psicologia.
– Anna, cosa credi che faccia Samara? – chiese, sforzandosi di mantenere un tono razionale.
– Non lo so – sussurrò Anna. – Richard dice che vuole farci del male... che non è normale... che non è umana...
La donna rifletté. Certo, Samara era una ragazzina molto particolare, ma da qui a dire che non fosse umana...
Non voleva ammetterlo neanche a se stessa, non voleva credere che la sua amica fosse in quello stato, eppure doveva essere psicosi. Anna era mentalmente instabile, aveva una percezione errata della realtà che la circondava. Com’era possibile che una bambina facesse impazzire la gente? Era una follia, una cosa senza senso.
Quell’alibi non stava né in cielo né in terra.
– In che senso non è umana?
– Non lo so... so solo che mi fa vedere delle cose. Tutto questo succede solo quando c’è lei.
La bambina le faceva vedere delle cose?
La psichiatra continuava a capirci sempre meno. Non riusciva a comprendere come, così di botto, in Anna vi fosse uno stato di psicosi così avanzato.
Decise di continuare comunque con le domande.
– Che genere di cose?
– Mi appaiono delle ragazze, in sogno... delle ragazze perseguitate da lei... e poi c’è lei... e...
Si interruppe, come se non sapesse più che cosa dire. Sembrava intrappolata in una gabbia invisibile in cui tutti i suoi spettri le giravano attorno.
– Cosa? Cosa c’è?
Anna la guardò intensamente.
– Mi sento solo minacciata. Ho paura. E poi non c’è più nulla.
Linda ebbe un tuffo al cuore.
Il Buio si prende i miei ricordi, e poi non c’è più nulla.
– Nulla? – chiese, dopo qualche secondo. La voce le tremava impercettibilmente.
Anna stette un po’ in silenzio.
Poi lo disse. Quella frase che fece correre un brivido freddo lungo la schiena di Ellie Grasnik.
– Niente. È tutto nero.
 
 
 
 
 
I cavalli si agitavano spaventati. Non appena lei si era avvicinata, avevano subito cominciato a scalciare e a nitrire disperati.
– Non voglio vedervi così – sussurrò Samara, mentre accarezzava John, il grande cavallo di Richard.
Lo stallone si era fermato sotto il suo tocco. Tremava, ma era fermo, come immobilizzato da una forza invisibile e spaventosamente potente.
– Io non voglio farvi del male – continuò, dolce.
Poi sciolse il cavallo dal recinto e continuò ad accarezzarlo. Intorno, gli altri cavalli scalpitavano.
John sembrò calmarsi del tutto, poi lanciò di botto un nitrito assordante. Il grosso muso allungato oscillò di qua e di là in maniera convulsa, come se volesse scacciare qualcosa di estremamente doloroso.
E poi corse via.
Samara, presa da un moto di allegria, liberò tutti i cavalli, che seguirono John.
Era felice.
Chiunque sarebbe passato di lì avrebbe visto uno scenario insolito e terribile. Cavalli, tanti cavalli che urlavano la loro paura, e nel mezzo, una bambina, che danzava armoniosa  ridendo.
– Siete liberi! – gridò Samara agli animali urlanti.
E continuò a correre con il vento e con i cavalli.
 
 
****
 
 
Richard Morgan non pensava ad altro che a Samara ormai.
John era morto. Lui aveva chiamato degli ispettori, per capire che cosa fosse successo.
Anche se lo sapeva già. Era stata Anna a voler chiamare quel numero. Di nuovo.
Lui sapeva che cos’era stato. Sapeva chi era stato. Sapeva qual era la causa, sebbene Anna si ostinasse a non credergli.
Era stata Samara.
Era stata lei a farlo.
John era morto... il suo cavallo gli era stato portato via da quella bambina.
Richard non riusciva a guardare il corpo inerme dell’animale, sdraiato sulla spiaggia e completamente privo di vita. Anna stava male, non poteva più contare su di lei. Era diversa, assente, sembrava non rendersi neanche più conto di cosa le accadeva intorno ormai.
Samara stava distruggendo tutto quanto.
E ora Richard aveva capito: doveva fermarla, prima che potesse completare l’opera.
Un brivido di paura gli serpeggiò lungo la schiena al pensiero; per la prima volta in vita sua, Richard Morgan aveva paura.
Aveva paura di una ritorsione da parte della bambina, di una ribellione – non sarebbe stato difficile per lei, dal momento che era in grado di scatenare morti e cataclismi.
Ma di certo non era uno che si arrende.
Sarebbe morto piuttosto che lasciare quella bambina ancora in circolazione sull’isola.
 
 
****
 
 
Quando Samara rientrò in casa sentì uno scalpiccio convulso lungo le scale e un respiro affannoso che sembrava essere di sua madre.
Poi una voce familiare.
– Su, Anna, devi andare a riposarti. No, ci sono io. Tranquilla. Sì, lei sta bene, ma ora va’ a dormire.
Trattenne il respiro.
– Papà? – mormorò.
Silenzio.
Ancora passi lungo le scale.
– Papà – chiamò a voce più alta.
La sagoma di Richard cominciò a scendere le scale, raggiungendola in breve tempo. D’un tratto, non le appariva più come la figura rassicurante del suo papà. Torreggiava su di lei in maniera minacciosa, immerso in un silenzio inquietante.
La bambina iniziò a tormentarsi nervosamente una pellicina.
– La mamma sta bene?
– Samara, è meglio se per un po’ stai lontana dalla mamma – rispose lui, tagliente.
La voce di suo padre sembrò arrivarle alle orecchie e poi pesarle sullo stomaco come un gelido blocco di marmo. Deglutì, come se così facendo avesse mandato via quel peso.
– Perché devo starle lontana?
– Non fare domande.
– Che le è successo? Io devo saperlo, voglio farle compagnia!
La sua voce aveva assunto un tono disperato; era sull’orlo delle lacrime.
– Non puoi! Non puoi Samara, va bene? Stalle lontana!
– Ma che cosa le ho fatto? Perché mi mandi via?
Per un po’ non sentì altro che il respiro di Richard.
– Che cosa hai fatto al mio cavallo? – sussurrò l’uomo in risposta, con la voce talmente roca e profonda da far rabbrividire la bambina di paura.
– Non lo so – riuscì a mormorare lei. Ormai le lacrime le cadevano copiose sul visino tondo.
– Lo sai benissimo invece.
– Io non lo so. Io volevo solo liberarlo, lui sarebbe stato felice...
– Ah, sì? – esplose Richard. – E come lo sai?
Samara smise di piangere e i suoi graziosi lineamenti si fecero improvvisamente seri, cupi.
La sua espressione aveva assunto un aspetto terribilmente maturo, che poco aveva a che fare con la natura di un bambino.
Sembrava che fosse perfettamente consapevole di ciò che stava per dire.
– Perché me lo ha detto lui.
Richard arretrò.
– Che cosa sei tu?
Samara sentì che qualcosa nel suo petto si era rotto, nell’istante in cui suo padre pronunciò quelle parole.
Che cosa sei tu?
Cosa.
Cosa...
– Papà, ti prego non... – disse, avvicinandosi piano.
– Vattene.
Samara si ritirò indietro bruscamente.
– Ma io non...
– Vattene, ho detto. Qualunque cosa tu sia, stai lontana da me e da mia moglie.
Samara sentì il suo viso contrarsi nello sforzo di non scoppiare in lacrime, prima di correre verso la porta di casa e sparire alla vista di Richard.
Nello specchio, una piccola, infantile sagoma, stava svanendo nell’oscurità.
 
 

 
Salve, persone :)
Sorpresi di vedermi, eh?
L'aggiornamento in effetti è un po' anticipato, ma non credo che sia una cosa brutta :3
Parlando di Samara. La bambina si sente sempre più arrabbiata verso il mondo, triste, vuota, infelice. Purtroppo queste emozioni negative seminano cataclismi e anche Anna non se la sta passando per niente bene come avete visto.
Non so perché, ma questa storia mi appassiona insolitamente. Dico insolitamente perché in genere non scrivo storie horror e non credevo che scriverne una mi coinvolgesse così tanto, anche se fosse stata su The Ring.
Invece mi sono legata tantissimo al personaggio di Samara ed è bellissimo scrivere questa Fic.
Le vostre recensioni poi sono meravigliose, penso che senza di voi Samara non sarebbe arrivata fino a qui.
Quindi grazie per le vostre recensioni. Sono fantastiche e mi spronano a continuare.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 12
*** L'abisso – Parte I ***


Capitolo 12
L’abisso – Parte I
 
 
 
Richard non sapeva dove fosse andata Samara. Sperava solo che non sarebbe tornata mai più. Sperava solo che Anna stesse meglio.
La guardava dormire: aveva il viso scarno e stanco, e un’espressione tormentata deformava i suoi lineamenti.
Sembrava che non trovasse pace nemmeno nel sonno.
Che cosa le aveva fatto quella ragazzina? Cosa aveva fatto per ridurla così?
Anna, la sua dolce e decisa Anna, ora non era che una donna chiusa in un mondo incomprensibile e misterioso.
Era morta dentro. Si stava spegnendo lentamente, come aveva fatto la bambina.
Samara la stava trascinando sempre più nel baratro insieme a lei col passare dei mesi, in un’agonia lenta, prolungata.
Richard sapeva che non c’era molto da fare, ma almeno poteva provare a tenere lontana la ragazzina. Isolarla, allontanarla quantomeno da casa sua, sarebbe già stato un buon inizio. Ma come?
Non poteva ricontattare l’orfanotrofio. E poi che cosa avrebbe detto? Che ci avevano ripensato, che volevano dare la bambina in affidamento a qualcun altro perché da quando l'avevano adottata la loro vita stava andando a catafascio?
Era da escludere; lo avrebbero denunciato e messo anche in manicomio, se avesse fornito una spiegazione del genere.
Non poteva tentare di dare Samara ad un’altra famiglia.
Ma tenerla fuori di casa, forse, sì.
E aveva già una vaga idea di come avrebbe fatto.
 
 
 
 
La spiaggia di Moesko Island era bellissima, di notte.
Gli alberi costeggiavano quel terreno un po’ selvaggio, fatto di sabbia e ciottoli. In lontananza, le case erano disposte a semicerchio, come a voler abbracciare quel piccolo angolo di mare.
Ora Samara non aveva più paura, anche se si teneva alla larga dall’acqua. Respirava la pace che c’era nell’aria e pensava a John, nascosta tra gli alberi. I capelli erano tutti scompigliati a causa della corsa che l’aveva portata lì, e il suo corpo era affaticato e infreddolito.
Ma doveva stare con John.
John era morto, lo sapeva. Il suo corpo era ancora lì.
Il silenzio era interrotto solo dallo stridere dei gabbiani che avevano becchettato la carcassa. Li sentiva emettere suoni soddisfatti e cattivi, mentre li vedeva saltellare intorno al cavallo in preda ad un’orribile frenesia, strappando la carne dell’animale.
Si ricordava come era morto. Aveva scelto di annegare, non appena lo aveva liberato. Aveva scelto il suo destino, perché John voleva essere libero.
Perché John voleva morire.
Glielo aveva detto. Lei non aveva fatto niente di male. Lui glielo aveva semplicemente chiesto, e lei gli aveva dato quella libertà.
L’ho fatto tornare indietro.
Non era così che facevano i bravi allevatori?
Però alla bambina dispiaceva vederlo così esposto.
– Oggi degli ispettori sono venuti a vederti, vero? – fece, accarezzando la carcassa del cavallo.
– Non accettano che tu sia libero. Sono cattivi... devi impedirgli di farti questo, John.
Guardò intensamente l’animale, che sembrava profondamente addormentato. Sembrava che galleggiasse in un sonno in cui aveva finalmente trovato pace.
Samara si sdraiò accanto a lui e continuò ad accarezzargli il muso.
 
 
 
 
 
Richard aveva preso tutto l’occorrente.
Legno in quantità, carta da parati, una scala. Sarebbe stato sufficiente per il suo progetto.
Doveva isolarla, doveva tenerla lontana da Anna.
Perché sapeva che sarebbe tornata. E sapeva che non avrebbe obbedito ai suoi ordini; in fin dei conti, non sarebbe stato certo lui a fermarla, nel caso avesse voluto Anna, e ciò che era successo fino a quel momento ne era la prova.
Si mise al lavoro nel cuore della notte, costruendo con energia.
 
 
 
 
Doveva fare in modo che il cavallo avesse una degna sepoltura.
– Non vuoi rimanere qua fuori, vero? – mormorò all’orecchio dell’animale. – Vuoi dormire in pace... vero?
Toccò impercettibilmente le palpebre chiuse di John.
– Puoi svegliarti adesso – gli sussurrò amabilmente.
E il cavallo aprì gli occhi, come se fino a quel momento avesse semplicemente dormito. Erano grigi, acquosi, due palle slavate e assenti. Emise un nitrito stanco, fioco, morto; poi si alzò malamente sulle zampe scheletriche e sanguinanti e iniziò a scavarsi una buca.
– Che cosa hai fatto?
Era la voce di una donna.
– Chi sei? – fece Samara, con una voce stranamente autoritaria.
La donna fece qualche passo incerto in avanti. La luce della luna illuminava appena i suoi lineamenti, quel tanto che bastava da renderla riconoscibile.
Era Barbara Stevens.
Ed aveva le braccia rosse, come se fossero state ustionate.
– Tu sei la figlia di Anna.
Samara restò in silenzio, fissandola.
Ti conosco, Barbara Stevens.
Ti ho vista nella mia mente.
Sulle braccia della donna, le ustioni avevano la forma di una mano.
– Quel cavallo era morto...
– Sì. Ma mi ha detto che non voleva stare qui fuori, dove tutti possono vederlo. Non gli piace, sa?
– Tu... tu hai riportato in vita un animale morto.
Barbara indietreggiò.
– Tu...
Non era in grado di dire altro. Samara la guardò come se fosse stata la cosa più strana che avesse mai visto.
– No, si sbaglia. L’ho soltanto svegliato.
La donna la guardò ancora più terrorizzata.
Samara decise che doveva vedere. Altrimenti non poteva capire. Non avrebbe potuto capire che cosa c’era stato nella mente di John, il suo bisogno di dormire.
– Lei deve vedere, signora Stevens – mormorò, la vocina dolce che interrompeva appena il silenzio.
La donna indietreggiò ancora di più.
– Vedere cosa?
Samara si concentrò e le trasmise ciò che c’era stato nella testa di John.
 
 
****
 
 
Il sole pallido di Moesko Island faceva capolino dalle grandi colline, illuminandole appena la pelle chiara. Era tornata a casa, e se ne stava seduta sull’albero in giardino, dondolando appena le gambe sospese nel vuoto.
Sapeva che John era al sicuro, sottoterra.
La signora Stevens non aveva dato più segni di vita, dopo aver visto. Non era riuscita ad ascoltarla, a vedere quello che lei aveva da dirle, da trasmetterle.
Non ci era riuscita.
E così lei l’aveva lasciata lì, insieme a John, ed i gabbiani avevano iniziato a beccare anche il suo corpo. Della signora Stevens non sapeva niente, ma quello che le importava era che il cavallo fosse al sicuro. Le importava soltanto di quello, come al suo papà.
Richard voleva molto bene ai suoi cavalli. Samara lo aveva capito dallo shock che aveva dimostrato nel vederli morire uno per uno, nel vedere che non gli obbedivano più, nel vedere che stavano impazzendo.
Ora era come se le stesse dando la caccia, ne era consapevole. Si sentiva braccata, come se lei fosse stata la preda e lui il predatore.
Era giunta la mattina.
Doveva andare.
 
 
 
 
– Papà! – chiamò.
La casa era silenziosa.
Bussò alla porta, attendendo che qualcuno venisse ad aprirle.
Ma non venne nessuno. Sembrava che l’ambiente in cui si muoveva fosse deserto. I campi verdi che prima le sembravano così rigogliosi, ora ai suoi occhi erano spenti, ammuffiti. Tutto era immerso nella nebbia e illuminato dalla pallida e sempre più fioca luce del sole di quel novembre grigio e malinconico. Pareva che l’aria stessa fosse di un marcescente colore verdastro.
– Samara – una voce fredda le risuonò alle spalle.
La bambina si voltò con un sobbalzo.
– Papà – disse, il tono della voce a metà tra il cauto e il sollevato. Era stranamente felice di rivederlo.
– Credevo che non... – cominciò. Ma si fermò subito.
Gli occhi di Richard erano glaciali. Sembravano congelarle il corpo con un solo sguardo.
Samara sentì le gambe molli.
Aveva paura.
– Che cosa c’è? – chiese, innocente.
– Vieni, – disse lui, burbero – devo farti vedere una cosa.
Samara lo guardò un poco, cercando di scavare tra i suoi pensieri.
Niente. Vuoto.
Vuoto. Niente.
Niente, niente, niente.
Non vedeva nulla. Sentiva solo un qualcosa di strano nell’atteggiamento di Richard, qualcosa che non sapeva descrivere.
Indietreggiò appena.
– Samara, scusami per ieri sera. Non avrei dovuto fare così. È solo che sto male per come sta la mamma, tutto qui.
Gli occhi della bambina si ridussero a due fessure, scrutandolo interrogativi.
Rifletté. Forse era pentito davvero, forse gli dispiaceva davvero.
Non sapeva se crederci. Ma era il suo papà, e le voleva bene. Giusto?
– Va bene – disse solo, torcendosi le manine bianche. – Posso... posso abbracciarti? – chiese poi, sussurrando appena.
Negli occhi di Richard guizzò qualcosa che a Samara sembrò molto strano e  inquietante. Ma quel qualcosa se ne andò subito, come un’ombra fuggitiva.
– Sì – fece, piatto.
Samara gli si avvicinò e lo circondò con le sue braccia esili. Fu un abbraccio freddo, che poco aveva a che fare con quello che la bambina voleva. Un abbraccio in cui si sentì di nuovo rifiutata, non voluta. Un abbraccio forzato.
Sentì il cuore stringersi in una morsa, e si staccò subito.
– Che cosa devi farmi vedere, papà? – domandò, cercando di ingoiare il groppo che le si era formato in gola.
Lui non rispose. Si avviò verso la stalla senza dire nulla, facendole cenno di seguirlo.
E Samara lo fece.
Lo seguì.
Forse avrebbero cavalcato insieme di nuovo, come quando si erano conosciuti. La prospettiva le sembrava bellissima, non ne vedeva l’ora.
Trotterellò dietro a Richard per un po’, poi si fermò quando sentì la sua voce.
– Siamo arrivati. Entra.
– Cavalchiamo?
– Sì.
Non le piaceva quel “sì”. Era pallido, vuoto.
Però non mi farai mai del male, vero?
Erano arrivati nella stalla, ma chissà perché suo padre non entrava. Solo lei era lì, a cercare i pochi cavalli rimasti, che cominciarono subito a nitrire furiosamente.
Avvertì qualcosa nell’aria.
– Papà? Che succede?
Richard la guardò per un secondo che le sembrò immenso. Era sul ciglio della pesante porta di legno. C’era l’ombra nei suoi occhi.
– Scusa.
E chiuse la porta con forza.
All’inizio Samara non capì che cosa stava succedendo. Sentiva solo il tonfo della porta e i passi di Richard che si allontanavano.
Poi realizzò: l’aveva chiusa dentro.
Stai lontana da mia moglie!
– Papà! Papà! – cominciò a chiamare lei. Un’orribile sensazione di panico si era insinuata nel suo stomaco, si sentiva oppressa, le pareti sembravano restringersi sempre di più.
Cominciò a battere rumorosamente i pugni sulla porta, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno.
– Aiuto! Aiuto! – gridò  forte, sperando che Richard tornasse. – Papà! No! Ti prego!
Samara cominciò a piangere non appena la raggiunse la consapevolezza che non avrebbe mai più visto la sua mamma.
Era disperata. I nitriti dei cavalli le rimbalzavano nella testa come lamenti, testimoni della sua tristezza.
Continuò a dare pugni alla porta; le mani le facevano male, erano ormai arrossate e stanche.
Gemette per il dolore e per la paura.
Era sola. Ora lo era davvero.
La bambina scivolò lentamente contro la superficie pesante della porta, come fosse un corpo morto.
– No... ti prego, non farmi questo...
Si raggomitolò su se stessa e pianse.
Pianse come non dovrebbero piangere i bambini. Perché i bambini piangono quando fanno i capricci o quando cadono e si fanno male.
Lei piangeva perché era sola. Piangeva come chi ha perso qualcuno di importante, come chi capisce di non avere nessuno al mondo.
Piangeva come una bambina che ha perso la mamma.
I singhiozzi carichi di dolore che le uscivano fuori le facevano tremare tutto il corpo. Il petto le doleva, le costole sembravano sul punto di rompersi da un momento all’altro. I suoi occhi non riuscivano a vedere ciò che la circondava.
Tutto ciò che quei pozzi scuri riuscivano a vedere era il dolore.
Samara si lasciò cadere per terra, abbandonandosi alla solitudine, che ora la distruggeva più che mai.



 
****
 
 
 
Non sapeva quanto tempo fosse passato.
Ora piangeva in maniera più silenziosa, come aveva sempre fatto. Lacrime malinconiche le scivolavano sul viso, mentre lei sopprimeva i singhiozzi.
Si sentiva sprofondare. Era come se la gravità non la tenesse più ancorata a terra, come se stesse fluttuando nelle sue stesse lacrime. Sentiva il cuore pesante, come un macigno che la faceva annegare in acque scure e fredde.
Nel posto buio e freddo.
Andava sempre più a fondo, le sembrava che il buio la inghiottisse.
L’acqua...
Ormai la stalla era in penombra; era da diverse ore che si trovava là dentro.
Doveva essere il tramonto.
Samara si guardò intorno, per la prima volta da quando era lì.
La stalla le sembrava un po’ diversa, ora che la osservava. Non c’erano più solo i box dei cavalli. C’era anche qualcos’altro.
Alzò gli occhi pesti e ormai privi di qualsiasi luce.
Davanti a lei, illuminata dalla luce rossa del tramonto, c’era una lunga scala.

