With me

di AlexBrightStar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When I was young ***
Capitolo 2: *** Il ritorno. ***
Capitolo 3: *** A NEW AGE. ***
Capitolo 4: *** DREAMS ***
Capitolo 5: *** Changes ***



Capitolo 1
*** When I was young ***


WHEN I WAS YOUNG

Era mezzanotte, aveva aspettato sveglia tutto il tempo. Il sorriso stampato sul volto, gli occhi che sorridevano al mondo, quella serata sarebbe stata magnifica, come tutte le altre del resto. Adorava la notte, adorava il giorno. Adorava il mondo, la fattoria i cavalli e tutto ciò che si potesse amare.
Ma soprattutto amava lui. A 11 anni tuttavia non si sa cos’è l’amore. Si confondono i sentimenti, quindi ciò che le faceva provare Tim, il vicino di casa e suo migliore amico, poteva non essere nulla.

Scostò la coperta di flanella, posò i piedi nudi a terra. Si diresse, cercando di far scricchiolare il meno possibile il pavimento in legno, verso la finestra. Aveva scoperto un punto in cui si potesse passare facilmente sul terrazzo della casa di fronte.
Tim era già lì. La salutò agitando una mano, come faceva sempre. Aveva in bocca una spiga di grano, con cui giocava spesso.
Si era messo in testa che doveva fare l’uomo, che lo era. Quindi imitava il padre in tutto, talvolta chiedeva anche consigli al nonno. Quanto adorava suo nonno, Elizabeth. Per la precisione Elizabeth, Penelope Lowell. Tutti quelli del posto la chiamavano Elizabeth, o Ellie. Solo Tim e suo nonno la chiamavano Beth.
Ogni volta che Tim la portava dal nonno lui le raccontava di terre lontane. Terre in cui i cavalli giravano liberi. Terre in cui le persone vivevano nelle capanne, tutte in armonia. Parlava di falò e di tizi con la pelle rossa, diceva che gli uomini di quelle terre avevano  i capelli lunghi, come le femmine. Diceva che non usavano mettere la sella ai cavalli, che erano selvaggi. Diceva che sfortunatamente erano morti tutti, per difendere la natura.

Ormai non aveva più paura di saltare sul terrazzo di casa Swife. Lo aveva fatto tante di quelle volte. La camicia da notte le andava decisamente grande, gliel’aveva cucita la nonna. La nonna le cuciva sempre tantissimi abiti.

Quando arrivò davanti al bambino lui le porse la spiga di grano. Quella sera avrebbero fatto i grandi. Lei si sedette sul mucchio di paglia che Tim aveva “preso in prestito” dalla stalla. Lui ci aveva posato sopra una coperta, per non pungersi con la paglia secca.

Si sdraiarono, parlavano delle storie che il nonno di Tim aveva raccontato loro, parlavano dei cavalli liberi.

-Quando sarò grande anche io cavalcherò senza sella.- il ramoscello infilato in bocca ormai non gli dava più fastidio, ci si era abituato. Forse un po’ gli piaceva anche.

-Io mi tingerò la pelle, vivrò nelle capanne e cavalcherò come te.- ancora un po’ di difficoltà invece Ellie ce l’aveva a parlare con quel “coso” in bocca. Non le piaceva tanto ma ormai era grande, pensava. Tutte le donne le dicevano che il ramoscello in bocca lo tenevano solo gli uomini, ma lei non ascoltava nessuno, solo Tim.

-Quando sarò grande vivrò anche io in una capanna con te, vero?- Smise per un attimo di guardare le stelle, guardò Ellie.

Lei sentì gli occhi verdi di Tim che la guardavano, sentì ancora le farfalle svolazzarle libere nello stomaco. Si girò anche lei, sorridendo. Era un sorriso così sincero e spontaneo che nemmeno il ramoscello poteva rovinarlo.
Lei fece si con la testa.

-Tu ci sai andare a cavallo?- Lo guardò anche lei, mentre lo stomaco le si aggrovigliava.

-A volte provo a salire sul vecchio Rohn, ma poi cado appena tiro le redini per partire.- Era tipico di Tim, lei invece non aveva mai cavalcato. A volte il nonno di nascosto la faceva salire sul suo cavallo, ma era pericoloso, dicevano. Lei non capiva cosa ci fosse di pericoloso nel sentirsi così liberi, così felici.

-Io cavalcherò senza redini, non ci sarà il problema.- Disse con tutta la tranquillità e la naturalezza del mondo, portandosi un braccio piegato sulla pancia mentre guardava ancora le stelle.

-E’ vero?- In quel momento lei si accorse che lui non la stava più guardando. Era tipico di Tim pensare a tutt’altro mentre la gente gli parlava, ma con lei non l’aveva mai fatto.

-Cosa?- Prese a mordicchiare la spiga di grano, un po’ ci aveva fatto l’abitudine.

-Che andrai via.-  Tutte le farfalle che prima Eizabeth aveva nello stomaco morirono all’istante. Le si formò un enorme nodo in gola. Lei era fatta così, cercava di non pensare mai alle cose tristi. Cercava di pensare solo alle cose positive.

-Si, ma tanto tornerò prima o poi.- Ingoiò per impedire al nodo di farle scendere lacrime.

-Io ti aspetterò. Verrai a cavallo?- si avvicinò di più a lei.

-Credo di si.- Affermò ingenuamente poggiando la testa sulla spalla di Tim.

-E d’estate tornerai?- Lui poggiò la teta su quella di Ellie.

-Non penso.- Chiuse gli occhi, permettendo ad una lacrima di scenderle sulla guancia.

-Tu mi ami?- Domandò, abbassando la testa, per guardarla meglio negli occhi.

-Non lo so. Penso di si, tu?- e ancora le farfalle nello stomaco. I suoi occhi erano meravigliosi anche illuminati dalla luna. Lui  era bellissimo persino quando sudava la mattina, mentre trasportava le balle di fieno dal carro alla stalla con l’aiuto del nonno.

-Ti posso baciare, Beth?- Tim avvicinò ancora di più il suo volto a quello di lei.

Beth fece si con la testa, lui posò le proprie labbra su quelle di lei, tenendole premute per qualche secondo. Poi si staccò da lei e la guardò negli occhi.

Le stelle che si trovavano sopra di loro non erano paragonabili alla bellezza degli occhi innamorati dei due. Brillavano più di ogni cometa. Erano testimoni di un amore sincero e infantile.

Lei sarebbe tornata da lui, credeva.

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Capitolo 2
*** Il ritorno. ***


ciao
Lei partì, andò in città quando l’estate finì. I primi anni le mancò tantissimo la fattoria, le serate con Tim, i cavalli, le stelle che ogni volta guardava con i nonni, con Tim. Le mancavano le storie del nonno di Tim. Le mancava la spiga di grano in bocca, l’odore che proveniva dalle stalle dei cavalli, le mancava ogni mattina mungere il latte e poi prendere le uova.

