Let the fire burn the ice;

di Artemis Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Figlia del ghiaccio. ***
Capitolo 2: *** Non sono l'unica. ***
Capitolo 3: *** Una serie di sfortunati eventi. ***
Capitolo 4: *** Non voglio far del male a nessuno. ***
Capitolo 5: *** Proposte di lavoro. ***
Capitolo 6: *** Allenamenti a luci rosse. ***
Capitolo 7: *** Gli opposti che si attraggono. ***
Capitolo 8: *** Benvenuta a bordo, agente Evelyn. ***
Capitolo 9: *** Addio. ***
Capitolo 10: *** Vendicami. ***
Capitolo 11: *** Feel like a monster ***
Capitolo 12: *** Empty ***



Capitolo 1
*** Figlia del ghiaccio. ***


Figlia del ghiaccio.

And I still wonder
Why our heaven has died
The skies are all falling
I’m breathing but why?
In silence I hold on

Ghiaccio
Io sono figlia del ghiaccio: pelle candida, capelli corvini e occhi di ghiaccio.

Il mio tocco può congelare la vita, preservarla o ucciderla.
Era un giorno qualsiasi della mia vita, quando tutto cambiò. Quando tutto si fece freddo e azzurro.
Io non dovevo trovarmi lì, io dovevo andare a casa di mia nonna per accudirla. No, non dovevo seguire James in una delle sue solite rapine… Non avrei dovuto aiutarlo nuovamente, avevo chiuso con quella vita sregolata. Eppure non ero riuscita a trovare lavoro, i soldi scarseggiavano e James si era presentato in un momento di debolezza.
La rapina era azzardata, la più importante di tutta la sua carriera: colpo grosso al cavò di un magnate tedesco, ex scienziato in pensione che si godeva i soldi investiti in gioventù.
Il piano era semplice: passare per i condotti fognari, abbattere un muro con la dinamite, svuotare il cavò e scappare.
Ma non avevamo valutato l’astuzia del vecchio.
Quando il muro fu abbattuto, il cavò si mostrò a noi… circondato da decine di trappole. Come ce ne accorgemmo?
Jessica provò ad aprire a forza una cassetta di sicurezza e un lanciafiamme le si parò davanti, bruciandogli il viso. Le sue grida echeggiano ancora nei miei sogni.
Poi fu la volta di Rick: una freccia in mezzo agli occhi. John invece, fu fatto fuori con una colata di acido: la puzza di carne bruciata mi fece venire il voltastomaco.
Tentai di scappare, ma era impossibile. Cercai rifugio in quella specie di trappola mortale, invece trovai soltanto una prigione.
Le sbarre apparvero dal nulla, vetri spessi calarono dal soffitto e mi chiusero in un quadrato del cavò. Dal soffitto cominciò a fuori uscire aria gelida, cosi fredda che i vetri intorno a me cominciarono ad annebbiarsi. Improvvisamente la mia gola si seccò, le mie labbra si spaccarono per il freddo e non riuscii più a sentire le mie mani. Il vecchio mi si parò davanti, con una ragazza in intimo di Victoria Secret's.
Mi disse che se volevo vivere e non volevo essere arrestata dalla polizia, avrei dovuto collaborare. All'inizio pensai che dovessi fare la coniglietta di playboy per il vecchio, invece mi disse di bere uno strano liquido azzurro.
Non mi spiegò cos'era, ma accettai comunque: non potevo deludere mia nonna e provocargli altra sofferenza facendomi scoprire ladra.
Bevvi tutto d'un sorso.
L'aria mi manco. Pensavo di soffocare, poi i miei polmoni si riempirono di aria gelida e il dolore si tramutò in piacere.
Mi sentivo diversa, nuova... Pura come il ghiaccio.
Rimasi seduta a terra per qualche minuto, per riacquistare completamente tutti i sensi. Quando appoggiai la mano al vetro, quello esplose in mille pezzi e il vecchio con la sua barbie ne furono investiti.
Passai accanto ai loro corpi sanguinanti e corsi via. Fuggii lontano, dove nessuno poteva riconoscermi.
Quando appresi ciò che ero diventata, tornai da mia nonna. Le dissi che non l'avrei mai più lasciata e cominciai a vivere con lei. Un giorno lessi su un giornale che il ricco scienziato tedesco era entrato in coma vegetativo irreversibile.
Era tempo di vendetta.
Aveva ucciso i miei amici: il mio migliore amico John e la cara Jessica che era oltretutto incinta di Rick. Stavano progettando anche loro di togliersi da quella vita spericolata, di mettere su famiglia e cominciare a vivere una vita nella norma. Ma non ce l’hanno fatta.
Per non parlare di come avesse reso la mia vita un inferno di ghiaccio.
I miei occhi bruciavano alla sola idea che quel bastardo fosse ancora in vita.
La sera stessa, in cui appresi la notizia, mi recai nella sua villa.
Agile e flessuosa, scavalcai le inferiate e mi arrampicai fino alla finestra della sua camera. Con lui c’era una donna mora sulla cinquantina. Aspettai che uscisse dalla camera.
Quando la donna uscì per andare in bagno, feci la mia mossa.
Entrai dalla finestra, scostai le tende e ad ogni passo che mi divideva da quell’essere immondo l’adrenalina saliva. Dalla mia mano cominciò a formarsi una stalattite di ghiaccio tagliente.
Quando i miei piedi si fermarono al capezzale di quell’uomo, sentii il viso avvamparmi.
I suoi occhi si mossero impercettibilmente verso di me: riuscivo a scorgere la paura che li logorava.
Mi gustai quel momento, poi avvicinai le mie labbra al suo orecchio.
“Questo è per la morte dei miei amici e per la mia vita, che tu hai reso un inferno, stronzo.” Dissi.
E quando le mie labbra si richiusero, un taglio netto alla gola lo fece spirare.
Dicono che la vendetta non serve a niente. Si sbagliano, o almeno chi lo dice non ha mai passato un inferno come il mio.
Non sanno che quando ti viene portato via tutto, la rabbia dentro di te cresce fino ad esplodere. Non sanno che quando si vede la paura, che si ha provato, riflettere  negli occhi del vostro aguzzino, un brivido di euforia percorre il tuo corpo e ne nutre l’anima, lacerandola.
La vendetta serve a far capire chi ha vinto veramente.
Quando mi allontanai dalla villa, qualcuno urlò e tutte le luci dell’abitazione cominciarono ad accendersi. Dopo pochi minuti due pattuglie della polizia si accostarono all’entrata.
Ma io ero già lontano kilometri, a bordo della mia moto: direzione casa.
Mentre mi corrodevo all’interno: perché io non ero come il mio aguzzino, freddo e distaccato, io ero diversa. Avevo ucciso un uomo e la mia anima non si dava pace.
Io ero diversa, ma non migliore.
“Tesoro, sei tu?” chiese mia nonna appena rientrai a casa.
“Si, tranquilla.” Le risposi lanciando le chiavi sul mobile dell’ingresso.
“Che è successo, gioia? La tua voce trema.” Mi rispose.
Mi avvicinai al divano dove era seduta e lasciai che lei mi accarezzasse il volto per ricordarsi dei miei lineamenti. Una lacrima beffarda rigò il mio viso.
“Ho messo fine ad una parte della mia vita e ne sto intraprendendo un’altra…” dissi.
“E’ doloroso Evelyn, lo so. Ma è necessario per andare avanti.” Mi rispose cullando la mia testa tra le sue braccia.
Quella sera la mia vita era totalmente cambiata.
Quella sera io, Evelyn Smith, per la prima volta mentii a mia nonna, la persona a me più cara.

___________________________________

Salve a tutti :)
Grazie per aver letto il primo capitolo di questa mia nuova storia. Non è la prima storia che scrivo sui supereroi (Iron Woman e Each Word get lost in the echo), ma è la prima in cui tratto i Fantastici Quattro. Farò riferimento ai fumetti e non ai film, poichè questa storia è ambientata dopo I Fantastici 4 e Silver Surfer. La citazione sopra è tratta dalla canzone Fire and Ice dei Within Temptation :)
Spero che questo capitolo vi abbia incuriosito, fatemi sapere e recensite!
See you soon,
Artemis Black

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Capitolo 2
*** Non sono l'unica. ***


Non sono l’unica.


There was nothing inside
The memories left abandoned
There was nowhere to hide
The ashes fell like snow
And the ground gave in
Between where we were standing
And your voice was all I heard

 

Uscii di casa molto presto.
Era gennaio e l’aria frizzantina di New York inondava i miei polmoni e scompigliava i miei capelli. Andai a correre per un’ora circa, poi tornai a casa. Mi feci una doccia, salutai mia nonna e mi avviai verso il centro.
Avevo trovato due lavori, finalmente, che riuscivano a coprire le spese: di giorno lavoravo in un edicola mentre la sera lavoravo presso un pub.
Quando arrivai all’incrocio con la 23esima e la 15esima, svoltai a destra e trovai l’edicola già aperta. Evidentemente oggi Harris si era alzato presto.
“Harris.” Lo salutai con un cenno del capo.
“Evelyn! Alla buon’ora.” Mi disse mentre scaricava alcuni pacchi di giornali.
“Sei tu che sei arrivato presto, io sono puntuale.” Gli risposi.
“Ah… Hai ragione. Comunque, lascio l’edicola nelle tue mani.” Disse e se ne andò.
Harris era il proprietario, ma avendo anche un negozio di dolciumi poco più avanti, lasciava a me il compito di badare all’edicola di mattina e di pomeriggio, e la paga non era niente male.
Cominciai a mettere apposto alcuni giornali e poi mi chiusi all’interno dell’edicola, aspettando l’ora di punta in cui decine di persone comprano il Times.
Faceva freddo, la temperatura si aggirava intorno allo zero, eppure per me sembrava estate.
Perché io ero diversa.
La mattinata passò liscia come l’olio e lo stesso fu per il pomeriggio.
Verso le 18 tornai a casa, aiutai la nonna a cucinare e poi scappai a lavoro. Feci in tempo solo a cambiarmi la felpa con un top nero di pizzo e il giacchetto di pelle.
Presi le chiavi della moto e mi diressi al pub.
Alle 20 il locale era ancore mezzo vuoto e l’atmosfera era serena, ma verso le 23 cominciò a fluire una marea di gente.
“Ma oggi che giorno è?” chiesi di sfuggita a Amy, la ragazza che lavorava dietro il bancone con me.
“Sabato, cara.” Disse sorridendomi.
“Allora si spiega la calca.” Le risposi.
Servii drink a destra e a manca, pulii i tavoli ogni dieci minuti e non facevo altro che sistemare il bancone: la serata era appena cominciata.
"Secondo te per che ora staremo a casa, stanotte?" chiesi ad Amy.
"Se tutto va bene, Joe ci manderà via per le 3!" mi rispose alzando gli occhi al cielo.
"Oddio..." esclamai.
"Ehi bambola, puoi servirci due drink extra alcolici?" mi chiese un ragazzo alto e biondo con la faccia da strafottente.
"Cosa, scusa?" ripetei. Oggi non ero in vena di apprezzamenti sarcastici.
"Due super-alcolici!" mi urló lui indispettito.
Gliene preparai due al volo.
"Sa, il mio amico ha una crisi matrimoniale e gli serve qualcosa di forte." disse mentre preparavo i drink.
"Di sicuro così non lo aiuta." gli risposi.
"Perchè?" chiese alzando un sopracciglio.
"L'alcol non risolve i problemi, anzi, li peggiora." Dissi servendogli i due cocktail.
Sbadatamente le sue dita sfiorarono le mie e il contatto con la sua pelle mi fece ritrarre la mano istintivamente. Era caldo, se non bollente per me e lui si accorse di questa differenza di temperatura. In un primo momento si guardò la mano poi spostò lo sguardo su di me.
Era interdetto. Aprì la bocca per dirmi qualcosa poi la richiuse e se ne andò con i due drink in mano.
Tirai un sospiro di sollievo.
Dissi ad Amy che sarei uscita per prendere una boccata d’aria sul retro.
Aprii la porta antiincendio e quando l’aria fredda mi investì, un sorriso di piacere comparve sulla mia bocca. Dentro al locale si stava bene, ma avvertivo un po’ di caldo dovuto alla troppa gente che lo affollava.
Appoggiai la schiena addosso al muro e scivolai giu, fino a sedermi per terra.
Guardai la mano che il tizio biondo aveva sfiorato
“Ma che cavolo?!” dissi.
Quando la mia pelle veniva a contatto con quella dei comuni mortali, sentivo solo il loro calore tiepido, mentre quella del biondino sembrava un tizzone ardente.
“Assurdo…” pensai.
Un micio dal pelo bianco e nero si avvicinò e si strusciò sulla mia gamba. Lo presi in braccio e cominciai ad accarezzarlo. Quel gatto ormai si era affezionato a me, ogni volta che uscivo sul retro me lo ritrovavo in mezzo alle gambe che mi faceva le fusa.
“È così strano… eppure quel ragazzo l’ho già visto da qualche parte, ma non ricordo dove..” dissi, parlando con il gatto.
Mi sembrava di averlo visto da qualche parte, aveva una faccia conosciuta.
Mi sforzai di ricordare, ma non  mi venne in mente.
“Vabbè, pazienza.” Dissi.
Posai il gatto e rientrai nel pub.
Alla fine, il locale chiuse verso le 3.30 di notte e non essendo stanca, decisi di farmi una passeggiata notturna nel parco vicino la 25esima. La notte era giovane nella Grande Mela e le strade erano così illuminate che sembrava giorno e c’era anche molta più gente in giro.
Passeggiai indisturbata per il vialetto alberato e mi fermai quando arrivai al laghetto, dove c'erano alcune papere. Mi avvicinai al recinto di ferro battuto e le ammirai mentre nuotavano placide nell'acqua.
All'improvviso mi venne in mente James e quella volta che mi aveva preso da parte per parlarmi della Grande rapina
 
"Andiamo Evelyn! Siamo una squadra, sin da tempi dell'ultimo anno scolastico. Ti prometto che questa sarà l'ultima..." mi disse guardandomi negli occhi.
"James non lo so. Non mi sento in grado, insomma io ho smesso! Non voglio rovinarmi la vita più di così, ci è andata bene per troppe volte..." gli dissi sbuffando.
"Evy." mi chiamò con il nomignolo che mi aveva affibbiato.
"Ci penserò." gli avevo detto alla fine, anche se sapevo che avrei rifiutato.
Ma la stessa sera arrivarono altre bollette da pagare: more su more, multe su multe e un avviso di sfratto. Non avevo detto nulla alla nonna, per non farla preoccupare. Ma a quel punto l'unica via di salvezza sembrava essere la proposta di James.
 
Scacciai via quel pensiero amaro, insieme a tutte le immagini raccapriccianti dei miei amici morti. Scrollai le spalle e mi andai a sedere sulla panchina più vicina.
La mia mente vagava altrove, tornando indietro nel tempo, ricordando le giornate intere passate a fare dolci con Jessica; quando andai alla festa di fine anno con James e lui mi baciò, ma sapevamo entrambi che non ci sarebbe mai stata una storia perché qualcosa ce lo impediva; la prima rapina in un negozio di vestiti con Rick e James fatta per passare il tempo, poi però ce ne fu una seconda, una terza e così via fino a quando mi resi conto che era sbagliato e che non potevo vivere una vita del genere. Poi il drastico cambiamento: la loro morte, la loro assenza, il mio cambiamento, la fredda solitudine e la conscia realtà che non avevo più nessuno.
L’unica persona che poteva salvarmi da quella situazione era mia nonna: l’unica donna che mi abbia mai amato indiscutibilmente, dopo la morte dei miei genitori, che io non ho mai conosciuto. Mi presi la testa tra le mani e cercai di allontanare quei pensieri negativi.
Ripensai al ragazzo biondo che mi aveva sfiorato, nel tentativo di ricordare dove lo avessi già visto.
Inutile, non riuscivo proprio a ricordarlo.
L’orologio segnava le 5 di mattina.
Presi la moto e tornai a casa solo per cambiarmi e farmi una doccia. Alle 8 ero già dentro l’edicola a distribuire i giornali.
“Evelyn, ti vedo stanca.” Disse Harris portando altri giornali davanti l’edicola.
“Non ho dormito molto stanotte.” Gli risposi.
“Qui ci vuole una bella tazza di caffè caldo! Con questo freddo!” disse e si allontanò per andare nel primo chiosco.
“Se questo è freddo…” dissi ridendo tra me. Indossavo solo una felpa primaverile ed una sciarpa, eppure sentivo un caldo incredibile.
“Ecco qua, tesoro!” Harris tornò con una tazza di caffè bollente e un pretzel gigante.
“Oh, grazie.” Dissi e divorai subito quel delizioso brezel.
La mattinata passò velocemente e il pomeriggio accompagnai Harris da un suo amico per dargli dei vecchi giornali.
“Devi sapere che William è un appassionato di cose antiche e colleziona tutti i numeri de Usa Today!” mi disse, mentre lo aiutavo a portare alcuni pacchi di giornali su per le scale di un vecchio condominio.
“William caro! Guarda che ti ho portato.” Disse Harris appena entrammo dentro la casa del tizio in questione.
Era un vecchietto piuttosto arzillo, con occhiali spessi e un adorabile accento inglese. Quando gli porgemmo alcune copie dello USA Today, i suoi occhi si illuminarono.
Ci offrì del thè con dei pasticcini deliziosi e poi ci fece vedere parte della sua collezione.
“Da quant’è che li colleziona?” gli chiesi mentre riponeva alcune copie in un armadietto.
“Dal 1982 ragazza!” disse.
“Da quando l’hanno fondato… wow.” Dissi ammirando alcune copie messe dentro delle teche.
Una attirò la mia attenzione.
“O mio dio…” dissi.
Sulla copertina c’era il tizio biondo che avevo visto al locale la sera prima.
“Aaaah! Bel giovanotto, non è vero?” disse William rivolgendomi un sorriso innocuo.
“Si, certo… un po’ arrogante.” Dissi.
“Eh già, mi ricordo quando sfrecciava in alto nei cieli di New York! Una volta mi era così tanto vicino.” Dissi mimando la distanza con la mano.
“Oh William, non ti sarai mica bruciato?” disse ridendo Harris.
“No mio vecchio, ma poco ci mancava!” gli rispose borbottando.
I due continuarono a parlare, ma le loro voci mi arrivavano ovattate: ero troppo concentrata a credere o no a quello che avevo davanti. La data riportata sul giornale era di 3 anni fa, esattamente quando io ero scappata in Canada subito dopo aver commesso l’omicidio.
“I-io devo andare.” Dissi.
“Di già, cara?” mi chiese il vecchietto.
“Ho da fare, grazie per il thè!” dissi e scappai via.
Camminai per le vie di New York a passo svelto, fino ad arrivare dove era parcheggiata la mia moto. Saltai in sella e corsi a casa.
“Tesoro?” la voce di mia nonna appena aprii la porta.
“Sto andando in camera nonna!” dissi mentre salivo le scale per andare al secondo piano.
Entrai in camera e chiusi la porta. Rovistai nel guardaroba in cerca del mio portatile.
Lo accesi e cominciai a cercare su internet.
“E’ tutto vero…” dissi. Stentavo a crederci.
“Evelyn!” sentii mia nonna chiamarmi dalla cucina. Chiusi il pc e scesi giù.
“Che c’è?” chiesi.
“Dovresti andare a fare la spesa, altrimenti stasera non mangiamo niente.” Mi disse accarezzandomi una guancia.
“Si, certo. Vado subito allora!” gli dissi.
Uscii di casa con la lista per la spesa e andai verso il market più vicino. Mentre stavo mettendo alcune buste di latte nel cestello, due tizi mascherati entrarono nel negozio e puntarono la pistola al commesso.
-Questo è il colmo.- pensai mentre mi nascondevo dietro uno scaffale.
Sentii i passi dell’altro tizio che si avvicinavano e istintivamente una stalattite di ghiaccio si formò nella mia mano destra.
-No, Evelyn!- mi dissi.
Sciolsi la stecca di ghiaccio e arretrai ad ogni passo che faceva il tizio mascherato. Fino a ritrovarmi vicino alla cassa. Lasciai cadere il cestello per terra e balzai alle spalle del tizio che minacciava il commesso e con una mano sulla sua bocca gli feci inalare del ghiaccio e poi gli sferrai un pugno sulla mandibola, rompendogliela.
L’altro tizio si avvicinò puntandomi una pistola.
Il commesso si era nascosto dietro la cassa, con le gambe raggomitolate al petto.
Era il momento giusto: allungai una mano verso il rapinatore e congelai le sue mani alla pistola, poi con un calcio gliele ruppi. Cadde a terra vicino al suo compare, dolorante. Presi il cestello e lasciai i soldi al commesso che mi guardò atterrito.
Uscii dal market ma un colpo di pistola mi colpì alla spalla.

____________________________________________
 
Buonasera :)
Eccoci arrivati al secondo capitolo! Qui appare uno dei Fantastici 4: La Torcia, ovvero Johnny Storm.
Ma da qui inizieranno i guai per la cara Evelyn. Keep Reading!
La citazione sopra è tratta da New Divide dei Linkin Park (la citazione è la parte più difficile di tutto il capitolo! Non riesco a mai a trovare quella giusta!)
See you soon,
Artemis Black

 

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Capitolo 3
*** Una serie di sfortunati eventi. ***


Una serie di sfortunati eventi.

Sitting in the dark, I can’t forget.
Even now, I realize the time I’ll never get.
Another story of the Bitter Pills of Fate.
I can’t go back again.

Avevo lasciato il cestello in cucina ed ero corsa in bagno.
Presi il kit di primo soccorso e mi tolsi la felpa nera impregnata di sangue.
Mi fasciai stretta la spalla e il sangue sembrò fermarsi, poi mi venne in mente un’idea: misi una mano sulla ferita bendata e la congelai.
Poteva andare, almeno per la serata. Non potevo assolutamente mancare al lavoro, altrimenti non mi avrebbero pagato e le bollette di certo non si pagavano da sole.
Guidare si era rivelato un grande sbaglio, per poco non provocai un’incidente.
Quando arrivai al lavoro, chiesi ad Amy di coprirmi per 5 minuti. Andai nella toilette per controllare la ferita, che nel frattempo si era riaperta.
Le bende erano zuppe di sangue. Le cambiai e poi riprovai a congelare la spalla, almeno avrebbe tenuto per qualche ora.
Era assurdo che i miei poteri su di me non funzionassero.
Ah, e per giunta avevo tradito la promessa che mi ero fatta: non usare i poteri.
Che bella giornata.
“Ehi, tutto apposto?” mi chiese Amy.
“Si, tutto ok.” Dissi.
“Sicura? Sei pallida.” Disse e poggiò una mano sulla mia spalla.
Una fitta di dolore per poco non mi fece cascare, mi appoggiai con forza al bancone e strinsi i denti.
“Si.” Dissi a denti stretti.
“Ehi Biancaneve, me lo prepari un mojito?” era il biondino.
Alzai il viso e trattenni un smorfia di dolore.
“Subito.” Risposi.
“Tutto apposto?” disse accigliato.
“Una meraviglia!” gli risposi.
Non riuscivo a usare il braccio destro per il male alla spalla. Impiegai tantissimo tempo per fare un semplice drink e quando glielo porsi, feci attenzione a non toccare le sue mani.
Un giramento di testa mi provocò la nausea.
Le mie gambe non mi reggevano più.
Mi affrettai verso il retro del locale e quando uscii, mi accasciai a terra priva di forze.
Sbattevo gli occhi per rimanere lucida. Mi toccai la ferita e la felpa cominciava a impregnarsi del mio sangue.
“Tu non stai affatto bene.” Disse una voce, ma la mia vista era così offuscata che non riconobbi chi mi prese in braccio.
“Sto.. bene… so cavarmela da sola.” Furono le ultime parole che pronunciai.
 
