Northwind

di Marguerite Tyreen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Things they change, my friend ***
Capitolo 2: *** Soldiers of fortune ***
Capitolo 3: *** The ocean is deeper than it seems ***
Capitolo 4: *** In the light Fandango ***
Capitolo 5: *** Epilogo: You keep on moving ***



Capitolo 1
*** Things they change, my friend ***


Buonsalve, gente del fandom Purpleiano *-*
Marg è tornata con un altro delirio dei suoi... No, seriamente, ho come l'impressione che questa storia mi sia effettivamente sfuggita di mano ^^” Principalmente perchè  qui dentro non succede davvero nulla: nel senso, se cercate azione e colpi di scena, vi garantisco che non ce ne sono ^^" Eppoi perchè, rispetto a quando è stata progettata, i personaggi hanno fatto quello che pareva loro e da otto pagine che dovevano essere, sono diventate ventotto ^^” Ad ogni modo è già tutto scritto: lo dividerò in cinque (?) capitoli per comodità dei miei occhi di talpa durante la revisione, ma bene o male i giochi sono fatti.
E niente, vi ringrazio di cuore se vorrete imbarcarvi con me in quest'avventura.
Un bacio,
la vostra disastrosa Marguerite <3


Desclaimer: I personaggi di questa ff non mi appartengono e tanto meno le canzoni citate, di cui i credits sono riportati di volta in volta. La storia è scritta con puro intento intrattenitivo, senza scopo di lucro né di dare immagine veritiera delle persone rappresentate.
 

***

Alla mia figlioletta adottiva Helena, compagna di fangirlosi deliri Purpleiani, che attendeva con ansia di leggere questa affollatissima ff.
Alla mia splendida Moglie e Musa, che spero mi perdonerà per averla stressata con la discografia di Hughes, in questi giorni.
Ad E, mio fondamentale vento del Nord: per tante cose che sa, troppe da elencare qui. Love ya, girls! <3

E a Tommy, of course.
 

***

***

Premessa: 

Nel 1976 i Deep Purple si sciolgono. Il chitarrista Tommy Bolin muore pochi mesi dopo in una stanza d'albergo, il cantante David Coverdale intraprende la propria avventura personale con i Whitesnake, mentre il bassista Glenn Hughes comincia un periodo errante tra viaggi, straniamento e ricerche di qualcosa che non trova. 
Ma la nostra storia prende il via nel 1989, quando Coverdale, per mettere fine al peregrinare sofferto di Hughes, ormai rimasto senza lavoro nel panorama musicale, gli offre una collaborazione nel suo ultimo disco. E si sa, la memoria è un vento impetuoso, pronto a travolgere qualunque cosa...

***

 

Northwind

 


Call on the northwinds when any clouds gets in my way
Nothin’ ever changes, the song remains the same
Feel I got a one way ticket,
Oh I’m sittin’, sittin’ on an empty train.

(David Coverdale, Northwinds)

 

 


 


 

God knows I've tried
so please don't ask for more.
Can't you see it in my eyes
this might be our last goodbye.
(Europe, Carrie)

It took so long to realize
And I can still hear her last goodbyes
Now all my days are filled with tears
Wish I could go back and change these years.
(Black Sabbath, Changes)

 

 

 

I. Things they change, my friend

 


Lake Tahoe (Nevada), 1989. Marzo.

Quando David se lo trovò davanti, non seppe dire chi dei due si sentisse più in imbarazzo: se lui, per essersi presentato ben vestito come un uomo d'affari londinese, o l'altro, per essere arruffato, in disordine, fradicio di pioggia. Tremava sulla soglia. Tremava e lo guardava con quei suoi occhi piccoli, infossati, un poco lucidi.
-Glenn... - la frase gli morì sulle labbra. Si era preparato al peggio, nei giorni precedenti, nell'attesa che arrivasse: non credeva certo di avere di nuovo a che fare con la splendida, vivace, irrequieta creatura dei tempi dei Purple, ma nemmeno con l'ombra dell'uomo che aveva conosciuto.
-Glenn! Buon Dio, quanto tempo! - lo abbracciò di slancio, sfregando la gota contro la sua: era scavata e ruvida per la barba non rasata – Ehi, ma non mi riconosci? Sono così invecchiato?
Hughes se ne era rimasto in silenzio, immobile nel suo abbraccio, la fronte abbandonata sulla sua spalla.
-Beh, che hai? È questo l'affetto che si dimostra a un vecchio amico, dopo anni? - istintivamente gli stampò un bacio sulla guancia, cercando di metterlo a suo agio.
Hughes rispose all'improvviso, stringendolo forte, convulsamente, fino a fargli mancare il fiato. Credette di sentirlo singhiozzare, ma non riuscì ad accertarsene, perchè lui aveva nascosto il viso tra i suoi capelli. Sembrava avere una gran voglia di essere abbracciato, accarezzato, di trovare rifugio e pace dopo avere vagato per troppo tempo senza meta.
Si accorse in un istante che la sua vita, al confronto alla propria, doveva avere mille dolorose sfumature, essere impregnata dell'odore di mille luoghi, di mille viaggi. Probabilmente, per quanto anche lui avesse visto il mondo, non l'aveva davvero vissuto, perchè i suoi occhi non erano mai mutati e forse nemmeno la disposizione d'animo che, alla fine, era quello che contava. Mentre passava la mano sulla nuca di Hughes, tra i suoi capelli, si chiese se mai fosse riuscito ad essere qualcosa di diverso da quel ragazzo dello Yorkshire che era stato.
-Mi sei mancato, lo sai? - gli sussurrò senza trovare il coraggio di lasciarlo andare – Fottuto bastardo che non sei altro, ma una cavolo di telefonata potevi pure farla.
Il bassista non rispose, continuando a respirare profondamente e sciogliendosi a poco a poco sotto le sue mani.
David non disse nulla, tormentandogli una ciocca tra le dita, aspettando che le parole gli tornassero, finchè l'altro non prese a parlare con la voce che gli tremava: - Ho provato a scriverti, a Monaco, ma le lettere mi sono sempre tornate indietro.
-Non sto più in Germania da un po'.
-Devo proprio aver perso la cognizione del tempo. Sei cambiato, Davey.-Eh, gli anni passano per tutti.
-No, non intendevo quello. È che sembri un rispettabile broker di Wallstreet, adesso. Hai persino un altro profumo. Non che mi aspettassi di trovare davvero odore di casa qui o in te. Quanto è passato?
-Tredici anni, ormai. Dio mio! Dove sei stato per tutto questo tempo, Glenn?
Gli rivolse un'occhiata stanca, rassegnata: - Una sola regola, Davey, eppoi possiamo parlare di quello che vuoi: nessuna domanda, ti prego.
-Come preferisci. Posso almeno evitare di tenerti in piedi nell'ingresso e farti sedere da qualche parte?
-Sei solo? - si guardò attorno, mentre David lo conduceva attraverso il corridoio fino ad uno dei salotti.
-E' un caso che lo sia: sai che mi è sempre piaciuta la compagnia.
-Non c'è tua moglie?
-Mia moglie? Dipende quale intendi: non è più la stessa che ho sposato ai tempi dei Purple.
-Beh, quella che sta con te adesso, ovvio.
-Ah, è ad Hollywood a girare un film, dice lei.
-Non va molto bene tra di voi, vero?
Scrollò le spalle: - Sono cose che capitano.
-Ah, smetti di fingere indifferenza, lo so che per queste cose ci hai sempre sofferto come un cane.
-Mi conosci bene, eh? Beh, almeno mi dà una buona ragione per scrivere.
-Ed una ancora più buona per bere.
-Non ho più l'età per certi eccessi. - si sedette sul sofà, battendo la mano sul posto a fianco – Vieni qui.
-Ti sei sistemato bene, vedo.
-Già.- era a disagio: sapeva che per Glenn gli affari erano stati tutt'altro che prosperi, negli ultimi tempi. Gli passò un braccio attorno alle spalle, tirandoselo vicino, cercando di scaldarlo col proprio corpo, ma sembrava che il suo freddo arrivasse da molto più lontano.
-L'ho sempre saputo che tu eri forte, David, che ne saresti uscito e che avresti proseguito dritto per la tua strada. Sei nato per il successo, era chiaro fin da quando eri ragazzo. Ma io e, soprattutto, Tommy... - si prese il viso tra le mani – Povero piccolo Tommy! Che cosa terribile è stata leggere della sua morte. Ci penso sempre. Penso sempre che forse non abbiamo davvero capito quanto fosse grave il suo malessere, perchè c'eravamo dentro tutti fino al collo.
-Lo so, lo so: il pensiero mi tormenta ancora. Credo che avremmo dovuto stargli più vicino, anche se non voleva essere aiutato. Me lo ricordo, premeva sempre l'acceleratore della sua vita a tavoletta: era troppo grande il gioco in cui era entrato, per una creatura come lui. Me lo aspettavo, dopotutto. E la cosa brutta è che non ho fatto altro che attendere la notizia, seduto sul letto a comporre canzoni, perchè mi ripetevo che le persone si possono salvare soltanto da sole.
-E' per questo che mi hai chiamato qui? Hai cambiato idea? - Hughes scattò in piedi, guardandolo fisso, attraverso le lenti gialle degli occhiali.
-Cosa vuoi dire?
-E' perchè non hai salvato lui, che adesso ti sei messo in testa di salvare me?
-Dio mio, Glenn, no: ma che ti viene in mente? Io proprio non... siediti, per favore.
-Io non ho bisogno di aiuto. Né del tuo né di nessun altro.
-Se è così che la vedi, potevi anche risparmiarti il viaggio fin qui.
-Avevo voglia di riabbracciarti. Sei uno dei pochi che ancora si ricorda di me.
-Glenn. - si alzò per raggiungerlo – Ma credi che ci stia bene a vederti ridotto così? Li leggo anch'io i giornali e so che non hai più composto niente di...
-Buono?
-No, di sereno, di ispirato, da anni. Lo so che non ne sei ancora uscito, Hughesy. Ma io davvero credo che se smettessi con quella roba, il mondo della musica ti spalancherebbe le porte di nuovo. Sei un talento straordinario e stai gettando tutto per...
-Per cosa? Dillo, Dave! Per i miei demoni. Ma tu non puoi capire cosa ho dentro, cosa mi sta divorando. Vorrei esserci io al posto di Tommy, adesso: almeno troverei un po' di pace. E invece mi chiedo perchè sia ancora qui. Forse perchè vivere è una condanna peggiore.
-Che cazzo stai dicendo? Dimmelo: cosa ti sta uccidendo, Glenn? - lo afferrò con forza alle spalle – Dimmi cosa posso fare per te!
-Come speri di capire, tu, con la tua bella casa, la tua vita perfetta, il tuo successo?
-Se non parli, non spero lontanamente di capire. Io voglio aiutarti, è vero, ma tu non vuoi essere aiutato. Cos'hai intenzione di fare, Glenn? Di arrivare fino all'orlo del baratro, eppoi? Gettarti di sotto o scegliere di tornare indietro? E sarai sicuro di farcela, a tornare indietro?
Abbassò gli occhi: - Non lo so, non mi importa, Coverdale.
-Dio mio, Dio mio! - prese a coprirgli le gote di baci lievi e fitti – Non puoi andartene anche tu.
-Stringimi. - sussurrò in un soffio – Stringimi forte.
Si abbandonò tra le sue braccia e scivolarono entrambi in ginocchio sul pavimento, sopra al tappeto che guardava il camino.
Rimasero allacciati per alcuni istanti, prima che Glenn si sedesse, appoggiando la testa al divano, stancamente: - Scusami.
-E di cosa? Sei qui, adesso: avrò cura io di te.
-Parlami dei tuoi progetti, Davey.
Il cantante si prese un lungo momento, prima di rispondere, facendo precipitare la stanza nel silenzio.
-Ma come fai a vivere in questa quiete, Cov?
-Amo questo posto. Non potrei vivere da nessun'altra parte. Che c'è che non va?
-C'è poco rumore. Ma non hai paura di sentire il frastuono dei tuoi pensieri?
-I miei pensieri non mi spaventano. Non quanto i tuoi spaventano te, almeno. - ci riflettè – Sono abituato a me stesso, alla mia presenza, ai sentimenti che devo mettere sulla carta.
-Stai mentendo. - sorrise, voltandosi a guardarlo.
Lui arrossì vistosamente, togliendo una sigaretta dalla tasca della giacca e accendendosela per nascondere l'imbarazzo: – A dire il vero questa pace non c'è quasi mai. Sì, sì, hai ragione, anch'io ho paura, a volte. È per questo che mi piace avere attorno le persone. Ci sono alcuni momenti in cui vorrei tutti quelli che amo riuniti in una sola stanza, a parlare con me, in modo da non sentire la voce dei miei pensieri.
-Lo immaginavo.
-Ma non cerco più di distruggermi, per distruggere loro. Scrivo, è un buon modo per fare della catarsi. Sai, se fossi arrivato un paio di giorni fa, probabilmente avresti trovato un bel trambusto. I ragazzi... intendo, i ragazzi della band sono ripartiti che è poco. Ma Adje, voglio dire, Adrian Vandenberg sarà di ritorno tra tre o quattro giorni: ha finito di aggiustare le ultime cose. Ma i brani che ho scritto pensando alla tua voce nei cori sono già pronti. Anzi, se vuoi – si alzò, spolverandosi i pantaloni – vado a prendere i testi, così puoi darci un'occhiata, dirmi cosa te ne pare: mi sono sempre fidato del tuo orecchio.
-Se non ti dispiace, lo farei domani, Davey. Ho avuto un lungo viaggio. Me la posso fare una doccia e andare a letto?
-Naturalmente.- gli tese le mani, aiutandolo a mettersi in piedi e approfittandone per trattenerle un poco nelle proprie – Ti ho fatto preparare una stanza di sopra, cerca di dormire, Glenn.
-Ormai faccio sempre più fatica.
-Hai bisogno di rimetterti in sesto, ma vedrai che qui ci riuscirai. Sai che puoi rimanere quanto vuoi, non è vero?
-David, non riesco più a restare nello stesso posto troppo a lungo.
-Qui è diverso. Qui ci sono io. - si morse le labbra.
-Le cose sono cambiate, Davey. Non siamo più quelli di un tempo. Io non sono più quello di un tempo. E forse nemmeno tu.
-Io ti ho sempre aspettato, in qualche modo. Non ho mai perso le speranze che, un giorno o l'altro, saresti tornato da uno dei tuoi folli viaggi e ti avrei trovato davanti alla mia porta. Ma non ti aspettavo così. Ti ricordi quando...
Gli posò la punta delle dita sulle labbra: - Non facciamoci altro male, Davey. Salgo le scale?
-Sì, la terza porta sulla destra. Vuoi che ti accompagni?
-No, penso di farcela.
-La stanza prima è la mia, nel caso avessi bisogno di qualcosa.
-Ok. - si tormentò le mani – Ok.
Il cantante si accorse di essere tornato a respirare regolarmente solo quando non udì più i suoi passi. Dal momento in cui Glenn era entrato in quella casa, David aveva trattenuto il respiro, cercando di ascoltare il suo, di capire, dietro i suoi silenzi, le esperienze attraverso cui fosse passato, di trattenere una lacrima di delusione o soltanto di nostalgia. Ora, seduto al tavolo, davanti ad una coppa di cognac, si chiedeva anche il perchè l'avesse invitato a venire. Forse perchè si aspettava che il loro incontro fosse diverso: un bicchiere, qualche chiacchiere, troppi ricordi. Forse perchè fino all'ultimo aveva sperato di rivedere in lui quello che aveva perso, finendo invece per ritrovare una creatura più smarrita di quanto egli non fosse. Forse perchè avrebbe avuto bisogno di essere abbracciato e salvato ma, non potendolo fare, aveva deciso di abbracciare e salvare Glenn.
Il silenzio era davvero insopportabile: riusciva a sentire lo sciabordio dell'acqua nella stanza degli ospiti. Accese la radio, restando a fissarla con aria stanca e distratta. C'era sempre quello strano scherzo del destino che associava alla situazione una canzone troppo triste per riuscire a farlo sentire davvero meglio. O, più semplicemente, tendeva soltanto a notarla con più attenzione. Passavano Carrie degli Europe, con le sue note malinconiche e la voce appassionata di Joey Tempest. Girò la manopola del volume, affinchè restasse solo un sottofondo lieve, capace di rompere l'immobile quiete dell'aria.
Le cose possono cambiare. Sembrava che anche il testo glielo volesse ricordare. Le cose sono cambiate.
Si versò un altro goccio di cognac, scaldandolo tra i palmi, attraverso il vetro, e perdendosi ad osservarne il colore ambrato dentro il quale si infrangeva la luce dorata del camino.

