With me di AlexBrightStar (/viewuser.php?uid=258911)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When I was young ***
Capitolo 2: *** Il ritorno. ***
Capitolo 3: *** A NEW AGE. ***
Capitolo 4: *** DREAMS ***
Capitolo 5: *** Changes ***
Capitolo 1 *** When I was young ***
WHEN I WAS YOUNG
Era mezzanotte, aveva aspettato sveglia tutto il tempo. Il sorriso stampato sul volto, gli occhi che sorridevano al mondo, quella serata sarebbe stata magnifica, come tutte le altre del resto. Adorava la notte, adorava il giorno. Adorava il mondo, la fattoria i cavalli e tutto ciò che si potesse amare.
Ma soprattutto amava lui. A 11 anni tuttavia non si sa cos’è l’amore. Si confondono i sentimenti, quindi ciò che le faceva provare Tim, il vicino di casa e suo migliore amico, poteva non essere nulla.
Scostò la coperta di flanella, posò i piedi nudi a terra. Si diresse, cercando di far scricchiolare il meno possibile il pavimento in legno, verso la finestra. Aveva scoperto un punto in cui si potesse passare facilmente sul terrazzo della casa di fronte.
Tim era già lì. La salutò agitando una mano, come faceva sempre. Aveva in bocca una spiga di grano, con cui giocava spesso.
Si era messo in testa che doveva fare l’uomo, che lo era. Quindi imitava il padre in tutto, talvolta chiedeva anche consigli al nonno. Quanto adorava suo nonno, Elizabeth. Per la precisione Elizabeth, Penelope Lowell. Tutti quelli del posto la chiamavano Elizabeth, o Ellie. Solo Tim e suo nonno la chiamavano Beth.
Ogni volta che Tim la portava dal nonno lui le raccontava di terre lontane. Terre in cui i cavalli giravano liberi. Terre in cui le persone vivevano nelle capanne, tutte in armonia. Parlava di falò e di tizi con la pelle rossa, diceva che gli uomini di quelle terre avevano i capelli lunghi, come le femmine. Diceva che non usavano mettere la sella ai cavalli, che erano selvaggi. Diceva che sfortunatamente erano morti tutti, per difendere la natura.
Ormai non aveva più paura di saltare sul terrazzo di casa Swife. Lo aveva fatto tante di quelle volte. La camicia da notte le andava decisamente grande, gliel’aveva cucita la nonna. La nonna le cuciva sempre tantissimi abiti.
Quando arrivò davanti al bambino lui le porse la spiga di grano. Quella sera avrebbero fatto i grandi. Lei si sedette sul mucchio di paglia che Tim aveva “preso in prestito” dalla stalla. Lui ci aveva posato sopra una coperta, per non pungersi con la paglia secca.
Si sdraiarono, parlavano delle storie che il nonno di Tim aveva raccontato loro, parlavano dei cavalli liberi.
-Quando sarò grande anche io cavalcherò senza sella.- il ramoscello infilato in bocca ormai non gli dava più fastidio, ci si era abituato. Forse un po’ gli piaceva anche.
-Io mi tingerò la pelle, vivrò nelle capanne e cavalcherò come te.- ancora un po’ di difficoltà invece Ellie ce l’aveva a parlare con quel “coso” in bocca. Non le piaceva tanto ma ormai era grande, pensava. Tutte le donne le dicevano che il ramoscello in bocca lo tenevano solo gli uomini, ma lei non ascoltava nessuno, solo Tim.
-Quando sarò grande vivrò anche io in una capanna con te, vero?- Smise per un attimo di guardare le stelle, guardò Ellie.
Lei sentì gli occhi verdi di Tim che la guardavano, sentì ancora le farfalle svolazzarle libere nello stomaco. Si girò anche lei, sorridendo. Era un sorriso così sincero e spontaneo che nemmeno il ramoscello poteva rovinarlo.
Lei fece si con la testa.
-Tu ci sai andare a cavallo?- Lo guardò anche lei, mentre lo stomaco le si aggrovigliava.
-A volte provo a salire sul vecchio Rohn, ma poi cado appena tiro le redini per partire.- Era tipico di Tim, lei invece non aveva mai cavalcato. A volte il nonno di nascosto la faceva salire sul suo cavallo, ma era pericoloso, dicevano. Lei non capiva cosa ci fosse di pericoloso nel sentirsi così liberi, così felici.
-Io cavalcherò senza redini, non ci sarà il problema.- Disse con tutta la tranquillità e la naturalezza del mondo, portandosi un braccio piegato sulla pancia mentre guardava ancora le stelle.
-E’ vero?- In quel momento lei si accorse che lui non la stava più guardando. Era tipico di Tim pensare a tutt’altro mentre la gente gli parlava, ma con lei non l’aveva mai fatto.
-Cosa?- Prese a mordicchiare la spiga di grano, un po’ ci aveva fatto l’abitudine.
-Che andrai via.- Tutte le farfalle che prima Eizabeth aveva nello stomaco morirono all’istante. Le si formò un enorme nodo in gola. Lei era fatta così, cercava di non pensare mai alle cose tristi. Cercava di pensare solo alle cose positive.
-Si, ma tanto tornerò prima o poi.- Ingoiò per impedire al nodo di farle scendere lacrime.
-Io ti aspetterò. Verrai a cavallo?- si avvicinò di più a lei.
-Credo di si.- Affermò ingenuamente poggiando la testa sulla spalla di Tim.
-E d’estate tornerai?- Lui poggiò la teta su quella di Ellie.
-Non penso.- Chiuse gli occhi, permettendo ad una lacrima di scenderle sulla guancia.
-Tu mi ami?- Domandò, abbassando la testa, per guardarla meglio negli occhi.
-Non lo so. Penso di si, tu?- e ancora le farfalle nello stomaco. I suoi occhi erano meravigliosi anche illuminati dalla luna. Lui era bellissimo persino quando sudava la mattina, mentre trasportava le balle di fieno dal carro alla stalla con l’aiuto del nonno.
-Ti posso baciare, Beth?- Tim avvicinò ancora di più il suo volto a quello di lei.
Beth fece si con la testa, lui posò le proprie labbra su quelle di lei, tenendole premute per qualche secondo. Poi si staccò da lei e la guardò negli occhi.
Le stelle che si trovavano sopra di loro non erano paragonabili alla bellezza degli occhi innamorati dei due. Brillavano più di ogni cometa. Erano testimoni di un amore sincero e infantile.
Lei sarebbe tornata da lui, credeva.
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Capitolo 2 *** Il ritorno. ***
ciao
Lei partì, andò in città quando
l’estate finì. I primi anni le mancò
tantissimo
la fattoria, le serate con Tim, i cavalli, le stelle che ogni volta
guardava
con i nonni, con Tim. Le mancavano le storie del nonno di Tim. Le
mancava la
spiga di grano in bocca, l’odore che proveniva dalle stalle
dei cavalli, le
mancava ogni mattina mungere il latte e poi prendere le uova.
Le mancavano i nonni, che sempre meno andavano a farle visita. Le
mancava
parlare delle capanne e dei cavalli senza sella con Tim. Le mancava
essere
chiamata Beth. Le mancava quando la mattina si svegliava alle 5, quando
il
gallo cantava. Aveva sempre odiato quel dannato gallo, tuttavia avrebbe
dato
qualsiasi cosa pur di essere svegliata da lui ancora infinite volte.