Le mancavano i nonni, che sempre meno andavano a farle visita. Le mancava parlare delle capanne e dei cavalli senza sella con Tim. Le mancava essere chiamata Beth. Le mancava quando la mattina si svegliava alle 5, quando il gallo cantava. Aveva sempre odiato quel dannato gallo, tuttavia avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere svegliata da lui ancora infinite volte.

Le mancava sentire suo nonno che suonava la chitarra, poi suonare e cantare una canzone per sua nonna ballando in modo strano. La nonna arrossiva sempre, e lei sperava tanto di passare la sua vita così, in quella monotona armonia meravigliosa.

All’inizio chiamava spesso Tim, poi dovette fare i conti con la scuola, si era fissata che doveva imparare a suonare la chitarra, all’inizio suonava quella classica. Poi i suoi amici le fecero scoprire quella elettrica e abbandonò la chitarra che si era portata dalla fattoria.

Testi infiniti sulle campagne del Tennessee erano stati scritti e poi abbandonati. Adesso c’era solo la chitarra elettrica e l’odio verso il mondo. Aveva deciso di smettere con la scuola, una perdita di tempo. Era convinta che le infilassero nel cervello stronzate inutili, le volessero “fondere il cervello”. Iniziò a fumare, così, tanto per fare un dispetto ai suoi genitori. Poi i genitori cambiarono con l’età, litigavano sempre più spesso, quando si separarono lei aveva 14 anni, venne affidata alla madre. Il padre tornò in campagna.
A dir la verità era la madre che aveva voluto portare tutti in città. Lei non era nata in campagna. Lei amava la vita di città, e anche quando Elizabeth era piccola non si era mai adattata tanto bene all’aria aperta e ai cavalli.

Quando i genitori si separarono, lei seppe che il padre era tornato in campagna. Si ricordò dei cavalli senza sella e decise di imparare ad andare a cavallo. Voleva sentire quella sensazione che aveva provato quando il nonno l’aveva messa sul suo cavallo. Ma fare equitazione non era la stessa cosa.

I nonni ormai li vedeva solo a Natale, la campagna era un ricordo annebbiato e lontano. Tim lo sentiva sempre meno. Poi lui iniziò a lavorare.
Lei si dimenticò anche di lui.

Aveva perso il suo accento e le sue movenze da “ragazza di campagna” ormai. Stava tutto il giorno fuori dalla mattina alla sera, rischiava di essere bocciata quell’anno, non gliene importava molto comunque. Lei voleva solo suonare la chitarra. Non era mai soddisfatta di quello che suonava, forse perchè la chitarra elettrica non era quella più adatta a lei.

A volte spolverava la  sua chitarra “di prima” ma faceva riaffiorare tanti ricordi, che le ricordavano quanto ormai fosse effimera e monotona la sua vita. Poi il suo odio verso il mondo riusciva a esprimerlo molto meglio la chitarra elettrica.

A volte sognava di trovarsi ancora in Tennessee, con il nonno, Tim. La madre c’era sempre meno. Sembrava che per ogni ora che non stesse con lei guadagnasse soldi in più. Ma a lei non importava nulla dei soldi. Voleva solo una famiglia normale. Tuttavia la madre era così impegnata con il lavoro che non era riuscita a trovare un compagno.

Un giorno il telefono squillò, era la polizia. Pensò che l’avessero chiamata perché l’avevano sgamata mentre scriveva su qualche muro, o mentre faceva saltare in aria qualche motorino. Ma no, la madre era morta.
Cercò di non piangere, il cuore le faceva così male che non respirava, ma cercava di non piangere. Dopo un po’ le lacrime però le uscirono da sole.

Tutto quello che poteva fare era prendere una sigaretta e fumare, per consumarne una dopo l’altra. Fissava quella stupida chitarra classica come se potesse spiegarle perché diamine quella demente della madre avesse deciso di trasferirsi in città!

Potevamo vivere tutti felici, non si sarebbe mai separata da papà, io non avrei iniziato a fumare e lei non sarebbe morta in un incidente stradale.

Si ricordò di quando il nonno le diceva che era pericoloso andare a cavallo troppo piccoli. Che era pericoloso cadere. Le dicevano che non doveva mai andare da sola a cavallo finchè non avesse imparato ad andarci senza l’aiuto di nessuno.

Mia madre non era brava ad andare a cavallo, ma è morta in un incidente stradale.

Pensava sempre. E piangeva, piangeva così tanto che la mattina gli amici credevano che in preda alla depressione si fosse fatta di canne per quanto aveva gli occhi rossi.

I nonni stettero con lei finchè non fu deciso con chi dovesse stare.

-Con il padre.- disse il giudice sbattendo sulla superficie di legno un martellino anche questo di legno.
Ormai Elizabeth si era dimenticata di quell’uomo, tuttavia si aspettava questa decisione da parte del giudice.

-Preso tutto?- urlò il nonno, dalle scale mentre lei scendeva con le valige cariche di vestiti e con la chitarra in spalla. Gli amplificatori avrebbe voluto spaccarli, ma poi decise di portarli. Sarebbe stato più bello dargli fuoco.

-Si!- Per essere sicura tornò ancora in camera. Era completamente vuota, ma non le faceva effetto vederla così, lei non era legata a quel posto, non le venne nessun nodo in gola. L’unica cosa che le dispiacque veder ancora in mezzo alla stanza sola e “fuori luogo” era la chitarra classica che si era portata dalla campagna.

Gliel’aveva fatta un amico del padre quando era piccola. A quel punto mollò la chitarra elettrica e gli amplificatori li lasciò in mezzo alla stanza vuota. Sul pavimento scuro.

Afferrò la chitarra classica e corse giù, portando con se anche le valige che rimanevano e che il nonno non aveva ancora sistemato nel bagagliaio.   

Il nonno sembrò guardare per un attimo quasi commosso la chitarra che si era portata, come se avesse sperato fino all’ultimo che lei si portasse dietro quella e non la solita che suonava quando andavano a farle visita.

Nei cassetti lasciò solo le sue infinite scorte di sigarette. Non se n’era dimenticata, voleva solo non puzzare di fumo quando avrebbe rivisto i suoi vecchi concittadini.
Infilò i bagagli nel pick-up del nonno, aveva lo stesso da quando Elizabeth era piccola, se lo ricordava mentre girava per le strade polverose con le balle di fieno e con Tim che le portava fino alle case, sforzando al massimo i suoi muscoli.

Si ricordava che già a 11 anni Tim aveva la gli addominali. Chissà com’era diventato. Chissà se il nonno raccontava ancora le stesse meravigliose storie di un tempo.

Guardava fuori dal finestrino i palazzi scomparire, le strade diminuire sempre di più, il sole sempre più alto e luminoso.
Erano partiti la mattina presto, era stupendo vedere l’alba da fuori-città. In città non si vedevano nemmeno tanto bene le stelle.
Una volta da piccola aveva provato a creare la stessa atmosfera che era capace di creare Tim, ma il terrazzo –anche se più grande- non le trasmetteva le stesse emozioni. Un po’ per le stelle che non si vedevano, un po’ per la spiga di grano che le mancava, un po’ perché non c’era Tim.

-Come te la ricordi la città?- le domandò il nonno, mentre guidava.