 
 


 
Ciao! *saluta allegramente*
Scusate se ci ho messo tanto, ma ero tutta presa ad andare avanti e a scrivere capitoli che non mi sono accorta del tempo che passava..
Ma stasera, per fortuna, ho finalmente capito che dovevo pubblicare.
Questo capitolo comunque è il top della disperazione, lo so.
Mi si è stretto il cuore ad immaginare Samara che piangeva, delusa dal padre, e che si sentiva sola. Ho chiamato il capitolo "L'abisso" perché adesso si è formato appunto un abisso tra la bambina e la sua famiglia, è stata isolata e non ha più contatti con loro.
Tutto ciò è molto triste.
Spero che malgrado il tasso depressivo del capitolo, vi sia piaciuto. E ora non mi resta che attendere con impazienza i vostri commenti.
Alla prossima,
Stella cadente
PS Non prendetemi per una pazza psicotica per via di quella scena strana e inverosimile sulle rive di Moesko Island, tranquilli, sono normale (credo)
Baci a tutti, vi voglio bene ♥

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Capitolo 13
*** La stanza ***


Capitolo 13
La stanza
  
 




Richard stava accarezzando dolcemente i capelli di Anna.
Stava ancora dormendo. Era da quella stessa notte che dormiva; non aveva mai dormito così tanto e la cosa lo allarmava abbastanza, dato che sua moglie era sempre stata una donna iperattiva.
Le osservò meglio il viso bianco, scavato. Due occhiaie violacee, talmente scure da sembrare lividi, le formavano un pesante alone sotto gli occhi.
Una punta di rimorso gli riaffiorò nel cervello, per aver rinchiuso Samara nella stalla. Il senso di colpa non faceva che fargli rivedere continuamente quel visino innocente con il terrore negli occhi, o fargli sentire quella voce delicata e spaventata.
C’era qualcosa che ancora lo convinceva del fatto che lei fosse sua figlia, dopotutto. Ma si imponeva mentalmente di non cedere.
Quella non era sua figlia.
Non è mia figlia.
Non è mia figlia...
Sembrava una specie di promemoria mentale.
Non che volesse lasciarla lì definitivamente. O meglio, sì, ma comunque doveva portarle da mangiare, e soprattutto portarla da quel medico da cui andava anche Anna.
Anche se, a questo punto, Richard era ormai consapevole che un medico non potesse far nulla. Samara non aveva problemi mentali, Samara era un corpo bianco e puro abitato dal nero più abissale.
Ad ogni modo la sua seduta sarebbe stata prevista per il pomeriggio seguente; Richard rabbrividiva al pensiero.
Temeva che la rabbia di Samara si fosse scagliata contro di lui un’altra volta, in modo ancora più temibile e distruttivo.
Sospirò, come a voler eliminare tutte quelle paure.
Devo pensare ad Anna, si ripeté, devo pensare ad Anna.
 
 ****
 
 
La scala che le si parava davanti era lunga e sottile. Cercò di vedere fin dove portava; non se la sentiva ancora di salirla direttamente, aveva troppa paura. Tutt’intorno era circondata da balle di fieno e cavalli appisolati.
Tese una manina fragile verso la scala, e provò ad arrampicarcisi. I gradini, costituiti soltanto da sottili assi di legno, erano scomodi e le facevano male ai piedi, ma la curiosità stava facendo lentamente capolino.
Soffocò un grido quando sentì il nitrito rabbioso di un cavallo, ma andò avanti.
Samara si guardò intorno; il luogo in cui si ritrovava era molto simile alla stanza che aveva a casa.
Vuole mandarmi via.
Ormai era chiaro: Richard l’aveva esiliata. Il suo letto era stato trasportato contro la parete sulla sinistra di quella stanza sospesa, il cavallo a dondolo collocato in un angolo sulla destra, e sul comodino il carillon che le avevano regalato per il compleanno.
Samara sentì le lacrime salirle agli occhi, ma le ricacciò subito indietro.
 
 
 
****
 
 
 
La sofferenza la tormentava. L’albero che aveva visto per la prima volta solo qualche mese prima non smetteva mai di apparirle in sogno.
C’era anche ora.
Era scuro, come se fosse stato bruciato. La nebbia lo avvolgeva.
Mamma! un grido.
Sapeva di chi fosse quella voce.
Samara!
La cercava, la cercava, ma intorno a lei c’era il buio e nient’altro. Non riusciva a trovarla.
E questo le provocò un terrore acuto.
Samara! gridò ancora.
Quella che sembrava un’ombra le passò accanto in un lampo.
Anna si voltò e distinse la sagoma di una bambina. Era poco più che uno spettro, i suoi contorni sembravano sfumati e indistinti.
La bambina le fece un cenno con la mano, un lieve sorriso ad incresparle il volto. Ma non era un sorriso normale, il suo.
Era un sorriso evanescente, un sorriso che era strano da vedere sul volto di una bambina. Sembrava una creatura antica, un essere immortale che si nascondeva in un corpo ancora acerbo e infantile.
Anna arretrò, turbata.
E poi non capì più nulla.
Un turbinio di immagini le vorticava davanti agli occhi. Immagini di morte, sofferenza, sangue e disgrazie.
Il mondo stava andando in rovina sotto i suoi occhi.
Moesko Island spariva tra gli enormi flutti di una tempesta ed i suoi abitanti diventavano tutti scheletri putrefatti, dalle ossa scricchiolanti e nerastre.
Un enorme freddo le gelò il cuore.
Poi non sentì più nulla.
 
 
– Richard! Aiuto! Aiutami!
Dopo pochi secondi sentì lo scalpiccio di alcuni passi che attraversavano il corridoio.
– Anna, calmati. Sono qui.
Una voce. La voce di suo marito.
Lei ormai aveva la vista sbiadita, non vedeva bene ciò che la circondava.
– Moesko Island verrà sommersa, Richard! Dobbiamo andarcene! Dobbiamo andarcene!
Si alzò, ma Richard la rimise sul letto.
– Anna, quante volte te lo devo dire che quello che vedi non è reale?
Ma lei non lo ascoltava più. Si era messa a piangere disperatamente.
– Quando finirà tutto questo, Richard?
Lui la abbracciò.
– Vedrai che starai meglio... te lo prometto.
Anna rimase per qualche secondo in silenzio.
– E’ stata lei, vero?
Sollevò la testa verso di lui. Sembrava una bambina.
– Non lo so, Anna – disse solo.
– Invece sì. Lo hai detto tu.
Richard non sapeva più che cosa dire.
– Adesso dormi Anna.
– No! Non andare via! – gridò lei.
– Non vado via, resto qui.
– Non voglio dormire.
– Ma devi. Devi riposare.
Silenzio.
– Richard.
L’uomo si voltò verso sua moglie. Si trattenne dal rabbrividire.
Anna era bianca come il gesso, aveva i capelli neri scarmigliati e il corpo scheletrico, e tremava dalla testa ai piedi.
Che cosa ti è successo?
– Sì?
– Lei viene a trovarmi anche nei sogni. Non posso dormire.
 
 
 
 
****
 
 
Samara osservava Moesko Island dal finestrino dell’auto di Richard, che la stava portando dalla dottoressa.
– Papà – lo chiamò.
L’uomo non rispose.
Samara sospirò.
– La mamma come sta?
Silenzio.
La bambina cominciò a tremare di rabbia.
Suo padre non le rispondeva. Era tornata ad essere invisibile, era tornata a non essere nessuno.
Era tornata ad essere inconsistente.
Doveva aspettarselo, eppure i Morgan le stavano facendo ancora male, come nessun’altra persona le aveva mai fatto. Aveva creduto, anche solo per un secondo, che i Morgan sarebbero stati sempre lì per lei, che l’avrebbero accettata.
Samara poggiò la mano sul finestrino e disegnò.
 
 
 
 
 
– Ciao, Samara. Allora: stai meglio? –  fu la prima cosa che le disse la psichiatra.
La bambina scosse la testa.
– Non mi vogliono più.
L’espressione della dottoressa si fece cupa.
– Chi non ti vuole più?
– I miei genitori. Soprattutto papà. Non mi vuole dire come sta la mamma.
Per un attimo la donna rimase interdetta, poi disse:
– Samara, devi capire che la tua mamma non sta bene ultimamente. Sicuramente il tuo papà non vuole che tu veda come sta male.
– No. Papà non mi vuole bene.
– Questa è una convinzione tua. Ma devi capire che non è un buon periodo ora come ora. Il tuo papà sta facendo di tutto perché la mamma stia bene. Probabilmente ti senti solo trascurata, ma è perfettamente normale.
Samara sollevò un attimo lo sguardo verso la donna, guardandola intensamente in quegli occhi così razionali e intelligenti. Era chiaro che pensava di aver già capito tutto.
Quanto si sbagliava.
Se le avesse mostrato la verità, lei avrebbe capito, avrebbe capito davvero?
Forse...
– Ci sono cose che lei non sa, Ellen Grasnik – disse alla fine.
La donna cambiò espressione. Sembrava turbata.
Samara sollevò appena gli angoli della bocca: era ciò che aveva sperato. Ora quella donna aveva paura. Lei riusciva a sentirlo... riusciva a percepire l’inquietudine e il cuore che aumentava i battiti.
– Cioè?
– Non posso dirglielo. Ma sono certa che lo capirà – disse con voce candida, guardandola con quei suoi occhioni dolcemente malinconici.
– Posso andare adesso? – la sua vocina solcò ancora il silenzio.
– No Samara. Devo capire che cos’hai.
– Ma io non ho più niente da dirle – replicò la bambina, serissima.
La dottoressa rimase in silenzio.
– Io devo andarmene, dottoressa.
Ad Ellie Grasnik sembrò di non essere più materialmente presente.
Quando ritornò, la bambina non c’era più.
 
 
****
 
 
Richard osservò i vetri della sua macchina con terrore. Era come se, al posto dei finestrini, ci fosse stato qualcos’altro, un confuso insieme di graffi e incisioni. Come se un grosso animale inferocito si fosse accanito sulla sua macchina.
Dio...
Attendeva lo scoccare dell’ora dalla psichiatra con paura. Ogni giorno che passava i poteri di Samara si rivelavano sempre più malvagi e del tutto fuori dal comune.
La temeva, ora più che mai. Temeva l’anima nascosta in quel corpicino bianco come l’alabastro parzialmente coperto da lunghi capelli corvini. Temeva la luce oscura in quegli occhi limpidi di bambina. Eppure lei non lo aveva mai toccato; aveva preferito distruggere Anna, pensò, con la voglia di spaccare tutto.
Richard viveva ormai nella rabbia e nella paura. Non riusciva a dormire la notte; restava nel letto, sveglio, con il timore di sentire Anna urlare qualcosa di indefinito nel sonno o di vederla sussultare.
Pensava con rabbia che Samara era riuscita a spazzare via quella che doveva essere la sua famiglia. Quante cose erano cambiate da quando cavalcavano felici nel bosco, come quella famiglia che aveva sempre desiderato avere.
I simboli sui finestrini erano sconnessi e apparentemente privi di senso: alberi e altri disegni indistinti si fondevano in un quadro raccapricciante nella sua insensatezza.
Era come se l’anima nera della bambina avesse voluto lasciare dei segni.
Lentamente, con timore, passò l’indice sopra a quelle immagini.
Erano scolpite nel vetro.
 
 
 
Samara si trovava di nuovo nella sua stanza nella stalla, circondata dai nitriti dei cavalli che aumentavano furiosi al suo passaggio.
Aveva un gran mal di testa. Ma da una parte, era felice di essersene andata da quello studio.
Tanto era tutto inutile; la dottoressa Grasnik non aveva capito il Buio, non aveva cercato di capirlo e si rifiutava di vederlo.
Si era rifiutata di vedere lei.
Si era rifiutata di capire lei.
Non ha visto.
Quindi non vedeva per quale motivo dovesse rimanere là. Perdeva tempo, e basta.
Nessuno avrebbe mai potuto capirla, alla fine.
Era triste, triste nella sua solitudine.
Ma sentiva una nuova consapevolezza in sé: ora che era sola, avrebbe potuto liberarsi completamente.
Non aveva più senso trattenere il Buio.
 
 
 
Richard sentì il telefono squillare.
– Sì, chi è? – rispose con il suo solito tono burbero.
– Sono la dottoressa Grasnik – gli rispose una voce alquanto alterata dall’altro capo. – Mi vuole spiegare perché è venuto a prendere Samara prima dell’ora?
Richard non seppe cosa dire.
– Non sono venuto a prenderla, dottoressa. Lei si sta sbagliando, la bambina dovrebbe essere ancora lì.
Silenzio.
Un silenzio arrabbiato, furioso.
– Mi prende in giro, vero?
– Come scusi?
Ancora silenzio.
– Ellie, mi vuole dire che succede?
Silenzio.
– Ellie?
– Succede che la bambina non è più qui – disse la psichiatra. – Non c’è. È scomparsa.
 
 

 
 Buon Samara!
Eccomi di nuovo qui a scassarvi. Yee.
Ordunque, parliamo del capitolo. Samara si sta, diciamo, ribellando, sta capendo che non è benvoluta e preferisce la solitudine, che tra l’altro le è anche stata imposta dal padre.
Come sempre, ho costruito il mio solito finale ad effetto, lasciando la suspense. Spero che renda bene :)
Io personalmente sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo (lo so è strano, ma ultimamente mi succede che quello che scrivo mi piaccia ... boh, forse sto male ahah). Abbiamo concentrati insieme la rabbia di Samara, la stanchezza di Anna e la tenacia con cui Richard difende sua moglie, insieme al conflitto interiore per quello che sta facendo a Samara. Alla fine Richard non è cattivo, ma purtroppo si è trovato in una situazione bruttissima. Oltre che a Samara mi sono affezionata tanto anche a lui.
La bambina ovviamente lo vede come il cattivo della situazione, è l’uomo che l’ha separata dalla sua mamma, per cui dal suo punto di vista è così, ma in realtà Richard è un personaggio in conflitto con se stesso e mi piace sempre di più scrivere di ciò che prova e delle sue riflessioni.
Beh, spero come sempre che vi sia piaciuto.
Alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 14
*** L'abisso – Parte II ***


Capitolo 14
L'abisso –  Parte II


 
Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro.
(Friedrich Nietzsche)


 Dopo
 
 
– Perché sei qui? – gridò l’uomo, senza avvicinarsi.
Quando era entrato a capofitto nella stalla, l’aveva semplicemente trovata lì, come se nulla fosse. Samara era seduta sul pavimento, e cantava. La sua vocina flautata aleggiava nell’aria, dolce e piena.
– Perché sei qui? – ripeté con più insistenza.
Silenzio.
– Perché quella dottoressa non riusciva a capirmi.
Non si era nemmeno voltata, non aveva nemmeno mostrato un po’ di stupore.
Come se fino a quel momento lo avesse aspettato. Come se lo avesse percepito benissimo, sin da quando era entrato.
Ti aspettavo papà aspettavo solo che tu arrivassi
Non c’era bisogno di fingere di essere normale con lui, del resto. Aveva avvertito la rabbia già da mezz’ora, lo stupore farsi largo nella mente di Richard e la paura per Anna.
Un mix che per lei era quasi divertente.
Richard era debole, in quel momento. Sapeva che non avrebbe potuto nulla contro di lei.
Sapeva che non le avrebbe fatto del male. Era troppo spaventato per anche solo pensarci.
– Samara, che cosa vuoi? Dimmelo. Qualunque cosa tu voglia, io lo farò. Ma ti prego, fingi di essere normale. Almeno con quella dottoressa.
Alla bambina sembrò come se un’improvvisa scarica elettrica le avesse attraversato tutto il corpo.
Davvero?
I secondi seguenti a quella frase furono silenziosi. Un silenzio sospeso, terribile. Quasi sepolcrale.
Poi una voce interruppe la calma.
Devo far finta di essere normale?
Richard non aveva mai sentito Samara parlare così. Non aveva mai sentito la sua voce tramutata in quel modo.
Quella parlata delicata era diventata un tono di voce mellifluo, calcolatore, quasi subdolo.
E lui aveva come la sensazione che, da lì a poco, sarebbe successo qualcosa di brutto.
 
 
 
 
 
Samara riusciva a sentire la paura nel cuore dell’uomo. Riusciva a sentire il suo respiro ansante, il sangue che gli defluiva nelle vene violento, caldo.
Voleva trattenersi, lo voleva davvero. Ma la rabbia ormai sembrava mangiarle il corpo.
Adesso mi arrabbio adesso mi arrabbio davvero
Lo raggiunse in un secondo. Non le importava niente, voleva solo liberarsi, fargli vedere chi veramente era. Fargli vedere di cosa sarebbe stata capace.
Perché lui non si era comportato bene con lei. Nessuno lo aveva fatto.
Perché allora lei doveva essere carina con gli altri, se gli altri non erano carini con lei?
Non aveva senso.
Lasciò che il Buio la riempisse, che la invadesse, che facesse ciò che voleva.
Perché lei voleva che Richard lo vedesse.
Voleva che pagasse.
Adesso paghi per quello che fai sì pagherai
Lasciò parlare il Buio, mentre lei se ne stava rintanata in un angolo.
 
 
 
 
 
– Non sai cosa hai appena detto, non te ne rendi conto.
La voce di Samara era poco più che un sussurro, ma era terribile. Richard non poté fare a meno di provare una fitta di terrore nel sentire il timbro così argentino e infantile della bambina impregnato di quella nota minacciosa, spietata, crudele.
Una voce che poteva appartenere solo ad un essere malefico e ultraterreno.
I suoi occhi erano diventati completamente grigi, demoniaci, bui come le tenebre più abissali.
– Io non sono normale. Io sono questo. E devi accettarlo...
L’uomo si impietrì nel sentire quelle parole sospese.
–...o morirai.
L’ultima cosa che vide prima di battere la testa fu la mano di Samara che si sollevava e il suo stesso corpo che veniva buttato dall’altro lato della stanza senza neanche essere toccato.
Poi più nulla.

 
 
 

 
 

Buon Samara :)

Okay, questo capitolo è una cosa molto brutta. Però devo dire che è anche un altro capitolo cruciale all’interno della storia. Samara ora non vuole più scappare, non vuole più tentare di sottrarsi al suo potere. Prima era spaventata, confusa, arrabbiata, ora vuole solo liberarsi da tutta la sua sofferenza e non le importa più delle conseguenze.
Questo ovviamente porterà molti cambiamenti.
Mi è piaciuto scrivere questo breve capitolo di introspezione e azione messi insieme. A proposito di questo, mi scuso per il fatto che sia schifosamente corto, ma dato che è in gran parte introspettivo se no non rendeva. Perlomeno, io penso che se avessi scritto dieci pagine word di riflessioni vi sarebbe venuto il latte alle ginocchia..
Beh, spero che sia comunque stato di vostro gradimento.
Al prossimo capitolo,

Stella cadente

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Capitolo 15
*** Solitudine ***


Capitolo 15
Solitudine
 
 
Moesko Island, I° Dicembre 1978




Sapeva che Richard era nella sua stanza ora. Era nella sua stanza, e al risveglio avrebbe pensato che fosse tutto un sogno. Lei aveva calcolato tutto.
Era arrabbiata. Oh, se lo era.
Riusciva quasi a sentire il sangue ribollirle nelle vene, rimescolarsi caldo sotto la pelle candida.
Però da una parte era felice... si stava finalmente liberando. Stava permettendo all’oscurità di venire fuori, stava sfogando il suo odio e la sua rabbia.
Lei in fondo voleva solo qualcuno che la amasse. Non chiedeva molto.
Perché loro non sono in grado di amarmi?, pensò con rabbia.
Anna era lontana, praticamente irraggiungibile, e Richard ce l’aveva con lei. E lei era arrabbiata. Di nuovo quella rabbia, quella rabbia che ormai la caratterizzava.
Avrebbe voluto distruggere ogni cosa; ed era proprio ciò che stava facendo, ma non le importava. Voleva solo sfogarsi, nient’altro.
Non le importava più di niente ormai.
Sapeva solo che, da quel momento, le cose sarebbero state diverse.
Per tutti.
Non avrebbe più provato a trattenersi.
Non aveva più senso.
Non ha senso.
Devo liberarmi...
Devo tornare indietro.
 
