The Casimir Effect

di Glinda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zaggit Zagoo, pianeta Zog, marzo 2010 ***
Capitolo 2: *** Verdun, Francia, maggio 1916 ***
Capitolo 3: *** Mort-Homme ***
Capitolo 4: *** Caos calmo, parte prima ***
Capitolo 5: *** Il destino di un medico ***
Capitolo 6: *** Allons-y, Jacques ***
Capitolo 7: *** Il santo che mi ha tradito ***
Capitolo 8: *** L'ultima goccia ***
Capitolo 9: *** Duplice follia ***
Capitolo 10: *** Orbite parallele ***
Capitolo 11: *** Oceano Atlantico, 11.000 m s.l.m., settembre 2010 ***
Capitolo 12: *** Fra le braccia di Morfeo ***
Capitolo 13: *** L'altro mondo ***
Capitolo 14: *** Attività illecite, parte prima ***
Capitolo 15: *** Attività illecite, parte seconda ***
Capitolo 16: *** Questione di etichetta ***
Capitolo 17: *** Uguale e contraria ***
Capitolo 18: *** Gli inconvenienti del mestiere, parte prima ***
Capitolo 19: *** L'effetto del silenzio ***
Capitolo 20: *** Gli inconvenienti del mestiere, parte seconda ***
Capitolo 21: *** Gli inconvenienti del mestiere, terza e ultima parte ***
Capitolo 22: *** Jax e Becca ***
Capitolo 23: *** Lui, lei, l'altro ***
Capitolo 24: *** I mulini degli dei, parte prima ***
Capitolo 25: *** I mulini degli dei, parte seconda ***
Capitolo 26: *** I mulini degli dei, parte terza ***
Capitolo 27: *** The Game of the Name ***
Capitolo 28: *** Carne Fresca ***



Capitolo 1
*** Zaggit Zagoo, pianeta Zog, marzo 2010 ***


Premessa dell’autrice: La mia prima fanfiction su Torchwood! Finora mi ero orientata sui manga, ma dopo aver finalmente potuto seguire questa bellissima serie britannica (da anni e anni ne sentivo parlare, senza contare il mitico Doctor Who, ovviamente) sul digitale terrestre, mi è balzata in testa un’idea e così… Ecco il risultato! Spero vi sia gradita. Alla fine di ciascun capitolo, se lo riterrò necessario per la comprensione dello stesso, inserirò di volta in volta alcune note che spiegheranno e chiariranno il testo. A questo punto non mi resta che augurarvi buona lettura, e soprattutto buon divertimento!

 

Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

 

 

Zaggit Zagoo, pianeta Zog, marzo 2010

 

“Signore, non le sembra di aver bevuto già fin troppo?” esordisce il barman di fronte a me, dall’altro lato del bancone.

 

Ecco: tipico atteggiamento di chi prima è ben contento di servirti (cliente certo = introiti assicurati), ma poi, una volta definita la situazione, cerca di evitare guai futuri. Ergo, finché ho bevuto solo qualche bicchiere gli ho fatto comodo… Solo che ora l’alcol inizia a scorrere a fiumi, almeno secondo il suo punto di vista, e troppo alcol in corpo a un avventore corrisponde a possibili risse e devastazioni del locale stesso; fatto assolutamente da evitare, per un barista, soprattutto se ci tiene al proprio posto di lavoro.

 

Nel mio caso specifico e particolare, ci vorrà molto più del normale prima che inizi a ubriacarmi sul serio, com’è ovvio: il fegato di un comune mortale è già di per sé un organo autorigenerante, figuriamoci quello di uno come me. Ma il barman questo non può saperlo, e come dargli torto, del resto?

 

Un tempo, 176 anni fa (o 2158 anni fa, se vogliamo considerarli secondo il mio TLS), quando ancora mi trovavo agli inizi della mia esperienza di immortale, ero solito mettere continuamente alla prova queste strane, nuove capacità. In quanti modi sarei potuto morire? Tramite arma da fuoco o spada? Affogato, soffocato, avvelenato, sgozzato, bruciato…? E il mio corpo, doveva comunque restare integro per poter avere l’assoluta certezza del ritorno in vita?

 

Con i metodi di cui sopra, ne ero abbastanza sicuro, però non avevo mai sperimentato una vera e propria morte tramite rogo, tanto per fare un esempio. Dato alle fiamme, un corpo umano adulto impiega mediamente fra le 48 e le 72 ore per ridursi completamente in cenere. Se ciò fosse accaduto, sarei stato in grado di risorgere come la mitica fenice delle leggende terrestri? Forse mi sarei potuto togliere tale dubbio già diverso tempo fa se, dopo le infauste vicende del Satellite Cinque, il Manipolatore mi si fosse inceppato e mi avesse trasportato qualche secolo prima, che so, durante il Medioevo, oppure anche più di recente, nel diciassettesimo secolo, invece che nel 1869…

 

In ogni caso, mi tolsi tali dubbi una volta per tutte quando, a causa di un errore di valutazione, finii per l’ennesima volta nella tenda del mio medico da campo, durante la Prima Guerra Mondiale. O guerra della trincee, come la chiamavano allora. Definizione azzeccata. Il più delle volte le battaglie fra i due fronti si trascinavano per periodi fin troppo lunghi, e le trincee scavate nel terreno fangoso e umido arrivavano a somigliare a degli alloggi veri e propri. Sporchi, angusti, bui, puzzolenti del sudore di noi soldati, con il terrore che prima o poi le pareti ci sarebbero crollate in testa, ma pur sempre degli alloggi.

 

Naturalmente, tale discorso valeva almeno fino a quando non ti fosse arrivata una granata giusto dentro la buca che in teoria sarebbe dovuta servire a proteggerti, e allora sì che si scatenava l’inferno. A quel punto, rimanevano due cose da fare, due uniche opzioni: o rimanevi rintanato nella tua bella trappola per topi, oppure radunavi tutto il coraggio che possedevi, o pazzia che dir si voglia, e ti lanciavi all’attacco del nemico. Sperando, se non proprio di cavartela, perlomeno di procurargli qualche danno, prima di crepare definitivamente.

 

Beh, in quella particolare occasione, nel maggio del 1916, capitò esattamente un episodio del genere, e io scelsi la seconda possibilità. Mi dissi che diavolo, sono immortale sì o no? Ormai l’ho appurato da decenni; non potrei morire nemmeno se mi crivellassero di colpi, nemmeno se una bomba mi aprisse il petto in due. Chi altri dovrebbe sacrificarsi, se non io? Questo fu il mio ragionamento e così, malgrado le proteste dei miei commilitoni, balzai fuori dalla trincea con la baionetta in spalla, sparando all’impazzata, facendo contemporaneamente attenzione a non pestare qualche mina. Sarebbe infatti risultato difficile correre, se uno dei quegli affari mi avesse fatto saltare in aria come un maledetto fuoco d’artificio.

 

In generale non mi sembra davvero che l’immortalità mi abbia anche portato a possedere il dono della profezia, ma in quel frangente capitò esattamente ciò che avevo temuto: misi il piede su una mina antiuomo, e il mondo esplose letteralmente intorno a me, dentro di me. Il dolore fu atroce, talmente forte che mi fece perdere i sensi dopo appena qualche secondo, giusto il tempo di rendermi conto di ciò che mi stava accadendo, e questa per me fu di sicuro una benedizione; poiché i segnali c’erano tutti, ormai li avrei riconosciuti a occhi chiusi, letteralmente.

 

Dolore immenso e insopportabile, e al contempo un vago senso di leggerezza alla testa, quasi di euforia. O forse il suo esatto contrario? E poi, pensieri che iniziano a vagare e a trasportarti lontano, chissà dove. Il freddo si insinua piano piano dal centro del petto fino alle estremità dei piedi, segno che il cuore sta sì facendo ancora il suo dovere, ossia pompare sangue nel resto del corpo. Solo che quando si è feriti a morte, un’azione naturale e spontanea come questa è decisamente controproducente. Insomma: stavo morendo dissanguato. Per l’ennesima volta l’oscurità si stava impadronendo di me, e per l’ennesima volta la accolsi con infinito sollievo.

 

Ma l’eterno oblio, a me, non è concesso.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo generale della storia si ispira a un film di fantascienza, Casimir Effect, girato in Galles nel 2010. Uno dei protagonisti è Gareth David-Lloyd, l’attore che impersona Ianto Jones in Torchwood.

- TLS: Tempo Lineare Soggettivo. Terminologia usata dagli Agenti Temporali per definire lo scorrere del tempo di un singolo soggetto, indipendentemente dalla sua posizione nella Linea Temporale (termine e definizione completamente inventati dall’autrice).

- Secondo il canone ufficiale di Torchwood e Doctor Who, Jack ha effettivamente preso parte alla Prima Guerra Mondiale.

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Capitolo 2
*** Verdun, Francia, maggio 1916 ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Laurent. Lui sì che lo rivendico!

Avviso a quanti stanno seguendo la storia: Facendo un rapido calcolo, mi sono resa conto che The Casimir Effect sarà composta da almeno 30 capitoli (!). Se quindi nel corso di questo periodo doveste avere dei commenti, nutrire dei dubbi, ecc., vi prego di non aspettare il termine della storia… Perché mi sa che qui ne avremo per molto XD Buona lettura a tutti!

 

 

Capitolo 2: Verdun, Francia, maggio 1916

 

Quando mi risvegliai, mi ritrovai a fissare da vicino l’espressione corrucciata del tenente Laurent de La Rosière, ufficiale medico del quinto battaglione del 254simo Reggimento di Fanteria francese, di stanza nel villaggio di Cumières, presso Verdun.

 

“Mi hai davvero stancato, Jacques, lo sai vero?” mi disse con voce tremante di rabbia.

 

Malgrado il male cane che ancora provavo alle gambe, riuscii a farmi forza e a scoccargli uno dei miei famigerati sorrisi. “Ehi, di solito questa frase me la rivolgono in ben altra situazione.”

 

“Non scherzare,” ribatté cupo lui.

 

“Oh, ma io non sto affatto scherzando,” gli risposi allegramente. Allungai una mano verso il suo viso per attirarlo verso di me, ma Laurent mi bloccò il polso con durezza.

 

“Non è il momento,” sibilò. I suoi occhi scuri si mossero velocemente all’interno della tenda, e immaginai fosse per controllare che nessuno avesse notato il mio gesto. Se anche qualcuno ci avesse visto, per me non avrebbe affatto costituito un problema. Ma nel caso di Laurent la questione era diversa… Il ventesimo secolo non rappresentava di sicuro il periodo ideale per quelli come me, come lui, come tanti altri; sempre meglio degli oscuri e bigotti secoli precedenti, ma nemmeno libero da pregiudizi ed etichette come il mio tempo d’origine.

 

Comunque, nella tenda non era presente alcun altro oltre a noi due, per cui proprio non vedevo il motivo di tanta segretezza. Con la mano libera gli circondai il collo e lo premetti contro le mie labbra, prima di sussurrargli all’orecchio le seguenti parole: “Siamo in guerra. Ogni istante può essere l’ultimo, quindi perché non approfittarne?”

 

Quella frase non la pronunciai a caso. Sapevo infatti che di lì a uno o due giorni si sarebbe svolto un sanguinosissimo scontro proprio nel punto dove ci trovavamo ora, ossia presso il villaggio di Cumières, riparati dietro la collina del Mort-Orme. Il battaglione di cui facevo parte al momento sarebbe stato spazzato via dall’artiglieria tedesca; le possibilità di Laurent di cavarsela erano esigue, se non praticamente nulle, per cui volevo perlomeno lasciargli un gradevole ricordo del mio breve passaggio nella sua altrettanto breve esistenza.

 

Girai la testa e trovai la sua bocca. All’inizio lo sentii irrigidirsi, poi si rilassò e mi lasciò libero il polso dell’altra mano, permettendomi di abbracciarlo meglio. Il bacio si faceva via via più intenso; cercai di tirarlo sopra di me, ma quando Laurent appoggiò un po’ del suo peso sulla parte inferiore del mio corpo, non potei trattenermi ed emisi un grido di dolore. In preda a fitte lancinanti, quasi mi sfuggì il balzo all’indietro che Laurent compì in quel preciso momento.

 

Non mi sfuggirono, invece, le sue imprecazioni in francese. “Merde, Jacques! T’es fou ou quoi ?! Persino nelle tue condizioni riesci ad avere di questi… questi pensieri?”

 

Digrignai i denti, mentre le fitte si riducevano a un livello sordo, più sopportabile. “Pensieri? Quali pensieri? Sono un uomo d’azione, Laurent. E poi, di che condizioni parli? Sono ferito alle gambe, sai la novità. Per quanto grave sia, fra pochi minuti il problema sparirà definitivamente, e sarò di nuovo a tua completa disposizione,” conclusi con fare allusivo.

 

La sua reazione mi colse totalmente di sorpresa. Afferrò un catino in peltro e lo scagliò violentemente contro le pareti di tela (se voleva ottenere un effetto drammatico, di sicuro non fu così che lo ottenne, visto che il catino si limitò a rimbalzare con un tonfo sordo sull’erba umida in prossimità dell’ingresso della tenda), poi si girò di scatto verso di me, mi raggiunse con rapide falcate e mi afferrò per le spalle.

 

“Maledizione, Jacques! È proprio questo tipo di atteggiamento che ti condurrà alla rovina, prima o poi! Devo forse ricordarti cos’è successo due anni fa, quando ti hanno sparato alla testa?” Laurent ansimava, e i capelli biondi, in cui tante volte avevo amato passare le mie dita, erano del tutto scarmigliati.

 

“Certo che rammento. Soprattutto il gran mal di capo che mi è venuto in seguito. Se non altro l’aspirina l’avete già inventata, altrimenti chissà per quanto me lo sarei dovuto tenere!”

 

“Le tue facezie non servono a nulla,” tagliò corto Laurent. “Sicuramente non serviranno a farmi dimenticare la fatica e il tempo che mi ci son voluti per mettere tutto a tacere. Un soldato americano che si becca una pallottola in piena fronte e guarisce miracolosamente!”

 

In quell’infausta circostanza, il mio prezioso Laurent si era rivelato tanto scaltro da convincere i vari testimoni che avevano assistito al mio ferimento che il proiettile mi aveva colpito di striscio. E poi la fasciatura a cui mi aveva sottoposto, un vero colpo di genio! Avevo sopportato quella tortura per un mese, ma ne era valsa la pena, visto che almeno era servita a nascondere il fatto che in realtà non ero afflitto dai danni di alcuna lesione (tempo dieci minuti e si era già rimarginata), né mi sarebbero rimaste delle cicatrici; e, una volta tolta, eventuali segni di ferite sarebbero comunque risultati coperti dalla ricrescita dei capelli. Sì, in effetti l’unico neo della farsa messa in atto da Laurent era consistito nella forzata rasatura a zero del mio cranio. Una vera tragedia per me, debbo ammetterlo, ma fra tanti quello era sicuramente il male minore.

 

Alla fine dei conti, la diagnosi ufficiale del tenente Laurent de La Rosière, medico del quinto battaglione del 254simo Reggimento di Fanteria francese di stanza a Cumières, nonché mio amante da circa un anno, si era ridotta a una semplice ‘ferita lieve da arma da fuoco alla tempia dx. Remissione completa del paziente, soldato semplice Jack Harkness, prevista entro 30 giorni’.

 

Ma intanto Laurent stava continuando a inveire contro di me. “Oh, certo, quella volta ti è anche andata bene! Pensa cosa sarebbe successo se, non so, fossi finito nelle mani di qualche mio connazionale traditore, e ti avesse fatto decapitare!”

 

Quasi mi venne da ridere. “Non vi hanno insegnato niente, a scuola? La Rivoluzione è finita da un pezzo.”

 

Laurent sogghignò beffardo. “Forse sei tu quello che ha prestato poca attenzione in classe, Jacques. La ghigliottina non sarà più di moda come metodo di esecuzione capitale, ma ti assicuro che, in mano a chi ancora ne possiede un esemplare, è dannatamente efficace!”

 

Beh, questo era proprio il colmo. Accusare me, un ex Agente Temporale, di non conoscere le varie fasi della storia umana ed extraterrestre, passata e futura, equivaleva a un insulto bello e buono. L’unica attenuante di Laurent consisteva nel fatto che non gli avevo mai rivelato tale aspetto della mia vita precedente. E né intendevo farlo.

 

Ciò che mi turbava di più al momento, però, era la veemenza con cui Laurent stava portando avanti le proprie ragioni. Perché tutte queste storie solo ora e non due anni prima? Allora ero morto, e con fior di testimoni, mentre adesso ero sicuro che nessuno si fosse reso conto della gravità o meno delle mie ferite alle gambe. Perché mai, dunque, qualcuno avrebbe dovuto nutrire dei sospetti circa la mia reale natura?

 

Mi accinsi a esporre tali ragionamenti a Laurent, il quale tuttavia mi sorprese di nuovo, stavolta con una risata amara. “Oh, Jacques, Jacques, pauvre diable. Non te ne sei reso conto, vero? Ora la situazione è diversa. Tragicamente, assurdamente diversa.”

 

Aggrottai la fronte. “Di che diamine stai parlando?”

 

Laurent sospirò, e poi si sedette accanto alla mia branda. Mi prese la mano fra le sue, chinò il capo un attimo e poi rialzò lo sguardo, fissandomi dritto negli occhi. “Jacques… Quando ti hanno portato da me, eri morto dissanguato. Lo sai almeno questo, n’est-ce pas ?

 

“Purtroppo sì. Morire dissanguato è una sensazione stranissima, quasi surreale. Senti la vita che se ne va, e ti rimane solo freddo addosso, poi più niente. L’ho provata tante volte. Ebbene?”

 

“Alcuni degli altri soldati ti hanno trasportato qui, in preda alla disperazione; avevi perso troppo sangue, e non riuscivano più a percepirti il battito, com’era ovvio, ma sono riuscito a rassicurarli sulle tue condizioni…”

 

“E allora?” lo incalzai.

 

“E allora, prima di poterti cauterizzare le lesioni, ho dovuto amputarti le parti delle gambe troppo danneggiate. Erano letteralmente a brandelli, Jacques.”

 

Cosa? Cosa?! Ricordo di aver pensato. Laurent doveva essersi bevuto una parte del cervello, visto che io le gambe me le sentivo eccome, fino alle ultime falangi dei mignoli! Quello che stava suggerendo, invece, non era affatto concepibile… Oppure sì? In preda a una foga incontrollabile, mi tirai su a sedere con estrema difficoltà, e Laurent si affrettò a passarmi un braccio attorno alle spalle per sostenermi. Con un gesto disperato afferrai il lenzuolo che mi copriva dal petto in giù. A quel punto Laurent iniziò affannosamente a dirmi qualcosa, ma io non lo udii poiché, nel medesimo istante, dalla mia gola uscì un urlo quasi disumano.

 

Dinanzi a me si era infatti parata l’orribile vista di quelli che un tempo erano i miei arti inferiori, ridotti a due miseri moncherini di pochi centimetri.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- La battaglia di Verdun ebbe luogo nel 1916, e a causa della sua lunghissima durata (11 mesi) provocò centinaia di migliaia di morti, sia sul fronte francese sia su quello tedesco. L’episodio cui fa cenno Laurent (ovvero quello in cui nel 1914 Jack viene ferito alla testa in battaglia) fa parte del canone ufficiale di Doctor Who.

- L’acido acetilsalicilico fu sintetizzato nel 1897, e brevettato dalla Bayer con il nome di ‘aspirina’ nel 1899.

- Jack percepisce ancora le proprie gambe come se fossero ancora presenti; tale condizione esiste davvero, è molto comune nelle persone amputate ed è definita ‘sindrome dell’arto fantasma’.

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Capitolo 3
*** Mort-Homme ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Laurent, Jean-Yves e Serge ‘mordi-e-fuggi’ Gasquet. Loro sì che li rivendico!

Avviso a tutti i lettori: Spero si sia capito che la storia non si svolge esclusivamente durante la Prima Guerra Mondiale (anzi!). Questi primi capitoli sono solo alcuni dei flashback che inserirò qua e là nel corso della narrazione; tutti hanno una ragione di esistere ben precisa, e condizioneranno le azioni dei personaggi (specialmente Jack) man mano che verranno presentati. Perciò abbiate fede, il cammino sarà lungo, ma deve esserlo. Ribadisco tutto questo soprattutto per chi magari ha letto il primo capitolo e ha pensato che il resto di The Casimir Effect tratterà solo temi drammatici, introspettivi o tragici e ne è rimasto scoraggiato e/o deluso. Sarà anche questo, certo, ma avremo anche romanticismo, comicità, crossover, ecc. ecc. Insomma, ce ne sarà per tutti i gusti! Alla prossima e… Per chi ne avesse, i commenti sono sempre i benvenuti! ^^

 

 

Capitolo 3: Mort-Homme

 

Immaginate, solo per qualche secondo. Immaginate di dormire beati nei vostri letti, al calduccio. Magari in buona compagnia, abbracciati alla persona a cui più volete bene. Vi sentite protetti, al sicuro, in uno stato di completo benessere; sarebbe logico pensare, dunque, che i vostri sogni debbano risultare altrettanto rosei.

 

E invece. Immaginate adesso di essere svegli. Vi trovate sdraiati su di una brandina scomoda, con il freddo che vi penetra nelle ossa malgrado sia primavera inoltrata. Accanto a voi c’è una persona a cui tenete, ma il legame che vi unisce sarà abbastanza solido da resistere alle avversità? Sì, perché se solo osaste mettere il naso fuori dalla relativa calma in cui siete immersi, vi rendereste conto che l’inferno della guerra è solo a due passi. Ciò che può scaturire da un quadro del genere non sarà mai nient’altro che un incubo, un devastante, catastrofico incubo.

 

Perciò spero mi perdonerete se, in quel piovoso mese di maggio 1916, di fronte a una situazione disperata, non trovai altra soluzione che mettermi a urlare. La perdita delle gambe costituiva infatti, per me, una vera e propria apocalisse. In passato avevo subito fratture, ecchimosi, malattie, ustioni di vario grado, ma mai l’amputazione di una parte del corpo.

 

In quel frangente, Laurent dimostrò di possedere un’ottima presenza di spirito, almeno secondo i miei parametri. Mi tappò la bocca con una mano (“Zitto, Jacques, vuoi per caso che ci piombi addosso tutto il quinto battaglione?!”) e, visto che non accennavo a calmarmi, cambiò strategia e sostituì la mano con le sue labbra. In circostanze normali, il ‘bacio’ sarebbe sicuramente durato più a lungo, e avrebbe costituito il preludio a ulteriori attività ricreative, tuttavia da parte mia c’era una comprensibile riluttanza, per così dire. Riluttanza che si concretizzò in un morso alle labbra di Laurent, e stavolta fu lui a emettere un grido strozzato. Indietreggiò di scatto e si portò una mano al viso. Gli occhi gli andarono brevemente al palmo, per poi rivolgersi di nuovo verso di me, quasi increduli.

 

“C’era bisogno di mordermi, Jacques? Non ti sembra di esagerare?” mi accusò.

 

Esagerare? Esagerare? Ma di che accidenti blaterava? Io stavo esagerando? Lo fissai in preda alla rabbia, al panico, e a una miriade di altre emozioni. Respirare si faceva sempre più difficile; mi sembrava di avere la gola bloccata da qualcosa, da una sorta di groppo che non accennava a diminuire. Nel frattempo, Laurent si avvicinò con cautela al mio giaciglio, afferrò un fazzoletto pulito, si tamponò il labbro inferiore e si risedette infine accanto a me.

 

“Laurent, non…” iniziai, ma riuscii a emettere solo un breve gemito strozzato.

 

“Oh, andiamo, non credo proprio che per te sia la prima volta,” mi interruppe. “Chissà in quante occasioni ti sarà già capitato di perdere una mano, per esempio. O magari la lingua. Considerando quanto ce l’hai lunga, avrai fatto infuriare più di una persona, ci scommetterei qualsiasi cifra.”

 

Scossi freneticamente la testa. Parlare mi era ormai quasi impossibile; riuscivo a malapena a respirare. Col senno di poi, potrei ipotizzare che in quegli istanti fossi in preda a una qualche specie di shock, e per lo stesso motivo, probabilmente, mi stava sfuggendo qualcosa di fondamentalmente illogico nel discorso propinatomi da Laurent. Ma la mia mente stava scivolando verso la desolazione più cupa e, in tali condizioni, non ero certo in grado di formulare pensieri coerenti.

 

Data la sua professione, invece, Laurent aveva probabilmente iniziato a subodorare qualcosa a proposito del mio stato d’animo, visto che cambiò espressione di punto in bianco. “Jacques… Jacques, dimmi che per te non è la prima volta.”

 

Stavolta annuii.

 

“Cristo, è davvero la prima, quindi?” imprecò lui. “Mais bordel de merde !

 

“Non dirlo a me,” pigolai con l’ultimo filo di voce rimastomi.

 

Laurent si nascose la faccia fra le mani, e nervosamente se le passò fra i capelli, scompigliandoli ancor di più. “Dunque non sai come gestire questo tipo di situazione, vero? Ovvio che no, domanda stupida,” sospirò.

 

All’improvviso fui attraversato da un tremito incontrollabile. Sollevai un braccio verso Laurent per chiedergli aiuto, ma dovetti tenerlo fermo con l’altro, tanto ero scosso da sussulti.

 

Laurent allargò un poco le dita che ancora gli coprivano il viso e, accorgendosi dello stato in cui ero ridotto, si affrettò a prendermi le mani fra le sue. Con espressione mortificata, iniziò a parlare per tranquillizzarmi. “Oh no Jacques. No no no. Calmati, calmati, andrà tutto bene. Resta con me, ti prego, resta con me, resta con me.”

 

Sì, e magari mi avrebbe anche spiegato come diavolo pretendeva che riuscissi a calmarmi. Che ci provasse lui! Avevo appena scoperto che, per quel che mi era dato di sapere, sarei rimasto invalido per il resto della vita – e nel mio caso si sarebbe trattato di un bel po’ di anni. Tante grazie, Laurent. Questo, avrei voluto urlargli in faccia.

 

Dal tenermi per mano Laurent passò direttamente a un abbraccio vero e proprio, e iniziò a carezzarmi la schiena con movimenti circolari, quasi ipnotici, per rilassarmi ulteriormente. “Non preoccuparti. Ora non riesci a parlare, ma è solo perché sei stato colpito da un attacco di panico. Respira lentamente e profondamente, e vedrai che presto ti sentirai meglio.”

 

Aveva ragione, incredibilmente. Il cuore non mi batteva più all’impazzata, e grazie alle sue parole mi ero leggermente tranquillizzato. Mi scostai un poco, e vidi che sul suo viso si era dipinta un’espressione di sollievo. Non so come, riuscii a sorridere debolmente a mia volta. “Sentirmi meglio, Laurent? Beh, certo, nel mio caso sappiamo entrambi che non morirò, ma quale esistenza sarà la mia, ridotto in queste condizioni?”

 

Laurent aprì la bocca per rispondere, quando all’improvviso un lembo della tenda si sollevò, e la testa di uno dei miei commilitoni fece timidamente capolino all’interno. “Scusi, tenente, sarebbe… Sarebbe per caso possibile venire a far visita a Jacques?” chiese esitante.

 

Laurent si staccò dall’abbraccio e si affrettò a rimboccare per bene il lenzuolo sopra ciò che restava delle mie povere gambe (ossia ben poco). “Ma sicuro, soldato. Vieni pure. Solo per qualche minuto, mi raccomando; Jacques deve riposare.” Detto questo si alzò, si allontanò di alcuni metri e si mise a trafficare con delle strumentazioni mediche per lasciarci, se non altro, almeno l’illusione della privacy.

 

Conoscevo a malapena il mio compagno d’armi. Di lui sapevo che si chiamava Jean-Yves, che aveva solo diciannove anni, in pratica ancora un bambino… E che ai suoi occhi ero diventato quasi da subito un modello da imitare.

 

“Mi-mi dispiace così tanto, Jacques,” esordì cauto, sedendosi accanto a me.

 

“Non preoccuparti. Praticamente non sento più il dolore,” risposi. Non che fosse vero, non esattamente. Il dolore c’era eccome, ma a esso si stava aggiungendo anche un insopportabile prurito. Proprio quest’ultimo stava a indicare che le gambe erano ormai in via di guarigione; non vedevo quindi perché avrei dovuto fornire a Jean-Yves e agli altri motivo di ulteriore preoccupazione. “Laur- Voglio dire, il tenente de La Rosière è sicuro che non si presenteranno infezioni.”

 

“Oh, ne sono felice! Ma sai… Avremmo tanto voluto essere noi, uno qualsiasi di noi, al posto tuo. Non sono l’unico a pensarla così, davvero.”

 

Sollevai scettico le sopracciglia. “Nel senso che avreste desiderato provare l’impareggiabile brivido del restare inchiodati sulla sedia a rotelle vita natural durante?”

 

Jean-Yves sussultò, sgranando gli occhi. “Eh? No, Jacques, hai capito male!”

 

Ah, beata gioventù. Buffo come in certe situazioni l’ironia ti sfrecci accanto talmente in fretta da non riuscire nemmeno a coglierla.

 

“Intendevo che per tutti noi sei diventato un eroe. Ti getti sempre nella mischia senza badare al pericolo, quando c’è da combattere non ti tiri mai indietro… E non hai paura del nemico, nemmeno nelle situazioni più disperate,” concluse Jean-Yves, con una luce ammirata negli occhi.

 

“Sì, beh, stavolta mi è andata male, come hai ben potuto notare. Niente più eroismi d’ora in poi,” commentai con un sorriso tirato.

 

“Però, Jacques, grazie a te non è morto nessun altro dei nostri compagni. Chi poteva immaginare che la trincea si trovasse proprio di fronte a un campo minato?”

 

Già, bella fortuna, mi venne quasi da replicare. Ed era proprio da ingenui e novellini non pensare che ogni singolo metro quadro di terreno rappresentasse un potenziale pericolo mortale per chiunque l’avesse calpestato. Eravamo in guerra; ogni passo falso poteva essere l’ultimo. Non espressi tale pensiero ad alta voce. Avrei solo mortificato Jean-Yves, che a conti fatti era stato costretto ad arruolarsi, come la maggior parte dei giovani della sua età. Non l’aveva scelta lui questa vita, al contrario di me.

 

Infatti, pur lavorando già per Torchwood Tre, non appena mi si era presentata l’occasione di arruolarmi nell’esercito francese l’avevo colta al volo. I miei colleghi di Cardiff all’inizio avevano protestato. Erano vivacemente contrari alla mia partenza, ma non perché si preoccupassero per me, oh no, al contrario. Si opponevano semplicemente perché pensavano che, da parte mia, si sarebbe trattato di un enorme spreco di tempo, tempo che avrei potuto impiegare in ben altri modi. Sarei mai tornato? E chi avrebbe svolto il lavoro sporco in mia assenza? Chi altri, se non io, possedeva le capacità, le risorse e le conoscenze necessarie per stanare ogni sorta di possibili minacce aliene al Grande Impero Britannico?

 

(Ok, lo ammetto. Quest’ultima affermazione non era esattamente farina del sacco dei miei colleghi.)

 

Ma mi ci volle poco per convincerli a lasciarmi andare. Uno, erano consapevoli che possedevo un valido motivo per stare a Cardiff, un motivo ben preciso. Due, ormai era assodato (grazie a quelle due bastarde di Alice ed Emily) che, in ogni caso, dalla Grande Guerra sarei tornato di sicuro. E non dentro una bara.

 

Notai che, stranamente, Jean-Yves sembrava essersi quietato, e in più lanciava bizzarri sguardi a destra e a sinistra, come per sincerarsi che nessuno stesse ascoltando. Dall’altra parte della tenda, intanto, Laurent stava discutendo sommessamente con un sottufficiale, Serge Gasquet, del cui arrivo non mi ero nemmeno accorto.

 

Finalmente Jean-Yves riprese a parlare. “Sai, è dall’anno scorso che girano storie su di te. Prima ti sparano alla testa e te la cavi per un soffio, e ora questa ferita alle gambe; molti di noi erano sicuri che saresti sopravvissuto, mentre altri…”

 

“Mentre altri…?” lo incalzai.

 

“Altri pensano sia innaturale che tu sia ancora vivo. Secondo loro dovresti essere morto.”

 

“Ah, ma che pensiero gentile,” commentai sarcastico.

 

“Lo so!” esclamò Jean-Yves, per poi tapparsi la bocca con una mano. Il gesto fu quasi comico, e mi strappò un sorriso divertito. “Io non faccio parte di quelli, Jacques, stanne pur certo. Comunque,” e qui abbassò ancor di più la voce, “hanno avuto la gran pensata di affibbiarti un soprannome indecoroso, per cui non stupirti se ogni tanto ti sentirai chiamare con quello.”

 

“E che soprannome sarebbe? Sentiamolo.”

 

“Mort-Homme,” rispose lui.

 

“Che fantasia,” ribattei. Uomo Morto, ma pensa un po’. I miei simpatici commilitoni non immaginavano di sicuro quanto fosse azzeccato. L’unico dettaglio che avevano tralasciato era che si trattava di un nomignolo incompleto. Mancava il pezzo finale, ossia Uomo Morto e Resuscitato Decine di Volte.

 

“Sì, perché vedi,” mi stava spiegando Jean-Yves, “come sai, la collina dietro cui ci ripariamo si chiama Mort-Orme, per via del vecchio olmo morto che si trova sulla sua cima. E così…”

 

“… Hanno creato, per assonanza, un gioco di parole tra Mort-Orme e Mort-Homme,” conclusi la frase per lui.

 

“Esatto.”

 

“Non è che possa biasimarli più di tanto, a ben rifletterci. In effetti sembro essere molto resistente alle… avversità. L’esercito francese ha avuto tutto da guadagnare col mio arruolamento, non trovi anche tu?” tentai di ironizzare.

 

“No, per niente. Anzi, è veramente indegno il modo in cui ti chiamano,” sbottò Jean-Yves. “Soprattutto perché non lo meriti, e…”

 

“Scusate, signori, ma il tempo di conversare è finito,” si intromise all’improvviso Laurent, giunto alle spalle di Jean-Yves.

 

Quest’ultimo arrossì violentemente. “Mi scusi lei, tenente, non mi ero accorto di averci messo così tanto.” Poi si girò verso di me. “Bene, Jacques. Tornerò più tardi a farti compagnia, quando ti sarai riposato. Fatti forza, per il momento.” Così dicendo, Jean-Yves mi strinse una spalla e, dopo aver rivolto un breve e informale cenno militare a Laurent, uscì dalla tenda.

 

Non potei fare a meno di inserire una punta di acidità nella mia voce. “Dovevi per forza trattarlo tanto male? È solamente un ragazzino, non c’è bisogno di essere così bruschi.” Sorrisi malizioso. “Non mi dirai che sei geloso, vero?”

 

Laurent mi fissò con freddezza. “Quando ho detto che l’ora delle chiacchiere era scaduta, non mi riferivo a Jean-Yves. La situazione sta precipitando, e sei tu che devi andartene alla svelta, Jacques… Finché sei ancora in tempo per farlo.”

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Capitolo 4
*** Caos calmo, parte prima ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Laurent. Lui sì che lo rivendico!

 

 

Capitolo 4: Caos calmo, parte prima

 

“Quest’idea di dover fuggire come ti è saltata in mente, adesso?” gli chiesi con voce stupita. “Dove vuoi che vada, conciato come sono?”

 

“Ovunque, tranne che qui,” rispose secco lui.

 

Stavo per replicare, ma Laurent mi zittì con un cenno della mano, per poi indicare col pollice l’ingresso della tenda. “Ancora non ti sei domandato come mai non c’è nessun altro ferito qui oltre a te, e perché Jean-Yves è il solo che sia venuto a farti visita?”

 

“Prima, mentre parlavo con Jean-Yves, mi è sembrato di intravedere il sottotenente Gasquet. Lui non conta, forse?” ribattei.

 

Laurent sospirò esasperato. “Non proprio. E anzi, ciò che mi ha riferito complica ancor più le cose.”

 

“In che senso?”

 

“Insomma, Jacques, mi rendo conto che sei ancora sotto shock a causa dell’incidente, ma cerca di riflettere! Sei appena sopravvissuto a un’esplosione che, in teoria, ti renderà invalido per il resto della vita. Così facendo, hai salvato almeno dieci altri soldati. Cosa succede di solito in questi casi?”

 

“Mi conferiranno un’onorificenza?” azzardai.

 

Laurent annuì.

 

“Sul serio?”

 

“Sul serio. Gasquet vuole proporti per una medaglia al valor militare, e ne parlerà direttamente col comandante Lisbonne.”

 

La bocca mi si aprì in un genuino sorriso. In tutti gli anni della mia forzata collaborazione con Torchwood, nessuno mi aveva mai premiato. Certo, avrei volentieri scambiato quello che in fin dei conti non era altro che un inutile pezzo di latta con la possibilità di riacquistare l’uso delle gambe, ma visto che non era fattibile, beh… Diamine, che almeno mi venisse riconosciuto il valore di ciò che avevo compiuto.

 

A Laurent sembrava invece che la cosa dispiacesse, e non ne comprendevo il motivo, per cui non potei fare a meno di rispondere con voce stizzita. “E da quando in qua questo costituirebbe un problema?”

 

“Ovvio che lo è!” quasi gridò lui, per poi abbassare il tono. “Da Lisbonne la proposta dovrà per forza passare alle alte sfere, fino ad arrivare a Pétain, e voglio proprio vedere, allora, come farai a giustificare… QUESTO!!!” L’ultima parola fu pronunciata con veemenza tale da farmi sussultare. Il secondo sussulto lo ebbi quando Laurent mi scansò via dal corpo il lenzuolo che mi ricopriva, mentre il terzo lo subii allorché gettai un’occhiata alle mie gambe devastate.

 

“Ma che diavolo…?!” esclamai incredulo.

 

“Fai bene a menzionare il diavolo, Jacques, perché sarà esattamente ciò che penseranno anche i nostri superiori,” commentò Laurent.

 

Non era possibile. Non poteva essere vero, eppure… Ne avevo la prova davanti agli occhi. Quel che rimaneva dei miei arti inferiori si stava lentissimamente rigenerando. Sotto il mio sguardo incredulo, vedevo letteralmente dei minuscoli capillari formarsi dal nulla, così, a mezz’aria. Dopo di essi vennero i vasi principali, ossia le vene e le arterie, come in una sorta di bizzarra gerarchia anatomica: prima i più piccoli, poi i grandi. Fra questi ultimi erano compresi i tendini e i vari fasci di muscoli e, al di sotto di tutto ciò, occhieggiava qua e là il biancore accecante dei miei femori nuovi di zecca. “Affascinante,” non potei fare a meno di mormorare.

 

“Sì, affascinante, senza dubbio,” rispose laconico Laurent. “La ricostituzione dei tessuti è praticamente arrivata alle ginocchia. All’inizio il processo era quasi impercettibile a occhio nudo, ma adesso sta accelerando sempre più, in maniera esponenziale. Ho fatto un rapido calcolo, e credo che per stanotte riavrai le tue gambe. Non so se riuscirai a camminare subito senza problemi, però.”

 

“Laurent, ma cosa vuoi che me ne importi, a questo punto? Sto tornando come nuovo, non rimarrò handicappato per il resto dell’eternità!” esclamai trionfante.

 

Lo vidi impallidire e abbassare lo sguardo. Quando parlò di nuovo, la voce gli tremava. “Non… Non è la prima volta che ti sento fare certi commenti. In bocca a un’altra persona non ci farei caso più di tanto, ma quando sei tu a dire queste cose, Jacques, non so mai se dovrei prenderle seriamente, invece. In definitiva io non so chi tu sia, o cosa sia. Non me l’hai mai voluto rivelare. Questa tua immortalità…”

 

“Sarebbe troppo complicato da spiegare, e non sono nemmeno sicuro che tu sia in grado di comprendere. Lo dico senza alcuna intenzione di offenderti.” Sollevai una mano e gli carezzai una guancia. “Diamine, come hai avuto modo di constatare, nemmeno io, finora, ero appieno a conoscenza del potere rigenerante del mio corpo.”

 

“Ma com’è possibile, Jacques? Non smetterò mai di domandarmelo. Com’è possibile che tu muoia, e che ritorni in vita ogni singola volta? Prima ho nominato il diavolo, ed è quel che penserebbero in molti, ma altri potrebbero gridare al miracolo, piuttosto. Ciononostante, mi reputo un uomo di scienza, e non posso semplicemente accettare una spiegazione del genere.”

 

“Non si tratta di un miracolo, né di un dono, Laurent. È la mia maledizione. E finché non troverò la persona responsabile di ciò che mi è successo tanto tempo fa, dovrò conviverci, con questa maledizione.”

 

“Tanto tempo fa, Jacques? Quanto, esattamente? Ogni volta che muori o che vieni ferito ti rigeneri e torni al tuo stato originario, perciò… Sbaglio nel pensare che nemmeno stai invecchiando?”

 

Scostai la testa di lato per evitare i suoi occhi inquisitori. “Non chiederlo, ti prego.”

 

Laurent mi afferrò le mani. “Da quanto tempo sei in vita? Insisto per il tuo bene, Jacques, lo sai.”

 

Lo guardai nuovamente, stavolta di sottecchi. “No, Laurent, non posso rivelarti oltre. Sei il mio medico, oltre che mio amico e mio… compagno,” storsi la bocca nell’aggiungere quest’ultimo termine. La mia smorfia non sfuggì a Laurent, e lo vidi irrigidirsi leggermente sulla sedia. “Di te so che posso fidarmi. Voglio fidarmi. È altresì vero che non voglio raccontarti bugie, quindi, per favore, accontentati di ciò che ti ho confidato sinora. Ti basti sapere, però, che sto aspettando un dottore, un dottore speciale, e forse, quando lo incontrerò di nuovo, troverò una risposta alle mie domande. Potrei persino tornare normale,” conclusi con fermezza.

 

Laurent distolse gli occhi dai miei. Si alzò dalla sedia e prese a camminare avanti e indietro; poi si bloccò e si girò nuovamente verso di me. “Va bene, va bene. Non dire altro. Avrei dovuto aspettarmelo; ho già provato, in passato, a scoprire qualcosa in più sul tuo conto, senza però riuscirci. Sempre un buco nell’acqua.”

 

Non ero sicuro che quel che mi stava rivelando Laurent mi piacesse più di tanto. Da ciò che mi pareva di capire, cioè, aveva effettuato delle ricerche su di me? E a quale scopo, a parte quello ovvio di ficcare il naso nella mia vita personale?

 

Laurent parve quasi leggermi nella mente. “Non puoi stupirti delle mie azioni, Jacques! Tutte le volte che mi sono rivolto a te, mi è stato letteralmente impossibile carpirti qualsiasi informazione. Devi ammetterlo, sei un uomo estremamente enigmatico, e la tua… condizione va al di là di qualunque conoscenza medica di cui io sia al corrente. Chiunque avrebbe cercato di scavare più a fondo!”

 

“E… Cos’hai riportato alla luce, per così dire?” Quasi non osavo chiederlo.

 

“Niente. Come ti ho già detto, ho cercato di soddisfare la mia curiosità, ma invano. Dovunque andassi, a chiunque chiedessi, nessuno sa praticamente nulla di Jack Harkness. Esisti, sicuro, e in molti ti conoscono, ma è come se tu non avessi un passato. Nessun familiare, nessun amico degno di nota. Niente certificati di nascita, né diplomi scolastici.”

 

“Solo il mio futuro è stabilito, “ mormorai amaramente.

 

Apparentemente, Laurent non colse il mio debole sussurro, e tornò a sedersi accanto a me. “Ora ascoltami. Quando sei rimasto ferito, prima di cauterizzarti le gambe ho dovuto amputare ciò che ne restava, ma questo te l’ho già spiegato, non ? Successivamente, però, non ti ho effettuato alcun bendaggio. Questo perché ero curioso di vedere come avrebbe reagito il tuo organismo alla situazione. Avevo ragione, visto che dopo poco hai iniziato a rigenerarti. Per questo ho richiesto a Lisbonne di farti avere una tenda a parte, e di poterti seguire di persona, senza nessun altro del personale intorno.”

 

Spalancai gli occhi. Finalmente iniziavo a capire il perché di molte cose. “Ufficialmente lo hai fatto per risparmiare la vista delle mie lesioni agli altri soldati, giusto?”

 

Lui annuì. “Ma in realtà non volevo si accorgessero di… Beh, hai capito.”

 

“Allora come mai hai permesso a Jean-Yves di entrare, se nessuno doveva sapere?”

 

“Il fatto è che ha insistito molto,” si giustificò imbarazzato Laurent, sfregandosi la fronte. “Stava iniziando ad attirare un po’ troppo l’attenzione, e mi son dunque detto che per lui potevo fare un’eccezione. Soprattutto considerato che non mi pare tipo da spargere nefandezze ingiustificate sul conto degli altri. Ho sentito quanto fosse indignato, sai, a proposito delle voci nate su di te.”

 

“Vero. Non lo conosco molto bene, ma mi sembra un bravo ragazzo.”

 

“Ti ha proprio preso a esempio, Jacques. Non ne comprendo davvero il motivo,” scherzò Laurent.

 

Mi sedetti un po’ più in alto sulla branda, e incrociai le braccia dietro la nuca. “Lo sai anche tu che sono irresistibile,” ribattei con ostentata soddisfazione.

 

“Non montarti la testa, ora,” interloquì Laurent, per poi proseguire. “No, seriamente, Jacques. Le voci su di te si stanno diffondendo in maniera preoccupante. Prova ne è anche la questione di quel soprannome che ti hanno affibbiato.”

 

Trattenni a stento una risata. “Mort-Homme? È solo un ridicolo nomignolo, niente di più. Fossi in te non ci sprecherei sopra nemmeno un attimo dei tuoi pensieri.”

 

Laurent, tuttavia, non era del mio stesso avviso. “Non capisci, Jacques!” esclamò, stringendomi forte il braccio, e allentando la presa solamente quando si accorse della mia smorfia di dolore. “Non devi limitarti a paragonare la cosa a una ridicolaggine. Per come la vedo io è un segnale: un ulteriore avvertimento rivolto direttamente a te e alla tua incolumità. Non puoi più rimanere qui a Verdun a combattere; devi andartene, e anche in fretta.”

 

La voce di Laurent era seria, dannatamente seria, e persino io iniziavo a inquietarmi. Aveva forse ragione? Che la mia permanenza nelle fila dell’esercito francese fosse destinata a una fine prematura, e tutto per colpa della mia – ormai fin troppo sospetta – invulnerabilità in battaglia? Non ne ero ancora convinto al cento per cento.

 

Magari non era nemmeno quello il nocciolo della faccenda. In cuor mio sapevo che prima o poi sarei dovuto tornare in Galles, ma continuavo a rimandare la partenza perché in Francia mi sembrava di aver trovato uno scopo alla mia esistenza. Combattere per la libertà di un popolo (anche se, tecnicamente parlando, non si trattava del mio), per liberarlo dal giogo avversario, e per tutta una serie di ideali che un tempo non avrei mai nemmeno sognato di abbracciare. E per questo non dovevo certo ringraziare Torchwood che, con la scusa di combattere le minacce aliene, si permetteva ogni tipo di soprusi, anche nei confronti di creature sì extraterrestri, ma del tutto innocue e indifese. Chi dovevo invece ringraziare erano non solo Rose e il Dottore (persino Mickey Mouse rientrava nella mia personale lista!), ma anche persone come Laurent, Jean-Yves e buona parte dei miei commilitoni, che con il loro coraggio e la loro determinazione mi spingevano sempre e comunque a dare il meglio di me stesso.

 

Intanto Laurent aveva continuato a parlare e io, distratto com’ero dalle mie elucubrazioni, non colsi subito il senso e le parole del suo discorso. Quando lo feci, per poco non sobbalzai sul mio misero materasso. “Aspetta un attimo! Mi stai forse suggerendo di disertare?!”

 

Laurent annuì. “È la cosa più sensata da fare, a questo punto. Direi che domattina sia il momento migliore, considerato che potrai di nuovo camminare. Prima è, meglio è.”

 

“Un momento… Un momento!” lo interruppi. “E come diavolo mi regolo con la sicurezza del campo? Ci saranno un mucchio di sentinelle, figuriamoci se non si accorgeranno di me! In pieno giorno, poi!”