-Bene, credo. Mi ricordo dov’era la piazza dove c’era il mercato la mattina, mi ricordo dove mi portavi sempre dal nonno di Tim. Mi ricordo il farmacista strano, la fattoria e i cavalli. Mi ricordo Tim dove abitava, dove abitava anche suo nonno e i nostri vicini. Mi ricordo che le stelle erano bellissime e mi ricordo l’odore delle stalle. Mi ricordo i falò, mi ricordo il signor Wolf quando mi regalò la chitarra…-

-Ricordi tante cose vedo.- il nonno sorrise, capendo che un po’ le era sempre mancata la “vita di campagna”.

-…Tim c’è ancora?- chiese subito. All’inizio pensò di andare da lui e stringerlo, non appena fosse arrivata. Ma non si vedevano da circa sette anni. Forse lui era partito per cercare un lavoro decente, comunque sicuramente si era scordato di lei.

-Certo! Ci sono tutti, o quasi tutti.- Il suo sguardo divenne all’improvviso triste e malinconico. Era ovvio che qualcuno dovesse essere morto. Qualche vecchietto di quelli che la mattina offrivano sempre un po’ di caramelle a Tim ed Elizabeth magari.

-Mio padre abita nella stessa casa di sempre?- sperava tanto di sì. L’unica cosa che sentiva davvero sua, l’unico posto che sentiva davvero di poter chiamare casa era quella fattoria vecchissima in cui vivevano con i nonni e migliaia di animali.

Quando fece quella domanda al nonno per un momento pensò anche al terrazzo e ai salti che faceva per andare da Tim. Le scappò un sorriso malinconico, di quelli che gli anziani mostravano quando riguardavano le foto di quando erano giovani.

-Certo, e i vicini sono quelli di sempre. Ci sono stati anche nuovi arrivi, sai? Anche dalla città.- Non le piaceva tanto che ci fossero stati dei “nuovi arrivi”. Quel posto era di chi lo abitava da quando v’era nato, come lei. Quel posto era di chi era nato, come lei, in una stalla, tra i cavalli. Quel posto era di chi masticava un ramoscello da quando aveva dieci anni. Quel posto era di chi aveva sudato per farlo crescere.

Chi era nato in città doveva rimanerci. Tuttavia la cosa più importante era che non le avessero “fregato” i posti in cui riusciva a trovare la serenità. Li conosceva solo Tim, probabilmente lui se li era dimenticati. Lei invece, ogni notte prima di addormentarsi immaginava di trovarsi poggiata alle radici di una grandissima quercia, il suo posto preferito.

Prese a tamburellare con le dita sulla propria gamba. Era impossibile che non fosse cambiato nulla, tuttavia sperava che almeno la maggior parte delle persone, e lei conosceva tutti, fossero rimaste le stesse.

L’estate era appena iniziata, ma lei sapeva che in campagna faceva già caldo, così si era messa dei pantaloncini che in città non avrebbe mai osato mettere.
Lì non c’era mai sempre la stessa gente, non si sentiva a proprio agio indossandoli.

-Pensi che qualcuno si ricordi ancora di me?- incrociò le gambe.

-CERTO! Come scordarsi la bambina pestifera che girava sempre con un ramoscello in bocca e voleva fare la grande con Tim?- gli scappò una risatina, ricordandosi dei guai che avevano combinato loro due insieme. Elizabeth tuttavia era sicura che Tim fosse cambiato, che fosse diventato come tutti i ragazzi a cui era abituata lei.  Era sicura che l’avesse dimenticata, o che comunque la considerasse solo un ricordo d’infanzia, un po’ come aveva fatto lei.

-Forse non mi riconosceranno, nonno.- ammise, iniziando a torturarsi le maniche della felpa grigia. Era una di quelle felpe che andavano tanto di moda in città. Sopra c’era scritto “ma anche no”. Ovviamente questa espressione non l’avrebbero mai usata dove stava andando. E non avrebbero capito cosa significasse, almeno i vecchi.

Si era sempre preoccupata di essere alla moda, non perché fosse una fissata ovviamente, ma perché in città venivi isolato se non ti vestivi in un certo modo. In campagna si poteva vestire come voleva, la moda non esisteva. Sempre che quelli venuti dalla città non avessero contagiato gli altri del posto.

-Ti riconosceranno, ti riconosceranno.- sorrise, come se nascondesse qualcosa. Tuttavia lui non era tipo da fare sorprese. Forse non era cambiata così tanto.

-Accendi la radio, nonna.- sapeva che tipo di musica avrebbero ascoltato, country, country e ancora country. Lei non ascoltava mai country, al massimo pop-country. Le piaceva quel genere di musica, più che altro le piaceva suonarlo.
Nell’auto calò il silenzio, Elizabeth iniziò a cantare giusto per fare un po’ di casino. Era una delle cose che aveva imparato in città, a scuola. Chi faceva casino era ganzo, chi faceva casino era una specie di mito. Ancora meglio se veniva sospeso.
Comunque si divertiva con i suoi amici a far incavolare i professori che esasperati chiamavano i loro genitori. La madre di Elizabeth ovviamente non si presentava mai. Non c’era mai per lei, ma forse era meglio così. Almeno Elizabeth non avrebbe sentito tanto la sua mancanza.

I nonni la seguirono, mentre cantavano ridendo. A volte si scambiavano sguardi sorpresi, forse non si aspettavano tanta allegria, forse si aspettavano che Elizabeth passasse il viaggio zitta, piangendo. Non era nel suo stile però piangere davanti agli altri. Non aveva MAI pianto per la madre nemmeno con i suoi amici, si lacerava il cuore da sola. Non voleva mettere a disagio le altre persone con i suoi lamenti e i suoi pianti, non voleva essere compatita. Poi non conosceva nessuno così bene da abbandonarsi in lacrime sulla sua spalla.

Dopo qualche ora di viaggio passata a cantare, il nonno si fermò. Elizabeth si accorse in quel momento di non aver guardato fuori dal finestrino la strada nemmeno un secondo, mentre cantava. Si era persa uno spettacolo meraviglioso, tuttavia lei conosceva luoghi meravigliosi, e non vedeva l’ora di rivederli. Ma prima voleva rivedere le vecchie persone, chi c’era ancora.

Prese le sue tre valige. Solo quando le aveva fatte si era accorta che aveva un mucchio di vestiti e di scarpe, eppure indossava sempre gli stessi!
Il sole delle due rendeva impossibile tenere i capelli sciolti, come era solita portarli Elizabeth. Goccioline di sudore già le scendevano sul petto. Posò un attimo i bagagli sul terreno polveroso e arido, si tolse la felpa.

Sotto la felpa aveva la sua maglietta preferita, una delle tante con la scritta “Hard Rock”. Era la più semplice, l’aveva comprata dove era andata ad abitare, a New York. Aveva vissuto tanto, troppo, tempo in città, ma comunque si ricordava com’era vivere in campagna. Tuttavia non aveva la minima intenzione di riprendere a fare le cose che faceva con il sorriso stampato sul volto quando a 12 anni ingenua correva per i campi.