L’odore di carne bruciata mi dava il voltastomaco. Sangue ovunque, la morte la faceva da padrone in quella stanza. 
“Jessica?!” dissi incerta.
Il suo volto sfigurato mi fece rizzare i capelli, gli occhi sbarrati di Rick mi fecero urlare come una forsennata e la testa deforme di James mi fece vomitare. 
Mi sveglia di botto con quelle immagini raccapriccianti ben impresse nella mia mente.
“Era solo un sogno.” Dissi.
Poi mi guardai attorno… non ero nella mia stanza. Ero sdraiata in un lettone con la spalla fasciata e dei vestiti puliti addosso.
Il dolore alla spalla era diminuito notevolmente oltre al fatto che la ferita non sanguinasse più. La stanza era pittura di un color bronzo troppo appariscente per i miei gusti, per non parlare della vetrata immensa che c’era affianco al letto: la vista era spettacolare, ma per una come me che soffriva di vertigini, non era il massimo. Scesi dal letto e feci caso alla temperatura della stanza: era afosa (per me) ed era quasi insopportabile. Andai nel bagno e mi sciacquai il viso con la mano sinistra e mi specchiai: i capelli erano un disastro per non parlare della mia pelle, più bianca del solito.
Avevo indosso una camicia da notte di seta nera, che arrivava a metà coscia e terminava con un bordo di pizzo. Mi sentivo in leggero disagio ad indossarla, così aprii il primo cassetto di un mobile e vi trovai delle magliette da uomo. Ne indossai una a caso che mi arrivava quasi al ginocchio.
Uscii dalla stanza e mi ritrovai in un corridoio con altre porte. Alla fine del corridoio c'era la cucina che era un tutt'uno con il salone.
Mi poggiai al bancone poichè un capogiro mi aveva colto alla sprovvista.
"Ehi, dovresti rimanere a letto." disse un uomo.
Mi girai e vidi dietro di me un uomo sulla trentina con i capelli mezzi bianchi.
"Lo scienziato..." sussurrai.
"Sei informata." disse e allungo, letteralmente, la mano verso la mia.
"Piacere, dottor Reed Richard." disse stringendomi la mano.
"Meglio noto come Mister Fantastic!" disse una donna bionda che apparve alle sue spalle.
"Sono Susan Storm, sua moglie." si presentó.
"Nonchè la donna invisibile." disse Reed, schioccandole un bacio sulla guancia.
"Ehm, io sono Evelyn Smith... Barista part-time." Dissi sarcastica.
"Come fa una barista a beccarsi una pallottola ad una spalla?!" disse Reed interdetto.
Rimasi spiazzata.
"Reed, non metterla a disagio." gli sussurró Sue.
"Il minimo è darci una spiegazione dopo che Johnny ce l' ha portata a casa moribonda." le rispose Reed.
"Ha ragione." dissi e gli spiegai cosa mi era successo, ma omettendo la parte in cui usavo i miei poteri.
“Oh… capisco.” Disse la donna.
“Ehm… una domanda.” Dissi imbarazzata guardandomi la felpa.
“Oh! Tranquilla, sono stata io a cambiarti i vestiti, gli altri erano macchiati di sangue.” Disse Susan facendomi l’occhiolino.
“Grazie Susan.” Dissi.
“Chiamami Sue! Reed, caro, dobbiamo andare.” Disse lei rivolgendosi al marito.
“Certo!” le rispose lui.
“Noi abbiamo da fare, ma Johnny sarà a casa tra poco. Tu va a sdraiarti che è meglio.” Disse Sue portandomi in camera.
Volevo oppormi, ma non lo feci. D’altronde non volevo sembrare maleducata e irrispettosa nei loro confronti.
Una volta che furono usciti, mi fiondai in cucina in cerca di cibo.
Quando aprii il frigo e sentii il fresco fuoriuscire, avvicinai il mio viso per godere di quella leggera brezza che mi donava sollievo.
“Se vuoi mangiare, ho preso delle ciambelle e dei pretzel caldi.” Disse una voce.
Colta in flagrante, chiusi il frigo di scatto e mi girai verso colui che mi aveva parlato.
“Quella maglietta mi è familiare… Ne avevo una identica quando giocavo a football al liceo!” disse sorridendomi.
Arrossii violentemente e cercai di allungare la maglia con le mani.
“L’ho presa in prestito.” Dissi.
“Puoi tenerla se ti piace.” Disse e si tolse il cappotto.
“Come stai?” disse avvicinandosi a me.
La sua presenza mi surriscaldava in tutti i sensi: non solo perché emanava calore in modo diverso dagli altri, ma c’era qualcosa che mi metteva a disagio.
Stava per avvicinare una mano alla mia spalla quando indietreggiai istintivamente.
“Voglio soltanto controllare la ferita.” Disse.
“Non ci siamo ancora conosciuti e già vuoi togliermi i vestiti di dosso?” ma che diavolo avevo detto?!
Scoppiò a ridere come un bambino.
“Piacere, Johnny Storm meglio noto come La Torcia.” Disse lui, vantandosi.
“Evelyn Smith…” dissi.
“Mi fai controllare la ferita?!” disse lui.
Ci sedemmo sul divano, io di spalle a lui e quando mi alzò la maglietta per slegare le bende, la sua pelle rovente toccò la mia.
“Sei congelata.” disse lui.
 “Si, è la mia temperatura normale.” Risposi.
“O forse era colpa di quella lastra di ghiaccio che avevi sopra la ferita ieri sera quando ti ho soccorsa.” Disse lui.
Dannazione.
“Ma che dici?!” dissi, cercando di sviare il discorso.
“Come hai fatto a… insomma, avevi una lastra di ghiaccio!” disse lui sbalordito.
“Non lo so.” Dissi fredda.
“Non lo sai o non lo vuoi dire?” mi chiese mentre mi riabbassava la maglia.
“Forse entrambe.” Ammisi.
Johnny si alzò dal divano e mi passò accanto.
“Il tuo cellulare è da ieri sera che squilla.” Disse porgendomelo.
“Dannazione!” dissi prendendo in mano.
C’erano svariate chiamate di Mary, di mia nonna e di Joe.
Per prima chiamai mia nonna per tranquillizzarla e poi chiamai Joe.
“Evelyn! Ieri sera dove ti eri cacciata?” mi chiese infuriato.
“Ecco io, non mi sono sentita bene.” Dissi mentre cercavo di inventarmi una scusa più plausibile.
“Oh signorina hai oltrepassato il limite! Non presentarti stasera e mai più, sei licenziata!” disse attaccandomi in faccia.
“No! Aspetti!” dissi invano.
Imprecai.
“Che ragazza fine.” Mi sentii dire alle spalle dal biondino.
Lo fulminai con lo sguardo e mi fiondai in camera in cerca dei miei vestiti.
“Non puoi andare in giro con i vestiti impregnati di sangue.” Disse lui seguendomi.
“Non hai nient’altro di meglio da fare che seguirmi?” gli chiesi acida.
“Sai, questa è casa mia e faccio quello che voglio!” mi rispose.
Non aveva tutti i torti.
“Senti, io ti ringrazio infinitamente per avermi… aiutato ieri sera, ma adesso devo andare e mi servono dei vestiti.” Dissi schietta.
Lui sparì dall’uscio della porta e riapparve poco dopo con dei vestiti femminili in mano.
“Problemi a lavoro?” mi chiese mentre me li dava.
“Quale lavoro? Non ho più un lavoro.” Dissi amaramente.
“Se vuoi posso parlare con il proprietario per farti riavere il lavoro… Ho una certa influenza.” Disse lui vantandosi.
“Non ho bisogno del tuo aiuto, non più. Ti sono grata per ieri sera, ma le nostre strade adesso si separano.” Dissi.
“Come vuoi.” Mi rispose e chiuse la porta.
Mi vestii velocemente con il paio di jeans, la maglia a maniche lunga nera e il chiodo rosso che mi aveva dato Johnny.
-Le chiavi della moto!- mi venne in mente.
Uscii dalla stanza e andai in cerca del biondino.
“Johnny?!” lo chiamai.
In sala non c’era e quindi neanche in cucina, nelle altre stanze non c’era perciò andai fuori sul terrazzo.
“Johnny!” lo vidi sull’orlo del cornicione, poco prima che si buttasse  giù.
“O mio dio!” urlai.
Mi avvicinai e guardai di sotto: sparito.
In più, soffrendo di vertigini, un capogiro mi colse alla sprovvista e indietreggiai, inciampando sui miei stessi piedi, finendo con il sedere a terra.
“Tutto ok?” mi chiese.
“Si, cer- Cristo!” imprecai.
Johnny era completamente avvolto da delle fiamme: ecco La Torcia, signori e signore.
“Ti ho spaventato?” mi chiese avvicinandosi.
“No, no.” Dissi deglutendo rumorosamente.
Si avvicinò a me e io indietreggiai.
Mi guardò strano ed imperterrito avanzò verso di me. Indietreggiai fino a sbattere al muro della casa.
“Dove sono le chiavi della mia moto?” chiesi, cercando di distrarlo.
La sua forma infuocata, mi stava facendo mancare il respiro.
“Sul tavolo della sala.” Rispose e riuscii a scorgere un ghigno in mezzo a quel fuoco vivente.
“Scusa, ora devo andare. A quanto pare hanno bisogno di me!” mi disse e volò via.
Appena scomparve dalla mia vista, tirai un sospiro di sollievo e ripresi a respirare regolarmente. Presi al volo le chiavi e mi fiondai verso l’ascensore.
“Evelyn! Già vai via?” Susan uscì dall’ascensore.
“Ehm si, ho da fare.” Dissi nervosa.
“Vuoi un passaggio? Ti serve qualcosa? La ferita è apposto?” mi chiese a raffica.
“Tutto ok, ho la moto e devo proprio andare adesso.” Dissi impaziente.
“Oh ok! Rimaniamo in contatto, mi raccomando. Stammi bene.” Mi disse sorridendomi.
“Certo, addio.” Dissi e spinsi il bottone del pian terreno dell’ascensore.
Finalmente ero uscita da quella casa di pazzi. Eppure qualcosa mi diceva che non sarebbe stata l’ultima volta che li avrei visti.
Sfrecciai verso casa con l’acceleratore al massimo. In meno di dieci minuti mi ritrovai a casa.
“Evelyn! Mi hai fatto stare in pensiero, potevi almeno avvertire!” mi disse mia nonna.
“Lo so, nonna. Mi dispiace tantissimo! Ma adesso devo scappare a lavoro, se no farò tardi.” Gli dissi schioccandole un bacio sulla guancia.
“Ah ragazza mia! Tu mi farai uscire matta!” disse mentre io uscivo di casa.
Quando arrivai davanti l’edicola, la trovai stranamente chiusa.
Passai per il negozio di dolciumi della moglie di Harris e anche questo era chiuso. Presi il cellulare e lo chiamai.
Uno, due, tre, al quarto squillo rispose una voce femminile.
“Ehm, cercavo Harris.” Dissi.
“Sei Evelyn? Ciao, sono la figlia di Harris, Amanda.” Mi disse.
“Ciao, senti io sono davanti l’edicola di tu padre ma non c’è nessuno.” risposi.
“Lo so, Evelyn. Devi sapere che… che mio padre è venuto a mancare ieri sera.” Mi disse con voce rotta.
“Cosa? Come?” chiesi frastornata.
“Un infarto…” mi rispose con un filo di voce.
“O mio… mi dispiace, davvero io non so…” mi passai una mano sui capelli.
Non era possibile. Non ci credevo.
“Domani faremo una piccola cerimonia al cimitero.” Mi informò.
“Oh si, non mancherò assolutamente. Condoglianze.” Dissi ancora incredula.
“Grazie Evelyn.” Mi rispose e poi attaccò.
Ero scioccata, emotivamente impreparata per affrontare un’altra morte. Saltai in sella e cominciai a girare a vuoto, senza una meta precisa. I miei pensieri galoppavano e la mia mente era ormai fottuta.
Era accaduto tutto in una notte, proprio come 3 anni fa.
Fermai la moto di fronte il pub in cui lavoravo ed entrai nel locale per vedere Amy.
“Evelyn! Mio dio!” disse appena mi vide.
“Ehi.” Feci un cenno con la testa.
“Il capo è furioso, lo sai?!” mi disse mentre puliva dei bicchieri.
“Veramente mi ha già licenziata, stamattina.” Dissi alzando le spalle.
“Oh…” mi rispose.
“E inoltre il proprietario dell’edicola in cui lavoravo è morto ieri sera per infarto e adesso io mi ritrovo senza uno straccio di lavoro e per di più siamo a fine mese, il che vuol dire bollette in arrivo ed io ho zero contante.” Sputai tutto fuori.
“Sai che ti ci vuole?” mi disse lei sorridendomi.
“Un super-alcolico!” replicai.
“Esattamente! Questo lo offre la casa.” Mi disse mentre mescolava i vari tipi di alcolici in un unico mixer.
“Con tanto ghiaccio.” Gli dissi.
Quando mi passò il bicchiere, buttai giù tutto senza prendere fiato.
“Uuuh! Ragazza tosta!” sentii quella voce alle spalle.
“Non ci posso credere.” Dissi alzando gli occhi al cielo.
“Felice di rivederti anche a te, Evelyn.” Mi disse accomodandosi affianco a me.
“Non mi presenti il tuo nuovo amico?!” mi chiese Amy.
“Johnny, Amy. Amy, Johnny.” Dissi.
“Sapevo già chi era, la presentazione era pura formalità.” Disse Amy sbattendo le ciglia.
Ci stava forse provando?!
“Vedi, a qualcuno piace la mia presenza.” Mi disse Johnny, inumidendosi le labbra.
“Ma fammi il piacere… secondo giro.” Dissi ad Amy.
“Questo però-“
“Non lo paga la casa, lo so.” La interruppi.
E anche il secondo lo buttai giù, mentre Johnny ed Amy conversavano allegramente.
Mi alzai dallo sgabello e me ne andai, stufa di vedere quei due flirtare spensierati mentre io ero incasinata fino al collo.
“Ehi! Aspetta! Non puoi guidare nelle tue condizioni.” Mi disse il biondino rincorrendomi.
“Non sei la mia balia!” gli dissi.
“Non ti lascio guidare in queste condizioni.” Disse sedendosi sopra la mia moto.
Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo.
“Senti è una giornata di merda per me! Tu non hai nulla da fare che seguirmi?” sbottai.
“Mmm si in effetti avrei da fare.” Disse mettendosi una mano sul mento.
“Perfetto! Adesso scendi dalla mia moto.” Dissi con un sorriso falso.
“No.” Mi rispose sorridendo.
Mi stava dando i nervi.
“Vorrei andare a casa, se non ti dispiace.” Incrociai le braccia.
“Ok, dammi le chiavi ti ci porto io.” Disse.
“Cosa? La mia moto la guido solo io.” Dissi.
Lui rimase impassibile.
“E va bene!” dissi dandogli le chiavi.
Un sorriso sbilenco comparve sul suo viso e mi fece avvampare.
“Reggiti forte!” disse scherzando.
Salii in sella dietro di lui e con imbarazzo strinsi le mie braccia intorno alla sua vita. Fortuna che lui era girato in avanti e non poteva vedere la mia faccia rosso peperone.
Gli dissi, a mio malgrado, dove abitavo e poi partimmo.
Se io ero un pericolo pubblico a guidare, a lui dovevano proprio togliergliela la patente! Più e più volte sorpassava con una velocità inaudita e per poco non rischiavamo un frontale con un tir.
Quando scesi dalla moto, gli strappai le chiavi di mano e lo fulminai con uno sguardo torvo.
Una fitta di dolore alla spalla mi mozzò il fiato.
 “Ehi?” disse Johnny.
“Credo che la ferita si sia riaperta.” Dissi a denti stretti.
“Entriamo in casa, devo vederla.” Mi disse.
“No!” replicai.
Mi guardò con un grade punto interrogativo disegnato sulla fronte.
“C’è mia nonna.” Dissi imbarazzata.
“O mio dio… digli che sono il tuo ragazzo!” disse lui.
“Neanche morta!” risposi.
“Evelyn devo vederti la ferita.” Mi disse serio.
Sbuffai ed aprii la porta di casa con molta calma.
“Evelyn?”
Ed io che pensavo di entrare di nascosto e sgattaiolare in camera in silenzio.
“Si nonna?” risposi.
“Ma non dovevi andare a lavoro?” disse venendomi incontro.
“Ehm no, ecco… c’è stato un disguido.” Le risposi.
“Ah capito… chi è questo giovanotto?” mi chiese, guardandomi.
“Sono il suo ragazzo, piacere di conoscerla signora.” Disse Johnny con un sorriso smagliante.
Lo fulminai con lo sguardo e nel frattempo mi maledicevo per averlo portato con me.
“Oh! Evelyn, non mi avevi mai detto che avevi un fidanzato.” Mi disse la nonna.
“Ehm no, ecco…” mi grattai la nuca in cerca di qualche scusa.
“Sono passato solamente per prendere il computer di sua nipote, dice che non gli funziona così pensavo di dargli un’occhiata.” Disse lui, molto languido.
“Ma che ragazzo gentile!” disse la nonna sorridendogli.
Anche mia nonna era stata ammaliata dal biondino dagli occhi azzurri con un sorriso da far svenire.
“Se non le dispiace…” disse lui avviandosi verso le scale.
“Ma certo che no!” disse la nonna.
“Seconda porta a sinistra.” Dissi io, seguendolo a ruota.
“Evelyn, aspetta un momento…” disse la nonna.            
“Cosa c’è?” la spalla cominciava a pulsare e a dolere sempre di più.
“Mi raccomando, vedi che puoi fare con quel giovanotto… sempre simpatico e a modo, trattalo bene.” Mi disse.
Mia nonna era sempre stata dell’idea che io e James saremmo stati bene insieme, le era sempre piaciuto e spesso mi diceva di portarlo a casa. Ma lei non sapeva che James era morto adesso. Le avevo detto che si era trasferito in Europa.
“Certamente nonna.” Le dissi rassicurandola.
Salii le scale di corsa e andai in bagno per prendere il kit di primo soccorso. In camera, Johnny mi stava aspettando seduto sul letto.
“Sei bianca cadaverica.” Disse guardandomi in viso.
Mi tolsi il giacchetto e la maglia con il suo aiuto, la ferita aveva ripreso a sanguinare.
“Sei riuscita a farti saltare i punti.” Disse lui irritato.
Prese un paio di forbici piccole che c’erano nel kit e cominciò a togliere i punti che ormai si erano rotti.
“Questa dovrebbe far male.” Disse.
Ad ogni punto tolto, il dolore cresceva e il bruciore diventava sempre più insopportabile.
“Fa qualcosa!” dissi digrignando i denti.
“Non sono un medico! Devo portarti da Reed.” Disse.
Prese le bende e cominciò a stringerle forti intorno alla spalla per cercare di fermare il flusso di sangue. Mi aiutò a mettere una felpa e poi un giacchetto che mi avrebbero tenuto al caldo.
“No… non mi servono.” Dissi.
“Devi metterli altrimenti ti raffreddi.” Insisté.
“Oh, non preoccuparti…” dissi.
 “Di a mia nonna che stiamo uscendo.” Gli dissi mentre mi incamminavo velocemente verso le scale. Stavo per venire a meno del giuramento che avevo fatto. Imposi una mano sulla spalla e in meno di un secondo una spessa lastra di ghiaccio si era formata su di essa, poi indossai il giacchetto.  Uscii di casa e Johnny mi seguì a ruota.
Saltammo in moto e in men che non si dica fummo di fronte al Baxter Building.
“Non ce la faccio a camminare.” Dissi appena pocciai un piede a terra. Se non ci fosse stato Johnny a sorreggermi, sarei caduta a terra.
Mi prese in braccio e mi portò dentro. La mia vista era sfocata e la spalla mi doleva da morire.
L’ultima cosa che vidi furono gli occhi preoccupati di Sue e Reed, ed uno strano omaccione arancione. 

___________________________________________
Buongiorno!
Eccoci giunti al terzo capitolo :)
Le cose per Evelyn cominciano a mettersi male e presto avrà bisogno dell'aiuto dei Fantastici 4, lo accetterà? Chi lo sa u.u
Inoltre fino adesso non ho ricevuto nessuna recensione anche se le visualizzazioni sono alte, perciò fatemi sapere che ne pensate (anche due paroline, ma saranno utili per una come me che è paranoica e rilegge i capitoli tremila volte prima di pubblicarli xD)
La citazione è tratta dalla canzone Dead Memories dei Slipknot, stavolta l'ho azzeccata bene!
See you soon,
Artemis Black

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Capitolo 4
*** Non voglio far del male a nessuno. ***


Non voglio far del male a nessuno.

Her gift is a curse, forget the earth she's got the urge [...]
This fucking black clouds still follows me around

But its time to exercise these demons
These motherfuckers are doing jumping jacks now!

 

Mi svegliai con una spalla mezza intorpidita e la testa che mi doleva in un modo assurdo.

Accanto a me c’era Johnny che dormiva beato.