 
 
****
 
 
 
Richard aveva un gran mal di testa.
Si trovava nella sua stanza, nel letto. Si sentiva strano, come se fino a quel momento avesse sognato, come se fino a quel momento avesse galleggiato in una strana dimensione a parte.
Eppure non ricordava nulla. Aveva solo quella strana sensazione ad opprimergli il petto e a svuotargli la mente, e non capiva in nessun modo da dove venisse fuori.
Istintivamente tastò con la mano accanto a sé, ma il posto era vuoto.
Anna non c’era.
Dov’è Anna?
– Anna – chiamò istintivamente.
Sentì dei passi provenire dal corridoio. Passi lievi, ma frettolosi, come se qualcuno stesse fuggendo senza che si volesse far sentire.
– Anna – disse, un po’ più forte.
Nessuna risposta.
Dall’altra parte sentì un canto. Un canto dolce, leggero, melodioso. Eppure c’era qualcosa di storto in quella canzone, qualcosa di inquietante; Richard capì subito che doveva stare all’erta.
Uscì lentamente dalla stanza, cercando di essere più silenzioso possibile, e arrivò in sala. Anna stava guardando pensosa fuori dalla finestra il paesaggio nebbioso di Moesko Island, osservando il lento cadere delle gocce di pioggia sul vetro della finestra.  Ancora non si era accorta dell’assenza di Samara, e Richard non sapeva se interpretarlo come un peggioramento o un miglioramento della sua condizione.
– Richard – la sua voce lo chiamò vaga, assente.
Era persa, come racchiusa in un mondo che era solo suo. Sembrava che gli stesse parlando da lontano.
– Dimmi, Anna.
Lei indugiò per un po’ nel silenzio, senza distogliere lo sguardo dalla finestra. Era come se neanche si fosse accorta di averlo chiamato.
– Anna? – la chiamò lui, nella speranza che gli dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Quel silenzio era insopportabile.
Sua moglie si voltò, gli occhi pesti e sporgenti sgranati in un’espressione che l’uomo trovò innaturale.
– Dov’è Samara? – chiese, con l’innocenza nella voce.
Un’ innocenza che non era da lei.
Richard tentennò.
– Dov’è Samara? – ripeté Anna.
La sua voce sinistramente dolce fece arretrare appena l’uomo. Lentamente, davanti ai suoi occhi, i lineamenti di donna di Anna si trasformavano in quelli da bambina di Samara, la sua voce assumeva un tono più delicato, eppure in qualche modo maligno.
Scosse la testa con veemenza, come a cacciare via quelle immagini dalla sua testa.
Sto impazzendo anche io?
– È nella stalla – disse infine, con un groppo in gola che assomigliava tanto ad un nodo.
Anna inclinò dolcemente la testa.
– Che cosa fa?
– È nella stalla e gioca con i cavalli – ribatté lui.
La moglie sembrò rasserenata.
Poi guardò in basso.
– Per un attimo ho pensato che non ci fosse più... – fece, con una nota vagamente nostalgica nella voce. – Io non accetterei di perderla.
Richard non poté fare a meno di sentirsi tremendamente in colpa per ciò che aveva fatto. Si costrinse a pensare che lo aveva fatto per il bene di sua moglie, che le sue erano buone intenzioni. Si costrinse a pensare che in fondo non aveva fatto niente di male.
– Già – disse solo. – Lo so.
Una fitta alla testa lo colpì con violenza e l’immagine di lui, nella sua stanza, che non si ricordava che cosa aveva fatto, gli trafisse la mente.
Era stato da qualche parte, prima. Ma dove? E perché si sentiva così spossato, come se qualcuno gli avesse prosciugato le energie?
C’era qualcosa, doveva essere successo qualcosa.
Ma non ricordava cosa.
Dannazione.
Stava scavando nei meandri della sua memoria, ma senza successo.
Non riusciva a ricordare niente.
Vuoto totale.
Era tutto nero.
 
 
 
 
Voleva che provasse cosa provava lei.
Voleva che sentisse la mancanza di qualcosa che prima invece c’era.
Voleva che si sentisse scombussolato.
Voleva che si sentisse impaurito.
Voleva che, per una volta, capisse cosa significava essere lei.
 
 
 
 
– Richard – la voce di Anna lo riscosse di nuovo.
Lui la guardò.
– Credi che Samara non mi voglia più?
Sembrava una bambina. E sebbene quella voce lo avesse fatto rabbrividire, Richard cercò di concentrarsi sullo sguardo della moglie. Lontano, vacuo, triste.
Anna aveva un’aria quasi malinconica, un’aria che non aveva mai avuto e che non le si addiceva.
Era triste. Era molto triste; riusciva a percepire che ogni sua cellula sentiva la mancanza di quella bambina.
Samara era semplicemente tutto ciò che Anna desiderava di più, ma al tempo stesso anche ciò che le faceva più male.
– No, Anna, non è quello.
– Sì invece, – fece tristemente la moglie – è per quello. Non mi vuole più perché sto male. Io sono malata, Richard. Non riesco a capire più niente... non so se ciò che vedo sia reale o no.
La sua voce era vuota, inespressiva.
– Ma ora come ti senti?
– Bene. Ora sto bene.
– Non fai più incubi?
– No.
– Ne sei sicura?
Anna gli rivolse un sorriso un po’ tirato.
– Sì. Sono tranquilla, adesso. Io avevo gli incubi solo quando c’era Samara. Ma...
Il suo sguardo tornò di nuovo alla finestra e la sua voce sembrò incrinarsi, rompersi di botto. Si lasciò sfuggire un sospiro sofferente, che le fece tremare le spalle gracili.
– Che cosa, Anna?
– Ma ora che non sta più con me non è lo stesso. Io non ce la faccio, senza più vederla girare per casa.
Lui non seppe cosa dire.
– Quando è stata l’ultima volta in cui è stata qui?
Silenzio.
– Io non me lo ricordo... – continuò. La sua voce sembrò aleggiare nell’aria, distratta, eterea.
Poi si voltò di scatto verso il marito.
– Tu l’hai mandata via, non è vero, Richard?
 
 
 
 
 
Sentiva la mente di Richard mulinare contro la sua, come se i loro pensieri fossero stati in qualche modo uniti.
Comunicanti.
Un filo teneva legate le loro menti e le dava il pieno controllo sulla situazione. Un filo teneva legate le loro menti perché era lei a volerlo.
E ora era venuta a conoscenza di un’informazione preziosissima: sua madre sentiva la sua mancanza.
Samara si era ritrovata a piangere, non appena aveva sentito la sua voce riecheggiarle nella mente.
Ora che non sta più con me non è lo stesso.
Dov’è Samara?
Le aveva fatto male sentire la sua mamma così triste. Perché lei lo aveva capito, non c’era altro che tristezza nella sua voce.
E lei non poteva più sopportarlo.
Samara...
Una voce le rimbombò nel cervello. Una voce soave, una voce calda, rassicurante.
Una voce che conosceva bene.
Mamma.
La stava chiamando.
La voleva.
La voleva lì con sé.
Mi dispiace mamma.
Desiderava con tutta se stessa essere la figlia che Anna voleva tanto, ma probabilmente non lo era mai stata e mai lo sarebbe stata.
Mi dispiace mamma...
 
 
 
– Anna, io... – provò a dire Richard. Ma il volto di sua moglie si era improvvisamente indurito.
– L’hai allontanata da me, non è così?
– Senti, io l’ho fatto solo per proteggerti. E che ti piaccia o no, per ora dovete assolutamente stare lontane – replicò lui, con un tono improvvisamente risoluto.
– Perché?
– Perché quella bambina ti fa star male, Anna, io non posso permettere che..
– Ma non posso escluderla dalla mia vita!
Anna lo aveva interrotto urlando, come una protesta.
Richard la guardò per un secondo. Era... cambiata.
Ancora.
Sembrava una leonessa che difendeva il suo cucciolo.
– Non ti sto chiedendo questo...
– Ma è precisamente quello che hai fatto, Richard! Io... io non posso credere che tu l’abbia reclusa in una stalla, così, da sola! Ma che cosa ti è venuto in mente?
– Te lo ripeto, cercavo solo di proteggerti.
Richard avvertì il desiderio di rimangiarsi tutto quanto, perché per nulla al mondo voleva vedere sua moglie arrabbiata, soprattutto adesso.
Poi un’idea gli trapassò fulminea il cervello. Aveva detto le parole sbagliate; doveva solo far credere ad Anna che volesse proteggere non solo lei, ma anche Samara – sperando che si fidasse ancora di lui.
– E volevo che Samara stesse in un ambiente tranquillo – aggiunse quindi, serio.
Contrariamente a quanto si aspettava, Anna cambiò subito espressione.
– Dici davvero?
Richard si costrinse a reprimere una lacrima; quella di sua moglie sembrava quasi una supplica. Nel vederla così il cuore gli si strinse in una morsa.
– Sì, è così.
Anna tirò un sospiro rilassato.
– Quindi devo solo migliorare per far sì che torni da me. Giusto?
Lui sorrise appena.
– Sì, Anna – disse, a malincuore.
Non voleva fare questo ad Anna, non voleva mentirle, ma continuava a ripetersi che lo faceva per il suo bene, che lo faceva per lei.
Perché Richard amava Anna, e non voleva perderla.
 
 
 
 
 
La connessione si era chiusa.
Non capiva che cosa lo determinasse, ma era come se la mente di suo padre fosse una porta che ormai si era chiusa irrimediabilmente.
Samara non sarebbe più stata in grado di riaprirla. Eppure le serviva, per arrivare ad Anna. Voleva mettersi in contatto con lei, doveva mettersi in contatto con lei.
Doveva tornare da lei, in un modo o nell’altro.
 
 
 
****
 
 
I pensieri le correvano selvaggiamente nella testa.
Era notte, e lei stava dormendo un sonno tranquillo, per la prima volta. Beh, non era proprio un sonno, ma una specie di dormiveglia.
Richard le aveva detto che Samara non sarebbe stata con loro per non sconvolgersi, per esser tenuta fuori dal disastro che era accaduto.
Il disastro di cui è la causa.
Si mise una mano sulla fronte. Sapeva che la bambina era il motivo di ciò che era successo, e la parte più razionale di lei le diceva che non poteva far finta di non vedere che fosse colpa sua. Eppure, si rifiutava categoricamente di credere fino in fondo che fosse davvero così.
Perché Samara era sua figlia.
E non era colpa sua.
E lei avrebbe preferito incastrarsi in una dannazione eterna, piuttosto che vivere una vita vuota.
Anna rammentò ciò che aveva detto suo marito un po’ di tempo fa – un tempo talmente lontano da sembrarle una vita fa.
Anna, credo che la causa di questi eventi sia Samara.
Ma non poteva fare a meno della sua bambina. Adesso, semplicemente, anche senza di lei stava comunque male, perché quella piccola e fragile bambina, quella stessa bambina che aveva conosciuto più sofferenza che gioia, ormai era entrata dentro di lei, nel suo cuore, nella sua vita.
E Anna si sentiva di nuovo sola come quando lei non c'era.
Mamma...
 
 
 
 
La notte era ancora brutta. Forse più di prima.
Ascoltava il ticchettare dell’orologio e fissava inespressiva i cavallini del carillon volteggiare su quella musica melodica.
Sentiva il vuoto di un’assenza. L’assenza riempiva la stanza, e la mamma era di nuovo lontana e impossibile.
Era sola. Di nuovo.
Samara... 
 

 
Salve a voi *compare con aria stanca e le occhiaie a causa della scuola che la sta già  disintegrando*
Comincio dicendo che ci sono tanti cambiamenti in questo capitolo, come vedete. Anna sembra “guarire” improvvisamente dal suo malessere, e la situazione d’un tratto ha una nuova luce per lei.
Samara si sente sempre molto sola, segregata nella stalla. Sta meditando vendetta, sta approfondendo i suoi poteri, ma si sente sola. Una solitudine che in questo capitolo sembra schiacciarla. Per questo ho voluto chiamare il capitolo “solitudine”. Perché adesso la situazione è schiacciante per entrambe, anche se delle voci misteriose irrompono di tanto in tanto nei loro cervelli ...
Comunque, spero vi sia piaciuto, come al solito.
Poi, come va la ripresa della vostra routine? Io oggi ho avuto la prima giornata di scuola di sei ore e sono leggermente devastata :)
Che bello :)
Spero che per voi il rientro a scuola, università o cosa volete voi non sia stato così traumatico :3
Beh, ci vediamo nelle recensioni ;)
A presto,

Stella cadente

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Capitolo 16
*** La scatola magica ***


Capitolo 16
La scatola magica
 
  

La notte era passata con la solita, estenuante lentezza. Il freddo di Dicembre penetrava facilmente tra quelle mura, e Samara si sentiva sempre più distante dal resto del mondo man mano che passavano i giorni.
L’inverno era crudele, a Moesko Island. Il gelo era come un animale che le mordeva la pelle, e lei non poteva far altro che starsene sotto alle coperte sperando di non morire assiderata.
Ora che era abbandonata a se stessa, Samara pensava molto. Pensava a come poteva attirare l’attenzione di sua madre, a come far sì che venisse liberata – anche se, da una parte, si era abituata a quella condizione.
Ormai riusciva a vedere Anna solo da lontano. Riusciva a vederla nella mente, e di tanto in tanto la sua voce la chiamava. Era la sua voce, lo sapeva. Qualcosa le diceva che era lei a chiamarla, che era la sua mamma a volerla.
Perché lei l’aveva sempre voluta, e probabilmente era stata l’unica persona in grado di apprezzarla ancora dopo aver visto tutto il male che c’era nel suo corpo.
Samara dove sei vieni qui
Anna era come una falena; le falene vogliono la luce ma quando ne vengono a contatto rimangono ustionate. E nonostante tutto, tornano ancora in cerca della luce, perché non si stancano mai di essa, anche se fa loro palesemente del male.
Non mollano.
E Anna era esattamente così. Non si era mai arresa con lei, anche se la faceva stare male.
Lei sapeva che non lo faceva apposta, anche se un campanellino di allarme le echeggiava sempre in testa.
Samara...
Quella voce, di nuovo.
L’aveva sentita anche durante la notte, molto spesso. Il solito richiamo, quella voce che ormai conosceva molto bene, e che eppure in qualche modo le sembrava lontana, come appartenente ad un passato che ora non c’era più.
L’assenza di sua madre la lacerava. Non riusciva più a sopportare quelle pareti che le ribadivano il suo isolamento ogni attimo che passava.
Aiuto mamma
Non sopportava più il limbo di solitudine che era diventata la sua vita.
Anche se sapeva che in realtà, era così che doveva andare.
Stava tornando indietro.
 
 
 
 
 
– Anna.
La donna sobbalzò sentendo la voce di Richard accanto a lei.
– Sì? – fece, un po’ a disagio.
Apprezzava le cure che le riservava suo marito, ma a volte la infastidivano; preferiva essere lasciata sola. E poi quella voce che sentiva la notte, non la lasciava mai.
Sentiva che doveva ascoltarla.
Era lei. Era proprio lei, che la chiamava. E Anna sentiva che doveva seguire quella voce, che doveva raggiungere la sua bambina.
Solo che per qualche motivo non si sentiva di dirlo a suo marito. Richard non avrebbe capito, Richard non si era fermato a cercare di capire veramente quella ragazzina, Richard voleva cacciarla.
Probabilmente non sapeva neanche del collegamento che c’era tra lei e Samara – e non doveva saperlo.
Non ne sarebbe stato contento, probabilmente. L’avrebbe uccisa.
Il corpo di Anna venne scosso da un brivido di puro terrore. Qualcosa le diceva che lui l’avrebbe uccisa sul serio, e per nulla al mondo voleva che accadesse. Non era certa di ciò che stava per fare, ma l’unica certezza era quella che non doveva assolutamente interrompere quella connessione.
Quella connessione misteriosa, oscura, probabilmente pericolosa.
Ma ad Anna non importava.
– Ti senti bene?
La voce di Richard irruppe nei suoi pensieri; solo allora la donna si accorse di aver guardato nel vuoto per alcuni secondi.
– Mh? – fece, distratta.
Richard la squadrò, visibilmente preoccupato, e Anna si dovette trattenere per non sorridere: probabilmente lei era l’unica persona ad aver visto quell’uomo preoccupato, o anche solo leggermente impaurito. Quell’espressione stonava un po’ con il suo viso austero e dall’aria perennemente burbera.
Sapeva che non poteva mentire a Richard, ma doveva, doveva farlo.
Per forza.
Richard la trafisse con lo sguardo.
– Stai bene? – ripeté.
Lei annuì con veemenza.
– Benissimo.
Bugia.
 
 
 
Samara era seduta sul pavimento della stanzetta, appoggiata contro il muro di legno.
Pensava ad Anna, a come mantenere la sua connessione con lei senza che Richard lo venisse a sapere in qualche modo.
Non voleva, non voleva continuare a tormentarla; eppure, non ne poteva fare a meno. Non riusciva a starle lontana come avrebbe voluto.
Anna era l’unica. L’unica che la capisse, l’unica che l’ascoltasse... Ma ora era lontana.
Dietro il corpo della bambina, sotto la carta da parati decorata con cavallini stilizzati, un albero nero e fine si disegnava nel legno della parete. Bruciava il legno, lo dipingeva di scuro, di angoscia, di paura. Si intagliava nel muro.
Come marchiato a fuoco.
 
 
           
 
 
****
 
 
 
 
– Come ti senti?
La voce della Grasnik riscosse Anna dai suoi pensieri; ormai era come se la realtà circostante non esistesse più per lei.
– Bene – mentì.
Ellie la squadrò qualche secondo, poi disse:
– Anna, sai che devi dirmi tutto quello che ti passa per la testa, vero? Altrimenti non riuscirai mai ad uscirne.
Lei sospirò pesantemente.
– C’è una connessione – cominciò – tra me e Samara.
Mamma mamma dove sei
La dottoressa aggrottò le sopracciglia.
– Io... io sento la sua voce. Non lo dire a Richard, però. Non deve saperlo.
– E perché no?
– Perché lui ha recluso Samara in una stalla. Lui non la vuole, crede che lei mi faccia del male, crede che sia lei a farmi stare così... E forse è vero, ma non voglio lasciarla. Non posso.
La Grasnik aveva un’aria sconvolta che cercava invano di mascherare. Ma Anna sapeva che la stava prendendo per pazza, anche se non lo era.
Lei non era malata, non soffriva di psicosi, non aveva nulla. Il suo medico però si ostinava a non capirlo.
– Anna, non è possibile che Richard dica così. Sai benissimo anche tu quanto bene voleva a Samara. Desiderava una figlia almeno quanto te, se non erro.
Ellie non aveva capito niente. Si intestardiva, era cieca.
– È assolutamente impossibile che Richard voglia far del male alla bambina, Anna.
Non vedeva. Non vedeva niente di ciò che in realtà le passava sotto il naso.
Apri gli occhi
– Ma tu non capisci, l’ha reclusa nella stalla!
– Non l’ha reclusa – insistette lei, alzando il tono della voce per sovrastare le sue proteste disperate. – L’ha solo allontanata per far sì che non risentisse troppo della tua situazione. Non può vederti così, è per il suo bene in fondo.
Anna si sciolse in lacrime.
– Anna... – si addolcì il medico – credo che tu senta semplicemente la sua mancanza: per questo vedi che Richard è contro di lei. Hai... è come se tu avessi trasferito questa cosa su di lui. Ne parli almeno, di questa cosa, con Richard?
– No. Non posso. Altrimenti la connessione si interrompe.
– Non c’è nessuna connessione, Anna – spiegò la Grasnik, con un tono di voce delicato ma rigido al tempo stesso. – È tutto nella tua testa.
Era cieca.
Non vedeva.
 
 
 
 
Ellie Grasnik era sinceramente preoccupata per Anna Morgan. Non riusciva a ricondurre a niente il fatto che si verificassero episodi psicotici così spesso e con una tale intensità. E poi non capiva perché la situazione restasse piatta, sempre uguale.
Sapeva che dalla psicosi non si guariva, ma aveva avuto in cura moltissime persone psicotiche e solitamente dopo un po’ miglioravano. Anna invece era in terapia da diversi mesi e l’unica cosa che aveva notato – rabbrividì al pensiero – era un netto peggioramento. Come del resto anche la figlia.
Il disturbo di Anna era molto strano: la sua paziente le aveva fornito un quadro psicologico abbastanza complesso, non tanto per il disturbo in sé quanto per le cause.
Inesistenti, almeno apparentemente.
Era psicosi depressiva, quella, Ellie sapeva riconoscerla. Anna soffriva terribilmente la mancanza della figlia e ciò la portava frequentemente a crisi depressive, aveva allucinazioni uditive e presentava disturbi di contenuto del pensiero. Spesso, durante le sedute, diceva cose prive di senso e riconduceva tutto alla bambina.
Era questa la cosa insolita: perché riconduceva tutto alla figlia?
Anche Samara, in effetti, sembrava soffrire di un disturbo simile. Un po’ la spaventava, perché la psicosi infantile non era affatto comune e non si era mai trovata davanti ad una bambina come lei, prima. Temeva di non riuscire a curarla adeguatamente.
Le sembrava evidente il fatto che Samara avesse un rapporto alterato con la realtà, ma non capiva com’era che sembrava aver “contagiato” anche Anna.
La psicosi non era contagiosa.
C’era qualcosa che non tornava.
 