 

“Non preoccuparti, ci sarò anch’io insieme a te. In quanto ufficiale medico di questo battaglione godo di alcuni privilegi, tra i quali poter spostarmi a mio piacimento, senza dover rendere conto a tutte le guardie che incontro.”

 

“Sì, sì, ho capito,” lo interruppi di nuovo, impaziente. “Tu potrai anche farcela, spiegami però come riuscirai a far uscire me dal campo e non dare troppo nell’occhio.”

 

“Te lo dico subito,” rispose Laurent con fare cospiratorio.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo, Caos calmo, si ispira al film omonimo, e si riferisce alla condizione di particolare immortalità di Jack. Da un punto di vista scientifico, infatti, Jack contraddice la seconda legge della termodinamica, secondo la quale “in ogni sistema chiuso il disordine, o l’entropia, aumenta sempre col tempo”. Per esempio, se si considera una tazza che va in frantumi, o un uomo che muore, questi non possono tornare com’erano prima; nel caso della tazza, essa non può tornare integra, mentre nel caso dell’uomo, egli non può resuscitare. La definizione fra virgolette è tratta dal libro di Stephen Hawking Dal Big Bang ai buchi neri.

- René Lisbonne, comandante del quinto battaglione del 254simo Reggimento di Fanteria, era originario del villaggio di Cumières; il generale Philippe Pétain, futuro Primo Ministro dal 1940 al 1942, fu responsabile del fronte francese dislocato a Verdun fino a novembre 1916.

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Capitolo 5
*** Il destino di un medico ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Brian, Lawrence e le donne della loro famiglia. Loro sì che li rivendico!

Avviso ai lettori: E con il presente capitolo si chiude il primo flashback della storia! Ce ne saranno altri, ma per il momento mi farebbe piacere sapere da chi finora ha seguito The Casimir Effect che cosa ha pensato di questo arco narrativo, se ha dei dubbi, delle domande, ecc. ecc. A presto e buona lettura a tutti ^^

 

 

Capitolo 5: Il destino di un medico

 

Il mattino seguente Laurent, dopo avermi adagiato con cura su di una sedia a rotelle e mascherato le gambe (ormai perfettamente rigenerate) con diverse coperte, si recò dal comandante Lisbonne per chiedergli il permesso di accompagnarmi nel vicino villaggio di Cumières. Ufficialmente si sarebbe trattato di una visita a un locale artigiano del legno, specializzato nella costruzione di protesi per gli invalidi di guerra.

 

A me sembrava una scusa leggermente campata in aria, ma sorpresa! Il gentiluomo esisteva davvero, e l’esercito francese si era già avvalso in precedenza della sua abilità manuale nel caso di altri malcapitati soldati. Poiché inoltre ai civili era generalmente vietato entrare sul campo di battaglia, per ovvie ragioni, la prassi consisteva giustappunto nel recarsi di persona presso il laboratorio dell’uomo, sito ai margini del villaggio.

 

Venni sistemato, carrozzella e tutto, su un carro trainato da due cavalli. Laurent sedeva insieme a me, mentre a cassetta un soldato di scorta guidava le redini. La presenza del nostro commilitone costituiva però un problema; ci disfacemmo agevolmente di lui una volta raggiunto un punto isolato e lontano da occhi vigili. Lo lasciammo, legato e imbavagliato, in mezzo a dei cespugli, e poco dopo ci sbarazzammo anche dell’inutile fardello della sedia a rotelle.

 

Il piano di Laurent era filato liscio come l’olio, ma da quel momento in poi si poneva di fronte a noi il dilemma di come avremmo potuto andarcene indisturbati, senza contare che il soldato da noi sequestrato sarebbe probabilmente riuscito a liberarsi e a dare l’allarme entro breve.

 

“A questo ho pensato io,” dissi a Laurent quando sollevò tali ragionevoli dubbi.

 

Temporalmente parlando, infatti, la situazione mia e di Laurent era ben precisa, e io ne ero stato consapevole fin dall’inizio. Il giorno stesso della nostra fuga, verso sera, Cumières sarebbe stato bombardato e distrutto dall’artiglieria tedesca, perciò chiunque avrebbe dato per certa la nostra morte. Se poi qualche testimone avesse fatto sapere ai militari che esistevano dei sopravvissuti all’attacco, difficilmente i nostri superiori sarebbero giunti alla conclusione che si trattava dei due disertori de La Rosière e Harkness, poiché in ogni caso le voci avrebbero parlato di una coppia di uomini in perfetta salute. Non di un uomo sano e di uno invalido.

 

Tutto ciò lo spiegai a Laurent mentre in sella ai cavalli staccati dal carro ci dirigevamo rapidamente verso luoghi più sicuri. Vedevo però che sul suo viso si era disegnata la perplessità più profonda. Come potevo sapere in quale esatto momento Cumières sarebbe stato raso al suolo? Da cosa scaturiva la mia previsione? Ero forse una spia, o un doppiogiochista? Per chi lavoravo, esattamente?

 

Ormai non potevo più tenere nascosti a Laurent determinati particolari. Decisi perciò di informarlo, se non della mia doppia natura di ex Agente Temporale e di uomo proveniente dal futuro (dalle quali derivava, in effetti, la mia conoscenza degli eventi a venire), almeno dell’esistenza di Torchwood, di quale fosse la nostra missione, e di quali tecnologie fossimo in possesso. Mentre gli confidavo queste informazioni, notavo che negli occhi di Laurent si andava via via spegnendo la luce della diffidenza, dell’incredulità e dello scetticismo, per lasciare spazio a un baluginio di meraviglia e ammirazione.

 

“A Cardiff abbiamo proprio bisogno di un medico competente. Ti andrebbe di entrare a far parte della nostra squadra?” buttai lì la mia proposta quasi per caso… Ma neanche troppo, devo ammetterlo.

 

Laurent accettò con entusiasmo. Va detto che non è che avesse poi delle grandi alternative; oramai entrambi eravamo, appunto, dei disertori. Se ci avessero catturato, saremmo stati di sicuro fucilati per alto tradimento, per non parlare del clamore che avrebbe suscitato la ricrescita ‘miracolosa’ delle mie gambe. Per questo avevamo deciso di lasciarci alle spalle non solo l’esercito francese, ma l’intera nazione; e non tanto per me, visto che sarei riuscito a cavarmela in ogni caso, quanto per Laurent. Ero sicuro che i miei colleghi di Cardiff sarebbero rimasti soddisfatti di lui: era preciso, affidabile e scrupoloso. Un ottimo compagno di lavoro, anche se un po’ troppo saccente e sarcastico, a volte. Inoltre era decisamente gradevole alla vista, particolare non affatto trascurabile. Almeno dal mio punto di vista!

 

E fu così che Laurent de La Rosière diventò un agente di Torchwood Tre sotto il nome anglosassone di Lawrence Garland. Il cambio d’identità si rese necessario per evitare guai con la corte marziale francese, e Laurent – anzi, Lawrence – mantenne il nuovo pseudonimo anche dopo la fine della guerra. Nel 1926, tuttavia, decise di lasciare Torchwood per sposarsi con Jennifer, la sua fidanzata, e andare a vivere nel Devon.

 

(Nel corso degli anni, infatti, la nostra relazione si era raffreddata, e avevamo deciso di restare semplicemente amici. Inoltre, Lawrence sentiva che la sua vita ormai non gli apparteneva più. “Torchwood mi sta estraniando da ciò che mi è di più caro,” mi confidò un giorno, “e io non posso, non voglio permetterlo.”)

 

A quei tempi il retcon non era ancora stato sviluppato e, in caso di defezione da parte di uno dei suoi membri, la politica di Torchwood era piuttosto brutale: l’agente veniva ucciso oppure, nel migliore dei casi, criogenizzato a vita in una delle innumerevoli celle situate ai livelli inferiori del Fulcro. Va da sé che la prima opzione era di gran lunga quella a cui si ricorreva di più, con mio immenso disgusto. Con infinita pazienza e costanza, ero però riuscito a convincere i miei superiori che Lawrence non avrebbe rivelato nessuno dei nostri segreti al mondo esterno; nemmeno Jennifer era a conoscenza del vero lavoro svolto dal marito. Garantivo io per lui. In caso contrario, se Lawrence avesse cioè tradito la fiducia di Torchwood, avevo promesso che mi sarei occupato personalmente di metterlo a tacere. Nonostante ciò, e soprattutto nonostante i chilometri che ci dividevano, continuai a mantenere un buon rapporto con Lawrence.

 

Nel frattempo mi recai in missione in America, a New York, ove conobbi Angelo Colasanto, e tornai a Cardiff nel 1928. Nel 1930 fui felice quando Lawrence mi chiamò per annunciarmi la nascita della piccola Joan. La lieta notizia fu però offuscata, dopo poco tempo, dalla morte di Jennifer, causata da complicazioni in seguito al parto. Credo sia impossibile descrivere il dolore sofferto da Lawrence in tale circostanza, e qualsiasi mio tentativo di consolarlo si rivelò del tutto insufficiente. Troppa distanza ci separava, e non solamente sul piano fisico.

 

Ritrovatosi da solo a dover crescere Joan, Lawrence riversò tutto il proprio affetto sulla figlioletta. La bambina era chiaramente adorata dal padre, un amore palpabile, forse soffocante e troppo protettivo, ma d’altronde chi avrebbe potuto fargliene una colpa? Certo non sarei stato io.

 

Per qualche tempo, in coincidenza con la Seconda Guerra Mondiale, persi contatto con Lawrence e Joan. Nel 1948, due anni dopo il mio ritorno sul suolo britannico, fui assai stupito di entrare un giorno nel mio ufficio e di trovare una lettera a me indirizzata da parte di Lawrence. Incredibilmente, nessuno dei miei colleghi l’aveva ancora aperta (col passare degli anni, gli agenti via via arruolati da Torchwood stavano iniziando a diventare persone decenti, grazie al cielo). In essa era contenuta tutta la rabbia e lo sfogo del mio ex amante; a quanto pareva, Joan, che aveva da poco compiuto diciotto anni, era rimasta incinta di un uomo di parecchi anni più vecchio di lei. Per gli antiquati standard dell’epoca si trattava di un vero e proprio scandalo, soprattutto considerato che la futura giovane madre non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a un matrimonio cosiddetto ‘riparatore’, né tantomeno di rivelare pubblicamente il nome del padre del bambino.

 

Non esitai a telefonare a padre e figlia, ma non riuscii assolutamente a calmare le acque. In casa Garland l’atmosfera era irrespirabile. A detta di Joan, che nel frattempo si era amaramente pentita di essersi lasciata circuire, l’unico merito dell’Innominabile (termine da me coniato) era quello di aver contribuito a creare una vita insieme a lei. Per il resto, l’uomo si era rivelato “un lurido verme bastardo, un miserabile poco di buono, uno spregevole seduttore di giovani ragazze indifese”. Beh, ‘innocente’ e ‘indifesa’ non erano proprio i termini più indicati per descrivere una ragazza dello stampo e del temperamento di Joan. Davvero degna di suo padre!

 

Per evitare ulteriori maldicenze, nel 1949 Lawrence e Joan si trasferirono a Londra. Io li aiutai in tal senso, falsificando dei documenti in cui veniva dichiarato che Joan era da poco rimasta vedova; inoltre, ragionando con Lawrence, decidemmo di comune accordo di inventare una storia secondo la quale il defunto marito di Joan era un suo lontano parente, così che nessuno si sarebbe chiesto perché mai una donna non più nubile dovesse portare lo stesso cognome che aveva da ragazza.

 

La bambina nacque dopo alcuni mesi e venne chiamata Rose, il che sulle prime non mancò di suscitare in me una sottile fitta di nostalgia. Successivamente, però, riflettei sul nome completo della piccola; aveva ereditato il cognome della madre, dunque si sarebbe chiamata Rose Garland. Ghirlanda di rose! L’ilarità creata da tale abbinamento era pari solo alla voce offesa di Lawrence la prima volta che glielo feci notare; da quel momento in poi evitai altri commenti ironici al riguardo. Dopo alcuni decenni, nel 1972, quando ormai Lawrence era un anziano e stimato medico in pensione, mi giunse notizia dell’imminente matrimonio di sua nipote con un chirurgo londinese di nota fama.

 

Il 14 febbraio 1974, giorno di San Valentino, venne alla luce il primogenito di Brian e Rose Harper.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il Fulcro, ossia la base sotterranea di Torchwood Tre, nell’originale inglese viene chiamato Hub. Sinceramente mi è sempre sfuggito il termine con cui è stato reso nel doppiaggio italiano, perciò ho optato per questa scelta.

- Secondo il canone di Torchwood, Owen sarebbe nato in realtà nel 1980. Io l’ho sempre considerato di diversi anni più anziano rispetto a Ianto, che è del 1983. Per la mia storia ho dunque scelto il 1974, che è comunque l’anno di nascita di Burn Gorman, l’attore che lo interpreta.

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Capitolo 6
*** Allons-y, Jacques ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Harlan Andrews. Lui sì che lo rivendico!

Avviso ai lettori: Col capitolo che vi accingete a leggere inauguro un esperimento stilistico che, spero, vi risulterà gradito. Da qui in poi, infatti, compariranno ogni tanto delle mini-storie, più o meno brevi, a intervallare la narrazione principale, ma che si inseriranno in essa secondo una determinata logica. Non aggiungo altro, salvo augurarvi una buona lettura e… A presto!

 

 

Capitolo 6: Allons-y, Jacques

 

Assioma n°5: Le coincidenze non esistono.

 

Questo è uno dei primi concetti che avevo appreso ai tempi del mio pre-arruolamento nell’Agenzia Temporale. Durante gli anni trascorsi a studiare all’Accademia, i professori ci avevano spiegato come, a causa dell’invenzione del viaggio nel tempo, nessun accadimento passato, presente e futuro potesse più considerarsi casuale, poiché esso era stato/era/sarebbe stato suscettibile di sottili o drastiche manipolazioni da parte di chiunque possedesse tale tecnologia.

 

D’altro canto, però, se da un lato è possibile modificare gli eventi, dall’altro è altresì vero che esistono eventi impossibili da modificare. O quasi. Uno dei miei docenti preferiti, Harlan Andrews, amava ripetere la seguente frase: “Il viaggio conta, ma ancor più conta la destinazione finale”.

 

(Adoravo ascoltare la voce del professor Andrews, dall’accento così caldo, melodioso ed esotico, a me sconosciuto fino a poco tempo prima. E forse fu anche per tale ragione che i suoi insegnamenti mi rimasero particolarmente impressi, nel corso dei miei anni passati a studiare all’Accademia.)

 

Comunque, tornando alla massima di Andrews, è chiaro ciò che intendeva dire: vi sono accadimenti cruciali, cosiddetti ‘fissi’, che non potranno mai e poi mai fare a meno di verificarsi. L’estinzione dei dinosauri. La costruzione delle Piramidi di al-Gîza. L’indipendenza degli Stati Uniti. La conquista dello spazio. E così via. Questo tanto per fare un esempio, e prendendo in considerazione solo il pianeta Terra. Tutti eventi inevitabili, immutabili, non importa quanto si cerchi di modificarli.

 

Come riportato nei libri di storia terrestri, a seguito del bombardamento a cui Lawrence e io eravamo scampati, la collina del Mort-Orme era stata ribattezzata Mort-Homme; lo stesso villaggio di Cumières aveva cambiato nome in Cumières-le-Mort-Homme. Quel particolare luogo, in quel particolare momento, aveva dunque subito le conseguenze della mia presenza? O forse sarebbe stato più giusto dire che tali conseguenze erano già destinate ad accadere da tempo? Avevo cambiato la storia, o l’avevo semplicemente confermata?

 

In seguito mi posi un’altra domanda un’infinità di volte. Owen sarebbe mai venuto al mondo se in quel lontano mese di maggio del 1916 non fossi fuggito dalla Francia insieme a Lawrence? La risposta è semplice, e allo stesso tempo non lo è: molto probabilmente sì. Magari non avrebbe avuto gli stessi genitori, o lo stesso nome, e magari anche la sua data di nascita ne sarebbe risultata lievemente mutata. Ma la persona, l’essere umano Owen sarebbe nato comunque, e avrebbe occupato il proprio posto nel concatenarsi degli eventi che, un giorno, avrebbero portato alla resa dei conti con i 456. In ogni caso, non sarei mai riuscito a immaginare un Owen Harper diverso da come lo conoscevo io, con i suoi occhi scuri tanto simili a quelli di Lawrence, e col medesimo sarcasmo.

 

Quando agli aspiranti Agenti Temporali viene insegnato il concetto secondo il quale le coincidenze non esistono, di solito essi arrivano a formulare l’ipotesi successiva, ossia che, se tutto è scritto e tutto deve succedere, allora esiste anche ciò che viene chiamato ‘destino’. Il Destino con la ‘d’ maiuscola, quello metafisico, religioso o filosofico, tanto per intenderci. Il professor Andrews, da me incalzato allorché arrivai a tali conclusioni, mi fornì un giorno una risposta. Una delle tante possibili. Probabilmente, l’unica che un diciassettenne proveniente da un pianeta insignificante, e desideroso di scoprire le meraviglie del cosmo, fosse allora in grado di comprendere.

 

***

 

Flashfic: Tutto scorre

 

Accademia Temporale, nei pressi di Sagittarius A*, 5091 (anni terrestri)

 

“Per certi versi, il Tempo è simile a un fiume, Jax. Come un fiume esso scorre, dalla fonte fino alla foce. Possiamo osservarne il flusso, e a volte deviarlo, tramite delle dighe o degli argini, per esempio. Possiamo decidere di immergerci nelle sue acque più a monte, o più a valle.” Il professor Andrews mi sorrise bonario. “Ciò che rimarrà sempre invariato, però, è il fatto che il fiume prima o poi sfocerà nel mare.”

 

“Le variabili cambiano, ma il risultato finale sarà sempre lo stesso, professore, giusto?” azzardai.

 

“Con le dovute eccezioni, che la nostra Agenzia Temporale tenta di sfruttare, ma sì, essenzialmente è così. Se un evento fa parte di quella vasta schiera di ‘punti fissi’, destinati ad accadere, per quanto si tenti di modificarlo esso giungerà alla medesima conclusione.”

 

“E quali sono gli eventi che ricorrono maggiormente? I punti fissi, o i… i…”

 

“Oh, ragazzo mio,” sospirò il professore. “Sono più di ciò che pensi. Nessuno lo sa con precisione.”

 

“E lei come li chiama, gli avvenimenti modificabili?” chiesi di nuovo, non curandomi affatto della mia petulanza, né dell’ingenua curiosità insite nella mia voce.

 

“Ufficialmente, gli avvenimenti modificabili non posseggono una denominazione specifica. Esiste tuttavia un termine che ritengo sia particolarmente azzeccato nel descriverli.”

 

“Qual è, professor Andrews?”

 

“Speranza.”

 

***

 

Ed è a questo che penso, mentre siedo al bancone di un bar affollato su un pianeta lontano, mentre aspetto che il barista si degni di preparare il drink da me ordinato. Penso che forse alcuni degli avvenimenti di sei mesi fa potevano essere evitati; sarei potuto entrare a Thames House da solo, invece che insieme a Ianto. Avrei potuto suggerire ad Alice di affidare Steven a qualcuno di sua assoluta fiducia, invece di trascinarlo a morire in un modo tanto orribile. Oppure, tornando anche più indietro, avrei potuto prevenire i decessi di Toshiko e Owen. Perché, a ben rifletterci, tutte queste tragedie sono state causate dai fantasmi del mio passato, dalle colpe che ancora oggi non sono riuscito a cancellare. Toshiko e Owen spariti per mano di Gray, quella stessa piccola mano che, fra tremila anni, non riuscirò a trattenere. E Ianto per il mio costante bisogno di averlo accanto, ma anche e soprattutto a causa di una disgraziata, gelida notte scozzese del 1965, allorché accompagnai verso l’Inferno un gruppo di dodici orfani innocenti, loro sì senza più alcuna speranza...

 

“Signore, il suo drink. Mi permetta però di suggerirle che secondo me prima o poi si sentirà male. Sa quanto ha già bevuto?” interloquisce il barman dinanzi a me, intromettendosi così nelle mie fosche meditazioni.

 

“Era ora,” borbotto di rimando. “E comunque, non sono affari tuoi.” Alzo gli occhi e la mano per afferrare il bicchiere, e noto con una certa perplessità che il barista lascia scivolare verso di me un foglietto ripiegato.

 

“Da parte di quell’uomo, laggiù,” soggiunge, puntando alle mie spalle.

 

Mi volto nella direzione indicata e, seduto in un angolo in disparte, vedo il Dottore. Che diavolo ci fa in un posto come questo? Mi rivolge un cenno di assenso, e lo interpreto come un invito a leggere il messaggio da lui inviatomi. Se ha qualcosa da dirmi, perché non viene qui e mi parla a quattr’occhi? Ma il Dottore è fatto così, ormai dovrei aspettarmelo. Getta l’amo e aspetta che il pesce abbocchi.

 

Apro il foglietto. “Si chiama Alonso,” c’è scritto. Rialzo gli occhi e incrocio di nuovo lo sguardo del Dottore, che si limita ad annuire. Accanto a me si sta sedendo un giovane in uniforme, dai capelli scuri; piuttosto carino, ma ciò che di lui mi colpisce sono anzitutto le orecchie a sventola, davvero notevoli. Oserei dire fuori posto, su un viso del genere. Il tizio si accorge che lo sto fissando, e mi scruta con fare interrogativo.

 

Volgo gli occhi al Dottore, e quest’ultimo mi saluta con un breve gesto; rispondo con prontezza, prima di riportare l’attenzione sul mio vicino di bevute. “Dunque, Alonso, vai anche tu dalle mie parti?”

 

Alonso, se così si chiama, sobbalza leggermente sullo sgabello. “Come fai a sapere il mio nome?”

 

Scrollo le spalle. “Te l’ho letto nella mente.” Sembrerà incredibile, ma questa non l’avevo mai usata prima, come scusa per abbordare qualcuno! Immagino esista una prima volta per tutto.

 

“Davvero?” Il ragazzo spalanca gli occhi con fare quasi innocente, e per un momento non posso fare a meno di ripensare a Ianto, di come lo punzecchiavo all’inizio del suo reclutamento a Torchwood Tre, e di come lui rispondesse alle mie avances con quei suoi modi adorabilmente impacciati.

 

“Davvero,” replico.

 

“Quindi sai anche quello che sto pensando adesso,” commenta Alonso con un mezzo sorriso. Beh, ormai l’aria da innocentino può anche gettarla al vento, visto il modo sfacciato con cui sta rispondendo al mio flirtare.

 

“Certo che lo so,” ridacchio, e d’un fiato mi scolo il resto del drink. “Stai pensando… Stai pensando che…”

 

La mia esitazione non sfugge ad Alonso. “Sì?” mi incalza.

 

“Stai pensando… Maledizione!” esclamo, sbattendo il bicchiere sul bancone.

 

Alonso batte le palpebre, perplesso dalla mia reazione. “Ehm, non proprio.”

 

Ma la mia improvvisa ira non è rivolta verso di lui, bensì al Dottore. Cosa crede di fare, gettandomi fra le braccia un ragazzino? Che dimenticherò le persone a me care, quelle che non ci sono più e quelle che ormai mi odiano, semplicemente perché è lui a offrirmi una scappatoia dalla mia vita devastata? Chi si crede di essere? Oh, ma lo so chi si crede di essere. Un onnipotente Signore del Tempo, l’ultimo della sua specie. E solo per questo si arroga il diritto di intromettersi nelle vite degli altri. Mai che lo faccia quando se ne ha davvero il bisogno, però. Dov’era sei mesi fa? Come mai non si è degnato di accorrere in nostro aiuto? Non era lui quello che non sopportava di vedere soffrire i bambini?

 

Mi alzo in piedi di scatto, e mi giro verso Alonso, che mi fissa con espressione preoccupata. Sorrido amaramente. “Non ce l’ho con te, tranquillo. Solo che ho appena notato una persona, una mia vecchia conoscenza, con cui al momento non sono in ottimi rapporti.”

 

“Oh?” Alonso si volta dietro di noi, appena in tempo per vedere l’oggetto della mia collera alzarsi e dirigersi verso l’uscita del bar. “Toh, il Dottore. Poteva perlomeno salutarmi, prima di andarsene,” commenta con quello che mi sembra un piccolo moto di delusione. Si gira di nuovo verso di me. “Era a lui che ti riferivi?”

 

Annuisco. “E a proposito, non è vero ciò che ti ho detto prima. Conosco il tuo nome perché è lui che me l’ha appena suggerito.”

 

“Ah,” è il solo commento di Alonso, prima di volgere gli occhi verso la propria bevanda, appena portata dal barman; noto solo ora che ha un bizzarro colore verdastro. Mi guarda di nuovo. “Peccato. Fra tutte quelle da me incontrate finora in questo bar, la tua faccia era di gran lunga la più interessante,” conclude.

 

“Senti…” esordisco, passandomi distratto una mano fra i capelli. “Sono lusingato, davvero, e mi piacerebbe restare qui a chiacchierare con te, ma ho delle questioni più urgenti da risolvere,” affermo, e mi accingo ad andarmene.

 

Alonso, tuttavia, mi afferra per un lembo della manica del mio pastrano. “Questioni che riguardano il Dottore?”

 

Annuisco nuovamente.

 

“Allora devi sbrigarti. Se c’è qualcosa che ho capito del Dottore, è che con lui non si deve mai perdere tempo. Non è tipo da aspettare gli altri, giusto?”

 

“Sei davvero sveglio, Alonso. Mi piaci. Scusa, ma ora devo proprio scappare. Ci vediamo!” Mi volto verso l’uscita, quando all’improvviso sento la voce chiara di Alonso alzarsi al di sopra del brusio dei clienti del bar. “Guardiamarina Alonso Frame. Piacere di averti conosciuto!”

 

Sorrido senza voltarmi indietro, e sollevo un braccio a mo’ di saluto. “Capitano Jack Harkness. Il piacere è stato tutto mio, credimi sulla parola!”

 

Spalanco la porta, lasciandomi alle spalle il luogo buio e desolato della mia tristezza, in cerca dell’uomo che potrà rendere la mia infinita vita degna di essere ancora vissuta. O almeno lo spero.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il personaggio del professor Harlan Andrews è un mio personale omaggio ad Andrew Harlan, protagonista del libro di Isaac Asimov La fine dell’Eternità. Il romanzo, uscito negli anni Cinquanta, è tuttora ritenuto uno dei migliori mai scritti sui paradossi e sui viaggi nel tempo.

- Visitando la collina del Mort-Homme, divenuta oggi in pratica un museo a cielo aperto, è possibile vedere i segni dei terribili scontri verificatisi in quell’infausto mese di maggio del 1916, tra cui persino gli elmetti dei soldati deceduti. Cumières-le-Mort-Homme fa invece parte di un gruppo di villaggi francesi che, durante la Prima Guerra Mondiale, furono quasi completamente rasi al suolo. Non hanno alcun abitante e si è deciso di conservarli in ricordo di quei tragici avvenimenti.

- Originariamente il vero nome di Jack doveva essere giustappunto Jax, ma Davies decise di non utilizzarlo in quanto troppo simile ad altri nomi già presenti nel Whoniverso.

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Capitolo 7
*** Il santo che mi ha tradito ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

Avviso ai lettori: Il capitolo che vi accingete a leggere contiene uno spoiler riguardante un romanzo di Torchwood inedito in Italia, dal titolo Almost Perfect.

 

 

Capitolo 7: Il santo che mi ha tradito

 

Soffoco un’imprecazione, e ancora un’altra, mentre mi giro a destra e a sinistra frettolosamente, alla ricerca del Dottore. Non può essersi allontanato così in fretta… Ma l’ora tarda, e la conseguente assenza di luce, non mi aiutano di certo. E ovviamente è con me stesso che devo prendermela, con me e la mia maledetta abitudine di perdermi in chiacchiere con le persone appena conosciute. Lo riconosco, di norma è una qualità indispensabile qualora si debba approcciare qualcuno di interessante, ma stavolta mi sono proprio dato la zappa sui piedi.

 

Ma eccolo lì, seduto su una panchina, rischiarato dal fioco riverbero di un biolampione fotogeno. Ha la schiena leggermente ricurva in avanti, con le braccia appoggiate sulle cosce. Sembra sofferente, e non ne capisco il motivo. Che gli sia successo qualcosa di grave? Tutto d’un tratto, l’ira manifestata in presenza di Alonso si sgonfia un poco; vengo pervaso da uno strano istinto di protezione, e mi dico che quest’uomo, questo essere così potente, sembra all’improvviso più fragile e umano di tante persone da me conosciute in passato. Mi avvicino lentamente, quasi con cautela, e mi accorgo che respira in modo affannato, come se avesse appena preso parte a una maratona. Una delle caratteristiche che contraddistinguono la vita insieme al Dottore, in effetti, è che con lui si è sempre di corsa, letteralmente. Un ottimo motivo per indossare costantemente delle scarpe da ginnastica.

 

Mi siedo accanto a lui, e gli poggio una mano sulla spalla. “Stai male, Dottore?”

 

“Eh,” risponde lui con uno sbuffo. “Ho avuto dei giorni migliori. Mi consola il fatto che ne avrò presto degli altri, spero.”

 

“Non c’è niente che possa fare per aiutarti?” gli chiedo premuroso.

 

Finalmente alza gli occhi, e mi sorride con evidente sforzo. Ha la fronte imperlata di sudore. “Ne dubito, Jack. Mi sto rigenerando.”

 

Non posso fare a meno di inarcare le sopracciglia. “Ero convinto che la rigenerazione fosse un processo… Non so, estremamente rapido, e quindi quasi indolore.”

 

Al mio commento, il Dottore pare acquistare un briciolo di vitalità. “Ah!” Un’unica sillaba beffarda. “Rapido? Lo è, il più delle volte, quasi come uno schiocco di dita, così.”

 

Per dimostrarmelo compie l’esatto gesto, e dalla sua mano destra si originano dei bagliori dorati, resi ancor più evidenti dall’oscurità notturna che ci circonda. Li osservo interessato.

 

“Ma indolore mai,” prosegue. “Comunque, in questo caso, la mia undicesima rigenerazione si sta dimostrando piuttosto lenta. La cosa ha dei risvolti positivi, ma anche negativi, temo.”

 

“Cosa significa?”

 

“Che la fase finale sarà estremamente violenta, per cui sarà meglio che nessuno resti nei paraggi quando avverrà. Però, ciò vuol dire che ho anche tempo a sufficienza da recarmi a porgere un ultimo saluto a tutti coloro che mi conoscono con l’aspetto attuale.” Dalle labbra gli esce un sospiro. “Oh, non vedo l’ora di ammirare il mio nuovo io. Potrei ritrovarmi coi capelli rossi… Secondo te mi donerebbero, Jack?”

 

“Sicuro, ma non sono la persona più adatta a cui chiederlo, non trovi?”

 

“Già, hai ragione. Il tuo parere è fin troppo soggettivo,” risponde, e si gira a guardarmi con un’espressione insolita per lui. “Immagino sia dunque superfluo chiederti se gradiresti un Dottore femmina.”

 

Questa poi! Davvero sarebbe fattibile? Addirittura un mutamento di sesso? Non sono sicuro di credere alla reincarnazione, ma se esiste una possibilità del genere, e se un giorno riuscirò finalmente a morire, allora non mi dispiacerebbe rinascere donna. Sogghigno, ripensando al fatto che, circa un anno e mezzo fa, a Ianto non era affatto pesato ritrovarsi temporaneamente in un corpo femminile… Dopo le iniziali reticenze, ovvio.

 

“A te è già successo, questo tipo di trasformazione?” chiedo incuriosito al Dottore.

 

Lui scuote la testa, e il movimento crea una graziosa spirale di pulviscolo luminoso. “No, ma so che devo contemplarla, come opzione. Non che abbia una scelta, sia chiaro, ma se ci fosse, preferirei rigenerarmi con un corpo femminile, oppure con i capelli rossi, piuttosto che di nuovo con le orecchie a sventola. Non che abbia qualcosa contro le orecchie a sventola, anzi! Utilissime nel caso si debbano captare le microonde-omega generate dalle particelle subatomiche elementari – nemmeno il mio cacciavite sonico ne è capace, lo immagini?! – ma sono fenomeni talmente rari che nemmeno nei panni della mia nona incarnazione ho mai…”

 

Si interrompe, e di nuovo si volta a guardarmi, aggrottando la fronte. “Un momento! Ma tu che ci fai qui? Non dovresti essere al bar insieme ad Alonso?”

 

“Cosa ti fa pensare che dovrei trovarmi insieme a lui, invece che qui con te?” sbotto, e la rabbia che provavo alcuni minuti fa torna a riaffacciarsi.

 

“Non dovresti stare da solo, Jack. Nessuno lo merita, specialmente non tu. Non ora,” mormora, abbassando gli occhi a terra. Come se si vergognasse. Beh, dovrebbe.

 

“E credi di doverci mettere una pezza tu? Avrei preferito che fossi venuto in nostro aiuto sei mesi fa, piuttosto. Sei mesi fa, Dottore! Dov’eri, mentre dei bastardi alieni tossicodipendenti minacciavano milioni di bambini terrestri?!”

 

Il Dottore non alza la testa nemmeno posto di fronte alla mia legittima provocazione, e questo mi fa quasi ribollire il sangue nelle vene, ma ciò che mi sbalordisce di più è la sua risposta, praticamente sussurrata. “E invece c’ero, Jack. Ero presente fisicamente, non solo col pensiero. Ho sofferto insieme a voi, sperato insieme a voi, ma non potevo fare nulla. Non potevo intervenire, non potevo palesarmi… Per quanto volessi, no, per quanto desiderassi farlo.”

 

“Dunque eri a conoscenza di quel che stavamo passando sulla Terra! Eri addirittura sulla superficie del pianeta! E ammetti persino di non essere intervenuto?! Tu, sempre pronto a immischiarti negli affari degli altri, stavolta non ti sei nemmeno degnato di… di…” La voce mi si spezza, e mi ritrovo incapace di continuare a parlare, tanto sono in preda alla rabbia, al disgusto e a una miriade di altre emozioni.

 

Il Dottore, tuttavia, non ha di tali problemi. “Non potevo, Jack! Non potevo!” esclama disperato. “Non capisci? Potrei accampare mille scuse, ma la verità è che quel che è successo l’anno scorso non era modificabile! Un punto fisso, tanto che nemmeno io ero in grado di impedirlo! Non senza creare un paradosso, che avrebbe gettato l’intero Universo nel caos più totale!”

 

“Non ci credo, Dottore!” gli rispondo, agitato. “L’evento in se stesso sarà stato anche inevitabile, ma almeno certi piccoli particolari…”

 

“Quali ‘piccoli particolari’, Jack?” mi chiede piano.

 

Mi siedo di colpo accanto a lui, sulla panchina di plastoresina. Perché mi sembra di avere l’impressione che il Dottore già sappia di cosa, anzi di chi io stia parlando? Mi copro il volto con le mani; tutto d’un tratto, le forze mi hanno quasi completamente abbandonato. “Sai cosa intendo. Non prenderti gioco di me, Dottore.”

 

Avverto la sua mano calda poggiarsi sulla mia spalla; una presenza confortante. “Non lo farei mai, non in un momento come questo, Jack. Ed è vero, so a chi ti riferisci. Tuo nipote, Steven Carter, e Ianto Jones, vero?”

 

Annuisco, sconsolato.

 

La mano sulla mia spalla si stringe per un attimo. “Mi dispiace immensamente, Jack. Non puoi riaverli, ho controllato e ricontrollato. Due punti fissi, impossibili da modificare.”

 

Mi giro di scatto verso di lui e stringo le mani sulle mie ginocchia. Avrei tanta voglia di mollargli un pugno, ora come ora; la tentazione è fortissima. “Non osare chiamare Steven e Ianto ‘punti fissi’! Non osare mai più!” gli grido.

 

Il Dottore mi toglie in fretta la mano dalla spalla. “Mi dispiace, Jack. Mi dispiace così tanto. Non avevo intenzione di insultarti.”

 

Rimango immobile accanto a lui, senza ribattere. Rimaniamo entrambi in silenzio per parecchi secondi, finché il Dottore, con una nota di esitazione, ricomincia a parlare. “Senti, Jack… Non so se quel che sto per confidarti ti aiuterà, ma è un dettaglio che ritengo tu debba almeno conoscere.”

 

Alzo lo sguardo verso di lui, in attesa di un chiarimento.

 

“Ti ho appena detto che è impossibile riportare i tuoi cari in vita, ma… Ci sono stati degli altri eventi che, in quei giorni, hanno subito delle modifiche. Da un punto di vista oggettivo quale può essere il mio, le ho sempre considerate ininfluenti; ma suppongo che, per quanto ti riguarda, contengano un certo significato.”

 

Mi lascio sfuggire un’esclamazione di sorpresa. “Di che diavolo blateri, adesso? Quali eventi significativi?”

 

Il Dottore si passa nervosamente le mani fra i capelli castani, lasciando sfuggire una piccola nube di scintille che si dissolvono rapidamente nell’aria. “Oh, per esempio, il fatto che tu ti sia recato al funerale del signor Jones.”

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo è liberamente ispirato a un verso di Miserere, canzone scritta da Zucchero e Bono (trovo peraltro che l’intero testo sia particolarmente azzeccato alla situazione di Jack, tranne la seconda strofa, che si adatta invece al Dottore).

- L’accenno di Jack a Ianto e al suo cambiamento di sesso si riferisce a ciò che avviene in un romanzo di Torchwood inedito in Italia, dal titolo Almost Perfect, come già specificato nell’avviso ai lettori.

- E per concludere: con il presente capitolo vi ho mollato un bel cliff-hanger, visto che il prossimo (che aggiungerò lunedì 24 dicembre) si colloca in un contesto sganciato dalle vicende appena narrate. In compenso sarà anche speciale, extralungo, dal tono più scanzonato, per chiudere in bellezza il 2012 e salutare l’anno nuovo con un sorriso. Dopo di esso mi prenderò una pausa, per cui dovrete aspettare fino al capitolo 9 per capire cosa frulla nella bizzarra testa del Dottore. Ma ci rivedremo sicuramente a gennaio…

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Capitolo 8
*** L'ultima goccia ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Harley Obers. Lei sì che la rivendico!

Avviso ai lettori: L’intero capitolo contiene degli spoiler riguardanti un romanzo di Torchwood inedito in Italia, dal titolo Almost Perfect; tuttavia, pur ispirandosi alle situazioni di tale romanzo, i suoi dialoghi sono completamente inventati. Nelle note finali al capitolo, invece, sono contenuti alcuni spoiler riguardanti un altro romanzo inedito, dal titolo The Twilight Streets.

 

 

Capitolo 8: L’ultima goccia

 

Cardiff, Galles meridionale, ottobre 2008

 

“Tutto, TUTTO, ma non questo!!” esclamò disperato Ianto. “Stamattina, quando mi sono risvegliato così, non osavo venire al lavoro, ed è per questo che mi sono dato malato. Ma poi non ce l’ho fatta più, e allora.. allora…”

 

Gwen lo strinse a sé con calore, tentando di consolarlo. “Su, su, tesoro, sono sicura che ne verremo fuori,” gli sussurrò rassicurante.

 

Ianto si staccò dall’abbraccio e rivolse a Gwen un debole sorriso, prima di girarsi verso di me. “Jack, ti prego, di’ qualcosa anche tu,” mi pregò con voce supplichevole.

 

“Wow, che dire…” esordii, e squadrai il mio compagno di lavoro da capo a piedi, soffermandomi un attimo all’altezza del petto. Mi sedetti alla scrivania del mio ufficio, e presi a sfregarmi il mento, pensieroso. “Mai vista una donna portare una tuta da uomo in un modo così sexy. Ma sono certo che indosseresti il tuo solito completo gessato con altrettanta disinvoltura.”

 

Ianto, però, non sembrò prendere bene le mie parole d’elogio. “Cosa?” sibilò.

 

Dal canto suo, Gwen mi fissò con una bizzarra espressione in viso. “Ma insomma, Jack! Ti sembra il caso di fare lo spiritoso? Come puoi essere così insensibile?” mi rimproverò.

 

“Ehi, calma, calma!” esclamai, alzando le mani a mia difesa. “Mi avete completamente travisato. Intendevo dire che non mi importa se ora hai delle parti anatomiche in meno e… delle altre in più. Rimani sempre il mio gallese preferito,” conclusi, strizzando l’occhio in direzione di Ianto.

 

Ebbi giusto il tempo di notare l’espressione incredula di Gwen; un attimo dopo, Ianto esplose inaspettatamente.

 

“Cristo santo, Jack, ma mi prendi in giro?! Mi hai guardato bene??” gridò infuriato.

 

“Oh, certo che ti ho guardato. Guardato, ammirato, desiderato, concupito… Devo proseguire con la lista?”

 

“Sono una donna! Una stramaledetta donna!!!” ruggì Ianto, per poi aggiungere contrito, “Senza offesa, Gwen.”

 

“Non preoccuparti, ti capisco benissimo. Neanche voglio immaginare come mi sentirei io, nei panni di un maschio!” gli rispose Gwen tutto d’un fiato.

 

“E alla reazione di Rhys non ci pensi? Oh, come mi piacerebbe assistere a una scena del genere!” sghignazzai, in preda all’ilarità. “Meriterebbe un posto in prima fila, con il popcorn, le noccioline e tutto il resto!”

 

***

 

One-shot: L’uomo di casa

 

Interpreti: Rhys Williams, Gwen Cooper-Williams

Soggetto: Jack Harkness

Sceneggiatura: Jack Harkness

Produzione: Jack Harkness

Regia: Jack Harkness

 

EST. COMPLESSO ABITATIVO DI GWEN E RHYS, NOTTE

 

Una macchina arriva a tutta velocità, frena con un evidente stridio, accosta e parcheggia sotto l’edificio in cui abitano RHYS e GWEN.

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, CUCINA, NOTTE

 

Musica in sottofondo (‘Man on the Prowl’ dei Queen), a volume non troppo alto. Si ode la voce leggermente stonata di RHYS canticchiare in falsetto. In primo piano una pentola fumante sui fornelli viene rimestata a tempo di musica.

 

RHYS: (canta) My baby left me alone, she’s done me dirty and I’m feeling so lonely, so come home, come home, if you don’t you’re gonna break my heart…

 

INT. COMPLESSO ABITATIVO DI GWEN E RHYS, SCALE, NOTTE

 

Le scale vengono salite in tutta fretta; la scena è inquadrata dal punto di vista di chi le sta percorrendo. Suono di un respiro affannato, chiaramente di GWEN.

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, CUCINA, NOTTE

 

RHYS: (primo piano del suo viso mentre con un cucchiaio di legno assaggia quello che sta cucinando) Mmmh, niente male davvero! (canta) I just wanna be low down trash, I wanna go to the movies, all I wanna do is sit on my ass, so honey come home…

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, INGRESSO, NOTTE

 

Una chiave viene infilata nella toppa e fa scattare il meccanismo di apertura. La porta inizia a schiudersi.

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, CUCINA, NOTTE

 

Malgrado la musica, RHYS ha chiaramente sentito la porta aprirsi. Inquadratura sulla pentola, e sulla mano di RHYS che appoggia il cucchiaio sull’orlo. Rumore di passi che dall’ingresso si avvicinano alla cucina.

 

RHYS: (primo piano sul suo viso sorridente) Bentornata, amore mio! Come è andata oggi al lavoro? Sarai stanchissima, dopo aver dato la caccia agli alieni tutto il giorno! Pensavo di farti una sorpresa e di cucinarti qualcosa di caldo; ho preparato lo stufato, e mi è venuto buonissimo! (si gira verso l’ingresso della cucina con il cucchiaio di legno in mano, mentre i passi si fermano) Vedrai, avrai di che leccarti i… (si interrompe)

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, CUCINA, NOTTE

 

Anche la musica si interrompe bruscamente. Inquadratura dal basso, dalla porta della cucina; di GWEN si vedono solo le gambe, mentre RHYS è rimasto immobile e incredulo con il cucchiaio di legno in mano, da cui inizia a sgocciolare dello stufato. RHYS indossa un grembiule rosso con stampato un drago (simbolo del Galles), un piatto con delle posate e la scritta FEED ME TIL I WANT NO MORE.

 

GWEN: (con voce decisamente mascolina) Se stavi per dire ‘baffi’, puoi anche risparmiartelo.

 

Sempre la stessa inquadratura; a RHYS cade di mano il cucchiaio, ma lui continua a restare immobile.

 

INT. APPARTAMENTO DI GWEN E RHYS, CUCINA, NOTTE

 

Inquadratura a figura intera di GWEN, che sta in piedi sull’ingresso della cucina, le braccia conserte. Primo piano sul viso, su cui sono evidenti un pizzo e dei baffi piuttosto lunghi, ma ben curati. Gli occhi di GWEN danno una rapida sbirciata in giù.

 

GWEN: Sono dei pezzi di patate quelli che vedo per terra? (rialza lo sguardo) Rhys, sempre il solito pasticcione!

 

EST. COMPLESSO ABITATIVO DI GWEN E RHYS, NOTTE

 

RHYS: (di cui si ode solo la voce urlante) MALEDETTO TORCHWOOD!!!

 

***

 

And the winner is… Jack Harkness, per la migliore sceneggiatura originale!” ridacchiai.

 

Mi alzai in piedi, abbozzando un paio di inchini a una platea immaginaria. “Grazie. Grazie. Troppo gentili. Grazie!” Con la coda dell’occhio, mi accorsi che Ianto roteava gli occhi al cielo.

 

“A proposito dei Queen,” aggiunsi, colto dall’ispirazione e da un ricordo della mia giovinezza. “Lo sapete che su Boeshane si parlava di clonare Freddie Mercury?”

 

“Figuriamoci,” borbottò Ianto sottovoce, mentre Gwen strabuzzava gli occhi per la sorpresa. “Davvero? E come mai?”

 

“Oh, Freddie è molto famoso nel mio futuro, una vera icona della libertà sessuale, e per di più nato in un secolo represso come il ventesimo. Immaginate quanto sarebbe stato contento di rivivere in un’epoca finalmente libera da pregiudizi ed etichette di ogni tipo!”

 

“Che idiozia, Jack,” commentò Ianto. “E come diavolo sareste riusciti a clonarlo, tremila anni dopo la sua mo…” Lo vidi impallidire, così che la sua carnagione, già di norma piuttosto chiara, divenne praticamente cadaverica. “Non dirmi che l’avete fatto. Non dirmi che…”

 

Abbassai la voce fino a raggiungere un tono quasi confidenziale, e i miei colleghi si sporsero verso di me con ansia. “Confesso che, all’inizio, una delle ragioni per cui volevo arruolarmi nell’Agenzia era proprio quella di viaggiare indietro nel tempo, prelevare di nascosto un capello di Freddie, estrapolarne il DNA e riportarlo in vita.”

 

Stavolta notai che fu Gwen a sbiancare. Ianto invece aggrottò la fronte pensieroso. Ma le sue erano delle riflessioni cupe; oramai ero capace di leggere ogni sua minima espressione, e non avrei di certo gradito quel che fra poco gli sarebbe uscito dalle labbra.

 

“Oh, tranquillizzatevi. Ero solo un ragazzino, e in fin dei conti si trattava di un’idea divertente, nient’altro. All’Agenzia ho capito quali fossero i miei reali doveri, e fra di essi non figurava di sicuro andare nel passato per poter clonare persone famose morte da un pezzo.”

 

Gwen e Ianto si guardarono a vicenda, e poi tirarono contemporaneamente un enorme sospiro di sollievo.

 

Scoppiai a ridere fragorosamente, divertito dalla loro reazione sollevata.

 

“Mi sembrava un concetto pazzesco, in effetti,” esclamò Gwen. “E comunque a Rhys non sono mai piaciuti i Queen, per cui la tua piccola scenetta insulsa di prima non regge, Jack.”

 

“Fossi in te non sarei così sicuro, Gwen. Cosa ne sai di quel che combina Rhys a casa mentre tu non ci sei? Sei certa di conoscerlo veramente? Magari si veste da donna prendendoti in prestito gli abiti, e…” mi interruppi, e riflettei un attimo. “Ah, no, sarebbe un’assurdità.”

 

“Finalmente lo ammetti anche tu,” concesse lei.

 

“No, intendevo che sarebbe assurdo, perché Rhys non entrerebbe mai nei tuoi vestiti, con la stazza che si ritrova,” affermai con un sorriso ironico.