Si legò la felpa in vita, riprese le valige e si diresse verso la casa dove sapeva avrebbe abitato per sempre.

-Nonno mi sono dimenticata di prendere la chitarra!- urlò, prima che il nonno chiudesse il bagagliaio non completamente vuoto.
Lo osservò mentre afferrava lo strumento, chiuse il bagagliaio continuando a fissare l’oggetto che aveva in mano. Iniziò a toccare le corde, stava suonando? Non era decisamente il luogo e il momento adatto, ma Elizabeth decise di stare zitta e assecondarlo.

-Non è nemmeno accordata, Ellie!- nella sua voce era evidente il tono di rimprovero, non troppo freddo e severo comunque.
Quell’esclamazione la lasciò un po’ confusa. Cosa importava al nonno se Elizabeth avesse accordato la chitarra? Poi lui sapeva che non la suonava da un bel po’ di anni.

-E’ normale, non la usavo mai in quella..- si bloccò immediatamente. Stava per dire merda di città ma fortunatamente si era ricordata che stava parlando con un adulto, un vecchio, con suo nonno. –In città.- Non era abituata a parlare con gli adulti, o a portare rispetto a qualcuno. Non conosceva regole, ma sapeva che tipo di linguaggio doveva usare con suo nonno per evitare ramanzine interminabili.

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Capitolo 3
*** A NEW AGE. ***


hhh
Appena arrivò davanti la porta suonò il campanello, iniziarono a sudarle le mani quando sentì dei passi, era suo padre. Non lo sentiva, vedeva, non pensava a lui da tanto, troppo, tempo. Aveva cercato di dimenticarlo negli anni in cui non l’aveva visto, così magari se la madre avesse trovato un compagno non avrebbe avuto problemi a considerarlo suo padre.

Sentì la porta scricchiolare, poi quando si aprì davanti a lei apparve la sagoma di un uomo che lei non conosceva. Ma doveva essere suo padre, per forza. Mollò ancora il bagagli e iniziò a squadrarlo, cercando di capire che forma avesse il suo volto dietro quella folta barba scura.

-Papà…?- mormorò inclinando di poco la testa.

-…Ellie!- disse lui sorridendo, era un sorriso così sincero e carico di felicità che poteva benissimo vedersi anche da sotto la barba.
Lei non l’avrebbe abbracciato.
Lei non poteva abbracciarlo, perché lui non se lo meritava. Poteva chiamare qualche volta mentre ancora la madre era viva? O magari una chiamata la poteva fare quando la madre era morta, magari solo per sapere come stesse SUA figlia.

-Vorrei portare queste in camera.- osservò le valige pesanti, senza accennare il minimo sorriso, fredda. Le faceva un effetto strano vedere il padre. Non era più abituata a quella realtà.

-Le porto io. La tua stanza è ancora quella di prima. Non è cambiato nulla.- Prese le valige, come se fossero piume. Salì su per le scale e posò i bagagli scuri davanti l’armadio in legno.

-Meglio così.- pensò ad alta voce. Non era sicura che il padre non l’avesse sentita. Quando arrivò nella stanza non potè fare a meno di sorridere, non sapeva il perché di quel sorriso. Le veniva solo da sorridere, come quando era piccola e amava ogni cosa. Forse era quella stanza, che trasmetteva tanta positività, spensieratezza e allegria.

Si sedette sul letto, prese ad accarezzarsi le gambe, osservando i mobili, gli stessi di un tempo. Persino i soprammobili che il padre doveva aver spolverato prima del suo arrivo erano gli stessi di una volta, ed erano come lei li aveva lasciati.

-Vado ad aiutare i nonni.- il padre uscì dalla stanza, lasciandola sola. Non si preoccupò di chiudere la porta, cosa che fece subito Elizabeth.
Voleva chiuderla a chiave ma nella serratura non c’era nessuna chiave.

Prese a girare intorno al letto, come se stesse riguardando se stessa che da piccola si alzava per andare da Tim, tutte le notti. Come se rivedesse la piccola Beth pettinare le bambole, dormire con i peluche e scrivere sul suo diario di cavalli senza sella. 

Scostò le tende giallognole che l’avevano riparata dal sole per tanto, tantissimo tempo. Si ricordava quando la madre ogni domenica le apriva, facendo entrare la luce, per svegliare la figlia che dormiva beata. Diceva sempre che dovevano andare a messa. Elizabeth amava andare in chiesa, lì si incontrava con gli altri bambini. Poi le piaceva cantare, con altra gente. Le piaceva cantare con sua madre, le piaceva quando la mamma ogni tanto si presentava con un nuovo vestito elegante per andare in chiesa, quando la madre le diceva che era stupenda, quando l’abbracciava e la teneva stretta per mano, dicendo che era pericoloso dividersi nella confusione dopo la messa.

Si carezzò la guancia, sapendo e accettando che quei baci non li avrebbe più ricevuti. Che non avrebbe mai più rivisto il suo volto mentre le consigliava quale vestito mettere, mentre la punzecchiava chiedendole se le piaceva davvero Tim. Nessuno le avrebbe mai più cantato nessuna ninnananna, come faceva lei.

Aprì la finestra, avanzando verso la ringhiera dell’ampio balcone. Posò le mani sul ferro fissando la casa dei vicini. Fissava il terrazzo, tirando su col naso. Non ci badava tanto. Dopo un po’ si accorse che le lacrime le avevano rigato il volto.

Cercò di bloccare il pianto, cercando di distrarsi, pensando ai cavalli, alle uova… ma ogni cosa le ricordava la madre. Tutto in quella casa dove la maggior parte del tempo lo trascorreva con lei, le ricordava quella donna. Sentì che le gambe le tremavano, pensava che ormai il peggio fosse passato che si fosse dimenticata della mamma.

Si sedette sul pavimento in piastrelle scure del balcone. Si portò le gambe al petto, poi poggiò la testa sulle ginocchia.

Non è giusto. Non è giusto!

Continuava a pensare, e non avrebbe mai smesso. Tirò su col naso l’ultima volta, poi si asciugò con il dorso della mano le guance rosse. Fortunatamente non si era truccata, quando abitava in città ogni giorno si contornava gli occhi di nero, quasi volesse far sembrare che le avessero tirato un pugno in un occhio.

Spesso si truccava per un ragazzo, non le piaceva tanto, ma le piaceva quando riusciva ad ottenere le sue attenzioni, i suoi abbracci.
La cosa migliore di quel posto era che non c’erano ragazzi che piacevano a Elizabeth, o almeno, lei si ricordava che non ci fossero tanti maschi della sua età. Ancora però doveva fare i conti con i nuovi arrivi.

Rimase a terra, a fissare il terrazzo del palazzo di fronte. Poggiò la testa al muro, come se quella posizione la rilassasse. Sentiva il sole bruciare sulla sua pelle, chiuse gli occhi per un momento.
Iniziò a sudare, ma non gliene importava molto. Voleva solo respirare quell’aria così… pulita?