Un momento… perché Johnny dormiva nel mio stesso letto?!
Feci per alzarmi ma una mano mi tirò indietro nel letto.
“Devi rimanere a letto, altrimenti i punti saltano di nuovo.” Disse la voce impastata di sonno di Johnny.
“Ho una cosa importante da fare oggi.” Dissi e mi rialzai di nuovo.               
Mi afferrò per un braccio e mi attirò a se stringendomi tra le sue braccia.
“Mi dispiace ma sei agli arresti domiciliari.” Disse.
Ero arrossita violentemente non perché avessi caldo, ma perché ero appoggiata con la schiena sul suo petto nudo ed ero avvolta tra le sue braccia.
“Potresti… lasciarmi.” Dissi.
“Si ma non uscirai di qui.” Disse lui liberandomi da quella morsa di fuoco.
Mi alzai dal letto e notai di avere indosso la stessa maglietta che avevo preso il giorno prima.
“Quindi questa è camera tua?” dissi guardandomi attorno.
“Si.” Confermò e si alzò anche lui dal letto.
“Se mi vedessero i miei genitori in questo momento…” sussurrai tra me e me.
“Ti direbbero che sei una cattiva ragazza perché hai dormito con un ragazzo?!” Mi domandò Johnny con tono sfacciato.
“Non lo so… non so neanche che figlia avrebbero voluto avere.” Dissi.
“Perché?” mi chiese.
“Perché sono morti in un incidente stradale quando io ero ancora in fasce.” Dissi con molta disinvoltura.
Non ero mai riuscita ad affrontare la morte dei miei poiché per me erano come… estranei, non li ricordavo e non li avevo mai conosciuti. Come fa una persona ad affrontare la morte di due perfetti sconosciuti? Non l’affronta, la supera e va avanti.
Johnny rimase interdetto.
“Mi dispiace.” Disse. Alzai le spalle al cielo.
“Anche mia madre è morta in un incidente.” Aggiunse.
Non capivo il perché di questa sua esternazione, finchè non vidi che aveva il volto abbassato e i pugni serrati. Evidentemente, non accettava ancora la sua morte.
“Mi spiace…” fu l’unica cosa che dissi.
Johnny si rilassò e tornò quello di sempre, sfoggiando un sorriso strafottente.
“Come ti dicevo ho da fare e vorrei riavere i miei vestiti indietro.” Dissi.
“Non so dove sono, li ha presi Sue.” Disse lui entrando in bagno e chiudendo la porta.
“Ti odio.” Sussurrai.
“Ti ho sentito!” disse lui da dentro il bagno.
Sbuffai.
Uscii dalla stanza cercando di abbassare la maglia con le mani, visto che mi arrivava a metà coscia.
Andai in salotto per vedere se Susan fosse lì, invece mi ritrovai davanti un omone arancione fatto di… pietra.
“Ops, scusami tanto.” Disse lui.
“Ehm, di niente… questa casa non finisce mai di stupirmi.” Dissi.
“Tu devi essere la ragazza di Johnny?” mi chiese, scrutando il mio abbigliamento.
“No!” dissi con una nota di rabbia.
“Oh! Ehm… comunque io sono Ben, Ben Grimm.” disse lui alzando una mano.
“Evelyn Smith.” Dissi con un sorriso.
“Hai visto Susan?” chiesi.
“Si è nel laboratorio con Reed. Se vuoi ti ci accompagno.” Mi disse con un sorriso.
“Te ne sarei grata.”
Arrivati nel laboratorio, vidi Reed e Susan che ridevano allegramente. Erano carini insieme e mi chiedevo come una persona così dolce ed educata potesse essere la sorella di Johnny.
“Evelyn!” disse appena mi vide.
“Come stai?” mi chiese Reed.
“Bene. Grazie per avermi… ecco, aiutato di nuovo. Ve ne sarò infinitamente grata.” Dissi un po’ imbarazzata.
“Non c’è di che.” Mi rispose Reed.
“Sue, sai dove sono i miei vestiti?” chiesi.
“Certo, vieni con me.” 
Andammo nella sua stanza e me li diede.
“Mi raccomando, non sforzare la spalla. Sarebbe meglio che tu rimanessi a letto per oggi…” mi disse.
“Ho una cosa importante da fare.” Le risposi.
“E non puoi rimandarla?” Disse lei.
“No… non posso.” Le risposi rammaricata.
Tornai in camera e per poco non mi prese un infarto: Johnny era appena uscito dalla doccia ed aveva indosso soltanto uno asciugamano stretto in vita.
“Vedo che hai trovato i vestiti.” Disse lui.
“E tu invece li hai persi.” Deglutii cercando di guardarlo in faccia.
Mi rifugiai in bagno per vestirmi e per controllare il mio stato.
La fasciatura sulla spalla era stretta e mi impediva di mettere la maglia autonomamente, perciò mi misi prima i jeans, sistemai i capelli e poi mi sciacquai il viso.
Sbirciai fuori dalla porta in cerca di Johnny, ma in camera non c’era. Perciò mi arrangiai da sola e con fatica riuscii a mettermi la maglia e poi il giacchetto.
Le chiavi della moto ce le doveva avere lui, perciò cominciai a rovistare nei cassetti della camera ma non le trovai.
Uscii dalla stanza e andai nel salone, ma non c‘era nessuno, così scesi nel laboratorio e poco prima di varcare la soglia sentii la voce di Johnny parlare di me.
Mi nascosi dietro la porta socchiusa e ascoltai ciò che stava dicendo.
“Ti dico che l’ho vista con i miei occhi!” diceva Johnny.
“Dalle sue mani è uscito fuori una specie di brina che gli ha congelato la spalla!” aggiunse.
“Un po’ come tu prendi fuoco, le ha il potere di congelare le cose?” chiese Sue.
“Esattamente!” annuì Johnny.
“Ma come è possibile?” si chiese Ben.
“Sarà frutto di qualche esperimento… di sicuro non è andata nello spazio come noi, se no l’avremmo saputo.” Disse Reed.
“Chi farebbe esperimenti su un umano?” disse Sue inorridita.
“Pazzi, scienziati con la testa schizzata., ecco chi.” Disse Johnny.
“Mi piacerebbe tanto analizzare il suo DNA e compararlo al nostro…” disse Reed.
Con la mano destra mi tenevo alla maniglia della porta e mi accorsi soltanto dopo, che l’avevo praticamente congelata senza accorgermene.
Tolsi la mano, ma mi portai dietro tutta la maniglia.
I ragazzi dentro la stanza si girarono verso la porta e  vidi Johnny avvicinarsi. Non so cosa mi fosse passato per la testa, so solo che lasciai cadere a terra la maniglia e mi misi a correre. Sul tavolino vicino all’ascensore c’erano le chiavi della mia moto. Le presi al volo e mi fiondai nell’ascensore.
Quando uscii fuori, imboccai per il vicolo dove la sera prima Johnny aveva parcheggiato la mia moto. Saltai in sella e spinsi l’acceleratore al massimo.
Sfrecciai tra le macchina, sorpassai come una pazza e passai con il rosso a parecchi semafori. Mi fermai soltanto quando fui arrivata all’entrata del cimitero.
Il silenzio surreale di quel posto mi colpì come sempre: la mia mente era così rumorosa in confronto. Affrettai il passo verso la lapide di Harris, dove erano riunite alcune persone. Il tempo era cambiato drasticamente: le nuvole scure promettevano pioggia e il vento scuoteva le chiome degli alberi sempreverde con forza.
Quando arrivai al cospetto della figlia e della moglie di Harris, la cerimonia si era appena conclusa e la piccola folla che si era radunata lì, andava via via disperdendosi.
“Condoglianze.” Dissi con un’espressione triste.
“Grazie tesoro.” Le mani dell’anziana signora mi cinsero le mie guance e i suoi occhi appannati dalle lacrime mi regalarono un debole sorriso.
Mentre altri parenti portavano via la povera vedova, la figlia mi prese da parte.
“Questi sono i soldi che mio padre ti doveva per il tuo operato del mese.” Mi disse porgendomi una busta.
Cercai invano di non accettarli, ma la ragazza fu molto persuasiva.
“Tienili, ti serviranno.” Mi disse prima di andarsene.
Rimasi da sola, dinanzi un’altra lapide. Mi avvicinai e presi un fiore dalla corona lì vicino.
“Oh Harris, mi mancherai.” Dissi, poi lanciai il fiore sopra la bara.
La pioggia cominciò a scendere copiosa, bagnandomi i capelli e scivolando giù sul giacchetto.
Rimasi lì ancora un po’… poi decisi di andare a trovare tre persone a me care.
Poco più lontano, c’erano Jessica e Rick e James che riposavano l’uno accanto all’altra. Mi mancavano da morire, ma non riuscivo a dirlo.
Una lacrima sfuggì al mio controllo e scesa giù per la mia guancia, mimetizzandosi tra le gocce di pioggia che bagnavano il mio viso. Mi inginocchiai tra le lapidi e rimasi lì per un po’, tra i miei migliori amici, cercando il loro conforto.
La pioggia non accennò a fermarsi, così dopo un po’, mi alzai e mi avviai verso casa.
Guidare con una spalla in pessime condizione e la pioggia, non era il massimo, ma poco prima che arrivassi davanti casa mi accorsi di qualcosa di sospetto. Lasciai la moto in un vicolo lì vicino e mi avvicinai piano piano, senza farmi vedere.
C’era una macchina scura davanti casa. Il primo istinto fu quello di correre dentro e trovare mia nonna, poi mi accorsi che qualcuno stava uscendo da lì: erano Johnny e Sue.
E se avessero raccontato tutto a mia nonna? Non osavo immaginare la sua faccia inorridita.
La pioggia cessò lentamente di scendere.
Mia nonna uscì sul portico e disse qualcosa ai due. L’unica cosa che capii dal suo labiale fu di chiamarla se  mi avessero trovato.
Quando i due se ne andarono, una macchina appartata si parcheggio poco distante dalla casa e i due uomini dentro il veicolo erano muniti di binocolo. Era come se stessero tenendo sott’occhio la casa nel momento in cui fossi tornata.
Inveii di brutto.
Se non altro mia nonna non correva alcun pericolo. Ma dovevo almeno lasciargli i soldi per pagare le bollette del mese.
Dovevo ricorrere ai metodi da ladra che erano assopiti da qualche parte dentro me stessa.
Presi una strada secondaria e arrivai dietro casa, entrando attraverso il cancelletto del retro. Presi la scala e mi arrampicai fino ad arrivare allo scolo dell’acqua. Scavalcai e mi ritrovai davanti la finestra della mia camera. La sbloccai con l’aiuto di una forcina ed entrai dentro. Feci il minimo rumore, presi carta e penna e scrissi su un biglietto che i soldi nella busta servivano per pagare le bollette.
Uscii dalla mia camera e lasciai la busta sul comodino della stanza di mia nonna.
Tornai in camera, presi una zaino e lo riempii di vestiti, poi presi i soldi che stavo mettendo da parte per un eventuale moto nuova e me li infilai in tasca.
Uscii dalla finestra e la richiusi. Saltai giù dal tetto e corsi via.
Arrivai alla moto e mi accorsi che qualcosa non andava.
Un uomo dietro di me mi illuminò con una torcia e mi urlò di rimanere ferma.
Ma il mio spirito ribelle ebbe la meglio, sgommai con la moto e mi infilai nelle vie meno affollate di Manhattan.
L’auto scura che prima era parcheggiata fuori casa, adesso mi stava rincorrendo. Per un momento sentii anche degli spari. Mi girai per vedere quanto distanza ci separava e a mio malgrado vidi che mi stavano incollati al paraurti.
Svoltai per alcuni vicoli stretti, cercai di sorpassare chiunque, ma quelli mi stavano con il fiato sul collo.
Avevo imboccato un vicolo stretto e stavo per sbucare in una strada poco trafficata, quando un tir mi tagliò la strada. Sentii l’auto dietro di me stridere e frenare appena in tempo, ma io non ce la feci. Girai la moto, ma la ruota posteriore mi tradì e scivolai a terra. La moto passò sotto il tir e si fermò subito dopo. Io mi ero fermata nel punto sbagliato, le ruote del camion stavano per falciarmi, quando qualcosa dal colore azzurrino mi avvolse.
Chiusi gli occhi nell’attesa di morire.
Ma quando li riaprii vidi a poca distanza da me il tir che sbandava e due delle ruote posteriori squarciate. Intorno a me si era creato una specie di scudo di ghiaccio che mi aveva protetto.
Stavo per rialzarmi in piedi quando sentii qualcuno intimarmi di non muovermi.
Uno dei due uomini che mi inseguivano, era a pochi passi da me e impugnava una pistola.
“Sta ferma!” mi urlò.
“Cosa volete da me?” gli urlai.
“Metti le mani dietro la testa!” aggiunse.
Feci come mi aveva detto. Appoggiai lentamente le mani dietro la nuca e aspettai che l’uomo si avvicinasse di più.
“Lasciatemi in pace.” Dissi a denti stretti.
Una volta che fu a pochi centimetri da me, scattai in piedi e stesi le mani davanti a me. L’uomo non aveva neanche fatto in tempo a rialzare la pistola, che si ritrovò congelato.
Il suo compare dietro lo sportello dell’auto cominciò a spararmi contro. Mi riparai dietro alcuni secchioni dell’immondizia e appena quello finì le cartucce nella pistola, congelai lo sportello e con un calcio lo staccai dall’auto, facendolo volare lontano. Il tizio nel frattempo aveva perso la pistola e la cercava frettolosamente.
Una volta che mi parai davanti a lui, ingaggiai una lotta corpo a corpo. Ero una vera e propria schiappa a menare, ma era la forza di non arrendermi che mi dava la carica e la giusta grinta.
Con un calcio nei zebedei lo feci piegare in due e con una ginocchiata al mento lo atterai. La foga aveva preso il controllo di me e nella mia mano destra si era già formata una stalattite di ghiaccio.
Mi misi a cavalcioni del malcapitato, con una mano sul suo collo e l’altra alzata in aria con la stalattite, ero pronta a colpirlo.
“Non sono un esperimento!” gli urlai.
“Evelyn!” sentii urlare il mio nome.
Mi bloccai a metà strada, la punta della stalattite si poggiò lentamente sul petto dell’uomo a terra.
Alzai la testa e davanti a me apparve La Torcia. Subito dietro, comparvero Sue e Ben.
In men che non si dica, sopra la mia testa apparve un elicottero che mi puntava contro un faro e delle auto scure mi circondarono.
Perché riuscivo sempre a cacciarmi in situazione inverosimili?!
Tolsi la mano dalla gola del tizio e riassorbii la stalattite. Mi alzai in piedi e mi guardai attorno.
“Non si muova! Altrimenti agiremo di conseguenza!” dissero attraverso un auto parlante.
“No aspettate io…” mi mossi verso una delle auto.
Non l’avessi mai fatto: tutti gli agenti scaricarono le proprie pistole su di me.
“Noooo!” Sue urlò.
Fortuna che io ero stata più veloce di loro: due grandi scudi di ghiaccio mi avevano protetto, ma purtroppo avevano spedito indietro alcune pallottole.
Grazie al cielo gli agenti si erano riparati dietro le auto e nessuno era rimasto ferito.
Approfittai di quell’attimo di distrazione e corsi verso le automobili. Con un gesto fluido, congelai il tetto di alcune auto e ci scivolai sopra. Atterrai facendo una capriola e creai un muro di ghiaccio, per scongiurare qualsiasi attacco da parte loro. Corsi a perdi fiato, mi rifugiai in un vicolo cieco e salii sopra una vecchia scala di ferro, fino ad arrivare sopra al tetto del palazzo.
“Evelyn fermati!” mi urlò qualcuno alle mie spalle. Corsi fino a raggiungere il cornicione del palazzo, ma mi si parò davanti l’elicottero. Indietreggiai spaventata ed inciampai, cadendo a terra.
“Evelyn!” mi voltai e vidi Johnny corrermi vicino.
Ma qualcosa mi strinse forte, in una morse ferro. Era Reed che aveva allungato le braccia fino ad arrotolarle sul mio busto, imprigionandomi le braccia e impendendomi di muovermi.
“È per il tuo bene!” mi disse Johnny.
“Così non farai del male ad altre persone!” urlò Reed.
“Ma io non voglio far del male a nessuno!” urlai.
Le loro facce esterrefatte mi fecero capire che non avevano capito per niente con chi avevano a che fare.
Smisi di dimenarmi, mi abbandonai a terra scivolando sulle mie ginocchia.
“Io non voglio far del male a nessuno.” Dissi con le lacrime agli occhi.


_____________________________________________
Buonasera :)
eccoci giunti al terzo capitolo! 
che ne dite? Vi sta piacendo l'andamento?
Ammetto di essere tragica, molto tragica e vi avviso: questa storia non andrà a finire bene... per niente. L'ho scritta con il punto fisso di farla finire in qualche modo drammatico.
La citazione sopra è tratta dalla canzone Not Afraid di Eminem.
Recensite e fatemi sapere!
See you soon,
Artemis Black

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Capitolo 5
*** Proposte di lavoro. ***


Proposte di lavoro.
 

I never meant to cause you any sorrow, 
I never meant to cause you any pain. 
I only wanted to see you laughing in the purple rain.


 

“Voglio parlare con il tenente! Non mi è piaciuto affatto come la cosa è stata gestita!” sentii la voce ovattata di Reed dietro la porta.
Ero rinchiusa in una stanza, seduta su una scomoda sedia di legno, con le mani incatenate al tavolo di fronte a me.
“Non è stato il tenente a coordinare l’operazione.” Gli rispose qualcuno.
“Allora voglio parlare con il diretto interessato!” gli rispose a tono Reed.
“Mi dica pure, dottor Reed Richard.” Un’altra voce si era unita, aveva un tono più grave e roco.
“Le volevo parlare di come è stata trattata Evelyn!” sbottò il dottore.
“Venga, le darò spiegazioni.” Le due voci si allontanarono velocemente
Non so per quanto tempo rimasi dentro quella stanza desolata. Mi portarono anche del cibo.
“Non riesco a mangiare.” Gli dissi indicando le manette.
“Non è un problema mio.” Mi rispose la guardia.
La cosa mi fece arrabbiare in una maniera sconvolgente.
Passarono minuti, ore prima che qualcuno si fece vivo. Entrò un uomo di colore, con una benda sull’occhio sinistro e un abbigliamento alla Matrix, con una giacca nera lucida che gli arrivava fino ai piedi.
Si sedette di fronte a me e aprì un fascicolo con il mio nome scritto sopra.
“Signorina Smith, io sono il colonnello Nick Fury.” Disse. Era la voce roca e grave che avevo sentito prima.
“Le risponderei lieta di conoscerla se mi trovassi in un’altra situazione.” Risposi.
“Io non sarei così sarcastico.” Mi rispose senza staccare gli occhi dalla cartella che aveva sotto mano.
Deglutii rumorosamente: cosa poteva mai sapere su di me?
“Ci sono cose in questo fascicolo che la dipingono come una ladra ed assassina.” Mi disse.
Alzò lo sguardo e puntò il suo unico occhio nei miei.
Rimasi paralizzata.
“No…” sussurrai.
“Ha ucciso lei quest’uomo?” mi chiese mostrandomi una foto che ritraeva quel verme di uno scienziato tedesco.
Non gli risposi, ma gli lanciai un’occhiataccia.
“Signorina… risponda alla mia domanda.” Ribadì.
Non avevo altra scelta che confessare.
“Si.” Dissi a denti stretti.
Lui sospirò e chiuse il fascicolo.
“Oltre ad essere processata per vari furti, potrebbe essere processata per omicidio e pagare a vita queste sue bravate.” Mi disse massaggiandosi la mascella.
Io ero fredda, impassibile ad ogni parola che proferiva. Non riuscivo a capire come aveva fatto a scoprire che ero stata io. Ero stata attenta, minuziosa nel programmare l’agguato ed avevo evitato ogni sorta di telecamera.
“Nel cavò dello scienziato furono successivamente trovati tre corpi, due uomini e una donna. Potrebbe questo essere collegato a lei?” mi chiese.
“Se mi sta chiedendo se li ho uccisi, la risposta è no. È stato quel viscido tedesco ad ucciderli.”
“Perché lo ha fatto?” mi chiese interessato.
“Perché ci eravamo introdotti nel suo cavò, nella speranza di rubare qualcosa. Ma quello che trovammo… insomma… quel vecchio ci aveva attaccato a sangue freddo! Non eravamo neanche armati, santo dio!” sputai fuori le parole.
“Poi cosa è successo?” continuò a farmi parlare.
“Mi diede una specie di ampolla con un liquido azzurro e mi disse di berlo, se no ci avrei rimesso la pelle.” Risposi.
“E così lei ha ricevuto-“
“Non ho ricevuto un bel niente! Mi ha maledetto a vita!” gli urlai contro e automaticamente gelai le manette spezzandole e mi alzai dalla sedia.
A poco distanza dalla mia fronte, Fury aveva estratto la sua pistola e me la puntava contro.
Avevo espulso così tanta rabbia, che notai che dalla bocca dell’uomo usciva una nuvoletta di vapore ogni volta che respirava: avevo congelato parte della stanza.
Mi accorsi di quello che avevo combinato e mi rimisi al mio posto, seduta sulla sedia. Il colonnello d’altro canto, non abbassò per un attimo la guardia.
“Le voglio offrire una seconda possibilità.” Disse lui, riponendo l’arma nella fodera.
“Tutti noi sbagliamo nella vita, ma c’è un tempo in cui possiamo redimere parte delle nostre colpe. Se accetterà di collaborare con noi, di lavorare per noi, tutte le cose che ha fatto in passato saranno soltanto una brutta nota nel suo fascicolo.” Disse.
“Collaborare con chi?” chiese stizzita.
“Con lo S.H.I.E.L.D., intelligence extra-governativa che si occupa della sicurezza del pianeta Terra.” Disse, quasi con enfasi.
“E cosa dovrei fare io?” chiesi senza capire.
“Lavorare per proteggere questo mondo da… forze speciali, come lei, ma che utilizzano i propri poteri in modo negativo.” Concluse.
“Non capisco… perché lo sta facendo?”
“Gliel’ho detto, le offro una seconda possibilità. Le do una settimana per pensarci, durante questo tempo sarà affidata sotto custodia a Reed Richard e ai Fantastici Quattro. Con questo può chiamarmi per eventuali emergenze o chiarimenti.” Disse porgendomi una cellulare. Poi si alzò e fece per andarsene.
“Lo fa solo per poter sfruttare i miei poteri?” domandai prima che varcasse la porta.
“Anche. Persone come lei possono proteggere questo mondo molto meglio e con molte meno perdite.”
“E chi baderà a mia nonna, se mai dovessi accettare la sua offerta?” gli chiesi all’ultimo.
“Invieremo una persona a prendersi cura di sua nonna.” Disse uscendo.
Quasi con riluttanza, mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla porta. Uscii dalla stanza con la paura di essere risbattuta dentro, invece un’agente mi scortò fino ad una sala, dove c’erano Johnny e Reed e tutti gli altri.
“Evelyn, tutto ok?” mi chiese preoccupata Sue.
“Si, sto bene.” Risposi.
“Ci hai fatti stare in pensiero, fiocco di neve.” Disse Ben.
Lo guardai con stupore: mi aveva appena chiamato piccolo fiocco di neve? Seriamente?
“Andiamocene da qui, una macchina ci accompagnerà tutti a casa.” Disse Reed prendendo sotto braccio sua moglie.
“Io…” dissi bloccando tutti.
“Devo andare prima da mia nonna, devo spiegargli un po’ di cose.” Dissi con un nodo alla gola.
“Ma certo.” Mi rispose Reed apprensivo.
Uscimmo dai sotterranei di un grattacielo e ci dirigemmo verso casa mia. Johnny era al volante dell’auto ed io ero affianco a lui, mentre Reed e Sue erano dietro con Ben.
Quando ci fermammo, il mio cuore accelerò e le mani cominciarono quasi a sudarmi.
Mi voltai verso Johnny, che con un cenno della testa mi fece capire che potevo farcela. Scesi dall’auto e con molto nervosismo in corpo, mi avvicinai alla porta. Bussai tre volte e poi aspettai che mia nonna mi aprisse.
Quando venne ad aprire, per poco non gli prese un infarto nel vedermi. Mi abbracciò con vigore e quasi mi trascinò dentro casa.
“Oh Evy! Mi hai fatto stare in pensiero! E’ anche venuto il tuo ragazzo a cercarti.” Mi disse, tenendomi le mani.
“Lo so nonna.” Le rivolsi un sorriso amaro. Avrei voluto dirle che Johnny non era il mio ragazzo, ma quello era il più infimo dei problemi.
“Che è successo, dolcezza?” mi accarezzò una guancia.
“Devo dirti alcune cose.” Le dissi, sedendomi sul divano.
Non le raccontai tutto quanto,  le dissi solo che dovevo andare via per qualche tempo e gli dissi che lavoravo per un’agenzia governativa come la C.I.A, ma non potevo dirgli per chi. Lei ci credette, in un primo momento sembrò essere felice del mio lavoro, poi si accorse che mi avrebbe portato per un po’ di tempo via da lei.
“Basta che stai bene, tesoro.” Furono le uniche parole che mi disse.
Non le raccontai dei miei poteri, non ce la feci.
Quando mi riaccompagnò fuori la porta, i suoi occhi erano umidi.
“Oh nonna, ti voglio così tanto bene.” Le dissi abbracciandola fortissimo.
“Anche io, tesoro. Mi raccomando, comportati bene.” Disse prima di lasciarmi andare.
La tristezza era tanta, troppa da assimilare tutta insieme.
L’unica volta che mi ero allontanata da lei, lo avevo rimpianto per non so quanto tempo ed adesso che mi stavo separando quasi definitivamente, era dura. Un po’ come quando un piccolo uccellino deve imparare a volare per andare via dal nido materno e crearne uno proprio.
Montai in macchina con irruenza e quasi supplicai Johnny di partire.
Quando arrivammo davanti al Baxter Building, Reed e Sue accompagnarono Ben a casa dalla sua fidanzata e poi ci dissero che sarebbero andati a cena fuori, così io e Johnny salimmo su nell’appartamento da soli.
“Dormirai nella mia stanza, scegli: o con me o con me.” Disse lui con quel sorriso da sfrontato.
“E se invece dormissi sul divano?” gli chiesi.
“Ma è scomodo!” se ne uscì.
“Almeno non dormirò con te.” Sospirai.
Anche se la cosa non è che mi dispiaceva tanto.
“Ci sono donne che farebbero la fila per dormire con me! Ricordalo!” disse puntandomi il dito.
“Senti io ho sonno! Voglio dormire e buttarmi alle spalle questi ultimi giorni!” gli dissi.
Mi chiusi in bagno ed indossai un paio di shorts di maglia e una canottiera rossa, poi mi legai i capelli in una coda e uscii dal bagno, buttandomi nel letto di peso.
Allungai le coperte fino a coprirmi la testa. Se Johnny avrebbe dormito o meno con me, poco importava. Alla fine crollai esanime.
 