 
****
 
 

Samara stava davanti alla televisione, guardandola a vuoto.
Era seduta lì ormai da ore, a guardare la sua immagine riflessa nello schermo dell’apparecchio.
Non le piaceva il suo riflesso.
Non le piaceva quell’aggeggio che le mostrava la sua immagine solitaria, come ad evidenziare il fatto che fosse stata abbandonata.
Stava lì seduta, e ricordava.
Ricordava John, ricordava l’acqua sulla terra, ricordava gli alberi che aveva fatto vedere ad Anna.
Ricordava tutto. Vedeva tutto. Tutto ciò che era stata, tutti i danni che aveva inevitabilmente procurato ai Morgan senza volerlo. Le immagini le passavano nella testa come fossero diapositive, le diapositive di una vita oscura e immersa nella sofferenza.
La televisione scattò. Una serie di righe bianche, grigie e nere comparve sullo schermo, e l’apparecchio produsse un rumore penetrante e sgradevole.
Samara si tappò le orecchie con le mani, infastidita.
Poi qualcosa, in quell’aggeggio, catturò la sua attenzione.
La televisione trasmetteva le immagini che lei aveva visto e trasmesso agli altri; le faceva sembrare foto, impresse in un album virtuale.
Sono foto, le mie foto
Non appena questo pensiero la sfiorò, le immagini scivolarono fuori dal televisore con un fruscio leggero.
La bambina sbatté gli occhi con aria interdetta, aggrottando le sopracciglia: non capiva cosa fosse successo, ma...
Erano reali. Quelle immagini, le stesse immagini che erano vive solo nella sua testa, ora erano uscite fuori da uno schermo.
Istintivamente si abbassò per vederle da vicino; voleva verificare davvero che tutto ciò fosse realmente accaduto. Fissò le foto con un po’ di timore, poi provò a toccarle con cautela, come se avesse paura che la potessero aggredire. Sentì la carta da radiografia scorrerle sui polpastrelli, e i suoi occhi si allargarono in un’espressione di autentico stupore.
Erano vere, erano lì, sul pavimento della stanzetta.
Wow.
D’un tratto, Samara comprese: lei era come un canale. Quelli non erano altro che i suoi pensieri, i suoi stessi pensieri resi reali dalla televisione. Quella scatola magica che le dava il potere di vedere ogni cosa.
Ogni cosa.
Ogni cosa...
Samara fissò lo schermo, ancora invaso dalle righe bianche, grigie e nere. Lentamente, con cautela, tese una mano verso quel miscuglio di colori tetri, come a voler afferrare qualunque cosa ci fosse al di là.
E la sua mano, come fosse un ologramma, passò attraverso lo schermo.
Samara ritirò in fretta la mano, impaurita, e se la portò al petto allontanandosi.
Ma poi capì.
Quella era una scatola magica.
E se riusciva a rendere reali i suoi pensieri, sarebbe riuscita a rendere reali anche i suoi desideri.
Sapeva cosa fare.
 
 
 
Anna sentiva un peso sul cuore, come se avesse la sensazione che da lì a poco sarebbe successo qualcosa.
– Parlami ancora di Samara.
La voce della Grasnik la distolse. Ma lei non riusciva a capire più nulla.
– È qui – disse solo.
Doveva capire, doveva capire per forza. Non poteva essere così cieca.
– Chi? Samara?
– Sì. È qui, sta per arrivare, sta per prenderci tutti...
– Anna, perché riconduci il tuo malessere a Samara? Che cos’ha Samara?
– Tu non capisci...
– Dimmelo, Anna. Non lo dirò a nessuno. A me puoi raccontare tutto quello che vuoi. Non ti farò del male.
Ma Anna non ascoltava più.
 
 
 
 
Era da sola in quella stanza. I suoi poteri erano aumentati a dismisura.
L’albero. L’albero era stato impresso nel legno.
E quelle immagini.
Le toccava, incredula.
Ora erano vere. 
Un bagliore folle saettò nei suoi grandi occhi neri di bambina.
Quelle immagini erano reali, esistevano.
E lo sarebbe stata anche lei, ora che era finalmente libera.
Ora che aveva capito, niente e nessuno avrebbe più fermato quel mostro che era dentro di lei.
 
 
 
– Dobbiamo andare via! Presto!
Cercò di scappare ma la dottoressa la trattenne. I suoi occhi erano bui, perfidi. Non vedeva niente dentro di essi, come fossero stati pozzi scuri e senza fondo.
– Anna, resta qui.
La voce della dottoressa era cattiva, suadente, sibilante. Sembrava un serpente che giocava con la propria preda.
– No! Aiuto!
Gridò, gridò più che poté, ma non servì a nulla. I demoni la accerchiavano, gli occhi di Samara la controllavano e lei non poteva più fuggire.
Si guardò intorno disperata.
Non vedeva nulla. Il senso di assenza di via di fuga, la sensazione di essere in trappola la opprimeva e la faceva morire lentamente, in un’agonia insopportabile.
Oh Dio oh DIO
Poi, un lampo.
Un lampo nero.
Un lampo di capelli neri.
Samara.
La bambina era apparsa alle spalle della dottoressa, materializzandosi come un fantasma.
Gli occhi di Anna si sbarrarono, impregnati di terrore. Un terrore malvagio, che non le lasciava scampo.
Sembrava tanto uno dei suoi spettri. Solo che non aveva proprio l’aspetto di uno spettro; appariva più come una specie di ologramma, troppo concreto per essere un fantasma ma non abbastanza per essere una persona.
E ciò non fece che alimentare il terrore di Anna.
– Lasciami in pace, ti prego... non farmi del male...
E improvvisamente, fu il buio.
L’aveva uccisa.
 

 
****
 
 
 
Ellie camminava lungo il perimetro del suo studio, sconvolta: poco tempo prima aveva appena assistito ad un delirio psicotico di Anna.  
Aveva capito qual era la gravità della situazione. La sua paziente non migliorava, anzi peggiorava sempre più con il tempo; forse era stata proprio lei a farle questo, ma non voleva pensarci.
Aveva capito che non era un caso di sua competenza, che per la salute di Anna – e anche di Samara – i Morgan dovevano rivolgersi  con una certa urgenza ad altri medici.
 
 
– Non posso più dirle nulla, dottoressa.
– E perché no?
La bambina la guardò con i suoi occhioni scuri. Quegli occhi dolci, profondi, da cerbiatto.
Eppure in quell’istante non avevano nulla di dolce. Sembravano scrutarla, osservarla, imprigionarla.
Era come se lei non avesse più potuto liberarsene.
– Perché ormai il buio si è liberato. Non ha più senso che io venga qui.
C’era della rabbia repressa in quella voce cristallina. Samara teneva lo sguardo fisso su un punto lontano, forse inesistente.
– Samara, ti aiuterò a guarire, okay?
– No. Non può, semplicemente. O morirà.
E la sua voce era tranquilla adesso, ma l’aveva inquietata profondamente.
Era quasi... minacciosa.
 
 
 
 
 
Ellie rifletté. I farmaci che aveva dato alla madre e alla figlia non funzionavano. Samara era di umore sempre più depresso e a lungo andare era diventata aggressiva durante le sedute, mentre Anna era tormentata da allucinazioni terrificanti.
Doveva fare qualcosa.
Si mangiucchiò distrattamente un’unghia: conosceva un numero, un numero che componeva solo per casi estremamente gravi. Ma sarebbe stata la cosa giusta da fare?
La donna fece mentalmente il quadro della situazione: Anna era affetta da psicosi depressiva, con disturbi di contenuto del pensiero e di elaborazione di concetti, allucinazioni visive e uditive, deliri psicotici e pesanti ricadute depressive. Il quadro psicologico era confuso e complesso. Apparentemente non soggetta a disturbi di tipo delirante, cause sconosciute.
Che cosa ti è successo, Anna?
Samara, invece, era l’unico caso di psicosi infantile che aveva avuto in cura. Presentava disturbi di contenuto del pensiero e di elaborazione di concetti, allucinazioni visive e uditive e disturbi dell’umore.
Ci pensò un attimo. Probabilmente là avrebbero saputo cosa fare. E ad ogni modo, lei non poteva più occuparsene dal momento che non aveva ottenuto risultati.
È la cosa giusta, sì.
Compose il numero velocemente e attese. Attese una risposta, con i nervi a fior di pelle, sperando di fare la cosa giusta.
– Dottor Scott, chi parla? – rispose una voce maschile.
– Salve, sono Ellie Grasnik, medico e psicoterapeuta dell’isola di Moesko. Ho due pazienti gravi, una donna e sua figlia adottiva. Mi chiedevo se ci fosse posto per una terapia intensiva; chiedo un trasferimento delle pazienti, per fare in modo che vengano seguite meglio.
– Qual è il quadro clinico? – fece l’uomo in tono pratico.
– Entrambe soffrono di psicosi acuta, la madre con frequenti ricadute depressive. La bambina presenta anche disturbi dell’umore e comportamentali – disse velocemente, tesa.
– La bambina, ha detto? Quanti anni ha?
– Otto.
– Nome?
– Samara Morgan.  E la madre è Anna Morgan.
Sentì qualche secondo di silenzio, interrotto solo da quello che sembrava l’impercettibile scivolare di una penna su un blocco per gli appunti.
– Bene. Le faremo sapere; attualmente abbiamo molti pazienti che soffrono di disturbi psicotici e schizofrenici, ma ci sono tre persone che stanno per essere dimesse, quindi non penso ci siano problemi. Entro qualche giorno dovrebbe ricevere una mia telefonata.
– Grazie dottore, arrivederci – fece Ellie.
E, una volta riattaccato, si lasciò crollare sulla sedia del suo studio.
 
 

Ehilà, persone :)
Eccoci con un altro episodio della mia FF (mostruosamente lungo aggiungerei).
Direi che in questo capitolo abbiamo molta tensione, nel senso che i poteri di Samara si liberano completamente e acquistano una nuova sfumatura non appena scopre la cosiddetta "scatola magica".
Per quanto riguarda Anna, è completamente in balìa delle energie negative emanate dalla bambina, e in questo capitolo ho voluto risaltare molto questa cosa.
La fine, poi, vi lascia intuire che ci saranno molti cambiamenti, come penso abbiate notato :)
Diciamo che ho voluto ricreare una certa tensione emotiva, che d'altra parte è una caratteristica fondamentale di ogni storia horror che si rispetti. Spero di non aver fatto un pasticcio.
Beh, che dire ancora.
Non ho nulla da dire se non, come sempre, un GRAZIE enorme.
Siete fantastici, davvero, e sono così felice che questa storia vi piaccia.
Siete importantissimi, davvero.
Al prossimo capitolo, un bacione,
Stella cadente

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Capitolo 17
*** Eola County – Primo semestre ***


Terza parte





 
Capitolo 17
Eola County - Primo semestre
 
 
Adesso che non aveva più la scatola magica si sentiva un guscio vuoto. I suoi poteri sembravano voler sfondare le pareti del suo corpo e nel suo cervello era tutto un ribollire, come se stesse per esplodere da un momento all’altro.
Tiratemi fuori di qui
La Grasnik l’aveva trasferita insieme alla mamma: ora erano in un ospedale psichiatrico a Eola County, sulla terraferma. Non avevano contatti.
Samara riusciva a stento a sentire la sua presenza nella mente, la sua voce che la chiamava di notte, tutte le notti. Ci riusciva, ma la voce della mamma sembrava quasi spezzata, interrotta, come se la sua mente fosse un telefono con la linea disturbata. Sapeva che sarebbe svanito col tempo e che sarebbe rimasta solo lei.
Sapeva che nella mente, prima o poi, non avrebbe sentito più nulla.
Non si ricordava neanche più quando era avvenuto il trasferimento: per lei era avvenuto tutto troppo in fretta, in quei giorni che ora sembravano così distanti.
Avrebbe preferito di gran lunga starsene ancora nella sua stanzetta a Moesko Island, in cui almeno era lontana dal mondo. Lì invece era costretta a parlare con le persone, a rispondere ai dottori, ad interagire.
Odiava interagire. Lo odiava perché sapeva già in principio che nessuno avrebbe mai capito, e allora le parole le sembravano del tutto inutili.
C’era una telecamera nella sua stanzetta d’ospedale, così simile a quella dell’orfanotrofio.
Loro la sorvegliavano.
La guardavano.
La studiavano.
E lei non osava avvicinarsi perché la telecamera non le piaceva e perché le immagini si riversavano anche lì, in quell’occhio di plastica in cui vedeva se stessa.
Era tutto così bianco, così vuoto, così accecante.
Lei non lo sopportava.
Basta basta basta basta basta
Ricordava che le avevano portato via la mamma e anche le foto. Aveva lasciato la sua vita a Moesko Island dietro di sé; ormai i cavalli, la famiglia, la normalità erano concetti che le sembravano di nuovo estranei.
Anche a Moesko Island aveva rovinato tutto.
Aveva lasciato una scia di morte e distruzione anche dove poteva avere la speranza di essere finalmente una bambina come tante altre.
 
 
 
Richard entrò nella stalla e si sedette accanto a lei.
Samara giocherellava con il suo carillon, guardando assorta i cavallini dipinti a mano che volteggiavano nella giostra dei suoi unici bei ricordi.
– Ciao, papà – disse con voce trasognata.
– Ciao Samara. Sono venuto per dirti una cosa.
– Che cosa? – fece, allegra.
Posso leggerti la mente, posso farlo
Ma nella mente di Richard vedeva solo cose brutte. Medici, domande, oppressione e sofferenza.
Il suo sguardo si incupì di un botto sentendo che Richard esitava.
– Che cosa devi dirmi, papà?
E finalmente si voltò verso di lui, reclinando appena la testa lentamente.
Richard si passò la lingua sulle labbra e prese un respiro.
– Tu e la mamma dovete trasferirvi.
Samara lasciò andare lo sguardo nell’ambiente circostante.
– E dove?
– Sulla terraferma.
– Perché?
Richard sembrò in difficoltà.
– Perché la Grasnik pensa che stiate meglio là. Partirete tra due giorni e starete per qualche mese, per vedere se riuscite a... – indugiò appena – a stare bene. Vi accompagnerò io.
Samara stette per un attimo in silenzio.
– Capisco.
– Samara, dovrai restare sempre in contatto con dei medici, lo capisci questo?
– Certo. Spero di guarire, papà.
Ti faccio paura vero
Richard si scansò lievemente, poi si alzò fingendo calma.
Posso sentire la tua paura
Se ne andò, lasciandola lì, che giocava con il carillon e un sorriso sulle labbra.
 
 
                                    
Era stata a contatto con la mamma, durante il tragitto.
Mamma mamma rispondi, ascoltami
Anna non si era mossa. Ma aveva sentito la sua voce echeggiarle nella testa.
La chiamava. Le diceva che aveva bisogno di lei ma che non voleva le facesse del male.
Samara non farmi male    
Lei non aveva risposto.
La sua mente era rimasta muta, senza risposte.
 
 
 
– Ciao. Tu devi essere Samara, vero?
Una dottoressa giovane, con i capelli mori e gli occhi grigi, la guardava con un bel sorriso gioviale, in un tentativo di metterla a suo agio.
– Ho già sentito queste parole. Non le ripeta per favore.
La dottoressa era rimasta interdetta.
La circondò lievemente con un braccio; a Samara ricordò tanto una stretta materna.
– Ascolta piccola, noi siamo qui per aiutarti, va bene? Quindi è fondamentale che tu ci dia fiducia. Se parli di ciò che senti, poi sarà molto più facile affrontarlo.
Samara la guardò per un attimo con quei suoi occhi innocenti, ma poi distolse subito lo sguardo.
 
 
Sentiva che avrebbe ricordato quel giorno come se fosse sempre vivo sulla sua pelle, come se la sensazione fosse sempre risalente a solo qualche minuto prima.
Aveva ancora il senso di nausea che l’aveva pervasa quando il pomeriggio precedente era entrata in quella clinica psichiatrica, il modo in cui le era sembrato tutto troppo bianco e opprimente.
 
 
– Ciao Samara, sono il dottor Scott. Sarò il tuo psichiatra personale per tutto il tempo che resterai qui. Ti chiedo di collaborare più che puoi, di concentrarti e cercare di dirmi ciò che senti, va bene?
La bambina continuò a guardarlo con occhi vuoti.
– Intanto, per cominciare, tieni questo quaderno.
Le porse un piccolo quaderno dalla copertina di pelle, che Samara prese perplessa.
– Scrivici quello che pensi, se può aiutarti, d’accordo? Faremo la prima seduta tra qualche ora.
Annuì.
– Bene. Adesso ti porterò nella tua stanza.
Le prese la mano e la scortò in un lungo corridoio tetro.
Lontana dalla mamma.
Lontana da tutti.
 
 
 
 
La stanza era spoglia, c’era solo un letto in un angolo e un orologio appeso al muro che scandiva la sua sofferenza.
La mamma non era lì con lei.
La seduta non era stata un granché; non aveva risposto a nessuna domanda e questo aveva fatto imbestialire il dottor Scott, che ora l’aveva presa come un affronto personale. Samara sentiva di non sopportare già più quell’uomo arrogante.
La notte le passava davanti, e lei non dormiva. Le lancette dell’orologio giravano e lei era sempre sveglia. Decine di voci le rimbombavano nella testa, urlando richieste d’aiuto.
Aiuto sto male
Aiuto non ho nessuno
Aiuto 
Una voce che veniva dall’altra parte del muro.
La voce di una ragazza.
Aiuto voglio morire
Non ce la faccio più voglio morire
Samara sentì così tanto la sua sofferenza che esplose in un urlo muto, un urlo che veniva liberato solo nella sua testa.
Era furiosa.
Le luci lampeggiarono, come se fossero sul punto di fulminarsi.
Le lancette dell’orologio traballarono.
Le luci si spensero.
Le lancette si fermarono.
Buio.
 
Una ragazza era seduta in un angolo nella sua stanza, raggomitolata su se stessa.
Stava in una posizione chiusa, quasi fetale. Una mano era appoggiata al muro, con l’altra si copriva gli occhi.
Non stava piangendo, ma la sua posa esprimeva tutta la sua tristezza. Samara sentiva che era come se il suo stato d’animo si stesse espandendo. Un vuoto insopportabile, apatia, tristezza, disperazione. Tante cose brutte, tutte insieme.
Sembrava molto indifesa. I capelli neri e lunghi le ricadevano ai lati della faccia, nascondendo il viso.
Quando spostò la mano la vide bene.
Le assomigliava, un po’. A Samara sembrò come una specie di versione di lei più grande.
Ho sedici anni
Quel pensiero le trapanò la mente, rimbombando tra le pareti del suo cervello.
Poi sentì un suono che le lacerò il cuore.
Il suono scivoloso, cristallino e triste delle lacrime che rotolano su una guancia.
La ragazza stava piangendo in silenzio.
Sentiva la sua storia scorrerle nella testa come fosse un filmato.
Era stata lasciata lì dai suoi genitori senza ritegno.
Nessuna delle sue amiche si era degnata di andarla a trovare.
Si sentiva completamente sola.
Non piangere
Lei alzò la testa. I suoi occhi erano pesti, spenti.
Si raggomitolò di nuovo.
Voleva morire.
Le era stata diagnosticata una depressione grave, in seguito ad un disturbo bipolare.
Samara non sapeva che cosa volessero dire tutte quelle cose, ma sapeva che erano cose molto brutte. Vedere quella ragazza così sofferente la distruggeva.
Aveva fasce addosso, tante, in tutto il corpo. Sulle braccia, le gambe, le spalle, il collo, il viso.
Doveva stare veramente male.
Stava male.
Stava molto male.
Il suo nome.
Era come se le fosse stato marchiato nella mente.
Susan Smith.
Voglio morire non ce la faccio più
 
 
 
****
 
 
 
Quel mattino era raggomitolata sotto al letto. Si sentiva pesta, come se qualcosa le avesse prosciugato le energie. Aveva male alla testa; un ronzio abitava la sua mente, ostinato.
Solo un nome le era rimasto impresso.
Susan.
Susan Smith.
Sentì la porta aprirsi.
– Ciao Samara.
Quella voce.
Quella voce così fastidiosamente familiare. Anche se il dottor Scott sembrava un po’ stanco e spossato, la sua voce rimaneva sempre insopportabilmente ferma e autoritaria.
Nessuna risposta.
– Samara, tra poco abbiamo la seduta mattutina, ricordi? La signorina Lee ha appena finito con tua madre. Ti aspetto tra dieci minuti.
Lo sentì mormorare qualcosa a qualcuno che era lì accanto a lui.
– Passa a vederla tra un po’ e portala tu se necessario.
– D’accordo.
E gli occhi stanchi della bambina ricominciarono a piangere lacrime invisibili.
 
 
 
 
 
La signorina Lee, la dottoressa della mamma che l’aveva vista il giorno prima, l’aveva portata in una stanza bianca e soffocante. Ora era al centro, su una sedia di legno, con una specie di camicia da notte bianca che era stata costretta ad indossare sin da quando era arrivata e che la impacciava nei movimenti. I capelli le ricadevano scomposti sulla faccia nascondendole gli occhi, e si lasciava andare docilmente tra le mani della dottoressa, che le girava le esili braccia pallide sulle quali depositava strani cerchietti di cui non aveva ben capito la funzione.
Il suo atteggiamento esprimeva tutta la sua rassegnazione, ne era certa. Certe volte le sembrava di essere come sottomessa.
Non voleva parlare, non voleva stare lì.
Voleva andare via.
Eppure se ne stava inchiodata a quella maledetta sedia, senza provare nemmeno a ribellarsi.
Voleva solo raggomitolarsi in un angolo e sparire subito.
– Questa è la SM0015, Samara Morgan, quattordicesima ora – disse il dottore, accendendo la telecamera e risvegliandola dai suoi pensieri. Lo sentì premere tasti, impostare la videocamera, zoom.
...la scrutava, la osservava...
Un brivido le attraversò la schiena.
– Molto bene, molto bene – Scott sistemò alcuni fogli e le foto.
Le foto.
Le foto!
– Allora, cos’è che ti tiene sveglia?
Il Buio il Buio mi tiene sveglia non ne posso più
Samara non rispose.
Non poteva rispondere.
– Dovrai dormire prima o poi – continuò il medico. – Sogni qualcosa?
Silenzio.
– Samara?
Ancora nulla.
– Parliamo delle fotografie... Come le hai fatte?
La scatola magica, non posso non posso rispondere 
Silenzio.
Samara strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
– Samara? Come hai fatto queste fotografie?
Le unghie le si piantarono nella carne e lei sentì i palmi pizzicare.
– Io – cominciò, con un filo di voce – non le faccio. Le vedo.
Fece una piccola pausa.
Ti chiedo di collaborare più che puoi, di concentrarti e cercare di dirmi ciò che senti, va bene?
– E poi – continuò – loro... esistono.
Il dottore sembrò spazientito. Sospirò impercettibilmente.
Perché non mi crede?
– Samara, ora devi iniziare a dirmi la verità, d’accordo?
– Posso vedere la mia mamma?
La risposta che ricevette fu come una pugnalata.
– No Samara, non finché non scopriamo cos’hai che non va.
Aiuto mamma aiuto
– Io voglio bene alla mia mamma.
– Sì, certo. Ma non vuoi più farle del male, vero? Non vuoi fare del male a nessuno.
La voce del dottore era in qualche modo rassicurante, sembrava volerla incoraggiare ad aprirsi.
Ma lui non capiva.
No. Nella mia vita non ho mai voluto fare del male a nessuno.
Ma io non vivo più ormai.
– Però lo faccio, e mi dispiace.
Non capisci che è impossibile smettere.
– Questa cosa non finirà.
– Beh, è per questo che sei qui, perché io posso aiutarti a farla finire.
Non è vero. 
I suoi pensieri corsero per un attimo a Richard.
– Mi abbandonerà qui.
– Chi?
– Papà.
– Ma loro vogliono solo aiutarti.
Sta’ lontana da mia moglie!
Che cosa sei tu?
– Non papà.
– Il tuo papà ti vuole bene.
Che cosa hai fatto al mio cavallo?
– Papà vuole bene ai cavalli.
Si zittì per un attimo, perché aveva sentito il dolore formarle un groppo in gola per ciò che stava per dire.
– Lui vuole mandarmi via.
– No, non è vero.
Silenzio.
– Ma lui non sa.
– Che cosa non sa?
Silenzio.
– Samara?
Non voglio.
Un sibilo, uno scoppio.
Il filmato si interruppe e la videocassetta uscì di colpo dal registratore.
 