Le mancava sentire suo nonno che suonava la chitarra, poi suonare e
cantare una
canzone per sua nonna ballando in modo strano. La nonna arrossiva
sempre, e lei
sperava tanto di passare la sua vita così, in quella
monotona armonia meravigliosa.
All’inizio chiamava spesso Tim, poi dovette fare i conti con
la scuola, si era
fissata che doveva imparare a suonare la chitarra, all’inizio
suonava quella
classica. Poi i suoi amici le fecero scoprire quella elettrica e
abbandonò la
chitarra che si era portata dalla fattoria.
Testi infiniti sulle campagne del Tennessee erano stati scritti e poi
abbandonati. Adesso c’era solo la chitarra elettrica e
l’odio verso il mondo.
Aveva deciso di smettere con la scuola, una perdita di tempo. Era
convinta che
le infilassero nel cervello stronzate inutili, le volessero
“fondere il
cervello”. Iniziò a fumare, così, tanto
per fare un dispetto ai suoi genitori.
Poi i genitori cambiarono con l’età, litigavano
sempre più spesso, quando si
separarono lei aveva 14 anni, venne affidata alla madre. Il padre
tornò in
campagna.
A dir la verità era la madre che aveva voluto portare tutti
in città. Lei non era
nata in campagna. Lei amava la vita di città, e anche quando
Elizabeth era
piccola non si era mai adattata tanto bene all’aria aperta e
ai cavalli.
Quando i genitori si separarono, lei seppe che il padre era tornato in
campagna. Si ricordò dei cavalli senza sella e decise di
imparare ad andare a
cavallo. Voleva sentire quella sensazione che aveva provato quando il
nonno
l’aveva messa sul suo cavallo. Ma fare equitazione non era la
stessa cosa.
I nonni ormai li vedeva solo a Natale, la campagna era un ricordo
annebbiato e
lontano. Tim lo sentiva sempre meno. Poi lui iniziò a
lavorare.
Lei si dimenticò anche di lui.
Aveva perso il suo accento e le sue movenze da “ragazza di
campagna” ormai.
Stava tutto il giorno fuori dalla mattina alla sera, rischiava di
essere
bocciata quell’anno, non gliene importava molto comunque. Lei
voleva solo
suonare la chitarra. Non era mai soddisfatta di quello che suonava,
forse
perchè la chitarra elettrica non era quella più
adatta a lei.
A volte spolverava la sua
chitarra “di
prima” ma faceva riaffiorare tanti ricordi, che le
ricordavano quanto ormai
fosse effimera e monotona la sua vita. Poi il suo odio verso il mondo
riusciva
a esprimerlo molto meglio la chitarra elettrica.
A volte sognava di trovarsi ancora in Tennessee, con il nonno, Tim. La
madre
c’era sempre meno. Sembrava che per ogni ora che non stesse
con lei guadagnasse
soldi in più. Ma a lei non importava nulla dei soldi. Voleva
solo una famiglia
normale. Tuttavia la madre era così impegnata con il lavoro
che non era
riuscita a trovare un compagno.
Un giorno il telefono squillò, era la polizia.
Pensò che l’avessero chiamata
perché l’avevano sgamata mentre scriveva su
qualche muro, o mentre faceva
saltare in aria qualche motorino. Ma no, la madre era morta.
Cercò di non piangere, il cuore le faceva così
male che non respirava, ma
cercava di non piangere. Dopo un po’ le lacrime
però le uscirono da sole.
Tutto quello che poteva fare era prendere una sigaretta e fumare, per
consumarne una dopo l’altra. Fissava quella stupida chitarra
classica come se
potesse spiegarle perché diamine quella demente della madre
avesse deciso di
trasferirsi in città!
Potevamo vivere tutti felici, non si
sarebbe mai separata da papà, io non avrei iniziato a fumare
e lei non sarebbe
morta in un incidente stradale.
Si ricordò di quando il nonno le diceva che era
pericoloso andare a cavallo
troppo piccoli. Che era pericoloso cadere. Le dicevano che non doveva
mai
andare da sola a cavallo finchè non avesse imparato ad
andarci senza l’aiuto di
nessuno.
Mia madre non era brava ad andare a
cavallo, ma è morta in un incidente stradale.
Pensava sempre. E piangeva, piangeva così tanto che la
mattina gli amici
credevano che in preda alla depressione si fosse fatta di canne per
quanto
aveva gli occhi rossi.
I nonni stettero con lei finchè non fu deciso con chi
dovesse stare.
-Con il padre.- disse il giudice sbattendo sulla superficie di legno un
martellino anche questo di legno.
Ormai Elizabeth si era dimenticata di quell’uomo, tuttavia si
aspettava questa
decisione da parte del giudice.
-Preso tutto?- urlò il nonno, dalle scale mentre lei
scendeva con le valige
cariche di vestiti e con la chitarra in spalla. Gli amplificatori
avrebbe
voluto spaccarli, ma poi decise di portarli. Sarebbe stato
più bello dargli
fuoco.
-Si!- Per essere sicura tornò ancora in camera. Era
completamente vuota, ma non
le faceva effetto vederla così, lei non era legata a quel
posto, non le venne
nessun nodo in gola. L’unica cosa che le dispiacque veder
ancora in mezzo alla
stanza sola e “fuori luogo” era la chitarra
classica che si era portata dalla
campagna.
Gliel’aveva fatta un amico del padre quando era piccola. A
quel punto mollò la
chitarra elettrica e gli amplificatori li lasciò in mezzo
alla stanza vuota.
Sul pavimento scuro.
Afferrò la chitarra classica e corse giù,
portando con se anche le valige che
rimanevano e che il nonno non aveva ancora sistemato nel bagagliaio.
Il nonno sembrò guardare per un attimo quasi commosso la
chitarra che si era
portata, come se avesse sperato fino all’ultimo che lei si
portasse dietro
quella e non la solita che suonava quando andavano a farle visita.
Nei cassetti lasciò solo le sue infinite scorte di
sigarette. Non se n’era
dimenticata, voleva solo non puzzare di fumo quando avrebbe rivisto i
suoi
vecchi concittadini.
Infilò i bagagli nel pick-up del nonno, aveva lo stesso da
quando Elizabeth era
piccola, se lo ricordava mentre girava per le strade polverose con le
balle di
fieno e con Tim che le portava fino alle case, sforzando al massimo i
suoi
muscoli.
Si ricordava che già a 11 anni Tim aveva la gli addominali.
Chissà com’era
diventato. Chissà se il nonno raccontava ancora le stesse
meravigliose storie
di un tempo.
Guardava fuori dal finestrino i palazzi scomparire, le strade diminuire
sempre
di più, il sole sempre più alto e luminoso.
Erano partiti la mattina presto, era stupendo vedere l’alba
da fuori-città. In
città non si vedevano nemmeno tanto bene le stelle.
Una volta da piccola aveva provato a creare la stessa atmosfera che era
capace
di creare Tim, ma il terrazzo –anche se più
grande- non le trasmetteva le
stesse emozioni. Un po’ per le stelle che non si vedevano, un
po’ per la spiga
di grano che le mancava, un po’ perché non
c’era Tim.
-Come te la ricordi la città?- le domandò il
nonno, mentre guidava.