 

California, 1974. Aprile.

-“C'è pieno di mosche in California”? Questa è buona, Davey. - rise Glenn, accompagnandolo nel camerino – Adesso ti ricorderanno come quello del pessimo deodorante, anziché come il glorioso cantante dei Purple.
-Tu credi che sia stato così sconveniente dirlo? - l'altro era arrossito fino alla punta del naso.
-Ma va': è stata una trovata simpatica.
-La verità è che non so mai cosa dire, sul palco. - si strinse nelle spalle – Mica l'ho mai vista così tanta gente, io.
-Non serve che lo giuri, si vede lontano un miglio. - rise il bassista, sfilandosi la camicia bianca e passandosi un asciugamano sul collo – Fai troppa tenerezza, Dave.
-Che? - non aveva fatto in tempo a sedersi che subito scattò in piedi – Sono una rockstar, cazzo, non devo ispirarti tenerezza!
-Sono impazziti tutti stasera: vedrai che riuscirai a tenere perfettamente il palco prima di quanto tu creda.
-Sono felice, Glenn. - ammise con un sospiro – Sono così felice che vorrei abbracciare tutti. Anche te.
Si strinse a lui con slancio, con una spontaneità che non lasciò ad Hughes nessun'altra scelta se non rispondere all'abbraccio, carezzandogli la schiena.
-Fai progressi, amico. Non sembri nemmeno più il ragazzino arruffato e infagottato in un maglione fuori moda che mi hanno presentato qualche mese fa. Lo sai? Non avrei puntato una sterlina, su di te. - gli passò le mani sotto il tessuto della maglietta, sfiorandogli i fianchi.
David chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un borbottio basso ed estatico, come le fusa di un gatto.
-Che hai?
-Bastardo, è il mio punto debole.
-Davvero? - rise, disegnando piccoli cerchi con i polpastrelli sulla sua pelle – Diventi di giorno in giorno sempre più bello. Eri radioso, sul palco, non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso. C'eri tu, solo tu. Tu e quella tua dannata asta del microfono.
-Che hai contro il mio microfono?- si ritrovò a fissargli quelle labbra un po' troppo vicine.
-Ma possibile che non ti accorgi l'effetto che fai?
-L'effetto che faccio? A chi?
-Oddio, David, ma certe cose non ve le insegnano, nello Yorkshire? L'effetto che fai con quell'accidenti di microfono.
-Non so, è una specie di mia estensione. Io sento solo la musica. La sento addosso. - avvampò.
Glenn accostò la bocca al suo orecchio: - Io mi sento addosso molto altro che non sia la musica. Dimmi la verità: te la fai con Blackmore?
-Ma cosa ti viene in mente?- respinse dolcemente le sue mani.
-Meglio così. Blackmore finirebbe per distruggerti, lo sento, come ha distrutto la sua storia con Ian. Io e te siamo il nuovo slancio positivo, qui dentro. Tu sei destinato a brillare. - gli tormentò il lobo con la punta dei denti.
-Glenn, togli le mani, dai.
-Fatti coccolare un po', poi ti lascio andare. - gli affondò le dita tra i capelli, incurante che Blackmore avesse aperto la porta.
Il chitarrista si schiarì la voce, entrando. Cacciò a entrambi un'occhiata delle sue, fulminea e diretta, prima di riporre la Stratocaster nella custodia.
-Hughes, aspetta di arrivare in albergo, almeno. - lo freddò, senza più rivolgere a nessuno un solo sguardo – Poi puoi sbattertelo, dove e come vuoi. Quanto a te, ragazzo, vedi di risparmiare la voce, nel caso.
-Non è come sembra, Blackers. - Coverdale lo rincorse sulla soglia, agitando le mani, con innocenza – Voglio dire...
-Sono affari che non mi riguardano. Tu, piuttosto, cerca di ricordarti come finiscono queste cose, quando si lavora insieme. Quello che ti ho raccontato... - prese una lunga pausa amara, oscurandosi in volto – Quello che ti ho raccontato di Ian e di me non è servito a molto, mi pare.
-Ma noi non...
-Non mi interessa. Lo dicevo per te.

 

Non ricordava esattamente come fosse andata, dopo. Probabilmente era rimasto qualche minuto buono a guardare la sagoma nera di Blackmore sparire nel corridoio, qualche altro tra le braccia di Hughes che aveva continuato ad accarezzarlo e il resto della nottata tra le lenzuola con una delle tante groupies che ruotavano attorno alla band e che si trovava puntualmente tra i piedi. Non che la cosa gli dispiacesse davvero, in fondo: si trattava solo di farci l'abitudine. Come si trattava di fare l'abitudine a tutti gli sfarzi restanti, per lo più sconosciuti per un ragazzo dello Yorkshire.
Un rumore improvviso, come di qualcosa che si schiantava sul pavimento del piano di sopra, lo fece trasalire a tal punto che il bicchiere gli scivolò di mano, frantumandosi sul tavolo in grosse schegge di cristallo. Non vi badò, imboccando le scale di corsa.
 


(Continua)

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Capitolo 2
*** Soldiers of fortune ***


Giusto due parole, prima di dileguarmi e lasciarvi al capitolo ^^
Nella prima parte, credo di essermi presa vagonate di licenze poetiche su come andò effettivamente l'audizione di Bolin, ma dovendo scegliere tra il - poco e contrastante - materiale che sono riuscita a reperire e la mia personale visione con cui ho immaginato tante volte la scena, ho preferito la seconda, da pessima scribacchina ma onesta fangirl quale sono xD Per quanto riguarda la frase di Hughes sul portarsi a casa il chitarrista, è stata effettivamente pronunciata, come ha dichiarato in un'intervista: 
"It was the very first time I saw Tommy (...) He came into the rehearsal studio and I saw him and shouted: Whatever happens, I'll take you home tonight." ;)
E niente, spero di non mettervi troppa ansia con la parte centrale nè troppa malinconia, in generale ^^"
Un grazie enorme e un bacio altrettanto enorme, 
la vostra Marg.


Many times I've been a traveller 
I looked for something new 
In days of old 
When nights were cold 
I wandered without you.
(Deep Purple, Soldier of fortune) 


Without a thought, without a voice, without a soul
don't let me die here
there must be something more
bring me to life.
(Evanescence, Bring me to life)


 

II. Soldiers of fortune

 

Los Angeles, 1975. Primavera.

Se c'era un problema a stare nella stessa band con David, era la sua ansia. Non che lo desse davvero a vedere ma, dopo quei due anni passati a collaborare, Glenn aveva imparato a riconoscerne i segnali. Era chiaro nel modo in cui si rigirava il bicchiere tra le mani, prima dei concerti, oppure nella camminata attorno al perimetro della stanza tormentandosi i capelli o le labbra, o ancora nel sorriso che si faceva tirato, solcandogli la guancia sinistra con una piccola fossetta. E, adesso, era particolarmente nervoso e non riusciva a trovare requie.

-Ma ti vuoi calmare? Stai dando sui nervi anche a me.
-E' in ritardo. Gli avevo detto alle nove.
-Sono le otto e cinquanta, David. Non è in ritardo, sei tu in anticipo. Ma davvero non hai altre occupazioni?
-Non ne ho. E tra l'altro, sono tre notti che non chiudo occhio. Se mi capita Blackmore a tiro, giuro che lo strozzo con queste mani per tutte le rogne che ci ha dato andandosene. Lo giuro sulla riserva di Scotch del '57 che mia madre tiene al pub.
-Te la prendi troppo, tu.
-Me la prendo troppo? Se non riusciamo a trovare un chitarrista decente, siamo fottuti, Hughes. Me la prendo troppo perchè siamo stati tutti talmente abituati ad obbedire a Blackmore che abbiamo dimenticato come si tiene la leadership di un gruppo.
-Tutti tranne te. - rise Hughes, rigirandosi tra le mani il nastro con i brani del nuovo chitarrista, che avrebbe dovuto presentarsi allo studio per l'audizione – Di' la verità che da un lato sei contento che il vecchio Blackers abbia tolto il disturbo per prendere le redini della carrozza.
-Per rischiare lo scioglimento e la carriera e tornarmene a vendere stoffa al metro a Redcar? No, grazie. Ambizioso sì, ma non sprovveduto, non più ormai.
-Ma questo Bolin ti convince?
-Ho rotto le palle a Lord a casa, in piena notte, quando l'ho sentito per la prima volta. Quindi sì.
-Fossi stato in Lord ti avrei tirato una secchiata d'acqua. - lo afferrò ai fianchi, trascinandoselo sulle ginocchia – O forse no, avrei solo scostato le coperte nel letto.
-Dai, lasciami. Cazzo, Glenn, aspettiamo gente. Sii serio, per la miseria! Questo Bolin è una specie di genio: sembra che nessun genere abbia segreti per lui. Né il rock, né il blues, né il reggae. Io credo che ci seguirebbe in quel tuo progetto di aggiungere nuove sonorità a quelle tipiche dei Purple, andando oltre la tecnica di Blackmore.
-Sono curioso di conoscerlo, questo tuo genio. - il bassista alzò un sopracciglio, scettico.
Un rumore di oggetti rovesciati e una risata fragorosa ruppero la quiete degli studi.
-Dieci sterline che questo è lui. - commentò Coverdale a mezza voce, premurandosi di scendere dalle gambe di Hughes, prima di rispondere “avanti” ai colpi alla porta.
Sulla soglia apparve una creatura infagottata in una camicia bianca troppo grande, con un foulard avvolto attorno al collo in diversi giri e una chioma ribelle, multicolore, intrecciata a piume. Puntò addosso ad entrambi un paio d'occhi scuri - i più scuri e profondi che Glenn ricordasse d'aver incontrato - studiandoli con attenta discrezione.
La voce era lieve e sottile, l'accento marcatamente americano quando disse: - Sono Thomas Bolin. Tommy. Insomma, quello della chitarra.
Sorrise appena, ma fu sufficiente perchè il viso dolcemente pieno e infantile gli si illuminasse. Posò la custodia a terra, fissandosi poi le punte dei piedi. Socchiuse gli occhi, come se stesse facendo un notevole sforzo di memoria: - Coverdale e Hughes, vero? O è l'inverso? Sono sempre stato un tale disastro coi nomi. Lei è quello che mi ha contattato, giusto?
-Io? - David avanzò di qualche passo, con aria pensosa.
Glenn lo osservò mordersi le labbra, incuriosito. Sembrava essersi completamente smarrito nell'aura delicata ma palpabile di quel piccolo chitarrista dall'aspetto insolito. E, del resto, non riusciva a dargli torto. Se, quando suonava dal vivo, riusciva a metterci la stessa grazia femminea e morbida di quando semplicemente se ne stava in piedi o accennava un paio di parole, allora avrebbe rubato la scena a tutti. Avrebbe incantato tutti come adesso lo stava facendo con loro.
Il bassista sentiva di starlo osservando con insistenza, al limite della scortesia, e pregò che l'altro fosse troppo emozionato per l'audizione da non accorgersene. Non riusciva a farne a meno: era mille miglia lontano dalla sensualità sfrontata di Coverdale, ma era capace di inchiodare lo sguardo di chiunque con un solo svolazzo della mano.
-Lei non è il signor Coverdale?
-Il signor... sì, sì, naturalmente. - rise, un po' impacciato – E' che proprio “signor Coverdale” non mi si addice. Mi pare di sentir chiamare mio padre. - gli tese la mano – David. E poche formalità, è meglio.
-E' meglio davvero. Voglio dire, da noi in America è tutto molto più... easy goin'
, ma con voi Inglesi non si sa mai come muoversi. - scherzò Bolin, stringendosi nelle spalle, prima di presentarsi a Glenn.
Aveva le dita sciupate di chi suonava da una vita ed un sorriso accomodante e amichevole, ma quando il bassista ebbe i suoi occhi così vicini, per un attimo credette di vedere una ferita, un abisso oscuro in cui sarebbe stato facile precipitare, in cui forse egli stesso stava precipitando. Lo notò chiaramente, perchè era la stessa martellante, ossessiva fiamma di distruzione che anche lui sentiva dentro, le notti in cui la troppa luna finiva per schiarire i pensieri. Nonostante la bellezza soave e ispirata, Bolin non era luce. Non era luce piena, ma quel sole malato che è sempre inseguito dalle ombre, da una fitta rete di nubi pronte ad addensarsi. Ne ebbe quasi paura, ma lui stava lì, con quella sua espressione dolce, la mano nella sua, non sapendo se fosse scortese ritrarla.
-Beh, suonaci qualcosa, no? Ti va? - era una domanda di cortesia, quella di Coverdale, che si raggomitolò sul tavolo come un grosso gatto, tirandosi le ginocchia al petto.
Li aveva tratti d'impaccio: doveva ricordarsi di ringraziarlo.
Bolin si accoccolò a terra, accanto all'amplificatore, dopo avervi collegato la chitarra: - Sono qui per questo, no?
Si mise a suonare con una grazia spontanea, come se non stesse nemmeno dando peso alle note che produceva, come se le corde fossero una estensione naturale delle sue mani. Invece l'esecuzione era pulita, impeccabile. Ci rise sopra: - Non riesco mai a star fermo. Appena ho un attimo, ho bisogno di suonare. Non posso tenere tranquille le dita.
Intanto, nella stanza, si espandevano i riff secchi e fulminei di Hard chargin' woman, una vecchia canzone degli Zephyr, di chiaro stampo blues.
La porta che si aprì non lo distrasse. Lord era entrato, seguito a ruota da Paice, tormentandosi i baffi: - Siamo in ritardo.
-Disastrosamente in ritardo. - puntualizzò Ian, sistemandosi gli occhiali – Ti dico sempre che qui non è come Londra, che c'è traffico, ma tu non mi ascolti mai. È terribile. Siamo rimasti imbottigliati col tassì per quarantacinque minuti d'orologio.
-Chi è che sta suonando? - il tastierista posò gli occhi sul perimetro della stanza fino ad incontrare la figura accoccolata a terra – Oh, figliolo, sei tu. Ero proprio curioso di conoscerti. Quel disgraziato di Coverdale mi ha svegliato alle tre di notte per parlarmi di te: devi proprio averlo impressionato. Resti fra noi, ma non ne sono capaci in tanti. - gli assestò qualche sonora pacca sulla spalla, prima di stringergli vigorosamente la mano – Facci sentire qualcosa.
-Era quello che stava cercando di fare, prima che tu lo interrompessi, Jon.
-Paice, sei una vecchia suocera!
Gli altri due si erano appartati, approfittando del loro arrivo.
-A me piace. - gli sussurrò David all'orecchio – Per me è lui. È quello giusto.
-Ha talento. È innegabile.
-Ha personalità.
-Anche. Non ha suonato qualcosa dei Purple per fare colpo.
-Non ha suonato qualcosa dei Purple perchè ha chiaramente detto che non ci conosce.
-E vabbè. Ha uno stile originale ma, piuttosto, riuscirà ad adattarsi?
-E chi ha parlato di adattarsi? Stiamo creando qualcosa di completamente nuovo. Io, tu e questo ragazzo saremo qualcosa di completamente nuovo. Segneremo una svolta, lo sento. Qualcosa di personale, di innovativo, un progetto che ho sempre accarezzato ma che credevo impossibile, incentrato sulle canzoni, perchè sono quelle che devono restare per sempre.
Hughes rise dell'impeto romanzesco e adolescenziale dell'amico, pur essendone in qualche modo allettato: -Dovremo aspettare anche il parere di Lord e Paice, no?
-Naturalmente.
-Ad ogni modo, se anche non dovessimo tenerlo, lo voglio io.
-In che senso? - David lo guardò stupito, da sopra gli occhiali.
-Nel senso che voglio portarmelo a casa, invitarlo a qualche festa, non so. Ma te lo sei visto? Con quei capelli, quei vestiti, è qualcosa di geniale ed adorabile.
-Per quei capelli si è fatto cacciare dal college, a quanto ne so.
-Meglio ancora: è un ribelle!
-Colpo di fulmine, Hughes?
-Gelosia, Coverdale? - lo canzonò – Serve a poco, dal momento che sei tu a sfuggirmi.
-No, semplice curiosità.
Bolin stava continuando a suonare con trasporto. Poi, quando terminò, si guadagnò un applauso accennato del cantante.
-Sei il nostro uomo.
In un angolo, anche se con un velo di malinconia, Paice e Lord annuirono convinti.