 


YO
Bene, direi che arrivati a questo punto io stessa mi preoccupo di ciò che scrivo.
Ho problemi mentali e ne sono consapevole.
Però tutto sommato sono contenta di questo capitolo.
Non vedevo l’ora di arrivare a questo punto della storia e spero con tutto il cuore di aver reso giustizia alla situazione descritta, che alla fine in parte è anche quella che ritroviamo nel film.
Spero, insomma, di aver reso bene i pensieri di Samara durante il dialogo con il dottore (è stata in assoluto la mia scena preferita quando ho visto il film :3).
La sua permanenza nell’ospedale psichiatrico di Eola County è, secondo me, un periodo della sua vita molto interessante e al contempo difficile da descrivere.
Adesso - tenendo conto anche dello scorso capitolo - la situazione è nettamente peggiorata sia per Anna che per Samara. La prima è praticamente andata, non riesce a fare niente se non aggrapparsi alla bambina, e la seconda non riesce a riordinare i pensieri e a controllare i suoi poteri (negli ultimi capitoli pubblicati ho voluto mettere in risalto questa cosa evitando, ad esempio, di mettere la punteggiatura nelle parti introspettive di Samara, rendendo così il ritmo più veloce, in modo da far sembrare i pensieri folli, da delirio). Inoltre l’assenza della madre- che ora si sta facendo sempre più accentuata e prolungata- non fa che peggiorare ulteriormente l’equilibrio psichico della bambina, alimentando inevitabilmente la potenza dei suoi poteri.
Dunque, come al solito spero che vi sia piaciuto.
E infine, non smetterò mai di ringraziarvi. Mi avete fatto scoprire un genere che ignoravo di amare e mi spronate sempre a continuare, davvero siete fantastici.
Al prossimo capitolo, vi adoro,

Stella cadente

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Capitolo 18
*** Eola County – Secondo semestre ***


Capitolo 18
Eola County - Secondo semestre


 
La cassetta uscì di colpo dal registratore.
– Ma che...? – il dottor Scott era rimasto interdetto.
– Denney! – chiamò.
Nessuno rispose.
– Denney! – urlò più forte.
Un giovane medico fece capolino nella stanza.
– Sì?
– Senta, mi può aiutare a capire che genere di diavoleria ha fatto uscire la videocassetta interrompendo il video? 
Il giovane aveva un’aria interrogativa. Scrutò un po’ la telecamera, con le sopracciglia aggrottate.
– Non lo so. Non era mai successo prima...
Samara sogghignò impercettibilmente.
Scott restò per un po’ in silenzio mentre il dottor Denney armeggiava con la cinepresa.
– Ha registrato almeno? – chiese poi, ignorando di colpo la presenza della bambina.
– Sì, ha registrato tutto, ma... non so come abbia fatto. Si è completamente fulminata. Mai vista una cosa del genere, prima d’ora.
– Come accidenti fa una videocassetta a conservare la registrazione se si è fulminata?
– Non ne ho idea.
– Posso andare adesso?
La voce di Samara solcò il silenzio.
– No Samara, dovremmo continuare la seduta. C’è solo un piccolo problema ma credo che lo risolveremo presto. Dunque, dove eravamo rimasti? 
– La seduta è finita, dottore.
– Samara, dico io quando finisce la seduta, va bene?
– Dov’è la mamma?
– Non puoi vedere la tua mamma, per ora. 
La bambina restò in silenzio.
Avrebbe tanto voluto ucciderlo. Sapeva che avrebbe potuto, non le sarebbe costato niente comunque.
Ma non ne aveva la forza.
 
 
 
 
 
Samara guardò l’orologio.
Erano le due.
Non dormiva, come al solito. I medici si ostinavano a trovare un perché, una spiegazione, ma semplicemente non c’era. Lei era fatta così, lei non aveva bisogno di sonno.
Non aveva bisogno di dormire.
Lo sguardo della bambina cadde sul quaderno che il dottor Scott le aveva dato all’inizio.
Non ci aveva scritto ancora nulla.
Scrivici quello che pensi, se può aiutarti, d’accordo?
Lo prese tra le mani, studiandone la copertina rilegata in pelle nera. In una tasca unita al quaderno c’era una penna, anch’essa nera.
Non mi serve una penna
Samara aprì il quaderno e disegnò i suoi pensieri sulla prima pagina.
Non sento la mamma ho paura muoio perché penso questo che cosa mi succede
I disegni si componevano sulle pagine bianche e immacolate come terribili quadri oscuri.
Perché stava disegnando quelle cose?
Perché stava immortalando su quel quaderno disegni che le facevano paura?
La sua mente era come un recipiente che veniva riempito con tante cose sconosciute.
Erano immagini che spaventavano anche lei.
 
 
 
– Non può essere un suicidio.
La signorina Lee, quella dottoressa mora con gli occhi grigi che seguiva la sua mamma, stava parlando con un’altra dottoressa sulla cinquantina dall’aria molto professionale.
– Non so che dirti, Catherine. Seguivo Susan e mi ha detto diverse volte che lei voleva la morte, ma non aveva i mezzi per attuare un suicidio. Le erano stati tolti tutti gli strumenti con cui poteva farlo: siringhe, medicinali, oggetti taglienti. Era nel più completo isolamento, nella sua stanza non c’erano neanche finestre così che non si potesse gettare. È un mistero anche per me.
– Quindi non sappiamo com’è morta.
La dottoressa più vecchia sospirò.
– A quanto pare, no. Per quel che mi riguarda, dai risultati che mi hanno dato dell’autopsia, è il solo caso in cui il cuore di una sedicenne si sia fermato così improvvisamente. Nessuno sa dire che cosa sia successo.
La signorina Lee parve preoccupata.
 
 
 
Samara scrisse.
 
 
 
****
 
 
Ospedale Psichiatrico di Eola County, 20 giugno 1979
Stanza 123
Ore 12:30
 
 
 
 
 
– Dunque, Samara. Parlami meglio dei cavalli. Qualcuno ti ha mai detto del perché morivano?
Scott la stava di nuovo sottoponendo ai suoi interrogatori. Non rispose.
– A te dispiaceva?
La telecamera era temporaneamente in riparazione, e le altre non potevano essere usate.
– Samara, dovresti rispondermi se ti faccio delle domande. Stai tranquilla, io non ti giudico. Non devi aver paura di questo.
Almeno non si sentiva osservata dal freddo occhio di plastica della cinepresa.
– Samara.
– Lui uccide le persone – fece la bambina.
– Lui chi?
– Il Buio.
– Il buio uccide le persone? Quindi hai paura del buio, è questo che ti spaventa?
La bambina non rispose.
– Samara? Tu hai paura del buio?
– No.
Il medico la squadrò di nuovo con la sua espressione fredda e irremovibile.
– Parliamo di ciò che ti spaventa allora.
Silenzio.
– Ti spaventa restare da sola al buio?
Lei scosse la testa.
– E allora perché secondo te il buio uccide le persone?
Ancora silenzio.
– Samara.
Silenzio.
– Perché secondo te il buio uccide le persone?
Lei socchiuse gli occhi; le facevano male, sentiva le occhiaie formarle macchie livide sulla pelle.
Voleva piangere, ma ormai non ci riusciva più.
– Perché le trasforma.
La sua voce riecheggiò di nuovo tra quelle pareti claustrofobiche, fatte di piastrelle così insopportabilmente bianche e lucide.
– Cioè?
Nessuna risposta.
– Samara? Com’è che il buio trasforma le persone?
– Che cosa è successo a Susan?
Il medico sembrò raggelato. Si irrigidì dietro la scrivania e prese a trafficare nervosamente con i suoi appunti e i suoi documenti – e le foto ha ancora le foto le foto le foto
Samara si morse appena le labbra, sostenendo lo sguardo del dottore come se niente fosse.
Susan Susan Susan SUSAN
– Chi? – chiese il dottore. La sua voce era ferma come al solito, ma gli occhi erano impregnati di quella che sembrava ansia.
Oh lo sai benissimo di chi sto parlando lo sai benissimo
– Susan Smith.
Scott restò in silenzio per qualche secondo. Samara ne era sicura, era leggermente scosso. Sentiva il suo senso di inquieta perplessità serpeggiarle nelle vene, i suoi pensieri allarmati invaderle il cervello come un fiume in piena.
La sua calma inflessibile si era incrinata appena.
– Cosa sai di Susan?
Silenzio.
– Samara? Chi ti ha detto di Susan Smith?
– Non c’è più, vero? – disse la bambina dopo qualche secondo. – Già da un po’ di tempo.
Aveva la voce incrinata.
Scott si ammutolì.
Intercorsero alcuni secondi di silenzio tra psichiatra e paziente.
– Samara, chi te lo ha detto?
Silenzio.
– Devi dirmelo, va bene? Samara, chi te lo ha detto?
– Nessuno.
– E allora come fai a saperlo?
Si sforzava di mantenere un tono di voce paziente e distaccato, ma si sentiva che c’era qualcosa di represso sotto a quella finta calma.
– Lo so e basta.
– Samara, devi cominciare a dirmi come stanno veramente le cose. Affronta il tuo problema, altrimenti non ne uscirai mai. E per farlo devi parlare. Devi dirmi cosa pensi. Ti rifaccio la domanda: come fai a sapere di Susan Smith? Te lo ha detto qualcuno?
La bambina scosse la testa.
– Qualcuno dovrà pur avertelo detto.
Scosse la testa una seconda volta.
– Lo hai sentito dire da qualcuno?
Di nuovo Samara negò.
– Perché lo sai allora?
– Io...
Si interruppe. Il medico la fissava insistentemente.
– Mi è venuto in mente – disse.
E abbassò lo sguardo, tormentandosi una pellicina.
 
 
 
****
 
 
Ospedale Psichiatrico di Eola County, 20 giugno 1979
Ore 19:30
 
 
 
Il dottor Scott non capiva cos’avesse in testa quella bambina. Si rifiutava sempre di rispondere alle sue domande, qualunque esse fossero. Era impenetrabile, ermetica, e non dimostrava alcun desiderio di farsi aiutare. Il suo atteggiamento durante le sedute denotava chiusura, rassegnazione. Non era disposta a parlare e non intendeva risolvere la sua condizione, come se ormai ci fosse abituata. E poi ciò che gli aveva detto durante la seduta di quel pomeriggio lo aveva inspiegabilmente turbato.
L’uomo sospirò: aveva avuto tanti pazienti chiusi in se stessi e rassegnati alla propria malattia, ma nessuno era come lei.
Quella bambina si era rivelata la paziente più difficile che avesse mai avuto in dodici anni che faceva lo psichiatra. Ancora non aveva capito cosa c’era nella sua testa e come si approcciava al suo problema. Matthew Scott si vedeva davanti tutti i giorni bambini depressi, impauriti, aggressivi, ma lei... era come un miscuglio confuso e disordinato di tutte e tre le cose.
Qualche ora prima aveva raccolto tutti i quaderni del suo reparto. Era entrato nelle stanze dei bambini e si era fatto consegnare i quaderni che aveva dato loro.
Samara lo aveva guardato intensamente quando gli aveva porto il suo; aveva uno sguardo strano, come se avesse paura e al tempo stesso lo stesse sfidando.
Uno sguardo raccapricciante. Lui lo aveva sostenuto, era chiaro, ma non aveva potuto fare a meno di sentirsi a disagio.
Ora si trovava davanti a quel quaderno.
Sulla copertina nera aveva fatto rilegare una scritta dorata che recitava “Samara E. Morgan”.
Aveva paura di aprirlo.
Ma non poteva non leggerlo.
Andiamo, non ti lascerai mica impaurire da una bambina?
No, non poteva farsi condizionare così. Samara era solo una paziente difficile, nient’altro.
Aprì il quaderno e si preparò ad analizzarlo con precisione sin dalla prima pagina.
Ciò che si trovò davanti era molto strano, osservò. La prima pagina del diario era completamente nera. Samara aveva scarabocchiato di nero ogni angolo bianco, fino a che non ne era rimasto nessuno. Ma lo aveva fatto con una precisione minuziosa, che aveva un che di sinistro.
Il dottore voltò la pagina; anche quella successiva era nera.
Completamente nera.
L’unica sagoma che si differenziava in tutto quel nero era una specie di anello bianco, che formava un cerchio al centro del foglio.
Inquietante, pensò.
Le pagine seguenti erano tutte occupate da disegni apparentemente privi di un nesso logico tra loro. Un albero incendiato, un faro, uno specchio (forse quello che aveva a casa), una scala...
Scott riconobbe una sedia di legno su uno sfondo bianco, che doveva essere un riferimento alle sedute in ospedale, e dei corpi scuri su una spiaggia. In un angolo c’era scritta ripetutamente la parola specchio.
Specchio specchio specchio specchio
Quelle immagini erano tutte pervase da qualcosa di oscuro e in qualche modo allarmante, che lo fece rabbrividire appena.
– Cristo santo – sussurrò. Dio solo sapeva che cosa accidenti ci fosse nella testa di quella ragazzina.
Voltò di nuovo pagina e si sistemò meglio gli occhiali sul naso.
C’era scritto qualcosa.
 
 
 
 
20  dicembre 1978
Ore 02:00
 
 
Mi dispiace molto per Susan, perché è morta. Ma loro non sanno com’è morta.
Loro non lo sanno.
Loro non sanno niente.
Però a me aveva detto che voleva morire. Stava molto male e così voleva morire. Lei me lo aveva detto. Ho sentito la sua voce, di notte, e allora ho trovato il veicolo dell'acqua.
Susan voleva morire, e io l’ho fatta tornare indietro.
 
 
 
 
 
 

 
BUON HALLOWEEN, CARISSIMI LETTORI!
Ho pubblicato il capitolo apposta, per questa ricorrenza fantastica.
Veneratemi.
Amo questa festa, così ho deciso di deliziarvi – per modo di dire ahah – con uno dei miei capitoli disturbanti.
Tra l’altro questo è uno dei più inquietanti, ma penso che lo abbiate già capito.
Sto cercando più che posso di far sentire il senso di oppressione che sente Samara, la sua prigionia e la sua tristezza, ma anche il suo essere fuori dalla norma.
 L’umore di Samara è molto cambiato rispetto al capitolo scorso: si è rassegnata, ma ciò non vuol dire che i suoi poteri non si facciano sentire.
Spero che vi sia sembrato tutto, insomma... decente e scorrevole.
Vi è piaciuta la storia di Susan Smith? Mi sembrava giusto inserire anche un altro personaggio durante la sua permanenza ad Eola County, tanto per movimentare un po’ le cose, anche perché ormai credo che per ora dal punto di vista di Anna non scriverò più niente.
 A me era piaciuta come idea, ma ovviamente voi dovrete dirmi che ve ne è sembrato.
Spero quindi, come al solito, che vi sia piaciuto.
Alla prossima,

Stella cadente



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Capitolo 19
*** Eola County – Terzo semestre ***


Capitolo 19
Eola County – Terzo semestre



 
Da quando aveva detto di Susan Smith, le cose per Samara erano – se possibile – peggiorate ancora, e il dottor Scott era diventato ancora più duro e freddo di prima. Le rivolgeva domande assurde, calcava più che mai su quel caso, sul perché lei sapesse di quella ragazza che era morta.
Samara sapeva che il dottore non si era mai trovato niente di simile davanti; il fatto che lei gli restasse sempre indecifrabile lo mandava su di giri, perciò l’aveva assegnata ad altri medici, sballottandola da uno studio all’altro.
Aveva anche parlato con la signorina Lee, quella che seguiva sua madre. Era una ragazza così carina e gentile.
Le dispiaceva non esserle d’aiuto. Ma d’altra parte era lei che non capiva. Lei che, come la Grasnik, si rifiutava di vederla.
Non aveva più senso parlare.
Non doveva parlare.
Se lo ripeteva sempre.
Non devo parlare non devo parlare non devo parlare non devo parlare
 
 
– Dunque, Samara, giusto? – cominciò, rivolgendole un sorriso gentile.
Lei annuì.
– Bene. Tua madre mi parla spesso di te, sai?
Silenzio.
– Davvero?
– Sì.
– Che cosa dice?
– Samara, questo non posso dirtelo.
– Perché?
– Beh, come si dice qui, segreto professionale. E poi ora siamo qui per parlare di te.
Silenzio.
– Senti tesoro, devo farti una domanda – iniziò la dottoressa con la sua voce più dolce.
Samara continuò a  fissarla.
– Però devi dirmi la verità, d’accordo?
Silenzio.
– Com’è che sai di Susan?
– L’ho già detto al dottor Scott, è lui che...
– Samara – la fermò la signorina Lee  – io non ti giudico, puoi dirmelo. Puoi dirmi chi te lo ha detto, non siamo a scuola. Non metterò in punizione la persona che te lo ha detto, se è questo che temi.
– Ma lei non capisce, me lo ha detto lei! – esplose la bambina. – Me lo ha detto Susan!
– Ma se neanche vi conoscevate.
– Io ho solo seguito la sua voce, nient’altro. L’ho sentita.
– E che cosa diceva Susan?
Samara rimase zitta.
Non poteva rivelarsi.
Non poteva.
Eppure le risposte premevano per essere buttate fuori. 
Per un istante guardò un punto a vuoto, cercando tra i pensieri e tentando di metterli in ordine.
Non posso non posso non posso
Non voglio
– Samara.
Guardò la dottoressa.
– Cosa ti diceva Susan?
Silenzio.
– È solo una domanda, non spaventarti.
Probabilmente pensava che la sua percezione della realtà fosse errata o cose del genere. 
– Aveva la depressione.
La signorina Lee sembrò sconcertata.
– Voleva morire. Diceva che non ce la faceva più.
– L’hai vista, hai avuto qualche sua immagine?
– Io...
– Tranquilla. Dimmelo solo se te la senti.
– Aveva i capelli neri, lunghi. E stava molto male.
L’espressione del medico era seria, concentrata. Sembrava che stesse analizzando ogni minima parola con precisione.
– Samara... tu hai sognato questa cosa?
Silenzio.
– Samara.
– Non l’ho sognata... l’ho vista.
La dottoressa assunse un’aria interdetta.
– Quindi hai avuto una visione?
Silenzio.
– Susan era accanto a te o vedevi la scena dall’alto?
– Io...
Si zittì di nuovo.
– Non lo so. Sentivo la sua voce nella testa. Mi ha detto che voleva morire.
La dottoressa era perplessa.
Lo sentiva.
Sentiva le domande che le attraversavano il cervello, la sua mente che si arrovellava per trovare una diagnosi che non riusciva a stabilire con precisione. Le sentì per tutto il tempo della seduta.
Anche dopo.
 
 
L’avevano spostata nel reparto riservato ai pazienti più gravi, quelli che erano ritenuti anche pericolosi. Aveva provato a trattenere la rabbia, quella volta.
Non ci era riuscita.
 
– Samara, tu conoscevi Susan Smith?
– No.
– E allora come fai a sapere di lei? Chi te lo ha detto?
– Nessuno.
– Non è possibile.
– Invece sì.
Scott sospirò.
– Samara, ascoltami bene. È da più di un anno che ti seguo e ancora non ho capito che problema hai. Tu non mi stai dicendo assolutamente niente. Niente che abbia un senso, almeno. Capisco che sia difficile parlarne, ma se non lo fai le cose non miglioreranno. Io ti aiuto, ma tu devi venirmi incontro.
Silenzio.
Samara non riusciva a credere a ciò che il dottore le aveva appena detto. L’impatto di quelle parole era stato talmente forte da toglierle temporaneamente il respiro.
Iniziò a torcersi nervosamente le mani, mentre sentiva come una scossa a livello epidermico attraversarle brutalmente la schiena.
Era rabbia.
Rabbia repressa sotto la pelle, rabbia che doveva essere sfogata e che non poteva più essere trattenuta.
– Samara – la chiamò il dottore.
Lasciami in pace
– Dovresti rispondermi adesso.
Non voglio lasciami in pace
– Per lei non ha senso. Per me sì.
Scott inarcò le sopracciglia.
– Ma io sono il tuo medico. Tutto quello che pensi tu non è reale. Devi capirlo, Samara. Niente di ciò che è nella tua testa è reale.
Samara sentì la rabbia scorrerle nelle vene. L’odio le si attorcigliava in quel cuore ormai saturo di dolore, infliggendole colpi su colpi.
Guardò il vetro che la separava dallo psichiatra, e quello si incrinò subito, per poi spaccarsi in mille pezzi, mentre Scott guardava la scena atterrito.
– Lui non si fermerà mai.
 