-Bene, credo. Mi ricordo dov’era la piazza dove
c’era il mercato la mattina, mi
ricordo dove mi portavi sempre dal nonno di Tim. Mi ricordo il
farmacista
strano, la fattoria e i cavalli. Mi ricordo Tim dove abitava, dove
abitava
anche suo nonno e i nostri vicini. Mi ricordo che le stelle erano
bellissime e
mi ricordo l’odore delle stalle. Mi ricordo i
falò, mi ricordo il signor Wolf
quando mi regalò la chitarra…-
-Ricordi tante cose vedo.- il nonno sorrise, capendo che un
po’ le era sempre
mancata la “vita di campagna”.
-…Tim c’è ancora?- chiese subito.
All’inizio pensò di andare da lui e
stringerlo, non appena fosse arrivata. Ma non si vedevano da circa
sette anni.
Forse lui era partito per cercare un lavoro decente, comunque
sicuramente si
era scordato di lei.
-Certo! Ci sono tutti, o quasi tutti.- Il suo sguardo divenne
all’improvviso
triste e malinconico. Era ovvio che qualcuno dovesse essere morto.
Qualche
vecchietto di quelli che la mattina offrivano sempre un po’
di caramelle a Tim
ed Elizabeth magari.
-Mio padre abita nella stessa casa di sempre?- sperava tanto di
sì. L’unica
cosa che sentiva davvero sua, l’unico posto che sentiva
davvero di poter
chiamare casa era quella fattoria vecchissima in cui vivevano con i
nonni e
migliaia di animali.
Quando fece quella domanda al nonno per un momento pensò
anche al terrazzo e ai
salti che faceva per andare da Tim. Le scappò un sorriso
malinconico, di quelli
che gli anziani mostravano quando riguardavano le foto di quando erano
giovani.
-Certo, e i vicini sono quelli di sempre. Ci sono stati anche nuovi
arrivi,
sai? Anche dalla città.- Non le piaceva tanto che ci fossero
stati dei “nuovi
arrivi”. Quel posto era di chi lo abitava da quando
v’era nato, come lei. Quel
posto era di chi era nato, come lei, in una stalla, tra i cavalli. Quel
posto
era di chi masticava un ramoscello da quando aveva dieci anni. Quel
posto era
di chi aveva sudato per farlo crescere.
Chi era nato in città doveva rimanerci. Tuttavia la cosa
più importante era che
non le avessero “fregato” i posti in cui riusciva a
trovare la serenità. Li
conosceva solo Tim, probabilmente lui se li era dimenticati. Lei
invece, ogni
notte prima di addormentarsi immaginava di trovarsi poggiata alle
radici di una
grandissima quercia, il suo posto preferito.
Prese a tamburellare con le dita sulla propria gamba. Era impossibile
che non
fosse cambiato nulla, tuttavia sperava che almeno la maggior parte
delle
persone, e lei conosceva tutti, fossero rimaste le stesse.
L’estate era appena iniziata, ma lei sapeva che in campagna
faceva già caldo,
così si era messa dei pantaloncini che in città
non avrebbe mai osato mettere.
Lì non c’era mai sempre la stessa gente, non si
sentiva a proprio agio
indossandoli.
-Pensi che qualcuno si ricordi ancora di me?- incrociò le
gambe.
-CERTO! Come scordarsi la bambina pestifera che girava sempre con un
ramoscello
in bocca e voleva fare la grande con Tim?- gli scappò una
risatina,
ricordandosi dei guai che avevano combinato loro due insieme. Elizabeth
tuttavia era sicura che Tim fosse cambiato, che fosse diventato come
tutti i
ragazzi a cui era abituata lei. Era
sicura che l’avesse dimenticata, o che comunque la
considerasse solo un ricordo
d’infanzia, un po’ come aveva fatto lei.
-Forse non mi riconosceranno, nonno.- ammise, iniziando a torturarsi le
maniche
della felpa grigia. Era una di quelle felpe che andavano tanto di moda
in
città. Sopra c’era scritto “ma anche
no”. Ovviamente questa espressione non
l’avrebbero mai usata dove stava andando. E non avrebbero
capito cosa significasse,
almeno i vecchi.
Si era sempre preoccupata di essere alla moda, non perché
fosse una fissata
ovviamente, ma perché in città venivi isolato se
non ti vestivi in un certo
modo. In campagna si poteva vestire come voleva, la moda non esisteva.
Sempre che
quelli venuti dalla città non avessero contagiato gli altri
del posto.
-Ti riconosceranno, ti riconosceranno.- sorrise, come se nascondesse
qualcosa.
Tuttavia lui non era tipo da fare sorprese. Forse non era cambiata
così tanto.
-Accendi la radio, nonna.- sapeva che tipo di musica avrebbero
ascoltato,
country, country e ancora country. Lei non ascoltava mai country, al
massimo
pop-country. Le piaceva quel genere di musica, più che altro
le piaceva
suonarlo.
Nell’auto calò il silenzio, Elizabeth
iniziò a cantare giusto per fare un po’
di casino. Era una delle cose che aveva imparato in città, a
scuola. Chi faceva
casino era ganzo, chi faceva casino era una specie di mito. Ancora
meglio se
veniva sospeso.
Comunque si divertiva con i suoi amici a far incavolare i professori
che
esasperati chiamavano i loro genitori. La madre di Elizabeth ovviamente
non si
presentava mai. Non c’era mai per lei, ma forse era meglio
così. Almeno
Elizabeth non avrebbe sentito tanto la sua mancanza.
I nonni la seguirono, mentre cantavano ridendo. A volte si scambiavano
sguardi
sorpresi, forse non si aspettavano tanta allegria, forse si aspettavano
che
Elizabeth passasse il viaggio zitta, piangendo. Non era nel suo stile
però
piangere davanti agli altri. Non aveva MAI pianto per la madre nemmeno
con i
suoi amici, si lacerava il cuore da sola. Non voleva mettere a disagio
le altre
persone con i suoi lamenti e i suoi pianti, non voleva essere
compatita. Poi
non conosceva nessuno così bene da abbandonarsi in lacrime
sulla sua spalla.
Dopo qualche ora di viaggio passata a cantare, il nonno si
fermò. Elizabeth si
accorse in quel momento di non aver guardato fuori dal finestrino la
strada
nemmeno un secondo, mentre cantava. Si era persa uno spettacolo
meraviglioso,
tuttavia lei conosceva luoghi meravigliosi, e non vedeva
l’ora di rivederli. Ma
prima voleva rivedere le vecchie persone, chi c’era ancora.
Prese le sue tre valige. Solo quando le aveva fatte si era accorta che
aveva un
mucchio di vestiti e di scarpe, eppure indossava sempre gli stessi!
Il sole delle due rendeva impossibile tenere i capelli sciolti, come
era solita
portarli Elizabeth. Goccioline di sudore già le scendevano
sul petto. Posò un
attimo i bagagli sul terreno polveroso e arido, si tolse la felpa.
Sotto la felpa aveva la sua maglietta preferita, una delle tante con la
scritta
“Hard Rock”. Era la più semplice,
l’aveva comprata dove era andata ad abitare,
a New York. Aveva vissuto tanto, troppo, tempo in città, ma
comunque si
ricordava com’era vivere in campagna. Tuttavia non aveva la
minima intenzione
di riprendere a fare le cose che faceva con il sorriso stampato sul
volto
quando a 12 anni ingenua correva per i campi.
Si legò la felpa in vita, riprese le valige e si diresse
verso la casa dove
sapeva avrebbe abitato per sempre.