 

Hughes uscì dal bagno, avvolto nell'accappatoio che aveva trovato: ne aspirò forte l'odore, ritrovandovi quello della casa che, per estensione, era lo stesso che si portava addosso David. Fu allora che lo vide, seduto sul letto, tra i cuscini, a gambe incrociate. Aveva gli stessi capelli colorati, come quando l'aveva conosciuto, una maglietta a righe, troppo leggera per quella stagione, i pantaloni sgualciti e le scarpe di tela. La sua chitarra l'aveva seguito, come aveva sempre fatto, ed ora giaceva sulle sue ginocchia, soltanto perchè lui potesse tormentarne distrattamente le corde con la punta delle dita.
-Su, non fare quella faccia, Glenn. Non avrai mica visto un fantasma. - rise.
-Tu non dovresti starci, qui. Tu non dovresti seguirmi proprio, Tom.
-Oh quante storie, per una visita. Che poi, sono davvero venuto a farti visita o è uno scherzo della tua mente? La tua mente annebbiata dalla droga ecco.
-Non scherzare, per favore, Tommy.
-Hai ragione. - il suo tono si era fatto più accorato. Gli tese la mano: – Vieni qui, Glenn.
-No. Io non...
-Ti prego.
Cercare di afferrare la sua mano era come prendere quella del vento. Gli sfuggì tra le dita, che si richiusero sul suo palmo senza avere trattenuto niente, nemmeno un istante di calore.
Si ritrasse, appoggiando le spalle al muro, come se volesse proteggersi. Stava impazzendo. O era già diventato pazzo: quella maledetta roba gli stava fottendo il cervello e adesso ne aveva l'ennesima prova.
-E così sei tornato da lui: alla fine anche tu, dopo tanto peregrinare, avevi bisogno di un campo base. - sospirò Bolin, pizzicando le corde alla chitarra. Ma, nonostante le sfiorasse, non producevano nessun suono.
-Non sono tornato da nessuno: è stato lui a chiedermi di venire. Fosse stato per me, sarei ancora in viaggio.
-Tu dici? Un giorno o l'altro ammetterai di avere bisogno di qualcuno, Hughesy. Di te, di lui, della Musica. In un certo modo, nemmeno possiedi più te stesso, anzi, fuggi da te stesso ma col tuo peso addosso. Non andrai mai da nessuna parte, così. Devi metterti in testa che nessuno riesce a bastarsi: per quanto lo si neghi, abbiamo tutti bisogno degli altri. Sai, se anch'io potessi tornare da qualcuno, tornerei da lui.
-Speravo che saresti tornato da me.
-Da te? Dio, Glenn, come potresti salvarmi, se non riesci a salvare nemmeno te stesso?
-Nemmeno tu ne sei stato capace.
-Appunto. Per quale motivo pensi che sia qui? Per quale motivo pensi che la tua mente mi abbia condotto qui, da te, se non per ricordartelo?
-Io non riesco a dimenticarti, Tommy. Non passa un giorno, un minuto, senza che io pensi a come sei finito.
-Bel modo di pensarmi, facendo di tutto per raggiungermi. - la durezza delle sue frasi lo colpì: non gli aveva mai parlato a quel modo, lui, sempre così lieve, così accomodante.
-Ma che cazzo avete tutti? Tu, David, chiunque altro: vi siete messi in testa di salvarmi, ma io sto benissimo, non ho bisogno di nessuno. Di un cazzo di nessuno, è chiaro?
Il chitarrista si alzò, posando lo strumento sul letto, poi si avvicinò alla finestra con un'ombra triste negli occhi: - Volevo solo che ti risparmiassi la mia fine. Sai, non mi sono mai reso conto di dove stessi precipitando. O forse sì e non ho fatto nulla per evitarlo. Ho sempre preso le cose come venivano. Ma tu, Glenn... - si abbandonò ad un profondo respiro – Tu forse potresti riprendere in mano la tua vita. Ma questa volta davvero, non con le sterili illusioni di una libertà che in fondo non abbiamo mai avuto né con il decadentismo degli anni passati. La verità è che siamo tutti degli sbandati, dei soldati di ventura che cercano qualcosa che non possono avere, che forse non sanno nemmeno cos'è. Anzi, è più importante la ricerca della meta stessa. E siamo disposti a provare qualunque esperienza ci capiti sulla strada, pur di approfondire quella ricerca. Ma la gente non ci vuole, Glenn, il mondo non ci vuole: vuole quello che noi possiamo dare, la nostra musica, la nostra arte, ma non è la stessa cosa. Non vuole noi e ci sentiamo un gran vuoto dentro, non è così?
-Non so se è solo questo.
-E' che io non provo più niente.
-Nemmeno io vorrei provarlo.
-Vorresti morire. Vorresti ammazzarti, Glenn? E quello che hai?
-E che cos'ho?
-La musica. Ne hai bisogno.
-Non so nemmeno se ne valga più la pena.
-Ne vale la pena. Guardati. - con una forza insospettabile lo trascinò fino allo specchio, costringendolo ad osservare la propria figura. Quella di Bolin non si rifletteva, come se fosse fatto d'aria. O di sogni inquieti. - Guardati: tu sei vivo. Non ti pare, ma lo sei. Devi vivere, Glenn. Scegliti qualunque ragione per farlo, ma vivi.
Solo allora si rese conto della visione che aveva alle spalle, che non poteva essere nulla di reale, di tangibile, per quanto continuasse a restare, per quanto non riuscisse a scacciarla, anche tentando di ordinarlo alla propria mente. Ma la mente non ubbidiva.
-Io sto benissimo, Bolin! Mettitelo in testa. Io non sono come te, non ci lascerò la pelle, non ne ho nessuna intenzione. Non ho bisogno di te, non ho bisogno di lui. Non ho bisogno di nessuno. Vattene! Io non sono malato. Io non... - afferrò la lampada che stava sul cassettone e la scagliò in direzione del chitarrista. L'oggetto si frantumò in grossi pezzi con rumore di cocci, mentre l'immagine svaniva nell'oscurità.
La porta si aprì dopo pochi istanti, lasciando apparire sulla soglia il cantante con un'espressione preoccupata in viso: - Dio mio, Glenn! - diede luce alla stanza dal lampadario principale – Glenn, che è successo?
-Mi... mi è scivolata la lampada. Mi dispiace, te ne ricomprerò una: spero non fosse di tua madre.
-Era di mia moglie: poco male. L'avrei fracassata io, un giorno di questi: era orrenda. - Coverdale guardò scettico l'improbabile traiettoria che aveva seguito il lume per rompersi, mentre il bassista aveva preso a tremare e piangere, scosso dai singhiozzi.
-Glenn, che hai? Non starai facendo della tragedia per una fottuta lampada, vero? Glenn! Mi rispondi, cazzo! - lo scrollò per le spalle. Non ottenendone nulla, lo strinse a sé.
-Davey! - cercò le parole in mezzo alle lacrime – Davey, lui era qui. Ti giuro, era qui: mi parlava, mi guardava.
-Ma chi? Chi? Adesso calmati poi mi racconti tutto. - gli scostò i capelli umidi dal viso – Siediti.
L'altro scrollò la testa, abbracciandolo più forte: - Lasciami qui.
-Come vuoi. - la voce si era ridotta ad un sussurro – Chi c'era, Glenn? Siamo solo noi in casa.
-Tommy. Era lì, sul letto, con la sua chitarra. Guarda, dev'essere rimasta...
-Non c'è proprio nulla sul letto. Povero Hughesy, – disse più rivolto a se stesso – cosa ti è successo? Il nostro Tommy se ne è andato da tredici anni, Dio l'abbia in gloria.
-Io l'ho visto, Dave. Era qui e mi parlava, mi diceva che... - la voce gli si spezzò, mentre aderiva a lui come se avesse voluto fondersi al suo corpo.
-E' solo la tua mente, Glenn. È passato tutto. Ci sono io.
-Mi diceva che io non devo fare la sua fine, David.
-E' vero. - commentò in tono piano – Ha ragione. O meglio, forse è il tuo inconscio che ti sta spingendo a risalire la china, non trovi?
-Non lo so. Non lo so più.
David lo baciò tra i capelli, sulla tempia, sulla fronte: - Cerca di dormire, adesso.
-Ho paura: ogni volta che chiudo gli occhi, il buio mi fa vedere tutto ciò che non voglio. - si sciolse dal suo abbraccio di malavoglia, accoccolandosi tra le coperte – Tutte le cose che la luce del giorno copre e dalle quali mi illudo di sfuggire con mille inutili attività.
Il cantante si sedette sulla poltroncina nel fondo della stanza, accanto alla finestra, dopo aver scostato i vestiti che vi erano sopra: - Resto qui. Nel caso avessi bisogno.
Glenn riusciva a scorgere il suo viso illuminato da un raggio di luna: pareva invecchiato anch'egli di colpo, da quando era arrivato. Forse la sua presenza non gli faceva bene. Forse c'era qualcosa che anche per David non andava, ma che lui non aveva notato, troppo preso da se stesso.
-No, non importa. Davvero. Starai scomodissimo.
-Credo che non riuscirei a dormire comunque. Resto, come ai vecchi tempi dei tour.
-Non ho più molte memorie, Davey, di allora. Non di quelle notti folli, almeno. Tu cosa ricordi?
-Ho conservato solo ciò che desideravo tenere. Ricordo che dividevamo la stessa stanza, spesso. Che quando non volevi star solo a volte mi è toccato pure di unire i letti per starti vicino.
Risero entrambi, con un certo pudore, dovuto alla lunga lontananza.
-Solo questo?
Lui abbassò lo sguardo, con un imbarazzo: - Ovviamente no. Non solo.
-E' stato un bel periodo, però.
-Davvero. - si alzò e trovò il bordo del letto a intuito, per sedersi sopra e sfiorare la fronte di Glenn – Non è vero, sai, ci sono cose che vorrei dimenticare e che non riesco.
Gli passò le dita tra i capelli, dolcemente, ascoltandolo sospirare e scivolare a poco a poco nel sonno.
Già, c'erano troppe cose che avrebbe voluto dimenticare, pensò, appoggiandosi al davanzale della finestra e osservando la luna specchiarsi quieta nel lago.
Troppe cose, a partire da un concerto di Liverpool di tredici anni prima, l'ultimo che l'aveva visto insieme ai Purple. Quella volta aveva rivolto a Tommy parole che, ripensandoci, ora non avrebbe più avuto il coraggio di pronunciare.

 

Liverpool, 1976. 15 marzo.