In città c’erano sempre rumori da ogni parte, la festa del palazzo di fronte, i drogati che facevano a botte nel vicolo buio accanto casa sua, l’ambulanza che correva da tutte le parti, le auto, le moto, i bambini che piangevano.

In quel momento sentiva solo i nonni parlare di sotto, non capiva cosa si stessero dicendo, era un leggero brusio. Quando smisero di parlare sentì solo il canto degli uccelli, da piccola aveva fatto una lista di tutti gli uccelli del posto. L’aveva nascosta, poi. L’aveva fatta insieme a Tim. Era una cosa da femmine diceva sempre Tim, tuttavia l’assecondava, sempre.

In quel momento si accorse che le sue mani erano grigie di polvere, capì che il padre non aveva pulito il balcone. Chissà da quanto, poi.  Si alzò battendo le mani sul pantaloncino di jeans, tentando di pulirle. Si slegò la felpa dalla vita e la girò, era andata ormai. Era da lavare, assolutamente. Fortunatamente non era la sua preferita.

Rientrò in camera, buttò la felpa sul letto, dopo averla accuratamente appallottolata. In città era abituata alla signora delle pulizie, una spagnola di bassa statura con i capelli perennemente legati, era grassa e vecchia. Ogni tanto insegnava a Elizabeth qualcosa in spagnolo, forse lo faceva più perché pensava si sentisse sola. A volte dopo aver pulito guardava la TV con la ragazza, giusto per farle un po’ di compagnia.

Non che Ellie fosse sola in città. Aveva le sue amicizie, e il suo migliore amico. Lui riusciva a capirla, forse. Tuttavia sentiva che con lui poteva essere più sincera che con gli altri. I suoi baci e abbracci erano più confortevoli e sinceri degli altri. Sentiva che lui le voleva bene.

Aprì la prima valigia, quella dove c’erano le sue infinite t-shirt comprate in tutti gli “Hard Rock Cafe” in cui fosse mai andata, e altre che non ricordava nemmeno di avere.
Aprì il primo cassetto, dentro c’era un foglio giallo, c’erano parecchi fogli ingialliti dal tempo. Quando era piccola Ellie aveva la fissa di nascondere sempre tutto, così. Forse pensava che sarebbe stato divertente per qualcuno che fosse arrivato dopo di lei trovare le cose che aveva nascosto.

Prese il foglio, curiosa lo lesse. Era una poesia, lo girò un attimo, aveva scritto gli accordi di una canzone.

Ero davvero suonata.

Ovviamente la  base era country, le parole all’inizio non riuscì a leggerle per via della calligrafia, poi sorrise quando lesse la prima riga.

Tu dicevi “cavalcherò senza sella”.
 “Qual è il tuo nome?”
Tu dicesti “Tim Swife”
Guardavo i tuoi blu jeans, ogni volta speravo mi pensassi.

Quando tu eri felice e mi abbracciavi, io pensavo “Tim Swife, ringrazio Dio tu sia qui ”.
Mi portavi in posti bellissimi…

A quel punto Elizabeth aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Mollò tutto, lasciando il cassetto aperto e la maglia sul pavimento in legno scuro.

Prese la chitarra e corse verso la stalla, solitamente lì non c’era mai nessuno, a parte i cavalli. Iniziò a canticchiare la canzone, seguendo le note, sorpresa si accorse che se la ricordava. Il foglio era ingiallito, ma le parole si leggevano chiare.

Impugnò la chitarra e iniziò a cantare, non troppo ad alta voce, cercò di cantare più a bassa voce che potesse. Sentiva le note un po’ strane, era abituata a quelle della chitarra elettrica. La melodia che stava suonando le trasmise calma, tranquillità, la fece rilassare.

L’avrebbe cantata all’infinito, l’avrebbe registrata e messa sul suo IPod. Non l’avrebbe mai fatta ascoltare a nessuno, anche se forse Tim l’aveva già ascoltata. Ma come poteva ricordarsela? Chissà quanti altri testi aveva nascosto tra i mobili e le fessure della sua stanza. Per il momento era contenta di suonare a macchinetta quella melodia.

-Chi sei?- smise immediatamente di cantare, nascose il testo nella tasca dei pantaloncini sperando che la tizia non l’avesse sentita.

-Perché dovrei dirtelo?- sette anni passati in città l’avevano resa sospettosa, diffidente.. con tutti. Non si relazionava molto facilmente con le persone, a differenza di quando era piccola.

-Perché questa è la mia stalla, e questa è la mia casa.- Elizabeth si voltò immediatamente, quella era la /sua/ stalla, il suo posto segreto. Quella era solo una rompicoglioni.

-Ellie!- la riconobbe solo in quel momento, era una donna con cui non aveva mai fatto troppa amicizia. Si salutavano quando si vedevano, nulla di più.

-Penelope…?-  si alzò in piedi, tenendo ancora ben stretta la chitarra chiara.

-Fatti abbracciare! Ti aspettavamo!- chi l’aspettava? Era impossibile che tutta la città sapesse del suo arrivo. Lei non voleva che tutti sapessero del suo ritorno, voleva che fosse quasi una cosa clandestina.

-Chi mi aspettava?- non ricambiò assolutamente l’abbraccio della donna, le braccia rimasero a penzolare lungo i fianchi, mosce e bianche. In città tutti erano abbronzati, probabilmente, lei invece era di un pallore unico, e aveva anche avuto il coraggio di mettersi i pantaloncini!

-Tuo padre ed io.- la donna inclinò la testa, come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo. –Ci sono delle persone che vorrei presentarti.- Elizabeth inarcò un attimo un sopracciglio, convinta che la donna si fosse drogata. Ellie sapeva fare le canne, e in quel posto c’erano tante piante diverse per farle. Probabilmente la donna aveva sbagliato le dosi…

-Chi sono?- Elizabeth squadrò dal primo all’ultimo i ragazzi –o ragazzini?- che aveva davanti.

-I tuoi fratellastri, tesoro.- in quel momento Ellie si sentì mancare, le tremarono un attimo le ginocchia, perché suo padre non le aveva detto nulla? Perchè le aveva tenuto nascosto che avesse fatto altri tre, non uno o due, TRE! Figli con quella donna?

Ecco perché non era mai andata a trovarla, perché non la chiamava mai, perché era troppo occupato a sfornare mocciosi! Perché era più importante occuparsi di loro, fare loro foto, che chiamare la figlia che non vedeva da mesi e a cui era morta la madre.

La soluzione sarebbe stata “scappa di casa” ma quel piano andava bene per le grandi città, in quel posto l’avrebbero sicuramente trovata dopo due o tre giorni.
Corse con ancora la chitarra in mano a casa, in cerca del padre. Furiosa.

Non si trovava da nessuna parte tornò in camera, chiuse il cassetto e posò la chitarra. Il foglietto l’aveva ancora in tasca, probabilmente il padre stava andando dalla donna, per “scusarsi del comportamento di sua figlia”.

Lo vide mentre parlava con un tizio, sapeva bene chi era, il padre di Tim. Quando la vide in lontananza iniziarono a brillargli gli occhi, cosa che non era successa quando l’aveva vista suo padre. Cercò di sorridere, ma le uscì fuori solo una brutta smorfia che avrebbe preferito non fare.