-Nonno mi sono dimenticata di prendere la chitarra!- urlò,
prima che il nonno
chiudesse il bagagliaio non completamente vuoto.
Lo osservò mentre afferrava lo strumento, chiuse il
bagagliaio continuando a
fissare l’oggetto che aveva in mano. Iniziò a
toccare le corde, stava suonando?
Non era decisamente il luogo e il momento adatto, ma Elizabeth decise
di stare
zitta e assecondarlo.
-Non è nemmeno accordata, Ellie!- nella sua voce era
evidente il tono di
rimprovero, non troppo freddo e severo comunque.
Quell’esclamazione la lasciò un po’
confusa. Cosa importava al nonno se
Elizabeth avesse accordato la chitarra? Poi lui sapeva che non la
suonava da un
bel po’ di anni.
-E’ normale, non la usavo mai in quella..- si
bloccò immediatamente. Stava per
dire merda di città ma
fortunatamente
si era ricordata che stava parlando con un adulto, un vecchio, con suo
nonno.
–In città.- Non era abituata a parlare con gli
adulti, o a portare rispetto a
qualcuno. Non conosceva regole, ma sapeva che tipo di linguaggio doveva
usare
con suo nonno per evitare ramanzine interminabili.
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Capitolo 3 *** A NEW AGE. ***
hhh
Appena arrivò davanti la porta suonò il
campanello, iniziarono a sudarle le
mani quando sentì dei passi, era suo padre. Non lo sentiva,
vedeva, non pensava
a lui da tanto, troppo, tempo. Aveva cercato di dimenticarlo negli anni
in cui
non l’aveva visto, così magari se la madre avesse
trovato un compagno non
avrebbe avuto problemi a considerarlo suo padre.
Sentì la porta scricchiolare, poi quando si aprì
davanti a lei apparve la
sagoma di un uomo che lei non conosceva. Ma doveva essere suo padre,
per forza.
Mollò ancora il bagagli e iniziò a squadrarlo,
cercando di capire che forma
avesse il suo volto dietro quella folta barba scura.
-Papà…?- mormorò inclinando di poco la
testa.
-…Ellie!- disse lui sorridendo, era un sorriso
così sincero e carico di
felicità che poteva benissimo vedersi anche da sotto la
barba.
Lei non l’avrebbe abbracciato.
Lei non poteva abbracciarlo, perché lui non se lo meritava.
Poteva chiamare
qualche volta mentre ancora la madre era viva? O magari una chiamata la
poteva
fare quando la madre era morta, magari solo per sapere come stesse SUA
figlia.
-Vorrei portare queste in camera.- osservò le valige
pesanti, senza accennare
il minimo sorriso, fredda. Le faceva un effetto strano vedere il padre.
Non era
più abituata a quella realtà.
-Le porto io. La tua stanza è ancora quella di prima. Non
è cambiato nulla.-
Prese le valige, come se fossero piume. Salì su per le scale
e posò i bagagli
scuri davanti l’armadio in legno.
-Meglio così.- pensò ad alta voce. Non era sicura
che il padre non l’avesse
sentita. Quando arrivò nella stanza non potè fare
a meno di sorridere, non
sapeva il perché di quel sorriso. Le veniva solo da
sorridere, come quando era
piccola e amava ogni cosa. Forse era quella stanza, che trasmetteva
tanta
positività, spensieratezza e allegria.
Si sedette sul letto, prese ad accarezzarsi le gambe, osservando i
mobili, gli
stessi di un tempo. Persino i soprammobili che il padre doveva aver
spolverato
prima del suo arrivo erano gli stessi di una volta, ed erano come lei
li aveva
lasciati.
-Vado ad aiutare i nonni.- il padre uscì dalla stanza,
lasciandola sola. Non si
preoccupò di chiudere la porta, cosa che fece subito
Elizabeth.
Voleva chiuderla a chiave ma nella serratura non c’era
nessuna chiave.
Prese a girare intorno al letto, come se stesse riguardando se stessa
che da
piccola si alzava per andare da Tim, tutte le notti. Come se rivedesse
la
piccola Beth pettinare le bambole, dormire con i peluche e scrivere sul
suo
diario di cavalli senza sella.
Scostò le tende giallognole che l’avevano riparata
dal sole per tanto,
tantissimo tempo. Si ricordava quando la madre ogni domenica le apriva,
facendo
entrare la luce, per svegliare la figlia che dormiva beata. Diceva
sempre che
dovevano andare a messa. Elizabeth amava andare in chiesa,
lì si incontrava con
gli altri bambini. Poi le piaceva cantare, con altra gente. Le piaceva
cantare
con sua madre, le piaceva quando la mamma ogni tanto si presentava con
un nuovo
vestito elegante per andare in chiesa, quando la madre le diceva che
era
stupenda, quando l’abbracciava e la teneva stretta per mano,
dicendo che era
pericoloso dividersi nella confusione dopo la messa.
Si carezzò la guancia, sapendo e accettando che quei baci
non li avrebbe più
ricevuti. Che non avrebbe mai più rivisto il suo volto
mentre le consigliava
quale vestito mettere, mentre la punzecchiava chiedendole se le piaceva
davvero
Tim. Nessuno le avrebbe mai più cantato nessuna ninnananna,
come faceva lei.
Aprì la finestra, avanzando verso la ringhiera
dell’ampio balcone. Posò le mani
sul ferro fissando la casa dei vicini. Fissava il terrazzo, tirando su
col
naso. Non ci badava tanto. Dopo un po’ si accorse che le
lacrime le avevano
rigato il volto.
Cercò di bloccare il pianto, cercando di distrarsi, pensando
ai cavalli, alle
uova… ma ogni cosa le ricordava la madre. Tutto in quella
casa dove la maggior
parte del tempo lo trascorreva con lei, le ricordava quella donna.
Sentì che le
gambe le tremavano, pensava che ormai il peggio fosse passato che si
fosse
dimenticata della mamma.
Si sedette sul pavimento in piastrelle scure del balcone. Si
portò le gambe al
petto, poi poggiò la testa sulle ginocchia.
Non è giusto. Non è
giusto!
Continuava a pensare, e non avrebbe mai smesso. Tirò su col
naso l’ultima
volta, poi si asciugò con il dorso della mano le guance
rosse. Fortunatamente
non si era truccata, quando abitava in città ogni giorno si
contornava gli
occhi di nero, quasi volesse far sembrare che le avessero tirato un
pugno in un
occhio.
Spesso si truccava per un ragazzo, non le piaceva tanto, ma le piaceva
quando
riusciva ad ottenere le sue attenzioni, i suoi abbracci.
La cosa migliore di quel posto era che non c’erano ragazzi
che piacevano a
Elizabeth, o almeno, lei si ricordava che non ci fossero tanti maschi
della sua
età. Ancora però doveva fare i conti con i nuovi
arrivi.
Rimase a terra, a fissare il terrazzo del palazzo di fronte.
Poggiò la testa al
muro, come se quella posizione la rilassasse. Sentiva il sole bruciare
sulla
sua pelle, chiuse gli occhi per un momento.
Iniziò a sudare, ma non gliene importava molto. Voleva solo
respirare
quell’aria così… pulita?
In città c’erano sempre rumori da ogni parte, la
festa del palazzo di fronte, i
drogati che facevano a botte nel vicolo buio accanto casa sua,
l’ambulanza che
correva da tutte le parti, le auto, le moto, i bambini che piangevano.