Coverdale lasciò cadere il microfono a terra e fece per andarsene, furioso, mentre il pubblico continuava ad osservarli attonito.
-Me ne vado. Questa è l'ultima maledetta volta che suono con questo fottuto gruppo.
Jon Lord l'aveva trattenuto per il braccio, nel backstage, carezzandogli appena la schiena, come tutte le volte in cui aveva cercato di calmarlo e di farlo ragionare: - Figliolo, non agitarti. Ora siediti un minuto, respira e torniamo là sopra, ok?
-Io non ci torno stasera su quel cazzo di palco, Jon. - si morse le labbra per non piangere – Non ci torno proprio se è quella la figura che dobbiamo fare. Glenn non prende una nota. Bolin ha più eroina in corpo che sangue. Non riesce a reggere la chitarra. Non riesce nemmeno a reggersi in piedi! Se dovevo finire con dei dilettanti, potevo restarmene nello Yorkshire.
-Ricordati da dove vieni, ragazzino. - gli ringhiò Bolin, sbattendo a terra la chitarra.
-Io me ne ricordo. Forse sei tu che non hai capito che questi non sono i pub americani di quarto ordine di qualche paese dimenticato da Dio. Che non ti puoi permettere di prendere tutti per il culo andando in scena fatto e strafatto. Bel risultato, con tutto che mi sono fatto il mazzo per tenere insieme questa band che davamo già per spacciata con la partenza di Blackmore.
-Oh, non venire a piangere come il povero martire. Come se fossi l'unico ad esserti sbattuto per i Purple!
David era scattato in piedi: - Sempre più di te, che non sei capace di fare altro se non...
-Finisci la frase, se hai il coraggio! - lo sfidò il chitarrista, prima di essere trattenuto da Lord.
-Calma, calma, a spaccarvi il muso non risolverete niente.
-Lo sai che c'è, Bolin, che maledico il giorno in cui ti ho fatto quell'audizione. Fossi stato un po' più realista, avrei capito che non vali un decimo di Blackmore.
-Fossi stato un po' più onesto, avresti capito che questo carrozzone era già fottuto da prima che arrivassi io. Ma ti faceva comodo tenerlo in piedi, per la tua gloria personale.
-Tu non sei un professionista. Non lo sarai mai, finchè continuerai a bucarti. Non sei in grado di badare a te stesso, come potresti prenderti le responsabilità che hai verso i Purple? E io la mia reputazione non voglio rimettercela per te, per le tue esibizioni patetiche. Vaffanculo, Bolin. Tu e tutto il resto. Io me ne vado. Lascio la band.
-Che band, David? - Paice lo guardò con aria rassegnata, dietro gli occhiali appannati di lacrime – Non c'è più nessuna band. Io e Lordy pensavamo che fosse giunto il momento di scioglierla già un paio di mesi fa.
-E nessuno mi aveva detto niente? - i singhiozzi si mescolarono alle parole – Grazie. Tante grazie per la considerazione. - si avviò verso i camerini, sfregandosi gli occhi con le dita.
-David! - Paice lo inseguì – Vieni qui, per favore. Esci di lì. Vai da Tommy, ti prego. Sta così male. E anche Glenn...
-Anch'io sto male! Forse dei tre sono quello che sta peggio, perchè ho ancora un minimo di lucidità.
Sbattè la porta, dando un giro di chiave, prima di accasciarsi sulla sedia e piangere, col volto tra le mani. I lievi colpi all'esterno lo raggiunsero ovattati come in un sogno.
-Ti prego, Dave, apri. Dave, te lo prometto: non accadrà più.
-Vattene, Bolin. Va' via.
-David, io... io non volevo. Dammi un'altra possibilità. Sarò il migliore, il miglior chitarrista che tu abbia mai avuto.
-Te ne ho date fin troppe, di possibilità. È finita, Tommy.
-Solo perchè lo vuoi tu. - aveva la voce rotta di pianto anch'egli.
Coverdale scrollò la testa, aprendo la porta: non avrebbe sopportato di saperlo seduto a terra a supplicare davanti ad un uscio chiuso per un altro minuto di più. Infatti era lì, accoccolato sul pavimento, avvolto nei lustrini degli abiti di scena, stretto alla sua chitarra che teneva in grembo.
-No, è finita davvero, Tommy. - gli si inginocchiò a fianco, scostandogli la frangia dagli occhi.
-E' tutta colpa mia.
-Non è vero, su. - non seppe dire neanche lui come successe, ma si ritrovò abbracciato a Tommy, alla sua chitarra, finendo per asciugargli gli occhi con la punta delle dita.
-Ma tu l'hai detto.
-Non lo pensavo.
-Io sono sicuro che andremo avanti, Dave, siamo troppo grandi per gettare via tutto. - gli si avvinghiò al collo con forza – Sei arrabbiato con me, lo sento. Ma abbracciami.
Il cantante se lo tenne stretto a sè, mentre l'altro continuava a tormentargli i capelli tra le dita.
-Non è finita, Dave. Te lo prometto.
Annuì, fingendo di credergli. Forse perchè ne aveva bisogno, come aveva bisogno di essere accarezzato e di sentirsi dire che c'era ancora una speranza, anche se così fragile e lontana.


(Continua)

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Capitolo 3
*** The ocean is deeper than it seems ***


 

Questo capitolo è stato il mio tormento, ve l'assicuro ^^" In ogni mini-long ce n'è sempre uno che per una ragione o per un'altra ti fa praticamente prendere a testate la tastiera... ecco, appunto: scoprire all'ultimo che l'Orient Express ha finito il suo servizio nel '77 e avendoci ambientato sopra una scena nell'82 mi ha sconvolto tutti i piani di revisione, ma eccoci qui ^^ Non vedevo l'ora di pubblicare perchè qui c'è il nucleo centrale da cui è nata la storia e una delle parti che più ho amato scrivere :') Anche se sospetto che la mia Helena apprezzerà di più il primo paragrafo :D
E niente, vi lascio questo mezzo delirio e mi ritiro buona buona, non prima di avervi ringraziato e rassicurato sul fatto che dal prossimo capitolo le cose dovrebbero farsi un po' più lievi ^^"
Un bacione,
Marg.







You set your sail for an island in the sun, 
On the horizon, dark clouds up ahead, 
For the storm has just begun.
(Whitesnake, Sailing ships)

There's no sign of the morning coming
You've been left on your own
Like a rainbow in the dark.
(Dio, Rainbow in the dark)

Maybe before you were happy,
but now your thoughts aren't of this place.
I only wish you were with me,
someone like you can't be replaced.
(Tommy Bolin, Dreamer)

 

 

III. The ocean is deeper than it seems

 

In tour. 1974.

Era entrato senza far rumore. Tanto era appariscente sul palco, assieme alla Stratocaster, tanto aveva sviluppato, nella vita privata, una silenziosa capacità di non farsi notare, che gli tornava utile per fuggire dalle conferenze stampa, quando non aveva voglia di parlare. O per sorprendere le persone alle spalle, come aveva fatto con lui.
-A che pensi, Dave?- gli domandò, posandogli una mano sulla testa.
-A nulla. Cercavo di mettere giù qualcosa. Ma non riesco a concentrarmi, al pensiero che andiamo in scena tra nemmeno due ore.
Blackmore rise appena: - Non ci fai l'abitudine, eh?
-Perchè? Tu sì?
-No, ma sono migliorato col tempo. Senti... - si tormentò le dita – Ho scritto una cosa per te.
Coverdale si sistemò gli occhiali sul naso: - Per il nuovo disco?
-Perchè no? Ma non è necessariamente per quello. Voglio dire, l'avrei scritta comunque, pensando alla tua voce. - deglutì, restandosene in piedi, senza sapere dove tenere le mani – Hai una chitarra?
-E' lì. - gli indicò la chitarra acustica che si era comperato col primo stipendio per aiutarsi a comporre e che ora giaceva nella custodia, accanto alle valigie.
Dallo strumento uscì un suono sgraziato: - Ma è scordata! Ragazzo, come fai a tenerla in questo stato?
-Mi sono dimenticato di accordarla. - si strinse nelle spalle – Sai, quando ero un bambino avevo una specie di chitarra. Suonare era il mio sogno, che abbandonai dopo pochissimo perchè non riuscivo a cavarne una sola nota giusta. E sai perchè? Perchè nessuno mi aveva detto che andava accordata.
-Che disastro che sei. Meno male che con la voce ti guadagni da vivere, perchè altrimenti... - scherzò, aggiustando le corde – Vieni qui. Ascolta.
Prese a snocciolare una melodia dal sapore antico, malinconico. Una dolcezza lontana e triste echeggiava dietro alla ciclicità di quelle note.
Suonò per diversi minuti, prima di interrompersi e restare a guardarlo, con aria speranzosa: - Ovviamente sarà da aggiustare, da riarrangiare, ma... cosa ne pensi?
David si portò la mano al petto: - Dio mio, è splendida.
-Trovi? - cercò di non scomporsi troppo.
-Oh sì. Ha anche un testo?
-Un abbozzo. Ma pensavo che a quello avresti provveduto tu. - trasse un foglio dalla tasca, riempito di prove con la sua grafia fitta e lo osservò con quei suoi occhi spiritati, mentre leggeva.
-Sai, - finse un distacco studiato – avevo pensato alla storia di un uomo che viaggia alla ricerca dell'amore vero, dopo una vita errante, e non trovandolo è costretto a vagare e vagare in eterno, senza riuscire a sfuggire alla sua sorte di soldato di ventura.
-I guess I'll always be a soldier of fortune – David cercò di trovare il tempo – I can hear the voice... No, no: I can hear the call...
-I can hear the sound, meglio.
-Sound... round... I can hear the sound of a windmill goin' round. Guess I'll always be a soldier of fortune. Ci sta?
-Direi di sì. Ma non è così importante, ora: piuttosto, dimmi se ti piace l'idea.
-E' così che mi vedi? - sorrise appena – Come una sorta di eroe romantico?
-Non sei anche tu alla ricerca di qualcosa, lontano da casa, imbarcato in un'avventura che non sapevi nemmeno dove ti avrebbe portato?
-Più di quanto immagini.
-Ne ero sicuro.
-Anche lui era così?
-Un tempo, forse, quando era giovane e luminoso, ma... Oh, no, anche allora lui era di più. Molto di più, ragazzo. Ian per me significava qualcosa a cui nessuno potrebbe ambire. Non prendertela per questo.
-Ma no, no: capisco.
-Però l'altra sera, dopo il concerto, nel backstage, ti guardavo. Non riuscivo a farne a meno. E sai, mi è presa l'ispirazione, così, all'improvviso. Sentivo che queste note erano nate per te e che dovevo comporvi una canzone: era l'unico modo per liberarmene.
-Liberartene?
-Sì, mi avevano invaso la mente con una tale velocità e una tale potenza che avevo paura di non riuscire a pensare ad altro finchè non le avessi affidate alla carta.
-E' bello sapere che è così che mi vedi, Ritchie. - lo abbracciò di slancio, nonostante il chitarrista avesse cercato di ritrarsi – Sei così caro.
Approfittò del suo corpo sottile per immobilizzarlo e stampargli un bacio sulla guancia, con innocenza, incurante del fatto che l'altro si dibattesse e cercasse di pulirsi con le dita la traccia tiepida che le sue labbra gli avevano lasciata impressa.
-E' così che vorrei immaginarti sempre. È così che dovresti essere, anche quando andrai per la tua strada, seguendo la tua carriera.
-Non voglio andare da nessuna parte senza i Purple: sono la mia vita.
-Un giorno dovrai proseguire da solo. Un giorno me ne andrò io, magari. - se lo staccò di dosso, ma senza scortesia, limitandosi ad accarezzargli la gota con il dorso della mano – E allora questa canzone ti sarà di conforto e forse ti aiuterà a ricordarti di me, no?

 

Era una mattinata gelida ma limpida, quando arrivò sulla riva del lago. L'acqua si muoveva appena in lievi increspature, sotto il soffio tagliente del vento che agitava le foglie morte in piccoli turbini dorati. David si strinse nel cappotto, posando a terra la chitarra e sedendovisi accanto: prese un lungo istante per pensare, con lo sguardo perduto nella bellezza immobile e perfetta di quel luogo, nel suo silenzio distaccato e indifferente.
Si mise la chitarra in grembo e accennò alle note di Soldier of fortune. Non sapeva dire esattamente perchè si ritrovasse a suonarla così spesso: forse perchè davvero vi ci si rivedeva. Forse perchè anch'egli stava diventando vecchio come il protagonista, come le foglie che si arrossavano sugli aceri.
-David. - l'altro gli posò la mano sulla spalla – Che fai qui?
-Glenn. - sorrise, prendendola nella sua – Pensavo. È così bello il lago, in questa stagione.
-Mi sono svegliato e tu non c'eri. Ho provato a cercarti e ti ho trovato qui. - si era avvolto in una coperta a scacchi e se la stringeva addosso – E' un freddo terribile.
-Già. - rabbrividì – Ma la Musa non teme il gelo.
-Vieni. - gli si sedette a fianco, avvolgendolo nella metà della coperta – Meglio?
-Molto meglio. Ma così non riesco a suonare.
-Non è una grossa perdita, credimi. - scherzò, facendolo sorridere - Perchè suonavi Soldier of fortune? Vecchi rimpianti.
-No. O meglio, sì. Rimpiango quando le canzoni erano veramente canzoni. Voglio dire, quando nelle parole ci mettevamo davvero qualcosa di nostro, una parte di noi. Sai, ho sempre pensato che lo scopo di tutto fossero le canzoni. Un giorno noi ce ne andremo, le prossime generazioni non ricorderanno né un certo Coverdale, né un certo Hughes. Ma se abbiamo davvero prodotto qualcosa di buono, credo che canteranno ancora This time around. Mi segui?
-Non vedo dove sia il problema.
-Il problema è che ho perso la mia via, Glenn. Non so, a forza di darmi al pubblico, credo.
-Ma alla fine quello che hai scritto, una volta pubblicato, non ti appartiene più. Il pubblico ne fa quello che vuole.
-Non è questo il punto. È che guarda gli Snake, cosa sono diventati? Un gruppo di musicisti che ora si vestono come signorine per mantenere vivo il loro quarto d'ora di celebrità. Mi sono perso, Glenn. - aveva una sconosciuta tristezza nello sguardo – Non so più in che direzione sto andando. Sai, forse averti qui mi illude che in fondo non mi sono mai mosso più in là dei Purple. O forse avevo solo bisogno di parlarne con qualcuno. Vorrei ritirarmi.
-Stai scherzando? Eppoi che farai?
-Non so, magari il produttore. Magari me ne resto qui a scrivere.
-A scrivere?
-Da ragazzo scrivevo poesie.
-Dio mio, Davey, e che ti cambia metterle in musica?
-Quello che non metto in musica non esce dal mio cassetto. Non so a chi dirlo, Glenn. Mia moglie ama i riflettori: non sopporterebbe l'idea. I ragazzi... beh, sarebbe un bel guaio, anche se un altro ingaggio lo troverebbero: sono troppo in gamba. Ma io non mi riconosco più. Mi guardo e non mi ritrovo più.
E probabilmente nemmeno Glenn riusciva a rivedere in lui il ricordo che conservava dell'amico. Non ora, almeno, mentre era infagottato nel cappotto, nel maglione, con gli occhiali sul naso e il viso segnato.
-Non credevo stessi così male anche tu. - lo strinse un po' più forte, sotto la coperta.
-Non sto poi così male. È solo che avrei voglia di mandare a fanculo tutto, certe volte. Prendermi del tempo, pensare, pregare, andarmene per il mondo. Ti rendi conto: io sono stato ovunque, ma non ho visto niente. Avrei potuto vedere il sole tramontare sul Partenone, l'aurora boreale, le pagode del Giappone e non ho visto nulla. Ho vissuto per la musica: non che la cosa mi dispiaccia, sia chiaro, ma è come un senso di...
-Soffocamento?
-No, nemmeno: come se tutto scorresse troppo veloce, senza che io abbia la forza di controllarlo e nemmeno di rendermene conto. Tu hai mai provato una sensazione simile?
-Sì. E neppure troppo tempo fa.
-E che hai fatto?
-Sono fuggito. Sparito, completamente. Non ho detto a nessuno dove andavo, sceglievo la meta di giorno in giorno, ho persino cambiato nome e identità nel tentativo di fuggire da me stesso. Come quel romanzo di quell'italiano... come si chiamava?
-Pirandello? O qualcosa del genere.
-Già.
-Ed è servito?
-A nulla, Dave. Proprio a nulla: si finisce sempre per scappare con se stessi. Non puoi uccidere quello che sei, nemmeno se fingi di portare fiori sulla tua stessa tomba. Non si può tornare indietro. Oh, magari si potesse! Ma possiamo solo andare avanti. Vedi questo lago? Sembra fermo e stagnante ma sono sicuro che, da qualche parte, ha uno sbocco verso il mare.
-Ne sono sicuro anch'io, Glenn. Ma raccontami qualcosa. Non so, dei tuoi viaggi, di quello che hai visto.
-Ho solo ricordi così confusi. È tutto così confuso, Dave. Mi dispiace.
-Non importa, qualunque cosa andrà bene. - abbandonò la testa sulla sua spalla – Però stringimi.
-Lo sto facendo.
-Come allora, Glenn.
Hughes gli accarezzò a lungo la schiena e le braccia. Poi, dopo un lungo istante, accostò le labbra al suo viso per sfiorargli la gota e la linea del mento.
-Come allora... - sussurrò, poi si fece strada tra i vestiti trovando il suo collo e posandovi sopra un bacio esitante e insicuro.
-Glenn, noi... - non riuscì a finire la frase che si ritrovò sdraiato a terra, il bassista sopra di lui, tra le sciarpe, i cappotti, i capelli, la coperta e le foglie fredde. Chiuse gli occhi, lasciandosi baciare con un'innocenza insospettata.
Hughes si mosse su di lui, lentamente, fino a trovare la sua bocca. Non ebbe il coraggio di approfondire il bacio, limitandosi a lambirgli le labbra con delicatezza e accarezzargli il viso con le dita che gli tremavano.
Il cantante lo avvolse con le gambe e lo rovesciò sotto di sé per guadagnare il controllo del bacio e spingersi più a fondo.
-Fottuto cappotto!- imprecò, sfilandoselo con urgenza e gettandolo di lato.
Continuarono a baciarsi e a rotolarsi a terra come due ragazzi, finchè David non si ritrovò le mani di Glenn infilate sotto il maglione e Hughes un ginocchio di Dave tra le proprie gambe.
-Ma che stiamo facendo? - il cantante sorrise, prendendo fiato – Alla nostra età! Nemmeno avessimo quindici anni. - eppure riuscì a rubargli un altro bacio a fior di labbra – E con tutta una casa a disposizione.
-Scusami.
-Lo volevamo tutti e due, mi pare.
Glenn lo trattenne a sé: - E' bello averti così.
Lui si abbandonò sul suo petto: - Avevi promesso di raccontarmi dove sei stato.
Il bassista gli affondò una mano tra i capelli, poi lo abbracciò, cercando di scaldarlo – Stai gelando. Rientriamo.
-Penso sia meglio. - si ricompose, spolverandosi i vestiti e tendendogli le mani per aiutarlo ad alzarsi – Che disastro che devo essere.
Il bassista gli tolse una foglia dai capelli scarmigliati: - Che bello che sei.
-Oh, sicuro. Ridotto così, poi. - scherzò, raccogliendo la chitarra.