 

“Ma senti che razza di discorsi…!” iniziò a dire Ianto, scaldandosi. Ecco che ci siamo, pensai fra me e me.

 

La mia valutazione sullo sfogo di Ianto, che sapevo ormai imminente, mi costò cara; grazie a essa, infatti, non feci in tempo a schivare lo scapaccione che Gwen mi appioppò sulla nuca.

 

“Per la miseria, Gwen,” mi lamentai, sfregandomi il punto in cui mi aveva appena colpito. “Ti sei iscritta a una palestra, di recente? La prossima volta mandaci tuo marito, ne ha più bisogno di te.”

 

“Cos’è, ne vuoi un altro, Jack?” mi chiese minacciosa Gwen, alzando una mano stretta a pugno.

 

Scossi la testa con decisione.

 

Gwen sospirò. “Va bene, va bene. Che ne dite di lasciar perdere il povero Rhys e di concentrarci sul serio, una buona volta? Riflettiamo su un metodo per far tornare Ianto alla normalità. Si è trattato di qualche congegno extraterrestre, ne sono certa.”

 

“Ah, non ho dubbi. Tutto sta nel capire con quale abbiamo a che fare; conosco almeno una mezza dozzina di artefatti in grado di modificare il DNA degli esseri viventi.” Agitai una mano con nonchalance. “Ne abbiamo affrontate di situazioni pericolose, ma questa non mi sembra di sicuro una delle peggiori. Non capisco perché voi due non la stiate prendendo con più filosofia.”

 

Ianto, esasperato, scaraventò un dossier sulla scrivania, mancando per un pelo il fragile corallo bianco posato su di un lato. “Ti sbagli di grosso, Jack! Fra tutte le situazioni di merda che Torchwood ci ha sbattuto in faccia finora, questa è sicuramente una delle peggiori!”

 

“Perché stavolta ti riguarda personalmente? Non ti facevo così egocentrico,” replicai.

 

“Non azzardarti,” ringhiò Ianto. “Qui non siamo nel tuo remoto futuro. Non c’è nessun Dottore, nessun Agente Temporale, nessun John Hart, e nessuna Hark, o Harb, o come diavolo si chiamava quella tua amica strampalata…”

 

“Harl, diminutivo di Harley. Ma ora preferisce Harm, non ricordi più, Ianto?” risposi meccanicamente.

 

“Difficile dimenticarla,” commentò Gwen facendo una smorfia.

 

Ianto sbuffò, e riprese la sua filippica contro di me. “Quel che volevo dire è che noi del ventunesimo secolo abbiamo delle fondamenta, dei pilastri ben definiti, su cui basiamo tutta la nostra esistenza. Non ci piace che da un giorno all’altro succeda qualcosa di… di totalmente estraneo e li faccia crollare come un castello di carte. Già il fatto di stare insieme a te, per me costituisce un enorme sconvolgimento. Perché non riesci a capire?”

 

“Secondo me stai esagerando. Ti vedo parecchio alterato, e non è da te. Vedrai che troveremo una soluzione, come sempre succede, del resto. Nel frattempo, visto che ormai è praticamente notte, magari tu e io potremmo…”

 

“No. Stai solo cercando di sminuire il mio ragionamento, Jack. Cerchi sempre di sviare l’attenzione da certe questioni invocando il lato comico, come hai fatto poco fa con quella baggianata su Freddie Mercury, oppure buttandola sul piano erotico. A volte utilizzando perfino tutte e due le strategie contemporaneamente. Ma tu nemmeno te ne rendi conto, vero? Ti viene naturale. Il punto è proprio questo, purtroppo!” esclamò Ianto.

 

“Sentite, ragazzi, la questione adesso è un’altra. Non mi pare il caso di…” esordì Gwen, a disagio.

 

“Per te il sesso è come l’aria che respiri, il motore di tutto, in qualsiasi luogo, in qualunque situazione, anche la meno appropriata,” continuò intanto Ianto, imperterrito. “E per fortuna che ti vanti tanto di venire dal cinquantunesimo secolo. Per come la vedo io, persino un troglodita è più moderno di te,” concluse con indignazione.

 

Evitai di rispondere al suo insulto e gli offrii un sorriso disarmante, uno di quelli per cui andavo famoso in buona parte della Via Lattea. “Non capisco cosa ci sia di male nel considerare il sesso come qualcosa di naturale, visto che lo è. E poi, non mi pare che due sere fa disdegnassi tanto le attenzioni del qui presente troglodita.”

 

Ianto arrossì deliziosamente, poi strinse gli occhi con fare ostile. “Ah, sì? Continui su questo tono? Bene, allora non lamentarti se ti ripago con la stessa moneta!”

 

“Non vedo l’ora,” mormorai, pregustando già la serata che ci si prospettava. Perché sapevo per esperienza che, con Ianto così su di giri, le nostre conseguenti prestazioni a letto sarebbero state spettacolari.

 

“Beh, direi che qua sono ormai di troppo,” borbottò Gwen imbarazzata. “Sbrigatevela fra di voi. Io intanto me ne vado a casa da mio marito, controllo le notizie dei quotidiani on line e incrocio i risultati con i rapporti della polizia. Magari riesco a scovare delle analogie fra quel che è successo a Ianto e qualche altro fenomeno inusuale verificatosi questi giorni in città. Ci vediamo domattina, ragazzi!”

 

Approfittai dell’uscita frettolosa di Gwen per avvicinarmi a Ianto e passargli un braccio attorno alla vita, attirandolo a me. “Che ne dici? Lasciamo fare a Gwen, è in gamba e per adesso non ha bisogno di noi…” Feci per posargli l’altra mano sui fianchi, resi più generosi dalla trasformazione, ma lui mi afferrò il braccio.

 

“NO.”

 

Sospirai. “Oh, Jones, Ianto Jones. Tu e le tue idee arretrate. Te lo ripeto per l’ennesima volta: smettila di lasciarti ingabbiare dai luoghi comuni e dai preconcetti del ventunesimo secolo, e abbraccia gli orizzonti ignoti che ti si spalancano davanti! Approfitta del tuo nuovo corpo, e pensa alle infinite possibilità che potremo esplorare insieme…”

 

“So ben io le possibilità, anzi le certezze che ci si aprono davanti, signore,” mi interruppe secco lui, respingendomi. “Soprattutto per quanto la riguarda. Quando tutto questo casino sarà finito, per trenta giorni dica pure addio al caffè appena tostato e macinato!”

 

La sua improvvisa dichiarazione di guerra mi fece indietreggiare, e ricaddi sbalordito sulla poltroncina. Cercai di evitare che il panico si infiltrasse nella mia voce, ma chiaramente si trattava di una lotta che ero destinato a perdere. “Ma questo è un ricatto bello e buono! Come farò a restare per un intero mese senza il tuo impareggiabile caffè?!”

 

“Oh, è estremamente semplice,” ribatté glaciale Ianto, e intanto un sorrisetto crudele gli si dipinse sulle labbra. “Mentre Gwen godrà dell’indubbio privilegio di sorseggiare il mio impareggiabile caffè, lei si accontenterà di una scadente miscela istantanea, comprata all’hard discount che si trova a 200 metri dalla Plass. Che ne pensa, Capitano Harkness? Non la trova un’idea allettante?”

 

“Mi… Mi vuoi per caso uccidere?” balbettai, scioccato dal suo ardire.

 

Negli occhi azzurri di Ianto danzava una luce quasi maligna. “Non si preoccupi, mi sono sincerato che fosse commestibile. Finora nessuno è morto per averla ingerita, me l’ha assicurato tempo fa una delle cassiere. D’altronde, se anche fosse, nel suo caso specifico il problema non si porrebbe nemmeno, non crede?”

 

“Tu… Tu… Mi vuoi torturare! Andrò in astinenza da caffeina!”

 

Ianto si chinò verso di me con fare cospiratorio, appoggiandosi con le mani ai braccioli della mia poltroncina. “Ti svelo un segreto, Jack… Persino l’istantaneo ne contiene. Quindi vedi che penso sempre e comunque al tuo bene?”

 

Dalla bocca mi fuoriuscì una sottospecie di mugugno.

 

Un istante dopo, Ianto mi mormorò nell’orecchio con voce ancor più melliflua del solito. “Ringrazia che sono così magnanimo con te, invece di lamentarti.”

 

Mi accasciai desolato sulla poltroncina, mentre Ianto mi sfiorava la fronte con un bacio che interpretai di derisione. Il mio sguardo, pur fisso nel vuoto com’era, mi permise di scorgere Ianto che si raddrizzava, si sistemava la casacca della tuta e si volgeva, dirigendosi verso l’uscita del mio ufficio.

 

All’improvviso si fermò, schiarendosi la voce. “Un’ultima cosa.”

 

“Sì?” borbottai, senza nemmeno avere la forza di girare la testa nella sua direzione.

 

“Per quanto concerne la sua proposta… Forse, e ribadisco forse, la prenderò in considerazione.”

 

Un barlume di speranza si riaccese flebile dentro di me. “Sul serio?” chiesi esitante.

 

“Nonostante ciò, per un po’ il caffè istantaneo dovrà sorbirselo comunque. Su questo non transigo.”

 

“Ma…”

 

“Fino all’ultima goccia, Jack.”

 

“Ianto! Torna subito qui! Ianto!!!” gli gridai, mentre lui si chiudeva la porta alle spalle. “Tutto, TUTTO, ma non questo!!” esclamai disperato.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- La sceneggiatura immaginata da Jack mi è stata ispirata da un poster ufficiale di Torchwood imbrattato da Gareth David-Lloyd alla ComicCon di San Diego, in California, l’anno scorso. Sul poster, fra gli altri, Gareth ha cancellato la scritta ‘Children of Earth’ sostituendola con ‘Miracle Gay’, e disegnato un paio di baffi a Gwen (scommetto che indovinate cosa ha messo in bocca a Jack… XDDD). Per vedere il poster, andate su google.com e digitate “Gareth David-Lloyd defaces Torchwood poster”, cliccando poi il primo link.

- Man on the Prowl dei Queen è una canzoncina allegra, un po’ rockabilly, non troppo conosciuta. L’ho scelta soprattutto perché le parole calzano a pennello con la scenetta descritta (‘La mia bambina mi ha abbandonato, me l’ha combinata grossa e io mi sento così solo, dunque torna a casa, torna a casa, se non lo farai mi spezzerai il cuore’) e col carattere di Rhys (‘Voglio proprio essere un volgare tipo terra terra, voglio andare al cinema, tutto ciò che voglio è sedermi sul culo, dunque torna a casa, tesoro’). La scritta sul grembiule di Rhys significa più o meno ‘Imboccami a più non posso’. Per vederlo, andate su Amazon.co.uk e nella casella di ricerca digitate “Feed Me Til I Want No More” e “apron”.

- Nelle mie intenzioni originali il capitolo doveva essere perlopiù comico, ma alla fine ho deciso che in esso sarebbe stato bene affrontare anche dei temi molto più seri, come l’identità sessuale confusa di Ianto, e la parziale incapacità di Jack di comprendere il profondo disagio che ne deriva. Nel telefilm la prima di tali tematiche non viene esplorata molto (se non in un breve scambio di battute fra Ianto e sua sorella in Children of Earth – Day One), ma alcuni passaggi del romanzo The Twilight Streets, inedito in Italia, offrono una visione ulteriore al riguardo. In uno di questi brani, Ianto racconta a Gwen di come, ai tempi dell’adolescenza, sua madre avesse cercato di intavolare una discussione sulla sessualità del figlio: “Non mi ha mai capito, Gwen. Nessuno mi ha mai capito. E se un giorno dovessi riuscirci io, te lo farò sapere”. Più avanti, Gwen gli chiede cosa significa per lui essere bisex, e scherzando commenta che, secondo lei, Ianto riesce a trarre il meglio da entrambi i mondi, quello gay e quello etero. Ianto, però, la contraddice: “Invece significa ritrovarsi nella situazione peggiore, perché in realtà non appartieni ad alcun mondo. Non sei mai sicuro di te stesso, o di chi ti circonda. Non puoi fidarti né delle intenzioni, né dei comportamenti altrui. Ed è proprio per questo che, in una società che adora imporre etichette a qualsiasi cosa, una persona bisessuale si ritrova a non possedere alcuna vera identità”. Le citazioni riportate provengono dalla pagina in inglese di Wikipedia dedicata a Ianto.

- E per finire… Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e che continuiate a seguire la storia anche quando riprenderà, l’11 gennaio 2013. Buone Feste a tutti!!!

- p.s. A Natale siamo tutti più buoni e allora, dopo il capitolo che avete appena letto, bello lungo e pieno zeppo di Janto, aggiungo addirittura un anticipo di ciò che vi aspetta non nel prossimo capitolo, non in quello successivo, ma in uno ancor più lontano, oserei dire perfino remoto XD Eccovi dunque un consistente assaggio (è il caso di dirlo!) del futuro a venire…

 

***

 

“Cameriere, il conto!” esclamo trafelato. La mia esultanza mi tradisce, poiché nello stesso istante vengo colto da un lieve giramento di testa, che quasi mi fa andare di traverso l’ormai ultimo boccone di muffin. Accidenti a me e alla mia passione per i dolci! Tossisco per liberarmi la gola, e intanto il cameriere si avvicina con passo circospetto al mio tavolo, un vassoio stretto al petto a mo’ di scudo. Quando arriva da me, l’attacco di tosse è ormai passato, e sono finalmente libero di parlare in un tono di voce decente.

“Quanto fa?” gli chiedo con un gran sorriso.

“Un caffè, un cappuccino e un muffin al cacao con gocce di cioccolato fondente. In tutto sette sterline e cinquanta pence, signore,” risponde lui guardingo.

Mi alzo in piedi e frugo nelle tasche del mio pastrano. Gli spiccioli li ho, troppo pochi però per pagare ciò che ho consumato. Un fazzoletto, le chiavi dell’auto, documenti, la catenina mia e quella di Ianto… Con sollievo trovo una banconota, ma quando la tiro fuori mi accorgo che è da venti. Pazienza, penso fra me e me, e alzo le spalle, noncurante. Dopotutto, se tutto andrà come prevedo, nel luogo in cui mi recherò entro breve il denaro sarà l’ultima delle mie preoccupazioni.

Sollevo il capo, e noto che lo sguardo del cameriere si sofferma sulla mia bocca. Me ne chiedo la ragione. Se non avessi assistito alla sua reazione scandalizzata di poco fa, direi che ha una gran voglia di baciarmi. Oh, se è quel che vuole, sono pronto ad accontentarlo anche adesso! Depongo la banconota sul vassoio e poi, con un gesto veloce, lo afferro dietro il collo e premo le mie labbra contro le sue. Mi stacco quasi subito, e sono due i particolari che mi saltano agli occhi. Primo, il ragazzo è rimasto impietrito; secondo, ha la bocca sporca di cioccolato (ah, ecco perché prima fissava la mia con tanta insistenza).

Lascio scivolare via la mano dalla sua nuca, e gli impartisco un leggero buffetto sulla guancia. “Il caffè non era niente di speciale, e nemmeno il cappuccino, ma il muffin l’ho trovato assolutamente delizioso,” mormoro, sporgendomi appena verso di lui.

Il cameriere fa un passo indietro, terrorizzato, e non posso fare a meno di scuotere la testa e ridacchiare. Alzo una mano per salutarlo e mi volto, iniziando a camminare a passo svelto verso l’uscita del caffè.

Mentre poso la mano sulla porta, tuttavia, mi giunge la sua voce esitante. “Si-signore, e il resto non lo vuole?”

Riporto la mia attenzione verso di lui, e allargo le braccia in un gesto di finto disappunto. “Ci conosciamo solo da mezz’ora, ti sembro forse il tipo da fare sesso col primo che capita?” gli rispondo allegramente.

Attendo di vedere l’espressione che gli si dipingerà ora in viso (rosso come un peperone), così come quella degli altri avventori del locale (sorpresa, disgusto, imbarazzo, persino divertimento, bene!), prima di volgermi definitivamente e proseguire per la mia strada.

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Capitolo 9
*** Duplice follia ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

Avviso ai lettori: Il capitolo contiene degli spoiler tratti dalla striscia a fumetti Shrouded e dal radiodramma The House of the Dead; spoiler riguardanti queste opere sono presenti anche nelle note finali.

 

***

 

 

Capitolo 9: Duplice follia

 

Se c’è una cosa che mi infastidisce del Dottore, è quella sua capacità di gettarti contro frasi quasi a caso, frasi che a prima vista sembrano sballate, completamente fuori luogo, nel corso di una conversazione su tutt’altro argomento. Lo fa sempre, e sempre lo farà. Chiaro, personalmente ho conosciuto solo due delle sue versioni, ma ci scommetterei il mio pastrano (e badate che sto parlando di un capo d’abbigliamento a cui non rinuncerei tanto facilmente, di norma) che si tratta di una caratteristica immutabile, tramandata di ri-generazione in ri-generazione.

 

Ma guai a considerare le frasi bislacche del Dottore come dei semplici non sequitur. Sospetto che la sua mente aliena lavori a un ritmo tanto elevato quanto caotico. E a volte, purtroppo, apre la bocca e sputa sentenze prima di rendersi conto di ciò che sta dicendo. Questo, agli occhi degli altri, può farlo apparire come un individuo sconclusionato e bizzarro. O pazzo. O perlomeno inopportuno. Per quanto mi riguarda, considero il suo commento sulla mia presenza o meno al funerale di Ianto non solamente inopportuno, ma anche e soprattutto offensivo, e non posso esimermi dal farglielo notare.

 

“Perché, secondo te avrei mai potuto fare a meno di andarci?” sbotto d’un colpo. “Che razza di persona credi che io sia?”

 

“Beh, visto che me lo chiedi, te lo dico subito. Credo tu sia la classica persona che di fronte a una tragedia del genere riesce a reagire in due soli modi: o resta, o fugge.” Il Dottore deve aver notato la mia espressione oltraggiata, poiché si affretta ad aggiungere: “Ma tu, proprio perché sei tu, ossia un uomo del tutto impossibile, in questo caso sei riuscito a fare entrambi.”

 

E va bene, ora basta. Finora gli ho concesso delle attenuanti. Vada per il pazzo e l’inopportuno, al limite persino per l’offensivo, ma adesso… Quel che è troppo è troppo. Con un gesto fulmineo lo afferro per il bavero della giacca e lo avvicino al mio viso. Lo vedo spalancare gli occhi per la sorpresa; oh, finalmente riesco a prendere in contropiede il grande Signore del Tempo!

 

“Finiscila con i tuoi soliti giochetti, Dottore,” gli ringhio minaccioso. “Hai un bel coraggio a seguirmi fin qui, recitare il ruolo del Cupido da strapazzo fra me e quel pivello di Alonso, e poi rinfacciarmi il fatto che, dopo sei mesi passati a macerare nel mio dolore, non sono più riuscito a rimanere sulla Terra!”

 

“Jack, no-non mi hai…!” balbetta lui.

 

Il Dottore cerca di parlare, ma lo interrompo subito. “E allora? Mi rimproveri perché sono umano? Perché non ce l’ho fatta a restare su un pianeta che, per me, ormai è solo un enorme, desolato cimitero, colmo soltanto dei miei fallimenti? Strano, da chi l’ho già sentita questa storia? Oh, aspetta, adesso mi ricordo. Da te!” L’ultima frase quasi gliela sputo addosso.

 

“Ascoltami un attimo…!”

 

“No, ascoltami tu, maledetto ipocrita,” lo interrompo nuovamente. “E pensare che avevo quasi avuto pietà di te, a vederti tutto solo e affranto seduto su questa panchina. Mi sono persino preoccupato, però tu non hai di certo avuto gli stessi scrupoli nei miei riguardi. Mi giudichi, mi condanni, senza nemmeno sapere quel che sto passando, e…”

 

Probabilmente il Dottore ne ha avuto abbastanza del mio sfogo, poiché decide di stringermi i polsi e, con una forza soprendente (considerato che si sta rigenerando), si scrolla di dosso il mio peso.

 

Scuote la testa freneticamente, sbuffando un poco, mentre io ansimo di rabbia. “Accidenti, Jack! Sei più testardo di un mulo! Non hai capito niente, niente di ciò che stavo per dirti!”

 

“E allora spiegati, una buona volta!” gli rinfaccio.

 

“Prima, mentre accennavo al signor Jones, mi riferivo al fatto che, a un certo punto, non so esattamente quando, qualcuno o qualcosa è stato in grado di influenzare gli eventi… Per cui, se nella linea temporale originale tu non sei andato al funerale, in quella modificata ci sei stato eccome! Capisci, ora, cosa intendevo quando ti ho detto che sei riuscito a fare entrambe le cose?”

 

Resto a bocca aperta, incapace di replicare subito alle inverosimili parole appena uscite dalle labbra dell’uomo dinanzi a me. Non è possibile, penso dentro di me. In che senso, il flusso temporale è stato modificato? Perché non me ne sono accorto?

 

Getto un’occhiata al mio Manipolatore, e il Dottore nota il gesto. Scuote la testa, e risponde alle mie domande silenziose. “Non potevi saperlo, Jack. La maggior parte delle funzioni spazio-temporali del tuo Manipolatore è disattivata. Forse non me ne sarei reso conto nemmeno io se, come ormai ben sai, non mi fossi trovato nei paraggi in quel preciso istante.”

 

“No, ti sbagli. Ti devi per forza sbagliare, Dottore,” sussurro. “Il funerale del mio Ianto si è svolto un’unica volta, e io ci sono stato. Ci sono stato,” ripeto disperato.

 

“Non ho dubbi, Jack, che tu ne sia convinto. Ma i dati del TARDIS non mentono mai. Gli avvenimenti sono stati cambiati e, di conseguenza, invece di fuggire via dal pianeta senza rendere un ultimo omaggio alla memoria del signor Jones, sei andato al suo funerale. Per questo parlavo di modifiche non significative dal mio punto di vista, ma che si poi sono tradotte in importanti dettagli per te.” Il Dottore esita di nuovo, e poi continua. “Se davvero non mi credi, esiste un’altra persona a cui puoi chiedere conferma.”

 

Mi accascio sulla panchina, sconvolto da quel che ho appena appreso. Mi sento distrutto, spossato fino all’inverosimile, e completamente, totalmente inutile. “Basta con le rivelazioni shock, Dottore. Per stasera ne ho avute fin troppe.”

 

Lui si stringe nelle spalle. “Non sono sicuro che tu possa considerarla una notizia eclatante. Piuttosto una piccolezza, visto e considerato che, da quel che mi pare di capire, l’uomo in questione lo conosci già. Anzi, credo siate amici, no? Si tratta di un tuo ex collega dell’Agenzia Temporale.”

 

“Cosa? Di chi stai parlando, ora?”

 

Il Dottore poggia il dito indice sul proprio mento, mentre tenta di richiamare alla memoria il nome. “Con quale pseudonimo lo conosci? James? Justin? Ah, sì!” esclama, e batte trionfante le mani un paio di volte. “John, così si fa chiamare adesso. Non mi sbaglio, giusto?”

 

“John? John Hart?” prorompo stupito. Come fa il Dottore a conoscere John Hart?!

 

“Proprio lui! Oh, un uomo pieno di sé, senza dubbio! Figurati, va in giro a pavoneggiarsi col titolo di Capitano, esattamente come te! L’ho intravisto una sola volta, l’anno scorso, alle esequie del signor Jones giustappunto, ma durante i miei viaggi ho conosciuto diverse persone che hanno avuto a che fare con lui, e tutti me lo hanno sempre descritto come un tipo poco raccomandabile! Beh, senza offesa, Jack, ma l’Agenzia Temporale sceglie proprio dei begli elementi. Assetati di potere, imbroglioni, rapinatori, assassini…”

 

La mia mente decide di colpo di estraniarsi dall’infinito monologo del Dottore. Inizio a ridere debolmente, e poi sempre più forte, fino a piegarmi in due dalle lacrime.  Ma la mia non è ilarità, bensì una minuscola, e al tempo stesso gigante fitta d’isteria. John Hart?! Cosa diavolo c’entra quel bastardo egoista di John in tutta questa storia?! E anche lui si trovava al funerale di Ianto… Che ci faceva lì? E non si è nemmeno fatto vedere. Per quale motivo? Perché rinunciare a tormentarmi, a gongolare e a rallegrarsi delle disgrazie mie e di Torchwood? Vero, dopo la faccenda di Gray non ci siamo lasciati in termini così malvagi, ma nemmeno posso considerare John uno stinco di santo. In questo non cambierà mai. Dunque, perché?

 

Da quel che mi è appena stato confidato, mi pare di capire che non solo John si trovasse al funerale, ma anche che fosse addirittura consapevole della modifica della linea temporale (o TLO, secondo i termini dell’Agenzia, a me sicuramente più familiari di quelli usati dai Gallifreyani). Altrimenti, non si spiega cosa accidenti dovrei farmi confermare da lui. La mia partecipazione al funerale di Ianto un dettaglio? E la presenza di John una piccolezza? Sarà anche così per una mente astrusa qual è quella del Dottore, ma allora perché ho la sensazione che queste ‘ininfluenti’ modifiche facciano parte di un disegno più vasto?

 

***

 

Note esplicative al testo:

- TLO: Tempo Lineare Oggettivo. Terminologia usata dagli Agenti Temporali per definire lo scorrere del tempo in un contesto generalizzato; sinonimo di Linea Temporale (termine e definizione completamente inventati dall’autrice).

- Il discorso del Dottore a proposito della linea temporale modificata (secondo la quale originariamente Jack non sarebbe andato al funerale di Ianto, e in seguito sì) si riferisce a ciò che avviene nella striscia a fumetti Shrouded e nel radiodramma The House of the Dead. Chi ha letto il fumetto si sarà infatti accorto che al funerale di Ianto è presente anche Jack, oltre che John, ovviamente. In The House of the Dead, invece, Jack dichiarava palesemente di non esserci stato. Ora, sono più che sicura che quest’errore sia stato assolutamente casuale: Shrouded è stato pubblicato sulla rivista Torchwood Magazine nel 2009, The House of the Dead è invece stato trasmesso alla radio nel 2011. Dubito che Gareth David-Lloyd si sia ricordato (o anche azzardato) di far notare la discrepanza a James Goss, in ogni caso ne ho approfittato e ricavato uno spunto per la mia storia.

- A partire dal presente capitolo sorvolerò su di un particolare dettaglio, facente parte del canone di Doctor Who. Nell’ultimo episodio della quinta stagione, The Big Bang, il Dottore fa in modo che tutte le Fessure spazio-temporali presenti nell’Universo vengano eliminate, compresa quindi quella di Cardiff (ignorando così The House of the Dead, in cui erano Jack e Ianto a chiuderla per sempre). Bene, in The Casimir Effect scelgo di ignorare sia l’episodio televisivo sia il radiodramma, per cui le Fessure (perlomeno quelle presenti sulla Terra) non si sono mai chiuse, ma semplicemente quietate.

- Ok, le feste sono appena terminate, ma cosa volete farci? La loro eco non si è ancora spenta, e nemmeno la mia magnanimità XD Per farmi perdonare il breve capitolo che avete appena letto, ecco un’altra anticipazione da un capitolo (molto) futuro…

 

***

 

Oggi Owen compie gli anni, ma ha deciso di non festeggiare. Quando gli abbiamo chiesto perché, ci ha risposto con l’amarezza che lo contraddistingue. “Saranno questa lurida città e la sua maledetta Fessura a fare la festa a tutti quanti noi, un giorno o l’altro.” Beh, qualcuno lo può biasimare?

 

Gwen è in procinto di tornare a casa. Sembra che Rhys la porterà al nuovo ristorante francese che hanno appena inaugurato sul Mermaid Quay. Una cena romantica. Già, perché non è solo il compleanno di Owen, ma anche San Valentino. La festa degli innamorati.

 

E a proposito di innamorati: tra poco Tosh e Owen usciranno insieme per una birra, al pub Prince of Wales. Mi hanno invitato, ma ho risposto cortesemente di no. Mi sarei sentito di troppo. Incredibile come quei due non riescano proprio a parlarsi francamente di quel che provano l’uno per l’altra. Ci sarà da gridare al miracolo se un giorno arriveranno a superare la loro reciproca timidezza (Owen timido, sembra quasi un ossimoro). E quel fatidico giorno raccomanderò a Tosh di armarsi di una buona dose di pazienza. Ne avrà bisogno, e dovrà essere parecchia, per riuscire a sopportare un simile zuccone.

 

Quanto a me… Ho ben altro a cui pensare.

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Capitolo 10
*** Orbite parallele ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

Avviso ai lettori: Il capitolo contiene degli spoiler tratti dalla striscia a fumetti Shrouded.

 

 

Capitolo 10: Orbite parallele

 

Sei mesi fa, quando il Dottore mi trasmise le incredibili informazioni a proposito della variazione del TLO, mi confessò anche di non potermi offrire ulteriore aiuto oltre a quello che mi aveva già elargito. In primo luogo perché era ormai in procinto di rigenerarsi e, col passare dei minuti, la sua sofferenza diventava sempre più evidente. Dopo di me, mi spiegò, aveva delle altre visite da effettuare, non ultima quella a Rose. O, meglio, a una remota versione della nostra comune amica, ancora presente dunque nella nostra dimensione. Era altresì essenziale che tale visita si verificasse in un momento in cui Rose non si trovava in compagnia della nona incarnazione del Dottore stesso, in modo da non sconvolgere lo sviluppo degli eventi, sia passati che futuri.

 

E in secondo luogo, esisteva una sola persona che avrebbe potuto sciogliere i dubbi sollevati dal mio incontro col Dottore, ossia John Hart. Il mio ex collega si trovava con tutta probabilità sulla Terra, considerato che nelle sue ultime parole di commiato aveva espresso proprio tale desiderio. In genere non considero come oro colato ciò che fuoriesce dalla bocca traditrice di John, ma, almeno in quel caso, si trattava comunque di un punto di partenza.

 

Perciò, dopo aver salutato e augurato buona fortuna al Dottore, decisi di tornare temporaneamente sulla Terra. Il viaggio da Zog si preannunciava lungo, soprattutto per colpa sua; quel cocciuto si era infatti rifiutato per l’ennesima volta di ripararmi almeno le funzioni spazio-temporali del Manipolatore del Vortice, e non c’era stato verso di convincerlo altrimenti, nemmeno con le suppliche più accorate. O sfacciate, come mi rimproverò allorché gli proposi di alleviare a modo mio il dolore dovuto alla rigenerazione, in cambio di una minima aggiustatina al mio bracciale.

 

***

 

La mia prima tappa, una volta arrivato sulla Terra, è ovviamente Cardiff. Gwen e Rhys abitano sempre nello stesso appartamento e, quando giungo non avvertito in casa loro, causo un relativo sconvolgimento. Gwen piange di gioia e sollievo, e non posso fare a meno di abbracciarla con trasporto; mi è mancata tantissimo, ovviamente.

 

Lo stesso dicasi per Rhys, che da me accetta però solo una misera, goffa stretta di mano. “Sono felice anch’io di rivederti, Jack, ma vediamo di non esagerare, eh?” mi dice con un sorriso leggermente imbarazzato, e mantenendosi a debita distanza.

 

Esaurite le lacrime e i vari convenevoli, faccio la conoscenza della piccola, adorabile Anwen, e mi congratulo con i due novelli genitori. Alla fine arrivo al sodo, ossia al motivo del mio ritorno sul pianeta, e chiedo loro se hanno per caso notizie fresche di John.

 

Ricevo in risposta una reazione assai strana. Sotto il mio sguardo stupito, infatti, Rhys sbianca in viso e inizia a passeggiare nervosamente avanti e indietro, tormentandosi i capelli con le dita.

 

Gwen invece sussulta, e stringe sua figlia al petto con fare protettivo. Poi, si para decisa davanti a me e mi scruta attentamente. “Come mai vuoi saperlo, Jack?”

 

“Devo parlargli. Sono accaduti dei fatti che lo riguardano, e che riguardano anche me.”

 

“Non potresti essere più specifico?”

 

Ora inizio a innervosirmi sul serio. “Senti, Gwen. Non ho tempo di stare qui a spiegarti tutto per filo e per segno. Ti basti sapere che ho urgente bisogno di vederlo. Sapete dov’è, sì o no?”

 

Lei sbuffa, testarda come al solito. “Piombi qui all’improvviso dopo più di sei mesi e inizi a spadroneggiare come se fossi ancora il capo di Torchwood Tre. E per di più senza fornire alcun tipo di spiegazione. Non sei affatto cambiato, Jack!”

 

“Aspetta un secondo,” la interrompo, sospettoso. “Perché tutte queste proteste? Vi ho semplicemente chiesto se sapete qualcosa di John. Non mi sembra una richiesta così assurda!”

 

“Forse per te non lo sarà,” ribatte lei. “Ma John Hart è un uomo pericoloso, lo sappiamo tutti benissimo. Meglio perderlo che trovarlo. Non voglio di certo che coinvolga di nuovo me, mio marito e la mia bambina in…” Gwen si zittisce di colpo, spalancando gli occhi e  assumendo un’espressione di terrore.

 

“Cosa?!” Non posso fare a meno di esclamare. “Che significa, ‘di nuovo’? Che mi nascondi, Gwen?”

 

Le mie parole, pronunciate in un tono di voce decisamente alterato, producono un effetto negativo su Anwen, che inizia a piangere sommessamente. Gwen mi lancia un’occhiataccia, ma sostengo il suo sguardo. In fondo è anche colpa sua se l’atmosfera si sta scaldando più del dovuto; quel che mi dispiace è che a pagarne le conseguenze sia soprattutto sua figlia.

 

Tuttavia, prima che l’interessata possa rispondere, con mia estrema sorpresa Rhys si fa avanti e posa una mano sulla spalla di Gwen. “Tesoro, a Jack ci penso io, non preoccuparti. Vai pure a calmare Anwen, io arrivo fra poco.”

 

“Ma Rhys…” tenta di protestare lei. Rhys la abbraccia e le mormora qualcosa all’orecchio, che non riesco a cogliere.

 

Assistendo a questa amena scenetta familiare, mi convinco sempre più che Rhys e Gwen devono sapere esattamente dove si trovi John; la reazione e la frase di Gwen non lasciano spazio ad alcun dubbio. In quale circostanza l’hanno incontrato? Forse al funerale di Ianto, o poco dopo? E perché John si sarebbe mostrato a loro, e non a me?

 

Dopo pochi istanti, Gwen emette un lungo sospiro e annuisce. Rhys la bacia sulla fronte, e la sospinge con delicatezza verso le scale del piano di sopra. Mentre sale, però, Gwen si volta un attimo indietro, e incrocia i miei occhi con un’aria di sfida.

 

Una volta liberatosi di Gwen, Rhys mi indica il divano. Prima di accomodarsi accanto a me si offre di prendermi qualcosa da bere, ma prontamente rifiuto. Infine, inizia a parlare.

 

“Ascolta, Jack… Non devi avercela con lei. Ne ha passate tante; tutti noi ci stiamo riprendendo solo ora dalle tragedie degli ultimi due anni. Adesso poi, con la storia della bambina, è diventata ancor più protettiva. Non puoi biasimarla.”

 

“E infatti non la biasimo,” concedo. “Solo, non capisco il suo atteggiamento recalcitrante. Non le ho chiesto di accompagnarmi da John, è l’ultima cosa che vorrei, credimi. Però devo vederlo, assolutamente. E da quel che ha detto, mi pare di capire che mi sono rivolto alle persone giuste, o sbaglio?”

 

Rhys si lascia sfuggire un’imprecazione in gallese, e si passa le mani sulla faccia, chiaramente a disagio. “Va bene. A questo punto, tanto vale dirtelo. Effettivamente sì, qualche mese fa abbiamo ricevuto una visita da parte del tuo cosiddetto amico, Jack.”

 

Me lo aspettavo, ma in ogni caso la mia voce tradisce un moto di sorpresa. “Vai avanti.”

 

“Si era appena fatto derubare di un oggetto importante, e si è quindi recato qui da noi in cerca di aiuto,” spiega. Notando il mio scetticismo, si affretta a specificare. “Aiuto da parte di Torchwood, o per meglio dire di quel che ne restava.”

 

“E quindi Gwen si è ritrovata a dovergli dare una mano contro la propria volontà, vero?”

 

“Come ti salta in mente?” domanda sconcertato Rhys. “Sarebbe stata una pazzia, con la nascita di Anwen e tutto il resto. No, ho preso io il suo posto. E non fare quella faccia incredula, è proprio così che è andata.”

 

“Scusami, Rhys, non volevo offendere la tua dignità. Solo che non ti ci vedo molto, nei panni di agente segreto,” dichiaro, tentando di nascondere un sorriso ironico.

 

“Bada bene, non mi sono di sicuro messo a fare i salti di gioia. Ma la donna che l’aveva derubato era potenzialmente molto pericolosa, per cui non ho potuto rifiutarmi di dargli una mano. Ne andava della sicurezza della Terra intera.”

 

Inarco le sopracciglia. Addirittura una minaccia planetaria?

 

“Non ne conosco la ragione, ma John… L’ho trovato diverso da come lo ricordavo,” continua intanto Rhys. “Aveva i suoi motivi personali, egoistici, per voler ritrovare ciò che gli era stato sottratto, ma in fin dei conti avrebbe potuto recuperare l’oggetto anche senza di me, seppur con delle difficoltà in più, e fregarsene di tutto il resto. Invece non l’ha fatto. Insolito, come atteggiamento, da una persona del suo stampo.”

 

“John è fatto così,” gli spiego. “In genere, come hai affermato adesso anche tu, non è un uomo di cui ci si può fidare. Però, ogni tanto, in modo del tutto sporadico, mostra anche un lato più civile.”

 

“Beh, quel che posso dire è che con me si è comportato decentemente. Affermava di essere cambiato. Gwen non ne è affatto convinta, ed è per tale motivo che prima è stata tanto brusca con te. Ma tu, Jack, lo conosci meglio di noi. Credi che John stesse dicendo la verità?” azzarda Rhys.

 

Alzo le spalle. Con John non si sa mai, imprevedibile com’è. “Chi può dirlo? Tutto è possibile,” commento.

 

Poi, preso dall’incertezza, ne approfitto per rivolgere un’altra domanda a Rhys. “Questa questione di John, del furto e della vostra caccia al ladro… Per caso c’entrano con Ianto? Più precisamente, col suo funerale?”

 

Curiosamente, vedo Rhys irrigidirsi. “Il funerale di Ianto? Non mi sembra proprio, Jack. Come mai me lo chiedi?”

 

Nella sua voce si è insinuata una nota di cautela nel sentir nominare il nostro comune amico. Comprensibile, penso tristemente. Rhys e Ianto non sono mai stati molto legati, ma fra di loro esisteva comunque un notevole grado di rispetto. Più rispetto di quanto Rhys abbia mai concesso a me, in ogni caso. Probabilmente perché mi ha sempre considerato un ostacolo al suo rapporto con Gwen, anche dopo il matrimonio.

 

“Pare che anche John si trovasse al funerale. Ma dalla tua reazione immagino che tu non lo sapessi, vero?”

 

Rhys scuote la testa. “No, affatto. Ed è per questo che lo cerchi? Per chiedergli cos’è che ci faceva là?”

 

Annuisco. “Fra le altre cose. Si tratta di faccende importanti, Rhys. Forse non dovrei rivelartelo, ma visto che anche tu sei stato sincero con me… Sappi che in tutta questa storia c’entra il Dottore. Anzi, è lui che mi ha consigliato di mettermi alla ricerca di John.”

 

“Il Dottore? Intendi il tizio alieno da cui quella volta sei fuggito, quando cercavi una risposta sul perché della tua immortalità?” chiede stupito Rhys.

 

Di nuovo annuisco. “E di lui, al contrario di John, mi fido ciecamente. Dunque, puoi ben comprendere la mia insistenza al riguardo.”

 

Noto che Rhys è ancora titubante; sta chiaramente riflettendo sulla decisione da prendere, ossia se aiutarmi fornendomi le informazioni che desidero. Mi convinco allora che, se voglio portarlo dalla mia parte, devo per forza offrirgli delle motivazioni ulteriori. “Se ti stai ancora chiedendo cosa cerco da John, posso dirti che non è solamente per domandargli il perché della sua presenza al funerale, ma per delle questioni riguardanti anche il mantenimento del continuum spazio-temporale. Sai che cos’è, vero?”

 

“Sì, sì, lo so, Jack, non devi entrare nei dettagli,” borbotta.

 

Rhys si alza in piedi, fissando un punto di fronte a sé con fare pensieroso. Studio il suo profilo; mi sembra di vederlo anche più pallido di quando ho menzionato John per la prima volta, pochi minuti fa.

 

“Va bene, ti dirò dove si trova,” esordisce. Poi abbassa la testa e, più sommessamente, aggiunge una frase curiosa, di cui non sono certo di afferrare il senso. Alle mie orecchie suona più o meno come Anche se probabilmente avrai di che pentirtene.

 

Avrò inteso bene? E se sì, quale sarà mai il significato di questo commento sussurrato a mezza voce? Ma non ho il tempo materiale di riflettere su tali quesiti, poiché nel frattempo Rhys sta continuando a parlare.

 

“Il posto esatto non lo conosco,” afferma girandosi nuovamente verso di me, una luce risoluta negli occhi. “ma sono comunque sufficientemente sicuro che John al momento viva sul Golfo del Messico. Ha messo su una piccola attività, e non se la passa poi così male, pare.”

 

“Messico?” ripeto fra me e me, interessato. “Niente di pulito, scommetto.”

 

“È pur sempre di quel bastardo di John Hart che stiamo parlando!” esclama Rhys, e prorompe in una risata fragorosa, a cui mi unisco volentieri.

 

Poi, una volta terminato lo scoppio di ilarità, assume un’espressione perplessa. “Però c’è una cosa che mi sfugge, Jack… L’aggeggio che porti sul braccio sinistro non funge anche da, che ne so, comunicatore, teletrasporto o qualche altra diavoleria del genere? Che bisogno avevi di venire qui da noi? Siamo sempre contenti di vederti, sia chiaro, ma vista l’urgenza forse avresti fatto prima a utilizzare quello per trovare John, no?”

 

Sfioro nostalgicamente il Manipolatore con la mano destra. “Hai ragione, ma parecchi dei suoi comandi sono praticamente disattivati. Il localizzatore, così come il comunicatore, funzionano esclusivamente entro un certo raggio. Ora, grazie a te, so da dove iniziare la mia ricerca. Ti sono debitore, Rhys.”

 

“Figurati,” risponde lui con noncuranza. “Con tutte le volte che ci hai salvato la vita, è il minimo.”

 

“No, insisto,” mormoro suadente, e mi alzo in piedi a mia volta. Mi avvicino a lui, col chiaro intento di stringerlo a me. Rhys, con una velocità di cui non l’avrei mai creduto capace, compie un balzo di lato e alza una mano per bloccare la mia avanzata.

 

“Non metterti in testa strane idee, Jack… C’è un limite a tutto, persino alla riconoscenza!” dichiara terrorizzato.

 

Questa volta sono io a non trattenere le risate.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Più che delle note, propongo una specie di sondaggio. Il prossimo capitolo, per ragioni di trama, risulterà piuttosto breve. Mi piacerebbe compensare in qualche modo, e allora vi chiedo: sarebbe di vostro gradimento se insieme a esso inserissi un’altra anticipazione di un capitolo a venire? Aggiungo che si tratta di alcuni passaggi tratti dal diario personale di Ianto, più precisamente le pagine che vanno dal 5 al 9 febbraio 2007 (quella del 14 febbraio l’avete già letta in calce al capitolo 9). Fatemi sapere ;-)

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Capitolo 11
*** Oceano Atlantico, 11.000 m s.l.m., settembre 2010 ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

 

 

Capitolo 11: Oceano Atlantico, 11.000 m s.l.m., settembre 2010

 

Prendete un essere umano, uno a caso.

 

Anche considerando i progressi della medicina del mio tempo, la vita media di un uomo non supera i 120 anni, 130 nel caso di una donna. Esistono rare, documentate eccezioni, secondo le quali alcune persone sono in grado di raggiungere un’esistenza ancor più longeva, circa 150 anni, ma ciò sarebbe dovuto a una fortunata serie di fattori, il più importante dei quali è indubbiamente un patrimonio genetico eccezionale, privo di anomalie macroscopiche, mantenutosi pressoché inalterato negli anni.

 

In ogni caso, un uomo di tale anzianità verrebbe considerato in molte società, umane o aliene, estremamente degno di nota. Un saggio, un esperto in svariati campi. Serberebbe dentro di lui uno scrigno inestimabile, ricolmo di storia, cultura, esperienze d’ogni sorta. Indubbiamente, lo si potrebbe considerare un uomo che ha avuto il tempo di trovare le risposte alle domande che si sarà posto nel corso della sua lunghissima vita.

 

E ora prendete me, Jack Harkness.

 

Non è nemmeno il mio vero nome, ma fa niente. Dopo aver girovagato vent’anni per l’Universo, parte dei quali spesa a sedurre chiunque mi andasse a genio, a giocare all’Agente Temporale, nonché a truffare i poveri ingenui che mi capitavano a tiro, un incontro fortuito con una ragazza terrestre e un Gallifreyano mi porta a un mutamento radicale: invece di sprecare il resto dei miei giorni allo scopo di compiacere esclusivamente me stesso, mi dedico al bene degli altri, alla loro protezione, alla loro salvezza.

 

Poi, però, un fatale incidente scatena in me un ulteriore cambiamento; e tutto d’un tratto, quella che per un normale essere umano viene definita ‘speranza di vita’, ossia il numero medio di anni rimasti davanti a sé prima di cadere nel definitivo oblio, cessa di possedere un qualsiasi significato. Anzi, per quanto mi riguarda, tale definizione dovrebbe essere sostituita dalla dicitura ‘speranza di morte’.

 

E il famigerato, impagabile bagaglio di conoscenze ed esperienze? Dopo aver vissuto per secoli e secoli, si potrebbe immaginare che io abbia ormai trovato una risposta a ogni singola domanda che mi sia stata presentata, a ogni dubbio che mi sia mai balenato in testa, e invece… Invece, domande. Sempre nuove domande, e troppe poche risposte.

 

Un leggero colpetto di tosse si intromette nei miei perturbati pensieri, facendomi sussultare. Mi giro verso la fonte di disturbo, e mi ritrovo a fissare con sguardo infastidito il viso lievemente arrossato della hostess chinata verso di me.

 

“Mi scusi, non volevo importunarla, signore. Solo che…” esordisce.

 

La studio con più attenzione, e noto che sul vassoio recato dall’hostess si ergono dei fragili calici di cristallo. Dal colore giallo oro, dalle bollicine e dall’aroma che arriva alle mie narici, deduco con irritazione che si tratta di champagne.

 

“Ogni volta che cerco di starmene per conto mio arriva qualcuno a rompermi le uova nel paniere, e per di più offrendomi dei drink,” la interrompo, brusco.

 

“Ma signore…!” protesta lei, mordendosi le labbra.

 

“Cos’è, una congiura intergalattica fra voi terrestri e gli abitanti di Zog per farmi ubriacare? Lo ammetta, signorina,” continuo.

 

“Ve-veramente è lei che, poco fa, mi ha chiesto di portarle qualcosa da bere, e…”

 

“Acqua, signorina. Intendevo un bicchiere d’acqua. Mi sembrava di essere stato piuttosto specifico. Per caso è il suo primo volo?”

 

“No, ma…”

 

“E allora mi stupisco ancor più di lei. Prima si sbaglia a prendere la mia ordinazione, e ora mi importuna mentre provo a schiacciare un pisolino. Non le hanno mai insegnato che non si deve disturbare quando un passeggero sta cercando di riposare?”

 

“Ehi, amico, lasciala in pace,” mi apostrofa una seccata voce maschile, da un posto alla mia sinistra, nell’altra fila. “La signorina si è semplicemente confusa. Non farne un affare di stato.”

 

Non riesco a scorgere chi sta parlando, nemmeno sporgendomi o spostando il peso del mio corpo a destra o sinistra. La ragione è chiara, ovviamente; la visuale mi è impedita dalla figura della hostess, la quale continua a rimanere immobile con il vassoio in mano, fissandomi con degli occhi sgranati e sospettosamente umidi. Mi sa che stavolta mi sono lasciato prendere un po’ la mano; cerco di correre ai ripari, anche se forse è troppo tardi. Avrei dovuto pensarci due volte, prima di lanciarmi in uno sfogo alle spese di una persona che, in fin dei conti, non c’entra niente con quello che sto passando.