Prese a correre verso il padre. Si fermò davanti a lui, guardandolo fisso negli occhi. Aveva l’aria incavolata, probabilmente perché Ellie aveva interrotto il suo discorso con l’amico.

-Perché non me l’hai detto?- strinse i pugni così forte da farsi male ai palmi delle mani con le unghie.

-Non ho avuto tempo, hai incontrato Penelope quindi…-  forse avrebbe preferito dire lui alla figlia che si era rifidanzato o sposato con un'altra.

-Non hai mai tempo! Non hai chiamato una volta, nemmeno una! Eri troppo occupato a scoparti Penelope, vero?- il padre non rispose, ma il suo sguardo diceva tutto. Carico di rabbia, per quella scenata che stava facendo davanti al padre del suo ex-migliore amico. Tuttavia l’uomo sembrava biasimare il padre.  –Vero?!- urlò, spingendolo. Fece un passo indietro, poi le strinse le braccia.

-Calmati Ellie!- disse a denti stretti.

- Secondo me ti da anche fastidio che io sia venuta a “distruggere” la nuova famiglia che ti eri creato, vero?- indietreggiò, guardandolo fisso negli occhi, il suo sguardo esprimeva tutto il suo rancore e il suo disprezzo verso il padre.

Si girò, dando le spalle ai due uomini. Chiuse ancora gli occhi, lasciò che le lacrime scendessero lungo le sue guance, per la seconda volta in un giorno. Andò dritto, verso il bosco. Voleva solo stare sola, magari cercare quei posti dove nessuno la trovava quando era piccola. Iniziò a piovere, anche se la mattina prometteva bene.

In quel momento avrebbe tanto voluto avere ancora la sua chitarra elettrica. Alzò lo sguardo al cielo, adorava la pioggia, specialmente d’estate, quando non faceva troppo freddo e poteva uscire, bagnandosi, giocando nelle pozzanghere.

Una figura scura veniva verso di lei, probabilmente era coperta da un impermeabile nero. Sicuramente era coperta da un impermeabile nero. Si portava dietro un cavallo, teneva lo sguardo basso, come se si vergognasse di guardare le altre persone in faccia.

Elizabeth potè vedere, quando gli fu più vicino i capelli castani che gli coprivano gli occhi.

-E’ meglio che torni a casa, il tempo fa schifo. Rischi di prenderti l’influenza.- aveva l’aria afflitta, malinconica, come se fosse successo qualcosa di brutto. Insomma, non tanto diversa da quella di Ellie.

-La pioggia è l’unica che sia mai riuscita a consolarmi davvero.- lo ripeteva sempre, da quando era piccola. Ogni volta che era triste e pioveva pensava sempre che la pioggia  cercasse di consolarla piangendo con lei. Il ragazzo alzò lo sguardo, Elizabeth riconobbe subito i suoi occhi verdi. Lui la fissò, socchiudendo gli occhi, come se non credesse fosse davvero lei.

-…Beth?- le scappò un sorriso, quando il ragazzo la chiamò in quel modo. La guardava sbalordito, la fissava. Lei stava facendo la stessa cosa.

-…Tim?- era sicura che fosse lui, doveva essere lui. Socchiuse gli occhi, incredula. Lei si ricordava di Tim come “il migliore amico con le lentiggini”. Dov’erano quelle lentiggini? Dov’erano gli occhioni verdi e impacciati del vecchio Tim? –Sei Tim?-
Allungò di poco la testa, per guardare meglio Tim da sotto il cappuccio nero dell’impermeabile. Era completamente fradicia, ma non ci faceva caso.

-E tu sei la m…- il ragazzo si bloccò, come se stesse per dire qualcosa di sbagliato. Ed Elizabeth sapeva bene cosa stesse per dire. La mia Beth.
Ogni volta che lui parlava di lei diceva che era sua. –Sei Beth?- Ci rimase un po’ male Ellie quando sentì il ragazzo bloccarsi.
Non poteva pretendere di riallacciare il loro rapporto e di farlo diventare come quello di una volta, così, subito.

-Sono la tua Beth.- Sorrise, guardava per terra non avendo il coraggio di guardare i suoi occhi. Ellie sapeva che erano cresciuti, che tante cose erano cambiate. Ma una cosa che era rimasta immutata erano le farfalle nello stomaco che aveva quando guardava l’amico.

-Avevi detto che saresti tornata a cavallo, senza sella.- Lui inarcò l’angolo destro della bocca, formando un mezzo sorriso.
Si alzò vento, Ellie iniziava ad avere freddo.

-Scusa se non ho mantenuto la promessa.-

-Invece l’hai mantenuta, sei tornata.- Alzò lo sguardo al cielo, socchiudendo gli occhi. –Io direi di metterci al riparo.- rise, rendendosi conto che il resto del mondo si era spento quando aveva incontrato lei.

-Preferisco prendermi una polmonite che tornare a casa.- lui sembrò capire, osservò il cavallo completamente bagnato.

-Ok, ma prima devo riportare lei a casa. Vieni da me. – Il cappuccio nero che gli copriva ancora mezzo volto, oscurando i suoi occhioni verdi, che Ellie ricordava benissimo. Li ricordava mentre le guardavano, innamorati. Mentre le dicevano tutto ciò che Tim non riusciva a dirle con le parole. Li ricordava come gli occhi di un bambino, un po’ troppo lontani dalla realtà.

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Capitolo 4
*** DREAMS ***


gigig Lui non aspettò una risposta, le prese la mano intrecciando le dita di Ellie alle sue, in un gesto così spontaneo che fece pensare a Elizabeth che forse non era cambiato poi tanto. Che loro erano destinati a essere migliori amici, per sempre.

Arrivarono nell’immensa stalla dell’amico, era enorme. Molto più grande della sua. Lui aveva anche più cavalli, non se la ricordava così grande. Eppure lì ci aveva passato intere giornate da piccina.

-Non la ricordavo così grande.- ammise Ellie osservando i cavalli.

-Infatti non lo era, l’abbiamo ingrandita da tre o due anni. Ho vinto un po’ di soldi vincendo gare a cavallo.- Ellie sapeva benissimo che con un po’ lui intendesse parecchi.

-Figo.-

-Figo!- lui le fece il verso, agitando le mani in un modo strano, che davvero Ellie non riconosceva.

-Scusa?- alzò un sopracciglio, guardandolo male.  

-Si vede che vieni dalla città.- rise lui, dissellando il cavallo nero.

-Io sono nata qui, non è colpa mia se sono stata portata via!- l’ultima frase la disse ridacchiando, rendendosi conto della cavolata che aveva appena detto. Si girò e lo vide di spalle, stava mettendo nella stalla il cavallo che si era portato dietro, si chiamava  Pioggia. Com’era diventata vecchia da quando era andata via Ellie.