 

In viaggio. 1981.

Il treno viaggiava con un dondolio dolce lungo la tratta degli Urali.
In lontananza gli arrivava un arabesco flautato di suoni, ma non era sicuro di udirlo davvero: si sentiva la testa pesante, confusa. Era come se tutto girasse, girasse attorno, senza trovare sosta. Come quando il mare si agitava e la tempesta si preparava a sommergere una piccola imbarcazione senza difese. Come quando da bambino correva, correva senza meta, per ritrovarsi sempre al punto di partenza, con l'impressione di aver percorso chilometri e, allo stesso tempo, di non essersi mai mosso. Sentì una mano fresca posarsi sulla sua fronte che bruciava, con indicibile sollievo. Lui era seduto al suo fianco e non diceva nulla, si limitava a sorridere, dolcemente.
-Sei tornato.
La figura continuava a sorridere, in silenzio.
-Dove sei stato per tutto questo tempo? - cercò i suoi occhi ma, piano piano, avevano cominciato ad offuscarsi. L'intera immagine si era offuscata, come se stesse svanendo.
-Non andare, Tommy, non andar via. Ti prego.
Ti prego.
Una mano, questa volta fin troppo reale, lo scosse con ferma delicatezza: - Signore, si sente bene?
Glenn aprì gli occhi. Si era addormentato sopra il libro, evidentemente, cullato dal rollio delle rotaie e dalla quiete dello scompartimento deserto. O meglio, era deserto prima che prendesse sonno, perchè, ora, una donna era china su di lui e lo guardava, mordendosi appena il labbro inferiore. Era bionda, giovane e bella, soltanto un poco costretta in un'eleganza rigida, che non evitava però di farne risaltare gli occhi di un chiarissimo azzurro cielo.
-Mi perdoni se l'ho svegliata, ma mi sembrava che si sentisse male. - gli disse, con un inglese perfetto, ma venato di un accento del Nord, forse Norvegese, più probabilmente Svedese.
-Sto bene, grazie. È stato soltanto un incubo.
La sconosciuta parve rassicurarsi, tornando al proprio posto e al proprio ricamo.
Rimase un lungo istante a fissare la grazia antica con cui lavorava il merletto, accordendosi di star sorridendo, dopo lungo tempo. Lei se ne accorse e sorrise di rimando.
Lui si guardò attorno, fuori dal finestrino, cercando qualche punto di riferimento. Fuori si stava facendo sera e non c'era nemmeno un elemento che potesse aiutarlo: - Saprebbe mica dirmi dove siamo?
-No, mi dispiace. In Russia, approssimativamente. Dov'è diretto?
-In nessun luogo in particolare, sono in viaggio di piacere. E lei?
-Nelle Indie, per raggiungere mio marito. - continuava ad osservarlo con insistenza: - Perchè il suo viso non mi è nuovo? Lei non è per caso quel bassista, il signor Hughes, il musicista dei Deep Purple?
Si preparò a rispondere con quel mezzo sorriso che aveva studiato a lungo: - Mi duole deluderla. - le tese la mano – Edward Ross. E ahimè lavoro per un'industria di import-export. Magari fossi un artista, penso che sarebbe tutto molto meno noioso.
-Già. Peccato davvero: mi piacciono le canzoni di quei Deep Purple. E ha così ragione, la vita degli artisti dev'essere così eccitante, sempre in tour, sempre in posti nuovi, sempre circondati da gente diversa, non trova?
-Eccitante, sì. - si sforzò di sorridere, prima di richiudere il libro e uscire dallo scompartimento – Mi voglia scusare.
Il corridoio del vagone era vuoto. Si appoggiò pesantemente alla parete e respirò a fondo, ad occhi chiusi, cercando di calmarsi. In distanza, attraverso i vetri, un lampo squarciò il buio, preannunciando la pioggia. Rabbrividì, distogliendo lo sguardo. La natura sembrava volergli ricordare la sua inquietudine, attraverso la propria. Il viaggio era ancora lungo. Il suo Shangri-la ancora troppo lontano.

 

-Lo sai, Glenn, darei qualunque cosa per saperti sereno. - gli sussurrò, scostandogli una ciocca di capelli dal viso.
Il bassista si accese una sigaretta, guardandolo con quegli occhi tristi e scuri.
-Andiamocene via. - continuò Coverdale con un filo di voce - Andiamocene ad Istanbul, a Parigi, a Roma. O in Grecia. Non so. Prendiamoci tempo, restiamo insieme. Cerchiamo ispirazione, scriviamo canzoni. Per sei mesi, un anno, poi torniamo.
-Non servirebbe a nulla.
David gli tolse la sigaretta di mano, aspirandone una profonda boccata. Era sempre stato uno strano modo di sentire le sue labbra sulle proprie, quando non poteva baciarlo.
-Forse hai ragione. Ma dimmi cosa posso fare. Qualunque cosa e la faccio, Glenn.
Spense il mozzicone nel posacenere, prima di afferrarlo alle spalle per premergli la bocca sulla sua.
-Io credo che ne uscirai, Glenn, credo che tornerai il grande artista che eri. Hai troppo talento per scivolare nell'oblio. Guardami. - posò gli occhiali sul tavolino – Io so che tu ce la farai.
Strinse le dita attorno alla stoffa del suo maglione e lo fece aderire al proprio corpo, stendendosi sul divano e trascinandolo sopra di sé.
Il bassista si impossessò di nuovo della sua bocca: - Amami e salvami.
-Dai a me le tue paure.
Hughes prese a spogliarsi del maglione gettandolo a terra, prima di ritrovarsi le dita di David che tremavano sui bottoni della camicia.
-Aspetta.
Il cantante si era fatto strada con le mani sul suo petto e aveva finto di ignorare la sua richiesta. Aveva trovato il suo ventre sotto le dita e preso a carezzarlo con studiata lentezza.
-No, Davey, no! - lo fermò, bloccandogli i polsi.
-Ho fatto qualcosa che non dovevo?
-No. È solo che io... che tu... che il conforto che mi puoi dare non è quello che cerco. Deve partire da qui. - si indicò la fronte – Da qui, maledizione.
-Glenn. Vieni vicino, per favore. Torna qui.
Il bassista si rivestì alla meglio, gettandosi il golf sulle spalle.
-Si può sapere che cazzo hai, Hughes? Prima ti dai, poi scappi.
-Io... io non so se riuscirei a fermarmi in tempo.
-Nessuno te l'ha chiesto.
-Io voglio ripartire appena possibile. Voglio andarmene di qui. Qualunque legame mi fa sentire in gabbia, mi impedisce di respirare.
-Non voglio essere un legame. È che pensavo che certe cose fossero passate, in quindici anni, invece mi fai ancora perdere la ragione.
-Lo so, lo so. Ma ora ho bisogno di riposare un po'. - si sdraiò sul divano che l'altro aveva lasciato libero.
-E io vorrei mettere giù un paio di strofe, ma non riesco in presenza d'altri.
-Ora ce l'hai con me, Davey? - si alzò e gli circondò i fianchi con un braccio.
-Ma no, no. Anzi, se vuoi resta: cerco di scrivere qualcosa per te. O meglio, su di te.
-Allora è opportuno che me ne vada: mi imbarazzerebbe.

 

In tour. 1975.

-Cosa guardi, Tommy?- David l'aveva trovato sulla terrazza dell'albergo, dov'era andato per fumarsi una sigaretta in pace. Lui era lì, appoggiato alla balaustra, con lo sguardo perso tra le luci della città e i capelli spettinati dal vento della sera.
Era soprappensiero e non l'aveva sentito arrivare - Oh, sei tu.
-Già. Panorama interessante?
-Tutt'altro. Tutto si muove sempre allo stesso modo, uguale, piatto e monotono.
Lui gli posò una mano sulla spalla: - Non è che di sopra se la passino meglio, eh.
Il cielo era una distesa serena, immobile e scura di piccoli punti pulsanti e fulgidi.
-Tu pensi che ci sia qualcosa, lassù, David?
-Ci siamo noi, perchè non dovrebbe esserci?- si strinse nelle spalle, cercando di fare appello a quello che gli aveva insegnato sua madre, da ragazzo – Perchè, tu credi non ci sia niente?
-Boh, sono così strani gli esseri umani, che viene difficile pensare siano fatti a immagine di Dio.
-Ma quanto cazzo hai bevuto, Bolin?
-Un po'. Guarda, Davey! - gli indicò una stella più chiara delle altre – Cosa sarà quella?
-E che ne so, sono un cantante, mica un astronomo. Sarà Sirio, la Stella Polare, che vuoi che ne sappia?
-Qualunque essa sia, io vorrei essere come quella stella, Cov.
-Lontana? - lo guardò perplesso, attraverso le lenti degli occhiali.
-No, luminosa. Tranquilla. Capace di brillare di luce propria, senza temere l'oscurità.
-Che significa?
-Che noi uomini abbiamo sempre bisogno di qualcosa che ci permetta di vivere e di brillare. Io ho bisogno della musica, della mia chitarra. Non che sia un male, questo. Ma sarebbe bello se tutto fosse più naturale. Se gli uomini si amassero in quanto tali, senza bisogno di dimostrare nulla. A volte, mi chiedo se esista un modo per non crescere, David, perchè i bambini rimangano bambini per sempre.
-Credimi, io non ti capisco, Tommy.
-Non so. - si torturò la punta di una ciocca di quei suoi capelli di diversi colori – Mi piacerebbe se la musica fosse una mia estensione naturale e non questa forma di business. Forse non sono adatto a questo stile di vita; mi sento un poco legato. Mi chiedono come faccio a suonare come suono. Io non lo so proprio: sento le note dentro, nella testa. Queste note esistono già, come se vivessero per me o come se vivessi per loro. Io non so fare altro se non suonare la chitarra. E lo so che se non mi desse da vivere, non potrei campare: è una grande contraddizione, la mia storia. - sorrise, con una dolcezza distaccata.
-Ah, smetti di tormentarti, Tommy. - gli passò la sua sigaretta che l'altro accettò, rimarcando appena un po' di più il sorriso – Hai bevuto troppo, ecco che c'è. E ti manca una ragazza. Cos'è? Non ne hai trovata una che ti piacesse, stasera?
-Potrei farti la stessa domanda. - aspirò profondamente dalla sigaretta – Ma piuttosto, tu sei felice, David?
-Come? - non riuscì a trattenere una risata – Ma come ti vengono certe domande?
-Rispondimi.
-E perchè non dovrei esserlo? È uno dei momenti migliori della mia vita. E tu?
Scrollò la testa: - No, ma mi diverto a fare quello che faccio, altrimenti non sarebbe degno di essere fatto. Sai, alla fine ci vuotiamo l'anima a dare alla gente quello che abbiamo dentro, senza riceverne molto in cambio.
-Fama, denaro, successo, non ti pare abbastanza?
-No. Non è abbastanza: sai che i miei guadagni migliori li ho fatti mendicando. Non è generosità, la mia, né un modo per avere indietro una ricompensa: è che creare è l'unico modo per sentire la vita, sentirla nelle vene. Troppo spesso non mi succede.
David gli strinse il polso nella mano, cercando di osservare il suo braccio martoriato, alla luce della luna: - Lo so. Me ne accorgo, Tommy.
Lui si srotolò le maniche della camicia, abbottonandole, senza rialzare lo sguardo.
Il cantante lo abbracciò alle spalle, facendolo appoggiare al proprio corpo, per rilassarsi.
-Tu ci hai salvato tutti, Bolin. Sei stato una benedizione.
-Sto preparando un disco, Davey. - gli sussurrò – Un disco mio. Sai, ho sempre sostituito gente, Blackmore per ultimo, lì vorrei essere solo me stesso.
-Mi pare giusto.
-Sai, pensavo di chiedere a Glenn di cantare per me. Tu pensi che accetterà?
-Perchè non dovrebbe? Glenn ti vuole bene.
-Anche tu me ne vuoi?
-Bolin, ci hai dato dentro di artiglieria pesante. Ma cos'era? Whiskey?
-Già. Ma non mi hai risposto.
-Che domande. Ovvio che te ne voglio. Ma io non ci starei a cantare per te e, a pensarci bene, forse nemmeno Hughes.
-Perchè? - si voltò a guardarlo, alzando il viso, senza sciogliersi dal suo abbraccio, anzi, trattenendogli le mani sul proprio petto.
-Perchè tu sei in grado di farlo. Sii sicuro di te stesso, Tommy. Hai talento, ragazzo. Sarà un ottimo disco. Io ho svegliato in piena notte Jon Lord, per te. Se te lo dico io che avrai successo, devi fidarti.
Tommy rise, scrollando la testa: - Tu sei sempre così positivo.
Coverdale lo lasciò libero, prima di scompigliargli i capelli e avviarsi verso l'interno: - Ricordatelo, Tommy Bolin, in qualche modo tu sei come quella stella.
-Lontana?
Abbassò lo sguardo sulla sua figura esile e fragile, prima di fissarsi le punte dei piedi, con un po' di malinconia: - Irraggiungibile.
-Ma anche le stelle cadono nel mare, prima o poi. O, forse, cadono e basta.