 
L’avevano riempita di sonniferi e l’avevano messa in un’altra stanza lontana da tutte le altre, in cui non c’erano finestre.
Era tutta intorpidita; non sopportava di sentirsi così. Eppure c’era qualcosa che la trascinava nella stanchezza, che la faceva sentire pesante, come se andasse giù in un posto buio e freddo.
Il senso di vuoto che provava ora era lancinante.
 
 
– Samara, oggi voglio presentarti una persona.
La dottoressa Jordan, specializzata in psichiatria infantile come Scott, aveva fatto qualche seduta con lei e aveva ottenuto gli stessi risultati di tutti gli altri.
Lei sapeva che le parlavano dietro. Sapeva quello che dicevano.
Terribilmente grave.
La guardò interrogativa, poi il suo sguardo si spostò.
Grave.
C’era qualcuno, oltre lei, nella stanza.
Un bambino. Era biondo, con degli splendidi occhi azzurri, che però sembrava incredibilmente triste.
– Ciao – disse, con una vocina appena udibile.
I suoi occhi erano intrisi di sofferenza, bui, spenti.
Guardami.
La sua espressione divenne impaurita e scappò via dallo studio, gridando parole incomprensibili, mentre la dottoressa gli correva dietro e lei restava in quella stanza bianca in cui c’erano le telecamere a guardarla.
 
 
Il Buio la stava divorando. Rinchiuderla non era servito a niente, solo ad alimentarlo sempre di più.
Ora anche la rabbia – tutto ciò che le era rimasto delle sue emozioni – si stava lentamente ed inesorabilmente affievolendo, lasciandola perennemente stanca.
Non riusciva neanche più a disegnare, a sfogare in qualche modo la sua sofferenza.
Non riusciva a rompere cose, come faceva prima.
Si sentiva bruciare.
Come all’orfanotrofio.
 
 
****
 
 
La porta cigolò e Scott entrò nella stanzetta.
– Samara, come va?
Non rispose.
– Che cosa vuole? – fece la bambina.
La voce le era uscita fuori fredda, strascicata; l’uomo si accigliò subito nel sentirla.
– Oggi hai la seduta con me, Samara. E inoltre – aggiunse – devo fare dei test, per vedere se sei almeno un po’ migliorata.
Teneva in mano qualcosa, un aggeggio che le sembrava bruttissimo e minaccioso.
Lei non rispose.
– Mettiti su questa sedia – disse il dottore con tono neutro. Samara si alzò, ma non appena si sedette si irrigidì; Scott intanto le si era avvicinato e la stava guardando negli occhi.
– Alza la manica della maglia, per favore – fece. La bambina obbedì, e il dottore le pizzicò la carne, tirandola a lungo. Quando lasciò la presa, sulla pelle diafana di Samara era comparso un segno rosso e rotondo.
– Senti qualcosa?
La bambina scosse la testa; l’uomo sospirò e incrociò le braccia, continuando a guardarla. Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Scott chiese:
– Dunque, dove eravamo rimasti l’altra volta?
Al fatto che volevo ucciderti
– Non sei stata molto carina con me.
Muori muori muori muori
– Vedi Samara, non capisco perché non vuoi essere aiutata. Io posso aiutarti, davvero.
Silenzio.
No non lo puoi fare e nemmeno lo capisci
Non alzò lo sguardo, non voleva guardarlo.
– Samara.
Silenzio.
– Io ti ascolto. Quando vuoi parlare dimmelo.
Silenzio.
– La dottoressa Jordan mi ha detto che tu hai fatto terapia con un altro bambino.
– Come si chiama? – chiese lei improvvisamente.
– Questo non posso dirtelo.
– Ma io voglio saperlo.
– Si chiama Michael – disse il dottore dopo qualche secondo. – Come mai lo hai fatto scappare?
Samara non disse nulla.
– La dottoressa Jordan mi ha detto che non appena sei entrata lui è scappato.
– Mi ha chiesto di vedere.
– Vedere cosa?
Per un po’ Samara non disse niente.
– Me.
– Voleva vedere te?
– Sì.
– In che senso? Voleva sapere ciò che pensavi, ciò che avevi?
– Sì.
– E come hai fatto a capirlo? La dottoressa mi ha detto che Michael ti ha solo salutata.
– Sì.
– E allora come fai a sapere che voleva vedere come stavi?
– Me lo ha detto con gli occhi.
– Con gli occhi?
– Sì.
– E perché è scappato, secondo te?
– Perché non gli piaceva quello che vedeva.
– Ho capito.
– Lei vorrebbe vedermi, signor Scott?
– Cosa?
– Vuole davvero sapere come sto?
– Certo.
Il dottore cominciava a sentirsi a disagio, anche se non voleva farlo vedere... ma lei lo sentiva lo stesso. Sentiva che non poteva sfuggirle.
Improvvisamente la rabbia tornò come una vampata di calore.
Si concentrò e ammirò l’uomo che si lasciava cadere lungo la porta mentre piangeva disperatamente, in preda al panico. Le urla erano agghiaccianti, come se lo stessero scorticando vivo.
Sotto quelle urla, quasi impercettibile, Samara rideva, contenta.


 
 
 
 
Scusatemi tantissimo per il ritardo, ma non ce l'ho fatta a postare prima, avevo un sacco di cose per la testa.
Ad ogni modo, eccoci qui (sto postando in un nuvoloso giorno di pioggia, che bello :3).
La storia adesso ha preso una piega decisamente horror, questi sono i capitoli più inquietanti credo - o che almeno dovrebbero esserlo - perché Samara ha tanta rabbia in corpo e non trova altra maniera che quella di manifestarla con i suoi poteri paranormali.
Questo è anche un capitolo in cui si percepisce l'immensa tristezza della nostra piccola protagonista, a me fa tanta tenerezza..
Poi che ve ne è sembrato dell'improvviso "sfogo" con Scott? Sono ansiosissima di leggere i vostri commenti. E come sempre, spero vi sia piaciuto :)
Alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 20
*** Eola County – Quarto semestre ***


Capitolo 20
Eola County - Quarto semestre
 


– Sì, lo so. No, non è qui. È già andato via, ha avuto un congedo. Non lo so, ma credo che sia una cosa lunga.
La dottoressa Jordan parlava al cellulare con qualcuno, probabilmente un familiare di un paziente di Scott.
– Certo. Arrivederci.
Nessuno all’infuori di lei sapeva che cosa fosse successo quel giorno, ma quello che Samara aveva percepito era che l’ospedale si stava lentamente riempiendo di persone che la temevano. La sentiva, quell’inquietudine che serpeggiava tra i medici, quell’ostilità che ostentavano durante le sedute.
La dottoressa Jordan non aveva più provato a fare terapia di gruppo con lei, da quella volta. Girava ormai la voce in tutto l’ospedale che Samara fosse un soggetto particolarmente difficile e il comportamento dei dottori era inevitabilmente cambiato. Cercavano di dimostrarle che volevano aiutarla, ma nei loro cuori Samara vedeva solo paura. Non c’era interesse, non c’era nemmeno pietà ormai.
Mostro.
– Allora Samara, parliamo ancora di tuo padre.
Samara sollevò appena lo sguardo.
– Cosa pensi di lui?
– Papà mi vede come una minaccia.
– Non credo che sia così.
Che ne sai tu non sei dentro il suo cuore il suo cuore è nero oh se è nero
– Sì invece. Ha paura di me.
– Perché dovrebbe aver paura?
– Perché i cavalli sono morti.
La signorina Jordan dette un’occhiata ai fascicoli del ranch. Samara detestava il fatto che la sua vita fosse di dominio pubblico, là dentro. Non la smetteva mai di sentirsi osservata.
– E cosa c’entra con te?
– Sono stata io.
Il medico allargò appena gli occhi in un’espressione sorpresa.
– Tu hai ucciso i cavalli?
– No. Ma loro mi hanno fatto vedere delle cose.
– Che cosa ti hanno fatto vedere?
La sua voce tremava appena.
– La morte.
– Cioè?
– Volevano morire. E poi sono morti.
– Come?
– Nell’acqua.
Sentiva la paura crescere nella dottoressa, ma non le importava.
Voleva solo evadere.
Fuggire.
Non essere più lì.
 
 
 
****
 
 
 
Claire Jordan si trovava nel suo studio ad analizzare qualche fascicolo sulla figlia di Anna Morgan. Era alquanto turbata da Samara.
Non che non fosse abituata a risposte prive di senso o particolarmente macabre; in fondo, anche se aveva un’esperienza relativamente minore rispetto ad altri suoi colleghi, era da qualche anno che lavorava come psichiatra infantile e non si lasciava spaventare facilmente. Era abituata ad analizzare minuziosamente ogni dettaglio, ad entrare nella testa dei suoi piccoli pazienti, ma quella ragazzina rimaneva imperscrutabile.
Ed aveva qualcosa, ne era sicura.
Ma non una malattia, no.
Samara aveva qualcosa di strano addosso.
Qualcosa di malvagio.
Lo sentiva, sentiva l’odio, la sofferenza e la cattiveria spandersi dal suo piccolo corpicino durante le sedute.
Inoltre non le tornava il fatto che Matthew Scott, psichiatra infantile con dodici anni di esperienza alle spalle, si fosse improvvisamente congedato dopo una seduta con lei.
Nessuno dei suoi colleghi le credeva, quando esponeva questa tesi; alla fine non era per niente attendibile, non c’erano prove, eppure Claire era convinta che quel buio di cui parlava la bambina non fosse una malattia mentale.
Era qualcosa che esisteva. Qualcosa che si era annidato dentro di lei da chissà quanto tempo e che niente sarebbe mai riuscito a rimuovere, nemmeno gli antidepressivi, gli stabilizzanti e i farmaci contro la psicosi che le venivano somministrati regolarmente.
Era assurdo, eppure quegli occhi vuoti la convincevano del fatto che fosse vero con il passare dei giorni.
Non avrebbe mai dimenticato quella paziente. Il suo ricordo le sarebbe sempre rimasto addosso, come un’impronta scura e indelebile.
Lo sapeva già.
 
 
Senti Claire, Matthew ha chiesto il congedo.
Cosa?
Già, non riesco a spiegarmelo nemmeno io... sembra sconvolto. Ha detto che vuole stare da solo. fece Catherine Lee, distogliendo lo sguardo con aria grave.
E scusa, non ti ha detto nient’altro?
No. Non l’ho mai visto così turbato in quasi sette anni che lavoro qui.
Gli hai chiesto il perché almeno?
Certo che gliel’ho chiesto, è il mio lavoro cercare di capire come sta una persona ribatté Catherine stizzita, passandosi una mano tra i corti capelli scuri.
E...? fece Claire, dopo qualche secondo di silenzio.
E niente. Mi ha solo detto che è convinto di non saper più curare i suoi pazienti e che vuole andarsene. Non ha precisato che cosa sia successo esattamente. Nessuno sa cosa diavolo sia stato a fargli cambiare idea. E poi l’ho sempre visto come un uomo dotato di molta pazienza e polso al tempo stesso. Sinceramente, non ne ho idea, Claire.
La dottoressa stette qualche secondo a pensare.
Chi è stato l’ultimo paziente con cui ha fatto una seduta?
Andiamo, non crederai che se ne sia andato perché un paziente lo ha minacciato? Voglio dire, Matthew si occupava di bambini, non penso che...
Chi è stato l’ultimo paziente con cui ha parlato, Catherine? insistette Claire, con più decisione.
Samara Morgan, mi pare. La figlia di Anna. Ma che c’entra con la sua dimissione, che è successo?
Claire sospirò.
Niente. E’ solo stress, sai com’è. Adesso sono io ad avere in cura quella ragazzina.
Un soggetto difficile, vero? disse Catherine con aria comprensiva. L’ho seguita anche io, per un po’.
Già. Un soggetto difficile ripeté Claire.
Dentro di sé, però, sapeva che Samara non era solo quello.
 
 
Claire passò in rassegna per l’ennesima volta i fascicoli del Morgan ranch relativi alla morte improvvisa ed immotivata di tutti i cavalli, gli articoli su Anna Morgan e su Samara.
 
 
CERTIFICATO DI ADOZIONE – DICEMBRE 1977
Nome: Samara 
Madre naturale: Evelyn Osorio
Cognome adottivo: Morgan 
Età: 7 anni 
Data e luogo di nascita: 8 febbraio 1970 / Washington Baptist Hospital, King County 
Residenza: Moesko Island (Stato di Washington) 
Cittadinanza: Statunitense 
Peso: 42 kg (circa) 
Capelli: neri 
Occhi: neri
Statura: 1 metro e 63 cm 

 
 
CERTIFICATO MEDICO DI AMMISSIONE ALL’OSPEDALE PSICHIATRICO DI EOLA COUNTY
 
Nome completo: Samara Evelyn
Cognome naturale: Osorio
Cognome (adottivo): Morgan 
Padre (adottivo): Richard Morgan
Madre (adottiva): Anna Morgan
Età: 8 anni 
Data e luogo di nascita: 8 febbraio 1970 / Washington Baptist Hospital, King County 
Residenza: Moesko Island (Stato di Washington) 
Cittadinanza: Statunitense 
Peso: 42 kg (circa) 
Capelli: neri 
Occhi: neri
Statura: 1 metro e 63 cm 
Medico personale: Dtt.ssa Ellie Grasnik, residente a Moesko Island
 
Diagnosi: grave psicosi con comportamenti aggressivi e deliri, disturbo bipolare e forte schizofrenia.

 
Ciò che la lasciava sorpresa però erano gli articoli sui cavalli. Claire se li era procurati per vedere in che contesto era cresciuta la bambina e se la sua situazione dipendesse da dei maltrattamenti che aveva subito in casa, ma si era ritrovata davanti a qualcosa di sconcertante.
Gli animali si erano suicidati tutti, a partire dal Maggio 1978. Anna Morgan intanto aveva cominciato a soffrire di disturbi simili a quelli della figlia, aveva smesso di cavalcare ed era sprofondata in una grave depressione, con ricadute frequenti e pensieri suicidi.
Dalla schizofrenia e la psicosi non si guariva, Claire lo sapeva. Ma Samara non aveva mai dimostrato di essere almeno un po’ intenzionata a migliorare la sua condizione.
Interessanti erano anche le informazioni relative all’orfanotrofio: una ragazzina dal comportamento antisociale, esclusa, poco loquace. Un’emarginata, evitata da tutti. Le donne che si occupavano di lei sembravano sollevate dal fatto che se ne fosse andata, senza un motivo apparente. Non aveva amici.
E soprattutto, la madre biologica era morta prima che lei potesse anche solo riconoscerla; Samara non aveva mai avuto una figura materna nella sua vita fino all’adozione.
Normalmente avrebbe giustificato il suo atteggiamento con tutta quella serie di traumi che aveva subito in passato, ma stavolta era diverso.
Samara non era malata.
In realtà, non sapeva che cos’era.
 
 
 
12 maggio 1978
 
FANTINO FERITO DURANTE UNA GARA
 
La competizione equestre che ha avuto luogo ieri a Shelter Mountain, Moesko Island, ha avuto un esito del tutto inaspettato, che ha seminato terrore tra gli spettatori.
Tom Ramirez, fantino di professione, è stato aggredito dal proprio purosangue durante una corsa. Le cause sono sconosciute; l’animale in corsa, che sembrava come impazzito, ha investito in pieno l’uomo, che ha perso conoscenza e ora è ricoverato in ospedale in gravi condizioni.
Gli spettatori affermano che Anna Morgan, che aveva in braccio la figlia, abbia assistito inerme alla scena mentre tutti andavano in panico. L’appassionata allevatrice di cavalli, conosciuta in tutta l’isola per la grandezza del suo ranch, è fuggita di fronte alla scena con la bambina, dileguandosi in poco tempo.
Nessuno è intervenuto e nessuno si aspettava da parte sua una reazione simile. Si sospetta che dietro al comportamento del cavallo ci sia la signora Morgan, che potrebbe aver drogato l’animale per “vendicarsi” della sua condizione che l’ha portata all’impossibilità di cavalcare.
 
Esaminò ancora una volta un paragrafo dell’articolo sui cavalli del Morgan ranch.
 
I° giugno 1978
 
MORGAN RANCH: GLI ISPETTORI CERCANO RISPOSTE ALL’ANNEGAMENTO DI UN SECONDO CAVALLO
 
 
Al Morgan ranch il panico si semina sempre di più. L’epidemia che fa morire misteriosamente i cavalli dilaga con il tempo e ha conseguenze sempre più disastrose.
Il Morgan ranch si sta lentamente sfaldando. Gli animali sembrano essere impazziti per un motivo sconosciuto: sfondano i recinti e si recano verso il mare, dove poi annegano.

 
 
– Assurdo – sussurrò.
Qualcosa, in quegli articoli, le dava ansia, senza che lei ne capisse il perché.
Com’era possibile che quelle catastrofi fossero avvenute tutte insieme? Erano solo coincidenze?
Claire evidenziò la frase che l’aveva colpita.

 
Gli animali sembrano essere impazziti per un motivo sconosciuto.
 
 
Motivo sconosciuto.
Motivo sconosciuto...
Possibile che nessuno avesse effettuato un’autopsia sugli animali morti? Tutto ciò non tornava.
Claire si passò una mano tra i capelli, riflettendo.
C’era qualcosa dietro a tutti quegli eventi, ne era sicura. Ma cosa?
 
 
****
 
 
Samara era di nuovo nella sua stanzetta spoglia.
Da sola.
Completamente sola, ad ascoltare il silenzio.
In lontananza, sentiva una mente che lavorava. Non riusciva a distinguere di chi fosse, ma poteva avvertire i pensieri che scorrevano, le supposizioni, le domande, le riflessioni...
Chi è?
D’un tratto, nella sua mente comparve un viso familiare.
Capelli castani e corti, occhi nocciola, sguardo indagatore.
La dottoressa Jordan.
Stava pensando a lei.
E lei sapeva che cosa doveva farle vedere.
 
 
 
Aveva visto qualcosa.
Era stato come un lampo.
Un lampo di fiamme accecanti che le era apparso in testa.
Un tronco...
 
 
Lei lo aveva visto...
 
 
Riusciva a distinguere un albero.
Un albero nero e sottile, vivo nella sua testa.
 
 
Lo aveva visto...
Sentiva la sua mente allarmata, vedeva i suoi pensieri.
 
Che cos’è?
 
Samara doveva imprimerlo. Lo aveva visto nella sua mente. E non sapeva perché e le faceva paura, ma doveva, doveva imprimerlo.
Lo aveva disegnato anche sul quaderno di Scott.
La bambina poggiò la mano sulla parete e la carta da parati di un grigio slavato si strappò, componendo quella figura che si arrampicava lungo la stanza, sulle pareti, sul soffitto.
 
 
 
 
 
– Claire! Claire!
Un grido allarmato scosse Claire Jordan da quella specie di trance in cui era caduta.
– Che succede?
Catherine fece interruzione nel suo ufficio trafelata.
– Non ce la faccio Claire... – pianse Catherine.
Il volto le era sbiancato talmente da apparire terreo, cadaverico, e gli occhi spalancati in un’espressione sconvolta le davano un’aria schizzata.
Si accasciò a terra come se fosse svenuta in quell’istante.
– Catherine! Che è successo?
– Non ce la faccio...
– A fare cosa?
– Quella bambina... Claire... oh Signore...
– Dimmi che è successo! – fece lei alzando la voce, sempre più allarmata.
– Ha... ha disegnato qualcosa. C’è qualcosa sulla parete... lei ha toccato il muro e si è strappato tutto e io ho visto...
– Fammi vedere. Che cosa ha fatto?
Catherine le porse una mini videocassetta, di quelle che inserivano nelle telecamere per tenere d’occhio i pazienti.
– Guarda – disse solo.
E scappò via, con ancora un’espressione di puro terrore in viso.
– Catherine! – chiamò lei.
Nessuna risposta.
 
 
Fissò la videocassetta.
Aveva paura. Vedere Catherine ridotta in quel modo era stato devastante, e la cosa l’aveva lasciata scossa. Era rimasta pietrificata.
– Dio... – sussurrò, sconvolta.
Cosa poteva aver fatto Samara?
Cosa poteva essere successo di così terribile da far letteralmente impazzire un dottore?
Se ne stava lì con la cassetta davanti e una paura innaturale che prendeva lentamente il sopravvento sul suo cervello.
Una paura paralizzante.
Tirò un breve sospiro e inserì la videocassetta nel registratore, con il cuore a mille. Quando si decise a premere play, la figura di Samara si materializzò nello schermo davanti ai suoi occhi.
La bambina era nella sua stanza e guardava l’orologio.
Niente di nuovo.
Spostò la sua attenzione sulla porta.
Niente di nuovo.
Si sedette davanti alla porta.
Niente di nuovo.
Poi alzò di scatto la testa.
Si voltò verso la telecamera.
E sorrise, lentamente, incurvando le sue labbra in una mezzaluna rossa e screpolata.
Quello era un sorriso che non aveva niente che si potesse ricondurre ad una bambina di nove anni.
Era un sorriso cattivo.
Un sorriso che fece rabbrividire violentemente il medico.
La bambina appoggiò lentamente il palmo della mano sul muro e la carta da parati iniziò a strapparsi componendo una figura.
E Claire si sentì come se ogni sua cellula stesse schizzando via alla velocità della luce, fino a che non rimase più niente.
 
