Come arrivai ad odiare la panna.

di SFLind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Mutande turchesi e telefoni giallo limone ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


COME ARRIVAI AD ODIARE LA PANNA
 
Introduzione.
 
 
- Non credere mai a quel tizio – disse. Guardava in basso da dietro il bancone, asciugando l’interno di un bicchiere.
- Non porta niente di buono! -.
 
Non era irritato. Più che altro sembrava chiedermi disperatamente di seguire il suo consiglio.
 
- Quindi non dovrei credere nemmeno a tutti i suoi complimenti? – chiesi io allora.
Neanche io ero nervosa – non avrei ceduto alla avance di quel tipo nemmeno in un milione di anni – ma la mia voce suonò leggermente più infastidita di quanto avessi pianificato.
 
Rimase un po’ così, gli occhi verdi fissi su di me, e contemporaneamente nel vuoto.
- Certo che no – rispose con cortesia – Forse i complimenti sono quelle sole volte in cui è sincero -.
Abbassò gli occhi ancora, tornando al suo bicchiere.
La divisa da cameriere non gli donava un gran ché e i capelli biondi che gli cadevano sul viso erano visibilmente bagnati.
La fronte e il mento brillavano di sudore.
 
- Bene – mi limitai a dire.
Perché di parole in mente non ne avevo tante, e faceva troppo caldo per pensarne di nuove.
 
 
Quella piccola cioccolateria a Bruxelles fu solo una delle tante tappe di quell’estate.
Partii di Giugno, con solo un borsone e un trolley, tornai di Settembre, con lo stesso borsone e lo stesso trolley.
Avevo girato parecchio in Europa, fermandomi un po’ ovunque: Bruxelles, Parigi, Madrid, Lisbona, risalendo verso l’Inghilterra e la Scandinavia, virando poi di nuovo verso Sud.
 
Verso Roma.
 
Avete mai sentito il detto “Tutte le strade portano a Roma”?
Beh, io e il mio maggiolino le abbiamo le abbiamo percorse tutte, in lungo e in largo.
Un minuscolo rottame anni 70’ che non so nemmeno io per quale Santo ancora cammini.
Mi ha accompagnato ovunque, senza mai lasciarmi a piedi (tranne una volte, a Parigi, dove ho dovuto chiedere l’autostop).
Il mio primo giorno di scuola, il giorno della Maturità, al mio sedicesimo compleanno e poi al mio diciottesimo.
Era sempre lì, con il Nonno alla guida e Feli sul posteriore.
 
Una volta me la feci prestare dal Nonno per portare Feli a scuola. Avevo appena preso la patente e già mi sentivo un adulto responsabile.
Eppure, mi erano bastati solo due minuti di “Non mi va di andare a scuola oggi” che già avevo fatto inversione.
Quel giorno ce ne andammo in campagna.
Mi ricordava tanto una di quelle giornate giù in Sicilia, a trovare la Nonna.
E io immaginavo di essere un po’ come lei; tenevo d’occhio Feli e le ripetevo di non allontanarsi, o di stare attenta, quasi non sapessi che mia sorella aveva già sedici anni.
 
Poi, però, mi rendevo conto immediatamente che la Nonna non avrebbe mai nemmeno pensato tutte le parolacce che le sparavo contro quando invece non mi stava a sentire…

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Capitolo 2
*** Mutande turchesi e telefoni giallo limone ***


1. Mutande Turchesi e Telefoni Giallo Limone;
 
- Non credi che quegli occhi dorati a volte sembrino un po’ troppo insolenti? …Non guardarmi così! – scoppiò a ridere, scoprendo i denti sporchi del cioccolato che aveva appena, e certo non elegantemente, trangugiato.
 
Io assottigliai ancora di più lo sguardo, cercando di trattenere le risate.
 
- Ti odio! – farfugliò, ancora ridendo, poi mi porse uno dei caffè più terribili che io abbia mai bevuto.
 
 
Quel giorno, Roma era illuminata da un discreto e tiepido sole.
L’estate ci aveva appena abbandonato, spazzata via da un vento leggero; fresco da far venire la pelle d’oca sotto la camicia bianca.
A quell’ora della mattina le strade apparivano particolarmente desolate. Sentivo che quel giorno di clienti non ne avrei visti molti.
La pasticceria era aperta ormai da una settimana e tutto sembrava andare per il verso giusto (tranne per quel cassiere che ancora non ero riuscita a trovare).
Avevo quasi il timore di potermi svegliare da un momento all’altro, con la sveglia che suonava e mia sorella che chiamava per assicurarsi che mi fossi svegliata in tempo.
Scoprire che era stato tutto un sogno.
Con il mio coinquilino che girava per casa in mutande chiedendosi cosa fosse tutto quel baccano.
- Oggi è il grande giorno – gli avevo risposto una settimana prima; lui mi aveva fissato per qualche secondo, confuso, poi, passando dallo specchio per sistemarsi i capelli, era tornato in camera.
 