 

Non aveva visto Glenn per tutto il resto della giornata. Non che si fosse davvero reso conto del tempo che era passato. Al contrario, il sole era sceso senza che ci facesse caso. Solo il freddo del fuoco spento nel camino gli aveva ricordato che dovevano essere le diciotto passate.
Quando salì le scale e spinse la porta della sua camera, lo ritrovò addormentato sul letto, sopra le coperte, col grammofono che girava a vuoto su uno dei suoi vinili. Lo spense, recuperando il disco e sorrise di nostalgia nel vedere che il sonno l'aveva colto sulle vecchie note di Love me tender.
-Glenn?- si chinò su di lui – Glenn? Ti senti male?
Lui si stropicciò gli occhi: -No, va tutto bene. Sono solo stanco. E ho un gran freddo.
-Immagino. Guarda come ti sei addormentato. Senti, vediamo di preparare qualcosa da mangiare. - imprecò mentalmente, dato che non ricordava di aver più acceso un fornello da almeno una dozzina di anni.
-Veramente io non ho fame, Dave.
-Ma devi mangiare, no? Altrimenti come trovi la forza di cantare, quando arrivano i ragazzi?
-Il pensiero che debba venire gente mi terrorizza.
-Sono care persone, non faranno troppe domande. - cercò di sorridergli nel modo più rassicurante possibile – Me ne vado?
Annuì: - Non prendertela, Dave.
-Non me la sono presa. A proposito – si tolse un foglio dalla tasca – l'ho composta, sai. La canterò per te, se Adje riuscirà a cavarne una buona base. Te la lascio qui.
-Come si chiama?
-Sailing ships. - rispose in un sussurro – Navi in partenza.
-Posso leggerla ora? - inforcò gli occhiali, accostando il foglio alla lampada. - The wind was with you, when you left on the morning tide, you set your sail for an island in the sun, on the horizon, dark clouds up ahead, for the storm has just begun. E' bella. C'è un che di mitologico, di greco, in tutto questo.
Lui si stropicciò le mani, senza sapere cosa aggiungere.
-You cry for mercy, when you think you've lost your way, you drift alone, if all your hope is gone. So find the strength and you will see, you control your destiny, after all is said and done. Sei sempre un vecchio sognatore, Dave.
-Da certe cose non si guarisce. O forse sei tu che porti sempre una buona ispirazione.
-C'è tanta speranza, qui. - chiuse il foglio, stringendoselo al petto – Voglio pensare che tu abbia ragione. Vorrei così tanto credervi.


(Continua)

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Capitolo 4
*** In the light Fandango ***


In dirittura d'arrivo (e meno male, direte voi :D) … giusto perchè non c'era abbastanza gente, affolliamo di più la storia e speriamo che questi ultimi due capitoli vi mettano meno malinconia del solito ^^”
E alziamo il rating, per sicurezza: non so, mi pare sempre di tenerlo troppo basso, ma magari non c'era bisogno di cambiarlo, vabbè u__ù Incrocio le dita che non ci siano troppi errori di battitura: ho gli occhi un po' stanchi, 'stasera ^^”
Come sempre, un grande grazie e un bacio altrettanto grande <3
Marg.




Alla mamma,
per l'ispirazione improvvisa per la scena dello York.



And would not let her be 
one of sixteen vestal virgins 
who were leaving for the coast 
And although my eyes were open 
they might just as well've been closed.
(Procol Harum, A Whiter shade of pale)

Preferirei sapere che piangi

che mi rimproveri d'averti delusa
e non vederti sempre così dolce
accettare da me tutto quello che viene.
(Luigi Tenco, Vedrai vedrai)

As I look around you can't be found
To lose you I'd rather see

The endless time of space go passing by.
(Deep Purple, This time around)

 

 

 

IV. In the light Fandango

 

Tre giorni dopo.

L'allegra frenata dell'enorme fuoristrada davanti al suo cancello poteva annunciare solo l'arrivo di Adrian. Non conosceva nessun altro, se non quella sorta di elegante vichingo, che fosse capace di guidare con tanta disinvoltura in mezzo alla neve - caduta incessantemente per due giorni - con l'autoradio che passava a tutto volume Ruby Thursday.
Doveva averlo avvistato sotto il portico, perchè prese a suonare insistentemente il clacson, incurante che fossero le sette di domenica mattina. La chitarra sulla spalla, la valigia sempre ridotta al minimo di cui la metà – ci avrebbe giurato – riempita di cioccolato olandese, gli abiti troppo leggeri: chiuse la portiera ridendo e scrollando la testa bionda.
Non seppe dire perchè, ma era arrivato portandosi dietro una ventata serena, luminosa, dopo troppe tenebre. Anche il profumo nell'aria era cambiato, come un preludio alla primavera, dopo tanto odore di foglie morte. Forse, semplicemente, era troppo tempo che non sentiva una risata e quella franca e contagiosa di Vandenberg era giunta come un sollievo.
-Ehilà, Capo! Come butta, qui in Nevada? - scaricò i bagagli sul patio per assestargli qualche pacca sulle spalle.
-Un freddo becco, come ti sarai accorto. Mi spiace che non ci siano i tulipani e nemmeno un mulino a vento a farti sentire a casa, vecchio scemo di un olandese. Che bello rivederti!
-Cos'è tutta questa effusione di sentimento? - commentò con disappunto, alzando un sopracciglio – David, non ci vediamo da... - contò sulla punta delle dita – Otto, forse nove giorni.
-Pareva un'eternità.
-Scommetto che 'ste robe nemmeno le dici a tua moglie. Inizio a preoccuparmi, sai. Di' la verità: è che almeno adesso potrai mangiare decentemente.
-Perchè? La cucina olandese rientra nel tuo concetto di “mangiare decentemente”? Che fine hanno fatto gli altri?
-Uhm... - il chitarrista si grattò la testa in uno sforzo di memoria – Tommy è bloccato col volo da qualche parte, arriverà domani. Rudy... boh, sarà infrattato con qualche donna.
-Cazzo significa “sarà infrattato con qualche donna”? Possibile che tu non sappia dov'è?
-Oddio, come ti sei fatto noioso da quando ti sei trasferito in America! Era uno scherzo: è in volo, dai! Entro domani pomeriggio li avrai tutti qui. - raccolse le sue cose, entrando in casa senza troppi complimenti – Che fine ha fatto il tuo britannico sense of humor, Cov?
-E' stato messo a dura prova, in questi giorni, credimi.
-Avanti, cos'hai?
-Niente.
-Non era una domanda. - gli alzò il mento, costringendolo a guardarlo – Spara!
-Ma no, niente. Una sorta di malessere.
-Infuso di cicoria, malva e finocchio. Lo faceva mia nonna: ti rimette in sesto.
-Esistenziale, Adje. Malessere esistenziale.
-L'avevo capito. Sai che non riesco a prendere queste cose troppo sul serio. Voglio dire: è tutto rock'n roll, baby. Passerà.
-No, non passa. Mi sento così terribilmente stanco. Mi ha preso la malinconia. E la nostalgia dei vecchi tempi.
-A quarant'anni? A sessanta come sarai messo?
-Hai ragione. Ma è che mi sento un po' smarrito. - si abbandonò sul divano, a fianco a lui.
-Certo che portarti qui un pezzo del tuo passato non ti aiuta, eh? Dov'è, a proposito?
-Di sopra. Ecco, rivedere Glenn è stato... non so, doloroso: sta molto peggio di come credevo.
-Sì? - gli posò una mano sul ginocchio – Mi spiace, so che ci tieni. Ma vedrai che con il lavoro riuscirete a distrarvi e a mettere a posto le cose. A proposito, guarda! - lo travolse con il suo entusiasmo, tanto che il cantante non ebbe il coraggio di parlargli dell'intenzione del suo ritiro.
Il chitarrista aprì la valigia ed iniziò a vuotarne il contenuto sul tavolino con noncuranza: - Camicie, maglione, mutande, spazzolino, ma dove diavolo li ho... Reggi queste. - gli cacciò in mano cinque stecche di cioccolato olandese.
-Un giorno ti fermeranno alla dogana per esportazione non autorizzata di cioccolato, Adje.
-Eccoli qui! - trasse fuori gli spartiti e li sventolò con orgoglio – C'è tutto il nostro disco, vecchio mio.
-Ho da chiederti un favore, Adje.
-Se è per affrescarti il salotto buono, fanno duecento dollari al metro quadro.
-Quello che si direbbe un prezzo di favore. No, non è per il salotto. È per una ballata. Riusciresti a musicarmi una cosina che ho scritto, per il nuovo album? Ci terrei molto.
-Sono qui apposta. Fa' vedere.
-Cosa?
-L'elenco del telefono. Pronto, Coverdale? Il testo!
-Ah, il testo. Ce l'ha Glenn. Io devo avere una copia da qualche parte. Aspetta, dove l'ho messa? - fece per alzarsi e cercarla.
-Non importa. Deve cantarla Hughes?
-No, devo cantarla io. Ma il testo è...
-Ispirato a lui? È romantico da parte tua.
-Non prendermi per il naso: non è romantico. È ridicolo.
Vandenberg afferrò la chitarra di Coverdale, abbandonata sul divano, e vi strimpellò sopra un paio di accordi del suo Adagio, con un sospiro: - Ti vedo giù, Cov. Sorridi, si sistemerà tutto.
-Non è così semplice.
-Over here, baby. – scherzò, citando Still of the night e tirandoselo vicino – Che altro c'è?
-Hai una buona mezz'ora? Ti racconto di questi giorni.
-E' ovvio. Anche perchè non saprei proprio dove scappare. Vieni, su, andiamo a prepararci un tè.

 