Mi svegliai nel cuore della notte, anche se ero stanca fisicamente, con tutti i pensieri che giravano per la testa rimasi sbalordita di aver dormito per più di 5 ore.
Mi rigirai nel letto e vidi che Johnny non c’era. Alla fine aveva fatto il galantuomo.
Andai in cucina con la speranza di trovare delle bustine di camomilla, ma non sapendo neanche dove fossero i pulsanti per accendere le luci, camminai a tentoni fino a trovarmi di fronte il frigo. Lo aprii per farmi un po’ di luce. Accanto al frigo c’era una credenza, la aprii e trovai delle bustine di the, tisane verdi e… camomilla!
Ne presi una e poi aprii la lavastoviglie per prendere un pentolino. Lo riempii d’acqua e lo misi sul fornello che… non si accendeva.
“Ma che diamine?” sussurrai, cercando la manopola del gas.
Feci un passo indietro ed urtai contro qualcuno. Il primo istinto fu di urlare, invece mi girai di scatto verso l’intruso.
“Sta calma, sono io!” disse Johnny prendendomi per i polsi.
“Perché hai il vizio di apparire dal nulla?” gli chiesi.
“Dono di natura forse!” disse sarcastico.
“Accendi le luci.” Gli dissi.
“È saltata la corrente…” disse ridendo.
“Bene… e non la puoi rimettere?” gli chiesi.
“Ehi, mi hai scambiato per Reed?” contro ribatté.
“Non ci vuole una laurea per rimettere il pulsante del contatore su on!” sostenni.
“No, ma io posso fare questo.” E con uno schiocco delle dita, fece apparire una fiammella di fuoco che illuminò parte della cucina.
“Sta lontano da me con quel coso!” dissi, puntando con il dito lo spirito santo che aleggiava sulla sua mano.
“Non la vuoi più la tua camomilla?” disse scherzando.
“Non provocarmi.” Gli risposi.
“Uuuh che paura!” disse agitando le mani.
Non ci pensai due volte: con un gesto fulmineo della mano, spensi la fiamma con una leggera brezza ghiacciata.
“Ehi!” si lamentò Johnny.
“Sei peggio di un bambino.” Dissi girandomi di spalle per rimettere a posto le cose che avevo preso.
“Questo non lo accetto!” disse e mi prese in braccio, sollevandomi da terra.
Mi portò di peso in camera, mentre io mi dimenavo e gli inveivo contro. Mi buttò sul letto e si mise sopra di me. Poggiò le sue mani sui miei fianchi scoperti e mi avvicinò a lui con decisione. Il suo fiato caldo sul mio collo mi stava facendo perdere il controllo.
Spostò i miei capelli e cominciò a baciarlo lentamente, con dolcezza e passione allo stesso tempo. Ogni suo tocco incendiava la mia pelle e mandava in visibilio il mio cervello.
“Johnny…” sussurrai, cercando di fermarlo. Ma che diavolo stava facendo?
Mi prese i polsi e li portò sopra la mia testa, tenendoli stretti con una mano. Sussurrò un debole shh, tra una bacio ed un altro. Ormai era arrivato quasi all’incavo del mio seno, ma invece di procedere, risalì lungo il collo.
Chiusi gli occhi, abbandonami a quel piccolo momento di piacere carnale. Mi baciò il mento e poi si staccò, respirando vicino alla mia bocca. Passò un pollice sulle mie labbra, poi invece di baciarle, spostò le sue all’altezza del mio orecchio.
“Questo lo sa fare un bambino?” sussurrò.
In seguito si alzò dal letto e se ne andò, socchiudendo la porta. Lasciandomi lì, sul letto, sedotta ed abbandonata.
Mentalmente dovevo ancora realizzare bene cosa era successo, mentre il mio corpo aveva capito al volo e ne voleva ancora.
 
La mattina seguente mi svegliai tardissimo, il sole era già alto e filtrava attraverso le spesse tende rosse cremisi. Mi alzai come un orso quando si risveglia dal letargo e con molta pigrizia mi misi addosso una maglia e andai in cucina a fare colazione.
In casa c’era una calma apparente, nessuno in vista neanche Johnny. Tirai un sospiro di sollievo, almeno per la mattinata non sarei diventata rossa come un peperone ogni volta che l’avrei guardato.
L’intera casa era riscaldata attraverso un sistema automatico che regolava la temperatura interna come se stessimo ai tropici e io non riuscivo a sopportalo. Non bastavano le caldi e afose estati di New York a soffocarmi, ci mancava pure il riscaldamento della casa in cui avrei dovuto vivere per non so quanto. Spalancai le finestre della sala ed una piacevole brezza invernale inondò l’intera stanza. Quando mi avvicinai al tavolo della cucina, c’era un biglietto con su scritto che Reed e Sue erano partiti per una conferenza tra scienziati e che sarebbero stati via per tre giorni.
Tre giorni.
Tre giorni da sola, con quel maniaco di Johnny.
Oddio.
Mi passai una mano tra i miei ricci nero petrolio e mi avvicinai al frigorifero. Ci rimasi male quando vidi che non c’era nient’altro che un succo di frutta, latte scaduto e pollo avanzato.
Mi accontentai del succo e del pollo, che misi a riscaldare al microonde, poi accesi la tv.
“Non ci sono nuove notizie riguardanti quanto accaduto l’altro giorno, quando un elicottero e alcune volanti della polizia sono state coinvolte in un inseguimento.” Disse la donna del tg.
“Sembra che anche i Fantastici 4 siano intervenuti. Questo è quello che sappiamo, passo la linea a te Ashley con la tua rubrica.”
“Grazie Carl! Oggi nella rubrica di gossip abbiamo un succulento scoop! Il biondo Johnny, meglio conosciuto come la Torcia ha una spasimante, o almeno così ci dimostrano queste foto!” la bionda ossigenata mostrò alcune foto che ritraevano me e Johnny fuori dal pub in cui lavoravo.
“Non ci posso credere…” detestavo i giornalisti e i tg, oltre alle bionde ossigenate e ai loro stupidi programmi da oche. Odiavo anche essere apparsa in tv come nuova “fiamma” di quel biondino.
Finii di mangiare il pollo mentre guardavo un documentario sulle tigri del bengala.
“Ehi Tigre!” sentii dirmi alle spalle.
Johnny era appena rientrato ed aveva indosso una tuta da motociclista strappata in vari punti.
“Ma che diamine hai combinato?” gli chiesi stupita.
“Niente di che, qualche giro in pista.” Mi rispose buttandosi pesantemente sul divano.
“Oppure la pista si è fatta un giro su di te.” Dissi sarcastica.
“Oh… facciamo le spiritose?” disse e cominciò a farmi il solletico.
“No, fermo! Ahahahahahahah!” cominciai a ridere come una forsennata. Finii per dargli una gomitata su un braccio escoriato.
“Ahi!” gridò lui.
“Non è colpa mia!” dissi alzando le mani in aria.
“Fa vedere.” Gli dissi, esaminando la ferita.
“Non è niente…” mi rispose, alzandosi.
“Ma come niente? Ti si vede l’osso tra un po’!” gli urlai dietro.
Lo raggiunsi in camera e lo feci sedere controvoglia sulla panca davanti al letto.
“Aspetta qua.” Dissi mentre mi fiondavo in bagno a prendere il disinfettante con l’ovatta.
Quando tornai in camera, me lo ritrovi a petto nudo che si grattava la nuca mentre si guardava alcuni lividi neri. Mi sentii avvampare, ma riuscii a tenere a bada i miei ormoni.
Impregnai un batuffolo d’ovatta del liquido disinfettante e cominciai e mi sedei vicino a lui. Cominciai a passarglielo su un taglio che aveva sul braccio sinistro.
Le mie dita sfioravano lievemente sulla sua pelle, eppure riuscivo ad avvertire i suoi brividi ad ogni mio contatto e mi sentivo a disagio. La sua pelle era bollente e scottava come se avesse la febbre, mentre la mia era fredda.
Dopo avergli medicato il braccio sinistro, passai ad alcuni tagli che aveva sul petto.
Esitai prima di passargli il batuffolo sulle ferite, abbassai gli occhi imbarazzata e cercai di non far notare che le mie guance si stavano arrossendo. Eppure fu più forte di me: senza esitare, sorprendendomi, gli posai una mano sul petto. Era una sensazione stranissima, un po’ dolorosa ma piacevole sentire la sua pelle calda a contatto con la mia mano fredda. Come quando entri in una vasca piena d’acqua bollente: all’inizio ti scotti, poi il tuo corpo si abitua alla temperatura e ti lasci cullare da quel dolce tepore. Rimasi così per non molto, mentre Johnny mi guardava con aria assorta. Non si stava chiedendo perché diamine ero rimasta immobile da quella posizione, ma sembrava quasi che volesse conferma di quella sensazione che anche lui provava.
Ritrassi la mano di scatto e gli disinfettai le ferite velocemente.
“Grazie.” Disse lui.
“Non ce di che.” Sussurrai mentre usciva dalla stanza.
Oh ma che diavolo mi prendeva?
Non potevo pensare a quel tipo di cose, quelle che involvevano il cuore. Scrollai la testa e mi vestii velocemente prima di fiondarmi nell’ascensore.
Passeggiai per le strada di New York senza una meta, incrociando sguardi di gente sconosciuta che camminava frettolosamente verso chissà dove. Tutti avevano una meta precisa, un obiettivo da rincorrere mentre io no.
Dovevo trovare il mio obiettivo per ritornare a vivere e non ad esistere.
“E’ lei la nuova fiamma della torcia!” un paparazzo mi si parò davanti e cominciò a scattarmi foto. La gente cominciò a mormorare intorno a me e ad altre persone si misero a scattarmi foto. Mi feci largo tra la folla per cercare di scappare dal quel groviglio di flash.
“Aspetti! Non se ne vada!” mi gridavano.
Ad un certo punto mi misi a correre per cercare di seminarli. Mi addentrai in vicoli bui e sporchi, pur di togliermeli dalle scatole.
Mi nascosi dietro un cassonetto ed aspettai che quei paparazzi se ne andassero. Sentii qualcuno calciare una lattina e mi voltai di scatto per vedere chi c’era.
Vidi un uomo incappucciato in fondo alla via, prima che svoltasse l’angolo.
Uno strano presentimento mi fece alzare per seguirlo. Non sapevo esattamente perché lo stessi facendo, ma poco importava: il mio sesto senso mi diceva che c’era qualcosa che non andava. Appena svoltai l’angolo, vidi l’uomo scendere dentro un tombino e richiuderlo.
“Ma che diavolo?!” pensai.
Ero interdetta se continuare a seguirlo nelle fogne o lasciar stare.
Optai per una sana comminata nelle fogne.
Aprii il tombino e guardai dentro.
“Me ne pentirò, ne sono sicura.” Dissi tra me e me.
Scesi le scalette in silenzio ed atterrai sul corridoio melmoso, ringraziando il mio buon senso di essermi messa un paio di stivali quel giorno.
Vidi un’ombra sgusciare via in uno dei corridoi dell’acquedotto. Lo seguii a passi felpati fino a ritrovarmi in una specie d’incrocio di tunnel.
“Merda.” Sussurrai.
Dove cavolo era andata?
Guardai a terra e vidi un’ombra gigante sovrastare la mia. Mi girai velocemente e mi accorsi che l’uomo che stavo inseguendo non era… un uomo.
Sgusciai via prima che potesse prendermi e cominciai a correre a perdi fiato per i tunnel fognari. Mi guardai indietro e grazie a qualche piccola luce che c’era sulle pareti, riuscii a scorgere meglio la figura: era alta e piuttosto robusta, carnagione scura sulle mani ma chiara sul viso leggermente deformato, come se fosse stata una scultura d’argilla uscita male. Indossava una felpa grigia e dei pantaloni, mentre ai piedi portava un paio di stivali vecchi.
Continuai a correre senza sapere esattamente dove stessi andando.
Ad un certo punto qualcosa di scivoloso mi fece cadere. Non riuscii a rimettermi in piedi che il mostro dietro di me mi afferrò per la vita e cominciò a stritolarmi.
Urlai ma lì sotto nessuno poteva sentirmi.
Decisi allora di usare i miei poteri. Una stalattite di ghiaccio si formò tra le mie mani, per poi esser conficcata nel collo del tizio.
Quello urlò e mollò la presa per togliersi la lastra di ghiaccio dal collo, come fosse una piccola scheggia.
Lo guardai inorridita e mi rialzai velocemente in piedi per trovare un tombino per uscire fuori. Mentre correvo mi ricordai che avevo il cellulare che Fury mi aveva dato per le emergenze. Frugai nelle tasche e ne farlo rallentai e il mostro con una mossa mi fece volare addosso il muro dall’altra parte del corridoio.
Per un minuto mi sembrò che l’aria si fosse bloccata nei polmoni e che la schiena si fosse spezzata. Presi il telefono e premetti il tasto verde.
“Mi dica signorina.” Rispose subito Fury.
“Ehm, salve. Non vorrei disturbarla ma ho un problema serio, molto serio.” Dissi mentre mi rialzavo ed evitavo di farmi acciuffare dal gigante.
“Che tipo di problema?” mi chiese.
“Sono nei guai. Sono nelle fogne e sto combattendo contro un gigante di terracotta! Non mi prenda per pazza, ma è la verità! Mi servirebbe un aiutino-“  non finii di dire la frase che l’omone mi tirò un gancio destro in faccia e mi fece volare a terra.
Tossii e cercai di rimettermi in piedi. Il telefono era caduto poco lontano da me, cercai di afferrarlo ma fui io ad essere presa per le caviglie. Il gigante mi lanciò nuovamente lontana ed atterrai al centro del corridoio, dove un piccola rivolo d’acqua.
Alzai la testa e lo vidi venirmi incontro, ringhiando come un’animale.
Fu allora che mi venne la brillante idea: congelai l’acqua sotto di noi, così da impedirgli di muoversi, mi alzai in piedi velocemente e gli piantai alcune lame di ghiaccio nel petto.
Erano come spilli per lui!
La lastra di ghiacci sotto i suoi piedi si ruppe e si scagliò contro di me. Misi le braccia ad X davanti a me e mi protessi con uno scudo di ghiaccio. Ma ad ogni pugno sferrato, la lastra si incrinava fino a rompersi.
In quella frazione di secondo mi prese per la gola e mi alzò in aria, soffocandomi.
I miei polmoni cercavano disperatamente aria e la mia gola mi doleva tantissimo. Poi ci furono alcuni spari e il gigante prestò la sua attenzione altrove, facendomi cadere a terra. Altra botta atroce alla schiena.
Arrancai verso la parte opposta al gigante, con i capelli bagnati e i vestiti ormai umidi per colpa dell’acqua. Mi guardai indietro i vidi alcuni agenti dello S.H.I.E.L.D, capitanati da Fury, sparare contro il mostro, ma niente sembrava ferirlo veramente.
“Forse potrei…” pensai.
Mi alzai in piedi e corsi verso il gigante girato di schiena.
“Toglietevi!” urlai a Fury e ai suoi agenti.
“Deve funzionare.” Pensai.
Imposi le mani di fronte a me e cominciai a congelare il gigante che si dimenava nel tentativo di scappare. Girò il viso verso di me poco prima che finissi di congelarlo.
Crollai sulle ginocchia appena ebbi finito. Ora era soltanto una statua di ghiaccio spesso.
Mi era costata molta energia, ma alla fine l’avevo messo K.O.
“Tutto bene, signorina?” mi chiese Fury affiancandosi a me e tendendomi un braccio.
“Una meraviglia.” Dissi e mi aiutai ad alzarmi con la sua mano.
“Come ha trovato questo… ?” mi chiese.
“Attiro guai, non lo sa.” Risposi sarcastica.
Mi avvicinai alla statua di ghiaccio e ne studiai meglio i connotativi.
“Stavo scappando da dei paparazzi fastidiosi, quando mi sono nascosta in un vicolo ho visto questa specie di gigante di terracotta entrare in un tombino e l’ho seguito.” Dissi semplicemente a Fury.
“Trasportatelo via, voglio una squadra di pulizia. Fate sparire ogni singola nostra traccia in questo condotto e mantenete la temperatura vicino alla statua sotto lo zero.” Disse Fury ai suoi uomini.
“Meglio se la mettete in un frigorifero da laboratorio sotto i 30 gradi.” Aggiunsi io.
“Vuole un passaggio a casa, signorina?” mi chiese Fury.
“No, grazie vado da sola.” Risposi.
Mi incamminai con loro verso l’uscita, poi io mi fermai sopra il tombino da cui ero scesa.
“Ha pensato alla mia proposta?” disse Fury prima di lasciarmi andare.
“Lo sto facendo.” Dissi prima di uscire alla luce del sole.


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Buonasera!
Grazie mille per le recensioni e per aver messo la mia storia nelle tre categorie, finalmente capisco se vi piace o no!
Qui viene spiegato in parte perchè la storia è un crossover tra i FF4 e gli avengers, in quanto appare Nick Fury con lo S.H.I.E.L.D. Voglio puntualizzare che questa storia si colloca dopo FF4 e Silver Surfer ma non dopo il film The Avengers e neanche dopo Thor! Bensì, mi sono presa la briga di far apparire due personaggi importanti: Iron Man e Capitan America, rispettivamente apparsi subito dopo i loro ultimi film. Mi baserò però sui fumetti, in quanto non esiste un seguito sul quartetto dopo il secondo film.
La storia è chiaramente inventata e il cattivo della situazione prende spunto da uno apparso sui fumetti, rivisitato in una chiave molto più personale.
Spero di non avervi annoiato, alla prossima! :D
Artemis Black

p.s: La citazione è Purple Rain di Prince. Fatemi sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 6
*** Allenamenti a luci rosse. ***


Allenamenti a luci rosse.
 

“Ma che diavolo hai fatto?” fu il bentornato di Johnny.                                      
Gli sbuffai contro prima di entrare in camera per farmi una doccia. Chiusi a chiave la porta del bagno e mi buttai sotto il getto freddo.
Spazzolai bene i capelli e strofinai il sapone su tutto il mio corpo, prima di abbandonarmi completamente sotto l’acqua.
“Pensa Evy, potremo comprarci un sacco di vestiti! E poi potrò prendere anche tutte quelle cose carine per i bambini!” disse Jessica.
“Sarà maschio o femmina?” le chiesi felice.
“Lo scopriremo quando nascerà, non vogliamo saperlo prima! Però secondo me sarà una femminuccia.” Mi rispose.
Prese una tutina color verde acido con un orsetto stilizzato sopra e lo strinse tra le mani delicatamente, come se dentro quel pezzetto di stoffa ci fosse già un bambino.
La guardai in una tutta la sua felicità: stava per diventare mamma e irradiava gioia da tutte le parti, contagiando chi aveva intorno.
"Andiamo, i ragazzi ci aspettano." Disse uscendo dal negozio.
Poi l'odore di pelle bruciata, le grida di dolore che mi perforavano le orecchie e il cuore, l'odore di morte.
I suoi occhi vitrei, la sua espressione contorta e sfigurata, la pelle bruciata e rossa sangue la dove ne rimane traccia. La vita che volava via dal suo corpo, per sempre.
Una donna non ancora madre e un bambino mai nato stesi su un freddo pavimento.
 