 
****
 
 
– Secondo me un po’ d’aria fresca le farebbe bene. È in cura da due anni e non ha raggiunto neanche il minimo miglioramento qua dentro. Propongo di dimetterla, e stessa cosa vale per la madre, che è nella medesima situazione.
La dottoressa Hale stava spiegando la sua opinione con la sua solita aria professionale, mentre tutti gli altri stavano in ascolto.
– Sì ma a quanto ne so è un soggetto molto difficile. Potrebbe aggredire qualcuno – obiettò Nick Denney, un giovane dottore che aveva fatto un paio di sedute con la bambina.
Claire era praticamente assente, come se quella riunione fosse appartenente ad un altro mondo. Continuava a vedere quelle immagini, quell’albero, quel sorriso, quella bambina.
Non voleva più averla lì. Sentiva la sua influenza negativa che le si appiccicava addosso ad ogni istante che passava.
Il buio.
Quello che aveva visto l’aveva lasciata scioccata.
Che cosa ho visto?
Sto impazzendo?
È così che ci si sente quando si diventa folli?
– Claire?
Lei sollevò lo sguardo.
Amanda Hale la squadrava perplessa.
– Che ne pensi?
– Mandatela via – le rotolò fuori di bocca.
Amanda la osservò con apprensione.
– Ti senti bene?
– Sì. Ma è una paziente troppo difficile da gestire. Per me le dimissioni sono d’obbligo.
– Senti Claire, so che è stressante doversi occupare sempre di una paziente del genere, ma ti ricordo che sei stata tu a voler assumere questo impegno. Adesso vuoi dimetterla?
– Sì – ribatté lei, con fin troppa decisione.
– E perché?
– È successo qualcosa? – fece Ryan Collins, che fino a quel momento non si era mai espresso.
Claire scosse la testa violentemente e Amanda la guardò in modo strano.
– Vuoi riposarti, Claire? Vuoi andare a casa?
– No. Solo... – fece, tentando invano di recuperare la lucidità – penso che quella bambina debba essere dimessa. Per il suo bene – concluse con un sorriso un po’ tirato.
– Per il suo bene – ripeté Amanda. – Sei sicura?
– Beh – si intromise Ryan – in fin dei conti sappiamo tutti qui che non parla mai. Da quando Scott se ne è andato abbiamo tutti sostenuto almeno una seduta con Samara, e la situazione non fa che peggiorare. Probabilmente il senso di reclusione la opprime e la fa stare peggio.
– Non ho mai visto una cosa del genere – aggiunse Nick.
– Nemmeno io, ma – concordò Tess Green – dobbiamo pensare alla salute di quella bambina. Anche secondo me è meglio che torni a casa. Potremmo far passare un po’ di tempo e continuare le sedute con lei direttamente a casa sua, così da non farla sentire a disagio – propose la donna con tono sicuro. – Magari così riuscirà a migliorare.
Claire tremò violentemente mentre fissava un punto lontano. Quando distolse lo sguardo vide gli occhi blu di Ryan che la fissavano.
– Seriamente Claire, tutto okay? – le chiese l’uomo sottovoce, preoccupato.
– Sto bene.
Non era vero, ma non poteva dire loro che cosa fosse successo.
Non posso parlare.
Guardò verso il posto di Catherine.
Vuoto.
– Ehi, qualcuno sa perché Catherine non è venuta? – fece Charlotte Conroy, che fino a quel momento non aveva detto nulla.
Claire rimase in silenzio mentre gli altri scuotevano la testa con aria interrogativa.
Perché  è rimasta sconvolta.
Perché quella bambina non è umana.
Non ha niente di umano.
Le voci degli altri medici che parlavano disordinatamente le sembravano solo echi lontani, suoni ovattati e confusi.
– Dunque, le dimissioni di Anna Morgan e Samara Morgan sono accordate? – chiese Amanda, guardando negli occhi tutti e venti i dottori seduti al grande tavolo.
Tutti annuirono, parlando tra di loro.
Amanda la fissò con tenacia, come se da lei si aspettasse qualcosa.
– Claire?
Lasciatemi sola...
Voglio andare via...
Claire ricambiò lo sguardo.
– Certo. Accordate – riuscì a dire.




 
 
 

Ehilà :D
Eccomi di nuovo qui.
Mi dispiace per i tre giorni di ritardo, ma ero davvero molto impegnata.
Veniamo a noi.
Samara crea di nuovo un po’ di scompiglio, in questo capitolo – un po’ tanto, veramente. Cosa pensate che succederà?
Sono ansiosissima di leggere i vostri commenti. Fatevi sentire numerosi, sappiate che le vostre parole possono solo essermi di incoraggiamento.
Non smetterò mai di ringraziarvi, davvero ^-^
Grazie mille per ciò che mi scrivete e per il supporto che mi date ad ogni capitolo.
Un bacione enorme :*

Stella cadente
 

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Capitolo 21
*** Il rilascio ***


Capitolo 21
Il rilascio
 

Eola County, 5 aprile 1980

 
Samara aveva smesso di credere che sarebbe potuta uscire finalmente da quel posto orrendo; ormai era abituata alle domande dei medici, alle sedute, alle urla che provenivano dalle altre stanze.
Non sarebbe più uscita, perché loro volevano tenerla prigioniera. Era bloccata.
La porta cigolò e la bambina sobbalzò.
– Samara – era la dottoressa che...
L’ho vista.
L’ho già vista.
– Sono la dottoressa Hale.
Lei è la dottoressa di SUSAN
Samara sbatté le palpebre una volta.
SUSAN
– Lei è la dottoressa di Susan, vero? – le uscì di bocca.
– E tu come fai a saperlo? – le disse la donna con un leggero sorriso sulle labbra.
Era un sorriso che non aveva nulla di amichevole o divertito; esprimeva semplicemente perplessità.
Samara si dondolò da un piede all’altro.
– Lo so – mormorò solo.
La dottoressa Hale la guardò per un secondo che le sembrò eterno.
– E come, scusa?
Lei non rispose.
– Sono qui per darti una notizia comunque – si ricompose il medico. – Tu e tua madre state per essere rilasciate.
Samara socchiuse gli occhi. Non le sembrava neanche di aver sentito bene.
– Rilasciate?
– Sì.
– Perché?
– Perché riteniamo che potresti stare meglio all’aria aperta, dove puoi rilassarti e fare in modo di guarire da sola. Qui invece è tutto così chiuso... non è vero?
La bambina annuì con la testa, ma non disse nulla.
 
 
 
Staccarsi dalla clinica psichiatrica fu come pensare di staccarsi dal Buio.
Impossibile.
Mentre usciva aggrappata al braccio di Richard, che stava freddo e immobile, sentiva che quell’ambiente, quei ricordi, quelle pareti strette e quelle telecamere le sarebbero sempre rimasti impressi nella testa, esattamente come aveva già previsto.
Non l’avrebbero mai lasciata.
La luce del sole proveniente dalla porta, pura e chiara, le sembrava così accecante e così irreale.
Poi le venne in mente.
Un’immagine.
Un’immagine che aveva sempre voluto vedere e che ora era vera.
Vederla davanti ai suoi occhi così reale le dava un senso di potere assoluto che la inebriava.
Sentiva un formicolio di intensa soddisfazione pervaderle le guance e la schiena... era persino meglio di quei cornetti alla crema che i suoi genitori le avevano portato tanto tempo prima.
Un’immagine molto divertente...
Divertente.
Divertente...
Divertente!
– Dottoressa!
Chiamò la signora Hale, che la aveva accompagnata ed aveva fatto firmare a Richard tutte le carte necessarie.
– Dimmi, Samara.
La bambina fece un gran sorriso.
– Lo sa che Matthew Scott è morto?
 
 
****
 
 
Il tragitto di ritorno a casa fu silenzioso, ma a Samara non dava più fastidio il silenzio.
Quegli anni passati in manicomio che le erano sembrati eterni l’avevano inevitabilmente cambiata; adesso era tutto diverso, e allo stesso tempo tutto uguale. Non provava più nulla, era totalmente priva di emozioni, come se il suo cuore così sensibile e vivo le fosse stato portato via da qualcosa.
Ora restava solo una tristezza schiacciante, alienante, che la rendeva assente.
Non si aspettava che le cose migliorassero.
Non si aspettava niente di niente, per dir la verità.
Sapeva perché l’avevano rilasciata. Sapeva perché lo avevano fatto.
Lo avevano fatto per mandarla via.
Lo avevano fatto per liberarsi di lei.
Matthew Scott è morto Matthew Scott è morto Matthew Scott è morto...
 
 
 
– Ciao papà – ruppe il silenzio.
Sentire la sua stessa voce fu insolito. Non era più uscita dalle sue labbra rosee ultimamente ed era... cambiata.
Da dolce, timida e insicura era diventata seria, assente... diversa. Era la voce di una bambina strana, era la voce di un mostro.
Mostro!
La mamma era scappata via in camera, senza degnarla di uno sguardo.
Mamma mamma perché fai così mamma
– Ciao Samara – fece lui, visibilmente teso.
Restava davanti a lei, come se qualcosa lo avesse immobilizzato.
– Non vai dalla mamma?
– Tua madre è andata a riposare – disse solo.
Sento che hai paura, papà.
– Dimmi, come sta la mamma? È migliorata?
Richard si passò la lingua tra le labbra e deglutì, mentre la bambina lo perforava con lo sguardo.
– Purtroppo no, Samara.
Lei accennò ad una breve risata, sostenuta e derisoria.
– Buffo. Mi avevi detto che lo avrebbe fatto.
– Sì, ma non è successo. Sembrava che lo avesse fatto però... – balbettò Richard.
– Ho capito benissimo, papà – lo interruppe lei, evidenziando con una nota quasi ironica la parola “papà”.
Richard non disse nulla. Respirava affannosamente, anche se cercava di nasconderlo.
Hai così tanta paura che scapperesti adesso oh sì
– Vado nella mia stanza! – esclamò, riacquistando il suo solito tono leggero e spensierato di bambina che aveva fino all’anno prima.
Era contenta, perché tra poco avrebbe visto Matthew Scott, e Matthew Scott avrebbe visto lei.
 
 
 
 
Moesko Island, 6 aprile 1980
Ore 3:00
 
 
Anna era in dormiveglia ed aveva paura.
Aveva paura del contatto con Samara. Aveva paura che adesso fosse ritornato tutto come prima, che avrebbe di nuovo annegato nella sua follia. Samara non era riuscita a raggiungerla, all’ospedale, ma adesso poteva. Adesso poteva torturarla con le sue immagini, le sue sensazioni, e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Chi poteva aiutarla, se nemmeno i dottori ne erano venuti a capo? Chi poteva aiutarla se quello che le stava accadendo non aveva minimamente a che fare con strane patologie psichiatriche?
Chi avrebbe potuto salvarla da quelle immagini?
Con il cuore che sembrava pulsarle anche nelle tempie, aspettava il momento in cui l’avrebbe colpita.
 
Round we go, the world is spinning,
When it stops it’s just beginning...
Sun comes up, we live and we cry,
Sun goes down and then we all die...
 
Anna si girò nel letto. Cos’era quella cosa, quella canzone che le si ripeteva nella testa?
Che cosa voleva?
Cosa voleva quella bambina da lei?
Non avrebbe mai smesso.
Mai.
Nessuno le credeva. Era sola, ed era ritenuta una pazza con gravi problemi mentali in più o meno tutta l’isola.
Avrebbe dovuto agire per conto suo.
O avrebbe fallito.
 
 
 
Samara guardava lo scorrere incessante dell’orologio.
Moesko Island, quella terra così familiare, era immersa nella notte buia e senza tempo di un giorno d’aprile.
Chiamava la sua mamma.
Cercava di farle capire.
Doveva capire.
Doveva capire che cosa doveva fare.
 
 
 
 
Sentiva un crepitio, come se il legno stesse bruciando.
Il legno stava bruciando.
Anna si voltò e fissò il muro.
La parete di legno chiaro stava scoppiettando e un sentiero di tracce carbonizzate si disegnava sulla superficie scura. Camminava, si alzava, si arrampicava, dando forma ad una figura.
La stessa figura.
Sempre la stessa.
Quella che popolava i suoi incubi ormai da tempo.
L’albero rosso era di nuovo lì, marchiato a fuoco nel muro e nella sua mente.
 
 
 
Ospedale Psichiatrico di Eola County, 6 aprile 1980
Ore 3:00
 
 
La televisione di quello studio nel lungo corridoio bianco stridette e scattò.
Lo schermo si tinse di bianco, nero e grigio.
 
 
CERTIFICATO DI MORTE
 
Cognome: Scott
Nome: Matthew
Nascita: 20 maggio 1937
Decesso: 5 aprile 1980
Firmato da: Allison Green, moglie.
 
Informazioni sulla morte: suicidio.
 


 
Mi scuso tantissimo per il ritardo, ma non è uno dei periodi migliori per me.
Non sono riuscita a pensare alla scrittura in questi giorni che mi sono sembrati un'eternità.
Dovete scusarmi, magari non vi interessa, ma volevo solo spiegarvelo, tutto qui.
Tanto per dare un perché a questa cosa.
Spero comunque che il capitolo vi sia piaciuto, come mi auguro sempre.
Lo so, è corto, ma credevo che fosse abbastanza incisivo così com'è, quindi non l'ho allungato.
Ad ogni modo ditemi che ne pensate, siete sempre fantastici ^^
Alla prossima,

Stella cadente

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Capitolo 22
*** Shelter Mountain ***


Capitolo 22
Shelter Mountain

 
 
 
 
Moesko Island, 8 aprile 1980

 
 
Anna era davanti alla stalla, e stava per aprire quella pesante porta.
Un tempo non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farlo, ma adesso, adesso che sapeva chi c’era dietro a quella porta, le sembrava l’impresa più ardua del mondo.
Non voleva avere paura, perché sapeva che lei sentiva la paura, ma non poteva farne a meno.
Ti prego, fa’ che non mi senta... ti prego...
Era agitata.
Quello che aveva organizzato in quei giorni le aveva attaccato addosso un’ansia divorante, e adesso le sembrava che qualcosa le stesse stritolando lo stomaco lentamente.
Si impose di restare calma.
Non poteva fallire.
 
 
 
 
 
La porta si aprì.
– Samara – si sentì chiamare da una voce un po’ tremolante.
Alzò la testa e si voltò, incredula.
– Mamma?
– Ciao – fece Anna con un sorriso.
Samara la guardò con sincera curiosità.
– Sei qui, mamma – disse stupita, più a se stessa che ad Anna.
– Già.
– Stai meglio?
– Sì, sto un po’ meglio, grazie.
Samara si alzò improvvisamente e la abbracciò di slancio.
– Ti voglio bene, mamma.
La mamma ricambiò l’abbraccio, anche se in modo un po’ debole.
– Anche io, Samara – disse piano.
Alla bambina si strinse il cuore nel sentirla così spenta. Quando si staccarono la guardò bene: la mamma sorrideva tra le lacrime, guardandola di rimando. Era uno sguardo pieno di amore, quello, ma c’era anche... tristezza?
Cercò di non farci troppo caso. Eppure sentiva che c’era qualcosa, qualcosa di nascosto e di misterioso, qualcosa che non preannunciava nulla di buono.
Che succede?
– Senti, volevo chiederti una cosa.
– Dimmi tutto.
– Vorresti... vorresti accompagnarmi fuori? È che ho bisogno di un po’ d’aria, e così pensavo di andare insieme. Se ne hai voglia, potremmo fare una passeggiata.
Samara allargò appena gli occhi in un’espressione meravigliata; non riusciva a crederci, la mamma le aveva chiesto di passare un po’ di tempo insieme.
Il suo cuore si gonfiò di gioia. Era una sensazione bellissima, la gioia. Lei non se la ricordava più.
Era fantastica, la faceva sentire contenta e leggera.
Ed era vero che erano cambiate tante cose, ma in quel momento Samara si sentì rinascere.
– Certo che mi va – disse, sorridendo sincera.
 
 
 
****
 
 
Anna la aveva portata a Shelter Mountain, dove avevano assistito alla gara di cavalli mesi prima.
Era da tanto che non ci andava.
Le sembrava di rivedere Barbara Stevens – è morta ora è morta come il dottor Scott – e il purosangue Cameron, Tom che veniva schiacciato dagli zoccoli del cavallo nero, la mamma che fuggiva e lei dietro, lo scompiglio, le grida, il suo sguardo freddo.
O ancora Wind – anche lui è morto, sono morti tutti – e le cavalcate con Richard, gli alberi, il vento, la pioggia.
Quel posto era molto significativo, per lei. Aveva lasciato molti ricordi laggiù.
Era un bel posto dove stare e al tempo stesso brutto.
Perché era dove tutto era cominciato.
Era dove il Buio aveva cominciato a riapparire.
Samara non si sentiva in pace con se stessa, perché aveva inesorabilmente distrutto tutto quanto. Rimpiangeva la famiglia luminosa che aveva visto all’inizio e che la aveva accolta con così tanto affetto.
Li aveva ridotti in polvere.
Anna stava lontana da lei.
Non avevano scambiato molte parole, anche se lei si era illusa che potesse accadere e che ogni cosa potesse ritornare come era prima. Si era illusa che quello potesse essere un bel giorno, il giorno in cui si sarebbe sistemato tutto.
Ma non era andata così; almeno non fino a quel momento.
I suoi occhi si persero nel paesaggio verde di Shelter Mountain. I prati sembravano già rigogliosi e profumati, gli alberi erano verdi e frondosi. I cavalli correvano liberi, trottando felici in quella giornata di sole, e pochissime nuvole offuscavano il cielo, velandolo appena di striature biancastre.
E poi lo vide.
Un albero rosso.
Le foglie scarlatte spiccavano in quel paesaggio tranquillo, come una fiamma accecante ed enorme. La luce del tramonto si riverberava sulle fronde dando loro una vaga sfumatura arancione scuro.
Io l’ho già visto quest’albero.
Era sempre stato nei suoi sogni.
Nella sua mente.
E non era lì a caso, lo sentiva.
Un alone minaccioso, cupo e pesante la avvolse di colpo.
La mamma era lontana. Lontana da lei.
Era accanto a lei, ma in realtà non sapeva dove fosse veramente.
Samara si sentì in pericolo.
Tentava di reprimere la paura senza riuscirci. Si era irrigidita, era molto tesa.
Cercò di distrarsi in qualche modo facendo guizzare lo sguardo su altri elementi del paesaggio; doveva pur esserci qualcosa che la distogliesse da quello stato d’animo.
Camminò a passo svelto sul prato, concentrandosi disperatamente sull’aria fresca che le accarezzava il viso. Ancora non si era tolta il vestito dell’ospedale psichiatrico, perché era comunque in osservazione.
Smettila di pensare.
C’era un pozzo, vicino al bosco. Un pozzo grigio e rotondo.
E per lei costituì come un richiamo, anche se non seppe dire bene il perché.
Si avvicinò a quella costruzione un po’ malmessa e appoggiò le braccia sulla pietra.
Guardò lontano.
Guardò i cavalli.
Guardò il sole.
Guardò l’albero.
Guardò Moeko Island, vedendola veramente.
Assaporandola.
 
 
Round we go, the world is spinning,
When it stops it’s just beginning...
Sun comes up, we live and we cry,
Sun goes down and then we all die...
 
La sua vocina delicata echeggiò anche nel pozzo.
Samara ci guardò dentro e represse un brivido. Era profondo, buio, umido.
Quel grande e stretto buco nero le faceva paura.
Distolse lo sguardo e inspirò forte quando sentì una foglia scricchiolare alle sue spalle.
– Non è bellissimo qui, Samara?
Era la mamma.
Ma la bambina sentì di nuovo la paura, che cresceva a mano a mano che Anna si avvicinava.
Che cosa vuoi fare mamma perché ho così paura perché mi fai paura
Non rispose, si limitò a guardare lontano.
– Così tranquillo – aggiunse, mettendole dolcemente le mani sulle spalle.
Ma Samara si irrigidì a quel tocco.
Abbassò lo sguardo.
– Io so che tutto adesso andrà meglio.
La voce della mamma era rassicurante. Ma lei aveva paura... era immobilizzata dalla paura che provava.
Cosa vuoi fare mamma
Non farmi male ti prego
Fu un attimo.
La mamma le aveva calato sulla testa una cosa nera che la soffocava.
La stringeva, con cattiveria, con forza.
Samara sentì lacrime dolorose sgorgarle dagli occhi.
Perché mi fai questo
Non aveva nemmeno la forza di divincolarsi, il dolore psicologico le inibiva i riflessi. Per un attimo si ritrovò a pensare che esattamente due anni e due mesi prima stava festeggiando il suo compleanno mangiando dei soffici cornetti alla crema, in mezzo a tanti bei regali.
Due anni prima era felice.
E ora, invece, in quel giorno che doveva essere un evento speciale, si sentiva più sola che mai.
Avevano programmato tutto.
Avevano programmato di sbarazzarsi di lei.
L’ultima cosa che sentì fu la voce afflitta della mamma che sussurrava:
– Tu sei ciò che ho desiderato di più...
Poi tutto sprofondò nel nero più abissale, mentre lei si sentiva cadere.
 