In quella singola settimana tante cose erano successe.
Tante che per un momento mi ero perfino chiesta se davvero non si potesse più tornare indietro.
 
 
Il cellulare squillò nella tasca della giacca.
 
Daniel”.
 
- Cosa vorrà ancora? – mi chiese, non proprio silenziosa, una vocina infondo alla mia testa.
Risposi, ponendomi stravaganti domande.
- Mi chiederà di nuovo che fine abbiano fatto i suoi boxer turchesi? -.
 
- Buongiorno, ce ne hai messo di tempo per svegliarti, Bello Addormentato! – dissi, pregustando già i suoi momenti di isteria mattutina.
 
Con mia grande sorpresa, però, la sua era una voce ancora impastata dal sonno.
 
- Ha chiamato un tuo amico – quasi sussurrava, con la testa parzialmente nel mondo dei sogni – ha detto di farti sentire il prima possibile-.
 
L’eco di un leggermente accelerato battito cardiaco mi risuonava nel petto.
 
- Chi ha chiamato? – chiesi forse un po’ troppo ansiosa.
- Non ricordo, ero ancora mezzo addormentato quando ho risposto al telefono -.
 
Il battito accelerò notevolmente, tanto da poterlo sentire nelle orecchie.
 
- Sei un idiota – dissi, e chiusi la chiamata.
 
Non me l’ero presa, ma volevo terribilmente suonare arrabbiata.
Che senso aveva avuto tutta la chiamata se non ricordava nemmeno il nome di chi l’avesse fatta?
Eppure, nella testa, nelle orecchie, nella cassa toracica c’era un solo nome.
Riecheggiava chiaro e forte, mentre un tiepido sentimento di nostalgia prendeva il posto di quel chiassoso batticuore.
 
- Jaques – pensavo – E’ sicuramente Jaques -.
 
Chi altro?
 
Avevo promesso che gli avrei mandato tante lettere, ma alla fine non ne avevo scritta neppure una.
Troppo codarda per pensare a qualcosa di non imbarazzante o sdolcinato.
Qualcosa che non mi avrebbe fatto sembrare patetica, quando sentivo tremendamente la mancanza di un amico che viveva a chilometri e chilometri di distanza da me.
 
Dopo quella chiamata la giornata passò veloce, e forse leggermente più calma del solito.
Non essendo mai stata un’amante del lavoro e dell’impegno, quel girono di relax mi avrebbe normalmente portato un po’ di tranquillità e buonumore.
Una giornata di ozio, interrotto suntuariamente da qualche telefonata personale per il pasticciere.
E invece, aveva avuto l’effetto opposto.
Mi lasciò ansiosa, frustrata e isterica (sentimento perennemente comune a tutte le donne, dopotutto), timorosa che quel bel sogno fosse già giunto a termine e che le cose stessero per complicarsi.
Poi, quel fantomatico cassiere costituiva un altro importante ostacolo da superare.
Non potevo continuare a fare entrambi i turni.
Non potevo uscire di casa alle 07:30 ogni mattina e tornare a casa alle 21:30 ogni sera.
Non potevo e non volevo più.
Sadiq, il pasticciere, era nella mia stessa situazione, ma con l’aiuto che riuscivo a dare in cucina (per la quale ero decisamente più portata) quando non c’erano clienti al bancone, si riusciva a tirare avanti.
Avevo anche cercato di coinvolgere quello stronzo del mio coinquilino, Daniel, nel darmi una mano, ma anche lui aveva i suoi impegni.
 
I suoi “allenamenti di scherma”.
 
Non riusciva nemmeno a uscire con la stessa ragazza per due sere consecutive perché diceva che non c’era posto nella sua vita per niente che non fosse il suo fioretto.
 
- Strani gli Ungheresi – mi ero spesso ritrovata a pensare.
 
Ciò che però mi faceva veramente esaurire era altro:
- Con tutti gli studenti stranieri, e non, che vengono ogni anno a Roma, nessuno è disponibile per guadagnare un po’ di soldi con un lavoro part-time? Impensabile! -.
 
Io ero semplicemente molto sfortunata.
 
 
Avevo appena finito di pulire il bancone, e Sadiq era già andato via da almeno quindici minuti.
Ancora pensavo a cosa avrei potuto dire a Jaques una volta tornata a casa. Dopo aver alzato la cornetta di quel telefono giallo limone e composto il suo numero.
 
Il tutto mi rendeva impaziente e nervosa.

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