In quel momento sentiva solo i nonni parlare di sotto, non capiva cosa
si
stessero dicendo, era un leggero brusio. Quando smisero di parlare
sentì solo
il canto degli uccelli, da piccola aveva fatto una lista di tutti gli
uccelli
del posto. L’aveva nascosta, poi. L’aveva fatta
insieme a Tim. Era una cosa da femmine
diceva sempre Tim, tuttavia
l’assecondava, sempre.
In quel momento si accorse che le sue mani erano grigie di polvere,
capì che il
padre non aveva pulito il balcone. Chissà da quanto, poi. Si alzò
battendo le mani sul pantaloncino di
jeans, tentando di pulirle. Si slegò la felpa dalla vita e
la girò, era andata
ormai. Era da lavare, assolutamente. Fortunatamente non era la sua
preferita.
Rientrò in camera, buttò la felpa sul letto, dopo
averla accuratamente
appallottolata. In città era abituata alla signora delle
pulizie, una spagnola
di bassa statura con i capelli perennemente legati, era grassa e
vecchia. Ogni
tanto insegnava a Elizabeth qualcosa in spagnolo, forse lo faceva
più perché
pensava si sentisse sola. A volte dopo aver pulito guardava la TV con
la
ragazza, giusto per farle un po’ di compagnia.
Non che Ellie fosse sola in città. Aveva le sue amicizie, e
il suo migliore
amico. Lui riusciva a capirla, forse. Tuttavia sentiva che con lui
poteva
essere più sincera che con gli altri. I suoi baci e abbracci
erano più
confortevoli e sinceri degli altri. Sentiva che lui le voleva bene.
Aprì la prima valigia, quella dove c’erano le sue
infinite t-shirt comprate in
tutti gli “Hard Rock Cafe” in cui fosse mai andata,
e altre che non ricordava
nemmeno di avere.
Aprì il primo cassetto, dentro c’era un foglio
giallo, c’erano parecchi fogli
ingialliti dal tempo. Quando era piccola Ellie aveva la fissa di
nascondere
sempre tutto, così. Forse pensava che sarebbe stato
divertente per qualcuno che
fosse arrivato dopo di lei trovare le cose che aveva nascosto.
Prese il foglio, curiosa lo lesse. Era una poesia, lo girò
un attimo, aveva
scritto gli accordi di una canzone.
Ero davvero suonata.
Ovviamente la base
era country, le
parole all’inizio non riuscì a leggerle per via
della calligrafia, poi sorrise
quando lesse la prima riga.
Tu dicevi “cavalcherò
senza sella”.
“Qual
è il tuo nome?”
Tu dicesti “Tim Swife”
Guardavo i tuoi blu jeans, ogni volta speravo mi pensassi.
Quando tu eri felice e mi abbracciavi, io pensavo “Tim Swife,
ringrazio Dio tu
sia qui ”.
Mi portavi in posti bellissimi…
A quel punto Elizabeth aveva un sorriso a trentadue denti
stampato in
faccia. Mollò tutto, lasciando il cassetto aperto e la
maglia sul pavimento in
legno scuro.
Prese la chitarra e corse verso la stalla, solitamente lì
non c’era mai
nessuno, a parte i cavalli. Iniziò a canticchiare la
canzone, seguendo le note,
sorpresa si accorse che se la ricordava. Il foglio era ingiallito, ma
le parole
si leggevano chiare.
Impugnò la chitarra e iniziò a cantare, non
troppo ad alta voce, cercò di
cantare più a bassa voce che potesse. Sentiva le note un
po’ strane, era
abituata a quelle della chitarra elettrica. La melodia che stava
suonando le
trasmise calma, tranquillità, la fece rilassare.
L’avrebbe cantata all’infinito, l’avrebbe
registrata e messa sul suo IPod. Non
l’avrebbe mai fatta ascoltare a nessuno, anche se forse Tim
l’aveva già
ascoltata. Ma come poteva ricordarsela? Chissà quanti altri
testi aveva
nascosto tra i mobili e le fessure della sua stanza. Per il momento era
contenta di suonare a macchinetta quella melodia.
-Chi sei?- smise immediatamente di cantare, nascose il testo nella
tasca dei
pantaloncini sperando che la tizia non l’avesse sentita.
-Perché dovrei dirtelo?- sette anni passati in
città l’avevano resa sospettosa,
diffidente.. con tutti. Non si relazionava molto facilmente con le
persone, a
differenza di quando era piccola.
-Perché questa è la mia stalla, e questa
è la mia casa.- Elizabeth si voltò
immediatamente, quella era la /sua/ stalla, il suo posto segreto.
Quella era
solo una rompicoglioni.
-Ellie!- la riconobbe solo in quel momento, era una donna con cui non
aveva mai
fatto troppa amicizia. Si salutavano quando si vedevano, nulla di
più.
-Penelope…?- si
alzò in piedi, tenendo
ancora ben stretta la chitarra chiara.
-Fatti abbracciare! Ti aspettavamo!- chi l’aspettava? Era
impossibile che tutta
la città sapesse del suo arrivo. Lei non voleva che tutti
sapessero del suo ritorno,
voleva che fosse quasi una cosa clandestina.
-Chi mi aspettava?- non ricambiò assolutamente
l’abbraccio della donna, le
braccia rimasero a penzolare lungo i fianchi, mosce e bianche. In
città tutti
erano abbronzati, probabilmente, lei invece era di un pallore unico, e
aveva
anche avuto il coraggio di mettersi i pantaloncini!
-Tuo padre ed io.- la donna inclinò la testa, come se avesse
detto la cosa più
ovvia del mondo. –Ci sono delle persone che vorrei
presentarti.- Elizabeth
inarcò un attimo un sopracciglio, convinta che la donna si
fosse drogata. Ellie
sapeva fare le canne, e in quel posto c’erano tante piante
diverse per farle.
Probabilmente la donna aveva sbagliato le dosi…
-Chi sono?- Elizabeth squadrò dal primo all’ultimo
i ragazzi –o ragazzini?- che
aveva davanti.
-I tuoi fratellastri, tesoro.- in quel momento Ellie si
sentì mancare, le
tremarono un attimo le ginocchia, perché suo padre non le
aveva detto nulla?
Perchè le aveva tenuto nascosto che avesse fatto altri tre,
non uno o due, TRE!
Figli con quella donna?
Ecco perché non era mai andata a trovarla, perché
non la chiamava mai, perché
era troppo occupato a sfornare mocciosi! Perché era
più importante occuparsi di
loro, fare loro foto, che chiamare la figlia che non vedeva da mesi e a
cui era
morta la madre.
La soluzione sarebbe stata “scappa di casa” ma quel
piano andava bene per le
grandi città, in quel posto l’avrebbero
sicuramente trovata dopo due o tre
giorni.
Corse con ancora la chitarra in mano a casa, in cerca del padre.
Furiosa.
Non si trovava da nessuna parte tornò in camera, chiuse il
cassetto e posò la
chitarra. Il foglietto l’aveva ancora in tasca, probabilmente
il padre stava
andando dalla donna, per “scusarsi del comportamento di sua
figlia”.
Lo vide mentre parlava con un tizio, sapeva bene chi era, il padre di
Tim.
Quando la vide in lontananza iniziarono a brillargli gli occhi, cosa
che non
era successa quando l’aveva vista suo padre. Cercò
di sorridere, ma le uscì
fuori solo una brutta smorfia che avrebbe preferito non fare.