-Io direi di rimanere qua, se proprio non vuoi tornare a casa.- Si tolse l’impermeabile nero, mentre si girava per guardare Beth. La maglietta grigia conteneva a fatica i suoi muscoli, le spalle erano larghe, le gambe muscolose e dai capelli castani si vedeva qualche ciocca dorata dovuta al lavoro sotto il sole. La mascella scolpita, coperta da un velo di barba. Aveva la barba? Proprio Ellie non riusciva a credere che fosse il suo Tim.

-Cosa è cambiato da quando sono andata via?- non aveva avuto il coraggio di chiederlo al nonno, e comunque le era sfuggito di mente, non credeva fosse importante. Ma vedendo Tim così cambiato, non potè fare a meno di porre quella domanda.

-Poche cose.-  disse, abbassando lo sguardo, mentre s’infilava le mani nelle tasche dei pantaloni.

-Ho tanto tempo.- Si gettò sulla paglia, chiudendo gli occhi. In quel momento sentiva di essere davvero a casa, tutto era al suo posto. Certo, se sua madre e suo padre fossero stati ancora insieme sarebbe stato meglio.

-E’ arrivata nuova gente, dalla città. Come te.- la infastidì quel come te. La gente nuova in città ci era nata e probabilmente non si sentiva nemmeno a suo agio in quella vita.

-Io qui ci sono nata. Ho vissuto qui fino a 12 anni, non come loro.- lui parve non ascoltarla, perso nei suoi pensieri. Chissà a cosa pensava. L’ultima volta che l’aveva visto così era perché… era innamorato. Ellie conosceva tutte le ragazze del posto, e nessuna era così bella da poter piacere a Tim.
Doveva essere una delle nuove arrivate. Ma alla fine, non le importava tanto.

-E’ morto nonno Joe, e i vecchietti che la mattina ci davano le caramelle.- Mostrò un sorriso malinconico, lo stesso di Beth quando aveva ripensato alla sua vecchia vita. –Ho un fratellino e poi basta, penso.-

-Mi dispiace per il nonno.- non aveva mai detto tuo o suo nonno, quando si trattava di Joe. Questo perché l’aveva sempre trattata come se fosse stata sua nipote anche lei. Le pizzicarono un attimo gli occhi, poi divennero lucidi. Le scese una lacrima che lei nascose con i capelli scuri, poi sorrise, anche lei malinconica. -E per i vecchietti, ci adoravano.- si concesse un’altra lacrima.

-Si, prendevano le caramelle solo per darle a noi.- Si sdraiò accanto a Ellie.

-Ci ostinavamo a tenere quel coso in bocca anche quando le mangiavamo.- rise della loro ingenuità.

-E’ vero, credevamo che per essere grandi bastasse avere in bocca una spina di grano.- rise anche lui, incrociando le mani dietro la testa.

-Sarebbe bello.- rifletté lei.

-Per il momento lasciamolo credere a mio fratello.- Ellie non era una di quelle ragazze che volevano sapere per forza tutto, che appena sentivano qualcosa di nuovo e importante iniziavano ad agitarsi, urlando come delle sceme. Era rimasta indifferente infatti, quando Tim le aveva detto del  fratello, infatti.
Tuttavia sentì una voragine nello stomaco, quando le disse del nonno. Forse la persona che voleva vedere di più era lui, solo lui. Aveva bisogno di vederlo, per tornare alla normalità.

Continuo a una recensione. Fatemi sapere cosa ne pensate. :D

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Capitolo 5
*** Changes ***


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Beth non aveva voglia di passare l'estate come aveva fatto gli anni precedenti in città.
Spesso andava in piscina, tuttavia in quella microscopica città non ce n’era una. Ma nemmeno privata, Beth non ci metteva nulla a scavalcare cancelli o recinti, a volte rubava. Il più delle volte faceva da palo, poiché doveva dei favori a quelli che organizzavano i furti. Poi erano i suoi unici migliori amici, doveva farlo per loro.

Passava le giornate a studiare, stranamente, non voleva essere bocciata. Tim lo vedeva qualche volta la mattina, ma dopo l’incontro sotto la pioggia praticamente non si parlarono più per settimane.

Stava camminando a passo veloce, non voleva che nessuno la fermasse o salutasse, quella sera di fine estate. Non aveva ancora litigato con nessuno, voleva solo andare in uno dei suoi “posti segreti” che ancora non aveva visitato.

Le mani nelle tasche del giacchino, la testa e lo sguardo basso per non essere notata. I capelli neri le coprivano metà volto. Dato che non guardava avanti, ma solo dove metteva i piedi, andò a sbattere contro una ragazza. Sentì un risolino fastidioso, roteò gli occhi.

Non alzò lo sguardo nemmeno un secondo, si scansò e proseguì.

-Hei!- sempre una voce femminile la chiamò da dietro. Si girò, alzò lo sguardo e vide una bionda vestita completamente in rosa. Era una delle nuove, sicuramente.

-Sei nuova, vero?- disse un’altra. Quella non era nuova, Ellie la conosceva benissimo, e l’aveva odiata tantissimo un tempo.

-No, sono Ellie.- Cercò di pronunciare quelle parole con tutta la rabbia e l’odio che avesse dentro. I suoi occhi mostravano tanto odio e rancore che Ellie se li sentiva in fiamme.
Ovviamente l’odiosa era rimasta scioccata, non se lo aspettava. Ellie riabbassò la testa non nascondendo un ghigno soddisfatto, poi proseguì per la sua strada.

Attraversò un ponticello, poi fece un tratto di bosco che ricordava a memoria, poi arrivò davanti ad un albero, il suo albero, o meglio, quello suo e di Tim.
Quando si ritrovò davanti una massa di ragazzi, vecchi e nuovi, insieme a gallinette bionde, pensò di aver sbagliato posto. Così si guardò un attimo intorno.

 No, era impossibile, lei conosceva a memoria ogni angolo di quella città microscopica, comprese le campagne vastissime.
Quello era il suo albero. Solo suo. Che diamine ci faceva tutta quella gente lì?
Forse qualcun altro aveva scoperto il posto, ma era praticamente impossibile cavolo. E poi Tim aveva il compito di… no, ovviamente non l’aveva protetto. Insomma, era diventato grande, pensava al lavoro e alle ragazze. Chissà quante biondine aveva portato lì…

-Beth!- vide Tim agitare una mano. Voleva andare via, non aveva mai amato la confusione, quando era lucida, o c’era troppa luce o non ci fosse nessuno spacciatore. No, quel clima non le piaceva.
Fece finta di non vederlo, quindi si girò per tornare a casa sua.

-BETH!- sentì nuovamente Tim chiamare il suo nome. Fu costretta a voltarsi, poi a dirigersi verso di lui.
5 minuti e sarebbe andata via. Sembrava una festa organizzata dalle ochette della sua classe, non una di quelle a cui di solito andava quando abitava in Tennessee. Non c’erano così tanti ragazzi prima, molti erano nuovi. Erano quasi tutti nuovi. Molti dei vecchi nemmeno c’erano.

-Dimmi.- Beth cercò di forzare un sorrisetto, almeno un po’ divertito. La cosa fu difficile, quando notò che era seduto su una radice del suo  albero, con seduta sulla gamba destra un’ochetta bionda. Si sentì profondamente tradita, ovviamente lei si aspettava sempre il peggio, da tutti. Pensava di non essersi fidata di Tim, non troppo. Invece si era fidata ciecamente di lui, e l’aveva… delusa.