Avevano aspettato Glenn per quasi una settimana, il che non era nemmeno troppo, considerato che doveva studiarsi i testi e ascoltarsi i demo. Ma che David lo volesse almeno più attivo e presente alla realizzazione delle sue parti era palese, mentre camminava nervosamente per lo studio personale, fumando una sigaretta dopo l'altra: -Non c'è niente da fare. Non c'è un cazzo di niente da fare. Non vuole essere aiutato, non vuole aiutare noi.
Li guardò uno ad uno. Rudy Sarzo sfogliava una rivista di sua moglie, svaccato sul divanetto. Tommy Aldridge alternava una cucchiaiata di mousse al cioccolato preparata da Vandenberg la sera avanti a un'imprecazione perchè non trovava le sue bacchette. Adrian, dal canto suo, stava improvvisando, con aria serafica, un lavoretto a maglia con un gomitolo di lana saltato fuori da chissà dove e le suddette bacchette del batterista.
-Dagli tempo, Dave. È un po' fuori allenamento. - commentò il bassista, storcendo il naso davanti a un modello di alta moda francese – Tutta questa fatica per vestire le donne che poi sono più belle spogliate. - rise, dando di gomito al chitarrista.
-Fuori allenamento un cazzo. Che si venga a scaldare la voce qui, no?
-Piuttosto, a lui non interesserà, – replicò Vandenberg senza distogliere l'attenzione da un complesso punto rovescio che gli aveva insegnato sua madre – ma se continuiamo a dilatare così tanto i tempi, i cazzi e mazzi dei discografici poi sono rogne nostre.
-Ah, – agitò la mano con sufficienza – per quello ci penso io. È una questione di principio, Adje.
-Di affetto, semmai.
-Prego? La smetti di sferruzzare sottopentole e boffonchiare cazzate?
-Davey. - abbandonò il lavoro in grembo a Sarzo per raggiungerlo e cingergli i fianchi con un braccio – Davey, sali e portalo giù, no?
-Veramente sono già qui. - Glenn era apparso sulle scale, esitando.
-Oh, Glenn! Vieni, vieni. Da cosa vogliamo cominciare?
-A noi queste debolezze non sarebbero concesse. - sussurrò il bassista a Aldridge – Che diavolo ha, che si illumina quando lo vede arrivare?
-Ma che ne so! Saranno affari loro, tu pensa a suonare. E se proprio, lavorati Adje e fatti dire qualcosa.
-Cominciamo da Fool for your loving, no? Del resto è un remake. - Vandenberg sciolse con un gesto deciso il lavoro a maglia, rendendo le bacchette al batterista, con un rinnovato entusiasmo.
-Come volete... cioè, scegliete voi. - Hughes si avvicinò con timore ad uno dei due microfoni. Dall'altro gli arrivò il sorriso rassicurante di Coverdale, che dava il tempo per la partenza.
Al primo coro, la stonatura di Glenn fendette l'aria come se avessero tagliato una lamiera, attirandosi lo sguardo di tutti.
-Perdonate... io... io sono un po' fuori forma.
-Non importa. Ragazzi, la rifacciamo.
“La rifacciamo” era stata una frase che si era ripetuta almeno una mezza dozzina di volte, prima che Hughes abbandonasse il microfono con aria affranta.
-Certo che se è questo lo stato in cui dobbiamo lavorare!
-Sarzo! - il bassista si beccò l'occhiata severa di Coverdale – E' affar mio lo stato in cui dobbiamo lavorare.
-Non sei da solo, nel caso non te lo ricordassi. E dobbiamo suonare tutti: le tue faccende personali dovresti tenerle fuori. Ah, già, dimentico che siamo tutti qui ad uso e consumo del grande Coverdale.
Il chitarrista gli fece segno di tacere, un attimo prima che il cantante uscisse sbattendo la porta.
-Glenn, per l'amor di Dio! Vuoi tornare dentro? - lo trovò seduto sui gradini del patio, incurante della neve – Glenn si muore di freddo, ci rimetterai la voce.
-Per quello che me ne faccio, della voce! Non vedi? Non valgo più niente, David. Lasciami andar via, che sto a fare qui?
-Io ti voglio in questo disco. Non se ne parla. Tu resti.
-Per cosa? Per mettermi in imbarazzo? Ti prego, lasciami uscire di scena senza costringermi ad umiliarmi.
-Alzati, Hughes. - il tono si era fatto severo – Smetti di piangerti addosso e guardami. Io ti voglio bene, non ce la faccio a vederti così.
-Se mi volessi bene, mi lasceresti andare. Mi lasceresti libero.
-Libero di cosa? Di ucciderti? Se non te ne volessi, ti lascerei andare alla deriva. Ma così no, cazzo! Sei un fottuto egoista, potresti anche ammazzarti che non te ne fregherebbe niente né di me né di nessun altro.
-Egoista. Se qui c'è un egoista sei tu. Non riesci ad aiutare te stesso e vuoi aiutare me, solo per guardarti allo specchio e farti l'applauso da solo per la buona azione? Per trovare uno scopo alla tua vita? Beh, io non voglio essere il mezzo di nessuno, mettitelo in testa. - aprì la porta e fece per andare in casa.
-Glenn! - lo inseguì, trattenendolo e costringendolo a sedersi sul divano. Gli si inginocchiò davanti, perchè riuscisse a guardarlo negli occhi – Glenn, io non voglio perderti.
-Lasciami andare. Non lo sai? A prendersi carico dei fantasmi altrui, alla fine si finisce per considerarli come propri. Lasciami andare, non voglio distruggere anche te.
-Sono abbastanza forte da non permettertelo.
-Ti sopravvaluti sempre.
-Non andar via. Non ripartire, ti prego. Per dove? Verso cosa?
Hughes scrollò la testa, con amarezza, sfuggendogli e imboccando le scale.
Si ritrovò inginocchiato a terra, solo, nel silenzio, finchè la quiete non fu rotta dallo sgranocchiare ritmico di Adje, comparso sulla soglia.
-Tieni, mangia. - gli passò la stecca di cioccolato quasi finita – Fa bene all'umore.
-'Sto cazzo. Ho preso un chilo e mezzo da quando sei qui. E non è nemmeno una settimana: sei peggio di mia madre.
-Cov, senti, se posso dirlo: lui ha le sue ragioni.
-Hai ascoltato?
-Non ho potuto evitarlo. Mi dispiace, sai. - gli posò una mano sulla testa, come fosse stato un gatto – Però, mica puoi obbligare una persona a restare. È l'atto d'amore più grande che si può fare, lasciare qualcuno libero anche di sbagliare.
-Anche di distruggersi?
-No. Ma non lo puoi impedire. Finchè non si libererà lui dei suoi fantasmi, restare con te sarebbe solo posticipare quella guarigione.
-Lo so, lo so. Ma mi sento così impotente, Adje. Che posso fare?
-Nulla. Aspettare. E aprirgli la porta, quando tornerà, perchè potrebbe ricomparire più distrutto di adesso. Non sono battaglie facili. Non badare allo stato in cui sarà, quando verrà a bussarti alla porta. Tu stringilo e prendilo dentro: è tutto quello che puoi fare. A volte non serve la vicinanza fisica, ma solo il pensiero che, ovunque sei nel mondo, esista un posto a cui puoi fare ritorno: non sai che conforto può essere.
-Sì, ma non è giusto. Non è giusto che mi lasci qui, con le mani in mano e pretendere anche di...
-Sarà il momento in cui meno meriterà di essere amato, ma in cui ne avrà più bisogno.
Tacquero, restandosene un paio di minuti buoni a masticare in silenzio.
-Sei saggio, Adje.
-Non l'avresti mai detto, eh?
-No. Come immaginare che in quella tua bionda testolina olandese si nascondano di questi pensieri! Soprattutto perchè sembri sempre prendere le cose con troppa leggerezza.
-E' necessario, altrimenti finisci per impazzire, sai. It's only rock 'n roll.
-Che farei senza di te?
-Ah, parole! Alla prima occasione ti stancherai anche di me, come di tutti gli altri. - rise, amaramente.
-Che vuoi dire?
-Quello che ho detto. Tu non tolleri fallimenti, David. Non professionali, almeno. Nulla può interferire con il tuo progetto, i tuoi affari. Ha ragione Rudy, in un certo senso a Hughes sono concessi privilegi che nessuno qui ha mai avuto da parte tua. Ma che nessuno, in effetti, può pretendere.
-Ora sei tu che non la prendi più molto rock'n roll.
-Si fa per parlare. Io posso sopravvivere benissimo. Un giorno mi ritirerò a dipingere e a produrre cioccolato.
-Due chili in più. - commentò l'inglese, guardando con disprezzo quello che stava mangiando – E quattro groupies in meno.
-Ah, alle donne piace un po' di pancia. - scherzò, cacciando affettuosamente le mani sotto il maglione del collega – Da' soddisfazione.
-Quando mai sei stato una donna? - alzò un sopracciglio, scettico, osservando la sagoma dell'altro, alta, sottile e flessuosa - E tieni al loro posto le tue preziose manine da musicista, se vuoi continuare a suonare quella chitarra così disgustosamente dipinta di rosa. - si alzò con un sospiro pesante: - Adje, senti...
-Uhm?
-Sono davvero la persona che descrivi?
-Beh, in un certo senso.
-Una volta non ero così. Intendo, quando non c'erano gli affari di mezzo. Chissà cosa penserebbe di me mia madre, se vedesse davvero come ci riduce questa vita!
L'olandese gli assestò una pacca sulla spalla: - Andiamo a lavorare, va'. Altrimenti non concluderemo più nulla nemmeno oggi.

 

Saltbourne (Yorkshire), 1970. Inverno.

Posò le chiavi e gli spiccioli della serata sul tavolo di cucina, avviandosi al buio verso le scale. Sempre al buio, guadagnò la propria camera da letto, abbandonando la giacca sulla spalliera della sedia e cercando di fare il meno rumore possibile.
Ma lei era apparsa comunque sulla soglia e aveva acceso la luce.
-Almeno non rischi di lasciare gli stinchi contro il comodino. - rise appena, stringendosi nella vestaglia.
-Non volevo svegliarti. Che fai ancora in piedi?
-Ero in pensiero, sta piovendo. Lo sai che ore sono, Dave?
-Le tre, credo.
-Appunto.
-Mamma, ho vent'anni!
-Diciannove. - precisò lei, cercando di assumere la sua espressione più irremovibile.
-Lo so, abbiamo fatto tardi. Con questo freddo, la macchina di Mick non partiva.
-Ci credo! Mi meraviglio che voi scavezzacollo andiate a rischiare salendo in sei su quel vecchio catorcio.
-In sei più tutti gli strumenti. - avrebbe fatto meglio a non dirlo e difatti si morse la lingua subito dopo – Però, se non fosse per quel vecchio catorcio non potremmo andare a suonare in giro. E non hai idea di come sia difficile procurarsi un fottu...
-Dave... - l'occhiata severa di sua madre lo fermò giusto in tempo
-Ehm, un accidenti di ingaggio.
-Lo immagino. Potreste suonare al bar, ogni tanto, ma chiaramente non potrei pagarvi.
-Ah, per quello che guadagniamo! - disfece il letto, rabbrividendo e raggomitolandosi sotto le coperte – Ma non è quello il punto. È che boh...
Lasciò la frase in sospeso, sospirando.
-Molto eloquente, da parte tua. - lo fece ridere – Lo so che c'è, Dave. Ma avrete il vostro successo. Serve tempo, mica si ottengono così, certe cose.
-O forse mai. Magari non ne siamo capaci.
-Stasera com'è andata?
-I soliti quattro gatti. - ammise con delusione - Mi dispiace, mamma, se finisco sempre per deluderti.
Lei sorrise, con pazienza, sedendosi sul bordo del letto e carezzandogli i capelli: - Ma io sono orgogliosa di te, amor mio, indipendentemente da quanta gente viene ad ascoltarvi. Io sono orgogliosa per altro, sei più deluso tu.
-Non so, vorrei portarti via da qui, offrirti di meglio.
-Ma cosa dovrei volere di meglio? Ho te. - si sdraiò accanto al figlio, abbracciandolo dolcemente – Ho solo te. Sei il mio uomo di casa, adesso. E ho il nostro bar che cade un po' a pezzi, ma insomma... A proposito, ho chiamato l'idraulico per aggiustare quell'infiltrazione, oggi.
-Ma possiamo permettercelo? Al negozio non mi pagheranno fino a venerdì prossimo.
-Eh, andremo un po' al risparmio, che vuoi farci? - lo strinse.
-Ci sono i soldi di stasera, ma è poca cosa.
Lei lo baciò sulla testa, senza dir nulla.
-Mamma, mi spiace non poterti dare di più. Forse non ho abbastanza talento.
-Ma che dici?
-Forse rimarrò per sempre un commesso di boutique che canta al venerdì sera per qualche pub sperduto, in questo paese dimenticato.
-Non importa: canterai. È quello che ami fare. Canterai e sarà quello che conta.
-Vedrai, - le disse, portandosi la sua mano alle labbra e baciandola – vedrai che le cose cambieranno. E quando andranno meglio, ti porterò via di qui, potrai avere quello che sognavi, quello che non hai mai potuto avere. È che non so quando succederà.
Gli passò le dita tra i capelli: - Non saprei nemmeno cosa volere di più. Non saprei che farmene. Vorrei che tu fossi felice.
-Lo sarò. - sospirò, chiudendo gli occhi – Lo saremo.
-Ne sono sicura. Ora dormi, su.

 

Si infilò nel suo letto, incurante se stesse dormendo o meno. Non si preoccupò neppure se fosse gradita la sua presenza o se avesse fatto meglio a lasciarlo solo. Semplicemente non riuscì a resistere all'impulso di farlo, di stringersi al suo corpo tiepido e di circondarlo con la gamba, protettivo, in un frusciare di coperte e stoffa.
Lui si agitò nel sonno, tremando.
-Calmo, Glenn, sono io. - gli sussurrò aderendo alla sua schiena – Va tutto bene.
-Davey... - gli afferrò il braccio, portandoselo sul proprio petto per farsi abbracciare – Che ci fai qui?
-Nulla. Volevo... non so, non riuscivo a star solo. E a saperti da solo. - parlava con un filo di voce, tenendo il viso accostato al suo collo.
Glenn rabbrividì di piacere nel sentire il suo respiro sulla propria pelle e non disse nulla, limitandosi ad accoccolarsi più comodamente tra le sue braccia.
-Che ti ricorda? - continuò il cantante, tuffando il naso tra i suoi capelli.
-Certe notti delle tournèe di troppi anni fa.
-Una notte in particolare, no? Alle Hawaii. Ma quanto eravamo fatti, quella sera e ubriachi?
-E se non lo fossimo stati?
-Probabilmente avremmo continuato a inseguirci per anni.
-Avrei continuato io ad inseguirti per anni. - precisò il bassista.
-E' vero. E adesso mi ritroverei a dovermi insinuare nel tuo letto per farmi perdonare di tutto quel tempo che è passato.
-Non lo stai facendo comunque?
-In un certo senso. Voltati, Glenn.
-Perchè? Sto comodo, così.
-Perchè allora dormivi con la testa sul mio petto.
Il bassista si assestò nell'incavo del suo braccio: - Così?
-Così. Non è passato un giorno. Non ti ho ancora perduto, non te ne andrai.

 

Honolulu, 1975.