Prese a correre verso il padre. Si fermò davanti a lui,
guardandolo fisso negli
occhi. Aveva l’aria incavolata, probabilmente
perché Ellie aveva interrotto il
suo discorso con l’amico.
-Perché non me l’hai detto?- strinse i pugni
così forte da farsi male ai palmi
delle mani con le unghie.
-Non ho avuto tempo, hai incontrato Penelope quindi…- forse avrebbe preferito
dire lui alla figlia
che si era rifidanzato o sposato con un'altra.
-Non hai mai tempo! Non hai chiamato una volta, nemmeno una! Eri troppo
occupato a scoparti Penelope, vero?- il padre non rispose, ma il suo
sguardo
diceva tutto. Carico di rabbia, per quella scenata che stava facendo
davanti al
padre del suo ex-migliore amico. Tuttavia l’uomo sembrava
biasimare il padre. –Vero?!-
urlò, spingendolo. Fece un passo
indietro, poi le strinse le braccia.
-Calmati Ellie!- disse a denti stretti.
- Secondo me ti da anche fastidio che io sia venuta a
“distruggere” la nuova
famiglia che ti eri creato, vero?- indietreggiò, guardandolo
fisso negli occhi,
il suo sguardo esprimeva tutto il suo rancore e il suo disprezzo verso
il
padre.
Si girò, dando le spalle ai due uomini. Chiuse ancora gli
occhi, lasciò che le
lacrime scendessero lungo le sue guance, per la seconda volta in un
giorno.
Andò dritto, verso il bosco. Voleva solo stare sola, magari
cercare quei posti
dove nessuno la trovava quando era piccola. Iniziò a
piovere, anche se la
mattina prometteva bene.
In quel momento avrebbe tanto voluto avere ancora la sua chitarra
elettrica.
Alzò lo sguardo al cielo, adorava la pioggia, specialmente
d’estate, quando non
faceva troppo freddo e poteva uscire, bagnandosi, giocando nelle
pozzanghere.
Una figura scura veniva verso di lei, probabilmente era coperta da un
impermeabile nero. Sicuramente era
coperta da un impermeabile nero. Si portava dietro un cavallo, teneva
lo
sguardo basso, come se si vergognasse di guardare le altre persone in
faccia.
Elizabeth potè vedere, quando gli fu più vicino i
capelli castani che gli coprivano
gli occhi.
-E’ meglio che torni a casa, il tempo fa schifo. Rischi di
prenderti
l’influenza.- aveva l’aria afflitta, malinconica,
come se fosse successo
qualcosa di brutto. Insomma, non tanto diversa da quella di Ellie.
-La pioggia è l’unica che sia mai riuscita a
consolarmi davvero.- lo ripeteva
sempre, da quando era piccola. Ogni volta che era triste e pioveva
pensava
sempre che la pioggia cercasse
di
consolarla piangendo con lei. Il ragazzo alzò lo sguardo,
Elizabeth riconobbe
subito i suoi occhi verdi. Lui la fissò, socchiudendo gli
occhi, come se non
credesse fosse davvero lei.
-…Beth?- le scappò un sorriso, quando il ragazzo
la chiamò in quel modo. La
guardava sbalordito, la fissava. Lei stava facendo la stessa cosa.
-…Tim?- era sicura che fosse lui, doveva essere lui.
Socchiuse gli occhi,
incredula. Lei si ricordava di Tim come “il migliore amico
con le lentiggini”.
Dov’erano quelle lentiggini? Dov’erano gli occhioni
verdi e impacciati del vecchio
Tim? –Sei Tim?-
Allungò di poco la testa, per guardare meglio Tim da sotto
il cappuccio nero
dell’impermeabile. Era completamente fradicia, ma non ci
faceva caso.
-E tu sei la m…- il ragazzo si bloccò, come se
stesse per dire qualcosa di
sbagliato. Ed Elizabeth sapeva bene cosa stesse per dire. La mia Beth.
Ogni volta che lui parlava di lei diceva che era sua.
–Sei Beth?- Ci rimase un po’ male Ellie quando
sentì il
ragazzo bloccarsi.
Non poteva pretendere di riallacciare il loro rapporto e di farlo
diventare
come quello di una volta, così, subito.
-Sono la tua Beth.- Sorrise,
guardava
per terra non avendo il coraggio di guardare i suoi occhi. Ellie sapeva
che
erano cresciuti, che tante cose erano cambiate. Ma una cosa che era
rimasta
immutata erano le farfalle nello stomaco che aveva quando guardava
l’amico.
-Avevi detto che saresti tornata a cavallo, senza sella.- Lui
inarcò l’angolo
destro della bocca, formando un mezzo sorriso.
Si alzò vento, Ellie iniziava ad avere freddo.
-Scusa se non ho mantenuto la promessa.-
-Invece l’hai mantenuta, sei tornata.- Alzò lo
sguardo al cielo, socchiudendo
gli occhi. –Io direi di metterci al riparo.- rise, rendendosi
conto che il
resto del mondo si era spento quando aveva incontrato lei.
-Preferisco prendermi una polmonite che tornare a casa.- lui
sembrò capire,
osservò il cavallo completamente bagnato.
-Ok, ma prima devo riportare lei a casa. Vieni da me. – Il
cappuccio nero che
gli copriva ancora mezzo volto, oscurando i suoi occhioni verdi, che
Ellie
ricordava benissimo. Li ricordava mentre le guardavano, innamorati.
Mentre le
dicevano tutto ciò che Tim non riusciva a dirle con le
parole. Li ricordava
come gli occhi di un bambino, un po’ troppo lontani dalla
realtà.
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Capitolo 4 *** DREAMS ***
gigig
Lui
non aspettò una risposta, le prese la mano intrecciando le
dita di Ellie alle
sue, in un gesto così spontaneo che fece pensare a Elizabeth
che forse non era
cambiato poi tanto. Che loro erano destinati a essere migliori amici,
per
sempre.
Arrivarono nell’immensa stalla dell’amico, era
enorme. Molto più grande della
sua. Lui aveva anche più cavalli, non se la ricordava
così grande. Eppure lì ci
aveva passato intere giornate da piccina.
-Non la ricordavo così grande.- ammise Ellie osservando i
cavalli.
-Infatti non lo era, l’abbiamo ingrandita da tre o due anni.
Ho vinto un po’ di
soldi vincendo gare a cavallo.- Ellie sapeva benissimo che con un po’ lui intendesse parecchi.
-Figo.-
-Figo!- lui le fece il verso, agitando le mani in un modo strano, che
davvero
Ellie non riconosceva.
-Scusa?- alzò un sopracciglio, guardandolo male.
-Si vede che vieni dalla città.- rise lui, dissellando il
cavallo nero.
-Io sono nata qui, non è colpa mia se sono stata portata
via!- l’ultima frase
la disse ridacchiando, rendendosi conto della cavolata che aveva appena
detto.
Si girò e lo vide di spalle, stava mettendo nella stalla il
cavallo che si era
portato dietro, si chiamava Pioggia.
Com’era diventata vecchia da quando era andata via Ellie.
-Io direi di rimanere qua, se proprio non vuoi tornare a casa.- Si
tolse
l’impermeabile nero, mentre si girava per guardare Beth. La
maglietta grigia
conteneva a fatica i suoi muscoli, le spalle erano larghe, le gambe
muscolose e
dai capelli castani si vedeva qualche ciocca dorata dovuta al lavoro
sotto il
sole. La mascella scolpita, coperta da un velo di barba. Aveva la
barba? Proprio
Ellie non riusciva a credere che fosse il suo
Tim.