 
 
 
La sensazione era quasi irreale.
Andava giù, in una caduta che le sembrò eterna. Per un attimo si sentì come se fosse sospesa, capiva a stento cosa stava succedendo.
Poi sentì un freddo terribile che le si insinuava violentemente nelle ossa. I suoi vestiti si fecero improvvisamente pesanti e i capelli le fluttuarono intorno alla testa.
Dov’era?
Non riusciva ad aprire gli occhi... non riusciva a svegliarsi. Andava ancora giù, ma stavolta in maniera più lenta. Il cuore le si arrestò temporaneamente; forse aveva capito. Ma non voleva. Sperava con tutta se stessa che non fosse vero.
Devo svegliarmi
Samara si costrinse ad aprire gli occhi.
E quando finalmente vide, quello sguardo dolce e innocente venne riempito di panico.
Era in fondo al pozzo di Shelter Mountain.
E qualcuno stava chiudendo il coperchio.
Mamma
No...
Quando il pozzo si richiuse del tutto, la luce che filtrava dal coperchio formò un anello bianco.
L’anello.
L’anello...
L’anello!
Non vide più nient’altro, dopo.
 

 
 




Salve, carissimi lettori. Quanto tempo eh?
Dovete scusarmi assolutamente, ma finora ero via con i miei amici per l'ultimo dell'anno,
perciò non ce l'ho fatta ad aggiornare  in tempo :(
Dunque, intanto vi dico in anticipo che - come sempre - spero che vi sia piaciuto il capitolo.
E' un po' corto ma molto tetro e incisivo. Abbiamo un cambiamento nella storia, ed anche abbastanza intenso tra l'altro.
Nei prossimi capitoli - che saranno molto ma molto più corti rispetto a questo - non metterò lo spazio autrice, perché voglio far sì che vi rimangano più impressi, perciò ci vediamo direttamente all'epilogo.
Vi voglio bene ragazzi, non dimenticatelo. Siete importanti, davvero.
Beh, buon anno a tutti, vi abbraccio forte :*

Stella cadente

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Capitolo 23
*** Primo giorno: il Risveglio ***


Quarta parte



 
Capitolo 23
Primo giorno: il Risveglio
 
 
 
Freddo.
Una fitta gelida, repentina come uno schiaffo, la colpì.
Samara aprì gli occhi e si tirò su di scatto.
Lì per lì non capì che cosa stava succedendo; sapeva solo che doveva uscire da quello stato di intorpidimento che la faceva sentire così stanca.
Ma anche da sveglia non vedeva nulla.
Non riusciva proprio a capire.
Dov’era?
Perché si sentiva così sospesa?
E dov’era andata a finire la mamma?
Tutto era così indefinito, lì.
Così buio.
Lei temeva il buio. Aveva paura.
Samara respirò; doveva calmarsi.
Una lieve luce proveniva dall’alto.
Alzò lo sguardo.
E ricordò.
Era nel pozzo.
Nel pozzo di Shelter Mountain.
Allora è vero...
Mi ha veramente gettata qui.
Come un rifiuto.
Era completamente bagnata dalla testa ai piedi e i capelli le si erano appiccicati al collo fragile.
Fece una smorfia; odiava l’acqua.
Non aveva ancora capito che cosa era appena accaduto.
Non davvero almeno.
Forse perché si rifiutava di crederci.

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Capitolo 24
*** Secondo giorno: l'Angoscia ***


Capitolo 24
Secondo giorno: l’Angoscia
 
 
 

Era già passato un giorno.
Lei lo sentiva.
Ed era ancora lì.
Da sola.
Quando sarebbe tornata la mamma?
Perché non tornava?
La consapevolezza di essere completamente da sola, al buio, in fondo ad un pozzo, stava cominciando a farsi sentire.
Lo spazio era talmente stretto da darle la claustrofobia.
Perché la mamma non veniva a prenderla?
Perché non veniva a salvarla?
Perché non vieni mamma
Perché 
PERCHE’
Perché mamma?
La mamma aveva voluto ucciderla.
Ma non sapeva che lo aveva già fatto.
Perché Samara era già morta dall’istante in cui Anna l’aveva ingannata per gettarla nelle viscere oscure di quel freddo pozzo.
– Mamma!
La sua voce innocente riecheggiò lungo le pareti del pozzo, udita da nessuno.

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Capitolo 25
*** Terzo giorno: il Vuoto ***


Capitolo 25
Terzo giorno: il Vuoto
 
 
 

Aveva perso la cognizione del tempo.
Tutto era così indistinto e insopportabilmente uguale per lei.
Cominciava ad avere freddo, e fame.
Si abbracciava il corpo intirizzito tremando violentemente.
Ciò che la manteneva in forze, per il momento, era solo la speranza.
Non credeva che ci fosse qualcosa di peggio dell’ospedale psichiatrico ad Eola County.
Invece si sbagliava.
Credeva che la sua vita avrebbe avuto un’altra svolta.
Invece si sbagliava.
Non riusciva neanche più a percepire i pensieri della mamma.
Ma non era come all’ospedale.
Era diverso.
Era più una specie di ronzio, come se al di là non ci fosse nient’altro.
Mamma...
Vieni a prendermi per favore.
Poi i suoi occhi si riempirono.
 
 
Anna Morgan pianse.
Pianse forte, mentre chiudeva il tappo del pozzo e anche dopo, accasciandovisi sopra.
Pianse perché aveva mandato in frantumi l’unica cosa che aveva sempre voluto.
Pianse perché aveva appena distrutto sua figlia.
La sua piccola Samara.
– Scusa, Samara...
Non poteva perdonarselo.
Non avrebbe mai potuto...
Con che coraggio sarebbe andata avanti, dopo quello che aveva fatto?
Aveva ucciso Samara.
Da quel momento in poi, da quel momento in cui si era macchiata della morte della bambina – la sua bambina – non sarebbe più riuscita a vivere. Lo sapeva già.
Non dopo quello che aveva fatto. Non avrebbe avuto più senso.
C’era solo una cosa da fare. E per quanto sembrasse folle, lei sentiva che era quella giusta.
Anna si diresse verso la scogliera di Moesko Island a passo deciso. Lo sguardo vuoto, eppure in qualche modo carico di uno strano barlume di speranza.
– Torno da te, Samara.
– Adesso arrivo, tesoro.
– Ci rivedremo presto.
E si gettò nel vuoto, sfidando le onde fameliche del mare in tempesta.
 
 
Samara sentì il cuore fermarsi.
– Mamma! – gridò ancora.
– No, mamma!
Non riusciva neanche a piangere.
Il dolore era tale da impedirle di sfogare ogni emozione.
Si lasciò cadere nell’acqua gelida, inerte.

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Capitolo 26
*** Quarto giorno: l'Acqua ***


Capitolo 26
Quarto giorno: l’Acqua
 



Si sentiva fredda.
In tutti i sensi.
Non capiva perché la sua mamma le aveva riservato una morte così crudele e così piena di sofferenza.
L’acqua le arrivava fino alla vita, circondandola in un gelido abbraccio che le strizzava anche le viscere in una morsa.
Continuava a guardare la luce proveniente dal cerchio
il cerchio il cerchio il cerchio
in modo quasi ossessivo.
Gli occhi le bruciavano.
Non riusciva a riposarsi.
Non riusciva a stare tranquilla.
Tutto lì era scivoloso e bagnato.
E c’era il buio.
Il Buio.
I suoi sensi erano sempre all’erta, perché non poteva rilassarsi.
Non ci riusciva.
I muscoli, a contatto con l’acqua, si tendevano in uno straziante nervosismo che la tormentava.
Com’era possibile che in pochi metri quadrati si concentrassero tutte quelle cose brutte?
Acqua buio insetti freddo acqua buio insetti freddo
Samara credeva di essere ormai morta.
Ma non lo era.
In quel momento sentì il peso della morte come mai le era successo.
La paura si abbatté su di lei nell’istante in cui capì quanto fosse vicina la morte.
Nessuno sarebbe venuto a salvarla.
Altra acqua si aggiunse a quella stagnante del pozzo.

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Capitolo 27
*** Quinto giorno: il Dolore ***


Capitolo 27
Quinto giorno: il Dolore
 
 


Doveva uscire.
Doveva assolutamente uscire.
Doveva salvarsi da sola, perché nessuno l’avrebbe fatto al posto suo.
Se voleva uscire, doveva trovare un modo per farlo contando sulle proprie forze.
Ma era debole e in pochissimi giorni era dimagrita a vista d’occhio.
Si sentiva scarna, uno scheletro.
Sentiva che era debole.
Sentiva che tra poco le sarebbero mancate le forze.
Ora o mai più.
Iniziò ad arrampicarsi lungo le pareti del pozzo. Erano scivolose e umide e le facevano senso.
Ma doveva, doveva uscire da quel buco nero e orrendo.
Doveva farcela.
Il suo istinto di sopravvivenza era più forte di tutto questo.
Samara avanzò con più decisione. Arrancava, ma si sentiva forte mentre scalava quella parete irregolare.
Cercava di mettere i piedi nel posto giusto, finora c’era riuscita.
C’era quasi...
Ma era debole.
Piccola e debole.
Ma lei poteva farcela...
Doveva farcela...
Doveva...
Samara non ce la faceva più. Le lacrime le erano affiorate agli occhi per lo sforzo e per la rabbia.
L’umidità del sasso ebbe la meglio su di lei.
E cadde.
Cadde lungo tutta la parete, ferendosi le braccia e le gambe. Sentiva le pietre sfregare sulla sua pelle e corroderla.
Sentiva il sangue scivolare via da lei.
E tentò di aggrapparsi, ma cadde ancora una volta.
Le sue unghie si staccarono dalle dita, rimanendo incastrate tra quelle pietre cattive.
Nessuno sentì quell’urlo straziante, di dolore, disperazione e rabbia messe insieme.

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Capitolo 28
*** Sesto giorno: l'Innocenza ***


Capitolo 28
Sesto giorno: l’Innocenza
 
 

Altro sangue fuoriusciva dalle sue ferite.
Non riusciva a guardarsi.
Non riusciva a guardare le sue mani.
Non le aveva mai guardate finora.
Non voleva farlo.
L’immagine del sangue le era rimasta nella testa e non voleva andarsene.
E lei avrebbe tanto voluto andare dalla mamma e abbracciarla e farsi consolare.
Ma la mamma non c’era più, e lei era bloccata in quel dannatissimo pozzo.
Non è giusto.
Non è giusto!
Quanto avrebbe voluto sprofondare nelle braccia della mamma, invece di stare in quell’inferno freddo e buio.
Avrebbe voluto che le facesse un tè e che le spazzolasse i capelli.
Si passò una mano tra le sue ciocche corvine.
Bagnate.
Sporche.
Avrebbe tanto voluto non nascere, non esistere mai, essere uccisa ben prima che la sua esistenza avesse avuto inizio.
Ma forse era questo che meritava.
Samara Morgan meritava di soffrire, Samara Morgan meritava di pagare per quello che aveva fatto. Meritava tutto quello che aveva passato, meritava tutto il dolore che le veniva inflitto.
Perché era un mostro.
E i mostri non possono essere accettati, i mostri non possono essere amati, i mostri vengono soltanto odiati.
Ma lei voleva solo un po’ di affetto.
Lei, alla fine, voleva solo essere ascoltata.
Samara finì con lo sguardo sulle sue mani e lo stomaco le si attorcigliò.
L’odore acre del sangue secco si fece insopportabile.
Un conato di vomito le risalì in gola a quella vista macabra.
Si piegò sull’acqua e sputò tutto il dolore che la mangiava dall’interno.
 

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Capitolo 29
*** Settimo giorno: la Fine ***


Capitolo 29
Settimo giorno: la Fine

 
 
 
Non riusciva neanche più a tenersi in piedi ormai.
Il suo corpo, ridotto ormai a ossa, galleggiava inerme su quell’acqua putrida.
Guardava in alto.
Guardava il cerchio.
Il cerchio che era sempre lì.
Sentiva che le forze la stavano abbandonando.
Faceva sempre più fatica anche solo a tenere gli occhi aperti, da cui si affacciavano appena delle lacrime.
Le sue ultime lacrime.
Sentiva appena il loro calore sulle guance, il resto del corpo compresa la faccia aveva perso sensibilità.
Odiava quella sensazione.
Samara stava per morire, e lo sapeva.
Avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente. Avrebbe voluto poter uscire da quel pozzo freddo e inospitale, aprire quel coperchio con le sue stesse braccia, benché fossero ormai ghiacciate, avvizzite e piene di ferite e lividi.
Avrebbe voluto che la mamma non fosse morta.
Avrebbe voluto poter essere diversa.
Il rimpianto che provava era disumano.
Rimpiangeva quella famiglia che l’aveva accolta con tanto amore, quell’amore di cui lei aveva sempre avuto un disperato bisogno.
Nonostante la debolezza, c’era solo frustrazione in lei, e rabbia, tanta rabbia.
Non avrebbe mai detto che quel pozzo sarebbe diventato la sua tomba.
Non avrebbe mai detto che sarebbe finita così.
Gettata, e poi dimenticata.
Non poteva andare a finire così.
Altre persone dovevano conoscere la sua storia, il suo dolore, quello che era stata.
Sapeva come fare.
Voleva impiegare le sue ultime forze per farlo.
Samara si concentrò e visualizzò ogni cosa.
Anna, Richard, i cavalli, Moesko Island, quei gesti pieni di amore e tenerezza...
... e poi l’ospedale, i controlli, la paura, il pozzo.
Tutto ciò che era stata.
Tutto ciò che aveva fatto parte della sua vita.
Voleva farlo, voleva davvero farlo vedere a tutti.
Perché sapessero.
Perché non passasse inosservata.
Perché, in qualche modo, qualcuno notasse e curasse il suo dolore.
Sentiva che l’avrebbe trovato, qualcuno.
Gli altri sarebbero morti.
Ma non le importava.
Perché se non morivano loro sarebbe morta lei, e non andava bene. Non voleva che riaccadesse.
Voleva trovarlo, quel qualcuno.
Voleva avere un’altra possibilità.
Lo voleva davvero.
Quando fu certa di aver visto abbastanza, chiuse finalmente gli occhi.
Basta.
Non voglio più soffrire.
Stava cadendo in un sonno eterno, pur sapendo che si sarebbe risvegliata. Sarebbe cambiata, quello era certo.
Ma per ora, a lei stava bene così.
Avrebbe dormito finché non ci fosse stata una buona ragione per svegliarsi.
La morte non la spaventava più, anzi adesso era diventata confortante.
Samara si lasciò andare, sentendo il suo corpo andare pian piano a fondo.
E si addormentò.

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Capitolo 30
*** Epilogo – Ossa ***


Epilogo
Ossa
 
 
 
Moesko Island, 24 aprile 1980
 
SCOMPARSA ANNA MORGAN: SARA’ LA FINE DEL MORGAN RANCH?
 
 
L’allevatrice più popolare dell’Isola di Moesko, Anna Morgan, è misteriosamente scomparsa circa due settimane fa, insieme alla figlia, Samara.
Richard Morgan, il marito, non è intenzionato a fornire motivazioni. Nessuno sa perché i cavalli siano impazziti, né perché l’allevatrice abbia fatto quella brusca virata che l’ha fatta finire inevitabilmente all’ospedale psichiatrico nella contea di Eola.
La sua sparizione lascia allarme e confusione nell’isola.
Si presume che la signora Morgan abusasse di psicofarmaci e che avesse istinti suicidi, dovuti ad una forte psicosi di tipo depressivo.
La signora soffriva anche di allucinazioni e vari disturbi di tipo psichico, di cui la dottoressa Grasnik, medico dell’isola, non sa spiegare l’origine con precisione.
Secondo alcune tesi, potrebbe essersi gettata dalla scogliera di Moesko Island, presso Shelter Mountain, ma non ci sono conferme.
Tutto è immerso in un turbine di interrogativi e inquietudine.
 
 
 
INTERVISTA ALLA SIGNORA ELLIE GRASNIK, MEDICO DELL’ISOLA CHE HA AVUTO IN CURA LA SIGNORA MORGAN E LA FIGLIA SAMARA
 
 
R:Dottoressa, cosa sa dirmi di Anna Morgan?
G:Era una mia cara amica. Ha iniziato a soffrire di psicosi verso lo scorso anno.
R: Ed è andata sempre peggiorando? Non è riuscita a curarla?
G: No. Purtroppo è andata a peggiorare con il tempo anziché migliorare.
R: Mi parli meglio dei suoi sintomi. Come si svolgevano le sedute?
G: Diceva cose prive di senso.
R: Ad esempio?
*Silenzio*
G: Riconduceva i suoi mali a cose esterne.
R: Quali cose?
G: Non credo di poter rispondere a questa domanda.
R: C’entrava la bambina, Samara?
G (esita): No.
R: Ne è sicura?
G: Sì, ora se non le dispiace avrei un paziente che dovrebbe arrivare tra poco, quindi devo proprio andare.
R: Grazie Dottoressa Grasnik.
 
La signora Ellie Grasnik non ha fornito risposte esaurienti e precise. Sarà semplice privacy o c’è qualcosa che non dovrebbe emergere?
 
 
 
 
SCOMPARSA SAMARA MORGAN, LA FIGLIA ADOTTIVA DI ANNA E RICHARD MORGAN
 
 
 
Samara Morgan (nome completo Samara Evelyn Morgan - Osorio), nata a Seattle il 12 aprile 1970, è scomparsa insieme alla madre. Di lei non si sa ancora niente, non sono state rinvenute tracce, come fosse finita nel nulla.
La bambina era stata adottata dai Morgan nel 1977, in inverno, dall’orfanotrofio ST Mary Magdalen Women’s di Seattle, a King County. La madre era morta per delle complicazioni.
Non si sa nulla con precisione sul suo conto, ma dopo un po’ di tempo, in seguito all’adozione, i coniugi Morgan hanno iniziato ad avere un comportamento molto riservato che non avevano mai avuto.
Successivamente i cavalli hanno iniziato ad impazzire, e la morte della vicina, Barbara Stevens, non è di certo passata inosservata.
Anche Samara era seguita dalla dottoressa Grasnik, e anche lei è stata mandata nell’ospedale sulla terraferma ad Eola County, dove sembra non aver ottenuto progressi.
Al di là di un certificato di rilascio dell’ospedale di Eola County firmato dalla dottoressa Jordan – la psichiatra che la seguiva dopo il ritiro di Matthew Scott - non si sa più nulla di lei, ma l’alone oscuro di sospetti che ha guadagnato sull’isola non si allontana ancora dalla sua misteriosa figura.
Sono state solo delle sfortunate coincidenze, o la piccola Samara era connessa con tutti i fenomeni negativi nella storia idilliaca del Morgan Ranch?
Nessuno lo sa.

 
Accidenti.
Ho concluso questa storia.
Sono triste.
Davvero, non sapete come mi dispiace, anche se alla fine mi sento fiera di me.
È stato il mio primo racconto horror, un esperimento insomma, che però alla fine mi ha dato un sacco di soddisfazioni.
Sono orgogliosa di ciò che ho scritto, del lavoro che ho fatto.
E mi sento soddisfatta, felice di aver seguito Samara fino alla fine e di aver scritto con tanta dedizione questa FF.
Penso che delle tre long che ho scritto finora – questa inclusa  –  sia quella a cui mi sono dedicata di più.
Sono felice di aver concluso anche questa avventura e nel contempo di averla vissuta fino all’ultimo.
E infine, per ultima cosa (ma di certo non meno importante), ringrazio voi, miei amati lettori horror (se così vi posso chiamare). Sappiate che sono stata felicissima di sapere che a voi, esperti del genere, sia piaciuto il mio primo tentativo di avventurarmi in questo mondo. Non sapete che cosa significhi, per me. E’ un onore, sono sincera.
In particolare ringrazio:
Mugiwara_no_Tales che mi ha sempre lasciato pareri fantastici, molto positivi, iniezioni di autostima pura, dall’inizio alla fine, e che si è affezionata a Samara almeno quanto mi ci sono affezionata io – mi raccomando, guardalo il film eh!
Frenzthedreamer che è appassionato e innamorato di The Ring e di Samara proprio come me, e che probabilmente mentre leggeva “Lei voleva solo essere ascoltata” si sarà sentito come mi sono sentita io mentre scrivevo – e che tra l’altro, tra parentesi, scrive recensioni eccezionali.
Diemmeci che trovo praticamente in ogni mia storia,  che è una ragazza fantastica che mi fa sempre un sacco di complimenti e che legge i miei scritti a prescindere, commentando e soffermandosi con pazienza su tutte le sfaccettature della trama e dei personaggi.
Un grazie anche a psycowriter, che è un’esperta del genere e che ha SEMPRE saputo cogliere ogni aspetto della storia, a cominciare dall’alone oscuro e dall’atmosfera inquietante che pervade gran parte della FF, e a het, che con poche recensioni mi ha fatto capire di aver gradito davvero molto la mia storia.
 
Vi ringrazio di cuore, davvero. Il fatto che mi abbiate seguita significa molto.
Grazie per esservi immersi in quest’avventura con me.
Spero di ritrovarvi in altri miei scritti (perché adesso è scontato che io scriva altre storie horror, muahahah ora sono partita).
A parte gli scherzi: grazie mille di cuore. Vi voglio bene.
Con amore,
Stella cadente
PS Piccolo spoiler che credo (spero) sia di vostro interesse: ho intenzione di scrivere altro su Samara. “Lei voleva solo essere ascoltata” diventerà il primo capitolo di una serie di ben quattro storie. Vi chiedo solo un po’ di pazienza, perché ho già tutte le altre tre storie formate nella testa ma non so quando comincerò ad effettuare la stesura. Spero comunque di ritrovarvi tutti.
Vi lascio con un ritratto di Samara che ho trovato girovagando in rete e che trovo veramente bello.
Alla prossima ragazzi <3






 

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