Scrollai la testa e la presi tra le mani. Le immagini cominciarono a susseguirsi una dietro l'altra senza sosta.
Mi tornò quella sensazione amara in bocca, la frustrazione di non aver potuto far niente, l'impotenza davanti i loro corpi ormai mutilati. Strinsi forte gli occhi cercando di scacciar via tutti quei pensieri. Appoggiai la schiena alle mattonelle fredde. Quando riaprii gli occhi, il getto d'acqua si era fermato: il liquido si era solidificato e la temperatura si era notevolmente abbassata nel bagno.
Presi un asciugamano e me lo avvolsi intorno, andai in camera ed indossai un paio shorts e una felpa verde. Prima di mettere la felpa, notai alcuni lividi viola vicino le costole e ai fianchi. In quel momento entrò Johnny, senza bussare ovviamente. Tirai su la zip velocemente, ma con una falcata mi era già vicino.
"Fa vedere." disse.
Non avevo la forza di contro ribattere, così lo lasciai fare: aprì la felpa e guardò i lividi con un espressione dura.
"Aspetta qui." Mi disse sparendo dalla stanza, per poi riapparire con un tubetto in mano.
"È per i lividi." Disse, spalmandomi la crema sugli ematomi violacei.
Mentre la spalmava su uno dei miei fianchi, mi scostò i capelli umidi dal collo e vidi i segni rossi.
"Tu non esci più da sola." Mi disse.
Roteai gli occhi e mi lasciai cadere sul letto. Lo sentii entrare in bagno e imprecare.
"Ma che cavolo hai combinato?" Mi chiese urlando.
"Scusa, non me ne sono resa conto." Gli risposi.
Una nuvola di vapore uscì fuori dal bagno, a da tutta quella nebbia ne emerse Johnny.
“Fury mi ha chiamato e mi ha raccontato tutto. Ho dovuto chiamare Reed e Sue, Fury li vuole per studiare quell’essere.” Mi disse lanciandosi sul letto, che traballò per un secondo e per poco non cadevo.
“Mmm.” Risposi mugugnando.
“Tutto ok? Come và?” mi chiese voltandosi verso di me.
Come vuoi che vada?
Sto una merda, uno schifo totale! Esco per un momento e vengo assalita dai paparazzi e poi attaccata da uno strano essere. Per non parlare del fatto che il 50% del mio corpo e ricoperto di lividi e mi fanno male tutte le ossa e i muscoli. Ma la cosa che fa più male sono i ricordi: quelli si che ti fregano. Appaiono quando vogliono e ti ricordano i bei tempi, ma anche quelli peggiori che vorresti tanto che sparissero. Le immagini così nitide e chiare, le voci troppo familiari che ti fanno salire le lacrime agli occhi e ti calpestano il morale.
“Meglio.” Risposi.
“Non ho chiesto un contentino tanto per.” Mi disse lui, fissando i suoi occhi nei miei.
Distolsi lo sguardo e fissai il soffitto, portando le braccia dietro la nuca.
“Non so quello che sto facendo. Esisto in questa vita surreale, piena di stranezze e dolore. La mia vita è nata dal dolore stesso, ci sono cresciuta, ci sguazzo da quando sono nata e ne sono così stanca. Quando arriverà il mio momento di felicità? Perché mi merito tutto questo? Perché!” dissi quasi parlando a me stessa, non accorgendomi di aver alzato la voce.
Mi alzai di scatto dal letto e andai di fronte la finestra per non farmi vedere da Johnny mentre mi strappavo via da una guancia una lacrima sfuggita al mio controllo.
“Ho fame.” Dissi.
Mi ero spinta troppo in là, avevo aperto uno spiraglio del mio cuore ad una persona che non volevo far entrare. Mi fiondai in cucina con la scusa di aver fame e bevvi un sorso d’acqua.
“Da quanto ho capito, non ti sei mai allenata con i tuoi poteri. Giusto?” chiese Johnny alle mie spalle.
“No.” Dissi.
“Vieni con me, ti porto in un posto.” Disse. Mi girai e vidi che stava prendendo due caschi e il mio giacchetto.
Me lo lanciò e mi fece segno con la testa di seguirlo. Mi guardai le gambe scoperte e mi chiesi se la gente non mi avrebbe guardato come se fossi pazza, con il termometro quasi vicino allo zero.
Me ne fregai e mi misi il giubbotto di pelle e presi un casco dalle mani di Johnny.
Scendemmo nel garage sottostante il palazzo e mi meravigliai che ce ne fosse uno, visto che non ci avevo mai fatto caso.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, Johnny corse verso una moto sportiva rossa di marca italiana ed adatta a portare due persone.
Saltò su con un movimento fluido e si mise il casco.
“Allora?” mi disse lui guardandomi, mentre accendeva il motore.
Ero rimasta impalata poco distante da lui. Mi riscossi e infilai anch’io il casco, poi saltai in sella leggermente imbarazzata.
“Tieniti forte.”  Mi disse.
“Non c’è bisogno che me lo dici.” Risposi acida.
Mi aggrappai ai suoi fianchi e sistemai la testa appena dietro una sua spalla. Lui mi prese le braccia e le tirò più avanti, facendomi aggrappare al suo addome. Poi mi rivolse un sorrisetto sornione e chiuse lo specchietto del casco.
Partimmo a grande velocità. Sfrecciammo tra le strade di Manhattan per poi dirigerci verso la periferia. Ci fermammo davanti n cancello automatico che si aprì poco prima che arrivassimo noi. All’interno c’era una costruzione per niente simile ad una casa, era una costruzione moderna, molto semplice nello stile ed essenziale.
“Cos’è questo posto?” chiesi togliendomi il casco.
“Il nostro piccolo rifugio.” Ripose lui con un sorriso.
Lasciamo la moto sotto un patio dove c’erano altre vetture. Seguii Johnny che si addentrava nell’edificio, passando per un atrio immenso con le pareti bianche e le vetrate che lasciavano inondare la stanza di luce. Di per se l’ambiente era molto essenziale, tranne per qualche vaso con fiori colorati o alcuni quadri e stampe attaccate ai muri.
Ci addentrammo in alcuni corridoi fino ad arrivare in una sala piena di manichini e con un soffitto altissimo.
“Fammi indovinare… è qui che alleni i tuoi muscoli flaccidi.” Dissi sarcastica.
“Si e non sono flaccidi, ne hai avuto già la conferma.” Disse lui.
Scacco matto: touché.
Arrossii lievemente sulle guance ed abbassai la testa per nascondere il mio imbarazzo.
“Allora, fammi vedere cosa sai fare.” Disse lui.
Cos’era una sfida?
“E se… non mi andasse?” gli chiesi guardandolo.
“E se tu incontrassi un altro di quei mostri in giro? Non mi pare che te la sei cavata tanto bene.” Rispose lui incrociando le braccia.
Strinsi i pugni e lo guardai con astio, anche se in realtà aveva ragione, il mio orgoglio era piuttosto dignitoso e non gliela avrei data vinta.
“Va bene.” Risposi togliendomi il giacchetto e appoggiandolo su una panca nelle vicinanze.
“Vedi di colpire i manichini e non- Ehi!” si lamentò.
Lo avevo colpito ad una spalla, congelandogliela.
“Ops!” dissi ironica.
“Vuoi la guerra?” disse lui togliendosi la maglia, rimanendo così a petto nudo.
“Mi piace giocare pesante.” dissi io, togliendomi la felpa e rimanendo in canottiera.
Lui prese fuoco ed io estrassi le mie stalattiti di ghiaccio.
“Vacci piano tigre!” disse lui.
“Hai paura di qualche graffietto, micetto?” gli risposi a tono.
“L’hai voluto tu!” disse e planò in aria.
Ecco a che serviva il soffitto alto!
Mi sparò contro alcune palle di fuoco e mi si avvicinò così tanto, che per un momento pensai che mi andassero a fuoco i capelli.
“È ingiusto!” dissi gridandogli.
“I nemici lo sono mai?” mi rispose. Non aveva tutti i torti.
“Basta volare, uccellino di fuoco.” Sussurrai.
Tesi una mano verso l’alto e aspettai il momento giusto per colpire. Bam.
Lo colpii con una palla di ghiaccio e cadde giu al suolo, come quando un cacciatore colpisce un volatile in aria e lo fa precipitare a terra. Prima che avesse il tempo di rialzarsi, mi avvicinai felina vicino e gli sferrai un calcio allo stomaco e lui ricadde a terra malamente. Sfortunatamente non vidi il suo braccio avvinghiarsi alla mia caviglia e farmi cadere a terra. Schivai lateralmente una delle sue fiammate e mi rialzai in piedi faticosamente. Lui rimase a terra e ingaggiammo un combattimento corpo a corpo. Il che era squilibrato, poiché lui era nettamente più forte di me essendo uomo e muscoloso. Dovetti fidarmi dei miei movimenti flessibili e veloci, più che alla forza dovevo essere intelligente e capire la sua tattica di combattimento, così da precederlo. Fu leggermente difficile, perché menava alla cieca (forse per non colpirmi seriamente) senza alcuna logica. Mi abbassai per schivare un pugno e gliene mollai uno allo stomaco che lo fece indietreggiare quel poco che mi bastava per sottrarmi alle sue braccia.
Lanciai alcuni geloni* verso di lui per non farlo avvicinare, poi saltai sopra uno dei manichini di ferro che c’erano nella stanza e aspettai che si avvicinasse.
Una volta che si fu avvicinato, saltai e atterai dietro di lui, sorprendendolo alle spalle.
“Non mi faccio scrupoli.” Disse e fu così che mi ritrovi con la schiena dolorante a terra e lui sopra che mi spingeva giù con una spalla.
Farfugliai qualche imprecazione e tentai di togliermi di dosso quel ragazzo da rugby biondo.
“Mi sento male…” dissi.
Lui si girò e mi rivolse uno sguardo preoccupato.
“Tutto ok?” disse sollevandomi.
“Mai stata meglio.” Gli risposi lanciandogli uno sguardo astuto.
Un momento dopo sui ritrovò con le spalle al muro e le mani e i piedi congelati alla parte.
“I nemici non sono mai sinceri.” Dissi ad un millimetro di distanza dal suo viso con un sorriso da gatta.
“Furba, ma dimentichi una cosa…” Rispose lui. Ah, giusto… lui aveva il fuoco.
E fu così che mi ritrovai nuovamente a terra con Johnny sopra di me. Stavolta la posizione poteva essere alquanto fraintesa da una terza ipotetica persona che sarebbe potuta entrare nella stanza. Johnny mi teneva i polsi stretti sopra la mia testa e le sue gambe bloccavano le mie. Il suo petto possente e i suoi addominali erano schiacciati sul mio seno e la mia pancia. Entrambi avevamo il fiato corto e i nostri caldi respiri investivano il viso di ognuno dei due. Sentivo di star andando a fuoco sulle guancia e anche sul resto del mio corpo.
“Ehm… Johnny, Evelyn, dobbiamo parlarvi nel laboratorio.” La voce di Sue arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Alzai la testa per vederla e la sbattei contro quella di Johnny, che con la scusa del bernoccolo sulla fronte si alzò con nonchalance da sopra di me e seguì la sorella. Con la mia schiena già a pezzi e ulteriormente ammaccata da Johnny e con i lividi che ritornavano a pulsare dolorosamente, li seguii anche io rimettendomi, nel frattempo, la felpa.
“Ehi Evelyn, Johnny.” Ci salutò con un cenno Reed appena entrammo nel laboratorio.
Era la stanza più luminosa e spaziosa, oltre a quella specie di palestra di prima. C’erano attrezzi scientifici ovunque e di tutti i tipi. Le luci troppo bianche mi stavano dando fastidio ed emanavano molto più calore rispetto ad altri tipi di luci, il che rendeva la stanza, già con i riscaldamenti accesi, molto calda per me.
Fortuna che indossavo indumenti leggeri.
Al centro della stanza, posto su un gradino rialzato e conservato dentro una teca continuamente raffreddata, c’era il mostro che mi aveva aggredita nelle fogne.
“Che avete scoperto?” gli chiesi, avvicinandomi alla teca.
“È complicato… non è un essere vertebrato o invertebrato. Sembra essere fatto di… argilla.” Rispose Sue.
Era spaventosamente immobile dentro quella teca e quei occhi rossi scuro sembravano scrutarmi. Mi avvicinai e ne studiai i lineamenti. Quello che diceva Sue era vero: la sua pelle non aveva un colore paragonabile a nessun uomo sulla terra e in alcuni punti era imperfetta, come se lo sculture non avesse fatto molta attenzione mentre lo scolpiva. Il viso era pulito, privo di barba e sopracciglia ed era calvo. La bocca sembrava impastata e chiusa, le due labbra sembravano fondersi ma mantenendo sempre la forma carnosa e ben delineata.
“Non avete fatto nessun’altra scoperta?” chiese Johnny incrociando le braccia.
“Stiamo lavorando sui pochi campioni che abbiamo, è piuttosto difficile lavorare quando il corpo è congelato. Se abbassiamo la temperatura, rischiamo di riportarlo in vita.” Rispose Reed mentre guardava dentro un microscopio.
“C’è Nick Fury in linea.” Disse Ben entrando a passi veloci. Non stavo prestando attenzione, ero intenta a studiare quegli occhi così strani.
“Vuole essere aggiornato.” Disse, rivolgendosi a Reed.
Il professore si alzò e seguì La Cosa fuori dal laboratorio.
Mentre Sue si rimetteva ad armeggiare con dei campioni di tessuto e Johnny giocherellava con alcune provette, beccandosi qualche rimprovero dalla sorella, io ero ancora immobile davanti la vetrina che mi separava da quell’essere indefinito.
Poggiai un palmo sulla vetrina e sentii il piacevole freddo sulle mie dita. C’era qualcosa che non quadrava e il mio sesto senso mi avvertiva. Scossi la testa, cercando di togliermi quell’insulso allarme che lampeggiava nella mia testa e mi scostai dalla teca.
Quando tolsi la mano, me ne resi conto.
Il mostro non era bloccato dal freddo, sembrava essere rimasto immobile per tutto il tempo. Fu quando tolsi la mano che vidi quell’impercettibile movimento degli occhi. Lo vidi e lui se ne accorse.
“Tutti giù!” riuscii ad urlare appena in tempo.
La teca andò in frantumi e schegge di vetro schizzarono ovunque. Prontamente mi rannicchiai a terra e lo scudo di ghiaccio mi protesse.
Alzai appena la testa e vidi Sue che si nascondeva dietro una scrivania mentre Johnny prendeva fuoco.
“No Johnny! Ci sono materiali altamente infiammabili qui!” gli urlò Sue.
Vidi il suo viso farsi nero di rabbia e impotenza.
Un attimo dopo mi ritrovai le mani del mostro intorno al collo. Di nuovo.
Mi alzò in aria mentre i suoi occhi rossi erano fissi nei miei. Mi divincolai, ma la presa era troppo forte e l’aria cominciava a mancare nei miei polmoni. Poi Sue mi venne in soccorso: con un onda d’energia colpì il mostro, che lasciò la prese su di me, e caddi a terra. Presi un profondo respiro, poi quando alzai la testa, vidi quegli occhi rossi pieni di rabbia.
Urlai e abbassai la testa.

_________________________________
Buonasera!
Scusatemi per il ritardo nell'aggiornare, ma il mio computer è matto e si accende solo quando sta a comodo suo.
Chiudendo questa breve parentesi, volevo divri che il prossimo capitolo sarò più lungo e sostanzioso rispetto a questo! 
Non ho messo nessuna citazione perchè non ho fatto in tempo a trovarne una adatta.
Comunque, la finisco qui!
Fatemi sapere che ne pensate, lasciando una recesione :)

P.S: grazie a tutti per le recensioni precedenti e per aver inserito la storia in una delle tre categorie o anche per averla letta soltanto!
Artemis Black

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Capitolo 7
*** Gli opposti che si attraggono. ***


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Gli opposti che si attraggono

It's coming closer, the flames are reaching my body 
Please won't you help me I feel like I'm slipping away, 
It's hard to breath and my chest is a-heaving 

Lord Almighty, I'm burning a hole where I lay 
Cause your kisses lift me higher 

 

Fu un urlo liberatorio, quasi uno sfogo.
Quando la voce mi morì tra le labbra, riaprii gli occhi lentamente e un silenzio quasi surreale aveva avvolto la stanza. Pensavo di essere morta, o comunque spacciata, ma quando alzai gli occhi tutto ciò che vidi fu una stalattite gigante che trapassava la gola del mostro.
Ero spaventata, ma cosciente che lo avevo battuto sul tempo. Un piccolo sorriso di sollievo trasparì sulle mie labbra
“Evelyn!”
Johnny si catapultò affianco a me sollevandomi il volto con le sue mani. Era chiaramente preoccupato, ma quando si accorse che stavo più che bene, i lineamenti del suo viso si rilassarono e tirò un sospirò.
“Stai bene?” mi chiese infine.
“Mai stata meglio.” Dissi alzandomi in piedi.
“Evy! Tutto ok?” mi guardò preoccupata Sue.
Le sorrisi e anche lei tirò un sospiro di sollievo. In quel momento entrarono di corsa Reed e Ben, che si bloccarono appena videro ciò che gli si presentava davanti agli occhi: nel punto dove poco prima mi ero accovacciata, si ergeva una stalattite immensa che affondava le radici sulla piccola piattaforma rialzata e raggiungeva il soffitto. Era molto larga e aveva trafitto il mostro come una ghigliottina. La testa era poco più avanti, e dal collo ormai mozzato uscivano fili e cavi elettrici. Reed si avvicinò e la prese tra le mani studiandone il meccanismo.
“Tutto ok?” chiese infine guardando con apprensione la moglie.
Sue annuì ed io insieme a lei.
“Beh… adesso avete altro materiale su cui lavorare.” Disse Johnny ironico.
Lo fulminai con un’occhiata e lui alzò le mani in segno di difesa.
Mi incamminai infuriata verso la porta e l’aprii sbattendola. Serrai i pugni e li affondai nelle tasche della felpa, incamminandomi all’esterno, per raggiungere la moto di Johnny.
“Evelyn! Aspetta!” lo sentii gridare dietro di me.
“Che c’è?” mi voltai sbottando.
“Sicura di stare bene?” mi chiese raggiungendomi.
“No! Non va affatto bene! Stavo rischiando di nuovo la vita e tu ti metti a sparare cazzate!” gli dissi.
“Era per sdrammatizzare.” Disse in sua difesa.
“Sdrammatizzare un cazzo! Dannazione!” gli urlai contro senza ritegno.
Il volto si fece scuro e serrò la mascella.
“Scusami allora.” Disse.
Ero quasi sicura che quelle parole non le pronunciava spesso, perché anche lui si stupì di quello che aveva appena detto. Abbassai lo sguardo e mi calmai.
“Mi presteresti la moto?” gli chiesi guardando altrove.
“Posso accompagnarti io.” Disse lui.
Scrollai le spalle e alzai il cappuccio della felpa per coprirmi la testa ed indossare il casco. Lui fece lo stesso prima di montare in sella.
“Da mia nonna.” Dissi con un filo di voce.
“Sicura?” mi chiese guardandomi.
Annuii e partimmo.
Quando arrivammo davanti la casa, smontai dalla moto e gli diedi il casco.
“Aspetto qui.” Disse.
Entrai in casa e mi diressi in cucina.
“Evelyn! Tesoro, come mai da queste parti?” mi disse mia nonna, mentre si asciugava le mani in uno strofinaccio.
“Ho bisogno di te nonna.” Le dissi quasi crollando tra le sue braccia.
“Vieni cara, mettiamoci sedute.” Disse lei con fare dolce.
Andammo in salotto e ci sedemmo sul divanetto bordeaux, che aveva passato tempi migliori. Poggiai la testa sulle sue esili ginocchia e mi raggomitolai, mentre lei mi accarezzava dolcemente i capelli. Mi ero sempre messa così, sin da bambina, soprattutto quando avevo paura dei temporali e del mostro sotto al letto. Allora c’era lei che mi cullava dolcemente sule gambe e mi rassicurava dicendomi parole confortanti. Ma il tempo passava ed io ero ormai diventata grande, ma il modo in cui mi accarezzava i capelli mi rassicurava come nessun’altro aveva mai fatto. Mi sentivo protetta e al sicuro, e per un momento dimenticai l’inferno che avevo passato.
“Vuoi parlarne?” mi chiese.
“Sai che non posso dirti molto… complicherebbe le cose.” Le risposi.
“Lo so.” Disse con delicatezza.
Mi morsi il labbro inferiore e socchiusi gli occhi.
“Sono costantemente sotto pressione, non so che fare. La sfiga mi perseguita e non ne combino una giusta…” continuai “La mia vita è in continua evoluzione e non so mai cosa potrebbe esserci dietro l’angolo, non so neanche se domani sarò ancora viva! ” dissi.
“Oh Evelyn, non dire così.” Disse visibilmente agitata.
“Siamo esseri umani, siamo mortali per un motivo. E poi sei giovane, non preoccuparti di questo!” disse.
“Poi ho questo strano nodo alla gola, un macigno sulle spalle e non riesco a capire da dove prevenga. Sono sempre incazzata con il mondo e la cosa urta me stessa in primis!”
 “Lo sai cos’è che ti manca, tesoro?” mi disse accarezzandomi una guancia.
“Cosa?” le chiesi.
“L’essere amata, lasciati amare Evelyn. Torna ad essere la gioiosa ragazza che eri una volta, quando uscivi con la tua amica Jessica e quel James! Devi sciogliere questa corazza di ghiaccio che ti sei creata intorno al cuore.” Disse.
Una lacrima scappò al mio controllo, ma la lasciai scivolare giù, rigandomi una guancia.
“No, non fare così. Hai sofferto abbastanza, è ora di lasciar uscire il sole da quelle brutte nuvole grigie che hai dentro.” Mi disse asciugando la mia lacrima.
Mi alzai e mi ricomposi, sfregando le mani sulle gambe.
“Oh cielo! Ma dove vai con quei pantaloncini? Ti prenderai un malanno!” disse mettendosi le mani in testa.
“E’ tutto ok, non ho freddo.” Dissi con un lieve sorriso.
“Ti ci credo, quel tipo biondo ti farà infuocare le cosce.” Disse.
Rimasi allibita.
“Nonna!” dissi sorpresa.
“Che c’è? Sono stata giovane anch’io.” Disse ridacchiando.
“Sei incredibile!” le dissi prima di abbracciarla.
“Già te ne vai?” disse lei.
“Sono stanca e vorrei riposare, è stata una mattinata intensa.” Le dissi.
“Almeno portati qualcosa da mangiare!” disse
E fu così che mi ritrovai una busta di cibo che avrebbe sfamato un esercito.
Quando uscii fuori, trovai Johnny seduto sugli scalini del portico. Mi sedetti affianco a lui e lo guardai.
“Che c’è?” mi disse.
“Niente…” risposi, agitando la testa.
 I suoi occhi color oceano si fissarono nei miei del medesimo colore e per un istante pensai di perdermi in quel azzurro mare. Il tempo sembrava essermi fermato, tutto intorno a noi era a rallentatore e i colori erano sfocati. Mi destai soltanto quando mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi.
“Andiamo a casa?” disse.
Annuii e per una volta, non ero stata così felice di tornare in quella casa.
 
Mi svegliai verso le 21, dopo qualche ora di sonno turbato da strani sogni. Mi stropicciai gli occhi e andai a prendere qualcosa da mangiare, anche se apparentemente non avevo fame. Arrivai in cucina e trovai Johnny intento a cucinare. Non mi aveva visto, così lo guardai di soppiatto, prima di avvicinarmi alle sue spalle.
“Buh!” urlai infine.
“Ti avevo vista, sai?” disse lui, mentre continuava ad agitare una padella.
“Scusi, signorino occhio di falco.” Dissi scansandomi.
Mi guardò con uno strano sguardo, misto a consapevolezza e seduzione.
“Che cucini?” gli chiesi mentre addentavo un gambo di sedano.
“Paella!” disse lui sfoderando un sorriso orgoglioso.
“Di pesce o di carne?” gli chiesi.
“Mista, ci ho messo quello che ho trovato nel frigo.” Rispose.
“E’ pronta?” gli chiesi sporgendomi a vedere la padella.
“Quando la finisci di fare tutte queste domande?” disse lui.
“Scusa, eh.” Dissi alzano le mani offesa.
“Scherzavo!” disse, dandomi un colpo di fianchi.
“Cos’è tutta questa confidenza?” dissi, agitando una carota in aria.
“Mi perdoni vostra grazia.” Disse mimando un inchino.
“Scuse accettate, umile schiavo.” Risposi, facendo l’altezzosa.
“Umile schiavo?” disse alterandosi.
“Oh-oh.” Dissi.
Ci rincorremmo per tutta la cucina e la sala, finchè come due bambini, ci azzuffammo sopra il divano.
“Non è odore di bruciato questo?” dissi per farlo distrarre.
“Cosa?” disse lui. Si precipitò in cucina, dove però constatò che nulla stava bruciando.
Ridacchiai nel vederlo arrabbiato con i pugni chiusi sui fianchi.
“A tavola!” annunciò un minuto dopo.
Eravamo affamati entrambi e ci mettemmo due secondi a finire le nostre porzioni. Lasciai Johnny a pulire i piatti e sgattaiolai in camera, anche se non avevo sonno, non avevo voglia di fare niente.
Mi sdraiai di lato sul letto ed guardai oltre la finestra il cielo illuminato dalle luci di Manhattan.
Stavo quasi per appisolarmi, quando qualcuno piombò sul letto e mi fece quasi cadere.
“Johnny!” urlai.
 Mi prese per un braccio per non farmi volare sul pavimento. Mi misi seduta sul letto e lo guardai storto.
“Non l’ho fatto apposta!” si difese.
“Si certo…” mugugnai.
Mi prese per un braccio e mi tirò a sé. Quel gesto, mi fece avvampare le guance, perché mi ritrovai con la testa appoggiata al suo petto senza rendermene conto.
“Mi dispiace… per quello che è accaduto oggi.” Disse.
Volevo alzarmi per guardarlo, ma era come se non volesse che io incontrassi i suoi occhi.
“Fa niente…” risposi.
“Mi sono sentito inutile. Non sono riuscito ad evitare che quel mostro ti prendesse.” Disse.
Vidi con la coda dell’occhio che stava stringendo forte i pugni.
Non sapevo che dire. Ero rimasta semplicemente a corto di parole. Quando finalmente alzai la testa, posai le mie labbra sulle sue e gli circondai il viso con le mani. Fu un comportamento dettato dall’impulso, da una specie di impeto che mi crebbe dentro. Non staccai le mie labbra da lui, fino a quando non ebbi bisogno di ossigeno. In quel piccolo istante, i miei occhi incontrarono i suoi e fu come quando due mari si scontrano. Fu quella semplice scintilla a intaccare la mia corazza di ghiaccio. Il suo sguardo era diverso, in senso buono, e sembrò trascinarmi in lui.
Passò una mano dietro la mia schiena e le posizioni si invertirono. Fu lui a cominciare a ricoprirmi di baci: la mia bocca, il mio collo, l’incavo del seno e la pancia furono creta sotto le sue labbra infuocate. Era un brivido che solo lui poteva donarmi, con la sua temperatura fuori dal normale, come la mia.
Sfilare via i vestiti non fu un problema, se si omette la parte in cui vengo letteralmente strappati. Il contatto dei nostri due corpi produceva scintille e illuminava silenziosamente la stanza. Eravamo io e lui, il ghiaccio e il fuoco, il freddo e il caldo: gli opposti che si attraggono, fino a lacerarsi l’anima.
Fu tutto frutto di un impulso, che mi diceva di fidarmi.
Quello stesso impulso che mi stava mandando in estasi, sarebbe stato lo stesso che mi avrebbe reso felice?
Non potevo saperlo, dovevo scoprirlo, dovevo espormi e mettermi in gioco.
Era l’unico modo.


_________________________________________
Buonasera :)
Il mio computer ha deciso di fare come gli pare, perciò appena trovo un minuto, pubblico la storia!
Il capitolo è breve lo so, ma visto che il precedente che ho postato pochi gironi fà era rimasto sul chi-va-là, ho deciso di darvi la conclusione.
Anche se vi ho lasciato almeno qualche dubbio, giusto?
Bene, non so se già ve ne ho parlato, ma il fatto che la storia sia un cross-over con gli Avengers è perchè qualcuno di loro apparirà più avanti (penso tra due capitoli più o meno).
La storia si sta evolvendo e successivamente vedrete con chi hanno a che fare i nostri eroi e Evelyn. 
Adesso vi lascio, fatemi sapere cosa ne pensate lasciando una recensione :)
La citazione è tratta dalla canzone Burning Love di Elvis Presley <3

Il banner sopra ritrae in linea massima Evelyn e Johnny (anche se il ragazzo non è Chris Evans), trovato qui http://browse.deviantart.com/?offset=96#/d302gfd
Alla prossima, Artemis Black

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Capitolo 8
*** Benvenuta a bordo, agente Evelyn. ***



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Benvenuta a bordo, agente Evelyn.
 