-Come ti sembra la festa?- le domandò, giocando con una ciocca di capelli della bionda. Cercò di non fissare troppo i movimenti della sua mano, e soprattutto cercò di evitare i suoi occhi.

-Bella, davvero bella. Solo che non mi sento tanto bene, quindi penso che andrò via presto.- cercava sempre di sorridere, mentre si massaggiava lo stomaco, recitando.

-Posso presentarti un po’ di gente nuova, prima che tu vada. Ah, comunque piacere io sono Denise. Io e Tim stiamo insieme da due mesi.- sentì squillare la vocetta irritante della biondina slavata-fisicoperfetto. Sembrava un cheerleader, che troia. Poi perché aveva aggiunto che stava con Tim da due mesi?! Insomma, a Beth non importava, non importava a nessuno… POTEVA TENERSELO PER LEI.

-Non penso che sia una buona idea…- Beth stava già indietreggiando, pronta ad andare via.

-Dai, sarà divertente!- cercò di controllare il tic che le era venuto all’occhio quando quella biondina parlò nuovamente. Odiava la sua voce squillante.

-Ok, facciamo una cosa veloce però.- pur di non sentire ancora la sua voce replicare decise di assecondarla.
Roteò gli occhi, mentre Tim la guardava aggrottando le sopracciglia. Forse si aspettava di trovare Beth, in vece aveva trovato una fattona acida che odiava la razza umana e passava i suoi pomeriggi a suonare.

La bionda si allontanò, Beth la vide parlare con un gruppo di ragazzi, poi voltarsi verso di lei, indicandola.

-Beth ma cosa ti è successo?- Tim sgranò gli occhi, osservandole il braccio.

-Nulla, sono cambiata. E mi sembra che anche tu sia cambiato tanto, come questo posto del resto, no?- evitò di mettere parolacce ogni due parole, per sembrare più educata.

-Non sono cambiato. Non così tanto. Come te le sei fatte quelle?- sapeva benissimo di cosa stesse parlando, delle cicatrici sul suo braccio. Indossava sempre giacchini scuri, come quella sera. Solo che facendo particolarmente caldo si era alzata le maniche.

-Ero ubriaca, mi sono svegliata e avevo il braccio in questo stato.- disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ovviamente mentiva, ma non voleva che le facesse troppe domande.

Si era seccata di aspettare la bionda, così si voltò e se ne andò. Quella sarebbe stata l’ultima volta che sarebbe andata sotto il suo EX albero.

Si diresse verso casa a passo svelto, sempre con i capelli neri che le coprivano metà volto, tirando con gli anfibi scuri calci a tutto ciò che trovasse, calpestando ogni fiore. Si legò il giacchetto in vita.

Suo padre non era in casa, nessuno era in casa. Perfetto. Probabilmente erano usciti per cena. Forse quindi sarebbe rimasta sola a cena. Era stupendo cenare da sola. Diceva sempre.

Aprì il frigo, prese quello che trovò e iniziò a mangiare. Una vaschetta intera di gelato, due pacchetti di patatine e due bottiglie di birra. La birra in quel posto era ottima, doveva ammetterlo.
Seduta sulla sedia della cucina, con i piedi sul tavolo in legno scuro, si guardava intorno.
L’arredamento era cambiato, la tv più moderna, parecchi tappeti erano spariti, i divani erano diversi, il frigo era più grande e moderno. Non la sentiva più casa sua.

Si alzò e andò con una bottiglia di birra verso le scale che ancora scricchiolavano. Si chiuse in camera sua, l’unico angolo della casa che, forse per pigrizia, non era stato modernizzato.

Andò con la bottiglia verso il balcone, fissò un attimo la terrazza della villa difronte, poi, stando attenta a non far cadere dalle mani la bottiglia di birra, si arrampicò sul tetto e si mise a sedere, con le gambe al petto.

Prese a canticchiare una vecchia canzone, che le aveva insegnato nonno Joe quando era bambina. Tra un sorso e l’altro si faceva scappare qualche sospiro.
Fissava la luna, mentre si domandava che ore fossero, ormai doveva essere parecchio tardi.

Quando abbassò lo sguardo vide Tim rientrare in casa seguito dalla biondina, sapeva già cosa avrebbero fatto. Sentì una voragine aprirsi nello stomaco e risucchiarle tutto quello che aveva dentro.

Li vide entrare in camera di Tim, dalla finestra che conduceva al terrazzo. Lui la buttò sul letto, a quel punto Beth chiuse gli occhi e fiondò la testa tra le gambe, magari si sarebbe addormentata lì.

Si spinse le gambe maggiormente contro il petto, urtando la bottiglia di birra, che stava rotolando giù dal tetto. Si sporse per prenderla, ma era già lontana quando allungò il braccio.
Si mise in piedi, cercando di non perdere l’equilibrio, fece qualche passo e poi si allungò verso la bottiglia verde.
Il tetto era vecchio, una mattonella cedette sotto il peso di Beth, facendola scivolare. Riuscì ad aggrapparsi in tempo ad un angolo del tetto. Cercò di arrivare con le gambe sulla ringhiera del balcone, ma era troppo lontana.

Merda!

Chiedere aiuto non era nel suo stile. Cercava un modo per togliersi da quella situazione, quando sentì le braccia che si stancavano, e le dita che sudavano, facendola scivolare lentamente.
Cercò nuovamente di arrivare al balcone, ma non era abbastanza lunga.
Sentì la finestra della villa di Tim aprirsi, probabilmente sentivano caldo in due. Sperava che non la notasse, nel buio. O che non guardasse nemmeno fuori.

Stava per girarsi e tornare dalla bionda, quando la bottiglia di birra cadde sul balcone di Beth, rompendosi.
Il rumore fece sobbalzare Tim, che ovviamente notò Ellie.

-Oddio Beth! Ma che cazzo fai?!- urlò. Ellie fu pervasa da una sensazione di piacere, quando lui si accorse di lei. Aveva avuto paura, doveva ammetterlo.  E doveva anche ammettere che, in fondo, sperava che Tim l’aiutasse.

-Sono scivolata, non vedi? Testa di cazzo!- eccola che partiva con gli insulti. Le dita sudavano sempre di più, stava perdendo la presa. Tim doveva sbrigarsi se voleva salvarla.

-Sei proprio una deficiente.- pensò ad alta voce Tim, mentre dal suo terrazzo passava sul cornicione della casa di Beth per ritrovarsi sul suo balcone. Si arrampicò velocemente sul tetto, afferrando Ellie per le braccia, tirandola su velocemente. Come fosse un piuma.

-Idiota.- Ellie si asciugava le mani bagnate di sudore sulle gambe infreddolite, guardando in basso. Solo quando alzò lo sguardo, si rese conto che si trovavano sul terrazzo di lui, soli.
Notò che la bionda era sparita, e che Tim non se ne preoccupava minimamente.

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