 

“Se… Se preferisce, posso portarle la sua acqua, magari con qualche stuzzichino…” tenta nuovamente la hostess.

 

“Non importa,” rispondo, stavolta con maggiore cortesia. “Ho cambiato idea. Niente acqua, e niente aperitivi, grazie.”

 

“Ne è sicuro? Altrimenti, può sempre prendere qualcosa di caldo, magari un caffè, o un cappuccino, o…”

 

Freno l’istinto di alzare gli occhi al cielo.

 

“Una camomilla ci vorrebbe, a quello là,” interloquisce l’uomo di prima.

 

Lo riconosco, sono preso fra due fuochi, e ormai c’è solo una cosa da fare: tentare di spegnerne almeno uno, quello che, ne sono convinto, cederà per primo. L’altro mi sembra un osso duro, troppo duro persino per me.

 

Alzo la testa e punto lo sguardo direttamente verso l’hostess, scoccandole un sorriso smagliante. “Non si preoccupi, non ho bisogno di niente, ma appena mi verrà fame o sete, la chiamerò di certo,” le prometto. “E anzi, mi scusi per poco fa. So di essere stato sgradevole; ho dei problemi personali in questi tempi, ma lei sicuramente non si meritava un trattamento del genere da parte mia. Mi perdona?” concludo, battendo le ciglia con fare innocente.

 

La hostess arrossisce, e quasi fa cadere a terra il vassoio con tutto il suo delicato contenuto. “Oh! Non si deve scusare, signore! L’importante è che sia soddisfatto del servizio…”

 

“Più che soddisfatto,” la assicuro, facendole l’occhiolino.

 

Lei sorride timidamente. “Bene, signore, allora non la disturbo ulteriormente. Si goda pure il resto del viaggio.”

 

“Lo farò senz’altro,” concludo. La hostess mi concede un lieve cenno del capo, e inizia – finalmente! – a prendersi cura delle necessità di un altro passeggero.

 

Volgo la testa verso il finestrino, lieto di aver posto la parola fine a questa infelice conversazione. L’Oceano Atlantico scorre sotto di noi, con apparente, ingannevole lentezza. Persino da quassù, a migliaia di metri di altitudine, riesco a scorgerne il moto tempestoso, grigio e pesante come piombo fuso. Perfetto specchio del mio attuale stato d’animo.

 

Nello stesso momento, nella direzione da cui veniva la voce di prima, sento un borbottio velenoso, a malapena udibile al di sopra del brusio dei motori e delle conversazioni degli altri viaggiatori. “Bastardo ipocrita…”

 

Lo ignoro, e chiudo gli occhi.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Piccolo quiz: chi sarà mai il misterioso passeggero ‘nemico’ di Jack…?

- Il breve capitolo che avete appena letto (nel quale succede ben poco, a dir la verità), insieme ai tre successivi, costituisce una sorta di prologo al prossimo arco narrativo, che durerà per almeno una quindicina di capitoli e conterrà due blocchi di flashback sul passato di Jack, uno ambientato nel 1992 e l’altro nel 2008. Ogni blocco sarà costituito da almeno 5-6 capitoli ciascuno, e introdurrà dei temi estremamente importanti per il prosieguo della storia.

- Come promesso, ecco l’ennesima anticipazione ‘spoilerosa’: alcune pagine tratte dal diario personale di Ianto, contenute in un capitolo prossimo venturo. Buon divertimento!

 

***

 

7 febbraio

Stiamo decidendo chi dovrebbe guidare la squadra in assenza di Jack. Personalmente credo che Gwen sia la candidata più adatta, fra noi. Owen non è d’accordo, poiché ritiene che, in termini di anzianità di servizio, Gwen sia letteralmente l’ultima arrivata.

Ma la verità è che nessuno può sostituire Jack. Tutti noi ne sentiamo la mancanza. Dei suoi consigli, del suo appoggio, della sua conoscenza, della sua forza. Dei suoi scherzi, delle sue battute.

E io… dei suoi sorrisi, della sua voce, del suo calore.

 

8 febbraio

Giornata tranquilla, finalmente. Owen e Tosh sono a casa, mentre Gwen si trova giù al poligono di tiro, a esercitarsi. A sfogarsi.

Io ho deciso di restare qui nel Fulcro ed effettuare delle ricerche su Jack. Sul suo passato. Per l’ennesima volta mi chiedo dove sia. Perché se n’è andato? Controllato nei file on line. Molto è stato fatto sparire, ma ho i miei mezzi. Se qualcosa esiste ancora, non può sfuggirmi. E infatti. Dagli antichi archivi cartacei, o quel che ne resta, risulta che Jack si trova qui in Galles da più di un secolo, a parte le varie missioni in giro per il pianeta, per conto di Torchwood.

Ma alla fine è sempre tornato a Cardiff. Sempre. Perché partire proprio ora, dunque, e senza dire niente a nessuno? Cosa cerca? Chi cerca?

 

11 febbraio

La Fessura, ringraziando il cielo, continua a rimanere quieta. Tosh ne sta approfittando per dedicarsi a uno dei suoi progetti, e Gwen e Owen le danno una mano. Ufficialmente, in questi giorni mi occupo di rimettere in ordine gli archivi, ma in realtà sto effettuando una ricerca personale. Segreta. Gli altri non devono sapere. Io stesso mi chiedo se non stia sprecando del tempo prezioso, utilizzando invano le risorse di Torchwood… Ma devo farlo.

 

15 febbraio

Ciò che ho trovato mi lascia letteralmente senza fiato. Dovrei essere abituato alle situazioni bizzarre, assurde, ai limiti dell’impossibile; a Torchwood, in poche parole. Ma questa volta, francamente, disperatamente, spero di sbagliarmi.

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Capitolo 12
*** Fra le braccia di Morfeo ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who, Matrix e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

 

 

Capitolo 12: Fra le braccia di Morfeo

 

Quando riapro gli occhi, è talmente grande la mia sorpresa che quasi provo un tuffo al cuore.

 

Sì, poiché di fronte a me, a pochi metri da dove sono seduto, si trova Ianto.

 

“Ianto!” non posso fare a meno di esclamare, felice. Balzo in piedi verso di lui, e cerco di abbracciarlo e stringerlo a me. Ma lui mi blocca, posandomi un dito sulle labbra, e d’improvviso mi sento come paralizzato. Indietreggio, e ricado con goffaggine su di una sedia scomoda, quasi traballante.

 

“Perché non vuoi che ti tocchi? Mi sei mancato così tanto…” dichiaro con foga.

 

“Perché per me non avrebbe alcun significato, Jack,” spiega lui con un’espressione strana, quasi di tristezza.

 

“Non puoi dire sul serio!” replico sgomento.

 

“E non ne avrebbe nemmeno per te,” continua Ianto.

 

“Stai scherzando, vero?! Il fatto che quella volta non abbia ricambiato le tue parole era dato dal dolore, dalla disperazione, e forse tu l’avrai interpretato come dici, ma non vuol dire che io non ti a…”

 

Ianto stavolta mi zittisce sollevando una mano. E per ‘zittisce’ intendo proprio questo: non riesco più a muovere nemmeno un muscolo, compresi quelli della bocca. Solo la mia testa e i miei occhi sono liberi di vagare, e mi permettono di rendermi conto, finalmente, dell’ambiente in cui mi trovo.

 

Non è l’aereo. Azzarderei piuttosto una stanza chiusa, dalle pareti chiare. L’aria è pervasa da un odore penetrante, chimico, estremamente familiare, ma non riesco a collocarlo. I pochi, sparuti mobili sono ricoperti da teli di stoffa ridotti a brandelli; uno specchio è appeso sul muro alla mia destra, ma anche questo sembra aver subito un qualche tipo di devastazione. Dal suo centro si irradiano infatti delle incrinature profonde, come se qualcuno avesse battuto sulla sua superficie con qualche corpo contundente. Non così forte da polverizzarlo, ma abbastanza da lasciare dei frammenti di vetro piuttosto grandi sul pavimento. Aguzzando la vista, mi accorgo con sgomento che il pavimento stesso, in corrispondenza dei frammenti, si va via via ricoprendo di una copiosa quantità di un liquido rossastro, che immagino sia sangue. Dalle finestre si sprigiona una luce debole, come se fosse appena iniziata la giornata, o come se il sole fosse nascosto dalle nubi.

 

Porto lo sguardo su Ianto, ancora in piedi di fronte a me, e con ancora la mano alzata. Noto che indossa degli occhiali scuri, cosa insolita per lui, e il resto del suo corpo, beh, è completamente vestito di nero. Jeans neri aderenti, maglietta nera, lungo cappotto nero, di pelle mi sembra. L’insieme è incredibilmente sexy, se non fosse che è anche incredibilmente fuori luogo per lo Ianto che conosco. Ma questo non sembra affatto il mio Ianto. Mi ricorda qualcuno, in effetti, ma è tutta la situazione che mi sa di déjà vu.

 

Ianto abbassa la mano, e finalmente capisco cosa sta succedendo.

 

Succede che sono un idiota! Poco fa mi trovavo in volo sull’Oceano Atlantico, alle prese con un’hostess invadente e inopportuna. Poi devo essermi addormentato, ed eccomi qua, in un banalissimo sogno lucido, e per di più ispirato a Matrix.

 

Nel frattempo, Ianto si è tolto gli occhiali scuri dal naso. “Non sei un idiota,” afferma, come leggendomi nel pensiero.

 

“Lieto che tu lo riconosca,” commento con ironia. Oh, mi è ritornato il dono della favella!

 

“Sei solo un ipocrita bastardo, e io gli ipocriti li odio. Non li ho mai sopportati,” conclude lui.

 

Scoppio a ridere. Ma è logico: le ultime parole che ho udito prima di addormentarmi sono state proprio queste, pronunciate dal mio ignoto detrattore, paladino delle Giovani Hostess Indifese & Aggredite da Passeggeri Indisponenti.

 

“Ero convinto di possedere un subconscio più creativo,” riprendo, dopo essermi calmato dall’accesso di ilarità. Alzo gli occhi al soffitto. “Suvvia, Jack. Se proprio devi sognare il tuo amante morto da un anno, sforzati perlomeno di creare un’atmosfera adatta all’occasione. Ce ne sarebbero tante fra cui scegliere! La stanzetta sotto il mio ufficio, la serra del Fulcro, la camera da letto nell’appartamento di Ianto…”

 

Il già menzionato Ianto, o perlomeno la sua/mia proiezione mentale, si avvicina con passo felpato, e si accuccia di fronte a me. “L’atmosfera non sei in grado di sceglierla, Jack. Ma una di queste sì.” Così dicendo, porge verso di me le mani strette a pugno. Le apre, il palmo rivolto verso l’alto, e scorgo in ognuna di esse una pillola. La mano sinistra ne reca una di colore rosso, mentre la destra ne contiene una blu. Le osservo con tanto d’occhi, occhi che poi riporto incredulo su Ianto.

 

“Ma fammi il piacere! Ora non mi verrai a raccontare che la pillola blu mi farà dimenticare quel che ho visto fin qui e mi farà tornare alla vita di sempre, mentre la rossa mi mostrerà la verità, o viceversa?! Altro che Matrix, qui stiamo scadendo direttamente nel cinema di serie Z, e per di più è solo me che devo incolpare,” dichiaro affranto.

 

Ma Ianto scuote la testa. “No, al contrario. Lascia che ti spieghi. Questa,” e solleva la mano con posata la pillola rossa, “mostra la verità. Ma è una verità dolorosa, inevitabile, tanto insopportabile da doverla assolutamente dimenticare. La pillola blu, invece…”

 

“Invece…?”

 

Ianto si fa pensieroso per un attimo. “A dire il vero, anche la blu mostra la verità.”

 

“Fantastico. In pratica fra le due non c’è differenza. Bella scelta mi hai offerto,” mormoro sarcasticamente. “E si potrebbe sapere qual è lo scopo di tutta questa farsa, se non quello di farmi annoiare a morte? A morte, capisci? Oh, scusa. Perdonami la battuta di spirito. Ops, ma me ne è appena sfuggita un’altra. Sono proprio incorreggibile, eh?”

 

“Lo scopo è che non c’è alcuno scopo,” risponde Ianto sibillino, e si inginocchia di fronte a me. Mi prende il viso fra le mani (tutto d’un tratto mi chiedo dove siano sparite le due maledette pillole), e mi fissa dritto negli occhi. “E la scelta in realtà non esiste, poiché il futuro è già passato, e il passato è già futuro.”

 

Poso le mani sulle sue. “Ti prego, non comportarti così. So che non sei reale, che ti ho ricreato io pur di poterti vedere qui in sogno ancora una volta, ma tutto ciò non mi è assolutamente di conforto. Perché non ce ne andiamo da questo luogo fatiscente e proviamo a immaginare qualcosa di più confortevole, come ti ho suggerito prima? Una spiaggia, un bosco, o un ristorante romantico…”

 

Ianto sospira, e appoggia la fronte contro la mia. “Ascoltami, Jack.”

 

“Qualsiasi cosa, Ianto. Qualsiasi cosa, per te.”

 

“Ascoltami,” ripete. “Non è vero ciò che ti ho detto prima. Non sei un bastardo ipocrita, e non è vero che ti odio. Per me sei Jack, Jack e nient’altro.”

 

Aspetto che finisca ciò che ha da dire. Non posso negare di pendere dalle sue labbra, le stesse labbra che si stanno inesorabilmente avvicinando alle mie.

 

“Il solo Jack Harkness che io conosca. Quello che…” sussurra.

 

“Sì, Ianto,” mormoro di rimando, sporgendomi sempre più verso di lui.

 

“Quello che ora si deve svegliare,” termina perentorio, spostando repentinamente le mani sulle mie spalle, e spingendomi con forza all’indietro.

 

***

 

“IANTO! Cosa…?!” esclamo, sbarrando gli occhi.

 

“Ha avuto un incubo? Si sente bene?” mi chiede una voce accanto a me, dal tono allarmato.

 

Mi rendo conto con sconcerto di essermi appena svegliato dal sogno più bizzarro che io abbia fatto di recente. Deglutisco, il cuore che mi batte all’impazzata, e rispondo a fatica. “Sì… Credo di sì.”

 

Mi giro verso il mio interlocutore, un uomo sulla cinquantina. Da quel che mi pare di capire, dovrebbe trattarsi di un passeggero dell’altra fila. Non il mio detrattore, però, poiché ha la voce totalmente diversa. Per sincerarsi delle mie condizioni si è slacciato dalle cinture di sicurezza, e mi ha posato una mano sul braccio. Gli altri passeggeri ci guardano chi con curiosità, chi con annoiata indifferenza, chi con l’aria di avere appena assistito a un piccolo dramma. Il mio dramma personale. Non hanno tutti i torti, in fin dei conti.

 

“Un sogno un po’ troppo intenso, magari, ma non un incubo,” rassicuro il mio infermiere improvvisato.

 

“Stiamo per atterrare. Forse è il caso di iniziare a prepararci per scendere. Vuole per caso che le dia una mano? La vedo ancora scosso.”

 

“No, no. Sto già un po’ meglio.” Gli sorrido debolmente.

 

“Ok,” fa lui. “Se ne è sicuro…”

 

“Sicurissimo. Grazie comunque per essersi preoccupato.”

 

Il tipo annuisce con la testa, e si gira per raccogliere i propri effetti personali. Mi accingo a fare altrettanto, e intanto mi chiedo se ho fatto bene a tornare qui in America dopo tanto tempo.

 

Mi chiedo se finalmente troverò delle risposte alle mie domande, o se invece non mi ritroverò con in mano solo un pugno di mosche, come al solito. O di sabbia, visto e considerato dove mi sto recando. Ma la sabbia è mutevole, e più provi a stringerla, più essa sfugge dalle dita. Come l’acqua. Come i ricordi. Come i sogni. Come una pillola rossa e una pillola blu, che svaniscono misteriose in un innocente battere di ciglia.

 

Come la memoria sopita di una scelta mai compiuta.

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Capitolo 13
*** L'altro mondo ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Henry Boeshane. Lui sì che lo rivendico!

 

 

Capitolo 13: L’altro mondo

 

Uno dei difetti dell’umanità è sicuramente la pigrizia, rifletto, mentre osservo il paesaggio scorrere veloce al di là del finestrino del taxi su cui mi sono accomodato, una volta atterrato all’Aeroporto Internazionale di Mérida.

 

Ed è questo il motivo principale per cui l’esplorazione dello spazio vera e propria, i cui semi furono timidamente gettati nella seconda metà del Millenovecento, non iniziò prima del ventinovesimo secolo. Prima di tale data, infatti, le risorse naturali della Terra erano sempre risultate sufficienti per tutti (anche se, a onor del vero, la loro distribuzione non era affatto omogenea).

 

Perché, dunque, scomodarsi e andare alla ricerca di nuovi pianeti in cui vivere, se quello su cui si abitava già era tanto comodo? Prendendo in considerazione i costi di una simile impresa, la tecnologia arretrata, le incognite del viaggio, e la pigrizia di cui sopra… Beh, non c’è da stupirsi che l’umanità sia ritenuta ancor oggi dagli esseri extraterrestri la specie pantofolaia per eccellenza. Questo dal loro punto di vista, ovviamente; una visione su cui non posso che convergere.

 

Ma immaginate una popolazione in continua crescita. Sette miliardi nel secondo decennio del ventunesimo secolo, otto ben prima del 2050, nove alla vigilia del ventiduesimo. Il pianeta sopportò la cosa. Una condizione di equilibrio instabile che riuscì a perdurare per svariati secoli senza troppi intoppi, ma solo perché alcuni fra i paesi maggiormente in espansione avevano introdotto delle discusse politiche sul controllo delle nascite. L’istinto di riproduzione, tuttavia, è insito nell’essere umano (io ne so qualcosa!). Perciò, anche se assai più lentamente, il numero complessivo di abitanti continuò ad aumentare. Una crescita graduale, ma inesorabile.

 

Si cercò di correre ai ripari; se l’aumento demografico era difficile da arrestare, si poteva se non altro tentare di sviluppare nuove tecnologie per la produzione di energia, visto che i combustibili fossili stavano iniziando a scarseggiare. Energia fotovoltaica, eolica, fotogena, geotermica… Nulla venne dimenticato, nulla fu lasciato al caso. Fra l’altro, questa si rivelò una scelta illuminata (trattandosi di energia, è proprio il caso di dirlo!), poiché il livello di inquinamento, arrivato a livelli pressoché intollerabili, dal ventitreesimo secolo in poi iniziò finalmente a scendere. Ciononostante, verso il termine del ventisettesimo secolo, la situazione cambiò drasticamente. La popolazione umana mondiale raggiunse comunque i 12 miliardi e, arrivata a questo punto, la Terra non era più in grado di soddisfare le esigenze di tutti. E non c’erano energie alternative che tenessero.

 

Semplicemente, non c’era più posto.

 

Fu a questo punto che lo spirito pantofolaio dei terrestri iniziò a ribellarsi, e a trasformarsi in qualcosa di più attivo, di più vivace. D’altronde, era in gioco la loro stessa sopravvivenza. E così, agli albori del ventinovesimo secolo, le due principali agenzie spaziali del pianeta lanciarono il programma STARS, che avrebbe finalmente permesso al genere umano di espandersi nel resto della Via Lattea, e magari persino oltre, pena l’estinzione totale. Le innumerevoli stelle scovate da STARS, dotate di sistemi planetari adatti a supportare la vita, entrarono ben presto a far parte della catalogazione HIC, recentemente istituita, e si iniziò a costruire navi dotate di tecnologie innovative, più potenti ed efficaci, in grado di coprire le enormi distanze interstellari che dividevano la Terra da questi nuovi lidi su cui, finalmente, l’uomo potesse prosperare, senza l’angoscia che l’aveva oppresso finora.

 

In seguito al lancio del programma STARS, e con l’avvento delle nuove tecnologie di navigazione interstellare, l’esplorazione umana fu relativamente facile e veloce. Certo, i primi pianeti trovati, distanti pochi anni luce dalla Terra, erano ai limiti dall’abitabilità, ma i coloni terrestri che si avventurarono nello spazio profondo non si potevano di certo permettere di fare gli schizzinosi. Ci volle parecchio tempo, dunque, e soprattutto parecchi parsec di distanza, prima che si potesse mettere piede su dei mondi veramente a misura d’uomo… E il mio fu uno di questi.

 

***

 

Il viaggio in taxi non è lungo. Una volta arrivato alla mia destinazione, e dopo aver pagato l’autista, mi dirigo verso la spiaggia.

 

Ne approfitto per sfilarmi le scarpe. Con i piedi nudi, lievemente sprofondati nella sabbia bianca di quest’angolo di paradiso, rivolgo il mio sguardo verso l’orizzonte, e osservo la vastità dell’Oceano Atlantico. Non posso fare a meno di confrontarla con quella, ancora più immensa, del mio pianeta natale. E di trovarla terribilmente carente. Ma è naturale, d’altronde, che sia così.

 

Boeshane, colonizzato nel quarantasettesimo secolo, è l’unico pianeta compreso nella zona abitabile di HIC 273, una stella K5 V. Per il resto, il mio sistema solare d’origine ha da offrire solo qualche asteroide roccioso qua e là, e un paio di giganti gassosi, leggermente più piccoli di Giove, con relativa corte di satelliti. Il nome astronomico ufficiale di Boeshane sarebbe HIC 273-b, ma la spedizione terrestre (originaria degli Stati Uniti, con una certa prevalenza di abitanti dell’Illinois) che per prima vi mise piede era guidata dal comandante Henry Boeshane, un mio lontano antenato. E così, almeno per gli anni iniziali, HIC 273-b venne indicato nelle carte stellari come il Mondo di Henry Boeshane. In seguito, la denominazione da ufficiosa divenne per così dire ufficiale, e da quel momento in poi il mio mondo fu chiamato più sobriamente Boeshane.

 

I miei predecessori dovettero trovarlo ben strano. Quasi interamente ricoperto d’acqua, tranne un unico, grande continente, la Pangea, da cui si originava una piccola lingua di terra, detta Penisola di Boeshane, o più semplicemente Penisola, visto che era anche l’unica. La maggior parte dei coloni umani si stabilì qui; la Pangea era infatti sferzata da venti insidiosi e, sebbene il fenomeno non risparmiasse di certo la nostra Penisola, su di essa il clima risultava comunque più mite. In ogni caso, ricordo benissimo la preoccupazione dei miei genitori ogni volta che uscivo da solo o insieme a mio fratello, e la loro insistenza nel farci indossare sempre degli occhiali protettivi, anche quando la possibilità di una tempesta di sabbia era minima.

 

Ciononostante, rammento con nostalgia i primissimi anni della mia infanzia. La natura di Boeshane era selvaggia, e qualcuno, da un punto di vista più spassionato di come può essere quello di un bambino, l’avrebbe definita inclemente, magari persino violenta, soprattutto in certi periodi dell’anno. L’inverno, per esempio. Se dovessi paragonarlo a un tipo di clima terrestre, probabilmente ciò che ci si avvicina di più è la tundra russa, col suo gelo penetrante, e coi suoi paesaggi desolati. Malgrado tutto, però, la vita su Boeshane era dolce. Lasciando da parte i periodi freddi – abbastanza brevi, fortunatamente – il resto dell’anno aveva molto da offrire. L’estate era il mio periodo preferito, per ovvi motivi. Motivi che, se non sbaglio, ebbi l’occasione di illustrare a Ianto poco meno di due anni fa…

 

“Immerso nei ricordi?” mi apostrofa all’improvviso una voce familiare, alle mie spalle.

 

“Perché, anche se fosse? Che ci sarebbe di tanto male?” ribatto.

 

“Assolutamente niente, per la verità,” continua la voce. “Solo, volevo dire che a volte ci si può annegare, nei propri ricordi.” Mi giro, e noto John Hart, mio ex collega dell’Agenzia Temporale, avvicinarsi a me con la sua solita aria strafottente.

 

“Salve, Jack,” mi saluta infine con un mezzo sorriso.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo è ispirato a quello del romanzo fantascientifico in prosa barocca L’altro mondo o gli stati e imperi della luna, scritto da Cyrano Savinien de Bergerac e pubblicato postumo nel 1657.

- HIC: Human Intergalactic Catalogue. Sistema di catalogazione di vari oggetti spaziali (stelle, asteroidi, nebulose, galassie, pianeti, ecc.), in uso a partire dal 28° secolo (sigla e definizione completamente inventati dall’autrice).

- STARS: Stellar Transfer and Astronomic Research System. Programma congiunto di ricerca di stelle con sistemi planetari abitabili e della loro relativa colonizzazione, messo a punto dai principali enti spaziali terrestri, fra cui ESA e NASA, a partire dal 29° secolo (acronimo e definizione completamente inventati dall’autrice).

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Capitolo 14
*** Attività illecite, parte prima ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.).

Avviso ai lettori: Il capitolo contiene degli spoiler tratti dalla striscia a fumetti Shrouded.

 

 

Capitolo 14: Attività illecite, parte prima

 

Chicxulub, Yucatán, settembre 2010

 

“Salve a te, John. Ti vedo… calmo, rilassato,” osservo.

 

Ha un aspetto migliore rispetto all’ultima volta in cui ci siamo incontrati, devo ammetterlo. Sarà per merito del sole tropicale, comunque la sua pelle ha assunto un bel colorito dorato. Di norma John ha i capelli piuttosto scuri, più dei miei, ma ora gli si sono schiariti. Li porta anche leggermente più lunghi.

 

“Già, l’immagine sputata del vacanziere,” ironizza lui. “Lo stesso non posso dire di te, Jax.”

 

Gli lancio un’occhiata di ammonimento. “Prima affermi che non è bene lasciarsi trasportare dai propri ricordi, poi mi chiami col mio vero nome, un nome che ormai appartiene esclusivamente al passato.”

 

John sa benissimo che non amo sentir pronunciare il mio nome originale. Per quanto sia simile allo pseudonimo da me adottato durante la Seconda Guerra Mondiale, è troppo carico di memorie negative, di dolore, di sofferenza.

 

“Oh, ma mi conosci, no? Sono la contraddizione fatta persona,” risponde John con un’espressione sardonica. Poi inclina la testa di lato e mi scruta attento. “Sul serio, però, Jack. Ti trovo qui sulla spiaggia, a rimirare l’orizzonte, con lo sguardo perso nel vuoto… Qualcosa mi dice che non sei venuto da me a recitare il ruolo del turista gaudente in cerca di avventure.”

 

“Hai ragione, John,” ammetto. Volgo gli occhi al mio Manipolatore del Vortice, e leggo interessato i risultati dell’analisi spazio-temporale da me appena effettuata. Da essa risulta una debolissima distorsione del campo magnetico terrestre, ad appena un centinaio di metri dalla riva. “Una micro-Fessura,” mormoro. “Ecco dunque perché ti sei stabilito in questo posto, fra tutti quelli che potevi scegliere.”

 

“Beh, mi sembra ovvio,” replica lui, portandosi accanto a me, e ficcandosi le mani nelle tasche degli shorts. “Cosa credi, che avrei osato mettermi in proprio a Cardiff, e rischiare di averti costantemente tra i piedi? No, grazie. Senza contare il clima atroce di quella tua miserabile città gallese. Non ho mai capito cosa ci trovi di tanto affascinante.”

 

“Se non ci sei riuscito finora, è inutile che mi metta a spiegartelo,” ribatto.

 

“Comunque, anche se la Fessura di Cardiff sprigiona un’energia maggiore, quella che si trova qui,” e John punta con il dito indice verso un luogo preciso dinanzi a noi, al largo della costa, “è più che sufficiente per i miei scopi. Vero, di recente si è affievolita parecchio, ma ha ancora la sua utilità.”

 

“Di cosa ti occupi, esattamente?” gli chiedo.

 

John scrolla le spalle. “Traffico di artefatti. Quelli provenienti dal passato, di norma i più innocui, li rivendo ai collezionisti di oggetti antichi e di opere d’arte, mentre le armi e gli aggeggi futuristici li riservo per un altro tipo di clientela.”

 

“Ci troviamo in Messico, John. Immagino già di che razza di clientela tu stia parlando. Il tipo di clientela che porta solo guai.”

 

“Ne sono consapevole. Cartelli della droga, guerriglieri, separatisti, dissidenti del regime…” inizia a elencare John, per poi terminare con una risata beffarda. “Ma la vuoi sapere una cosa? Non sono io a dovermi preoccupare delle compagnie che frequento!”

 

“Effettivamente, fra te e loro, non so chi sia più pericoloso,” commento a mia volta, e vengo colpito da un pensiero improvviso. “Però, anche se debole, questa micro-Fessura ti creerà pur dei problemi, di tanto in tanto. Come ti regoli in quei casi?”

 

John sbuffa, e agita una mano in segno di diniego. “Ma no, figurati. Anzi, è talmente vecchia che a volte mi stupisco sia ancora attiva.”

 

“Sessantacinque milioni di anni, giusto? Creata dal meteorite che ha provocato l’estinzione dei dinosauri. Dev’essere stato un vero spettacolo, all’epoca.”

 

John si volta di scatto a fissarmi. “Cosa? Di che diavolo parli?”

 

Mi giro a mia volta verso di lui. “Perché, cos’ho detto di sbagliato?”

 

“Il cratere non si è formato in seguito all’impatto con un meteorite, ma con un’astronave,” risponde cauto John. “Non dirmi che non lo sapevi.”

 

“Davvero?” esclamo, stupito. John mi coglie di sorpresa. In realtà, ai tempi della caduta dell’asteroide (o della famigerata astronave, come sostiene lui), non mi trovavo esattamente in Messico, ma in quella che oggi sarebbe l’odierna Cina. Glielo comunico, e John si mette a ridacchiare.

 

“E hai creduto ai geologi terrestri e a quello che hanno scritto sui libri? Ecco il solo apparecchio di cui noi ex Agenti possiamo fidarci, Jack,” dichiara, sollevando il braccio destro e indicandomi il suo Manipolatore. “Un asteroide, per quanto devastante, non avrebbe mai potuto aprire uno squarcio nello spazio-tempo, mentre un’astronave proveniente dal futuro sì,” mi spiega in tono conciso.

 

“Ah,” è il mio solo, breve commento.

 

“Già, ah,” mi scimmiotta John, che poi aggrotta la fronte. “Senti, Jack, tralasciando le lezioni di storia, nonché la tua evidente ignoranza al riguardo…”

 

“Ehi!” prorompo.

 

“Non mi hai ancora rivelato cosa ci fai qui nello Yucatán,” prosegue, e all’improvviso mi afferra per il colletto della camicia. Gli occhi gli brillano di una luce fredda, calcolatrice. “Non sarai mica venuto a mettermi i bastoni fra le ruote, spero! Perché se è così, sai già dove puoi andarti a ficcare questa tua nuova mania di giocare all’eroe senza macchia e senza paura. Che, fra parentesi, non mi piace nemmeno un po’.”

 

“Rilassati, John,” lo rassicuro, e copro le sue mani con le mie. “Non ho alcun interesse a intralciare né te, né il tuo sordido commercio. A meno che tu non intenda compiere dei crimini plateali, s’intende.”

 

John mi guarda dritto negli occhi, come per sincerarsi che io stia dicendo la pura verità, e alla fine mi lascia andare. Infilandosi di nuovo le mani in tasca, emette un breve sospiro. “Così va meglio. Mi sarebbe dispiaciuto doverti uccidere, soprattutto considerato che non sarebbe una condizione permanente, nel tuo caso. Un totale spreco di energie.”

 

Sorrido. “Non ti libererai mai di me, John. Dovresti esserne contento, no?”

 

“Sicuro! Estasiato è il termine giusto,” commenta lui con una smorfia. “Seriamente, però. A questo punto devi spiegarmi il perché della tua improvvisata.”

 

“Non qui,” replico. “Non c’è un posto in cui possiamo parlare più tranquillamente, lontano da occhi indiscreti?”

 

“Certo,” annuisce John. “Abito in una casa isolata dal resto del villaggio. Il puerto di Chicxulub è troppo frequentato dai turisti, per i miei gusti.”

 

“Va bene, allora andiamo da te. Ti racconterò tutto, John, non preoccuparti. Anche perché ho bisogno del tuo aiuto, o meglio, non solamente del tuo aiuto. Mi occorrono anche delle informazioni. Informazioni che puoi fornirmi solo tu,” concludo.

 

John stringe gli occhi con fare interrogativo, e annuisce nuovamente. “Misterioso come ai vecchi tempi, Jax, eh?”

 

“Ti ho già detto che…”

 

“Sì, sì, non ti scaldare. Lo sai che adoro farti saltare i nervi. E adesso vieni con me, da qui sono solo una trentina di minuti a piedi. Un po’ di moto non fa mai male, non trovi?”

 

“Hai ragione,” concordo.

 

Mi accingo  a seguirlo, e John si avvia senza guardarsi indietro, sicuro che non tenterò brutti scherzi nei suoi confronti. Me ne guardo bene, ovviamente, poiché è possibile che John rappresenti una delle mie ultime speranze di modificare gli avvenimenti passati. Se la linea temporale è stata cambiata una volta, non potrebbe succedere di nuovo? Nonostante ciò che afferma il Dottore, infatti, non sono affatto convinto che gli eventi occorsi un anno fa a Thames House rappresentino un punto fisso, immutabile e definitivo.

 

E se esiste anche una minima possibilità che Ianto, il mio Ianto, torni in vita, non me la lascerò di certo sfuggire.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- La teoria di John, secondo la quale sarebbe stato un veicolo spaziale e non un meteorite a creare il cratere di Chicxulub, causa primaria dell’estinzione dei dinosauri e della maggior parte delle specie viventi di quei remoti tempi, è da ricondurre alla mini-saga in quattro episodi Earthshock, andata in onda nel 1982, appartenente alla serie classica di Doctor Who.

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Capitolo 15
*** Attività illecite, parte seconda ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Becca. Lei sì che la rivendico!

 

 

Capitolo 15: Attività illecite, parte seconda

 

Il villaggio di Chicxulub è diviso in due parti: il puerto, più affollato, che si affaccia sull’Atlantico ed è abitato in prevalenza da pescatori, e il pueblo vero e proprio, situato più verso l’interno. Ed è lì che io e John ci stiamo dirigendo.

 

In generale, Chicxulub è una meta turistica decisamente popolare, vuoi per la sua prossimità al mare, vuoi per la vicinanza all’epicentro del famigerato cratere. Non va infine dimenticato che, a pochi chilometri di distanza da qui, si erge il complesso archeologico maya di Chichén Itzá. Patrimonio dell’UNESCO, nonché una delle sette meraviglie del mondo moderno; un posto affascinante, insomma, che mi sono spesso ripromesso di visitare durante i miei frequenti viaggi in America. Purtroppo, però, finora le circostanze me lo hanno impedito, e sembra proprio che anche oggi non farà alcuna differenza.

 

Cammino a passo veloce insieme al mio ex collega, ansioso di raggiungere la sua abitazione. “Quanto manca?” gli chiedo.

 

John sogghigna, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. “Non fare il bambino, Jack, non è da te.” Poi si ferma un attimo e soggiunge: “Anche se, a ben rifletterci, ricordo che ti è sempre piaciuto giocare.”

 

“Tu che rifletti? Attento, John, non è da te,” gli faccio eco ironicamente.

 

Lui assume un’espressione oltraggiata, e riprende a camminare, stavolta più in fretta. Decido di rincarare la dose; sarà anche vero che John riesce spesso e volentieri a farmi saltare i nervi, ma io non sono certo da meno.  “E poi, i giochi a cui stai pensando tu non rientrano certo in quelli praticati nel periodo dell’infanzia,” aggiungo.

 

Nel frattempo siamo arrivati a una curva. Qui la vegetazione si fa più fitta, praticamente lussureggiante, e mi rendo conto che ciò che diceva prima John corrispondeva alla pura verità. Chi mai potrebbe sospettare a quali attività sia dedito, in un posto così lontano dal centro abitato?

 

Getto un’occhiata perplessa a John, il quale, dopo la mia ultima battuta, è rimasto insolitamente taciturno. “Che c’è?” faccio. “Come mai quel muso lungo? Di solito non perdi occasione di replicare, quando ti prendo in giro. Nemmeno questo è da te.”

 

“No, è che…” John si interrompe, poi scuote la testa. “Accidenti, e pensare che prima ero io a rinfacciarti quella tua abitudine malsana di rivangare le memorie passate.”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Beh, sempre a proposito dei cosiddetti giochi a cui noi due ci dedicavamo… Rammenti in quale periodo li iniziammo?”

 

“Certo,” annuisco. “All’interno del loop temporale in cui rimanemmo bloccati per cinque anni.”

 

“Esatto. Fu in quell’occasione che diventammo amanti,” soggiunge John.

 

“E tutto questo panegirico sulle origini della nostra relazione – morta e sepolta da un bel pezzo, ormai – che cosa dovrebbe suggerirmi?” gli domando, perplesso.

 

John allunga il passo. “Visto che prima volevi tanto saperlo, ti comunico che siamo praticamente arrivati.”

 

“Non cambiare discorso,” lo incalzo.

 

“Preferirei aspettare di raggiungere la mia abitazione prima di entrare nei dettagli, se non ti dispiace, Jack. Comunque, per soddisfare la tua curiosità, sappi che il mio panegirico, come lo chiami tu…” e qui John storce la bocca, “non è a caso. Sono venuto a conoscenza di alcune voci inquietanti, e credo sia necessario che anche tu ne sia al corrente.”

 

“Informazioni di che tipo? Su chi, o che cosa?” So benissimo che nella mia voce si è insinuata già da diversi minuti una nota petulante, ma John non può pretendere di lanciare il suo amo con tanto di esca e poi aspettarsi che io non abbocchi! Soprattutto considerato che la pazienza non è mai stato il mio forte. In certe occasioni, ovviamente, sono anche capace di fare un’eccezione, ma di sicuro non è questo il momento adatto.

 

“Beh… Oh, e va bene, qualcosa posso anticiparti,” sbuffa lui. “Si tratta dell’Agenzia Temporale, o meglio, di ciò che ne rimane.”

 

“Ma tempo fa mi hai detto che l’Agenzia era allo sbando, che era stata praticamente smantellata,” osservo con cautela.

 

“Sì, però ti ho anche precisato che, di tutti gli ex Agenti Temporali, eravamo rimasti solo in sette. E invece, di recente ho scoperto che da sette siamo passati a cinque.”

 

“In che senso, siamo passati a cinque?” chiedo, stringendo i pugni. Percepisco in me un’agitazione crescente. Agitazione che inizia a trasformarsi inevitabilmente in panico.

 

“Non sei un idiota, Jack. Non lo sei mai stato, quindi puoi ben arrivarci anche da solo, credo,” rimarca lui.

 

No, penso fra me e me. Non è possibile, John non può parlare così. Non può, non può, semplicemente non può implicare quello che… Ma non voglio nemmeno pensarci! Ripeto nella mia mente delle semplici parole, alla stregua di un mantra: fa che non sia così. Fa che non abbia perso un’altra delle persone a me care!

 

“Degli altri due non si sa più nulla. Personalmente, e basandomi su ciò che già conosco, per loro temo il peggio,” spiega ancora John, scuro in viso.

 

Questo mi fa rabbrividire da capo a piedi, e mi rendo infine conto che John sta andando a parare esattamente nella direzione più infausta, quella che io pavento maggiormente. “Ti prego,” sussurro, “dimmi che fra quei due non è inclusa Becca.”

 

John scuote la testa, con mio infinito sollievo. “No, no. Becca è sana e salva, te lo assicuro.”

 

“Ne sei assolutamente certo?”

 

“Certissimo,” conferma lui.

 

La mia prima reazione consiste nell’emettere un sospiro liberatorio; poi, però, dalla mia voce trapela una punta d’irritazione. “Sei sempre il solito farabutto, John. Mi hai fatto prendere un accidente! Non potevi dirmelo subito che Becca non c’entrava, in quello che hai da riferirmi?!”

 

“Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, come dicono qui sulla Terra, Jack!” ride John alle mie spese, in preda a un’inaspettata allegria. Che gran bastardo!

 

Mi accingo a replicare, ma John mi anticipa improvvisamente. “Eccoci qua,” dice, indicando una stradina sterrata che si diparte dalla via principale. “Quello è il sentiero da prendere. Inoltriamoci un paio di centinaia di metri, e finalmente potremo rilassarci un poco. Abbiamo molte notizie da condividere, a quanto sembra,” conclude scrollando le spalle.

 

“Già,” borbotto.

 

Il commento di John a proposito dell’abitudine che ho di annegare nei ricordi si riaffaccia alle porte del mio cervello, prepotentemente. Mi sento quasi in colpa nei confronti di Ianto, tanto sono forti la nostalgia, la voglia, il desiderio di sincerarmi di persona che Becca stia veramente bene. Sì, perché all’improvviso, al di sopra degli altri, persino al di là di quello che, ormai, mi preme rivedere di più, si erge il suo sorridente viso femminile.

 

Il viso del mio primo, vero amore.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Con questo che avete appena letto introduco un mini-flashback non previsto. In origine, infatti, al personaggio di Becca avevo riservato un ruolo decisamente ridotto, quasi a livello di comparsa; mi sono però resa conto che sarebbe stato bene introdurla più dettagliatamente, perché dalla sua interazione con Jack deriveranno molte delle trame che svilupperò più avanti. Il tutto si concluderà in circa tre capitoli, dopodiché tornerò alla narrazione principale. La quale non durerà molto, a dir la verità, visto che poi ci tufferemo direttamente in un secondo, lungo blocco di flashback (almeno 6 capitoli, ma possono sempre aumentare XD). Il quale, lo ricordo di nuovo, si svolgerà nel 1992.

- E ti pareva che non ci ricascavo! Un ennesimo capitolo indecentemente breve… Per compensare, e per riparare all’angst che prenderà il sopravvento entro breve, eccovi qui un po’ di umorismo tratto da un capitolo futuro. Il tutto offerto dall’agente di polizia Andy Davidson ^^ Buon divertimento!

 

***

 

“Gallesi… Bah. Sono anni che mi ritrovo circondato da voi e dalla vostra testardaggine.”

Ianto mi rispose in tono divertito. “Gallesi, giapponesi, australiani… Mi spieghi la differenza, Jack? Saresti in ogni caso attorniato da terrestri, no?”

“In che senso, attorniato da terrestri?” chiese Andy, leggermente confuso.

“Beh, sì, amico,” replicò Rhys. “Jack non è mica terrestre.”

Andy impallidì. “Dunque Harkness sarebbe un alieno?”

“In un certo senso…” concesse Gwen.

“No, in tutti i sensi,” ribattei.

Andy sembrava sconvolto. “Ma… Ma…”

“Però scusami, se non mi sbaglio, abbiamo spesso dato dell’alieno a Jack in tua presenza,” rimarcò Gwen. “Come mai ne fai una questione solamente adesso?”

“Cioè, ma io pensavo… Tutte le volte in cui vi riferivate a lui come a un alieno, pensavo intendeste che era a-americano!” balbettò Andy.

Non potei trattenermi dal roteare gli occhi. “Che qualcuno mi dia la forza… Davidson, svegliati! Alieno nel mio caso significa proprio che non sono terrestre!”

“E quindi sarebbe a dire che vieni da un altro pianeta?!”

Gwen e Rhys si misero a ridacchiare. Francamente, iniziavo a capirli.

“Perché, conosci per caso un ulteriore significato della parola alieno, oltre ad americano?” gli domandai stizzito.

“Inglese,” commentò asciutto Ianto.

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Capitolo 16
*** Questione di etichetta ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 16: Questione di etichetta

 

Agenzia Temporale, nei pressi di Sagittarius A*, 5096 (anni terrestri)

 

Conobbi Rebecca Temple agli inizi del mio lavoro al soldo dell’Agenzia Temporale.

 

Ero fresco di Accademia, un giovane neo Agente di poco più di vent’anni, pieno dei sogni di gloria e dei saggi insegnamenti dei miei professori, e di uno in particolare, il mio preferito, ossia Harlan Andrews (Ma guarda un po’ che sorpresa, commenterebbe John con la sua solita ironia). Davanti a me si spalancava una carriera luminosa, grazie alla quale avrei presto imparato sul campo il fascino dei viaggi nel tempo, e inseguito il brivido dell’avventura e del pericolo. O almeno, questa era la mia convinzione all’epoca.

 

Tuttavia, un’organizzazione come la nostra mai e poi mai si sarebbe azzardata a mandare allo sbaraglio dei ragazzini arroganti e smaniosi quali eravamo noi senza prima prendere le dovute precauzioni; sarebbe stato impensabile, davvero, e il modo più veloce di perdere le nuove leve ancor prima di aver iniziato ad addestrarle. Proprio per questo motivo, la prassi richiedeva che a ciascuno di noi venisse assegnato un collega anziano. Una sorta di guida, di mentore, di compagno nelle varie missioni che ci venivano via via assegnate.

 

Al sottoscritto capitò per l’appunto Rebecca Temple, o Becca, come preferiva farsi chiamare. Era una giovane donna attraente di circa trent’anni, dalla capigliatura rosso fuoco, e dal carattere altrettanto deciso. Con Becca non si poteva discutere; esistevano delle regole ben precise da rispettare, stabilite dall’Agenzia, tra cui l’obbedienza assoluta al mio collega anziano, cioè lei. Guai a sgarrare anche di poco.

 

Non la sopportavo, al principio. Ai miei occhi, il nostro rapporto superiore-cadetto era paragonabile al puro schiavismo: Jax di qua, Jax di là, Jax fai questo, Jax non fare quello, Jax non sei ancora pronto, Jax devi portare pazienza… Una vera e propria tortura, insomma. Va però sottolineato che le nostre iniziali divergenze dipendevano solo in parte da fattori generazionali, caratteriali o lavorativi. Perché Becca proveniva da un mondo diverso dal mio e, soprattutto, da un altro secolo, governato da principi completamente opposti ai miei. Se il cinquantunesimo era libero da vincoli e da ipocrisie, il trentacinquesimo rappresentava al contrario l’apoteosi stessa della formalità, del dover applicare etichette a qualsiasi situazione. Normale, quindi, che Becca fosse figlia del suo tempo, e che aderisse a tale filosofia di vita.

 

Ben presto, però, imparai a stimare la mia collega. Becca era inflessibile, senza dubbio, ma in più di un’occasione i suoi consigli si rivelarono decisivi per il felice esito delle nostre missioni in tandem. Lei, dal canto suo, cambiò pian piano opinione su di me e, se sulle prime mi aveva considerato solo un giovanotto vanitoso e superficiale, alla fine giunse ad apprezzare anche le mie altre, molteplici qualità.

 

Insomma, in capo a qualche mese diventammo una coppia formidabile. E non solo professionalmente, poiché il nostro rapporto, da puramente lavorativo, si trasformò in sincera amicizia. Le differenze culturali che sulle prime ci avevano divisi esistevano ancora, certo, ma ad esse non attribuivamo più alcuna importanza, poiché a quel punto io e Becca eravamo arrivati a conoscerci molto bene. Fondamentalmente, e insperatamente aggiungerei, eravamo due persone dai principi assai simili.

 

Dopo un po’ di tempo, il mio sentimento di amicizia per Becca si trasformò in qualcosa di più profondo. Per il rispetto che le portavo, e anche a causa delle regole dell’Agenzia, non osai però renderla partecipe di ciò che provavo per lei. La mia conseguente frustrazione crebbe sempre più, e per sfogarla ricorsi ai soliti metodi, quelli che mi riuscivano meglio… In tale periodo, e considerando persino tutto l’arco della mia vita, sia mortale che immortale, credo proprio di aver oltrepassato di gran lunga la mia solita media di incontri sessuali occasionali. Due o tre alla settimana, forse. Non ne tenni il conto esatto, ma si trattava in ogni caso di un numero estremamente alto.

 

Becca non era cieca, ma sopportò la situazione; non erano affari che la riguardavano, dopo tutto. O almeno, non la riguardarono finché le mie attività ricreative non finirono per influire negativamente su quelle professionali. E fu lei a farmelo notare.