You won’t get much closer
Till you sacrifice it all
You won’t get to taste it
With your face against the wall
Get up and commit
Show the power trapped within
Do just what you want to
And now stand up and begin

 
Fui svegliata da un raggio di luce che filtrava attraverso le spesse tende.
Spostai un ciuffo di capelli dai miei occhi e mi stiracchiai, ricordando solo dopo di essere completamente nuda. Tutto ciò che era avvenuto la notte prima, mi travolse.
Mi girai verso l’altra parte del letto, ma di Johnny nessuna traccia.
“Maledizione!” imprecai, premendo la mia faccia sul cuscino.
Mi alzai e andai in bagno per farmi una doccia. Ripensai a tutto quello che era successo e mi diedi della stupida idiota. Ci ero cascata con tutti i piedi.
“Ormoni del cavolo…” mugugnai mentre mi arrotolavo un asciugamano addosso.
Mi infilai un paio di jeans e una maglia a maniche corte rossa con la scritta Bazinga sopra. Prima di uscire dalla stanza, presi un bel respiro. Guardai fuori nel corridoio per vedere se c’era qualcuno, poi uscii con circospezione dalla stanza e mi avviai verso la cucina.
Non c’era nessuno.
Tirai un sospiro di sollievo e feci colazione in compagnia della tv. Notai un paio di chiavi familiari sul bancone della cucina: erano quelle della mia moto.
Le presi trionfante e mi diressi in camera per prendere la giacca e il casco. Dopo pochi minuti ero già in sella, senza una meta prestabilita. Mi aggiravo nella periferia di Manhattan, piena di case malconce e di magazzini abbandonati. Notai una piccola folla che si radunava vicino un camioncino che distribuiva pasti caldi ai senza tetto. Frenai bruscamente quando qualcosa attirò la mia attenzione: un uomo di carnagione scura, pelato ed indossava una tuta grigia. Era alto, impotente quasi e teneva sempre la testa bassa. Quando guardò verso la mia direzione, si alzò il cappuccio della felpa e si incamminò in un vicolo buio. Scesi dalla moto e mi tolsi il casco al volo. Lo seguii mentre si addentrava in quei cunicoli tra un palazzo ed un altro. Si volta più di una volta per guardarmi, ed ebbi il sospetto che anche se non lo conoscevo, c’era qualcosa di familiare in lui. La strada finì con un muro, vicolo cieco. Mi fermai tenendo la distanza tra noi.
Lo vidi abbassare il cappuccio e girarsi. Lì capii tutto: era come il mostro che mi aveva attaccato nelle fogne.
Vidi i suoi occhi accendersi di rosso, come una spia che ti segnala la fine della batteria. Indietreggiai, fino a scontrarmi con un bidone d’immondizia dove era nascosto una bambino. Quello mi guardò spaventato e mi si aggrappò ad una gamba, puntando il piccolo indice contro l’uomo d’argilla. Il mostro cacciò un urlo disumano e mi venne incontro.
Feci appena in tempo a prendere il bambino in braccio e a spostarmi, quando il mostro cominciò a corrermi dietro. Il bambino stava per mettersi a piangere, allora lo calmai dicendogli che era tutto un gioco.
“Sta tranquillo, ti proteggo io!” gli dissi mentre correvo. Finalmente il vicolo finì e ci ritrovammo in strada, un attimo prima ero in piedi con il fiatone e subito dopo mi ritrovai a terra a proteggere il bambino sotto di me, facendogli scudo ed evitando che sbattesse la testa al suolo.
La gente che era vicina al camioncino si girò esterrefatta. Poi quando il mostro fece la sua comparsa uscendo dal vicolo, il panico si insinuò tra la folla.
Dovevo trovare un posto dove lasciare il bambino. Mi guardai velocemente attorno, ma non trovai nessun nascondiglio in tempo. Qualcosa mi afferrò all’altezza della caviglia, facendomi dapprima strusciare sull’asfalto e poi fui lanciata sul camioncino.
Un dolore lancinante mi bloccò il respiro, ma quando sentii le grida del bambino, mi riscossi e mi feci forza.
Il mostro aveva lanciato un altro grido e si trovava pericolosamente vicino al bambino. Vidi la furia degli occhi rossi sormontare la paura degli occhioni grandi del piccolo. Una rabbia mi montò nel cuore e a quel punto usai i miei poteri.
Lanciai due lastre appuntite contro il mostro, che dolorante, si girò verso di me.
“Vieni da me! Avanti!” gli urlai, per distrarlo dai pianti del bambino.
Quello urlò di nuovo, ma non si spostò. Fui io che gli corsi incontro e mentre raccoglievo al volo il bimbo, mi protessi con uno scudo di ghiaccio, che si incrinò pericolosamente quando il mostro ci sbatté sopra un pugno. La gente si era riparata dentro le case, dietro cassonetti dei bidoni e nei vicoli vicini.
“Lo protegga!” dissi lasciando il bambino ad una signora che era nascosta dietro un cassonetto. Quella mi annuì spaventata e si strinse il bambino al petto.
Mi girai e vidi l’ombra del mostro stagliarsi dietro di me. Le grida del piccolo e della signora si mescolarono, mentre io con uno scudo cercavo di proteggerli e di far andare indietro il mostro.
Poco prima che lo scudo andasse in frantumi, nella mano destra una stalattite appuntite era apparsa e gliela conficcai nell’addome, facendolo così barcollare all’indietro.
Gli tirai un calcio all’altezza delle parti basse e lo vidi piegarsi in due mentre mi gridava contro. Altre due stalattiti appuntite si formarono nelle mie mani e gliele conficcai sulle spalle, formando una specie di X. Cadde in ginocchio davanti a me e sapendo che soltanto una cosa l’avrebbe messo KO, gli misi le mani intorno al collo e con un urlo misto al suo, gli congelai la testa che gli staccai con un fragoroso tac. Quella rotolò via dalle mie mani.
Mi asciugai il sudore sulla fronte e ansimai.
Appoggiai le mani sui fianchi e mi piegai in due per riprendere fiato. Senti dei piccoli passi avvicinarsi e di scatto misi le mani in avanti, scoprendo poi che era il bambino che avevo salvato.
Si spaventò per il mio gesto irruento, poi si tranquillizzò e mi fece un mezzo sorriso.
“Stai bene?” dissi abbassandomi alla sua altezza, il che provocò una fitta di dolore alla schiena.
Lui annuì, portandosi le mania alla bocca.
“Dov’è la mamma?” gli chiesi. Scosse semplicemente la testa.
“Come ti chiami?” gli chiesi. Sentivo gli occhi della gente puntati su di me, mentre piano piano uscivano fuori dai nascondigli.
“Jonathan.” Disse con una vocina dolce.
“Jonathan, adesso andiamo a cercare la-“ smisi di parlare perché una donna corse verso di noi gridando il nome del figlio.
“Oh grazie al cielo! Piccolo, non ti allontanare mai più!” gli disse stringendolo a sé.
“Mamma!” gli urlò lui piangendo.
Mi allontanai, lasciandoli soli. Presi il cellulare e premetti il tasto verde.
“Mi servirebbe proprio una squadra di pulizia…” dissi.
“”Sei lenta nel segnalare le cose.” Sentii la voce di Fury.
Due mezzi blindati svoltarono l’angolo e si bloccarono nel luogo dove lo scontro si era consumato.
“Contenta di vederti Nick.” Dissi ironica.
“Non è certo lo stesso per me, Evelyn.” Mi rispose guardandosi intorno.
 
“Secondo attacco e non sappiamo da dove diavolo vengono questi cosi!” Fury sembrò abbastanza arrabbiato.
Eravamo in uno dei mezzi blindati, con due agenti infermieri che tentavano di medicarmi.
“Sto bene!” gli dissi alzando il tono di voce.
Mi alzai in piedi e scesi dal veicolo.
“Senti Nick, non piace neanche a me che questi cosi girino per la città.” Gli dissi.
“Allora?” mi chiese, alludendo a qualcosa.
“Sarò dei vostri.” Dissi. Avevo preso una decisione alla fine.
Sospirò contento, anche se non lo dava a vedere.
“Dovrai venire con me al quartier generale.” Disse.
“Adesso?” gli chiesi.
“Ovviamente, il tempo è prezioso.” Disse.
Raggiunsi la mia moto e mi misi il casco, poco prima che mettessi in moto la signora con il bambino mi si avvicinò e mi sussurrò un grazie, seguito da un debole sorriso.
Rimasi stupita dal gesto e da me stessa.
Appena i veicoli dello SHIELD si mossero, misi in moto e li seguii.
 
“Dobbiamo andare sotto il mare?” dissi stupita.
Eravamo in una base militare sul mare, non poco distante da New York. C’era voluta qualche ora per arrivare ed avevo anche finito la benzina nella moto.
“Prego, signorina.” Mi fece segno un’agente al fianco di Nick.
Era una donna ed era la prima volta che la vidi affianco a Fury: aveva i capelli castani raccolti e gli occhi chiari. Emanava un aura autoritaria e rispettosa, quasi d’ammirazione verso Fury. Li vidi parlottare tra loro, poi l’agente si dileguò portando con se alcuni documenti.
“Andiamo, le voglio mostrare il nostro nuovo gioiello di quartier generale.” Disse. Se non lo avessi avuto davanti, avrei creduto che si stesse gongolando.
Fummo scortati da alcuni militari e agenti dello SHIELD in un corridoio sottomarino, che ci permetteva di accedere alla base. Era strabiliante il colore dell’acqua azzurra e della quantità di biodiversità che ci fosse. C’erano pesci piccoli e grandi, colorati e non.
Per un momento tornai bambina e guardai estasiata le meraviglie attraverso quello spesso vetro cristallino.
Scossi la testa e tornai con i piedi per terra, poco prima che entrassimo nella struttura.
“Ma è un sottomarino?” chiesi.
“No, si trova sott’acqua per motivi di sicurezza. Un giorno di questi sarà pronto per volare.” Rispose Fury mentre mi conduceva tra i vari corridoi interni.
“Ah…” risposi.
“Il suo nome di battesimo è Elivelivolo.” Rispose Fury.
“Recepito.” Dissi.
Quando aprì una porta, ci ritrovammo in quella che doveva essere la sala comandi. Centinaia di postazioni supertecnologiche con altrettanti agenti che ci lavoravano sopra. Per un attimo ne rimasi frastornata.
Ma in che cosa mi stavo cacciando?
“Allora… dovrai firmare alcune carte di procedura ed inoltre dovrai superare alcuni test.” Disse, poi si avvicinò e mi sussurrò a bassa voce “Per adesso è meglio se fai a meno dei tuoi poteri.” Concluse.
“Quindi sto per diventare Agente?” chiesi stupita.
“Lo vuole? Perché sa, la procedura che sto attivando per lei, è diversa dalle altre. Solitamente si diventa agenti dello SHIELD dopo aver fatto gavetta nell’esercito o nella CIA o FBI. Lei è uno dei casi eccezionali.” Disse.
Digitò alcune cose sullo schermo che aveva davanti, poi si voltò verso di me e mi fece segno di sedermi sull’enorme scrivania che sovrastava la sala comandi.
Mi passò alcuni fogli che l’agente di prima si era portata via e mi diede una penna.
Lessi scrupolosamente tutte le note e le sotto-note, anche quelle più piccole: non volevo incappare in qualche imbroglio.
“Avevi detto che a mia nonna ci avresti badato tu.” Dissi.
Era la parte più importante per me: assicurarsi che la nonna non venisse mai a sapere quello che facevo e di mantenerle l’affitto con le spese.
“Se diventerai agente avrai un cospicuo stipendi, con quello potrai badare alle spese. Mentre per la sicurezza del tuo parente più prossimo… ci penseremo noi.” Disse infine.
Presi la penna in penna in mano. Stavo quasi per firmare, quando i peggio dubbi mi assalirono.
“Una volta nello SHIELD…” dissi.
“Sarai dello SHIELD. Se trasgredirai qualche nostra regola, verrai punita. Se tradirai lo SHILED, verrai processata e rinchiusa in un carcere di massima sicurezza.” Fu chiarissimo quello che disse l’agente al fianco di Fury.
Al diavolo, non avevo nulla da perdere in fondo. Poggiai la penna sul foglio e firmai.
Passai il foglio a Fury e mi alzai dalla sedia.
“Benvenuta nello SHIELD.” Disse lui, tendendomi una mano.
Sarebbe stato il mio miglior alleato come il mio miglior nemico, questo me lo sentivo.
 
Nelle ore successive fui sottoposta ad esami di psicologia, esami medici e non, in quanto possedevo un potere che mi distingueva dagli altri agenti. E fui anche posta sotto sforzo fisico e per poco non congelavo un’intera stanza. Anche una prova fisica era tra gli esami: si rivelò un punto a mio favore. Avendo un passato da ladra, avevo un sesto senso guardingo ed ero brava a nascondermi nell’ombra. Qualità che andavano sicuramente perfezionate, ma che Fury fu lieto di scoprire. In fondo un agente SHIELD era un qualcosa di più vicino ad una spia.
“Dopo che mi avete rigirato come un calzino…” dissi mentre mi massaggiavo una spalla per il colpo subito poco prima da un’agente che mi esaminava “posso chiedere che ne sarà di me? Nel senso, dove alloggerò?” chiesi.
“Continuerai ad alloggiare dai coniugi Richards, per adesso.” Mi rispose Fury.
Rotei gli occhi e mi rimisi il giacchetto.
“Ovviamente di tutto ciò tu non potrai parlarne con loro. Sei un’agente adesso, devi proteggere gli interessi dello SHIELD.” Concluse mentre usciva dalla stanza.
Imprecai interiormente quando guardai che ore si erano fatte: erano le 23 ed ero ancora fuori New York. Non potevo comportarmi così ogni qualvolta che Nick mi chiedeva di raggiungerlo nel quartier generale… la casa non era un albergo dove potevo entrare ed uscire a piacimento.
Risalii in superficie e trovai la mia moto pulita e con il serbatoio pieno: uno dei lati positivi della giornata. Ero così stanca e provata che più volte dovetti aggitare la testa e rallentare per evitare di fare incidenti. Quando arrivai al Baxter Building, era mezzanotte passata.
Le luci della casa era tutte spente, quindi le opzioni erano due: o non c’era nessuno oppure dormivano già tutti. Per evitare di svegliare qualcuno, mi tolsi le scarpe e posai il casco con le chiavi sul mobiletto dell’ingresso. Camminai a passo felpato fino al divano della sala, dove mi sdraiai esausta. Mentre mi stavo togliendo il giacchetto, la luce si accese.
-Merda.- pensai. Speravo fosse Reed o Sue, invece era Johnny.
“Dove sei stata?” chiese freddo.
“Ciao anche a te.” Risposi sarcastica.
“Dove sei stata fino a quest’ora?” chiese avvicinandosi.
“Non farmi la predica, sono un’adulta e non c’è bisogno di chiedermi le cose con quel tono.” Risposi alzandomi.
“E questa casa non è un albergo.” Disse.
“Lo so… ma al momento sono confinata qui e non credo che tu ti stia comportando da perfetto padrone di casa.” La cosa cominciava ad irritarmi.
Non poteva darmi un alloggio nel sottomarino, Fury?
“Che vorresti dire?” alzò la voce.
“Che stamattina quando mi sono svegliata ero da sola nel letto, anzi in casa! E in più non ti sei degnato di chiamarmi. Se ti importasse veramente della mia incolumità mi avresti chiamato.” Sbottai.
Il suo viso divenne duro, il suo sguardo gelido. Buffo, visto che tra i due quella criocinetica ero io.
Alzò il mento e guardò altrove, prima di girarsi di spalle ed andare in camera, sbattendo la porta.
Mi lasciai cadere sul divano, immersa nell’oscurità di una casa che non mi apparteneva, consapevole di aver passato la notte con un uomo che non mi considerava minimamente e spaventata dalla mia nuova carriera d’agente.
Mi lasciai cullare dal suono del vento gelido che fuori sferzava le fronde degli alberi e prima di addormentarmi, una lacrima solitaria solcò il mio volto.

________________________________________________
Buonasera!
Eccomi con il nuovo capitolo di queta storia :)
Mi scuso per gli errori di distrazioni che avrò commesso (ho ricontrollato, ma non sono sicura) e per il ritardo, ma il mio computer è fuori uso perciò devo usarne un altro. Il banner è stato creato da un mio amico che ringrazio immensamente e ho anche creato una pagina per il mio account EFP
https://www.facebook.com/ArtemisBlackEfp?ref=hl per tenervi sempre aggiornati e offrirvi qualche chicca come canzoni che uso come sottofondo per scirvere i capitoli :)
La citazione è presa dalla canzone Panic Station dei Muse.
Ringrazio immensamente chi legge e recensisce la storia, fatemi sapere che ne pensate del capitolo e dell'immagine c:
see you soon,
Artemis Black

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Capitolo 9
*** Addio. ***



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ADDIO.


But I’ll never survive with Dead Memories in my heart.
Dead Visions in your Name.
Dead Fingers in my Veins.

 

 “Verrai affiancata da un agente per adesso, che ti aiuterà ad ambientarti e ti aiuterà nell’addestramento. Ah, eccolo! Evelyn ti presento l’agente Coulson.” Disse Fury.
Era un uomo sulla trentina, stempiato ma con un sorriso amichevole stampato sul viso. Era poco più alto di me e indossava un completo nero con cravatta azzurra.
“Puoi chiamarmi Phil.” Disse mentre mi stringeva la mano.
“E tu puoi chiamarmi Evy.” Dissi.
Mi fu affiancato per oltre un mese, nel quale imparai molte cose sullo SHIELD e lo cominciai a considerare la mia seconda casa.
Ogni agente dentro il dipartimento aveva una storia dietro di sé e spesso non era delle migliori. Molti erano orfani dei genitori, altri avevano commesso gravi sbagli e avevano infranto la legge, altri come me, avevano una nota rossa sul loro registro.
Natasha Romanoff era uno di questi: sapevo poco di lei, come lei sapeva poco di me. Era nata in Russia ed era stata spia della Mano, una setta di mercenari, fino a quando l’agente Clint Barton non la salvò, invece di ucciderla come gli era stato ordinato da Fury.
Ci fidavamo l’un l’altra. L’avevo conosciuta durante gli allenamenti serrati in palestra: era brava a menare ed era agile come una pantera. Più di una volta ci siamo allenate sul ring insieme e poi, quando Fury le ordinò di farmi da “maestra” ed insegnarmi le basi del mestiere da spia.
Oltre a Coulson, che mi impartiva lezioni di tecnologia avanzata e di burocrazia, Natasha mi insegnò a lavorare sul campo, in prima persona.
L’inverno era ormai prossimo alla fine come il mio addestramento: un mese e mezzo rinchiusa nella base operativa a prepararmi e finalmente ero pronta. Le uniche volte che uscivo dalla base era per andare a trovare mia nonna e per andare a dormire al Baxter Building.
Il rapporto con Reed e Sue migliorò, tanto da aver permesso loro di poter studiare il mio DNA e scoprire se le mie mutazioni potevano essere vagamente uguali alle loro.
Con Johnny invece, non c’era più alcun rapporto.
La sera rientravo e mi mettevo a dormire sul divano, mentre lui era già chiuso nella sua stanza. Anche se eravamo nello stesso edificio, non ci vedemmo per circa un mese.
All’inizio la presi molto male, poi repressi qualsiasi sentimento non richiesto, futile e imbarazzante: in poche parole, il mio cuore tornò ad essere protetto da una solida barriera.
 
“Agente Smith.” Mi salutò Natasha, entrando nello spogliatoio femminile.
“Agente Romanoff, oggi finalmente avrò la mia divisa.” Dissi, cercando di tenere un tono neutrale. Le sventolai la tuta davanti gli occhi. Le inarcò un sopracciglio e con gli angoli delle labbra mimò un sorriso.
“Bene! Fury ti vuole vedere sul ponte di comando.” Mi disse, prima di uscire.
Una volta indossata la tuta aderente, mi osservai allo specchio per qualche secondo. Se Natasha mostrava un fisico formoso e perfettamente modellato, il mio era asciutto e tonico come quello di una modella. Misi gli anfibi neri e poi, per dare un mio personale tocco, indossai la mia giacca di pelle rossa.
Uscii dallo spogliatoio dirigendomi sul ponte. Quando arrivai, c’erano gli agenti Coulson, Barton e Romanoff seduti attorno la scrivania e l’agente Hill in piedi affianco a Fury, intento a lavorare su uno schermo touch sulla scrivania.
“Agente Smith, ben arrivata. Si accomodi, ho delle importanti notizie da dare.” Mi disse Fury.
Coulson diede un’occhiata fugace al mio abbigliamento e mi annuì, orgoglioso del lavoro ben svolto con me.
Mi sedetti vicino Natasha e prestai attenzione a ciò che stava per dire Nick.
“Ci sono stati altri due avvistamenti in questo mese di burattini d’argilla, ma nessuno attacco alla popolazione. Hanno tenuto un profilo basso fino a scomparire dai nostri radar.” Disse.
“Burattini d’argilla?!” chiesi.
“Sono i mostri che ti hanno attaccato per ben due volte. Il professor Reed ha analizzato il loro DNA ed è saltato fuori che sono dei burattini d’argilla telecomandati da qualcuno.” Aggiunse.
“Ah…” sospirai.
Fury diede altre informazioni, ma la mia testa vagava altrove, riportandomi all’ultimo scontro con uno di quei burattini. Mi era sembrato che dicesse qualcosa, oltre ai ruggiti disumani. Un’imprecazioni a dir poco ortodossa e poi una frase, ma non riuscivo a ricordarla.
“Evelyn?” mi richiamò all’attenzione Fury.
“Ehm, si. Scusi, è che sto cercando di ricordare una cosa… uno di quei burattini, sembra assurdo, ma mi aveva detto qualcosa.” Dissi.
“Cosa?” chiese Barton curioso.
“Qualcosa come -Brutta puttana te la farò pagare.-” dissi.
“Mmm, wow.” Aggiunse Natasha.
Eppure io ricordavo di aver sentito anche altro, ma proprio non riuscivo a ricordarlo.
“Bene, questo è tutto per adesso. Potete andare, siate sempre reperibili! Mi raccomando.” Disse Fury prima di liquidarci.
Non avevo nessun incarico, mentre gli altri avevano altre mansioni da svolgere.
“Goditi quest’ultimo tempo libero, Smith!” mi disse Coulson, prima di andarsene.
Mi diressi verso la mia moto e me ne andai dal quartier generale. La mattinata la passai girovagando sulla costa, mangiando un panino in un chiosco vicino la spiaggia, poi mi diressi verso il Baxter Building. Erano le 17 quando arrivai, l’ora in cui erano tutti impegnati in qualcosa.
Momento perfetto per prendere le mie cose e andarmene. Sarei passata poi da Sue e Reed per avvertirli. Ci avevo pensato tutta la mattinata ed ero arrivata alla conclusione che in quella casa ero solo d’impiccio.
Parcheggiai la moto nel garage sotterraneo e salii con l'ascensore fino all'ultimo piano. Speravo di non incontrare Johnny, ed invece quando le porte dell'abitacolo si aprirono me lo ritrovai davanti... Avvinghiato ad una roscia alta e snella, con due gambe lunghissime ed un seno prosperoso mentre si scambiavano effusioni passionali. La situazione si presentava più imbarazzante di quello che mi sarei aspettata. Quando i due finalmente mi notarono, la roscia entrò nell'ascensore agitando la mano con le unghie laccate di nero per salutare Johnny. Lo sorpassai senza neanche degnarlo di uno sguardo ed andai in camera a prendere le mie cose più convinta che mai. Sul letto sembrava essere passato un uragano e la stessa cosa valeva per la stanza intera. Aprii il cassetto con le mie cose e poggiai lo zaino a terra e cominciai a riempirlo con i miei vestiti. Johnny si fermò sull'uscio con le braccia incrociate sul petto nudo.
"Te ne vai?" Mi chiese.
"No, metto i miei vestiti nello zaino perché mi va!" Risposi sarcastica.
Lui sbuffò e se ne andò.
Una volta finito di riporre i panni nello zaino, passai in bagno a prendere il mio spazzolino e il mio beauty case. Johnny riapparve in camera e mi si stagliò davanti, impedendomi di uscire dal bagno.
"Puoi rimanere, nessuno ti ha chiesto di andartene." Disse.
"Ma io mi sento di troppo, quindi me ne vado." Dissi, scansandolo per passare. In una frazione di secondo toccai la sua pelle nuda e un brivido mi percosse la schiena. Scossi la testa e tornai lucida e fredda.
Misi le ultime cose nello zaino e lo chiusi.
"Sei un'agente dello SHIELD adesso, me lo ha detto Reed." disse.
"Già..." Risposi.
"Mi spiace." Le sue parole arrivarono di botto, colpendomi in pieno e facendomi sgranare gli occhi. Mi alzai e lo guardai sbalordita.
"Sai cosa significa veramente la parola scusa?!" Gli chiesi " perché mi sembra che tu la usi come parola magica che mette tutto apposto in un secondo. Invece non è così! Dopo le scuse ci sono i fatti, cosa che tu ignori completamente!" Conclusi.
Il suo volto si indurì e si mise sulle difensive.
"E che dovrei fare? Mandarti un mazzo di rose? Portarti a cena fuori?" Mi urlò contro aprendo le braccia.
"Tu non sai cosa significa amare o prendersi cura di qualcuno!" Gli risposi urlando contro.
"Perché tu si? Non mi pare che tu ti sia presa cura dei tuoi amici!" Disse.
Non avrebbe dovuto dirlo. Mi sentii squarciare, sentivo ogni muscolo dolermi e le forze che mi mancavano. La sua faccia cambiò espressione quando si accorse di quello che aveva appena detto.
"Scusa io non avrei dovuto... Io..."
Alzai una mano in aria e mi voltai per prendere lo zaino, quando mi prese per un braccio e mi giró a se per baciarmi. Una lacrima solcò il mio viso e impregnò le labbra di entrambi.
Era un bacio  salato e doloroso come un coltello che si spinge in profondità per ferire ancora di più. Picchiai con i pugni sul suo petto, ma lui li prese tra le sue mani, placandomi. Eppure un impeto di rabbia mi diede la forza di respingerlo e buttarlo sul letto. Presi lo zaino e me ne andai sbattendo la porta dietro di me.
 