-Cosa è cambiato da quando sono andata via?- non aveva avuto
il coraggio di
chiederlo al nonno, e comunque le era sfuggito di mente, non credeva
fosse
importante. Ma vedendo Tim così cambiato, non
potè fare a meno di porre quella
domanda.
-Poche cose.- disse,
abbassando lo
sguardo, mentre s’infilava le mani nelle tasche dei pantaloni.
-Ho tanto tempo.- Si gettò sulla paglia, chiudendo gli
occhi. In quel momento
sentiva di essere davvero a casa, tutto era al suo posto. Certo, se sua
madre e
suo padre fossero stati ancora insieme sarebbe stato meglio.
-E’ arrivata nuova gente, dalla città. Come te.-
la infastidì quel come te.
La gente nuova in città ci era
nata e probabilmente non si sentiva nemmeno a suo agio in quella vita.
-Io qui ci sono nata. Ho vissuto qui fino a 12 anni, non come loro.-
lui parve
non ascoltarla, perso nei suoi pensieri. Chissà a cosa
pensava. L’ultima volta
che l’aveva visto così era
perché… era innamorato. Ellie conosceva tutte le
ragazze del posto, e nessuna era così bella da poter piacere
a Tim.
Doveva essere una delle nuove arrivate. Ma alla fine, non le importava
tanto.
-E’ morto nonno Joe, e i vecchietti che la mattina ci davano
le caramelle.-
Mostrò un sorriso malinconico, lo stesso di Beth quando
aveva ripensato alla
sua vecchia vita. –Ho un fratellino e poi basta, penso.-
-Mi dispiace per il nonno.- non aveva mai detto tuo
o suo nonno, quando si trattava di Joe. Questo
perché l’aveva
sempre trattata come se fosse stata sua nipote anche lei. Le
pizzicarono un
attimo gli occhi, poi divennero lucidi. Le scese una lacrima che lei
nascose
con i capelli scuri, poi sorrise, anche lei malinconica. -E per i
vecchietti,
ci adoravano.- si concesse un’altra lacrima.
-Si, prendevano le caramelle solo per darle a noi.- Si
sdraiò accanto a Ellie.
-Ci ostinavamo a tenere quel coso in bocca anche quando le mangiavamo.-
rise
della loro ingenuità.
-E’ vero, credevamo che per essere grandi bastasse avere in
bocca una spina di
grano.- rise anche lui, incrociando le mani dietro la testa.
-Sarebbe bello.- rifletté lei.
-Per il momento lasciamolo credere a mio fratello.- Ellie non era una
di quelle
ragazze che volevano sapere per forza tutto, che appena sentivano
qualcosa di
nuovo e importante iniziavano ad agitarsi, urlando come delle sceme.
Era
rimasta indifferente infatti, quando Tim le aveva detto del fratello, infatti.
Tuttavia sentì una voragine nello stomaco, quando le disse
del nonno. Forse la
persona che voleva vedere di più era lui, solo lui. Aveva
bisogno di vederlo,
per tornare alla normalità.
Continuo
a una recensione. Fatemi sapere cosa ne
pensate. :D
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Capitolo 5 *** Changes ***
dfvnn93t5rn9
Beth non aveva voglia di
passare l'estate come aveva
fatto gli anni precedenti in città.
Spesso andava in piscina, tuttavia in quella
microscopica città non ce
n’era una. Ma nemmeno privata, Beth non ci metteva nulla a
scavalcare cancelli
o recinti, a volte rubava. Il più delle volte faceva da
palo, poiché doveva dei
favori a quelli che organizzavano i furti. Poi erano i suoi unici
migliori
amici, doveva farlo per loro.
Passava le giornate a studiare, stranamente, non voleva essere
bocciata. Tim lo
vedeva qualche volta la mattina, ma dopo l’incontro sotto la
pioggia
praticamente non si parlarono più per settimane.
Stava camminando a passo veloce, non voleva che nessuno la fermasse o
salutasse, quella sera di fine estate. Non aveva ancora litigato con
nessuno,
voleva solo andare in uno dei suoi “posti segreti”
che ancora non aveva
visitato.
Le mani nelle tasche del giacchino, la testa e lo sguardo basso per non
essere
notata. I capelli neri le coprivano metà volto. Dato che non
guardava avanti,
ma solo dove metteva i piedi, andò a sbattere contro una
ragazza. Sentì un
risolino fastidioso, roteò gli occhi.
Non alzò lo sguardo nemmeno un secondo, si scansò
e proseguì.
-Hei!- sempre una voce femminile la chiamò da dietro. Si
girò, alzò lo sguardo
e vide una bionda vestita completamente in rosa. Era una delle nuove,
sicuramente.
-Sei nuova, vero?- disse un’altra. Quella non era nuova,
Ellie la conosceva
benissimo, e l’aveva odiata tantissimo un tempo.
-No, sono Ellie.- Cercò di pronunciare quelle parole con
tutta la rabbia e
l’odio che avesse dentro. I suoi occhi mostravano tanto odio
e rancore che
Ellie se li sentiva in fiamme.
Ovviamente l’odiosa era
rimasta
scioccata, non se lo aspettava. Ellie riabbassò la testa non
nascondendo un
ghigno soddisfatto, poi proseguì per la sua strada.
Attraversò un ponticello, poi fece un tratto di bosco che
ricordava a memoria,
poi arrivò davanti ad un albero, il suo albero, o meglio,
quello suo e di Tim.
Quando si ritrovò davanti una massa di ragazzi, vecchi e
nuovi, insieme a
gallinette bionde, pensò di aver sbagliato posto.
Così si guardò un attimo
intorno.
No, era
impossibile, lei conosceva a memoria ogni angolo di quella
città microscopica,
comprese le campagne vastissime.
Quello era il suo albero. Solo suo.
Che diamine ci faceva tutta quella gente lì?
Forse qualcun altro aveva scoperto il posto, ma era praticamente
impossibile
cavolo. E poi Tim aveva il compito di… no, ovviamente non
l’aveva protetto.
Insomma, era diventato grande, pensava al lavoro e alle ragazze.
Chissà quante
biondine aveva portato lì…
-Beth!- vide Tim agitare una mano. Voleva andare via, non aveva mai
amato la
confusione, quando era lucida, o c’era troppa luce o non ci
fosse nessuno
spacciatore. No, quel clima non le piaceva.
Fece finta di non vederlo, quindi si girò per tornare a casa
sua.
-BETH!- sentì nuovamente Tim chiamare il suo nome. Fu
costretta a voltarsi, poi
a dirigersi verso di lui.
5 minuti e sarebbe andata via. Sembrava una festa organizzata dalle
ochette
della sua classe, non una di quelle a cui di solito andava quando
abitava in Tennessee.
Non c’erano così tanti ragazzi prima, molti erano
nuovi. Erano quasi tutti
nuovi. Molti dei vecchi nemmeno c’erano.
-Dimmi.- Beth cercò di forzare un sorrisetto, almeno un
po’ divertito. La cosa
fu difficile, quando notò che era seduto su una radice del suo albero,
con seduta sulla
gamba destra un’ochetta bionda. Si sentì
profondamente tradita, ovviamente lei
si aspettava sempre il peggio, da tutti. Pensava di non essersi fidata
di Tim,
non troppo. Invece si era fidata ciecamente di lui, e
l’aveva… delusa.