 

***

 

Un giorno, Becca mi convocò nel nostro ufficio, posto al trentaquattresimo piano del palazzo in cui aveva sede l’Agenzia Temporale. Immaginai mi volesse illustrare il programma del nuovo, ennesimo incarico da svolgere insieme. Appena entrai nella stanza, però, la prima cosa che notai fu che l’ambiente era vuoto, privo persino dei suoi pochi mobili, e di Becca nemmeno l’ombra. Gli unici elementi che denotavano il passaggio di una minima presenza umana erano gli antiquati quadri appesi alle pareti. Ognuno di essi rappresentava una veduta del mondo d’origine della mia collega; in tutta franchezza, non li avevo mai trovati eccezionali, ma mi ero sempre ben guardato dal farglielo notare.

 

La porta si spalancò all’improvviso dietro di me, provocando un gran fracasso. Mi girai con un sussulto, e mi accorsi che Becca era finalmente arrivata. Tuttavia, non mi pareva granché lieta di vedermi. Me ne chiesi la ragione, ovviamente, ma la domanda mi morì sulle labbra quando scorsi lo sguardo truce che mi stava riservando tutto d’un tratto.

 

Mi schiarii la voce, a disagio. “Becca… Cos’è successo all’ufficio? Dove sono finite le scrivanie, le poltrone, e tutto il resto?”

 

Lei incrociò le braccia sul petto. “Spariti, come puoi ben vedere.”

 

“Cosa?” esclamai allarmato. “Ma la maggior parte dell’arredamento l’avevo comprata io, e…”

 

“Appunto,” mi interruppe lei.

 

“Come sarebbe a dire, ‘appunto’? Mi prendi in giro, per caso?!”

 

Becca puntò un dito accusatorio verso di me. “Sei tu quello che mi ha preso in giro, Jax Boeshane! Ma non succederà più, perché d’ora in poi questo sarà solo ed esclusivamente il mio ufficio. Se rivuoi indietro la tua roba, vattela a prendere giù al magazzino, al sub-livello 3, sezione B.”

 

Caddi letteralmente dalle nuvole; davvero, sinceramente non capivo quale fosse il motivo di questo suo improvviso astio verso di me. Glielo riferii.

 

“Non capisci? Non capisci?! Adesso te la spiego io, la ragione!” ruggì Becca. “Di norma non avrei mai e poi mai tollerato il tuo comportamento, ma stavolta l’ho fatto, perché mi sembrava che la tua efficienza sul campo non ne stesse risentendo. E invece, posta di fronte all’evidenza dei fatti, mi sono dovuta ricredere!”

 

“Il mio comportamento? Intendi gli svaghi che mi concedo al di fuori delle ore lavorative? Se è a quello che ti riferisci, non vedo come la cosa rientri nelle tue pertinenze.”

 

“Ah, secondo te non mi riguarda? Mi riguarda eccome, invece!” Becca mi si piazzò davanti, e mi sbatté sul petto un fascicolo. “Osserva bene le statistiche relative alle nostre ultime missioni, e vedrai che la percentuale di successi netti è calata parecchio, almeno del 70%!”

 

Afferrai il dossier in questione, e diedi una scorsa ai dati menzionati da Becca. “Ti stai sbagliando di grosso. Dove sarebbe questa clamorosa diminuzione di missioni portate a termine con successo? L’andamento annuale risulta più che positivo, se guardi bene il totale,” osservai.

 

Becca si riprese il fascicolo, strappandomelo letteralmente di mano e gettandolo in aria. I fogli si sparsero un po’ dappertutto ai nostri piedi. “Non mi ascolti quando parlo, Jax? Ho detto successi netti! Gli incarichi svolti negli ultimi due mesi hanno messo in evidenza un margine di rischio altissimo! Più di una volta ci siamo esposti al fallimento completo, e ce la siamo cavata solo per il rotto della cuffia! E indovina di chi è la colpa?”

 

“Immagino sia mia, giusto?” commentai, con una punta di scherno.

 

“Esatto! A parte il fatto che il tuo sarcasmo è completamente fuori luogo, oseresti negare che i tuoi svaghi, come li hai impropriamente definiti tu, non abbiano influito in modo negativo sulla tua concentrazione, sulla tua prontezza di riflessi, sulle tue capacità investigative?!”

 

“Ovvio che lo nego. Quando mi hanno affiancato a te sapevi già che tipo di persona fossi, da quale secolo provenissi, e quali fossero le mie abitudini. Nel frattempo non sono di certo cambiato; non comprendo perché tutto questo dovrebbe sorprenderti proprio adesso, e…”

 

Lasciai la frase in sospeso. Mentre parlavo, infatti, la mia collega aveva strabuzzato gli occhi, come se avessi appena pronunciato delle eresie, e la sua pelle chiara aveva iniziato ad arrossarsi violentemente. Dopodiché successe una cosa bizzarra, a cui non avevo mai assistito fino a quel momento: Becca, che di solito simboleggiava l’immagine stessa dell’autocontrollo, perse letteralmente le staffe.

 

Il volto ormai paonazzo, Becca iniziò ad apostrofarmi con tutti gli improperi e le ingiurie di cui era capace. Mi accusò di scarsa professionalità, di promiscuità indecente ed estrema, di totale mancanza di rispetto nei suoi confronti. Per un po’ di secondi la stetti ad ascoltare in assoluto silenzio; intanto lei inveiva a raffica, maledicendo me e chi come me era nato in un secolo tanto caotico quale alla fine si era davvero confermato essere il cinquantunesimo.

 

Ciononostante, stavo cominciando a stufarmi. Avrei per caso dovuto sorbirmi la sua filippica ancora per molto? Per la miseria, assolutamente no! Iniziai quindi a replicarle, ovviamente in tono calmo e ragionevole. Becca però non mi voleva dare retta. Affermava di essersi sbagliata a giudicarmi diverso dai ragazzini immaturi che le erano stati affidati prima di me, e anzi, finora il peggiore ero stato proprio io, con la mia condotta immorale e al di sopra di ogni limite. L’avevo illusa, delusa e tradita, insomma.

 

A quel punto non riuscii a trattenermi, e cominciai anch’io a gridarle addosso. Le rinfacciai il suo assurdo attaccamento alle regole, tipico invece del suo, di secolo. Nessuno si sarebbe mai domandato come mai a Becca piacesse tanto lavorare per l’Agenzia Temporale, oh no, almeno a giudicare da quanto si crogiolava nelle sterili limitazioni e negli incessanti controlli dell’ente per cui lavoravamo. Per lei tutto doveva essere perfetto, controllato, schematizzato.

 

“Ed è per questo che ti stai comportando così?” mi chiese lei, oltraggiata. “Per puro spirito di contraddizione?!”

 

“È per colpa di quelle maledette etichette che vi siete imposti, tu e l’Agenzia, se ora mi ritrovo in una situazione del genere!” le urlai di rimando.

 

“Di che accidenti parli? Nessuno, tantomeno l’Agenzia, ti obbliga a condurre una vita monastica… Ma ciò non giustifica questo tuo saltare in maniera tanto spudorata da un letto all’altro, praticamente ogni giorno, nemmeno fossi un animale in calore!” mi rispose Becca, scandalizzata.

 

Le rivolsi un sorriso provocatorio. “Il tuo ragionamento non fila, visto che io il letto lo uso solo ed esclusivamente per dormire.”

 

Becca spalancò ancor di più gli occhi, e aprì la bocca per rispondere; poi sbuffò, esasperata. “Tutto qui? L’unica tua difesa rispetto a quel che ti ho appena detto è una volgare battuta, oltretutto nemmeno tanto originale? Proprio vero che possiedi un ego degno del pianeta di cui porti il nome!”

 

“Semmai sarà il contrario… E poi, come al solito, non hai capito niente! Ho una ragione più che valida per comportarmi così, visto che sei tu che mi ci hai spinto!” mi sorpresi a replicare.

 

Sul volto di Becca iniziò ad aggiungersi, oltre alla rabbia più nera, un’espressione di vacua confusione. “Io? Che c’entro io?”

 

Mi resi conto di ciò che mi ero appena lasciato sfuggire di bocca, e mi sentii crollare il mondo addosso. Stavolta l’avevo davvero combinata grossa: il segreto che tenevo custodito dentro di me, rivelato proprio alla persona che mai e poi mai sarebbe dovuta venirne a conoscenza. E adesso che faccio? mi domandai disperato, maledicendo la mia impulsività. Perché sapevo che Becca mi avrebbe tempestato di domande, e che avrebbe preteso delle risposte chiare e concise su che cosa avessi voluto dire con la mia ultima frase.

 

“Oh, al diavolo!” esclamai allora. Ormai, per perso per perso… D’istinto la afferrai per un braccio, la strinsi a me, e premetti con foga le mie labbra sulle sue.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Quando ancora stavo decidendo i nomi dei vari personaggi presenti nella mia storia, decisi di affibbiare il cognome Temple a Rebecca. Non mi ero però accorta che, in Doctor Who, Donna sposa un uomo che si chiama per l’appunto Shawn Temple… Nel momento in cui me ne sono resa conto, ho allegramente preso la palla al balzo e trasformato Becca in una lontana discendente di Donna XD

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Capitolo 17
*** Uguale e contraria ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 17: Uguale e contraria

 

Becca rimase paralizzata per qualche secondo, poi mi respinse violentemente, imprimendomi un sonoro ceffone.

 

Il colpo mi fu inferto con parecchia forza; Becca non era certo quel che si può definire un fragile fiore di serra, e inoltre, come tutti noi Agenti Temporali, era stata addestrata alla perfezione nel combattimento corpo a corpo e a mani nude. Lo schiaffo, fra l’altro, mi colse talmente di sorpresa che mi fece barcollare e sbattere con la testa contro il muro alle mie spalle. Udii un rumore strano, come di qualcosa che si schiantava; contemporaneamente sentii uno scricchiolio alla nuca, e caddi rovinosamente a terra. Mentre giacevo sul pavimento, ancora intontito dalla botta e con la guancia che sembrava dovesse prendere fuoco da un secondo all’altro, Becca avanzò verso di me, e si bloccò a guardarmi dall’alto in basso, le mani piantate sui fianchi.

 

“Cos’è, volevi aggiungere un’altra preda al tuo carniere? Dovresti vergognarti, Jax Boeshane! Ma non credere che finisca qui!” proruppe, sempre più infuriata.

 

Mi limitai a sollevare il capo verso di lei, senza risponderle subito, e nello stesso istante percepii un lieve pizzicore agli occhi. Poi a fatica, mormorai qualche parola sconnessa. “No, non hai… Non sei una…”

 

“Cos’hai da dire in tua difesa? Sentiamo!” continuò Becca.

 

La vista mi si andava annebbiando, e pensare si stava facendo sempre più arduo. Per tentare di schiarirmi le idee battei le palpebre un paio di volte; una lacrima mi scese dall’occhio destro. “Non sei una… Preda. Sei la sola persona…” iniziai, con voce impastata.

 

“Oh, adesso capisco. Sono la sola persona che non sei riuscito a sedurre, eh? Beh, diciamo che con me quei tuoi maledetti feromoni non hanno funzionato. Personalmente la considero una piccola, grande vittoria,” mi sbeffeggiò.

 

“No, no,” dissi angosciato, scuotendo la testa, e alzai la mano sinistra per massaggiarmi la nuca indolenzita. “Sei la sola persona che io…”

 

“Sono stanca di stare qui ad ascoltare le tue scuse, Jax. Sappi che ora uscirò dal nostro, anzi dal mio ufficio, e andrò a consegnare alla sede centrale un rapporto dettagliato sul tuo comportamento, che giudico totalmente disdicevole per un Agente del tuo livello e delle tue capacità. Voglio proprio vedere la punizione esemplare che ti infliggeranno!”

 

Le sue parole mi fecero trasalire. La mano con cui mi stavo toccando la nuca raggiunse un punto particolarmente dolente, e stranamente bagnato. La tolsi con infinita cautela, e con altrettanta lentezza la riportai di fronte a me, per osservarla meglio e capire a che cosa fosse dovuta quell’improvvisa sensazione di umidità.

 

“Magari ti cancelleranno la memoria; oppure, persino meglio, potrebbero trasferirti in un ufficio sperduto, dove resteresti sepolto per il resto della tua miserabile carriera in mezzo alle scartoffie. Una fine ideale, considerando quanto o… Oh mio Dio, ma tu stai sanguinando!” esclamò Becca, interrompendo il suo ragionamento.

 

“Eh?” Abbassai lo sguardo, e mi accorsi che Becca aveva ragione. Le mie dita erano intrise del liquido rossastro; in preda a una sorta di trance, ne osservai diverse gocce cadere a terra. Alcune si riversarono su quelli che mi sembrarono dei frammenti di vetro.

 

Quest’ultimo, inspiegabile particolare mi fece alzare di nuovo la testa alla parete, e mi permise di scoprire che, a causa del colpo inflittomi da Becca, ero andato a picchiare con la testa contro uno dei suoi quadri appesi al muro. Schiantandosi a terra, il vetro del dipinto si era ridotto in frantumi, ed era su questi che il mio sangue si stava ora spargendo.

 

“La tua natura morta. Ci… Ci tenevi tanto,” sussurrai.

 

Becca, nel frattempo, si era coperta la bocca con entrambe le mani, e scuoteva incessantemente il capo. “Oh, Jax…” gemette, in un tono che mi parve di compassione.

 

Più li fissavo, e più i frammenti del quadro ormai in frantumi si ingigantivano, come se si stessero avvicinando a me. Aggrottai la fronte, alla ricerca di una spiegazione logica alla base di un fenomeno tanto peculiare. L’unico, confuso pensiero che mi balzò in mente fu invece che forse aveva ragione Becca. Forse davvero l’avevo delusa. Ma dove avevo sbagliato? E soprattutto, mi avrebbe mai perdonato?

 

“Mi dispiace,” dissi sconsolato. “Non volevo farti soffrire. Proprio tu… L’unica persona che… che io desideri al mio fianco,” terminai miseramente, scivolando a terra e chiudendo gli occhi. Al di sotto della mia guancia, alcuni minuscoli pezzettini di vetro mi si conficcarono dolorosamente nella pelle. Oh, riflettei in un ultimo, assurdo lampo di coscienza. Non era il vetro che si avvicinava a me… Ero io che gli stavo andando incontro. Che idiota che sono!

 

Poi, il nulla…

 

Ma svenire, l’avevo imparato ben presto, è un po’ come addormentarsi e sognare: la mente inizia a fluttuare, per poi cadere in una sorta di mare poco profondo, caldo e accogliente. Tutto diviene ovattato, distante, e per un breve periodo la coscienza è libera di vagare. In quegli istanti può accadere di tutto, per esempio è possibile provare delle sensazioni particolari, o percepire addirittura delle immagini vere e proprie.

 

Nello specifico, in seguito al mio mancamento nell’ufficio di Becca udii dei suoni quantomeno inusuali. Voci, miriadi di voci. Voci senza senso, voci una sopra l’altra, maschili, femminili, alcune familiari, altre totalmente sconosciute. Voci arrabbiate, voci gentili, voci appassionate, voci inquisitorie.

 

***

 

Flashfic: Risonanza

 

“Fate qualcosa! Non vedete che è ferito gravemente?!”

 

“Sono lieta che tu sia riuscito ad arrivare per tempo.”

 

“Non si preoccupi, Agente, fra poco tornerà come nuovo.”

 

“Di fenomeni come questo ne ho già incontrati, in passato.”

 

“Non volevo, non volevo, è tutta colpa mia, è solamente colpa mia…”

 

“Non perdere la speranza.”

 

“Lei qui? Come… Oh, la prego, lo aiuti, so quanto Jax le stia a cuore, e…”

 

“Tu ci provi sempre coi tuoi colleghi, basta che siano belli.”

 

“Jax? Jax, mi senti? Oh mio Dio, perché non si sveglia?!”

 

“Ho già incontrato un fenomeno simile, in passato.”

 

“Agente, si sta agitando troppo. Forse è meglio che esca.”

 

“Ah, il Tempo… Croce e delizia della mia esistenza.”

 

“No, no, non posso, voi non capite, non…”

 

“Sono rimasto solo io a non averli rossi! Se non è una congiura questa…!”

 

“Su, venga.”

 

Davvero stai invecchiando? Allora nascondiamo subito la tua calvizie incipiente!”

 

“Cara, vai pure, ormai è solo questione di tempo prima che si risvegli. Con lui rimango io e, se ci dovessero essere dei cambiamenti, ti farò chiamare subito, va bene?”

 

“Lo stesso discorso vale anche per me, allora.”

 

“Va… Va bene. Mi fido di lei, professore.”

 

***

 

“Jax? Jax, ragazzo mio, sono sicuro che riesci a sentirmi.”

 

Più che l’assenza di dolore, fu una voce sommessa, a me estremamente familiare, a riaccompagnarmi indietro dal regno del sonno. Riaprii gli occhi per un attimo, ma dovetti chiuderli subito. Troppa luce, troppo riverbero, dopo aver vagato per secondi, minuti – forse ore? – nella tetra oscurità della mia mente incosciente.

 

“Oh, hai ragione tu, com’è ovvio. Oscuro subito le finestre. Perdona la mancanza di riflessi di questo povero vecchio.”

 

Voltai la testa a fatica in direzione della voce, e allo stesso tempo tentai di mettere a fuoco il mio sguardo. “Professor Andrews? È davvero lei?”

 

Harlan Andrews, poiché di lui si trattava, si limitò ad annuire, per poi allontanarsi dalla finestra e venire a sistemarsi vicino a me. Con l’ambiente che ci circondava finalmente immerso nella penombra, potei constatare che non mi trovavo più nel mio ufficio, bensì in una delle infermerie site all’interno dell’Agenzia. Ero sdraiato su un lettino stretto, ma comodo, e accanto a me qualcuno aveva sistemato una poltroncina, sulla quale si era ora placidamente seduto il professore.

 

“Cos’è successo? Mi sento confuso… L’ultima cosa che ricordo che stavo litigando con Becca,” mormorai.

 

“Rebecca ha reagito in seguito a un tuo gesto… avventato, se così si può definire un bacio dispensato senza prima chiedere il permesso della diretta interessata,” rispose Andrews. “E la nostra comune amica si è comportata di conseguenza.”

 

“Cioè, in parole povere…?”

 

“Beh, diciamo che, fino a qualche minuto fa, ne portavi ancora il segno sul viso. L’impronta di un bello schiaffo, per essere più precisi,” aggiunse il professore.

 

“Davvero?” Mi portai automaticamente una mano alla guancia, e me la sfregai pensieroso.

 

“Eh, già. Sfortuna ha voluto che picchiassi la testa contro il muro, e per di più, contro una sezione ornata da uno dei suoi quadretti, raffigurante l’ameno paesaggio di Luna 12,” concluse lui, in tono quasi allegro.

 

“Luna 12, amena? Con quella specie di mostro che incombe sulla testa di chi ci abita? Lei ha sempre voglia di scherzare, professore,” commentai, e sollevai di nuovo la mano, stavolta per toccarmi la nuca. Non sentii nulla di nulla, nemmeno la benché minima ferita, come c’era da aspettarsi. “Nanogeni, giusto?”

 

Andrews annuì nuovamente. “Sei stato fortunato, Jax. Non tanto per il colpo contro la parete, che in fin dei conti non si è rivelato molto violento, quanto per i frammenti di vetro, visto che ti si sono conficcati in profondità sotto la pelle. Ancora qualche minuto, e probabilmente saresti morto dissanguato.”

 

“Ma no, si sbaglia,” protestai. “Con me c’era Becca, per l’appunto. Sono sicuro che…”

 

Il professore mi interruppe, scuotendo la testa con decisione. “No. Rebecca era sconvolta da quel che ti era successo, dunque non in grado di valutare la situazione con freddezza. Non ha pensato neanche per un attimo che ti saresti rimesso del tutto, grazie all’azione curativa della tecnologia basata sui nanogeni. Comunque, mi stavo giusto recando presso il vostro ufficio quando ho sentito le sue grida, e mi sono precipitato dentro più in fretta che potevo. Non appena mi sono reso conto della gravità di ciò che avevo davanti agli occhi, ho chiamato il personale medico. Il resto credo tu lo sappia.”

 

“Capisco. Grazie, allora, professore. Se non fosse stato per lei…”

 

“Aspetta prima di ringraziarmi, Jax,” mi ammonì lui. “Avevo un motivo ben specifico per venire da voi… In effetti, c’è qualcosa che devi sapere. Ma prima di parlarne più diffusamente, permetti che ti esamini con il mio Manipolatore?”

 

“Certo, non ho niente in contrario,” risposi, perplesso. “Ma perché?”

 

“Prima, mentre eri ancora svenuto, ho rilevato in questa stanza la presenza di diversi picchi di energia alquanto bizzarri, e mi piacerebbe sapere se ne sei stato influenzato in qualche modo. Immagino che, in condizioni più normali, un Agente scrupoloso come Rebecca se ne sarebbe accorto,” mi spiegò il professore.

 

Gli offrii un cenno d’assenso, ovviamente, e Andrews iniziò subito a regolare e impostare gli appositi comandi del suo Manipolatore.

 

Mentre attendevo con trepidazione i risultati dell’analisi, non potei trattenermi dal sospirare, e dal lanciare un’occhiata nostalgica al mio polso sinistro. Non biasimavo il personale medico per avermi privato del bracciale; era la prassi, dopotutto, e in ogni caso l’avrei riavuto indietro entro breve termine, ossia alla mia dimissione dall’infermeria. Questo non mi impediva, però, di percepirne la mancanza. Senza di esso mi sentivo letteralmente indifeso, ed esposto a ogni sorta di pericolo.

 

Ero immerso in tali cupi pensieri quando dal Manipolatore del professore giunse improvviso un biiip prolungato, minaccioso, quasi in risposta ai miei dubbi e ai miei timori interiori.

 

“Oh, Jax, Jax… In quali guai ti sei cacciato, stavolta?” esclamò affranto Andrews.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo si rifà al terzo principio della dinamica enunciato da Isaac Newton, secondo il quale, semplificando, ‘a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria’. Jack ne fa le spese sulla propria pelle… Letteralmente, direi!

- Ok, avevo affermato che questo blocco di flashback sarebbe stato in formato mini (non era nemmeno previsto, figurarsi!), e invece mi sto rendendo conto che risulterà lungo più di quello con Laurent/Lawrence, visto che siamo 4 capitoli contro 5 O__o

- Rinnovo la domanda che ho postato sulla pagina introduttiva di CE: qualcuno che ha seguito attentamente il telefilm, o che ha letto uno o più romanzi su Torchwood, ha notato se per caso è mai stato specificato in quale parte di Cardiff abitasse Ianto? E sua sorella Rhiannon? Un grazie di cuore a chiunque saprà fornirmi questa preziosa informazione ^^

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Capitolo 18
*** Gli inconvenienti del mestiere, parte prima ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Harlan Andrews. Lui sì che lo rivendico!

 

 

Capitolo 18: Gli inconvenienti del mestiere, parte prima

 

Lo spontaneo commento di Andrews non preannunciava nulla di buono, e così, pur ancora intontito dagli antidolorifici e dall’effetto dei nanogeni, iniziai ad agitarmi anch’io.

 

“Non mi tenga sulle spine, professore,” lo incalzai. “Che cos’ha scoperto di tanto sconvolgente?”

 

Ma Andrews non sembrò darmi subito retta. Si alzò di scatto dalla sua poltrona, e si mise a camminare avanti e indietro borbottando in una lingua strana, mai sentita prima, ma che trovai decisamente piacevole, almeno per le mie orecchie. Osservai preoccupato i suoi movimenti, e alla fine il professore mise di nuovo mano al suo Manipolatore. “Non ora, e soprattutto non qui, Jax. Vado subito a parlare con gli infermieri; il tuo quadro clinico è tornato normale, e credo tu possa ormai essere dimesso senza problemi.”

 

“Meno male,” sospirai sollevato, e mi alzai finalmente dal letto. “Non vedo l’ora di riavere il mio bracciale, e di tornare alla vita di sempre. Ma quei picchi di energia di prima, allora, non significavano niente di eclatante?”

 

“Oh, per averlo lo avevano, un significato. Un significato ben preciso, che però è meglio ti spieghi una volta che saremo all’esterno. Sempre che si possa parlare di esterno, su questo asteroide,” rispose ironico il professore. Dopodiché mi fece un cenno con la testa, e si avviò verso l’uscita della stanza. Lo seguii senza battere ciglio.

 

***

 

Assioma n°1: L’obiettivo degli Agenti è quello di cambiare senza interferire, di ottenere l’effetto previsto senza lasciare prove del loro intervento, di essere introvabili, irriconoscibili, invisibili. A tutti gli effetti, gli Agenti non esistono.

 

Questo è il primo concetto insegnato agli Agenti Temporali operanti sul campo, anche se in realtà inizia a essere inculcato ben prima di raggiungere tale livello. Basta chiedere a qualsiasi studente dell’Accademia. Siano essi matricole o prossimi al diploma, tutti sapranno recitarlo a memoria senza alcuna difficoltà.

 

Si può probabilmente capire la ragione per cui gli Agenti debbano sottostare all’assioma. L’oscurità è la regola, l’inafferrabilità un’esigenza da cui nessuno può prescindere. Più si è anonimi, più i risultati del proprio lavoro saranno efficaci.

 

Si tratta di un insegnamento logico, quasi ineluttabile, a mio parere. Modificare gli eventi temporali in maniera tale da non provocare un totale sconvolgimento del continuum spazio-temporale è infatti un compito estremamente delicato e arduo; ogni singolo, minimo cambiamento può determinare conseguenze impreviste e catastrofiche, se programmato insufficientemente o effettuato in modo non adeguato. Perché, più spesso di quanto non si pensi, calpestare un’insignificante farfalla può davvero causare un disastro su scala planetaria.

 

Ma tali regole valgono per gli Agenti che, in fin dei conti, sono dei singoli esseri umani, dunque in grado di muoversi con precisione estrema nei meandri del Vortice del Tempo, e di calcolare con accuratezza gli effetti del proprio operato. Che dire, invece, dell’Agenzia Temporale stessa? Un’organizzazione vasta, tentacolare, con sedi sparse un po’ dappertutto nell’Universo conosciuto, è decisamente ardua da ignorare, al contrario dei suoi membri, presi uno per uno. E soprattutto, difficile da nascondere da possibili nemici.

 

Nel quarantanovesimo secolo, all’epoca cioè della fondazione dell’Agenzia, il primo problema che si pose fu per l’appunto quello di dove collocarne la sede principale. Si sapeva che essa, per questioni prettamente logistiche, sarebbe stata posta all’interno della Via Lattea. La questione era: quale punto della galassia si sarebbe rivelato ideale per porre l’ente al riparo da occhi indiscreti?

 

La soluzione migliore per tale dilemma venne senza ombra di dubbio dall’Assioma n°11, che recita più o meno così: Il miglior nascondiglio possibile è visibile a tutti.

 

La zona intorno alla radiosorgente Sagittarius A* si rivelò la candidata idonea per ospitare gli imponenti edifici dell’Agenzia. Nessuno con un briciolo di cervello si sarebbe infatti mai sognato di andare a scovarla nei pressi di un buco nero supermassiccio, posto fra l’altro al centro della Via Lattea stessa.

 

La distanza di sicurezza da Sagittarius A* fu stimata intorno ai 100 miliardi di chilometri, e come sede della base operativa venne scelto l’asteroide S502-X. Per certi versi si trovava ancora fin troppo vicino al buco nero, visto che l’intera area era sottoposta a turbolenze non da poco, ma almeno restava in larga parte al riparo da ben più micidiali flussi di onde radio, raggi gamma e raggi X. In ogni caso, il vantaggio più evidente di una tale posizione derivava dal fatto che nessuno avrebbe mai sospettato che le regolari, quotidiane emissioni energetiche provenienti dalle parti di S502-X derivassero non solo dal materiale inghiottito all’interno della singolarità gravitazionale, ma anche – e soprattutto – dalle nostre attività di Agenti Temporali.

 

Le uniche radiazioni di una certa potenza che riuscivano ad arrivare fino al nostro asteroide erano quelle sulla lunghezza d’onda dell’infrarosso e dell’ultravioletto. Dunque, calore e luce. Ma calore e luce a un livello inimmaginabile. Così intensi da far evaporare e uccidere all’istante qualsiasi forma di vita, persino la più elementare.

 

Per questo motivo, benché la scelta fosse ricaduta su quel corpo roccioso in particolare, S502-X non poteva di certo essere considerato il luogo più ameno in cui vivere. E così, tutt’intorno agli spazi occupati dall’Agenzia venne innalzata una speciale cupola, che ci avrebbe protetto dall’effetto deleterio delle radiazioni di cui sopra. Ovviamente, una seppur minima percentuale veniva lasciata passare, così da fornirci una fonte di riscaldamento e di illuminazione pressoché illimitata e gratuita.

 

Ciò aveva consentito fra l’altro la nascita di un ambiente artificiale piuttosto notevole. Un esempio era costituito dal campus dell’Accademia. Dotato di campi sportivi e di giardini attrezzati con tavoli e comode panchine, esso offriva a tutti la possibilità di studiare con tranquillità, o semplicemente di rilassarsi. Alcuni, fra cui il sottoscritto, erano particolarmente affezionati alle numerose aree boschive presenti all’interno del parco principale. Lascio immaginare la ragione.

 

***

 

Dopo essere usciti dall’infermeria, era per l’appunto in uno dei numerosi giardini dell’Accademia che Harlan Andrews mi aveva condotto. Mentre camminavamo fianco a fianco, mi sfregai per l’ennesima volta il polso sinistro, lieto di percepire di nuovo sotto le dita la familiare presenza del mio bracciale.

 

Al professore non sfuggì il mio gesto. “Sei contento di aver riavuto indietro il tuo Manipolatore?”

 

“Sicuro,” annuii. “Senza, mi sentivo praticamente nudo… E non nel senso più amabile del termine.”

 

“Posso immaginarlo,” commentò divertito il professore. Rimase qualche secondo in silenzio, e poi riprese a parlare con quella che mi sembrò quasi una nota di nostalgia. “Sai, il modo in cui hanno trasformato questo posto… Assomiglia molto al mio pianeta d’origine. Calmo, tranquillo, immerso nella natura. L’ideale se si vuole prendere un po’ di riposo dalle fatiche della vita.”

 

“Non credo mi abbia portato qui per discutere del suo mondo,” gli feci notare con garbo.

 

“No, effettivamente no… Però, se un giorno ti capitasse l’occasione, dovresti farci un salto, Jax. Sono sicuro che piacerebbe anche a te.”

 

“Mi dispiace interromperla, professore, ma…”

 

“Hai ragione, hai ragione. Perdonami se tendo a divagare, è un vizio che ultimamente sta prendendo il sopravvento, purtroppo,” si scusò lui. Poi assunse un’espressione pensierosa, come se stesse decidendo da dove iniziare il proprio discorso. Attesi con pazienza che raccogliesse le idee.

 

“Intanto devo porti una domanda, Jax, di cui temo di conoscere già la risposta, purtroppo,” cominciò Andrews. “Hai mai sentito parlare della degenerazione spazio-temporale?”

 

“Degenerazione spazio-temporale?” replicai d’istinto. “No, mai.”

 

“Non vi ha per caso accennato nessuno dei tuoi altri docenti? Mai, in alcun corso, durante i tuoi cinque anni di studio?” insistette il professore.

 

Scossi la testa.

 

Andrews sospirò. “Non che mi aspettassi qualcosa di diverso, del resto. Non è cambiato niente, in tutti questi decenni, quindi non vedo perché dovrebbero avervi messo al corrente della faccenda.”

 

“Professore, si spieghi meglio, perché non ci sto capendo nulla. Cosa sarebbe questa degenerazione? E come mai me la nomina proprio ora, se in tutto il mio periodo di addestramento nessuno ha nemmeno lontanamente pensato di farlo?”

 

“Perché si tratta di informazioni che, se rese pubbliche, potrebbero minare l’integrità e l’esistenza stessa dell’Agenzia Temporale,” rispose cupo. Poi, d’un tratto interruppe i propri passi, si voltò di scatto verso di me e mi afferrò per un braccio. Mi lasciai sfuggire un’esclamazione di sorpresa.

 

“Giurami che non dirai niente a nessuno, Jax,” mi intimò.

 

Mi limitai a spalancare gli occhi e ad agitare frenetico la testa, ma il professore non accennò a mollare la presa. “Giuramelo,” ripeté.

 

“Lo giuro,” sussurrai.

 

Soddisfatto, Andrews mi lasciò andare. “Bene. Molto bene. Si tratta di argomenti di una gravità considerevole, per questo finora ero stato restio a discuterne con chicchessia. Ma, considerando quel che ti è successo poco fa, non credo di poter più rimandare.”

 

Il professore riprese a camminare, e con la testa indicò un albero imponente, poco distante da noi. Dopo un paio di minuti, e dopo aver controllato con circospezione che la folta distesa d’erba ai suoi piedi fosse ragionevolmente asciutta, ci sedemmo sotto di esso. Infine, Andrews iniziò nuovamente a parlare.

 

“Il Manipolatore del Vortice che ogni singolo Agente possiede, Jax, permette il viaggio nello spazio-tempo, com’è ovvio, e inoltre funge da comunicatore e localizzatore, oltre a una miriade di altre funzioni, più o meno utili. In un certo senso, se lo si guarda da questo punto di vista, lo si potrebbe considerare una specie di computer da polso ipertecnologico,” mi illustrò il professore.

 

Tutti dettagli già noti, mi venne da ribattere, ma trattenni la voce.

 

“C’è però un’altra caratteristica che non ti hanno mai rivelato, quella che io considero la più importante. Mi sto riferendo allo Scudo. Nemmeno questo ti dice niente, giusto?” si informò Andrews.

 

“No,” risposi.

 

“Ed è qui che, secondo me, l’Agenzia ha sempre sbagliato. Vedi, il problema è che noi esseri umani non siamo fatti per viaggiare nel tempo. La cosa può provocare squilibri mentali, indisposizioni, malattie fisiche vere e proprie… Secondo i miei calcoli, nessuna specie vivente è completamente al riparo dalle ripercussioni negative del viaggio spazio-temporale, tanto sono distruttive.”

 

“Nessuna? Come fa a esserne sicuro?” gli chiesi, dubbioso.

 

“Beh, a dire la verità, nell’ambiente circolano delle leggende secondo le quali da qualche parte nell’Universo vi sarebbe un’unica razza in grado a malapena di sopportarne gli effetti deleteri senza ricorrere a protezioni artificiali,” rispose pensieroso il professore. “Purtroppo, pare anche che questa razza sia ormai del tutto estinta. Sempre che sia realmente esistita, s’intende.”

 

“Ma professore, io mi sento benissimo. E anche lei è in ottima forma, e così pure Becca, e tutti gli altri nostri colleghi. Se le cose stessero come dice lei…”

 

“E qui torniamo al mio discorso di prima, Jax. Lo Scudo è una sorta di campo di forza, e serve proprio a questo: contenere entro dei limiti accettabili i danni provocati dal viaggio spazio-temporale. Ecco perché viene raccomandato fin dal primo anno di Accademia di non togliersi mai di dosso il Manipolatore, per nessun motivo, persino mentre si dorme. Tu stesso, poco fa, mi hai riferito che senza di esso ti senti indifeso, no?”

 

“Vero,” confessai, e ancora una volta mi portai automaticamente la mano al bracciale. Lo osservai con attenzione. “Però, all’infermeria me l’hanno prelevato, professore. Vuol dire che il personale medico non è conoscenza dello Scudo, e della protezione che offre a noi Agenti?”

 

“No, non lo sanno, ma il motivo per cui l’hanno fatto è un altro,” replicò Andrews. “Gli infermieri hanno dovuto togliertelo in via precauzionale, visto che avrebbe potuto interferire con l’azione guaritrice dei nanogeni.”

 

“Allora, quei famosi picchi di energia…” Lentamente, stavo cominciando a capire, e ciò che il professore mi stava rivelando non mi piaceva affatto.

 

“Erano causati direttamente da te, Jax, dal tuo corpo non più protetto dal Manipolatore, e non da un fattore esterno. Mi sono stupito perché di solito la degenerazione spazio-temporale è un processo lento, grazie al cielo,” spiegò Andrews. “Di fenomeni come questo ne ho già incontrati, in passato. Inizia ad avere effetto sugli Agenti solo dopo alcuni anni che operano sul campo, non pochi mesi come nel tuo caso, quindi non vedo come… Jax, ma sei pallidissimo! Ti senti male?!”

 

Il professore mi posò la mano sulla spalla in un gesto di conforto. Io, dal mio canto, non potevo di certo negare che quel che era appena uscito dalle labbra del professore non mi avesse colpito profondamente. Mi coprii il volto con le mani, inspirai a fondo, e infine lo guardai in faccia. “Ho appena avuto un déjà-vu,” mormorai. “Una delle frasi che ha pronunciato qualche secondo fa… Credo di averla già sentita mentre ero svenuto. Parola per parola.”

 

Andrews raddrizzò la schiena, e strinse la mano che ancora mi teneva posata sulla spalla. “Cosa? Ne sei assolutamente certo, Jax? Sei certo che fossero le stesse parole, e soprattutto pronunciate da me?”

 

Assentii. “La rammento bene: Di fenomeni come questo ne ho già incontrati, in passato. Era chiaramente la sua voce. Non potrei mai confonderla con un altro, professore. Non con quel suo accento così particolare.”

 

Andrews fece scivolare via la mano dalla mia spalla. Chiuse gli occhi, emise un lungo sospiro, dopodiché tornò a fissarmi, e a scuotere la testa. “Allora la situazione è completamente diversa da quel che pensavo, Jax.”

 

Mi chiesi allarmato cosa diavolo intendesse dire il professore, e notai che sulle sue labbra aleggiava ora un debole, enigmatico sorriso.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- L’Assioma n°1 è liberamente tratto da una frase di un romanzo di Doctor Who uscito nel 2004, intitolato Sometime Never… (Testo dell'originale inglese:The Agents' purpose is to change without interfering, to leave an effect without evidence of cause. To be untraceable, undetectable, invisible. To all intents and purposes, the Agents do not exist.)

- L’immagine della farfalla calpestata e degli effetti deleteri causati da quest’azione proviene dal racconto di fantascienza A Sound of Thunder, scritto da Ray Bradbury e pubblicato per la prima volta nel 1952.

- La NASA fornisce una spiegazione ‘ufficiale’ sull’origine delle misteriose emissioni giornaliere di raggi X provenienti da Sagittarius A*. La potete leggere cliccando qui: http://www.nasa.gov/mission_pages/chandra/multimedia/saga.html

- In questo capitolo, con la mia idea della degenerazione spazio-temporale cerco di ovviare a quella che considero una lieve ‘sfilacciatura’ all’interno dell’intricata trama di Torchwood… La questione dei danni provocati agli umani dai viaggi nel tempo mi sembra fosse stata accennata dal Dottore in uno o più episodi, non ricordo esattamente quali. Comunque, ho sempre trovato strano il fatto che nessuno degli autori abbia mai spiegato perché il delicato lavoro di Agente Temporale tendesse a essere affidato a persone con un equilibrio mentale decisamente instabile, come ad esempio John Hart. Per certi versi, anche lo stesso Jack ha rischiato di rientrare in tale categoria, prima di incontrare Rose e il Nono Dottore… Quindi, secondo la teoria da me espressa qui, John sarebbe sempre stato un personaggio un po’ sopra le righe, ma il fatto di viaggiare nel tempo l’avrebbe fatto ulteriormente degenerare, coi risultati che sappiamo (droghe, alcol, tendenze omicide, ecc.).

- Per la serie pubblicità-progresso: a partire da lunedì 11 marzo andrà in onda in prima serata su Italia1 il telefilm Arrow. Ve lo segnalo perché in esso compariranno, seppur in ruoli secondari, John Barrowman e Alex Kingston. Fra l’altro, mi sembra che fra tre settimane, su Rai4, andrà in onda invece il quinto episodio della terza stagione di Warehouse 13, in cui ha una particina anche Gareth David-Lloyd. Ma vi saprò ridire di preciso un po’ più in là.

- E per finire, le anticipazioni. Nel prossimo capitolo farà la sua ricomparsa Becca, e avremo la conclusione delle spiegazioni del professor Andrews…

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Capitolo 19
*** L'effetto del silenzio ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Harlan Andrews. Lui sì che lo rivendico! Dell’Agente Alleyn, invece, rivendico solo il nome e il cognome ^^

 

 

Capitolo 19: L’effetto del silenzio

 

“Sei davvero sorprendente, Jax. Fino a pochi istanti fa credevo di aver perfettamente inquadrato la tua situazione, e invece adesso…”

 

“E invece adesso…?” gli chiesi, in preda all’ansia. “Professore, me lo dica chiaro e tondo che sto per morire! La degenerazione di cui parlava mi ha già causato troppi danni, vero?”

 

Andrews scosse ancora una volta il capo. “No, no. Jax. Non farti prendere dal panico. Non sta succedendo nulla del genere. Anzi, oserei aggiungere che è esattamente il contrario.”

 

Prima che potessi aprire di nuovo bocca per protestare, tuttavia, il professore tornò a poggiarmi la mano sulla spalla. “Ascolta bene quello che ho da dirti, perché ne va letteralmente del tuo futuro,” mi ammonì.

 

Il suo sguardo si era fatto all’improvviso estremamente serio, per cui mi rilassai un poco, e mi apprestai a sentire il resto delle sue parole.

 

“Come ti stavo spiegando prima, in tutti i miei anni di membro dell’Agenzia ho già incontrato la degenerazione spazio-temporale diverse volte. Non per averla provata sulla mia pelle, però; almeno in quello sono stato piuttosto fortunato. Tuttavia, in rarissimi casi mi è stato riferito di un fenomeno del tutto diverso, ossia quello della risonanza…”

 

***

 

Harlan Andrews, originario del trentesimo secolo, trentotto anni, era un tranquillo docente universitario. Insegnava in un anonimo istituto di un’anonima città, sita a sua volta su un altrettanto anonimo pianeta, uno dei tanti sparsi per la Via Lattea.

 

In una calda serata d’autunno, mentre fuori dalla finestra le ultime foglie degli alberi erano appena mosse da una brezza leggera, la vita del professor Andrews cambiò drasticamente.

 

Si trovava nel suo ufficio a godersi una meritata tazza di tè e a rimuginare sugli argomenti da preparare per le lezioni del giorno successivo, quando all’improvviso qualcuno bussò alla porta. Andrews, pur lievemente infastidito dall’interruzione, andò ad aprire e si preparò ad accogliere con un cortese sorriso l’involontario disturbatore della sua rilassante routine quotidiana.

 

La prima cosa che lo colpì dell’uomo ritto sull’uscio della porta furono i suoi occhiali da sole, decisamente incongrui come accessorio, soprattutto considerando l’ora tarda. L’uomo se li sfilò quasi subito, e Andrews sussultò nel ritrovarsi davanti a degli occhi gelidi come il ghiaccio, e allo stesso tormentati da qualcosa di torbido, di oscuro. Il secondo particolare che gli rimase impresso nella mente fu che lo sconosciuto era completamente vestito di nero, dalla testa ai piedi.

 

Sulle prime Andrews temette che si trattasse di un malintenzionato, e indietreggiò di qualche passo. Era quasi pronto a chiamare a gran voce un addetto alla sicurezza, ma l’altro si richiuse la porta alle spalle senza nemmeno girarsi, lo raggiunse subito e gli posò una mano sul braccio. “Fossi in lei non lo farei, professore. D’altra parte, sarebbe del tutto inutile, considerato che ho schermato la stanza. Nessuno può sentirci, né tantomeno entrare senza che io me ne accorga.”

 

“Si… Si può sapere chi è lei? E che cosa vuole da me?” chiese Andrews, sforzandosi di tenere a bada il tremore che già gli stava pervadendo la gola e il resto del corpo. “Rapirmi? Nel qual caso la… la avverto, non sono facoltoso di famiglia, e inoltre nessuno dei miei amici, colleghi o conoscenti sarebbe in grado di pagare un eventuale risc-mmph!

 

“Oh, finalmente ha chiuso il becco,” replicò l’uomo roteando gli occhi, dopo avergli tappato la bocca con la mano libera. “Figuriamoci se voglio il suo denaro. Conosco ben altri posti, e altre linee temporali, in cui procurarmi tutte le ricchezze che desidero… Ma questi sono discorsi che ora non ci toccano. Ciò che mi preme sapere da lei è la risposta a un paio di semplici quesiti.”

 

Così dicendo, lasciò andare il professore, che quasi andò a sbattere contro la scrivania posta dietro di lui. Andrews deglutì a vuoto. “E sarebbero?”

 

“Prima domanda: cosa sa del viaggio spazio-temporale?” lo interrogò l’altro.

 

Andrews aggrottò la fronte. “Molto poco, a dir la verità. La mia specializzazione sono gli studi umanistici, non la meccanica quantistica. So solo che è possibile, a livello teorico, ma che per svilupparlo in termini pratici ci vorranno come minimo diversi decenni. Almeno, da quel che mi è parso di capire dai pettegolezzi dei miei colleghi del Dipartimento di Fisica e Astronomia, e…”

 

“Bene. Un’idea, seppur vaga, sembra averla,” lo interruppe lo sconosciuto. “Seconda e ultima domanda: basandosi sul mio aspetto e su ciò che ci siamo detti finora, si è fatto un’idea di chi io sia?”

 

Il professore lo fissò per qualche istante. In effetti, il tipo gli sembrava familiare, in un certo senso. Abiti scuri, presenza minacciosa, discorsi incomprensibili; dove aveva già incontrato una persona del genere? Ci pensò un attimo. Ebbe un’illuminazione improvvisa, spalancò gli occhi e puntò il dito verso il proprio interlocutore. “Ma allora lei… Un Uomo in Nero?!”

 

“Sì, nelle vostre misere leggende siamo conosciuti sotto questo nome,” affermò l’uomo, e incurvò le labbra in un sorriso beffardo. “Ma mi permetta di presentarmi con la mia denominazione ufficiale: Agente Temporale Eion Alleyn, proveniente dal cinquantunesimo secolo, al suo servizio,” aggiunse, profondendosi in un inchino.

 

“Mi-mi devo sedere,” balbettò il professore.

 

“La prego, si accomodi pure,” disse Alleyn, ironico.

 

Andrews si voltò, fece il giro della scrivania e infine si lasciò ricadere sulla propria poltroncina. Si passò le mani sul viso, emise un lungo respiro, e quando tolse le dita dagli occhi notò che l’uomo si era seduto giusto sul bordo della scrivania, e lo guardava divertito.

 

“Lo sa che è proprio patetico? Oltre che maleducato, tra l’altro. Non mi ha nemmeno offerto…” Alleyn si protese e afferrò la tazza abbandonata pochi minuti prima dal professore. Ne annusò delicatamente il contenuto, lo sorseggiò, poi fece una smorfia. “… Qualunque porcheria sia questa,” concluse, disgustato.

 

“Tè. Non replicato subatomicamente, puro e autentico tè Earl Grey,” rispose Andrews, in tono offeso.

 

“Un’autentica porcheria, intende,” commentò Alleyn, scuro in volto, e si gettò la bevanda, tazza e tutto, dietro la schiena. Il rumore della porcellana che si frantumava sul pavimento, tuttavia, sembrò rallegrarlo un poco.

 

Andrews, invece, guardò sgomento i miseri resti, sia liquidi che solidi, sparsi per terra. Poi riportò gli occhi su Alleyn. “Io sarò anche patetico, ma in quanto a maleducazione lei mi batte su tutti i fronti, Agente. E ancora non mi ha detto cosa vuole da me.”

 

“Andiamo, professore. Secondo l’organizzazione per cui lavoro, lei è una persona arguta, brillante. Se non ci arriva da solo, credo proprio che la mia missione sia una totale perdita di tempo.”

 

Andrews fremette. Se anche prima aveva provato un minimo di timore nei confronti di Alleyn a causa dell’aura di mistero e di pericolosità che pareva avvolgerlo, ora era totalmente scomparso. Di ciò il professore incolpò soprattutto la sconvolgente arroganza e l’insopportabile cinismo dell’uomo, che sopraffacevano ogni sua altra caratteristica fisica o caratteriale. “Ho capito benissimo, non si preoccupi, signor Alleyn. E per rispondere alla sua seconda domanda, ossia quale sia la sua identità, non credo di sbagliarmi quando mi azzardo a suggerire che, secondo me, fa parte di una… fantomatica Agenzia Temporale?”

 

Alleyn batté le mani, soddisfatto. “Ottimo! Finalmente ci è arrivato. Mi chiedevo quanto ci avrebbe messo.”