Spingevo la moto al massimo, sfrecciando tra le macchine e passando oltre ingorghi di automobili. Pensavo che l'adrenalina avrebbe assopito il dolore, che lo avrebbe anestetizzato invece sembrava ampliarlo. La rabbia e la frustrazione mi offuscavano la vista, tanto da impedirmi di vedere la strada.
Imboccai la strada per andare da mia nonna e per pico non presi una macchina. Scesi e mi lanciai contro la porta d'ingresso. Mi asciugai frettolosamente le lacrime ed entrai.
"Nonna! Nonna!" La chiamai a gran voce, ma in casa non c'era nessuno.
Probabilmente era a fare la spesa o magari era dalla vicina. Uscii fuori e bussai alla porta di Odette, una simpatica vecchietta con i capelli tutti bianchi mi aprì la porta. Mi disse che mia nonna non era da lei. Tornai a casa e cominciai seriamente a preoccuparmi.
Presi il telefono e la chiamai al suo cellulare, che aveva lasciato sul tavolino dell'ingresso. Strano, ogni volta che usciva lo portava con se.
Andai a controllare in camera sua e poi nel giardino sul retro. L'immondizia era ancora dentro i bidoni e il prato non era ancora stato tagliato. Qualcosa attirò la mia attenzione: vicino al cancelletto il prato era stato smussato e rivoltato e un qualcosa di marrone scuro lo impregnava. Mi avvicinai e mi accorsi con orrore che non era terra: era argilla.
Presi il telefono e chiamai all'istante Fury, mentre mi dirigevo velocemente alla moto.
"L'hanno presa!" Gli urlai.
"Chi hanno preso?" Mi chiese.
"Mia nonna! Hanno rapito mia nonna!" Gli urlai. Poi attaccai e saltai in moto.  Mi diressi dove la prima volta vidi uno di quei mostri, nel vicolo e poi nelle fognature, convinta che li ci fosse qualche tipo di ritrovo. Lasciai la moto e scesi frettolosamente nel tombino. Mi feci luce con una torcia e cominciai a perlustrare le fogne. L'unica cosa a cui pensavo in quel momento era mia nonna: dovevo trovarla, portarla al sicuro e uccidere quei mostri. Guardavo freneticamente a destra e sinistra, in cerca di qualcosa.
Il telefono non prendeva e la torcia cominciò a scaricarsi. Non mi sarei fermata per nulla al mondo e continuai a girovagare per le fogne di Manhattan. Trovai alcune tracce di argilla e le seguii. Mi addentravo sempre di più in quei cunicoli, fino a  quando notai una figura nascosta nell'ombra e scattai  in avanti: era uno di quei burattini.
Lo attaccai alle spalle e poi alla gola. Una stalattite di ghiaccio si formò rapidamente nella mia mano destra e con quella gli staccai completamente la testa con un taglio netto.
Proseguii in quella direzione, fino a ritrovarmi in un grande incrocio di cunicoli che ospitava all'incirca 10 di quei mostro d'argilla. Alla mia destra, in una parte rialzata del marciapiede, c'era un signore stempiato, con pochi capelli grigi e un camice bianco indossato sopra a dei jeans. Era di spalle e parlava a qualcuno, che io non riuscivo a vedere, rivolgendosi con uno sguardo paurosamente malefico e esaltato.
Uno dei mostri mi vide e il suo urlo gutturale riecheggiò in tutti i cunicoli. Quella specie di dottore pazzo si girò verso di me e mi guardò in modo sadico. Urlò qualcosa ai mostri e li vidi scagliarsi contro di me. Riuscii a premere il pulsante del dispositivo GPS di localizzazione appena in tempo. In poche parole avevo lanciato un segnale d'allarme allo SHIELD.
Scartai di lato schivando due mostri d’argilla e parai un colpo con lo scudo di ghiaccio. Il colpo era stato così forte da dovermi inginocchiare per reggere. Mi rialzai velocemente e scartai a destra per evitare un mega pugno da uno di quei mostri. Due stalattiti si formarono nelle mie mani e le usai come spade taglienti per allontanarli da me. Stavano per circondarmi quando un debole grido attirò la mia attenzione e riuscii a scappare dalle grinfie di quei burattini e raggiungere la parte sopra elevata. Con una bufera di ghiaccio scaturita dalle mie mani, allontanai il professore pazzo e mi voltai verso la persone con cui stava parlando: mia nonna.
“Nonna!” urlai disperata.
Mi lanciai accanto a lei e la tenni tra le mie braccia. I mostri si avvicinavano ma non mi importava.
Aveva visibili ferite sul volto e sulle braccia e anche qualche livido violaceo. Le lacrime cominciarono a pizzicarmi gli occhi.
“Nonna… Come stai?” le chiesi.
Lei tossì per poi sorridermi debolmente, mentre io sentivo il mondo cadermi sulle spalle. Non potevo perderla, era l’unica cosa che mi era rimasta. L’unico motivo per cui vivere.
“Evy, cara…” disse a bassa voce.
“Sshh nonna, ti porto via da qui!” le dissi mentre l’alzavo da terra per caricarmela sulle spalle.
“No… non ce la… faccio.” Disse con voce flebile.
“No, tu ce la fai! Sei forte!” le dissi accarezzandole la guancia.
Allontanai uno di quei mostri con una sferzata di schegge di ghiaccio. Vidi lo stupore negli occhi di mia nonna, ma non l’orrore che avevo visto in altre persone che mi avevano visto utilizzare i miei poteri.
“Tu sei forte. Ce la farai…” disse.
“Non dire così, non posso perderti. No!” dissi.
Le mie guance si stavano rigando di lacrime calde e sofferenti.
La tenni stretta a me e inspirai il suo profumo alla vaniglia, quello che mi era sempre piaciuto e che aleggiava in tutta la casa.
“No, no…” continuai a ripetere.
“Va bene così. Ricordati che ti voglio bene così come sei, mio piccolo tesoro.” Disse a fatica.
“Nonna! Anche io ti voglio bene…” dissi, tirando su con il naso.
Mi sentii prendere alle spalle ed essere trascinata lontano da mia nonna. Mi divincolai e cercai di liberarmi da quella morsa, ma niente. Era il professore e mi teneva stretta, con un braccio intorno al collo.
“Stronzetta, è quello che ti meriti!” mi disse a denti stretti.
Poi qualcosa accade.
Qualcosa che annebbiò la mia vista, che provocò un’ondata di lacrime miste ad una rabbia pura e violenta… si scatenò nel mio petto ed inondò tutto il mio corpo. Sentivo i miei muscoli tremare, i denti serrarsi e poi schiudersi per far uscire  l’urlo disperato di una ragazza ormai sola al mondo.
 
Un colpo di pistola.
Uno solo.
Ed una vita si spezzò.
Sentii il dottore mollarmi e urlare qualcosa ai suoi mostri, sentivo l’aria spostarsi accanto a me, probabilmente stavano arrivando gli agenti dello SHIELD e se la stavano dando a gambe.
Caddi sulle mie ginocchia mentre i miei occhi erano fissi nei suoi: si erano chiusi per sempre.
Le braccia a penzoloni con le mani chiuse a pugno, i sentimenti che abbandonavano la mia anima ormai a pezzi e il dolore così forte da non riuscire neanche ad esprimerlo attraverso le lacrime o qualche grido. Troppo dolore ti portava via qualsiasi espressione sul volto.
Sentii altri spari, riconobbi la figura di Fury stagliarsi affianco a me e poi andare verso mia nonna per sentire il suo polso. Si voltò verso di me e interdetto, scosse lievemente la testa.
Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia, poi mi alzai e mi avvicinai al corpo inerme. Le diedi un bacio, carico di sofferenza, sulla fronte poi arrancando con le gambe me ne andai. Vidi di sfuggita Barton cercare di avvicinarsi a me, ma Natasha lo trattenne.
Percorsi a ritroso le fognature e salii in superficie.
Era ormai buio e il tempo era peggiorato, tanto da piovere. Lasciai la moto lì dov’era e cominciai a camminare senza meta fino a quando non sentii un moto interiore che mi spinse a correre, correre fino a quando non mi avrebbero ceduto le gambe. E lo fecero: caddi a carponi sul molo di un porto, il fiato corto e il sudore che impregnava la mia fronte.
Le lacrime cominciarono a scorrere silenziose… poi gridai.
Cercai di ridare tutta la mia frustrazione, il mio dolore e la mia sofferenza.
Fino a rendermi conto che oramai ero sola al mondo.

 

______________________________________________
Buonasera :)
Non voglio commentare questo capitolo perchè semplicemente non ci cose da chiarire, ecco.
Una cosa vi chiedo, fatemi sapere se vi ha trasmesso qualcosa, se l'ho scritto bene. Quindi vi supplico di lasciare una recensione per quietare il mio animo che mi dice di aver fatto una cazzata.
La citazione è tratta da Dead Memories dei Slipknot.
A presto,
Artemis.

P.S: scusate per il ritardo! :S


https://www.facebook.com/ArtemisBlackEfp la mia pagina FB :)
 

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Capitolo 10
*** Vendicami. ***


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Vendicami.
 

It's hard to find a way to breathe.
Your eyes are swallowing me,
mirrors start to whisper,
shadows start to see,
my skin's smothering me.

Help me find a way to breathe.
 

Vetri rotti, vasi a pezzi, mobili squarciati, tende strappate.
Un attimo prima era tutto in ordine…. Un attimo dopo sembrava che un uragano si fosse abbattuto sulla casa. Non ricordo niente, la mia mente è come se si fosse offuscata ed il corpo avesse agito da solo.
C’è una fotografia a terra: siamo io a nove anni e la nonna.
Il vetro della cornice era rotto e quando la presi in mano, mi tagliai. Il sangue scivolò e gocciolò sulla foto, fino ad impregnarla di rosso.
La sua testa ciondola da un lato con gli occhi sbarrati.
La mia mano lasciò cadere la cornice a terra.
“Nonna, ma io non ho dei genitori?” le chiesi.
“Certo che li hai, ma sono speciali: loro adesso sono degli angeli.” Mi rispose mentre affettava la verdura.
“E perché mi hanno lasciato da sola?” le chiedo ingenuamente.
A scuola tutti i bambini mi prendevano in giro perché i miei genitori mi avevano lasciato da sola.
La nonna parve rattristarsi, poi però si avvicinò a me e mi prese in braccio.
“Non ti hanno lasciato da sola, altrimenti che ci sto a fare qui io?” mi disse ridendo.
Mi prese la guancia e me la riempì di baci.
“Dove abitano gli angeli?” le chiesi curiosa. Magari potevo andare a trovarli.
“In un posto bellissimo chiamato paradiso, ma non ci si può arrivare perché nessuno sa la strada.” Mi disse.
“Come Babbo Natale?” dissi sorridendo.
“Si, un po’ come Babbo Natale… Adesso vai a metterti a tavola che dobbiamo cenare!” mi disse incitandomi.
Stavo andando in sala, quando mi venne in mente un’altra domanda e tornai indietro in cucina. Vidi la nonna trattenere i singhiozzi ed asciugarsi le lacrime con il grembiule. Da quel giorno imparai a non fare più domande sui miei genitori, perché faceva soffrire la nonna.
I ricordi si mescolavano nella mia testa, i flashback offuscavano la mia vista, le parole affondavano sempre di più il coltello piantato nel mio cuore.
Volevo urlare ma non riuscivo a trovare la mia voce in mezzo a tutte quelle che mi parlavano nella testa. Volevo sfogarmi, mandare via il dolore, ma sembrava impossibile. Continuava a tenermi stretto nella sua morsa facendomi ricordare i momenti più belli della mia vita con lei.
Tirai un pugno al muro e sentii le nocche fare un brutto rumore, ma niente dolore fisico: era troppo debole per competere con quello che mi divorava dentro.
Rovesciai a terra una credenza, poi il tavolo della cucina, lanciai le sedie dall’altra parte della stanza.
Volevo provare sensazioni positive, in mezzo a quel mare di disperazione.
Sentii le sirene fuori casa e poi dei poliziotti intimarmi di stare calma: non volevo fargli del male, ma volevo stare da sola.
Uno volò dall’altra parte della stanza. L’altro andò a soccorrere il suo amico e poi uscì di casa urlando qualcosa alla radiotrasmittente.
La pioggia cadeva fitta.
La cerimonia era finita. Le corone di fiori colorati erano tutti appassiti, la lapide nera con le scritte grigie sembrava riflettere l’acqua che cadeva. Il silenzio regnava sovrano, ero rimasta solo io, se ne erano andati tutti poco dopo la fine. Non avevo chiesto a nessuno di rimanere e nessun me lo aveva chiesto. Volevo rimanere da sola. Come d’altronde ero.
Eppure sentivo la sua presenza poco distante da me, sotto un albero a ripararsi dalla pioggia. Mi osservava le spalle, vegliava su di come fino a quando non mi girai a guardarlo.
I miei occhi erano inespressivi, erano vuoti ma colmi di dolore.
La sua espressione tramutò e da serio diventò preoccupato, visibilmente preoccupato. Si era avvicinato, mi aveva preso per un braccio, mi aveva detto di andare a casa altrimenti avrei preso un raffreddore. Non gli risposi.
Lo seguii e basta.
Mi portò al Baxter Building. Sue e Reed non c’erano, erano partiti.
Mi portò in camera, mi tolse i vestiti bagnati e rimasi in biancheria. Fissavo il pavimento con gli occhi spenti, mi lasciavo curare dalle sue premure nei miei confronti come fanno i bambini quando sono tristi.
Mi prese la mano e mi portò in bagno, aprì il getto d’acqua della doccia, entrammo entrambi nella doccia con indosso solo la biancheria. Mi lavava con cura, mi pettinò e lavò i capelli.
Poi mi mise addosso un paio di shorts e una felpa. Mi prese in braccio e mi portò nel letto.
Mi coprì con il lenzuolo e mi diede un bacio sulla fronte.
“Devi riposare, io sono in cucina per qualsiasi cosa.”
 
Cacciai un urlo disumano.
Ruppi il lavello della cucina e l’acqua cominciò ad allagare la stanza. Caddi a terra in ginocchio, con la testa premuta tra le mani.
La stanza si congelò, il getto d’acqua si cristallizzò all’istante, il gelo era sceso in tutta la casa.
-È colpa tua se siamo tutti morti!- la voce di John nella mia testa rimbombò con ferocia.
-Hai ucciso il mio bambino!- mi gridò contro Jessica.
-Mi hai lasciato da sola.- la voce di mia nonna irruppe tra il chiasso.
“Non è vero, io non volevo… io… no…” dissi piangendo.
Ero rannicchiata dietro il tavolo spezzato della cucina. Le ginocchia contro il mio petto, i capelli ricadevano scompigliati su di me e la mia testa era incastrata tra le gambe e le braccia.
Piangevo e continuai a sentire le voci dei miei amici darmi contro.
“Vendicami Evelyn. Vendicami!” urlò mia nonna. Le voci tacquero.
Come il silenzio dopo una tempesta, la mia testa fu sgombra da ogni pensiero.
Quella parola sembrava marchiata a fuoco nella mia mente, pulsava come la lava e teneva lontano qualsiasi altra concezione o idea.
“Eve.” Un sussurrò mi riscosse da ogni pensiero.
Era Johnny.
Era fermo all’ingresso della cucina e si guardava intorno spaventato. Poi si avvicinò a me, si tolse la sua felpa e me la mise attorno alle spalle.
“Andiamo via di qui.” Disse freddo. Mi prese in braccio e mi portò via.
Salimmo in macchina: io rannicchiata dietro, lui davanti a guidare. Guardai fuori il finestrino e vidi che ci stavamo allontanando dal centro, stavamo andando fuori Manhattan. Non gli chiesi dove mi stesse portando, mi limitai a chiudere gli occhi per la stanchezza.
 
“Eve, siamo arrivati.” Mi disse.
Aprii gli occhi lentamente, come se mi stessi risvegliano da un lungo sonno. Il tramonto rifletteva una luce arancione tutt’intorno a noi.
Eravamo davanti una casa immersa nel verde, bianca con il tetto di legno scuro e aiuole colorate davanti al vialetto. Dietro un boschetto di pini rendeva il paesaggio suggestivo, ma non abbastanza da potermi distrarre dai miei pensieri.
“Dove siamo?” chiesi con la voce impastata.
“In vacanza.” Mi disse lui, tirando fuori un borsone dal cofano.
Mi fece segno con la testa di uscire dalla macchina e di raggiungerlo in casa.
La porta in legno dipinta di blu scricchiolò appena quando la chiusi dietro di me.
L’entrata dava su un salone abbastanza grande, con il parquet scuro e i muri color rosso scuro. L’arredamento era semplice ed essenziale. Salimmo le scale per andare al secondo piano e mi mostrò la mia camera: era blu, con mobili bianchi e un letto enorme con le lenzuola celestine.
Mi guardai intorno e mi buttai sul letto, avvolgendomi nelle coperte.
“Puoi chiudere la finestra, per favore?” gli chiesi con voce apatica.
“Non vuoi mangiare?” mi chiese preoccupato.
“No.” Risposi, poi infilai la testa sotto le coperte.
 
Il risveglio mattutino fu devastante.
Mi svegliai di soprassalto, con ancora le immagini impresse nella mia testa del sogno di quella notte. Feci fatica a respirare, pensai di soffocare ed arrancai fino al bagno della mia nuova camera per sciacquarmi il viso.
Il mio riflesso nello specchio mi inorridì: ero bianco pallida, con due occhiaie enormi sotto gli occhi e i capelli in disordine. Mi facevo schifo, non riuscivo a sopportare la mia figura e così tirai un pugno al vetro, che si ruppe in mille pezzi.
Guardai i piccoli vetri rotti ai miei piedi e pensai che la mia vita fosse ridotta proprio in quello stato o forse peggio. Presi una scopa e ripulii il danno, buttando i vetri in un sacchetto di plastica.
Scesi le scale, ma mi fermai quando sentii la voce di Johnny parlare a qualcuno.
“Non è semplicemente triste, è distrutta. Non la riporterò indietro fino a quando avrà elaborato il lutto e si sentirà meglio. Non la darò in pasto allo SHIELD.” Disse.
Poi borbottò qualcos’altro e riagganciò il telefono.
Scesi gli ultimi scalini e andai a buttare il sacchetto con il vetri nel secchio dell’immondizia in cucina.
“Buongiorno.” Mi disse, con un sguardo nervoso.
“Che hai fatto alla mano?” mi chiese allarmato. Si avvicinò ed esaminò i piccoli taglietti sulle nocche.
“Ho rotto lo specchio del bagno.” Gli dissi.
Mi guardò sconcertato, poi scosse la testa e mi fece sedere su una sedia mentre mi disinfettava i taglia e fasciava la mano.
“Evelyn… io… sono qui.” Disse. Non trovava le parole giuste da dirmi.
“Lo so.” Dissi accarezzandogli una guancia.
Mi alzai e andai in sala: studiai i titoli dei libri che erano riposti sulla grande libreria in ordine alfabetico ma niente catturò la mia attenzione così mi distesi pigramente sul divano, accendendo la tv.
Capitai su un notiziario che stava parlando di un presunto killer che si aggirava nelle fogne vestito da dottore. Alla fine lo SHIELD aveva lasciato trapelare la notizia, ma aveva chiaramente offuscato determinate informazioni.
“Un’anziana donna ne è stata vittima, trascinata nelle fogne e poi uccisa.” Quelle parole mi fecero salire la rabbia in gola. Strinsi il bracciolo del divano così forte che lo congelai, tracciando poi una scia di ghiaccio fino alla tv, che andò in frantumi.
Johnny corse da me e mi chiese se stessi bene. Non risposi, poi si mise a pulire il disastro che avevo combinato e fu allora che mi resi conto di quanti danni avevo fatto nell’arco di un giorno.
Cominciai a singhiozzare silenziosamente fino a portarmi le mani agli occhi per nascondermi.
“Ehi!” mi disse Johnny.
Si sedette vicino a me e cercò di consolarmi. Lo scansai con un braccio e mi asciugai frettolosamente le lacrime. Odiavo essere così debole e vulnerabile.
“Tutto ok?” mi chiese.
“No! Come può essere tutto ok?! Che razza di domande fai!” gli urlai contro.
“Era solo una domanda.” Mi rispose.
“Non hai meglio da dire?!” gli dissi, poi mi alzai dal divano.
Mi resi conto che ero stata meschina e troppo dura con lui, così tornai in sala e lo trovai ancora seduto sul divano. Non ebbe tempo nemmeno di vermi entrare nella stanza che subito fui sulle sue labbra.
Mi aggrappavo a quei piccoli lembi di pelle rosa e calda, come se tutto il mio mondo fosse attaccato debolmente a lui. Mi sedei a cavalcioni sulle sue gambe e continuai a baciarlo con sempre più foga. Sentivo le sue mani corrermi sul mio corpo, fremere ad ogni tocco e ad attirarmi a se sempre più forte.  In qualche modo sentii una fiamma dentro di me accendersi, cominciare a brillare a un po’ di più, anche se l’oscurità mi attanagliava.
 
Passammo il resto della giornata in silenzio, saziandoci di sguardi loquaci e labbra dischiuse.
Quando arrivò la notte, fu più forte di me: mi intrufolai nella sua stanza e mi misi sotto le coperte del suo letto, quando ormai lui già dormiva. Non volevo sentire il contatto con lui, non volevo farlo mio, volevo semplicemente guardarlo dormire.
Aveva l’espressione del viso rilassata, le labbra appena socchiuse e le mani serrate a pugno.
Rimasi nella parte del letto vuota, non mi accoccolai a lui, non cercavo nulla di più se non la sua presenza: sapere che era lì, mi teneva lontano gli incubi.
“Evelyn, mia cara. Sai che devi fare.” Una voce dentro di me mi parlò.
“La tua anima è nera come la pece adesso, non provare a combatterla, accoglila tra le tue braccia. Anche nelle tenebre puoi trovare conforto, se solo le accetti. Ascoltami mia bambina, cerca la vendetta, bramala, fanne il tuo scopo primario! Alzati da questo stupido stato comatoso in cui ti trovi: sei potente, nessuno può fermarti, puoi ottenere quello che vuoi! Va e vendicami.”

 

_____________________________________
Buongiorno!
Scusatemi per l'enorme ritardo, ma ho avuto un blocco e non sapevo come far andare avanti la storia.
Credo di averlo superato, ma scrivere contemporaneamente 3 storie è difficoltoso (mannaggia a me!)
Non aggiornerò con regolarità e non so neanche dirvi se questa storia vedrà mai una fine o comunque non so se riuscirò a concluderla.
Spero comunque che vi piaccia questo capitolo :)
Grazie a
 Aletheia229 Sinnersneversleep SweetSmile BizarreBiscuit robiva per averla messa in una delle tre categorie :)
La citazione sopra è tratta dalla canzone Sleepwalker dei Bring Me The Horizon!
A presto,
Artemis black

P.S: questa è la mia pagina fb :) Artemis Black efp

 


 

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Capitolo 11
*** Feel like a monster ***


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Feel like a monster.