-Come ti sembra la festa?- le domandò, giocando con una
ciocca di capelli della
bionda. Cercò di non fissare troppo i movimenti della sua
mano, e soprattutto
cercò di evitare i suoi occhi.
-Bella, davvero bella. Solo che non mi sento tanto bene, quindi penso
che andrò
via presto.- cercava sempre di sorridere, mentre si massaggiava lo
stomaco,
recitando.
-Posso presentarti un po’ di gente nuova, prima che tu vada.
Ah, comunque
piacere io sono Denise. Io e Tim stiamo insieme da due mesi.-
sentì squillare
la vocetta irritante della biondina slavata-fisicoperfetto. Sembrava un
cheerleader, che troia. Poi perché aveva aggiunto che stava
con Tim da due
mesi?! Insomma, a Beth non importava, non importava a
nessuno… POTEVA TENERSELO
PER LEI.
-Non penso che sia una buona idea…- Beth stava
già indietreggiando, pronta ad
andare via.
-Dai, sarà divertente!- cercò di controllare il
tic che le era venuto
all’occhio quando quella biondina parlò
nuovamente. Odiava la sua voce
squillante.
-Ok, facciamo una cosa veloce però.- pur di non sentire
ancora la sua voce
replicare decise di assecondarla.
Roteò gli occhi, mentre Tim la guardava aggrottando le
sopracciglia. Forse si
aspettava di trovare Beth, in vece aveva trovato una fattona acida che
odiava
la razza umana e passava i suoi pomeriggi a suonare.
La bionda si allontanò, Beth la vide parlare con un gruppo
di ragazzi, poi
voltarsi verso di lei, indicandola.
-Beth ma cosa ti è successo?- Tim sgranò gli
occhi, osservandole il braccio.
-Nulla, sono cambiata. E mi sembra che anche tu sia cambiato tanto,
come questo
posto del resto, no?- evitò di mettere parolacce ogni due parole, per
sembrare
più educata.
-Non sono cambiato. Non così tanto. Come te le sei fatte
quelle?- sapeva
benissimo di cosa stesse parlando, delle cicatrici sul suo braccio.
Indossava
sempre giacchini scuri, come quella sera. Solo che facendo
particolarmente
caldo si era alzata le maniche.
-Ero ubriaca, mi sono svegliata e avevo il braccio in questo stato.-
disse come
se fosse la cosa più naturale del mondo. Ovviamente mentiva,
ma non voleva che
le facesse troppe domande.
Si era seccata di aspettare la bionda, così si voltò e se
ne andò. Quella
sarebbe stata l’ultima volta che sarebbe andata sotto il suo EX albero.
Si diresse verso casa a passo svelto, sempre con i capelli neri che le
coprivano metà volto, tirando con gli anfibi scuri calci a
tutto ciò che trovasse,
calpestando ogni fiore. Si legò il giacchetto in vita.
Suo padre non era in casa, nessuno era in casa. Perfetto. Probabilmente
erano
usciti per cena. Forse quindi sarebbe rimasta sola a cena. Era stupendo
cenare
da sola. Diceva sempre.
Aprì il frigo, prese quello che trovò e
iniziò a mangiare. Una vaschetta intera
di gelato, due pacchetti di patatine e due bottiglie di birra. La birra
in quel
posto era ottima, doveva ammetterlo.
Seduta sulla sedia della cucina, con i piedi sul tavolo in legno scuro,
si
guardava intorno.
L’arredamento era cambiato, la tv più moderna,
parecchi tappeti erano spariti,
i divani erano diversi, il frigo era più grande e moderno.
Non la sentiva più
casa sua.
Si alzò e andò con una bottiglia di birra verso
le scale che ancora
scricchiolavano. Si chiuse in camera sua, l’unico angolo
della casa che, forse
per pigrizia, non era stato modernizzato.
Andò con la bottiglia verso il balcone, fissò un
attimo la terrazza della villa
difronte, poi, stando attenta a non far cadere dalle mani la bottiglia
di birra,
si arrampicò sul tetto e si mise a sedere, con le gambe al
petto.
Prese a canticchiare una vecchia canzone, che le aveva insegnato nonno
Joe
quando era bambina. Tra un sorso e l’altro si faceva scappare
qualche sospiro.
Fissava la luna, mentre si domandava che ore fossero, ormai doveva
essere
parecchio tardi.
Quando abbassò lo sguardo vide Tim rientrare in casa seguito
dalla biondina, sapeva
già cosa avrebbero fatto. Sentì una voragine
aprirsi nello stomaco e
risucchiarle tutto quello che aveva dentro.
Li vide entrare in camera di Tim, dalla finestra che conduceva al
terrazzo. Lui
la buttò sul letto, a quel punto Beth chiuse gli occhi e
fiondò la testa tra le
gambe, magari si sarebbe addormentata lì.
Si spinse le gambe maggiormente contro il petto, urtando la bottiglia
di birra,
che stava rotolando giù dal tetto. Si sporse per prenderla,
ma era già lontana
quando allungò il braccio.
Si mise in piedi, cercando di non perdere l’equilibrio, fece
qualche passo e
poi si allungò verso la bottiglia verde.
Il tetto era vecchio, una mattonella cedette sotto il peso di Beth,
facendola
scivolare. Riuscì ad aggrapparsi in tempo ad un angolo del
tetto. Cercò di
arrivare con le gambe sulla ringhiera del balcone, ma era troppo
lontana.
Merda!
Chiedere aiuto non era nel suo stile. Cercava un modo per togliersi da
quella
situazione, quando sentì le braccia che si stancavano, e le
dita che sudavano,
facendola scivolare lentamente.
Cercò nuovamente di arrivare al balcone, ma non era
abbastanza lunga.
Sentì la finestra della villa di Tim aprirsi, probabilmente
sentivano caldo in due.
Sperava che non la notasse, nel buio. O che non guardasse nemmeno
fuori.
Stava per girarsi e tornare dalla bionda, quando la bottiglia di birra
cadde
sul balcone di Beth, rompendosi.
Il rumore fece sobbalzare Tim, che ovviamente notò Ellie.
-Oddio Beth! Ma che cazzo fai?!- urlò. Ellie fu pervasa da
una sensazione di
piacere, quando lui si accorse di lei. Aveva avuto paura, doveva
ammetterlo. E
doveva anche ammettere che, in fondo,
sperava che Tim l’aiutasse.
-Sono scivolata, non vedi? Testa di cazzo!- eccola che partiva con gli
insulti.
Le dita sudavano sempre di più, stava perdendo la presa. Tim
doveva sbrigarsi
se voleva salvarla.
-Sei proprio una deficiente.- pensò ad alta voce Tim, mentre
dal suo terrazzo
passava sul cornicione della casa di Beth per ritrovarsi sul suo
balcone. Si arrampicò
velocemente sul tetto, afferrando Ellie per le braccia, tirandola su
velocemente. Come fosse un piuma.
-Idiota.- Ellie si asciugava le mani bagnate di sudore sulle gambe
infreddolite,
guardando in basso. Solo quando alzò lo sguardo, si rese
conto che si trovavano
sul terrazzo di lui, soli.
Notò che la bionda era sparita, e che Tim non se ne
preoccupava minimamente.
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