 

“Un’eternità, se mi fossi attenuto al suo ritmo, Agente,” rispose Andrews, insolitamente acido.

 

“Intelligente e dotato di lingua velenosa. Niente male nemmeno sul lato fisico. Proprio il mio tipo,” mormorò Alleyn, sporgendosi verso di lui e squadrandolo con occhi socchiusi. “Ma non sono qui per questo, purtroppo. Ha ragione, fra l’altro. L’Agenzia Temporale, di cui faccio evidentemente parte, ha puntato gli occhi su di lei, professor Harlan Andrews.”

 

“La ragione dovrò attenderla ancora per molto?” lo apostrofò Andrews.

 

L’Agente scoppiò a ridere. “Se non mi trovassi qui per tutt’altro motivo, si sarebbe subito accorto delle mie intenzioni, stia pur tranquillo!”

 

Il professore tamburellò con le dita sul ripiano della scrivania, e aspettò che l’altro si riprendesse dal proprio scoppio di ilarità.

 

Alleyn si asciugò le lacrime dagli occhi e riprese a parlare. “Vede, nel futuro il viaggio spazio-temporale verrà sviluppato fino al punto da rendere necessaria la creazione di un ente apposito. Un ente, ossia l’Agenzia, che si occuperà di mantenere la stabilità e l’equilibrio del Flusso Temporale stesso.”

 

“Una specie di forza di polizia, ma più in grande, insomma,” borbottò Andrews.

 

“Esatto. Noi le cose le facciamo esclusivamente in grande,” ghignò Alleyn. “Proprio per questo, a volte veniamo mandati in giro per la galassia alla ricerca delle migliori menti da mettere al servizio dell’organizzazione. E lei, professore, fa parte di esse. È stato scelto per le sue eccellenti conoscenze nel campo dell’antropologia e della psicologia; i miei superiori ritengono che in futuro, grazie a lei, verranno formati degli ottimi Agenti Temporali. Fra i migliori che l’Agenzia abbia mai avuto.”

 

“Sta parlando delle vicende a venire, Agente, come se fossero qualcosa di stabilito, di già compiuto,” commentò Andrews, inquieto.

 

Alleyn si guardò le unghie, fingendo disinteresse. “E chi le dice che le cose non stiano proprio in questo modo?” Sollevò poi gli occhi, in cui brillava adesso una luce strana. O almeno, così parve al professore. “Lo sa perché ci siamo interessati proprio a lei, e non a qualcun altro, dotato magari di eguali o superiori qualità?”

 

“Muoio dalla voglia di saperlo,” fu la sarcastica risposta.

 

L’Agente sorrise di nuovo. “Esatto. Muoio è il termine giusto. Secondo le cronache di quest’epoca, professore, lei stasera uscirà dalla presente stanza per tornare dai suoi familiari, ma in realtà non farà rientro a casa. Sparirà in circostanze misteriose. Verrà inserito negli elenchi delle persone scomparse, ma nessuno riuscirà mai a trovarla. Dopo alcuni mesi di inutili ricerche sarà dichiarato deceduto dalle forze dell’ordine. Una bara a suo nome verrà interrata in uno dei cimiteri cittadini, ma all’interno, ovviamente, non vi sarà alcun cadavere.”

 

“Cosa?!” esclamò esterrefatto Andrews, balzando di scatto in piedi.

 

“Eh già. Quindi, come vede, la sua scomparsa è destinata ad accadere, professore. Che venga con me o se ne vada da qui da solo, il suo destino è già segnato.” Alleyn si alzò in piedi a sua volta. “Per l’Agenzia questo va benissimo, perché ciò significa che, in ogni caso, la linea temporale non verrà comunque stravolta.”

 

“Non… Non può parlare sul serio,” sussurrò Andrews, e si portò una mano alla tempia, in preda a un improvviso mal di testa.

 

L’altro fece qualche passo verso di lui. “E invece sì. Scelga, professore. Preferisce sparire nel nulla, e magari cadere fra le mani di qualche serial killer che nasconderebbe il suo corpo o quel che ne resterebbe chissà dove, e non essere mai più ritrovato… Oppure unirsi a me e all’Agenzia Temporale, e iniziare una gloriosa nuova vita in mezzo alle stelle, circondato da meraviglie che nemmeno immagina?”

 

Il professore scosse il capo. “Non mi può chiedere di decidere fra due opzioni altrettanto sgradevoli, Agente. Mi sta… Mi sta dicendo che non rivedrò più la mia famiglia, qualunque cosa dovessi scegliere. E poi,” e qui Andrews incrociò lo sguardo di Alleyn in segno di sfida, “chi mi assicura che non stia mentendo? Magari ora me ne andrò dall’ufficio e non succederà niente di ciò che mi ha rivelato. O magari i giornali scriveranno della mia scomparsa per il semplice motivo che a provocarla sarà lei! Non ci ha pensato?”

 

“Ovvio che ci ho pensato,” replicò Alleyn. “I paradossi fanno parte del nostro mestiere, professore. Mi sorprende invece che ci abbia pensato lei. Per essere una persona che sa poco o niente sul viaggio spazio-temporale, dimostra una notevole capacità intuitiva. Capacità che saprà mettere a frutto al servizio dell’Agenzia.” Detto questo, l’uomo si scoprì il polso destro, sul quale Andrews notò subito un bizzarro bracciale di pelle. Alleyn iniziò ad armeggiare con alcuni dei suoi pulsanti, alzando ogni tanto lo sguardo verso il professore. “Solo un attimo, e sarò subito da lei, non tema.”

 

“Un momento!” protestò Andrews. “Non le ho ancora comunicato cos’ho intenzione di fare!”

 

“Oh, ha ragione. Si vede che non mi sono spiegato fino in fondo,” commentò Alleyn. Si ricoprì il polso e in un lampo raggiunse il professore; stavolta gli afferrò tutte e due le braccia, piegandogliele dietro la schiena. “Non le sto concedendo una scelta,” gli sussurrò all’orecchio.

 

Andrews rabbrividì e cominciò a divincolarsi, ma la stretta dell’Agente si rivelò troppo forte per lui. “Che diavolo significavano tutti i discorsi di prima, allora?!”

 

Alleyn si limitò a ridacchiare. “Mi perdoni, professore. Un mio vizio: amo giocare con le mie vittime, tutto qua. Ma lo vuole sapere il dettaglio più divertente di tutta questa incresciosa faccenda?”

 

“Non me ne importa niente dei suoi giochetti! Mi lasci andare, altrimenti…!”

 

“Altrimenti niente. Fra 30 secondi il mio Manipolatore del Vortice si attiverà, e ci trasporterà entrambi lontano da qui, su Sagittarius A*. La sua nuova casa. Non è contento?”

 

“Razza di bastardo che non è altro!” gli gridò Andrews.

 

Alleyn, in tutta risposta, lo strinse a sé ancor più forte, fin quasi a provocargli dolore. “Come le stavo dicendo, c’è un buffo particolare su cui ancora non si è concentrato, professore. Rammenta cosa le ho dichiarato all’inizio del nostro incontro, ovvero che non desideravo i suoi quattro miseri soldi? Ciononostante, la sua prima domanda ha comunque colto nel segno; aveva perfettamente ragione, quando mi ha chiesto se intendevo rapirla. Di nuovo complimenti per il suo intuito.”

 

Andrews non ebbe il tempo di replicare alla frase derisoria pronunciata dall’Agente, poiché intorno a lui il mondo sembrò all’improvviso dissolversi in un lampo di accecante luce bianca.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo è ispirato a una frase di Napoleone Bonaparte: Sappiate ascoltare, e abbiate per certo che il silenzio produce spesso lo stesso effetto che la scienza.

- Come forse si sarà capito, all’ultimo momento sono stata colta dall’ispirazione e ho deciso di rimandare di un ulteriore capitolo il ritorno in scena di Becca e la fine delle spiegazioni del professor Andrews al povero Jax… Inoltre, con l’introduzione dell’Agente Alleyn, ho offerto la mia personalissima interpretazione sull’origine del mito moderno dei famosi Uomini in Nero. Abbiate la bontà di perdonarmi! XD

- Mi è stato fatto notare da iscizu che la questione su chi siano i famigerati Uomini in Nero potrebbe non essere chiara a tutti, per cui credo sia opportuna una breve spiegazione.

La leggenda urbana e/o mito popolare degli Uomini in Nero (in inglese Men in Black, abbreviato MIB) appartiene alla cosiddetta teoria ufologica della ‘congiura del silenzio’ riguardo un’eventuale origine aliena degli UFO. In pratica, sarebbero degli agenti governativi americani, operanti però a un livello di sicurezza a cui nemmeno lo stesso Presidente degli USA avrebbe accesso. Alcuni azzardano persino che non sarebbero nemmeno umani! Questi MIB andrebbero in giro a minacciare e a far tacere i testimoni di avvistamenti UFO o chi entra in possesso di informazioni riservate. Vengono così chiamati perché indosserebbero dei completi giacca e cravatta neri e porterebbero degli occhiali da sole. Come mi faceva notare Jadis96, fra l’altro, un altro particolare sui MIB sarebbe che, anche nel caso in cui una persona venisse a contatto con loro, se ne dimenticherebbe subito dopo, e le resterebbe solo un vago senso di déjà vu. Per cui, restando nell’Universo di Torchwood e, più nello specifico, in quello di Doctor Who, un esempio lampante di MIB sarebbe rappresentato dai Silenti, sia per quanto riguarda il loro aspetto, sia per la questione dell’amnesia.

Più in generale, comunque, in letteratura, nel cinema e in TV esistono molti personaggi ispirati ai MIB. Così tanti che, se dovessi elencarli, sicuramente me ne scorderei qualcuno… Per ovviare a ciò, vi rimando alla pagina Wikipedia italiana a loro dedicata, e anche a quella in inglese, sicuramente più completa. Se volete farvi quattro risate, invece, consultate pure Nonciclopedia XD

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Capitolo 20
*** Gli inconvenienti del mestiere, parte seconda ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Harlan Andrews. Lui sì che lo rivendico! Dell’Agente Alleyn, invece, rivendico solo il nome e il cognome ^^

 

 

Capitolo 20: Gli inconvenienti del mestiere, parte seconda

 

Quando l’abbacinante luce bianca si dileguò, il professor Andrews e l’Agente Alleyn si ritrovarono in una bizzarra stanza, bianca anch’essa, e completamente priva di mobilio, eccezion fatta per una sedia di legno posta al centro dell’ambiente, e per uno specchio appeso alla parete di fronte.

 

Alleyn liberò dalla sua morsa il professore, il quale si voltò verso di lui con l’intenzione di chiedergli dove diavolo l’avesse portato.

 

“Il mio compito è ormai terminato,” si limitò a dichiarare l’altro.

 

“Come, terminato?” esclamò stupito Andrews.

 

“Terminato, finito, concluso, game over… Peschi pure il termine che preferisce, tanto la musica non cambia. D’ora in poi, a lei ci penseranno gli altri.”

 

“E chi sarebbero questi ‘altri’?”

 

“Visto il lavoro che svolgono, potremmo definirli dei suoi colleghi, professore. Vedrà che si troverà bene, in mezzo a quegli smidollati.” Così dicendo, Alleyn ricominciò a toccare i comandi del proprio bracciale.

 

“Un momento! Non vorrà mica lasciarmi qui da solo, spero!”

 

“Cos’è, è sordo, per caso? Le ho appena detto che non ho più niente da fare, qui,” sbottò Alleyn. “Addio, professore. O chissà, forse dovrei invece dirle arrivederci… Non si sa mai, magari un giorno avrò il piacere di incontrarla di nuovo.”

 

“Se quel malaugurato giorno verrà, Agente, sarà il solo a godere di tale piacere, glielo assicuro,” borbottò Andrews.

 

Alleyn scoppiò per l’ennesima volta a ridere. “Mi mancherà davvero, quella sua lingua lunga!” Sollevò allegro una mano e la agitò in direzione del professore. Il suo corpo prese improvvisamente a brillare; Andrews non ebbe nemmeno il tempo materiale di replicare all’ultima provocazione di Alleyn, che quest’ultimo svanì del tutto. Il suono della voce di Andrews, e soprattutto delle sue proteste gridate a squarciagola, rimbalzò sui muri indifferenti della stanza.

 

***

 

“Credevo che si fosse unito all’Agenzia di sua spontanea volontà,” commentai disgustato non appena Andrews ebbe finito di raccontare l’episodio del proprio rapimento. “E invece è stato costretto ad abbandonare la sua famiglia, e tutte le altre persone a cui voleva bene.”

 

“Più o meno quello che è successo a te,” rispose il professore. Sulle labbra gli aleggiava un lievissimo sorriso.

 

“Niente affatto!” protestai. “Mi sono unito all’Agenzia spontaneamente, senza imposizioni da parte di nessuno. E se quell’Agente Alleyn, o come accidenti si chiama, dovesse capitarmi a tiro, saprò ben io come trattarlo!”

 

“Non incolpare Alleyn, Jax. Io non l’ho fatto. Certo, non mi azzarderei mai e poi mai a definire ortodossi quei suoi metodi, ma in fin dei conti aveva ragione. Se anche mi fosse stata concessa la possibilità di scegliere, e se non fossi andato via con lui, sarei davvero morto quella stessa sera.”

 

Mi passai una mano fra i capelli. “La valutazione storico-psicologica, giusto? Conosco quella stanza dalle pareti bianche, senza porte né finestre. Tutti noi Agenti la conosciamo bene, fin troppo direi. A lei cosa dissero in quell’occasione, professore?” All’occhiata che Andrews mi lanciò, mi affrettai a rettificare un poco la mia richiesta. “Sempre che non sia troppo indiscreto, intendo.”

 

“Oh, all’incirca ripeterono ciò che mi era stato anticipato da Alleyn. Che il mio destino era comunque segnato, che ormai non potevo tornare indietro, che unendomi all’Agenzia avrei avuto un’occasione irripetibile, che avrei potuto fare la differenza, eccetera eccetera. Ma non sono stati questi i motivi principali che mi hanno spinto ad accettare di buon grado la proposta che mi veniva offerta.”

 

Andrews si interruppe un attimo, e poi riprese a parlare.

 

“Mi promisero che avrei potuto continuare a fare ciò che mi veniva meglio. Avere l’opportunità di formare delle giovani menti, desiderose di imparare e di mettere in pratica i miei insegnamenti… Beh, Jax, questo mi ha ripagato, sebbene in parte, e ha addolcito la pillola dei rimpianti e della nostalgia verso un’esistenza che, in ogni caso, non avrei mai potuto vivere.”

 

“Ma non le hanno nemmeno lasciato modo di rendere un ultimo saluto ai suoi cari, professore. Questo lo trova giusto? Non si è trattata piuttosto di un’offesa imperdonabile nei suoi confronti?”

 

Andrews sospirò. “Sì, sulle prime l’ho pensato, eccome. Quando fui prelevato non ero sposato, e non avevo figli. Però mi sono sempre chiesto quanta angoscia, quanta disperazione avrà provato mio fratello, la sua famiglia, e tutti gli altri miei parenti. Per non parlare degli amici e dei colleghi dell’università.”

 

“Da quel che mi pare di aver capito, non ha avuto il tempo neanche di scrivere un biglietto, giusto?” mi informai.

 

“Immagino che la cosa sarebbe potuta essere fattibile, persino indispensabile per il mantenimento del continuum spazio-temporale. Purtroppo, le cronache dell’epoca non parlarono mai di un messaggio da parte mia. L’evento, da qualsiasi punto di vista lo si guardasse, era già successo, e per questo non modificabile. Nemmeno tramite un misero biglietto di commiato.”

 

“Però, l’atteggiamento di quell’Agente… Dica pure quel che vuole, ma sinceramente continuo a ritenerlo ingiustificabile, professore.  E non sarà lei a farmi cambiare idea.”

 

“Non ne ho intenzione, Jax, dal momento che nemmeno io l’ho mai giustificato. Nel corso degli anni, ciononostante, pian piano sono arrivato a comprenderlo.”

 

Mi alzai in piedi sbuffando, e iniziai a camminare su e giù per il prato, se non altro per sgranchirmi le gambe. “E c’è riuscito? Buon per lei. Io, invece, ho una gran voglia di torcere il collo a quel tizio.”

 

“Diciamo che ci ho provato, Jax,” mi rispose il professore. “Il fatto è che in seguito ho avuto modo di entrare in contatto con altri Agenti, e anche loro mostravano delle caratteristiche comportamentali simili a quelle di Alleyn. Arroganza, sete di potere, inclinazione alla violenza gratuita…”

 

“Prima di entrare a far parte dell’organizzazione – anzi no, ancor prima di arruolarci nell’Accademia – veniamo testati proprio per escludere comportamenti o tendenze del genere. Il perfetto Agente Temporale deve possedere un profilo psico-fisico equilibrato e ineccepibile,” mormorai meccanicamente, citando a memoria il secondo Assioma dell’Agenzia.

 

“Infatti. Eppure, verso i trent’anni, capita che alcuni membri dell’Agenzia cadano preda di pericolosi squilibri, talora anche piuttosto evidenti,” spiegò il professore.

 

“La famigerata degenerazione di cui mi parlava poco fa?”

 

“Esatto. Ufficialmente nessuno ne sa niente, o almeno così vorrebbero far credere le alte sfere. Innanzitutto è un fenomeno abbastanza sotto controllo, grazie allo Scudo contenuto nel Manipolatore, a cui accennavo prima. Secondariamente, non succede così spesso come potresti pensare… O almeno così la pensano ai piani alti. Se mi sono ritrovato ad avere a che fare con un numero consistente di Agenti per così dire ‘deviati’, è stato di sicuro per via del mio lavoro. Probabile che vedessero in me una sorta di confidente con cui sfogarsi.”

 

Arrestai per un attimo i miei passi. “Quindi si rendevano conto di ciò che stava succedendo loro.”

 

“E venivano da me in cerca di una spiegazione,” confermò Andrews. “Alcuni erano letteralmente disperati. All’inizio non sapevo cosa pensare di quel che mi veniva confessato. Successivamente effettuai le mie discrete ricerche, e scoprii che la causa di tutto era proprio la degenerazione spazio-temporale. Provai a parlarne coi miei superiori, ma mi risposero che la questione era già nota. Poiché a essa non esisteva rimedio, e poiché colpiva solo l’un per mille di noi, meglio sarebbe stato mantenerne l’esistenza sotto silenzio.”

 

“L’un per mille mi pare comunque una cifra enorme, professore!”

 

“E hai ragione, Jax, ma è impossibile provare a ragionare con chi nemmeno ti vuole prestare ascolto,” replicò sconsolato Andrews. Fece un cenno verso di me, per invitarmi a sedermi di nuovo accanto a lui. Mentre mi accomodavo sull’erba, notai che il suo sguardo brillava di una luce curiosa. “Ma adesso veniamo a te, ragazzo mio. Prima mi hai detto di aver sentito delle voci, fra le quali anche la mia, giusto?”

 

Annuii. “Sì, e ha pronunciato una determinata frase, che rammento ancora benissimo. Di fenomeni come questo ne ho già incontrati, in passato. Gliela ho poi sentita ripetere in carne e ossa, giusto pochi minuti dopo, e…” Lasciai le mie parole a metà, e strinsi i pugni. “Un attimo. Mi ha assicurato che non è stato un fenomeno causato dalla degenerazione, ma come fa a esserne sicuro? Di cosa si sarebbe trattato, allora?”

 

“Di qualcosa di ancor più raro, e assolutamente benigno, Jax, non devi allarmarti. Anzi, direi che è esattamente il contrario. Ti è stata concessa una grande opportunità, ossia quella di gettare uno scorcio, seppur breve, sul tuo futuro.”

 

“Come fa a dirlo? E se invece stessi impazzendo?” replicai, per nulla convinto della sua spiegazione.

 

“No, no,” scosse la testa il professore. “Le emissioni energetiche erano simili a quelle provocate dalla degenerazione, ma sei ancora troppo giovane. Non hai effettuato così tanti viaggi spazio-temporali da giustificare ciò che ti è capitato con la storia della degenerazione. No, quella che hai sperimentato è la risonanza, Jax.”

 

Lo guardai incredulo. “Un’altra rivelazione? La prego, che almeno questa sia un po’ più rapida, professore,” non potei fare a meno di commentare.

 

“Scusami, ma lo sai, è una mia pura deformazione professionale, quella di spiegare sempre tutto per filo e per segno. Senza tenerti troppo sulle spine… La risonanza capita in rarissimi casi, e infatti, oltre al tuo, ne ho incontrati solamente altri tre. In ognuno di questi, la persona interessata ha dichiarato di aver udito delle voci, dei suoni, a volte nitidi, a volte incomprensibili. Ma il particolare straordinario è che ciò che è stato sentito si è verificato puntualmente, e quasi sempre nell’immediato futuro.”

 

“E quindi anch’io…?” chiesi con voce esitante.

 

“Certamente,” assentì Andrews. “Sarebbe utile se ti ricordassi qualche particolare in più, però.”

 

“Ha ragione, ma…” Chiusi gli occhi per qualche secondo e feci mente locale. Fu tutto inutile; ovvio, ricordavo ogni singola frase, e in effetti alcune le avevo anche contestualizzate – quelle di Becca  e del personale medico che mi aveva soccorso, per esempio – ma il resto di ciò che avevo udito non possedeva alcun senso logico per me. Buio pesto, insomma, tranne che per un unico, marginale dettaglio, come riferii ad Andrews.

 

“Lasciami giudicare se si tratta davvero di un dettaglio senza importanza,” replicò invece lui.

 

“Ecco, il significato di quelle frasi mi è sfuggito, per lo più, ma ricordo con chiarezza che almeno due di esse mi è sembrato di sentirle pronunciare da persone che parlavano col suo medesimo accento, professore.”

 

“Ne sei sicuro? Lo stesso, identico accento?” domandò Andrews, intrigato.

 

“Assolutamente,” replicai.

 

“Interessante. Quante saranno le probabilità di incontrare altri due esseri umani provenienti direttamente dal mio mondo, anzi, dalla mia regione, nello specifico? Non molte, immagino, considerata la vastità della Galassia. A meno che…”

 

“A meno che…?”

 

“Che non ci si rechi laggiù di persona, ovvio!” Il professore si fregò le mani con aria soddisfatta. “Bene, Jax, sembra proprio che prima o poi riuscirai a venirmi a trovare sul mio pianeta natale. Magari capiterà fra qualche settimana, quando finalmente andrò in pensione.”

 

“In pensione? Lei? Ma se è ancora così giovane,” obiettai.

 

“Ho settant’anni, non sono giovane come credi tu!” rispose divertito Andrews. “Vengo dal trentesimo secolo, perciò la mia speranza di vita non è lunga come la tua, che provieni dal cinquantunesimo. Mi restano al massimo altri tre decenni da vivere, ed esclusivamente se mi prenderò cura di me stesso. Ah, e se sarò molto, molto fortunato.”

 

“Sono felice per lei, professore, allora. Anche se forse dovrei rattristarmi, perché non la vedrò più tanto regolarmente. Però, almeno potrà riabbracciare la sua famiglia.”

 

“O quel che ne resta,” mi corresse Andrews. “Chissà se mio fratello e mia cognata sono ancora in vita. I miei nipotini senz’altro, e molti dei miei studenti, amici e colleghi, spero. Certo, non potrò piombare nelle loro vite così, all’improvviso, dopo tanti anni d’assenza. Già mi figuro le domande che mi porrebbero. Dove sono stato, perché non mi sono mai fatto sentire in più di trent’anni, e via dicendo. Tutte domande a cui non sarei in grado di offrire una risposta.”

 

“E come pensa di regolarsi, quindi?”

 

“Forse mi converrà non farmi nemmeno vedere,” esordì Andrews, che alzò una mano di fronte al mio tentativo di protesta. “Mi basterebbe anche solo sapere che stanno tutti bene, e che godono di una salute ragionevole.”

 

“Sì, ma…”

 

“Non angustiarti per me, Jax. Ancora non ho preso una decisione definitiva, tuttavia credo che, alla fine, sarà meglio per tutti che mi comporti come ti ho descritto. Il mio ritorno non farebbe altro che riaprire delle vecchie ferite, e questo non lo voglio davvero.”

 

Andrews appoggiò il capo contro il tronco dell’albero alle proprie spalle, chiuse gli occhi ed emise un respiro prolungato. Poi sollevò lo sguardo a osservare la cupola protettiva al di sopra delle nostre teste, e sorrise. “Non vedo l’ora di ammirare di nuovo l’azzurro del cielo del mio pianeta, Jax. Dove abito io il clima è mite, e la vegetazione rigogliosa, persino più di quella che hanno ricreato qui. Non c’è paragone.”

 

“Un bel posto, quindi.”

 

“Sì, e a quanto pare prima o poi avrai modo di constatarlo di persona, quando verrai a rendermi visita.”

 

Andrews si voltò verso di me, e mi fu impossibile non notare l’espressione di gioia che gli si era dipinta tutto d’un tratto sul viso. “Non so spiegarti il motivo, magari è una mia impressione, Jax… Ciononostante, l’istinto mi suggerisce che adorerai la mia patria d’origine, il Galles.”

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Non so quanti di voi si aspettassero questa rivelazione da parte del professore… Qualche indizio l’avevo pur gettato, qua e là, ma niente di troppo evidente ^^ Comunque, la cosa risponde in parte a un dettaglio che sul telefilm ho sempre notato. In pratica gli autori di Torchwood ogni tanto facevano dire da Jack quanto fosse bello l’accento gallese, quanto gli piacesse sentirlo parlare da Ianto, ecc. ecc. Ora, immagino che la cosa fosse studiata per promuovere ulteriormente il Galles, altrimenti non vedo perché ripeterlo così spesso. A quel punto mi son detta: e se esistesse un altro motivo, più profondo, per cui a Jack piace quel particolare modo di parlare? Ecco quindi la mia personalissima visione di com’è andata… Spero altrettanto plausibile di uno spot pubblicitario!

- La prossima settimana non aggiornerò The Casimir Effect per via della pausa pasquale. Ho tuttavia iniziato un mio personale progetto, ovvero quello di tradurre parte delle fanfiction sul fandom di Torchwood scritte da Blackkat, un’ottima autrice americana. La prima di esse la posterò lunedì 1 aprile, al posto del capitolo 21. Ma niente paura… The Casimir Effect tornerà comunque a infestare le pagine di EFP a partire da lunedì 8 aprile! Buone vacanze a tutti :-))

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Capitolo 21
*** Gli inconvenienti del mestiere, terza e ultima parte ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 21: Gli inconvenienti del mestiere, terza e ultima parte

 

“Galles? Mai sentito.” Ripetei il termine ancora un paio di volte, sottovoce. “E in quale zona della Via Lattea si trova, professore? Credevo di conoscere la maggior parte dei mondi abitati dagli esseri umani di questa galassia, e invece…”

 

“Il Galles non è un pianeta, Jax,” mi corresse Andrews, “bensì una piccola area geografica della Terra.”

 

Una volta pronunciato quest’ultimo nome, il professore non si dilungò in ulteriori spiegazioni sull’ubicazione del suo mondo d’origine. E a ragione. Chi, in effetti, non aveva mai udito parlare del luogo da cui provenivamo tutti noi? Personalmente non c’ero mai stato, né in missione né tantomeno in viaggio di piacere, ma di una cosa ero sicuro; era sempre stato un mio desiderio visitare la Terra e, stando ad Andrews e alla sua teoria sulla risonanza, ben presto l’auspicio si sarebbe avverato.

 

“In tal caso, professore, sarò ancor più lieto di venire a trovarla non appena riuscirò a ritagliarmi un briciolo di tempo libero,” gli dissi.

 

“È un posto stupendo, vedrai,” esclamò lui.

 

“Conosce già le coordinate spazio-temporali della sua nuova casa, immagino.”

 

“Oh, sì,” confermò Andrews. “Malauguratamente non potrò stabilirmi nella mia città natale, Caerdydd, perché ci vive tuttora il resto della mia famiglia. Come ti ho spiegato prima, non posso rischiare di imbattermi in uno dei miei familiari.”

 

Rilevai nella sua voce una malcelata tristezza. “Mi dispiace, professore,” mormorai allora, e presi le sue mani rugose fra le mie.

 

A sua volta, Andrews mi strinse calorosamente le dita. “Non devi, Jax. Davvero, mi è sufficiente sapere che sono tutti in salute, e che conducono una vita tranquilla. Quanto a me, ho deciso che passerò il resto dei miei giorni in un piccolo villaggio a solo qualche decina di chilometri da Caerdydd. Lì nessuno mi conosce; forse, per dare ancor meno nell’occhio, potrei addirittura cambiare nome.”

 

Detto questo, il professore mi comunicò i dettagli della sua destinazione finale, fra cui il nome del paesino (per me completamente impronunciabile) in cui si sarebbe stabilito, nonché la data a partire dalla quale avrei avuto l’opportunità di rendergli visita (ossia il 1 giugno 3006, in accordo con l’Assioma n°9 di noi Agenti Temporali).

 

“Bene, Jax,” disse Andrews, alzandosi da terra e dandosi una spolverata al retro dei pantaloni. “Ora devo proprio andare. Ho diverse cose da sistemare prima della partenza. Pratiche da sbrigare, i bagagli di un’intera vita da preparare…”

 

“Aspetti un attimo, professore!” esclamai, e mi alzai a mia volta. “Ci sono un paio di questioni che non ho ancora compreso.”

 

Andrews mi guardò con aria interrogativa.

 

“Questa faccenda della risonanza di cui mi ha parlato… Secondo la sua ipotesi si tratterebbe di un fenomeno benigno, ma da cosa deriva tanta sicurezza? L’ha detto anche lei che, oltre a me, ha incontrato solamente altre tre persone col mio medesimo problema.”

 

“Intendi che, secondo te, quattro casi totali sono troppo pochi per poter formulare una teoria generale?” si informò Andrews.

 

“Proprio così.”

 

“Allora mi vedo obbligato a confidarti un ulteriore segreto, Jax,” commentò il professore, avvicinandosi a me. Ispezionò con gli occhi l’area a noi circostante, come per sincerarsi che nessuno stesse origliando la nostra conversazione, e infine riportò lo sguardo su di me. “Poco fa ti ho raccontato le modalità con cui sono stato introdotto all’interno dell’Agenzia, no? Di sicuro non con la diplomazia.”

 

Feci una smorfia. “Direi proprio di no.”

 

“Eppure, e nonostante delle premesse non certo favorevoli, sono riuscito a farmene una ragione; alla fine ho apprezzato la mia nuova vita, e il mio nuovo lavoro. Soprattutto, a consolarmi c’era qualcosa. Qualcosa che ha sempre mitigato le mie sofferenze, il dolore da me provato nel lasciare indietro tutti i miei affetti, e cioè la consapevolezza che un giorno, seppur lontano, avrei fatto finalmente ritorno a casa. La mia vera casa.”

 

“Non capisco, professore,” mormorai confuso.

 

Andrews sorrise, si piegò leggermente in avanti, e abbassò la voce fino a farla diventare una sorta di sussurro. “Lo ammetto, questa mia sicurezza la traggo dall’esperienza personale.”

 

“Un momento, mi sta forse dicendo che…”

 

“Sì, Jax. Tanti anni fa, anch’io ho subito gli effetti della risonanza. Mi è capitato un’unica volta, e nel mio caso non si è trattato di un fenomeno solamente auditivo, come per te.”

 

“Dunque, fra quei famigerati tre Agenti di cui mi ha parlato era incluso lei stesso, professore.”

 

“Esatto. Per questo ti ripeto che non hai nulla da temere. Grazie alla risonanza, la mia rassegnazione si è trasformata da una futile speranza in una splendida certezza. Nella mia visione ero anziano come mi vedi ora, felice e sereno.” Andrews sollevò la testa a rimirare il verde delle fronde dell’albero sotto il quale ci trovavamo. “Certo, un po’ mi mancherà tutto questo. Lo spazio, la tecnologia, e sopra ogni cosa gli amici e i colleghi che mi sono fatto qui. Per non parlare di voi studenti, nuovi o vecchi che siate.”

 

“Lo stesso vale per me. Mi mancherà moltissimo, mi creda,” affermai con decisione.

 

Il professore mi strinse nuovamente le mani e poi, tutto d’un tratto, mi fece l’occhiolino, e abbozzò un bizzarro cenno col mento. “Oh, e a proposito di visioni e di voci dal futuro… Eccone un’altra in avvicinamento, di visione, ma stavolta appartenente al presente.”

 

“Cosa? E la sta avendo adesso?” domandai allarmato. “Si sente bene? Forse è meglio che si sieda finché non sarà passata, e…”

 

Andrews cominciò a ridacchiare. “Ma no, mi hai completamente equivocato, Jax. Non intendevo quel tipo di visione. Quella a cui mi riferisco ha i capelli rossi e gli occhi verdi, e si sta dirigendo dritta verso di noi.”

 

Mi girai di scatto, e notai con sorpresa la presenza di Becca, ormai non molto lontano dalla nostra posizione.

 

“Bene,” continuò bonario Andrews, e mi batté sulle spalle con entrambe le mani. “Credo di non essere più necessario, almeno per il momento. Anzi, probabile che risulterei solo d’intralcio, non lo pensi anche tu?”

 

“Ma professore…!” iniziai a protestare. Andrews, per tutta risposta, mi diede un leggero buffetto sulla guancia. “Prima risolvete le vostre questioni personali e meglio è. Dopo, se tutto andrà come penso, potrete venire tutti e due da me, a salutarmi come si deve.”

 

“E un po’ di sana solidarietà maschile non la contempla nemmeno?” chiesi, affranto.

 

“Non ne avrai bisogno. Te la caverai anche senza di me. E poi, qui intorno non vedo ameni quadretti in procinto di infrangersi sulla tua testa.”

 

Arrossii in preda all’imbarazzo, e mi portai una mano alla nuca. Grazie ai nanogeni la ferita era del tutto rimarginata, e non mi sarebbe rimasta alcuna cicatrice, ma il ricordo dell’incidente mi avrebbe accompagnato per ancora molto tempo. “Sarà, professore. Però questa prima o poi me la paga, sia chiaro,” borbottai.

 

Andrews allargò le labbra in un sorriso gioviale. “È il minimo, Jax. Ci vediamo!”

 

Con tali parole il professore si accomiatò da me, e si avviò lungo il sentiero in direzione dell’edificio principale dell’Agenzia. Una volta che ebbe raggiunto Becca, lo vidi abbracciarla affettuosamente e sussurrarle qualcosa all’orecchio. Lei si scostò un poco dal professore, e aprì la bocca per replicare. Vista la distanza che li separava da me, non riuscii a decifrare il loro scambio di battute; ciononostante, non mi sfuggì di certo l’espressione stupita che si dipinse sul viso di Becca. Il professore la salutò come aveva appena fatto con me, ossia stringendole le mani, e lei fece altrettanto. Andrews continuò per la sua strada, e Becca si girò verso di me. Mi fissò immobile per qualche secondo, per poi riprendere infine a camminare verso di me con passo deciso.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Così recita l’Assioma n°9: Per un Agente in procinto di lasciare l’Agenzia, l’anno del reinserimento all’interno del TLO va calcolato sommando il TLS totale dell’Agente alla sua data di nascita nel TLO stesso.

- Nel prossimo capitolo: il chiarimento fra i due, finalmente!

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Capitolo 22
*** Jax e Becca ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 22: Jax e Becca

 

Poiché Becca si trovava ancora a qualche decina di metri da me, andarle incontro per incontrarla a metà strada mi parve la scelta più naturale da compiere. Non appena misi un piede davanti l’altro, però, la mia collega mi puntò addosso il dito indice, e alzò la voce per farsi udire distintamente.

 

“Tu! Non osare muoverti di lì!”

 

Rimasi come paralizzato dalle sue parole, e dalla veemenza con cui erano state pronunciate.

 

Becca mi raggiunse, si sistemò per terra a gambe incrociate, sollevò il capo e si mise a guardarmi socchiudendo gli occhi. “Allora? Non vorrai mica farmi venire il torcicollo, spero.”

 

Mi accoccolai in fretta di fronte a lei, nella sua identica posizione, e aprii la bocca per iniziare a parlare; tuttavia, Becca mi precedette. “Prima di tutto, è vera la storia di Andrews e della pensione?”

 

“Te l’ha appena riferito anche lui, no?”

 

“Sì, ma a me l’ha solo accennato. Mi ha preso decisamente in contropiede, perché non ne sapevo nulla. Voi due, invece, avete parlato parecchio; è da un po’ che vi osservo. Con te sarà entrato più nei dettagli, immagino. Ti ha spiegato cosa l’ha spinto a prendere questa decisione, così all’improvviso?”

 

“Da quel che ho capito, non si tratta affatto di una scelta affrettata. È da un po’ che il professore ci stava pensando. Come mai lo trovi tanto strano? Si sente stanco, e ormai è anziano. Dopo tanti anni spesi a occuparsi degli affari dell’Agenzia e ad affannarsi per inculcare a noialtri studenti un po’ di cultura, non posso che trovarmi d’accordo con lui quando afferma di volersi allontanare definitivamente da tutto e da tutti.”

 

“Mi hai frainteso, Jax,” si affrettò ad aggiungere Becca. “Non mi sono stupita del fatto che voglia ritirarsi a vita privata, ci mancherebbe altro. Però, andarsi a rintanare sulla Terra! Un pianeta così isolato e provinciale…”

 

“Si tratta del suo mondo d’origine, Becca, non devi biasimarlo. Soprattutto considerato che…” Mi interruppi improvvisamente.

 

“Che…?” mi sollecitò lei.

 

Mi resi conto solo in quegli istanti che forse non mi conveniva rivelare alla mia collega ciò che mi era stato confidato dal professore. Sicuro, anche Becca godeva di un rapporto privilegiato col nostro comune ex docente. D’altra parte, tuttavia, Andrews era stato molto chiaro con me; la nostra conversazione sarebbe dovuta rimanere riservata, al riparo da orecchie indiscrete. Ora come ora, perciò, mi chiesi se fra queste ultime avrei dovuto considerare anche la persona che avevo di fronte. Riflettendo meglio, stabilii che una mezza verità potevo pur sempre rifilargliela. Altrimenti, Becca non avrebbe più mollato la presa.

 

“Vedi,” dissi con esitazione, “il fatto è che Andrews non è entrato a far parte della nostra organizzazione di sua spontanea volontà. Almeno, non del tutto.”

 

“Significa che l’hanno costretto?” chiese Becca, rabbuiandosi.

 

“Più o meno.”

 

Becca scosse la testa, e storcendo un poco la bocca soffiò via dalla fronte un ricciolo ribelle. “Non mi stupisco. Non è stato lui il primo, e nemmeno sarà l’ultimo, purtroppo.”

 

“Cosa?” esclamai con stupore.

 

“Mi figuro già la scena,” continuò la mia collega. “Un semplice professore universitario, sul suo insignificante pianeta natale – e non ti azzardare a interrompermi, sto solo facendo un esempio – va avanti tranquillamente con la propria vita, e con i propri affari. Poi, un brutto giorno, gli piomba in casa uno sconosciuto, che gli parla di un tragico destino già stabilito, e di linee temporali da mantenere. Insomma, una sfilza di belle scuse e allettanti bugie. E tutto per giustificare un rapimento, e questo sì, autentico.”

 

“È andata press’a poco così,” confermai. “Ma tu sapevi, dunque?”

 

Becca annuì col capo. “Non ho mai approvato certe metodiche di reclutamento utilizzate dall’Agenzia e puntualmente, ogni volta che mi sono giunte voci di casi simili a quelli di Andrews, ho sporto i miei doverosi reclami. Inascoltati, ovvio. Ma d’altronde, chi sono io per oppormi ai grandi capi?”

 

“Non è colpa tua, perlomeno ci hai provato,” dissi per consolarla.

 

“Peccato che non sia servito a niente,” borbottò Becca con voce amareggiata. “Ora comprendo il motivo per cui Andrews ha così tanta voglia di far ritorno sulla Terra, invece di godersi la pensione qui su Sagittarius A*, o su qualche altro pianeta di suo gradimento.” Si girò a guardarmi meglio. “Ti ha fatto il nome dell’Agente implicato nel suo sequestro?”

 

“Sì, ma non credo sia il caso che tu ne venga informata.”

 

“Perché no? Sono certa che il professore si fida di me e della mia discrezione. Non cerco di sicuro di metterlo nei guai proprio ora,” ribatté Becca. “Voglio solo conoscere l’identità dell’Agente, nient’altro.”

 

“Appunto. Inutile rivangare il passato per mero spirito di curiosità,” risposi.

 

“Con te però si è confidato, Jax!”

 

“Solamente perché dovevamo discutere di questioni personali, che riguardavano entrambi. In seguito, per puro caso, da un argomento siamo saltati a un altro, e a un altro ancora, e alla fine ci siamo ritrovati a parlare delle circostanze in cui è avvenuto il suo rapimento. Tutto qua.”

 

“Mmmh. E le questioni di cui parli, nemmeno di quelle posso sapere niente?”

 

Feci per replicare, ma Becca agitò una mano. “Lasciamo perdere. Sono personali, l’hai già detto. Visto che vuoi a tutti i costi tenere il becco chiuso, cambiamo discorso. Su questo, però, da te vorrei un po’ di sincerità. Stai davvero bene?”

 

“Sì, sì. Nanogeni, e tutto il resto,” risposi. Abbassai la testa. Improvvisamente, l’erba sulla quale eravamo adagiati mi pareva avere acquisito un interesse enorme. Ne strappai alcuni fili e presi a rigirarmeli fra le dita, ammirandone nel contempo l’intenso, vivido colore verde. Quasi la stessa sfumatura degli occhi di Becca, fu l’assurdo pensiero che mi balzò in mente.

 

“Meno male,” la sentii rispondere in un soffio. “Non me lo sarei mai perdonato se, a causa mia, avessi subito dei danni permanenti.”

 

La sbirciai di sottecchi. “Certo, adesso è tutto a posto. Non posso di sicuro ringraziare te, però,” borbottai.

 

“Cosa?!” sibilò lei, saltando in piedi. “Ok, ti sei fatto male per colpa mia, e ovviamente per quello hai tutte le mie scuse, ma con quale coraggio mi rinfacci quant’è successo poco fa? Se ben ricordi, è il tuo comportamento che mi ha spinto a…”

 

Becca non terminò la frase. Si portò una mano al fianco, e l’altra a coprirsi il volto. La sentii sospirare, frustrata, dopodiché ricominciò a parlare. “Senti, non sono venuta qui per litigare di nuovo. Accantoniamo un attimo la discussione, perché mi sembra che non ci stia portando da alcuna parte.”

 

“Saggia decisione.”

 

“Ecco, lo vedi? Lo stai facendo di nuovo. Questa tua abitudine di ridicolizzare qualsiasi situazione mi manda veramente in bestia, Jax!” esclamò Becca.

 

“Nella vita c’è sempre bisogno di un po’ d’ironia, soprattutto in certe situazioni, come le chiami tu,” sentenziai.

 

“No, il punto è un altro,” commentò lei, rimettendosi a sedere di fronte a me. “La verità è che ti comporti in questo modo quando vuoi evitare di affrontare determinati argomenti. Mi sbaglio, forse?”

 

Alzai le spalle. “Pensala come ti pare.”

 

“Ormai ti conosco troppo bene, Jax. So come ragioni. Così come so che i tuoi timori li schivi utilizzando anche un altro metodo…”

 

“Di gran lunga il mio preferito,” interloquii con un mezzo sorriso.

 

“Non ne ho dubbi,” replicò sarcastica Becca. “Ed è lo stesso che ci ha condotto alla situazione attuale.”

 

“Di nuovo quella parola. Situazione. Stai diventando ripetitiva. Hai forse paura di chiamare le cose col loro nome?”

 

“Io paura?” Becca mi guardò stupefatta. “E di che cosa dovrei avere paura, secondo te?”

 

“Forse non mi sono spiegato bene,” concessi. “Probabile che la tua sia piuttosto una forma di fastidio, o di irritazione. Sì, irritazione è il termine esatto.”

 

“Irritazione? Si può sapere di che diavolo stai parlando?” sbottò la mia collega.

 

“O magari si tratta di invidia. Ti senti costretta dalle norme dell’Agenzia, per non parlare di quelle del tuo secolo di appartenenza. Di conseguenza, non sopporti il fatto che io, invece, non mi ponga alcun problema nello scegliere come e con chi divertirmi, e…”

 

Affermare che la reazione di Becca alle mie parole mi colse di sorpresa sarebbe un misero eufemismo; infatti, dopo aver emesso un “Jax Boeshane, sei un autentico zuccone!” di pura frustrazione, la mia collega si gettò contro di me, col risultato di farmi sbattere a terra con una certa violenza, e di costringere i miei poveri polmoni a esalare un “Uff!” quanto mai inaspettato. Per mia fortuna, l’erba aveva attutito il colpo. Battei le palpebre e, una volta che la mia vista e la mia mente annebbiate si furono schiarite, osservai come ipnotizzato il furioso viso femminile al di sopra del mio.

 

“Becca… Lungi da me obiettare sulla nostra attuale posizione, sia chiaro, ma si può sapere che ti è preso di saltarmi addosso?” chiesi con un filo di voce.

 

“Mi sono stancata di questo continuo botta e risposta tra noi due,” rispose lei ansimando, “per cui ti rivolgo una semplice domanda: parlavi sul serio, prima?”

 

“Eh?”

 

“Ho sentito benissimo quello che mi hai detto prima di svenire, nel nostro ufficio. ‘L’unica persona che io desideri al mio fianco.’ Non mi ritengo una completa idiota, e sono convinta di avere afferrato ciò che intendevi, ma voglio sentirlo direttamente da te.”

 

Chiusi gli occhi e sospirai. “Becca…”

 

“Niente scuse, stavolta. Rispondimi sinceramente,” insistette la mia collega.

 

“E va bene,” dissi a fatica. Riaprii gli occhi, e la fissai direttamente nei suoi. “Credo… Credo di provare qualcosa per te.”

 

“Ah, sì? E che cosa, Jax? Odio? Disgusto? Commiserazione? Pena? Sii un po’ più preciso, se non ti dispiace,” commentò lei.

 

“Amore, per la miseria, amore! Non prenderti gioco di me, Becca!” dichiarai, e contemporaneamente percepii le guance prendere quasi fuoco.

 

“Finalmente,” replicò Becca. “E comunque, fino ad adesso ti sei preso in giro da solo, e non hai avuto alcun bisogno di aiuto da parte mia.” Così dicendo, si chinò ulteriormente e mi baciò sulle labbra.

 

Dopo qualche secondo si separò da me, e scoppiò in un risolino divertito. “Dovresti vederti allo specchio, Jax! Sei talmente buffo, sembri un pesce fuor d’acqua, con quella bocca che si apre e si chiude senza riuscire a spiccicare neanche un suono.”

 

“Cioè… Quindi tu… E io che…” balbettai.

 

“Respira, Jax. È molto facile, sai. Inspira aria nei polmoni, buttala fuori, ripeti il movimento, e così via. Ma non troppo veloce, mi raccomando!” esclamò Becca allegramente.

 

“Ma allora… Quella scenata in ufficio non era dettata dalle assurde regole ed etichette inventate dall’Agenzia?”

 

“Scemo,” mi rimproverò lei, e mi posò una mano sul viso, come per carezzarlo. “Ovvio che il tuo comportamento mi ha dato fastidio, e molto. Ti ho anche spiegato il perché, però, mi pare. O almeno, una parte del perché. Per il resto, ero semplicemente gelosa. Non l’avevi intuito?”

 

“Per niente,” ribattei. Poi, ripensandoci meglio, spalancai gli occhi. “Un momento, dunque significa che anche tu…?”

 

“Anche io,” confermò Becca.

 

L’insperata notizia non mancò di sollevarmi lo spirito, e di togliermi il peso che sembrava si fosse insinuato fino a quel momento in fondo al mio cuore. Ora che conoscevo la verità sui nostri reciproci sentimenti, non avrei sprecato nemmeno un secondo di più del nostro prezioso tempo insieme. Volevo Becca, e lei voleva me! Di slancio la abbracciai, e invertii le nostre posizioni, così che quella che era ormai la mia compagna si ritrovò all’improvviso sotto di me. Le catturai le labbra con foga, e Becca mi rispose con pari entusiasmo.