But I will fight until the day the world stops turning
And they will fall to ashes, I will just keep burning

But tonight I need you to save me
I'm too close to breaking, I see the light
I am standing on the edge of my life


 


“Signorina Smith, lei mi assicura di… aver elaborato il lutto?” mi chiese per l’ennesima volta Fury.

“Si, signore.” Risposi.

“Può darmi la sua parola, o la devo far controllare dai medici dello SHIELD?” mi chiese.

“Sto bene, signore.”

Mi guardò socchiudendo l’unico occhio visibile, mentre chiudeva il mio fascicolo.

“Voglio fidarmi.” Disse e lo ripose in un cassetto della scrivania.

“Non la deluderò signore.” Affermai.

“Sarà meglio così. La prossima volta che se ne va in vacanza per qualche giorno, vorrei esserne informato prima.” Concluse.

“Le chiedo ancora scusa per il mio comportamento irrispettoso.” Dissi, alzandomi della sedia.

“Ora vada! Tornerà operativa domani, ma nel frattempo c’è il dottor Richards che la vuole vedere nella stanza 21B.” mi disse.

Mi congedai con un cenno e uscii dal suo studio.

Prima di andare da Reed, passai in camera e mi cambiai i vestiti: l’uniforme dello SHIELD era stata leggermente cambiata dall’ultima volta che l’avevo indossata, infatti era molto più aderente e rivestita con un materiale molto più resistente ai proiettili.

Quando mi diressi nella stanza 21B, vi ci trovai Clint che parlava con Reed.

“Evelyn! Come stai?” mi chiese il dottore.

“Meglio, grazie.” Risposi distaccata “Fury mi ha detto che volevi vedermi.”

“Ah, si! Certo!” disse allontanandosi per prendere qualcosa.

“Come stai?” mi chiese Clint serio.

“Come vuoi che stia?! Fresca come un fiore.” gli risposi.

“Evelyn…” disse.

“No Clint, non voglio parlarne.” Dissi alzando una mano.

Il dottore tornò con una tuta tra le mani e la stesa sulla scrivania: era azzurro scuro, con dei bordi neri e argento sulle spalle, le maniche lunghe e un rivestimenti nero lungo i fianchi.

“E’ ancora da perfezionare e bisogna anche metterci il logo dello SHIELD, ma questa è la tuta che ti permetterà di usare i tuoi poteri al massimo: ho pensato di usare un tessuto speciale intriso di piccoli frammenti del meteorite che colpì il nostro shuttle. Noi ne abbiamo delle simili, stilisticamente diverse ma il tessuto è lo stesso.” Disse.

“E quando dovrei indossarla?” chiesi.

“Quando lo SHIELD ti affiderà missioni pericolose: pedinare un terrorista, arrestare una banda di trafficanti d’armi, carpire informazioni segrete etc. Sarà la tua uniforme a tutti gli effetti.” disse Natasha entrando nella stanza.

Mi rivolse un accenno di sorriso e poi chiamò Clint da parte.

“Cosa mi permette effettivamente di fare?” chiesi a Reed.

“Per prima cosa e molto resistente: difficilmente si rompere. Inoltre se userai i tuoi poteri a pieno, sono sicuro che diventeresti come Johnny, quindi diciamo che questa tuta ti permetterà anche di scoprire quali sono i tuoi limiti.” Mi rispose.

“Grandioso.” Dissi.

“Già…” disse. Poi si rivolse a me, tentando di chiedermi qualcosa.

“Cosa vuoi dirmi Reed?” gli chiesi direttamente.

“Puoi tornare a stare a casa nostra se vuoi, la porta è sempre aperta per te.” Mi disse, guardandomi con rammarico.

Scossi la testa.

“Non lo so… mi serve tempo Reed.” Dissi.

“Va bene, ma non c’è bisogno che tu rimanga da sola, perché non lo sei.” Disse, poggiando una mano sulla mia spalla.

Abbassai lo sguardo e pensai dentro di me che era tutta una farsa.

“Ci penserò.” Risposi infine.


 

“Hai chiesto di vedermi?” dissi, entrando nella palestra.

“Si, ti va di allenarti un po’? Sei stata via parecchio…” disse Clint.

“Perché devi costringermi a batterti.” Dissi sbuffando.

“Oh, la modestia è uno dei tuoi pregi.” Mi rispose, lanciandomi un paio di guanti da boxe.

“È soltanto la pura verità.” Dissi alzando le spalle.

Mi tolsi il giacchetto e mi infilai i guanti da boxe, salii sul ring e cominciai a menare a destra e sinistra.

“Troppo lenta!” mi urlava Clint divertito, mentre io mi spingevo al massimo, cercando di dare il meglio di me.

“Dai, puoi fare di meglio! Non sto neanche dando il meglio di me! Avanti Eve!” urlava.

“Avanti Eve! Ma seriamente?!”

“Ehi, mi sto annoiando!”

Il mio orgoglio si sentiva preso in causa, così menavo sempre più forte, più veloce e più letale, finchè non accadde qualcosa di imprevisto. Ricordai l’accaduto, ricordai le fognature, il camice bianco del pazzo: è come se avessi rivisto tutto davanti ai miei occhi. Fu così che scoprii un nuovo stadio del mio potere.

“Mi hai stufato Clint.” Dissi a denti stretti e qualcosa si azionò in me.

Sentii i muscoli fremere sotto l’adrenalina, sentii il mio fiato più freddo e i miei capelli furono come scossi da una folata di vento. Sentii il piacevole freddo del ghiaccio accarezzarmi la pelle e sprigionarsi da me: ero diventata una fiamma bianca.

“Wow!” disse Clint, poco prima che gli assestai un destro dritto sul petto.

Lo scaraventai dall’altra parte della stanza e cadde rovinosamente a terra. Scosse la testa e mi guardò a metà tra la meraviglia e lo sgomento. Quando mi voltai, vidi il mio riflesso sullo specchio di fronte alle panche con i pesi: ero qualcosa di spaventosamente bello e minaccioso. Ero avvolta da questa specie di fiamme blu di ghiaccio e il mio corpo non ne subiva conseguenze.

Emisi un ghigno di compiacimento, così potevo diventare una macchina della morte.

Mi girai di scatto, rilassai i muscoli e le fiamme blu svanirono. Mi avvicinai a Clint e gli chiesi se stesse bene.

“Si, più o meno.” aveva la maglietta bruciata sul punto che avevo colpito e la pelle che si intravedeva era arrossata.

“Ti conviene andare in infermeria, giusto per stare sicuri...” dissi, poi mi allontanai e mi rintanai nella mia camera.


 

Ghiaccio. Ghiaccio che purifica, è questo ciò che sei. Distruggere per redimere, la vendetta è vicina.”

Quelle parole mi rimbombavano in testa, una lenta litania che faceva da sottofondo alla mia giornata, che mi teneva concentrata sul mio obiettivo: silenziosa come la notte, feroce come un tigre, avrei preso ciò che mi apparteneva.

Mi assegnarono piccole missioni quali pedinare persone informate su fatti, raccogliere informazioni, catturare spacciatori e trafficanti d'armi, per poi arrestare un componente della mafia cinese. Fui affidata alla squadra diretta da Clint con la mansione di suo “braccio destro”.

“Voi tre sorveglierete il perimetro, se notate qualcosa di sospettoso comunicatelo. I cecchini si posizioneranno sul palazzo opposto, pronti a sparare ad ogni mio segnale. Noi cinque invece entreremo all'interno dell'hotel, abbiamo una mappa ma nessuna idea di come saranno disposte le guardie all'interno. Perciò massima cautela, silenziosi ed esecutivi.” disse Barton.

“E' una missione di elevata importanza, le soluzioni finali saranno due: o prendiamo questo bastardo o ce lo lasciamo sfuggire, non ci sono mezze vie. Ci sono voluti mesi di indagini per arrivare ad oggi, non facciamo cazzate.” concluse.

Ci equipaggiammo tutti ed infine scendemmo dal furgone. Ci saremmo introdotti attraverso le fogne, passando così per le cantine per arrivare all'ultimo piano dell'edificio. Andò tutto liscio, finché non mi accorsi che qualcosa non quadrava: il piano dove avrebbe dovuto alloggiare il boss, era completamente scoperto. Clint mi obbligava a proseguire senza cambiare i piani, ma non gli diedi retta: perlustrai le stanze che davano sul corridoio opposto e scoprii che erano completamente vuote e fu allora che sentii dei spari provenire dall'auricolare. La stanza predisposta per il boss era una trappola.

“Al diavolo!” urlai.

Fury mi aveva intimato di usare i miei poteri, da lui definiti “instabili”, solo in caso d'emergenza e forse questo era il caso di usarli. Le fiamme azzurre circondarono il mio corpo con un sublime turbinio, sfondai una parete che dava nella stanza opposta a quella predefinita, e successivamente sfondai l'ultimo muro irrompendo nella stanza presa d'assalto. Alcuni dei nostri erano a terra, anche se continuavano a sparare contro il nemico: erano all'incirca il doppio di noi. Avevano tutti un ghigno stampato sul volto, pensavano che avrebbero vinto con il solo numero di vantaggio dalla loro parte. Ma il divertimento cominciò quando mi videro: dapprima un sussulto nei loro occhi, per poi trasformarsi in paura incontrollata di fronte ai miei attacchi.

Buttai letteralmente giù la stanza a colpi di fiamme, lacerando e dilaniando la carne dei nemici, fino a farli fuori tutti.

“State bene?” chiesi ai miei compagni.

Per la prima volta ascoltai la mia voce, risuonava come una minaccia ma con un tono di voce... voluttuoso ma distaccato.

Mi risposero un po' intontiti dal suono della mia “nuova” voce poi uno di loro si fece avanti.

“Dov'è l'agente Barton?” chiese turbato.

Ci guardammo attorno e fu allora che sentii un sibilo quasi impercettibile, che si dirigeva verso di noi. Feci appena in tempo a girarmi e a creare una sorta di barriera di ghiaccio, che purtroppo il lanciarazzi sfondò inesorabilmente. Riuscii a parare solo parte dei danni, poi venni spazzata a terra con violenza. Quando mi rialzai, intorno a me non c'era più vita.

“Non è possibile...” sussurrai. Mi rialzai a tentoni, raggiunsi il primo agente vicino a me, le sue gambe erano state praticamente mozzate e il ribrezzo mi fece venire conati di vomito.

“Qualcuno... Ehi! Rispondete, vi prego...” sussurrai.

Ma nessuno era sopravvissuto.

Sentii dei rumori di lotta provenire dal piano inferiore, poi alcuni spari e infine il silenzio.

Quel silenzio assordante che segue la sconfitta.

Mi tastai la tempia e sentii un rivolo di sangue scendermi fin sulle labbra, assaggiando il mio stesso sapore metallico. Mi rialzai, tenendomi a ciò che rimaneva delle mura, aggrappandomi a brandelli di cartapesta... Non riuscivo a tenere la testa alta, perciò ero costretta a guardare i corpi inermi di quelli che erano stati i miei compagni di missione.

Scesi le scale a tentoni, alcuni gradini erano ceduti per l'urto di prima. Quando raggiunsi il piano inferiore, raccolsi tutte le forze e mi diedi coraggio: sfondai la porta con un calcio ed entrai, ma nella stanza c'erano solo alcuni scagnozzi morti.

Sulla mia destra, parte del muro era sfondato e la stanza affianco aveva cominciato a bruciare. Con un piccolo sforzo in più, riuscii a riaccendere le mie fiamme blu ed varcai il buco nella parete. Riconobbi il corpo del Boss che stavamo cercando, riversato a terra esanime. Almeno non lo avevo ucciso io, Fury non mi avrebbe fatto un'altra lavata di capo. Il fumo nella stanza era tale da non permettermi di vedere a un palmo dal mio naso. Infatti non avvertii la freccia fendere l'aria e conficcarsi sulla mia spalla. Barcollai all'indietro urlando di rabbia.

“Clint!” imprecai, inciampando sui detriti e cadendo all'indietro.

“Evelyn!” rispose, accorrendo dall'altra parte della stanza.

“Se spegni queste fiame magari posso avvicinarmi.” disse lui.

Spazientita feci come mi aveva detto, poi si avvicinò e con un gesto secco estrasse la freccia dalla mia spalla.

“Ahia! Dio, potevi almeno dirmelo!” dissi, massaggiandomi la parte indolenzita.

“A quanto pare hai anche la rigenerazione tra i tuoi poteri.” disse, constando che la ferita si stava già rimarginando.

“Dove sono gli altri?” mi chiese, rimettendosi in piedi e aiutandomi ad alzare.

Non risposi e lui capii.

“Merda.” sussurrò.

“L'avevamo presa sotto gamba questa missione, vero Clint?” dissi affaticata “Dannazione... Fury non ne sarà contento, tanto meno i familiari degli agenti.”

“La maggior parte di noi non ha famiglia, almeno quelli che lavorano sul campo... troppo rischioso ed inoltre dovremmo mentire per metà della nostra vita alle persone che amiamo.” rispose Barton.

“Chiamiamo rinforzi o la squadra di pulizia?” chiesi.

“Entrambi.” disse Clint mentre uscivamo dal palazzo.


 

Tornammo verso le prime luci del mattino sull'elivelivolo, dove ci aspettò una lavata di capo da Fury di circa due ore. Fummo liquidati con un semplice “Più attenzione la prossima volta”. Barton l'aveva presa male, non era abituato a non seguire gli ordini di Nick e in più fallire in una missione con totale perdita della squadra, quindi si rifugiò in palestra a menare qualche sacco da boxe per la frustrazione.

Io invece non avevo ne voglia di dormire, ne di fare qualcosa su quel maledetto aeroplano gigante. Presi la mia moto e uscii. Non pensai alla strada, al viaggio, tanto che mi ritrovai nei pressi della mia vecchia casa. La guardai da lontano e mi decisi ad avvicinarmi dopo un po', senza entrare però. Troppi ricordi sarebbero scaturiti nella mia mente al solo pensiero di varcare la soglia.

Ricorda la tua missione.”

Misi in moto e mi insinuai nuovamente nelle strade di Manhattan. La mia mente era totalmente altrove, seguivo il traffico senza badare a dove andare. Chissà dov'era in quel momento Johnny...

Scossi la testa e scacciai quel pensiero, non dovevo pensarci affatto.

Ero ferma ad un semaforo quando un tombino esplose letteralmente, scaraventandomi addosso un palazzo. Vidi un'auto schiantarsi di pochi centimetri alla mia sinistra.

Quel colpo mi provocò dolori lancinanti alla schiena ed alcuni spasmi di tosse. Alzai la testa, sentii grida, sirene, fumo e polvere ovunque così come macchine incendiate. Un cumulo d'auto stava andando in fiamme, feci appena in tempo ad accorgermene e a trasformarmi per intervenire. Di lì a pochi metri c'erano due persone che tentavano di mettersi in piedi per scappare. Con un turbinio di gelo, pietrificai le auto e soppressi l'incendio.

Poi dal fumo apparve una figura altissima, imponente. Tutto tacque quando emise un grido stridulo.

Poi il panico.
 

___________________________________
Esattamente dopo un anno... eccomi di nuovo qui! Lo so, sono crudele, pessima, ritardataria >.<
Ma ovviamente non è tutta colpa mia, perdonatemi! Il mio cervellino non voleva proprio aiutarmi nel buttare giù la parte finale della storia e quindi sono rimasta bloccata. Perdonatemi (lo dirò 'til the end of time ç_ç)!
Ora però, la storia ha raggiunto un filo conclusivo e quindi posso scrivere tutti i capitoli che voglio! 
Non saranno molti, perchè per me è più un parto che uno scrivere per passione riguardo a questa FF e ad altre xD
Comunque, bando alle ciance! Spero vi sia piaciuto :)
La citazione è tratta dalla canzone nuovissima dei Tonight Alive - The Edge.
Lasciate una recensione se vi va e se trovate bella questa storia! (Fatemi sentire un pò come sto andando :S)
See you soon,
Artemis Black

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Capitolo 12
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I'm about to give in, I got nowhere to go.
Afraid of the sins, I'm holding on.
There's no other way, no doubt in the end,
But I ain't got a thing to lose, nothing to defend. [...]
I don't know where I'm going
In search for answers.
I don't know who I'm fighting,

I stand with empty eyes.
 

Le mie orecchie non sentivano nulla, seppur la gente gridava. Era così strano, tutto intorno a me pareva muoversi a rallentatore per un'infinità di tempo.

Il terrore dilagava, la gente scappava senza meta, inciampava, calpestava chi cadeva a terra, non si curava di nessuno eccetto che della propria vita.

La bestia urlò una seconda volta.

Più forte.

Poi scaraventò una delle sue enormi zampe su un palazzo. Altra polvere, altri detriti, altre morti.

“Cazzo!” urlai, misi in salvo alcune persone e mi avvicinai ancor di più alla bestia: era una creatura simile ad un dinosauro, alta all'incirca 20 metri, con denti affilati che sporgevano fuori dalla bocca e una lingua disgustosamente lunga che si muoveva freneticamente nell'aria. La cosa strana che notai, era che la bestia era tutta di un color così familiare, simile alla creta.

Non ebbi il tempo di pensare e scartai di lato per evitare dei detriti che cadevano. Mi lanciai in aria e cercai di colpire il mostro per distrarlo, mentre un pullman si svuotava di gente proprio di fianco a lui. Sferzò l'aria con una sua zampata che riuscii ad evitare appena in tempo, ma non vidi l'altra e fui scaraventata violentemente per terra.

Il fiato mi si mozzò per la violenza con cui atterrai, non ero riuscita ad attutire il colpo in nessun modo. Inoltre il mostro ormai puntava me, feci in tempo ad alzarmi che sentii un altro colpo battere a terra. Spiccai il volo, barcollando e cercando di non far muovere troppo il mostro per provocare altri danni.

Ma qualcosa di appiccicoso mi strinse in vita e mi tirò brutalmente indietro. La lingua del mostro mi stringeva con forza, riuscivo quasi a sentire le mie costole incrinarsi.

“Lasciami!” urlai impetuosamente, lanciando schegge di ghiaccio.

La testa mi doleva da morire, come la schiena e l'addome, tutto d'un tratto la stanchezza prevalse e sentii le forze abbandonarmi. Non riuscivo ad uscire da quella morsa appiccicosa e che si avvicinava sempre più ai denti aguzzi.

Quasi svenni, poi sentii un calore innaturale passarmi affianco e tagliare la lingua del mostro in due.

Poi caddi, qualcosa mi prese ma urlai per il dolore, il fuoco bruciava il mio ghiaccio ed io persi i sensi.

Mi ripresi poco dopo, ma non avrei voluto farlo. Il dolore mi sopraffaceva ed anche se la mia auto-rigenerazione stava già facendo effetto sulle bruciature, non riuscivo quasi a sopportarlo.

Ero sdraiata su una poltroncina di un bar con la vetrina distrutta da cui provenivano le urla del mostro. Mi alzai con fatica, arrancando fino ai vetri rotti e uscendo dal negozio con circospezione. C'erano Johnny e la Cosa che distraevano la bestia, mentre Sue e Reed mettevano in sicurezza la strada, nel frattempo alcune jeep dello SHIELD arrivarono. In una di queste scese correndo Barton ed analizzò la situazione, per poi mettersi subito all'opera.

Io seguivo l'azione arrancando a fatica verso di loro, cercando di raccogliere le forze per riuscire almeno a ritrasformarmi. Le ferite guarivano ma continuavano a dolere. Ogni passo era una fitta allo stomaco, fiato mozzato, il sudore che imperlava la mia fronte, la vista annebbiata.

Poi finalmente riuscii ad alzarmi in volo, una brezza fresca mi risanò e i miei polmoni ne furono grati. Le bruciature cominciavano a sparire e il mio spirito a rinvigorirsi.

Osai.

Alzai le mani in aria e da essa stessa creai un vortice.

Grande, sempre più grande, finché l'acqua presente nell'aria si trasformò in ghiaccio e diventarono piccole schegge nel vortice stesso.

Osai ancora di più.

Spinsi il mio corpo al limite delle forze e scaraventai il vortice sulla bestia. Nel frattempo ruppi due idranti sulla strada e modellai l'acqua a mio piacimento, creando lastre di ghiaccio che trafiggevano la bestia da parte a parte.

Le sue grida stridule risuonarono in tutta la città.

I miei movimenti diventarono una danza aggraziata ma letale, una ballerina con un animo da guerriero, bella ma distruttiva.

L'immagine di mia nonna a terra priva di vita mi spronò ad essere più veloce, a schivare colpi e a rimandarne di più potenti.

Le jeep dello SHIELD furono costrette ad allontanarsi compresi Johnny e gli altri, che erano a terra ad aiutarmi. Il loro aiuto era futile, ormai ero una macchina da guerra con l'obiettivo di abbattere il nemico a colpi di mitra e non mi sarei fermata finché non l'avrei visto esalare l'ultimo grido.

Ma l'immagine di mia nonna a terra esanime fu affiancata a quelle dei miei amici, alle parole e alle promesse non mantenute che cominciarono a ronzarmi in testa.

Le grida di dolore, la paura, la rabbia, morte ovunque.

Persi il controllo ed io stessa diventai il vortice.

Ad ogni ricordo, esso diventava più grande.

Non mi pare che tu ti sia presa cura dei tuoi amici!” risuonò nelle mia mente.

Ed il vortice esplose sotto un mio grido.


 


 

Distesa a terra, guardavo pezzetti di creta cadere come pioggia sopra di me: con una lenta litania toccavano l'asfalto sciogliendosi al contatto.

Non avevo più un briciolo di forza. Ero sdraiata a terra a ricordare la mia vita, a quanto fosse più vicino alla morte. Ero su un filo cercando un equilibrio per non cadere... ma il filo sembrava assottigliarsi sempre di più.

Una lacrima rigò il mio viso. Non riuscii a trattenerla.

Ero a pezzi, ma non volevo ammetterlo.

Ero forte con addosso le mie debolezze, con uno scudo che cercava di respingere ogni malessere, ogni ricordo, ogni dolore provato.

Le cose che nascondevo a me stessa adesso erano più vivide che mai. Le bugie che mi ero costruita per rimanere in piedi erano le prime che mi avevano fatto cadere.

La realtà mi aveva colpito forte allo stomaco, lo aveva trapassato come se fosse riuscita a toccare la mia anima, a disintegrarla con un tocco.

E quello che più avevo temuto, era accaduto: non riuscivo a provare più nulla.

“Evelynn!” sentii un grido lontano.

Non mi voltai, non lo cercai.

Fissavo la neve scura che scendeva lentamente, come una litania.

Un volto offuscò la mia visuale, preoccupato ed esausto. Le labbra si muovevano ma non riuscivo a percepire nessun suono. O forse non volevo. Ero chiusa in una bolla.

L'oscurità mi circondava. Mi immaginai volteggiarci dentro, completamente abbandonata in quella lenta discesa.


 

“Sono 3 giorni che è chiusa in quella stanza e non si sveglia. Il dottore dice che non ha niente, almeno fisicamente, è soltanto un po' spossata. Ma non ha niente! Nulla!” disse Johnny a Reed.

“Non possiamo far nulla Johnny, dobbiamo soltanto aspettare.” gli disse, posando una mano sulla sua spalla.

“Quel vortice... Barton si è accorto che non riusciva più a controllarlo. Dite che avrà fatto rapporto a Fury?” chiese Sue agli altri due.

“Anche se non l'avesse fatto, c'erano altri agenti. Se ne sono accorti tutti Sue, non riusciva più a gestire il suo potere.” le rispose Reed “Sono le sue emozioni a prendere il sopravvento. Come quando successe a Johnny i primi tempi.”

“Si ma i miei primi tempi sono durati qualche settimana. Inoltre non ho avuto le sue stesse esperienze nel giro di un mese e mezzo. E' diverso.” rispose Johnny.

Guardò attraverso il vetro dell'infermeria, lì dove Evelyn giaceva su un letto bianco, attaccata a varie macchine che la monitoravano.

Ce la puoi fare Eve, dai!” sussurrò.
 

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Buon pomeriggio!
Ecco un piccolo aggiornamento, vi prometto che durante l'estate sarò più "celere" ad aggiornare.
La canzone citata è Empty Eyes dei Within Temptation :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, lasciate una recensione se volete e fatemi sapere le vostre impressioni!
A presto,
Artemis Black 

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