-Tu stai rischiando grosso, Coverdale. - gli era entrato nella camera da letto con un tempismo perfetto, quello necessario per incrociare sulla soglia la creatura deliziosa con cui il cantante doveva aver passato un paio d'ore tutt'altro che sgradevoli – Tu, bellezza, vai. Togli il disturbo, su. - si era chiuso la porta alle spalle, posando la bottiglia di whiskey sul tavolo, con aria spavalda.
-E se non avevo ancora finito, con la signorina? - protestò l'altro, dal letto, coperto a mezzo col lenzuolo e il capelli sparsi come un manto sulle spalle nude.
-Pazienza. Vorrà dire che dovrai trovare altri modi per sfogarti, Dave.
-Ma tu, possibile che devi venire a rompere le palle a me nei momenti meno opportuni? Perchè non sei a farti una groupie da qualche parte? O perchè non sei con Tommy?
-Tommy è a farsi una groupie. - precisò - Paice e Lord li ho persi, dopo la fine del concerto.
-Per un attimo ho temuto che mi dicessi: Paice e Lord si sono appartati insieme.
-Perchè no? Tu, piuttosto...
-Ma cos'è che starei rischiando, io?
-Che ti salti addosso sul palco, davanti a tutti, Dave. Ti sembra il modo di provocarmi, quello?
-Io non avevo nessuna intenzione di provocarti.
-Su, dai, non fare l'innocente ragazzino dello York, chè non lo sei più da un pezzo. Ti strusciavi addosso a me in un modo che non avevi mai fatto, stasera, mentre suonavamo You keep on.
-Non credevo che ti dispiacesse.
-Non mi dispiaceva. Appunto perchè non mi dispiaceva, cazzo, certe cose non le devi fare. C'è modo e modo di tenere un microfono, se dobbiamo dividerlo, e non è esattamente quello che hai scelto tu. Soprattutto perchè non ci fai certe allusioni e non ci lasci sopra certi sospiri che ti fanno uscire di senno.
-Come vuoi. - si strinse nelle spalle – Visto che sei così sensibile a certi espedienti di scena...
-Sono sensibile al fatto che poi non ti dai. - bevve una robusta sorsata dal collo della bottiglia – E che io puntualmente rimango a elemosinare la tua attenzione.
-Non è vero. Non lo faccio per tormentare te.
-Sarà. Ma io uno di questi giorni ti inchiodo su quel letto, su un tavolo o contro un muro e non mi prendo responsabilità di quello che potrei farti.
-E sentiamo, cosa potresti farmi? - rise, scrollando la chioma scura.
Glenn posò la bottiglia sul comodino, prima di salire sul letto e avvicinarsi a lui, fino a salire a cavalcioni delle sue gambe.
-Vuoi veramente saperlo? - lo sfidò, concedendosi di smarrirsi un lungo istante in quegli occhi di un verde così tendente al giallo del grano.
-Dimmelo.
Il bassista si agitò su di lui, sdraiandosi sul suo petto e raggiungendo il suo orecchio con le labbra. Ma non riuscì a formulare nulla, limitandosi a lambirgli il lobo con devozione, mentre l'altro cercava di prendere la bottiglia di whiskey.
-Che ne devi fare? - gliela porse, prima di tornare a baciarlo, questa volta sul collo.
-Voglio ubriacarmi.
-Più di quanto non sei già?
-Voglio non pensare a quanto ce ne potremmo pentire domani.
-Pentire di cosa?
-Di questo. - lo afferrò per le spalle e lo sdraiò sotto di sé. Con le labbra premute sulle sue, cominciò ad armeggiare con i bottoni della camicia. La aprì con decisione, per baciargli il petto con insistenza, a lungo, prendendosi tutto il tempo che aveva perso in precedenza - Non è normale che tu mi piaccia così, Glenn. - seguì con la punta del dito la forma di quelle labbra morbide e piene.
-Forse ti piace che io ti adori. Mi hai fatto impazzire per quasi due anni, peggio di come tratti le groupies.
-Sei la mia groupie. - gli sussurrò, vedendolo sorridere – La mia piccola groupie.
Gli passò la mano dentro l'orlo dei pantaloni, facendolo rabbrividire.
-Oh, Dave! - si impossessò di nuovo della sua bocca, esultando nella mente perchè era sua, perchè l'aveva, ora. Reclinò la testa sul cuscino, cercando aria, mentre perdeva il controllo per colpa delle sue carezze.
Il cantante si interruppe, prendendogli il viso tra le mani e mormorandogli qualcosa di basso, roco e sconnesso. Poi si scostò per permettergli di alzarsi e di liberarsi dei vestiti.
Glenn gettò di lato le coperte, sedendosi sulle sue gambe, accarezzandolo, mentre l'altro continuava a fissarlo con quegli occhi verdi, improvvisamente sicuro di sé, dell'effetto che gli provocava la sua sfrontata bellezza.
-Sono la tua groupie adorante. - rise, cominciando a muoversi lentamente, pigramente, con compiaciuta sensualità – Cosa vuoi che ti faccia?
-Baciami. - scivolò sotto di lui, costringendolo a sdraiarsi sul suo corpo.
Glenn tracciò scie lievi sul suo petto, ad occhi chiusi, i capelli sparsi sul suo torace, nei quali David affondava le mani con un piacere voluttuoso.
-Ancora. - gli sussurrò. I baci si fecero una serie più lasciva e calda di carezze, finchè Dave non trascinò Glenn sulle sue labbra, scostandogli i riccioli dal viso, prima di posarvi sopra le proprie.
-Mi piaci, Davey. Sei così bello. Lo sai? - si agitò su di lui, premendogli un ginocchio tra le sue gambe.
Lui scosse la testa, prima di socchiudere la bocca, in un sospiro di piacere.
-Lo sei. Lo sei da star male.
-Hughesy... - gli accarezzò la schiena riempiendosi i palmi della morbidezza della sua pelle – Hughesy, dimmi che mi vuoi.
Lui lo osservò per un momento, prima di disegnare sui suoi fianchi arabeschi distratti eppoi afferrarlo saldamente: - Ti voglio. Sei mio.

 

-Dimmi che mi vuoi, Hughesy. - gli soffiò, quando lui gli posò un bacio all'angolo della bocca.
-Ti voglio bene. - gli si strinse addosso, con un'innocenza diversa – Te ne voglio tanto.
-Ti vorrei ancora, Glenn.
-Sono qui.
-Non è la stessa cosa.
-Lo so. Dio, come ti vorrei anch'io, con tutto questo schifo che c'è attorno. Se stessi bene, se fossi un altro, resterei e cercherei qui la voglia di vivere che non ho più, ma non si può. Mi distruggerei e ti distruggerei.
-Lasciami dormire con te, almeno questa notte. - reclinò la testa sulla sua.
-Oh, questo sì. - respirò a fondo il suo profumo – Proteggimi.
-Ti proteggo, Glenn. Dormi, adesso. Dormi.


(Continua)

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Capitolo 5
*** Epilogo: You keep on moving ***


Ultimo capitolo, gente! Che malinconia da fine storia, come al solito :')
Spero che questa breve avventura sia stata piacevole per voi quanto lo è stata per me. E se, invece, dovessi avervi annoiato, credetemi, non lo si è fatto apposta ^^"
Un bacio grande! 
Thanks, 
Marguerite.




You, you keep on moving
Far away, far away
Everyday wheels are turning
And the cry still returning
(Deep Purple, You keep on moving)


Your trouser cuffs are dirty
and your shoes are laced up wrong
you'd better take off your homburg
'cos your overcoat is too long.
(Procol Harum, Homburg)

 

 

EPILOGO: You keep on moving


 

Una settimana dopo.

Scese le scale, infagottato nel maglione grigio troppo largo, mentre cercava di aggiustarsi con le mani i capelli arruffati. Inforcò gli occhiali per distinguere la sagoma seduta sul divano, riconoscendo la testa bionda di Vandenberg china su un blocco di fogli.
Lui alzò appena lo sguardo, continuando a graffiare disegni con la matita: - Buongiorno, Capo, il caffè è nel bricco, la ciambella è nel forno. La cucina è di là. - gli indicò la porta che stava clamorosamente sbagliando, rischiando di scontrarsi con lo stipite.
-Sì sì, grazie. - riuscì a formulare, massaggiandosi la base del naso.
-Nottataccia?
-Non so, ho dormito male. Era come se avessi un peso qui. - si indicò lo sterno – Digestione?
-Eh, può darsi. Gastrite. - temporeggiò.
-Colpa tua e di tutto quello che mi costringi a mangiare.
-Senti, Cov, devo parlarti. - chiuse il blocco e lo posò sul tavolo, con aria grave.
-Oddio, che succede ancora?
-E' partito.
-Chi?
-Hughes.
-Che cazzo significa che è partito? - si riscosse – Per dove?
-Non so, non me l'ha voluto dire di preciso: per il Nord Africa, grosso modo. Me lo sono trovato in camera da letto alle cinque con le valigie in mano e un taxi ad aspettarlo fuori dalla porta di casa. Mi ha detto che non ce la faceva a restare. E che aveva deciso di salvarsi, questa volta davvero. - gli passò un braccio attorno alle spalle.
-E tu l'hai lasciato andare?
-Cosa dovevo fare, secondo te, chiuderlo dentro?
-L'hai lasciato andare senza avvertirmi?- lo respinse - Tu non capisci un cazzo, Vandenberg. Solo un idiota avrebbe pensato di lasciarlo andar via in quelle condizioni...
-Ascoltami bene, Coverdale, dovresti essere felice per lui, se ha trovato la sua strada. Non lo puoi trattenere, non puoi possedere qualcuno. Non puoi salvarlo, se non vuole salvarsi. Non hai nessun potere, non sei Dio, non sei un cazzo di nessuno, è chiaro? Non compiacerti di quello che hai fatto. Amalo senza egoismo. E cerca di usare un altro tono con me.
-Hai ragione, hai ragione, perdonami. - si morse le labbra.
-Lascia stare. Mi dispiace, Cov. Sai, se non è venuto da te è stato perchè non voleva vederti così. Ci ha lasciato tutti i demo... insomma, la sua voce è qui, no?, possiamo sempre cavarcela col materiale che abbiamo.
Annuì.
-Tornerà. Tornerà e starà bene, Cov. Ne sono sicuro.
-Spero tanto che tu abbia ragione.
-Adrian Vandenberg, un giorno io ti stacco la testa e la uso per decorarci il mio basso! - la minaccia di Sarzo arrivò forte e chiara dall'altra stanza – Dove accidenti hai nascosto quei fottuti nastri?
-Arrivo, arrivo. Possibile che non riusciate a far nulla senza di me?
-Vado?
-No, lascia, ci penso io. Tu cerca magari di...
-Meglio se torniamo al lavoro, mi aiuta a non pensarci. - sospirò, aprendo distrattamente il notes di Adrian e osservando lo schizzo del panorama del lago che vi aveva tracciato. Scorse i fogli fino a incontrare un bozzetto a penna.
-Sono io? - Adrian l'aveva ritratto mentre cantava.
Sorrise con amarezza: non seppe dire perchè, ma sentì che c'era dell'affetto nel modo in cui l'aveva disegnato. Lo fermò, prima che potesse raggiungere gli altri, prendendosi un istante per abbracciarlo.
-Povero Adje. Ti tratto sempre male, non è vero? Scusami.
-Non fa nulla. - gli battè la mano sulla spalla - Andiamo a cercare quei nastri, prima che Sarzo ci uccida davvero.

 

Londra, 1990. Gennaio.

Hughes posò le valigie nell'ingresso, prima di venir sommerso dalle lettere sparse sul pavimento, accanto alla porta. Le raccolse svogliatamente, impilando in cima al mucchio un pacchettino avvolto nella carta color avana delle spedizioni. La grafia era quella arruffata di David, il timbro postale di novembre. Posò il resto delle buste sul tavolo e aprì l'involto: assieme a poche righe, c'era il nastro di Slip of the tongue. Lo mise nel mangianastri, premendo il tasto di riproduzione e rimase in silenzio per quasi tutta la durata, mentre scempiava un'altra busta e scorreva con gli occhi la lettera su carta intestata mandatagli dalla Warner Bros.
Il nastro terminò con uno scricchiolio, facendo piombare la casa nel silenzio. Prese il telefono e compose un numero dall'altro capo del mondo. Dovette attendere un paio di minuti buoni, prima che la cornetta, dal lato opposto, si sollevasse con un pigro clic e gli rispondesse una voce arrocchita e impastata di sonno.
-Ma chi cazzo è a quest'ora? - sentì una donna protestare di sottofondo.
-Coverdale. - boffonchiò lui – Ma lo sapete che ore sono?
-David, sono Glenn. Non avevo calcolato il fuso.
-Glenn! No, non fa nulla, aspetta... - lo sentì armeggiare con il filo e con l'apparecchio e lo immaginò mentre si trascinava il telefono nell'altra stanza, chiudendo la porta e sedendosi sul pavimento, come le adolescenti dei film americani.
-Ho ricevuto... Dave, ci sei?
-Sì, ci sono. Parla.
-Ho ricevuto il nastro di Slip of the tongue.
-Comincio a rimpiangere l'efficenza delle poste britanniche, sai. Gli americani se la prendono sempre troppo comoda. Te l'avevo spedito a novembre.
-No, veramente sono io che sono rientrato solo adesso.
-Ah. Da dove?
-Il Cairo.
-Buone ispirazioni?
-In un certo senso.
-Che ne pensi del risultato, Glenn?
-Che io potevo anche non esserci. - rispose, senza nessuna incrinatura nel tono – Sarebbe stata la stessa cosa: non si percepisce nemmeno lontanamente che ho lavorato con te.
-Lo so. Mi dispiace, sai. Esigenze di mixaggio e tutto il resto... eppoi sei tu ad essertene andato dopo poco più di una settimana, il materiale era quello che era.
-Non era un rimprovero, Dave. Sono consapevole di non avere dato il meglio di me.
-Sciocchezze! Eppoi non era una vera collaborazione, era un modo come un altro per farti tornare voglia di comporre e di cantare. Come stai, adesso?
-Meglio. Cioè, – si accorse di aver risposto con troppa fretta – sto mettendo a posto le cose. Vedi, mi sto curando. Ho la percezione di star finalmente andando nella direzione giusta. Ne sto uscendo, Dave, te l'assicuro. Mi è servito sbattere il muso contro quello che ero diventato. Mi è servito venire da te.
-E' vero?
-E' vero. Ho appena saputo che vogliono propormi un progetto: ho intenzione di accettare. - si rigirò la lettera della casa discografica tra le mani – Da solista, questa volta. Mi riprendo in mano la mia vita.
-Dio, Glenn, fossi qui ti stringerei. - sospirò qualcosa di incomprensibile a chilometri di distanza – Dio mio, non sai quanto sono felice di questo. Glenn, oh Glenn... - rise con quella sua risata pastosa – Lo sapevo, lo sapevo che ce l'avresti fatta.
-Non correre troppo, non sono ancora sotto contratto, è solo un invito a...
-Non importa: è l'idea che conta! Dio, non vedo l'ora di rivederti su un fottutissimo palco, Hughes. Resterai a Londra?
-Non so, per il momento sì. Credo. Se riesco a sopportare questa immobilità e questo silenzio. Ma ho la mia voce, ho la mia musica.
-Hai te stesso, finalmente.
Tolse dalla tasca della giacca due fogli: uno era il testo di Sailing ship, l'altro un biglietto di sola andata per Bali, con partenza due giorni dopo.
Accarezzò con la punta delle dita le parole tracciate da David: - In un certo senso ho anche te.
-Togli “in un certo senso”. Tu hai anche me.
-What a sweetheart you are! - rise - Ti farò sapere.
-Ci conto. Glenn?
-Sì?
-Abbi cura di te, ti prego. Sei l'unico che abbia la chiave per farlo. Ricordati di quello che ti ho scritto.
-Quello che mi hai scritto è sempre qui. - ripose il foglio nella tasca, accanto al cuore – L'oceano è un po' meno profondo, adesso. E tu, tu cosa farai?
-Mi prenderò quella pausa, dopo il tour. Allora verrai a trovarmi, non è vero? E parleremo finalmente del Wolverhampton e di Elvis. E faremo lunghe passeggiate in riva al lago.
-E canteremo davanti al camino, la sera? Sì, perchè no. Ma spero che tu ci ripensi.
-E' solo una pausa. - sospirò, non senza amarezza - Ti aspetto, Glenn. In qualunque momento. Vento in poppa, ol'boy. Telefona, scrivimi. Anche due righe, quando vuoi.
Il bassista posò il ricevitore, restando a guardare il biglietto aereo. Con un gesto deciso lo strappò in quattro parti, lasciandole cadere sul pavimento.
Fuori, sul terrazzo vide che un raggio di sole si era fatto timidamente spazio tra le nubi. Respirò l'aria a pieni polmoni. Il vento del Nord portava odore di cambiamento. Odore di pioggia vicina ed echi di una voce lontana, ma ora stranamente rassicurante.
La sua voce. Se ne lasciò accarezzare, avvolgere, ad occhi chiusi.
-Basta fuggire, Tommy. Possiamo fermarci, adesso. - sussurrò con un sorriso – Avevi ragione tu, io sono ancora qui. E qui staremo bene, ora, lo sento.

 

 

Fine

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