 

“Accidenti a voi uomini del cinquantunesimo secolo e ai vostri feromoni,” borbottò infine, dopo essersi staccata un attimo per riprendere fiato. Dal tono con cui lo disse, tuttavia, non sembrava affatto dispiaciuta.

 

“Ma come? Ti vantavi di come non ti avessero provocato alcun effetto,” obiettai, e le premetti più e più volte la bocca sulla pelle delicata fra la spalla e il collo.

 

“Stai scherzando, vero? Sono micidiali,” si lamentò lei, stringendosi a me. “Nessuno con un senso dell’olfatto appena decente sarebbe capace di resistere.”

 

“Non saprei, tu in parte ci sei riuscita,” risposi pensieroso.

 

“Sì, certo, come no! Sono riuscita a fartelo credere, vorrai dire!”

 

“Davvero? Allora si è trattato solo di una messinscena ai miei danni. Forse dovrei punirti,” le sussurrai all’orecchio.

 

“Non vedo l’ora,” mormorò di rimando la mia compagna. Riprendemmo di nuovo a baciarci con passione, e fu soprattutto a causa delle proteste di Becca (deboli, per la verità) che decidemmo di comune accordo di spostare le nostre piacevoli attività al chiuso, in un luogo appartato, invece di usufruire della relativa riservatezza offerta dal bosco che ci circondava.

 

Ancora non potevo saperlo, ma il periodo che avrebbe seguito quegli eventi si sarebbe ben presto rivelato il più felice dei miei primi ventisette anni di esistenza mortale.

 

Il più felice, e al tempo stesso uno dei più tragici.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- La critica rivolta da Becca a Jax sul suo modo di affrontare la vita riecheggia ovviamente la conversazione fra Jack e Ianto occorsa nel capitolo 8, L’ultima goccia. La cosa è voluta, e mostra come due tipi di discorso fra loro molto simili si sono potuti sviluppare, considerando che accadono in diverse epoche e situazioni (come le chiamerebbe Becca), e con differenti interlocutori.

- Le mie famigerate frasi finali a effetto sono tornate prepotentemente alla ribalta! XD E nel prossimo capitolo: l’evoluzione del rapporto fra i due piccioncini…

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Capitolo 23
*** Lui, lei, l'altro ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple, Henry Boeshane e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico! Di Lauren Boeshane, invece, rivendico solo nome e cognome.

 

 

Capitolo 23: Lui, lei, l’altro

 

Per circa due settimane, l’Agenzia Temporale dovette fare a meno di due fra i suoi migliori elementi.

 

Subito dopo l’inizio della nostra relazione, Becca e io reclamammo infatti una parte delle ferie arretrate a noi dovute. In realtà, i giorni totali ammontavano a ben oltre quattordici, ma per questioni logistiche non avremmo potuto passarli tutti insieme, e così ostentammo buon viso a cattivo gioco. Come meta per il nostro breve periodo di congedo avevo optato per la Terra; forte era in me la curiosità di esplorarla, e inoltre non volevo farmi sfuggire l’opportunità di andare a trovare il professor Andrews nella sua nuova dimora, come a lui promesso solo poche ore prima. Ciononostante, Becca non si rivelò del mio stesso avviso.

 

“La data, giugno 3006, mi va benissimo, ma che ne dici di recarci da qualche altra parte, e di rimandare l’improvvisata ad Andrews? Immagino che si voglia riposare un po’ prima di ritrovarsi due suoi ex allievi fra i piedi,” mi propose.

 

“Hai in mente qualche altra destinazione terrestre, allora? Magari un luogo di villeggiatura?” chiesi.

 

“No, no,” rispose lei. “C’è un altro posto che mi piacerebbe tanto visitare, Jax.”

 

Mi comunicò la sua scelta, e il mio stupore fu grande. “Boeshane? Perché proprio laggiù?”

 

“Semplice,” replicò Becca. “Voglio vedere il tuo pianeta d’origine, le spiagge su cui sei nato e cresciuto. Ti sembra tanto strano?”

 

“No, ma…”

 

“E poi, da quel che mi hai riferito, su Boeshane in estate avete un clima meraviglioso, e ho proprio voglia di passare qualche giorno di relax in riva al mare, al caldo, sotto un vero sole, non quello artificiale che si sono inventati qui su Sagittarius A*.”

 

“Nel 3006 Boeshane non è stato ancora colonizzato, Becca.”

 

“Persino meglio! Saremo completamente soli, io e te. La vacanza perfetta.”

 

Poiché Becca mi vedeva ancora riluttante, si avvicinò a me e mi adagiò una mano sul petto, all’altezza del cuore. L’altra me la passò dietro la testa, e con quella prese a strofinarmi piano la nuca. “Non mi sembri convinto, Jax. Esiste un motivo, magari personale, per cui non vuoi che io venga con te sul tuo mondo?”

 

“Effettivamente sì,” sospirai. La cinsi a me, e posai la fronte sulla sua. “Però sono ragioni che appartengono ormai al passato, e che forse dovrei lasciarmi alle spalle.”

 

“Jax, non voglio certo costringerti…” iniziò Becca, dubbiosa.

 

“Nessuna costrizione, cara,” la rassicurai. “Anzi, credo proprio che sia giunta l’ora che io torni alle radici del mio problema, e potrò farlo solo su Boeshane. Hai ragione tu: sarà davvero una vacanza memorabile.”

 

***

 

HIC 273-b, galassia di Isop, giugno 3006 (anni terrestri)

 

Come avevo spiegato a Becca, in teoria il mio pianeta sarebbe stato colonizzato parecchi secoli dopo, ma una volta che io e la mia compagna posammo piede sulle bianche dune della Penisola, ci rendemmo conto di quanto fosse paradossale la circostanza. Sì, perché a conti fatti avevamo appena modificato la Storia, quella con la s maiuscola, e nonostante ciò, nessuno oltre a noi l’avrebbe mai saputo. Con buona pace del povero, ignaro comandante Henry Boeshane e del resto della sua spedizione terrestre, che sarebbe giunta fin qui solo milleseicento anni più tardi.

 

Ridacchiando divertiti, ci mettemmo alla ricerca di un ramo secco adatto allo scopo e, una volta trovato quello giusto, iscrivemmo sulla sabbia l’eccezionalità della nostra scoperta:

 

A coloro che verranno dopo di noi su questi lidi:

Benvenuti nel Tempio di Boeshane!

(Credevate di essere voi i primi?!)

 

Trascorso tale momento di ilarità, dedicammo tutto il resto delle ferie alla scoperta l’uno dell’altra. Non esclusivamente sul piano fisico, anche se ovviamente ne costituì una parte abbastanza cospicua. Comunque, ci scambiammo vicendevolmente parecchie storie appartenenti alle nostre vite personali, e ci confrontammo su diversi punti di vista, su ciò che ci piaceva, su ciò che ci disgustava, su ciò che ci commuoveva. Argomenti talvolta importanti, talvolta trascurabili, ma mai banali.

 

***

 

Il quattordicesimo giorno su Boeshane, l’ultimo della nostra vacanza, lo passammo quasi per intero in riva al mare, a sonnecchiare su una coperta distesa sulla sabbia. Si avvicinava l’ora del crepuscolo, e il sole morente, col suo colore così particolare, gettava lunghe ombre dietro i nostri corpi abbracciati. All’improvviso, presa da chissà quale ispirazione, Becca prese la parola, e mi confidò il suo sogno segreto di bambina, cioè quello di diventare bibliotecaria. Le più disparate circostanze l’avevano poi spinta a entrare come cadetto nell’Accademia Temporale, ma la smodata passione per i libri non si era mai sopita. Sopra ogni altra cosa, Becca amava leggere i diari e le autobiografie. Le chiesi come mai, una volta cresciuta, avesse deciso di non perseguire la sua carriera lavorativa ideale. Non si era trattato di un’aspirazione irragionevole, dopotutto.

 

Alla mia domanda, Becca scrollò le spalle. “Ero solamente una ragazzina, Jax, con la solita miriade di desideri tipici di quell’età che mi frullavano nel cervello. Troppo piccola per avere un’esistenza indipendente da quella dei miei genitori, per quanto intensamente lo desiderassi già, e allora mi rifugiavo nella lettura delle vite altrui.”

 

Un discorso tirò l’altro e, proprio come mi ero prefissato prima della partenza per Boeshane, mi ritrovai a narrarle buona parte degli eventi più bui della mia giovinezza sul pianeta, compreso il rapimento di mio fratello e la conseguente uccisione di mio padre. In seguito a essi, non ero più stato lo stesso; mi incolpavo della tragedia e speravo che, col mio arruolamento nell’Accademia, avrei potuto rimediare a ciò che era successo.

 

“Fammi capire,” mi interruppe Becca. “Quindi contavi, grazie alla tecnologia dell’Agenzia, di viaggiare indietro nel tempo e modificare il tuo passato?”

 

Annuii, e prevenni subito quello che sapevo sarebbe stato il suo successivo commento. “Al contrario di te, che eri piena di sogni poi svaniti, la mia mente era pervasa dagli incubi, incubi che non accennavano ad abbandonarmi. Un continuo tormento, sia di giorno sia di notte. Mi domandavo, disperato, se non esistesse per caso un modo per mettere le cose a posto. O piuttosto, per far sì che quel che mi era accaduto venisse cancellato per sempre.”

 

“Oh, Jax…” Becca poggiò la testa sulla mia spalla.

 

Sospirai. “Lo so, lo so. Quarto Assioma, giusto? Ma, proprio come te, ero giovane, ingenuo, e in un certo qual senso anche arrogante. Non preoccuparti, mi sono ben presto accorto che ciò che desideravo era impossibile da realizzare.”

 

“Avresti creato un paradosso irrisolvibile,” commentò Becca.

 

“Infatti. Alla fine me ne sono dovuto fare una ragione,” mormorai.

 

C’era poco da aggiungere. Restammo così, a stringerci reciprocamente, finché non mi decisi a rompere di nuovo il silenzio.

 

“Senti…” esordii.

 

“Dimmi,” rispose lei.

 

“Stavo pensando… Fra qualche mese il mio periodo di tirocinio insieme a te terminerà, e mi assegneranno a qualcun altro.”

 

“È già passato quasi un anno? Pensa a quanto tempo abbiamo sprecato fra bisticci e malintesi, Jax!”

 

“Vero,” concessi. Mi issai un poco, puntellai un gomito sulla coperta e appoggiai il mento sulla mano. “Troppo. E proprio per questo motivo, volevo chiederti se… se acconsentiresti a sottoscrivere uno status di Coppia insieme a me.”

 

“Cosa?!” Becca sgranò gli occhi, esterrefatta, e si tirò su, imitando così la mia posa.

 

“Sì, insomma… Se noi due formassimo una Coppia, non verremmo separati arbitrariamente. La trovo una soluzione ideale.”

 

“Un attimo. Ti rendi conto che in pratica mi stai chiedendo di sposarti?”

 

“Certo,” risposi.

 

“Ma tu odi i legami stabiliti, Jax, e ogni tipo di etichetta possibile e immaginabile. Mi cogli davvero di sorpresa,” esclamò lei.

 

“Non sono contro il matrimonio a priori, Becca.” Sorrisi tristemente. “Lascia che ti racconti una cosa. Prima che succedesse ciò di cui ti ho parlato prima, la mia era una famiglia felice. Franklin e Lauren, i miei genitori, si amavano molto, e avevano deciso di sposarsi… Una scelta insolita, considerato il nostro secolo di appartenenza, devo ammetterlo, ma se quello che provo per te è simile anche solo in minima parte a ciò che sentivano loro, beh, credo che ne valga la pena. Che ne pensi, quindi? Sei pronta a correre il rischio?”

 

Becca rimase lì a squadrarmi, ammutolita.

 

“Ti prego, di’ qualcosa, qualunque cosa,” la pregai.

 

La mia compagna si rizzò a sedere, e incrociò le braccia. “Oh, non saprei davvero. Il mio uomo mi porta sul suo pianeta natale, e trascorriamo insieme una delle vacanze più belle che io ricordi. Visto che c’è, di fronte all’oceano, nell’ora del tramonto, con l’aria pervasa di una romantica sfumatura rosata, tutto d’un tratto mi chiede di sposarlo. Proprio non riesco a capire perché dovrei rispondergli di sì.”

 

“Significa che…?” proruppi speranzoso.

 

“Scemotto, ovvio che accetto!” Becca d’improvviso mi sorrise raggiante, e si sdraiò di nuovo accanto me. Sorrisi anch’io, colmo di felicità. Preso dall’euforia, iniziai a ridere, e Becca si unì alla mia gioia. Spendemmo un paio di minuti a rotolarci allegramente sulla coperta, invertendo di volta in volta le nostre posizioni. Stavamo giustappunto baciandoci con una certa intensità (Becca si trovava ora sotto di me), quando la sentii irrigidirsi, per poi separare le labbra dalle mie.

 

“Jax… Non mi avevi detto che Boeshane è deserto?”

 

“Certo.”

 

“E che verrà colonizzato solo nel quarantasettesimo secolo?”

 

“Sicuro.”

 

“E allora spiegami chi diavolo è quel tizio laggiù!” fece Becca, e puntò il dito indice al di sopra della mia spalla.

 

“Cosa?! Non è possibile!” Girai di scatto la testa, e mi accorsi che Becca aveva ragione; a un centinaio di metri da noi, un uomo camminava nella nostra direzione. Non riuscivo a riconoscerne le fattezze a causa della distanza, ma a questo stava rimediando lo sconosciuto, visto il passo rapido col quale ci stava raggiungendo.

 

Allarmato, mi staccai delicatamente dalla mia neo-fidanzata, e misi mano al Manipolatore del Vortice. Iniziai a regolarne i comandi, ed effettuai una veloce scansione del nuovo venuto. Con la coda dell’occhio, notai che Becca stava facendo altrettanto col suo apparecchio.

 

“Niente di niente,” dissi infine, gettando lo sguardo sui risultati dell’analisi. “Ero convinto che si trattasse di un viaggiatore temporale come noi, ma non vedo nessuna anomalia, nessun paradosso, nessuna distorsione del continuum.”

 

“Ed è umano al cento per cento,” aggiunse Becca.

 

“Ma com’è possibile?” ripetei, affranto.

 

Becca scosse il capo, ad indicare la sua totale incomprensione. “Lo scopriremo presto, visto che è praticamente arrivato.”

 

Era vero; l’uomo si era fermato a una decina di metri da noi, e ci fissava senza proferire parola. Ora ero in grado di studiarlo con attenzione. Pareva piuttosto giovane, e aveva i capelli castani, più scuri e più corti dei miei. Il colore degli occhi, tuttavia, non riuscii a distinguerlo. Era vestito con abiti chiari, adatti al clima estivo di Boeshane: un paio di pantaloni corti, nelle cui tasche teneva sprofondate le mani, e una camicia leggera. Di sandali neanche l’ombra.

 

“Sarà pericoloso?” mi sussurrò Becca all’orecchio.

 

“Chi lo sa? In ogni caso, dobbiamo assolutamente scoprire la sua identità,” risposi, e mi alzai in piedi.

 

“Non fare sciocchezze, Jax.”

 

“Tranquilla, voglio solamente rivolgergli qualche domanda,” le mormorai, strizzandole l’occhio. Poi, a voce più alta, mi orientai verso lo sconosciuto. “Chi sei? Come hai fatto a giungere fin qui?”

 

L’altro non rispose verbalmente. Scosse invece la testa, e si posò un dito sulle labbra.

 

“Adesso non vorrai darmi a bere che sei muto,” commentai sardonico.

 

Di nuovo lo stesso cenno col capo. Mi stava prendendo per i fondelli? Se quello era il caso, aveva trovato pane per i suoi denti! Misi un piede di fronte all’altro e feci per avvicinarmi, ma l’uomo alzò una mano. Sembrava che volesse avvertirmi di qualcosa. Ma che cosa?

 

Il tizio indietreggiò e si allontanò da noi, senza però voltarsi. Continuava a fissarci intensamente, e dopo circa trenta metri compiuti in questo modo bizzarro, lo vidi chinarsi e raccogliere un esile bastone, e con esso iniziare a tracciare dei segni sulla spiaggia.

 

Becca si portò al mio fianco, e mi prese la mano nella sua. “Magari è davvero incapace di parlare, Jax.”

 

“Ne dubito,” borbottai.

 

Ci vollero diversi minuti, durante i quali l’uomo effettuò delle pause, come se non fosse affatto sicuro di cosa scrivere. Quando ebbe terminato, gettò via il bastone, e risollevò il capo verso di noi. Sorrise, alzò il braccio e agitò la mano, salutandoci con vivacità. Dopodiché, girò sui tacchi e se ne andò definitivamente, stavolta con molta meno fretta di quanto non avesse fatto al proprio arrivo.

 

Becca e io restammo come paralizzati a guardarlo, finché lo sconosciuto non sparì dietro una collinetta sabbiosa. Dopo alcuni secondi udimmo un rombo sordo, e dalla stessa direzione si levò in volo una navicella, che sfrecciò veloce verso il cielo ormai violaceo. La notte era vicina, e già nel firmamento si scorgevano le prime stelle.

 

“Visto?” disse Becca. “Era un semplice viaggiatore spaziale, non temporale, Jax.”

 

“Semplice viaggiatore, un accidente! Te l’ho detto, la mera presenza di quel tipo è impossibile. Nessuna cronaca narra di esseri umani sbarcati qui prima del quarantasettesimo secolo!”

 

“Sarà… Intanto vediamo il frutto del suo lavoro.”

 

Così dicendo, Becca si diresse verso il luogo in questione, e mi affrettai a raggiungerla. Ciò che scorsi, tuttavia, non fece altro che intensificare i miei dubbi sul misterioso uomo che ci aveva appena lasciati. Spalancai gli occhi, incredulo, e mi girai a fissare Becca, come per chiederle un’opinione al riguardo, ma a giudicare dall’espressione con cui mi fissò di rimando, non era da lei che avrei ricavato una risposta.

 

Né tantomeno l’avrei avuta dall’inquietante frase incisa sulla mutevole sabbia ai nostri piedi.

 

A coloro che si sono scambiati una promessa su questi lidi:

Seguite sempre i vostri sogni.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- La prima scritta tracciata sulla sabbia ovviamente me la figuro in inglese, così che il segmento Tempio di Boeshane sarebbe in realtà Boeshane Temple, una fusione dei cognomi di Jax e Becca. Il battesimo non ufficiale del pianeta, insomma XD

- Così recita l’Assioma n°4: In nessuna circostanza, per nessun motivo, e senza alcuna eccezione, è permesso agli Agenti o ai Cadetti modificare né il TLS, né il TLO per fini puramente personali. In caso di contravvenzione a questa norma, gli Agenti o i Cadetti responsabili verranno giudicati in base alla gravità e/o all’entità della modifica apportata.

- Nel telefilm non viene mai rivelato il nome della madre di Jack, così ho deciso di affibbiarle quello dell’attrice che la interpreta, Lauren Ward.

- Come forse si è capito, ho deciso di cambiare il titolo a questo capitolo; ciononostante, I mulini degli dei sarà comunque usato per il prossimo. A presto! ^^

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Capitolo 24
*** I mulini degli dei, parte prima ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple, Henry Boeshane e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 24: I mulini degli dei, parte prima

 

Una volta tornati al QG di Sagittarius A*, Becca e io continuammo a interrogarci sul mistero dell’uomo in cui ci eravamo imbattuti su Boeshane. Becca appoggiava la tesi del ‘normale’ viaggiatore spaziale, mentre io continuavo ad affermare l’assurdità di tale argomento. Quando mi chiese come mai non era possibile che invece ad aver ragione fosse lei, le illustrai il mio pensiero. Che era molto lineare, in realtà.

 

Il viaggio interstellare era iniziato nel ventinovesimo secolo con l’adozione del programma STARS, vero, ma a quei tempi si era solo agli inizi, e le distanze da percorrere si erano rivelate enormi, talmente enormi che i confini della Via Lattea non sarebbero stati varcati prima del quarantesimo secolo, come ben sapevo.

 

Il problema risiedeva nel fatto che all’interno della Via Lattea si trovavano ben pochi pianeti dotati delle caratteristiche tipiche dell’abitabilità, e anche questi ultimi non potevano certo definirsi dei paradisi. Ne potrei citare uno, per esempio: Ragnarok. Il suo sole orbita a più o meno 21 anni luce da quello della Terra, dunque abbastanza vicino, e infatti fu tra i primi a essere colonizzato dagli esseri umani, nel trentatreesimo secolo. Su Ragnarok, però, la gravità è doppia rispetto a quella terrestre, e la luce molto fioca. Un posto buio, miserabile, di sicuro non il migliore sul quale decidere di passare il resto della propria vita. Via via che gli esploratori si addentrarono nel resto dello spazio conosciuto, tuttavia, saltarono fuori diversi altri mondi, assai più appetibili. Non fu quindi un caso se a Becca e ai suoi compatrioti, stabilitisi su Luna 12 nel trentacinquesimo secolo, andò decisamente meglio.

 

E passiamo ora al mio pianeta, Boeshane: atmosfera respirabile, temperatura media superficiale di circa 5 gradi Celsius, presenza di acqua in tutti e tre i suoi stati, ricca flora e fauna autoctona compatibile con la vita di tipo umano, gravità pari a 1 G, esattamente come sulla Terra… Devo continuare con la lista? Insomma, prima di Henry Boeshane nessuno era mai sbarcato sul mio mondo per il puro e semplice motivo che fino al quarantasettesimo secolo era stato troppo lontano per chiunque. E non a torto, visto che non fa nemmeno parte della Via Lattea, ma della galassia di Isop.

 

Proprio per tutta questa serie di ragioni, era inconcepibile che un essere umano fosse capitato su Boeshane per caso, nel trentunesimo secolo, col solo ausilio di un veicolo spaziale e non spazio-temporale. Lo ripetei a Becca non so quante volte. Al limite, gli strani risultati espressi dai nostri Manipolatori potevano essere dovuti a un malfunzionamento degli stessi. L’idea mi pareva piuttosto improbabile, ma sempre meglio di quella sostenuta da Becca.

 

Ciononostante, vi era un elemento sul quale tutti e due concordavamo: la scritta tracciata sulla sabbia dallo sconosciuto indicava chiaramente che eravamo stati osservati, per non dire spiati, durante l’intero nostro soggiorno su Boeshane. E qui si aggiungeva un ulteriore dilemma: come mai non ci eravamo accorti della presenza di un’altra persona, di un estraneo, sul pianeta?

 

Compilammo un rapporto dettagliato per i nostri superiori sull’intera faccenda e, visto che c’eravamo, inoltrammo finalmente la tanto sospirata richiesta di creazione di uno status di Coppia. L’ufficializzazione della nostra relazione sarebbe perciò diventata effettiva entro un mese, e ovviamente avremmo potuto scioglierla in qualsiasi momento. Infatti, pur trattandosi di un legame simile al matrimonio, l’Agenzia non si sarebbe mai sognata di porre dei rigidi paletti sulla facilità o meno di dissolverlo; era quindi perfetto per le esigenze di chi come Becca aveva bisogno di veder inquadrata la propria relazione, e di chi come me non desiderava sentirsi costretto in un vincolo troppo definitivo.

 

E nel frattempo, poiché la vita di tutti i giorni doveva pur andare avanti, ritornammo alla nostra attività di Agenti.

 

***

 

Il primo incarico che ci venne affidato al rientro dalle ferie consisteva nel rintracciare e catturare una banda di ladri molto particolare; gli elementi di cui era composta ammontavano a due, forse tre. Su di loro, comunque, Becca era decisamente più informata di me.

 

“Li conosco di fama, Jax,” mi informò un giorno, mentre eravamo nel nostro ufficio, intenti a sfogliare i dossier riguardanti le ultime rapine messe in atto dai banditi in questione. “Alcuni anni fa si sono impossessati di un Manipolatore del Vortice, e da quel giorno non fanno altro che scorrazzare per lo spazio-tempo e minacciare la stabilità del continuum. Finora, nessuno è riuscito a prenderli, né a vederli in faccia.”

 

“Ma perché?” ribattei. “Se sono tanto famosi, e se è da parecchio che l’Agenzia li sta braccando, dovrebbero esistere molti più indizi sulla loro reale identità, non trovi? E qui leggo che non sapete nemmeno quanti sono di numero.”

 

“La questione è complessa,” replicò Becca. “Ci sono dei nostri colleghi che parlano di due uomini, altri che riferiscono di un uomo e una donna, quindi la logica conseguenza è che si alternino nei colpi che mettono a segno.”

 

“Non potrebbe trattarsi di due bande distinte, invece?”

 

“Non credo. Il loro MO è sempre lo stesso, e poi c’è un altro elemento che li accomuna: il bracciale rubato che usano per spostarsi, anche quello non cambia mai. Il che ci porta a un’ulteriore complicazione…” Becca lasciò la frase in sospeso.

 

“Cioè?”

 

“Maledetta Agenzia Temporale,” borbottò lei invece di rispondermi. Poi esalò un lungo sospiro e si sistemò meglio sulla poltroncina della propria scrivania. “Il punto è, Jax, che si tratta del Manipolatore di Andrews,” mi confidò infine.

 

“Cosa?!” sbottai.

 

Noi Agenti siamo abituati a paradossi e controsensi vari; dobbiamo esserlo per forza. Per cui, sebbene la sorprendente rivelazione di Becca mi avesse colto letteralmente di sorpresa, essa non mi indusse a credere nemmeno per una frazione di secondo che l’onestissimo Andrews fosse implicato nella serie di rapine commesse dal duo, o trio che dir si voglia, di malviventi.

 

Probabilmente, il Manipolatore era stato sottratto al professore stesso. Pur essendosi ritirato a vita privata, infatti, ad Andrews era stato concesso di conservare il proprio bracciale, privato ovviamente delle funzionalità spazio-temporali, visto che non gli sarebbero servite più. Tuttavia, l’incongruenza dell’intera situazione non consisteva nel fatto che il Manipolatore del professore fosse stato chiaramente riparato dai ladri, ma che, stando alle ultime notizie riferiteci dall’Agenzia, il furto dell’apparecchio non si fosse ancora verificato. O almeno, non lo era al momento della partenza di Andrews per la Terra, e nemmeno dal punto di vista del mio TLS e di quello di Becca.

 

“Abbiamo quindi la possibilità di beccarli prima che glielo rubino, Jax, e prima che inizino la loro scia criminale!” esclamò Becca, e si mise a ridere di gusto. “Ah, quanto amo questo lavoro sconclusionato!”

 

“Ma se poco fa hai imprecato contro l’Agenzia,” le feci notare.

 

“Dettagli, dettagli! L’importante è che vengano rinchiusi una volta per tutte. Sarà come perdere dei compagni di avventura, però.”

 

“In che senso?”

 

“Beh, sai, intorno a questi tizi e alla loro inafferrabilità si è creata una sorta di leggenda, nel corso del tempo. Se riusciremo a catturarli, un po’ mi dispiacerà. Sarà come assistere alla fine di un mito.”

 

***

 

Proprio l’anomalia che si era venuta a creare – lo stesso, identico Manipolatore presente in due diversi momenti del continuum spazio-temporale – ci avrebbe permesso di raggiungere il nostro scopo, poiché bastava monitorare eventuali segnalazioni provenienti da uno o dall’altro apparecchio. In parole povere, quello ancora in mano ad Andrews inviava un segnale costante, sempre in linea con il secolo e il luogo in cui il professore si stava godendo la sua pensione; all’altro Manipolatore, invece, pur essendo stato riparato e dunque di nuovo dotato di schermatura (furbi, i nostri amici!), ogni tanto sfuggiva qualche debole segnale. In genere troppo rapido e fuggevole per poter agire efficacemente, ma io e Becca confidavamo che prima o poi ci sarebbe stata offerta l’occasione propizia per porre la parola fine alle razzie della banda. E puntualmente, in capo a due settimane dalla fine del nostro soggiorno su Boeshane, tale opportunità non mancò di verificarsi.

 

***

 

Sto, Cintura Casivaniana, quarantunesimo secolo

 

“Il mio Manipolatore si sta comportando in modo strano, Becca… Sicura che il posto sia qui?” domandai a Becca, mentre ci apprestavamo a entrare di soppiatto in un magazzino abbandonato, ai margini di una delle città più popolose del pianeta Sto.

 

“Sicurissima,” mi rispose lei. “Probabilmente è ora che tu vada a farti riparare il Manipolatore da un bravo Tecnico, perché invece le letture del mio sono precise, vedi?” Con l’indice mi mostrò l’oloschermo proiettato dal suo bracciale. “Il punto da cui proveniva il segnale era proprio questo. Ed è da qualche minuto che si sta mantenendo costante, il che significa che quei delinquenti sono ancora qua dentro, e che finalmente saremo in grado di acciuffarli. Muoviamoci!”

 

Ci introducemmo dunque all’interno del magazzino, stando bene attenti a non dare nell’occhio, e a non rendere nota la nostra presenza. Fu subito palese che i ladri a cui stavamo dando la caccia non avevano di tali problemi, poiché le loro voci alterate risuonarono improvvise sino alle nostre orecchie.

 

“Attento a dove metti i piedi, Jax,” mi fece Becca, facendosi strada fra i vari mucchi di ciarpame e rottami sparsi un po’ ovunque.

 

“Da come gridano, dubito che quei due ci sentirebbero se urtassi uno di questi affari,” replicai, e sollevai una gamba per evitare di inciampare in un tubo arrugginito.

 

Mano a mano che ci avvicinavamo, infatti, era sempre più palese che ci stavamo per imbattere in quella che sembrava una lite furibonda. Finalmente giungemmo a una distanza ideale, che ci avrebbe permesso sia di seguire l’agitata conversazione in corso, sia di intervenire non appena se ne fosse presentata l’occasione.

 

“Ecco, qui è perfetto come nascondiglio,” mi suggerì Becca, accucciandosi dietro una cassa di legno.

 

Mi sistemai accanto a lei, e osai sbirciare al di sopra della mia testa. “Sono solo i due uomini di cui mi parlavi. La donna della banda non la vedo, e il Manipolatore non mi segnala la presenza di un’altra persona, oltre a noi quattro.”

 

“Peccato,” commentò la mia collega. “Avrei preferito trovarmi di fronte anche lei. Pazienza. Vorrà dire che, in due contro due, avremo maggiori possibilità di catturarli. Intanto, sentiamo cosa si stanno dicendo.”

 

I nostri obiettivi erano entrambi vestiti di scuro, da capo a piedi. Uno dei due, quello che ci dava la schiena, aveva una figura stranamente familiare e, a giudicare da come gesticolava e dal tono alterato della voce, mi parve senz’altro il più nervoso.

 

“… Ti sei immischiato?! Eh già, ma che lo dico a fare? Tu ti comporterai sempre così, non è vero? È implicito nella tua natura!” lo udii sbraitare.

 

Il suo compagno, invece, gli rispose con apparente calma. “Non puoi farmene una colpa. Stavo solo cercando di aiutarlo.”

 

“Di che diavolo stanno parlando?” mormorò Becca.

 

“Shhh,” le sussurrai di rimando.

 

“Sei solo un bastardo arrogante,” stava intanto urlando il primo uomo, a una decina di metri da noi. “Mi domando perché mi ostino a viaggiare insieme a te!”

 

“Fra questi due la tensione sessuale si taglia col coltello,” dissi a bassa voce.

 

“Tu vedi il sesso dappertutto, Jax. Sei davvero fissato,” mi rispose Becca, dandomi una gomitata scherzosa.

 

“Probabilmente perché ti piaccio. Sono secoli che non fai altro che ripetermelo,” fu la replica del secondo uomo.

 

Lanciai un’occhiata trionfante in direzione di Becca. “Avevo ragione io... Tensione sessuale!”

 

Lei alzò gli occhi al cielo, esasperata, mentre nel frattempo il primo uomo (dentro di me lo ribattezzai Esagitato) stava ribattendo al secondo (lui invece d’ora in poi sarebbe stato l’Imperturbabile).

 

“Ora come ora, piuttosto che baciarti ho una gran voglia di prenderti a pugni!” esclamò furente l’Esagitato.

 

L’Imperturbabile allargò le braccia. “E allora cosa aspetti a farlo? Me lo merito, no?”

 

“Fra poco tocca a noi,” disse piano Becca.

 

“Ma così mi togli tutto il divertimento,” mi lamentai.

 

“Intendevo che in quel momento saranno entrambi distratti, e allora potremo finalmente mettergli le mani addosso, Jax!” sibilò lei.

 

“Come sta facendo adesso l’Esagitato?”

 

“L’Esagitato? E chi cavolo sarebbe questo Esagitato?” ripeté Becca, aggrottando la fronte.

 

Le feci un cenno col mento, e le mostrai la scena che si presentava ora dinanzi a noi. Fedele al suo primo proposito, l’Esagitato aveva afferrato l’Imperturbabile per la nuca, e lo stava baciando con un’intensità ragguardevole; dal canto suo, invece, l’Imperturbabile era rimasto fedele al nomignolo da me affibbiatogli, e non aveva mutato di un centimetro la sua rigida posa. Alla fine il primo uomo si staccò, e appoggiò la testa sulla spalla dell’altro; solo allora l’Imperturbabile si scosse dalla propria immobilità, e lo abbracciò a sé.

 

“Ci siamo,” mormorò allora Becca. Prima che potessi aggiungere qualcosa, balzò in piedi e sollevò la sua pistola laser verso i due ladri. “Agenzia Temporale! Fermi e mani in alto, all’istante!” esclamò perentoria.

 

I due, come prevedibile, rimasero paralizzati nell’udire la voce di Becca.

 

“Mi dispiace interrompere un momento tanto romantico, signori, ma ve lo assicuro, potrete continuare le vostre effusioni in santa pace, una volta che vi avremo sbattuti in prigione!” continuò Becca.

 

Dopo alcuni secondi che durarono un’eternità, l’uomo che ci volgeva le spalle si girò verso di noi, e fu allora che compresi, con mio totale sbigottimento, perché la sua figura mi fosse sembrata tanto familiare, all’inizio…

 

L’Esagitato altri non era che il tizio incontrato su Boeshane.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Il titolo del capitolo si riferisce a una citazione di un filosofo greco, lo scettico Sesto Empirico, che così sentenziava a proposito della giustizia divina: I mulini degli dei macinano tardi, ma macinano molto fine.

- Nel prossimo capitolo: la conclusione dello scontro, una novità inaspettata, nonché il ritorno di una nostra vecchia conoscenza…

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Capitolo 25
*** I mulini degli dei, parte seconda ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harlan Andrews. Loro sì che li rivendico!

 

 

Capitolo 25: I mulini degli dei, parte seconda

 

Non fui il solo a provare un senso di assoluto stupore nel riconoscere il tizio misterioso, almeno a giudicare dal sobbalzo che scosse Becca, la quale si trovava ancora in piedi con la pistola puntata, qualche metro davanti a me.

 

“Di nuovo tu!” proruppe.

 

L’Esagitato spalancò gli occhi (ora ero in grado di distinguerne il colore piuttosto chiaramente, un azzurro sbiadito) e prese a scuotere la testa, frenetico. Lo vidi sussurrare qualcosa all’orecchio del compagno, il quale annuì.

 

“Torna pure alla nave, allora. A loro ci penso io,” replicò l’Imperturbabile con voce calma, ma decisa.

 

“Eh no, caro mio, da qui non ti muovi!” esclamò Becca, e in effetti le sue parole sembrarono avere l’effetto di bloccare sul nascere il timido tentativo di fuga dell’Esagitato.

 

Ero sul punto di alzarmi a mia volta per dare man forte a Becca – mentre lei teneva sotto tiro l’Esagitato, io avrei potuto occuparmi dell’Imperturbabile – quando dal Manipolatore mi giunse un ulteriore, bizzarro segnale. Sospirai fra me e me, pensando che forse, una volta rientrati alla base, avrei dovuto seguire il consiglio di Becca e rivolgermi a un buon Tecnico, perché i continui malfunzionamenti del mio bracciale stavano iniziando a darmi noie non indifferenti. Gettai uno sguardo alle letture mostratemi sull’oloschermo per capire se il problema fosse reale, e rimasi di sasso… Secondo il Manipolatore, i valori paradossali erano altissimi, ben oltre il livello di guardia! Beh, riflettei sconsolato, qui davvero c’è bisogno di una bella sistemata, altrimenti prima o poi potrei mettere a rischio il buon esito di qualche missione, non esclusa quella in corso.

 

“Cosa aspetti, il mio invito scritto?!” gridò all’improvviso l’Imperturbabile al proprio compare. “Vai via, più in fretta che puoi! Non pensare a me!”

 

L’Esagitato trasalì e, come riscuotendosi dal torpore in cui era caduto, lo vidi indietreggiare lentamente, per poi voltarci le spalle e iniziare a correre.

 

La cosa mi parve strana. Gli avevo scorto al polso il bracciale di Andrews; perché finora non l’aveva usato? Avrebbe potuto tranquillamente scappare insieme al suo amico. E poi, tutti quei discorsi a proposito di una nave… Che si trattasse della stessa con cui l’Esagitato si era recato su Boeshane? Sì, doveva trattarsi della medesima navicella. Ma proprio non riuscivo a capire che cosa se ne sarebbero dovuti fare i due di un’astronave, quando avevano a disposizione un comodissimo Manipolatore.

 

“Dove pensi di andare?” Becca puntò la sua pistola laser alle gambe del fuggitivo, e la attivò; il colpo lo prese in pieno, facendolo crollare a terra rovinosamente. L’Esagitato si lasciò sfuggire un breve grido di dolore, e non si mosse più.

 

“Bene, uno è sistemato!” dichiarò soddisfatta Becca, e si girò a guardarmi. “Svelto, aiutami a prendere anche quest’altro.”

 

“Niente affatto,” si intromise l’Imperturbabile. Dall’interno della giacca scura estrasse anch’egli una sorta di sottile arma, ma da dove mi trovavo non riuscii a capirne né il tipo, né il modello.

 

Tentai di avvertire Becca del pericolo imminente, ma invano. Prima che la mia collega potesse reagire, l’Imperturbabile diresse l’aggeggio verso di lei, e sparò. Becca si accasciò senza emettere alcun suono. Mi slanciai verso di lei, disperato, e la presi fra le braccia. In quel momento non mi curai affatto che l’Imperturbabile avrebbe potuto colpire anche il sottoscritto, poiché il mio unico pensiero era rivolto a Becca, e alla sua incolumità. La strinsi a me, cullandola avanti e indietro e chiamandola piano per nome. Era viva, questo lo avevo capito, ma aveva il respiro affannato e la fronte imperlata di sudore, e soprattutto non accennava a svegliarsi.

 

La mia angoscia si tramutò presto in rabbia, e la diressi verso il diretto colpevole, ossia colui che l’aveva originata. “Cosa le hai fatto, bastardo?” gli urlai.

 

“Non allarmarti,” mi rispose l’Imperturbabile, che nel frattempo si era inginocchiato accanto all’Esagitato. “La tua amica è semplicemente svenuta. Si rimetterà entro breve, e…” L’uomo interruppe il discorso, e gettò una breve occhiata all’oggetto che teneva in mano. “Oh, interessante,” mormorò.

 

“Che c’è di tanto interessante?” sbottai.

 

“Nulla, in realtà. Un paio di particolari insignificanti.” Così dicendo, l’Imperturbabile ripose la propria arma in una tasca, si rialzò in piedi, e allargò le braccia in un gesto conciliante. “Ti propongo un patto. Se lascerai andare me e il mio compagno senza spargere, si fa per dire, ulteriore sangue, anch’io risparmierò voi due. Che ne pensi? Mi sembra una proposta ragionevole.”

 

“Ragionevole?” esplosi. “Altro che ragionevole! Sei tu il pazzo se credi che scenderei mai a patti con un malvivente come te!”

 

L’Imperturbabile sollevò le sopracciglia. “Malvivente io? Mi hanno chiamato in molti modi – e a proposito, ‘pazzo’ rientra fra di essi – ma nessuno mi aveva mai dato del malvivente, sinora.” Nella sua voce lessi una nota di sorpresa.

 

“C’è una prima volta per ogni cosa,” commentai con sarcasmo.

 

“Chiaro. Ciononostante, ti prego di considerare il mio suggerimento; sarebbe davvero meglio per tutti, e in special modo per te.”

 

“Non ti seguo.”

 

“Però, avrai pur notato i valori indicati dal tuo Manipolatore. Non ti sei reso conto che è in corso un paradosso?”

 

Sbiancai in viso. Per la verità, le letture che avevo ricevuto poco prima indicavano un’alta probabilità di tale evento, ma avevo appunto attribuito quei valori sballati a un qualche tipo di avaria. Se invece le cose stavano davvero come affermava l’Imperturbabile, allora io e Becca ci trovavamo in mezzo a una situazione molto, molto più complessa di quanto avremmo mai potuto immaginare. Però, non si spiegava come mai il bracciale di Becca, invece, non avesse rilevato un bel niente. Cosa significava tutto ciò? Aggrottai la fronte, e abbassai lo sguardo a fissare il polso della mia collega.

 

L’Imperturbabile sembrò leggermi nel pensiero. “Il paradosso riguarda te, Jax, non la tua amica.”

 

Alzai nuovamente il capo. “Come fai a conoscere il mio nome?”

 

“Nel nostro… ambiente sei piuttosto famoso,” rispose l’Imperturbabile, e si lasciò sfuggire un lieve sorriso.

 

“Se è per questo lo siete pure voi,” replicai, includendo nella mia frase anche l’Esagitato. “Anzi, nel vostro caso il termine esatto è famigerati.”

 

Il sorriso dell’Imperturbabile si allargò. “Sul serio? Questa celebrità improvvisa che mi piove sulle spalle quasi quasi mi lusinga!”

 

Scossi la testa, perplesso. Non avevo mai incontrato prima d’ora un ladro tanto singolare, cortese e calmo, invece di spiccio e violento. E anche in vena di scherzi, a quanto pareva. Decisi dunque di stare al suo gioco; l’avrei fatto chiacchierare ancora per un po’, in modo da scoprire il più possibile su di lui, e poi mi sarei regolato di conseguenza. “Questo paradosso di cui parli, che interesserebbe soprattutto me…” esordii.

 

“Interessa te, interessa me, interessa lui.” L’Imperturbabile abbassò la testa verso il compagno ferito, che ancora non si era mosso da terra. “Più passano i minuti in cui noi tre ci troviamo nello stesso posto, più aumenta la possibilità di generare uno strappo nel continuum.”

 

“Addirittura? Se fosse così, se davvero il nostro incontro rappresentasse un evento di una tale gravità, avrebbe già dovuto iniziare a intaccarlo, il continuum, e invece nulla. Solo dei segnali confusi rilevati dal mio Manipolatore, ma non da quello della mia collega, né dal vostro, immagino.”

 

“Dal nostro?”

 

“Non fare l’ingenuo!” sbottai, spazientito. “Quello che avete rubato, e che ho intravisto al braccio del tuo socio!”

 

L’Imperturbabile si portò una mano alla guancia, e se la sfregò lievemente. “Ah, sì, giusto. Spiacente di contraddirti, ma non l’abbiamo rubato. Si è trattato di uno scambio più che equo.”

 

“Mi prendi in giro? Ora il furto lo chiamate così, nel vostro… ambiente?” chiesi secco, imitando le sue parole di poco prima. “Lasciamo perdere. Riprendendo il discorso, non mi pare proprio che il paradosso di cui ti preoccupi sia tanto grave. Prova ne è che noi due stiamo parlando tranquillamente da diversi minuti, e ancora non è successo niente di niente.”

 

“Perché ho adottato le dovute precauzioni,” mi rispose l’Imperturbabile. “Al momento, la schermatura di cui io e il mio amico ci siamo dotati ci protegge a sufficienza. Però, ti ripeto, più passano i minuti e più il rischio aumenta.”

 

“Sembri molto informato su questo presunto paradosso. Si può saperne il motivo?”

 

“Un motivo semplice, e al tempo stesso complicato.”

 

“Posso immaginarmelo, viste le circostanze. Provieni dal mio futuro?”

 

“Esatto.”

 

“Anche lui?” Indicai con la mano il corpo esanime dell’Esagitato.

 

“Più o meno.” L’Imperturbabile storse la bocca.

 

“E altro non puoi rivelarmi, suppongo,” commentai.

 

“No, purtroppo.” L’uomo si chinò nuovamente sul suo compare, come per saggiarne le condizioni di salute. Dopo un breve esame, l’Imperturbabile prese l’Esagitato fra le braccia e se lo issò a fatica sulle spalle. “Adesso dobbiamo assolutamente andarcene, e te lo dico per favore, non tentare di fermarmi. Non converrebbe a nessuno di noi.”

 

Su quest’ultimo punto ero combattuto. Avevo di fronte due ladri temporali che si accingevano a darsi alla fuga, e io non stavo facendo niente per fermarli. Sicuro, come ladri erano piuttosto atipici, soprattutto quello con cui stavo amabilmente conversando, ma rimaneva il fatto che si trattava pur sempre di criminali. L’argomento dell’Imperturbabile, ciononostante, possedeva un certa logica; persino l’Agenzia non faceva altro che ripeterci di evitare tutte le situazioni passibili di mettere a repentaglio l’equilibrio dello spazio-tempo, anche se ciò avesse dovuto significare il fallimento di un incarico delicato o importante. Il punto era: l’attuale missione rientrava in tale categoria?

 

Probabilmente sì, mi dissi, giungendo infine a una conclusione. “E va bene. Ti lascerò andare, ma prima devi rispondere ad alcune mie domande.”

 

“Sempre che non siano troppe, e che non contribuiscano all’aggravarsi del paradosso,” commentò l’Imperturbabile.

 

“Certo,” gli accordai. “Innanzitutto, dov’è la donna della vostra banda?”

 

“Sono parecchi mesi che non viaggiamo insieme a una donna,” fu la sua replica.

 

Ok, riflettei. Buone notizie, allora. Sono rimasti solo questi due, per cui, se non altro, la prossima volta che li incontreremo di nuovo (perché li rivedremo senz’altro, questo è fuori di dubbio), Becca e io non dovremo preoccuparci di una terza persona.

 

“Secondo: come mai il tuo amico si trovava su Boeshane due settimane fa? Secondo il mio TLS, intendo.”

 

“Credo volesse farsi una bella vacanza al mare. Non ci trovo niente di male,” replicò l’uomo.

 

“Lascialo giudicare a me. Altra domanda: tu e lui siete per caso imparentati?”

 

“Cosa?” L’Imperturbabile ebbe un sussulto. “No, ma come mai me lo chiedi?”

 

“Noto una certa familiarità,” spiegai. Ed era vero; avevano dei lineamenti simili, i capelli scuri e gli occhi chiari. “Anche se lo stesso non posso affermare a proposito del vostro modo di fare. In quello siete completamente diversi.”

 

“No, no,” ribadì lui. “Nessuna parentela. Ma comprendo ciò che intendi. Se trovi una somiglianza, allora significa che c’è. Strano, molto strano. Non me l’aspettavo proprio.”

 

“Che razza di risposta sarebbe? Non vi siete mai guardati allo specchio?!”

 

L’Imperturbabile sorrise in segno di scusa. “Mi dispiace, ma questa fa decisamente parte delle richieste che non mi è dato di soddisfare. E il tempo a nostra disposizione è terminato. Senza contare,” e qui fece uno sbuffo, seguito da un colpetto leggero al fondoschiena dell’Esagitato, “che non vedo l’ora di tornare alla nave e liberarmi così del peso del mio amico. Pesa una tonnellata!”

 

“Immagino che avrà anche bisogno di un medico, dopo il colpo che gli ha inferto la mia collega.”

 

“Si dà il caso che ne conosca uno molto bravo.” L’imperturbabile mi salutò agitando le dita della mano libera, e iniziò a dirigersi verso una delle uscite del magazzino. Prima di varcare la porta, però, si voltò nuovamente nella mia direzione. “Un’ultima cosa.”

 

“Adesso che c’è?” domandai, lievemente irritato. In tutta franchezza, ero ansioso di tornare al QG dell’Agenzia per portare Becca in infermeria e farla sottoporre ad alcuni esami, poiché non potevo di sicuro fidarmi della semplice parola dell’Imperturbabile.

 

“Fra qualche minuto, quando me ne sarò andato e la tua amica si sarà svegliata, chiedile di effettuare una scansione dell’attività neurale umana presente nel raggio di questo magazzino.”

 

“E a che diavolo servirebbe, visto che, come hai appena detto anche tu, resteremo solo noi due qua dentro?”

 

“Lo capirai fra poco. Ma mi raccomando, lascia effettuare l’analisi a lei.”

 

“Perché?” La mia irritazione pian piano si stava mutando in vera e propria frustrazione. Ero stufo dei suoi enigmi e delle sue risposte sibilline.

 

“Perché così è più divertente!” Dopo quest’ultimo, inaudito commento, l’Imperturbabile ebbe l’ardire di farmi l’occhiolino, e infine sgusciò via, lontano dalla mia vista e dalla portata della mia esclamazione di protesta.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Nel prossimo capitolo: il risveglio di Becca e le sue conseguenze. E la ‘vecchia conoscenza’ di cui parlavo nelle scorse anticipazioni non l’abbiamo vista qui, ma la troveremo nel 26. Mi sono leggermente confusa… Chiedo venia XD

- E per finire: riguardando la lista totale dei capitoli che mi sono prefissata (per il momento 84, ma in crescita costante O__o), mi sono resa conto che The Casimir Effect è arrivato a poco più di un quarto della narrazione. Considerando che manca moltissimo prima della fine, mi farebbe davvero piacere ricevere un’opinione, anche solo una, da quanti stanno seguendo la storia e/o l’hanno inserita fra i preferiti, e che ancora non hanno mai commentato. Non è assolutamente un obbligo, ci mancherebbe altro; nessuno mi costringe a scrivere, e in ogni caso The Casimir Effect è un progetto che voglio comunque portare a termine entro la fine dell’anno, ma sapere cosa ne pensano i lettori è certamente uno stimolo in più per me ^^ Grazie in anticipo a tutti!

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Capitolo 26
*** I mulini degli dei, parte terza ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple. Lei sì che la rivendico!

 

 

Capitolo 26: I mulini degli dei, parte terza

 

“Smettila, Jax. Mi stai spaccando i timpani,” mormorò con voce flebile Becca.

 

Abbassai lo sguardo e notai che la mia compagna si era finalmente svegliata. La abbracciai a me di slancio, felice di riaverla sana e salva; mi ripromisi ancora una volta di accompagnarla in infermeria, così da assicurarmi che l’incontro con i due misteriosi malviventi non avesse lasciato delle conseguenze.

 

La baciai sulla fronte, e le carezzai una guancia, gentile. “Come stai? Tutto bene?”

 

Becca sospirò. “Mi sento strana… Ho uno ronzio nelle orecchie, ma potrebbe essere dovuto alle tue grida di prima.”

 

“Ehi!” esclamai, in un falso tono offeso.

 

Lei mi sorrise complice. “Cos’avevi da urlare tanto, fra l’altro?”

 

Scrollai le spalle. “Mi stavo rivolgendo ai nostri amici. Purtroppo non sono riuscito a fermarli.”

 

“Cosa?” Becca si rianimò all’improvviso, mi respinse leggermente e si guardò in giro allarmata. “Qui non c’è più nessuno. Come hanno fatto a fuggire? Uno l’avevamo in pugno, restava da sistemare solo l’altro, e…” Qui si bloccò e corrugò la fronte. “Ricordo che… Mi ha colpito con un’arma, vero?”

 

Annuii. “Sì, ma l’unico particolare che ho distinto è stata la luce rossa che si è accesa dopo che quel tizio l’ha attivata; per il resto non l’ho riconosciuta. Con tutta probabilità si trattava di uno storditore, o qualcosa del genere, visto che ti ha provocato un semplice svenimento.”

 

“E dopo, Jax? Cos’è successo dopo?”

 

“Beh, tu hai perso i sensi, e a quel punto siamo rimasti in due. Abbiamo iniziato a parlare, e…”

 

“Parlare? Cosa avevate da parlare? Il tuo dovere era quello di arrestarlo, nient’altro,” mi interruppe Becca.

 

“Cerca di capirmi. Ci trovavamo entrambi in una situazione di stallo,” obiettai.

 

“Ma sì, indugiamo pure in piacevoli conversazioni con i malviventi da catturare! Potremmo suggerirla all’Agenzia come nuova regola d’ingaggio,” ironizzò la mia collega. “Visto che c’eri, come mai non gli hai anche offerto del caffè?”

 

“Caffè? Cos’è?”

 

“Una bevanda corroborante. Su Luna 12 la importiamo direttamente dalla Terra, e… Un attimo. Non osare farmi cambiare discorso, Jax, perché adesso il punto è un altro!”

 

“Lungi da me,” borbottai, alzando una mano in segno di resa.

 

Becca mi afferrò la mano colpevole. “Lo stai facendo di nuovo. Cos’è che non vuoi dirmi? Avanti!”

 

“Ecco… In realtà…”

 

“Jax,” mi ammonì lei, stringendomi ancor di più la mano.

 

“Sì, insomma… Può darsi che… Li abbia lasciati andare,” confessai infine.

 

Becca strabuzzò gli occhi (ultimamente le capitava parecchio) e saltò in piedi, dopodiché prese a camminare avanti e indietro, stringendo i pugni lungo i fianchi.

 

“Ma solo un po’!” aggiunsi.

 

La mia collega si voltò lenta verso di me, e mi fulminò con un’occhiataccia. “E questo cosa significa?”

 

“Non avevo altra scelta, Becca. Te l’ho detto, tu eri fuori gioco, e inoltre si stava verificando un paradosso. Rammenti le letture sballate del mio Manipolatore? Erano dovute proprio a quello.”

 

“Questo lo ricordo bene,” replicò Becca, fermandosi di colpo. “Così come ricordo di averti suggerito di portarlo a revisionare da un bravo Tecnico, Jax.”

 

Mi sollevai da terra a mia volta, accostandomi a lei. “E invece funzionava benissimo, visto che gli stessi valori li ha rilevati anche il Manipolatore nelle loro mani.”

 

“Ma il mio bracciale non segnalava niente.”

 

“Perché, a quanto pare, il paradosso riguardava esclusivamente me,” ribattei.

 

“E anche questo te l’ha riferito quell’uomo, suppongo,” obiettò ancora Becca. Al mio gesto d’assenso, si limitò a scuotere la testa. “Non sono convinta, Jax. Non ti sembra tutto programmato, ben pianificato?”

 

“In che senso?”

 

“Rifletti. Il tuo Manipolatore si comporta in maniera inusuale fin dal principio. Una volta dentro il magazzino ci apprestiamo a catturare quei delinquenti, e uno riesce a mettermi al tappeto. Rimani tu, col tuo bracciale che continua a sballare, e la cosa viene notata dal tipo più calmo…”

 

“A proposito, l’ho ribattezzato ‘Imperturbabile’,” mi intromisi.

 

“Tu e la tua abitudine di affibbiare nomignoli alla gente,” commentò Becca. “Comunque, come dicevo, il tizio prende la palla al balzo e ne approfitta, propinandoti tutto un discorso su presunti paradossi. Tu, da ingenuo quale ancora sei, ci caschi come un allocco.”

 

“Davvero pensi questo di me? Che sono un ingenuo?”

 

“In generale no, ma fra noi due sei di certo il più inesperto. Non è colpa tua, sei solo all’inizio della carriera; un altro dei motivi per cui ai giovani viene affiancato sempre un Agente anziano.”

 

“Per essere un’anziana signora, ti trovo decisamente sexy,” mormorai, e le cinsi la vita con un braccio.

 

“Scemo,” rispose lei, ma senza alcun veleno nella voce. “Quel che voglio dire è che potresti essere stato raggirato. Stiamo parlando di tre ladri sfuggenti, ritenuti quasi imprendibili. Chissà, magari hanno utilizzato un qualche tipo di strumento in grado di interferire con l’attività del tuo bracciale, in modo da convincerti della bontà delle loro affermazioni.”

 

“Esistono aggeggi del genere?” domandai scettico.

 

“Beh, se anche non esistono adesso…”

 

“… Non è detto che non verranno inventati in futuro,” terminai per lei. “In pratica, ciò che stai suggerendo è che mi avrebbero manipolato il Manipolatore.”

 

“Come battuta la trovo fiacca, Jax, persino per te,” fece Becca. “Comunque sì, esiste questa possibilità.”

 

“Accidenti. Se hai ragione, allora mi hanno ingannato alla grande,” borbottai.

 

Becca scrollò le spalle. “Stavolta è andata così. A ben rifletterci, anch’io ho commesso un errore madornale. Mi sono distratta, e hanno scelto quel preciso istante per colpirmi alle spalle. Riteniamoci fortunati, considerato che ne siamo usciti tutti e due indenni.”

 

Dopo aver pronunciato tale frase, la mia compagna mi sorrise per incoraggiarmi, ma dentro di me stava montando una sensazione alquanto sgradevole. “Il fatto è che il secondo ladro mi è sembrato assolutamente sincero, Becca,” mi lamentai. “Che razza di Agente sono, a lasciarmi prendere in giro in questo modo?”

 

“Nessuno è perfetto, e col tempo riuscirai a imparare. In ogni caso, mai fidarsi dei criminali, Jax, né delle loro belle parole. Soprattutto, non bisogna mai scendere a compromessi, se non si vuole finire pugnalati alle spalle. E non intendo in mero senso metaforico.”

 

Sempre più mortificato, nascosi il viso nel collo e nei capelli di Becca, e ne inspirai a fondo l’odore. Sulle prime non ci feci caso, ma dopo alcuni secondi mi accorsi di qualcosa di strano. Indugiai ancora un poco nell’esplorazione della sua pelle, sia col naso che con la bocca.

 

“Che c’è di tanto interessante sul mio collo?” mi chiese Becca.

 

“Non ne sono sicuro,” risposi piano. “Hai un profumo diverso dal normale, più intenso, direi.”

 

“Lo sai che non indosso mai delle fragranze artificiali,” mi ricordò lei.

 

Ne ero perfettamente consapevole, e proprio per questo il profumo che percepivo mi sembrò ancor più bizzarro. Soprattutto, mi ricordava qualcosa della mia infanzia, e mi chiesi come ciò fosse possibile. Deciso a scoprirlo, affondai di nuovo la faccia nell’incavo fra la spalla e il collo di Becca, e proseguii nella mia ricerca. La distanza fino alle sue labbra era breve, e colmarla mi risultò inevitabile. La baciai a lungo e con passione, e quando ci staccammo eravamo entrambi senza fiato.

 

“Wow. Non… Non credevo che mi sarei ritrovata con un segugio come compagno,” tentò di scherzare Becca, ansimando.

 

“Sì, un segugio del cinquantunesimo secolo,” risposi, e ridacchiai di gusto. “Dotato di feromoni che mi rendono irresistibile verso chiunque, nonché di un olfatto che mi permette di distinguere persino le minime va–” Mi interruppi di botto, perché nello stesso istante in cui stavo parlando, un sospetto mi si era insinuato prepotente in testa.

 

“Che c’è, Jax? Sei diventato pallido, tutto d’un tratto,” notò Becca.

 

“C’è che sono un autentico cretino a non averci pensato prima,” replicai, a denti stretti. “Fammi un favore, ed effettua un’analisi neurale dell’attività umana presente qui dentro.”

 

“Cosa?”

 

“Per piacere,” ripetei.

 

“Non capisco questa tua insistenza. E va bene, ti accontento subito.” Così dicendo, Becca regolò i comandi del suo bracciale e, dopo una breve attesa, ricevette i risultati della scansione. “Ecco qua. Tracciati EEG rilevati nel raggio di 20 metri… Ti servono anche i dettagli?”

 

“Magari.”

 

“Allora, iniziamo col primo soggetto, che poi sarei io: onde Delta, Theta e Alfa pari a zero, com’è ovvio. Beta oscillanti fra 18 e 20 hertz, e Gamma praticamente assenti. Tutto nella norma, insomma. Mi spieghi che cosa stiamo cercando?”

 

“Te lo dirò non appena mi avrai comunicato il resto dei dati, Becca.”

 

“Ok. Secondo e ultimo soggetto, ossia il mio sibillino partner: Delta, Theta e Alfa pari a zero. Beta 25 hertz, e Gamma… Toh, 35. Le hai decisamente alte, Jax. A cos’è dovuta tutta questa tensione? Ormai il pericolo è passato.”

 

“Non parlerei esattamente di pericolo. Tuttavia, le letture del tuo bracciale mi impensieriscono. Certa che siano precise? Nessun’altra attività?”

 

“Certissima.”

 

“Strano. Avrei immaginato il contrario, eppure…” Mi fermai un momento a ragionare. “Non mi sembra di aver capito male. Ma a che altro si sarebbe dovuto riferire? Mi sta sfuggendo qualcosa,” rimuginai fra me e me, e abbassai lo sguardo a terra.

 

Becca mi posò una mano sotto il mento, me lo sollevò e mi fissò dritto negli occhi. “Jax, ora mi stai davvero facendo preoccupare. Non fai che farfugliare cose senza senso, e da diversi minuti.”

 

“No, tranquilla. Sto semplicemente riflettendo a proposito della conversazione che ho avuto con l’Imperturbabile. Prima di andarsene mi ha elargito uno strano consiglio, quello di controllare l’attività neurale umana all’interno del magazzino. In particolare, si è raccomandato di farla effettuare da te.”

 

“Da me?”

 

“Già. Probabilmente perché, come hai detto prima, si era accorto che il mio bracciale non era affidabile, e quindi il compito spettava a te.”

 

 “Sarà, ma me ne chiedo lo scopo. Come hai notato, qua dentro siamo assolutamente soli. Al massimo ci sarà qualche topo nascosto in un angolo, però un animaletto come quello la mia analisi non lo ha di certo rilevato.”

 

“Perché è troppo piccolo,” sussurrai. La frase di Becca aveva colpito nel segno! Ecco il dettaglio che mi era sfuggito!

 

“Ehm, no, Jax,” mi contraddisse lei. “In realtà non ne ha tenuto conto perché ho effettuato la scansione fornendo come parametro di riferimento l’attività neurale umana, dunque il Manipolatore ha automaticamente escluso qualsiasi altra forma di vita.”

 

“Allora puoi farmi un secondo e ultimo piacere, Becca?” le domandai. “Effettua un’altra analisi, ma stavolta dovresti cercare la presenza di livelli significativi di HCG nel tuo flusso sanguigno.”

 

Le mie parole sortirono un effetto che, in fin dei conti, avevo previsto. La vidi sbiancare e spalancare la bocca, dalla quale però non uscì alcun suono per parecchi secondi. “Non puoi parlare sul serio!” esclamò infine.

 

“E invece sì.”

 

“Non è possibile, ti ripeto!”

 

“Perché no?”

 

“Perché normalmente bastano le solite precauzioni,” continuò imperterrita Becca. “Come ti salta in mente? Siamo stati tutti e due molto attenti, e la probabilità che io sia rimasta incinta lo stesso sono meno dell’un per cento!”

 

“Lo so, ma la certezza matematica l’avremmo avuta solo ricorrendo al terzo Assioma, e tu non lo hai ritenuto necessario.”

 

Becca sbuffò. “Il terzo Assioma svolge un compito ben preciso, e al limite sono disposta a riconoscergli una certa utilità. Ma questo non modifica la mia opinione al riguardo, e cioè che conoscere il proprio futuro porta solo guai, Jax. Te l’ho detto tante volte, mi pare.”

 

Mi accinsi a risponderle, ma lei alzò un braccio. “Va bene, facciamo questa maledetta scansione, e poi vedremo chi di noi due ha ragione.” Becca batté furiosamente sui pulsanti del suo bracciale, attese un istante, dopodiché si lasciò andare a un’esclamazione incredula, e già quella, prima ancora di sentire la sua risposta a voce, fu la conferma dei miei sospetti.

 

“No-non posso crederci,” balbettò Becca. “HCG pari a 11,7. Sono al sedicesimo giorno di gravidanza…”

 

“Allora è successo mentre ci trovavamo su Boeshane.”

 

“Qualcosa mi dice che un tiro di questo tipo avrei dovuto aspettarmelo, dal tuo pianeta d’origine,” gemette la mia compagna.

 

“Che intendi dire?”

 

“Che era tutto perfetto. Mare, relax, passeggiate al tramonto, atmosfera romantica, caldo ma non troppo… Il posto ideale in cui mettere in cantiere un bambino.” Becca fece una pausa, e tirò su col naso. “Razionalmente avevo deciso, e tu insieme a me, di aspettare ancora un po’ prima di mettere su famiglia, ma a quanto pare il mio cuore e il mio corpo la pensavano diversamente.”

 

“Bisogna essere in due in un caso come il nostro, Becca. Chi l’ha detto che sia successo per forza per colpa tua?”

 

“Non parliamo di colpe, Jax, ti prego. Vorrà dire che anticiperemo i nostri progetti.” Becca si asciugò un paio di lacrime appena sgorgate, e mi gettò le braccia al collo.

 

“Però stai piangendo,” sussurrai, e la strinsi forte a me.

 

“Non farci caso. Sono frastornata e felice al tempo stesso. Troppe sorprese, e tutte in una volta.” Becca appoggiò la testa sulla mia spalla. “Sei proprio il mio segugio personale. Ti sei accorto subito che in me c’era qualcosa di diverso dal solito.”

 

Sfregai la guancia sui suoi capelli. “Mi sono reso conto che un profumo simile al tuo l’ho sentito una sola altra volta, quando ero piccolo. Mia madre aspettava Gray e io, che avrò avuto appena 6 anni, la seguivo dappertutto. Ero affascinato da quell’odore così dolce.”

 

“Ma ne avrai incontrate parecchie, durante la tua vita, di donne incinte. Ognuna col suo aroma particolare. Com’è possibile che solo io ti rammenti quello di tua madre?”

 

“Forse perché portava in grembo mio fratello,” sussurrai. “Così come ora tu porti in grembo nostro figlio, o nostra figlia.”

 

“Sangue del tuo sangue,” mormorò Becca di rimando.

 

“Già.”

 

“Ciononostante, c’è qualcos’altro che non afferro, Jax.”

 

“E sarebbe?”

 

“Voglio dire… Da quel che mi hai raccontato, è facile intuire come anche quel delinquente si fosse accorto della mia gravidanza. Quel che non capisco è perché ti abbia suggerito di analizzare l’attività neurale umana all’interno di questo magazzino. Entrambi sappiamo che per un embrione di soli 16 giorni non si può parlare di alcuna attività cerebrale; l’hai detto tu stesso, è troppo piccolo.”

 

“Avrà rilevato qualche altro valore alterato. Quello dell’HCG, come hai fatto tu, ad esempio.”

 

“Sì, ma allora perché menzionare proprio quel tipo di analisi, visto che non sarebbe servita a un bel niente?”

 

“Non so darmi una spiegazione, in effetti.” Mi grattai la nuca con fare pensieroso. “L’Imperturbabile sapeva ciò di cui stava parlando, su questo hai perfettamente ragione.”

 

“Ho la sensazione che li rivedremo presto, Jax, sia lui che il suo compare. Dovranno chiarirci parecchie cose,” sostenne Becca.

 

“Non troppo presto, però,” risposi, e la baciai piano sulle labbra. “Ora voglio assolutamente dedicarmi a te e al nostro bambino. Abbiamo tutto il tempo dell’universo per catturarli, non credi?”

 

Becca mi sorrise, gli occhi ancora lucidi per l’emozione, e annuì.

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Le informazioni a proposito dei diversi tipi di onde cerebrali sono tratte dall’apposita pagina di Wikipedia.

- L’Assioma n°3 a cui Jax fa riferimento recita così: Agli Agenti non è permesso conoscere particolari più o meno rilevanti e/o dettagliati del proprio futuro, eccettuati i casi in cui tale conoscenza sia indispensabile per fini contraccettivi.

- La gonadotropina corionica umana (o HCG, Human Corionic Gonadotropin, secondo la classificazione internazionale) è un ormone secreto dalla placenta a partire da 1-2 settimane dopo la fecondazione. In una donna fertile e in salute un tasso di HCG superiore a 10 UI per litro di sangue indica la gravidanza con certezza, mentre un tasso inferiore la esclude.

- So di avere annunciato che il presente capitolo sarebbe stato di 3.000-4.000 parole, ma scrivendolo mi sono in seguito accorta che avrebbe probabilmente superato le 5.000! o__O Ho perciò deciso di spezzarlo. Comportandomi così ho comunque ottenuto due risultati positivi: un capitolo fra i più lunghi che abbia mai postato finora, e non vi ho fatto aspettare fino a questo week-end per leggerlo ^^

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Capitolo 27
*** The Game of the Name ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple e Harley “Harl” Obers. Loro sì che le rivendico!

 

 

Capitolo 27: The Game of the Name

 

La promessa fatta a Becca di prendermi cura di lei e del bambino in maniera esclusiva era scaturita soprattutto dal mio cuore, e dall’eccitazione del momento. Fu solo più tardi, a mente fredda, che la mia compagna e io ci rendemmo conto che l’incontro-scontro con l’Esagitato e l’Imperturbabile avrebbe generato ben più di una ripercussione negativa.

 

Fu infatti inevitabile includerlo nel rapporto che consegnammo ai nostri superiori, i quali a loro volta non mancarono di mostrare la propria delusione per l’esito fallimentare della missione. In realtà, fu soltanto la mia collega a essere convocata dal supervisore; non conosco in dettaglio lo scambio di battute che si verificò in quella particolare circostanza, eccezion fatta per ciò che mi venne riferito da Becca stessa.

 

Una buona parte della colpa venne ovviamente attribuita a me e alla mia inesperienza. Sinceramente me lo aspettavo, così come ero sicuro che la risposta di Becca non si sarebbe fatta attendere.

 

(“Se davvero volevate catturare una banda di ladri abili e sfuggenti come quelli che abbiamo affrontato, allora avreste dovuto affidare l’incarico a una coppia più rodata di noi… Ops, ma perdonate la mia sbadataggine. Mi sbaglio o è già successo? Non avete forse sguinzagliato una miriade di Agenti nel tentativo di acciuffarli, in passato? E il risultato è che, anche così, non avete cavato un ragno dal buco!”)

 

Le sue parole dure non piacquero affatto ai nostri superiori, che anzi rincararono la dose. A parer loro, a Becca non conveniva affatto fare dell’ironia, poiché anche lei era da ritenere responsabile. Il compito di un Agente anziano, dissero, era infatti quello di guidare al meglio l’allievo a lui affidato, di incanalarne e potenziarne le capacità. A quanto pareva, però, tutto ciò a Becca non era riuscito.

 

Prima che potesse replicare, le fu comunicata la fatidica decisione: entro breve mi avrebbero affiancato in via temporanea a un altro Agente anziano, più adatto, secondo loro, alle mie caratteristiche e potenzialità. D’altronde si trattava di un avvicendamento che sarebbe avvenuto in ogni caso, data la gravidanza di Becca.

 

Becca a questo punto aveva chiesto se il sostituto fosse già stato scelto, e il supervisore l’aveva informata che, proprio in quegli stessi giorni, sarebbe stata stilata una lista di possibili candidati. La mia collega aveva allora sottoposto loro una personale serie di nomi, tutti degni di fare le sue veci. I nostri superiori avevano risposto che li avrebbero senz’altro presi in considerazione; tuttavia, l’ultima parola spettava a loro. Con riluttanza, Becca aveva borbottato che avrebbe accettato qualsiasi decisione, purché fosse ragionevole.

 

(“Di questo non si preoccupi, Agente. Anche a noi sta a cuore il suo partner. Vedrà, l’Agente Boeshane sarà affidato in buone mani. Le migliori possibili.)

 

***

 

Agenzia Temporale, nei pressi di Sagittarius A*, novembre 5096 (anni terrestri)

 

Erano passate circa due settimane da quel fatidico giorno, e nel frattempo avevo compiuto 22 anni (Becca aveva festeggiato il suo ventinovesimo compleanno poco tempo prima di me). Ancora non mi capacitavo del fatto che ben presto sarei diventato padre; certo, sapevo che parte di tale periodo avrei dovuto passarla lavorando in tandem col mio nuovo o la mia nuova collega invece che insieme a Becca, ma non bastò di certo questa consapevolezza a smorzare la felicità che provavo fin nel profondo del mio essere. E fino a che i nostri superiori non ci avessero comunicato la fatidica decisione, avremmo approfittato di ogni singolo istante libero per rinnovare la nostra unione.

 

Una sera ci trovavamo entrambi a letto, nudi, in quella che ultimamente stava diventando la nostra posizione preferita: Becca supina e io sdraiato a ricoprire la parte inferiore del suo corpo. La testa la tenevo poggiata di lato, appena al di sotto del suo seno. La mano destra di Becca era intrecciata alla mia sinistra, e con l’altra mi passava le dita fra i capelli, scompigliandomeli con tenerezza.

 

“Sbrigati a uscire fuori di lì,” mormorai, rivolgendomi al ventre ancora perfettamente piatto di Becca. Vi deposi un bacio, e poi un altro, quindi tornai a riposarvi sopra la guancia.

 

“Jax, guarda che al parto mancano ancora otto mesi,” osservò divertita Becca.

 

Becca aveva ragione, naturalmente, ma anche lei si rendeva conto che ciò che ci stava accadendo era qualcosa di davvero speciale, soprattutto perché, sebbene avere dei figli fosse sempre rientrato nei nostri progetti, nessuno di noi l’aveva previsto nel brevissimo termine.

 

“Mi basta che nasca nel modo meno traumatico possibile, sia per te che per lui,” le risposi. “Per il momento abbiamo già avuto la notizia che volevamo, e cioè che nostro figlio è sano.”

 

Grazie a un’analisi effettuata sulle rare cellule fetali presenti nel sangue di Becca era stato infatti possibile determinare già con largo anticipo il sesso del nascituro. La mia compagna e io avremmo avuto un maschietto; inoltre, il suo DNA era integro, e questo stava a indicare che non sarebbe stato afflitto da malformazioni abnormi o malattie genetiche gravi. Insomma, un semplice e normale essere umano come tanti altri, che però avrebbe goduto di un posto unico e speciale nella vita mia e in quella di Becca.

 

Stavo giusto fantasticando su quale sarebbe potuto essere l’aspetto del nostro piccolo, quando Becca si intromise nei miei pensieri suo malgrado, e diede voce a un argomento che prima o poi avremmo dovuto affrontare. “Potremmo già decidere come chiamarlo, visto che ormai sappiamo di che sesso sarà. Che ne dici, Jax?”

 

“Mah,” borbottai. “Un po’ presto per mettersi a discutere di certe questioni.”

 

“Forse, ma non c’è nulla di male. Potrebbe essere persino divertente! Perché non cominciamo col compilare la lista dei nomi da scartare? Quelli più ridicoli, o quelli più difficili da pronunciare, o…”

 

“Ho in mente i primi due, allora. Franklin e Gray,” sussurrai, interrompendo il suo ragionamento.

 

“Oh,” fece Becca, debolmente. La mano con cui mi stava carezzando la testa si fermò di colpo; quella allacciata alla mia aumentò invece la presa.

 

Dopo pochi secondi di silenzio, Becca riprese a parlare. “Scusami. Non volevo offenderti.”

 

“Nessuna offesa,” le assicurai.

 

Un’altra pausa. “Vuoi cambiare discorso, immagino.”

 

“Affatto,” dissi, e scossi il capo.

 

“Però mi sento in colpa lo stesso. Ti ho fatto ricordare dei momenti dolorosi, e…”

 

“Non preoccuparti, ti ripeto. Nessuno di noi può farci niente. Mio padre è morto tanti anni fa, e forse un giorno riuscirò a trovare mio fratello, ma nel frattempo la vita va avanti.” Le baciai nuovamente la pelle dello stomaco. “Una vita ancora minuscola, a cui vorrei donare un nome in grado di evocare solo serenità. Facciamo così; prova tu a suggerirmene qualcuno di tuo gradimento.”

 

“E va bene.” Becca si lasciò andare a un grosso sospiro. “Ok, allora che ne dici di – ”

 

Un biiip imperioso, proveniente dal Manipolatore della mia compagna, riecheggiò all’improvviso nella camera da letto. Dalla tonalità con cui risuonò intuii che si trattava di una comunicazione diretta da parte dell’Agenzia, cosa che mi venne confermata anche dal successivo commento di Becca.

 

“Adesso cosa vogliono?” esclamò infastidita. “Ci hanno sospesi dal servizio per dei motivi assurdi, ma non ce la fanno a restare senza di noi, eh?” La sentii trafficare per alcuni istanti coi comandi del suo bracciale. “Toh, finalmente si degnano di comunicarci quale Agente ti hanno affibbiato al posto mio. Alla buon’ora! Dunque, vediamo… Ah, no, il messaggio era solo per avvertirmi che ce lo faranno sapere fra poco. Stanno decidendo proprio in questi minuti, a quanto pare.”

 

“Speriamo che scelgano qualcuno della tua lista.”

 

“Lo vorrei tanto, ma ne dubito,” rispose Becca con uno sbuffo. “Personalmente opterei per Harley Obers. La conosco bene, ho lavorato insieme a lei più di una volta. È efficiente, professionale e scrupolosa. Una persona in gamba, anche se spesso si lascia andare a dei comportamenti alquanto bizzarri.”

 

“Ah, sì?” chiesi interessato, sollevando la testa. “In che senso, ‘bizzarri’?”

 

“Lo scoprirai tu stesso, se sceglieranno lei,” mi rispose Becca con un sorriso. “Fra parentesi, anche Harl è del cinquantunesimo secolo. Credo proprio che andreste d’accordo, voi due.”

 

Sorrisi a mia volta. “Attenta a quel che dici. Potremmo andare fin troppo d’accordo.”

 

“Nah. Non sei per niente il suo tipo.”

 

“Per caso non le piacciono gli uomini con la fossetta sul mento?” domandai con fare scherzoso.

 

“No, non le piacciono gli uomini e basta,” ribatté Becca.

 

Ci fissammo negli occhi per un attimo, e poi scoppiammo entrambi a ridere fino alle lacrime. Ci stavamo giusto riprendendo, quando il bracciale di Becca trillò di nuovo, stavolta in tono più sommesso. Il corpo ancora scosso da sussulti di allegria, Becca riprese a tormentarmi i capelli affettuosamente, accingendosi a visionare il messaggio dell’Agenzia; io tornai invece nella mia posizione iniziale, con la guancia posata sulla sua pancia.

 

“Un vero peccato,” commentai infine. “Beh, a tutto c’è rime– AHIA! Ma che fai, sei impazzita?!”

 

La mia compagna non mi rispose direttamente, e nemmeno mollò la stretta con cui, tutto d’un tratto, aveva attanagliato la mia povera capigliatura. “Quei disgraziati! Ma chi credono di prendere in giro?!” si limitò a sibilare.

 

“Becca, abbi pietà di me, ti prego!” la implorai.

 

Becca, tuttavia, sembrò dare più retta alla sua improvvisa, incomprensibile furia che a me. “Tutti quei bei discorsi sulle ‘migliori mani possibili’, e poi sarebbe questo il risultato? Ma mi sentiranno, eccome se mi sentiranno!”

 

“Si può sapere che ti prende?” la apostrofai. “E soprattutto, ti decidi o no a lasciarmi andare?”

 

Becca trasalì, e rimosse dalla mia testa la mano sinistra. “Oh, povero caro, scusami! Sono talmente arrabbiata che… Vieni qui, mi faccio perdonare subito.”

 

Allargò le braccia in un chiaro invito, che ovviamente non tardai ad accettare. Mi issai di qualche decina di centimetri e mi rifugiai fra di esse, posando poi il capo accanto al suo, sul cuscino. La guardai in viso, e negli occhi le lessi una miriade di emozioni, prima fra tutte l’ira. Non era indirizzata verso di me, questo l’avevo capito, ma allora a che cosa era dovuta? In tutta sincerità un’idea me l’ero già formata, ma attesi qualche secondo prima di rivolgere la mia domanda (retorica) a Becca.

 

“Dunque hanno scelto. E la cosa ti infastidisce non poco,” dissi.

 

“Chiamarlo fastidio è un eufemismo,” replicò lei. “Sì, mi hanno appena comunicato il nome dell’Agente. Anche se definirlo così… Bah!”

 

Annuii per incoraggiarla, ma decisi di rimanere in silenzio, ad aspettare il resto delle sue parole.

 

“Mi avevano assicurato che ti avrebbero affidato in buone mani, e invece, per come la vedo io, hanno optato per le peggiori,” mi spiegò.

 

“Perché, non è bravo?”

 

“Oh, per esserlo lo è. Maledettamente bravo, se è solo per questo. Può vantarsi di una delle più alte percentuali di riuscita delle missioni che si siano mai viste, ed è il motivo principale, se non l’unico, per cui l’Agenzia non lo ha ancora cacciato,” continuò Becca. Notai che il viso le si andava rabbuiando. “Per il resto, francamente lo considero poco meno di un mercenario. Non di certo la persona più adatta da affiancare a te.”

 

“Si può almeno sapere come si chiama, questo delinquente? Dovrò averci a che fare in ogni caso, no?” osservai.

 

“Può darsi che tu lo conosca già, Jax. Vista e considerata la sua pessima fama…” Becca corrugò un attimo la fronte. “Ti dice niente il nome Eion Alleyn?”

 

***

 

Note esplicative al testo:

- L’Agente Alleyn non l’ho menzionato nel disclaimer posto a inizio capitolo per ovvie ragioni. Spero che la sorpresa sia stata di generale gradimento XD

- Il titolo del capitolo è ispirato all’espressione inglese the name of the game, il cui significato in italiano è ‘la cosa essenziale’, ‘l’importante’. Tradurlo letteralmente non avrebbe molto senso (‘il nome del gioco’), ma dopo aver invertito le posizioni dei due sostantivi (‘il gioco del nome’) trovo che sia venuto fuori qualcosa di decisamente azzeccato!

- Prossimamente: quale sarà la reazione di Jax nell’udire il nome del tanto odiato Agente Alleyn?

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Capitolo 28
*** Carne Fresca ***


Disclaimer: Torchwood, Doctor Who e i personaggi e/o situazioni a essi inerenti non sono di mia proprietà, bensì degli aventi diritto (Russell T. Davies, BBC Wales, ecc. ecc.), tranne Rebecca “Becca” Temple, Harlan Andrews, Axel Kaufman e Robert Malley. Loro sì che li rivendico! Di Eion Alleyn, invece, rivendico solo il nome e il cognome ^^

 

 

Capitolo 28: Carne Fresca

 

“Eion… Alleyn,” ripetei lentamente.

 

“Esatto,” confermò Becca.

 

“Eion Alleyn?” proferii di nuovo, scandendo bene le sillabe.

 

Becca annuì.

 

“Quella gran carogna sarà il mio nuovo partner. Sai che allegria,” mugugnai alla fine, e storsi la bocca in una palese smorfia di disgusto.

 

Becca sollevò le sopracciglia. “Wow. Chissà perché, all’improvviso mi è sorta la bizzarra sensazione che tu lo conosca davvero, e anche piuttosto bene.”

 

“Sì, ma in effetti non l’ho mai incontrato di persona. Come hai detto poco fa, non gode esattamente di una reputazione limpida.”

 

Incrociai lo sguardo di Becca, e notai che la mia compagna aveva assunto una posa particolare, quasi d’attesa; si era leggermente sollevata dal cuscino e, puntellandosi col gomito su di esso, aveva posato il palmo della mano a sostenere la propria guancia. I suoi occhi, inoltre, brillavano di una luce incuriosita, e sembravano incitarmi a proseguire nel mio racconto.

 

“Sentiamo. La mia opinione su di lui un po’ la conosci, e si basa su diversi fattori. Adesso sono proprio curiosa di sapere cos’hai scoperto tu, sul suo conto,” disse infatti.

 

“Non sono sicuro di fare la cosa giusta, parlandotene,” le risposi. E miei motivi erano gli stessi che, qualche tempo prima, mi avevano frenato dal parlarle più in dettaglio delle circostanze in cui era avvenuto il rapimento di Andrews. Una questione di riservatezza, insomma, a cui non volevo contravvenire per specifica volontà del professore stesso.

 

Becca, tuttavia, batté sul tempo i miei dubbi inespressi. “Fammi indovinare. È stato Alleyn a rapire Andrews, vero?”

 

La sua frase mi lasciò di stucco, letteralmente incapace di replicare; la mia sorpresa doveva essere evidente anche dall’espressione che recavo in quel preciso istante.

 

“Di nuovo quella faccia da pesce fuor d’acqua, Jax! Non so stabilire se mi piace o meno, ma la trovo comunque interessante.” Becca si coprì le labbra con una mano, come per smorzare un attacco di risate.

 

Attesi alcuni secondi prima di risponderle, così da riordinare le idee. “Non capisco come tu sia arrivata a questa conclusione.”

 

“Però è corretta.”

 

“Certo che è corretta, ed è proprio questo che mi rende perplesso.” Feci una pausa. “In che modo l’hai capito?”

 

Becca alzò le spalle. “Oh, da tante cose. Per esempio, la tua ripetuta riluttanza a parlarmi del rapimento e del suo autore, adesso come qualche mese fa; oppure, potrei citare il fatto che Alleyn non sia nuovo a imprese del genere.”

 

“Davvero?”

 

“Proprio così. Conosci gli Agenti Kaufman e Malley?”

 

Socchiusi un attimo le palpebre. “Mi sembra di sì, solo per sentito dire, però… Ti riferisci a quei Kaufman e Malley?”

 

“Esatto,” confermò la mia compagna.

 

“Due Agenti anziani molto stimati, mi pare,” azzardai.

 

Becca assentì. “Entrambi sequestrati da Alleyn durante la loro adolescenza, quasi vent’anni fa. Entrambi vittime dei suoi metodi poco ortodossi, ma soprattutto di quelli dei nostri grandi capi. In parole povere, all’Agenzia conviene sopportare la presenza di gentaglia come Alleyn nelle proprie file, visto che le permette di portare a termine con successo gli incarichi più spinosi, scomodi e controversi.”

 

“Malley e Kaufman rapiti quando erano ancora così giovani?” domandai stupito. “E che bisogno c’è di ricorrere a certi sotterfugi? Io stesso mi sono arruolato circa alla stessa età, di mia spontanea volontà. Un po’ di propaganda ben mirata, e il gioco è fatto. Un metodo che funziona benissimo coi giovani.”

 

“Sì, ma cerca di entrare nella logica dell’Agenzia, Jax,” ragionò Becca. “Potevano forse lasciarsi sfuggire due delle menti più brillanti del loro rispettivo secolo di appartenenza? Ovviamente no. E ovviamente hanno subito messo in moto Alleyn non appena si sono resi conto che, sottraendoli al loro flusso temporale, non avrebbero comunque causato danni gravi al continuum. Lo stesso è accaduto al povero Andrews, come mi hai riferito tu.”

 

“Capisco,” risposi. “Peccato che sia passato troppo tempo da quegli eventi per tentare di porvi rimedio, che so, di segnalare la violenza con cui vengono messi in atto, almeno. Certo, non so quanto sarebbe potuto servire, anche se lo si fosse fatto all’epoca.”

 

“Su questo hai ragione. Non danno molto retta alle segnalazioni di noi Agenti, però in ogni caso è sempre utile farlo. A tal proposito, mi dispiace che tu non mi abbia rivelato subito che era stato Alleyn a sequestrare Andrews; un’occasione persa per effettuare un ulteriore rapporto sulle sue malefatte.”

 

“Eh? Ma di che parli? Il rapimento del professore si è svolto più di trent’anni fa. Fra dirtelo allora o adesso non mi sembra ci sia tutta questa gran differenza.”

 

Becca mi guardò pensierosa per un istante. “Trent’anni fa, senza dubbio. Secondo il TLS di Andrews, però.”

 

“Che vorresti dire?”

 

“Che non hai inquadrato bene la questione. Il tempo è relativo, lo sai bene anche tu. Ciò che vale per una persona può non avere lo stesso significato per un’altra. Ecco quello che intendevo quando dicevo che sotto questo punto di vista sei rimasto un po’ ingenuo.”

 

“Non ti seguo,” mormorai.

 

“Ora te lo spiego. Il problema è che a volte tendi a ragionare ancora come un civile, Jax,” proseguì Becca. “Per il professore il rapimento è un fatto occorso diverse decine di anni fa, ma da quel che mi risulta, secondo il TLS di Alleyn è passato poco più di un anno.”

 

“Cosa?!” esclamai, nella più totale confusione.

 

“E nel caso di Malley e Kaufman, il tempo passato dall’evento va calcolato in sedici mesi o giù di lì. Me lo ricordo bene, visto che quella volta sono stata proprio io a inoltrare un rapporto negativo su Alleyn ai nostri superiori. Comprendi, quindi, perché avrei voluto sapere subito del suo coinvolgimento nel sequestro del professore?”

 

“Un momento, un momento,” la interruppi, alzando una mano. “Se ho capito bene, allora, Alleyn sarebbe ancora piuttosto giovane?”

 

“Credo di sì. Avrà un paio o tre anni più di me, al massimo. Ma perché questa domanda?”

 

Per tutta risposta, mi levai a sedere sul letto, e mi passai una mano fra i capelli. Il punto in cui Becca me li aveva involontariamente strattonati era tuttora indolenzito; ciononostante, il dolore residuo di quel gesto non era in grado di competere con la sensazione di compiacimento che percepivo montare con forza dal più profondo del mio essere.

 

Becca si alzò a sedere a sua volta. “Finalmente ho preso una decisione rispetto alla nostra conversazione di prima. Ti preferisco in versione pesce lesso, piuttosto che con quel ghigno che hai stampato sul viso, Jax. Stai progettando qualcosa, ne sono sicura!”

 

Mi voltai verso di lei, e il sorriso che avevo dipinto sulle labbra non poté evitare di allargarsi. “Hai ragione. È che fino ad adesso avevo formulato tutta una serie di calcoli, Becca. Basandomi sulla data di rapimento del professore, e dai dettagli che lui stesso aveva menzionato, mi ero convinto che Alleyn fosse sulla sessantina.”

 

“E quindi?”

 

“E quindi, grazie a te scopro invece che i miei calcoli erano del tutto sballati, e di conseguenza mi hai consegnato su un piatto d’argento l’occasione di vendicare Andrews!” dichiarai trionfante.

 

“Ascolta…” iniziò la mia collega.

 

“No, ascoltami tu. Non avrei mai potuto rivalermi su di un Alleyn ormai in là con gli anni, o provare un vero e proprio senso di soddisfazione nel farlo. E invece, ora ogni cosa è cambiata. Potrò rendere giustizia ad Andrews, finalmente!”

 

“Ma non te l’ha mica chiesto lui di farlo! Anzi, se non vado errata, da quel che ho capito il professore si è raccomandato il massimo riserbo sull’intera faccenda.”

 

“Andrews è troppo buono,” sentenziai. “Pensa che è riuscito a scovare dei lati positivi in quel che gli è capitato. Come se non bastasse, ha persino perdonato quel farabutto. Beh, io non ce la faccio!”

 

“No, Jax!” mi ammonì Becca, e contemporaneamente mi afferrò per un braccio. “Non ti rendi conto che la questione non ti riguarda, e che la tua idea malsana potrebbe ritorcersi contro di te? E che diavolo avresti in mente di combinare, soprattutto?”

 

Le presi la mano fra le mie, e gliela strinsi forte. “So bene a cosa vado incontro, Becca, non preoccuparti. Ho semplicemente intenzione di mettergli i bastoni fra le ruote e, se riesco nel mio intento, l’Agenzia se ne libererà in via definitiva.”

 

“Questo tuo piano mi sembra rischioso, Jax,” disse Becca, dubbiosa. “Alleyn è un tipo infido e vendicativo. E se si accorgesse delle tue intenzioni verso di lui?”

 

“Starò attento, ti ripeto. Finora l’ha sempre passata liscia, ma con me troverà pane per i suoi denti. Lo metterò in cattiva luce con il nostro supervisore, e allora vedrai, non potrà più vantarsi della sua infallibile efficienza in missione. L’Agenzia non potrà fare altro che cacciarlo via a pedate.”

 

“Sì, forse potrebbe funzionare, ma…”

 

Mi portai le sue mani alle labbra, e gliele baciai con affetto. “Andrà tutto bene. Ci penserò io a sistemarlo una volta per tutte, e il bello è che non se ne accorgerà nemmeno. Tu devi solo pensare a restare tranquilla, e a prenderti cura del nostro bambino mentre sono in missione con Alleyn.”

 

Con un ulteriore bacio, stavolta sulla bocca, posi la parola fine alle sue proteste. Per il momento, almeno. Non nutrivo alcun dubbio sul fatto che, una volta sorta l’alba di un nuovo giorno, Becca avrebbe provato ancora e ancora a farmi desistere dal mio progetto. Ma ormai avevo deciso; Alleyn avrebbe avuto quel che si meritava, e niente e nessuno sarebbe riuscito a farmi cambiare idea, neanche la mia adorata compagna.

 

***

 

Più tardi, nel cuore della notte, mi destai di soprassalto, madido di sudore. Il mio sobbalzo, com’è ovvio, non mancò di svegliare anche Becca.

 

“Mmmh… Che c’è?” mormorò, la voce impastata dal sonno. “Hai avuto un incubo?”

 

Mi girai nella sua direzione, sebbene col buio fosse impossibile scorgerla. “No, ho semplicemente caldo. Forse abbiamo regolato male la temperatura della stanza.”

 

“Io mi sento bene, Jax. Anzi, con un grado in più starei anche meglio.”

 

“Non ci pensare nemmeno! Non fai testo, sei sempre stata la più freddolosa tra noi due,” scherzai. “Ora mi alzo e vado in bagno, a darmi una rinfrescata.”

 

“Ok, ma fai presto. Chi mi scalderà, altrimenti, visto che la temperatura della camera non vuoi saperne di modificarla?” si lagnò Becca.

 

Mi chinai verso di lei. “Ammettilo, sono solo scuse per poter riprendere il… discorso lasciato in sospeso qualche ora fa,” le sussurrai all’orecchio.

 

“Non lo saprai mai, se non ti sbrighi a tornare a letto,” fece lei di rimando, sorniona.

 

Ridacchiai divertito, e mi diressi veloce verso la toilette annessa alla stanza. Dopo essermi bagnato il viso con dell’acqua iniziai già a sentirmi un po’ meglio; stavo giusto asciugandomi, quando dal Manipolatore mi giunse un biiip inatteso.

 

Attivai lo schermo dell’olovisore. Messaggio vocale registrato in arrivo, lessi su di esso. Accettare?

 

Aggrottai la fronte. Chi mai poteva aver avuto l’idea balzana di inviarmi un messaggio a quest’ora della notte, o meglio, durante ciò che su Sagittarius A* venivano considerate le ore di riposo notturno?

 

“Bah,” borbottai. Ormai ero sveglio, quindi che differenza poteva fare? Messaggio accettato, digitai. Attesi qualche secondo, e d’un tratto una cadenza suadente riempì il piccolo cubicolo in cui mi trovavo.

 

“Bene, bene. Sembra proprio che da domani avrò un nuovo collega. Mi sembri promettente, Jax Boeshane, a differenza degli ultimi con cui ho avuto a che fare. Ce la spasseremo alla grande, io e te, di questo sono certo al cento per cento! Aaah, finalmente un po’ d’aria fresca. No, che dico? Carne fresca, a giudicare dal tuo file personale… Davvero niente male. Anzi, facciamo così, d’ora in avanti ti chiamerò Carne Fresca, che ne pensi? Non ha un suono paradisiaco? A domani, dunque, Carne Fresca! Non vedo l’ora!”

 

Messaggio terminato, mi avvertì il bracciale.

 

Scossi la testa, incredulo. “Questo tizio è del tutto fuori di testa,” mormorai. “Altro che paradiso, razza di bastardo. Ti renderò la vita un inferno, vorrai dire. Nemmeno io vedo l’ora, caro il mio Eion Alleyn.”

 

***

 

Note esplicative al testo:

- Dopo il soprannome guadagnato combattendo in quel di Verdun, ecco in arrivo un ulteriore nomignolo per Jack, e stavolta ad affibbiarglielo è l’Agente Alleyn. In realtà, cronologicamente parlando, Carne Fresca è da anteporre a Mort-Homme ^^ Fra l’altro, in inglese ‘carne fresca’ si direbbe fresh meat, ma poiché qui parliamo di esseri umani, l’originale lo immagino piuttosto con fresh flesh, tanto per mantenere un minimo di allitterazione, e in linea con lo stile ironico di Alleyn.

- Nel prossimo capitolo: inizia la collaborazione fra i due. Voleranno scintille! XD

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